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Italian Pages 450 [451] Year 2019
a cura di Maurizio Marcheselli Un «pensiero aperto» sull’evangelizzazione
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collana BIBLIOTECA DI TEOLOGIA DELL’EVANGELIZZAZIONE diretta da Maurizio Marcheselli La collana pubblica studi e ricerche maturati nell’ambito della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna. Essa ospita indagini di taglio teologico e culturale, biblico e storico, filosofico e sistematico in riferimento alla teologia dell’evangelizzazione. Tale orientamento è caratteristico della Facoltà Teologica emiliano-romagnola, in cui a percorsi di teologia dell’evangelizzazione se ne affiancano altri interessati al momento speculativo e sistematico e altri ancora alla storia della teologia. BTE s’interessa agli aspetti «fondativi» dell’annuncio del vangelo: il concetto di evangelizzazione, i destinatari-interlocutori, il contenuto e i metodi. Al tempo stesso, e proprio per la fedeltà al binomio vangelo e cultura che determina l’ambito di una teologia dell’evangelizzazione, la collana mantiene aperto l’orizzonte sui diversi fronti in cui il fare teologia è oggi impegnato. Dire il vangelo nell’attuale contesto culturale implica un’attenzione rigorosa a cerchi concentrici, sui versanti ecclesiale, culturale, missionario, ecumenico e interreligioso. 1. E. Manicardi, Gesù, la cristologia, le Scritture. Saggi esegetici e teologici 2. M. Marcheselli, «Avete qualcosa da mangiare?». Un pasto, il Risorto, la comunità 3. G. Benzi, Ci è stato dato un figlio. Il libro dell’Emmanuele (Is 6,1–9,6): struttura retorica e interpretazione teologica 4. M. Tagliaferri (a cura di), Il Vaticano II in Emilia-Romagna. Apporti e ricezione 5. E. Castellucci, Annunciare Cristo alle genti. La missione dei cristiani nell’orizzonte del dialogo tra le religioni 6. D. Gianotti, I Padri della Chiesa al concilio Vaticano II. La teologia patristica nella Lumen gentium 7. G. Ziviani, Una Chiesa di popolo. La parrocchia nel Vaticano II. Prefazione di mons. Franco Giulio Brambilla 8. G. Sgubbi, Pensare sul confine. Saggi di teologia fondamentale. Prefazione di Pierangelo Sequeri 9. M. Tagliaferri (a cura di), Teologia dell’evangelizzazione. Fondamenti e modelli a confronto 10. D. Righi (a cura di), Educazione, paideia cristiana e immagini di Chiesa. Atti del Convegno della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, Bologna 29-30 novembre 2011 11. M. Marcheselli (a cura di), Evangelizzare nelle criticità dell’umano. Atti del Convegno annuale della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna a cura del Dipartimento di Teologia dell’evangelizzazione, 1-2 marzo 2016 12. M. Marcheselli (a cura di), Un «pensiero aperto» sull’evangelizzazione. Il percorso teologico compiuto a Bologna (1997-2017) In preparazione P. Boschini, Cristianesimo e pensiero borghese all’inizio del ’900
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a cura di Maurizio Marcheselli
Un «pensiero aperto» sull’evangelizzazione Il percorso teologico compiuto a Bologna (1997-2017)
EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA
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Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze
2019 Centro editoriale dehoniano via Scipione Dal Ferro, 4 – 40138 Bologna www.dehoniane.it EDB®
©
ISBN 978-88-10-45012-3 Stampa: Graphicolor, Città di Castello (PG) 2019
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Introduzione
Maurizio Marcheselli
Il volume raccoglie alcuni dei contributi più significativi in merito alla teologia dell’evangelizzazione (TE), come è stata insegnata a Bologna a partire dall’anno di fondazione – il 1997 – della rivista che reca lo stesso nome, Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione (RTE). Da RTE provengono ben quindici dei ventuno studi che qui ripubblichiamo, mentre i restanti sei sono tratti da due volumi della collana «Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione» (BTE), che accoglie anche questa miscellanea.1 L’espressione «un pensiero aperto», contenuta nel titolo, proviene da Veritatis gaudium 3 (la recente costituzione apostolica vaticana circa le università e le facoltà ecclesiastiche dell’8 dicembre 2017): essa ci sembra descrivere molto bene il contenuto di quest’opera collettiva. Più precisamente papa Francesco, citando un suo discorso del 10 aprile 2014 alla comunità della Pontificia Università Gregoriana, descrive così il sapere teologico: «Un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità». 1. La quasi totalità dei contributi che proponiamo risale a tre momenti cronologici ben definiti: il 1998, il 2006 e il quadriennio 2014-2017. Queste tre concentrazioni non hanno nulla di casuale. – Una buona parte di questi studi (sette) risale al 1998. All’inizio della vita della rivista (RTE comincia a uscire nel 1997) questi contributi esprimono in realtà l’esito di un percorso già allora pluridecennale: lo Studio Teologico Accademico Bolognese (STAB), infatti, era nato nell’anno ac-
1 Quattro dal nono volume della serie: M. Tagliaferri (a cura di), Teologia dell’evangelizzazione. Fondamenti e modelli a confronto (Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione 9), EDB, Bologna 2014; due dall’undicesimo: M. Marcheselli (a cura di), Evangelizzare nelle criticità dell’umano (Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione 11), EDB, Bologna 2017.
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Maurizio Marcheselli
cademico 1977-1978 (21 giugno 1978) e ormai da vent’anni esisteva a Bologna un percorso di Licenza in TE. Il primo fascicolo di quel 1998 fu interamente dedicato a una riflessione sulla TE, per mettere a fuoco in che modo la prospettiva dell’evangelizzazione dovesse influenzare la ricerca e la didattica delle principali discipline teologiche e per identificare alcuni snodi cruciali per l’evangelizzazione nel panorama culturale italiano della fine degli anni ‘90 del secolo scorso, riconoscendo nella Scrittura, nel magistero papale post-conciliare e nella pneumatologia tre linee guida dell’elaborazione teologica sull’evangelizzazione. Nell’editoriale di quel numero Massimo Cassani, primo direttore della rivista, scriveva: Con la pubblicazione di questi saggi non pretendiamo […] di presentare l’orientamento complessivo di una scuola teologica o di delineare un’impostazione teoretica complessiva, desideriamo piuttosto esprimere il clima che caratterizza il nostro insegnamento della teologia e offrire un quadro orientativo delle proposte e alcuni dei risultati raggiunti.
Quei lavori restano fondamentali per comprendere la traiettoria che abbiamo percorso in questi decenni. – Dal fascicolo n. 19 di RTE, uscito nel primo semestre del 2006, riprendiamo tre contributi. La Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna era appena nata (28 marzo 2004) e la rivista entrava nel decimo anno di vita. La prima parte del fascicolo pubblicava gli atti del Convegno di Facoltà che si era svolto l’autunno precedente (17 novembre 2005). In relazione al documento CEI Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, che fissava gli orientamenti pastorali della Chiesa italiana per il primo decennio del 2000, si celebrò il convegno sotto il titolo La TE in un mondo che cambia. Anche RTE n. 19 si configura come un tentativo di mettere a fuoco lo statuto epistemologico e i contenuti caratterizzanti la TE, nonché di riflettere sul soggetto dell’evangelizzazione e sul mutato contesto in cui essa avviene («un mondo che – appunto – cambia»). – Dal quadriennio 2014-2017 provengono otto degli studi di questa raccolta. Nel 2014 la Facoltà entrava nel secondo decennio di attività e nel 2017 la rivista è arrivata a compiere vent’anni. Per questo ultimo periodo abbiamo ritenuto opportuno allargare lo sguardo oltre RTE e inglobare anche contributi che sono stati pubblicati negli Atti dei Convegni di Facoltà specificamente progettati dal Dipartimento di TE. I titoli dei due convegni sono già in se stessi significativi: quello del dicembre 2012 (pubblicato nel 2014 come BTE 9) s’intitolava Teologia dell’Evangelizzazione. Paradigmi epistemologici a confronto dentro e fuori la «scuola bolognese»; quello del marzo 2016 (pubblicato nel 2017 come BTE 11) Evangelizzare nelle criticità dell’umano. 2. Privilegiando alcuni passaggi «epocali» raccogliamo dunque in questo volume testi che – anche a distanza di parecchi anni – continuano a sembrarci significativi: significativi soprattutto per capire come siamo arrivati al punto in cui ci troviamo oggi a Bologna, noi che qui insegniamo alla Licenza in TE. Questa raccolta dovrebbe consentire di ripercorre-
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Introduzione
re l’itinerario attraverso il quale si è venuta evolvendo, nell’arco di alcuni decenni, una risposta emiliano-romagnola alla domanda: qual è il principio generatore di una TE? A partire dal 1977, allo STAB prima e poi alla FTER, si sono confrontate sostanzialmente tre tesi:2 questi ventuno contributi aiutano, almeno in parte, a ricostruire questo dibattito interno. I. La teologia dell’evangelizzazione appartiene all’area sistematica, perché nasce dall’intreccio tra la teologia trinitaria e l’ecclesiologia: essa mette a tema la missione della Chiesa a partire dalle processioni economiche della Trinità. In questa prospettiva la teologia dell’evangelizzazione ripensa la cristologia e la pneumatologia, riconoscendole come le forze motrici della missione ecclesiale nell’odierno mondo secolarizzato. II. La teologia dell’evangelizzazione appartiene alla teologia fondamentale, perché è riflessione razionale sulla concreta esperienza evangelizzatrice della Chiesa. Per fare ciò, cerca il dialogo con i saperi antropologici, che a vario titolo rischiarano il contesto culturale e sociale in cui si svolge l’annuncio del vangelo. Oggi non c’è più una netta separazione tra emittenti e riceventi, ma il contesto in cui siamo immersi è divenuto un luogo in cui i comunicanti sono sia emittenti sia riceventi sia ripetitori – con le inevitabili distorsioni – di ogni messaggio, compreso quello cristiano. III. La teologia dell’evangelizzazione ha una struttura testimoniale, che la assimila a una teologia spirituale con un solido fondamento ecclesiologico. È l’espressione razionale di una comunità cristiana confessante, che si immerge nelle pieghe del proprio tempo alla ricerca della presenza nascosta di Cristo e si impegna per portare alla luce i semi di vangelo che la società post-cristiana custodisce dentro di sé. Mettendo questi semi a contatto con le Scritture e il nucleo fondante della fede, essa ripensa criticamente e creativamente le forme concrete della testimonianza cristiana personale ed ecclesiale. Queste tre caratterizzazioni teologiche si rivelano in definitiva complementari e rappresentano oggi le tre istanze fondative di un unico progetto teologico, che risponde a queste domande: quale cristologia e pneumatologia possono ispirare l’essere Chiesa in un tempo secolarizzato e pluralista? Quale processo di generazione della comunicazione evangelica attuare in un contesto in cui tutti parlano, ma pochi dialogano? Quale profilo spirituale deve assumere il vissuto cristiano per rinnovare lo statuto testimoniale della verità evangelica? 3. Una scorsa ai titoli di questi ventuno saggi mostra immediatamente che il volume non si limita ad affrontare il tema dello statuto epistemologico della TE, ma fa emergere implicitamente la questione dei nodi contenutistici di cui essa si occupa – si deve occupare. I due aspetti non sono ovviamente del tutto separabili l’uno dall’altro.
2 Cf. P. Boschini, «Che cos’è la teologia dell’evangelizzazione? Il percorso della “scuola” bolognese», in RTE 22(2018), 389-390.
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La raccolta consente dunque di farsi un’idea, per quanto approssimativa, dell’ampio spettro di discipline che concorrono a strutturare la TE come «sapere di saperi». Scorrendo questi contributi ci si accorge di come la TE, nella forma in cui essa si è sviluppata a Bologna, stia alla confluenza di vari saperi, teologici e non: essa pratica il dialogo non solo tra le discipline interne alla teologia, ma anche con i saperi filosofici e storici, sociali e comunicativi, economici e urbanistici. Oggi la teologia bolognese dell’evangelizzazione è un sapere di saperi, a cui si può avere accesso da approcci differenti. Oltre a quelle sistematica, fenomenologico-esperienziale, spirituale-testimoniale, ci sono oggi altre direttrici altrettanto costitutive per la realizzazione della teologia dell’evangelizzazione: l’approccio biblico-esegetico; quello soteriologico-morale; quello politico-economico; quello antropologico-sociale. L’elenco completo sarebbe più lungo.3
Una percezione più adeguata di questa «multi-versalità», che ci pare essere caratteristica costitutiva della TE, la si ricava dalla lettura del «Glossario dei principali temi» apparso in RTE 21(2017), 9-157: esso articola in 64 voci i nodi della riflessione teologica che ha trovato espressione nei primi 40 fascicoli della rivista. Tale glossario costituisce il necessario compagno del presente volume. 4. A chi è destinata e a quale genere letterario appartiene questa miscellanea, di sua natura estremamente composita e variegata? Forse non ha la forma compiuta né di un manuale né di un manifesto, ma in essa sono presenti elementi e dell’uno e dell’altro genere. Se con «manuale» intendiamo un libro «che espone le notizie fondamentali intorno a un determinato argomento, in modo piuttosto ampio ed esauriente, tale tuttavia da consentire una consultazione agevole e pronta»,4 certo questo corrisponde all’intenzione di chi ha curato la raccolta; se con «manifesto» pensiamo a un «programma politico o culturale lanciato da partiti, da gruppi o da correnti»,5 anche questo riflette qualcosa delle nostre intenzioni. Il volume tuttavia non ha un carattere propriamente esaustivo e la natura programmatica dei suoi saggi la si coglie davvero solo retrospettivamente. Quale pubblico vogliamo raggiungere? Da un lato, desideriamo offrire agli studenti del ciclo di Licenza in TE uno strumento che li aiuti a collocarsi dentro un filone di ricerca e di insegnamento che timidamente osiamo chiamare «scuola bolognese». Dall’altro, nutriamo la speranza che il nostro «manuale/manifesto» possa soprattutto destare interesse al di fuori dell’ambito della FTER e sviluppare un confronto sui contenuti e sullo statuto della TE tra le istituzioni accademiche italiane. Ricordiamo
Ivi, 391. http://www.treccani.it/vocabolario/manuale2 5 http://www.treccani.it/vocabolario/manifesto2 3 4
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Introduzione
a questo proposito che i saggi che compongono questo volume hanno già costituito la base di un dibattito che si è svolto all’interno della cornice internazionale della First Annual Conference della European Academy of Religion (Bologna, 5-8 marzo 2018). Si è trattato di un confronto inter-facoltà, che ha visto coinvolte cinque diverse istituzioni accademiche attive sul territorio italiano: la Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale (Milano), la Facoltà Teologica del Triveneto (Padova), la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (Bologna), la Facoltà Teologica dell’Italia centrale (Firenze) e la Facoltà Teologica dell’Italia meridionale attraverso l’Istituto Teologico calabro (Catanzaro).6 Gli intervenuti si sono confrontati criticamente sul profilo epistemologico e sui contenuti caratterizzanti la TE a partire principalmente da questa selezione di studi, che ciascuno dei partecipanti ha potuto esaminare con largo anticipo. È stato soprattutto Enzo Biemmi (Padova) a dialogare in modo critico con i due contributi che in questo volume presentiamo come «testi fondativi», mentre Luca Bressan (Milano) ha accostato la TE dal punto di vista della necessità di far finalmente emergere una forma ecclesiae «adeguata a questo tempo e alla sua cultura».7 Il dibattito sul carattere sistematico o pratico della TE ha appassionato sia Biemmi che Bressan. Entrambi, docenti di Teologia pastorale, propendono per una natura pratica della TE, che peraltro Biemmi precisa così: «Riteniamo che la TE abbia uno statuto di teologia fondamentale pratica» e che questa collocazione non ne sminuisca la portata teologica. «Tutto sta nell’uscire da una concezione di pratica e di pastorale semplicemente deduttive e operative e assumere fino in fondo la provocazione che, anche per quanto riguarda la fede, “la realtà è più importante dell’idea”»: la TE sfugge al pericolo dell’autoreferenzialità non semplicemente se dialoga con le culture, ma se abita, legge, ascolta e interpreta la vita della gente. La riflessione teologica sul l’evangelizzazione per Bressan deve configurarsi come riflessione sulla riforma della Chiesa. L’annuncio del vangelo implica in modo radicale una nuova forma ecclesiae. Occorre affrontare una discussione in merito che consenta di approdare a risposte percorribili a quell’ansia di riforma che attanaglia la Chiesa da così lungo tempo (in modo particolare dagli anni ’50 del secolo scorso). La voce della teologia pratica deve levarsi per rilanciare la necessità che, dentro il dibattito sulla trasformazione delle figure istituzionali del cristianesimo, si dia maggiore spazio e maggiore considerazione alla figura di una Chiesa di popolo. Occorre pertanto es-
Di questo dibattito rendiamo conto in RTE 22(2018), 387-427. Petrà e Mazzillo si sono soffermati rispettivamente sull’etica e sulla teologia del Gesù storico per metterne in risalto il ruolo specifico in una riflessione teologica sull’evangelizzazione. Nella sua riflessione sul carattere secondario dell’etica Basilio Petrà (Firenze) prende le mosse dalla riflessione svolta da Mario Fini, attestata soprattutto in un contributo pubblicato nel 2006 in RTE. Nella sua insistenza sul significato che ha la teologia di Gesù per elaborare una TE, Giovanni Mazzillo (Catanzaro) interagisce primariamente con una serie di studi apparsi in RTE relativi alla fenomenologia di Gesù e alla ricerca sul Gesù storico. 6 7
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senzialmente e prima di tutto uno studio attento dei legami attraverso i quali prende forma il popolo dei credenti. 5. Senza alcun senso di frustrazione possiamo sottoscrivere quello che Massimo Cassani affermava nel già menzionato editoriale del 1998: «Il cammino, ricco di tanti stimoli, è in corso e forse non è ancora giunto a una visione definitiva e del tutto compiuta». In modo inizialmente non del tutto tematizzato, l’elezione di Bergoglio a vescovo di Roma e pastore universale (13 marzo 2013) ci ha di fatto riproposto la necessità di focalizzare statuto e contenuti della TE. Il contributo di Evangelii gaudium a un nuovo «stile» (nell’accezione di C. Theobald) di evangelizzazione si può raccogliere attorno a tre parametri: la visione di fondo, il linguaggio e il metodo. Confrontandoci con essi ci pare di poter dire che l’orizzonte teologico di Evangelii gaudium conferma, interroga e rilancia ulteriormente la TE elaborata nei corsi di Licenza in TE e nelle pubblicazioni che ne rendono conto (RTE e BTE).8 Il proemio di Veritatis gaudium ci trova in profonda sintonia e al tempo stesso ci interpella in modo particolarmente pressante. Il vasto e pluriforme sistema degli studi ecclesiastici è qui descritto come «strettamente legato alla missione evangelizzatrice della Chiesa» (n. 1). Papa Francesco afferma che oggi c’è bisogno non di una sintesi, ma di una vera ermeneutica evangelica per capire meglio la vita, il mondo, gli uomini (n. 3). «Il buon teologo e filosofo ha un sapere aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità» (n. 3). In particolare il secondo e il terzo principio del n. 4 di Veritatis gaudium fanno risuonare armoniche a cui siamo particolarmente sensibili. È necessario promuovere un’autentica cultura dell’incontro, una cultura dell’incontro tra tutte le autentiche e vitali culture. Questo dialogo a tutto campo non è un mero atteggiamento pratico, ma è indispensabile per approfondire il significato e le implicazioni pratiche della verità. Il terzo fondamentale criterio richiamato dalla costituzione è l’inter- e la trans-disciplinarità. Si tratta di offrire una pluralità di saperi che sia al tempo stesso raccolta nell’unità. La trans-disciplinarità è infatti definita come «collocazione e fermentazione di tutti i saperi dentro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio». L’arco della nostra riflessione sulla TE è teso tra Evangelii nuntiandi (1975) ed Evangelii gaudium (2013), tra Paolo VI e papa Francesco. La barra sta saldamente sul Vaticano II: una scelta non scontata, a fronte di altri possibili modi di intendere la TE.9
8 Così E. Biemmi, «La Teologia dell’evangelizzazione nell’orizzonte di Evangelii gaudium», in RTE 22(2018), 399-402. 9 «In mezzo a questi due autorevoli documenti magisteriali ci sono state altre visioni di evangelizzazione sia da parte del magistero che da parte di alcuni orientamenti della riflessione catechetica e pastorale» (ivi, 398).
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Parte prima Testi fondativi
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La teologia dell’evangelizzazione: traiettorie dalla nascita dello STAB all’oggi della FTER
Erio Castellucci
Si potrebbe porre come sottotitolo a questo contributo un ulteriore doppio riferimento: «Dalla Evangelii nuntiandi di Paolo VI alla Evangelii gaudium di Francesco»: due documenti che si rispecchiano per molti aspetti e che costituiscono, possiamo dire, la conferma della scelta di dedicare alla teologia dell’evangelizzazione buona parte delle energie spese in questa sede negli ultimi quattro decenni di ricerca e insegnamento teologico. Energie spese soprattutto – ma non esclusivamente – nella Licenza in Teologia dell’evangelizzazione (LTE), i cui primi corsi presero avvio nell’autunno del 1977 insieme allo Studio Teologico Accademico Bolognese (STAB), che dal 29 marzo 2004 ha lasciato il posto alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER).
1. La Licenza in Teologia dell ’ evangelizzazione a B ologna Il secondo ciclo dello STAB era composto da due specializzazioni: alla LTE, la cui sede unica era presso il Seminario regionale di Bologna, si affiancava la Licenza in Teologia Sistematica (LTS) a indirizzo tomista, presso il convento dei padri domenicani. Le due licenze vennero poi assunte dalla FTER, che le ha integrate con una terza in Storia della Teologia (LST) e le ha rilanciate come espressione dei tre relativi Dipartimenti. Un rapido sguardo agli oltre 600 corsi e seminari svolti in questi quattro decenni all’interno della LTE, agli oltre 120 docenti, alle circa 200 dissertazioni scritte, alla decina di convegni – tra i quali quello in atto –, alle collane e alla rivista omonima che sta arrivando al ventesimo anno di vita,
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evidenzia un’attenzione costante agli interlocutori, ai contenuti, allo stile e al soggetto dell’evangelizzazione. L’orizzonte degli interlocutori, all’inizio definiti «destinatari», viene considerato, di anno in anno, in stretta aderenza ai mutamenti culturali in atto, specialmente nella nostra regione. È rilevante in proposito la chiara percezione del mutamento di scenario dagli ultimi anni Settanta (primi corsi sull’ateismo: uno nel 1977 e uno nel 1980) agli anni Novanta (attenzione ripetuta verso la post-modernità, con cinque corsi esplicitamente dedicati ad essa e parecchi articoli in RTE sulla post-modernità e sul pluralismo). In effetti la LTE prese avvio nel contesto del confronto, in Emilia-Romagna, con un’ideologia «forte» qual era allora il marxismo; ma nel corso degli anni lo scenario è cambiato e, come nel resto dell’Occidente e dell’Italia, anche nella nostra regione ha fatto breccia piuttosto un pensiero «debole», meno interessato al confronto sulle grandi questioni e più preoccupato di gestire la quotidianità. È proprio questo nuovo scenario a porre le domande più attuali alla teologia dell’evangelizzazione. La caratteristica più evidente del postmoderno è la frammentarietà, frutto e specchio della complessità. In questo contesto è ancora possibile coniugare dialogo e annuncio? Se negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta i docenti dovevano per lo più fronteggiare atteggiamenti di tipo compatto all’esterno e tentazioni di tipo relativistico all’interno, oggi sembra piuttosto l’inverso: tra i docenti è diffusa l’impressione che cresca negli studenti di teologia la tendenza a contrapporsi alle sfide di un relativismo effettivamente molto marcato, con una certa fatica ad accettare nel campo degli studi teologici la problematizzazione, scambiata per scetticismo o accademismo. In questi decenni, prima lo STAB e poi la FTER, collocandosi nel solco remoto delle quattro costituzioni conciliari e in quello prossimo di Evangelii nuntiandi (EV 5/1588-1716), ha accettato un confronto problematizzante con la cultura che non fosse né semplice «ricompattamento» né tantomeno «diaspora» dei cattolici, ma partisse da un vero e proprio dialogo per trovare i ponti dell’annuncio. L’idea espressa almeno tre volte in Gaudium et spes (EV 1/1319-1644) – nn. 40, 44 e 58 – di una bi-direzionalità tra Chiesa e mondo (nel momento in cui la Chiesa dà al mondo, riceve anche qualcosa) ispira anche la LTE. Facendo tesoro dell’esperienza accumulata, l’Ordinamento della FTER, approvato ad quinquennium dalla Congregazione per l’educazione cattolica il 29 marzo 2004, affermava: La Licenza in Teologia dell’evangelizzazione affronta la teologia nella prospettiva dell’annuncio e dell’inculturazione. Essa studia, dal punto di vista teologico, il fatto dell’evangelizzazione, il messaggio, gli interlocutori e la situazione in cui è loro rivolto l’annuncio. In quest’itinerario sono decisive le discipline fondamentali della teologia, con una specifica attenzione alle connessioni con le scienze antropologiche (2.6.A).
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La teologia dell’evangelizzazione: traiettorie dalla nascita dello STAB all’oggi della FTER
Lo stesso documento indicava poi le dodici «discipline caratterizzanti» (2.6.B), entro le quali vanno formulati i corsi nei quattro semestri di lezione previsti: Nuclei fondamentali: – Missione ed evangelizzazione nel Nuovo Testamento. – Kerygma, dogma e cultura nei primi secoli. – Liturgia: dossologia, confessione di fede e cultura. – Ecclesiologia: carismi, ministeri, comunione e annuncio. Dimensioni dell’annuncio: – Annuncio del vangelo e problematiche morali. – Dimensione intellettuale e filosofica dell’annuncio. – Vangelo e progresso delle scienze. – Missione e dialogo interreligioso. Contemporaneità e sintesi: – Antropologie post-moderne. – Questioni della comunicazione nella globalizzazione. – Vangelo, cultura e storia in Emilia-Romagna. – Elementi di sintesi per una teologia dell’evangelizzazione. Come si può illustrare, con l’aiuto dell’esperienza di questi decenni, convogliata nelle precise indicazioni dell’Ordinamento della Facoltà, la natura della teologia dell’evangelizzazione? Di per sé la parola evangelizzazione non è di grande aiuto in questa determinazione, poiché è stata applicata nella riflessione teologica e pastorale degli ultimi decenni ad ambiti differenti: dal senso più ampio possibile, che in pratica la identificava con la «missione» ecclesiale a tutti i livelli (predicazione, liturgia, carità) al senso stretto di «primo annuncio» del vangelo, il termine «evangelizzazione» è una specie di elastico che viene teso o contratto a seconda dei contesti. Tenendo conto dell’esperienza maturata in questi quattro decenni di vita della LTE, si potrebbe intendere la teologia dell’evangelizzazione come quell’aspetto della teologia sistematica che persegue, specialmente per la nostra regione, il grande programma consegnato da Giovanni XXIII al concilio nel documento di indizione Humanae salutis: «Mettere a contatto con le energie vivificatrici e perenni del vangelo il mondo moderno»; programma rilanciato da Paolo VI prima nella Ecclesiam suam, dove presenta una versione cristiana della sentenza terenziana: «Tutto ciò che è umano ci riguarda» (EV 2/201) e poi nella Evangelii nuntiandi: «Indipendenti di fronte alle culture, il vangelo e l’evangelizzazione […] sono […] capaci di impregnarle tutte, senza asservirsi ad alcuna» (n. 20); programma rilanciato da Giovanni Paolo II con la categoria di «nuova evangelizzazione» e con i criteri che orientano l’inculturazione: innesto del vangelo in una cultura (nel reciproco scambio), purificazione della cultura da parte del vangelo, elevazione o compimento dei germi di verità da parte dello stesso vangelo (cf. Catechesi tradendae, n. 53: EV 6/17641939; cf. anche Lumen gentium, n. 13: EV 1/284-456), e ripreso continuamente da papa Francesco con il rilancio del primato dell’annuncio.
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Emerge in tal modo l’intreccio imprescindibile tra teologia ed evangelizzazione, al punto da costituirli non due grandezze parallele ma un’endiadi. Una teologia che dall’inizio alla fine non fosse impregnata dalle istanze dell’evangelizzazione si risolverebbe in un chiuso accademismo, si perderebbe nei meandri di un linguaggio ermetico e autoreferenziale, diventerebbe un’operazione costruita «in provetta». Un’evangelizzazione che non fosse fondata sulla teologia scadrebbe a pura elaborazione di metodi o ripetizione di slogan, finendo per accomodarsi alla cultura vincente o, al contrario, per adottare il rifiuto della modernità come atteggiamento pregiudiziale. Per mantenere la fedeltà sia al sostantivo «teologia» sia al suo genitivo «evangelizzazione», nella consapevolezza di questo fecondo intreccio, è stato spontaneo, in corsi, seminari, tesi e studi di questi decenni, tornare continuamente a cristologia, antropologia ed ecclesiologia. La cristologia costituisce il perno non solo della teologia ma anche dell’evangelizzazione; entrambe sono fondate, nel metodo e nel contenuto, sulla persona e sull’azione di Cristo, luogo di ogni discorso-su-Dio e modello e propulsore, nello Spirito, dell’azione evangelizzatrice. La soteriologia, in quanto cristologia dinamica, è il paradigma fondamentale della teologia dell’evangelizzazione. L’antropologia mette a fuoco l’interlocutore della teologia e dell’evangelizzazione; se infatti la teologia è «discorso su Dio», è però discorso per l’uomo (e non per Dio) e rivela non solo Dio all’uomo, ma anche l’uomo all’uomo; e l’evangelizzazione, a sua volta, è dimensionata sull’uomo «contemporaneo», per cui non può prescindere da una lettura approfondita dell’umano senza danneggiare l’efficacia stessa della trasmissione del vangelo. L’ecclesiologia, infine, punta la lente sul soggetto della teologia e dell’evangelizzazione. Se il soggetto divino è la Trinità, sulla terra è però la Chiesa, immagine e riflesso della Trinità, a innestare il vangelo nelle diverse culture umane; la Chiesa nella diversità dei suoi membri – laici, ministri, religiosi – e nella complementarità delle sue dimensioni, universale e locale. In questo contesto, le Chiese dell’Emilia-Romagna sono coinvolte in prima persona nel progetto di teologia dell’evangelizzazione. Vale la pena di riflettere più dettagliatamente su queste tre discipline che formano l’ossatura della teologia dell’evangelizzazione.
2. Il
fondamento cristologico della teologia dell ’ evangelizzazione
La teologia dell’evangelizzazione si fonda nel metodo e nel contenuto su Gesù Cristo, considerato però non in maniera statica bensì dinamica, come evento che coinvolge Dio e l’uomo insieme. Il triplice mistero che caratterizza l’evento di Cristo le offre quindi metodologia e contenuti: l’incarnazione richiama la consistenza dell’umano e della storia, il desi-
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derio di comunione da parte di Dio realizzatasi in Cristo, la presenza dei «germi del Verbo» dovunque esistano cercatori della verità, la necessità per la Chiesa di mettersi in ascolto delle istanze dei contemporanei, la legittima autonomia delle realtà temporali; la crocifissione evidenzia la misura estrema dell’amore divino per l’uomo, la presenza e la forza del male nella storia, il bisogno di discernimento, capacità critica e azione purificatrice che il vangelo deve svolgere verso l’umano; la risurrezione, infine, mette in luce la superiorità della vita sulla morte e del bene sul male, il destino ultimo degli esseri umani, il valore della storia, del mondo e del corpo, il compito di mostrare agli uomini come in Cristo ciò che è autentico non va perduto ma viene potenziato e portato a pienezza. L’annuncio cristiano si plasma su questa triplice logica, che è quella scelta e praticata da Dio nell’incontrare e salvare l’uomo, e anche la teologia dell’evangelizzazione si basa su questa triplice logica. Se annebbiasse il mistero dell’incarnazione, tale teologia cadrebbe nell’astrazione, si precluderebbe il dialogo e l’ascolto, spargerebbe i preziosi semi della verità al vento e non sul terreno, rischierebbe l’anacronismo e quindi l’inefficacia. Se oscurasse il mistero della croce, la teologia dell’evangelizzazione si adagerebbe semplicemente sul mondo e avallerebbe le mode prevalenti, diventerebbe sale insipido e forse anche instrumentum regni perché, perdendo la sua funzione critica, farebbe il gioco dei poteri di turno (culturali, politici, economico-finanziari e mediatici: spesso intrecciati tra loro). Se trascurasse il mistero della risurrezione, la teologia dell’evangelizzazione si porrebbe come proposta culturale accanto alle altre, semplice commensale in più al tavolo delle visioni dell’uomo e del mondo che convivono nel cosmo pluralista; ma con ciò rinuncerebbe alla pretesa evangelica fondamentale: la capacità di Cristo di dare senso pieno al l’umano; e non solo quando l’umano è in crisi e sperimenta il proprio fallimento, ma anche e soprattutto quando ricerca il proprio senso compiuto. Una delle più grandi sfide alla teologia è oggi proprio quella relativa all’umano, come ha evidenziato il recente Convegno di Firenze, coniugando proprio cristologia e antropologia. Per troppo tempo, come notò D. Bonhoeffer, l’annuncio del vangelo ha cercato di innestarsi nell’insufficienza umana, nella sofferenza e nella morte; pur non volendo negare che spesso siano proprio le situazioni negative a creare le premesse per un’apertura verso l’alto, è però tempo per la teologia di pensare a fondo l’annuncio del vangelo come pienezza dell’umano. Non una teologia che si limiti a giocare «di rimessa», presentandosi come risposta alle domande tragiche sul dolore e sulla morte, ma una teologia che scenda nel l’arena del confronto culturale con l’umile persuasione che Cristo non interviene solo a colmare le deficienze dell’umano, ma anche e soprattutto a compierne le aspirazioni, le gioie, i desideri. Del resto, se consideriamo almeno sommariamente alcuni modelli di evangelizzazione nella storia, riusciamo a cogliere un fil rouge che li accomuna, ossia l’annuncio di Cristo, attraverso però forme e contenuti differenti. Forme e contenuti che costituiscono la trama di fondo dell’attività della FTER e fanno incontrare continuamente la teologia dell’evangeliz-
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zazione con la storia della teologia e la sistematica, connettendo tra loro i tre indirizzi di licenza. Richiamiamo brevemente questi modelli. La metodologia tipica del Nuovo Testamento, quando l’ansia di diffondere l’evento e la parola di Cristo prevaleva su ogni altra considerazione – anche a motivo dell’attesa di un ritorno imminente del Signore –, era quella che potremmo indicare come annuncio dialogico: dove il sostantivo è molto più importante dell’aggettivo. La preoccupazione della Chiesa apostolica è quella di comunicare a tutti che Cristo è Risorto, è giunta l’era messianica, è iniziata la salvezza del mondo. Tuttavia, anche se non c’era il tempo di elaborare un vero e proprio «dialogo» strutturato – l’urgenza dell’annuncio pasquale aveva il sopravvento e assorbiva tutte le energie – non appena il vangelo superò i confini del mondo giudaico, già negli anni 50, il cristianesimo cominciò a tradurre l’unico messaggio in diversi linguaggi: Paolo, Marco, Matteo, Luca, Giovanni… pensavano in categorie ebraiche ma scrivevano in greco, e utilizzavano linguaggi culturali che intendevano parlare sia ai giudei che ai gentili. I padri, specialmente quelli del II secolo comunemente noti come apostolici e apologisti, nell’annuncio del vangelo erano attenti anch’essi ai contenuti e ai concetti dei vari mondi ai quali si rivolgevano: giudaico, ellenistico e romano; così attenti che cercarono di individuare in essi dei «germi del Verbo», cioè tracce della verità e della grazia di Cristo, elementi che conducono a lui. Le persecuzioni anti-cristiane che costellarono questi primi secoli operarono da una parte come setaccio quantitativo e qualitativo dei cristiani e dall’altra come pungolo che – essendosi ben presto attenuata l’attesa del ritorno imminente del Signore – stimolava la missione, rendendone ancora più evidente l’urgenza. Il periodo medievale si mosse nella sostanziale convinzione di un’evan gelizzazione ormai compiuta: quelle che si reputavano le ultime sacche di paganesimo vennero assorbite con l’evangelizzazione degli angli, dei germani e degli slavi, portata avanti con successo nell’alto medioevo. La permanenza di comunità ebraiche della diaspora e l’avanzare aggressivo dell’islam in molte zone del mondo non cambiarono nella coscienza cristiana la convinzione che il vangelo fosse giunto ovunque: semplicemente, si sapeva che alcuni, pur avendolo conosciuto, non lo accettavano e lo combattevano. La tensione evangelizzatrice, dunque, si attenuò: è il periodo dell’annuncio e dialogo intraecclesiale, dove l’annuncio tende a esaurirsi in catechesi (attraverso le parole ma anche le immagini) e il dialogo nella pluralità delle scuole cristiane (famose quelle tomista e scotista, di derivazione domenicana la prima e francescana la seconda). A questo livello appartengono le maggiori realizzazioni medievali frutto e strumento dell’evangelizzazione: le cattedrali, le Summae teologiche, le opere di carità, le università. In campo extraecclesiale, invece, né l’annuncio né il dialogo vennero portati avanti, almeno nel senso che diamo noi oggi a queste due parole: il primo era ritenuto sostanzialmente inutile, data l’universale diffusione del battesimo e della fede, e il secondo dannoso per l’affermazione della verità. In questo contesto – e concedendo tutte le attenuanti storiche del caso ma senza impartire un’assoluzione
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generale – si collocano nel secondo millennio le crociate, l’inquisizione e la caccia alle streghe. In fondo sono note di una stessa sinfonia: quella della custodia della verità contro coloro che, fuori della Chiesa, la insidiano: siano essi musulmani, ebrei, cristiani eretici o persone sospette di stregoneria. La scoperta del Nuovo Mondo, dalla fine del XV secolo a tutto il XVI, costrinse a elaborare nuovi modelli di evangelizzazione. Essendo caduta la persuasione di vivere in un mondo già cristianizzato e di dovere dunque far rifluire l’annuncio e il dialogo solo all’interno della Chiesa – riservando per l’esterno la polemica non solo verbale ma anche militare – l’opera evangelizzatrice ripartì con un’urgenza simile a quella del periodo apostolico, ma con una metodologia che, per lo più, se ne distaccò e che si potrebbe indicare come annuncio senza dialogo. I missionari che salpavano sulle navi spagnole, portoghesi e inglesi alla conquista del Nuovo Mondo, anche se – come la storia testimonia – svolsero per lo più un’opera di contenimento della furia conquistatrice, non riuscirono però in gran parte a innestare il vangelo in quelle culture, ma vi portarono una dottrina confezionata alla maniera occidentale. Tentativi come quelli operati a cavallo tra XVII e XVIII secolo dai gesuiti nel Paraguay (molto più grande del territorio attuale), attraverso le reducciones, vere e proprie comunità di vita, lavoro, preghiera, vennero fermati per motivi in buona parte politici. Purtroppo non tutti i missionari ebbero il coraggio e la lungimiranza di Bartolomeo de Las Casas, che denunciò lo sradicamento della cultura locale per il trapianto violento di quella occidentale come un vero e proprio tradimento del vangelo. Facendo tesoro di questi grandi e drammatici insegnamenti della storia, oggi nessun cristiano prospetta l’evangelizzazione in termini di sradicamento di una cultura da parte del vangelo. Alcuni teologi odierni anzi, mossi anche dal senso di colpa per certe efferatezze commesse da chi si diceva cristiano, propongono di intendere la missione come una sorta di dialogo senza annuncio, dove si confrontino semplicemente le differenti posizioni religiose e sociali, senza tendere a convertire l’altro, ma accontentandosi di accordi e convergenze. Davanti a questa proposta, che oggi nella teologia del dialogo interreligioso prende il nome di pluralismo o teocentrismo, occorre dire francamente che il cristianesimo è geneticamente annuncio. Il Risorto ha inviato i discepoli con parole che non lasciano dubbi: «Andate, predicate, annunciate a tutte le genti» (cf. Mt 28,18-20 par.). Una Chiesa che rinunciasse all’annuncio e non si offrisse come luogo in cui tale annuncio può essere sperimentato creando vita nuova sarebbe una Chiesa dimissionaria più che missionaria. Vi è però un elemento positivo che si può raccogliere dalla proposta precedente: elemento che del resto il Nuovo Testamento stesso già contiene chiaramente: il metodo di evangelizzazione non può mai essere costrittivo: sarebbe una contraddizione tragica rispetto al suo contenuto, che è la Pasqua come offerta totale di Cristo al Padre e ai fratelli, cioè l’amore e la libertà che Cristo rivela e realizza. Sarebbe in contrasto con il comportamento stesso di Gesù, che ha sempre proposto e mai imposto.
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Il concilio Vaticano II ha infatti elaborato un modello che, ispirandosi a quelli neotestamentari e aggiornandoli sulla base della storia, si potrebbe indicare con dialogo e annuncio. Qui entrambi i termini sono sostantivi e nessuno dei due è subordinato all’altro: è troppo grande il pericolo di dimenticare il dialogo se lo si riduce ad aggettivo; ma è grande anche il pericolo di dimenticare l’annuncio, se tutta la missione si fa consistere nel dialogo. Il Vaticano II, in alcuni testi famosi – si pensi almeno a Lumen gentium, n. 17 (EV 1/327) e Ad gentes, nn. 2-4 (EV 1/1090ss) – ha tracciato quella triplice metodologia per l’evangelizzazione, già ricordata – innesto, purificazione e compimento –, che deriva dal mistero di Cristo. Entrando così a fondo nella triplice dinamica del mistero di Cristo, la teologia dell’evangelizzazione si pone come branca non della teologia pastorale o pratica, bensì della teologia sistematica: e in questo senso è prima di tutto un aspetto della cristologia e della soteriologia; quell’aspetto che viene illuminato a partire dalle istanze dell’uomo contemporaneo, come mette in evidenza l’orizzonte antropologico nel quale si colloca.
3. L’orizzonte
antropologico della teologia dell ’ evangelizzazione
Al Congresso eucaristico nazionale di Bologna, il 27 settembre 1997, Giovanni Paolo II, insieme a centinaia di migliaia di giovani, ascoltò la canzone Blowing in the wind eseguita personalmente da Bob Dylan e, nel suo discorso successivo, ne riprese il testo originale con queste parole: Poco fa un vostro rappresentante ha detto, a vostro nome, che la risposta alle domande della vostra vita «sta soffiando nel vento». È vero! Però non nel vento che tutto disperde nei vortici del nulla, ma nel vento che è soffio e voce dello Spirito, voce che chiama e dice: «Vieni!» (cf. Gv 3,8; Ap 22,17). Mi avete chiesto: quante strade deve percorrere un uomo per potersi riconoscere uomo? Vi rispondo: una! Una sola è la strada dell’uomo, e questa è Cristo, che ha detto: «Io sono la via» (Gv 14,6).
Questo approccio, appena accennato, traccia una pista magistrale per la catechesi e l’annuncio della fede e rappresenta anche la grande preoccupazione della teologia dell’evangelizzazione: intercettare la domanda, portarla a un livello di profondità maggiore e indicare la risposta piena, quella della fede. Prima però di considerare approfonditamente questa pista percorrendo il metodo di Gesù, è bene ricordare che non sempre le domande profonde del cuore umano vengono espresse: a volte, anzi, sono sepolte sotto una coltre di questioni più superficiali e non riescono a emergere da sole. Due impostazioni sono a questo proposito inadeguate e incapaci di cogliere le domande: il sentiero «dall’alto» non riesce a perforare la coltre e risulta ininfluente per chi dovrebbe ricevere risposta, perché la giudica
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poco interessante; le risposte esatte ma pre-confezionate vengono subito annullate dall’indifferenza e dal disinteresse dei destinatari. Ma neanche il sentiero «dal basso» giunge fino al senso profondo della domanda, perché si limita a dare spazio alle questioni immediate e superficiali, senza rispondere, senza rilanciare e quindi senza creare quel circolo virtuoso che è il rapporto educativo, che stimola a un approfondimento. In alcuni manuali di psicologia dell’età evolutiva si trovano esempi come questo: se un bambino chiede da bere, non è detto che abbia sete davvero, ma può darsi che abbia solo bisogno di attenzione. È una sete più profonda, una sete non di acqua ma di relazione. Se la mamma risponde solo con l’acqua, distrattamente e senza entrare in relazione, il bambino continua a sentire disagio e a manifestare la sete. Spesso, sotto alle domande emergenti, se ne nascondono altre inespresse, che hanno sempre a che vedere con il bisogno di senso, di relazione, e infine di amore. Le nostre domande espresse sono come la punta dell’iceberg, che emerge per circa un decimo della sua massa totale; al di sotto delle nostre domande vi è un enorme bisogno di significato. Perché la gran parte della nostra vita – i nove decimi nascosti – non si appaga delle risposte immediate, del semplice soddisfacimento di bisogni espressi, ma necessita di risposte più profonde. Se scaviamo nel cuore umano, incontriamo da sempre alcune domande, alcuni desideri, che rispondono sostanzialmente a un bisogno di pienezza, di gioia, di felicità. È notissima la sentenza di Aristotele, all’inizio della sua Etica Nicomachea: «Ogni uomo cerca la felicità» (1095a,17-19). Ma quanti volti ha la felicità? Certo le gioie materiali sono insufficienti, ma fanno parte tuttavia della felicità. La speranza fondamentale che l’uomo ha da sempre è di vivere, e di vivere bene; è speranza dunque di sussistenza e benessere, che comporta una quantità sufficiente di cibo, acqua, vestiti, medicine, denaro e beni utili alla vita; l’uomo in altre parole spera prima di tutto di non soccombere per la fame, la sete, la miseria, le malattie, gli incidenti. Di questa felicità, a un livello più profondo, fa parte anche la ricerca di relazioni ricche e soddisfacenti: nella coppia e nella famiglia, tra genitori e figli, tra amici, e – per il credente – con Dio; l’uomo quindi spera anche di non venire sopraffatto dalla solitudine e dall’umiliazione di sentirsi inutile, e il credente inoltre spera di non cedere al peccato. Infine, al livello più profondo ancora, la domanda ultima dell’uomo è di non essere annullato dalla morte, di vivere per sempre; solo la nostra specie, a partire almeno da qualche decina di migliaia di anni, dedica una certa cura ai defunti, sviluppa per essi dei riti, manifesta la speranza che la vita umana perfori il muro della morte. Queste sono allora le grandi domande di sempre: vivere un’esistenza materialmente bella, ricca e colma di soddisfazioni; costruire relazioni significative con i propri simili; superare la morte in una vita piena ed eterna nella quale raccogliere il meglio della vita terrena. A intercettare e valorizzare queste domande di fondo si dedica la teologia dell’evangelizzazione. Che queste siano le domande fondamentali lo dimostra anche – è il rovescio della medaglia – il fenomeno della ricerca di risposte immediate
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e a poco prezzo, che lasciano poi delusi e spesso anche feriti. Il bisogno di sicurezza materiale viene soddisfatto non sempre con mezzi onesti, ma qualche volta anche con furti o pratiche disoneste. Il bisogno di relazioni significative cerca soddisfazione a volte attraverso un esercizio sregolato della sessualità, che arriva persino a sfruttare altre persone; oppure attraverso un esercizio arbitrario del potere, o attraverso l’alterazione degli stati di coscienza (droghe, alcol), segno di un disagio che cerca vie di fuga dalla realtà. E si potrebbe forse interpretare la diffusa curiosità, che arriva a essere morbosa, di ragazzi e giovani verso le esperienze-limite tra vita e morte, il satanismo e l’occultismo – prodotti in piena espansione grazie anche a internet – come la ricerca di facili risposte alla domanda delle domande, quella sul significato della morte e della sua incidenza sulla vita. Sono sintomi che possono spaventare, ma devono comunque essere decodificati e interpretati. Queste risposte sono illusorie e qualche volta anche distruttive, ma dal punto di vista teologico le domande che vi stanno sotto esprimono una ricerca mascherata di Dio, perché incanalano una domanda di pienezza. È sant’Agostino a percorrere questa audace pista, soprattutto in una pagina del II libro delle Confessioni che vale la pena di leggere, poiché rappresenta uno dei tentativi meglio riusciti di interpretazione delle domande espresse e inespresse del cuore umano. L’orgoglio simula l’eccellenza, mentre il solo Dio eccelso al di sopra di tutte le cose sei tu. L’ambizione a che altro aspira se non a onori e gloria, mentre tu solo sopra tutto meriti onore e gloria eterna? La crudeltà dei potenti mira a incutere timore; ma chi è davvero temibile se non Dio solo, al cui potere cosa si può strappare o sottrarre, e quando, dove, come, da chi? Le seduzioni delle persone lascive, poi, mirano a suscitare amore, ma nulla è più seducente della tua carità, né vi è amore più salutare di quello della tua verità, tanto è bella e splendente oltre ogni cosa. La curiosità si atteggia a desiderio di conoscenza, mentre chi conosce tutto e in sommo grado sei tu; persino l’ignoranza e la scempiaggine si coprono col nome di semplicità e innocenza, poiché non si trova nulla più semplice di te e c’è cosa più innocente di te, se ai malvagi stessi nuocciono le opere loro? La pigrizia dal canto suo sembra cercare quiete, ma esiste quiete sicura senza il Signore? Il lusso vuol esser chiamato soddisfazione e copiosità di mezzi; sei tu però la pienezza e l’abbondanza inesauribile d’incorruttibili bellezze. La prodigalità si copre con l’ombra della liberalità, ma il più copioso dispensatore di ogni bene sei tu. L’avarizia aspira a possedere molto, mentre tu possiedi tutto. L’invidia disputa per eccellere, ma cosa eccelle più di te? L’ira vuole vendetta, ma quale vendetta è più giusta della tua? La pavidità trema, nella sua ricerca di sicurezza, dei pericoli insoliti e repentini che incombono sugli oggetti d’amore; a te infatti riesce qualcosa insolito, repentino? O qualcuno ti può privare degli oggetti del tuo amore? E dove si è saldamente sicuri se non al tuo fianco? La tristezza si rode per la perdita dei beni, di cui si dilettava la cupidigia, poiché vorrebbe che, come a te, così a sé nulla si potesse togliere. In queste forme l’anima pecca allorché si distoglie da te e cerca fuori di te la purezza e il candore, che non trova se non tornando a te. Tutti insomma ti imitano, alla rovescia, quanti si separano da te e si levano contro di te (Confessioni II, 6,13-14).
Chi guarda a Cristo lo fa sempre attraverso un interesse, un’istanza, una pre-comprensione. Che sia il desiderio di ricostruire il cosiddetto 22
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«Gesù storico», liberandolo dall’abbraccio della dogmatica ecclesiastica, come dicevano gli studiosi della scuola liberale tra l’Ottocento e il Novecento; oppure la volontà di cogliere nel Cristo quei tratti che ne fanno il paradigma dell’azione continua di Dio verso l’uomo, come intese fare la scuola esistenziale di Bultmann; o magari di ritrovare una potenzialità eversiva in Gesù e nel suo messaggio verso i poveri (teologia della liberazione) o le donne (teologia femminista); o magari l’intento di fondare su Gesù un dialogo più profondo dei cristiani con gli ebrei (uno dei tratti della Third Quest) o con le altre grandi tradizioni religiose dell’umanità (teologia delle religioni). La teologia dell’evangelizzazione dichiara la propria pre-comprensione – all’interno della grande pre-comprensione costituita dalla tradizione cattolica – nell’istanza antropologica: si rivolge cioè al mistero cristiano con la domanda sulle modalità e i contenuti dell’annuncio del vangelo all’uomo contemporaneo; concretamente, la teologia dell’evangelizzazione qui elaborata si interessa soprattutto all’uomo emiliano-romagnolo: alle sue idee, condizioni, problematiche, speranze, contraddizioni, potenzialità. Certo l’uomo della nostra regione ha molto in comune con i suoi contemporanei, in particolare gli europei e in modo speciale gli italiani; e tuttavia sembrano spuntare alcune caratteristiche specifiche, influenzate dalla storia, che attirano l’attenzione anche della teologia. La storia della nostra regione è segnata da molte appartenenze; per menzionare solo le più recenti, si possono ricordare: l’annessione di una parte dell’attuale regione allo Stato pontificio, con tutti i problemi relativi ai difficili e controversi rapporti Stato-Chiesa e un certo anticlericalismo permanente; la fortuna del movimento repubblicano, non a caso connotato a suo tempo da una viscerale opposizione alla vita e attività ecclesiale; l’adesione non sporadica (anzi, in Romagna decisamente significativa) al fascismo, con strascichi civilmente molto pesanti nella Resistenza e nell’immediato dopoguerra; l’adesione intensa e massiccia al comunismo, che per decenni ha caratterizzato la regione; la penetrazione sottile ma decisa del pensiero debole, con la sua carica individualistica, edonista ed emozionale. Il cristianesimo, vissuto a livello personale ma anche organizzato, ha continuato il suo cammino in tutte queste fasi, dando vita nelle diverse Chiese a figure di altissimo profilo umano, civile e cristiano; è un cristianesimo consapevole più che altrove della sua condizione di minoranza, ma non per questo affetto da complessi di inferiorità. Tutte queste appartenenze fanno della nostra regione un «concentrato» probabilmente unico nel panorama italiano e la rendono una sorta di laboratorio sperimentale per l’annuncio del vangelo. Il quadro degli interlocutori poi, necessariamente frammentario, non può oggi ignorare le fatiche e le opportunità costituite dal crescente fenomeno dell’immigrazione, che ha reso domestiche e quotidiane le relazioni interculturali e interreligiose, creando qualche inevitabile disagio nella comunicazione e nella convivenza, ma presentando anche stimoli e istanze in campo civile ed ecclesiale. Si può ricordare infine – senza alcuna pretesa di completezza – un diffuso positivismo che, se a livello
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accademico sembra ormai tramontato, persiste intatto a livello di cultura media, nutrendosi spesso di slogan sulla presunta incompatibilità tra fede e scienza. Non mancano ovviamente, dentro a questi stessi fenomeni, molte opportunità e tanti agganci per l’evangelizzazione oggi: un fondamentale senso di onestà e laboriosità, la capacità di incanalare passioni sociali e politiche dentro a un elevato senso della cosa pubblica, un innato senso della giustizia e un’attenzione spiccata per l’ecologia, la ricerca di un equilibrio tra opinioni personali e tessuto della convivenza civile, una buona armonia tra impegno e distensione, favorita anche da un carattere in genere accogliente e capace di relazioni. È forse proprio il desiderio di relazioni interpersonali significative e di prossimità a rappresentare la più promettente pista per l’evangelizzazione nella nostra regione: pista che indica come metodo privilegiato l’incontro personale. La teologia dell’evangelizzazione, attenta a questo ricco e difficile scenario, cerca di coniugare l’annuncio del vangelo con la complessità della situazione umana, sociale, culturale, morale, religiosa e politica: è su questi terreni che si spende la triplice metodologia fondata sulla cristologia – innesto, purificazione, compimento – nello sforzo di presentare efficacemente la persona e l’evento di Gesù agli uomini del nostro tempo.
4. Il
soggetto ecclesiale della teologia dell ’ evangelizzazione
La teologia dell’evangelizzazione è da sempre attenta al soggetto umano dell’annuncio, la Chiesa. Si tratta però della Chiesa considerata, appunto, in quanto soggetto dell’evangelizzazione: guardata cioè non semplicemente nella sua composizione «interna», ma nella sua natura «estroversa», originata dalla Trinità e donata agli uomini del suo tempo. La teologia dell’evangelizzazione non offre quindi un ritratto statico della Chiesa, una serie di fotografie, ma tenta di costruirne un filmato: e nel far questo ritiene di essere profondamente in linea con la Lumen gentium e con la Gaudium et spes, nelle quali la Chiesa, nel momento stesso in cui scandagliava la sua struttura, si scopriva rispettivamente relativa a Dio da una parte e agli uomini dall’altra. L’Evangelii nuntiandi a sua volta, che com’è sopra emerso ha ispirato da vicino la teologia dell’evangelizzazione, ha evidenziato chiaramente come la Chiesa esista non per sé ma per evangelizzare; e il documento firmato da Giovanni Paolo II a conclusione del Giubileo del 2000, Novo millennio ineunte, sceglie significativamente come icona per la Chiesa di oggi il «Duc in altum» detto da Gesù a Pietro. Lanciando questa icona, Giovanni Paolo II fece una scelta coraggiosa. Si sarebbe potuto obiettare: come fa il papa a dire alla barca della Chiesa di prendere il largo, in questa situazione? Lui dovrebbe sapere che questa barca è traballante, necessita di riparazioni, ha bisogno di essere verniciata per fare una buona impressione e soprattutto richiede un equipag-
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La teologia dell’evangelizzazione: traiettorie dalla nascita dello STAB all’oggi della FTER
gio meglio addestrato. A volte l’equipaggio sembra un’armata brancaleone e questa barca fa acqua da tutte le parti. Come può navigare nel mare del mondo, portare aiuto agli uomini, testimonianza ed essere missionaria, se prima non si compatta e non si attrezza bene? In altre parole: prima la comunione tra di noi e poi, quando saremo pronti, la missione verso gli altri. Invece Giovanni Paolo II ha rovesciato l’approccio: muovetevi, abbiate il coraggio di andare al largo, guardate alle esigenze del mondo, e in questa navigazione rinsalderete anche la comunione. È la stessa prospettiva che, con un’insistenza ancora maggiore e addirittura programmatica dell’intero suo pontificato, rilancia continuamente papa Francesco. La Evangelii gaudium è un grande e rigoglioso inno alla Chiesa missionaria, alla «Chiesa in uscita». In uno dei passaggi più audaci il papa afferma: Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più che la paura di sbagliare, spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37) (n. 49: EV 29/2155).
Queste prospettive traducono l’asse fondamentale del Vaticano II. Se si dovesse indicare, dentro all’ermeneutica della continuità e della riforma indicata da papa Benedetto XVI, quale sia la «novità» dell’ecclesiologia conciliare, sarebbe appropriato indicare l’idea della missione come costitutiva della Chiesa. Molti – tra i quali i vescovi riuniti nel sinodo straordinario del 1985 – hanno definito l’ecclesiologia conciliare «di comunione», ed è vero, purché venga intesa come «comunione missionaria». L’idea di comunione, infatti, strutturava anche l’ecclesiologia della Mystici corporis – quando i padri del Vaticano II si riunirono avevano già in mano un libro di Hamer intitolato La Chiesa è comunione – e si poteva perfino riscontrare anche in quelle «corporativa» e societaria; ciò che invece rimaneva in sordina in quelle ecclesiologie era proprio la coscienza di una Chiesa essenzialmente e interamente missionaria, esistente per gli uomini e non per se stessa. Non che le due dimensioni contrastino: l’una senza l’altra non avrebbe alcun senso, poiché la comunione senza la missione si ripiegherebbe nell’intimismo e la missione senza la comunione sfumerebbe nell’attivismo. Se il mistero della convocazione trinitaria sta all’origine della Chiesa, la comunione e la missione trinitaria sono le due modalità storiche, inscindibili, attraverso le quali il mistero si dispiega nella storia. Ma quando si dimentica che la comunione è per la missione, ci si ripiega su se stessi. Forse è successo anche nella nostra Chiesa italiana specialmente durante gli anni ’80, quando la CEI 25
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aveva indicato come piano pastorale decennale Comunione e comunità: c’era il rischio – e ne fu un segnale il Convegno di Loreto del 1985 – che i problemi della comunione si dovessero risolvere guardandosi semplicemente allo specchio: qual è il rapporto tra parrocchie e movimenti e tra diocesi e movimenti; quali sono le competenze dei presbiteri e quelle dei laici; che spazi hanno nella Chiesa i carismi e qual è il ruolo dell’istituzione; e così via. I problemi ad intra sono certo da affrontare nella Chiesa – non si può andare al largo su un tronco, occorre almeno una zattera che galleggi – ma sono da affrontare nell’orizzonte dei problemi ad extra. È l’agenda della missione che orienta l’agenda della comunione. Una delle tentazioni più ricorrenti delle nostre comunità è forse ancora quella di impiegare la maggior parte delle energie nel cercare di studiare e rivitalizzare i loro ingranaggi interni. A tutti i livelli – universale e locale – è un rischio effettivo: come se, per riprendere l’immagine appena menzionata, si volesse salpare solo con una barca perfettamente in ordine; come se, in altre parole, la missione verso il mondo dovesse attendere una comunione perfetta nella Chiesa. In questo senso, la teologia dell’evangelizzazione accoglie pienamente le istanze del concilio e del magistero successivo, guardando alla Chiesa-comunione, anche nei suoi assetti strutturali (Chiesa universale-locale, vocazioni-ministeri-carismi, diocesi-parrocchie-aggregazioni), a partire dalle esigenze della missione. Quando e dove sono le istanze della missione a interrogare il soggetto che annuncia, la tensione verso la comunione diventa quasi un’esigenza, pena il depotenziamento dell’annuncio stesso. La chiave di lettura ecclesiologica della comunione missionaria trova, nella teologia dell’evangelizzazione, diverse applicazioni. Nel parlare della comunione fra Chiesa universale e Chiesa particolare o locale, ad esempio, non si tratta tanto di misurare la priorità dell’una o dell’altra, quanto di metterne in evidenza la necessaria complementarità nell’attività missionaria: il respiro universale è essenziale a ogni Chiesa locale per mantenerla nella catholica, dove trova quella linfa che le impedisce di ripiegarsi su se stessa e il radicamento locale è essenziale alla Chiesa universale per renderla incisiva nella storia e nella cultura degli uomini di ogni parte del mondo. Anche la comunione tra vocazioni, carismi e ministeri risulta illuminata dall’ottica missionaria: ogni dono spirituale, infatti, è dato non per una dignità personale ma per un servizio ai fratelli; è dunque a partire da categorie «diaconali», minimo comune denominatore di tutti i cristiani, che ogni dono trova la sua collocazione specifica: i laici come servitori della dimensione realizzata, immanente e storica del regno di Dio, i religiosi come servitori della dimensione trascendente, futura ed escatologica del medesimo Regno, i ministri ordinati come servitori della costruzione della Chiesa – germe e inizio del Regno nella storia – ad opera di Cristo attraverso la parola, i sacramenti e la carità. La comunione fra le diverse aggregazioni ecclesiali (associazioni, movimenti, cammini, gruppi), infine, trova modo di rinsaldarsi quando la logica del paragone e del confronto, tesa inevitabilmente a individuare i migliori, viene sostitui-
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ta dalla logica della testimonianza e della missione, tesa invece a mettere i propri carismi a servizio dell’innesto del vangelo nel mondo. La teologia dell’evangelizzazione, insomma, vive nella convinzione che la solidità dell’edificio ecclesiale sia assicurata non tanto dallo spessore dei muri, quanto dalla trasparenza delle finestre: che da una parte devono lasciare entrare dal di fuori la luce di Cristo senza farvi da schermo con tendaggi pesanti e polverosi, e dall’altra devono favorire dal di dentro la comunicazione con gli uomini, senza trasformarsi in specchi che servirebbero solo a rimirare se stessi e impedirebbero l’evangelizzazione. Nell’ottica della missione, la comunione ecclesiale – lungi dal ridursi ad armonia psico-affettiva (che ne è piuttosto una delle espressioni possibili) – è il radicamento dei battezzati nell’opera trinitaria di raduno della Chiesa: popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito. È prima di tutto l’adesione all’unica fede nella proclamazione della parola di Dio – la Scrittura resa viva nella tradizione – a rappresentare la radice della comunione ecclesiale. Sono i sacramenti, poi, e in special modo l’eucaristia, a rinnovare, nutrire e ricostituire la comunione nella Chiesa (cf. Sacro sanctum concilium e Lumen gentium, n. 11). Sono, infine, i doni dello Spirito ad abilitare i cristiani alla costruzione di una Chiesa che non sia né anarchia né blocco monolitico, ma unità nella diversità; per questo la comunione ecclesiale è hierarchica communio. L’assorbimento della categoria di «comunione» nel semplice «andare d’accordo» e «volersi bene» – molto utili, certo – ha ridotto la ricchezza teologica dell’ecclesiologia comunionale così come era stata elaborata dall’ultimo concilio e ha favorito una prassi cristiana a volte troppo «intimista», rischiando di mettere in sordina l’altra grande dimensione della Chiesa conciliare, la missione appunto. La comunione, quindi, più che il «centro» dell’ecclesiologia è uno dei due fuochi dell’ellisse, poiché condivide con la missione la qualifica di asse portante della Chiesa. Non a caso entrambi i fuochi attorno ai quali ben presto si polarizza l’attenzione del concilio – Ecclesia ad intra ed Ecclesia ad extra – rispondono all’unico grande desiderio di portare Cristo agli uomini del nostro tempo, a partire dall’esperienza del mistero trinitario. Giovanni Paolo II precisò il rapporto tra i due aspetti con felicissima sintesi: La comunione con Gesù, dalla quale deriva la comunione dei cristiani tra loro, è condizione assolutamente indispensabile per portare frutto: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). E la comunione con gli altri è il frutto più bello che i tralci possono dare: essa, infatti, è dono di Cristo e del suo Spirito. Ora la comunione genera comunione, e si configura essenzialmente come comunione missionaria. Gesù, infatti, dice ai suoi discepoli: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,16). La comunione e la missione sono profondamente congiunte tra loro, si compenetrano e si implicano mutuamente, al punto che la comunione rappresenta la sorgente e insieme
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Erio Castellucci il frutto della missione: la comunione è missionaria e la missione è per la comunione (Christifideles laici, n. 32: EV 11/1741s).
La Chiesa conciliare, in definitiva, è mistero di comunione missionaria: ed è compito dell’ecclesiologia ricercare un buon dosaggio fra queste dimensioni. Probabilmente da imputare a un’enfasi eccessiva sulla comunione non sufficientemente integrata con la missione è quella centratura comunitaria, talvolta presente nella prassi cristiana, che rischia di esaurire nell’esperienza del «gruppo» le potenzialità della fede, rasentando l’autoreferenzialità. Un pericolo che la teologia dell’evangelizzazione intende scongiurare, fondando teologicamente lo statuto missionario della comunione ecclesiale, con l’attenzione ai diversi soggetti che costituiscono il popolo di Dio – laici, ministri ordinati, consacrati – nell’ottica di quella sinodalità che papa Francesco ha indicato come «il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio» (Discorso nel 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, 17.10.2015).
Bibliografia Associazione Teologica Italiana, Dossier. Chiesa e sinodalità, Velar, Bergamo 2005. Canobbio G., Chiesa perché? Salvezza dell’umanità e mediazione ecclesiale, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994. Colzani G., La missionarietà della Chiesa. Saggio storico sull’epoca moderna fino al Vaticano II, EDB, Bologna 1975. Dianich S., Chiesa in missione. Per una ecclesiologia dinamica, Paoline, Roma 1985. Dianich S. – Noceti S., Trattato sulla Chiesa (Nuovo corso di teologia sistematica 5), Queriniana, Brescia 2002. Dupuis J., Gesù Cristo incontro alle religioni, Cittadella, Assisi 1989. Forte B., La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, Paoline, Alba 1995. Ladaria L.F., Antropologia teologica, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1986. Ratzinger J., Il nuovo popolo di Dio (BTC 7), Queriniana, Brescia 1971. Scola A., Chi è la Chiesa? Una chiave antropologica e sacramentale per l’ecclesiologia (BTC 130), Queriniana, Brescia 2005. Werbick J., La Chiesa. Un progetto ecclesiologico per lo studio e per la prassi (BTC 103), Queriniana, Brescia 1998.
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La teologia dell’evangelizzazione a Bologna nel quadro della teologia post-conciliare Un bilancio tra continuità e sviluppi Luciano Luppi Premessa La Licenza in Teologia dell’evangelizzazione (LTE) prese avvio a Bo logna 35 anni fa, nell’autunno del 1977, insieme allo Studio Teologico Accademico Bolognese (STAB), che dal 29 marzo 2004 ha lasciato il posto alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER). In realtà il secondo ciclo dello STAB era composto da due specializzazioni, una appunto in Teologia dell’evangelizzazione presso il Pontificio seminario regionale di Bologna, e l’altra in Teologia sistematica (LTS) a indirizzo tomista, presso il convento dei padri domenicani. Le due licenze sono state assunte dalla FTER, che le ha integrate con una terza in Storia della teologia (LST).1 Dal 1997 viene pubblicata con scadenza semestrale la Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione. Questa relazione di apertura del convegno si propone di avviare un bilancio della Teologia dell’evangelizzazione sviluppata in 35 anni di attività accademica. Non potendo prendere in esame tutta l’attività svolta in questi sette lustri, dai corsi accademici, ai convegni ufficiali, alle tesi di licenza e dottorato, agli articoli pubblicati nella Rivista di Teologia
1 Si veda E. Castellucci, «La Licenza in Teologia dell’Evangelizzazione: la teologia nella prospettiva dell’annuncio di Cristo», in RTE 9(2005)17, 11, che ha svolto un primo significa tivo bilancio sull’argomento.
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dell’Evangelizzazione, ai volumi della collana «Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione» (BTE),2 cercheremo di individuare i contributi più significativi, in grado di far emergere le linee principali della ricerca e della riflessione maturate in questi anni. Si tratta dunque di un bilancio che rinuncia in partenza alla pretesa di un inventario esaustivo, anche perché a un tale inventario sfuggirebbe comunque ciò che in ultima analisi è veramente decisivo: la ricaduta dell’attività accademica nel vissuto degli evangelizzatori e nel ripensamento della prassi ecclesiale evangelizzatrice.
1. Il
valore di una scelta coraggiosa e anticipatrice : una L icenza in T eologia dell ’ evangelizzazione (TE)
La nostra riflessione si colloca in un convegno che vuole essere insieme occasione di bilancio e di rilancio per la Teologia dell’evangeliz zazione. In questa prospettiva siamo confermati e incoraggiati dai lavori del recente sinodo sulla nuova evangelizzazione. I padri sinodali, infatti, hanno chiamato esplicitamente in causa la ricerca teologica sull’evan gelizzazione, proponendo che «la nuova evangelizzazione sia conside rata una dimensione integrale della missione di ogni facoltà teologica e che un dipartimento di studi sulla nuova evangelizzazione venga istitui to nelle università cattoliche» (Propositio, n. 30) e lanciano un appello «ai teologi di accettare e rispondere alle sfide intellettuali della Nuova evangelizzazione partecipando alla missione della Chiesa di proclamare a tutti il Vangelo di Cristo» (Propositio, n. 17). A maggior ragione, dunque, la scelta fatta 35 anni fa di qualificare un percorso come «Teologia dell’evangelizzazione» è stata coraggiosa e anticipatrice. Tale scelta è nata nel quadro della decisione dell’episcopato italiano di impostare il cammino pastorale comune negli anni ’70 del secolo scorso nella prospettiva di «evangelizzazione e sacramenti», e ancor più alla luce della grande esortazione pastorale post-sinodale Evangelii nuntiandi
2 Collana di studi monografici del Dipartimento di Teologia dell’evangelizzazione diretta da don Maurizio Marcheselli, che tra il 2005 e il 2012 ha pubblicato presso le Edizioni Deho niane di Bologna i seguenti volumi: E. Manicardi, Gesù, la cristologia, le Scritture. Saggi esegetici e teologici, a cura di M. Marcheselli (2005); M. Marcheselli, «Avete qualcosa da mangiare?». Un pasto, il Risorto, la comunità (2006); G. Benzi, «Ci è stato dato un figlio». Il libro dell’Emmanuele (Is 6,1–9,6): struttura retorica e interpretazione teologica (2007); M. Tagliaferri (a cura di), Il Vaticano II in Emilia-Romagna. Apporti e ricezione (2007); E. Castellucci, Annunciare Cristo alle genti. La missione dei cristiani nell’orizzonte del dialogo tra le religioni (2008); D. Gianotti, I Padri della Chiesa al concilio Vaticano II. La teologia patristica nella «Lumen gentium» (2010); G. Ziviani, Una Chiesa di popolo. La parrocchia nel Vaticano II, prefazione di mons. Franco Giulio Brambilla (2011).
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di Paolo VI (1975). Con questa esortazione pensata nel contesto dell’Anno santo e come attuazione della richiesta dei padri del III Sinodo dei vescovi dedicato all’evangelizzazione, papa Montini voleva ribadire, a dieci anni dalla chiusura del concilio Vaticano II, la finalità profonda del concilio stesso «i cui obiettivi – scriveva Paolo VI – si riassumono, in definitiva, in uno solo: rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annun ziare il vangelo all’umanità del XX secolo».3 In tal modo il Seminario regionale di Bologna, con la sua specializza zione in Teologia dell’evangelizzazione, sarebbe potuto diventare – come scriveva mons. Paolo Rabitti, uno dei principali artefici insieme a mons. Serafino Zardoni della nascita dello STAB, sostenuta fortemente dal card. Antonio Poma – «il punto di riferimento più proprio per il servizio della teologia all’opera di evangelizzazione dell’Emilia-Romagna».4 Si trattava indubbiamente di un’impresa ardua e per la quale non c’erano modelli cui ispirarsi, ma che non intendeva alludere – come scri veva nel 1993 E. Manicardi – «a una teologia con sconti accattivanti o con qualche nascosta semplificazione metodologica. Il riferimento è piut tosto a una teologia che, pur volendo evitare decisamente le tentazioni del formalismo accademico, non è disposta a perdere niente in serietà proprio perché si sa destinata – attraverso l’ascolto e l’interpretazione del vangelo – al servizio dell’uomo».5 Ma c’era anche la consapevolezza che questa scelta di qualificare il proprio ciclo specialistico come Licenza in Teologia dell’evangelizzazione avveniva a metà degli anni ’70 – come scrive sempre Manicardi – «quando alla prima recezione conciliare ne seguiva una seconda, più impegnativa e ponderata, e mentre la società italiana cercava tra grandi fatiche assetti diversi». Questa consapevolezza della decisività e delle sfide poste dall’evangelizzazione era indubbiamente viva nel tessuto
3 «È proprio ciò che Noi vogliamo fare qui, al termine di questo anno santo, nel corso del quale la Chiesa, “protesa con ogni sforzo verso la predicazione del vangelo a tutti gli uomini”, non ha voluto fare altro che compiere il proprio ufficio di messaggera della buona novella di Gesù Cristo, proclamata in virtù di due consegne fondamentali: “Rivestitevi dell’uomo nuovo”, e “Lasciatevi riconciliare con Dio”. Vogliamo farlo in questo decimo anniversario della chiusura del concilio Vaticano II, i cui obiettivi si riassumono, in defi nitiva, in uno solo: rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il vangelo all’umanità del XX secolo. Vogliamo farlo ad un anno dalla terza assemblea gene rale del sinodo dei vescovi – dedicata, come è noto, all’evangelizzazione – tanto più che questo ci è stato richiesto dagli stessi padri sinodali. Infatti, alla fine di quella memorabile assemblea, essi hanno deciso di rimettere al pastore della chiesa universale, con grande fiducia e semplicità, il frutto del loro lavoro, dichiarando che si aspettavano dal papa uno slancio nuovo capace di creare, in una chiesa ancor più radicata nella forza e nella potenza perenni della pentecoste, nuovi tempi d’evangelizzazione» (Paolo VI, esortazione aposto lica Evangelii nuntiandi [EN] [8.12.1975], n. 2: EV 5/1589). 4 P. Rabitti, «Mons. Serafino Zardoni ovverossia “della fedeltà”», in E. Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione. Saggi in onore di Mons. Serafino Zardoni, EDB, Bologna 1993, 23. 5 Si veda E. Manicardi, «Presentazione», in Id. (a cura di), Teologia ed evangelizzazione. Saggi in onore di Mons. Serafino Zardoni, 5.
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ecclesiale bolognese e più in generale emiliano-romagnolo, confron tato con una cultura e una proposta politica antropologicamente forte e militante. Il titolo stesso della specializzazione «portava anche impli cita una sfida: la proposta del vangelo a fronte dell’alternativa, se non della contrapposizione, costituita da non poche proposte immanenti di salvezza».6
2. Significativi i convegni
indicatori di marcia :
Un primo bilancio lo possiamo fare ripercorrendo i convegni. I primi sei Convegni dello STAB – celebrati dal 1982 al 1998 da en trambe le sezioni – attestano una tematizzazione più diretta dell’evange lizzazione nel secondo del 1985 e poi a partire dal quarto: – L’uomo e l’annuncio della Parola di Dio (23-24 ottobre 1985) (II);7 – La coscienza morale e l’evangelizzazione oggi: tra valori obiettivi e tecniche di persuasione (6-7 maggio 1992) (IV); – Approfondimento concettuale della fede e inculturazione (3-4 mag gio 1995) (V); – La teologia nella Chiesa e nel mondo: una doppia appartenenza? (6-7 maggio 1998) (VI). Col 1998 si interruppero i convegni, in seguito all’avvio nel 1999 delle procedure per l’erezione della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, e sono ripresi come espressione del Dipartimento di Teologia dell’evange lizzazione [DTE] nel 2005: – La Teologia dell’evangelizzazione in un mondo che cambia (17 novembre 2005). In questo convegno non solo si è ripreso intenzionalmente il titolo degli orientamenti pastorali CEI per il primo decennio del 2000, ma si è cercato di fare un bilancio di circa trent’anni d’insegnamento e ricerca a Bologna – allo STAB prima e ora alla FTER – dalla nascita, nel 1977, di un biennio specialistico di Licenza in TE. È stata l’occasione per interrogarsi, a partire da quanto maturato in questo arco di tempo, sullo statuto epistemo logico e sui contenuti di una TE, nonché sul soggetto dell’evangelizzazione
6 Ivi, 5. Il volume raccoglie i contributi del «gruppo di docenti che hanno lavorato in questi primi quindici anni di vita dello STAB», riuniti insieme per festeggiare i «quarant’anni di ininterrotto insegnamento di teologia dogmatica al seminario regionale di Bologna» di mons. Serafino Zardoni (ivi, 6). 7 Di questo convegno non furono pubblicati gli Atti, salvo la relazione di Camillo Ruini (allora vescovo ausiliare di Reggio Emilia e Guastalla e docente allo STAB): «Dalla Parola alla cultura», in Vita e Pensiero 70(1987)5, 322-328, e in C. Ruini, Il Vangelo nella nostra storia. Chiesa cultura e società in Italia, Città Nuova, Roma 1989.
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La teologia dell’evangelizzazione a Bologna nel quadro della teologia post-conciliare e sul mutato contesto in cui essa avviene (in un mondo che – appunto – cambia).8
– L’apporto della Chiesa di Bologna al concilio Vaticano II e la recezione del concilio nelle Chiese dell’Emilia-Romagna (13-14 dicembre 2006),9 convegno patrocinato dalla Conferenza episcopale italiana, «rappresenta il primo tentativo in Italia di riflessione su scala regionale della recezione del concilio» («Presentazione», p. 5). I vari contributi consentono di ben individuare sia gli ambiti che sono stati privilegiati, sia le figure – vescovi, presbiteri e laici – che si sono maggiormente distinte nel lavoro di tradu zione delle novità conciliari. Gli esiti di speranze, entusiasmi e delusioni vissuti in quegli anni sono inoltre approdati nelle Chiese di oggi e contri buiscono a definirne l’attuale volto poliedrico. – Il dialogo ecumenico e interreligioso in Emilia-Romagna. Aspetti e prospettive (2 dicembre 2009) (IV Convegno della FTER),10 convegno «finalizzato a offrire non solo un’indagine teologica e sociologica, ma anche un contributo alla pastorale delle nostre comunità ecclesiali» («Presentazione», p. 7). Gli Atti sono corredati di 110 pagine di interviste agli esponenti delle diverse religioni e movimenti, raccolte dal Gruppo di ricerca e informazione socio-religiosa (GRIS) di Bologna. Ripercorrendo anche solo i titoli dei convegni, constatiamo la ricerca di progressivi approfondimenti di ambiti significativi riguardanti l’evan gelizzazione, con una duplice emblematica focalizzazione, quella della riflessione teologica e quella dell’attenzione ai vissuti e alle prassi delle Chiese particolari.
3. Due
primi fondamentali contributi
Fin dall’inizio la riflessione sull’evangelizzazione è polarizzata sul tema della rilevanza storica e culturale della fede. Ricordiamo su questa linea due importanti contributi.
3.1. La
redenzione di C risto operata nella storia della (mons. Serafino Zardoni)
Chiesa
Innanzitutto un’ampia relazione di mons. Serafino Zardoni, dal titolo «La redenzione di Cristo operata nella storia della Chiesa», che porta la
8 Consiglio di redazione, «Editoriale», in RTE 10(2006)19, 10. Gli Atti del convegno sono confluiti nello stesso numero della rivista: ivi, 11-83. 9 Pubblicato col titolo M. Tagliaferri (a cura di), Il Vaticano II in Emilia-Romagna. Apporti e ricezione (BTE 4), EDB, Bologna 2007, 520 pp. Il convegno è stato pensato anche come celebrazione dei dieci anni dalla morte di don Giuseppe Dossetti. 10 Gli Atti sono stati pubblicati in un Supplemento a RTE 14(2010)28, 255 pp.
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data del 1975.11 Si tratta di una riflessione che si muove sulla scia della Traccia di riflessione in preparazione al I Convegno della Chiesa italiana su Evangelizzazione e promozione umana e nel quadro del dibattito sorto al sinodo del 1974 sull’evangelizzazione. Mons. Zardoni ribadisce per prima cosa i capisaldi del vangelo della salvezza (kerygma cristologico, Cristo rivelatore della vita trinitaria e reden tore, la Chiesa custode e mediatrice del vangelo della salvezza) e conclude che «ogni lettura di Cristo e della Chiesa che chiuda messianismo e salvezza entro i confini del mondo e della storia, non potrà essere una lettura cristiana […], perché mancherebbe il “proprium” del cristianesimo». Poi prende in esame il problema riconducendolo alla seguente domanda: «Se la prospet tiva escatologica, propria del cristianesimo, escluda o si contrapponga alla prospettiva incarnazionistica; o come l’una continui nell’altra».12 Qui viene per noi la parte più interessante della relazione di mons. Zardoni, nella quale affronta il problema fede-storia, come orizzonte complessivo del rapporto fede-politica, evangelizzazione-promozione umana. Egli articola la sua posizione attorno a cinque affermazioni fondamentali: 1) la fede ha sempre una dimensione storica e politica, altrimenti rica drebbe «al rango di gnosi»; 2) la fede ha una funzione critica nei confronti della storia; 3) la fede è creatrice della storia, «pur nel limite e nella fragilità intrin seca all’uomo»; 4) la fede salva la storia aprendola verso l’eschaton, perché è «crea trice di un futuro personale e sociale secondo le promesse di Dio»; 5) la fede è mediata dalla storia, cioè «è possibile costruire la storia secondo il progetto di Dio […] solo attraverso le mediazioni culturali e storiche della politica, della sociologia, dell’economia […] mezzi sempre imperfetti, relativi, temporanei […] e quindi sempre riformabili e perfet tibili», superando la presunzione integralista «di applicare alla storia la fede allo stato puro» e l’altra tentazione della «neutralizzazione» della fede e della Chiesa.
11 Relazione tenuta a una «tre giorni» di studio presso il Centro di apostolato ascetico Madonnina del Grappa, Sestri Levante (Genova) nel dicembre 1975, e stampata l’anno seguente in un quaderno dello stesso Centro, intitolato Cristiani per il mondo. Evangelizzazione e promozione umana, e proposta in apertura alla miscellanea Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione. Saggi in onore di Mons. Serafino Zardoni, 27-47. 12 S. Zardoni, «La redenzione di Cristo operata nella storia della chiesa», in Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione. Saggi in onore di Mons. Serafino Zardoni, 37 e 34. Acutamente il prof. Zardoni nota un’incongruenza nella formulazione offerta invece dalla Traccia di riflessione in preparazione al suddetto convegno: «Non esiste contrapposizione tra “uomo di Dio” e “uomo della storia”: che anzi il secondo deriva dal primo. Ma che questo non sia una cosa così facile da comprendere, è provato dal lapsus sfuggito all’esten sore della Traccia, il quale chiede come può l’evangelizzazione “aggiungere” luce e forza all’impegno nel mondo. Al di là delle intenzioni, quell’“aggiungere” significa ancora un dualismo insanabile tra uomo di Dio e uomo della storia, dualismo rappattumabile in qual che modo dall’“esterno”, coll’aggiungere qualcosa all’impegno storico derivato da altri motivi» (ivi, 35).
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La teologia dell’evangelizzazione a Bologna nel quadro della teologia post-conciliare
Mons. Zardoni ci offre dunque delle linee sintetiche e programmatiche esemplari sull’evangelizzazione nella prospettiva della rilevanza storica e culturale della fede. Va rilevata la sua insistenza sulla necessità di far sì che i battezzati diventino «cristiani», cioè si pongano nell’ottica di una «scelta di fede» e di una fede senza amputazioni e pienamente vissuta. Si può lamentare, invece, la mancanza di un confronto più diretto con i vari teologi chiamati in causa, che avrebbe permesso di trarre maggior frutto dall’esa me delle motivazioni e linee progettuali delle diverse posizioni in campo.
3.2. L’uomo e l ’ annuncio della parola di D io (s.ecc. mons. Camillo Ruini) Un secondo rilevante contributo è proposto nel 1985 da un altro docente dello STAB, mons. Camillo Ruini, diventato nel frattempo vescovo. Nel II Convegno STAB-Sezione Seminario regionale, dal titolo L’uomo e l’annuncio della parola di Dio (23-24 ottobre 1985), mons. Ruini tenne un’impor tante e significativa relazione dal titolo «Dalla Parola alla cultura».13 In essa, dopo aver trattato i vari significati del termine «cultura» e aver dedicato un rapido excursus al retroterra storico del rapporto Parola-cultura (limitata mente all’antichità cristiana e alla questione del soprannaturale) e un più ampio spazio all’esame dei documenti del magistero conciliare e post-con ciliare sull’argomento, offriva una piccola mappa dell’attualità teologica: 1) teologia della secolarizzazione (qui rinvia all’opera classica di F. Gogarten del 1953, ma tradotta in italiano nel 1972), che mostra la legit timità cristiana del processo storico che ha condotto all’autonomia delle realtà terrene, e quindi la distinzione/differenza tra fede e cultura, ma lascia aperto e irrisolto l’interrogativo sulla rilevanza attuale della fede, teorizzando come più opportuna e corretta pastoralmente la «diaspora» dei cristiani nel mondo secolarizzato, in convergenza con la teoria di K. Rahner dei «cristiani anonimi»; 2) teologia della speranza e conseguenti teologie politiche e della libe razione: qui rinvia a Moltmann, Metz, Gutiérrez, che, a partire dal 1964, in reazione alla teologia della secolarizzazione, rivendicano il ruolo pubblico della fede e la sua capacità di orientare e guidare il futuro dell’uma nità, sulla base dell’idea della globalità della politica e facendo propria la tesi centrale del marxismo del superamento della società borghese. La teologia della liberazione latino-americana, in particolare, anche per una minore coscienza della necessità di controbilanciare la teologia della secolarizzazione, finisce per spingerla ancora più avanti, riconoscendo il ruolo-guida della società ad altre forze, piuttosto che al cristianesimo; 3) teologia dello specifico cristiano (in cui, pur nella riconosciuta loro diversità, si richiamano i contributi di Balthasar, Ratzinger, Kasper):
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Cf. nota 7.
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iniziata negli anni ’60 del secolo scorso, si è affermata soprattutto attra verso il dibattito teologico del decennio successivo. Tale linea teologica, in reazione alla teologia della secolarizzazione e alla cristologia trascen dentale o antropologica (teoria dei «cristiani anonimi») di K. Rahner, rivendica la valenza universale della fede, per ogni ambito della storia e dell’esistenza, ma ciò a partire dal centro della fede stessa, ossia perché in Cristo, unica salvezza dell’umanità, ci è data una determinata e specifica inter pretazione dell’umano e pertanto un’antropologia determinata nei suoi conte nuti, non ricavabile dalla considerazione, sia pure trascendentale, dell’uomo in quanto tale (è qui la differenza da Rahner). Esiste pertanto lo specifico cristiano, a tutti i livelli […]. Si tratta di una specificazione trascendente, come tale aperta a realizzazioni e incarnazioni sempre diverse, non rigida e integralistica.
Da questa mappatura mons. Ruini fa seguire il suo «tentativo di pene trazione teologica», così riassumibile: «Abbiamo così [nella teologia dello specifico cristiano] un’esplicita e approfondita fondazione teologica e cristologica della visione cristiana del mondo e della “cultura cristiana”, o naturalmente delle “culture cristiane”. Il rifiuto dell’integralismo non deve condurre cioè all’appiattimento secolaristico dei contenuti propri del cristianesimo», che, sembra di capire, secondo Ruini finisce per essere l’esito reale delle due prime linee teologiche, anche di quella politica che reagisce alla teologia della secolarizzazione, perché, pur rivendicando una «rilevanza del cristianesimo per l’uomo, la società e la cultura» e «il ruolo pubblico della fede e la sua capacità di orientare e guidare il futuro dell’umanità», finisce per favorire, «almeno tendenzialmente, una politi cizzazione in chiave marxiana del cristianesimo stesso». Da qui Ruini trae precisi «orientamenti pastorali»: – «coscienza che la “modernità” è irrinunciabile, se intesa come centralità del soggetto e consistenza propria delle realtà terrene»; – «altrettanto irrinunciabile è la presenza nella modernità del cristia nesimo, come presenza effettiva e pratica, trasformatrice, da realizzarsi nell’accettata e voluta centralità del soggetto e autonomia del mondo»; – «quando si è consapevoli di questa duplice necessità, si supera l’alter nativa tra conservazione e progressismo, respingendo sia la visione “cata strofale” della storia moderna sia il rischio di secolarizzazione del cristia nesimo, ossia di un suo assorbimento in qualche altro “umanesimo”»; – «analogamente, a livello metodologico, si evita il falso dilemma tra l’affermazione del ruolo-guida della verità cristiana, per salvare lo stesso umanesimo, e il metodo del “discernimento”: infatti lo sforzo per inter pretare la complessità e “stare dentro” al continuo cambiamento sociale e culturale (che è la sostanza del discernimento) è la condizione perché il cristianesimo possa porsi, o riproporsi, alla guida della storia. Reci procamente, il discernimento autentico è possibile solo sulla base della “coscienza di verità” e della responsabilità verso la verità cristiana». Pur in una sostanziale convergenza col contributo di mons. Zardoni, l’ap porto di mons. Ruini, svolto peraltro alla distanza di un decennio dal primo e quindi dopo l’esortazione post-sinodale Evangelii nuntiandi di Paolo VI e le
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due encicliche Redemptor hominis e Dives in misericordia di Giovanni Paolo II, appare molto più articolato, e soprattutto si mette in dialogo esplicito con le diverse correnti teologiche contemporanee e con il dibattito conseguente. Di fatto entrambi hanno costituito la base di riferimento dell’iniziale attività accademica della specializzazione in TE.
4. Traiettorie
di approfondimento della teologia dell ’ evangelizzazione
4.1. Provocazioni dell’evangelizzazione alla teologia sistematica 14
Un significativo contributo metodologico è offerto nel 1998 dal prof. Erio Castellucci,15 che mostra come la prospettiva dell’evangelizzazione provochi la teologia sistematica – in particolare la cristologia e l’ecclesio logia – a ripensarsi profondamente, in dialogo con il contesto culturale e le provocazioni storiche. Infatti, nella sua rilettura del cammino della TE dal concilio in avanti mette in luce tre periodi fondamentali. 1) Il primo periodo ruota attorno al Vaticano II. Alla luce del concilio si condanna l’ateismo, ma non il mondo moderno, con il quale si apre una stagione di dialogo. Problema ecclesiologico fondamentale di quegli anni è il rapporto gerarchia-laici (vedi sinodo del 1969). Prende avvio una teologia della missione dal fondamento trinitario (Lumen gentium [LG], nn. 2-4: EV 1/285-287; Ad gentes [AG], nn. 2-4: EV 1/1090-1095), ma ancora da sviluppare. 2) Il secondo periodo ruota attorno alla III Assemblea sinodale del 1974 e alla successiva esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi. L’ateismo militante lascia il posto alla secolarizzazione, all’indifferenza religiosa, alla rimozione della domanda su Dio. Problema ecclesiologico fondamentale: scissione tra Cristo e la Chiesa. L’urgenza della missione proclamata dal concilio diventa l’esigenza dell’evangelizzazione, desti
14 Privilegiando il confronto della TE con la teologia sistematica non si vuole per questo negare il ruolo fondativo e l’apporto significativo della sacra Scrittura e della liturgia. Si rimanda per questo, oltre agli studi esegetici specifici, ad alcuni interventi sul nostro argo mento dei biblisti del DTE: E. Manicardi, «La Bibbia nell’evento dell’evangelizzazione», in RTE 2(1998)3, 21-39; G.D. Cova, «Scrittura ed evangelizzazione», in RTE 2(1998)3, 61-71; M. Marcheselli, «Contributi biblici ad una teologia dell’evangelizzazione», in RTE 10(2006)19, 65-75. Per la liturgia si veda il contributo programmatico di E. Lodi, «Liturgia ed evangelizzazione», in RTE 2(1998)3, 95-109, sulla necessità di un’evangelizzazione di carattere simbolico e liturgico, perché connaturale alla stessa struttura storico-dialogica-e sperienziale della rivelazione cristiana. 15 E. Castellucci, «Ecclesiologia, cristologia ed evangelizzazione», in RTE 2(1998)3, 73-94, in particolare 74s.
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nata non più solo ai lontani, ma agli stessi cattolici (ripartire dall’ascolto del vangelo e annuncio di Gesù incarnato, morto e risorto). 3) Il terzo periodo ruota attorno al rapporto con le altre religioni. Si rinvia in particolare alla Redemptoris missio [RM] del 1990 e ai docu menti del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso «Dialogo e missione» (1984) e «Dialogo e annuncio» (1991). La secolarizzazione, passando per il relativismo, sfocia nella post-modernità, dove prevale l’irrazionalismo, l’autogestione del sacro, il collage religioso. Problema cristologico fondamentale: scissione tra Cristo e Dio, tra il Logos (forza divina che ispira ciascuna religione) e Gesù (una delle tante possibili concretizzazioni storiche del Logos). La TE precisa ulteriormente il suo metodo consacrando il binomio dialogo-annuncio, fondato su una cristo logia pasquale-trinitaria.
4.2. «Nuova
evangelizzazione » ossia quale C hiesa per quale vangelo ?
Accanto a questa interessante periodizzazione occorre riconoscere un ruolo centrale al tema della «nuova evangelizzazione». Avendo attraver sato tutto il pontificato di Giovanni Paolo II fino al recente sinodo dell’otto bre 2012, il tema della nuova evangelizzazione è stato oggetto di una costante attenzione, in una feconda interazione con il cammino della Chiesa italiana, sviluppato attorno ai temi di Evangelizzazione e sacramenti; Chiesa, comunione, comunità; Nella storia con la testimonianza della carità; Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia; Educare alla vita buona del Vangelo. Lanciata da Giovanni Paolo II a partire dalla fine degli anni ’70, prima a Cracovia (1979) e poi ad Haiti (1983), la «nuova evangelizzazione» diventa il tema centrale del magistero di Wojtyła.16 Un’evangelizzazione «nuova nel suo ardore, nei suoi metodi, nella sua espressione» (Haiti 1983): la novità riguarda non il contenuto, che resta immutabile, ma l’atteggia mento, lo stile, lo sforzo e la programmazione, arrivando al cuore della cultura da evangelizzare (discorso inaugurale alla IV Conferenza dei vescovi latino-americani del 1992). Distinta dalla cura pastorale e dall’attività missionaria ad gentes (vedi RM 33: EV 12/613-614), la nuova evangelizzazione risponde alla necessità di «rifondare su base missionaria la nostra pastorale nella moderna società industriale» (Discorso alla Conferenza episcopale della Scandinavia, 1° giugno 1989), impegnandosi a «rifare il tessuto cristiano della società» e per questo «rifare il tessuto cristiano delle comunità ecclesiali», cioè formare comunità ecclesiali mature, capaci di una nuova sintesi tra fede e vita (vedi esortazione post-sinodale Christifideles laici del 1989, n. 34: EV 11/1747).
16 M. Fini, «Nuova evangelizzazione 1979-1993. Annunciare il Vangelo nel compimento del moderno», in Il Regno-att (1993)2, 44-55.
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Il prof. Fini rileva acutamente come per papa Giovanni Paolo II siano due gli ambiti privilegiati della nuova evangelizzazione: la sfida al cristia nesimo posta in Europa dalla modernità, caratterizzata da centralità del soggetto, esaltazione della libertà individuale e secolarismo, e la sfida posta dall’America Latina, di come dire che Dio è Padre per le persone cui è tolta ogni dignità. L’emergere di questi due contesti essenziali – dell’Europa e dell’Ame rica Latina – rimette al centro la questione del modello di Chiesa che evangelizza. Una Chiesa che da una parte deve continuamente autoevangelizzarsi e quindi rinnovarsi, dall’altra essere presente in ogni ambito umano, portatrice non solo del vangelo, ma di un’antropologia che evangelicamente ispirata sia capace di entrare nei nuovi «areopaghi», con un «progetto culturale» capace di attuare una nuova «implantatio evangelica» per «rifare il tessuto cristiano della società». Leggendo l’appello alla nuova evangelizzazione come una provoca zione a ripensare il soggetto stesso che evangelizza, il prof. Fini ritiene necessario integrare il modello di Chiesa mistero-comunione-missione, proposto a partire dal sinodo straordinario del 1985 e poi nelle esortazioni post-sinodali dal 1988 al 1994, con il modello conciliare di Chiesa popolo di Dio, valutandolo più idoneo a esprimere la Chiesa come soggetto storico concreto, che nasce dall’annuncio del vangelo e ha come compito centrale l’evangelizzazione.17 Solo così la Chiesa può ritrovare la decisività delle Chiese particolari immerse nella storia degli uomini, superare la falsa alternativa tra «Chiesa di popolo» e «Chiesa comunità», visto che il popolo di Dio indica una forma comunitaria, ma non elitaria, ed evitare di rimanere concentrati sui problemi interni della Chiesa, come è avvenuto nel post-concilio, per una vera atten zione missionaria alla storia.18
Ridiventa centrale una verifica della prassi storica delle comunità cristiane e dei singoli battezzati, tenendo sempre presenti entrambi i contesti dell’Occidente secolarizzato e dei poveri dell’America Latina. L’esortazione Evangelii nuntiandi, in effetti, rimandava a Gesù Cristo e al suo messianismo, ma senza svilupparne la prassi storica. Il prof. Fini segnala la necessità di recuperare la prospettiva conciliare di «popolo messianico» (LG 9) e di riprendere in maniera organica e programma tica per la prassi ecclesiale quei temi che già nel 1975 Paolo VI richia mava: evangelizzazione dei poveri, condivisione, segni del Regno… (EN 6-12.27.34).
17 Si veda in particolare la relazione di M. Fini, «Chiesa che evangelizza: modelli eccle siologici e pastorali», al Convegno FTER del 17 novembre 2005, riportata in RTE 10(2006)19, 11-25. A questo proposito è interessante notare che nello schema che raccoglie le tematiche dei corsi di specializzazione in Teologia dell’evangelizzazione si passa da «Parola e Spirito e Chiesa» (1998) all’attenzione alla «Chiesa che evangelizza: modelli ecclesiologici e pasto rali» (2005). 18 Fini, «Chiesa che evangelizza», 11-25.
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In ultima analisi «l’evangelizzazione – scrive il prof. Fini rinviando a un acuto testo sintetico di G. Colombo – è l’essere stesso della Chiesa», in quanto «si presenta come la porzione dell’umanità storica che vive l’esi stenza umana come l’ha vissuta Gesù Cristo ed è destinata a proporre a tutti gli uomini di vivere come ha vissuto Gesù».19 Sempre focalizzando il tema del modello di Chiesa come popolo di Dio dentro la storia degli uomini, si invita a prendere atto che la Chiesa potrà evangelizzare e realizzare la sua missione solo se si attua come un «soggetto cattolico», che sa valorizzare tutti i doni, in particolare quelli dei fedeli laici, e attuare una vera inculturazione. È infatti evidente che senza un laicato cattolico adulto non si può realizzare un’autentica evangelizzazione della cultura, una presenza nei luoghi dove viene «prodotta» la cultura come l’Università e i mass-media. Come senza lasciarsi interrogare dai diversi contesti religiosi e culturali la proposta della fede rischia di rimanere culturalmente irrilevante.
4.3. La prospettiva pasquale-trinitaria decisiva per un ripensamento fecondo dell’evangelizzazione
La visione trinitaria della Chiesa e della sua missione avviata al conci lio Vaticano II (LG 2-4; AG 2-4) viene significativamente sviluppata da Giovanni Paolo II in Redemptoris missio (nn. 55-57). Ne consegue per la TE un ulteriore allargamento del suo orizzonte, poiché il dialogo interreligioso viene considerato come parte integrante della missione evangelizzatrice della Chiesa, e ne deriva anche un appro fondimento del suo metodo con l’assunzione del binomio dialogo-annuncio. Il fondamento è posto in una cristologia pasquale-trinitaria: senza l’apertura al dialogo si negherebbe la prospettiva pneumatologico-trini taria che vede lo Spirito agire al di là dei confini visibili della Chiesa, senza l’annuncio evangelico verrebbe taciuta la peculiarità del mistero pasquale e l’irriducibilità dell’evento cristiano.20 Il prof. Castellucci mette in luce come la missione, fulcro dell’eccle siologia conciliare, postuli il recupero di tutti i «soggetti» ecclesiali: la Trinità e il popolo di Dio, rispettivamente soggetto misterico e soggetto storico della Chiesa. Inoltre rileva come il ripensamento in chiave pasquale-trinitaria dell’ecclesiologia sia indispensabile per la TE, perché solo «un’eccle siologia che prende avvio dalla risurrezione – e quindi da una cristo logia integrale – si mette in grado di affrontare le grandi sfide attuali dell’evangelizzazione»: «La Chiesa vive incarnata nelle vicende storiche,
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Ivi, 20. Castellucci, «Ecclesiologia, cristologia ed evangelizzazione», 75.
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le purifica e si lascia purificare attraverso la logica della croce e opera con l’energia della risurrezione».21 In concreto il prof. Castellucci mostra come i tre misteri cristologici [incarnazione, croce e risurrezione], in una ecclesio logia che prende avvio dalla risurrezione, diventano criteri della missione ecclesiale e in particolare degli aspetti connessi all’evangelizzazione. Negli immensi campi della teologia della missione e del dialogo-annuncio interculturale (inculturazione) e interreligioso, i misteri cristologici sottolineano come il Vangelo si innesti nelle culture e nelle religioni, ne purifichi i tratti e ne mostri il compimento in Cristo: se mantenuti in equilibrio, i tre misteri tradotti nell’ecclesiologia offrono le indicazioni essenziali per una evangelizzazione che non trascuri né la valorizzazione dei germi di verità e di salvezza presenti dovunque, né la loro purificazione alla luce di Cristo, e si impegni a mostrare che ogni elemento «umano», assunto in Cristo, anziché uscirne mortificato ne esce valorizzato. L’avvio dalla risurrezione di Gesù, poi, apre la strada a una considerazione della presenza e azione dello Spirito nelle diverse culture e religioni più ampia di quanto finora sia stata svolta.22
Proprio focalizzando la dimensione pneumatologica dell’evangelizza zione, nella linea di un approfondimento della prospettiva trinitaria, il prof. Maraldi riflette sul tema tradizionale del duplice fronte dell’azione dello Spirito, l’evangelizzatore e il destinatario, invitando a superare una visione puramente funzionale del rapporto tra i due dinamismi, alla luce di Gesù Cristo, «primo e più grande evangelizzatore» (EN 7).23 In Gesù «condotto dallo Spirito» (EN 75) l’annuncio evangelico passa dalla funzione all’incontro personale, in cui egli comunica se stesso, e tale annuncio si compie nella libertà dell’agape e nella kenosi. Egli cioè comunica e rivela se stesso come libero nell’amore del Padre, da cui tutto si riceve e a cui tutto si dona, e cerca e promuove una risposta libera nell’amore. Tale dono di sé si compie in forma kenotica, cioè come radi cale uscita da sé nell’amore, che apre non tanto a uno scambio di capa cità/doni, ma alla comunione, perché si realizzi come unità nella diversità. Da qui il prof. Maraldi trae alcune conseguenze per l’opera eccle siale dell’evangelizzazione nella linea della compenetrazione tra i due
21 Ivi, 93s. «Ignorare la risurrezione di Gesù (come avviene nelle ecclesiologie che si rifanno al solo Gesù uomo) o sottovalutarla (come succede nelle ecclesiologie cristomoni ste) oppure, al contrario, eguagliarla all’opera delle altre due persone della Trinità in una concezione allegorista (come in certe ecclesiologie post-conciliari), significa costruire l’ec clesiologia su una cristologia parziale e insufficiente: una cristologia integrale, che prenda avvio dalla risurrezione di Gesù, è invece capace di ispirare un’ecclesiologia che assume le istanze più urgenti della teologia dell’evangelizzazione» (ivi, 91s). 22 Ivi, 93. 23 V. Maraldi, «Lo Spirito protagonista dell’evangelizzazione», in RTE 2(1998)3, 5-20. Significativi contributi sono stati offerti a un costruttivo e illuminato dialogo interreligioso e interculturale dal prof. D. Righi, soprattutto in riferimento all’islam, dal prof. Brunetto Salva rani e, con particolare riferimento alla situazione e alle sfide presenti nella regione Emilia-Ro magna, nel già citato IV Convegno FTER Il dialogo ecumenico e interreligioso in Emilia-Romagna. Aspetti e prospettive (2 dicembre 2009): supplemento a RTE 14(2010)28, 255 pp.
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dinamismi: l’evangelizzazione docile allo Spirito Santo nel suo dinami smo cristologico agapico-kenotico apre l’evangelizzatore all’accoglienza dell’interlocutore, in un contesto di libertà. Ne deriva una relativizza zione delle tecniche di evangelizzazione (cf. EN 75) e la considerazione dello Spirito Santo come fine e termine dell’evangelizzazione, in quanto protagonista del costituirsi della comunione ecclesiale come unità nella diversità. Inoltre, la luce del vangelo, dal cuore del destinatario che l’ac coglie, si proietta sulla realtà, su tutto il vissuto del destinatario in una vera inculturazione. Vediamo così colmata quella carenza che era stata rilevata a proposito della EN: Il forte richiamo all’azione dello Spirito Santo è posto solo nel capitolo conclusivo dove vien presentata la spiritualità dell’evangelizzatore (n. 75) e il riferimento al Padre è «stemperato» in vari cenni, ove si ricorda la sua bontà (n. 15.28). Questo insufficiente riferimento alla Trinità ha delle conseguenze sulla teologia dell’evangelizzazione, perché non aiuta a cogliere il disegno di Dio Padre che è di raccogliere la «Chiesa da Abele all’ultimo dei giusti» (cf. LG 2/285), di cui la Chiesa visibile dei discepoli di Gesù è solo sacramento, non invita a riconoscere l’azione dello Spirito anche al di fuori dei confini visi bile [sic!] della Chiesa che ci precede ove noi non pensiamo di trovarlo, e non ci impegna quindi a fare una lettura teologica della storia, cioè, come diceva il Concilio a leggere «i veri segni della presenza di Dio» (GS 11/1352).24
4.4. La provocazione del panorama culturale contemporaneo alla TE
La prospettiva aperta da questi sviluppi cristologico-trinitari fonda teologicamente quell’attenzione della TE al contesto culturale che ha caratterizzato dall’inizio la ricerca bolognese. Il panorama filosofico e culturale ha conosciuto in questi decenni significativi cambiamenti, in particolare il passaggio dal pensiero forte di un messianismo sociopolitico a quello debole contemporaneo, con venature nichiliste e relativi ste, ma ha conosciuto anche l’emergere di forme di neo-ateismo militante come di interessanti proposte di neo-metafisica. Un panorama dunque decisamente multiforme e in movimento, indagato con approcci sia siste matici che storico-culturali.25 Significativo è anche il passaggio nei corsi alla licenza e negli arti coli della rivista da temi più legati alle «emergenze» storiche (creazione ed evoluzione, bioetica, famiglia, economia/mercato, emergenza finan ziaria…) a temi più volutamente trasversali in chiave storico-culturale
24 M. Fini, «Il magistero papale postconciliare sull’evangelizzazione e la sua “recezione” nella Chiesa», in RTE 2(1998)3, 48. 25 Pensiamo ai corsi e agli studi dei proff. G. Sgubbi, F. Appi, P. Boschini, M. Cassani, F. Facchini, V. Maraldi, D. Moretto, M. Nardello, G. Guerzoni, M. Prodi.
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(paura e violenza, fragilità, affettività, mass-media…), pur nella continua rivisitazione di tematiche di fondo (laicità, opzione fondamentale, modelli etici, legge naturale, diritti umani…). Sicuramente ha influito la riflessione sviluppata dal Consiglio delle Conferenze episcopali europee (CCEE) del 1992 in vista del sinodo speciale per l’Europa, con i simposi precedenti su problematiche speci fiche come il nascere e il morire, che invitava a rilevare i cambiamenti sociali come nuove sfide per l’evangelizzazione e a coglierne le cause, non limitandosi a una lettura in chiave filosofico-teologica, ma valoriz zando le analisi più complesse delle scienze sociali. Tutto ciò nella volontà di contribuire a un approfondimento delle sfide antropologiche in un dialogo più attento e costruttivamente realistico tra cultura contemporanea e visione personalistica cristiana. La TE sente la responsabilità di far crescere nella Chiesa la consape volezza che l’annuncio del vangelo è non solo per l’uomo, ma annuncio in Cristo della «verità sull’uomo», per cui deve sostenere i diritti dell’uomo, in particolare alla vita e alla libertà religiosa, ed entrare nel dibattito pubblico sulle grandi questioni etiche. Ma avverte anche il bisogno di far maturare nella Chiesa, in virtù della verità profonda della dinamica dell’evangelizzazione, e non solo perché deve operare «in una società che ha come punto qualificante il pluralismo religioso», la consapevolezza che se «la via della Chiesa è sempre l’uomo», «la strada dell’evangelizzazione è la testimonianza e il dialogo».26
4.5. La provocazione dei vissuti spirituali e pastorali alla
TE
La TE ha avvertito la necessità di riflettere sui modelli ecclesiologici – soprattutto il rapporto Chiesa-mondo-regno di Dio – ma anche sui conseguenti modelli di evangelizzazione nel mutamento dei contesti fino a quello della cosiddetta post-modernità, modelli fatti oggetto di corsi27 ma anche di studi e ricerche storiche significative.28
26 Cf. Fini, «Nuova evangelizzazione 1979-1993. Annunciare il Vangelo nel compimento del moderno», 54-55. È stato notato, infatti, come la stessa Dichiarazione finale dell’Assemblea speciale per l’Europa (1991), trattando delle «radici cristiane» dell’Europa, chiarisca che la nuova evangelizzazione non è un progetto di restaurazione del passato, ma un’esi genza della riscoperta di come la fede cristiana appartenga in modo decisivo al fondamento permanente e radicale del vecchio Continente e di come lo Spirito Santo renda sempre attuale l’inesauribile tesoro della rivelazione (ivi, 44). 27 Si veda prof. M. Fini: «L’evangelizzazione nella post-modernità: “nodi” teologici e pastorali, in particolare nel dibattito sul “primo annuncio”» (anno 2009/2010); prof. M. Tagliaferri, «L’evangelizzazione nel cammino della Chiesa italiana dopo il concilio: rifles sioni teologiche e prospettive pastorali» (anno 2010/2011); prof. B. Salvarani, «Da “perfidi Giudei” a “fratelli maggiori”. Il dialogo cristiano-ebraico: storia, questioni aperte, prospet tive» (anno 2010/2011); prof. L. Luppi, «Liturgia, mistagogia, spiritualità» (anno 2010/2011). 28 Fra tutte, a titolo esemplificativo, ricordiamo M. Tagliaferri, «Opere di storia dell’e vangelizzazione», in RTE 2(1998)3, 175-189; F. Mandreoli, «Note di riflessione contestuale
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Di fronte alla scelta tra «Chiesa di popolo» o «comunità alternativa» si è ribadita la necessità di mettere le basi per la formazione di una comu nità fatta di cristiani maturi e quindi realmente evangelizzante. Questa esigenza di rinnovamento ha provocato uno sforzo di individuazione di alcune priorità alla luce anche dei documenti dell’episcopato italiano sull’iniziazione cristiana: ridare la precedenza alla parola di Dio per formare una mentalità di fede, contro ogni riduzione etica o politica del vangelo. Avviare cammini catecumenali o di iniziazione cristiana degli adulti: cristiani non si nasce, si diventa. Promuovere la concentrazione cristologica dell’annuncio e la sua dimensione storico-narrativa. Testimo niare il volto di una Chiesa madre, Chiesa di popolo ed evangelizzante, mettendo al centro l’uomo con la sua libertà e il vangelo nella sua radica lità. Evangelizzare la stessa rinascente domanda del sacro, mostrando la specificità pasquale ed escatologica della salvezza cristiana e la singola rità di Cristo rispetto alle nuove religioni.29 Questo significa che la formazione cristiana è un cammino nella Chiesa e da essa accompagnato, che comporta evangelizzazione, iniziazione, mistago gia, catechesi. La «Chiesa di popolo» può così divenire comunità cristiana di uomini e di donne evangelizzate che sanno coniugare fede e vita, che mettono al servizio del Vangelo i vari doni che lo Spirito suscita, che da cristiani fanno le loro scelte etiche, sociali e politiche.30
La pratica concreta di questi percorsi e la testimonianza di cammini personali e comunitari che incarnano la vita buona del vangelo sono anch’essi un riferimento privilegiato per la TE, come attesta il lavoro teologico di questi anni: dallo studio della recezione del concilio nelle diverse Chiese della regione31 a quello di figure spirituali che hanno segnato la storia e i vissuti ecclesiali del nostro tempo, e in particolare delle nostre terre emiliano-romagnole.32
sulla teologia del diaconato», in RTE 12(2008)23, 9-41; Id., «Un “laboratorio” di Chiesa: istanze teologiche dei primi progetti di riforma postconciliare a Bologna», in RTE 15(2011)30, 439-468. 29 Cf. Fini, «Nuova evangelizzazione 1979-1993. Annunciare il Vangelo nel compimento del moderno», 53s. Si veda anche Id., «Il magistero papale postconciliare sull’evangelizza zione e la sua “recezione” nella Chiesa», 53. 30 Ivi, 54. Fedele a questa interazione tra modello di Chiesa e prassi di evangelizzazione e formazione, il Dipartimento di TE ha promosso percorsi specifici che hanno nel tempo preso forme diverse, dall’Aggiornamento teologico presbiteri (ATP), al Laboratorio di spiri tualità (in dialogo in particolare con le scienze umane psico-pedagogiche), ai Confronti di Teologia dell’evangelizzazione fino al giovedì delle Ceneri in preparazione all’annuncio pasquale oggi. 31 Tagliaferri (a cura di), Il Vaticano II in Emilia-Romagna. Apporti e ricezione. 32 Si pensi ai profili di figure come don Giuseppe Dossetti, Madeleine Delbrêl, Mamma Nina, don Vincenzo Saltini, don Mario Prandi, don Oreste Benzi, don Gianfranco Fregni, don Paolo Serra Zanetti, Benedetta Bianchi Porro, padre Marella, Alberto Marvelli.
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5. Note
per una riflessione sullo statuto epistemologico della TE 33
La specializzazione in TE a Bologna in questi 35 anni, anche se all’ini zio poteva sembrare un contenitore riempito a piacere dai corsi più vari, si è rivelata invece una specifica e significativa proposta accademica, benché ancora bisognosa di maturazione. Più che preoccuparsi di prendere posizione tra un’interpretazione più ristretta del termine «evangelizzazione» (il kerygma) e una più larga (tutta la vita della Chiesa), la TE sviluppata a Bologna si è preoccupata di far crescere nella teologia e nella coscienza ecclesiale la presa d’atto della centralità della prospettiva evangelizzante e missionaria offerta dal concilio Vaticano II, rimanendo fedele senza tentennamenti allo stile conciliare di attenzione cordiale alla storia nella prospettiva del discer nimento e dell’inculturazione, riconoscendovi il compito primario delle Chiese particolari. La «scuola bolognese» di TE ha contribuito a far prendere coscienza dell’importanza del kerygma, ma anche di come questo stesso primo annuncio non sia possibile senza la testimonianza complessiva della Chiesa. Quale volto di Chiesa può evangelizzare? Il primo annuncio è possibile solo laddove la vita complessiva della Chiesa, a tutti i livelli (teologico, liturgico, catechistico, caritativo, comunicativo), non spegne il vangelo, anzi lo attesta in maniera fedele e creativa. Nella nostra relazione abbiamo tentato di documentare come lungo questi anni la riflessione teologica si sia lasciata provocare dai cambia menti presenti nel contesto culturale, e di conseguenza dai mutamenti nell’identità e nelle problematiche degli interlocutori.
33 Queste conclusioni riprendono e cercano in parte di sviluppare le provocazioni e rifles sioni programmatiche del prof. P. Boschini, «Tra vangelo e culture: la teologia dell’evan gelizzazione come scienza della fede annunciata», in RTE 10(2006)19, 47-64. In sintesi, il prof. Boschini presenta la TE come riflessione sulla fede nell’atto di annunciarsi, sui suoi contenuti e sui soggetti coinvolti, e quindi con un inconfondibile carattere relazionale. A partire da ciò, ritiene che la TE sia un sapere aperto e in relazione con gli altri saperi teolo gici, scienze bibliche e delle origini cristiane, cristologia e soteriologia, che convergono in una riflessione sulla presenza e l’azione dello Spirito Santo nell’atto ecclesiale dell’evange lizzazione. La TE, a differenza della teologia kerygmatica, supera la distinzione tra autore, destinatario e contesto dell’evangelizzazione, e si muove nella consapevolezza che la verità abbia uno statuto di consensualità e sia il frutto di una ricerca convergente, condotta da soggetti differenti, e perciò si possa serenamente mettere in relazione con l’odierno plurali smo culturale e con i saperi sociali e comunicativi che lo interpretano e lo rielaborano, pur con un rapporto decisivo con la filosofia, «crocevia antropologico». Il prof. Boschini arriva quindi a pensare la TE come una teologia pratica fondamentale, «organica e indispensabile alla prassi annunciante della Chiesa».
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Importanti interventi magisteriali hanno accompagnato questa evolu zione e aiutato a focalizzare i problemi e a individuarne le sfide per la missione della Chiesa. Abbiamo visto come tutto ciò abbia definitivamente mostrato l’inade guatezza di una TE pensata astrattamente come trattazione distinta di evangelizzatore, contenuti e destinatari, appaltati di volta in volta alle varie discipline teologiche, filosofiche e storico-sociali. Tutto ciò perché si è fatto sempre più chiaro che il destinatario si pone in realtà come un vero interlocutore e non puramente passivo, che l’opera evangelizzatrice si dà nella modalità della testimonianza, cioè «gestis verbisque» (cf. Dei Verbum, n. 2: EV 1/873) secondo la logica della rivelazione biblica, e che il contesto culturale e le condizioni sociali in cui si instaura la relazione evangelizzante riguardano sia il testimone che l’interlocutore interpel landoli entrambi. Si è fatto cioè sempre più evidente che l’evangelizzazione – pur nella sua specificità – non solo fa tutt’uno con il vissuto personale e comunitario credente, ma va considerata come un agire comunicativo, come un tutto inseparabile di teoria e prassi, come una relazione ecclesiale in atto in cui Dio entra in comunione con l’uomo. Di conseguenza la TE si pone a servizio di questo evento/relazione in quanto ne studia teologicamente le forme storiche, mettendo il frutto delle sue ricerche non primariamente a servizio dell’azione pastorale ma innanzitutto in dialogo con tutta la teologia. Si tratta di riconoscere l’esigenza di attuare quella circolarità che l’evento/relazione evangelizzatrice esige tra forme storiche di Chiesa, prassi ecclesiali di evangelizzazione e riflessione sistematica. Le forme e prassi ecclesiali di testimonianza, come abbiamo visto, sono provocate dai cambiamenti a ripensarsi, spingendo a una rivisita zione creativa degli stessi nuclei fondamentali della fede. A loro volta le discipline teologiche sono sollecitate a proporsi con una maggiore consa pevolezza della responsabilità che esercitano nel costituirsi dei modelli nella storia e a familiarizzarsi con le provocazioni che da essi derivano. Abbiamo visto, infatti, seppure rapidamente, come le istanze poste all’evangelizzazione dai mutamenti in atto e dalle sfide culturali abbiano provocato una maggiore esplorazione delle sacre Scritture, in quanto testimonianza originaria, normativa e creativa dell’autocomunicazione di Dio nella storia, nonché della cristologia in chiave pasquale e trinitaria, mostrandone l’originalità e le potenzialità in ordine al ripensamento delle stesse modalità della comunicazione della fede. L’attenzione all’umano in tutte le sue sfaccettature – il nascere, il morire, l’istanza lavorativa, l’esperienza degli affetti, la fragilità, la convi venza civile in un contesto democratico, l’immigrazione, la globalizza zione… – domanda alla TE di mantenere tutta la teologia in dialogo con gli apporti delle scienze umane, storiche, sociali, psico-pedagogiche e comunicative, riconosciuti come fattori imprescindibili e provocazioni provvidenziali alla missione della Chiesa, proprio in quanto destinata alla salvezza di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.
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D’altra parte si è fatto sempre più evidente che la «promozione umana», che fin dagli anni del primo post-concilio ha interrogato la Chiesa e la sua opera evangelizzatrice, non si aggiunge come dato giustapposto all’azio ne ecclesiale, ma sta al cuore della missione stessa, in quanto questa si configura come la testimonianza della vita bella e buona che il Figlio di Dio fatto uomo ha vissuto e comunicato agli uomini nel dono dello Spirito, come l’inaugurazione di una storia nuova liberata e liberante. La TE quindi, all’interno delle discipline teologiche, esprime l’esi genza della teologia di valorizzare il vissuto originario e sorgivo delle Scritture in ordine all’evangelizzazione, in costante dialogo con le forme della sua recezione storica nei linguaggi della teologia, della predica zione, della celebrazione liturgica e della concreta prassi ecclesiale, ma anche in dialogo con le provocazioni e le sfide culturali, con un’atten zione privilegiata alle risposte creative che lo Spirito suscita oggi, cioè alle esperienze di evangelizzazione e comunicazione della fede in atto. Riprendendo e parafrasando come il prof. Boschini le note espressioni fides qua e fides quae, possiamo dire che la TE esprime l’impegno della teologia a studiare non solo la fides quae nuntiatur (discipline bibliche e sistematiche) e la fides qua nuntiatur (discipline storiche e pastorali), ma quell’evento della comunicazione della fede che si dà nella circola rità tra fides quae nuntiatur e fides qua nuntiatur, caratterizzandosi come una teologia fondamentale pratica che potremmo chiamare teologia della testimonianza cristiana, di cui individua e studia i nodi teologici fonda mentali ed emergenti in dialogo con le diverse aree disciplinari.34 È all’interno di questa circolarità che si può mettere in atto un processo davvero teologicamente creativo, in cui sfide culturali e forme di Chiesa sono pensate a partire dalle Scritture e dal nucleo fondante della fede nel giusto orizzonte di reciproca interazione, e la testimonianza concreta della Chiesa viene ripensata criticamente e creativamente per risultare evangelicamente decisiva.35 Per concludere, mi sembra significativo di questo metodo della TE un episodio del recente sinodo su La nuova evangelizzazione. Mons. Claude Dagens, arcivescovo di Angoulême (Francia), il 9 otto bre 2012, in occasione della III Congregazione generale del sinodo, nel
34 Non quindi – per riprendere le osservazioni del prof. Boschini – come un’ennesima forma di «teologie del genitivo», perché studiando le forme viventi della fede cristiana e della sua comunicazione non si limita a un contesto particolare caricato previamente di un valore ideologico, e si pone di fronte alla multiforme e contraddittoria realtà storica della fede vissuta e annunciata valorizzando il dogma in chiave più comprendente e orientativa che immediatamente critica (cf. Boschini, «Tra vangelo e culture», 51s). 35 La TE è quindi «organica e indispensabile alla prassi annunciante della Chiesa», perché sviscera il contenuto universale e quindi comunicabile di questa relazione salvifica e ne critica la prassi, ovvero corregge e rigorizza «le storture e le contraddizioni inevitabili che ogni agire umano porta con sé». «La sua scientificità si vede dalla capacità di ispirare cambiamenti dall’interno nella prassi annunciante delle comunità cristiane» oltre che nel risvegliare «le coscienze dal torpore dogmatico dell’etsi Christus non daretur» (cf. Boschini, «Tra vangelo e culture», 60-64).
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suo breve intervento ha additato ai padri sinodali l’esempio di Made leine Delbrêl (1904-1964), «una francese che ha fatto suo l’impegno della nuova evangelizzazione», invitando a lasciarsi interrogare da alcuni tratti caratteristici del suo stile di evangelizzazione: discernimento, purifica zione della propria fede cominciando col parlare a Dio degli uomini che incontriamo, senza preoccupazioni presenzialiste, ma di essere Cristo per il mondo.36 La TE, come teologia della fede annunciata ossia teologia della testi monianza cristiana, si lascia dunque interpellare dalle forme di Chiesa e di testimonianza che lo Spirito suscita, e che si mostrano in grado di risvegliare l’apertura all’annuncio e di ispirare cambiamenti nella prassi annunciante della Chiesa. È il luogo privilegiato di verifica della profonda e feconda circolarità tra fides quae nuntiatur e fides qua nuntiatur. In una figura come Madeleine Delbrêl, infatti, cogliamo che l’evange lizzazione nasce dalla forza della Parola, come lei stessa afferma, e che chi la accoglie appartiene a coloro che quella Parola la aspettano: Una volta conosciuta la Parola di Dio, non abbiamo il diritto di non accoglierla; una volta che l’abbiamo accolta, non abbiamo il diritto di impedirle di incarnarsi in noi; una volta che si è incarnata in noi, non abbiamo il diritto di conservarla per noi: da quel momento apparteniamo a coloro che la aspettano. Questa incarnazione della Parola di Dio in noi, questa docilità a lasciarci da essa modellare, è ciò che chiamiamo testimonianza.
Nella Delbrêl, che ha vissuto come «terra della propria conversione» il contatto con ambienti di ateismo militante e di passione per la giustizia
36 «Questo Sinodo è un’occasione propizia per rispondere alla domanda decisiva di Gesù ai suoi discepoli: “Che cercate?”. Noi cerchiamo di essere più numerosi, di riunire più fedeli per l’Eucaristia, di manifestare con più forza la presenza dei cattolici nelle nostre società secolarizzate. Tuttavia, non ci accontentiamo di queste prospettive quantitative. Siamo chiamati a un lavoro interiore di rinnovamento della nostra vita cristiana, che comporta tre esigenze. Prima esigenza: un atto di discernimento sui tempi che stiamo vivendo. Sono tempi faticosi per la missione cristiana a causa degli effetti della secolarizzazione. Ma, in mezzo alle fatiche, si manifestano anche aspettative spirituali, che riguardano questioni di vita e di morte. Sta a noi rispondervi. Seconda esigenza: un impegno a progredire nella conoscenza del Dio vivente purificando la nostra fede da ciò che l’appesantisce e osando parlare a Dio di coloro che incontriamo, prima di parlare loro di Dio. Terza esigenza: capire che il fine della Chiesa non è la Chiesa, ma l’incontro degli uomini con il Dio vivente. Perciò, non si tratta tanto di essere presenti nel mondo, bensì di essere Cristo per il mondo. Queste tre esigenze sono state approfondite e praticate da Madeleine Delbrêl, una francese che ha fatto suo l’impegno della nuova evangelizzazione». Si veda il bollettino del 9.10.2012: http://www.vatican.va/news_services/press/sinodo/documents/bollettino_25_xiii-ordina ria-2012/01_italiano/b07_01.html o anche l’intervista più ampia in francese: http://angou leme.catholique.fr/En-direct-du-synode-Madeleine.html
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sociale, emerge con chiarezza che l’evangelizzazione scaturisce da una vita credente vissuta con la massima prossimità verso tutti, «convinta che è nelle relazioni normali con il nostro prossimo, chiunque egli sia, che noi troviamo le circostanze normali di consolidarci e di svilupparci nella fede». Sicché per lei è ben chiaro che l’opera dell’evangelizzazione non si innesta su un movimento a senso unico, al punto da gridare: «Guai a me se non evangelizzo, ma anche guai a me se evangelizzare non mi evan gelizza», perché la Parola creduta e annunciata è una spada che ferisce chi la maneggia: la Chiesa evangelizza solo se si lascia evangelizzare. La Parola tocca e com-muove l’altro, ma perché prima, e mentre è donata, tocca e com-muove chi la comunica.37
37 Per un approfondimento si veda P. Sequeri, «Forza del Vangelo e missione in Made leine Delbrêl a cento anni dalla nascita», in RTE 8(2004)16, 437-445; L. Luppi, «Madeleine Delbrêl (1904-1964), guida al discernimento come “obbedienza creativa” nei deserti contemporanei», in RTE 11(2007)21, 141-174; Id., «Chiesa e missione. La testimonianza di Madeleine Delbrêl nel “venerdì santo” della Mission de France (1952-1954), parte I», in RTE 17(2013)33, 127-154; Id., «Chiesa e missione. La testimonianza di Madeleine Delbrêl nel “venerdì santo” della Mission de France (1952-1954), parte II», in RTE 17(2013)34, 433-462.
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Parte seconda Area biblica
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La Bibbia nell’evento dell’evangelizzazione
Ermenegildo Manicardi
L’importanza e l’incidenza delle sacre Scritture nell’evangelizzazione è evidente a chiunque consideri, anche solo per un momento, le migliori produzioni delle culture cristiane. Prendendo a campione esemplificativo l’ambito delle arti figurative – si immagini per esempio di sfogliare un catalogo di pittura italiana del rinascimento – è facile osservare che molto di ciò che nasce in una cultura, anche evangelizzata in misura soltanto parziale, porta i segni dell’influsso della Bibbia sui pensieri e sull’immaginazione degli uomini formati in tali culture e che a tali culture hanno dato vita e impulso ulteriori. In questo contributo vorremmo raccogliere, senza pretesa di completezza, alcune riflessioni sulla presenza della Bibbia nell’evangelizzazione riferite a tre distinti ambiti. Il primo ambito è quello degli scritti del Nuovo Testamento: fin dalle prime esperienze cristiane, le sacre Scritture sono presenti nell’annuncio evangelico con un loro specifico compito attivo. Il secondo ambito scelto è costituito da alcuni documenti, che manifestano la comprensione del ruolo della Bibbia in relazione alla missione della Chiesa maturata nel mondo cattolico a partire dal concilio Vaticano II. La terza parte riflette sull’evangelizzazione in atto oggi e, partendo da una considerazione della natura teologica della sacra Scrittura, cerca di indicare alcuni aspetti importanti della presenza della Bibbia in un’azione che punti al reale annuncio del vangelo.
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1. La Bibbia
nell ’ evangelizzazione in alcuni passi del N uovo T estamento
Il fatto che all’interno dell’evangelizzazione la presenza delle Scritture abbia un ruolo assolutamente decisivo appare in parecchi livelli degli scritti del Nuovo Testamento. Qui riprendiamo quanto viene manifestato nelle tracce del kerygma cristiano primitivo, nell’impostazione di Paolo e nel grande quadro teologico dell’opera lucana.
1.1. L’annuncio prepaolino e le S critture d ’I sraele Già precedentemente all’attività dell’apostolo Paolo i contenuti decisivi dell’annuncio cristiano sono presentati in connessione illuminante con le Scritture. Fin dai primi inizi l’evangelizzazione di ciò che era specificamente cristiano non avveniva senza che, all’interno di questo annuncio, ci fosse un posto preciso e necessario per il riferimento alle sacre Scritture. Uno dei testi più chiari è la formula antica che Paolo impiega in 1Cor 15,3b-5 e che gli studiosi datano attorno all’anno 40 e collocano nella comunità di Gerusalemme oppure in quella di Antiochia di Siria.1 I due punti centrali di questo annuncio, cioè la morte e la risurrezione di Gesù, sono proclamati con la qualificazione ripetuta «secondo le Scritture (κατὰ τὰς γραφάς)». La locuzione è chiaramente distinta dal riferimento paolino abituale alla Bibbia (l’Apostolo dice sempre «come è scritto») e quindi sembra appartenere originariamente alla formula arcaica. L’evangelizzazione di ciò che è cristiano viene fatta cercando luce nelle Scritture stesse, che diventano di conseguenza uno strumento necessario di tale annuncio. Anche se in questo caso non vengono allegati i passi biblici concreti a cui questi due riferimenti rimandano, appare chiaro che la Scrittura è considerata come il luogo in cui si rivela il senso di quanto gli annunciatori cristiani proclamano. Quello che Cefa e i Dodici annunciano in forza del loro incontro con il Risorto (cf. v. 5) rivela tutto il suo significato soltanto se è messo in rapporto con le Scritture ispirate. La morte di Gesù manifesta la sua forza di redenzione dal peccato solo se viene letta alla luce dell’annuncio biblico che si compie in lui. Anche la risurrezione al terzo giorno appare come il compimento del progetto divino soltanto se si riesce a vederla «secondo le Scritture», cioè a collocarla nel quadro biblico che annuncia il disegno di Dio. 1Cor 15,3b-5 ci porta all’interno di uno dei tentativi più antichi di evangelizzazione cristiana e manifesta chiaramente il ruolo importante che nella loro realizzazione hanno gio-
1 Cf. la sintesi recente di G. Barbaglio, La Prima lettera ai Corinzi, EDB, Bologna 1995, 806-812.
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La Bibbia nell’evento dell’evangelizzazione
cato le sacre Scritture. In quanto comprese come testi autorevoli e divini e, insieme, in quanto tirate in campo nell’annuncio di Gesù, le Scritture hanno contribuito a che l’evangelizzazione accadesse e si dispiegasse nel suo significato più pieno.
1.2. L’annuncio paolino e il riferimento alle
Scritture
San Paolo continua questo tipo di approccio e collega spesso esplicitamente gli elementi fondamentali della fede cristiana con la testimonianza delle Scritture. Secondo R. Fabris, nelle lettere dell’Apostolo il ricorso ai testi biblici si verifica in alcuni contesti caratteristici della teologia e della spiritualità di Paolo. Questi riguardano il punto nodale della giustificazione per mezzo della fede in opposizione alle opere della legge, il problema della continuità e discontinuità del processo storico-salvifico, il compimento delle promesse di Dio in Cristo, la prospettiva escatologica e infine la prassi etica dei credenti.2
La connessione del vangelo cristiano con le Scritture appare esplicitamente nell’indirizzo della Lettera ai Romani: «Il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo» (Rm 1,1-3). Ciò che è eminentemente cristiano – in concreto il mistero del Figlio di Dio – è qualcosa di «promesso»3 già nei testi della Bibbia. Il fatto poi che per l’annuncio del vangelo cristiano sia di grande utilità il riferimento concreto alle Scritture appare dal modo in cui Paolo formula la tesi di partenza di questa stessa lettera. Nella propositio (Rm 1,16-17) egli inizia dichiarando che non si vergogna del vangelo (v. 16a), poi abbozza i capisaldi della sua posizione (vv. 16b-17a) e infine conclude citando espressamente le Scritture: «Come sta scritto: Il giusto mediante la fede vivrà» (v. 17b). Questo modo di procedere non è spiegato soltanto dalla necessità di provare asserti difficili con un riferimento a un’autorità accettata comunemente, ma attraverso le Scritture deve venire una vera e propria luce per l’interpretazione di quanto è stato affermato. La Bibbia viene impiegata in quanto il vangelo risulta più chiaro in forza del riferimento a essa. Il dato complementare del riferimento a un’autorità indiscussa non va sottovalutato interpretandolo semplicemente come strumento retorico di persuasione, ma deve essere compreso come immissione nell’annuncio stesso della forza della parola di Dio. Questo aspetto risulta ancora più interessante se si tiene conto dell’altissima considerazione che l’Apostolo aveva della propria parola di predicatore come parola proveniente an-
2 R. Fabris, «La Scrittura in Paolo e nelle comunità paoline», in La Bibbia nell’antichità cristiana, 1: Da Gesù a Origene, a cura di E. Norelli, EDB, Bologna 1993, 87-103 (qui 94). 3 Altri intende «prefigurato».
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ch’essa da Dio (cf. 1Ts 2,13), attraverso la quale Dio stesso si rivolge al suo popolo (2Cor 5,20a).
1.3. Lo schema lucano
del rapporto tra evangelizzazione e S critture
Nell’opera lucana il rapporto tra evangelizzazione e Scrittura appare come elemento assolutamente decisivo, collocato al cuore stesso del mistero cristiano e ripetutamente sottolineato nella narrazione. I racconti pasquali di Lc 24 ritornano con insistenza sulla necessità, per arrivare a un vero incontro con il Risorto, di percepire il collegamento tra quanto si sta sperimentando in forza della risurrezione e le Scritture. Le donne credono, a differenza dei discepoli, in quanto riescono a collegare il fatto del sepolcro vuoto con le parole di Gesù in Galilea (24,1-13, cf. in particolare i vv. 7-8).4 I due discepoli di Emmaus, nonostante la presenza del Risorto e le molte cose che sanno a riguardo di Gesù, fanno un passo decisivo verso di lui soltanto quando vengono spiegate loro le Scritture (24,13-35, cf. in particolare i vv. 25-27 e 32). Il testo più impressionante per il nostro tema, però, è quello che riguarda l’apparizione destinata all’intero gruppo dei discepoli (24,36-53).5 Questo racconto mostra ancora una volta la difficoltà a giungere a una fede piena nella risurrezione. Mentre infatti al termine del racconto precedente i discepoli sembrano già credere,6 la terza apparizione di Gesù li butta di nuovo in alto mare: «credevano di vedere un fantasma (πνεῦμα)». Per risolvere questa loro difficoltà Gesù procede con tre azioni successive. Il gesto di mostrare le mani e i piedi, come annota espressamente l’evangelista, non risolve la situazione (cf. il v. 41a). Anche il fatto che il Risorto mangi la porzione di pesce arrostito non fa giungere i discepoli alla fede. L’azione di Gesù che effettivamente li aiuta a entrare nel mistero della risurrezione è piuttosto la terza, cioè il rimando del Risorto alle parole di Gesù terreno e alla loro correlazione con le Scritture (v. 44). Questo nuovo intervento in relazione alle Scritture presenta un elemento nuovo rispetto a tutti i precedenti rimandi. Esso infatti non viene presentato soltanto come spiegazione di testi delle Scritture (per i due di Emmaus, cf. v. 27), ma come un intervento sulla mente stessa dei discepoli: «Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture» (v. 45). L’azione del Risorto sulla mente ha due oggetti distinti di comprensio-
Le parole di Gesù in Galilea comprendono evidentemente un riferimento alle Scritture, come appare dalla menzione del Figlio dell’uomo e dalla vicinanza di formulazione tra il v. 7 e il seguente v. 44. 5 Si può vedere su questo E. Manicardi, «La terza apparizione del Risorto nel Vangelo secondo Luca», in RTE 1(1997)1, 5-27. 6 Si vedano i vv. 33-35, esplicitamente richiamati dalla locuzione iniziale del nuovo episodio (v. 36). L’espressione «mentre essi parlavano di queste cose» si riferisce alle dichiarazioni precedenti: «davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone» e «l’avevano riconosciuto allo spezzare il pane». 4
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ne, che sono manifestati immediatamente dal Risorto stesso (vv. 46-47). Il primo oggetto manifestato è già stato indicato molte volte e consiste nel comprendere che il cammino del Messia nella morte e risurrezione è il contenuto essenziale delle Scritture. Il secondo oggetto è la proclamazione, proprio nel nome di questo Messia, della conversione e del perdono dei peccati a tutte le genti cominciando da Gerusalemme. Questo secondo aspetto del contenuto essenziale delle Scritture compare qui per la prima volta: si tratta di una novità assoluta anche all’interno della narrazione lucana. In forza di una tale dichiarazione l’evangelizzazione cristiana appare una linea decisiva del messaggio complessivo delle Scritture, complementare dell’annuncio della morte e risurrezione del Cristo. Il discepolo di Gesù, attraverso l’apertura della mente alle Scritture, viene costituito finalmente «testimone di tutte queste cose» (v. 48),7 anche se soltanto con il dono futuro dello Spirito potrà entrare in effettiva azione (v. 49). Dal racconto della terza apparizione lucana del Risorto appare chiarissima perciò la relazione tra le Scritture e l’evangelizzazione. La Bibbia custodisce non solo il segreto della cristologia, ma anche la chiave di comprensione dell’annuncio che a partire da Gerusalemme deve coinvolgere tutte le genti. Se nei primi due racconti di Lc 24 si era già visto con chiarezza che la realtà della risurrezione di Gesù viene considerata penetrabile soltanto in forza della sua messa in relazione con i contenuti della Bibbia, nell’episodio finale appare evidente che l’evangelizzazione universale è uno degli annunci essenziali delle Scritture e che di conseguenza non si dà proclamazione del vangelo senza riferimento necessario a queste stesse sacre Scritture. Come non c’è accesso, per così dire, autonomo alla realtà di Cristo risorto senza la Bibbia, parimenti si deve supporre che non c’è una proclamazione che porti l’annuncio della conversione e del perdono da Gerusalemme a tutte le nazioni che non sia in relazione reale ai contenuti delle Scritture stesse. Il nesso tra Bibbia ed evangelizzazione è presentato inoltre da Lc anche fin dall’episodio dell’annuncio di Gesù nella sinagoga di Nazaret (4,16-30). Il racconto è così noto che forse può bastare qualche accenno. Gesù presenta la sua missione evangelizzatrice a partire da un testo del profeta Isaia8 e annuncia che «oggi questa Scrittura ha trovato compimento nei vostri orecchi» (Lc 4,21). Anche in questo caso l’annuncio di Gesù trova la sua pienezza quando la parola di Gesù, pur con tutta la sua legittima pretesa di autorità, viene rapportata alle parole delle sacre Scritture. È solo in relazione ad esse che la proclamazione può esprimere la pienezza del proprio senso.
7 Si noti il plurale, anche se la Bibbia CEI preferisce tradurre con un «di questo» al singolare. Le cose di cui i discepoli diventano testimoni sono più di una, e tra queste si trova certamente il senso delle Scritture sia nella dimensione cristologica che in quella legata all’evangelizzazione. Di fatto il compito di testimoni sarà, però, possibile solo in forza del dono dello Spirito Santo. 8 Concretamente si tratta di Is 61,1-2 e 58,6.
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2. Bibbia
ed evangelizzazione nella comprensione cattolica a partire dal V aticano II
I testi neotestamentari esaminati hanno mostrato come, a differenti livelli del cammino e della missione delle Chiese delle origini, la Scrittura sia stata considerata sempre un mezzo essenziale per un pieno sviluppo dell’evangelizzazione. In questa seconda parte del nostro contributo cerchiamo di abbozzare un quadro della comprensione del rapporto Bibbia-evangelizzazione e dei suoi sviluppi, come sono maturati nella Chiesa cattolica a partire dal concilio Vaticano II. A questo scopo scegliamo tre documenti che possono essere considerati emblematici: la costituzione dogmatica conciliare sulla divina rivelazione Dei Verbum (1965), l’esortazione apostolica di papa Paolo VI Evangelii nuntiandi (1975), l’ultimo intervento della Pontificia commissione biblica su L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993). Si tratta di testi di differente autorevolezza – e non intendiamo certo collocarli su un identico piano –, ma essi sono comunque rivelatori oggettivi di una sensibilità e di un processo di comprensione che interessano il magistero cattolico.9
2.1. Bibbia
ed evangelizzazione nella prospettiva della D ei V erbum (1965)
Il punto in cui il concilio Vaticano II ha espresso con maggiore intensità il rapporto tra Bibbia ed evangelizzazione è il paragrafo finale della Dei Verbum (DV). Le due frasi di questo testo esprimono in successione un voto e una speranza: In tal modo, dunque, con la lettura e lo studio dei libri sacri «la parola di Dio compia la sua corsa e sia glorificata» (2Ts 3,1) e il tesoro della rivelazione affidato alla Chiesa riempia sempre più il cuore degli uomini. Come dall’assidua frequenza del mistero eucaristico si accresce la vita della Chiesa, così è lecito sperare nuovo impulso di vita spirituale dall’accresciuta venerazione della parola di Dio che «permane in eterno» (Is 40,8; 1Pt 1,23-25).10
9 Anche il documento della Pontificia commissione biblica su L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, pur se mediatamente, rimanda al magistero autorevole. Esso è infatti accolto dal discorso di Giovanni Paolo II per il centesimo anniversario della Providentissimus Deus e per i cinquant’anni della Divino afflante Spiritu (23.4.1993), ed è presentato dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede come un intervento di esegeti cattolici che prendono posizione su problemi essenziali di interpretazione della Scrittura e sanno di avere per questo la fiducia del magistero (cf. EV 13/2849). 10 DV 26: EV 1/911.
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Il riferimento essenziale di questo testo è chiaramente la rivelazione, che ha formato l’oggetto della costituzione che qui viene conclusa. Essa viene menzionata non solo con il termine tecnico di revelatio, ma anche con le espressioni più generali di sermo Dei (ripresa da 2Ts 3,1) e di verbum Dei (per cui sono citati Is 40,8 e 1Pt 1,23-25). La parola «evangelizzazione» non ricorre, ma è del tutto evidente che l’espressione «riempire sempre più il cuore degli uomini con il tesoro della rivelazione» è una delle definizioni più profonde che si possono dare dell’annuncio del vangelo e dei suoi intenti.11 La prima frase di DV 26 colloca la sacra Scrittura, il suo studio e la sua lettura nella tensione dinamica tra rivelazione affidata e compito di annuncio del vangelo. Lettura e studio dei libri sacri appaiono perciò nella teologia e nella proposta pastorale del Vaticano II come strumenti che appartengono all’essenza dell’evangelizzazione. Essi infatti sono destinati a permettere il progressivo passaggio delle ricchezze della rivelazione nei cuori degli ascoltatori dell’annuncio. Sarebbe riduttivo intendere l’epilogo della Dei Verbum come un generico appello alla diffusione della Bibbia o delle conoscenze bibliche. Il voto che il concilio esprime ha a che fare piuttosto con il dono del rivelarsi di Dio stesso e del suo comunicarsi all’uomo in vista della nostra divinizzazione (cf. DV 2). La Scrittura in questo quadro ha solo un posto secondo, per così dire di strumento. Il livello dell’importanza che il concilio attribuisce al mezzo lettura e studio delle Scritture per l’evangelizzazione appare con forza dalla seconda frase di DV 26. In questo caso la Scrittura viene accostata all’eucaristia in modo da avere una specie di inclusione tra la frase d’inizio (DV 21) e quella conclusiva del capitolo VI della Dei Verbum su «La sacra Scrittura nella vita della Chiesa». La frase finale di DV 26, se la si esamina attentamente, risulta piuttosto complessa e di non immediata comprensione. L’espressione utilizzata in coda, «la parola di Dio, che permane in eterno», non indica direttamente la Scrittura, ma si riferisce piuttosto alla realtà complessiva della rivelazione. È infatti solo il comunicarsi definitivo di Dio all’uomo che può essere definito come qualcosa che rimane in eterno. La Scrittura, nella considerazione del Vaticano II, non è una realtà escatologica dell’esistenza cristiana, ma «uno specchio nel quale la Chiesa pellegrinando sulla terra contempla Dio, finché sarà condotta a vederlo faccia a faccia così com’egli è» (DV 7). La «accresciuta venerazione» della parola di Dio, cui si rivolge la speranza del concilio Vaticano, non è direttamente un rapporto intensificato con la sacra Scrittura, ma piuttosto l’approfondimento del concetto di rivelazione di cui è portatore il concilio stesso. Mentre chiede un tale approfondimento il testo conciliare pone un paragone con «l’assidua frequenza al mistero eucaristico». In questo modo viene ricuperato un aspetto essenziale, caratteristico della preoccupazione pastorale cattolica dalla fine del XIX secolo fino al tempo del
11 Sottolineando le parole «sempre più», si potrebbe addirittura parlare di una formula adatta a esprimere in particolare la «nuova» evangelizzazione.
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Vaticano II.12 La frequenza al mistero eucaristico viene considerata una realtà che ha già prodotto frutti di vita ecclesiale. L’opzione adesso proposta, cioè la «accresciuta venerazione della parola di Dio», rimane invece ancora sul livello della speranza: è uno stile che viene proposto e da esso «è lecito sperare nuovo impulso di vita spirituale». Per intendere il senso pieno e concreto di questa seconda frase, è necessario riandare alla prima. La «accresciuta venerazione della parola di Dio» rimarrebbe un sentimento del tutto vago, in fondo impossibile da concretizzarsi, se non viene riferito ai mezzi concreti della lettura e dello studio dei libri sacri, che sono stati appena indicati. Si compie così un’inversione di tendenza nella prassi cattolica e nel suo orientamento pastorale.13 La proposta avanzata dal concilio non è soltanto una maggiore attenzione alla rivelazione, da affiancare a quella che ha portato i cattolici a un contatto sempre più vivo con l’eucaristia, ma un’attenzione ad accogliere la rivelazione per il tramite dei «libri sacri». È così che l’affermazione del ruolo della Scrittura nell’evangelizzazione risulta essere un orientamento del Vaticano II maturato, alla fine, senza alcuna incertezza. Si tratta di un interesse che non si rivolge semplicemente alla Bibbia considerata come grandezza teologica astratta, ma di un riferimento alla concretezza dei libri biblici nelle loro pagine e nei loro specifici contenuti. Il senso dei due termini «lettura» e «studio» impiegati all’inizio di DV 26 non è difficile da stabilire alla luce della stesura della costituzione. Essi di fatto raccolgono e ripropongono, anche se nell’ordine inverso, i due impulsi dati dalla Dei Verbum alla presenza della Bibbia nella vita della Chiesa, e che sono riconoscibili nel succedersi di DV 24 e DV 25.14 DV 24 si interessa congiuntamente della teologia e del ministero della Parola, rapportandoli entrambi alle Scritture. La teologia è chiamata a scrutare «alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo», facendo questo sul fondamento della parola di Dio scritta e della sacra tradizione. Dopo avere richiamato che le sacre Scritture non solo contengono, ma anche sono la parola di Dio, il concilio sottolinea che lo studio delle sacre pagine deve essere come l’anima della teologia. A fianco della
12 Come punti di riferimento si possono indicare la comunione ai bambini, l’appello alla comunione frequente, il ridimensionamento progressivo dell’estensione del tempo di digiuno prima della comunione. 13 Cf. l’abbozzo storico, sfumato e articolato, di C.M. Martini, «La Sacra Scrittura nutrimento e regola della predicazione e della religione», in La Parola di Dio alle origini della Chiesa, Biblical Institute Press, Roma 1980, 35-43, in particolare 38-42, che raccoglie alcune prese di posizione cattoliche segnate da una certa preoccupazione per il contatto diretto con le Scritture soprattutto da parte dei laici. 14 Un commento dettagliato al c. VI della Dei Verbum, scritto poco dopo l’assise conciliare, in C.M. Martini, «La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa», in La Parola di Dio alle origini della Chiesa, 3-33; si tratta della ripresa del contributo pubblicato in La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, LDC, Leumann 31967, 417-465.
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teologia, il paragrafo presenta poi il ministero della Parola15 e si afferma che esso prende forza dalla parola della sacra Scrittura. DV 24 rappresenta perciò bene una ricapitolazione di ciò che il concilio intende quando parla di studio dei libri sacri. DV 25 raccomanda la lettura della sacra Scrittura a tutti i fedeli. Anche se non si può dire che questo appello sia una novità assoluta,16 tuttavia è evidente la ricchezza eccezionale delle indicazioni qui raccolte. Si distinguono anzitutto coloro che hanno un ministero (almeno di fatto) nella Chiesa17 e, come loro rappresentanti per eccellenza, si indicano soprattutto i sacerdoti e quanti hanno un servizio della Parola. A loro si raccomanda di «essere attaccati alle sacre Scritture mediante la sacra lettura assidua e lo studio accurato». Vengono poi i christifideles omnes, nelle cui prime file vengono posti i religiosi, e a loro si chiede (soltanto) «la frequente lettura». Merita sottolineare che a tutti è chiesta la lettura, mentre a chi ha un ministero di annuncio si chiede anche di essere in contatto diretto con le Scritture exquisito studio. Appare allora la logica dell’accesso diretto di tutti alla Scrittura, ma al tempo stesso viene evocato che tale accesso deve essere in rapporto organico con lo studio che viene fatto nella Chiesa. Chi legge personalmente la Bibbia, deve anche stare in contatto con la teologia autentica che ha la sua anima proprio nello studio di questa stessa sacra Scrittura. Le parole «lettura» e «studio» dell’epilogo della Dei Verbum sono riferite dunque a questo quadro ricco e complesso. L’accresciuta venerazione della parola di Dio, auspicata dal concilio, dovrà realizzarsi in forza di un contatto immediato di tutti i credenti con le Scritture e con uno studio compiuto dall’insieme del popolo di Dio, anche se evidentemente nelle sue articolazioni legittime. In particolare la Scrittura, perché si attui l’evangelizzazione secondo la prospettiva conciliare, dovrà arrivare a costituire l’anima di tutta la teologia. Un segnale concreto, piccolo ma certamente significativo, della funzione della Scrittura nell’evangelizzazione è dato dalle affermazioni finali di DV 25, che sembrano uscire dall’insieme delle raccomandazioni per la lettura dei fedeli. L’ultima frase infatti raccomanda – ed è certamente un invito inatteso all’interno della prassi cattolica – di preparare «edizioni della sacra Scrittura, fornite di idonee annotazioni, ad uso anche dei non cristiani». In questa raccomandazione si esprime bene l’aspettativa conciliare di una forza legata alla Scrittura stessa per l’annuncio. È anche chiaro il perché di questa collocazione: questa lettura è orientata al sorgere della fede; per questo, dopo aver presentato la Scrittura come nu-
15 Il ministero della Parola viene articolato in predicazione pastorale, catechesi e istruzione cristiana (con apice nell’omelia). 16 Cf. gli antecedenti elencati in Martini, «La Sacra Scrittura nutrimento e regola della predicazione e della religione», 41-42. Tali antecedenti però non impedirono il prevalere della «cautela per quanto riguarda la lettura della Bibbia». 17 Tali ministri sono indicati ancora con il termine «tutti i chierici (clericos omnes)».
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trimento dei credenti, si procede a suggerire un sussidio che è orientato al credere dei non cristiani. Che si tratti di un’opera di evangelizzazione e non di un’iniziativa culturale appare dal fatto che la custodia di questa possibilità coinvolge esplicitamente, accanto ai «cristiani di qualsiasi stato», gli animarum pastores.
2.2. Bibbia ed evangelizzazione nell ’ esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975) Nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (EN)18 la Bibbia viene utilizzata magistralmente in tutta la stesura del testo.19 La descrizione del passaggio dal Cristo evangelizzatore alla Chiesa evangelizzatrice viene posta come sfondo, o forse meglio come fondamento, della teologia dell’evangelizzazione presentata nel documento.20 Possiamo però anche osservare che, nonostante l’indiscutibile ricchezza biblica della redazione, la dimensione della presenza e della funzione della sacra Scrittura all’interno del processo odierno di annuncio del vangelo non viene trattata in maniera diretta e immediata. Essa è demandata piuttosto alle connessioni implicite nei passaggi in cui si parla di quegli strumenti di evangelizzazione che hanno necessariamente a che fare con la Bibbia, come, per esempio, quando si danno indicazioni sull’omelia. Vediamo più analiticamente questo aspetto del documento. Nella seconda parte, quando ci si interroga su che cosa significhi evangelizzare,21 l’esortazione mette chiaramente al primo posto lo strumento della testimonianza personale di vita: «A questa testimonianza tutti i cristiani sono chiamati e possono essere, sotto questo aspetto, dei veri evangelizzatori» (EN 21). La qualità evangelica della vita dei cristiani è senza dubbio l’elemento primordiale e decisivo per superare la rottura tra vangelo e cultura, che è «il dramma della nostra epoca».22 Essa infatti rende concretamente presente e riscontrabile nella storia quanto il vangelo proclama: «Il Regno, che il vangelo annunzia, è vissuto da uomini profondamente legati a una cultura, e la costruzione del Regno non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane» (EN 20). Contemporaneamente, l’esortazione afferma anche la necessità im-
Cf. EV 5/1588-1716. Scorrendo il sistema delle note è facile vedere che si è cercata continuamente, anche in parti riferite a situazioni del tutto contemporanee, una sintonia esplicita con il linguaggio biblico. Si vedano per es. gli otto riferimenti a testi paolini in EN 79 (EV 5/1708s) oppure le due citazioni di Rm in EN 80 (EV 5/1710-1714). 20 Si tratta infatti dell’intera prima parte del documento (EN 6-16: EV 5/1593-1608). Di fatto questi undici paragrafi presentano un quadro istruttivo e pressoché completo dell’evangelizzazione come viene descritta nel Nuovo Testamento. 21 EN 17-24: EV 5/1609-1616. 22 Probabilmente per non peccare di pessimismo il santo padre aggiunge, a questo punto, la precisazione «come lo fu anche di altre» (EN 20). 18 19
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prescindibile di momenti di annuncio esplicito della Parola: «Anche la più bella testimonianza si rivelerà a lungo impotente, se non è illuminata, giustificata – ciò che Pietro chiamava “dare le ragioni della propria speranza” (1Pt 3,15) –, esplicitata da un annuncio chiaro e inequivocabile del Signore Gesù» (EN 22). Questa doppia linea di discorso viene ripresa nella quarta parte della Evangelii nuntiandi, che è dedicata a come evangelizzare.23 Quale primo mezzo di evangelizzazione viene indicata di nuovo – rimandando a quanto affermato nella prima parte24 – la testimonianza della vita: «Per la Chiesa, la testimonianza di una vita autenticamente cristiana, abbandonata in Dio in una comunione che nulla deve interrompere, ma ugualmente donata al prossimo con uno zelo senza limiti, è il primo mezzo di evangelizzazione» (EN 41). Dopo aver ripetuto ancora una volta che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni»25 e dopo aver difeso la necessità di una predicazione esplicita anche a fronte della sensibilità caratteristica del nostro tempo, che vede un uomo «sazio di discorsi», «immunizzato contro la parola», segnato profondamente dalla «civiltà dell’immagine» (EN 42), Paolo VI passa in rassegna gli elementi che costituiscono la predicazione esplicita, complemento necessario della testimonianza vivente. La dinamica in cui il papa vede le vie per eccellenza di quella che potremmo chiamare la testimonianza tematica a Cristo Signore è la seguente. In prima posizione si presentano l’omelia e la catechesi. Per quanto riguarda la prima si distingue tra omelia liturgica (in particolare eucaristica), omelia paraliturgica e omelia semplicemente assembleare (EN 43). Come luoghi principali di insegnamento catechetico si elencano la chiesa, le scuole («là dove è possibile») e le famiglie cristiane (EN 44). A queste due vie regali si aggiungono poi l’utilizzazione dei mass-media, giustamente considerati come gli strumenti più caratteristici del nostro secolo (EN 45), e il dialogo personale mediante il quale, anche oggi, «la coscienza personale di un uomo è raggiunta, toccata da una parola del tutto straordinaria che egli riceve da un altro» (EN 46). L’elenco dei mezzi di proclamazione tematica viene concluso con una coppia di luoghi, che – anche se a ben differenti livelli – hanno a che fare con la religiosità vissuta dalla gente: la celebrazione dei sacramenti e la pietà popolare. La celebrazione dei sacramenti porta la dottrina astratta a raggiungere l’esistenza concreta dei credenti: «L’evangelizzazione non si esaurisce nella predicazione e nell’insegnamento di una dottrina [...]. Il compito
23 EN 40-48: EV 5/1633-1644. Il paragrafo introduttivo di questa parte dell’esortazione sottolinea che, a livello delle vie concrete di evangelizzazione, occorre una fantasia pastorale continuamente rinnovata e definisce le indicazioni seguenti come «alcune vie che, per una ragione o per un’altra, hanno un’importanza fondamentale» (EN 40). 24 Cf. soprattutto EN 21. 25 Questa espressione, giustamente celeberrima, era già stata pronunciata dal papa in un discorso al Consilium de laicis del 2 ottobre 1974.
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dell’evangelizzazione è precisamente quello di educare nella fede e in modo tale che essa conduca ciascun cristiano a vivere i sacramenti come veri sacramenti della fede» (EN 47). La pietà popolare, ricca di valori nonostante gli indubbi limiti, ha bisogno di un annuncio esplicito per essere aiutata a superare i facili rischi di non poche deviazioni (EN 48). Questo articolato elenco di strumenti implica senza dubbio anche un riferimento molteplice alle sacre Scritture, come elemento costitutivo, o almeno interno, a vari di questi momenti. Ciò vale senza dubbio per l’omelia, di cui si parla nel contesto della «liturgia della Parola» ricordando che quest’ultima è molto valorizzata dalla liturgia rinnovata dal concilio (EN 43); ma forse è vero anche per la catechesi, benché, in questo caso, si faccia concretamente riferimento soltanto ai catechismi (EN 44).26 Non può però non suscitare una certa meraviglia – almeno in chi legga questo testo con una sensibilità oggi piuttosto diffusa27 – il non trovare nessuna indicazione diretta a riguardo della Bibbia come possibile strumento di annuncio nel quale la parola di Dio si presenta a noi nella forma di una parola scritta, umana e accessibile. Alla luce della posizione conciliare ricapitolata sopra, una tale attenzione sembrerebbe un aspetto importante e, saremmo tentati di dire, necessario. Se è vero che la Dei Verbum affida alla lettura e allo studio della Bibbia una funzione evangelizzante, che può essere messa in un certo parallelo con quella dell’eucaristia (DV 26), allora risulta una lacuna il fatto che un documento, interessato a riflettere programmaticamente sull’evangelizzazione a dieci anni dal concilio, non sottolinei esplicitamente il ruolo della sacra Scrittura in nessuna delle dinamiche dell’annuncio cristiano presentate. Il documento pontificio, pur rivelando una fine sensibilità biblica e una vigile attenzione ai suggerimenti pastorali conciliari, non sembra ancora raccogliere compiutamente l’affermazione dell’importanza dell’accesso diretto ai testi biblici, un aspetto che è invece determinante nella posizione della Dei Verbum sulla sacra Scrittura nella vita della Chiesa. Anche nell’esortazione di Giovanni Paolo II sulla catechesi del nostro tempo, Catechesi tradendae (1979),28 si può osservare una posizione simile sul punto in questione. L’interesse alla Bibbia, certamente presente, non conduce a una presa di posizione specifica sulla funzione della sacra Scrittura come tale nei dinamismi della catechesi. Questa impostazione, un po’ bloccata rispetto al dettato autentico della Dei Verbum, va spiegata probabilmente con il clima ecclesiale della seconda metà degli anni ’70. La Chiesa era allora ancora intenta ai primi impatti dei rinnova-
26 Si auspica infatti semplicemente che i catechisti dispongano «di testi appropriati, aggiornati con saggezza e competenza, sotto l’autorità dei vescovi». 27 Si veda, come esempio in questo senso, la nota pastorale pubblicata in occasione dei trent’anni dalla promulgazione della Dei Verbum: CEI Commissione episcopale per la dottrina della fede e la catechesi, «La parola del Signore si diffonda e sia glorificata» (2Ts 3,1). La Bibbia nella vita della Chiesa (18.11.1995). 28 L’esortazione apostolica è datata 16 ottobre 1979: EV 6/1764-1939.
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ti lezionari liturgici, molto più ricchi biblicamente dei precedenti, e alla rielaborazione dei catechismi intesa – secondo l’orientamento conciliare – a presentare una maggiore accentuazione scritturistica.29 In questa fase l’interesse predominante è andato alla Scrittura in quanto mediata da queste grandi vie.30 La Bibbia poteva sembrare già sufficientemente presente attraverso queste mediazioni importanti ed efficaci. Il documento Exeunte coetu secundo, che chiude il sinodo straordinario a vent’anni dal concilio Vaticano II (1985), sull’argomento sacra Scrittura è secco e schematico. Esso sottolinea l’importanza della Dei Verbum e afferma «che è stata troppo trascurata, ma che tuttavia Paolo VI ha riproposto in modo più profondo e attuale nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi».31 Sulla funzione della Scrittura nei dinamismi dell’evangelizzazione non si dice niente di più. Traspare invece la preoccupazione per il rischio che la costituzione conciliare venga letta in modo unilaterale. Il pericolo paventato è che «l’esegesi del senso originale della sacra Scrittura sommamente raccomandata dal concilio» venga separata dalla viva tradizione della Chiesa e dall’interpretazione del magistero.32
2.3. Attualizzazione e inculturazione della B ibbia secondo la Pontificia commissione biblica (1993) I brevi cenni alle prese di posizione magisteriali dopo la Dei Verbum permettono di osservare che, nei primi due decenni post-conciliari, non troviamo un’insistenza sull’utilizzazione delle sacre Scritture nell’evangelizzazione del tutto proporzionata alle affermazioni e alle speranze di DV 26. Lo sguardo agli sviluppi nella comprensione del rapporto tra Bibbia ed evangelizzazione in ambito cattolico a partire dal Vaticano II non sarebbe completo, però, se non ci soffermassimo anche sul documento L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993).33 La Pontificia commissione biblica ha pubblicato questo testo in occasione del centenario della Providentissimus Deus di Leone XIII e del cinquantenario della Divino afflante Spiritu di Pio XII, ma è evidente che esso supera l’occasione celebrativa degli anniversari delle due encicliche per proporre, in realtà, un
29 Si osservi per es. in questo senso una parentetica in EN 44: «se i catechisti dispongono di testi appropriati, aggiornati con saggezza e competenza». 30 Insistere sull’omelia vuole dire per quegli anni certamente avere attenzione speciale alle pagine delle Scritture, alcune delle quali il popolo (e non solo) incontrava per la prima volta. 31 EV 9/1779-1818, qui 1794. 32 Cf. ancora EV 9/1794. 33 Pontificia commissione biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15.04.1993): EV 13/2846-3150. Abbiamo già indicato sopra, nell’introduzione alla seconda parte delle nostre riflessioni, il livello di autorevolezza che caratterizza questo testo.
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bilancio accurato e utilmente articolato dell’interpretazione della Bibbia dopo la Dei Verbum. L’ultima parte di questo documento, che tratta dell’interpretazione della Bibbia come avviene nel vissuto stesso della Chiesa,34 fornisce stimoli importanti alla riflessione che stiamo elaborando. In questo testo, che ha per oggetto diretto la Bibbia, troviamo infatti delle affermazioni impegnative a riguardo della presenza della Scrittura nell’annuncio del vangelo, che completano – ci sembra felicemente – quanto abbiamo verificato nei documenti che mettono a tema esplicito l’evangelizzazione stessa. Per esprimere il dinamismo della presenza della Bibbia nell’evangelizzazione vengono usate due categorie, che recuperano approfondimenti che hanno segnato la vita ecclesiale di questi anni. Si tratta della «attualizzazione» e della «inculturazione» della Bibbia, che vengono indicati come due passaggi necessari perché l’evangelizzazione di una determinata società avvenga realmente. È attraverso questi due momenti che la Bibbia può svolgere la funzione che le è propria nel processo di annuncio cristiano, donando ad esso quella forza che è una sua caratteristica propria ed esclusiva. Il processo di attualizzazione può essere osservato già all’interno della stessa Bibbia. Esso consiste nel tentativo di rendere validi per l’oggi testi antichi, interpretandoli alla luce di circostanze nuove, ed è possibile nella misura in cui il testo è effettivamente orientato a non esaurirsi all’interno della generazione e della cultura in cui è stato prodotto. Questo procedimento ha bisogno di un ascolto oggettivo del testo nel suo significato originario, anche se l’esperienza storica mostra che per giungere a una vera attualizzazione è necessario utilizzare le tecniche ermeneutiche – anche se a volte è necessario purificarle – che sono caratteristiche della cultura in cui l’attualizzazione deve avvenire. Così la tradizione giudaica ha impiegato la ricerca di passi paralleli, stabiliti in base al ricorrere in due testi di uno stesso termine. L’esegesi patristica ha privilegiato invece la tipologia e l’allegoria, in parte seguendo in questo alcuni abbozzi paolini (cf. Rm 5,12-21; 1Cor 10,1-13; Gal 4,21-31). Il realizzarsi concreto di un’attualizzazione delle Scritture prevede perciò una presenza dei testi biblici e una certa circolazione della loro interpretazione originaria per poter giungere a «trarre dalla pienezza del testo biblico gli elementi suscettibili di far evolvere la situazione presente in maniera feconda, conforme alla volontà salvifica di Dio in Cristo». Senza una presenza vera della Bibbia tra il popolo di Dio – presenza che si verifica nella conoscenza dei suoi testi e delle loro interpretazioni essenziali – non si può giungere a un autentico discernimento scritturistico della situazione presente. Se l’attualizzazione biblica che si propone è di fatto un’ermeneutica libera, interna soltanto alla cultura d’arrivo, allora al di là dei verbalismi non si avrebbe
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Si tratta della quarta parte: EV 13/3094-3144.
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l’aggancio vero con i libri sacri. Appare così che non ci si può accontentare, per una piena evangelizzazione, di una comunicazione della Bibbia puramente mediata. Se si vuole che la forza della Scrittura venga messa al servizio dell’annuncio del vangelo, è necessario che le pagine bibliche reali diventino nutrimento dei destinatari dell’evangelizzazione. La seconda categoria utilizzata nel documento della Pontificia commissione biblica è quella di «inculturazione». Anche questo fenomeno è già presente a livello dello stesso testo biblico. I libri del Nuovo Testamento, quando si serve di passi scritturistici ripresi secondo la traduzione greca detta dei LXX, utilizzano di fatto una Bibbia già inculturata. Si può anzi osservare che il Nuovo Testamento nel suo insieme manifesta una chiara volontà di superare i limiti di un ambiente culturale unico. In quanto scritto in greco, esso è «segnato tutto quanto da un dinamismo di inculturazione, perché traspone nella cultura giudaico-ellenistica il messaggio palestinese di Gesù».35 Anche oggi l’inculturazione della Bibbia comincia con la traduzione nella lingua in cui si desidera inculturare la Scrittura. La traduzione da sola, però, non basta. È necessario anche procedere a un’interpretazione dei testi biblici che, dopo averli attualizzati, li metta in contatto profondo con le strutture decisive della cultura dei destinatari dell’annuncio. È chiaro che, compiendo una tale operazione, si dà un contributo decisivo alla formazione di una nuova cultura cristiana. Non meraviglia certo che proprio le riflessioni sull’attualizzazione e l’inculturazione siano state riprese da Giovanni Paolo II nel discorso di accoglienza e di presentazione del documento della Pontificia commissione biblica (23.4.1993).36 Il papa dedica un intero paragrafo a queste due dimensioni di investimento della Scrittura nell’evangelizzazione.37 Per quanto concerne l’attualizzazione, egli insiste sulla necessità di adattare l’interpretazione alla mentalità di oggi, affinché la Bibbia continui a esercitare la sua influenza reale, ma parimenti sottolinea che è necessario «mostrare tutto il fulgore della parola di Dio, anche se espressa in parole umane (cf. DV 13)». Per realizzare quest’ultimo obiettivo è necessario – ci sembra – che il testo biblico rimanga sempre attivo anche in se stesso: non ci si può accontentare delle interpretazioni attualizzate e degli accessi mediati. Chi si accontenta delle mediazioni, non fa apparire il fulgore che la parola di Dio mantiene anche quando si comunica a noi nelle parole umane delle Scritture. Per quanto riguarda l’inculturazione, Giovanni Paolo II presenta un’affermazione interessante. Le nuove forme di inculturazione aiutano a superare i limiti di precedenti inculturazioni e addirittura servono a correggere deformazioni di interpretazione che potrebbero essere avvenute in
Cf. EV 13/3114. Cf. Enchiridion Biblicum. Documenti della Chiesa sulla Sacra Scrittura, EDB, Bologna 1993 (= EB), 1239-1258. 37 Cf. EB 1256-1257. 35 36
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precedenti culture. In concreto il papa pensa all’inculturazione biblica che può avvenire in «nazioni meno segnate dalle deviazioni della moderna società occidentale»: queste culture forse possono comprendere meglio il messaggio biblico di quelle bloccate nella secolarizzazione o negli eccessi della demitologizzazione.38 Originale rispetto al documento della Commissione una distinzione di tre tipi di operatori: i sapienti, i predicatori e «i divulgatori del pensiero biblico». Riguardo a questi ultimi il papa afferma che sono importantissimi nel nostro tempo, soprattutto se capaci di utilizzare i tanti mezzi oggi esistenti «affinché la portata universale del messaggio biblico sia ampiamente riconosciuta e la sua efficacia salvifica possa manifestarsi dappertutto».
3. La
realtà teologica della B ibbia nel circuito dell ’ evangelizzazione
Abbiamo visto come i libri del Nuovo Testamento considerino la presenza della Bibbia un elemento essenziale per l’annuncio del vangelo e abbiamo riflettuto sulla comprensione del nesso tra Scritture ed evangelizzazione come appare in alcuni documenti cattolici a partire dalla Dei Verbum. Vorremmo ora concludere con alcune osservazioni sulla presenza della Bibbia, considerata nella sua realtà teologica, all’interno del processo di evangelizzazione quale si realizza anche nella realtà odierna. La Bibbia, come testo ispirato donato da Dio alla Chiesa e agli uomini, deve avere all’interno del processo di annuncio del vangelo una funzione dinamica, che non è assolutamente surrogabile. Non si può pensare che le Scritture siano semplicemente una norma esterna della verità dei contenuti comunicati nell’evangelizzazione, ma esse devono venire investite come forza attiva eccezionale all’interno del circuito della proclamazione. Concretamente percorriamo due prospettive complementari: la prima è quella della comunicazione della fede attraverso il dialogo interpersonale, la seconda quella dell’inculturazione della fede proclamata nell’evangelizzazione.
3.1. La Bibbia
e la comunicazione della fede a livello interpersonale
L’importanza che hanno, per il cammino e la crescita della fede stessa, i rapporti attraverso i quali si realizza il dialogo tra le persone, può essere considerata un dato evidente. L’esortazione Evangelii nuntiandi è un documento particolarmente attento a questo strumento come via di evan-
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Cf. EB 1257.
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gelizzazione?39 Anche oggi pare che su questo elemento sia necessario puntare parecchio. Merita perciò che la riflessione su questo punto sia adeguatamente accurata. Non si può parlare affrettatamente di comunicazione della fede senza tenere conto della natura teologale della fede stessa. La fede è un dono dall’alto, offerto gratuitamente da Dio e realizzato dalla presenza del suo amore versato nel cuore dell’uomo (cf. Rm 5,5). Di conseguenza il «comunicare la fede» non può essere inteso semplicemente come un trasmettere la fede stessa da un uomo a un altro. Piuttosto il dialogo sulla fede si basa sulla possibilità che il credente ha di dare al suo interlocutore un certo accesso alle proprie esperienze religiose. In questo senso il cristiano può lasciare che i suoi interlocutori intravedano qualcosa del rapporto personale che lui intrattiene con il Signore. È questo l’elemento che possiamo comunicare: non la fede in se stessa, ma l’accesso alla nostra fede, cioè al nostro atteggiamento di fede in quanto è davvero l’orizzonte di senso della nostra vita. Riprendendo la terminologia della teologia scolastica si potrebbe affermare che comunichiamo agli altri qualcosa della fede in quanto li facciamo accedere alla nostra fides qua. È a questo livello che è possibile una comunicazione reale, cioè il concreto passaggio di «qualcosa» tra due interlocutori. Il fatto però di ammettere l’altro nello spazio della fides qua – in un certo senso di permettergliene l’esperienza – comprende anche un metterlo in contatto con la fides quae compresa in tale atteggiamento. Vengono fuori allora le buone ragioni della speranza creduta e l’altro viene preparato a un’apertura umana in cui può inserirsi più armoniosamente il dono di Dio. La ricchezza di questo procedimento si esprime anche nella terminologia con cui san Paolo mette in relazione l’annuncio dell’apostolo con la coscienza degli interlocutori. Nella 2Cor egli descrive il suo ministero come un «presentarsi davanti a ogni coscienza, al cospetto di Dio» (2Cor 4,2) e un «essere noti davanti alle vostre coscienze» (2Cor 5,11).40 In questo processo di comunicazione della fede l’uso delle sacre Scritture può avere un ruolo molto importante. Esso permette infatti di inserire un dato oggettivo in un quadro estremamente personalizzato. Colui che attraverso il dialogo ha cercato di comunicare la propria esperienza di fede, attraverso il riferimento alla Bibbia – di fatto attraverso il riferimento a quelle pagine concrete che sono particolarmente luminose per la sua fede – può ora indicare positivamente il perimetro oggettivo del suo credere. Accanto al dono che il credente ha fatto dell’accesso alla
39 EN 46 parla di trasmissione del vangelo «da persona a persona» e si chiede: «C’è forse in fondo una forma diversa di esporre il vangelo, che trasmettere ad altri la propria esperienza di fede?». E prosegue: «Non dovrebbe accadere che l’urgenza di annunziare la buona novella a masse di uomini facesse dimenticare questa forma di annuncio mediante la quale la coscienza personale di un uomo è raggiunta, toccata da una parola del tutto straordinaria che egli riceve da un altro». 40 Abbiamo studiato questi testi in E. Manicardi, «Legge, coscienza e grazia nell’insegnamento paolino», in Divus Thomas 95(1992), 12-52, in particolare 33-36 e 44-48.
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sua fede, viene collocata – in forza della presenza di testi scritti sacri e normativi – la testimonianza di una più diretta autocomunicazione di Dio stesso. Certamente l’appello di Dio è presente già nella comunicazione di sé che il credente ha cercato di fare, ma le pagine della sacra Scrittura conferiscono un elemento più fermo e preciso. Attraverso il testo biblico Dio può prendere la parola, per così dire, più immediatamente. In questa esperienza infatti l’interlocutore del credente incontra la Scrittura non come nuda proposta di un testo letterario, ma come parola di Dio che ha operato nell’esperienza di fede che ora lo sta interessando. Accanto alla pagina sacra nella sua precisione e fermezza, sta la vivacità concreta della vita del credente. In un processo come questo il mistero della parola di Dio (intesa come l’autocomunicazione divina) fattasi anche parola scritta in parole umane (le pagine bibliche concrete) raggiunge una delle sue realizzazioni più alte. Ripetendo la formulazione di Giovanni Paolo II, già citata sopra, possiamo dire che una comunicazione della fede che utilizzi in questo modo la Bibbia realizza il compito di «mostrare tutto il fulgore della parola di Dio, anche se è espressa “in parole umane”».41 Far entrare in questo modo la Bibbia nel processo di comunicazione della fede, che avviene nel dialogo interpersonale, richiede in concreto anche la capacità di comunicare all’altro la nostra esperienza di ascolto della parola di Dio attraverso la sua parola scritta. È evidente che una tale competenza non s’improvvisa. Essa può essere portata in campo senza forzature – intellettualistiche o fondamentalistiche o sentimentali – solamente se proviene da uno stile spirituale solidamente acquisito. Se l’evangelizzazione mediata dal dialogo interpersonale e in riferimento reale ai testi biblici presenta la ricchezza teologica che abbiamo cercato di delineare, allora riteniamo che nel vissuto ecclesiale attuale andrebbe perseguita con maggiore energia una formazione dei credenti che li ponga in più diretto ascolto della parola di Dio attraverso le sacre Scritture.
3.2. La Bibbia e l ’ inculturazione
della fede
Accanto all’indispensabile dialogo interpersonale è assolutamente essenziale, in vista di un annuncio completo del vangelo, un’attenzione ai processi di inculturazione, cioè alla qualificazione che l’evangelizzazione deve dare alla cultura in cui l’annuncio avviene, pena l’irrilevanza di fatto del messaggio pure volenterosamente proclamato. In quest’ultimo paragrafo vorremmo insistere sul ruolo centrale che la Bibbia ha, in forza della sua natura teologica, negli sforzi per assicurare un effettivo radicamento culturale della fede annunciata.
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EB 1257.
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Le sacre Scritture custodiscono un processo di inculturazione già nella loro struttura più profonda.42 In effetti l’inculturazione della fede non è un procedimento che inizi quando la Bibbia è ormai finita e si tratta «semplicemente» di trasmetterla, di interpretarla, di tradurla, di attualizzarla. Il rapporto della Bibbia con la cultura non appartiene soltanto al dopo della sua trasmissione nella storia, ma segna la nascita stessa delle sacre Scritture. I livelli in cui si articola la relazione nativa tra Bibbia e cultura sono più d’uno. Un livello in cui questo rapporto può essere colto con particolare facilità è quello della composizione letteraria e storica dei testi stessi che formano la sacra Scrittura. Il dato più appariscente è quello delle tre diverse lingue in cui essa risulta composta.43 La varietà culturale della testimonianza scritta della rivelazione del Dio unico rimane per sempre il segno della sua relazione essenziale con le culture concrete e particolari degli uomini divenuti testimoni del dono ricevuto. Potremmo anche ricordare il fatto che la Bibbia viene considerata sacra Scrittura anche nelle forme delle sue traduzioni, le quali sono correttamente concepite come testo sacro e non come semplice mediazione di un altro testo in un’altra lingua, che sarebbe il vero e solo testo sacro. Questo aspetto risulta particolarmente chiaro quando si considera l’uso della traduzione greca dei LXX nella composizione degli scritti del Nuovo Testamento.44 Se ci si sposta dalla considerazione storica e letteraria della composizione dei testi a una visione teologica della loro origine, l’inculturazione della Bibbia appare come una realtà iscritta nel mistero stesso delle Scritture, per cui esse sono le «sacre Scritture» e non semplici libri umani. È nel momento in cui le Scritture prendono la loro origine in una relazione immediata con la realtà di Dio che avviene l’inculturazione del messaggio di cui esse sono portatrici. Se diciamo che gli agiografi hanno scritto divino afflante Spiritu, allora indichiamo che l’inculturazione appartiene all’azione dello Spirito su di loro. Il mistero che ricapitoliamo con l’espressione «ispirazione» insegna appunto che le Scritture nascono da un intervento immediato di Dio. E poiché non è possibile separare l’azione
42 Abbiamo proposto una riflessione sintetica a questo riguardo in E. Manicardi, «Bibbia e inculturazione della fede», in Sacra Doctrina 41(1996)3-4, 227-236. 43 Si osservi che, anche nel caso ci si concentri sulla Bibbia di Israele soltanto, le lingue in questione sono almeno due (ebraico e aramaico). 44 Si potrebbe ricordare in questa direzione anche la comprensione della Vulgata che si manifesta nel concilio Tridentino. Considerazioni simili varrebbero certamente anche per molte altre traduzioni autorevoli. Si pensi in particolare a quelle destinate a un uso liturgico imponente. Attualmente per l’Italia questo vale per la cosiddetta Bibbia CEI. Essa viene giustamente usata come testo biblico autorevole e non viene affatto percepita semplicemente come traduzione di un altro testo, che sarebbe in definitiva il solo autorevole. La riflessione sul ruolo della Bibbia nell’evangelizzazione suscita come decisiva anche la questione della traduzione della Bibbia nella lingua di una determinata cultura quale elemento decisivo dell’evangelizzazione di quella stessa cultura. Si pensi alla traduzione della Bibbia in tedesco, realizzata da Lutero, e al suo ruolo all’interno della lingua e della letteratura tedesca.
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di Dio e l’azione dell’uomo in questo momento sorgivo del testo, allora non sarebbe corretto attribuire l’inculturazione semplicemente al lavoro dell’agiografo come effetto delle sue forze e libertà. L’inculturazione, che il tessuto del testo biblico innegabilmente mostra, ha la sua origine nella condiscendenza benevola di Dio. C’è ancora un ulteriore livello che merita attenzione. I testi biblici non possono essere considerati semplicemente come la rivelazione, ma piuttosto è necessario intenderli come testimonianza della rivelazione stessa. La formulazione pregnante che apre DV 11 parla di «realtà divinamente rivelate che sono contenute e si presentano nella sacra Scrittura per tramite letterario»45 e lascia intendere un riferimento a una realtà più ampia dei testi stessi che è l’evento della rivelazione.46 Se sullo sfondo dei passi biblici intravediamo la rivelazione, allora anche a questo livello ci accorgiamo che – prima ancora della composizione delle diverse pagine bibliche – è il manifestarsi stesso di Dio che chiama in causa le culture degli uomini che sono stati i primi destinatari di questo evento. La rivelazione, di cui la Bibbia è testimonianza umana e divina insieme, è l’ingresso di Dio nella vita, e quindi nella cultura, degli uomini destinatari del suo dono. Paradigmatico di quest’ultimo aspetto è l’evento di Gesù di Nazaret. In lui è avvenuta in maniera tangibile l’inculturazione della rivelazione. Della rivelazione e dell’inculturazione avvenuta in lui, sono testimonianza eccellente i vangeli stessi, che nella loro messa per iscritto – per ispirazione! – sperimenteranno una nuova inculturazione nel passaggio dal mondo palestinese alla lingua greca. Senza soffermarci su questo quadro,47 sottolineiamo l’utilità e la necessità che la Bibbia abbia una collocazione speciale là dove si vuole avviare o rinnovare un processo di inculturazione della fede. La sacra Scrittura infatti custodisce perennemente i primi momenti, anzi gli elementi essenziali, del vangelo nella sua inculturazione iniziale. I testi biblici, consegnandoci alcune parole inculturate in forza della rivelazione divina e dell’ispirazione biblica, ci offrono elementi insieme accessibili e da noi non «normati», che ci permettono di sottrarre il processo contemporaneo di inculturazione del vangelo a ogni irrigidimento parziale. Poiché l’evangelizzazione ha bisogno di un’inculturazione continua e infinita, senza la Scrittura difficilmente si potrebbe evitare il rischio di dilatazioni ormai lontane dall’origine divina, senza che sia più possibile un controllo reale o una smentita. Oltre a questa funzione sanamente correttiva, che vale per le culture che hanno da tempo incontrato il cristianesi-
45 Nel testo latino: «Divinitus revelata quae in Sacra Scriptura litteris continentur et prostant». 46 Anche se questa maggiore ampiezza non deve essere intesa nel senso di aprire alla tradizione la possibilità di essere «fonte» di contenuti nuovi rispetto a quelli della Scrittura. 47 Ci permettiamo di rimandare ancora al contributo Manicardi, «Bibbia e inculturazione della fede», 231-235.
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mo, la sacra Scrittura può svolgere anche una funzione propulsiva iniziale: l’inserimento dei testi biblici in una nuova cultura è senza dubbio un eccellente elemento per avviare un percorso di nuova inculturazione. Infine si può osservare che nel mondo odierno, variegato e pluralista, un’inculturazione, in cui la Bibbia figuri come motore decisivo, può collocarsi – almeno in parte – al di là delle divisioni confessionali che ancora sono di non poco ostacolo a un’evangelizzazione cristiana convincente.
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Scrittura ed evangelizzazione: nodi emergenti
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Si tratterà in effetti di nodi ben visibili, emersi di fatto dal momento che il movimento biblico e il concilio ecumenico Vaticano II – che recepisce e rilancia, non solo nella Dei Verbum, ma in tutto l’impianto della ricerca e della proposta – hanno collocato in modo nuovo, dopo secoli (oggi comunque più nitidamente rivisitabili, da questo nuovo angolo di visuale), la Scrittura alla base dell’evangelizzazione. Si può anzi considerare il concilio stesso come la grande prova dell’indicazione stessa. Se di concilio prevalentemente pastorale si tratta, come è stato autorevolmente osservato, finalizzato a un rinnovato annuncio dell’evangelo, il tipo di presenza del riferimento alla Scrittura nel dispiegarsi del suo discorso avrà un rilievo del tutto particolare, come a fondamento di quella stessa emergenza pastorale: per l’evangelizzazione. Si è trattato e si tratta in effetti di impegnative dichiarazioni, e poi di pratiche trainanti e/o sollecitate/prodotte. È possibile riscontrare percorsi, teorici e pratici, che hanno condotto alla posizione conciliare ed ecclesiale recente, come d’altra parte la posizione conciliare ha portato nell’attitudine recente della Chiesa cattolica forme di presenza della Scrittura affatto specifiche di questa fase. Si possono indicare alcuni elementi di fatto che costituiscono un panorama per nulla scontato, degno della massima considerazione: recente e fresco nei suoi rilievi distintivi, rispetto a fenomeni dello stesso tipo nel passato. Chi vive un certo tempo può considerare come dovute certe pratiche, e come naturali-connaturate alla natura della Chiesa. E può essere certamente così, da un punto di vista teologico. Ciò non toglie che siano ora acquisite dopo e attraverso un travaglio ormai secolare. È durato tutto il XX secolo, per breve che si possa ritrovare, e attiene al saeculum, come
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contesto in cui la Chiesa è messa alla prova: che è essenzialmente prova del discernimento della propria natura. Possiamo assumere questo punto come il più significativo per una teologia dell’evangelizzazione: emergono elementi distintivi e connaturati alla condizione ecclesiale, percepiti come tali e come tali da praticare, e però emergono come novità rispetto a una prassi secolare, che risulta in effetti profondamente modificata.
1. Testo
e traduzione
Consideriamo innanzitutto quello che può essere considerato come il grado zero della presenza della Scrittura nel cristianesimo e nella Chiesa: la traduzione in lingua (è noto che in altre tradizioni basate su scritture, non si dà traduzione), in rapporto a tutti gli elementi della vita della comunità credente, ovvero alla liturgia e alla preghiera personale, nonché alla catechesi e allo studio. Presso la comunità credente si pone peraltro un ambiente vitale, un contesto storico e culturale che della traduzione in lingua gode in molti modi. Alcune vicende del passato restano emblematiche da questo punto di vista: basti pensare alla portata della versione di Lutero per la cultura tedesca, e per l’evoluzione stessa della lingua tedesca. Mentre la più celebre delle versioni contemporanee, la Bible de Jérusalem, esce in questi giorni come Nouvelle dopo un lavoro di revisione iniziato nel 1990, anche per l’Italia siamo ora alla seconda operazione sulla Bibbia curata dalla Conferenza episcopale, notoriamente connessa alla primogenita francese. Sono sorte e sorgono, d’altra parte, altre imprese di traduzione, caratterizzate da diversi criteri, stili, fini. Non c’è dubbio che per qualità e quantità siamo di fronte alla più alta diffusione del testo biblico nelle Chiese e negli ambienti culturali più diversi, mentre sembra conclusa l’epoca della conoscenza parallela per via iconografica e/o per via di volgarizzazione e tradizione orale, che ha segnato i secoli. D’altra parte, questa grande diffusione del testo scritto si pone in controtendenza rispetto al trionfo dell’immagine e del virtuale: da cui tutto il problema del ritardo ovvero della resistenza. Non è possibile in questa sede considerare adeguatamente le diverse situazioni in cui questi problemi si impongono. Basti osservare come le Chiese della Riforma, la Chiesa latina e le Chiese orientali – sia nell’ortodossia che nella Chiesa cattolica – si pongano in modi nello stesso tempo simmetrici e significativamente anche molto distanti rispetto a questa evoluzione, e come circoli, ambienti e gruppi si distinguano vistosamente – e a volte si contrappongano – all’interno delle grandi tradizioni cristiane. Il testo biblico comunque si legge, si studia, si celebra, si commenta in molte forme e modi, pressoché in tutte le lingue del globo. Questo fatto è senza precedenti, e se può essere vissuto come uno sviluppo naturale e meramente quantitativo delle/nelle relazioni culturali in cui le Chiese si muovono, resta nei suoi effetti tutto da scoprire. Le più diverse funzioni si intrecciano e/o si differenziano nella pratica delle comunità credenti,
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come presso le comunità dei lettori e degli ambienti deputati alla ricerca. Tutti questi ambiti, dalla liturgia all’omiletica alla catechesi all’esegesi, fino alla semplice lettura non specificamente connotata, si riferiscono sempre più al medesimo testo della Scrittura, senza vistose differenze fra quello attestato in sede critica e quello della celebrazione, della preghiera, della lettura personale. D’altra parte, le pur diverse attitudini di relazione sollevano gli stessi problemi, più o meno vividamente percepiti dagli attanti/attori, dai protagonisti dell’ascolto e della lettura. La stessa abbondanza di traduzioni attesta una sicurezza e una sostanziale costanza nei modi dell’operazione, dovuta a una condivisione delle priorità ermeneutiche in gran parte delle agenzie della diffusione del testo biblico. I frutti di due secoli di ricerca storica e testuale offrono infatti non solo il testo, ma una sensibilità comune. Sorge a questo punto il problema del rilievo reale di questa gran mole di conoscenze per la conoscenza del testo nella sua ragion d’essere, e nel suo fine: l’evangelizzazione che sa tutte queste cose della parola che la costituisce e la fonda, come se ne avvantaggia? Questa domanda si articola in molti modi, anche rispetto alla presenza di un fondamentalismo che da residuale si può trasformare in specchio e provocazione dei tempi, in rapporto anche a tendenze socio-cultuali diffuse (un certo canonismo, in rapporto a un certo olismo), per cui accade spesso che quella che si vuole rigorosa difesa dell’integrità della tradizione diventi sul terreno reale una ghiotta curiosità new age: senza vigilanza critica non si sfugge alla più severa e sarcastica eterogenesi dei fini. Sembra tuttavia che il punto non stia tanto nel rapporto fra evangelizzazione e testo, ma fra evangelizzazione e diverse forme di identificazione con il testo medesimo da parte degli attori/attanti, dei protagonisti dell’evangelizzazione stessa: chi la offre e chi la riceve. Toccheremo questo problema a conclusione di queste pagine, ma è ora necessario e possibile porre in rilievo due punti – nodi/snodi – che illustrano, a nostro avviso, lo spessore teologico del problema. Si tratta di nodi costitutivi della Scrittura stessa, e però oggi presenti in tutta evidenza con nuovi accenti. I due nodi sono quello del rapporto Antico-Nuovo Testamento e quello del rapporto Chiesa-Israele. Andrebbero esposti logicamente in quest’ordine, a partire dalla percezione della problematica interna alle Scritture cristiane: l’insieme, appunto, Antico-Nuovo. È tuttavia indubbio che in questi ultimi anni la posizione del rapporto Chiesa-Israele, da parte delle Chiese e in modo del tutto particolare della Chiesa latina, ha avuto un rilievo straordinario e ha investito la questione del rapporto Antico-Nuovo Testamento di una luce dotata di colore e di potenza inusitati, fino a toccare – oltre un’opinione pubblica sensibile – la forma e la modalità della presenza stessa della Scrittura nella teologia e nella vita delle Chiese, e quindi nell’evangelizzazione stessa. Appare particolarmente significativa l’attitudine dell’episcopato francese, nella pratica di questa duplice attenzione, mentre affianca a un importante documento penitenziale dedicato al rapporto Chiesa-Israele un testo relati-
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vo al rapporto fra Antico e Nuovo Testamento.1 Senza entrare nel merito dei due documenti e del contesto immediato in cui si situano (fino al recente documento romano Noi ricordiamo), impresa impossibile in questa sede, notiamo tuttavia la loro concomitante presenza come sintomo e ragione insieme della sequenza che proponiamo.
2. Chiesa
e
Israele
La relazione fra Chiesa e Israele (utilizziamo questa terminologia come la più semplice e diretta per denotare le comunità credenti con il loro nome proprio, piuttosto che con qualifiche di carattere dottrinale o meramente sociologico: è chiaro che con Israele si intende il popolo ebraico nella sua continuità storica e nella sua identità culturale e teologica e non l’attuale Stato di Israele, che nel caso si deve denominare attraverso la dizione appropriata, completa, come del resto sarebbe bene per ogni Stato) appare oggi profondamente modificata nell’autocoscienza ecclesiale, sia rispetto allo stato della relazione fino alla metà del secolo, sia rispetto ad altri grandi rapporti. Si può riconoscere come in nessun altro punto della coscienza ecclesiale il mutamento sia stato altrettanto profondo e veloce. Si è trattato inizialmente di un moto di revisione innescato dalla presa di coscienza della Shoah, e come circoscritto a un ambito, assai marginale nella vita delle Chiese e della ricerca teologica. Già al concilio Vaticano II, peraltro, sia la discussione, oggi ampiamente documentata,2 che il suo esito mostrano una portata assai più ampia delle stesse modifiche che si sono prodotte. Recita infatti il famoso capitolo 4 di Nostra aetate (corsivi nostri): Scrutando accuratamente il mistero della Chiesa, questo sacro sinodo si ricorda del vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente congiunto con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino di salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti. Confessa che tutti i fedeli cristiani, figli di Abramo secondo la fede (cf. Gal 3,7), sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza della Chiesa è misticamente prefigurata (praesignari) nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo la Chiesa non può dimenticare di aver ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’Antico Patto, e che si nutre dalla radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che
1 Cf. – nostro è il rilievo – la Déclaration de Repentance letta il 30 settembre 1997 a Drancy, firmata dal vescovo presidente del Comitato episcopale per le relazioni con l’ebraismo che firma nello stesso tempo un documento dal titolo Lire l’Ancien Testament, presentato con il sottotitolo esplicativo Contribution à une lecture catholique de l’Ancien Testament pour permettre le dialogue entre juïfs et chrétiens. 2 Cf. ora il commento di P. Stefani, Chiesa, Ebraismo e altre religioni. Commento alla «Nostra Aetate», Messaggero di Sant’Antonio Editrice, Padova 1998, in particolare 27-68 e 177-224.
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Scrittura ed evangelizzazione: nodi emergenti sono i gentili (cf. Rm 11,17-24). Crede infatti la Chiesa che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso (cf. Ef 2,14-16). La Chiesa inoltre ha sempre davanti agli occhi le parole dell’apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe (cognatis), «i quali possiedono l’adozione a figli, la gloria, i patti di alleanza, la Legge, il culto, le promesse, i patriarchi e dai quali è Cristo secondo la carne» (cf. Rm 9,4-5), figlio di Maria Vergine. Si ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così la gran parte dei primi discepoli che hanno annunciato al mondo il vangelo di Cristo. Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata (cf. Lc 19,44); e inoltre gli ebrei, in gran parte, non hanno accolto il vangelo, e anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione (cf. Rm 11,28). Ciononostante (nihilominus), secondo l’apostolo, gli ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui chiamata sono irrevocabili (cf. Rm 11,29-30). Con i profeti e con lo stesso Apostolo la Chiesa attende il giorno che solo Dio conosce in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e «lo serviranno tutti sotto lo stesso giogo» (humero uno, Sof 3,9). Essendo perciò così grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e a ebrei, questo sacro sinodo vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo (fraternis colloquiis). E quantunque (etsi) le autorità degli ebrei con i loro seguaci si siano adoperate per la morte di Cristo (cf. Gv 19,6), tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei di oggi. E quantunque la Chiesa sia il nuovo popolo di Dio (licet autem Ecclesia sit novus populus Dei), gli ebrei tuttavia non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisca dalla sacra Scrittura. Pertanto tutti facciano attenzione a non insegnare nulla, nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio, che non sia conforme (congruat) alla verità evangelica e allo spirito di Cristo. Inoltre, la Chiesa, che condanna tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli ebrei e spinta non da motivi politici ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque. Del resto, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, il Cristo nel suo immenso amore è andato incontro alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini, perché tutti possano ottenere la salvezza. È compito dunque della Chiesa, quando predica (ecclesiae predicantis ergo est), di annunciare la croce di Cristo come segno dell’amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia.
Si può notare che il testo conciliare rivendica al discernimento dello Spirito ciò che si va a enunciare: collocabile quindi come a fondamento della Chiesa stessa. È costitutivo del mistero che è la Chiesa ciò che si va a dire della relazione con Israele. Sarà sempre più arduo allora considerare ambito o settore particolare sia il dialogo ebraico-cristiano che le posizioni via via acquisite nella ricerca teologica su questo punto. Siamo peraltro, nel testo conciliare, a una prima sistemazione autorevole di un processo di ritorno alle fonti neotestamentarie e di rinnovamento globale di paradigmi di autocoscienza e di relazionalità. Se una delle più importanti – se non la più importante – fra le categorie ecclesiologiche di matrice biblica – popolo di Dio – deve essere introdotta con una
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concessiva («Licet Ecclesia…»), pur riferita direttamente alla qualifica nuovo, per evitare una conseguenza lesiva di Israele, ovvero della costitutiva relazione della Chiesa con Israele, è evidente che si è di fronte a una questione di prima grandezza, che investe quanto meno tutta l’ecclesiologia. Il cammino di questi trent’anni è, a questo proposito, molto ricco e variegato. Così come il testo stesso del concilio suggerisce, l’attenzione all’evangelizzazione, alla catechesi e alla predicazione diventa essenziale, al punto che i passi più significativi successivi al documento conciliare sono avvenuti in questi terreni.3 Tale processo di ricerca e di approfondimento ha goduto di una diffusa libertà e di una grande attenzione da parte dei moderatori delle Chiese e del magistero del vescovo della Chiesa di Roma, come di molte conferenze episcopali e Chiese locali. È stato, ed è, ritmato da momenti pubblici di grande significato simbolico, e di portata storica per certi aspetti irreversibile (tutti ricordano la visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma). Nel tentare una sintesi delle acquisizioni di maggior peso per la forma stessa della Chiesa nel suo mostrarsi, anche rispetto alla pietra miliare della dichiarazione conciliare, ci si può attestare su una posizione essenziale, percepibile a buon diritto come decisiva. Non può essere in effetti il riferimento o meno a Gesù di Nazaret come messia il punto dirimente della strutturale contrapposizione che ha impegnato la Chiesa nei confronti di Israele. Si tratta in effetti in questo caso, comunque, alla fine, di una personale adesione di fede. Si può presumere che la Chiesa non possa sostenere a lungo l’aporia dovuta al postulato dell’adesione a Cristo di Israele in blocco e come collettività – e quindi non per adesione personale –, che una contrapposizione a Israele basata sulla mancata adesione di fede di tutto il popolo ebraico inevitabilmente produrrebbe. È ben vero che si sono date posizioni del genere nei secoli, rispetto a diverse collettività, in base a un’errata lettura di Mt 28,19, come se le genti in blocco (ta ethne¯), e non le singole persone (come il testo dichiara: autous), dovessero ricevere il battesimo, ma è troppo forte la contraddizione con la dottrina della persona perché tali posizioni possano reggere a lungo, oltre particolari momenti di euforico trionfalismo. È d’altra parte sostenibile che tali periodiche deviazioni si fondino su una contrapposizione a Israele di tipo identitario, e non teologico, capace di estendere volta a volta la propria devastante portata. Anche da autorevole fonte ebraica del resto si riconosce che il punto sta qui, piuttosto che nel riferimento a Gesù. In un’im-
3 Cf. i documenti della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo: Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione Nostra aetate (n. 4), del 1974, e i Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell’Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, del 1985, in M. Pesce, Il cristianesimo e la sua radice ebraica. Con una raccolta di testi sul dialogo ebraico-cristiano, EDB, Bologna 1994.
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portante intervista, concessa nei suoi ultimi anni a Le Monde,4 il grande Yeshayahu Leibovitz riconosceva che «un ebreo convertito al cattolicesimo […] evidentemente diventa un ebreo peccatore, ma rimane un ebreo», perché «per gli ebrei […] il cristianesimo […] è semplicemente uno dei modi possibili di rifiutare la halakah», mentre, «per i cristiani, la persistenza dell’ebraismo è un fenomeno inaccettabile, perché il cristianesimo si presenta come il vero Israele, ovvero come l’erede dell’ebraismo, e uno non può ereditare da qualcuno che non è morto»(corsivo nostro). Una contrapposizione strutturale fra Chiesa e Israele può dipendere in effetti solo da questo punto, d’altra parte di evidente carattere identitario e non teologico, cresciuto a tal punto peraltro – come teologumeno di sottofondo per attitudine e pensiero ecclesiali – da occupare tutti i luoghi teologici propri. Non è quindi affatto strano che un acutissimo osservatore come Leibovitz veda questo punto come centrale e necessario, e come la Chiesa abbia dovuto rintracciare la propria reale posizione attraverso un faticoso lavoro di destrutturazione di improprie impalcature. L’autocoscienza ecclesiale provvede ora finalmente a dismettere ogni identificazione con il modello del Nuovo Israele o del Verus Israel, che comporta che la Chiesa sia erede e/o sostituto legittimo di quello storico e reale, mentre acquista (riacquista) la consapevolezza di essere soggetto realmente nuovo, composto di ebrei e gentili. Nessuna delle posizioni ufficiali assunte dalle Chiese rispetto a Israele nella seconda metà del secolo si può tenere, se non in base a questo presupposto che fa giustizia di cumuli e cumuli di teologumeni che hanno retto la teologia, la predicazione, l’omiletica, l’evangelizzazione (e la secolarizzazione stessa in Occidente, per molti aspetti) e la missione: per secoli. L’elemento più notevole del nuovo paradigma, o protocollo della relazione, è la sua congruità non solo rispetto al tipo di relazione che si intende stabilire nei confronti dell’interlocutore Israele, ma rispetto alla natura stessa della Chiesa, come emerge dal Nuovo Testamento e da ogni ricerca della sua identità come soggetto realmente nuovo. Il modello ereditario-sostituzionista che ha costituito per secoli il paradigma dell’autocoscienza ecclesiale e della relazione con Israele non solo risulta infatti un protocollo mortifero per Israele, ma offre della Chiesa una rappresentazione evidentemente incompatibile con l’annuncio salvifico. Non si vede in qual senso infatti un sostituto possa essere nuovo. Non si capisce come un soggetto che si vuole nuovo e salvifico possa accettare di considerarsi come un sostituto. Se ha senso la terminologia nuova evangelizzazione per la fase in cui la Chiesa si pone oggi, deriverà da questa radicale ricerca e ripresa della condizione originaria delle comunità credenti, chiaramente attestata
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Poi ripubblicata in Les Grands Entretiens du Monde, Le Monde, Paris 1994, vol. II.
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nelle Scritture. Le nozioni conciliari intrecciate di popolo di Dio e di mysterion intuivano il problema, che ora si trova totalmente squadernato. È arduo pensare che un qualche ambito della teologia e della pratica ecclesiale possa ritenersi immune dal compito urgente di una globale rivisitazione.5 Per certi aspetti, d’altra parte, il problema è assai vecchio. L’alternativa fra realtà della storia di salvezza – della fede nella quale fa fede il rapporto esatto con il reale popolo di Israele – e ogni gnosi ha una lunghissima storia, e non c’è oggi nulla di più déjà vu della cosiddetta new age. Forse ogni generazione deve passare attraverso il suo proprio romanticismo e la sua propria favola fantasy, ma di new in una tale esperienza non sembra di poter vedere traccia. Se non si dà storia di salvezza reale, con reali protagonisti storici, si darà esperienza culturale di archetipi detti universali, di cui alcuni iniziati potranno avvalersi per stare meglio dei comuni mortali: con l’esito paradossale che il rigido presupposto universalistico genera la setta iniziatica, dopo aver rifiutato l’elezione di Israele che conduce all’orizzonte salvifico universale. Si perdoni questa semplicistica riduzione delle offerte religiose. La si pone per mettere in rilievo come sia pur vero tuttavia che in questo momento per la prima volta veramente tutte le culture sono presenti nelle Chiese e le Chiese sono presenti in tutte le culture, con lo stesso problema di fronte alla propria origine e ragion d’essere: perché l’offerta di esperienze spirituali è completa. La fede nella realtà della storia di salvezza è ora effettivamente alle prese con tutte le possibili simboliche, con tutte le rappresentazioni culturali di archetipi salvifici. Quella biblica (quelle bibliche, tuttalpiù) può apparire come una delle tante, o una summa di tutte. L’Occidente non può vantare alcuna primogenitura rispetto alla percezione della realtà storico-salvifica, dovuta all’incontro diretto della propria tradizione con quella ebraica, dopo la Shoah, se non riconoscere la propria precipua responsabilità nel tentativo del suo annientamento. Storicamente solo l’Occidente infatti è (stato) antisemita. Una tale rivisitazione pone dunque alle Chiese, e all’intera cultura occidentale che non possa non dirsi cristiana, il problema teoretico-teologico della causa e del significato di un così lungo e clamoroso travisamento: perché si intende affermare una verità originaria e inconcussa e – nello stesso tempo – sommersa per secoli. È qui che una nuova considerazione della relazione fra Antico e Nuovo Testamento si impone, che ne ritrovi l’originaria compagnia.
5 Cf. F. Rossi De Gasperis, Cominciando da Gerusalemme (Lc 24,47). La sorgente della fede e dell’esistenza cristiana, con prefazione di C.M. Martini, Piemme, Casale Monferrato 1997.
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3. Antico
e
Nuovo Testamento
Gli approcci e i tentativi sono molteplici, e si mostrano – dalla pubblicistica più illustre e presente nei media alla pratica più quotidiana e modesta della vita pastorale e dell’evangelizzazione in tutti i suoi aspetti – più o meno negli stessi termini, fra i seguenti estremi, la cui enunciazione, ancora una volta necessariamente semplicistica, serve a delimitare il terreno della trattazione. Un certo fondamentalismo, molto diffuso in questa forma quasi inconscia, identificherà immediatamente ogni soggetto cristiano – e addirittura ogni soggetto che venga a contatto con i testi – con l’eletto biblico, senza cura alcuna dell’Israele realmente esistente e dello stesso annuncio cristiano di compimento reale di quella elezione. Un certo simbolismo, pure molto diffuso in questa forma, identificherà immediatamente temi e testi biblici di grande suggestione con i valori della condizione umana, in generale. Anche in questo caso Israele come soggetto realmente esistente scompare, mentre l’evento salvifico raggiunge una tale archetipica universale necessità da scomparire propriamente come l’evento di grazia che – solo – rende predicabile dell’uomo e della creazione questi testi e temi. Chiunque può verificare nella propria esperienza pratica e intellettuale la pervasività di questi modelli, che occupano non solo zone estreme, naturalmente, ma la pubblicistica e l’omiletica corrente, nonché certi ambiti e livelli delle stesse posizioni delle Chiese, sia nelle dichiarazioni che nella prassi disciplinare. Nessuna via di mezzo può essere in effetti proponibile, ma una ricerca di esatta formulazione e di pratica esatta del rapporto Antico-Nuovo così come il Nuovo Testamento stesso lo vive e lo pone, con tutta l’attenzione alle diverse accentuazioni presenti nel Nuovo Testamento. Da un lato infatti l’insieme Antico-Nuovo è presupposto dal Nuovo, mentre dall’altro si riscontrano diverse pratiche e proposte di relazione all’interno del Nuovo stesso, in corrispondenza peraltro di quel riferimento ultimo che percorre tutto il testo della Bibbia ebraica, già indipendentemente dalla reale collocazione nell’insieme, il messianico (utilizziamo questa terminologia, che sembra contenere ogni tensione teologica e culturale di cui il testo è portatore, senza precostituire una visione del messianismo biblico ed ebraico piuttosto che un’altra). Nel tentare qui di formulare alcune semplici tesi a fondamento di una tale ricerca (che una tale ricerca dovrà tenere insieme), penso che sia particolarmente fruttuoso considerare le posizioni e le aspettative di confronto che si mostrano nei saggi «Ecce. Sulle radici scritturali dell’immagine di culto cristiana» e «Un lapsus di papa Wojtyla», pubblicati nell’ultima proposta di saggi di Carlo Ginzburg.6 In ambedue i saggi è presente una
6 Entrambi i saggi in C. Ginzburg, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 2011, 100ss e 210ss.
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certa comprensione del rapporto Antico-Nuovo, in cui si intrecciano lasciti e residui consuetudinari cristiani ed ebraici, insieme a sollecitazioni preziose di presa d’atto della realtà. L’indagine offerta in Ecce rilegge alcuni passaggi essenziali della ricerca contemporanea sul Nuovo Testamento, in rapporto all’emergere «dell’immagine di culto cristiano» (p. 112). Testi profetici delle Scritture d’Israele costituiscono come l’ordito di una tessitura nuova, in cui è centrale la formula di presentazione (e di autopresentazione): ecco! Il percorso attraversa tutti i primi secoli e consente di apprezzare molti elementi spesso troppi lontani l’uno dall’altro per intelletti condizionati dagli steccati eretti fra disciplina e disciplina. È indubbio che trattazioni riservate alla storia dell’arte possono risultare essenziali per un’adeguata conoscenza delle origini cristiane e in particolare dei rapporti fra le Chiese nascenti e le Scritture d’Israele, fra Israele e i primi scritti della Chiesa, fra comunità credenti che non sono (ancora) separate. Proprio a causa di questo evidente intreccio originario non dovrebbe risultare troppo paradossale che «una caratteristica ricorrente nei testi profetici giudaici» crei «le premesse di un fenomeno del tutto diverso e nuovo» (p. 112). Non solo è accaduto attraverso percorsi ricostruibili e intelligibili, ma posto il modo in cui il Nuovo Testamento si pone rispetto alle Scritture di Israele, non poteva – se così si può dire – accadere diversamente. Solo se questo fenomeno del tutto diverso e nuovo è considerato come alternativo (erede/sostituto) a Israele, il processo risulterà «uno straordinario paradosso» (p. 112), ma il Nuovo Testamento non si pone in questo modo rispetto alle Scritture di Israele, né la Chiesa rispetto a Israele. Nel saggio conclusivo degli Occhiacci, Ginzburg analizza l’espressione ormai famosa «fratelli maggiori» con cui Giovanni Paolo II si è rivolto agli ebrei nella visita alla sinagoga di Roma, nell’aprile 1986. Vi si ravvisa un involontario riferimento al luogo decisivo di Rm 9,12 in cui si ricorda il rapporto fra Giacobbe ed Esaù, secondo Gen 25,23, per cui «il maggiore sarà sottomesso al minore» (p. 211). Un saluto deferente risuonerà allora come conferma della tradizionale dottrina della sottomissione di Israele alla Chiesa, perché «Paolo applica la profezia al rapporto tra ebrei e gentili convertiti al cristianesimo: “Il maggiore sarà sottomesso al minore”, cioè gli ebrei (Esaù) saranno sottomessi ai gentili convertiti al cristianesimo (Giacobbe)» (p. 211). Ora, è impensabile che Paolo o qualunque altro testo del Nuovo Testamento si rapporti alle Scritture di Israele in questo modo: se si applica il testo di Genesi a ebrei e gentili, questi ultimi non potranno essere quelli convertiti al cristianesimo, cioè i cristiani, la Chiesa. Si tratterà di tutto Israele e di tutte le genti, e convertiti al cristianesimo – per così dire, perché si tratta di espressione impossibile per il Nuovo Testamento – saranno sempre e da Israele e dalle genti. Chiesa e cristiani sono costitutivamente ebrei e gentili. È questa comunione a dipendere dalla sottomissione di Israele alle genti, ma proprio per questo è impossibile che la comunione stessa sia la parte che gode dei frutti della sottomissione, quella cui Israele è sottomesso. E infatti, quando ci si pone in questi termini la comunione scompare, e il soggetto Chiesa diventa solo di gen-
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tili, e rigetta la sua identità reale per il piatto di lenticchie della supremazia di parte. Il gioco sì, a questo punto, si può ripetere all’infinito, poiché l’evento ha ceduto al mito. Questi due testi di Ginzburg consentono di vedere quali possono essere alcuni punti essenziali della relazione fra Antico e Nuovo Testamento, secondo il Nuovo Testamento: – la Bibbia ebraica e l’insieme Antico-Nuovo Testamento sono i canoni di comunità distinte e nello stesso tempo costituiscono una medesima Scrittura per quanto attiene a tutte le caratteristiche di forma e contenuto; – il Nuovo Testamento non prevede nessun abbandono delle Scritture di Israele, ne esige anzi l’assunzione piena nel loro significato: nessuna giustapposizione, dunque, e nessuna sostituzione; – la categoria di compimento, che indubbiamente è presente nel Nuovo Testamento, comporta la conservazione e non il rifiuto delle Scritture di Israele, per quanto attiene al rapporto fra i testi e alle relazioni fra i soggetti che lo abitano: Israele, le genti, il Signore; – il compimento è dato dall’evento storico di Gesù Cristo, che si pone da e in Israele, per cui ogni rifiuto cristiano della Bibbia ebraica – in qualunque forma si presenti – è insensato e dipende dall’errore materiale della Chiesa etnica che si è intesa rappresentata dalla lettura tipologica dell’Antico Testamento nella figura di Israele: per cui, decaduto l’Israele storico dalla parte che impersonava, ora la Chiesa – da cui scomparivano gli ebrei – può pretenderla per sé, come se in Gesù accadesse quello che non era accaduto in Mosè e il Dio d’Israe le in Gesù avesse deciso di «nuocere al suo popolo» (cf. Es 32,7-14); – se l’identità ecclesiale non può essere di questo tipo, sarà – allora e sempre – quella di un soggetto composto di ebrei e gentili la cui identità carnale/culturale, che permane in tutti i suoi tratti a causa della natura misterica del compimento della storia di salvezza in Cristo, cessa di essere vanto per cedere a un’identità cristiana in cui l’altro è sempre, in Cristo, già presente.
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Contributi biblici ad una teologia dell’evangelizzazione
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La presente comunicazione non intende svolgere teoreticamente il tema dell’apporto dell’esegesi biblica a una teologia dell’evangelizzazione (TE);1 più empiricamente si propone di evidenziare il contributo biblico alla TE a partire da quanto è stato prodotto a Bologna dalla nascita dello Studio Teologico Accademico Bolognese (STAB) e – con esso – di uno specifico percorso di Licenza in TE. La nostra carrellata tiene conto di quattro fonti: gli Atti dei Convegni dello STAB; i volumi della collana «Saggi della sezione Seminario regionale»; la Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione e la collana «Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione». Ci interessano evidentemente i contenuti biblici su cui, in questi anni, si è appuntata l’attenzione a livello di ricerca e di divulgazione, ma anche la prospettiva con cui è stata accostata la Scrittura nell’orizzonte della TE: precisare il ruolo della Bibbia nell’elaborazione complessiva del pensiero teologico è forse ancora più importante che mettere a fuoco le tematiche privilegiate dagli studiosi. Quattro tipi di attenzione guideranno l’esposizione che seguirà, per certi aspetti simile a un inventario: distinguere tra contributi occasionali e apporti più continuativi; indicare temi ricorrenti; tratteggiare un profilo dei principali autori coi loro specifici interessi; tentare eventualmente di scorgere una traiettoria (o delle traiettorie) di sviluppo.
1 Comunicazione tenuta il 17 novembre 2005 al Convegno di TE: «La teologia dell’evangelizzazione in un mondo che cambia».
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1. I
convegni delle due sezioni dello STAB (1982-1998)
1. «La confermazione nel tempo della Chiesa» (27-28 ottobre 1982); pubblicato come Il sacramento della confermazione (Collana di Studi teo logici 1), ESD, Bologna 1983. 2. «L’uomo e l’annuncio della Parola di Dio» (23-24 ottobre 1985); non pubblicato. 3. «Matrimonio e famiglia» (23-24 novembre 1988); pubblicato come Il matrimonio e la famiglia (Claustrum 4), ESD, Bologna 1989; Sacra Doctrina 34(1989)3-4. 4. «La coscienza morale e l’evangelizzazione oggi. Tra valori obiettivi e tecniche di persuasione» (6-7 maggio 1992); pubblicato come La coscienza morale e l’evangelizzazione oggi. Tra valori obiettivi e tecniche di persuasione (Claustrum 11), ESD, Bologna 1992; Divus Thomas 95(1992)2. 5. «Approfondimento concettuale della fede e inculturazione» (3-4 maggio 1995); pubblicato come Approfondimento concettuale della fede e inculturazione (Claustrum 17), ESD, Bologna 1996; Sacra Doctrina 41(1996)3-4. 6. «La teologia nella Chiesa e nel mondo: una doppia appartenenza?» (6-7 maggio 1998); pubblicato come La teologia nella Chiesa e nel mondo: una doppia appartenenza?, in Divus Thomas 101(1998)2. Si tratta di sei convegni distesi nell’arco di diciassette anni (19821998); l’avvio delle procedure per l’erezione della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (1999) ne ha determinato l’interruzione. Essi riprendono oggi con la nostra riflessione su «La teologia dell’evangelizzazione in un mondo che cambia». La pubblicazione degli Atti di questi convegni non ha assunto una forma stabile. L’ospitalità accordata al primo volume presso una collana delle Edizioni Studio Domenicano (ESD) non ha avuto seguito;2 le riviste Sacra Doctrina e Divus Thomas si sono alternate nel pubblicare gli Atti degli ultimi quattro convegni, che – tranne nell’ultimo caso – sono però anche usciti come volume a parte nella collana Claustrum – anch’essa presso ESD. In questi convegni confluivano entrambe le sezioni dello STAB: quella del convento San Domenico, con un orientamento in teologia sistematica di tipo tomista, e quella del Seminario regionale, con un orientamento in teologia dell’evangelizzazione. La natura di queste produzioni è pertanto «ibrida»: l’istanza di tipo sistematico è piuttosto evidente soprattutto nei temi trattati all’inizio. Il primo e il terzo convegno furono, infatti, sui sacramenti della confermazione e del matrimonio: i contributi biblici che li caratterizzano si devono ai padri domenicani Boschi, Prete, Làconi – Ca-
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Gli Atti del secondo convegno non furono mai pubblicati come tali.
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Contributi biblici ad una teologia dell’evangelizzazione
sali.3 A partire dal quarto convegno, la prospettiva dell’evangelizzazione è tematizzata in modo più chiaro4 e diventa più diretto il coinvolgimento dei docenti di Sacra Scrittura della sezione Seminario regionale: accanto a Boschi (tre contributi), compaiono sia Cova (un contributo) che Manicardi (tre contributi).5 L’apporto dato da questi ultimi potrà essere meglio valutato più avanti, tenendo conto anche delle altre produzioni che ci accingiamo a passare in rassegna; per quanto riguarda p. Boschi, si può dire che i suoi studi rappresentino un costante tentativo di precisare leggi e criteri di una teologia biblica che egli applica di volta in volta a una molteplicità di temi diversi.6
2. Studi e saggi della sezione Seminario regionale dello STAB (1993-1997) 1. E. Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione. Saggi in onore di mons. Serafino Zardoni, EDB, Bologna 1993. 2. G.D. Gordini, Storia e vita della Chiesa, EDB, Bologna 1993. 3. E. Manicardi – F. Ruggiero (a cura di), Liturgia ed evangelizzazione nell’epoca dei Padri e nella Chiesa del Vaticano II. Studi in onore di Enzo Lodi, EDB, Bologna 1996. 4. M. Marcheselli – G. Matteuzzi (a cura di), Laici e teologia. I vent’anni di una scuola a Bologna (1977-1997), EDB, Bologna 1997.
3 G.B. Boschi, «Il contributo dell’Antico Testamento alla conoscenza dello Spirito Santo», in Il sacramento della confermazione, 22-39; B. Prete, «L’apporto del libro degli Atti per la conoscenza del sacramento della confermazione», in Il sacramento della confermazione, 40-83; M. Làconi – M. Casali, «Posizioni pastorali su matrimonio e famiglia nel Nuovo Testamento», in Il matrimonio e la famiglia, 102-123. In quest’ultimo caso si tratta, più che di uno studio, di una conversazione a due voci che prende spunto da quattro passi del NT: Mc 10,1-12 (sul ripudio); Mt 10,11-14 (sull’accoglienza dei missionari in una casa); Mt 5,3132 (ancora sul ripudio); Mc 7,8-13 (sul quarto comandamento). 4 I titoli degli ultimi due convegni, in particolare, mostrano un approccio che coniuga esplicitamente vangelo e cultura, il binomio fondante la TE. 5 G.B. Boschi, «Coscienza e sacra Scrittura», in La coscienza morale e l’evangelizzazione oggi, 172-176; Id., «Gli itinerari personali di fede. Il soggetto nell’approfondimento della fede e nell’inculturazione», in Approfondimento concettuale della fede e inculturazione, 174-181; Id., «Il metodo della teologia tra parola di Dio e parola dell’uomo», in La teologia nella Chiesa e nel mondo: una doppia appartenenza?, 25-35; G.D. Cova, «La Parola alle genti. Comunità credente e culture tra Antico e Nuovo Testamento», in Approfondimento concettuale della fede e inculturazione, 21-33; E. Manicardi, «Legge, coscienza e grazia nell’insegnamento paolino», in La coscienza morale e l’evangelizzazione oggi, 12-52; Id., «Bibbia e inculturazione della fede», in Approfondimento concettuale della fede e inculturazione, 227-236; Id., «La doppia appartenenza del teologo, della fede e delle Scritture», in La teologia nella Chiesa e nel mondo: una doppia appartenenza?, 145-155. 6 Dei tre contributi di Boschi citati nella nota precedente, l’ultimo è indubbiamente quello di carattere più fondativo.
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Si tratta di quattro miscellanee, la cui produzione copre un quadriennio appena: la collana si è fermata verso la fine degli anni ’90. Le opere promanano o direttamente dalla sezione Seminario regionale dello STAB o dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose «Ss. Vitale e Agricola», posto sotto il suo patrocinio. Il carattere celebrativo di questi lavori, che nascono in occasione di anniversari significativi di docenti (Zardoni, Gordini e Lodi) o di istituzioni (l’Istituto di Scienze Religiose), non toglie loro rappresentatività rispetto a quanto viene maturando alla sezione Seminario regionale dello STAB nel corso degli anni ‘90. Gli autori di contributi biblici sono una decina:7 Grandi,8 Cova, Manicardi, Petrini, Mori, Catti, Amaducci, Cothenet, Serra Zanetti, Fabris.9 La miscellanea Zardoni accoglie ben sette articoli di tipo biblico (tre sull’AT e quattro sul NT), due la miscellanea Lodi (entrambi sul NT) e tre il libro che celebra i vent’anni della Scuola di Teologia/Istituto di Scienze Religiose. I tre contributi pubblicati in Laici e teologia non sono propriamente su temi biblici, ma sul ruolo della Bibbia nella vita della Chiesa: la trasformazione che si opera intorno al concilio nello studio della Scrittura, la lettura della Bibbia a livello popolare, la proposta di settimane bibliche residenziali come forma di apostolato biblico.10 Le aree toccate dai nove studi offerti in onore di Zardoni e Lodi sono i profeti,11 i vangeli12 e soprattutto l’epistolario paolino;13 a esse si aggiungono alcuni grandi temi biblici come il patto, i ministeri e la liturgia.14
7 Contributi di tipo biblico si trovano in tre delle quattro miscellanee; fa ovviamente eccezione il volume Storia e vita della Chiesa, che raccoglie una selezione di studi di storia della Chiesa di Gordini. 8 È l’unico a cui si debbano due articoli: uno in Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione e l’altro in Marcheselli – Matteuzzi (a cura di), Laici e teologia. Per un profilo di questa figura, cf. E. Manicardi, «Vittorio Grandi, esegeta bolognese postconciliare», in RTE 5(2001), 389-395. 9 La «Lettera all’assemblea dei gruppi biblici» di Dossetti, pubblicata in Laici e teologia, non fu propriamente scritta per questa miscellanea. 10 Si tratta, rispettivamente, di V. Grandi, «Dalla “difesa della sacra Scrittura” allo “studio della Bibbia”», in Marcheselli – Matteuzzi, Laici e teologia, 255-264; G. Dossetti, «Lettera all’assemblea dei gruppi biblici», in Marcheselli – Matteuzzi (a cura di), Laici e teologia, 265-282; R. Fabris, «Le settimane bibliche della Scuola di Teologia negli anni ’80. Un’esperienza di “apostolato biblico”», in Marcheselli – Matteuzzi (a cura di), Laici e teologia, 283-289. 11 V. Grandi, «L’annuncio di JHWH unico Salvatore nel DeuteroIsaia», in Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione, 51-62; G.D. Cova, «Il profeta e la grande città. Prolegomeni a una lettura biblica dall’annuncio a Ninive al segno di Giona», in Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione, 63-80. 12 E. Manicardi, «Il discorso di Gesù per l’invio dei Dodici a Israele nel Vangelo secondo Matteo», in Id. (a cura di), Teologia ed evangelizzazione, 81-108. 13 M. Petrini, «Paolo evangelizzatore di Corinto. L’annuncio del vangelo sotto l’aspetto storico-sociologico», in Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione, 109-128; L. Amaducci, «Riflessioni di un pastore sull’evangelizzazione in san Paolo», in Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione, 367-384; P. Serra Zanetti, «Consenso al vangelo e gloria di Dio. In margine a 2Cor 9,11-13», in Manicardi – Ruggiero (a cura di), Liturgia ed evangelizzazione nell’epoca dei Padri e nella Chiesa del Vaticano II, 43-53. 14 Cf., rispettivamente, G. Catti, «L’alleanza e la terra», in Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione, 349-356; E.G. Mori, «Accettazione e sviluppo dei ministeri negli
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3. La Rivista di Teologia dell ’E vangelizzazione La Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione, nata nel 1997 come espressione della sezione Seminario regionale dello STAB, ha compiuto ormai il nono anno di vita. Nell’arco di questo periodo essa ha pubblicato ventitré contributi direttamente attinenti alla Scrittura.15 Otto di essi riproducono relazioni tenute in varie circostanze della vita accademica,16 per lo più nel quadro della mattinata del Giovedì dopo le Ceneri: da una decina di anni (Quaresima 1997) essa è divenuta un appuntamento costante (rivolto soprattutto – ma non esclusivamente – al clero) in vista della preparazione dell’annuncio pasquale.17 La maggior parte degli altri quindici articoli riflette insegnamenti impartiti nei corsi di Licenza in TE. I contributi di Manicardi sono sette,18 mentre Cova e Marcheselli ne contano tre ciascuno.19 I due articoli di Fabris sono il frutto di interven-
scritti più recenti del Nuovo Testamento», in Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione, 129-147; E. Cothenet, «Liturgia ed evangelizzazione nel Nuovo Testamento», in Manicardi – Ruggiero (a cura di), Liturgia ed evangelizzazione nell’epoca dei Padri e nella Chiesa del Vaticano II, 27-42. 15 A cui si potrebbe aggiungere un intervento al Laboratorio di spiritualità: L. Manicardi, «Lotta spirituale e maturazione affettiva», in RTE 8(2004), 465-478. 16 Una prolusione per l’inizio dell’anno accademico: G. Betori, «Comunicare il vangelo: l’esperienza delle origini cristiane nei discorsi kerygmatici degli Atti», in RTE 5(2001), 327-340; una mattinata di aggiornamento teologico per i presbiteri e gli operatori pastorali della regione Emilia-Romagna: R. Fabris, «Educare alla libertà e al realismo: “La legge della libertà” nella Lettera di Giacomo», in RTE 6(2002), 73-91; il saluto di congedo al cardinale G. Biffi: E. Manicardi, «Il cristocentrismo di Giacomo Biffi: note di un biblista», in RTE 8(2004), 81-85. 17 Cf. L. Monari, «Il messaggio teologico della risurrezione», in RTE 1(1997), 211-220; J.-N. Aletti, «Testimoni del Risorto. Spirito Santo e testimonianza negli Atti degli Apostoli», in RTE 2(1998), 287-298; R. Vignolo, «Una finale reticente: interpretazione narrativa di Mc 16,8», in RTE 7(2003), 151-173; P.A. Tremolada, «L’annuncio pasquale secondo Luca», in RTE 8(2004), 109-117; R. Fabris, «“Fate mie discepole tutte le nazioni” (Mt 28,19)», in RTE 9(2005), 209-220. 18 Ben cinque di essi sono stati ripubblicati nel primo volume di «Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione» (BTE): E. Manicardi, «La terza apparizione del Risorto in Luca», in RTE 1(1997), 5-27; Id., «La Bibbia nell’evento dell’evangelizzazione», in RTE 2(1998), 21-39; Id., «Il racconto lucano dell’infanzia di Gesù e la cristologia», in RTE 4(2000), 7-28; Id., «Teologia della creazione nella Lettera agli Efesini», in RTE 6(2001), 5-33; Id., «Criteri di storicità e storia di Gesù oggi», in RTE 7(2003), 421-442. I restanti due sono la lettura in prospettiva biblica del cristocentrismo di G. Biffi citato in nota 16 e «Dio Padre nella prospettiva del Vangelo secondo Matteo», in RTE 2(1998), 195-215. 19 G.D. Cova, «Alla fine dei giorni. Ricerche sulla vita oltre la morte nella Bibbia ebraica e nell’Antico Testamento greco», in RTE 1(1997), 237-242; Id., «Scrittura ed Evangelizzazione: nodi emergenti», in RTE 2(1998), 61-71; Id., «Note preliminari per l’apprezzamento della natura canonica dei testi biblici in esegesi», in RTE 9(2005), 59-78; M. Marcheselli, «L’escatologia futura in Gv 1,19–12,50», in RTE 1(1997), 149-171; Id., «Per una cristologia della Prima lettera di Giovanni», in RTE 3(1999), 231-252; Id., «Il Risorto si manifesta in un evento e in un dialogo: Gv 21 come composizione letteraria unificata», in RTE 8(2004), 353-395.
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ti a mattinate seminariali di diverso genere. Altri otto autori contano un contributo a testa: Monari, Aletti, Benzi, Betori, Biguzzi, Vignolo, Penna, Tremolada.20 La quasi totalità degli articoli di tipo biblico apparsi sui primi diciotto numeri di RTE può essere raccolta attorno a quattro nodi tematici: a) una riflessione fondativa sul posto delle Scritture nella vita della Chiesa e sul ruolo della Bibbia nella trasmissione della rivelazione; b) la cristologia del NT, studiata in stretta connessione con il Gesù storico e con la rivelazione su Dio portata da Gesù Cristo; c) la speranza cristiana: l’escatologia e la risurrezione; d) la missione. A livello dei temi trattati si nota immediatamente la netta prevalenza del NT. Si deve tuttavia riconoscere che il grande «problema» e la grande chance della TE è proprio il fatto che è la Scrittura in quanto tale a porsi come luogo privilegiato di riflessione e di annuncio. Si può forse dire che, nella prospettiva di una TE, per «contenuti biblici» si dovrà paradossalmente intendere – soprattutto per quanto riguarda l’AT, ma per certi aspetti anche per il NT – più un ricercare nella natura delle Scritture (canonica, testimoniale, memoriale, messianica) che un indagare in luoghi e temi che possano apparire come pertinenti per l’evangelizzazione. Che dire, più specificamente, dello studio dell’AT in chiave di TE? L’articolo di Benzi sul Servo sofferente come figura di Cristo si muove secondo una linea che possiamo collegare a Beauchamp, mentre Cova propone un approccio di tipo canonico che merita attenta considerazione in questo nostro tentativo di bilancio.21 Si può affermare che per lui il nodo della TE sta nell’autocomprensione del soggetto evangelizzante e del modo in cui esso si concepisce rispetto a Israele: questo punto trascina con sé (anzi – propriamente – presuppone) una certa attitudine nella lettura della Bibbia ebraica (= l’AT). L’apporto biblico a una TE consiste, in questa prospettiva, in una corretta impostazione e in un coerente sviluppo di una lettura dell’AT che promani da un’autocomprensione ecclesiale adeguata.22 I temi sono pertanto relativamente poco rilevanti, mentre più intrinsecamente importante è l’attenzione a un approccio in termini ca-
20 In tre casi si tratta di studi prodotti appositamente per RTE: G. Benzi, «Il Servo sofferente, figura di Cristo. Linee per una lettura esegetica e teologica dei Canti del Servo di Isaia», in RTE 3(1999), 211-229; G. Biguzzi, «L’annuncio della carità in 1Cor 13 e oggi», in RTE 6(2002), 371-383; R. Penna, «Unità del cristianesimo e cristologie neotestamentarie», in RTE 7(2003), 205-214, sintesi di un corso tenuto alla Licenza in TE. 21 Facciamo un rapido bilancio di questo autore sulla base soprattutto di quanto apparso in RTE, tenendo conto, tuttavia, che abbiamo già inventariato complessivamente cinque suoi contributi: oltre ai tre articoli per RTE, un contributo per il convegno STAB del 1995 e uno per la miscellanea in onore di Zardoni. 22 Il documento della Pontificia commissione biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (Ascensione 2001) contiene elementi interessanti da questo punto di vista, soprattutto nella sezione A della parte II; ancora di più ne contiene la Prefazione dell’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede J. Ratzinger.
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nonici:23 la Bibbia ebraica e l’insieme AT-NT costituiscono una medesima Scrittura per quanto attiene a tutte le caratteristiche di forma e contenuto, ma allo stesso tempo sono i canoni di comunità distinte. L’interesse per una lettura canonica così intesa corrisponde precisamente alla necessità di articolare in modo corretto il riferimento alle due distinte comunità di fede e di trasmissione dei testi.
4. L a collana «Biblioteca di Teologia dell ’E vangelizzazione » L’erezione della Facoltà Teologica ha portato ad avviare, per i tipi di EDB, una nuova collana destinata a pubblicare studi e ricerche maturati nell’ambito della regione emiliano-romagnola. Il primo numero di BTE, uscito nel 2005, è una raccolta di venti saggi esegetici e teologici di E. Manicardi dal titolo: Gesù, la cristologia, le Scritture. BTE 1 si presenta come «un apripista nel campo della TE» che offre «riflessioni approfondite sul contenuto essenziale dell’evangelizzazione, Gesù Cristo e le Scritture, oltre che sulla missione e l’inculturazione del vangelo».24 Questa selezione presenta studi di Manicardi prodotti nell’arco di circa vent’anni (1984-2004) e pubblicati precedentemente altrove: solo sei dei venti saggi di questa raccolta provengono, però, dalle fonti indicate sopra (cinque da RTE e uno dagli Atti del Convegno STAB del 1995). Il volume offre, pertanto, uno sguardo ad ampio spettro sulla produzione di Manicardi: quattro degli studi in esso raccolti sono legati ai convegni dell’Associazione biblica italiana; due provengono da Festschriften (per i vescovi Baroni e Martini); due da altri convegni di tipo scientifico (della diocesi di Bologna, in occasione di un congresso eucaristico, e dello Studio Teologico Aquilano); tre da convegni di taglio più pastorale (organizzati in due casi dai superiori degli istituti religiosi e in uno dal santuario della Madonna delle lacrime di Siracusa); uno per ciascuno da un’importante collana di introduzione alla Bibbia («Logos»), dalla rivista teologica degli istituti missionari italiani (Ad Gentes) e da un periodico di alta divulgazione biblica (Parola Spirito e Vita). Scrivendo la presentazione al volume ne abbiamo tentato una lettura d’insieme, partendo da ciascuno dei venti saggi proposti e andando alla ricerca di connessioni profonde, capaci di mostrare il livello di coerenza
23 «Benché con approccio canonico si intenda comunemente una metodologia particolare, connotata da riferimenti specifici a scuole e autori ben noti sulla scena dell’esegesi contemporanea, l’espressione offre e mantiene una sua preziosa vaghezza e consente ancora una ricerca libera» (G.D. Cova, «Note preliminari per l’apprezzamento della natura canonica dei testi biblici in esegesi», in RTE 9[2005], 59). 24 E. Castellucci, «La Licenza in Teologia dell’Evangelizzazione: la teologia nella prospettiva dell’annuncio di Cristo», in RTE 9(2005), 16.
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del percorso intellettuale, spirituale e pastorale di Manicardi.25 Benché non tutto questo materiale sia fin dall’origine targato TE, ci è parso tuttavia di poter riconoscere alcune linee fondamentali di grande interesse proprio per una TE in prospettiva biblica.26 Tra le costanti della produzione esegetica e teologica di Manicardi, evidenziate nella presentazione del volume, ci preme qui ricordarne in modo particolare due: la preoccupazione che la Bibbia e il suo studio letterario e storico trovino il posto che compete loro nella teologia, nell’evangelizzazione, nella spiritualità, e la ferma convinzione che il nesso fondamentale, capace di guidare l’interpretazione biblica, è quello tra testo ispirato e vissuto concreto attuale (vale a dire, tra le Scritture e la storia o – se si vuole – tra il vangelo e la cultura degli uomini).27 Il titolo generale del volume mette il lettore davanti a una triade: Gesù, la cristologia, le Scritture. Ognuno di questi tre termini riceve poi una propria specificazione quando entra a formare il titolo delle singole sezioni della raccolta: Gesù di Nazaret, perché il riferimento a Gesù si declina primariamente come interesse per il Gesù storico quale ce lo restituisce la storiografia attuale; cristologia nel Nuovo Testamento, perché la riflessione cristologica condotta in questi saggi rispetta la varietà delle immagini neotestamentarie di Gesù, senza rinunciare a cercarne l’unità profonda; le Scritture nella Chiesa, perché il richiamo alle Scritture si pone nella linea di un interesse per il significato che esse hanno per la vita della Chiesa, per l’elaborazione teologica, l’annuncio, la spiritualità. Le prime due parti del libro offrono dunque importanti indicazioni, innanzitutto per quanto riguarda i contenuti biblici di una TE che non può che essere primariamente cristologica. Il ruolo della Scrittura nel farsi di una TE è in ogni caso il vero denominatore comune che soggiace all’intero volume e ne rappresenta il principio unificante. È annunciato, per l’autunno 2007, uno studio sul libro dell’Emmanuele (Is 6,1–9,6) di Benzi che rappresenterà il quarto volume della serie.28 Il numero due della collana, per l’autunno 2006, è una nostra ricerca sulla
25 M. Marcheselli, «Presentazione», in E. Manicardi, Gesù, la cristologia, le Scritture. Saggi esegetici e teologici (BTE 1), a cura di M. Marcheselli, EDB, Bologna 2005, 5-26. 26 La produzione di Manicardi è più ampia di quanto è stato raccolto in questo volume e alcune delle omissioni potrebbero essere significative per la TE: si pensi in modo particolare ai due studi sul perdurante valore della missione verso Israele per la redazione matteana e cioè «Il discorso di Gesù per l’invio dei Dodici a Israele nel Vangelo secondo Matteo», in Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione, 81-108, in particolare 100-102, e «La missione per i Giudei e il carattere giudeocristiano del Vangelo secondo Matteo», in Ricerche Storico Bibliche 15(2003)2, 75-102. 27 «Luca sa che il cammino concreto della missione verrà scoperto nella fatica della lettura degli avvenimenti storici, ma è altrettanto consapevole che l’evangelizzazione nasce – ancor più profondamente – dalla consapevolezza del disegno universale di Dio, affidato alle Scritture e manifestato pienamente nella risurrezione di Gesù» (E. Manicardi, «La terza apparizione del Risorto nel Vangelo secondo Luca», in Manicardi, Gesù, la cristologia, le Scritture, 309). 28 In realtà questo volume è diventato il terzo della serie [ndr].
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seconda finale del quarto vangelo: «Avete qualcosa da mangiare?». Un pasto, la comunità, il Risorto.29 L’indagine cerca di offrire una comprensione unitaria dell’intenzione redazionale che ha guidato la composizione di Gv 21 e la sua collocazione in appendice al quarto vangelo, ma in relazione organica con la parte già esistente. L’epilogo di Gv mostra un evidente interesse missionario e risulta pertanto centrale nella prospettiva di una riflessione sugli aspetti fondativi dell’annuncio del vangelo, innanzitutto dal punto di vista delle sue modalità e dei suoi contenuti. Altri due tratti caratteristici di Gv 21 non sono tuttavia di minore importanza per la TE: il modo in cui questo capitolo si rapporta alla tradizione (giovannea) già esistente, che viene riletta e attualizzata (rapporto tra elemento normativo già fissato e istanza attualizzante); l’articolato rapporto tra Pietro e il discepolo che Gesù amava come esempio di dialogo interecclesiale – e dunque potenzialmente ecumenico: questi due discepoli infatti vi appaiono come rappresentanti di comunità cristiane diverse che – anziché a un conflitto – approdano a una comunione, capace di salvaguardare identità e diversità.
29 BTE 3 non avrà, invece, carattere biblico [il volume qui annunciato con il numero 3 non è ancora uscito, ndr].
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Tra vangelo e culture: la teologia dell’evangelizzazione come scienza della fede annunciata
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Le mie riflessioni hanno l’intento di contribuire a una più ampia fonda zione dello statuto epistemologico della teologia dell’evangelizzazione. La domanda da cui vorrei cominciare è prevedibile: se e a quali condizio ni la teologia dell’evangelizzazione è un sapere scientifico. Se non sba glio, da quando si pensa in termini di teologia dell’evangelizzazione, non si è mai affrontato specificamente questo problema, anche se nel concre to esercizio della teologia dell’evangelizzazione si è sempre presuppo sta una determinata autocomprensione di questo sapere come scientifi camente fondato.1 Prima di analizzare che cosa ci dice di sé la teologia dell’evangeliz zazione, vorrei scoprire le mie carte e dire che cosa intendo per teologia. Mi riconosco in quella corrente moderna di pensiero che considera la teo logia come scienza della fede, o meglio ancora come scienza dell’espe rienza credente. La teologia è quella forma di sapere razionale che riflette criticamente sull’atto vivente del credere e sulle implicazioni antropolo giche, culturali e sociali che esso ha.2 S’intende che qui stiamo parlando
1 Questo è il tema centrale che si riscontra nei molti articoli pubblicati dai teologi bolo gnesi su Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione, che da quasi dieci anni è la voce più autorevole della teologia dell’evangelizzazione. 2 I miei punti di riferimento sono parecchi e molto differenti tra loro. Ne cito solo alcuni, per agevolare il lettore a comprendere il background teologico di queste riflessioni. Nel pensiero cattolico: M. Blondel, Storia e Dogma, Queriniana, Brescia 1992; J.B. Metz, La fede nella storia e nella società. Studi per una teologia fondamentale pratica, Queriniana, Brescia 1978; E. Schillebeeckx, Il Cristo. La storia di una nuova prassi, Queriniana, Brescia 1980; J. Sobrino, Gesù Cristo Liberatore. Lettura storico-teologica di Gesù di Nazareth, Cittadella, Assisi 1995. In campo riformato: D.F. Schleiermacher, La Dottrina della fede, esposta siste-
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della teologia cristiana. Perciò considero la teologia non un sapere stret tamente speculativo (non importa se di tipo metafisico o trascendentale), ma un sapere pragmatico, che s’interroga sulle condizioni di possibilità della relazione uomo-Dio all’interno di un concreto contesto storico e cul turale. Non mi voglio dilungare oltre e rimando all’idea della teologia come sapere metaforico, che ho esposto recentemente nel fascicolo 17 della nostra Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione.3
1. L’autocomprensione della teologia dell ’ evangelizzazione
e le altre teologie contemporanee
La teologia dell’evangelizzazione è il sapere di un atto dinamico: l’an nuncio del vangelo. Come tale non si lascia fotografare come se fosse un oggetto inerte. Possiamo dire qualcosa su di essa solo interpretando le relazioni che essa costituisce. Ciò comporta subito una conseguenza: stu diando le sue relazioni, la teologia dell’evangelizzazione ci apparirà ine vitabilmente come un sapere relazionale, la cui identità non si manifesta distinta dal suo essere-con e essere-per. 1.1. La teologia dell’evangelizzazione si occupa della fides qua nuntiatur. L’atto dell’annunciare è il suo primo oggetto scientifico. In esso sono implicati due o più soggetti (individuali o collettivi), che stanno tra loro in una relazione comunicativa. A differenza della teologia della rivelazio ne, qui l’accento cade non sull’origine divina dell’atto comunicatore, ma sulla sua reciprocità comunicante. L’altro a cui si rivolge l’azione evan gelizzatrice della Chiesa non può essere definito semplicemente come un destinatario passivo del messaggio salvifico, ma come un recettore attivo e creatore, in grado di interagire con coloro che gli inviano il messaggio. Questa interazione non riguarda solo l’atto materiale dell’annuncio e le dinamiche comunicative che esso innesca, ma anche le condizioni teolo giche e culturali che rendono possibile tale avvenimento. In secondo luogo, la teologia dell’evangelizzazione si occupa della fides quae nuntiatur. Il contenuto e la forma linguistica del messaggio sono assolutamente rilevanti in ordine alla sua comunicazione. Nella concreta formulazione del messaggio prende corpo quella doppia fedeltà a Dio e all’uomo che rappresenta l’istanza progettuale che generò più di venti cinque anni fa il progetto della teologia dell’evangelizzazione. Si tratta
maticamente secondo i principi fondamentali della Chiesa evangelica, Paideia, Brescia 1981-1985; E. Troeltsch, Etica, religione, filosofia della storia, Guida, Napoli 1974; R. Bultmann, Enciclopedia teologica. Introduzione allo studio della teologia, Marietti, Genova 1989; W. Pannenberg, Epistemologia e Teologia, Queriniana, Brescia 1975. 3 P. Boschini, «Abbozzo di riflessione epistemologica per un progetto organico di storia della teologia: memoria credente e linguaggio della fede», in RTE 9(2005), 37-57.
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Tra vangelo e culture: la teologia dell’evangelizzazione come scienza della fede annunciata
di una fedeltà giocata su più piani contemporaneamente. A livello teo logico, essa presuppone una riflessione trinitaria articolata: una cristolo gia, che nella kenosi del Figlio di Dio nell’uomo Gesù pone la condizione storica dell’atto comunicatore;4 una pneumatologia, ovvero la tematizza zione della presenza dinamica di Dio nel mondo che precede e rende possibile l’annuncio.5 A livello culturale, questa doppia fedeltà richiama la questione dell’interazione tra il linguaggio della tradizione e quello dell’innovazione e pone il problema del profetismo cristiano.6 A livello fi losofico, è in gioco la questione ermeneutica per eccellenza: la possibilità che un linguaggio del passato possa essere comprensibile e rilevante per la contemporaneità.7 All’intersezione di questi differenti piani si trova la Chiesa, nella sua triplice dimensione di soggetto teologico, culturale e interpretante. A par tire di qui, posso tentare anche una terza definizione della teologia del l’evangelizzazione come riflessione credente sull’azione evangelizzatri ce, collettiva e pubblica dei cristiani. L’annuncio infatti non è mai opera individuale, ma è prassi organica di una comunità.8 1.2. La relazionalità non è solo una configurazione interna al sapere della teologia dell’evangelizzazione, ma è una componente del suo con creto rapportarsi con altri saperi teologici. La prima e più fondamentale relazione è con la teologia biblica. La riflessione sull’atto dell’annuncio non può prescindere dal kerygma pro tocristiano e dalle sue relazioni complesse e ramificate con la tradizione biblica ebraica.9 Grazie a ciò, la teologia dell’evangelizzazione si è con figurata sin dall’inizio anche come esegesi ed ermeneutica della pras si evangelizzatrice delle Chiese protocristiane. Questo rapporto con le scienze bibliche dipende anche da fatti contingenti, che hanno avuto un
4 Cf. M. Marcheselli, «Per una cristologia della Prima lettera di Giovanni», in RTE 3(1999), in particolare 243-245. 5 Cf. E. Manicardi, «La terza apparizione del Risorto», in RTE 1(1997), in particolare 26-27 (anche in Id., Gesù, la cristologia, le Scritture. Saggi esegetici e teologici, a cura di M. Marcheselli, EDB, Bologna 2005, 285-309). Un abbozzo di pneumatologia molto vicino a quello tematizzato dalla teologia dell’evangelizzazione si trova in W. Kasper – G. Sauter, La Chiesa, luogo dello Spirito. Linee di ecclesiologia pneumatologica, Queriniana, Brescia 1980. 6 Questo è il tema dell’inculturazione della fede, su cui ritorna spesso la teologia dell’evangelizzazione. Nello specifico, circa il rapporto ermeneutico tra origini e contempo raneità, cf. E. Manicardi, «Bibbia e inculturazione della fede», in Sacra Doctrina 41(1996), 227-236 (anche in Id., Gesù, la cristologia, le Scritture, 363-369). Più in generale, cf. G. Filoramo (a cura di), Carisma profetico. Fattore di innovazione religiosa, Morcelliana, Brescia 2003. 7 Anche se le conclusioni esistenzialiste della sua ermeneutica sono discutibili e supe rate, un punto di riferimento necessario per l’impostazione di questa problematica resta il saggio di R. Bultmann, «Il problema dell’ermeneutica», in Id., Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 1977, 565-588. 8 Cf. M. Fini, «Il magistero papale postconciliare sull’evangelizzazione e la sua rice zione nella Chiesa», in RTE 2(1998), 41-60. 9 Cf. G.D. Cova, «Scrittura ed evangelizzazione: nodi emergenti», in RTE 2(1998), 61-71.
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ruolo decisivo nella nascita e nello sviluppo della teologia dell’evangeliz zazione. Con il piccolo ma affiatato gruppo, i biblisti bolognesi che hanno partecipato alla nascita e allo sviluppo di questo progetto teologico han no condotto il loro lavoro esegetico secondo i criteri della teologia biblica cattolica scaturita dalla Dei Verbum. Il metodo storico-critico s’intreccia con una lettura teologica attenta al vissuto comunitario: in questo modo, la comprensione del testo biblico ispira l’ecclesiologia e corregge la prassi ecclesiale. Non c’è evangelizzazione senza inculturazione della fede, ma questa, a sua volta, senza il ricorso alla sacra Scrittura, difficilmente po trebbe evitare il rischio di fraintendimenti.10 La teologia dell’evangelizzazione è ben più che una teologia kerygma tica di sapore esistenzialista. Non si accontenta di proclamare barthia namente l’infinita trascendenza di Dio e l’altrettanto infinita fragilità dell’uomo; né si riconosce appieno nell’appello bultmanniano alla deci sione per la fede e per l’autenticità etica dell’esistenza. Pur rispettando questi approcci e riconoscendo un certo debito verso di essi, la teologia dell’evangelizzazione li trova troppo formalistici e ad essi preferisce una comprensione più articolata e molteplice dell’annuncio neotestamenta rio. Attraverso questa riflessione biblica sui contenuti, sui metodi e sui soggetti dell’annuncio, la teologia dell’evangelizzazione vuole individua re e riproporre come valide anche per il presente le condizioni che resero possibile la nascita di quel particolare linguaggio (il vangelo) e lo svilup po di quella comunità comunicante (la Chiesa). Questo approccio biblico consente alla teologia dell’evangelizzazione di comprendere il mondo da evangelizzare come pervaso di segni indi canti la presenza salvifica di Dio.11 Così essa rifugge dagli approcci dia lettici che caratterizzarono la teologia kerygmatica della prima metà del ‘900. Grazie al suo metodo di comprensione biblica, attento al vissuto concreto e teologicamente fedele alla terra, la teologia dell’evangelizza zione si caratterizza come teologia della speranza del mondo e si contrap pone a tutte le teologie della catastrofe e della disperazione del mondo, che oggi sono sempre più di moda. 1.3. La seconda relazione che mi propongo di analizzare è quella con le cosiddette «teologie del genitivo», o teologie contestuali. Erano molto in voga a metà degli anni ’70, quando appunto nacque la teolo gia dell’evangelizzazione. Mi chiedo se e in che modo esse abbiano con tribuito a determinarne l’identità. Leggendo con attenzione la produzio
10 Cf. E. Manicardi, «La Bibbia nell’evento dell’evangelizzazione», in RTE 2(1998), 21-39 (anche in Id., Gesù, la cristologia, le Scritture, 371-391). Nella conclusione Manicardi fa rife rimento anche al significato evangelizzatore che, nell’odierno contesto culturale pluralista, ha una lettura della Bibbia «al di là delle divisioni confessionali». 11 Cf. M. Cassani, «Evangelizzazione ed etica: appartenenza ed autonomie» in RTE 2(1998), in particolare 121-124: «L’esperienza umana provoca e arricchisce l’evangelizza zione, costringendola a tornare alle sue fonti, per nuovamente interrogarle e approfondirle su aspetti precedentemente non ancora o non sufficientemente considerati».
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ne teologica dell’ultimo quarto di secolo, non si può dire che la teologia dell’evangelizzazione sia stata condizionata in modo specifico dalla teo logia politica, né dalla teologia della liberazione o da altre teologie sor te nelle Chiese più giovani, né tantomeno da quella femminista. Essa fu condizionata dal clima culturale degli anni del dopo-concilio e a tutt’oggi risente di quel modo di fare teologia che parte dal basso, cioè dalle for me viventi della fede cristiana e della sua comunicazione. Mi sembra di poter dire che la teologia dell’evangelizzazione non abbia a sua volta condizionato nessuna di queste prospettive teologiche. Non credo che questa condizione di reciproca indifferenza dipenda dal carattere regio nale della teologia dell’evangelizzazione, ma piuttosto dal suo particolare modo di cominciare dal basso. Al principio delle teologie contestuali c’è una chiara e forte opzione ideologica, che fa scegliere quella determinata prospettiva come apportatrice di verità. La teologia dell’evangelizzazione ha maturato nei confronti del dogma cristiano e della tradizione teologica un approccio metodologicamente più libero da opzioni di valore. Ciò si riflette nel suo concreto esercizio del metodo induttivo: essa parte dall’in terpretazione della multiforme e contraddittoria realtà storica della fede vissuta e annunciata e non dall’analisi del suo uniforme distillato concet tuale.12 In quanto teologia della fede annunciante, in essa prevale un at teggiamento comprendente e non immediatamente un’istanza critica. Il dogma non funge da liquido di contrasto per la formulazione di tesi che si contrappongono a esso, ma è tenuto in conto come criterio orientativo e del sapere teologico. Grazie a questo suo particolare approccio dal basso, la teologia del l’evangelizzazione tende a valorizzare le forme non canoniche della comu nicazione della fede, come quelle delle arti figurative, della musica e della letteratura e perciò si intreccia bene con l’idea di costruire la storia della teologia a partire dalle metafore teologiche presenti nei linguaggi non teo logici.13 Per il suo metodo induttivo, la teologia dell’evangelizzazione si può coniugare anche con modalità prassistiche del sapere teologico, come la teologia pratica. Più che nella produzione scientifica, questa attitudine pastorale sta scritta nel concreto esercizio della teologia come disciplina accademica: accanto ai corsi curricolari di licenza, la teologia dell’evan gelizzazione è stata ed è insegnata e praticata nei laboratori pastorali e di spiritualità rivolti specificamente agli operatori pastorali. Da questo punto
12 Ciò si compie grazie soprattutto a un fecondo confronto con le lettere encicliche Evangelii nuntiandi (1975) e Redemptoris missio (1990); cf. M. Fini, «L’Evangelii Nuntiandi e la Redemptoris Missio», in RTE 4(1998), 251-268. 13 Cf. D. Gianotti, «Salvezza cristiana e forme del pensiero teologico. Una riflessione alla luce del contributo teologico di Ghislain Lafont», in RTE 5(2001), 21-35. Non è casuale che proprio nella Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, recentemente costituitasi intorno al progetto della teologia dell’evangelizzazione, stia prendendo corpo il progetto di ricerca di una storia della teologia a partire dalle metafore teologiche. Cf. nota 3.
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di vista, quello che ancora manca è una compiuta elaborazione del signifi cato della teologia dell’evangelizzazione come teologia pratica.14 1.4. L’ultimo nesso su cui vorrei soffermarmi riguarda il rapporto tra la teologia dell’evangelizzazione e le discipline della teologia sistematica, in particolare la cristologia e l’antropologia/soteriologia. Se guardiamo a come sono state concretamente sviluppate in questi ultimi venticinque anni nelle sedi accademiche bolognesi in cui è stata insegnata la teolo gia dell’evangelizzazione, notiamo subito che esse non sono esterne, ma organicamente interne alla stessa teologia dell’evangelizzazione. Questa constatazione storica non dice ancora nulla di probante. Qualcuno po trebbe dire: la teologia dell’evangelizzazione è solo un contenitore e den tro ci può stare un po’ di tutto. Probabilmente all’inizio fu effettivamente così, quando si cominciò questo cammino senza sapere con certezza dove sarebbe approdato. Ma leggendo attentamente la vicenda della teologia dell’evangelizzazione, dobbiamo dire che adesso essa è qualcosa di più che una macedonia di elementi presi a prestito dalle discipline della teo logia sistematica.15 In quanto saperi interni alla teologia dell’evangelizzazione, la cristo logia e l’antropologia hanno acquisito una struttura decisamente meno concettuale e più narrativa. Mi riferisco al fatto che la teologia dell’evan gelizzazione pensa Cristo e l’economia salvifica come un racconto, cioè come un evento linguistico che rivive ogni volta che viene annunciato e trafficato nella relazione comunicativa. Ciò significa concepire la comuni cazione della fede come l’atto che traccia l’orizzonte di temporalità, entro cui si rende possibile il rapporto uomo-Dio e uomo-uomo. Qui si eviden zia ancora una volta la doppia radice biblica e moderna della teologia dell’evangelizzazione. Credo che ciò renda anche ragione della relazione strutturale con la teologia liturgica e sacramentaria, concepita dalla teo logia dell’evangelizzazione come teologia del racconto in atto, della nar razione divenuta gesto.16
2. Teologia
dell ’ evangelizzazione come tematizzazione dello statuto consensuale della verità
Non vorrei che queste riflessioni sul carattere linguistico e pragmati co della teologia dell’evangelizzazione ci inducessero a pensare che essa
14 Spunti interessanti, sebbene ancora allo stadio di abbozzo, si trovano nell’articolo di F. Appi, «La prassi, luogo ermeneutico della salvezza», in RTE 4(2000), 5-20. 15 Cf. E. Castellucci, «Ecclesiologia, cristologia ed evangelizzazione», in RTE 2(1998), 73-94. 16 Cf. E. Lodi, «Liturgia ed evangelizzazione», in RTE 2(1998), 95-109.
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non abbia un proprio profilo teoretico significativo. Per sgombrare il cam po da spiacevoli equivoci, si rende ora necessario riflettere su come la teologia dell’evangelizzazione si ponga il problema teoretico per eccel lenza: quello della verità e della sua comunicazione. 2.1. L’annuncio della fede attuato dalla comunità credente non è una strategia per ingrossare le file della Chiesa né per ottenere maggiore in fluenza sulla società e sulle sue dinamiche politiche. Esso ha di mira la comunicazione di un vissuto a cui si attribuisce una sensatezza incondi zionata e la rivelazione di una verità assoluta. Certo, la teologia cristiana deve declinare con le sue categorie questo senso incondizionato e questa verità assoluta, in modo che la trascendenza del Dio biblico non venga intrappolata in immagini caricaturali e ideologiche della sua relazione con gli uomini. Ma anche nel ripensare il farsi storia dell’Eterno, la teolo gia dell’evangelizzazione presuppone che il contenuto e l’origine dell’an nuncio non possano mai essere scritti soltanto con l’inchiostro del relativo e con le parole della storicità. Essa s’interroga sulla risposta dell’uomo a un appello che non ammette neutralità e che non consente a nessuno dei suoi uditori di rifugiarsi per più di un attimo nel limbo dell’indifferenza. Nello stesso tempo, essa si chiede anche come possa una comunità di uo mini veicolare questo annuncio senza contaminarlo con le sue fragilità etiche e le sue miopie concettuali. Si può definire questo insieme di problemi in molti modi ma, a mio parere, si tratta né più né meno della questione della verità. Anche su questo punto, mi sembra legittimo rivendicare una certa originalità della teologia dell’evangelizzazione. Essa non pone la questione della verità in astratto, come se si trattasse di un’essenza immutabile scesa dal cielo sul la terra «a miracol mostrare». Né affronta il problema idealisticamente, come se la ragione umana fosse capace di costruire concetti perfettamen te adeguati alla realtà ultima.17 Escludendo le due tesi classiche, quelle della verità come autoevidenza del logos o come adeguazione tra il con cetto e la realtà, la teologia dell’evangelizzazione opta per una concezio ne decisamente moderna della verità come relazione consensuale tra più interlocutori circa il contenuto e la modalità della relazione stessa. L’annuncio crea tra gli interlocutori una situazione di empatia: que sto è il senso della prima Pentecoste cristiana (At 2), così come viene in terpretata dalla teologia dell’evangelizzazione. Essa è un evento di ra dicale alterità (ognuno continua a parlare la propria lingua) e parimenti consente una comprensione così profonda e vicendevole che gli uni «si sentono trafiggere il cuore», mentre gli altri non possono fare a meno di «parlare con franchezza» e con totale libertà di spirito. Il consenso che lì si crea non riguarda semplicemente il contenuto della predicazione di Pietro, ma l’atto stesso dell’annunciare Cristo crocifisso e risorto. Pietro e i
17 In questo caso la presunzione sarebbe massima, perché si tratterebbe di una ragione creata capace di costruire concetti adeguati alla realtà del Creatore.
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suoi ascoltatori sono concordi nel ricondurre la loro relazione di empatia a un terzo: lo Spirito Santo. La teologia dell’evangelizzazione ritiene che lo Spirito Santo s’identifichi dinamicamente con questa relazione empatica che si crea nell’annuncio.18 Da questa concezione empatica e consensuale della verità si desumo no importanti conseguenze per la teologia dell’evangelizzazione. Senza compromettere l’assolutezza della verità cristiana, essa può ammettere che la trascrizione concettuale della relazione empatica sia sempre defi citaria e rivedibile e per questo considera il proprio sforzo di riflessione come un compito infinito. In secondo luogo, la teologia dell’evangelizza zione non considera un atto di debolezza intellettuale o di relativismo fi losofico riconoscere che anche i propri interlocutori – quelli che in modo convenzionale e improprio chiamiamo i destinatari dell’annuncio – ab biano importanti cose da offrirle in ordine alla sua autocomprensione come scienza e alla sua concettualizzazione dell’esperienza credente e della relazione comunicante. Così essa può sostenere una posizione non pregiudiziale nei confronti dell’odierno pluralismo culturale e, più in ge nerale, nei confronti di tutto ciò che è terreno e penultimo. Il relativismo non si insinua nella teologia quando essa riconosce le ragioni degli altri, perché ciò significa che li ha ascoltati e sta cercando di capirli in nome di una veritas semper maior. Paradossalmente, la teologia si ammala di re lativismo quando proclama verità inconfutabili e se ne autoelegge unica custode: in quel momento la sua ineludibile storicità diventa la gabbia dell’Eterno e i suoi concetti culturalmente condizionati vorrebbero rac chiudere il mare in un secchio. 2.2. Aderendo a una comprensione relazionale e consensuale della verità, la teologia dell’evangelizzazione è particolarmente adatta a rap portarsi con le istanze conoscitive ed etiche del pluralismo culturale, che caratterizza il mondo occidentale odierno. Vorrei introdurre qui alcune riflessioni socio-culturali, per comprendere meglio il significato e la mo dalità di questa relazione. Il tema è complesso, ma vorrei offrire una chia ve di lettura attraverso tre considerazioni sociologiche. Prima considerazione. L’elemento forse più originario della concezio ne moderna del pluralismo è da ricondurre a quel processo di trasforma zione culturale che Weber ha indicato come «razionalizzazione»: a par tire da una spinta interna allo stesso mondo occidentale, la razionalità si è emancipata dall’ambito delle religioni di redenzione, dove pure essa
18 Cf. V. Maraldi, «Lo Spirito come protagonista dell’evangelizzazione», in RTE 2(1998), 5-20: «Lo Spirito non opera solo secondo un dinamismo d’interiorizzazione, che apre l’in teriorità dell’uomo all’accoglienza della Buona Novella. Lo stesso Spirito apre in modo concomitante verso l’esterno. Egli fa sì che l’accoglienza della parola nell’interiorità sia accompagnata da un movimento che rimanda verso l’esterno, a tutto il vissuto umano del destinatario, a tutta quella rete di rapporti interpersonali e istituzionali in cui si muove la sua esistenza» (ivi, 20).
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è stata coltivata per secoli. Il mondo si è liberato del «mantello» da cui attingeva calore e protezione.19 Ciò ha significato la perdita di rilevanza culturale (prima) e sociale (poi) di ogni visione totalizzante della realtà, che viene sostituita da una molteplicità di saperi specialistici, elabora ti in modo metodicamente rigoroso.20 Questo processo si riflette anche nell’organizzazione della società: per legittimarsi, il potere è costretto a decentrarsi. La politica si trasforma sempre più da strategia decisionale in gestione amministrativa: non sono più le grandi opzioni di valore che decidono l’orientamento dei popoli e dei loro governanti, ma criteri per lo più di tipo funzionale. La razionalità che presiede all’odierno plurali smo culturale è di tipo strumentale: essa nasce come valutazione circa la relazione tra i mezzi di cui ci si serve e i fini che s’intendono raggiunge re. Si presuppone che non ci sia un bene in sé, in base al quale giudicare la bontà dei mezzi e dei comportamenti per raggiungerlo. In tal modo, il pluralismo non riguarda solo la sfera conoscitiva o quella delle passioni politiche, ma si riferisce in modo particolare alla sfera della morale, por tando a compimento la demitizzazione degli universali etici, avviata dal le correnti libertine e utilitariste del pensiero francese e inglese del XVII e del XVIII secolo. Molti fattori di ordine intellettuale hanno contribuito a creare questa consapevolezza diffusa per cui tutto ciò che è umano è connotato in senso culturale e storico (le scienze etnologiche e l’antropo logia culturale; il diffondersi dello storicismo come forma di esercizio cri tico del pensiero; l’applicazione della psicologia agli studi sociali; ecc.). Ma si tratta anche di un fenomeno che è stato indotto dalle trasformazio ni sociali e demografiche avvenute in molti Paesi occidentali durante il XX secolo e tuttora in corso: il moltiplicarsi di etnie e di culture entro un medesimo territorio nazionale propone continuamente la pluralità cultu rale come un dato di fatto, che attende di essere interpretato e che esige risposte socialmente significative e politicamente efficaci. La verità è un processo di riconoscimento reciproco, che richiede non solo specifiche politiche statali e internazionali, ma anche un’adeguata configurazione del sistema delle comunicazioni di massa.21 Seconda considerazione. Cerchiamo di intendere bene il senso di sto ricità e di relatività cognitiva che è parte integrante dell’autocomprensio ne della cultura occidentale contemporanea. Il relativismo contiene pa radossalmente un elemento incondizionato. Mi spiego: nel campo delle scienze antropologiche e sociali, ma anche nel sentire quotidiano dell’uo
Cf. M. Weber, Sociologia della religione, vol. 1, Comunità, Milano 1982, 58-59. 111-118.173-193.525-560. 20 Cf. P. Berger, Il brusio degli angeli, Il Mulino, Bologna 1970; Id., La sacra volta. Elementi per una teoria sociologica della religione, Sugarco, Milano 1984; T. Luckmann, La religione invisibile, Il Mulino, Bologna 1976. 21 Sulla verità come riconoscimento reciproco, cf. C. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Anabasi, Milano 1993; T. Todorov, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Einaudi, Torino 1991; C. Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Il Mulino, Bologna 1999. 19
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mo occidentale contemporaneo, è sempre più diffusa la consapevolezza del carattere storico e parziale di ogni cultura, della relatività e della con venzionalità dei sistemi di significato. Ma insieme a ciò, si è fatta avanti la convinzione che non esistono stadi pre-culturali di vita sociale: l’ordine simbolico viene considerato come una componente costitutiva della real tà umana. Il linguaggio costituisce l’orizzonte all’interno del quale viene a formarsi ogni tipo di conoscenza. Nell’autocomprensione contempora nea, il linguaggio è diventato l’orizzonte onnicomprensivo e intrascen dibile di ogni esperienza umana. La realtà delle cose naturali e dei fatti storici in sé resta irraggiungibile per l’intelligenza umana: tutto ciò che esiste è condizionato dal significato che a esso viene attribuito all’interno di contesti di vita determinati. La realtà si presenta sempre come una rete di relazioni, ovvero come un insieme di entità mediate simbolicamente. La verità non può essere distinta dalla sua comunicazione.22 Terza considerazione. Questa prospettiva contiene un paradosso, che però può spiegare – almeno in linea di principio – l’insorgenza del relati vismo culturale. La cultura contemporanea ha riflettuto a lungo su se stes sa, sulle condizioni della sua produzione simbolica, sulle relazioni con gli altri sottosistemi del sempre più complesso sistema sociale mondiale. In tal modo essa ha maturato un criterio di onestà intellettuale e di autocriti ca continua, in forza del quale essa ha posto in questione la propria vali dità. Essa ha prodotto uno stato diffuso di disorientamento etico circa i ri ferimenti essenziali dell’esistenza individuale e della convivenza sociale. Ma, nello stesso tempo, la cultura non ha rinunciato – perché non potreb be neanche farlo – a produrre forme oggettive, che si presentano sulla scena sociale come assolute (cioè dotate di una propria validità irrefuta bile).23 Come già aveva previsto Weber, il relativismo culturale si tradu ce in conflitto dei valori e nella rinascita degli antichi dèi nazionali: nuo ve forme di particolarismo etnico e di integralismo religioso riempiono il vuoto lasciato dalla morte di Dio e dalla fine dei grandi ideali universali predicati dall’illuminismo. La verità si presenta come conflitto di interpre tazioni e come dialettica tra affermazione e negazione delle ideologie.24
22 Questo tema ricorre molto frequentemente nel pensiero di Paul Ricoeur. Per un’inter pretazione della teoria ricoeuriana su metafora, simbolo e discorso, cf. E. Bugaité, Linguaggio e azione nelle opere di Paul Ricoeur dal 1961 al 1975, PUG, Roma 2002. 23 Cf. su questo punto la mia interpretazione del pluralismo culturale: P. Boschini, «Il pluralismo culturale: modelli interpretativi nel pensiero filosofico del secondo ’900», in RTE 7(2003), 7-40. Nel medesimo fascicolo si incontrano le riflessioni di G. Sgubbi e di E. Castel lucci sulle risonanze che il pluralismo culturale ha nel pensiero teologico contemporaneo: cf. G. Sgubbi, «Aspetti della riflessione teologica del problema filosofico del pluralismo», in RTE 7(2003), 41-81; E. Castellucci, «Pluralismo, Magistero e Teologia», in RTE 7(2003), 83-149. 24 Cf. M. Weber, «La politica come professione», in Id., Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1948, in particolare 101-121; P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977, spec. 41-111; C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987, in particolare 9-70 e 223-272.
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La teologia dell’evangelizzazione partecipa alla creazione e al man tenimento di un quadro culturale pluralista, perché anch’essa esercita la razionalità critica e segue il criterio metodico della continua messa in di scussione dei propri presupposti, delle proprie ipotesi e conclusioni. Ma nello stesso tempo essa attraversa il pluralismo culturale con la sua rifles sione sulla prassi dell’annuncio cristiano e con la conseguente teoria rela zionale della verità.25 Il protendersi oltre il pluralismo, l’assunzione della relatività storica e culturale e la sua capacità di riconoscerne il carattere intrinseco di relazionalità soteriologica (la relazione empatica dell’annun cio come manifestazione dello Spirito): questi mi sembrano essere i tratti salienti della teologia dell’evangelizzazione, quali emergono dal contesto in cui essa si applica alla comprensione della fede annunciata. Essa si si tua tra vangelo e culture, come dice il titolo di questa riflessione. Inten diamoci: la posizione della teologia dell’evangelizzazione non è quella di chi sta tra l’incudine e il martello, cioè nel bel mezzo del conflitto tra fede e cultura, né quella di chi si trova tra Scilla e Cariddi, ovvero nel disorien tamento e nell’indecisione. Tra vangelo e culture significa che il posto e il ruolo della teologia dell’evangelizzazione in quanto sapere relazionale è quello di creare un rapporto pensato a partire dalla relazione empatica, preconcettuale e gratuita, già comunque esistente tra il vangelo annun ciato e le culture, in cui tale atto si compie.
3. La
teologia dell ’ evangelizzazione non è una teologia contestuale , ma contestualizzante
Mi avvio verso alcune riflessioni conclusive, che vogliono risponde re ulteriormente alla domanda se la teologia dell’evangelizzazione deb ba essere considerata una teologia del genitivo, ovvero se essa sia una post-sessantottina teologia del contesto. Mi pare di dover rispondere di no: la teologia dell’evangelizzazione è un’altra cosa. 3.1. La teologia dell’evangelizzazione non s’inserisce in un contesto già dato, come fa ad esempio la teologia della liberazione o quella fem minista, ma in un certo modo lo crea. Non presuppone un contesto di do mande culturali o di problemi sociali, a cui offrire le proprie risposte. È invece una teologia che ha la capacità di creare i propri interlocutori, su scitando in essi l’attenzione e l’interesse per l’annuncio evangelico che è già stato rivolto loro.26 La teologia dell’evangelizzazione entra in azione
25 Cf. E. Castellucci, «La “salvezza” cristiana nel dibattito interreligioso», in RTE 5(2001), 221-295. 26 Alla teologia come cultura di una Chiesa in ascolto ho dedicato un abbozzo di rifles sione alcuni anni or sono: P. Boschini, «Trasformazioni culturali ed evangelizzazione. Un’e sperienza» in RTE 6(2002), 127-135. Sulla stessa linea si muove anche il saggio di G. Ziviani,
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dopo che la comunità dei credenti ha testimoniato e comunicato la pro pria fede. Tenuto conto del contesto ampiamente secolarizzato e religio samente indifferente in cui l’annuncio oggi si compie nel nostro mondo nord-occidentale, il più delle volte la teologia dell’evangelizzazione ri chiama la società e la cultura italiana a prendere sul serio quel messaggio che per distrazione o per laicismo non era stato subito raccolto e discus so.27 La teologia dell’evangelizzazione risveglia le coscienze dal torpore dogmatico dell’etsi Cristus non daretur. Dico questo non per svalutare la forza pneumatica dell’annuncio, ma per includere anche la teologia del l’evangelizzazione dentro la dinamica salvifica della Chiesa annunciante: la sua funzione è quella di risvegliare, di obbligare a prendere sul serio – magari anche per rifiutarlo – l’atto e il contenuto della comunicazione della fede. Proprio perché rompe l’indifferenza intorno all’annuncio, la teologia dell’evangelizzazione è contestualizzante: crea (o forse sarebbe meglio dire: ricrea) il contesto dell’annuncio. 3.2. Questa funzione culturale della teologia dell’evangelizzazio ne pone il problema del suo rapporto con le scienze sociali, culturali e della comunicazione. Ne parlai – limitatamente alle scienze sociali – in un articolo uscito nel 1997 su RTE. Allora scrivevo che tra teologia del l’evangelizzazione e scienze sociali non ci può essere un rapporto diretto, perché esse hanno due concetti troppo diversi di verità e finirebbero per strumentalizzarsi a vicenda. La loro relazione passa attraverso la media zione dell’antropologia.28 Oggi, alla luce di quanto ho esposto sopra, sono convinto che la differenza sostanziale tra teologia e scienze sociali riguar di il metodo e in particolare il modo in cui questi saperi trattano i propri dati. La teologia comprende alla luce di ipotesi valutative, perché anche se non conosce tutta la verità, comunque presuppone di esserne parteci pe. Le scienze sociali invece formulano le loro ipotesi di spiegazione in termini il più possibile avalutativi, ovvero senza sapere in anticipo da che parte stia la verità. Ne deriva una conseguenza importante: la teologia dell’evangelizzazione non può usare la sociologia come banca-dati, da cui attingere per dimostrare la validità delle sue tesi sistematiche e delle sue interpretazioni del contesto culturale e sociale. Né le scienze sociali, economiche, culturali, giuridiche, organizzative, possono presentare la teologia come se fosse il naturale partner etico delle loro ricerche. Teolo gia dell’evangelizzazione e scienze sociali hanno invece molto da dirsi, se confrontano le rispettive comprensioni del fenomeno umano e dei proces
«“Novo Millennio Ineunte” e “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”. Riflessioni teologiche da una lettura d’insieme», in RTE 6(2002), 159-181, riprese e ampliate in Id., «Parrocchia, annuncio del Vangelo e nascita della Chiesa», in RTE 9(2005), 157-205. 27 Cf. G. Sgubbi, «Metafisica ed evangelizzazione nel panorama italiano», in RTE 2(1998), 145-174. 28 P. Boschini, «Scienze storico-sociali e teologia secondo Max Weber», in RTE 1(1997), 221-236.
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si culturali che esso attiva. Devo però lamentare che questa istanza non è ancora diventata organica alla teologia dell’evangelizzazione.29 Questa lacuna mi pare ancora più grave se pensiamo alla quasi totale assenza delle scienze della comunicazione.30 Credo che il superamento di questa lacuna sia legato al rapporto tra teologia dell’evangelizzazione e filosofia. Non vi è dubbio che i saperi fi losofici siano a tutt’oggi i suoi partner privilegiati. Non si tratta di negare questa relazione preferenziale con la filosofia, ma di ampliare il ventaglio delle scienze partner, per migliorare la capacità della teologia dell’evan gelizzazione di interagire creativamente con il contesto culturale in cui si trova a attuare la propria riflessione. 3.3. Vorrei concludere questo abbozzo epistemologico sulla teologia dell’evangelizzazione con due riflessioni di metodo. Prima riflessione. Queste ultime considerazioni ci hanno riproposto la necessità per la teologia dell’evangelizzazione di individuare un crocevia in cui convergere insieme agli altri saperi, non solo teologici e filosofici, che si occupano del carattere relazionale dell’uomo e conseguentemen te del carattere consensuale della verità e della prassi. Definisco questo luogo del pensiero il «crocevia antropologico». Sono ben consapevole che non si tratta di una cosa evidente e scontata, specialmente dopo che Mi chel Foucault ha dichiarato la «fine dell’uomo». Non si tratta di costruire un baluardo contro «l’assoluta dispersione dell’uomo» nel «ritorno delle maschere» e nella ricomparsa dei «nuovi dèi» della nazione, della razza e delle religione.31 La teologia dell’evangelizzazione si situa proprio dove si gioca la partita della finitudine dell’uomo: essa ha una parola da dire sulla domanda se il limite sia da intendere come fine o come frontiera, ov vero se esso sia chiusura o apertura. Non si limita a dire una parola anali tica e avalutativa sulla crisi dell’umano; ma proprio perché è teologia che si elabora a partire dalla «svolta antropologica» della teologia cristiana del secondo ’900, la teologia dell’evangelizzazione si colloca espressa mente al crocevia del dibattito contemporaneo sull’umano. Così facendo essa interpreta la morte dell’uomo come frontiera che apre a una nuova comprensione dell’umano. Non si accontenta di parlare di Dio parlando
29 È vero che dal 1980 a oggi al ciclo per la Licenza in Teologia dell’evangelizzazione si sono succeduti corsi di Sociologia, di Economia, ecc.; ma mancano a tutt’oggi nel progetto didattico e scientifico della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna uno o più insegnamenti curricolari di Scienze sociali e culturali. La presenza delle Scienze sociali e della cultura è in obliquo, nei contenuti di alcuni corsi di Teologia morale sociale e di Filosofia. 30 A partire dall’a.a. 2004-2005 e con cadenza biennale, è stato attivato nel ciclo per la Licenza in Teologia dell’evangelizzazione un corso su «Questioni della comunicazione nella globalizzazione». Finora le lezioni di tale corso non hanno offerto una riflessione sistematica su teologia dell’evangelizzazione e sistema della comunicazione di massa, ma si sono limi tate a un’esplorazione descrittiva di alcuni problemi legati al rapporto tra Chiesa cattolica e mass media. 31 Cf. M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1977, 411-412.
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dell’uomo, come teorizzava Bultmann.32 Ma cerca nell’umano il «punto d’inserzione» che rende possibile dalla nostra parte la relazione con Dio, e scopre che il punto dove Dio si manifesta nella storia ed entra in comu nione di vita con gli uomini coincide con la relazione più originaria che gli esseri umani sono in grado di vivere tra loro: il dialogo.33 L’umano che interessa alla teologia dell’evangelizzazione non è l’individuale, l’intimo, il privato, ma il comunitario, il relazionale, il pubblico. In questo senso, essa offre il suo piccolo contributo agli sforzi che da molte parti si stan no compiendo in Occidente per il ripristino della sfera pubblica dell’esi stenza umana:34 in questo campo essa potrà trovare una buona rilevanza culturale, perché troverà molti interlocutori non solo tra le scienze della cultura, ma anche in quelle della politica e della società.35 La seconda considerazione conclusiva. Nel suo protendersi oltre il re lativismo conoscitivo e il pluralismo culturale, la teologia dell’evange lizzazione pensa l’annuncio come comunicazione della fede. Per brevità non voglio parlare qui delle teorie odierne dell’agire comunicativo: prima o poi ci si dovrà misurare con esse.36 Mi limito invece a dire che la teologia dell’evangelizzazione considera l’atto e la relazione dell’annuncio come un insieme inseparabile di teoria e prassi. La circolarità che così si istitui sce tra il conoscere e l’agire non è perfetta, perché presenta uno sbilan ciamento in favore della prassi. Infatti, quando la teologia entra in azione con il suo interrogare critico, la relazione è già istituita, la comunità cri stiana ha già proclamato il nome di Cristo Signore, la relazione empatica con gli interlocutori dell’annuncio è già stata generata. Quando il sapere teologico tenta di interpretare la prassi annunciante, lo fa per un duplice motivo: sviscerare il contenuto universale e perciò comunicabile di que
Cf. Bultmann, Il problema dell’ermeneutica, 584-585. Cf. G. Sgubbi, «Dio di Gesù Cristo, Dio dei filosofi», in RTE 3(1999), 91-102. L’autore radicalizza questa antropologia relazionale: «Il tanto deprecato “Dio dei filosofi” si confi gura piuttosto come l’impresa di sillabare in modo ragionevole la dimensione assolutamente dialogale, per nulla autoreferenziale, ma anzi geocentrica della natura umana. […] Il Dio dei filosofi funge da istanza critica per ogni eventuale comprensione che l’uomo possa nutrire di sé come soggetto indipendente e a-relazionato» (ivi, 97). 34 Le riflessioni filosofiche che hanno avuto più effetto sulla teologia dell’evangelizza zione sono probabilmente quelle di H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 2004, mentre dal punto di vista teologico essa ha un importante debito nei confronti del magistero sociale di Giovanni Paolo II; cf. F. Appi, «Il debito estero dei paesi poveri e il Giubileo del 2000», in RTE 4(2000), in particolare 91-97. 35 Cf. le riflessioni conclusive di F. Appi, «Francisco de Vitoria: una teologia della storia», in RTE 1(1997), 102-103: «La teologia, nel suo evolversi come ricerca, entra in un corpo a corpo con la storia, con la realtà del mondo, che la porta, con fecondità ed efficacia, dentro la cultura e le scienze dell’uomo, nel dialogo e confronto appassionato con esse». 36 Cf. la discussione su etica e comunicazione tra Jürgen Habermas, Karl O. Apel e Enrique Dussel. Ne ho dato una sintetica esposizione nel mio corso di «Comunicazione e società», tenuto presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia dell’Uni versità degli Studi di Modena e Reggio Emilia nell’a.a. 2005-2006. Lo schema di quelle lezioni è disponibile al seguente indirizzo internet: http://dolly.cei.unimo.it/2005/mod/ resource/view.php?id=7 685 32 33
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sta relazione salvifica; criticare la prassi, ovvero correggere e rigorizzare le storture e le contraddizioni inevitabili che ogni agire umano porta con sé. Qui sta il valore ecclesiale di questa teologia, che legge l’evangeliz zazione della Chiesa dal di dentro di questo stesso processo e in funzione di una continua revisione delle relazioni, dei contenuti, dei metodi e del le aspettative dell’annuncio. Con un’immagine gramsciana, entrata nella teologia cattolica attraverso la porta delle teologie contestuali (in parti colare della teologia politica e della teologia della liberazione), concludo dicendo che la teologia dell’evangelizzazione è organica e indispensabi le alla prassi annunciante della Chiesa, così come la militanza degli in tellettuali è organica e indispensabile a un movimento di trasformazione politica della società.37 Alla fine, anche la teologia dell’evangelizzazione non sfugge alla prova dell’efficacia: la sua scientificità si vede dalla ca pacità di ispirare cambiamenti dall’interno nella prassi annunciante delle comunità cristiane. Il giorno che essa non riuscirà più a farsi progetto e a declinarsi come prassi in forma teologica, avrà esaurito il suo compito. Ora a noi tocca lavorare alacremente, ben consapevoli che quel giorno non è domani.
37 A questa conclusione approda l’indagine di D. Gianotti, «Il linguaggio dell’escatolo gia tra teologia e annuncio», in RTE 1(1997), 182.
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1. La
secolarizzazione come ateismo nella costituzione pastorale Gaudium et spes
1.1. Explicatio terminorum Nel testo finale della costituzione pastorale Gaudium et spes (GS) del concilio Vaticano II non appare mai la parola «secolarizzazione», né tanto meno il suo peggiorativo «secolarismo». Si parla piuttosto di laicità, laddove si riconoscono ai battezzati, membri del popolo di Dio, le responsabilità che spettano loro in forza della presenza nel mondo: soprattutto nel campo lavorativo e tecnologico, nella vita politica e sociale. I concetti che campeggiano non sono mai privativi. Generalmente essi hanno uno spiccato significato etico e propositivo,1 a eccezione del capitolo primo della prima parte («La dignità della persona umana»), dove viene dato molto risalto al fenomeno negativo dell’ateismo a cui sono dedicati tre paragrafi di analisi (GS 19-21) e uno di sintesi (GS 22). Se però si allarga un poco la prospettiva, si deve riconoscere che tutta la costituzione pastorale è attraversata da una duplice questione: il riposi-
1 Si prenda ad es. GS 43, dove si parla di: «doveri terreni» dei laici cristiani; «sintesi vitale» tra gli impegni terreni e i valori del vangelo, la quale consiste in compiti di «animazione» e di «testimonianza»; «vera perizia» (competenza); «cooperazione» e «dialogo» con gli uomini di buona volontà, ma anche tra i differenti ministeri e organismi all’interno della Chiesa. E si finisce sempre per rimandare alla «coscienza» come principio che regola tra loro questi differenti valori (Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes [7.12.1965], n. 43: EV 1/1454-1459).
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zionamento del cristianesimo nel mondo contemporaneo, sempre più contrassegnato dall’affermarsi dell’umanesimo scientifico e della razionalità tecnologica, e la necessità di risignificare il linguaggio con cui la Chiesa cattolica si rivolge agli uomini di oggi. Sono due questioni cruciali che, a buon diritto, possono essere ricondotte al processo di secolarizzazione del mondo occidentale contemporaneo, il quale tende a escludere le religioni dalla sfera pubblica e dalla ricerca razionale della verità e a lasciare alle Chiese solo un piccolo spazio nel «pianissimo» delle emozioni religiose e delle convinzioni etiche individuali.2 Il tema viene affrontato espressamente nell’introduzione, dedicata alla «condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo» (GS 4-11), e nel primo capitolo, intitolato, come già detto, «La dignità della persona umana» (GS 12-22). L’argomentazione della costituzione pastorale è tutta giocata sul filo dell’ambivalenza: nel mondo contemporaneo, a grandi aspirazioni dell’uomo non corrispondono quasi mai realizzazioni altrettanto elevate in fatto di civiltà; e viceversa, le crisi penose dell’umanità contemporanea – le guerre, le migrazioni dei popoli, o lo stesso ateismo – svelano un sorprendente significato evangelico e si presentano alla Chiesa cattolica come un’occasione propizia per purificare la fede e annunciarla in forma rinnovata. Con questo costante rinvio ad ambivalenze e paradossi, i padri conciliari affermano che non tutta la secolarizzazione della società odierna sfocia necessariamente nell’ateismo. Inoltre, neppure il secolarismo ateo, ai loro occhi, è fatalmente destinato a restare tale. Il mondo contemporaneo si presenta più che mai come un campo aperto alla testimonianza dei cristiani e al loro impegno intelligente e generoso, insieme agli uomini di buona volontà nel comune servizio all’intero genere umano.
1.2. Dire Dio nel
tempo dell ’ indifferenza : il problema dell ’ ateismo culturale
La lettura di GS 19-20, dedicata alla descrizione dell’ateismo contemporaneo, pone subito di fronte a un’importante distinzione: quella tra ateismo culturale e ateismo «sistematico»; ovvero tra l’ateismo come segno dei tempi che interroga il discernimento della Chiesa e la fede dei cristiani, e l’ateismo come dogma filosofico che ispira ideologie contrarie non solo al cristianesimo e alle altre religioni, ma più in generale alla religiosità come un atteggiamento umano originario e autentico.3 Si vede
«Non è a caso che […] oggi soltanto in seno alle più ristrette comunità, nel rapporto da uomo a uomo, nel pianissimo, palpiti quell’indefinibile che un tempo possedeva e rinsaldava come un soffio profetico e una fiamma impetuosa le grandi comunità» (M. Weber, «La scienza come professione», in Id., Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1948, 41). 3 I suddetti tre paragrafi dedicati all’ateismo contemporaneo furono composti dal patrologo J. Daniélou; cf. P. Delhaye, «La dignità della persona umana», in G. Baraúna, La chiesa nel mondo di oggi. Studi e commenti intorno alla Costituzione pastorale «Gaudium et Spes», Vallecchi, Firenze 1966, 267. 2
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chiaramente in filigrana l’acuta distinzione che Giovanni XXIII aveva operato pochissimi anni prima, nell’enciclica Pacem in terris, tra dottrine filosofiche atee e movimenti sociali, che, pur ispirandosi a esse, sono portatori di una visione più aperta e dinamica dell’uomo.4 È un aspetto specifico della più generale distinzione tra «l’errore e l’errante», che campeggia nell’ultima parte dell’enciclica roncalliana, dove viene richiamato lo stile della cura pastorale della Chiesa cattolica.5 L’ateismo culturale, di cui si parla in GS 19, è analogamente un ateismo storico, contingente, in continuo divenire. È contraddistinto dalla pluralità delle sue forme.6 Può essere inconsapevole o esplicito. Può essere frutto di un atteggiamento intellettuale scettico, oppure di un metodo scientista e agnostico. Talvolta, è figlio del relativismo etico, o viceversa di un’eccessiva fiducia nelle risorse dell’uomo. Ancora: può essere il prodotto di una visione pragmatista del linguaggio, secondo cui ha senso parlare solo di ciò che rientra nel campo della conoscenza empirica. Oppure deriva da una sorta di indifferenza religiosa e di superficialità esistenziale. Ma può essere l’effetto di un’accorata protesta contro la presenza del male nel mondo. In certe regioni della terra, è imposto da regimi politici disumani e dittatoriali; in altre, proviene da una civiltà divenuta fin troppo materialista, perché affascinata dalla realtà terrena. E, last but not least, è il risultato di una rappresentazione inadeguata di Dio, a cui non è estranea la responsabilità dei cristiani, delle loro pratiche religiose e delle loro dottrine teologiche. In ogni caso, per la Chiesa cattolica l’ateismo culturale è e resta un fenomeno derivato, perché l’uomo è stato creato a immagine di Dio ed è intimamente chiamato alla relazione con il suo Creatore. Non è un processo intrinseco alla modernità, né allo sviluppo della sua civiltà. Infatti,
4 «Non si possono neppure identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione. Giacché le dottrine, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse; mentre i movimenti suddetti, agendo sulle situazioni storiche incessantemente evolventisi, non possono non subirne gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi. Inoltre chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione?» (Giovanni XXIII, lettera enciclica Pacem in terris [11.4.1963], n. 84: EV 2/57). 5 «L’errante è sempre ed anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità. Inoltre in ogni essere umano non si spegne mai l’esigenza, congenita alla sua natura, di spezzare gli schemi dell’errore per aprirsi alla conoscenza della verità. E l’azione di Dio in lui non viene mai meno. Per cui chi in un particolare momento della sua vita non ha chiarezza di fede, o aderisce a opinioni erronee, può essere domani illuminato e credere alla verità. Gli incontri e le intese, nei vari settori dell’ordine temporale, fra credenti e quanti non credono, o credono in modo non adeguato, perché aderiscono ad errori, possono essere occasione per scoprire la verità e per renderle omaggio» (Giovanni XXIII, Pacem in terris, n. 83). 6 «L’ateismo è un errore dai cento volti» (Delhaye, «La dignità della persona umana», 281).
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da un’attenta lettura del primo capitolo di GS si perviene alla conclusione che si può essere pienamente moderni e altrettanto autenticamente cristiani. Nel testo finale di GS, i principali motivi che inducono all’ateismo culturale sono ricondotti a un’errata comprensione del principio di autonomia della ragione, come emancipazione da ogni autorità. Se invece si intende l’autonomia come antropocentrismo e la si declina come riconoscimento della natura relazionale dell’uomo e come accettazione che l’uomo non può essersi fatto da solo, l’essere cristiani esige di credere nella centralità dell’uomo. E così si libera un campo immenso per il dialogo tra la Chiesa cattolica e gli umanesimi contemporanei, anche quelli di matrice atea:7 un campo che possiamo definire, a buon diritto, secolare, perché ci si confronta sull’uomo della civiltà moderna e sui suoi valori.8 In che cosa consiste questo ateismo culturale? La costituzione pastorale ne disegna un rapido schizzo, quando descrive la «condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo». Parlando delle trasformazioni culturali in atto soprattutto tra le giovani generazioni, si sofferma sulle ambivalenze del processo di secolarizzazione. Siamo di fronte a un fenomeno nuovo: l’ateismo di massa. Si tratta di un atteggiamento pratico più che di un pensiero teorico. Esso taglia trasversalmente tutti i campi del vivere umano: la negazione di Dio consiste nel «farne praticamente a meno» (GS 7). Qui GS assume il modello di secolarizzazione elaborato dalle scienze sociali nel XX secolo: secolarizzazione è vivere, pensare, organizzare la società etsi Deus non daretur. Compie però uno sforzo di interpretazione e afferma il significato di tale ateismo per la vita religiosa: Un più acuto senso critico la purifica da ogni concezione magica nel mondo e dalle sopravvivenze superstiziose ed esige un’adesione sempre più personale e attiva alla fede; numerosi sono perciò coloro che giungono a un più vivo senso di Dio.9
Se consente di rimarcare il netto confine che separa la fede biblica dalle credenze superstiziose, l’ateismo come forma culturale, ovvero la secolarizzazione, è un processo liberante e benefico anche per la Chiesa e per i cristiani. Il senso critico dell’uomo moderno rende la fede più
7 «Credenti e non credenti sono generalmente d’accordo nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo, come a suo centro e a suo vertice. Ma che cos’è l’uomo? […] La Bibbia insegna che l’uomo è stato creato “ad immagine di Dio”, capace di conoscere e di amare il suo Creatore, e che fu costituito da lui sopra tutte le creature terrene quale signore di esse, per governarle e servirsene a gloria di Dio. […] L’uomo per sua intima natura è un essere sociale, e senza i rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti» (GS 12: EV 1/1355-1358). 8 L’umanesimo cristiano non si presenta a buon mercato. Pensa l’essere dell’uomo aperto in tutte le direzioni e attinge il modello del suo sviluppo da una relazione intima e trascendente con il Cristo, che la Chiesa crede e annuncia: egli è il modello dell’uomo che verrà. «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (GS 22: EV 1/1385). 9 GS 7: EV 1/1340.
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consapevole e attiva, perché la obbliga a confrontarsi con interrogativi e sfide ineludibili, di fronte alle quali non ci si può rifugiare nella pedissequa riaffermazione di credenze e di devozioni tradizionaliste sì, ma non fondate nella tradizione apostolica. La secolarizzazione pone la fede cristiana nella condizione di ripensarsi. L’ateismo culturale è paradossalmente un kairos per il cristianesimo odierno, perché produce una fede più consapevole, capace di trarre dal suo patrimonio bimillenario risposte e scelte che rendano ragione della sua verità e della sua efficacia salvifica.10
1.3. Dire Dio nel
tempo delle ideologie : comprendere i motivi dell ’ ateismo sistematico
Ben più difficile è la relazione della Chiesa cattolica con l’ateismo «sistematico», che viene catalogato secondo tre tipologie (GS 20). La prima è l’antropocentrismo esistenzialista, rappresentato come contrapposizione tra la libertà dell’uomo e l’onnipotenza di Dio. L’uomo si pensa «fine a se stesso, unico artefice e demiurgo della propria storia». Lo si potrebbe riassumere nella formulazione proposta da Sartre: «Se Dio non esiste, […] siamo soli e senza scuse. […] L’uomo è condannato a essere libero».11 La seconda tipologia è l’estensione della prima, dalla libertà individuale al progresso della civiltà. Grazie allo sviluppo della tecnologia, «l’odierno progresso tecnico ispira all’uomo un senso di potenza»: il demiurgo di se stesso si sente un nuovo Prometeo. È difficile ricondurre questo umanesimo tecnico-scientifico a una precisa corrente filosofica: non certo all’«oltre-uomo» nietzschiano, che non è un prodotto del progresso tecnico, né della democrazia.12 I padri conciliari non tematizzano il rapporto tra nichilismo e ateismo. La terza e ultima tipologia è invece facilmente riconoscibile: si tratta dell’ateismo di matrice marxista, che «si aspetta la liberazione dell’uomo soprattutto dalla sua liberazione economica e sociale». Ne viene evidenziata con particolare enfasi la conseguenza politica: l’ateismo di Stato che, specialmente nei Paesi del cosiddetto socialismo realizzato, impedisce l’educazione religiosa e ostacola gravemente l’azione pastorale della
10 Non è difficile ricondurre questa tesi a quella tradizione del pensiero teologico moderno che va da Schleiermacher a Troeltsch, da Bonhoeffer a Bultmann. Come non sentire anche l’eco dei pensieri kantiani sulla religione, o di quelli più recenti di Weber e di Scheler. Nella prima metà del XX secolo molti filosofi e intellettuali cattolici, come Blondel, Laberthonnière, Mounier, Teilhard de Chardin, avevano avanzato la medesima istanza. 11 J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1978, 61-63. «Se Dio non esiste, […] c’è almeno un essere in cui l’esistenza precede l’essenza, un essere che esiste prima di essere definito da alcun concetto: quest’essere è l’uomo. […] Così non c’è una natura umana perché non c’è un Dio che la concepisca. L’uomo è soltanto, non solo quale si concepisce, ma quale si vuole» (ivi, 49-50). 12 F. Nietzsche, Così parlò Zaratustra, Adelphi, Milano 1976, II, 348-359.
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Chiesa cattolica. È il tema principale della dichiarazione Dignitatis humanae (DH). GS evidenzia quanto sia ambiguo porre un’alternativa tra il cristianesimo e il principio moderno di autonomia. Solo se si concepisce quest’ultimo come processo di auto-emancipazione, si danno esiti ateisti. Sullo sfondo rimangono questioni non risolte, su cui i padri conciliari non vollero pronunciarsi: l’ateismo è una negazione volontaria e perciò colpevole della verità di Dio? O piuttosto è un atteggiamento inconsapevole? Deriva da un’orgogliosa assolutizzazione del ruolo dell’uomo nel mondo? Oppure è il frutto di un’inadeguata relazione con il mistero di Dio? A distanza di cinquant’anni si deve riconoscere la magnanimità di quella decisione che, senza enfasi, prende le distanze dalla condanna della modernità e delle sue deviazioni, pronunciata dal Syllabus di Pio IX (1864) e dalla più recente enciclica Humani generis di Pio XII (1950). Ora, invece, nei confronti dell’ateismo sistematico, la Chiesa cattolica assume un atteggiamento di riprovazione, ma non di condanna. Per questo si sforza di mantenere, anche nei confronti degli atei, uno stile empatico. La Chiesa «si sforza di scoprire le ragioni della negazione di Dio»; «ritiene che esse debbano meritare un esame più serio e più profondo». Ciò non significa tacere la verità cristiana sull’uomo: creato da Dio a sua immagine e perciò dotato di intelligenza, libertà e capacità relazionale. La Chiesa però – e qui sta la novità – non si contrappone all’ateismo, ma lo considera un modo insufficiente di affermare e difendere la dignità dell’uomo. Quest’ultima infatti viene adeguatamente tutelata solo quando la speranza escatologica è la radice teorica e la forza pratica a fondamento dell’impegno per migliorare la vita terrena (GS 21 e 39). La controprova s’incontra poche pagine prima, laddove la costituzione pastorale afferma che «in faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine», perché di fronte al nostro morire «qualsiasi immaginazione vien meno»: privati della capacità rappresentativa e previsionale che viene dalla fede nel Dio cristiano, agli uomini non resterebbe altro che «ansietà» (GS 18). L’ateismo sistematico consegna chi lo professa a «enigmi senza soluzione», facendolo «non di rado sprofondare nella disperazione» (GS 21). Non si pronuncia una minacciosa condanna, ma si lancia un accorato appello alla vita e alla speranza.
1.4. La Chiesa e gli atei: ricominciare dalla fraternità evangelica
L’ateismo contemporaneo mette in gioco la salvezza: non è semplicemente una questione di verità dottrinale, ma è un problema che riguarda anzitutto il senso dell’esistenza. Il dialogo con l’umanesimo ateo della libertà e del progresso conduce la Chiesa cattolica a porsi sul piano che le è più proprio. Perciò la risposta del cattolicesimo all’ateismo non può limitarsi a migliorare l’esposizione della sua dottrina su Dio. Chiesa
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e cristiani sono chiamati a rispondere alle questioni messe in campo dal l’ateismo «con la testimonianza di una fede viva e adulta», che manifesti la fecondità del vangelo. Sono chiamati a penetrare e animare la vita terrena, in particolare dedicandosi con passione «alla giustizia e all’amore, specialmente verso i bisognosi». GS individua nella fraternità la risposta evangelica all’ateismo, proprio perché l’ateismo contemporaneo è il frutto di un’insufficiente comprensione della natura relazionale dell’uomo: lo vede di volta in volta come un individuo, solo nella propria esistenza; oppure come un essere conflittuale, sempre determinato dai processi sociali ed economici; o infine come un dominatore prometeico. Affermare la fraternità come risposta all’ateismo significa impegnare i cristiani al dialogo pratico e alla collaborazione con gli stessi atei, in vista della «giusta costruzione di questo mondo, entro il quale si trovano a vivere insieme» (GS 21). La caritas soprannaturale si storicizza nella paziente costruzione di luoghi di fraternità.13 Quest’azione sarà realizzata in collaborazione non solo con chi è diversamente credente, ma anche con chi non è animato da alcuna fede religiosa. Condividere fattivamente la speranza in un’umanità migliore, più giusta, più libera e solidale è oggi il modo più efficace per affermare che non c’è contrapposizione tra fede in Dio e impegno per la libertà e il progresso dell’uomo. Dare voce e corpo alle aspirazioni più profonde del genere umano è la maniera migliore per superare steccati ideologici e ataviche paure; e per scoprire insieme – cristiani e atei – che l’inquietudine del cuore umano è il segno della sua intima vocazione alla relazione con Dio.14
2. Dire Dio
nel tempo dell ’ ambivalenza : quale ermeneutica del moderno ?
2.1. Chiesa cattolica e trasformazioni globali
Oggi è più chiaro di cinquant’anni fa che sarebbe molto riduttivo limitare il discorso sulla secolarizzazione al problema dell’ateismo: come
13 G. Dossetti, Il Vaticano II. Frammenti di una riflessione, Il Mulino, Bologna 1996, 99. Ivi si coglie il nesso intrinseco tra la questione dell’ateismo e quella della pace, la quale è da intendersi teologicamente come «un’epifania del divino nella realtà», ovvero come un «trascendentale» della condizione umana contemporanea, il quale «tocca inevitabilmente il divino». 14 «Coloro che sentono la nostalgia delle crociate e dei roghi dell’Inquisizione grideranno forse alla poca fede. Da parte sua la Chiesa sa che, avendo fede in Dio, deve avere fiducia anche nell’uomo. Il Padre misericordioso non ha mai dubitato del figliuol prodigo. Che i cattolici la smettano di recitare la parte del figlio maggiore» (Delhaye, «La dignità della persona umana», 285).
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se i padri conciliari avessero voluto rivolgersi solo agli abitanti del mondo atlantico nord-occidentale e alle società dell’Europa orientale. I loro orizzonti sono sorprendentemente molto più ampi. Abbracciano il mondo intero, il quale già allora era attraversato da ben più profonde e ampie trasformazioni: in quest’ottica mondiale, secolarizzazione è sinonimo di cambiamenti epocali.15 Come interpretarli? Quale portata hanno per il futuro dell’umanità tutta? E quale significato hanno per la fede cristiana e per la testimonianza del vangelo nel mondo odierno? La costituzione pastorale se ne occupa a lungo, nel capitolo introduttivo (GS 4-10). Si tratta di sette paragrafi che hanno un andamento sinusoidale. Vanno dalla condizione umana colta nella sua profondità alla superficie della vita sociale, per poi immergersi di nuovo in quanto di più universale e radicale è custodito dal cuore umano: aspirazioni e interrogativi, che si concentrano nella domanda per eccellenza: «Cos’è l’uomo?». Viene proposto un approccio descrittivo dei cambiamenti in atto in tutto il mondo contemporaneo.16 Con un linguaggio stringato, più evocativo che scientifico, i padri raccontano la loro visione della realtà in rapido divenire, mossi dalla preoccupazione di comprendere come i «riflessi della trasformazione sociale e culturale si ripercuotono anche sulla vita religiosa» (GS 4).17 L’interesse teologico-pratico muove e orienta la loro lettura sociologica della realtà e costruisce un ardito tentativo di comprensione sapienziale del nuovo che avanza, delle crisi che esso genera e delle contraddizioni che si palesano.18 Applicando il metodo roncalliano del «discernere i segni dei tempi», la costituzione pastorale non scade in un ingenuo ottimismo nei confronti del mondo odierno, ma si sforza di tenerne insieme le luci e le ombre: empatia, non complicità, perché qui la Chiesa cattolica vuole interpretare alla luce del vangelo l’odierna condizione umana segnata da radicali ambiguità e chiamata a scelte epocali, da cui dipende il futuro collettivo. «Squilibrio» – e non «conquista» o «progresso» – è la parola chiave con cui rileggere queste dense pagine di GS.19
«L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’insieme del globo» (GS 4: EV 1/1325). 16 Siamo lontani dall’approccio metafisico della filosofia neoscolastica, tutta tesa a illustrare la verità dell’essere e a «dimostrare con certezza l’esistenza di un solo Dio personale», auspicata dall’enciclica Humani generis solo quindici anni prima (Pio XII, lettera enciclica Humani generis [12.8.1950], III: AAS 42[1950]11, 571). 17 È come se la costituzione pastorale si riconoscesse debitrice verso le scienze sociali e antropologiche affermatesi durante il XX secolo. Ciò non passò inosservato, tanto che «alcuni Padri giudicarono la prima stesura troppo sociologica (nimis sociologicum)» (J. Folliet, «La condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo», in Baraúna, La chiesa nel mondo di oggi, 254). 18 «Una così rapida evoluzione, spesso disordinatamente realizzata, e la stessa presa di coscienza sempre più acuta delle discrepanze esistenti nel mondo, generano o aumentano contraddizioni e squilibri» (GS 8: EV 1/1341). 19 Nella teologia bolognese è ancora presente l’eco della dura critica di Dossetti, pronunciata pochi mesi dopo la chiusura del concilio, nei confronti di questo approccio 15
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L’accento cade infatti sui fenomeni che spostano gli equilibri, perché sono portatori di novità epocali.20 Ne emerge un quadro sintetico, in cui gli squilibri e le contraddizioni vengono intesi come un appello alla responsabilità etica dell’umanità contemporanea. Il mondo si presenta oggi potente a un tempo e debole, capace di operare il meglio e il peggio, mentre gli si apre dinanzi la strada della libertà o della schiavitù, del progresso o del regresso, della fraternità o dell’odio. Inoltre l’uomo prende coscienza che dipende da lui orientare bene le forze da lui stesso suscitate e che possono schiacciarlo o servirgli.21
L’umanità contemporanea si trova di fronte a un bivio: mai come ora ha avuto in mano le proprie sorti. Secolarizzazione ed etica vanno di pari passo: la mondialità delle trasformazioni in atto richiede l’estensione universale del principio di responsabilità. Tra autonomia emancipatoria ed eteronomia dogmatica, i padri conciliari scelgono una terza strada, che combina due tesi classiche dell’antropologia cristiana: la visione della storia all’insegna del realismo utopico dell’escatologia neotestamentaria e la comprensione dell’uomo come relazionalità inquieta e mai appagata. Le trasformazioni sociali in atto ci consegnano una modernità incompiuta, scissa tra il positivismo scientifico e l’utopismo politico-sociale; tra il modello tecnologico del controllo e l’ideale di un’umanità libera e sempre in ricerca. Qui trova spazio una lettura critica degli umanesimi moderni: la lotta per l’emancipazione non ha conquistato la libertà in senso pieno; né avrebbe potuto farlo. Gli «squilibri» che le trasformazioni mondiali stanno producendo sono infatti il riflesso di un ben «più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo» (GS 10).22 Per descriverlo, i padri
fenomenologico di GS, che creerebbe una dicotomia tra l’«antropologia razionale» e quella «sovrannaturale», ponendo in modo drammatico la domanda: «Quale delle due linee di forza del documento rappresenta più autenticamente il documento stesso, e rappresenta globalmente l’insegnamento che il documento intende dare alla Chiesa dopo il Concilio?». Pur non analizzando qui le argomentazioni dossettiane, si può intendere la mia riflessione come un’indiretta risposta a esse e al loro intento di «ridimensionare» la portata teologica della costituzione pastorale (Dossetti, Il Vaticano II, 82-93). 20 Si usano di volta in volta le parole del linguaggio tecnico: «scoperte», «progresso», «evoluzione» (GS 4.6-8); «dominio», «pianificazione» (GS 5.9). Ma si fa anche ricorso al vocabolario socio-economico: «interdipendenza» (GS 4); «dipendenza» (GS 9); «incremento demografico» (GS 5); «industrializzazione», «urbanizzazione», «opulenza» (GS 6). Né mancano espressioni del linguaggio politico: «conflitti», «guerra capace di annientare ogni cosa», «pace» (GS 4.8); «rivendicazioni», «parità» (GS 9). Grande rilievo viene dato infine alla civiltà della comunicazione e alla sua portata planetaria (GS 6). 21 GS 9: EV 1/1349. 22 Commenta A. Acerbi, La Chiesa nel tempo, Vita e Pensiero, Milano 1979, 219: «Il cuore dell’uomo non è solo la cassa di risonanza degli squilibri del mondo, ma ne racchiude la ragione profonda, radicata nella sua contingenza di creatura e nel peccato». In filigrana si leggono i pensieri neoagostiniani di M. Blondel, Lettera sull’apologetica, Queriniana, Brescia 1990. Ma anche quelli neopascaliani di M.F. Sciacca, L’uomo, questo «squilibrato». Saggio sulla condizione umana, Bocca, Roma-Milano 1956.
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conciliari usano un linguaggio antropologico, che fa riferimento a Rm 7,14ss.23 Grazie all’apertura del suo spirito, l’uomo è tensione permanente all’autotrascendenza. Ma deve sempre fare i conti con il sentimento della propria invalicabile finitudine. Questo è il suo «dramma» esistenziale.24 È significativo che i padri conciliari applichino alla condizione umana tout court una parola di cui de Lubac – uno dei grandi ispiratori della riforma conciliare – si era servito per connotare le tensioni interne all’umanesimo secolarista e ateo.25 Ogni umanesimo approda a interrogativi talmente radicali, a cui non sa rispondere.26 Ciò è segno del limite ontologico della condizione umana: l’interrogare è sempre eccedente il rispondere. Questa è la sfida lanciata da GS all’umanesimo ateo, proprio in nome dello spirito critico illuminista e della sua concezione adulta dell’uomo: non rimuovere gli interrogativi antropologici più radicali, dichiarandoli privi di senso. Propone di affrontarli, riconoscendo nel vangelo quella «luce e forza per rispondere» ai cambiamenti e alle contraddizioni, in cui si gioca il destino dell’umanità contemporanea. Sulla capacità di affrontare queste domande senza paura sta o cade la grandezza dell’uomo e la sua «altissima vocazione» (GS 10).27 Come nella conclusione dell’opera di de Lubac, la riflessione dei padri conciliari suona come una profezia carica di speranza sull’esito dell’umanesimo secolarizzato. Se la Chiesa cattolica attraverserà insieme a tutta l’umanità le ambivalenze, i paradossi e le crisi connessi ai cambiamenti odierni, riuscirà a salvare l’uomo contemporaneo e a «tirarlo fuori dalla via senza uscita» in cui si è cacciato. Non c’è cambiamento senza rottura. Ma ogni rottura porta con sé la speranza di una riunificazione profonda. Il significato teologico dei cambiamenti sociali e degli enigmi che essi scatenano è già preannunciato nella pasqua di Cristo: è il mistero della morte che dischiude la risurrezione.28
In altri passi invece la loro analisi ha un taglio più sociologico e critica le derive del progresso, inteso come espressione di onnipotenza e di prevaricazione (GS 37), oppure il pericolo che l’egoismo di pochi prenda il sopravvento e divida ancor più l’umanità (GS 13). 24 Delhaye, «La dignità della persona umana», 268: la revisione del testo, condotta nel novembre 1965, aveva accentuato la prospettiva tragica e pessimista nei confronti dell’uomo. 25 H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1996, 253. 26 «Cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?» (GS 10: EV 1/1350). 27 «Dio infatti ha chiamato e chiama l’uomo ad aderire a lui con tutto il suo essere, in una comunione perpetua con la incorruttibile vita divina. Questa vittoria l’ha conquistata il Cristo risorgendo alla vita, liberando l’uomo dalla morte mediante la sua morte. Pertanto la fede, offrendosi con solidi argomenti a chiunque voglia riflettere, dà una risposta alle sue ansietà circa la sorte futura» (GS 18: EV 1/1372). 28 De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, 311. 23
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2.2. Il
controverso nesso verità - libertà nella dichiarazione Dignitatis humanae
Il tema della libertà religiosa e dell’indipendenza della Chiesa cattolica rispetto al potere politico è antico quanto il cristianesimo. Sin dagli albori del mondo moderno – Riforma protestante, colonizzazione dei nuovi mondi, guerre di religione – esso ha subito un’importante accelerazione in campo teologico, ma soprattutto nella riflessione filosofica e giuridica. La libertà religiosa è così diventata uno dei luoghi privilegiati in cui si attua il processo di secolarizzazione. Il concilio Vaticano II se ne occupa spinto da istanze pratiche, con chiari risvolti politici, tanto da suscitare la reazione scandalizzata di Dossetti, che avrebbe voluto un testo molto più breve e di maggiore respiro evangelico.29 La posta in gioco è alta, se non altro per le conseguenze sull’autocomprensione della Chiesa cattolica nei confronti del mondo contemporaneo. È un problema circoscritto, ma di portata epocale, perché rievoca i dibattiti moderni con la cultura laicista europea sul fondamento e sulla validità dei diritti dell’uomo; sulla forma democratica della comunità politica; sulla legittimità del pluralismo ideo logico; sulla laicità dello Stato e sull’indipendenza delle comunità religiose; sulla libertà individuale in rapporto al potere politico.30 Sarebbe restrittivo limitare la portata di DH al mero problema politico della libertà religiosa.31 È del tutto legittima un’interpretazione accrescitiva della dichiarazione, imperniata sulla questione filosofica che fu terreno di scontro tra la Chiesa cattolica e il mondo moderno: l’unicità della verità contro la libertà della coscienza individuale. Per questo, da un punto di vista concettuale e per la storia dei suoi effetti, DH rappresenta il punto più avanzato del dialogo tra la Chiesa cattolica e il mondo contemporaneo, a cui sia pervenuto il magistero conciliare.32 La mutata correlazione tra verità e libertà è uno degli effetti più rilevanti della secolarizzazione moderna. Non basta ricostruire il ponte tra la Chiesa e il mondo contemporaneo a partire da una riforma del cattolicesimo, che proponga Gesù e il suo vangelo come autorità capace di fondare la verità senza ledere il sentimento di libertà dell’umanità contemporanea. Bisogna lavorare anche sull’altra sponda del fiume: è possibile oggi una libertà capace di sottomettersi a una verità universale e necessaria,
29 G. Alberigo, «Giuseppe Dossetti al Concilio Vaticano II», in Id., Transizione epocale. Studi sul Concilio Vaticano II, Il Mulino, Bologna 2009, 482-483. 30 Acerbi, La Chiesa nel tempo, 273-281. In DH i diritti fondamentali dell’uomo arrivano a un bivio decisivo; cf. D. Gonnet, La liberté religieuse à Vatican II. La contribution de John Courtney Murray, Cerf, Paris 1994, 187. 31 Come invece propone Acerbi, La Chiesa nel tempo, 293. 32 Dissento da Acerbi, La Chiesa nel tempo, 303-304, secondo cui DH «è, sostanzialmente, la canonizzazione dell’esperienza politico-costituzionale dell’Occidente» e rappresenta «un aspetto del fenomeno della inserzione ideologica della Chiesa nel “mondo occidentale”».
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più originaria delle molteplici istanze che danno vita al mondo pluralista prodotto dalla secolarizzazione?33 Dalla Chiesa verso il mondo: la prima arcata del ponte è la questione della verità.34 I padri ne parlano come di un dovere che attiene alla condizione umana in quanto tale: cercarla, aderirvi una volta trovata, restarle fedeli. Si tratta di un processo graduale di conoscenza: la verità è storica nel suo darsi; si offre in modo contingente, «soavemente e insieme con vigore». Si impone solo in forza di se stessa. Per «diffondersi nelle menti» degli uomini, la verità non ha bisogno del potere esercitato sulla terra da organizzazioni umane (DH 1). La Chiesa crede nella grandezza dell’uomo, ma anche nella potenza di Dio. L’affermarsi della verità sull’uomo nel corso della storia è il prodotto del lento lievitare del vangelo nell’ani mo umano e va di pari passo con il riconoscimento della dignità della persona (DH 9 e 12). Il vangelo è garanzia di conoscenza; ma è anche il fondamento dell’«assenso personale», con cui si aderisce alla verità, una volta trovata. Infine, il vangelo indica il metodo della libera ricerca, che si avvale dell’«aiuto dell’insegnamento o dell’educazione»; procede «per mezzo dello scambio e del dialogo» (DH 3). Questo dinamismo ha la sua origine nel Dio cristiano, il quale «chiama gli esseri umani al suo servizio in spirito e verità» e li vincola in coscienza a rispondergli, ma senza mai costringerli. La vicenda storica della rivelazione in Gesù Cristo sta a dimostrare che non vi è opposizione di principio tra la verità divina e la coscienza umana, tra cristianesimo e mondo contemporaneo. Essi hanno la medesima fonte – Dio – e lo stesso luogo di manifestazione nel mondo – l’uomo. Non diversamente si comportò la Chiesa apostolica, la quale non ripudiava coloro che hanno una razionalità debole e vivono nell’errore, ma li richiamava a «obbedire soltanto alla propria coscienza» (DH 11). Si abbandona una concezione dogmatica della verità, in favore di una visione antropologica in cui alla tolleranza per la libertà altrui si sostituisce un più profondo sentimento di rispetto.35
33 «Dio ha riguardo della dignità della persona umana da lui creata, che deve godere di libertà e agire con responsabilità. Ciò è apparso in grado sommo in Cristo Gesù, nel quale Dio ha manifestato se stesso e le sue vie in modo perfetto. Infatti Cristo, che è Maestro e Signore nostro, mite e umile di cuore ha invitato e attratto i discepoli pazientemente. […] Rese testimonianza alla verità, però non volle imporla con la forza a coloro che la respingevano. Il suo regno non si erige con la spada ma si costituisce ascoltando la verità e rendendo ad essa testimonianza, e cresce in virtù dell’amore con il quale Cristo esaltato in croce trae a sé gli esseri umani» (Concilio ecumenico Vaticano II, dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae [7.12.1965], n. 11: EV 1/1071). 34 Gonnet, La liberté religieuse à Vatican II, 193. Il card. Montini insistette perché l’argomento fondato sulla ricerca della verità e sul carattere storico e progressivo della sua scoperta fosse inserito nello schema preparatorio della dichiarazione. 35 Ivi, 192-211; Acerbi, La Chiesa nel tempo, 302. La libertà che la Chiesa rivendica per sé e per tutti è un diritto fondato sulla realtà stessa dell’uomo, non la benevola concessione di un potere politico paternalista; e neppure il privilegio concesso alla Chiesa da uno Stato cristiano.
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Dal mondo verso la Chiesa: la seconda arcata del ponte è la dimensione sociale del regno di Dio, di cui fa parte anche la libertà religiosa, perché essa «ha il suo fondamento nella dignità della persona» (DH 9). Perciò «deve essere riconosciuta come un diritto a tutti gli esseri umani e a tutte le comunità» (DH 13).36 Appartiene al novero ristretto dei diritti fondamentali dell’uomo (DH 2-3). Il rispetto di questo diritto da parte del potere civile è salvaguardia della persona umana e della sua libertà (DH 6), ma è anche riconoscimento del carattere pubblico dell’atto religioso. La professione della fede è un luogo in cui si comunicano e si scambiano valori morali di fondamentale importanza per la vitalità della società.37 Chi riconosce questo supremo principio dell’agire sociale fa già il suo ingresso – anche se solo con la ragione e con la fede filosofica – entro la prospettiva del regno di Dio, perché dalla retta ragione viene ricondotto alla rivelazione, in cui «tale dottrina sulla libertà affonda le sue radici». Il rispetto della libertà è – insieme alla fraternità – l’antidoto efficace al secolarismo. Evangelizza, perché «mostra il rispetto di Cristo verso la libertà degli esseri umani» (DH 9). In DH prende corpo l’istanza teologica di Lumen gentium (LG) 38: la duplice fedeltà dei cristiani al regno di Dio e alla città degli uomini.38 In un mondo secolarizzato a ovest e in una società statalista e atea a est, si può essere cristiani fino in fondo, senza ledere la libertà personale e senza indebolire la laicità delle istituzioni pubbliche. La Chiesa cattolica non rivendica privilegi per sé, perché sa che non deve andare verso il mondo: se ne sente già parte e, proprio per questo, cammina con il mondo verso il regno di Dio. La visione cristiana dell’uomo e del divenire storico gioca a favore dell’umanità contemporanea secolarizzata. Rafforza la sua convinzione secondo la quale l’essere umano è superiore all’apparato politico, all’organizzazione economica e perfino all’opinione pubblica dominante. Appellandosi alla propria coscienza, si possono sfidare le ideologie della maggioranza, i poteri tirannici, le leggi ferree dell’economia. Si può andare controcorrente ed essere se stessi. E nello stesso tempo si può offrire un contributo decisivo a favore della continua riscoperta di ciò che è autenticamente umano. Il riconoscimento della libertà di coscienza come diritto fondamentale non costituisce perciò una scelta per l’umanesimo liberale occidentale contro quello socialista orientale: semmai getta un ponte perché questi
36 F. Biffi, «I diritti umani da Leone XIII a Giovanni Paolo II», in G. Concetti (a cura di), I Diritti Umani. Dottrina e prassi, AVE, Roma 1982, 218: si evidenzia la differenza rispetto all’impostazione del magistero precedente, secondo la quale «l’errore non può avere diritti» e, tutt’al più, può essere tollerato. 37 Gonnet, La liberté religieuse à Vatican II, 197. 38 «Tutti insieme, e ognuno per la sua parte, devono nutrire il mondo con i frutti spirituali e in esso diffondere lo spirito che anima i poveri, miti e pacifici, che il Signore nel Vangelo proclamò beati. In una parola: “ciò che l’anima è nel corpo, questo siano i cristiani nel mondo”» (Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium [21.11.1964], n. 38: EV 1/386).
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due mondi contrapposti si aprano al dialogo e, riconoscendo il primato della coscienza, costruiscano una cultura di pace e una politica internazionale di convivenza, di libera circolazione delle persone e delle idee. Nel mondo contemporaneo diversamente secolarizzato a est e a ovest, la Chiesa cattolica può così risplendere come fiaccola che annuncia il Cristo luce delle genti, semplicemente richiamando che: la verità si raggiunge con una ricerca intellettuale onesta e senza pregiudizi ideologici; la coscienza personale è inviolabile perché è il luogo in cui la verità e il bene si offrono a chi li cerca; la dignità della persona è il fondamento di ogni altro diritto umano fondamentale; nessun potere pubblico può in alcun modo disconoscere il principio della libertà, senza pregiudicare l’essere dell’uomo. In DH la Chiesa cattolica parla come parte attiva del mondo contemporaneo secolarizzato, e non solo come un suo autorevole interlocutore. Si mostra capace di coglierne le dinamiche interne che sono in sintonia con il vangelo e le riconduce a esso, senza ledere i capisaldi del pensiero moderno. Così la Chiesa può dialogare con il mondo moderno come con un altro se stesso: il lievito evangelico ha fermentato anche la farina secolare, dando vita alla buona pasta della dignità della persona e della libertà inviolabile della sua coscienza. Ancora eccesso di ottimismo? Piuttosto, un’ermeneutica del moderno che prima comprende e poi dà voce alla propria riserva critica. E lo fa dall’interno, evidenziando le contraddizioni e le promesse disattese che la modernità secolare reca con sé nell’attuazione dei propri capisaldi. Il problema non sono i processi secolarizzanti, ma le visioni ideologiche che li avvitano su se stessi. Resta da chiedersi se la cultura contemporanea può esercitare il medesimo diritto di critica all’interno della Chiesa cattolica. In particolare, se e fino a che punto la libertà di coscienza è un principio che vale anche dentro alla Chiesa cattolica. Su questioni non normate dal dogma, possono i fedeli avere orientamenti di pensiero e di vita difformi da quelli dei loro pastori? La ricerca della verità può consentire che ci siano luoghi e tempi in cui ci si confronta liberamente e alla pari? Senza provocare lacerazioni nel tessuto ecclesiale e nel patrimonio dottrinale, si può riconoscere come legittimo un perdurante pluralismo di teorie e di prassi?39
39 P. Boschini, «Chiesa cattolica e mass-media: comunicazione della fede o visibilità mediatica?», in RTE 11(2007)22, 506-510.
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3. La
gioia e la speranza del vangelo : trasformare il disagio ecclesiale in risorsa evangelizzatrice
3.1. Il presupposto teorico: l ’ autonomia delle realtà
terrene
In GS il significato della secolarizzazione si può riassumere nel passaggio da una visione cosmocentrica a una antropocentrica della realtà. In questa prospettiva, grande importanza teorica avrebbe dovuto avere il capitolo terzo, intitolato «L’attività umana nell’universo». Tuttavia, la gestazione di questo capitolo fu molto travagliata e frettolosa.40 Da uno schema preparatorio all’altro, non furono mai eliminate una sostanziale mancanza di chiarezza e parecchie oscillazioni nella trattazione del problema.41 Ben evidente invece è, qui sì, l’ottimismo di fondo. Basta leggere l’incipit del capitolo per cogliere con quanta speranza i padri conciliari riflettano sull’uomo secolarizzato e sulla sua cultura impregnata di spirito scientifico e tecnico.42 Grazie a questo processo di razionalizzazione scientifico-tecnica del mondo, percorrendo una strada diversa da quella della predicazione ecclesiale, il mondo secolarizzato contemporaneo ha scoperto due valori fondamentali del vangelo e della fede cristiana: la comunione tra tutto il genere umano e la responsabilità verso se stessi e i propri simili. L’ottimismo dei padri è il frutto di un fiducioso discernimento, che rilegge la secolarizzazione alla luce della parola di Dio. È pur sempre un ottimismo cauto, con riserva. Il progresso non produce solo trasformazioni, ma anche disorientamento. Perciò la Chiesa cattolica intende mettere il proprio carisma profetico a servizio dell’umanità secolarizzata, per rischiarare la direzione della strada intrapresa (GS 33). Vuole gettare le basi teoriche per una riconciliazione tra mondo secolarizzato e cristianesimo. Ciò può attuarsi nella linea tracciata dal personalismo della
40 P. Smulders, «L’attività umana nel mondo», in Baraúna, La chiesa nel mondo di oggi, 319-320: «Durante la sessione del settembre 1965 molti Padri conciliari impugnarono l’ottimismo unilaterale del nostro capitolo, che da molte parti veniva considerato ingenuo». 41 Ivi, 311-312. Nello schema consegnato ai padri il sabato 13 novembre 1965 per essere discusso a partire dal successivo lunedì 15, il problema fondamentale del capitolo era condensato nella seguente domanda, poi scomparsa nel testo finale: «Quale significato ha il vangelo per l’uomo, proprio nella sua attività terrena, per l’uomo in quanto homo faber?». 42 «Col suo lavoro e col suo ingegno l’uomo ha cercato sempre di sviluppare la propria vita; ma oggi, specialmente con l’aiuto della scienza e della tecnica, ha dilatato e continuamente dilata il suo dominio su quasi tutta la natura e, grazie soprattutto alla moltiplicazione di mezzi di scambio tra le nazioni, la famiglia umana a poco a poco è venuta a riconoscersi e a costituirsi come una comunità unitaria nel mondo intero. Ne deriva che molti beni, che un tempo l’uomo si aspettava dalle forze superiori, oggi se li procura con la sua iniziativa e con le sue forze» (GS 33: EV 1/1423).
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filosofia cattolica del XX secolo: «L’uomo vale più per quello che “è” che per quello che “ha”» (GS 35).43 A partire da questa distinzione tra «essere» e «avere», GS sembra ipotizzare la possibilità di un vero e proprio illuminismo personalista cristiano, che sia la risposta e il superamento dell’illuminismo laicista ed emancipatorio moderno. Esso consiste in una radicalizzazione dell’antropocentrismo: «L’attività umana come deriva dall’uomo, così è ordinata all’uomo» (GS 35). L’uomo, la sua dignità, lo sviluppo pieno delle sue capacità personali e sociali – come scriverà nel 1967 Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio (§§ 17 e 42) – sono la norma fondamentale che guida l’odierno progresso dell’umanità (GS 34).44 L’autonomia dell’uomo e delle real tà terrene non va intesa come una cieca libertà da ogni autorità e da ogni legame. Ciò condannerebbe l’umanità a un’autosufficienza solitaria e disperata. Se l’uomo contemporaneo è responsabile di se stesso e può ergersi come costruttore della realtà terrena, è perché trova scritta nel proprio cuore la relazione con il Creatore e la esplicita nell’attuazione concreta della propria esistenza (GS 36). Questo umanesimo secolare cristiano – o se si preferisce, «umanesimo plenario» per dirla ancora con le parole di Paolo VI – si concretizza anzitutto come umanesimo della giustizia e del diritto (GS 35) e ha come obiettivo la costruzione del mondo come casa comune dell’umanità. Cresce frattanto la convinzione che l’umanità non solo può e deve sempre più rafforzare il suo dominio sul creato, ma che le compete inoltre instaurare un ordine politico, sociale ed economico che sempre più e meglio serva l’uomo e aiuti i singoli e i gruppi ad affermare e sviluppare la propria dignità. […] Sotto tutte queste rivendicazioni si cela un’aspirazione più profonda e universale. I singoli e i gruppi organizzati anelano infatti a una vita piena e libera, degna dell’uomo, che metta al proprio servizio tutto quanto il mondo oggi offre loro così abbondantemente. Anche le nazioni si sforzano sempre più di raggiungere una certa comunità universale.45
L’uomo secolarizzato non si sente più schiavo di un cosmo statico e ripetitivo, ma ha imparato a servirsi delle risorse della terra in cui vive,
43 Qui risuonano le tesi del filosofo e drammaturgo francese Marcel. Egli distingue tra il principio dell’«avere», che si traduce nel primato dell’«ego» («egolatria») e produce l’immagine del mondo inteso come esteriorità da conquistare e possedere, e il principio dell’«essere», che afferma invece il primato della persona: il mondo è abitato dal «mistero familiare» del «tu»; l’esperienza dell’alterità è la fonte di una «metafisica della speranza», perché annuncia la trasformazione del mondo nella comunità del «noi» (G. Marcel, Homo viator. Prolegomeni a una metafisica della speranza, Borla, Roma 1980, 21-113; Id., Essere e avere, ESI, Napoli 1999; Id., Giornale metafisico, Abete, Roma 1976). 44 Smulders, «L’attività umana nel mondo», 319: è degno di nota il fatto che la Chiesa cattolica adotti, in un testo normativo così importante, un atteggiamento tanto positivo nei confronti di quel mondo moderno che fino a pochi anni prima veniva accusato di aver distrutto molti «fondamenti tradizionali della religione» cristiana. 45 GS 9: EV 1/1346-1348.
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trasformando il mondo in una realtà dinamica e aperta al futuro. Lo ha assoggettato a sé e ne orienta il divenire in funzione dello sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini (GS 5). Nell’attuazione di questo compito etico l’umanità contemporanea compie il progetto di Dio sulla creazione e alimenta la propria fede nel Creatore.46
3.2. La Chiesa cattolica nel mondo divenuto secolare
Il riconoscimento dell’autonomia secolare del mondo e il ruolo di animazione spirituale della Chiesa sono le due dimensioni che fondano i rapporti di reciprocità, che intercorrono tra la Chiesa cattolica e il mondo contemporaneo. L’epoca della cristianità è finita. La relazione Chiesa-mondo non può più essere basata sull’identificazione, né sul predominio, ma deve essere riformulata sul principio di differenziazione: la posizione dialettica e asimmetrica dell’una rispetto all’altro è la condizione del dialogo tra loro. GS 40-44 istituisce una serie di analogie tra i due interlocutori: la somiglianza e la dissomiglianza si rimandano a vicenda in una relazione inesauribile. Sia la Chiesa che la storia umana sono avvolte dal mistero. Per l’una è il mistero luminoso della pasqua di Cristo, il mistero dell’amore e della salvezza, mentre per l’altra si tratta del mistero notturno della condizione umana, il mistero della finitudine e del peccato. Sia la Chiesa cattolica che l’umanità secolare vengono ricondotte all’immagine della città. La Chiesa è una città bene ordinata, fornita dei mezzi idonei al raggiungimento dei propri scopi. Perciò essa «è come il fermento e quasi l’anima della società umana». L’uomo secolare invece deve quotidianamente lottare per realizzare, qui e ora, in modo sempre provvisorio e parziale, quell’umanità che la Chiesa crede di poter raggiungere pienamente solo nel mondo futuro. Proprio perché, pur somigliandosi, sono così differenti, Chiesa e mondo insieme vivono e agiscono (GS 40). La Chiesa umanizza il mondo: riconosce e valorizza i processi culturali e i movimenti sociali che stanno promuovendo la dignità dell’uomo. In questo campo, l’autorevolezza le viene dalla fedeltà al vangelo, testimoniata da tanti credenti che nel XX secolo si sono prodigati non solo per promuovere il riconoscimento dei diritti umani, ma soprattutto per difendere le persone la cui dignità era concretamente violata. Non il potere acquisito con mezzi umani, ma la dedizione ai poveri e agli esclusi è ciò che dà alla Chiesa cattolica il diritto di parlare a difesa dell’uomo e dei suoi diritti (GS 42). «Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo» (GS 41).
46 Smulders, «L’attività umana nel mondo», 319: «È proprio la fede nella creazione che dovrebbe, per il credente, aumentare il valore delle cose. […] La fede nel Creatore non spenge lo splendore della creatura, ma dà invece ad essa un calore più intenso e una luce più chiara».
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Dall’esperienza vissuta della carità viene un chiaro appello all’umanità contemporanea secolarizzata, a farsi senza paura discepola di Cristo. Certo, dovrà rinunciare alla «falsa autonomia» di un’umanità che pretende di essere norma a se stessa e riconoscere nella parola di Cristo una legge che la trascende e che esprime l’amore di Dio per l’uomo: proprio per questo, la sua passione per l’uomo e la sua fedeltà alla terra ne usciranno rafforzate (GS 41). L’umanesimo secolare non dovrà più fare i conti con la fragilità dei propri presupposti etici e con il nichilismo esistenzialista, che tien dietro alle cocenti delusioni delle aspettative umane: il disincanto minaccia di trasformare le grandi utopie della modernità in un incubo (GS 41). Queste parole risuonano anche come un invito alla Chiesa – in specie ai pastori e ai teologi – perché modifichi radicalmente il registro del suo linguaggio religioso. Se l’uomo, la sua condizione storica e i suoi interrogativi profondi sono il terreno comune d’incontro e di dialogo tra Chiesa e mondo, sarà necessario abbandonare ogni forma di dogmatismo teologico. D’ora in poi, quando la Chiesa cattolica parlerà di Dio non lo farà più cosmologicamente, a partire dalla realtà del mondo, con il rischio di trattarlo come un oggetto naturale. Imparerà dalla teologia esistenzialista di metà Novecento a «parlare di Dio parlando dell’uomo».47 Questa svolta antropologica era stata sollecitata da molti teologi cattolici e sarà uno dei principali Leitmotiv della teologia post-conciliare, sollevando peraltro molte obiezioni.48 Sostiene Chenu che questo umanesimo cristiano secolare è in realtà un’«antropologia cristologica», molto più simile alla teologia dei padri greci che a certe recenti modernizzazioni del cristianesimo. È la versione antropologica del cristocentrismo, che attraversa da un capo all’altro i testi dogmatici del concilio Vaticano II. Da ciò – e non da un ingenuo irenismo nei confronti del mondo moderno – prende forma e forza la speranza che GS nutre nei confronti della storia umana.49 «La grazia s’infiltra nella natura»,50 come aveva già affermato LG 38, a proposito del compito di animazione a cui sono chiamati i cristiani nel mondo. Lo sguardo non è più rivolto verso il grembo della fede, la Chiesa, ma verso il suo orizzonte di dilatazione, il mondo.51
47 K. Rahner, «Theos nel Nuovo Testamento», in Id., Saggi teologici, Paoline, Roma 1965, 493-494.508.522-523.533-534; R. Bultmann, «Il problema dell’ermeneutica», in Id., Credere e comprendere, Queriniana, Brescia 1977, 584; Id., «Scienza e esistenza», ivi, 777-778. 48 Tra le reazioni critiche nei confronti della cosiddetta svolta antropologica della teologia e dunque in favore del ricorso alla metafisica cosmologica cf. J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1979, 103: «La fede cristiana ha fatto la sua scelta netta: contro gli dei della religione per il Dio dei filosofi, vale a dire contro il mito della sola consuetudine per la verità dell’essere». 49 M.-D. Chenu, «La missione della Chiesa nel mondo contemporaneo», in Baraúna, La chiesa nel mondo di oggi, 336.349. 50 Ivi, 344. 51 «Materia del vivere cristiano è partecipare all’edificazione del mondo nella vita di tutti i giorni» (ivi, 340).
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3.3. Per una
teologia del mondo : il secolare a servizio della fede e dell ’ evangelizzazione
A sua volta, il mondo può convertire la Chiesa inducendola a una più profonda adesione al vangelo.52 Ciò avviene per via indiretta, con il progressivo disvelamento della realtà dell’uomo, che si compie attraverso la ricerca di verità sempre più grandi, custodite nei «tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana». In tal modo, sin dai primordi della fede cristiana, il mondo ha offerto alla Chiesa le ferramenta linguistiche per dire il vangelo con parole nuove, differenti da quelle nelle quali è stato predicato la prima volta. Si tratta di uno «scambio vitale», attraverso cui procede e si sviluppa la comunicazione del vangelo (GS 44). O meglio ancora, attraverso cui si compie un «intreccio di orizzonti» tra il mondo linguistico di una determinata cultura e quello della Chiesa.53 Qui diventa più chiaro che cosa GS intenda per «mondo contemporaneo». Non è soltanto una categoria sociologica: l’ideal-tipo entro cui vengono sintetizzati i processi di trasformazione delle società e delle culture occidentali negli ultimi due secoli. Non è neppure una categoria filosofica, con cui si identifica il profano come dimensione antropologica contrapposta al sacro divino. Il mondo contemporaneo è il luogo del comunicarsi indiretto di Dio all’umanità. Il mondo, ovvero la condizione umana in tutta la sua concretezza storica, è una rivelazione cifrata di Dio. È una vera e propria categoria teologica. GS scrive un decisivo capitolo della teologia della creazione: come può il Dio della creazione e dell’alleanza comunicarsi attraverso la fragilità e l’opacità dell’essere contingente? Come può farsi conoscere attraverso l’indifferenza o il rifiuto degli esseri umani nei suoi confronti? GS opera il passaggio da una teologia delle realtà terrene, che mirava a definire il ruolo dei cristiani e della Chiesa nel mondo secolarizzato, a una teologia del mondo tout court, in cui anche il mondo secolarizzato contemporaneo è compreso come appartenente a quella prima e fondamentale rivelazione di Dio all’umanità, che è la creazione. Dio ha voluto che la creazione cominci dall’uomo e sia ordinata a lui (GS 35).54 L’uomo in quanto essere relazionale è l’oggetto di una riflessione teologica che ha il Creatore come soggetto e fondamento e la caritas come stile di trasformazione del mondo e come via praticabile da tutti (GS 38). Chiesa cattolica e umanità contemporanea sono accomunate dallo stesso destino e vivono la medesima condizione di finitezza e di precarietà, passando da una crisi all’altra. Hanno entrambe il problema di trovare i giusti criteri per interpretare le vicende storiche, cogliendo valori emergenti dal divenire temporale e
Acerbi, La Chiesa nel tempo, 224. P. Boschini, «Orizzonti che s’intersecano. Voci italiane di un dibattito mondiale», in Missione Oggi 109(2012)3, 27-30. 54 J.B. Metz, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1974, 22-25.34-35.73-75. 52 53
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componendoli con quelli ereditati dalle loro secolari tradizioni religiose e culturali.55
4. La Chiesa
cattolica nel mondo secolarizzato : tre questioni conclusive
La riflessione sulla secolarizzazione in GS pone tre questioni, che riguardano gli interlocutori, il linguaggio e il metodo, la portata ecclesiale dell’analisi che la costituzione pastorale conduce sul processo di secolarizzazione in atto nel mondo contemporaneo.
4.1. A
chi si rivolge la costituzione pastorale ?
Di regola, le costituzioni dei concili si rivolgono ai vescovi della Chiesa cattolica e, per loro tramite, a tutti i fedeli. GS cambia la prospettiva:56 non fa distinzione tra fedeli laici e pastori, perché in quanto battezzati sono entrambi parte del popolo di Dio. Insieme a loro, gli interlocutori del messaggio di GS sono gli stessi uomini secolarizzati (GS 10), che non sono considerati semplicemente come i destinatari dell’evangelizzazione: sono anche i potenziali collaboratori dell’azione umanizzatrice della Chiesa cattolica. Il concilio intende aiutare tutti gli uomini del nostro tempo – sia quelli che credono in Dio, sia quelli che esplicitamente non lo riconoscono – affinché, percependo più chiaramente la pienezza della loro vocazione, rendano il mondo più conforme all’eminente dignità dell’uomo, aspirino a una fratellanza universale poggiata su fondamenti più profondi, e possano rispondere, sotto l’impulso dell’amore, con uno sforzo generoso e congiunto agli appelli più pressanti della nostra epoca.57
L’aver preso sul serio la pluralizzazione della verità e la detronizzazione dell’autorità fattasi democratica; l’aver accettato la dimostrazione della verità cristiana alla prova dei fatti e nel dialogo alla pari con il mondo contemporaneo; il voler andare incontro all’uomo secolare con il vangelo in una mano e la carità nell’altra. Tutto ciò dà alla costituzione pastorale un afflato profetico. Essa presagisce i tempi nuovi, in cui la comunicazione sarà sempre meno unilaterale e nessun ricevente sarà solo un destina-
Acerbi, La Chiesa nel tempo, 228. Y.-M. Congar, «Le rôle de l’Église dans le monde de ce temps», in Y.-M. Congar – M. Peuchmard (a cura di), Vatican II. L’Église dans le monde de ce temps, 3 voll., Cerf, Paris 1967, II, 305-328; K. Rahner, «Problematica teologica di una Costituzione pastorale», in Id., Nuovi saggi. III, Paoline, Roma 1969, 693-721. 57 GS 91: EV 1/1636. 55 56
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tario passivo da ammaliare e persuadere, ma un interprete intelligente, portatore di un contributo originale e sensato. La verità si fa sempre più cooperativa e il potere è sempre più partecipato. Con lo stesso stile, quello di rivolgersi a partner attivi, GS interpella specificamente i fedeli laici e li invita a servirsi della propria coscienza per «inscrivere la legge divina nella vita della città terrena»; a non delegare la loro responsabilità ecclesiale ai pastori; a non rinunciare alle proprie competenze secolari (GS 43). La secolarizzazione ha effettivamente purificato la fede della Chiesa cattolica da una concezione sacrale della realtà (GS 7), che si è tradotta per molti secoli nella separazione tra clero e laici, ovvero, in un sovraccarico di rappresentatività ecclesiale da parte del clero e in una corrispondente deresponsabilizzazione dei laici. Infine la costituzione pastorale interpella i pastori della Chiesa cattolica, invitandoli a mostrare il volto materno ed evangelico della comunità cristiana, così che gli uomini del nostro tempo si possano fare da soli «un giudizio sulla efficacia e sulla verità del messaggio cristiano». Ma li invita anche a intraprendere percorsi esigenti di formazione teologica e culturale, affinché «con lo studio assiduo si rendano capaci di assumere la propria responsabilità nel dialogo col mondo e con gli uomini di qualsiasi opinione» (GS 43).
4.2. Come parla
la costituzione pastorale ?
Prima ancora che con le parole ispirate alla rivelazione, al magistero ecclesiale e al sensus della fede cristiana, i padri conciliari parlano con il linguaggio dell’empatia, del comprendere l’altro dal di dentro: non si limitano a un ingenuo simpatizzare.58 E lo dichiarano subito: «La comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (GS 1). Lucidamente, attribuiscono questo atteggiamento all’economia trinitaria della salvezza, che è il fondamento su cui sussiste la Chiesa. Perciò, mentre la comunità cristiana parla all’uomo secolarizzato annunciandogli il vangelo, parla anche a se stessa. Mentre prende in esame la loro fatica – o addirittura il rifiuto – di credere nel Dio di Gesù Cristo, ha davanti agli occhi l’esperienza del peccato, da cui nessun discepolo né la Chiesa nel suo insieme è esente (GS 2). Il processo di secolarizzazione in atto getta l’umanità odierna in una situazione di ansietà per il presente e di inquietudine per il «destino ultimo delle cose e degli uomini». Proprio per questo l’annuncio del vangelo presuppone l’ascolto. Il monologo deve lasciare il posto al dialogo e alla fatica di comprendere le ragioni degli altri:
58 Cf. Dossetti, Il Vaticano II, 89-91, che parla di «intenzione di dialogo». Tuttavia il progetto di GS si fermerebbe qui. Far procedere le argomentazioni «da una certa sociologia del buon senso» e non da argomenti fondati sulla rivelazione e sulla tradizione costituisce – a suo parere – «il punto debole della Gaudium et spes».
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sono in gioco la «salvezza» dell’uomo e l’edificazione della società umana. La secolarizzazione chiede alla Chiesa di rompere ogni isolamento nei confronti del mondo contemporaneo, di cui essa stessa è parte, e di farsi carico responsabilmente del suo destino. Da questa visione, tragica e dialogica al tempo stesso, dell’umanità secolare la Chiesa cattolica trae i suoi sentimenti «di solidarietà, di rispetto e d’amore verso l’intera famiglia umana» (GS 3). Nell’empatia – e nel dialogo che ne segue – non si danno prescrizioni, ma solo indicazioni. Questo pone un problema teologico rilevante: qual è il valore normativo di una costituzione conciliare che non ha di mira la definizione di un dogma, o la determinazione di una disciplina ecclesiale? Se parlando di secolarizzazione all’uomo secolare anche la Chiesa cattolica non prescrive ma indica, allora essa ha assunto la secolarizzazione nel modo più radicale possibile: non è più solo un suo problema, un oggetto di riflessione, ma ne ha fatto anche il proprio metodo e il proprio linguaggio. Si è autorelativizzata. Ha accettato il punto di vista del suo interlocutore. È entrata pienamente nella logica della verità plurale. Non per debolezza e mancanza di autostima, né per un complesso di inferiorità di fronte alla preponderanza soverchiante del laicismo. La Chiesa cattolica si autorelativizza per ragioni teologiche: l’amore di Cristo per l’uomo; la sollecitudine cristiana per la diffusione del vangelo. Indicare, invece che definire, è la vittoria della vita sul concetto, del dialogo sull’anatema: è la vittoria del vangelo che include nel mistero trinitario. In sintesi: i contenuti della costituzione pastorale non sono vincolanti, ma sono normativi lo stile, il metodo e il linguaggio con cui sono stati formulati. Che cosa la Chiesa cattolica pensa dell’uomo secolare, è indicativo. Domani potrà mutare la sua visione senza dover ritrattare il suo pensiero. Ma come è pervenuta a questa formulazione, ciò è prescrittivo. Infatti la «missione della Chiesa nel mondo contemporaneo» consiste nel «riconoscere tutto ciò che di buono si trova nel dinamismo sociale odierno». Questo discernimento deve essere fatto in modo selettivo, secondo un criterio evangelico che «corrisponda alla intima missione della Chiesa». «Il movimento verso l’unità», che si concretizza nel «progresso di una sana socializzazione e della solidarietà civile ed economica», è questo il criterio (GS 42).
4.3. Qual
è la portata ecclesiale delle affermazioni di GS sul mondo secolarizzato ?
C’è una corrispondenza tra ciò che la costituzione pastorale dice della missione della Chiesa nel mondo secolarizzato e ciò che GS lascia trasparire della propria autocomprensione. Questa corrispondenza è resa possibile dal fatto che la sollecitudine pastorale della Chiesa e l’istanza teologica di GS sono la medesima cosa: l’evangelizzazione dell’umanità contemporanea nella prospettiva del veniente regno di Dio (GS 45).
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La comunicazione del vangelo nel mondo dell’inquietudine esistenziale e dell’accelerazione del tempo umano richiede un atteggiamento dinamico: la capacità di coniugare principi generali con situazioni particolari e di attuare valori eterni in scelte contingenti. Per la sua stessa natura, la costituzione pastorale si espone volontariamente al pericolo che «le sue asserzioni risentano della mutabilità tipica delle condizioni che essa vuole descrivere e aiutare a comprendere».59 I padri conciliari hanno corso deliberatamente il rischio che la Chiesa cattolica s’impantani nella palude relativista, comprendendo le trasformazioni del mondo da un punto di vista anch’esso in divenire. Se è così, c’è un solo modo per evitare che il dialogo con il mondo secolarizzato si trasformi in un gorgo che inghiotte la verità della fede cristiana: considerare lo stesso mondo secolarizzato come portatore di un appello concreto di Dio, che si rivolge alla Chiesa e la chiama ancora una volta a conversione e riforma. La rinuncia a dire una verità imperitura sul mondo contemporaneo pone la Chiesa cattolica in una condizione itinerante e le toglie ogni punto di riferimento intrastorico. Il suo movimento verso il regno di Dio è unicamente in forza della guida dello Spirito.60 In GS si coniugano l’indole carismatica della Chiesa – la sua origine divina – e la sua metodologia profana di analisi dei problemi, che è il segno della sua appartenenza all’umanità secolare contemporanea.61 Il carattere profetico di GS e il valore dottrinario delle sue affermazioni non sono la stessa cosa, perché altrimenti la verità di GS consisterebbe solo nella sua capacità di analisi sociologica e di preveggenza. Chi ancora oggi critica la costituzione pastorale per il suo eccessivo ottimismo o per la sua inattualità, la legge come se fosse stata scritta da Nostradamus o da Asimov. La verità di GS non viene né avvalorata, né scalfita da quanto è avvenuto in questi ultimi cinquant’anni. In base a quali criteri teologici ci si può sentire autorizzati a seguire o a smentire GS, perché le sue previsioni si sono rivelate giuste, errate o semplicemente inadeguate? Affermare che la costituzione pastorale dimostra tutta l’età che ha, specialmente nelle questioni relative alla secolarizzazione del mondo contemporaneo, è un’ovvietà. Che le sue analisi mostrino gli inevitabili segni del condizionamento temporale dice che la sua portata ecclesiale consiste nell’assumere il punto di vista dinamico ed evolutivo del mondo secolarizzato, riconoscendovi il segno di una ben più profonda e duratura forza evolutiva: la dynamis del regno di Dio, che agisce in Gesù e ora, in forza
Rahner, «Problematica teologica di una “Costituzione pastorale”», 694. «L’ispirazione dall’alto si realizza sempre attraverso il “materiale” offerto dal basso, anche se non è mai possibile produrla sinteticamente solo dal basso». È grazie all’assistenza dello Spirito che la Chiesa individua i problemi con cui confrontarsi (ivi, 710-712). 61 «L’influsso dello Spirito va visto già nel fatto che la Chiesa trova il coraggio di compiere questa analisi, che non rimuove perciò conoscenze che le dovessero eventualmente diventare molto dolorose, ma le accetta senza riserve e con umiltà» (ivi, 714). 59 60
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dello Spirito, anche nel mondo di cui la Chiesa è parte. La sua debolezza è anche la sua forza. Il suo carattere vincolante consiste nell’obbligare la Chiesa cattolica odierna ad ascoltare la parola di Cristo nelle Scritture e nella Tradizione e la voce dello Spirito nella vita del mondo e dell’umanità di oggi, in quanto creazione di Dio. È il tema antico dell’unica verità di Dio scritta in due libri. Si incontra già in Agostino e in Scoto Eriugena, in molti teologi medievali e rinascimentali e perfino in Galileo. Se ne trovano tracce anche in Dei Verbum (n. 3) e ovviamente in GS (n. 36): l’assistenza dello Spirito, che rende la Chiesa capace di ascolto, di compassione e di discernimento, la apre a riconoscere e ad accogliere la voce di Dio nel mondo. La secolarizzazione porta con sé speranze e angosce: un’inquietudine gravida di vita, che conduce a un’inedita esperienza di Dio.
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La questione antropologica come luogo della verità teologica in un contesto plurale
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1. Premessa
storico - metodologica
Sulla scia del concilio, l’insegnamento autorevole di Paolo VI e di Giovanni Paolo II è stato il principale motore – mai l’unico – di una teologia ecclesiale dell’evangelizzazione, proprio perché si è sforzato di recepire e di trasmettere a tutte le Chiese i fermenti teologici che provenivano dalle Chiese locali impegnate in prima linea nel rinnovamento dell’annuncio del vangelo. Tuttavia si deve riconoscere che questo sforzo del magistero papale, profuso nell’arco di oltre trent’anni, non è stato omogeneo, né esente da tensioni e ambiguità.
1.1. La centralità della questione antropologica nel magistero post - conciliare
Sin dalle rispettive prime encicliche – Ecclesiam suam (1964)1 e Redemptor hominis (1979)2 – Paolo VI e Giovanni Paolo II sono stati unanimi nell’indicare la centralità della questione antropologica come uno dei principali elementi di novità del Vaticano II. L’uomo «è la prima e fondamentale via della Chiesa» (RH 14), la quale a sua volta nella massima assise mondiale si presenta come «esperta in umanità».3
Paolo VI, lettera enciclica Ecclesiam suam [ES] (6.8.1964): EV 2/163-210. Giovanni Paolo II, lettera enciclica Redemptor hominis [RH] (4.3.1979): EV 6/1167-1268. 3 Paolo VI, discorso Au moment all’Assemblea delle Nazioni Unite [d’ora in poi Discorso all’ONU] (4.10.1965), n. 1: EV 1/375*. 1 2
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Quale impatto ha avuto e quali conseguenze ha prodotto nel magistero cattolico recente questo antropocentrismo cristiano nella comprensione della questione della verità? Come è stata intesa nel magistero dei due papi del post-concilio l’affermazione secondo cui «la verità non s’impone che in forza della verità stessa, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore»?4 Volta a volta, anche per motivi legati alla contingenza storica, la «forza della verità» è stata intesa in senso dialogico: il vangelo è capace di creare consenso intorno ai valori fondamentali dell’uomo. Oppure, è stata proposta in senso metafisico: senza il riconoscimento dell’origine trascendente della verità e della sua identità con Dio, non sono possibili né un conoscere né un agire rispettosi dell’essere umano in quanto tale. Ancora, la verità obbliga gli orizzonti conoscitivi ed etici a intrecciarsi e a fondersi nel vicendevole riconoscimento, illuminando così da molti punti di vista le tante sfaccettature dell’umano. Non siamo in presenza di una disomogeneità selvaggia e casuale. Le tensioni sono innegabili, ma altrettanto evidente è lo sforzo di trovare una linea di sintesi.
1.2. Un’analisi
per modelli :
1967-1998
Di fronte a questa disomogeneità su una questione teologica importante come quella della verità teologica nei processi legati all’evangelizzazione, ho impostato un’analisi per modelli. La loro costruzione vuole dare conto delle principali tendenze che il magistero papale ha manifestato dopo il concilio nei confronti del mondo occidentale secolarizzato. Ho identificato tre modelli fondamentali: dialogico, metafisico, ermeneutico. Ciascuno di essi è stato ulteriormente suddiviso in due paradigmi, in modo da evidenziare variazioni e fluidità, pur in una sostanziale unitarietà di impianto epistemologico. È chiaro che nessuno dei modelli qui proposti si potrà ritrovare allo stato puro nei documenti in questione. Si tratta di ideal-tipi che esistono solo nella mia testa, anche se ritengo siano indicazioni di ricerca dotate di una loro coerenza interna e perciò utili per una comprensione meno grossolana e superficiale della ricchezza epistemologica, non solo dottrinale, del magistero post-conciliare. Questa pluralità del magistero recente sulla questione della verità non deve spaventare: è un fatto normale, se si considera che nell’ultimo mezzo secolo la scrittura di ogni documento ecclesiale ufficiale è il frutto di una molteplicità di autori e di redattori. Si tratta poi di un magistero dilatato nell’arco temporale di circa quarant’anni e, non di rado, legato a problematiche contingenti. Che l’idea di una verità cattolica monolitica sia una caricatura storica è proprio ciò che nelle pagine seguenti si vuole ancora una volta illustrare.
4 Concilio ecumenico Vaticano II, dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae (7.12.1965), Sessione IX, n. 1: EV 1/1044.
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La questione antropologica come luogo della verità teologica in un contesto plurale
Occorre poi spiegare il motivo della delimitazione temporale di questo studio, che abbraccia un trentennio, in pratica l’insegnamento autorevole dei successori di Pietro nel post-concilio: da Populorum progressio (1967)5 a Fides et ratio (1998).6 Non perché prima e dopo quelle date il magistero papale non abbia prodotto testi rilevanti per il nostro tema: basterebbe la lettura di Mater et magistra (1961), Pacem in terris (1963),7 Ecclesiam suam (1964) o delle più recenti Deus caritas est (2005) e Caritas in veritate (2009), per smentire questa affermazione. Il motivo è di carattere prudenziale. Come termine a quo ho scelto la chiusura del concilio Vaticano II, nella convinzione che esso comporti nel magistero cattolico una svolta radicale nella comprensione della verità cristiana e della sua comunicazione: ovviamente, una svolta i cui segni erano già presenti nel magistero papale durante il concilio. Come termine ad quem mi fermo a FR, l’ultima enciclica papale del XX secolo. Quindici anni sono una distanza storica appena sufficiente, per evitare che l’analisi possa essere inquinata da impliciti pregiudizi dell’interprete, o scivolare nella cronaca teologica.8
2. Il
modello dialogico : il profilo antropologico della verità
La Chiesa cerca la verità in dialogo con la condizione umana contemporanea,9 al fine di «rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il vangelo all’umanità del XX secolo» (EN 2). In questo modello la questione della verità prende l’avvio non da affermazioni dogmatiche, ma da «brucianti domande», che toccano l’essere stesso della Chiesa: esse nascono da un’analisi – disincantata nei contenuti e appassionata nei modi – della situazione in cui versano il cristianesimo e la Chiesa nel mondo odierno. «Che ne è oggi di questa energia nascosta della buona novella, capace di colpire profondamente la coscienza dell’uomo?» (EN 4). Non si comincia dall’uomo genericamente preso, che è un’essenza astratta, ma da quel particolare tipo di umanità che è il
Paolo VI, lettera enciclica Populorum progressio [PP] (26.3.1967): EV 2/1046-1132. Giovanni Paolo II, lettera enciclica Fides et ratio [FR] (14.9.1998): AAS 91(1999)1, 5-88. 7 Giovanni XXIII, lettera enciclica Pacem in terris [PT] (11.4.1963): EV 2/1-60. 8 C’è un ulteriore problema ermeneutico relativo al magistero di Benedetto XVI, che consiste nell’oggettiva difficoltà di distinguere il pensiero del prof. Joseph Ratzinger da quello del papa teologo. L’intenzione di un testo scritto da un teologo in quanto teologo non è più la stessa: quei pensieri transitano nelle pagine scritte dallo stesso teologo divenuto vescovo di Roma (P. Boschini, «La stoffa ermeneutica del Gesù di Nazaret di J. Ratzinger», in M. Tagliaferri [a cura di], Il Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger. Un confronto, Cittadella, Assisi 2011, 155-161). 9 Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi [EN] (8.12.1975): EV 5/1588-1716, qui 1588 (n. 1). 5 6
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cristiano, considerato nella sua relazione storica con i propri contemporanei. La verità da conoscere e da diffondere sta in questa relazione vangelo-Chiesa-mondo: «Fino a quale punto e come questa forza evangelica è in grado di trasformare veramente l’uomo di questo secolo? Quali metodi bisogna seguire nel proclamare il vangelo affinché la sua potenza possa raggiungere i suoi effetti?» (EN 4). La risposta si può trovare solo ripristinando il legame, fatto di dialogo e di impregnazione reciproca, tra il vangelo e le culture; legame che si è rotto drammaticamente nella modernità secolarizzata (EN 20). La verità sta nel dialogo e nello sforzo incessante del suo ripristino. La verità non è un deposito di informazioni e dati, ma un evento di relazioni reciproche che arricchiscono la conoscenza del fenomeno umano. Questo modello si caratterizza per essere essenzialmente antropologico: la verità non è solo una conoscenza sull’uomo, ma è anzitutto un processo dell’uomo. Nel magistero post-conciliare questo paradigma si diversifica: c’è una concezione dialogica della verità, ma ci sono due modi di declinarla teologicamente e, conseguentemente, di attuarla nella prassi storica della Chiesa.
2.1. L’antropologia
relazionale : il profilo creaturale della verità
La verità è la dimensione creaturale che meglio esprime la struttura relazionale dell’uomo. Quest’idea s’incontra frequentemente nel magistero di Paolo VI, tanto da costituire il modello di verità in lui predominante (ES 60-121). Ma è ampiamente presente anche in luoghi significativi dell’insegnamento di Giovanni Paolo II. Esso è caratterizzato dalla convinzione filosofica e teologica secondo cui «non si può dissociare il piano della creazione da quello della redenzione». La verità del vangelo si dà nei «legami profondi tra evangelizzazione e promozione umana – sviluppo e liberazione». La verità è la condizione concreta dell’uomo e come tale non può essere dissociata dall’«ingiustizia da combattere» e dalla «giustizia da restaurare» (EN 31). In forza della sua concretezza antropologica, la verità cristiana – come ogni altra verità – non è particolarista, ma ha di mira l’«uomo intero, in ogni sua dimensione, compresa la sua apertura verso l’“assoluto”, anche l’Assoluto che è Dio» (EN 33). La verità è teologica e antropologica al tempo stesso: si manifesta nel dinamismo dello spirito umano, che dal quotidiano della sua condizione materiale si apre all’aspirazione incondizionata di un mondo nuovo. La condizione che rende possibile questa congiunzione è il desiderio umano di Dio, ovvero il desiderio naturale di unione intellettuale tra la creatura e il Creatore. L’uomo è il luogo della verità, il «dove» essa prende forma storica e si comunica. Perciò senza un’antropologia che principia da questa concezione relazionale della verità non è possibile ripristinare il legame tra vangelo e culture, dunque non è possibile inculturare la fede cristiana ai fini della sua comunicazione.
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Questa antropologia è più che una dottrina filosofico-teologica: è un «umanesimo», che Paolo VI definisce «plenario». Esso consiste nello «sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini» (PP 42). Ciò significa che la vicenda umana non è casuale, ma risponde a un progetto. La verità dell’uomo e sull’uomo consiste nel consentire e accompagnare lo «svolgimento» delle sue capacità. Prima che essere il nome della pace, «sviluppo» è il nome dell’uomo, inteso come essere dotato di «un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare». Le più importanti sono «intelligenza e libertà» (PP 15). Perciò la verità dell’uomo è la sua capacità di autocostruirsi esercitando la responsabilità verso sé e gli altri. «Col solo sforzo della sua intelligenza e della sua volontà, ogni uomo può crescere in umanità, valere di più, essere di più» (PP 15). Alla voce di Paolo VI farà eco, quasi venticinque anni più tardi, quella di Giovanni Paolo II, che in Centesimus annus (1991)10 ripete che «la principale risorsa dell’uomo insieme con la terra è l’uomo stesso», con le sue capacità intellettive, pratiche e poietiche (CA 32). Questo continuo autotrascendimento risponde al dinamismo dell’intera creazione. È il riflesso nell’essere umano dell’intenzione sapiente e benevola di Dio. Impegnato in questo sforzo incessante di miglioramento di sé, l’uomo incontra il mistero dell’incarnazione divina (PP 16). Accogliendola nella propria vita, «l’uomo accede a una dimensione nuova, a un umanesimo trascendente, che gli conferisce la sua più grande pienezza» (PP 16). La verità può essere colta e vissuta a differenti livelli e con differente intensità. La vita umana ha senso, anche se non ha ancora attinto alla novità e alla perfezione che le vengono dall’adesione credente al vangelo e al Dio di cui quell’annuncio è rivelazione. Si può essere uomini nella verità, anche se non si è ancora uomini nella fede. Paolo VI lo dice chiaramente, quando afferma che lo sforzo di tutti – scienziati, tecnici e intellettuali – oggi deve essere volto alla ricerca di un «“umanesimo” nuovo, che permetta all’uomo moderno di ritrovare se stesso, assumendo i valori superiori di amore, di amicizia, di preghiera e di contemplazione» (PP 20). La verità dell’uomo sta nel dinamismo che segna «il passaggio, per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane» (PP 20). Sviluppo plenario e planetario è anche il nome della verità. Seppur dinamico e storico, questo modello antropologico di verità non è né relativista, né storicista. La responsabilità con cui l’uomo è chiamato a crescere in umanità e a far crescere la civiltà odierna risponde a una «natura» ricevuta in dono dal Creatore, a cui egli liberamente si conforma. Natura non significa struttura immutabile, né codice etico su base genetica. Natura sono «le possibilità e le esigenze» (PP 34), che l’uomo stesso trova inscritte dentro di sé e che riconosce impresse nell’esistenza altrui. La natura umana – in cui consiste la radice ultimativa della verità sulla
10 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Centesimus annus [CA] (1.5.1991): AAS 83(1991)10, 793-867.
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e della sua esistenza – è possibilità, apertura, sguardo rivolto verso l’oltre. In questa relazione incondizionata con l’alterità, l’uomo scopre di non essere «la norma ultima dei valori». La verità lo precede e sopravvivrà alla sua morte. Perciò «l’idea vera della vita umana», la migliore rappresentazione della verità, in cui l’uomo è e si muove, sta nella parola «vocazione» (PP 42). Tutto il dinamismo umano si compie nell’aderire con fiducia alla parola di un Altro, che ha la capacità – altrimenti impossibile all’uomo stesso – di rendere più «degna dell’uomo» la sua esistenza sulla terra (RH 15): in concreto, di rendere l’uomo «più maturo spiritualmente, più cosciente della dignità della sua umanità, più responsabile, più aperto agli altri, in particolare verso i più bisognosi e più deboli, più disponibile a dare e portare aiuto a tutti» (RH 15). Nel modello dialogico è presente una tensione tra l’idea di una certa autonomia della natura umana, creata intelligente e libera, e l’affermazione soteriologica circa la sua insufficienza ontologica ed etica a perseguire la pienezza per cui è stata creata. L’umanesimo cristiano si presenta come una determinazione contenutistica dell’umanità naturale: vi aggiunge un modo di essere umano che altrimenti non sarebbe dato raggiungere. Il dialogo con la Chiesa perciò consente all’umanità di raggiungere una verità altrimenti inconoscibile. Ma anche la Chiesa ottiene un vantaggio effettivo da questo dialogo con gli umanesimi, specialmente con quelli che, mossi da un’istanza di giustizia e di fraternità, sono sensibili alle condizioni di miseria in cui vivono oggi miliardi di esseri umani. La Chiesa apprende la concretezza della verità sull’uomo, quando ascolta e fa propria «la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso».11 Ammaestrata da questo dialogo con gli umanesimi odierni, in cui sente riecheggiare un linguaggio a lei familiare – la parola del vangelo – la Chiesa si offre per ascoltare e amplificare il grido di tutta quanta l’umanità: essa ne è una parte, ma in forza di questo suo amore alla verità concreta che è l’uomo, può rappresentare autenticamente la totalità umana. La difende perché la conosce; e la conosce perché la ama, riconoscendosi anch’essa costituita di esseri umani e intessuta della medesima stoffa creaturale dell’umanità intera. La verità, di cui la Chiesa è araldo e testimone, è più grande della Chiesa stessa, perché consiste in quella ricerca a tentoni di Dio come senso dell’esistenza umana, che Paolo proclamò nell’Areopago.12 Nel discorso all’Areopago la fede biblica mostra come la sua lotta contro l’idolatria si esplichi attraverso un uso demitizzatore del linguaggio teologico.13 Paolo lascia in sospeso la questione dell’identità metafisica
Paolo VI, Discorso all’ONU, n. 1: EV 1/376*. Ivi, n. 7: EV 1/397*. 13 In At 17,22-31 l’atteggiamento di Paolo nei confronti del politeismo greco si compone di due fasi, proprio come il pensiero demitizzatore dei filosofi antichi e dei teologi moderni. 11 12
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di Dio, perché la ragione non può sostituirsi all’esperienza credente, che è il punto di partenza del discorso biblico su Dio. La verità cristiana è il frutto della comprensione teologica di un vissuto antropologico: la fede. La teologia cristiana è quella forma di sapere razionale che riflette criticamente sull’atto vivente del credere e sulle sue implicazioni antropologiche, culturali e sociali.14 L’immagine del tribunale ateniese viene ripresa da Giovanni Paolo II per indicare i sentimenti di «stima, rispetto e discernimento» con cui la Chiesa si avvicina oggi «al magnifico patrimonio dello spirito umano, che si è manifestato in tutte le religioni» (RH 12). La verità dell’uomo ha anche un afflato religioso che, in questo tempo di radicale secolarizzazione della cultura e della vita sociale, ormai solo la Chiesa riesce a riconoscere e valorizzare. Perciò, oltre che «esperta in umanità», essa è anche custode della dimensione spirituale, dell’orientamento verso il Creatore, che una visione riduttiva dello sviluppo e del progresso hanno oscurato. Il dialogo è più che un semplice consenso tra i differenti umanesimi odierni, alla ricerca di una verità che suoni come un minimo comune denominatore. Ci sono questioni, come quella del futuro – e del futuro ultimo dell’uomo – in cui la Chiesa non ha paura di essere una voce profetica e anche critica se occorre, proprio perché scorge la differenza tra l’umanità reale e quella ideale (RH 16). Essa vive alla frontiera tra il tempo e l’eternità: ama l’uomo temporale. Ma in «ciò che è più profondamente umano», nell’«inquietudine creativa del suo cuore», scorge il rimando a una radicale ulteriorità, quella della sua destinazione eterna (RH 18). Ogni atto autenticamente umano è un passo in quella direzione. L’uomo che verrà, di cui la Chiesa è testimone nel presente, sarà caratterizzato dalla «priorità dell’etica sulla tecnica, [dal] primato della persona sulle cose, [dalla] superiorità dello spirito sulla materia». Giovanni Paolo II prende le distanze dall’umanesimo emancipatorio e borghese dell’illuminismo: l’uomo nuovo non coincide con un generico e astratto dover-essere. È in gioco «tutto il dinamismo della vita e della civiltà»; è in gioco il senso della vita quotidiana: «essere di più». Un uomo che aspirasse soltanto ad «avere di più», andrebbe nella direzione di una parcellizzazione del proprio essere e della propria vita; diventerebbe meramente funzionale alla propria «manipolazione» e sancirebbe la propria «schiavitù» nei confronti del sistema economico-produttivo e del consumo (RH 16). Anche quando si fa profetico e critico, questo dialogo sulla verità dell’uomo non perde di vista l’impegno della Chiesa nel mondo presente
Nella pars destruens, cita due inni a Zeus, senza mai nominare la divinità principale del pantheon greco: il divino mitologico esula dalle possibilità logiche della ragione teologica; essa non può parlare di ciò che non le appartiene. Nella pars construens, si sofferma sul «dio ignoto», che è un dio senza nome. 14 P. Boschini, «Tra Vangelo e culture. La teologia dell’evangelizzazione come scienza della fede annunciata», in RTE 10(2006)19, 47.
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come annuncio del mondo nuovo, quale è stato affermato autorevolmente dal concilio Vaticano II.15 Ne è un caso eminente il discorso a cui la Chiesa si sente chiamata, sin dalla Rerum novarum (1891), intorno alla questione del lavoro. Qui emerge in tutta la sua forza la novità storica dell’umanesimo cristiano. Proprio per il fatto di lavorare sempre in relazione con altri, l’uomo si libera oggi e domani dalla schiavitù del bisogno e dalla dipendenza nei confronti del sistema economico-produttivo. Sviluppando legami sociali di mutualità e relazioni economiche di interdipendenza, i lavoratori diventano già adesso uomini nuovi e scoprono la verità ultima custodita nelle attività penultime. L’agire economico e produttivo rende sì l’uomo «“padrone” delle creature», ma a condizione che egli si veda dipendente dal «Datore di tutte le risorse della creazione» e nello stesso tempo, con il proprio lavoro, si renda liberamente interdipendente rispetto agli altri uomini, mettendosi al loro servizio.16 Non si tratta di una critica astratta, articolata intorno a ragioni di principio, ma di una critica concreta, come concreta è la verità che qui è in gioco: che il lavoro crei uno sviluppo nella dimensione dell’essere e non in quella dell’avere; ovvero, che susciti un progresso nell’equa distribuzione delle possibilità umane e delle risorse economiche e non aumenti piuttosto l’ingiustizia, la schiavitù e la miseria. È una critica che assume la forma della «costante preoccupazione e dedizione della Chiesa» verso i prediletti da Gesù: l’«opzione preferenziale per i poveri» è la manifestazione storica della verità sull’uomo, che non può essere conosciuta se nello stesso tempo non è anche accolta, amata e difesa (CA 11). La verità è riconoscere che, al di là di tutto ciò che è legato al soddisfacimento dei bisogni umani, «esiste un qualcosa che è dovuto all’uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità» (CA 34). Questa ricerca della verità teologica sull’uomo attraverso il dialogo non può prescindere anche dal dialogo con l’umanesimo scientifico. La Chiesa cerca la verità sull’uomo instaurando «un dialogo che si preannuncia fruttuoso» anche con le scienze umane, che elegge come propri interlocutori privilegiati. Pur con i loro limiti strutturali, legati al loro impianto specialistico – sono saperi del particolare, a cui sfugge il senso della totalità – le scienze dell’uomo possono aiutare la Chiesa a percorrere con più consapevolezza e forza critica la via dell’uomo.17 Scrive Paolo VI: «Queste scienze sono un linguaggio sempre più complesso, ma che dilata, più che non riempia, il mistero del cuore dell’uomo e non dà la risposta definitiva al desiderio che sale dalle profondità del suo essere» (OA 40). La scienza non ha la chiave della verità, che rimane riservata a una sapienza più profonda e complessiva, capace di uno sguardo sulla totalità dell’uomo: è il sapere della razionalità filosofica, che riconosce l’insuffi-
15 Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes [GS] (7.12.1965), Sessione IX, n. 39: EV 1/1439-1441. 16 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Laborem exercens [LE] (14.9.1981), n. 13: EV 7/1446. 17 Paolo VI, lettera apostolica Octogesima adveniens [OA] (14.5.1971), n. 40: EV 4/764.
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cienza ontologica dell’umano come condizione della sua apertura relazionale. Intendendo l’uomo come l’essere che si realizza «mediante il dono di sé e l’accoglienza dell’altro», la capacità di relazione dialogica è la verità dell’uomo, nel suo darsi più autentico. Ma tale capacità di donarsi è dono essa stessa: è il «grande dono del Creatore», che così «affida l’uomo all’uomo».18
2.2. Il
personalismo cristologico : il profilo teologico della verità
Il cauto antropocentrismo montiniano viene corretto da un secondo paradigma antropologico di verità, che è predominante in RH (1979) e ritorna con minore enfasi in alcuni passi del magistero successivo di Giovanni Paolo II. La tesi fondamentale suona: il senso ultimativo della creazione, e dunque la verità dell’uomo, rifulge nell’incarnazione, la quale svela il carattere dialettico della verità. La carne di Cristo è l’umanità di Dio. L’umanità diventa così il luogo dell’epifania di Dio, che manifesta l’origine e la destinazione divina dell’uomo stesso. Il primo movimento – l’incarnazione – determina il secondo – la rivelazione. Solo colui che facendosi uomo «è penetrato, in modo unico e irripetibile, nel mistero dell’uomo ed è entrato nel suo “cuore”», può svelare pienamente l’uomo all’uomo. È un tema ben presente nel magistero del concilio Vaticano II e in particolare in GS 22: questo testo è la chiave per intendere il nesso tra umanesimo e cristianesimo nel magistero di Giovanni Paolo II, almeno fino a FR (1998), che rappresenta su questo tema un significativo punto di svolta. Cristo conosce l’uomo meglio di quanto l’uomo conosca se stesso, perché lo conosce non solo dall’interno dell’umanità, ma a partire dal cuore stesso di Dio: lo vede nell’unica prospettiva libera dalle deformazioni del peccato (RH 8). Questa conoscenza dal profondo, che comincia dal cuore e non dalla ragione, da Dio e non dall’uomo, è espressione dell’amore di Dio per le sue creature. Non lo sviluppo e l’autotrascendenza, ma l’amore divino e la potentia oboedentialis umana sono qui il nome dell’uomo e della sua verità. L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente.19
L’antropologia si fa spiccatamente teocentrica. L’accento si sposta dal protendersi dell’uomo in ricerca verso Dio alla condiscendenza di Dio nei confronti dell’uomo. Questo cambiamento contiene un differente giudizio sulla modernità e ne dipende. Per Giovanni Paolo II la parzialità dello
18 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Evangelium vitae [EVi] (25.3.1995): AAS 87(1995)5, 401-522, qui 422 (n. 19). 19 RH 10: EV 6/1194.
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sguardo scientifico e la parcellizzazione prodotta dalla società complessa odierna si possono superare solo a condizione di assumere un punto di vista totalmente nuovo sull’uomo: guardandolo cioè «con gli occhi del Creatore». Non più una prospettiva plurale, protesa verso il tutto, pur consapevole di non poterlo raggiungere qui e ora, come quella dominante in Paolo VI; ma un punto di vista totalizzante sull’uomo. La conoscenza della verità dell’uomo non è il frutto di una faticosa via che procede induttivamente dal basso verso l’alto. Essa comincia da uno sguardo d’insieme, di cui l’uomo stesso è ontologicamente capace. Concretamente, questa nuova via antropologica, che funge anche da rivelazione naturale, viene percorsa quando l’uomo si contempla con una «profonda meraviglia di se stesso» (RH 10). Platonicamente, lo stupore è l’origine di ogni conoscenza: la verità è figlia della meraviglia e la meraviglia è suscitata dal bene ricevuto. Ciò apre davanti agli occhi dell’intelligenza umana orizzonti più grandi e profondi di quelli osservati ogni giorno: questa è «la dimensione umana del mistero della redenzione» (RH 10). Non sfugge che questa tesi poggia su un punto storicamente e teoreticamente molto debole, anche se spesso considerato solidissimo entro la tradizione del pensiero cristiano: l’identificazione del bene platonico con l’amore cristiano e più in generale la questione – storica e dogmatica al tempo stesso – del rapporto tra le filosofie elleniste e la prima teologia cristiana. Quando l’uomo scopre questa verità su di sé – il suo essere frutto di un dono d’amore – «la sua inquietudine e incertezza e la sua debolezza e peccaminosità» acquistano un significato nuovo, che prima non avevano. L’uomo sente l’intima esigenza di «avvicinarsi a Cristo», «per ritrovare se stesso» (RH 10). Per questo, nel mondo secolarizzato il messaggio cristiano non ha perso la sua significatività: è ancora attuale «dopo duemila anni». Il Cristo che il vangelo annuncia «appare a noi come Colui che porta all’uomo la libertà basata sulla verità»; è colui che riporta l’uomo alla sua dimensione autentica, spezzando le catene che imprigionano la sua libertà fin dentro la sua anima (RH 12). Questa impostazione risulterebbe ancora sensata se, per ragioni di ordine culturale e sociale, si oscurasse l’orizzonte di una domanda collettiva di salvezza? La via antropologica della verità va ora «da Cristo all’uomo», non più dall’uomo a Cristo: è la «via sulla quale Cristo si unisce a ogni uomo» (RH 13). Questa inversione di rotta impegna la Chiesa a «guardare l’uomo quasi con gli occhi di Cristo stesso», arricchendo così il tesoro creaturale dell’umanità con l’«ineffabile mistero della figliolanza divina». La fame dell’uomo contemporaneo si svela così in tutta la sua portata drammatica: non è solo fame di giustizia, pace, dignità. La sua è soprattutto fame di mistero (RH 18). Così la questione della verità può uscire dalla contrapposizione moderna tra teocentrismo e antropocentrismo20 e la Chiesa può riprendere a parlare di Dio all’uomo contemporaneo, usando però un
20 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Dives in misericordia [DM] (30.11.1980), n. 1: EV 7/860.
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nuovo linguaggio: il linguaggio della compassione, che «ci consente di “vederlo” [Dio Padre delle misericordie] particolarmente vicino all’uomo, soprattutto quando questi soffre» (DM 2). Questo nuovo modo di dire Dio prende il posto della razionalità etica con cui GS, DH e il successivo magistero montiniano avevano impostato il loro approccio antropologico alla questione della verità. Giovanni Paolo II ritiene che questa virata verso un’antropologia cristologica risponda meglio allo spirito di GS e, in generale, sia più fedele alla missione evangelizzatrice della Chiesa. Lo si legge chiaramente in questo passo di LE: La Chiesa […] crede nell’uomo: essa pensa all’uomo e si rivolge a lui non solo alla luce dell’esperienza storica, non solo con l’aiuto dei molteplici metodi della conoscenza scientifica, ma in primo luogo alla luce della parola rivelata del Dio vivente. Riferendosi all’uomo, essa cerca di esprimere quei disegni eterni e quei destini trascendenti, che il Dio vivente, creatore e redentore, ha legato all’uomo.21
Il processo dell’evangelizzazione può liberarsi da quelle attenzioni preliminari – la pre-evangelizzazione – le quali, nella prima fase post-conciliare, non di rado avevano più rilievo dell’annuncio stesso e di fatto ne oscuravano la forza. Priva di queste sovrastrutture, l’evangelizzazione può parlare espressamente di Cristo e presentarlo come colui che risponde all’«attesa anche se inconscia di conoscere la verità su Dio, sull’uomo» e sulla via della salvezza dalla morte: è un’attesa che nasce «per l’azione dello Spirito»22 e perciò ha la forma e la forza di un desiderio profondo del cuore umano. La voce della Chiesa e quella del suo capo terreno risuonano come un appello accorato, rivolto senza paura anche ai più lontani e refrattari: Popoli tutti, aprite le porte a Cristo! Il suo Vangelo nulla toglie alla libertà dell’uomo, al dovuto rispetto delle culture, a quanto c’è di buono in ogni religione. Accogliendo Cristo, voi vi aprite alla parola definitiva di Dio, a colui nel quale Dio si è fatto pienamente conoscere e ci ha indicato la via per arrivare a lui.23
Lo stesso appello viene rivolto anche ai cristiani, perché depongano ogni complesso di inferiorità nei confronti dell’umanità moderna e delle culture non ancora (o non più) impregnate dallo spirito evangelico. Il crollo del comunismo, la globalizzazione economica e mass-mediale, la crescita dell’etica neoumanista dei diritti umani, ma anche l’affermarsi di una tecnologia impersonale e di società burocratizzate: tutto ciò costituisce per la Chiesa un kairos, di fronte al quale «impegnare tutte le forze ecclesiali per la nuova evangelizzazione e la missione ad gentes» (RMi 3). Molti
LE 4: EV 7/1399. Giovanni Paolo II, lettera enciclica Redemptoris missio [RMi] (7.12.1990): EV 12/547732, qui 637 (n. 45). 23 RMi 3: EV 12/555. 21 22
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sono gli strumenti a disposizione della Chiesa per fare risuonare il vangelo in un momento così propizio. Fra tutti, il più conforme a questo personalismo cristologico, lo «strumento di evangelizzazione» più efficace, è la dottrina sociale cattolica: grazie al suo linguaggio concreto è una sorta di cristologia in atto e perciò «annuncia Dio e il mistero di salvezza in Cristo a ogni uomo e, per la medesima ragione, rivela l’uomo a se stesso» (CA 54). Da una parte, accantonando la pre-evangelizzazione, Giovanni Paolo II pare escludere che l’approccio antropologico alla questione della verità debba avere una chiara connotazione etica. Dall’altra, l’etica, in specie l’etica sociale, è e resta un proficuo terreno di dialogo. Non è più il punto di partenza, ma semmai è il punto d’arrivo di una fondazione teocentrica del dialogo sulla verità dell’uomo, che si è formata grazie alla cristologia. Nella prospettiva di questo secondo paradigma dialogico, l’universalità dell’etica e del suo linguaggio sociale dipende dalla verità della cristologia e dalla corrispondenza tra la rivelazione del cuore divino e le attese universali del genere umano. La razionalità teologica ha preso il sopravvento e la verità si è fatta decisamente cristologica. L’uomo è la via del dialogo; non ne è più il centro.
3. Il
modello metafisico
Il magistero pontificio del trentennio post-conciliare presenta anche una nutrita schiera di testi che sono riconducibili a un concetto metafisico di verità. Nella lettura selettiva su cui si basa la mia ricerca, questi sono la maggior parte: circa la metà dei testi pertinenti alla questione della verità in ordine all’evangelizzazione. Essi appartengono tutti (tranne uno) al magistero wojtyliano. Anche in questo caso, mi pare che debbano essere suddivisi in due paradigmi, ciascuno dei quali rappresenta una speciale declinazione del modello metafisico-cristiano di verità, ereditato dalla tradizione scolastica e centrato sul primato della questione dell’essere. I suoi caratteri sono: il concetto di evidenza come corrispondenza tra realtà e concetto; l’equivalenza semantica tra il concetto teologico di soprannaturale e quello filosofico di trascendenza. Prima di indicarne i tratti specifici, mi soffermo brevemente su quelli comuni. C’è un ordine nella realtà, che non è in potere di nessun uomo modificare. Questo ordinamento del reale ha il valore di una legislazione universale e immutabile, di cui «la Chiesa non è stata autrice, né può, quindi, esserne arbitra; ne è soltanto depositaria e interprete». Il riconoscimento di questo ordinamento originario e indisponibile della realtà obbliga la Chiesa a essere – quando necessario – «segno di contraddizione»: essa è costituita per servire la verità immutabile, posta in essere da Dio, non per compiacere le opinioni correnti. Solo a questa condizione può mostrarsi, senza secondi fini, «amica sincera e disinteressata degli uomini che vuole aiutare».24
24
Paolo VI, lettera enciclica Humanae vitae (25.7.1968), n. 18: EV 3/604.
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La questione antropologica come luogo della verità teologica in un contesto plurale
Questo servizio alla verità, quand’anche sembrasse inattuale, è un compito a cui la Chiesa non si può sottrarre, per due ordini di motivi. Storicamente – e queste argomentazioni sono preponderanti nella prima fase del pontificato wojtyliano – i problemi denunciati da GS come pericoli seri del mondo contemporaneo si stanno rivelando più profondi e nocivi di quanto si pensasse allora e hanno fatto svanire le «illusioni» dell’epoca conciliare (DM 10). Teologicamente, la Chiesa non può ignorare l’azio ne dello Spirito, che è descritta in Dominum et vivificantem (1986)25 co me un’opera di convincimento interiore proprio riguardo alla verità e all’amore (DeV 45): è lo stesso Spirito che manifesta l’identità tra la verità e l’evento dell’incarnazione (DeV 48), tra il Logos della metafisica e il Logos della fede. L’intreccio di questi due ordini di motivi, congiuntamente all’ulteriore avanzata della secolarizzazione, fa dire che questo ritorno a una concezione metafisica della verità è ancora più urgente (DM 15).
3.1. La fondazione
metafisica della verità nella trascendenza e nell ’ intuizione dell ’ essere
Per Giovanni Paolo II la riflessione teologica sulla verità nasce dalla pneumatologia. Lo Spirito Santo è l’autore dell’identità tra verità e redenzione, perché convince chi lo riceve sia in ordine al peccato dell’uomo, sia in ordine alla giustizia di Dio manifestata e donata nella croce di Cristo (DeV 28). Chi riconosce il proprio peccato e si converte, scopre l’«azione dello Spirito di verità nell’intimo dell’uomo» (DeV 31). Diviene capace di «scrutare la coscienza umana, quale intimo mistero dell’uomo». Lo Spirito sospinge il credente dal piano antropologico a quello più propriamente teologico-trinitario, fino a farlo «penetrare nell’intimo del mistero di Dio». In questo processo si manifesta il dinamismo pneumatologico della rivelazione: essa principia dall’intimo dell’uomo, dove lo Spirito fa scoprire il «mistero di iniquità» che la coscienza umana «in sé contiene e nasconde». Poi si passa alla dimensione storico-oggettiva della rivelazione, allorché nello Spirito la croce di Cristo manifesta tutta la radicalità del male e l’efficacia della redenzione. In queste due fasi, lo Spirito svela l’effettiva natura della realtà: la peccaminosità dell’uomo e la grazia salvifica di Dio. Per questo è proclamato dalla fede cristiana «Spirito di verità». Infine – dimensione soteriologica della verità – lo stesso Spirito fa vedere all’uomo il nesso altrimenti inconoscibile tra male e salvezza, nesso che costituisce l’essenza della croce di Cristo. Qui lo Spirito è spirito di veracità, è il «consolatore», perché ispira nell’uomo un sentimento di fiducia, rivelandogli ciò che non potrebbe nemmeno immaginare sull’efficacia salvifica dell’azione di Dio (DeV 32).
25 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Dominum et vivificantem [DeV] (18.5.1986): EV 10/448-631.
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Per evitare il rischio dell’estrinsecismo, Giovanni Paolo II offre un’argomentazione metafisica sull’homo capax Dei. Ci sono testi (ad es. EVi 2) che ripropongono la dottrina tradizionale del lumen naturale. Più innovativa è la versione personalista di questa metafisica della conoscenza. All’atto della creazione, l’uomo «riceve in dono una speciale “immagine e somiglianza” da Dio», che consiste nella «capacità di rapporto personale con Dio, come “io” e “tu”» (DeV 34): in forza di tale «capacità di alleanza» l’uomo sperimenta quella singolare «amicizia, nella quale le trascendenti “profondità di Dio” vengono, in qualche modo, aperte alla partecipazione da parte dell’uomo» (DeV 34). La verità posta in essere dall’atto creatore è molto più che la semplice capacità dell’uomo di farsi concetti adeguati della realtà che lo trascende. È capacità di ricevere, cioè di conoscere l’essere e di riconoscerlo come dono (DeV 35), fino a farsi dono. È mediante il libero dono di sé che l’uomo diventa autenticamente se stesso, e questo dono è reso possibile dall’essenziale «capacità di trascendenza» della persona umana. L’uomo non può donare se stesso a un progetto solo umano della realtà, a un ideale astratto o a false utopie. Egli, in quanto persona, può donare se stesso a un’altra persona o ad altre persone e, infine, a Dio, che è l’autore del suo essere ed è l’unico che può pienamente accogliere il suo dono.26
La verità è dono, non produzione. Perciò l’«intima verità dell’essere», in quanto essere creato, è il «riflesso del Verbo», il dono eterno del Dio eterno (DeV 36). La verità ultimativa del reale può essere formulata così: in principio era il dono. Di questa intima struttura oblativa dell’essere fanno parte anzitutto «la sapienza e la legge eterna, fonte dell’ordine morale nell’uomo e nel mondo». Per cui l’errore e la menzogna non sono difetti nel processo della conoscenza, ma «rifiuto» e «disobbedienza» nell’ordine moralmente vincolante del dono (DeV 36). Se la verità è dono, rifiutare il dono della grazia è «l’anti-verità». E se tale dono non è solo l’essere in quanto creato, ma è anche il riflesso del Verbo concreatore, rifiutare il dono è «l’anti-Verbo». L’esito di questa metafisica del dono è quello di radicalizzare la questione della verità, per cui ogni mancanza nell’ordine delle verità contingenti finisce per falsare la verità totale dell’uomo e la sua comprensione della verità dell’essere. Ogni errore comporta l’inversione di tutti i valori e rischia di «“falsare” il Bene stesso, il Bene assoluto» (DeV 37). Qui è all’opera il cosiddetto principio di totalità, secondo cui negare – o anche solo non riconoscere – la verità in un punto significa negarla tout court, fino alle estreme conseguenze. Questo principio non appartiene alla tradizione della metafisica aristotelico-tomista, che procede secondo il principio di induzione-deduzione, afferma la conoscenza della verità per gradi e dunque ne ammette la strutturale perfettibilità. Il principio di totalità che qui prende la parola appar-
26
CA 41: AAS 83(1991)10, 844.
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tiene piuttosto alla tradizione neoplatonica e risponde all’adagio metafisico: Bonum diffusivum sui. Il bene viene inteso come «amore creativo» (DeV 37), che imprime nei molti la tensione metafisica all’unione con l’Uno originario. Perché il bene così concepito sia ricondotto all’essere e al vero non si deve fare ricorso alla predicazione logica, entro la quale sussiste sempre la possibilità dell’errore. Bisogna invece presupporre nell’uomo la facoltà di intuizione dell’essere: nella fede l’intelletto umano diviene capace di intuire la luce dell’Uno, riflessa nei molteplici enti finiti, grazie alla quale la verità si offre nella sua totalità ineffabile. L’uomo diventa ciò che è già: la grazia non sconvolge la sua natura creata, ma la porta a compimento. Alla predicazione dell’essere in quanto processo di graduale scoperta della verità, si sostituisce un’illuminazione che apre orizzonti inimmaginabili di conoscenza. Nell’incipit di Veritatis splendor (1993)27 incontriamo una delle espressioni più sintetiche ed efficaci di questo approccio metafisico «neoplatonico cristiano» alla questione della verità.28 Chiamati alla salvezza mediante la fede in Gesù Cristo, «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), gli uomini diventano «luce nel Signore» e «figli della luce» (Ef 5,8) e si santificano con «l’obbedienza alla verità» (1Pt 1,22). […] In seguito a quel misterioso peccato d’origine […] l’uomo è permanentemente tentato di distogliere il suo sguardo dal Dio vivo e vero per volgerlo agli idoli (cf. 1Ts 1,9), cambiando «la verità di Dio con la menzogna» (Rm 1,25); viene allora offuscata anche la sua capacità di conoscere la verità e indebolita la sua volontà di sottomettersi a essa. E così, abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo (cf. Gv 18,38), egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa verità. Ma nessuna tenebra di errore e di peccato può eliminare totalmente nell’uomo la luce di Dio Creatore. Nella profondità del suo cuore permane sempre la nostalgia della verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua conoscenza.29
I riferimenti alla nostalgia e alla fame non sono da intendere nel senso di un’affermazione della verità come cammino e ricerca. La verità è evidenza e la sua assenza ne manifesta l’indispensabilità. Laddove la verità è smarrita, l’errore non è la condizione di un’ulteriore ricerca, ma è tenebra che produce una struggente nostalgia della luce.
3.1.1. La
metafisica della verità
e la critica della modernità
Questa fondazione metafisica della verità viene utilizzata per interpretare la modernità come inversione dei valori,30 per spiegare le difficoltà
27 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Veritatis splendor [VS] (6.8.1993): AAS 85(1993)12, 1133-1228. 28 L’espressione è di E. Troeltsch, che la applica alla propria concezione metafisica del rapporto tra verità storica e verità metastorica del cristianesimo (E. Troeltsch, L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni [1902-1912], Queriniana, Brescia 2006, 237). 29 VS 1: AAS 85(1993)12, 1133s. 30 R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1993, 80-89.
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odierne del cristianesimo in Occidente come dovute al rifiuto filosofico di Dio e, in taluni passi, per criticare la «razionalità tecnico-scientifica […] che nega l’idea stessa di una verità del creato da riconoscere o di un disegno di Dio sulla vita da rispettare» (EVi 22). Lo spirito delle tenebre è capace di mostrare Dio come nemico della propria creatura e, prima di tutto, come nemico dell’uomo, come fonte di pericolo e di minaccia per l’uomo. In questo modo viene innestato da Satana nella psicologia dell’uomo il germe dell’opposizione nei riguardi di colui che «sin dall’ini zio» deve essere considerato come nemico dell’uomo – e non come Padre.31
L’antropocentrismo moderno viene interpretato come una forma di secolarismo e di ateismo intrinsecamente erroneo. A esso corrisponde il materialismo dialettico e storico, che viene presentato come «lo sviluppo sistematico e coerente di quella “resistenza” e opposizione» dell’uomo a Dio, espressa dalla dialettica paolina carne-Spirito (DeV 56). L’uomo sarà incline a vedere in Dio prima di tutto una propria limitazione, e non la fonte della propria liberazione e la pienezza del bene. Ciò vediamo confermato nell’epoca moderna, nella quale le ideologie atee tendono a sradicare la religione in base al presupposto che essa determini una radicale «alienazione» dell’uomo come se l’uomo venisse espropriato della propria umanità, quando, accettando l’idea di Dio, attribuisce a lui ciò che appartiene all’uomo, ed esclusivamente all’uomo! Di qui un processo di pensiero e di prassi storico-sociologica, in cui il rifiuto di Dio è pervenuto fino alla dichiarazione della sua «morte».32 La radice del moderno totalitarismo è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare.33
Le moderne ideologie ateo-materialiste sono tutto il moderno? Ne esprimono esaurientemente lo spirito? Vengono presentate come la sua più pericolosa essenza: si sono insinuate «fin nell’intimo dell’uomo», fin nel «santuario della coscienza» e così ne impediscono la piena maturazione. L’uomo moderno occidentale è compreso come uno sradicato dalla «genuina verità del suo essere» e sottomesso al «principe di questo mondo» (DeV 60). Di questa «morte dell’uomo» (DeV 38), «la prima causa è l’ateismo» (CA 13). «La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a riorganizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona» (CA 13). A causa del suo secolarismo il mondo moderno attraversa una profonda «crisi intorno alla verità»: trasforma la coscienza da luogo dell’evi denza dell’essere e del bene in luogo dell’interesse utilitaristico, e dunque della costruzione arbitraria della verità. Questo è il dramma del
DeV 38: EV 10/540. Ib.: EV 10/541. 33 CA 44: AAS 83(1991)10, 849. 31 32
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l’«etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri» (VS 32). Con tutta probabilità, queste sono le affermazioni più duramente antimoderne del magistero wojtyliano. In forza del dono dello Spirito qui si presuppone la perfetta identificazione tra la dottrina cattolica e la verità tutta intera: come se la dimensione escatologica di tale verità si fosse già compiuta nella Chiesa. Anche in altri testi appartenenti alla seconda fase del pontificato di Giovanni Paolo II – seppure con formulazioni meno intransigenti – il moderno viene interpretato come l’epoca in cui l’uomo e la verità sono stati ridotti «alla sola dimensione orizzontale». Sicché viene riproposta di continuo la domanda: che ne sarà dell’uomo e della verità «senza l’apertura verso l’Assoluto» (RMi 8 e 18)? Le risposte sono perentorie. La dottrina nietzschiana della morte di Dio porta con sé l’esito non meno nichilista della «morte dell’uomo» (DeV 38). Indulgendo nel dialogo con la cultura secolarizzata odierna il cristianesimo rischia di ridursi a «una sapienza meramente umana, quasi una scienza del buon vivere», a servizio non di «tutto l’uomo e tutti gli uomini» ma di un «uomo dimezzato, ridotto alla sola dimensione orizzontale» (RMi 11). Se il regno di Dio, che costituisce la verità profonda dell’annuncio evangelico, venisse incentrato solo «sui bisogni terreni dell’uomo», finirebbe per identificarsi con «le lotte per la liberazione» materiale dell’uomo. Conseguentemente, la missione della Chiesa si esaurirebbe in un compito umanitario (RMi 17). Se si perde di vista il «teocentrismo», tutto crolla: il «mistero della creazione» si sgancia dal «mistero della redenzione»; Cristo e la Chiesa vengono zittiti (RMi 17). Teocentrismo significa: affermazione del primato della trascendenza (RMi 20); ineliminabilità del sacro nella coscienza umana; evidenza dell’identificazione tra l’Assoluto filosofico e il Dio biblico dell’alleanza. È in forza della concezione intuizionistica della verità che tali questioni fondamentali non necessitano di alcuna discussione. Si dà per scontato che siano i capisaldi della dottrina salvifica e dell’annuncio della Chiesa. Sono le fondamenta su cui si regge il nuovo cristocentrismo del magistero wojtyliano dal 1986 in poi: «Cristo è l’uni co mediatore tra Dio e gli uomini. […] Gli uomini, quindi, non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l’azione dello Spirito» (RMi 5). Non più quel Cristo, immagine originaria ed escatologica dell’uomo, colui che precede la Chiesa sulla via dell’uomo. Ma l’unico Cristo, «via stabilita da Dio stesso» per la conoscenza della verità, «pienezza della verità che Dio ci ha fatto conoscere intorno a se stesso» (RMi 5). Dall’accettazione di questa suprema verità dipende la conoscenza di ogni altra verità rilevante per la vita dell’uomo. Questa tesi si coniuga con l’affermazione del primato di quella verità soprannaturale di cui nella prospettiva cattolica è depositaria la tradizione della Chiesa; un primato del quale, in questa fase del magistero wojtyliano, si danno frequenti attestazioni (ad es. CA 3; VS 27).
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3.1.2. La metafisica della verità come superamento della modernità
La pars construens di questa concezione metafisica della verità viene tratteggiata con rapide pennellate. «È nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità» (CA 13). La verità dell’uomo è responsoriale. Non c’è verità senza chiamata trascendente; non c’è moralità se prima non c’è rivelazione. Ciò significa che la verità è intrinsecamente correlata alla dimensione della libertà personale, che nessun collettivismo può surrogare (CA 25). Assetato di libertà ma frustrato dalla propria incapacità di conquistarla, l’uomo contemporaneo può accedere alla verità non per via di tentativi esistenziali e di ricerca intellettuale, ma per via di «obbedienza» (CA 41). Per questo motivo – antimoderno, o oltremoderno – è solo dalla «verità [oggettiva] che deriva la dignità della coscienza» (VS 63). Davanti al mistero del male a cui l’uomo non riesce a porre rimedio con le proprie forze, la Chiesa ribadisce la «dipendenza della ragione umana dalla Sapienza divina» e critica quelle filosofie che teorizzano la «completa sovranità della ragione umana» (VS 36). L’assolutismo della ragione produce il relativismo della verità e del bene. L’autonomia relativa della ragione, subordinata a «un originario e totale mandato di Dio all’uomo», produce invece il riconoscimento del carattere indisponibile della verità e del bene. E conduce all’accettazione della natura che precede e norma ogni costruzione culturale (VS 32 e 36). Questa «verità trascendente», di cui Dio è l’autore e il garante, spinge gli uomini al riconoscimento e al rispetto della dignità altrui (CA 44). Questa aspirazione alberga nel cuore dell’uomo contemporaneo, senza che egli possa darle una realizzazione effettiva. Il superamento della modernità contiene un’antitesi e una tesi. L’antitesi consiste nella negazione del carattere ultimativo della verità dell’essere finito. La tesi è il riconoscimento della «relatività della vita terrena dell’uomo e della donna». Ciò non va a detrimento, ma semmai rafforza il carattere sacro dell’esistenza umana, che non dipende dal suo statuto di autonomia biologica o morale, ma dalla sua origine trascendente e dalla sua destinazione escatologica (EVi 2). Questa è la «verità cristiana sulla vita» (EVi 38), da cui deriva per deduzione un’antropologia metafisica su base teologica. La vita porta indelebilmente inscritta in sé una sua verità. L’uomo, accogliendo il dono di Dio, deve impegnarsi a mantenere la vita in questa verità, che le è essenziale. […] La verità della vita è rivelata dal comandamento di Dio. La parola del Signore indica concretamente quale indirizzo la vita debba seguire per poter rispettare la propria verità e salvaguardare la propria dignità.34
Anche per una verità così concepita è essenziale comunicarsi attraverso il dialogo. Però non è inteso come «momento conoscitivo», in cui la verità
34
EVi 48: AAS 87(1995)5, 453s.
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viene cercata e trovata entro una relazione di reciprocità. Nella prospettiva della metafisica del dono e della verità come evidenza, il dialogo «ha in sé una dimensione globale», che riguarda l’esistenza dell’uomo «nella sua interezza».35 Si dialoga sulla verità solo nel momento in cui ci si consegna a essa e la si accoglie nella sua evidenza esistenziale e razionale. Si dialoga nella – e non sulla – verità. Se gli interlocutori non condividono il dono della fede cattolica, tra loro può esserci una certa asimmetria nella conoscenza della verità, perché i cattolici dialogano «con la convinzione che la Chiesa è la via ordinaria di salvezza e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza» (RMi 55). Una siffatta teoria della verità e della sua conoscenza implica serie difficoltà, qualora si voglia condurre il dialogo con interlocutori che non condividono lo stesso impianto metafisico di pensiero: con molti nostri contemporanei, non solo nel mondo occidentale ma anche in culture e Paesi per tradizione lontani dalla metafisica greco-cristiana.
3.2. La verità come fondamento ontologico della persistenza nel vero
La verità si manifesta nell’evidenza: essa persiste identica a se stessa. L’essere è il principio della verità non solo perché ne è l’origine, ma anche perché è la condizione della sua permanenza senza variazioni. L’identità ontologica è fondamento dell’identità epistemologica. La verità è e rimane sempre tale: è principio immutabile della conoscenza del reale. La conoscenza del vero è permanere-nella-verità. Nel magistero di Giovanni Paolo II il principio teologico di questa persistenza è lo Spirito Santo. [Egli] aiuterà a comprendere il giusto significato del contenuto del messaggio di Cristo; ne assicurerà la continuità e identità di comprensione in mezzo alle mutevoli condizioni e circostanze. Lo Spirito Santo farà sì che nella Chiesa perduri sempre la stessa verità, che gli apostoli hanno udito dal loro Maestro.36
Lo Spirito è il «supremo sostegno», l’«interiore fondamento», che «ispira, garantisce e convalida la fedele trasmissione» della verità rivelata (DeV 5 e 7). La fede è il frutto dell’azione nell’uomo da parte dello Spirito di verità. «Nella fede e mediante la fede» lo Spirito è «la suprema guida dell’uomo, la luce dello spirito umano» (DeV 6): garantisce il permanere dell’uomo nella verità. Lo stesso concilio Vaticano II e il magistero successivo sono fondati su questo principio pneumatologico di continuità. Solo grazie allo Spirito, «nel suo pellegrinare terreno lungo il corso dei secoli», la Chiesa produce «i frutti della verità e dell’amore» e sa «attentamente discernere» il vero dal falso, il bene dal male (DeV 26).
35 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Ut unum sint [UUS] (25.5.1995): AAS 87(1995)11, 921-982, qui 939 (n. 28). 36 DeV 4: EV 10/460.
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In Dominum et vivificantem (citato anche in testi successivi) si trasforma l’immanenza metafisica dello Spirito in immanenza antropologica. Lo Spirito è immanente sì, ma nel cuore dell’uomo (DeV 54) e perciò lo è solo indirettamente nel processo storico del mondo. Egli rende l’uomo capace di comprendere in modo più profondo se stesso e la propria umanità, perché rinnova in lui la coscienza della somiglianza divina (DeV 59). In quanto principio immanente al cuore dell’uomo, si presenta come «il custode della speranza» (DeV 67). La coscienza personale e la missione della Chiesa sono perciò «sempre e solo “nella” verità» (VS 64). Solo grazie a questa immanenza della verità nel cuore dell’uomo «è possibile costruire una società rinnovata» (VS 99). Tutte queste affermazioni indicano la strada che Giovanni Paolo II intraprende: la verità non si fa nella storia, ma solamente si interiorizza per virtù divina nel corso degli accadimenti umani. La verità in quanto fondamento immanente alla storia è «la via del ritorno al principio», cioè al Dio creduto nella fede (VS 112). L’immanenza non è dunque il processo del divenire della verità nella storia, ma è la condizione storica in cui la verità si depura dagli elementi materiali e transeunti e si spiritualizza, assumendo una configurazione simile al suo principio, il Dio ineffabile e trascendente. La storicizzazione della verità si mostra così come un processo mediato, che presenta due fasi, distinte ma inseparabili. La prima fase è costituita dall’azione dello Spirito: il principio della verità entra «incessantemente nella storia del mondo attraverso il cuore dell’uomo» (DeV 67). Nella seconda fase, la mediazione veritativa dello Spirito si esprime nell’insegnamento dottrinale della Chiesa, frutto della «retta comprensione gerarchica del popolo di Dio». Perciò non è ammesso il dissenso nei confronti dell’insegnamento della gerarchia ecclesiale. Sarebbe come rifiutare la mediazione ecclesiale dello Spirito; sarebbe un atteggiamento strumentale e provocatorio (VS 113). Se lo Spirito è il principio ineffabile della verità, che si rende presente nell’uomo come anelito spirituale e poi si storicizza nella Chiesa come dottrina infallibile, ogni visione dialogica e consensuale, pluralistica e democratica della verità deve essere rigettata, perché contiene in sé un pericoloso germe relativista, il quale sacrifica la verità oggettiva del vangelo sull’ara dell’interesse soggettivo. Ogni volta che la libertà, volendo emanciparsi da qualsiasi tradizione e autorità, si chiude persino alle evidenze primarie di una verità oggettiva e comune, fondamento della vita personale e sociale, la persona finisce con l’assumere come unico e indiscutibile riferimento per le proprie scelte non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse e il suo capriccio.37
La ragione naturale chiude i conti con la modernità e la supera, facendo riferimento al senso comune e alle sue evidenze. Ma nella società della comunicazione mass-mediale non è facile distinguere le opinioni soggettive
37
EVi 19: AAS 87(1995)5, 422.
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dalle verità oggettive, perché è sempre meno chiara la linea di demarcazione tra il vero e il verosimile. Il superamento della modernità presuppone la ripresa di strutture epistemiche che sono state vanificate proprio dall’inarrestabile democratizzazione della verità: con il rischio che la verità cristiana si manifesti non solo inattuale, ma anche impossibile a conoscersi.
4. Il
modello ermeneutico
Quello che ho denominato modello ermeneutico di verità è il più difficile da rintracciare, perché si presenta solitamente mescolato agli altri due. Secondo questo modello, la verità non è un’evidenza, antropologica o teologica che sia. Non è neppure solo ricerca. La verità è un intreccio di teoria e prassi, di principi teoretici e azioni storiche, di orizzonti antropologici e orizzonti teologici. La verità è un ibrido, un composto di concetti, sentimenti, azioni, entro cui si pone in modo ultimativo la questione del senso. Non è una parola definitiva sulla totalità dell’esistente, ma l’indicazione di un’area di consenso tra locutori differenti, a partire dalla quale è possibile comprendere il senso globale della realtà, di cui gli stessi locutori fanno parte. «L’elemento che decide della comunione nella verità è il significato della verità» (UUS 19). Nel modello ermeneutico la verità non si dà né antropologicamente per via dialogica, né metafisicamente per via di evidenza razionale. È una verità prospettica e intersoggettiva, perché è frutto di una rete di relazioni che orientano lo sguardo sulla realtà. In questo modello hanno grande importanza le operazioni che distinguono e portano alla luce i differenti fili di cui sono intessute le esperienze e i linguaggi umani. Parimenti importante è l’aspetto simbolico della verità, la quale si annuncia per immagini e metafore. Nel magistero cattolico di cui ci stiamo occupando il più importante testo di riferimento per questo modello è contenuto in OA 30, che è a sua volta una citazione di PT 84. Qui si distinguono le «false dottrine filosofiche» (il riferimento implicito è al materialismo marxista) dai «movimenti storici» che da esse sono stati generati e «hanno tratto e traggono tuttora ispirazione». Il motivo di tale distinzione è che le dottrine filosofiche rimangono sostanzialmente immutate, mentre i movimenti storici si evolvono, subendo gli influssi delle trasformazioni culturali e sociali. Perciò da una dottrina radicalmente erronea possono anche discendere movimenti di pensiero e di azione capaci di farsi «interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana». Tali aspirazioni sono giuste, anche se la dottrina che le ispira non è vera. C’è un’area di consenso e dunque di verità, che Giovanni XXIII identificava nella conformità ai «dettami della retta ragione».38 Quest’area di consenso non è tutta la verità, ma è la verità che due o più interlocutori possono riconoscere come comune, pur permanendo nella loro diversità di vedute.
38 In questo testo si fa riferimento agli ambiti economico, sociale e politico come ad aree di verità condivisa tra la Chiesa e i movimenti storici che hanno un’ispirazione non cristiana o addirittura antireligiosa.
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Ciò è possibile, perché proprio in certi ambiti della vita umana la verità dell’uomo assume i medesimi simboli: con Cristo anche la Chiesa riconosce il «segno» dei piccoli e dei poveri e dà a esso «una grande importanza» (EN 12; OA 42). L’escluso, lo sfruttato, l’impoverito, il sofferente non sono solo un problema sociale, ma metafore viventi della condizione umana. Essi sono il simbolo di una verità più grande sull’uomo, che attende di essere scoperta, liberata, proclamata. Sono il luogo verso il quale differenti sguardi sull’uomo convergono e si dispongono ad acquisire un linguaggio comune. La verità si manifesta quando, intorno a un simbolo condiviso, orizzonti differenti di pensiero s’incontrano e parzialmente si fondono. La verità è nel simbolo e perciò si esprime attraverso immagini, le quali evocano di più di quello che effettivamente gli interlocutori riescono a dirsi o a capire l’uno dall’altro. Tutto questo risponde a un’esigenza profonda del vangelo, affidato alla Chiesa perché sia annunciato agli uomini entro le fatiche e le gioie della loro esistenza quotidiana, perché solo lì la sua verità si comunica e si dà a comprendere. L’evangelizzazione perde molto della sua forza e della sua efficacia se non tiene in considerazione il popolo concreto al quale si rivolge, se non utilizza la sua lingua, i suoi segni e simboli, se non risponde ai problemi da esso posti, se non interessa la sua vita reale.39
4.1. La
fusione degli orizzonti linguistici : la verità come areopago
Se cerchiamo questo modello ermeneutico di verità nelle immagini più ricorrenti nel magistero papale recente, ci imbattiamo non di rado in quella di Paolo all’Areopago. Per Giovanni Paolo II il tribunale ateniese non è solo l’icona del «mondo delle comunicazioni, che sta trasformando l’umanità rendendola […] un “villaggio globale”» (RMi 37). È la metafora che evoca una molteplicità di campi della vita umana, a cui oggi è chiamata a rivolgersi l’attività evangelizzatrice della Chiesa.40 Come Paolo, anche la Chiesa di oggi accetta volentieri l’invito a rendere conto della propria fede e a sottoporre il proprio messaggio al vaglio delle culture – le più tradizionali, come le più nuove – del mondo plurale contemporaneo. Non si tratta di una disponibilità tattica, dettata dall’istanza di rompere l’isolamento in cui spesso la Chiesa si trova, proprio come Paolo nei primi giorni del suo soggiorno ateniese (At 17,16-17). Salire all’Areo pago per parlare ai sapienti e ai responsabili dell’umanità odierna è una
EN 63: EV 5/1676. «… L’impegno per la pace, lo sviluppo e la liberazione dei popoli; i diritti dell’uomo e dei popoli, soprattutto quelli delle minoranze; la promozione della donna e del bambino; la salvaguardia del creato sono altrettanti settori da illuminare con la luce del Vangelo. È da ricordare, inoltre, il vastissimo areopago della cultura, della ricerca scientifica, dei rapporti internazionali che favoriscono il dialogo e portano a nuovi progetti di vita» (RMi 37: EV 12/626). 39 40
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scelta che la Chiesa abbraccia in forza della sua comprensione della condizione umana; nel nostro tempo «gli uomini avvertono di essere naviganti nel mare della vita, chiamati a sempre maggiore unità e solidarietà». Una metafora – l’Areopago – che ne richiama subito un’altra: la navigazione in mare aperto, il cui significato si fonde con quello precedente. Da questo rafforzamento semantico prende il via l’affermazione secondo cui è necessario fondere gli orizzonti delle differenti verità, ovvero serve il «concorso di tutti» per trovare e sperimentare «le soluzioni ai problemi esistenziali» che impegnano l’umanità di oggi (RMi 37). Già Paolo VI aveva indicato il magistero sociale della Chiesa come luogo in cui realizzare dinamicamente questa fusione tra differenti orizzonti di verità. Esso si sviluppa attraverso una riflessione condotta a contatto delle situazioni mutevoli di questo mondo, sotto l’impulso dell’evangelo come fonte di rinnovamento, allorché si accetta il suo messaggio nella sua totalità e nelle sue esigenze. […] Attinge infine a una ricca esperienza secolare che gli permette di assumere, nella continuità delle sue preoccupazioni permanenti, l’innovazione ardita e creatrice, richiesta dalla presente situazione del mondo.41
La concezione ermeneutica della verità risponde all’esigenza, essenziale alla missione evangelizzatrice della Chiesa nella pluralità delle culture, di offrire ai propri interlocutori messaggi concreti, capaci di dare senso all’esistenza quotidiana. Gli scogli da evitare sono ben evidenziati. Da una parte, non si deve scadere nel deduttivismo dogmatico di una teologia metafisica, che presenti soluzioni prefabbricate, calate dall’alto e difficilmente praticabili, perché inadatte alle situazioni concrete dell’esi stenza. Dall’altra, è parimenti necessario girare al largo da certo astrattismo morale, che indica principi normativi e criteri d’azione talmente generali da risultare inefficaci alla comprensione della situazione concreta e alle conseguenti esigenze pastorali. Un altro luogo concreto in cui la Chiesa è chiamata ad attuare questo modello di verità come fusione di orizzonti è l’afflato religioso, antico e nuovo, che accompagna questo nostro tempo «drammatico e insieme affascinante». Pur con tutte le sue ambiguità, l’odierno movimento di risveglio religioso, che sta desecolarizzando l’Occidente post-moderno,42 è anch’esso «un areopago da evangelizzare». L’area di verità, che esso ha in comune con l’«immenso patrimonio spirituale» della Chiesa, è la convinzione secondo cui l’esperienza religiosa è un efficace «antidoto alla disumanizzazione» che affligge il mondo contemporaneo (RMi 38). In questa prospettiva, il dialogo con le altre religioni rappresenta una «sfida
OA 42: EV 4/766. P. Boschini, «Chiesa cattolica e mass-media: comunicazione della fede o visibilità mediatica?», in RTE 11(2007)22, 479-483.511-514; Id., «Le religioni tra violenza e paura. A dieci anni dall’11 settembre 2001, parte II», in RTE 16(2012)31, 60-73. 41 42
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positiva» – un kairos – che stimola la Chiesa in una duplice direzione: «scoprire e riconoscere i segni della presenza del Cristo e dell’azione dello Spirito»; «riscoprire la propria identità e testimoniare l’integrità della rivelazione». La fusione di orizzonti non richiede né «abdicazione» alla propria verità, né di tacere irenisticamente gli elementi di divergenza (RMi 56). Lo stile richiesto ai locutori è descritto nella prospettiva del pensiero ermeneutico contemporaneo: L’interlocutore dev’essere coerente con le proprie tradizioni e convinzioni religiose e aperto a comprendere quelle dell’altro, senza dissimulazioni o chiusure, ma con verità, umiltà, lealtà, sapendo che il dialogo può arricchire ognuno.43
La verità, a cui in tal modo si ha accesso e verso cui insieme si procede ulteriormente, ha un respiro relazionale e pratico: consiste nel rimuovere i «pregiudizi» e nel superare «intolleranze e malintesi» (RMi 56). Occorre tenere sempre «presenti sia le categorie mentali che l’esperienza storica concreta dell’altro» (UUS 36). Quest’ultimo principio, che è enunciato a sostegno del dialogo ecumenico, deve valere a maggior ragione laddove la distanza tra le dottrine teologiche è di gran lunga maggiore: nel dialogo con le religioni non cristiane, con le culture laiciste e con le filosofie atee. Il frutto della fusione degli orizzonti è la comprensione reciproca; non il trionfo di una delle dottrine in campo, né il consenso intorno a verità diluite, né il ricorso a compromessi e sincretistiche vie di mezzo. Per i cristiani, questo approccio alla verità non riduce la portata della rivelazione. Nasce piuttosto dalla fedeltà della Chiesa alla «verità intorno alla redenzione» e si traduce in una «corresponsabilità che deve abbracciare tutti gli uomini». Non c’è fedeltà a Dio fuori dal riconoscimento che tutto l’umano è connotato dalla cultura, in cui si esprime il «cuore dell’uomo» e si «esplica la sua creatività, la sua intelligenza, la sua conoscenza del mondo e degli uomini» (CA 51). In forza di questa costante trasformazione in cultura, non la verità in sé, ma le sue espressioni possono essere multiformi (UUS 19). Ciò richiede che dal piano della praxis – quello della collaborazione etica e sociale – la fusione degli orizzonti si estenda fino ad abbracciare anche l’ambito della filia, laddove la verità viene declinata nel linguaggio della passione e dei legami, della relazione interpersonale e della comprensione reciproca. «L’amore della verità – prosegue Giovanni Paolo II – inseparabilmente associato [con] lo spirito di carità e di umiltà» («carità verso l’interlocutore, umiltà verso la verità») giunge fino a «richiedere revisioni di affermazioni e di atteggiamenti» (UUS 36). Passando attraverso la mediazione della filia, la fusione di orizzonti può arrivare fino al piano teorico e dottrinale della verità: in certi casi, le ragioni dell’altro possono diventare anche le proprie, modificando e arricchendo la comprensione
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RMi 56: EV 12/659.
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della verità. La Chiesa può sempre scoprire che la verità, che le è stata affidata, abita ed è custodita anche altrove. Il luogo storico della rivelazione non è solo la Chiesa, ma l’umano; e la Chiesa lo è, in quanto fa parte a pieno titolo dell’umano (GS 1). Quando nel processo della fusione di orizzonti la questione della verità si sposta sugli aspetti teorici e dottrinali, la teologia è chiamata a svolgere un ruolo indispensabile. È a servizio non solo della comprensione del vangelo affidatole da Cristo, ma anche della partecipazione della Chiesa «in modo creativo e fecondo alla missione profetica di Cristo» (RH 19) nel discernimento dei segni dei tempi e nella creazione di nuovi luoghi e nuove condizioni per l’annuncio del regno di Dio. In un tempo segnato dalla frattura tra l’orizzonte della fede cristiana e quello delle culture umane (EN 20), la teologia e i teologi – insieme a tutti gli uomini cristiani di scienza e di cultura – «sono chiamati a unire la fede con la scienza e la sapienza, per contribuire alla loro reciproca compenetrazione». Gli intellettuali cattolici sono dunque parte attiva in questa fusione degli orizzonti. Ciò sarà un vantaggio per la fede, che trarrà giovamento proprio dal continuo allargarsi e differenziarsi della conoscenza teologica, stimolata a sua volta da questo continuo intreccio con conoscenze altre (RH 19). La stessa ricerca teologica deve esercitarsi tenendosi «in relazione con gli studiosi delle altre discipline, siano essi credenti o non credenti»: si tratta qui in particolare dei cultori delle scienze antropologiche, psicopedagogiche e sociali. Il motivo teologico che autorizza questa fusione di orizzonti è la distinzione tra la verità del depositum fidei e le sue molteplici formulazioni, come aveva affermato Giovanni XXIII nel Discorso di apertura del concilio Vaticano II. Solo entro questo paradigma ermeneutico di verità è ritenuto legittimo «un certo pluralismo di metodi» nell’insegnamento teologico. Due sono le condizioni perché la pluralità di prospettive non si trasformi in relativismo teologico, ma generi un autentico pluralismo di approcci alla verità. Anzitutto, si deve riconoscere che non è pensabile la pluralità della verità senza presupporre anche la convergenza di molteplici verità verso l’unità del vero. Si tratta di trasformare la molteplicità in interrelazione dei saperi. In secondo luogo, ogni ricercatore, a qualunque ambito scientifico appartenga, deve avere un «atteggiamento onesto di fronte alla verità» e rendersi responsabile della maturazione anche nei discenti del medesimo amore alla verità (RH 19). L’onestà intellettuale non è solo un’istanza metodologica, ma è anche un’esigenza imprescindibile della relazione comunicativa. L’amore alla verità si traduce in attenzione ai processi conoscitivi che possono disvelarla e in cura nei confronti delle persone e delle istituzioni educative e scientifiche, dove questa fusione di orizzonti assume un profilo scientifico e non solo culturale.
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4.2. La
convergenza di prospettive : i semi della verità
Il secondo paradigma del modello ermeneutico di verità si fonda sul riconoscimento, tutt’altro che ovvio e scontato, del fatto che il vangelo, affidato alla Chiesa per essere annunciato, è «anche parola di verità». Si tratta di una verità poliedrica: «verità su Dio, verità sull’uomo e sul suo destino misterioso, verità sul mondo». Essa esige da chi la cerca di porsi di continuo in prospettive differenti, perché nessuno può disporne: la si può solo servire «generosamente senza asservirla». Proprio quando gli uomini si incontrano con l’inesauribilità incondizionata della verità, se la rappresentano come poliedrica. Essa ha molte facce conoscibili, proprio perché la sua totalità è trascendente e in quanto tale non è non suscettibile di concettualizzazioni esatte. Per essere comunicata ad altri, questa verità va amata, creduta, in un certo senso anche adorata (EN 78). L’apertura del condizionato all’incondizionato esige di percorrere una molteplicità di strade differenti. Perciò, chi si avvicina alla verità, sa sin dall’inizio di poterla conoscere e comprendere solo a partire dal proprio punto di vista. Questa dimensione prospettica della verità non dipende solo dall’interesse soggettivo con cui viene approcciata. La verità è prospettica anche in senso oggettivo, perché Dio creatore, che ne è l’origine, e lo Spirito, che la comunica, la fanno conoscere al «cuore di ogni uomo mediante i “semi del Verbo”». È un principio teologico a salvaguardia della trascendenza divina, ma anche della sua possibilità di storicizzazione nell’umano. L’incondizionato si dà a conoscere nella storia sempre in forma condizionata e dunque in modo parcellizzato e per mezzo di segni che rinviano al tutto.44 Il dinamismo dello spirito umano, le sue domande esistenziali e religiose, i «nobili ideali e le iniziative di bene dell’umanità in cammino»: ecco i semi della verità collocati provvidenzialmente nella coscienza umana (RMi 28). Qualunque sia la prospettiva con cui un determinato uomo guarda alla realtà di sé e intorno a sé, egli non può mai restare indifferente alla questione della verità, perché il suo interesse conoscitivo è comunque un punto di vista autentico sulla verità. Perciò ogni ricerca della verità ha la sua «dignità». Si esige un «profondo rispetto» per quella verità germinale che ogni uomo e l’umanità intera custodiscono dentro di sé e che, come un raggio di sole, illumina la condizione umana (RMi 56). La relazione dialogica è il modo autentico per valorizzare queste differenti prospettive, senza mai metterle tra parentesi o relativizzarle. Sarebbe un pessimo amore alla verità quello di chi ne riducesse l’inesauribile ricchezza prospettica, trasformandola in mera avalutatività metodologica. Questo vale in ogni campo della ricerca scientifica e dell’azione sociale. Riconoscere e difendere la poliedricità della verità significa opporsi in radice al «peri-
44 D. Righi (a cura di), Il tutto nei frammenti. Fecondità del cristianesimo tra teologia, filosofia e storia. Atti del 3° Convegno della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (Bologna 3-4 dicembre 2008), EDB, Bologna 2009 (suppl. a RTE 13[2009]26).
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colo del fanatismo, o fondamentalismo, di quanti, in nome di un’ideologia che si pretende scientifica o religiosa, ritengono di poter imporre agli altri uomini la loro concezione della verità e del bene» (CA 46). La verità cristiana «non è di questo tipo». È altra rispetto al pensiero unico delle ideologie, che pretenderebbero di «imprigionare in un rigido schema» la realtà umana, la quale invece è sempre molteplice e in continuo divenire. È altra anche rispetto al pensiero non meno monolitico della tecnica, che vorrebbe un mondo perfetto, mentre «la vita dell’uomo si realizza nella storia in condizioni diverse e non perfette». Nel pensiero cristiano la concezione prospettica della verità trova il suo fondamento nel riconoscimento della «dignità della persona», la quale trascende il dato storico pur vivendo nella storia (CA 46). La radice della poliedricità della verità è la condizione paradossale dell’uomo, immanente e trascendente nello stesso tempo rispetto al mondo e alla storia. Questa condizione eccentrica ne fa un essere radicalmente libero, capace di assumere posizioni differenti rispetto all’unica verità e quindi di conoscerla secondo differenti prospettive. Se paragonata all’intero della verità, ognuna di queste prospettive è un «frammento». Eppure in questo frammento si offre il tutto: la verità così conosciuta accende il dialogo, interpella la libertà degli interlocutori e li invita, tramite «il corretto esercizio della ragione», a una verità più grande e perciò più comprensiva (CA 46). È il caso del «vangelo della vita». È un frammento della verità intera; è una faccia del poliedro. Tuttavia esso ha fondate «ragioni antropologiche» per essere sostenuto e, a partire da esso, i cristiani – in particolare «educatori, insegnanti, catechisti e teologi» – possono illuminare il senso dell’uomo e della sua esistenza nel mondo (EVi 82). «Troveremo preziosi punti di incontro e di dialogo anche con i non credenti, tutti insieme impegnati a far sorgere una nuova cultura della vita» (EVi 82).
5. Perché
è preferibile il modello ermeneutico . Sei tesi sulla verità teologica nel magistero post - conciliare
1. Nel magistero cattolico post-conciliare non c’è un modello unico di verità. I cattolici – in specie i teologi e gli scienziati – sono perciò liberi di assumere quello che, con fondate ragioni epistemologiche, ritengono più idoneo per la loro ricerca. Lo stesso vale per le comunità effettivamente impegnate nel compito dell’evangelizzazione e per i loro pastori.45
45 P. Boschini, «Una sola evangelizzazione, molti stili di missione. Una chiave di lettura dell’Instrumentum Laboris», in Missione Oggi 109(2012)8, 18.
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2. La compossibilità di questi modelli di verità non dà diritto a nessun cattolico – compreso lo stesso magistero papale, che altrimenti sconfesserebbe se stesso – di porre secchi aut aut, che impongano l’adozione di uno tra i differenti paradigmi di verità. Il fatto che in determinate situazioni l’uno o l’altro sia indicato come preferibile non può impedire ad altri di collocare la propria riflessione teologica e la propria azione evangelizzatrice entro un modello differente. Sarà compito del magistero, tramite le sue istituzioni teologiche, favorire un sereno confronto tra questi paradigmi, in modo da prevenire nella Chiesa situazioni di conflitto epistemologico sulla verità. 3. Da un punto di vista di storia della teologia, questi modelli non hanno tutti la medesima rilevanza. Il modello dialogico, con le sue implicazioni antropologiche che rimandano a Blondel, Teilhard de Chardin, Rahner e molti altri, sembra avere esaurito la sua carica ed è andato lentamente scemando durante i primi dieci anni del magistero wojtyliano. Oggi, un ripensamento della teologia dell’evangelizzazione non può trovare molti stimoli dalla riproposizione della questione della verità secondo un modello di tipo dialogico-antropologico. Questa visione si presenta datata e, a meno di imprevisti sempre possibili nella storia umana, pare destinata alla dismissione. Viceversa, il modello metafisico, che negli anni dell’immediato dopo-concilio pareva destinato a finire in soffitta, ha ripreso vigore e oggi è quello di gran lunga predominante.46 Infine, il modello ermeneutico, che trova i primi timidi riconoscimenti nel magistero roncalliano (in specie nel Discorso inaugurale del concilio, 1962, ma anche in Mater et magistra e in Pacem in terris), si è lentamente fatto spazio, soprattutto laddove non si cerca lo scontro frontale con il pensiero moderno e le sue derive relativiste post-moderne. 4. Il modello più fecondo per il ripensamento della teologia dell’evangelizzazione è quello ermeneutico, specialmente a partire dalla metafora dell’Areopago, che evidenzia la centralità e la problematicità del rapporto teologia-filosofia.47 Il discorso paolino di At 17,22-31 non autorizza la teologia cristiana a «optare per il Dio dei filosofi contro gli dèi delle religioni».48 Crea un terreno d’incontro tra Paolo e i suoi interlocutori – chiunque essi siano, filosofi o diversamente credenti (At 14,15-17) – e sortisce l’effetto di approfondire il campo dell’indagine razionale (FR 36).49 Se così non fosse, finirebbero
46 Id., «L’evangelizzazione in Benedetto XVI. Quasi un bilancio», in Missione Oggi 110(2013)5, 13-16. 47 Id., «Areopago. Una metafora cristiana del rapporto tra filosofia e teologia», in Filosofia e Teologia 27(2013)1, 39-53. 48 J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1979, 99s. 49 «Una ragione purificata e retta, quindi, era in grado di elevarsi ai livelli più alti della riflessione, dando fondamento solido alla percezione dell’essere, del trascendente e dell’as-
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«nella spazzatura» non solo gli dèi dell’antico Olimpo greco,50 ma anche quelli delle religioni tradizionali con cui da secoli i missionari cristiani più intraprendenti si ingegnano di dialogare.51 Lo afferma molto chiaramente lo stesso Giovanni Paolo II: «Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la filosofia greca, non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri approcci» (FR 72). Questa disponibilità della teologia ad assumere molteplici prospettive è la risposta a un’esigenza imprescindibile del pensiero, specialmente in un contesto plurale: la capacità autocritica è la condizione in cui qualunque razionalità si mantiene disponibile al dialogo con le altre modalità di ricerca della verità. Detto altrimenti: la critica di sé – e non il ricorso ad argomenti ex autoritate – è la strategia di cui la razionalità, ogni tipo di razionalità, si avvale per orientarsi nel mare dell’incertezza e per porre limiti al suo campo di ricerca altrimenti sconfinato. Con il suo esito interlocutorio, il discorso all’Areopago testimonia che «l’incontro del cristianesimo con la filosofia non fu immediato né facile» (FR 48). E tale è rimasto ancora oggi. Se Paolo è l’emblema dei teologi che si pongono domande da filosofi, la modernità ci presenta molti filosofi che, al contrario, si pongono le domande dei teologi.52 Nonostante la massiccia cristianizzazione della filosofia ellenistica attuata dalla teologia patristica dal III al V secolo e la successiva trasformazione della teologia in metafisica cristiana, persiste in Occidente una teologia filosofica, erede dei filosofi greci antichi e di quelli arabi ed ebrei medievali. Storicamente, la teologia filosofica è stata – e continua a essere – l’interlocutore più scomodo della teologia confessionale, perché, come affermava Lessing, al «possesso della verità» preferisce «il solo eterno impulso verso la verità, seppur con la condizione di andare errando per l’eternità».53 Quello del pensiero illuminista, qui rappresentato dalle parole di Lessing, non può suonare come un diktat per la teologia cristiana. Da sempre, essa è stata capace di esercitare la razionalità ben consapevole dei propri limiti e, già dal tempo delle dispute medievali, è bene addestrata al criterio metodico della continua messa in discussione dei propri presupposti, delle proprie ipotesi e conclusioni.
soluto» (FR 41: AAS 91[1999]1, 37). 50 Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 99. Questa tesi è sintetizzata nello slogan: «Contro il mito della sola consuetudine per la verità dell’essere» (ivi, 103). 51 G. Gutiérrez, Alla ricerca dei poveri di Gesù Cristo. Il pensiero di Bartolomé de Las Casas, Queriniana, Brescia 1995, 276-278. «Se l’evangelizzazione è un dialogo, non lo si realizza senza uno sforzo per comprendere dall’interno le posizioni dell’altro in modo da avvertirne l’impulso vitale e coglierne la logica interna» (ivi, 247). 52 P. Boschini, «Modelli di epistemologia teologica nel pensiero filosofico europeo moderno (Prima Parte)», in RTE 10(2006)20, 283-330; Id., «Modelli di epistemologia teologica nel pensiero filosofico europeo moderno (Seconda Parte)», ivi 11(2007)21, 73-114. 53 G.E. Lessing, «Una controreplica», in Id., Religione e libertà, Morcelliana, Brescia 2000, 33.
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5. A differenza del modello metafisico e a somiglianza del modello dialogico, il modello ermeneutico non richiede troppi prerequisiti al destinatario dell’annuncio. Né prerequisiti teoretici, quali ad esempio l’accettazione dei principi della metafisica classica: il principio di totalità, o quello di corrispondenza tra intelletto e realtà. Né prerequisiti pratici, come il riconoscimento della natura umana in quanto struttura invariante del soggetto-uomo. Il modello ermeneutico propone il sapere come frutto di una ricerca e di una costruzione cooperativa, che valorizza le istanze presenti nelle ragioni altrui, senza dover sacrificare le proprie: la verità è sempre incondizionata e perciò è più grande di qualunque prospettiva particolare. Lo ricorda lo stesso Giovanni Paolo II, interpretando ancora il discorso di Paolo all’Areopago. L’incontro tra due differenti razionalità demitizzatrici e critiche ha spinto e spinge «la ragione ad andare sempre oltre» (FR 42), nella ricerca di ciò che di più grande può essere pensato; ma anche nella consapevolezza che Dio è, ultimativamente, più grande del pensiero umano.54 Per esercitarsi nell’odierno contesto plurale, la teologia dell’evangelizzazione richiede un rinnovato dialogo tra filosofia e teologia, che sia fondato sull’accettazione della radicale e simultanea condizione di apertura e di finitudine della propria e dell’altrui razionalità. Apertura nella finitudine: l’oltre a cui mira il pensiero – sia quello teologico, sia quello filosofico – non assume la configurazione dell’illimitato e dell’anonimo, ma quella della prossimità e del volto. Non un pensiero proteso verso ciò che è supremo, svincolato dai limiti del mondano, ma concentrato sul concreto dell’umano, intento a cogliere la storicità del suo darsi e del suo divenire, e capace di leggere nella storicità delle relazioni i segni dell’apertura verso l’ulteriorità. Anche per la sua gradualità nell’accesso a gradi differenti di verità (pratica, empatica, teoretica), il modello ermeneutico si propone oggi come particolarmente idoneo a supportare l’azione evangelizzatrice in un contesto come quello europeo-occidentale, in cui la secolarizzazione priva di rilevanza culturale e di identità soteriologica la verità teologica.55 6. Favorita dalla pluralità di modelli di verità presenti nel suo magistero recente, la Chiesa cattolica si trova oggi in una situazione di effettivo pluralismo teologico. Perché tale pluralismo possa essere governato nel rispetto della triplice modalità della verità (dialogica, metafisica, ermeneutica), non sono necessari interventi di censura né di controllo. È sufficiente che tali differenti visioni della verità possano liberamente e apertamente confrontarsi nei luoghi a ciò deputati, in primis le facoltà teologiche. Questi dibattiti porteranno a nuove e significative acquisizioni di verità in campo epistemologico, teologico e pastorale. Ne trarrà beneficio non solo la vita
54 55
Anselmo d’Aosta, Proslogion, XV. P. Berger, Il brusio degli angeli, Il Mulino, Bologna 1970, 9-51.
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delle comunità ecclesiali, ma anche il volto pubblico della Chiesa, che si presenterà nelle nuove agorà come maestra di verità perché essa è innanzitutto madre generatrice di umanità. Da queste considerazioni discendono cinque tesi conclusive.
6. Cinque
tesi conclusive per il ripensamento della teologia dell ’ evangelizzazione alla luce dell ’ idea ermeneutica di verità teologica
1. Nella teologia dell’evangelizzazione la verità è un processo pragmatico interpersonale, che si costruisce insieme agli interlocutori dell’annuncio. La verità teologica è il frutto di un processo dell’intelligenza credente che s’interroga sulle condizioni di possibilità della relazione uomo-Dio all’interno di un concreto contesto storico e culturale. Ciò dà vita a un sapere pragmatico che implica più soggetti, posti in una relazione comunicativa segnata dalla reciprocità. Come avvenne all’Areopago, gli altri a cui si rivolge l’azione evangelizzatrice della Chiesa sono recettori attivi e creativi, in grado di interagire con coloro che gli inviano il messaggio.56 La teologia dell’evangelizzazione non considera un atto di debolezza intellettuale o di relativismo epistemologico riconoscere che anche i propri interlocutori non cristiani abbiano importanti cose da offrirle in ordine alla concettualizzazione dell’esperienza cristiana e della relazione attraverso cui la fede si comunica. Essa sostiene una posizione non pregiudiziale nei confronti dell’odierno pluralismo culturale e, più in generale, nei confronti di tutto ciò che è terreno e penultimo. Il soggetto grazie a cui questo processo veritativo prende forma è la Chiesa, in quanto essa è una comunità interpretante, capace di comprendere un linguaggio del passato e di renderlo rilevante per le molteplici forme di razionalità di una società e di una cultura plurali. La verità teologica della Chiesa evangelizzatrice nasce dalla riflessione credente sull’azione evangelizzatrice collettiva e pubblica dei cristiani. Come l’annuncio, anche la verità teologica è un’opera intrinsecamente legata alla prassi organica della comunità cristiana.57 2. In forza del suo carattere linguistico, la verità teologica detta in un mondo plurale esprime l’incondizionato dell’unica parola divina nella molteplicità delle parole umane.
Boschini, «Tra Vangelo e culture», 48. M. Fini, «Il magistero papale post-conciliare sull’evangelizzazione e la sua ricezione nella Chiesa», in RTE 2(1998)3, 41-60. 56 57
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In una società secolarizzata, plurale e disincantata come la nostra, l’evangelizzazione non può essere intesa né come una tattica di proselitismo, né tanto meno come una strategia per incrementare l’influenza culturale della Chiesa cattolica. Come fu per Paolo ad Atene, la teologia dell’evangelizzazione ripensa il farsi storia dell’Eterno. Comunica in forma razionale un vissuto a cui attribuisce una sensatezza incondizionata: parla della rivelazione nella storia umana di una verità assoluta, che non può essere scritta soltanto con l’inchiostro del relativo. Come Paolo, essa afferma la verità dell’Eterno a partire dagli interrogativi che esso rivolge all’umano e dalle risposte dell’uomo a un appello che non ammette neutralità. Trascrive l’assolutezza della verità cristiana entro l’autocomprensione contemporanea della realtà intesa come rete di relazioni, ovvero come un insieme di soggetti tra loro collegati linguisticamente. Riconosce che la realtà in sé delle cose naturali e dei fatti storici resta irraggiungibile per l’intelligenza umana e che essa può essere conosciuta razionalmente solo nell’intreccio tra differenti orizzonti comunicativi. La verità non è distinta dalla sua comunicazione. Riconosce la capacità delle tante parole umane di veicolare l’unica parola divina, attraverso un paziente e faticoso lavoro di mediazione, come quello tentato da Paolo all’Areopago. Anche la verità teologica, come ogni altra verità umana, si dà a conoscere nell’intreccio tra differenti orizzonti linguistici. Perciò anch’essa partecipa alla creazione e al mantenimento di quel contesto pluralista entro cui oggi la verità diviene conoscibile. 3. La verità teologica fa parte dell’azione evangelizzatrice della Chie s a. La teologia dell’evangelizzazione ripropone nella cultura laica il problema cristologico come questione autenticamente filosofica. E risveglia nella Chiesa il problema dell’annuncio come questione autenticamente antropologica. L’evangelizzazione è un atto ecclesiale che nel suo costituirsi non può fare a meno della razionalità teologica: il discorso all’Areopago ne è un’illustrazione eminente. Ciò significa che la verità teologica fa parte dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, la quale non può prescinderne in alcun modo, pena la trasformazione della verità cristiana in una scommessa o in un sacrificium intellectus e della propria azione in una prassi irragionevole. Anche se mossi da un sacro furore apologetico, i cristiani che disprezzano la verità teologica svalutano l’essere della Chiesa e banalizzano il suo vangelo. La parola della teologia infatti richiama la società e la cultura odierne a prendere sul serio quel messaggio sul Dio biblico che per indifferenza o per laicismo era stato pregiudizialmente accantonato. Anche all’interno della Chiesa la verità teologica ha una funzione simile, perché risveglia le coscienze dal torpore dogmatico di pensare la verità cristiana con la pseudo-certezza dei beati possidentes. Nello specifico, il compito della teologia dell’evangelizzazione è di presentare alla filosofia e alla cultura laica la possibilità di pensare criticamente la verità sull’uomo, superando il veto di un’antropologia
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La questione antropologica come luogo della verità teologica in un contesto plurale
etsi Christus non daretur. Parimenti, all’interno della Chiesa la teologia dell’evangelizzazione obbliga a prendere sul serio l’atto della comunicazione della fede e i contenuti che un simile atto veicola. Quando la Chiesa perde il riferimento al contesto come essenziale per il darsi della verità dell’annuncio, la teologia dell’evangelizzazione può contribuire a crearlo di nuovo, tramite un atto comunicativo che rende nuovamente parlanti il vangelo e i suoi interlocutori. La teologia dell’evangelizzazione toglie il veto, talvolta ancora presente nella Chiesa cattolica, a pensare etsi homo historicus non daretur. Laddove, per eccesso di laicismo o di fondamentalismo religioso, gli orizzonti epistemici della teologia e della filosofia non dovessero fondersi per una sorta di moto culturale spontaneo, la teologia dell’evangelizzazione si fa carico di favorire tale incontro. 4. Nell’odierno tempo di crisi il compito urgente della teologia dell’evangelizzazione è l’individuazione di un crocevia antropologico, in cui proporre la propria verità sul limite umano come soglia e offrire un contributo fondato alla ricostruzione della razionalità pubblica. Lo sforzo che la teologia dell’evangelizzazione è chiamata a produrre nel prossimo futuro consiste nell’individuare un nuovo Areopago, ovvero un concreto «crocevia antropologico», in cui convergere insieme a tutti i saperi che si occupano del carattere relazionale dell’uomo e conseguentemente del carattere consensuale della verità e della prassi. Ciò è reso ancora più urgente dal realizzarsi della profezia di M. Foucault, che quasi cinquant’anni fa vaticinava la «fine dell’uomo»: intendo, la fine dell’uomo moderno, fondato sull’ego cogito cartesiano e sul principio positivista di funzionalità sociale. In altri termini, la teologia dell’evan gelizzazione è chiamata a dire una parola di verità sull’attuale crisi del l’uma no. Si tratta di interpretare il senso profondo dell’«assoluta dispersione dell’uomo» causata dal «ritorno delle maschere» e contrassegnata dalla ricomparsa dei «nuovi dèi» della nazione, della razza e della religione.58 Si tratta di un atto intellettuale urgente, che non può esaurirsi nella costruzione di baluardi immaginari, per contrastare un processo di riformulazione del divino che, viceversa, ha già preso piede da molto tempo, anche in ambienti cattolici. Un atto che la teologia dell’evangelizzazione deve compiere senza indugi né reticenze, in nome della verità evangelica e dell’onestà intellettuale; in forza del fatto che – come Paolo ad Atene – essa si colloca proprio là dove si gioca la partita della finitudine dell’uomo. La teologia dell’evangelizzazione è un discorso sulla domanda: il limite dell’umano è da intendere come morte o come frontiera? È chiusura o apertura? E con l’apostolo Paolo dice che la condizione umana è soglia relazionale: è volto e sguardo rivolto all’altro; è felice e pensosa ospitalità della differenza; è attesa di un futuro la cui realtà supera ogni immaginazione.
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M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1977, 411s.
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Paolo Boschini
Pur interessandole tutto l’umano, la teologia dell’evangelizzazione predilige il comunitario, il relazionale, il pubblico. È consapevole che il suo è solo un piccolo contributo, purtroppo destinato a pochissimi addetti ai lavori. Ma sa che il suo sforzo, talvolta sottovalutato, è una tessera di quel mosaico di pensieri e di progetti che da molte parti si stanno compiendo in Occidente per il ripristino della razionalità pubblica. 5. La verità nella teologia dell’evangelizzazione è la sintesi dinamica di teoria e prassi, ed è a servizio del continuo aggiornamento dei metodi e dei linguaggi con cui la Chiesa proclama il vangelo in un contesto plurale. Nel suo discorso all’Areopago Paolo ragiona e annuncia. L’annuncio reinterpreta, rendendolo vivo e attuale, il pensiero in cui si è cristallizzata la tradizione credente. Il pensiero teologico riflette sulla prassi annunciante, per manifestare il contenuto universale e perciò comunicabile di questa relazione salvifica, ma anche per correggere le inevitabili distorsioni della verità che ogni agire umano – anche la prassi evangelizzatrice della Chiesa – porta con sé. Non si può comprendere la verità dell’annuncio cristiano dal di fuori, come spettatori neutrali. La teologia non può mai essere un sapere indifferente all’azione della Chiesa e dei cristiani. Perciò la teologia dell’evangelizzazione è organica alla prassi annunciante della Chiesa. Questa condizione non è teologalmente indispensabile, perché altrimenti si sostituirebbe all’azione dello Spirito Santo. Ma è epistemologicamente necessaria, perché l’evangelizzazione possa essere storicamente efficace: nel creare e trovare i punti in cui gli orizzonti di verità s’intersecano; nel dire il Dio biblico in modo filosoficamente corretto e culturalmente comprensibile; nell’ispirare alle comunità cristiane che vivono in un contesto plurale un continuo «aggiornamento» di metodi e di linguaggi.
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Dall’Evangelii nuntiandi alla Fides et ratio. Evangelizzazione ed esercizio della ragione
Giorgio Sgubbi
Introduzione Sembra quasi inevitabile che il ricordo di un documento, per quanto varia sia la ricchezza dei suoi contenuti e ampia l’articolazione dei temi ivi trattati, debba necessariamente legarsi a una frase particolarmente significativa, che si trasforma poi, nel corso del tempo, a sintesi emblematica dell’intero pronunciamento. E a venticinque anni dall’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, è ancora forte l’eco e l’impressione del celebre ammonimento di Paolo VI, quando disse: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni».1 Due anni fa, nell’ottobre 1998, papa Giovanni Paolo II pubblicava la sua tredicesima enciclica, la Fides et ratio. Come era facile attendersi, il tema scelto dal pontefice suscitò meraviglia e sospetto: meraviglia, perché già da tempo non era più consueto che un papa si occupasse così direttamente di filosofia, e – per giunta – proprio quando il lento declinare della ragione e delle sue pretese fondative suscitava, purtroppo anche in alcune espressioni della teologia, più un sospiro di sollievo che non un partecipato rammarico; sospetto, perché l’elogio della ragione da parte della massima autorità della Chiesa poteva tradire l’implicita ammissione che la fede, non più comunicabile con le sue stesse forze, dovesse rivolgersi a un’altra istanza più forte e più «credibile» per garantirsi una so-
1 Paolo VI, Discorso ai membri del «Consilium de Laicis» (2.10.1974), ripresa poi in Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8.12.1975), n. 41: AAS 66(1974), 568 (d’ora in poi: EN).
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pravvivenza ed evitare la scomparsa. Inoltre, ma appare tuttora la ragione meno probabile e verosimile, approfittando della dichiarata debolezza della ragione per bocca dei suoi stessi cultori, la Chiesa tentava ora di appropriarsi di questa facoltà umana per ricondurla a essere – dopo secoli di fiera e irriducibile indipendenza – la docile e remissiva ancella della superiore verità teologica. Potremo discutere in altro momento questi, a nostro avviso infondati, convincimenti. Con le presenti riflessioni ci proponiamo piuttosto di tentare una risposta alla domanda legittima e pertinente che, confrontando l’esortazione apostolica del 1975 con l’enciclica del 1998, potrebbe essere così formulata: la Fides et ratio, con il suo insistito richiamo alla verità e ai rigorosi strumenti concettuali che devono elaborarla, rappresenta un abbandono della linea «testimoniale» ed esistenziale propugnata dall’Evangelii nuntiandi? Con la Fides et ratio, ha voluto Giovanni Paolo II riportare il baricentro dell’annuncio nella sfera intellettuale, affidando alla forza della ragione ciò che sembrava dover più appartenere al contagioso potere della testimonianza? La Fides et ratio consacra definitivamente la vittoria dell’ortodossia sull’ortoprassi, della dottrina organica e ordinata sull’imprevedibilità della testimonianza creativa? In breve: riaffermazione dei maestri sui testimoni? È concepibile tutto questo oggi, nella costellazione post-moderna, dove l’onda della ragione forte sembra destinata a estenuarsi sulle sabbie dell’arcipelago dei «debolismi» vari? L’intenzione retorica di questi interrogativi è facilmente riconoscibile. Vogliamo, tuttavia, ripercorrere un possibile «iter teologico» per illustrare un’altrettanto possibile conclusione: non solo Fides et ratio non è su una linea diversa dall’Evangelii nuntiandi, ma ne rappresenta una convinta conferma e prosecuzione. Come tali, sia la Fides et ratio che l’Evangelii nuntiandi esprimono il naturale sviluppo dell’antropologia teologica del concilio in ordine alla verità dell’uomo – così come è stata strutturata, anche se non pienamente elaborata, dalla costituzione conciliare Gaudium et spes – specialmente per ciò che riguarda la sua libera e insostitui bile partecipazione all’accoglienza della salvezza. È dalla costituzione pastorale conciliare, pertanto, che occorre partire.
1. G audium et spes. La verità cristica
dell ’ uomo
Uno dei meriti fondamentali che deve essere riconosciuto alla Gaudium et spes è certamente quello di aver offerto un illuminante fondamento teologico alla possibilità che il vangelo entri nella cultura e, conseguentemente, nelle culture; soprattutto, di aver indicato come, rivolgendosi al mondo con l’offerta del vangelo, la Chiesa non introduce in modo surrettizio un elemento estraneo o superfluo allo spirito dell’uomo di ogni tempo ma – essendo la cultura l’esplicazione dell’umano alla ricerca del-
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Dall’Evangelii nuntiandi alla Fides et ratio
la propria pienezza – la buona notizia segna e realizza la piena maturità dell’uomo in tutte le sue dimensioni.2 Anche se già al paragrafo n. 3 è detto che c’è nell’uomo un germe divino (divinum quoddam semen) e che compete alla Chiesa annunciarne l’esistenza facendone conoscere la grandezza e promuovendone la crescita, appare quanto mai significativo che il primo ed esplicito riferimento a Cristo in ordine alla vocazione dell’uomo lo si incontri al paragrafo n. 10, dove il concilio ribadisce la sua intenzione di dare una risposta alle domande fondamentali dell’uomo stesso. Compare qui l’ottica cristologica che attraversa l’intero documento, precisando con chiarezza che la Chiesa si dedica non a un uomo vago, senza identità o progettualità, ma all’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio; l’assolutezza del Cristo pertanto, quale definitiva e irrevocabile autocomunicazione di Dio all’uomo, non fissa solo una volta per tutte la verità del Dio vivo e vero, ma permea anche l’essenza dell’uomo che, nel corso dei mutamenti storici, possiede un’identità immutabile e permanente. Sarà questo il motivo cristologico portante, sviluppato successivamente al paragrafo n. 22; è del resto risaputo che un chiaro fondamento teologico per l’antropologia fu tra i desiderata più urgenti dell’assise conciliare.3 Scrivono i padri conciliari: La Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza perché l’uomo possa rispondere alla suprema sua vocazione; né è dato in terra un altro nome agli uomini in cui possano salvarsi. Crede ugualmente di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana. Inoltre la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli. Così nella luce di Cristo, immagine del Dio invisibile, primogenito di tutte le creature, il concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell’uomo e per cooperare nella ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo (GS 10).
L’unico e originario disegno cristico del cosmo mantiene l’uomo, la sua storia e l’intero universo in una profonda e stabile unità; c’è dunque una verità che non tramonta, sempre attuale, ed è appunto la verità di Dio nella sua dedizione all’uomo. Il fatto che Gesù Cristo è l’autocomuni-
2 «La Chiesa sa perfettamente che il suo messaggio è in armonia con le aspirazioni più segrete del cuore umano, quando difende la causa della dignità della vocazione umana, e così ridona la speranza a quanti disperano ormai di un destino più alto. Il suo messaggio non toglie alcunché all’uomo, infonde invece luce, vita e libertà per il suo progresso, e all’infuori di esso, niente può soddisfare il cuore dell’uomo: “Ci hai fatto per te, o Signore, e il nostro cuore è senza pace finché non riposa in te”» (Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes [7.12.1965], n. 21: EV 1/1384; d’ora in poi: GS). 3 Memorabili furono le parole di mons. Garrone: «Homo enim dicere est ac Christum evocare»: Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, IV, I, 555.
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cazione di Dio, «l’immagine del Dio invisibile», fa sì che la verità di Dio sia ora inscindibile da quella dell’uomo: la questione di Dio diventa questione sull’uomo, così come la domanda sull’uomo diventa vera e propria domanda teologica. Questa visione implica un’immediata conseguenza: data la coappartenenza profonda di Dio e uomo in Cristo, l’annuncio del vangelo non offre all’uomo un nobile ma pur sempre accidentale complemento della sua umanità, ma ne costituisce piuttosto la condizione di piena e definitiva realizzazione. Contro ogni forma di «umanesimo senza Dio», il concilio ribadisce che la questione dell’ateismo non è affatto una questione «scolastica» nel senso peggiorativo del termine, ma una profonda questione esistenziale: nel rifiuto di Dio ne va, in definitiva, dell’essere dell’uomo. In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo […]. Proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte trovino in lui la loro sorgente e tocchino il loro vertice (GS 22).
La costituzione ribadisce così uno degli assiomi fondamentali della dottrina cristiana, che cioè l’ordine di Cristo, disegno soprannaturale del Padre, non solo non annulla, ma costituisce la natura dell’uomo in vista di sé: la natura umana che Cristo ha assunto non è stata infatti assorbita o annullata dalla sua divinità, così come la natura umana non è affatto condannata alla dissoluzione o alla deformazione dalla divinità da cui si lascia assumere, ma è da essa condotta a compimento. Ne consegue che ogni autentica promozione umana non può non passare attraverso l’annuncio del vangelo, che si configura come la piena e definitiva generosità di Dio coincidente con la piena e definitiva maturità dell’uomo; e proprio in questa sua dimensione cristologico-antropologica, il vangelo può illuminare i «segni dei tempi» e costituire l’interpretazione profetica di ogni realtà.4 «L’incarnazione, il farsi uomo del Figlio di Dio, non è stato dunque un evento momentaneo, ma permanente, un processo di divenire-uomo nel tempo in vista della morte, in un’apertura permanente verso Dio, l’Avvenire trascendente».5 L’immutabilità della verità cristologica dell’uomo, pur essendo universale e definitiva, non è affatto astratta o astorica, anzi: la verità cristologica dell’uomo è una verità progettuale, una vocazione, una responsabilità, che coinvolge la sua libertà e la comprensione stessa che l’uomo ha di sé.6 Ed è questa, in definitiva, la ragione per cui la cultura entra di diritto
Cf. GS 10ss.22.40-42.44.62. J. Alfaro, «Riflessioni sull’escatologia del Vaticano II», in R. Latourelle (a cura di), Vaticano II: bilancio & prospettive. Venticinque anni dopo (1962-1987), 2 voll., Cittadella, Assisi 1987, II, 1050. 6 Per questa ragione, almeno così ci sembra, andrebbe un po’ più sfumato il giudizio sulla Gaudium et spes espresso da G. Colombo, secondo il quale tale testo sarebbe un 4 5
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nell’azione evangelizzatrice della Chiesa: ciò che l’uomo sa di sé, pensa di sé ed elabora di sé non si aggiunge alla sua identità «teologica» come un elemento esterno e sovrapposto, ma appartiene alle condizioni di possibilità che l’annuncio di Cristo, eterna verità dell’uomo, possa essere da questi atteso e accolto.7 La determinazione cristologica non si aggiunge, pertanto, nella visione cristiana, a una antropologia indifferenziata ed «autonomamente concepita», non si aggiunge a un uomo già definito e completo in se stesso, autosufficiente, pur nel suo essere creato, ma entra come «componente intrinseca» della stessa originaria costituzione dell’uomo, per cui l’opera creativa costituisce il primo atto della stessa storia unitaria salvifica del disegno di Dio.8
Sia a parte hominis, quale patrimonio di convinzioni che determinano gli orientamenti e le scelte dell’essere umano in ogni luogo e tempo, sia a parte ecclesiae, quale terreno che la Chiesa deve pur toccare se vuole offrire l’annuncio del vangelo, la cultura in genere e le culture in specie costituiscono l’orizzonte spirituale dell’uomo storico, via imprescindibile della Chiesa nella sua missione evangelizzatrice. La consapevolezza di una Chiesa che, a partire «da una definizione meditata» di sé, vuole e deve «lanciare un ponte verso il mondo contemporaneo», illuminò anche la cultura nel suo essere elemento irrinunciabile per la trasmissione del vangelo, facendone sempre più la coordinata antropologica dello stesso annuncio evangelico. Si legge al paragrafo n. 53: «È proprio della persona umana il non poter raggiungere un livello di vita veramente e pienamente umano se non mediante la cultura, coltivando cioè i beni e i valori della natura. Perciò, ogniqualvolta si tratta della vita umana, natura e cultura sono quanto mai strettamente connesse». Guardando al mondo e all’uomo dal punto di vista del vangelo, il concilio non ignora fino a che punto le culture possano influire sulla vita religiosa dell’uomo; tuttavia, proprio in quanto caratterizzanti l’uomo come
«testo infedele» che – nonostante l’intenzione – resta troppo poco cristocentrico. Cf. «La teologia della Gaudiun et spes e l’esercizio del magistero ecclesiastico», in G. Colombo, La ragione teologica, Glossa, Milano 1995, 289. L’autonomia dell’uomo, teocentricamente fondata, è piuttosto la necessaria premessa per l’adesione a Cristo: l’uomo teocentrico diventa cristocentrico in forza sia dell’autocomunicazione divina che della propria libera decisione. Pertanto una dichiarata fondazione teocentrica dell’uomo appartiene di diritto alla sua destinazione cristocentrica, e non sembra rappresentarne una «infedeltà». È vero piuttosto che il concilio, con piena riaffermazione della visione biblica, pensa la creazione come progetto, tesa a compiersi nel mistero di Cristo risorto. Cf. G. Martelet, «Der Erstgeborene aller Schöpfung», in J. Ratzinger – P. Henrici (a cura di), Credo. Ein theologisches Lesebuch, Communio, Köln 1992, 46. 7 Cf. J. Ratzinger, «Pastoralkonstitution über die Kirche in der Welt von heute. Erstes Kapitel des ersten Teils», in Lexikon für Theologie und Kirche, 14 voll., Herder, Freiburg-Basel-Wien 1986, XIV, 350. 8 M. Bordoni, «L’antropologia cristiana e il suo fondamento nell’evento cristologico», in Conferenza episcopale italiana (a cura della), Cattolici in Italia tra fede e cultura, Vita e Pensiero, Milano 1997, 179.
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tale, le culture possono divenire anche l’ambito privilegiato dell’evangelizzazione.9 Ciò che il concilio dimostra di aver ben chiaro non è l’importanza della cultura in astratto, ma del suo ruolo nella missione evangelizzatrice; ruolo che deriva da una ben precisa antropologia cristologica, che va a toccare direttamente il rapporto della natura e della grazia. È infatti questo l’orizzonte che fonda e sostiene tanto l’apprezzamento della cultura quanto il monito e il criterio per un sano discernimento, sempre urgente e necessario quando si tratta di portare la trascendenza della grazia divina nel cuore dell’uomo e nelle strutture della storia. Si ricorderà che il concilio ha parlato di «legittima autonomia delle realtà terrene»,10 espressione che ha suscitato non poche riserve e non pochi equivoci, provocando, tra l’altro, l’accusa di cedimento allo spirito deviato della modernità; in realtà, con queste parole, non si intende affatto rivendicare un’indipendenza o un riscatto autonomista da Dio, quanto piuttosto riconoscere la configurazione della creazione come realmente distinta dal Creatore, nella prospettiva di una relazione finalizzata al l’unificazione e all’unità con lui. Affermando poi in modo particolare che l’uomo è fatto a «immagine e somiglianza di Dio», il concilio riconosce che l’uomo può essere libero solo in quanto altro da Dio, ma al tempo stesso, se e in quanto è, può esserlo solo come creatura dipendente da lui; l’autonomia, in altri termini, non si pone in antitesi alla teonomia, ma viene letta come sua realizzazione, poiché ogni teonomia cristiana, che pone al proprio centro il mistero di Cristo come destinazione dell’uomo allo stato di figlio, deve presupporre l’autonomia di questi, in vista della sua effettiva partecipazione al mistero d’adozione.11 In questa prospettiva, che è la genuina teologia biblica dell’alleanza, è stato sottolineato come tutto l’impianto cristologico della Gaudium et spes sottende una ben precisa concezione metafisica che – anche se ispirata dall’idea theilardiana di progresso, non senza elementi del pensiero moderno – è in prosecuzione con la tradizione agostiniana e tomista, rispettivamente come «metafisica della luce» e «ontologia della partecipazione»; anche se entrambe non vengono poi sviluppate e approfondite, la loro presenza nel testo è quanto mai significativa per riconoscere che, proprio in quanto appartenente a un progetto di filiazione divina, l’uomo è costituito capace di intelligenza, di memoria e di coscienza, come deter-
9 «Fra il messaggio della salvezza e la cultura umana esistono molteplici rapporti. Dio infatti, rivelandosi al suo popolo, fino alla piena manifestazione di sé nel Figlio incarnato, ha parlato secondo il tipo di cultura proprio delle diverse epoche storiche. Parimenti la Chiesa, vivendo nel corso dei secoli in condizioni diverse, si è servita delle differenti culture, per diffondere e spiegare il messaggio cristiano nella sua predicazione a tutte le genti, per studiarlo e approfondirlo, per meglio esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della multiforme comunità dei fedeli» (GS 58). 10 GS 21.36.59. 11 Cf. W. Kasper, «Autonomie und Theonomie. Zur Ortsbestimmung des Christentums in der modernen Welt», in Id., Theologie und Kirche, Matthias Grünewald, Mainz 1987, 170ss.
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minazioni irrinunciabili di ogni essere libero, chiamato a riconoscere e a corrispondere a un disegno d’amore.12 Ugualmente, il consenso riservato alla metafisica nei paragrafi nn. 14-15 viene espresso nel contesto del l’umanizzazione dell’uomo, nella consapevolezza che la morte di Dio, oltre a provocare l’asfissia della sua intelligenza e a precludergli l’accesso alla sapienza, si traduce inevitabilmente nella morte dell’uomo stesso.13 È esattamente questo il contesto teologico-antropologico che consente di comprendere che il «dialogo» con le culture, oltre ogni ingenua esaltazione e ingiustificata fobia, è iscritto nel cuore stesso dell’annuncio evangelico; esso non significa contrattazione delle verità divine o ricerca di accordi minimalistici a scapito della natura veritativa e globale della rivelazione cristiana, ma esprime la convinzione che il destinatario del vangelo, cioè l’uomo destinato alla salvezza, è un soggetto storico e culturale, animato da convinzioni e da conoscenze che, mentre rendono possibile l’annuncio del vangelo, al tempo stesso vengono da questo illuminate e purificate. Non è privo di significato che proprio nell’Ecclesiam suam di Paolo VI, apparsa nel 1964 tra la seconda e terza sessione del concilio, il termine «dialogo» (anche se l’enciclica parla sempre e solo di colloquium) fa la sua comparsa nei documenti ufficiali della Chiesa; qui il dialogo, specialmente quello con il mondo moderno, è concepito come «un modo d’esercitare la missione apostolica; è un’arte di spirituale comunicazione».14 Dopo aver ribadito che «la predicazione è il primo apostolato»15 e che la Chiesa deve essere pronta «a sostenere il dialogo con tutti gli uomini di buona volontà, dentro e fuori l’ambito suo proprio», l’enciclica enuncia i destinatari del dialogo della salvezza, ai quali la Chiesa, dai più lontani ai più vicini, va con la fiducia di offrire il compimento delle loro verità e delle loro attese. In conclusione, ciò che agli effetti delle nostre riflessioni deve essere assunto, è che questo testo magisteriale inaugura quella feconda stagione che, operando una reductio ad theologiam dell’uomo, manifesta tutte le implicazioni antropologiche del mistero di Cristo: ed è proprio perché il discorso su Cristo include di diritto il coinvolgimento dell’uomo, che oc-
Cf. Ratzinger, «Pastoralkonstitution über die Kirche in der Welt von heute», 326-327. «Infatti, nella sua interiorità, egli [l’uomo] trascende l’universo: a questa profonda interiorità egli torna, quando si volge al cuore, là dove lo aspetta Dio, che scruta i cuori, là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino. Perciò, riconoscendo di avere un’anima spirituale e immortale, non si lascia illudere da fallaci finzioni che fluiscono unicamente dalle condizioni fisiche e sociali, ma invece va a toccare in profondo la verità stessa delle cose» (GS 14). Il concilio così ancora si esprime: «L’intelligenza, infatti, non si restringe all’ambito dei fenomeni soltanto, ma può conquistare la realtà intellegibile con vera certezza, anche se, per conseguenza del peccato, si trova in parte oscurata e debilitata. Infine la natura intellettuale della persona umana raggiunge la perfezione, com’è suo dovere, mediante la sapienza, la quale attrae con soavità la mente dell’uomo a cercare e ad amare il vero e il bene, e, quando l’uomo ne è ripieno, lo conduce attraverso il visibile all’invisibile» (GS 15). 14 Paolo VI, lettera enciclica Ecclesiam suam (6.8.1964), 83: AAS 56(1964), 644. 15 Ivi, 94: AAS 56(1964), 650. 12 13
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cuparsi dell’uomo non significa abbandonare la teologia per l’antropologia, ma cercare nella natura umana quelle vie che Dio ha già aperto per comunicarsi all’uomo come luce e salvezza di tutto il suo essere.16 L’Evangelii nuntiandi e la Fides et ratio non si discostano minimamente da questa prospettiva.
2. E vangelii
nuntiandi : evangelizzazione come servizio all ’ uomo
Dagli sguardi pur rapidi e sommari che abbiamo dedicato alla Gaudium et spes, è possibile acquisire la convinzione che il concilio Vaticano II, di fronte a un umanesimo ateo e angosciato, abbia indicato l’umanesimo cristico come unica e possibile via d’uscita: contro ogni dualismo vecchio e nuovo, contro ogni tangenza o separazione tra ordine del mondo e ordine della salvezza, i padri conciliari hanno riaffermato l’unità del piano divino e annunciato Gesù Cristo come origine e scopo di ogni realtà. Dopo la conclusione del concilio sono sorti problemi e scenari nuovi che, a causa del rapido mutamento geopolitico mondiale, hanno richiesto una riflessione teologica corrispondente e adeguata ai nuovi orizzonti che andavano delineandosi; il successivo magistero di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, e congiuntamente la riflessione di numerosi sinodi, mettono questi problemi al centro della loro analisi e dei loro auspici. Un caso significativo fu l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi che Paolo VI a dieci anni dal concilio offrirà nel 1975 alla Chiesa come linea-guida dell’evangelizzazione; recependo i mutamenti e le sfide in atto, Paolo VI, pur ispirandosi al concilio, ne precisa chiaramente l’analisi e le linee di azione.17 Come linea-guida di queste note vorremmo assumere una densa e sintetica frase dello stesso Paolo VI: «Tutta la ricchezza dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità. La Chiesa in un certo modo si è dichiarata ancella dell’umanità».18 Tutti gli interventi di questo pontefice, tutta la sua sollecitudine, tutta la sua cultura e, non ultima, tutta la sua sofferenza, hanno manifestato la fedeltà vissuta a questa fondamentale verità.
Il concilio rifiuta l’immagine scissa di mondo e uomo, secondo la quale natura e grazia stanno rispettivamente come due corpi estranei, sottolineando come uomo e creazione appartengano all’unico fine che è la ricapitolazione in Cristo. Da qui si è sviluppata anche la teologia della positività delle realtà terrene. Cf. P. Henrici, «Das Heranreifen des Konzils. Erlebte Vorkonzilstheologie», in Id., Glauben-Denken-Leben. Gesammelte Aufsätze, Communio, Köln 1993, 49. 17 Cf. H. Carrier, «Il contributo del Concilio alla cultura», in Latourelle (a cura di), Vaticano II: bilancio & prospettive, II, 1451ss. 18 Paolo VI, Insegnamenti, 16 voll., LEV, Roma 1965ss, III, 730. 16
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Per questo, oltre la contingenza e l’urgenza dei problemi ivi delineati, l’esortazione Evangelii nuntiandi appare decisamente in linea con la visione di uomo elaborata dal concilio: è infatti l’uomo, questo uomo storico, a essere al centro dell’ansia evangelizzatrice della Chiesa, ben consapevole che è solo in Cristo che l’uomo «trova risposta ai suoi interrogativi» (EN 3). Per soccorrere l’uomo prigioniero di un «umanesimo senza Dio» (H. de Lubac), il papa contrappone e propone l’umanesimo cristiano, che per sua natura è un umanesimo «integrale» fondato su una concezione altrettanto integrale di liberazione. Tutto procede dal primato della natura spirituale della missione della Chiesa; senza custodia di questa sua identità singolare e soprannaturale, la Chiesa resterebbe impigliata nelle maglie soffocanti di ideologie a essa estranee o di mentalità storicamente condizionate, perdendo così forza, originalità e irrinunciabilità. Il primato «spirituale» della Chiesa, tuttavia, non significa affatto – come l’intero documento metterà bene in evidenza – limitazione della sua missione all’ambito religioso o interiore, anzi: la Chiesa vuole, a partire dal centro del suo messaggio, compenetrare l’uomo in tutte le sue dimensioni. Evangelizzazione e inculturazione si coappartengono indisgiungibilmente?19 L’evangelizzazione in senso lato esprime così la partecipazione della Chiesa al corso della storia dell’uomo, che, pur caratterizzata da momenti di travaglio e angoscia, attende pur sempre la speranza del vangelo; proprio per l’intima destinazione di ogni uomo a Cristo, «Verbo incarnato (in cui Dio) ha dato a ogni cosa l’essere» (EN 26), la Chiesa incontra l’uomo affinché la potenza del vangelo «possa raggiungere i suoi effetti» (EN 4), cioè la piena e integrale liberazione dell’uomo (cf. EN 38). Non a caso, l’evangelizzazione riguarda la persona, cioè l’uomo come relazione a Dio e ai suoi simili (cf. EN 19): l’idea stessa di persona umana, così centrale e decisiva nell’orizzonte teologico della rivelazione, impedisce all’uomo di poter venire concepito in termini astratti, astorici, disincarnati, poiché l’essere-persona implica non solo relazione all’altro, ma anche rapporto storico con il proprio mondo e il proprio ambiente, come pure libertà e responsabilità. La liberazione che la Chiesa annuncia è, per l’appunto, la restituzione dell’uomo al disegno originario di Dio, alla comunione con lui e con il suo «Regno» (EN 32); questa liberazione, prosegue il documento, «è radicata in una certa concezione dell’uomo, in una antropologia, che non può mai sacrificare alle esigenze di una qualsivoglia strategia, di una prassi o di una efficacia a breve scadenza» (EN 33). Il carattere pienamente «umano» della liberazione esige il coinvolgimento e la partecipazione dell’uomo stesso all’offerta di Dio; è insito nell’atto evangelizzatore trasformare dal di dentro e «in virtù della sola potenza divina del messaggio [...] cercare di convertire la coscienza personale» (EN 18). Ed è precisamente nel carattere di libera accoglienza
19 Cf. W. Kasper, «Natur-Gnade-Kultur. Zur Bedeutung der modernen Säkularisierung», in Id., Theologie und Kirche 2, Matthias Grünewald, Mainz 1987, 207.
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di una salvezza che, agli effetti del proprio accadere, esige l’esercizio responsabile dell’intelligenza e della coscienza umana, che è inscritto il rapporto irrinunciabile tra vangelo e cultura, tra eternità e storia, tra Regno e mondo (cf. EN 27 e 31). Il dramma denunciato con forza dall’esortazione di Paolo VI come «rottura tra vangelo e cultura» e l’auspicio di una «rigenerazione delle culture» (EN 19) corrisponde alla coscienza teologica della Chiesa sull’uomo: la cultura esprime in senso lato la natura spirituale dell’uomo, la sua capacità di autotrascendimento verso una pienezza che invoca e che, al tempo stesso, non può attendere dal semplice mutamento dei rapporti e delle condizioni sociali, essendo essa inscritta nel più profondo del suo cuore, quale misteriosa chiamata a condividere la vita stessa di Dio.20 «Rigenerare le culture», pertanto, non significa invaderle, deformarle o distruggerle, ma leggere, nelle concrezioni storiche che vanno via via assumendo (donde il plurale «culture»), l’unico anelito pienamente umanizzante che è il dono soprannaturale del Cristo, liberando le stesse da quella chiusura alla trascendenza che finisce per renderle sterili e incapaci di infondere speranza e ottimismo (cf. EN 55). Nell’Evangelii nuntiandi, dunque, si tratta dell’uomo e della sua promozione integrale. Per questo, riconoscendo che l’uomo moderno e secolarizzato, pur chiudendosi alla trascendenza, ne conserva purtuttavia una non reprimibile nostalgia, la Chiesa denuncia tutte quelle forme di pensiero contratto e riduttivo che allontanano l’uomo da Dio, lasciandolo triste retaggio dell’immanentismo, del relativismo e di una falsa concezione della verità che, più che a un pluralismo rettamente inteso, somiglia a una scomposta frammentazione che trova nello scetticismo angosciato il suo esito naturale. Si può notare che i richiami più precisi alle questioni «filosofiche», quali le concezioni di verità, unicità del vero, libertà e «singolarità» del vangelo in ordine alla salvezza, compaiono proprio nel paragrafo conclusivo dedicato agli evangelizzatori, che reca il significativo sottotitolo «Col fervore dei santi» (EN 80). La Fides et ratio, dal canto suo, inserirà il discorso sui martiri, quale caso serio della verità cercata, accolta e testimoniata. Inoltre, se leggiamo il paragrafo n. 51, là dove la pre-evangelizzazione viene considerata già come tale evangelizzazione (anche se nel suo stadio iniziale e quindi incompleto), ci accorgiamo che l’importanza attribuita da Paolo VI alla cultura, alla filosofia e a tutte quelle forme spirituali in
20 Questo aspetto «personalista» del vangelo, quale annuncio di salvezza che penetra la profondità dell’umano, permette di poter ripensare in modo vivo la religione, oltre le secche di un autoritarismo dottrinale in favore di una dimensione «esistenziale» nel senso più profondo e ontologico del termine; cf. M. García-Baro, «La “Evangelii nuntiandi”, en la perspectiva de la problemática de la filosofía contemporanea de la religión», in L’esortazione Apostolica di Paolo VI “Evangelii nuntiandi”. Storia, contenuti, ricezione, Istituto Paolo VI, Brescia 1998, 176.
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genere che manifestano l’uomo come essere dotato di ragione e libertà, obbedisce al disegno divino che – per compiere l’uomo in Cristo – crea innanzitutto nell’uomo condizioni di accoglienza e di interrogazione sul proprio mistero. In breve: la cultura, nel senso più ampio del termine, altro non è che la possibilità di rispondere a un disegno soprannaturale di Dio, nel quale soltanto la natura umana è veramente «naturale». Come tale, quindi, essa non può non interessare l’evangelizzazione, trattandosi di quella componente antropologica che si iscrive di diritto nel dialogo divino, specie là dove l’incontro con il Dio vivo e vero è minacciato dalle deviazioni dell’idolatria o dell’ignoranza.21 Solo a questo punto, ci sembra, possiamo rettamente comprendere l’importanza tutta particolare attribuita dal documento pontificio alla «testimonianza», ovviamente non soltanto a causa della citazione divenuta ormai celebre, riportata al paragrafo n. 41 (di cui ci occuperemo successivamente):22 la testimonianza, infatti, altro non è che l’irradiarsi della santità, cioè di un’umanità compiuta e realizzata, che ha trovato nel Cristo ciò che l’uomo desidera e attende. La testimonianza, in altre parole, non è alternativa alla verità annunciata e insegnata, ma la visibilità dei suoi effetti salvifici in coloro che l’hanno accolta; la testimonianza è il carattere «pratico» della verità, cioè la forza umanizzante del vangelo che, accolto dall’uomo, fa dell’uomo la credibilità vivente del vangelo stesso. Per questa ragione, al paragrafo n. 38 si ricorda che gli evangelizzatori sono cristiani dediti alla liberazione, cioè dei «liberatori» capaci di esprimere la forza storica e incarnata del vangelo, senza – proprio per questo – poterlo ridurre o confondere con qualunque altra forma di attività orizzontale. Inoltre, e questo viene posto dal papa in relazione a una dimensione culturale fondamentale, qual è appunto la possibilità di domandare animati da stupore e stimolati da un’esperienza particolarmente interpellante, capace di trasmettere un qualche cosa di assolutamente singolare (cf. EN 21). Concludendo, allora, ci chiediamo: è possibile trovare nell’Evangelii nuntiandi verità «stabili» e purtuttavia attente all’avanzare della storia? Si tratta di un’episodica esternazione del magistero pontificio, dettata dall’incalzare degli eventi, o non piuttosto di un coerente sviluppo della teologia conciliare sull’uomo, attenta ai segni dei tempi, inserita nell’ansia pastorale della Chiesa e contestualizzata nella contingenza degli eventi? Per rispondere a queste domande, e nella prospettiva di un suo confronto con la Fides et ratio, possiamo rilevare i seguenti elementi, che
21 «Questa attestazione di Dio farà raggiungere forse a molti il Dio ignoto, che essi adorano senza dargli un nome, o che cercano per un’ispirazione segreta del cuore allorquando fanno l’esperienza della vacuità di tutti gli idoli» (EN 26). 22 «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Paolo VI, Discorso ai membri del «Consilium de Laicis» (2.10.1974): AAS 66[1974], 568).
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l’esortazione apostolica di Paolo VI contiene in linea con l’insegnamento del concilio: a) una visione cristocentrica dell’uomo, che fonda e sostiene la missione evangelizzatrice della Chiesa, chiamata a custodire – alla luce del mistero di Cristo – la verità piena e integrale dell’umanità; b) il tempo e la storia non sono il semplice teatro di rivolgimenti imprevedibili e sconnessi, ma l’orizzonte in cui l’eterna verità del vangelo chiede di essere predicata e accolta per costituirsi come centro unificante dell’uomo, della sua convivenza con gli altri uomini e della storia intera; c) la cultura non solo non si oppone al vangelo, ma è richiesta da esso come luogo in cui l’uomo esprime la sua autentica natura di essere pensante, libero e creativo, giungendo in essa a quelle domande e acquisizioni che lo costituiscono come possibile interlocutore del progetto di Dio; d) incarnandosi nelle varie culture, il vangelo non si confonde con esse, perdendo la sua specificità, ma le permea dall’interno e le compie custodendo in esse la propria e assoluta singolarità; e) la trascendenza del vangelo sulle culture non significa né distacco né giustapposizione, ma la forza soprannaturale del regno di Dio che, entrando nella storia, custodisce in essa – proprio in quanto la assume – la propria origine di grazia. Vorremmo concludere questi sommari accenni alla Evangelii nuntiandi con una domanda dello stesso pontefice, cui affidiamo parimenti il compito di introdurci alla lettura della Fides et ratio. Inoltrandosi nei punti programmatici dell’esortazione apostolica, Paolo VI si chiedeva: «Dopo il concilio e grazie al concilio, che è stato per essa un’ora di Dio in questo scorcio della storia, la Chiesa si sente o no più adatta ad annunziare il vangelo e a inserirlo nel cuore dell’uomo con convinzione, libertà di spirito ed efficacia?». La Fides et ratio offre un fondato e buon motivo per rispondere affermativamente.
3. F ides et
ratio : un orizzonte cristologico - sacramentale
Quando nell’ottobre del 1998 la Fides et ratio fu pubblicata, le reazioni furono tra le più disparate: esse andavano da consensi rasentanti l’esaltazione a dissensi pregiudizievoli e scomposti. Nel coro degli oppositori, levò con decisione la sua voce un filosofo italiano, che accusò l’enciclica di essere un «baccanale di rovesciamenti», un insieme di «logiche del rovesciamento», tutte determinate – a suo giudizio – dal timore papalino che il cristianesimo della testimonianza si svincoli sempre più dalla «cattività dell’obbedienza». Ciò che tuttavia appare sommamente strano, prosegue questo rappresentativo corifeo del laicismo, è che il papa voglia di nuovo avventurarsi nel campo della dottrina e della speculazione pro-
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prio nel momento in cui la Chiesa cattolica, col suo modello di assistenza e di volontariato, sta già facendo scuola e mietendo trionfi. E, concludendo, ammoniva: i cattolici farebbero bene a ricordare che non è possibile un’ortodossia fondata sull’assolutezza della verità e se vorranno continuare a essere ben visti e apprezzati, faranno assai bene a rinunciare alla pretesa di possedere la verità o voler insegnare la strada per arrivarvi.23 Come dire: perché voler vincere con la dottrina, apparendo oltretutto arroganti e presuntuosi, quando già si è vincenti con l’esemplarità della testimonianza? Abbiamo scelto, tra le tante, proprio questa reazione, non certo per il valore delle argomentazioni addotte, quanto piuttosto perché sembrerebbe, dalla sponda opposta, confermare quello che anche non pochi cattolici hanno giudicato come un intervento abbastanza estemporaneo su un tema che, tutto sommato, appare piuttosto marginale nelle urgenze pastorali e missionarie del momento. Inoltre, non fu del tutto infrequente udire il rimprovero d’ingenuità e di poco astuta strategia culturale: infatti – così in sostanza – proprio nel momento in cui i cultori stessi della razionalità, i filosofi, si apprestavano a stilare il certificato di decesso della ragione e dei suoi velleitarismi di stabilità e assolutezza, ecco che il papa stesso non solo non si unisce al de profundis da pronunciare con quel sollievo tipico di chi si congeda da uno scomodo avversario, ma corre addirittura al capezzale dell’illustre malata per dirle un evangelico: «Alzati e cammina». Queste provocazioni, pur nella loro discutibilità, hanno sicuramente l’effetto positivo di stimolare una domanda: perché la Chiesa circonda di così grande interesse la ragione e il sapere che ne cura l’esercizio? Questa domanda ne pone un’altra: a quale genere teologico è da ascrivere la Fides et ratio? Detto più semplicemente: che cosa si è proposto il papa con questa enciclica? Ha voluto offrire una dotta dissertazione filosofica o proclamare la perenne verità del vangelo? Diciamo subito che, a nostro avviso, il documento pontificio non rappresenta affatto un testo meramente apologetico, quanto piuttosto una riflessione teologica su quelle capacità che rendono possibile l’autocomprensione dell’uomo come essere interpellato e suscitato dall’evento salvifico di Cristo; l’indagine sulla ragione, sulle sue possibilità e sulla sua vocazione altro non vuol essere che una lettura dell’intelligenza umana come fondamento della libera partecipazione all’evento che porta l’uomo al suo vero compimento. Già nel 1928 il francese M. Blondel aveva scritto: «Se troppo spesso oggi la vita generale dell’umanità si allontana dal cristianesimo è forse perché si è troppo spesso sradicato il cristianesimo dalle viscere intime dell’uomo».24 La Chiesa lo ha sempre saputo. E Giovanni Paolo II lo ha
P. Flores D’Arcais, «Aut fides aut ratio», in MicroMega 5(1998), 187-206. Scritto nel 1928. In un altro scritto, così Blondel si esprimeva: «Se le pretese della rivelazione sono veramente fondate, non si può dire che siamo pienamente nel nostro proprio, presso noi stessi. E di questa impotenza, incapacità, di questa pretesa deve esserci 23
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nuovamente ribadito, inaugurando la riflessione con la suggestiva immagine delle due ali.25 Questa immagine, però, se da un lato rende in modo plastico l’unità inscindibile di fede e ragione, dall’altro, tuttavia, potrebbe facilmente far deviare dal contenuto autentico che intende esprimere: fede e ragione, infatti, non sono due grandezze simmetriche e reciprocamente opposte, ognuna delle quali si appalta un settore della verità, ma costituiscono le due coordinate inscindibili con le quali l’unico uomo, credente e pensante al tempo stesso, accoglie l’unico Dio che gli ha dato la vita per riempirla della sua stessa vita. Pensarsi originariamente unito a Dio in quanto creatura intelligente e «sapienziale» è la condizione mediante la quale l’uomo può accogliere di diventarne figlio: pertanto non è sbagliato dire che fede e ragione costituiscono l’espressione dell’uomo chiamato, nella grazia di Dio, a divenire con tutto se stesso quello che da solo mai potrebbe divenire: Figlio del Padre «partecipe della natura divina» (2Pt 1,4).26 La Fides et ratio sembra scorrere più nel solco della biblica nozione di hemed piuttosto che nella concettualità greca dell’aletheia, nell’orizzonte cioè di una verità che non è la nozione intellettuale, ma il fatto salvifico e storico che – annunciato pienamente in Cristo – richiede un interlocutore libero e accogliente.27 Da questa prospettiva, il centro focale della Fides et ratio non sembra essere costituito né dalla fede né dalla ragione, ma da ciò che sta all’origine di entrambe, costituisce la sorgente di entrambe e si pone come fine di entrambe, cioè il progetto cristico quale offerta di vita divina cui deve e può corrispondere la libertà dell’uomo di lasciarsi in essa assumere. Per questo non ci sono due voli, né ci sono due mete, ma un solo e unico progetto; ed è proprio l’unicità di questo progetto a rendere inconfondibili e al tempo stesso indisgiungibili la fede e la ragione.28
nell’uomo, puramente in quanto uomo, una traccia e un’eco, anche nella più autonoma filosofia» («Lettres sur les exigences de la pensée contemporaine en matière d’apologétique et sur la méthode de la philosophie dans l’étude du problème religieux», in M. Blondel, Les premiers écrits de Maurice Blondel, Paris 1956, 37). 25 «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere lui, perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità di se stesso» (Giovanni Paolo II, lettera enciclica Fides et ratio [14.9.1998], Proemio: EV 17/1175; d’ora in poi: FR). 26 «Cristo Signore rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione, che è quella di partecipare al mistero della vita trinitaria di Dio» (FR 13). 27 Cf. A. Marchesi, Filosofia e teologia. Quale rapporto?, Franco Angeli, Milano 1999. 28 «[…] vi sono le verità religiose, che in qualche misura affondano le loro radici anche nella filosofia. Esse sono contenute nelle risposte, che le varie religioni nelle loro tradizioni offrono alle domande ultime […]. Ogni uomo, come già ho detto, è in certo qual modo un filosofo e possiede proprie concezioni filosofiche con le quali orienta la sua vita. In un modo o in un altro, egli si forma una visione globale e una risposta sul senso della propria esistenza: in tale luce egli interpreta la propria vicenda personale e regola il suo comportamento. È qui che dovrebbe porsi la domanda sul rapporto tra le verità filosofico-religiose e la verità rivelata in Gesù Cristo» (FR 30).
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«La Verità, che è Cristo, si impone come autorità universale che regge, stimola e fa crescere (cf. Ef 4,15) sia la teologia che la filosofia» (FR 92). Da questo punto di vista, la vera introduzione programmatica sembra essere piuttosto la conclusione dell’enciclica, dove il papa dice: A tutti chiedo di guardare in profondità all’uomo, che Cristo ha salvato nel mistero del suo amore, e alla sua costante ricerca di verità e di senso. Diversi sistemi filosofici, illudendolo, lo hanno convinto che egli è assoluto padrone di sé, che può decidere autonomamente del proprio destino e del proprio futuro confidando solo in se stesso e sulle proprie forze. La grandezza dell’uomo non potrà mai essere questa. Determinante per la sua realizzazione sarà soltanto la scelta di inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all’ombra della Sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte veritativo comprenderà il pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all’amore e alla conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé (FR 107).
Il continuo richiamo all’uomo non deve trarre in inganno: l’enciclica è un testo rigorosamente teologico e, più precisamente, cristologico: è in forza della strettissima comunione divino-umana in Cristo, che tutto l’umano riveste una posizione così centrale.29 Il papa è consapevole che una visione parziale o limitativa dell’uomo non solo non rende giustizia alla verità di Dio, ma ne può addirittura precludere la conoscibilità e, soprattutto, la piena autocomunicazione.30 Ci sembra opportuno e illuminante citare, uno per tutti, il testo che potrebbe costituire il cuore stesso dell’enciclica. Dopo aver ribadito che «Gesù Cristo, il Verbo di Dio incarnato, realizza in pienezza l’esistenza umana», il papa prosegue dicendo: La convinzione fondamentale di questa «filosofia» racchiusa nella Bibbia è che la vita umana e il mondo hanno un senso e sono diretti verso il loro compimento, che si attua in Gesù Cristo. Il mistero dell’incarnazione resterà sempre il centro a cui riferirsi per poter comprendere l’enigma dell’esistenza umana, del mondo creato e di Dio stesso. In questo mistero le sfide per la filosofia si fanno estreme, perché la ragione è chiamata a far sua una logica che abbatte le barriere in cui essa stessa rischia di rinchiudersi. Solo qui, però, il senso dell’esistenza raggiunge il suo culmine. Si rende intelligibile, infatti, l’intima essenza di Dio e dell’uomo: nel mistero del Verbo incarnato, natura divina e natura umana, con la rispettiva autonomia, vengono salvaguardate e insieme si manifesta il vincolo unico che le pone in reciproco rapporto senza confusione (FR 80).31
L’orizzonte sacramentale è sotteso anche dall’articolo di S. Pié-Ninot, «La Encíclica Fides et ratio y la Teología Fundamental: hacia una propuesta», in Gregorianum 80(1999)4, 645-676. 30 «È illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione […]. Non sembri fuori luogo, pertanto, il mio richiamo forte e incisivo, perché la fede e la filosofia recuperino l’unità profonda che le rende capaci di essere coerenti con la loro natura nel rispetto della reciproca autonomia» (FR 48). 31 Cf. Conc. Ecum. Calcedonense, Symbolum, Definitio: Denz 302. 29
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La centralità dell’uomo, pertanto, è già da sempre inclusa nella definitività della rivelazione di Dio: in questo modo, dunque, ogni discorso autenticamente antropologico dovrà prevedere come tale l’orizzonte teo logico, poiché è solo come autentica possibilità dell’uomo e per l’uomo che il discorso su Dio può avere una rilevanza e un interesse per l’uomo. Il percorso della Fides et ratio è questo: coltivare nell’uomo quelle facoltà che, consentendo al vangelo di Cristo di poter essere accolto, contribuiscono alla «realizzazione di se stessi» (FR 13 e 49). A questo punto andrebbe ricordato e sottolineato un termine che, pur nella fugacità della sua apparizione, merita attenzione e approfondito studio: il papa parla esplicitamente di «orizzonte sacramentale della rivelazione» (FR 13), dove il chiaro riferimento all’eucaristia può e deve essere ampliato in direzione del mistero di Dio e della verità dell’uomo. Questo termine indica, in senso lato, il carattere visibile dell’autocomunicazione di Dio, il suo coinvolgimento nell’essere, la sua «storicità». In perfetta linea con la costituzione conciliare Dei Verbum, anche la Fides et ratio esclude ogni falso estrinsecismo, presentando il piano della creazione come già ordinato a quello di Cristo;32 e come già la Dei Verbum, sostituendo il verbo revelare con communicare ac manifestare superava l’idea puramente dottrinale di rivelazione per approdare a quella della realtà storica, di dialogo della salvezza quale comunicazione da persona a persona, così anche la Fides et ratio intende la rivelazione come salvezza storicamente accaduta e definitivamente realizzata «in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione» (FR 10).33 L’orizzonte veritativo, tanto di Dio che dell’uomo, è dunque la verità divino-umana che si è rivelata una volta per tutte in Gesù Cristo: non è né la «verità in sé di Dio» né la «verità in sé dell’uomo», se per «in sé», tanto di Dio che dell’uomo, dovesse intendersi una divinità non riferita a Cristo o un’umanità non letta alla luce di Cristo. Solo in forza della pretesa di Cristo di essere la verità, e quindi di essere il vero Dio e il vero uomo, la Chiesa ha pieno diritto di cittadinanza nelle strade che ricercano la verità: «Forte della competenza che le deriva dall’essere depositaria della ri-
32 Commentando il c. III della Dei Verbum e dopo aver ricordato la perenne validità del «per Verbum omnia creans», J. Ratzinger scrive che «die christologische Verfaßtheit der Schöpfung wird sichtbar, und die Selbstbezeugung Gottes in der Schöpfung […] tritt in einen christologischen Zusammenhang» («Dogmatische Konstitution über die göttliche Offenbarung», 508). 33 Cf. anche gli interi cc. I-II. Condividiamo quanto scrive Javier Prades: «Un approfondimento di questo aspetto tipico della rivelazione cristiana potrebbe, forse, dissipare i timori, tanto diffusi oggi, che la rivelazione della verità porti con sé forme di imposizione […]. L’accesso al fondamento non avviene come se la rivelazione fosse un oggetto alla portata immediata della ragione e deducibile come un semplice predicato di cui occorre impossessarsi in modo univoco» (J. Prades, «La rivelazione di Gesù Cristo come ambito del rapporto fra ragione e fede», in Il Nuovo Areopago [2000]1, 23).
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Dall’Evangelii nuntiandi alla Fides et ratio
velazione di Gesù Cristo, la Chiesa intende riaffermare la necessità della riflessione sulla verità» (FR 6).34 È dunque a partire da Cristo che nasce per la Chiesa il dovere di occuparsi della ragione, o meglio, della verità. E poiché la Chiesa ha come compito quello di evangelizzare, e non quello di fare filosofia, questo impegno non può significare che una cosa: la ragione e il suo esercizio, quale pratica veritativa del pensiero, sono inclusi di diritto nella predicazione del vangelo e nella possibilità umana della sua accoglienza.35 Questa consapevolezza appare chiaramente dalle parole del testo: «La Chiesa, comunque, sa che i “tesori della sapienza e della scienza” sono nascosti in Cristo (Col 2,3); per questo interviene stimolando la riflessione filosofica, perché non si precluda la strada che conduce al riconoscimento del mistero» (FR 45). Contro ogni deriva fideista viene chiaramente ribadito che l’unica verità, che è Cristo, non solo non dispensa dalla ragione, ma anzi la richiede; implicitamente viene quindi affermato che la ragione, in ordine all’accoglienza del vangelo di salvezza, gioca un ruolo non solo utile, ma addirittura insostituibile.
4. F ides et ratio: l ’ autonomia della
ragione come dimensione partecipativa all ’ evento salvifico
Contro ogni estrinsecismo o tangenza della verità rivelata sulla verità naturale, l’enciclica ribadisce che, pur dovendo la filosofia procedere secondo le proprie regole e fondarsi sui propri principi, «la verità, tuttavia, non può essere che una sola» (FR 79). Come impostare, allora, il rapporto, volendo salvaguardare i due ordini di sapere e l’unità del vero? In realtà è proprio questo, a nostro avviso, il merito fondamentale di questo documento, quello cioè di avere affermato l’unità della verità nella sua forma dialogale, dove la dualità non degenera mai in dualismo, ma costituisce l’evidenza della verità divino-umana, così profondamente unica in Cristo, è unità generata nella comunione e nell’alleanza. In breve, la verità dell’amore divino offerto all’uomo, insofferente sia di ogni monismo dell’indistinzione che di ogni dualismo della frattura, viene riproposta
34 Un altro importante testo è il seguente: «La Chiesa non è estranea, né può esserlo, a questo cammino di ricerca. Da quando, nel mistero pasquale, ha ricevuto in dono la verità ultima sulla vita dell’uomo, essa s’è fatta pellegrina per le strade del mondo per annunciare che Gesù Cristo è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Tra i diversi servizi che essa deve offrire all’umanità, uno ve n’è che la vede responsabile in modo del tutto peculiare: è la diaconia alla verità» (FR 2). 35 Cf. C. Troisfontaines, «Foi et Raison. Une vision personnaliste de la révélation», in Nouvelle Revue Thelogique 122(2000), 369-385.
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nella sua originaria unità di offerta e accoglienza, di dono e di risposta: da questo punto di vista, tutta la Fides et ratio può essere letta come un grande commento filosofico-teologico al dogma calcedonese dell’unità divino-umana o anche come un breve trattato di antropologia della grazia, dall’ottica particolare della ragione come fondamentale struttura di dialogo, di valutazione e di accoglienza. Rispetto ad altri documenti magisteriali, la Fides et ratio presenta una diffusa e positiva insistenza sul «mistero»36 che, pur presentato primariamente come libera e gratuita iniziativa di Dio, non manca di essere presentato nella sua valenza antropologica, come «fatto essenziale per la vita dell’uomo» (FR 13). Presentando l’uomo come «colui che cerca la verità»37 e come colui che, pur potendone oscurare la forza, non riesce tuttavia a sottrarsi alla ricerca di essa, il papa accenna al carattere relazionale dell’uomo verso l’assoluto: nella ricerca della verità, l’uomo vuole ottenere luce sulla propria esistenza, vuole raggiungere «la certezza della verità e del suo valore assoluto» (FR 27). La verità caratterizza l’uomo e la sua ricerca proprio perché l’uomo già da sempre le appartiene, manifestandole di non essere assoluto padrone di sé né di poter «decidere autonomamente del proprio destino e del proprio futuro confidando solo in se stesso e sulle proprie forze»: c’è un dialogo originario tra l’uomo e la verità, o meglio una vocazione dell’uomo in ordine alla verità e una rivendicazione dell’uomo da parte della verità. Per questo Giovanni Paolo II, come abbiamo già visto, afferma che determinante per la sua realizzazione [dell’uomo] sarà soltanto la scelta di inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all’ombra della Sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte veritativo comprenderà il pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all’amore e alla conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé (FR 107).
Il discorso ricade, ascendente e circolare, sulla realizzazione piena di sé, che l’uomo può conseguire aprendosi in modo dialogico alla verità, che appare come un mistero originario e ineludibile, infinitamente trascendente le possibilità dell’uomo e al tempo stesso così intima e irrinun-
36 Oltre ai ben tre paragrafi a esso specificamente dedicati e raccolti sotto il titolo «La ragione davanti al mistero» (c. I, nn. 13-15), il termine ricorre diffusamente, attingendo ora un senso genuinamente teologico, ora decisamente filosofico: nel primo caso, e con chiaro riferimento alla teologia paolina, «mistero» denota il disegno divino che permea e illumina l’intera creazione e che, pienamente svelato in Cristo, introduce l’uomo alla comunione con la vita divina. «È […] un’iniziativa pienamente gratuita, che parte da Dio per raggiungere l’umanità e salvarla. Dio, in quanto fonte di amore, desidera farsi conoscere, e la conoscenza che l’uomo ha di lui porta a compimento ogni altra vera conoscenza che la sua mente è in grado di raggiungere circa il senso della propria esistenza» (FR 7). 37 «[…] anche quando la evita, è sempre la verità a influenzarne l’esistenza. Mai, infatti, egli potrebbe fondare la propria vita sul dubbio, sull’incertezza o sulla menzogna; una simile esistenza sarebbe minacciata costantemente dalla paura e dall’angoscia. Si può definire, dunque, l’uomo come colui che cerca la verità» (FR 28).
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ciabile da non poter essere ignorato senza precludere il conseguimento pieno della propria umanità. È in questo orizzonte che si inserisce il discorso vero e proprio sulla ragione, cioè sulla capacità genuinamente umana di attingere la verità.38 Accostandosi alla tematica della ratio nella presente enciclica, è opportuno porre la premessa che tutte le capacità teoretiche riconosciute alla ragione – che in definitiva si riassumono nel potere di conoscere oggettivamente la verità nei suoi vari aspetti – sono assunte nell’orizzonte teo-antropologico della salvezza dell’uomo: l’uomo, infatti, possiede la ragione come quello «spazio peculiare che le permette di indagare e comprendere, senza essere limitata da null’altro che dalla sua finitezza di fronte al mistero infinito di Dio» (FR 14). Per mezzo della ragione, oltre ogni ingenuo pragmatismo religioso, l’uomo può pervenire con certezza alla conoscenza che Dio esiste, e quindi pensare autenticamente Dio come un altro reale e presente, e non come il nome dato all’insieme dei bisogni di consolazione.39 Ma la preoccupazione fondamentale dell’enciclica non è tuttavia la questione teoretica dell’esistenza di Dio, anche se gli auspici per un pensiero metafisico aperto alla trascendenza sfociano nell’affermazione del Dio uno e trascendente, quanto piuttosto la tragica possibilità che l’uomo abdichi alla grandezza e bellezza della propria vocazione, non riconoscendo la propria verità nella verità del Cristo: l’orizzonte cristologico che anima il documento conferma che l’intenzione prima della Fides et ratio è l’evangelizzazione integrale dell’uomo, alla cui natura compete di diritto l’interrogarsi sulla verità del vangelo.40 In altri termini, il documento non si limita alla proposizione di un pensiero «teonomico», capace di conoscere con certezza che Dio esiste: riproponendo una ragione aperta alla trascendenza, il papa ha voluto ricordare all’uomo che la capacità di interrogarsi sull’esistenza apre la riflessione al riconoscimento di Dio che, a sua volta,
38 «Nel più profondo del cuore dell’uomo è seminato il desiderio e la nostalgia di Dio. Lo ricorda con forza anche la liturgia del Venerdì santo quando, invitando a pregare per quanti non credono, ci fa dire: “O Dio onnipotente ed eterno, tu hai messo nel cuore degli uomini una così profonda nostalgia di te, che solo quando ti trovano hanno pace”. Esiste quindi un cammino che l’uomo, se vuole, può percorrere; esso prende il via dalla capacità della ragione di innalzarsi al di sopra del contingente per spaziare verso l’infinito» (FR 24). 39 Decisamente fuori bersaglio è quindi quanto scrive E. Scalfari: «Nietzsche e prima di lui Leopardi, fondarono sull’illusione il senso della vita e quindi la vita stessa. Non è un’illusione anche la fede? Eppure aiuta a vivere; oh, se aiuta! Credenti e non credenti, siamo tutti dei sopravvissuti in virtù dell’illusione, aggrappati alle nostre verosimiglianze. La nostra mente le crea, come fuochi artificiali che, per artificio, rivaleggiano con le stelle e ci rappresentano un vero che esiste solo perché noi lo pensiamo» («La fede del Papa e quella dei laici», in La Repubblica, 18 ottobre 1998). 40 «È bene per il teologo ricordare che il suo lavoro corrisponde “al dinamismo insito nella fede stessa” e che oggetto proprio della sua ricerca è “la Verità, il Dio vivo e il suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo”. Questo compito, che tocca in prima istanza la teologia, provoca nello stesso tempo la filosofia» (FR 92). Per il decisivo rapporto veritàsalvezza cf. anche i nn. 9; 10; 11; 22; 34.
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apre la strada all’annuncio del vangelo.41 Ci sembra di poter dire che non un «Dio che esiste», ma un «Dio che parla e salva» sia il termine filosofico della Fides et ratio, per cui il pensiero teonomico è solo una prima e irrinunciabile determinazione del pensiero cristologico.42 Si può, anzi, affermare che è il pensiero cristologico a sostenere e richiedere il pensiero teonomico, facendo emergere tutta la portata esistenziale di quest’ultimo: la certezza che Dio è, e che si è rivelato come amore per l’uomo in Gesù Cristo, fa sì che il rapporto con l’assoluto non resti confinato nelle brume delle verità astratte, ma si trasformi nella gioia di chi trova risposta alle domande più profonde e irrinunciabili dell’esistenza umana.43 L’enciclica ha voluto così ricordare che pensare Dio è già da sempre un indizio ragionevolmente fondato del fatto che ogni uomo è chiamato all’incontro con lui e con la sua rivelazione in Gesù Cristo:44 in quest’ottica, la teonomia – cioè il legame della ragione con la trascendenza divina – non è affatto un’eteronomia, un’alienazione, né tantomeno un’ipoteca gravosa e sovrastante sulla creatività dell’intelligenza o una dimostrazione paralizzante della libertà della ragione, ma la custodia di quella profonda dimensione personale-relazionale che sancisce l’infinita trascendenza e progettualità della persona umana.45 Come la cristologia presuppone un’antropologia autonoma (lo ripetiamo: «autonoma» non significa indipendente), dove l’«autonomia» caratterizza l’identità propria dell’uomo come creatura sussistente e libera di fronte al Creatore che l’ha voluta, così anche la fede, quale conoscenza-accoglienza del dono di grazia della vita divina, presuppone l’autono-
41 Si può riconoscere la mano personale del filosofo K. Wojtyła e del suo metodo realistico induttivo-deduttivo o trans-fenomenico, che pone la concreta e vissuta esperienza dell’uomo alla base di ogni analisi delle persone e dell’atto. A partire dalla natura interiore dell’agente che si svela nei suoi atti (induzione), ci si spinge al valore ultimo degli atti stessi, che rimanda all’orizzonte ultimo dei medesimi (riduzione). Cf. K. Wojtyła, Persona e atto, LEV, Roma 1982, 21-37. 42 «La rivelazione dà la certezza di questa unità, mostrando che il Dio creatore è anche il Dio della storia della salvezza» (FR 34). 43 «È necessario, dunque, che la ragione del credente abbia una conoscenza naturale, vera e coerente delle cose create, del mondo e dell’uomo, che sono anche oggetto della rivelazione divina; ancora di più, essa deve essere in grado di articolare tale conoscenza in modo concettuale e argomentativo» (FR 66). 44 Ci riesce quindi incomprensibile il rimprovero di alcuni nostri fratelli evangelici quando affermano: «Secondo la Bibbia, tutta l’esistenza dev’essere vissuta coram Deo e ciò esclude che la ragione possa essere avulsa dalla fede quasi fosse una realtà autosussistente o distaccata dalla realtà di Dio. Pur articolandosi in una pluralità di modalità aventi ciascuna una propria specificità, la vita nella sua globalità trova nell’alleanza rotta o ristabilita con Dio la propria cornice di riferimento. Qualsiasi attività umana viene esperita nell’ambito dell’alleanza tra Dio e l’uomo. La ragione quindi è essenzialmente religiosa. Il rapporto tra fede e ragione deve essere pensato nell’orizzonte unificante del coram Deo e non in quello dissociante di Fides et ratio» (Istituto di formazione evangelica e documentazione, Tesine sull’enciclica Fides et ratio, ciclostilato in proprio, 1999-2000, tesi n. 4). 45 Cf. W. Kasper, «Christologie und Anthropologie», in Id., Theologie und Kirche, Matthias Grünewald, Mainz 1987, 206-207.
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mia della ragione; al tempo stesso, però, come il dono di grazia trascende la natura, istituendola ai fini della propria autocomunicazione, così anche la fede, esigendo e istituendo la ragione come libera e intelligente corrispondenza umana al dono divino, si pone come istanza critica di ogni idolatria o deformazione della ragione. La divinizzazione dell’uomo (per dirla nel linguaggio dei padri della Chiesa) è la vera umanizzazione dell’uomo e il suo intimo compimento. L’incarnazione di Dio in Gesù Cristo e la nostra partecipazione ad essa nello Spirito Santo costituisce quindi il senso della creazione. Gesù Cristo, in definitiva, non ci rivela solo chi è Dio per noi; ci rivela anche il fine dell’uomo, dischiude l’uomo all’uomo. Solo chi conosce Cristo, conosce anche l’uomo.46
Allo stesso modo in cui la cristologia supera l’antropologia, in quanto determina come fine dell’uomo l’umanizzazione per mezzo della divinizzazione, che mai l’uomo di per sé può realizzare, così la fede supera la ragione, ma proprio in quanto ne realizza quell’attesa di risposta che nella ragione vive come razionalmente incompiuta e incompibile.47 In questo contesto, la Fides et ratio offre alcuni spunti di teologia della cultura, presentando questa come espressione dell’ineludibile storicità dell’uomo che, pur nel condizionamento degli orizzonti spazio-temporali, non cessa per questo di essere un ricercatore dell’assoluto e della piena verità;48 da parte sua, l’enciclica riprende il tema della cultura non solo facendone la necessaria manifestazione delle convinzioni umane, ma sottolineandone l’ineludibilità in ordine all’annuncio evangelico. In altre parole, la cultura non è solo un insieme di convinzioni su cui far piovere la verità del vangelo, ma esprime l’uomo stesso nella sua tensione all’assoluto. Nella cultura, l’uomo non solo eredita una tradizione e una situazione che lo coinvolge e lo determina, ma esercita anche la sua originale autonomia; la cultura appare quindi sempre come l’orizzonte storico che accoglie l’uomo non per omologarlo alle proprie acquisizioni, ma per liberarne la più vera e intima ricerca: la ricerca dell’assoluto.49
46 W. Kasper, Was alles Erkennen übersteigt. Besinnung auf den christlichen Glauben, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1987, 86. 47 «Da questa posizione consegue logicamente che la ragione non potenziata dalla fede è incapace di riconoscere la realtà, non tanto o non solo perché ha subito la “corruzione” del peccato originale, ma più radicalmente e pregiudizialmente per la condizione “soprannaturale” dell’ordine storico» (G. Colombo, «La teologia moderna», in Id., La ragione teologica, Glossa, Milano 1995, 49). 48 «Le culture, quando sono profondamente radicate nell’umano, portano in sé la testimonianza dell’apertura tipica dell’uomo all’universale e alla trascendenza. Esse presentano, pertanto, approcci diversi alla verità, che si rivelano di indubbia utilità per l’uomo, a cui prospettano valori capaci di rendere sempre più umana la sua esistenza» (FR 70). 49 «Ogni uomo è inserito in una cultura, da essa dipende, su di essa influisce. Egli è insieme figlio e padre della cultura in cui è immerso. In ogni espressione della sua vita, egli porta con sé qualcosa che lo contraddistingue in mezzo al creato: la sua apertura costante al mistero e il suo inesauribile desiderio di conoscenza. Ogni cultura, di conseguenza, porta
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Nella Fides et ratio, la cultura appare piuttosto come l’espressione storica della trascendenza dell’uomo sul mondo, la «cifra» del carattere metanaturale dell’uomo e della sua destinazione al vangelo;50 per questo motivo Giovanni Paolo II – in piena obbedienza all’assioma fondamentale dell’antropologia teologica cattolica, secondo cui la grazia non distrugge ma compie la natura – afferma che l’annuncio del vangelo nelle diverse culture, mentre esige dai singoli destinatari l’adesione della fede, non impedisce loro di conservare una propria identità culturale, poiché il vangelo non rappresenta il sacrificio né della propria storia né della propria tradizione, quanto piuttosto il suo compimento, poiché favorisce in essa il progresso e la piena esplicazione delle sue molteplici verità. Contro ogni tentativo di spacciare l’apprezzamento e il consenso che la Fides et ratio esprimono verso la metafisica come un surrettizio diktat della fede sulla ragione, occorre piuttosto riconoscere che la metafisica ribadita dall’enciclica è una metafisica della relazione, una metafisica dell’assoluto personale, il cui scopo non è un rimando senza sosta alla sostanza anonima e inerte di certe visioni astratte e intellettualistiche, ma l’irrinunciabile riconoscimento che l’uomo, tutto sommato, è «una pianta non terrena ma celeste, che l’anima solleva verso la sua parentela del cielo».51 L’uomo, così come esiste concretamente, è già da sempre creato in Cristo e in vista di Cristo (1Cor 8,6; Col 1,16ss): questo fa sì che il messaggio cristiano non raggiunga l’uomo come un elemento estraneo ma, pur provenendo a lui al di fuori di lui, ne sia anche l’intimo compimento e la più profonda illuminazione. La Gaudium et spes, come già abbiamo osservato, ma anche la prima enciclica di Giovanni Paolo II, la Redemptor hominis, hanno accolto – diversamente da altri documenti di precedenti pontefici – tutta la rilevanza antropologica del mistero del Verbo incarnato; la Fides et ratio, dal canto suo, ne ha esplorato e ribadito l’implicanza nell’orizzonte dell’esercizio della razionalità e della cultura. Mostrando, ancora una volta, la verità delle parole di un grande pensatore credente: «È nelle sue viscere [del cristianesimo] che si nasconde una filosofia sfolgorante di evidenza e beante gli intelletti per la sua origine divina e perché conduce di nuovo a Dio».52 Se la ragione conduce a Dio, è tuttavia la fede a offrire la libertà con cui Dio ama, facendo dell’amore e dell’amato una cosa sola. È quanto è accaduto in Cristo, vero Dio e vero uomo, a partire dal quale il respiro della ragione diviene invocazione e attesa di pienezza di umanità, cioè di
impressa in sé e lascia trasparire la tensione verso un compimento. Si può dire, quindi, che la cultura ha in sé la possibilità di accogliere la rivelazione divina» (FR 71). 50 J. Ratzinger ha sottolineato questo aspetto nell’articolo «Quid est veritas?», in MicroMega 3(2000), 216. 51 Platone, Leggi X, 899d. 52 A. Rosmini, Epistolario completo, 13 voll., Giovanni Pane, Casale Monferrato 18871894, III, 611.
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salvezza. Pur nella distanza della concezione da lui elaborata e sviluppata, possono ben valere le parole di Hegel: La possibilità della riconciliazione sta solo in ciò, che venga conosciuta l’unità, che è in sé, della natura divina e umana […]; così l’uomo può sentirsi raccolto in Dio, in quanto Dio non è per lui uno straniero; egli non si comporta verso di lui come un accidente esterno, egli è raccolto in Dio secondo la sua essenza, la sua libertà, la sua soggettività.53
5. F ides et
ratio : la verità condizione dell ’ amore . L’annuncio nell’epoca del nichilismo e del post - moderno
Un dato abbastanza rilevante che, a nostro avviso, merita attenzione è il contenuto, l’articolazione del capitolo VII che, forse a causa del titolo «Esigenze e compiti attuali», soggiace al rischio pregiudiziale di essere frainteso come elenco conclusivo dei desiderata papali. Riteniamo che non sia così, ma che questo capitolo appartenga al cuore dell’enciclica e ne sia, probabilmente, la parte più originale e moderna: si tratta già, a nostro parere, di un esempio di dialogo con le sensibilità e le culture, anche là dove esse siano state ridotte e contratte da visioni parziali. Si tratta, come sempre, dell’uomo e della sua pienezza, della sua libertà e della sua salvezza: i vari ismi che, alla luce della parola di Dio e della «metafisica», vengono criticati, possono essere infatti ricondotti tutti a un fondamentale ismo, che è quello del «nichilismo» quale «dis-umanismo».54 Il contesto culturale immediato al quale si rivolge la Fides et ratio è caratterizzato da un pluralismo assolutizzato, che eleva la frantumazione del reale a verità assoluta e intrascendibile, dall’affermazione della non conoscibilità del reale e dalla conseguente negazione dell’idea di verità oggettiva; sono tutti elementi, questi, che sanciscono un’idea di uomo chiuso al mistero, sia a causa dell’incapacità di porre la domanda sul senso globale dell’esistenza, sia per la dichiarata impossibilità di lasciarsi incontrare dalla verità come tale. Alquanto significativo è che il primo paragrafo del sovracitato capitolo VII rechi un titolo non immediatamen-
53 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, III, citato in P. Coda, Il negativo e la Trinità, Città Nuova, Roma 1987, 303. 54 Con preoccupazione e chiarezza il papa scrive: «Non si può negare, infatti, che questo periodo di rapidi e complessi cambiamenti esponga soprattutto le giovani generazioni, a cui appartiene e da cui dipende il futuro, alla sensazione di essere prive di autentici punti di riferimento. L’esigenza di un fondamento su cui costruire l’esistenza personale e sociale si fa sentire in maniera pressante soprattutto quando si è costretti a constatare la frammentarietà di proposte che elevano l’effimero al rango di valore, illudendo sulla possibilità di raggiungere il vero senso dell’esistenza. Accade così che molti trascinano la loro vita fin quasi sull’orlo del baratro, senza sapere a che cosa vanno incontro» (FR 6).
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te «filosofico»: l’espressione «Le esigenze irrinunciabili della parola di Dio» rimanda, infatti, all’atto libero e sovrano con cui Dio si autocomunica all’uomo e alla sua storia e non alle capacità umane di ascendere verso il mistero. Eppure, proprio in questo capitolo compare la rivendicazione più profonda del ruolo della metafisica,55 l’esaltazione più convinta della capacità «oggettiva» da parte dell’intelligenza umana di cogliere il vero,56 l’invito accorato a riconoscere l’intrinseca capacità della conoscenza umana ad ascendere dal fenomeno al fondamento.57 L’intenzione è chiara: come il papa sovente chiarisce, il consenso espresso alla metafisica non vuol significare la canonizzazione di una determinata scuola di pensiero a scapito di altre, ma il movimento, insito nel pensiero dell’uomo come tale, che trascende il fattuale e l’empirico per elevarsi all’incontro, per quanto imperfetto e analogico, dell’Assoluto. È un accento nuovo, quello posto dal pontefice, al fatto che non è più l’intelletto o la ragione astrattamente intesa a essere indicato come il luogo di corrispondenza all’essere, ma la persona: «La persona, in particolare, costituisce un ambito privilegiato per l’incontro con l’essere e, dunque, con la riflessione metafisica» (FR 83). Giovanni Paolo II parla chiaramente da evangelizzatore e, proprio per questo, da fine umanista che invita l’uomo contemporaneo ad aprirsi alla pienezza della propria umanità; facendosi voce della Chiesa, «esperta in umanità» e ben consapevole che solo l’annuncio della salvezza in Cristo può offrire tutto questo all’uomo, il papa indica all’intelligenza quelle forme contratte di razionalità che, ostacolando il formularsi della «domanda sapienziale», impediscono all’uomo di partecipare, nell’adesione al mistero, alla piena realizzazione di sé. La critica agli ismi della ragione, quale sua contrazione e deformazione, sono – in ultima analisi – la negazione di quell’originaria dimensione veritativa dell’intelligenza con cui l’uomo conosce di appartenere originariamente all’amore di Dio; la negazione della relazione originaria comporta l’impossibilità della rivelazione e questa, a sua volta, l’impossibilità di un’esistenza pienamente umana; in questo senso vanno intese tutte quelle affermazioni che, guardando al mistero come «fatto essenziale per la vita dell’uomo» (FR 13), presentano
55 «La teologia, quando si applica a comprendere e spiegare queste affermazioni, ha bisogno pertanto dell’apporto di una filosofia che non rinneghi la possibilità di una conoscenza oggettivamente vera, per quanto sempre perfezionabile» (FR 82). 56 «È necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace cioè di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante» (FR 83). 57 «Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza anche quando questa esprime e rende manifesta l’interiorità dell’uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge. Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella comprensione della rivelazione» (FR 83).
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la ragione come quello «spazio peculiare» che dispone l’uomo ad accogliere «il mistero della sua esistenza».58 Ma perché il papa attribuisce così tanta forza devastatrice al nichilismo, rispetto al quale i precedenti ismi della ragione altro non sono che premesse o varianti? E qual è la radice culturale del nichilismo? Per «nichilismo» l’enciclica intende «il rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva» e la conseguente perdita della stabilità della verità (FR 90).59 Ma – data la natura profondamente relazionale dell’uomo e la sua destinazione ultima al mistero di Cristo, di cui il legame ontologico con l’assoluto divino è premessa e inizio – la perdita di contatto con la verità oggettiva è perdita di contatto col proprio fondamento e quindi, in definitiva, autoalienazione, cioè perdita del costitutivo senso di sé; così, tuttavia, prima ancora che negare la verità di Dio e della sua autocomunicazione, l’uomo «cancella dal proprio volto i tratti che ne rivelano la somiglianza con Dio, per condurlo progressivamente o a una distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine» (FR 90). La perdita della verità oggettiva dell’essere si trasforma per l’uomo nell’impossibilità di raggiungere «la certezza della verità e del suo valore assoluto» (FR 27): ma in che cosa consiste questo «valore assoluto»? Tutto l’andamento dell’enciclica ha una risposta chiara e universale: nella destinazione a essere figlio di Dio, nell’essere libero interlocutore dell’amore assoluto. La tragicità del nichilismo consiste dunque in questo: nel non pervenire al fondamento stabile delle proprie attese e dei propri desideri, nel deviare l’aspirazione alla stabilità, tipica dell’amore liberante e fedele, verso le secche della rinuncia e dello scetticismo.60 Quando si tratta della vita e – più ancora – dell’amore, l’uomo non può più accontentarsi di ipotesi o verità parziali, ma aspira ed esige la stabilità, cioè la fedeltà e la definitività di quella verità, che, sola, gli consente di essere scelta e di costituire un rapporto stabile e duraturo; al dubbio, all’incertezza e alla provvisorietà l’uomo potrà ben difficilmente consegnare le proprie attese e le proprie convinzioni.61 In questa luce, la meta-
58 «La rivelazione immette nella storia un punto di riferimento da cui l’uomo non può prescindere, se vuole arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza; dall’altra parte, però, questa conoscenza rinvia costantemente al mistero di Dio che la mente non può esaurire, ma solo ricevere e accogliere nella fede. All’interno di questi due momenti, la ragione possiede un suo spazio peculiare che le permette di indagare e comprendere, senza essere limitata da null’altro che dalla sua finitezza di fronte al mistero infinito di Dio» (FR 14). 59 Cf. G. Mucci, «Il nichilismo nell’enciclica Fides et ratio», in La Civiltà Cattolica (1999)1, 359-369. 60 «L’uomo per natura ricerca la verità […]. La sua ricerca tende verso una verità ulteriore che sia in grado di spiegare il senso della vita; è perciò una ricerca che non può trovare esito se non nell’assoluto. Grazie alle capacità insite nel pensiero, l’uomo è in grado di incontrare e riconoscere una simile verità» (FR 33). 61 «Ciò che è vero, deve essere vero per tutti e per sempre. Oltre a questa universalità, tuttavia, l’uomo cerca un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta la sua ricerca: qualcosa di ultimo, che si ponga come fondamento di ogni cosa. In altre parole, egli cerca una spiegazione definitiva, un valore supremo, oltre il quale non vi siano né
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fisica non è l’abbandono della solidità della terra per la confusa vaghezza del cielo, ma il massimo realismo che l’uomo possa conseguire, lasciando condurre il proprio cuore e la propria mente nelle regioni della stabilità del vero: e da quella stabilità, che si annuncia nella ragione, potrà elevarsi poi, in assoluta libertà, alla stabilità dell’amore cristico predicato dal vangelo.62 La sfida del post-moderno – e Giovanni Paolo II lo ha ben compreso – pur con tutte le sfumature e polivocità che tale termine ha assunto, si gioca proprio nell’orizzonte della stabilità della verità;63 infatti, se si accolgono le linee-guide del post-moderno, bisogna rinunciare definitivamente al mito della verità unica in favore delle verità frammentarie e molteplici, al monopolio del regime scientifico in favore della fantasia estetica e mistica e, infine e conseguentemente, alla fede in un senso definitivo e compiuto della storia.64 Il proprium del post-moderno, infatti, non è la considerazione positiva della pluralità, istanza che è già assai presente nella modernità, ma l’opzione per una pluralità irriconciliabile, permanente e insuperabile, che definisce il tutto. Il tutto è la molteplicità e, come ha scritto un significativo rappresentante del post-moderno, «il postmoderno comincia là dove il tutto finisce».65 L’enciclica nomina singolarmente gli aspetti nichilistici di visioni contratte della razionalità, che conducono l’uomo a non poter fondare la propria esistenza sul fondamento stabile del vero: l’eclettismo, quale amalgama acritico di tante convinzioni senza alcun confronto veritativo (cf. FR 86), lo storicismo, quale negazione della perenne validità del vero (cf. FR 87), lo scientismo, quale dispersione nella fattualità empirica senza alcuna preoccupazione di valutabilità etica (cf. FR 88), e il pragmatismo, come sistema che ignora la normatività del vero in favore dell’utilità (cf. FR 89).
vi possano essere interrogativi o rimandi ulteriori. Le ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano. Viene per tutti il momento in cui, lo si ammetta o no, si ha bisogno di ancorare la propria esistenza a una verità riconosciuta come definitiva, che dia certezza non più sottoposta al dubbio» (FR 27). 62 «Intelletto e volontà esercitano al massimo la loro natura spirituale per consentire al soggetto di compiere un atto in cui la libertà personale è vissuta in maniera piena. Nella fede, quindi, la libertà non è semplicemente presente: è esigita» (FR 13). 63 «Sono emersi nell’uomo contemporaneo, e non soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti di diffusa sfiducia nei confronti delle grandi risorse conoscitive dell’essere umano. Con falsa modestia ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale. È venuta meno, insomma, la speranza di poter ricevere dalla filosofia risposte definitive a tali domande» (FR 5). 64 Cf. P. Gisel – P. Evrard (a cura di), La théologie en postmodernité, Labor et Fides, Genève 1996. 65 «Die Postmoderne beginnt dort, wo das Ganze aufhört» (W. Welsch, Unsere postmoderne Moderne, VCH, Weinheim 1987, 39). Caratterizzando il post-moderno come «costituzione di pluralità radicale» («Verfassung radikaler Pluralität», ivi, 4), Welsch può affermare che solo un tale pensiero può corrispondere alla verità strutturale del reale («Allein ein Denken der Pluralität vermag der Struktur des Ganzen wirklich gerecht zu werden», ivi, 63, nota 1).
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La deriva relativista, vero minimo comun denominatore di tutte queste tendenze, sottrae l’uomo alla stabilità del vero e, con essa, alla possibilità di aderire responsabilmente al vangelo;66 per questo, le istanze più radicali del post-moderno, se coerentemente sviluppate e accolte, rendono praticamente impossibile l’annunzio evangelizzatore della Chiesa.67 Infatti, la convinzione che la verità religiosa possa essere solo soggettiva o mitica, non definisce la verità in modo nuovo e creativo, ma semplicemente la distrugge; inoltre, il rischio della riduzione estetica della verità pregiudica la sua comunicabilità, operando la cesura tra giudizio logico e percezione.68 Infine, la perdita di senso escatologico non solo obbliga l’uomo a vagare come nomade nei sentieri della storia, ma provoca la ricerca di una consolazione puramente orizzontale, incapace di condurre a quella stabilità che caratterizza così a fondo il desiderio del cuore umano.69 Vorremmo leggere l’elogio papale della metafisica nella luce dell’assolutezza e della singolarità del Cristo, la fede nel quale sostiene ogni fatica, ricerca e dono di verità. Lo facciamo con le parole di un teologo, di un vescovo, oggi impegnato in prima linea nel dialogo ecumenico e nel confronto con le culture: Si tratta di capire Gesù Cristo come «pienezza del tempo», cioè comprenderlo sia nella sua singolarità storica come pure nell’universalità del suo significato, e far valere nuovamente Gesù Cristo come concretum universale […]. Espresso in termini più biblici bisogna parlare di «una volta per tutte» e della dimensione escatologica dell’evento Cristo. Rendere ciò nuovamente comprensibile nella fede di fronte alla sfida postmoderna è il compito determinante della teologia. Con questo compito sta o cade la teologia cristiana oggi.70
66 Condividiamo in pieno quanto afferma W. Kasper: «Der christliche Glaube kann sich mit dem postmodernen Verzicht auf die Frage nach der letzten Wahrheit und nach letzten, bleibend gültigen Werten in keiner Weise zufriedengeben. Die Begegnung mit der postmodernen Mentalität fordert den Christen vielmehr heraus, die Wahrheitsfrage um so energischer aufzuwerfen, Zeugnis von der im Glauben erkannten Wahrheit zu geben and sich auf das Ringen um die Wahrheit einzulassen» (W. Kasper, «Die Kirche angesichts der Herausforderung der Postmoderne», in Id., Theologie und Kirche 2, Matthias Grünewald, Mainz 1999, 258). 67 Da questo punto di vista, la Fides et ratio potrebbe allora diventare il «discorso sul metodo» del dialogo interreligioso. Così P. Henrici, «La Chiesa e la filosofia. In ascolto della “Fides et Ratio”», in Gregorianum 80(1999)4, 644. 68 «Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle verità che l’uomo era certo di avere raggiunte. La legittima pluralità di posizioni ha ceduto il posto a un indifferenziato pluralismo, fondato sull’assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato di verificare nel contesto contemporaneo» (FR 5). 69 Cf. Kasper, «Die Kirche angesichts der Herausforderung der Postmoderne», 249-264. 70 Ivi, 263. Precedentemente aveva affermato: «La discussione con il pensiero postmoderno non può essere tentata con l’aiuto di una concezione fondamentalistica della fede. Secondo l’assioma fondamentale della teologia cattolica “fides quaerens intellectum” si
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Concludendo, ricordiamo che Gianni Vattimo, in un articolo sulla Fides et ratio dall’eloquente titolo «Cristianesimo contro metafisica», considera il congedo dalla metafisica come conditio sine qua non per l’instaurarsi di un rapporto amichevole con Dio e di relazioni umane improntate dalla carità. Scrive: L’amicizia può diventare il principio, il fattore, della verità soltanto dopo che il pensiero abbia abbandonato tutte le pretese di fondazione oggettiva, universale, apodittica. Senza un’autentica apertura all’essere come evento, l’altro di Lévinas rischia sempre di essere spodestato dall’Altro con la A maiuscola.71
Il papa, al contrario, ha ribadito che solo se l’altro è affermato e custodito nella sua reale alterità, può essere vero affidarsi all’altro per ottenere se stessi. Ed è proprio per questo che l’uomo, oltre ogni dubbio e incertezza, è dotato della capacità razionale.72
6. Maestri
o testimoni ?
Ogni tentativo di ripercorrere gli sviluppi teologici di documenti ecclesiali successivi è, per sua natura, sempre esposto al rischio di letture artificiose e pregiudiziali. Ci sembra, tuttavia, che i tre documenti che, sia pur per sommi capi, abbiamo preso in esame, pur nel loro riferirsi a circostanze e interlocutori diversi, siano sempre animati dalla preoccupazione di introdurre l’uomo nel pieno possesso della sua libertà e responsabilità in ordine alla salvezza: questo fa sì che l’evangelizzazione comprenda sempre la situazione storica dell’uomo e, soprattutto, la sua cultura come originario coinvolgimento della sua libertà in ordine all’accoglienza del vangelo.
può con l’aiuto della filosofia elevare la fede alla comprensione credente. Solo per mezzo dell’assunzione teologica del pensiero filosofico, la fede può entrare in comunicazione con il pensiero del tempo. Purtroppo e troppo spesso è proprio questo coraggio per il pensiero e per la discussione teoretica che si deve rimpiangere nella teologia attuale. Nel dialogo con la postmodernità è prima di tutto al rinnovamento della metafisica conforme ai tempi che spetta un significato non certo trascurabile» (ivi, 262). 71 G. Vattimo, «Cristianesimo contro metafisica», in MicroMega (1998), 38. 72 Di contro, scrive un altro filosofo italiano, acuto e profondo: «Solo una ragione stabile è in grado di assicurare la dimostrazione dell’esistenza dell’oggetto proprio della fede teologale, l’esistenza di Dio. E solo essendo assicurata l’esistenza di Dio, prende senso la fede. Se venisse, invece, affidato alla fede, come qualcuno vorrebbe, anche l’ambito della cosiddetta “teologia naturale”, quanti punti di riferimento potrebbe esibire il credente per schivare l’accusa di farneticazione? Perché non si dovrebbe venire a pensare che la fede teologale è del tutto priva di fondamento, giacché non si può ragionevolmente argomentare intorno alla necessità dell’esistenza di un essere assoluto trascendente?» (C. Vigna, «Nota sulla ragione della fede. A proposito della “Fides et ratio”», in Id., Il frammento e l’intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere, Vita e Pensiero, Milano 2000, 113).
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Proprio nell’orizzonte dell’annuncio evangelico, la Fides et ratio non rappresenta né un’involuzione teorica né un sacrificio dell’urgenza pastorale sull’altare della tranquillità teorica, ma un documento che testimonia come l’evangelizzazione, nella comprensione cristiana, passi sempre attraverso l’uomo e le profonde domande che ne caratterizzano la natura intelligente e spirituale; la domanda sulla verità, e quindi anche sulla verità di Dio, è l’orizzonte irrinunciabile e ineludibile nel quale l’uomo coopera responsabilmente, cioè umanamente, all’accoglienza del dono divinamente elargito. Se nella Gaudium et spes la separazione tra fede e cultura sanciva quella dicotomia che sarebbe sfociata nell’umanesimo ateo, e se nella Evangelii nuntiandi la separazione tra vangelo e cultura era denunciata come particolarmente funesta per il pieno sviluppo dell’uomo e della sua verità, nella Fides et ratio quel particolare caso di separazione tra fede e cultura, che è la separazione tra fede ed esercizio della ragione derivante dalla negazione della capacità di conoscere il vero, apre la strada al nichilismo, cioè all’impossibilità che ci sia un vero e stabile interlocutore alle proprie ineliminabili attese.73 In ogni caso, si tratta sempre della morte dell’uomo a causa della soppressione di ciò che più lo caratterizza: la sua vocazione alla vita stessa di Dio. Confrontando le citazioni che la Fides et ratio fa rispettivamente della Gaudium et spes e della Evangelii nuntiandi, si nota subito un’evidente sproporzione: la costituzione conciliare vien ripresa ben sette volte rispetto all’unico richiamo alla Evangelii nuntiandi. Procedendo all’esame delle citazioni, si nota che tutte quelle della Gaudium et spes sono in maggioranza di natura contenutistica, mentre quella dell’esortazione di Paolo VI è semplicemente un’esortazione, che riprende l’espressione «evangelizzazione delle culture» come uno degli scopi fondamentali dell’evangelizzazione stessa (cf. FR 103). Della costituzione pastorale conciliare, invece, Giovanni Paolo II – oltre alla fondamentale prospettiva cristocentrica (cf. FR 18) – assume e riprende la coscienza ecclesiale che evangelizzare è offrire all’uomo la pienezza della propria umanità (cf. FR 2), l’unità distinta di ordine naturale e soprannaturale (cf. FR 9 e 53), la raccomandazione contenuta nel paragrafo n. 15 della Gaudium et spes di considerare con l’aiuto di una sana filosofia i frammenti di verità in credenze e religioni extracristiane, valutando le diverse culture come disposizione ad accogliere la divina ri-
73 Nel suo libro sul concilio, Giovanni Paolo II individua «la chiave del pensiero conciliare nella sua totalità» nella Lumen gentium, apprezzando la Gaudium et spes come il suo «più adeguato apprezzamento» (K. Wojtyła, Alle fonti del rinnovamento. Studio sull’attuazione del Concilio Vaticano II, LEV, Città del Vaticano 1981, 35). Ci sembra piuttosto unilaterale ricondurre la Fides et ratio solo e immediatamente alla Veritatis splendor, come fa B. Pottier nel suo articolo «“Fides et Ratio” dans le débat philosophique», in Nouvelle Revue Theologique 122(2000)3, 386.
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velazione (cf. FR 69-70), e, non ultimo, l’invito a coltivare un’intelligenza metafisica capace di elevarsi oltre i fenomeni (cf. FR 82). Questa evidente «sproporzione», tuttavia, non deve far concludere che la Fides et ratio si pone come superamento della Evangelii nuntiandi ma – al contrario – come prosecuzione, sulla medesima strada, dei contenuti conciliari e specialmente di quelli che, in ordine alla salvezza offerta da Dio, leggono l’uomo nella sua natura partecipativa a tale evento di grazia. Là dove l’esortazione di Paolo VI spaziava nei diversi campi d’azione della Chiesa, per richiamare la natura soprannaturale e al tempo stesso storica e incarnata della salvezza, la Fides et ratio si limita al particolare orizzonte del rapporto fede-ragione, riconducendo questo binomio all’orizzonte più ampio e originario del rapporto Dio-uomo, natura-grazia, salvezza-storia, verità-libertà. Ogni riflessione che la Chiesa compie sulla ragione è dettata, in ultima analisi, dal ricercare nell’uomo le vie verso il mistero del Verbo incarnato che, annunciato dal vangelo, è nondimeno la sorgente e il compimento della natura di ogni uomo. Per questo, contrariamente alla pregiudiziale lettura dell’enciclica come l’ennesima fatica di uno «splendido colosso dell’inattualità che cerca di recuperare il mondo al culto antico del monoteismo cattolico»,74 la Fides et ratio – sulla scorta dell’antropologia teologica del concilio – ha elaborato una riflessione tutt’altro che astratta, ma pienamente rispettosa della dimensione storica dell’uomo e della sua cultura: la rivelazione storico-salvifica di Dio all’uomo presuppone sempre l’uomo come soggetto della fede: non c’è mai una «fede in sé», ma solo una fede che viene udita, compresa, fatta propria e testimoniata dall’uomo. L’uomo in quanto uomo è così il luogo e il soggetto della fede, che deve essere co-riflettuto e co-involto in ogni affermazione di fede.75 Maestri o testimoni? Teoria o prassi? Queste erano le domande iniziali. Potremmo rispondere così: un maestro dell’uomo, un autentico esperto di umanità, proprio a causa di ciò che «insegna» non può non essere testimone, se ciò che comunica è l’uomo vero e compiuto; allo stesso modo un testimone, proprio a causa del suo «contenuto» di testimonianza, non può non essere maestro, se ciò che testimonia è l’uomo vero e compiuto.
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A. Di Gregorio, «Eclissi del Cristianesimo e trionfo di Dio», in MicroMega (2000)3,
249. 75 Scrive G. Colombo: «La mediazione fra Dio e l’uomo non è costituita dalla parola dell’uomo, ma dal Verbo che è la Parola di Dio. E questo, non solo sul piano dell’ontologia, ma anche su quello della gnoseologia perché la Parola di Dio – la rivelazione – arriva agli uomini già in forma di parola umana. La rivelazione è la Parola di Dio che assume – più rigorosamente: che crea – forma umana e quindi che porta in sé una precomprensione dell’uomo, che la rende comprensibile a tutti gli uomini. Per questo l’uomo la accoglie, perché in essa trova se stesso mentre, fuori di essa, non può trovare se stesso. E per questo la Parola di Dio è illuminante e rivelatrice: illumina l’uomo, non è illuminata dall’uomo. Di qui il valore dell’annuncio: per sé non è mai sterile, solo il rifiuto lo rende sterile» (G. Colombo, «La teologia della Gaudiun et spes e l’esercizio del magistero ecclesiastico», in Id., La ragione teologica, Glossa, Milano 1995, 290).
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La testimonianza non è la rinuncia a pensare la verità, né tantomeno la dichiarazione di inutilità della riflessione teoretica e meno ancora la scorciatoia «esistenziale», sempre più convincente delle interminabili e fredde «teorie»: è piuttosto l’evidenza che la verità non è mai teorica perché, essendo verità dell’uomo e per l’uomo, è – appunto – umana. E quindi storica, concreta ed eterna al tempo stesso.76 La testimonianza è la dimensione antropologica in cui «verum et bonum convertuntur», così come emerge con chiarezza dalla verità cristiana. La verità, che nell’annuncio cristiano è sempre verità divino-umana, cristologica e cristrocentrica, procede sempre come intima unione di vero e di buono: la verità dell’amore è la sua bontà, cioè l’efficacia della sua generosa offerta in colui che l’accoglie, così come la bontà dell’amore include sempre la conoscenza di sé come verità, poiché chi si offre alla libertà dell’altro richiede sempre di essere compreso dall’altro, prima di essere da esso accolto.77 L’accoglienza della verità manifesta sempre la sua bontà, così come la bontà istituisce, nell’atto di offrirsi, la conoscenza della propria verità.78 Non a caso, nella Fides et ratio compare un paragrafo, scritto dalla mano stessa del papa, che indica il martire come «il più genuino testimone della verità sull’esistenza» (FR 32). La menzione del martire in un documento che si occupa di ragione e di filosofia può apparire abbastanza estrinseca e artificiosa. In realtà, non si tratta né di un atto d’omaggio alla memoria di eroi della fede né di uno scadimento «devozionale» dell’andamento teoretico del testo, ma del carattere epifanico della verità: chi incontra la verità, rispetto alla quale tutte le verità sono guida e preparazione, mostra come l’adesione al vero non arricchisce semplicemente le conoscenze, ma trattiene la vita nell’orizzonte di una gioiosa, anche se sofferta, stabilità, la cui durata trascende la totalità della storia. In breve: conoscere la verità è venire generati da essa.79 Il vero è il buono: e poiché il buono è la bontà eterna, il martire non solo si manifesta
Ci sembra quindi esagerato il disaccordo espresso da G. Angelini verso il primato del theorein sul vivere; cf. «Fides et ratio. Il sapere della ragione e la sapienza», in Teologia. Rivista della facoltà teologica dell’Italia settentrionale 24(1999), 287. 77 W. Pannenberg propone una rinnovata assunzione del concetto moderno di «verità» e di ragione, se non si vuole restare chiusi nella visione scolastico-medievale. Si può osservare che la visione criticata da Pannenberg riguarda una metafisica essenzialista e logicista, non quella vivente dei trascendentali; cf. W. Pannenberg, «Gottes Vernünftigkeit. Ratzinger ist mit Hegel zu streng», in Frankfurter Allgemeine Zeitung (1.2.2000), 51. 78 È significativo che il teologo H.J. Verweyen proponga una «ermeneutica della testimonianza» proprio per presentare quelle verità che, come verità pratiche, possono essere veicolate solo nell’orizzonte della comunicazione; cf. H.J. Verweyen, «Praeambula fidei», in Lexikon für Theologie und Kirche, VIII, 481. 79 Cf. E. Barbotin, Le témoignage, Culture et Verité, Bruxelles 1995. L’opera ripubblica con qualche modifica un libro del 1964. Questo autore mette in evidenza come il messaggio neotestamentario passa per la testimonianza e indica il coinvolgimento di colui che comunica nel messaggio stesso che viene comunicato: l’esperienza fatta diviene, attraverso la testimonianza, comunicazione umana di un dono umanizzante. 76
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come vero conoscitore del vero, ma anche come uomo liberato dalla verità, capace di realizzare la storia proprio in quanto – avendola letta nella verità – sa trascenderla. Nel contesto dell’amore, la separazione-opposizione tra verità e testimonianza è essa stessa non-verità, poiché un amore teorico non esiste: se l’amore è vero, esso è sempre «pratico», cioè generatore di colui che da esso si lascia raggiungere e illuminare. Anche la Fides et ratio, quale documento magistrale, è – come tale – iscritta nell’ordine testimoniale. Perché dove vi è esercizio di verità, c’è sempre testimonianza di carità.80 La Chiesa, anche nelle sue ultime espressioni magisteriali, continua a manifestarlo.
80 Non a caso, come ricorda J. Ratzinger, verità e amore sono le categorie centrali della fede cristiana; cf. «Der angezweifelte Wahreitsanspruch. Die Krise des Christentums am Begins des dritten Jahrtausendes», in Frankfurter Allgemeine Zeitung (8.1.2000), 1-2.
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Parte quarta Area sistematica
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Lo Spirito protagonista dell’evangelizzazione
Valentino Maraldi
Si può dire che lo Spirito Santo è l’agente principale dell’evangelizzazione: è lui che spinge ad annunziare il vangelo e che nell’intimo delle coscienze fa cogliere e comprendere la parola della salvezza. Ma si può parimenti dire che egli è il termine dell’evangelizzazione: egli solo suscita la nuova creazione, l’umanità nuova a cui l’evangelizzazione deve mirare, con quella unità nella varietà che l’evangelizzazione tende a provocare nella comunità cristiana.1
Questo breve passo dell’esortazione apostolica post-sinodale Evange lii nuntiandi (1975) è particolarmente significativo per il tema che intendiamo affrontare. Si tratta di una ripresa sintetica di quanto il n. 75 ha appena esposto. In esso vediamo innanzitutto richiamato il ruolo centrale che lo Spirito Santo ricopre nell’azione evangelizzatrice della Chiesa. Lo Spirito opera su due fronti: il primo quello dell’evangelizzatore, suscitando un dinamismo d’espansione (propagatio) e imprimendo un movimento (moveat ad prae dicandum) che si dirige verso l’esterno, per raggiungere coloro ai quali va portato l’annuncio del vangelo; il secondo quello del destinatario, suscitando un dinamismo d’interiorizzazione e imprimendo un movimento
Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi sull’evangelizzazione nel mondo contemporaneo (d’ora in poi: EN) (8.12.1975), n. 75: Enchiridion Vaticanum (d’ora in poi: EV) 5/1700. Riportiamo il testo latino, utile per le considerazioni che subito faremo: «Cogi ergo inde facile potest, Spiritum Sanctum in propagatione evangelii primas agere, utpote qui et moveat ad praedicandum, et hominis intima ad excipiendum intelligendumque verbum salutis praeparet, iure pariter affirmari potest eum esse etiam finem ac terminum omnis evangelizationis; unus enim novam creationem operatur, humanitatem nempe novam, ad quam evangelizatio ipsa tendere debet per illam unitatem in varietate, ad quam praedicatio necessario provocat in communitate christiana». 1
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Valentino Maraldi
verso l’interno, affinché la parola proclamata esternamente possa essere compresa e accolta nell’interiorità dell’uomo. Con queste parole l’esortazione apostolica si fa eco di un insegnamento tradizionale a proposito dell’azione dello Spirito Santo nell’opera evangelizzatrice della Chiesa. Il passo citato invita però ad andare oltre questa visione tradizionale e richiama un’ulteriore dimensione pneumatologica dell’evangelizzazione. Lo Spirito Santo, infatti, viene presentato anche come fine e termine (finem ac terminum) dell’evangelizzazione. In tal modo si va certamente oltre una concezione esclusivamente funzionale/strumentale dell’opera dello Spirito nell’evangelizzazione, secondo la quale lo Spirito sarebbe fondamentalmente la forza soprannaturale che permette di adempiere tutto quello che è richiesto dal mandato di Cristo di annunciare il vangelo ad ogni creatura. Egli interverrebbe in funzione di questo fine, ma non avrebbe un rapporto intrinseco con il fine stesso. Secondo questo passo, invece, il risultato stesso dell’evangelizzazione è un «frutto» che porta in sé permanentemente lo Spirito e che lo manifesta. Con categorie classiche potremmo affermare che nell’opera dell’evangelizzazione lo Spirito Santo opera non solo secondo una «causalità strumentale», ma anche secondo una «causalità formale». EN 75 si ferma però a questo semplice accenno, e si accontenta di aprire una nuova prospettiva pneumatologica di fronte a quella dell’insegnamento tradizionale, senza tuttavia svilupparla. Il contenuto di questa ulteriore opera dello Spirito non viene infatti elaborato nel proseguimento del numero. Anzi, il paragrafo finale di EN 75 si conclude con un’esortazione a un’ulteriore ricerca teologica, che a questo punto risulta ancor più chiaramente comprensibile: «Il sinodo dei vescovi del 1974, che ha molto insistito sul ruolo dello Spirito Santo nell’evangelizzazione, ha espresso anche il voto che pastori e teologi […] studino meglio la natura e il modo di agire dello Spirito Santo nell’odierna evangelizzazione». Alla luce delle considerazioni fatte, il voto conclusivo di EN 75 non rimane un generico invito a elaborare una «pneumatologia dell’evangelizzazione», ma offre un orientamento alla ricerca: penso di esprimere fedelmente questo orientamento formulando il voto di EN 75 sotto forma del seguente interrogativo: come andare oltre una concezione solo funzionale dell’azione dello Spirito Santo nell’evangelizzazione? Nella prospettiva aperta da questo interrogativo si collocano le considerazioni seguenti, che devono ora prendere l’avvio da quell’insegna mento tradizionale, a cui ha voluto richiamarsi EN 75.
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Lo Spirito protagonista dell’evangelizzazione
1. Temi
tradizionali : un duplice fronte dell ’ azione dello
Spirito
Il termine «evangelizzazione» emerge con forza all’interno dei documenti magisteriali negli anni ’70,2 per indicare non semplicemente la predicazione orale del vangelo, ma quell’azione ricca e complessa della Chiesa, costituita da vari elementi,3 che si comprende come obbedienza al mandato affidato da Gesù agli apostoli e come finalizzata all’adesione degli uomini a quel regno di Dio, a quel nuovo stato di cose, a quel nuovo rapporto con Dio, a quella nuova maniera di essere, di vivere, di vivere insieme, che è stato inaugurato da Gesù Cristo. Tenendo presente questo significato ampio del termine, la duplice azione dello Spirito Santo nell’evangelizzatore e nel destinatario, così come è stata presentata dalla EN, riprende alcuni temi che possiamo ritenere «tradizionali» nella riflessione teologica.
1.1. Lo Spirito Santo nell ’ evangelizzatore L’evangelizzazione non sarà mai possibile senza l’azione dello Spirito Santo, poiché a lui si deve quella partenza e quel cammino che conducono ogni evangelizzatore verso i destinatari dell’annuncio. Secondo EN 75, questo è vero innanzitutto di colui che l’esortazione apostolica presenta come «il primo e il più grande evangelizzatore» (EN 7), Gesù Cristo. Egli è «condotto dallo Spirito» non solo nel deserto, ma anche in quel movimento di progressiva espansione geografica che caratterizza la sua predicazione. In modo analogo a quanto ha operato in Gesù, lo Spirito imprime un dinamismo di espansione alla vita della Chiesa delle origini. Il ministero degli apostoli è infatti fin dall’inizio sotto il segno dello Spirito Santo, che permette loro di comprendere le vere dimensioni della loro missione e di aprirsi ad esse: «Soltanto dopo la discesa dello Spirito Santo, nel giorno di Pentecoste gli apostoli partono verso tutte le direzioni del mondo per cominciare la grande opera dell’evangelizzazione» (EN 75). È noto come questa azione dello Spirito, come colui che imprime un «movimento centrifugo» alla Chiesa, senza il quale essa non potrebbe evangelizzare, trova le sue radici nella visione pneumatologica dell’opera lucana. Negli Atti degli apostoli, la cui pneumatologia è una prosecuzione coerente di quella del terzo vangelo, «lo Spirito Santo è essenzialmente il principio
2 Cf. M. Fini, «Evangelizzazione ed inculturazione», in E. Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione. Saggi in onore di mons. Serafino Zardoni, EDB, Bologna 1993, 149-184. 3 Cf. EN 24: EV 5/1616: «L’evangelizzazione, abbiamo detto, è un processo complesso e dagli elementi vari: rinnovamento dell’umanità, testimonianza, annuncio esplicito, adesione del cuore, ingresso nella comunità, accoglimento dei segni, iniziative di apostolato».
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Valentino Maraldi
dinamico della testimonianza che assicura l’espansione della Chiesa».4 Il segno delle lingue, che accompagna la discesa dello Spirito Santo il giorno di Pentecoste, preannuncia simbolicamente «la corsa della Parola» che in quel giorno, grazie al dono dello Spirito, conosce il suo inizio e che è destinata a diffondere il vangelo in mezzo a tutti i popoli. Anche le varie tappe di questa corsa sono segnate dall’opera dello Spirito, che di volta in volta guida la testimonianza dei discepoli fin nei particolari del loro cammino e dei loro itinerari. Luca mette in rilievo la concreta dimensione geografica di questo movimento, impresso dallo Spirito. Egli comunica la forza promessa da Gesù per adempiere il mandato missionario universale affidato ai discepoli il giorno dell’ascensione: «Avrete forza (δύναμιν) dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Lo Spirito Santo imprime dunque quella dynamis grazie alla quale l’annuncio del vangelo si apre a quelle dimensioni universali volute dallo stesso Signore risorto. Grazie alla sua forza i testimoni del Risorto partono. L’universalità del mandato richiede nell’evangelizzatore una capacità di «farsi vicino» di propria iniziativa a chi è ancora lontano. Questo dinamismo d’avvicinamento non ha però solamente una dimensione spaziale. Lo Spirito Santo non abbatte solo le distanze geografiche, ma anche barriere di altro genere. Così, la glossolalia di Pentecoste indica come questo avvicinamento nella forza dello Spirito abbatta le barriere linguistiche che allontanano gli uomini e operi il rovesciamento della dispersione e della divisione di Babele.5 Lo stesso episodio di Pentecoste è per Luca il compimento della profezia di Gl 3,1-5: lo Spirito Santo scende sopra «ogni carne»: figli e figlie, giovani e vecchi, servi e serve. L’avvicinamento operato dallo Spirito è destinato ad abbattere anche ogni genere di divisione o discriminazione dovuta all’età, al sesso, allo stato sociale.6 Nell’evangelizzatore lo Spirito Santo opera non solo imprimendo questo dinamismo d’espansione, ma anche conferendo una molteplicità di doni carismatici che sostengono l’opera evangelizzatrice. Il «carisma», infatti, come dono particolare dello Spirito consiste in una determinata «capacità operativa», grazie alla quale colui che l’ha ricevuto è abilitato a una particolare azione che ha un referente esterno. Egli è così in
4 Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, 1: Lo Spirito Santo nell’«economia». Rivelazione ed esperienza dello Spirito, Queriniana, Brescia 1981, 58. 5 Questo significato della glossolalia di Pentecoste è ricordato ad esempio nel decreto Ad gentes (7.12.1965), n. 4: EV 1/1095: «Nel giorno della pentecoste […] fu prefigurata l’unione dei popoli nella cattolicità della fede attraverso la Chiesa della nuova alleanza, che parla tutte le lingue e tutte le lingue nell’amore intende e comprende, superando così la dispersione babelica». Si vedano in nota i numerosi riferimenti patristici. Cf. Congar, Credo nello Spirito Santo, I, 59; J.D.G. Dunn, Jesús y el Espirítu. Un Estudio de la experiencia religiosa y carismática de Jesús y de los primeros cristianos, tal como aparece en el Nuevo Testamento, Segretariado Trinitario, Salamanca 1981, 244-250. 6 Cf. D. Trakatellis, «The Holy Spirit and Mission: Basic aspects in the New Testament», in Credo in Spiritum Sanctum. Atti del Congresso teologico internazionale di pneu matologia, 2 voll., LEV, Città del Vaticano 1983, 829-837, in particolare 836.
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grado di uscire da se stesso e di raggiungere l’altro attraverso la concretezza di quell’azione resa possibile dal dono dello Spirito. Quello che è il movimento di espansione impresso dallo Spirito, grazie ai carismi che lui stesso dona, non rimane allora solo un avvicinamento spaziale, ma diviene trasmissione di un contenuto particolare. La vicinanza non rimane solamente un essere uno accanto all’altro, ma permette una vera comunicazione di beni tra le persone. Anche se il termine «carisma» nel Nuovo Testamento è di uso quasi esclusivamente paolino,7 la realtà, indicata dal termine, di un dono particolare dello Spirito in vista di un’azione all’interno della Chiesa, è presente anche nell’opera lucana, con la particolarità però di evidenziare il rapporto dei doni dello Spirito col «dinamismo d’espansione» dell’evangelizzazione. Il dono della «glossolalia» del giorno di Pentecoste, a cui abbiamo accennato, rientra tra questi carismi. Ma in modo particolare risalta nel racconto di Atti il dono della «profezia». Alcuni di questi «profeti» sembrano avere un ruolo itinerante (At 11,27), altri invece esercitano il loro dono in modo stabile presso le riunioni cultuali della comunità (At 13,1s; 21,9).8 Il loro compito principale doveva essere quello di spiegare le Scritture, in modo particolare gli oracoli degli antichi profeti. In tal modo colui che riceve questa capacità operativa dallo Spirito di Dio è unito al Primo evangelizzatore, che, risorto dai morti, ha aperto gli occhi alla comprensione delle Scritture (cf. Lc 24,27). Grazie al dono dello Spirito l’opera evangelizzatrice della comunità cristiana non solo porta avanti la stessa evangelizzazione di Gesù, ma in un qualche modo rende presente l’azione del Risorto nella vita della Chiesa. Accanto ai profeti vengono menzionati i «dottori», tra i quali è annoverato lo stesso Paolo (13,1). A questo dono dello Spirito corrisponde l’azione dell’insegnamento (cf. At 11,26; 15,35; 18,11; 20,20; 28,31). Nel caso particolare di Paolo egli viene presentato ripetutamente come colui che insegna la parola di Dio, diffondendola ovunque (cf. 21,28). Ancora una volta siamo di fronte a un’azione che permette un’espansione dinamica della parola del vangelo. L’abbondantissima riflessione patristica, sia occidentale che orientale, certamente anche per il fatto di essersi sviluppata in modo decisivo contro la negazione macedoniana della divinità dello Spirito,9 ha dato maggior rilievo alla sua azione di santificazione nella vita personale del creden-
I testi principali sono 1Cor 12–14; Rm 12,6-8; Ef 4,7-11. Cf. A. Vanhoye, I carismi nel Nuovo Testamento, PIB, Roma 1990. 8 Cf. Dunn, Jesús y el Espirítu, 278-285. 9 Contro il subordinazionismo estremo degli ariani e dei macedoniani, la grande Chiesa afferma l’unità e l’uguaglianza nella divinità dello Spirito con il Padre e il Figlio a partire dalla sua azione nell’economia della salvezza, così come è testimoniata dalla Scrittura. Cf. Atanasio, Lettera a Serapione I,20,7; I,24,3 (Collana di testi patristici 55), Città Nuova, Roma 1986, 78 e 86; Sources chrétiennes (SCh) 15,119.126. Cf. J. Wolinski, «La pneumatologie des Pères grecs avant le Concile de Costantinople I», in Credo in Spiritum Sanctum, 127-162. 7
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te,10 e meno alle dimensioni tipicamente lucane dello Spirito come forza dell’evangelizzazione e come fonte di carismi che «abilitano» all’annuncio della Parola. Tuttavia è profondamente significativo come la Divinum illud di Leone XIII, prima enciclica interamente dedicata allo Spirito Santo, proprio citando un padre della Chiesa – san Giovanni Crisostomo –, non trascuri di ricordare il giorno di Pentecoste come inizio di un movi mento d’espansione, che spinge gli apostoli a comunicare agli uomini la verità del vangelo. L’enciclica vede nel battesimo di Gesù la prefigurazione del dono dello Spirito fatto al corpo di Cristo che è la Chiesa. Come attraverso l’unzione dello Spirito Santo l’umanità di Cristo è stata riempita di ogni carisma e di tutti i tesori della scienza e della sapienza, così il giorno di Pentecoste «apostoli de monte descenderunt […] non tabulas lapideas in manibus portantes, sicut Moyses, sed Spiritum in mente circum ferentes, et thesaurum quemdam ac fontem dogmatum et charismatum effundentes».11 In questa breve citazione è presente sia l’idea di movi mento dinamico in vista dell’annuncio, impresso dallo Spirito (de monte descenderunt), sia quella che lo Spirito è la persona divina che fornisce i diversi doni di conoscenza necessari agli annunciatori per portare agli uomini la verità del vangelo o della «dottrina divina», come preferisce esprimersi l’enciclica. Questo breve passo è significativo non solo come esempio di una ricca tradizione patristica sui carismi donati dallo Spirito in ordine all’evangelizzazione,12 ma anche di una comprensione sempre maggiormente «funzionale» della presenza dello Spirito nella vita della Chiesa. Questo non solo per il fatto che san Giovanni Crisostomo può essere considerato testimone dell’affermarsi di una certa «standardizzazione» dei carismi nella vita della Chiesa, come doni concessi solo in vista di funzioni istituzionalizzate e previamente delimitate.13 Anche il testo dell’enciclica, infatti, presenta principalmente l’opera dello Spirito come
10 Cf. L. Mori, «La divinità dello Spirito Santo in S. Gregorio di Nissa. Le operazioni divine – La santificazione in particolare», in Credo in Spiritum Sanctum, 163-180. 11 Leone XIII, enciclica Divinum illud (9.5.1897), in ASS 29(1896-97), 644-658, in particolare 649. 12 Mi piace esemplificare con un grande padre della tradizione latina, Gregorio Magno. Nei suoi Dialoghi parla del carisma di predicazione concesso dallo Spirito al monaco Equizio, che suscitò l’invidia e le lamentele di diversi prelati vicini al pontefice, tanto da provocare un’inchiesta e la citazione del monaco a Roma. La missione dell’inviato papale non sortì però l’esito auspicato dagli invidiosi, visto che il pontefice venne avvertito in sogno dell’errore che stava compiendo recando disturbo all’uomo di Dio. Nel racconto gregoriano è fra l’altro interessante la sottolineatura del movimento dinamico impresso dallo Spirito a Equizio, il quale, malvestito e cavalcando il peggiore giumento del suo monastero, si aggirava «per ecclesias, per castra, per uicos, per singulorum quoque fidelium domos» (Dial. 1,4,10; SCh 260,46). Cf. V. Recchia, «Gregorio Magno: Lo Spirito nella vita della Chiesa», in S. Felici (a cura di), Spirito Santo e catechesi patristica, LAS, Roma 1983, 155-194. 13 Cf. K. McDonnell – G.T. Montague, Iniziazione cristiana e battesimo nello Spirito Santo. Testimonianze dei primi otto secoli, Dehoniane, Roma 1993. È interessante ricordare la separazione che san Giovanni Crisostomo ritiene di dover fare fra l’esperienza carismatica della Chiesa delle origini e quella del suo tempo, visto che nel suo commento alla Prima Corinzi, a proposito dei capitoli che parlano dei carismi, faceva questa osservazione: «Il
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funzionalizzata a una formulazione inerrante dei dogmi della Chiesa.14 Egli concede a coloro che portano avanti la missione salvifica della Chiesa – sono solo i vescovi a essere espressamente nominati – quella forza (virtus) e quell’aiuto (auxilium) che permettono di formulare una dottrina conforme alla verità divina.15
1.2. Lo Spirito Santo nel destinatario
L’opera di evangelizzazione della Chiesa non si potrebbe mai attuare senza l’azione dello Spirito Santo, poiché è lui che agisce nell’intimo di chi ascolta l’annuncio del vangelo. Il movimento dinamico verso l’esterno dell’evangelizzatore resterebbe inefficace, se non fosse accompagnato da un dinamismo d’interiorizzazione, che apre l’interiorità dell’uomo all’accoglienza della buona novella: «È lui [lo Spirito Santo] che spiega ai fedeli il significato profondo dell’insegnamento di Gesù e del suo mistero. È lui che, oggi come agli inizi della Chiesa, opera in ogni evangelizzatore che si lasci possedere e condurre da lui, che gli suggerisce le parole che da solo non saprebbe trovare, predisponendo nello stesso tempo l’animo di chi ascolta perché sia aperto ad accogliere la buona novella e il regno annunziato» (EN 75). L’azione dello Spirito Santo nell’interiorità, concomitante all’annuncio esterno della Parola, può essere pure ritenuta un tema tradizionale, che si è raccolto soprattutto attorno a due designazioni dello Spirito Santo: egli è «maestro interiore» e «luce» delle menti. In un passo di sant’Agostino, nel suo commento alla Prima lettera di san Giovanni, il tema del «maestro interiore» trova una sua prima elaborazione, che eserciterà grande influsso sulla tradizione successiva. Commentando 1Gv 2,27: «Voi non avete necessità che qualcuno vi istruisca, perché la sua unzione vi istruisce su tutto», Agostino evidenzia una vera e propria sinergia fra l’azione esteriore del predicatore, da sola insufficiente ad ammaestrare nella fede, e l’azione interiore dello Spirito: Il suono delle nostre parole percuote le orecchie, ma il vero maestro sta dentro. Non crediate di poter apprendere qualcosa da un uomo. Noi possiamo esortare con lo strepito della voce, ma se dentro non v’è chi insegna, inutile diviene il nostro strepito. […] Per quel che mi compete, io ho parlato a tutti; ma
passo tutto intero è molto oscuro. Questa oscurità proviene dalla nostra ignoranza di ciò che aveva luogo allora, e non accade più ai nostri giorni» (Hom. 29,12,1: PG 61,239). 14 Cf. ASS 29(1896-97), 649: «[Spiritus] veritatem impertit ac largitur Ecclesiae, auxilio praesentissimo providens, ut ipsa ne ulli unquam errori obnoxia sit». 15 Per un’analisi dettagliata della pneumatologia della Divinum illud in rapporto alla concezione della rivelazione divina si veda V. Maraldi, Lo Spirito e la Sposa. Il ruolo eccle siale dello Spirito Santo dal Vaticano I alla Lumen gentium del Vaticano II, Piemme, Casale Monferrato 1997, 80-109.
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Le cose che insegna lo Spirito non sono materialmente altre rispetto a quelle trasmesse attraverso lo «strepito» esterno che percuote l’orecchio. La sua opera non è quella di aggiungere altri insegnamenti, ma piuttosto di permettere quell’accoglienza della fede, che sola può far sì che la parola seminata porti frutto. «Ecco ciò che vi diciamo: noi quando piantiamo e irrighiamo istruendovi con la nostra parola, non siamo niente; è Dio che procura la crescita, è la sua unzione che di tutto vi istruisce».17 Possiamo aggiungere che questo tema del «maestro interiore» costituisce anche un autentico approfondimento della pneumatologia del quarto vangelo, che ha un suo momento culminante nei «cinque detti sul Paraclito» del discorso d’addio di Gesù.18 L’azione dello «Spirito di verità, che guiderà alla verità tutta intera» (Gv 16,13), non consiste in un completamento contenutistico delle cose rivelate da Gesù, ma nel suscitare quella comprensione di fede che fa vedere nelle parole e nelle opere di Gesù la rivelazione della gloria del Padre e del suo amore salvifico verso il mondo, e fa così entrare, attraverso la fede, nel mistero della persona di Gesù. Il dinamismo d’interiorizzazione suscitato dallo Spirito opera un movimento di «introduzione»: si viene introdotti nello spazio dell’amore di Dio dal quale ci si riconosce raggiunti attraverso «la carne» del Figlio unigenito. L’introduzione nella verità tutta intera consiste dunque innanzitutto nel partecipare al dinamismo proprio dell’amore di Dio, nel quale ora si dimora e si vive, e che solo concede la conoscenza di Dio, che nessun ammaestramento semplicemente umano o solo intellettuale potrebbe mai concedere: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4,8).19 Un’immagine a cui la tradizione è ricorsa per esprimere l’azione dello Spirito Santo nell’interiorità dell’uomo è inoltre quella della «luce». Pensiamo ad esempio alla sequenza di Pentecoste: «O lux beatissima, reple cordis intima, tuorum fidelium». Anche questo simbolo della luce suggerisce quell’azione dello Spirito che suscita la fede permettendo alla Parola di scendere nell’intimo del cuore umano, in quella profondità della
16 Agostino, In Io. Ep. Tr. 3,13, in Opere di sant’Agostino, Città Nuova, Roma 1968, XXIV, 1706. Come esempio di ripresa successiva delle riflessioni agostiniane, con lo stesso raffronto fra esterno e interno si veda Gregorio Magno, Hom. XXX in Ev. 3, in Opere di san Gregorio Magno, Città Nuova, Roma 1994, II, 384: «Nisi idem Spiritus cordi adsit audientis otiosus est sermo doctoris. Nemo ergo docenti homini tribuat quod ex ore docentis intelligit, quia nisi intus sit qui doceat, doctoris lingua exterius in vacuum laborat». Quest’azione interiore dello Spirito concomitante all’annuncio esterno della Parola diviene caratteristico della pneumatologia sviluppata in campo protestante; cf. M. Thurian, «La pneumatologie réformée», in Credo in Spiritum Sanctum, 687-694. 17 Agostino, In Io. Ep. Tr. 3,13. 18 Cf. G. Ferraro, Lo Spirito e Cristo nel Vangelo di Giovanni, Paideia, Brescia 1984, in particolare 251-267; Id., «Lo Spirito della Verità nel Vangelo di Giovanni», in Parola Spirito e Vita (1981)4, 130-141. 19 Cf. H.U. von Balthasar, Lo Spirito della verità. Teologica III, Jaca Book, Milano 1992, 64.
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coscienza dove la Parola può essere autenticamente compresa e accolta. Infatti, come noi non vediamo mai la luce in se stessa, ma sempre e solo nei contorni e nella forma degli oggetti da essa illuminati; come la luce rimane in sé non vista, ma grazie a lei vediamo ogni cosa, così lo Spirito Santo illumina la mente e il cuore, permettendoci di vedere Gesù con gli «occhi della fede», di riconoscere in lui il Verbo fatto carne e di contemplare la sua gloria. Anche il simbolo della luce esprime un movimento dinamico, che interiorizza la «figura» del Cristo. Lo Spirito porta a noi il Figlio, senza trattenerci presso di sé, rimanendo in un certo modo sconosciuto, non visto, come accade alla luce nella visione degli oggetti. Possiamo citare un bel passo di san Basilio: Come il Padre si vede nel Figlio, così il Figlio si vede nello Spirito […] è dunque certamente impossibile vedere l’immagine del Dio invisibile, se non nella luce dello Spirito. Per chi vede l’immagine, è impossibile separare la luce dall’immagine. Quella che è la causa del tuo vedere, deve essere da te vista insieme alle cose che percepisci. Allo stesso modo per l’illuminazione dello Spirito Santo vediamo lo splendore della gloria di Dio.20
1.3. Quale
rapporto tra i due dinamismi ?
I temi tradizionali, a cui rimanda la presentazione dell’azione dello Spirito nell’evangelizzazione in EN 75, presentano dunque un duplice fronte sul quale agisce lo Spirito, nell’evangelizzatore e nel destinatario. I due versanti della sua azione sono chiaramente correlati l’uno all’altro, tuttavia quello che colpisce è come lo Spirito Santo susciti due dinamismi rispettivamente contrapposti: verso l’esterno sul versante dell’evangelizzatore, verso l’interno su quello del destinatario. Visto che è sempre l’unico e medesimo Spirito ad agire in modo concomitante su questo duplice fronte, sorge la domanda se la correlazione non sia più profonda. Se ci soffermiamo solo sugli atti soggettivi (del soggetto umano) che lo Spirito Santo permette di compiere – partire, predicare, profetare, insegnare da una parte e accogliere, comprendere dall’altra – rimaniamo nell’orizzonte di una comprensione funzionale dello Spirito, come forza divina che mette in grado di compiere determinati atti superiori alle forze umane, e la correlazione consisterà tutt’al più nel fatto che un atto è condizione previa di possibilità per un altro atto. Questo è il tipo di correlazione che – ad esempio – Agostino mette in evidenza fra l’azione di percuotere i timpani dell’uditore, e poi l’atto successivo di comprensione che quest’ultimo potrà compiere. Andare oltre una comprensione funzionale dell’azione
20 Basilio, De Spiritu Sancto 26,64: PG 32,186. Cf. H.U. von Balthasar, «Lo sconosciuto al di là del Verbo», in Id., Saggi teologici, 5: Spiritus Creator, Morcelliana, Brescia 21983, 96: «Questo Spirito […] non vuole essere visto, ma essere occhio veggente della grazia in noi, e poco lo preoccupa che noi preghiamo rivolgendoci a lui, purché soltanto preghiamo con lui: Abbà, Padre […]. Egli è la luce, che non si può vedere se non sull’oggetto illuminato».
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dello Spirito Santo nell’evangelizzazione significherà allora non fermarsi allo Spirito come forza concessa dall’alto per compiere un determinato atto soggettivo, ma arrivare a considerare nello stesso tempo il Donatore del dono, lo stesso Spirito, persona divina, che dona se stesso agli uomini, e non solo delle «cose spirituali» o delle «capacità straordinarie». Solo se comprendiamo in che senso egli sia sempre uno e lo stesso nell’evangelizzatore e nel destinatario, potremo comprendere come egli sia presente non solo nel compiersi dell’evangelizzazione in actu exercito, come forza divina che sostiene i protagonisti, ma anche come egli sia «il termine dell’evangelizzazione», permanentemente presente fra gli uomini grazie all’evangelizzazione che lui stesso sostiene, e non solo strumento transeunte per la sua attuazione.
2. Gesù
evangelizzatore : dalla funzione all ’ incontro personale
Per andare oltre una concezione esclusivamente e ristrettamente funzionale dell’opera dello Spirito Santo nell’evangelizzazione seguiamo il metodo, suggerito dalla Evangelii nuntiandi, di comprendere l’azione evangelizzatrice della Chiesa a partire da «Gesù primo evangelizzatore».21 È interessante innanzitutto che la stessa esortazione apostolica presenti l’evangelizzazione di Gesù all’interno di un’inclusione pneumatologica: si rileva all’inizio l’importanza fondamentale della testimonianza che Gesù dà di se stesso, come colui che è consacrato con l’unzione dello Spirito Santo per evangelizzare i poveri (EN 6; cf. Lc 4,18; Is 61,1), e si conclude sintetizzando tutta l’esposizione su Gesù evangelizzatore con queste parole: «Così egli compie la rivelazione, completandola e confermandola con ogni manifestazione che fa di sé medesimo, mediante le parole e le opere, i segni e i miracoli, e più particolarmente mediante la sua morte, la sua risurrezione e l’invio dello Spirito di Verità» (EN 16). L’opera di evangelizzazione, iniziata nello Spirito, si conclude con il dono dello Spirito, grazie al quale ha ora inizio la proclamazione della buona novella da parte della Chiesa. Per comprendere la dimensione pneumatologica, che segna tutta l’evangelizzazione compiuta da Gesù, dobbiamo fare attenzione proprio a quello che sempre accade in tutti i vari e molteplici aspetti dell’evangelizzazione di Gesù, ricordati nell’esposizione precedente, e che fanno di essa una realtà complessa. Quello che sempre accade è una «rivelazione», che consiste in una «manifestazione di sé medesimo». Questa frase conclusiva e sintetica deve gettare luce sulla nostra comprensione dell’opera evangelizzatrice di Gesù, unto dallo Spi-
21 Secondo questo metodo è impostato il primo capitolo «Dal Cristo evangelizzatore alla Chiesa evangelizzatrice» (EN 6-16).
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rito Santo. Gesù ha evangelizzato non semplicemente adempiendo materialmente la sua missione, insegnando cioè ai suoi uditori determinate cose e compiendo per essi anche dei gesti che confermavano i suoi insegnamenti. Tutti gli atti da lui compiuti non sono semplicemente finalizzati alla comunicazione ai suoi interlocutori di questo o quel contenuto, di questo o quel bene spirituale o materiale, ma alla manifestazione della sua stessa persona. L’evangelizzazione di Gesù è finalizzata a quella che possiamo chiamare «comunicazione personale». In ciò che Gesù dice, in ciò che Gesù opera, Gesù è presente non solo come quel soggetto che è in grado di compiere quei determinati atti e che possiede quelle determinate capacità e qualità necessarie per compierli. In altre parole, egli non è presente solo come quel soggetto, particolarmente dotato, che è in grado di assolvere quella determinata funzione. Gesù non compie il suo mandato assolvendo delle funzioni. Egli non è solo un soggetto che pone delle azioni, ma nello stesso tempo egli es-pone se stesso. Le sue azioni non sono solo adempimento di una funzione rivelatrice, in modo tale che il suo io personale sia coinvolto solo come colui che accetta di comunicare certe cose agli uomini. Piuttosto, quelle azioni sono così profondamente «abitate» dalla sua persona, in modo tale che egli non sia solo soggetto che comunica, ma anche la persona che viene comunicata in quelle azioni. Chi incontra Gesù non incontra solo un personaggio con delle capacità straordinarie, ma in quegli atti è piuttosto l’io di Gesù che si espone, che si apre rendendosi un tu incontrabile per l’altro. Nell’evangelizzazione di Gesù avviene dunque un passaggio dal soggetto, come centro di quelle facoltà e capacità operative grazie alle quali egli compie determinati atti, alla persona, come colei che può donarsi dentro un’azione e rendersi un tu incontrabile dall’io dell’altro. Questa dimensione di «comunicazione personale», che caratterizza le parole e le opere di Gesù, fa sì che l’evangelizzazione di Gesù non possa essere considerata adeguatamente solo dal punto di vista dei suoi contenuti, ma nello stesso tempo anche da quello della sua «determinazione modale». È essenziale prendere in considerazione il modo in cui Gesù ha adempiuto il suo mandato.
2.1. Evangelizzazione nell’agape Il primo aspetto è la determinazione agapica. Sotto questo punto bisogna notare come nell’operare stesso di Gesù si compia quella novità che egli esigeva per i suoi interlocutori, e che trova il suo punto critico nel rapporto con la Legge. Esiste un’interpretazione farisaica della Legge, all’interno della quale l’osservanza materiale del precetto diventa il criterio della comunione con Dio, la quale così è destinata a essere maggiore o minore in base alle «cose fatte», in termini paolini in base alle «opere». Queste opere saranno tanto più numerose quanto maggiori saranno le capacità possedute e quanto più varie saranno le «funzioni» e i ruoli religiosi che si possono ricoprire. La comunione con Dio trova così il suo perno di sostegno nell’uomo considerato come soggetto, che si auto-pone in una
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serie di «atti religiosi». Mentre il fine è quello della comunione con Dio, la Legge rende l’uomo inevitabilmente interessato a se stesso e ripiegato sulle proprie capacità soggettive, le quali a questo punto saranno inevitabilmente paragonate con le capacità altrui e forse anche in conflitto con esse, nella misura in cui l’esercizio di una determinata funzione soggettiva sarà materialmente ostacolato dall’esercizio della funzione altrui. La Legge, che ha per fine la comunione con Dio, mette l’uomo al centro della propria esistenza, proprio laddove dovrebbe stare Dio. Egli è sotto la Legge e schiavo di essa. L’uomo è inevitabilmente incatenato a se stesso e come tale non libero. Nel suo interesse per se stesso, mentre osserva la Legge, dimentica Dio ed è nel peccato (cf. Rm 3,9). La novità che si compie nell’agire di Gesù si può comprendere alla luce della parabola del buon samaritano (Lc 10,29-37), che non a caso è associata al doppio comandamento dell’amore come essenza della Legge. Quello che è tipico del samaritano è avere compassione di colui che era incappato nei briganti. Non fu in nome di una funzione o di un ruolo che egli si avvicinò, ma in nome dell’amore. Il levita e il sacerdote, invece, sono così preoccupati delle proprie funzioni religiose da vedere in questo imprevisto solo un rischio da evitare. Nella sua com-passione il samaritano mette se stesso al posto dell’altro. Le sue viscere di misericordia (v. 33: ἐσπλαγχνίσθη) divengono accoglienti per la situazione di quell’uomo, tanto da diventare in un qualche modo una cosa sola con lui. L’altro appartiene al suo stesso essere. A questo punto la libertà con la quale costruisce il suo futuro non potrà non essere la libertà che costruisce il futuro dell’altro. È questo ciò che accade quando l’io dell’uomo si apre verso il tu dell’altro in quel movimento di incontro che chiamiamo amore. È in questa prossimità operata dall’amore che si compie tutta la Legge. Nella misura in cui Gesù stesso è rappresentato nel buon samaritano, riconosciamo in lui l’uomo che aveva compassione (cf. Mt 9,36; 14,14; Mc 6,34: ἐσπλαγχνίσθη) della folla e siamo portati a cogliere il tratto tipico del modo in cui Gesù compie la missione che il Padre gli ha affidato nella profonda libertà che solo l’amore può donare. Solo dove c’è questa libertà colui che compie un’azione può essere con tutto se stesso dentro quella stessa azione, e dunque solo dove c’è libertà può sussistere un’azione che divenga dono di se stesso a un altro. I vangeli ci spingono anche a comprendere la fonte della libertà di Gesù nell’intimità del suo rapporto con il Padre. Dobbiamo infatti ricordare come per Gesù il Padre, dal quale riceve le parole che dice e le opere che compie, è il Padre dal quale egli riceve se stesso.22 Il suo io è tutto dal tu del Padre e tutto per il tu del Padre. Il Padre è in lui ed egli è nel Padre in modo così profondo che, nel momento in cui compie quello che il Padre gli ha detto, egli non è un «funzionario» che obbedisce alle regole prestabilite, ma è il Figlio che in tal modo dà corpo alla sua identità più originaria. Concretizzare il mandato del Padre è per lui concretizzare se
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Cf. Maraldi, Lo Spirito e la Sposa, 262-265.
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stesso e l’amore che lo unisce al Padre. È dunque questa libertà dell’amo re la prima determinazione modale dell’azione evangelizzatrice di Gesù. Essa ci offre una comprensione dell’affermazione di EN 16, secondo la quale l’evangelizzatore Gesù, unto dallo Spirito, nelle sue parole e nelle sue opere «manifesta sé medesimo».
2.2. Evangelizzazione nella
kenosi
La stessa parabola del buon samaritano ci permette di cogliere la seconda «determinazione modale» dell’evangelizzazione di Gesù. La com-passione del samaritano consiste in uno svuotamento che fa spazio dentro di sé al tu dell’altro e che rende possibile un’autentica con-divisione della sua stessa situazione di sofferenza. Il movimento esterno del samaritano, che si avvicina a colui che giace immobile dall’altra parte della strada, è accompagnato e sostenuto da un movimento verso l’interno, in cui la situazione dell’altro è com-presa e accolta nella sfera del proprio io. Secondo l’inno cristologico di Fil 2,5-11, lo svuotamento connota tutta l’opera di Gesù, sino al momento culminante della croce. Dobbiamo fare particolare attenzione al carattere di con-divisione o, meglio ancora, di comunione, della kenosi. Non si tratta di un abbassamento solipsistico, ma di un atto relazionale che, nello svuotamento del proprio io, diventa piena accoglienza del tu dell’altro, possibilità della comunione con lui. Questa dimensione comunionale della kenosi viene evidenziata dalla Lettera agli Ebrei, dove «annunciare» (cf. 2,10) per Gesù non si può affatto ridurre a comunicare una notizia o delle informazioni, ma consiste nel diventare nostro fratello, con-dividendo tutto ciò che è nostro, fino a gustare la nostra stessa morte (cf. 2,11-17). Solo così egli «può venire in nostro aiuto» (2,18). Egli porta a noi qualcosa, proprio perché ha preso quello che è nostro. Questo non va inteso tanto nella logica di uno scambio commerciale, come se avvenisse un passaggio di proprietà e alla fine avessimo, grazie all’evangelizzazione di Cristo, semplicemente un Figlio di Dio che ha delle proprietà umane affinché l’uomo possa avere delle proprietà divine. Rimarremmo così in una prospettiva solamente funzionale, incentrata sulla capacità del soggetto. La kenosi invece ci apre l’orizzonte della persona: egli viene in nostro aiuto, non in primo luogo perché l’uomo ha ora delle proprietà e delle capacità nuove, ma innanzitutto perché l’uomo non è più nella solitudine. Così può cominciare per l’uomo un lasciarsi «condurre alla salvezza» (2,10). La novità che sorge è quella di una comunione personale. La kenosi è voluta in vista della comunione, la quale si dà solo nella reciprocità: il tu dell’uomo accolto dall’io di Cristo e il tu di Cristo accolto dall’io dell’uomo. A questo punto è possibile una comprensione più profonda dell’opera dello Spirito Santo in Gesù evangelizzatore: lo Spirito non è semplicemente colui che concede capacità particolari in vista del ministero pubblico e che dà la pienezza dei carismi a Gesù. Egli non è semplicemente, con i suoi doni, all’origine di quelle azioni che permettono un dinamismo di
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espansione verso l’esterno, col quale si può raggiungere – attraverso diverse operazioni – il destinatario dell’annuncio. Mentre tutti questi aspetti vanno riconosciuti, egli si rivela come la persona-Amore, che unisce le persone nella comunione. Mentre dona capacità di molteplici operazioni e di azioni esterne, egli opera nell’intimo affinché questo esodo ex-statico verso l’esterno sia un fare spazio all’altro proprio nel momento in cui ci si avvicina a lui. Quindi l’avvicinarsi è contemporaneamente un accogliere. Avviene quella es-posizione della persona che attraverso il dono di sé rende possibile la risposta di dono dell’altro. L’es-posizione agapico-kenotica del Primo evangelizzatore, unto dallo Spirito Santo, cerca la risposta libera dell’uomo, perché solo con questa risposta si realizza quella comunione che è cercata dall’amore. Lo Spirito Santo è dunque l’Amore-comunione, che crea l’unità nella diversità. Egli lo è nella vita della santissima Trinità, come dono di sé reciprocamente offerto e accolto dal Padre e dal Figlio: «Lo Spirito è il reciproco dono di sé ipostatizzato, nel quale il Padre e il Figlio si ritrovano uniti uscendo da se stessi in un movimento d’apertura senza limite, di totale effusione, di assoluta trasparenza recettivo-oblativa, di “kenosi” intesa come radicale estasi d’amore».23 Egli lo è nell’economia salvifica, come persona divina, che inviata nel mondo fa traboccare ad extra sulle creature il sovrabbondante dono d’amore che unisce eternamente il Padre e il Figlio. Nello Spirito Santo il movimento ex-statico d’amore, il reciproco uscire fuori di sé del Padre e del Figlio, trabocca nel libero uscire fuori di sé di Dio verso le creature, per unire nella comunione coloro fra i quali esiste un’infinita differenza qualitativa, il Creatore e le creature. Questa comunione raggiunge il suo punto più alto nell’incarnazione del Figlio «de Spiritu Sancto ex Maria virgine». Nella «pienezza dei tempi» Dio si dona al mondo in una maniera insuperabile e definitiva e rende indissolubile il vincolo della comunione fra Dio e l’uomo.24 Tuttavia la comunione che si realizza nell’unità ontologica teandrica di Gesù Cristo, in cui il Figlio assume la diversità e la finitudine della creatura umana, è in vista dell’evangelizzazione di Gesù. Ora il dinamismo ex-statico dell’incarnazione diviene dinamismo che raggiunge in opere e parole il singolo uomo, affinché possa sorgere quella risposta libera dell’uomo, con la quale soltanto si realizza la comunione fra Dio e l’uomo. Nello Spirito Santo l’evangelizzazione di Gesù unisce, al dinamismo verso l’esterno, il dinamismo verso l’interno: il farsi vicino attraverso le opere e le parole vive di quel fare spazio accogliente all’altro, che solo rende possibile e promuove la sua autentica libertà. Lo Spirito Santo dunque opera non solo la kenosi dell’incarnazione, ma approfondisce
23 C. Nigro, «Paradosso e Kenosi dello Spirito», in Credo in Spiritum Sanctum, 947-964, qui 956. 24 Per un approfondimento di questa dimensione ex-statica della missione dello Spirito Santo in rapporto al mandato missionario della Chiesa, si veda anche V. Maraldi, «La missione personale dello Spirito Santo nella storia», in Ad Gentes 1(1997), 35-60.
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Lo Spirito protagonista dell’evangelizzazione
quest’ultima nella kenosi dell’evangelizzazione, affinché grazie ad essa possa realizzarsi nella libertà la comunione tra Dio e l’uomo.25
3. Alcune conseguenze per l ’ opera di evangelizzazione della C hiesa Quale rapporto allora fra i due dinamismi dello Spirito? Si tratta innanzitutto di un rapporto di compenetrazione nell’opera dell’evangelizzatore. Questo tipo di rapporto ha una conseguenza fondamentale per l’evangelizzazione: come l’evangelizzazione di Gesù, grazie all’opera dello Spirito, è in vista della promozione della libertà dell’uomo, così deve essere dell’opera evangelizzatrice della Chiesa. Alla luce della riflessione cristologica che abbiamo condotto, questo può accadere nella misura in cui l’evangelizzazione della Chiesa presta attenzione alla determinazione modale, secondo la quale essa si attua. Nel suo dinamismo verso l’e sterno, sostenuto dai carismi ricevuti, l’evangelizzatore deve essere docile a quello Spirito che suscita un dinamismo verso l’interno, aprendolo nella sua interiorità all’accoglienza del destinatario, con tutto quel carico di storia vissuta che non è programmabile a priori e che può risultare spiacevole o vulnerante. Quando l’evangelizzatore si apre a questo duplice dinamismo dello Spirito, egli per primo si muove in quella libertà che Cristo ci ha donato. Essa esercita una funzione critica nei confronti di una concezione di libertà che mette al centro il soggetto con le sue capacità operative, e che porta a quell’individualismo in cui l’esercizio della libertà altrui diviene limite alla propria libertà. La libertà del soggetto è quella che finisce dove inizia la libertà dell’altro, ma essa è condannata anche a essere la libertà nella quale «l’inferno sono gli altri». La libertà dello Spirito, donataci da Cristo, ha invece un carattere paradossale. Sulla scorta della riflessione condotta da Paolo in Galati 5, la libertà cristiana può esser compresa adeguatamente solo richiamando alla mente la sua radice: la fede che ha unito il credente al mistero pasquale di Cristo. Nella fede l’uomo «crocifigge la propria carne» (v. 24), attua cioè se stesso nella negazione della propria autoaffermazione, accogliendosi attivamente e ricevendosi passivamente totalmente dall’amore del Padre. Sapendosi totalmente ricevuto nell’amore da Dio, l’uomo è liberato dalla paura in
25 Cf. Nigro, «Paradosso e Kenosi dello Spirito», 953: «Dio, assumendo nella kenosi la realtà umana libera e finita, soggetta al dolore e alla morte, liberamente “trattiene” la sua potenza, o, meglio, la “esprime” come potenza che suscita e accoglie il diverso nella comunione con sé. La potenza dello Spirito ci viene così rivelata-donata come la “debolezza onnipotente”, la forza dell’Amore umile, disarmato e disarmante, che realizza l’unità nella diversità: non facendo violenza all’altro, ma rispettando e promuovendo, fino all’estremo, la sua libertà finita. La finitudine umana viene superata, “salvata” dalla chiusura in se stessa – il peccato e le sue conseguenze».
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cui lo getta la necessità dell’auto-affermazione, che lo porta a vedere nel tu dell’altro uomo una possibile minaccia del suo io e una possibile delimitazione delle sue possibilità di auto-produzione. Il tu umano, da oggetto di invidia (v. 26) e da minaccia che deve essere attaccata e divorata (v. 15), diventa un tu col quale si è ora capaci di entrare in una relazione di amore, accogliendolo cioè fino in fondo così come si riconosce se stessi pienamente accolti e ricevuti dall’amore misericordioso del Padre. In questa inedita capacità di entrare in relazione d’amore, il vincolo con il tu dell’altro non è quello di un giogo opprimente, ma quello di un servizio in cui si «realizza» la libertà donata nella relazione di fede che, unendoci in Cristo al Padre, ci costituisce persone libere. Il carattere paradossale della libertà cristiana proviene, dunque, dalla sua stessa radice che è la fede pasquale: il credente è libero facendosi per amore servo. Egli trova se stesso perdendosi nell’amore per l’altro. La libertà, mentre è attuazione della propria individualità, coincide col diventare persona di comunione. La libertà dell’evangelizzatore promuove così dal di dentro la libertà del destinatario. Sarà infatti del tutto contraria a quel dinamismo dello Spirito, che lo avvicina al destinatario, ogni forma di imposizione, di violenza fisica, psichica o morale, di opera di convincimento attraverso la paura per conseguenze negative o attraverso il richiamo a promesse di vantaggi materiali. Quando invece l’evangelizzatore si muove nella docilità al duplice dinamismo dello Spirito, la sua opera tende a far sorgere quella comunione interpersonale che nasce dall’accoglimento del diverso, dalla capacità di donare se stesso all’altro come altro, e che negherebbe se stessa strumentalizzando l’altro o riducendolo a un caso di un copione prestabilito. Da questa conseguenza principale ne derivano altre, che vanno brevemente richiamate. 1. Nella misura in cui il dinamismo verso l’interno apre la persona dell’evangelizzatore a un’accoglienza del destinatario con tutto il suo carico non programmabile di storia vissuta nel passato e di autodeterminazione libera nel presente, è necessaria una relativizzazione delle «tecniche» dell’evangelizzazione. L’evangelizzazione non potrà mai essere ridotta a un’opera strategica nella quale il destinatario venga ridotto a un individuo omologato alla massa. Siccome le strategie funzionano tanto meglio quanto minori sono le «incognite», il rischio è che l’evangelizzatore senta solo come un elemento disturbante tutto ciò che è imprevisto, e forse proprio per questo autenticamente «personale», tendendo a «scansarlo», come un ostacolo per la propria autorealizzazione soggettiva, e non piuttosto ad «ascoltarlo», come luogo in cui può agire lo Spirito, che soffia dove vuole.26 È in questo senso che va accolta la preziosa considerazione di EN 75.
26 L’enciclica Redemptoris missio, sulla permanente validità del mandato missionario (7.12.1990), offre degli sviluppi preziosi in questa direzione soprattutto nel suo capitolo III, dedicato allo Spirito «Protagonista» (Prima agens) della missione. Si veda particolarmente il
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Lo Spirito protagonista dell’evangelizzazione Le tecniche dell’evangelizzazione sono buone, ma neppure le più perfette tra di esse potrebbero sostituire l’azione discreta dello Spirito. Anche la preparazione più raffinata dell’evangelizzatore non opera nulla senza di lui. Senza di lui la dialettica più convincente è impotente sullo spirito degli uomini. Senza di lui, i più elaborati schemi a base sociologica, o psicologica, si rivelano vuoti o privi di valore.27
2. Lo Spirito Santo non è solo l’agente principale dell’evangelizzazione, ma ne è anche il fine e il termine. Quando, infatti, la capacità di «agire», che lui suscita con i suoi doni, viene attuata secondo la determinazione agapico-kenotica che è stata propria del Primo evangelizzatore, l’Unto dallo Spirito, allora l’evangelizzazione diviene quell’uscire da se stessi in un movimento di apertura accogliente e donativa che «manifesta» lo Spirito. Quando il movimento ex-statico dell’evangelizzazione opera quella comunione nel nome di Cristo alla quale aspira, allora lo Spirito trova nella comunità dei credenti come un’oggettivazione, che lo manifesta. Dove i credenti vivono nella comunione e nell’unità, quello Spirito che è agente dell’evangelizzazione ne costituisce ora anche il termine: egli è permanentemente presente in quella unità come vincolo della comunione ecclesiale.28 Così la Chiesa, raccolta dallo Spirito, diventa «sacramento dello Spirito»:29 «Ubi enim Ecclesia, ibi et Spiritus Dei, et ubi Spiritus Dei, ibi Ecclesia et omnis gratia».30 3. Il rapporto tra i due dinamismi dello Spirito è di compenetrazione anche per quanto riguarda il destinatario. Lo Spirito non opera solo secondo un dinamismo d’interiorizzazione, che apre l’interiorità dell’uomo all’accoglienza della buona novella. Lo stesso Spirito apre in modo concomitante verso l’esterno. Egli fa sì che l’accoglienza della Parola nell’interiorità sia accompagnata da un movimento che rimanda verso l’esterno, a tutto il vissuto umano del destinatario, a tutta quella rete di rapporti interpersonali e istituzionali in cui si muove la sua esistenza. La «luce vera»,
n. 29: EV 12/606. Cf. T. Federici, «Lo Spirito Santo protagonista della missione (RM 21-30)», in Cristo Chiesa Missione, Urbaniana University Press, Roma 1992, 107-151; G. Canobbio, «Lo Spirito Santo e la missione», in G. Colzani (a cura di), Verso una nuova età dello Spirito. Filosofia-Teologia-Movimenti, Messaggero, Padova 1997, 276-314. 27 Importante al riguardo anche EN 46 sull’indispensabile contatto personale nell’evan gelizzazione. 28 In sintonia con questa comprensione dello scopo dell’evangelizzazione è la Redem ptoris missio, n. 23: EV 12/596, che presenta così lo scopo della missione: «Scopo ultimo della missione è di far partecipare della comunione che esiste tra il Padre e il Figlio: i discepoli devono vivere l’unità tra loro, rimanendo nel Padre e nel Figlio, perché il mondo conosca e creda (cf. Gv 17,21-23). È questo un significativo testo missionario, il quale fa capire che si è missionari prima di tutto per ciò che si è, come Chiesa che vive profondamente l’unità dell’amore, prima di esserlo per ciò che si dice o si fa». 29 Cf. W. Kasper, «La chiesa come sacramento dello Spirito», in W. Kasper – G. Sauter, La chiesa luogo dello Spirito. Linee di ecclesiologia pneumatologica, Queriniana, Brescia 1980, 69-98; M. Kehl, «Kirche-Sakrament des Geistes», in W. Kasper (a cura di), Gegenwart des Geistes. Aspekte der Pneumatologie heute, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1979, 155-180. 30 Ireneo, Contro le eresie III,24,1.
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che egli ha accolto nella fede, non illumina semplicemente il suo cuore. È la luce vera, perché «fa vero» tutto quanto illumina, non solo l’uomo, ma con lui tutta la realtà in cui l’uomo vive. Anche questo ritorno verso l’esterno è una conseguenza di un’evangelizzazione che promuove la libertà e che sa accogliere e valorizzare l’imprevisto. Una tale evangelizzazione, infine, costituisce la base per una vera inculturazione, in cui la verità del vangelo si mostra capace di andare sempre oltre le dimensioni in cui l’evangelizzatore l’ha espressa e vissuta, per trovare nel vissuto rinnovato del destinatario una nuova fecondità.31
31 Cf. Fini, «Evangelizzazione ed inculturazione», specialmente la parte finale: «Conclusione: nella forza dello Spirito, in una perenne Pentecoste», 181-184.
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Ecclesiologia, cristologia ed evangelizzazione
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Ecclesiologia e cristologia sono strettamente connesse e si influenzano a vicenda: dall’immagine di Cristo che viene scelta scaturiscono i tratti della Chiesa e, viceversa, la cristologia è spesso funzionale all’impostazione ecclesiologica adottata.1 Poiché non esiste un accostamento «neutro» a nessun testo, e quindi neppure a quelli rivelati, è ovvio che una particolare cristologia/ecclesiologia risponderà in buona parte alle istanze pre-giudiziali (nel senso positivo inteso dall’ermeneutica contemporanea) di chi la traccia; istanze che – essendo la (buona) teologia una scienza al servizio dei fedeli – sono influenzate dalla situazione pastorale. Spunta così il terzo sostantivo contenuto nel titolo di questo studio: evangelizzazione. Una cristologia/ecclesiologia elaborata a partire dalle istanze dell’evangelizzazione comporta sottolineature peculiari, diverse da quelle di una cristologia/ecclesiologia elaborata, supponiamo, in situazioni di cristianità o al contrario di contrapposizione al mondo, di persecuzione o di diaspora. L’intento del presente studio è di presentare i tratti essenziali di un’ecclesiologia che risponda alle istanze dell’evangelizzazione: per questo, a una breve introduzione che rileva i temi fondamentali connessi alla teologia dell’evangelizzazione dal concilio a oggi, fa seguito una prima parte, nella quale vengono presentate alcune tendenze ecclesiologiche insuf-
1 Cf. G. Sigismondi, «La versione ecclesiologica delle controversie cristologiche», in F. Chica – S. Panizzolo – H. Wagner, Ecclesia Tertii Millenni Advenientis. Omaggio al p. Angel Antón nel suo 70° compleanno, Piemme, Casale Monferrato 1997, 289-296. Sigismondi individua nell’ecclesiologia attuale alcuni rischi, che segnala mettendo in parallelo sei eresie cristologiche con altrettante «derive» ecclesiologiche: adozianismo, docetismo, apollinarismo, nestorianesimo, monofisismo, monotelismo.
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ficienti rispetto alle istanze dell’evangelizzazione, e una seconda parte, nella quale viene tracciata un’ecclesiologia che – sulla base delle grandi acquisizioni conciliari – si lasci provocare dai temi dell’evangelizzazione; in questo contesto emergerà la fecondità di un’ecclesiologia a partire dalla risurrezione di Gesù, come «lente» attraverso la quale leggere l’intera cristologia e, conseguentemente, evento attorno al quale costruire l’ecclesiologia. In altre parole: l’istanza dell’evangelizzazione invita a ricercare la fondazione della Chiesa in una cristologia integrale, ossia una cristologia trinitaria che assuma la risurrezione di Gesù come punto focale e criterio ermeneutico dell’intero evento cristiano.
1. Teologia
dell ’ evangelizzazione dal concilio a oggi
L’odierna teologia dell’evangelizzazione si può ricondurre, semplificando alquanto, a tre successivi contesti. Il primo ruota attorno al Vaticano II: il clima extraecclesiale è segnato ancora da forti ideologie atee, spesso militanti; all’interno della Chiesa il problema fondamentale è il rapporto tra gerarchia e laici, con la basilare domanda sull’identità di entrambi, che conduce a quella ancora più basilare sull’identità della Chiesa. Il concilio risponde all’ateismo senza cadere nella facile tentazione di una condanna globale del mondo e prospettando, anzi, un’apertura che giunge a parlare di dialogo, sulle orme dell’enciclica programmatica di Paolo VI Ecclesiam suam;2 se il Vaticano II può aprire la Chiesa al mondo, è perché prima ha tracciato una chiara identità della Chiesa, risolvendo la scissione tra semplici battezzati e ministri ordinati attraverso la teologia del «popolo di Dio». La teologia della missione rappresenta, come emergerà nel seguito di questo studio, l’apporto più rilevante del concilio all’ecclesiologia: ancora non si parlava molto di «evangelizzazione»,3 ma già se ne ponevano le basi. Un quadro così ampio è stato reso possibile dal recupero del fondamento trinitario della Chiesa (cf. LG 2-4): non è più solo il riferimento all’istituzione da parte di Gesù, ma è la collocazione del popolo di Dio nell’intera storia di salvezza che legittima la Chiesa. L’ecclesiologia trinitaria, che ha il suo centro nell’evento di Cristo, offre al concilio la possibilità di tracciare un’articolata teologia della missione (cf. AG 2-4).
Paolo VI, lettera enciclica Ecclesiam suam (6.8.1964): EV 2/163-210. Il sostantivo «evangelizatio» e il verbo «evangelizo», comunque, ricorrono diverse volte nei testi conciliari, specialmente nel decreto sull’attività missionaria, sebbene non ancora con quella frequenza e pregnanza che assumeranno nel decennio successivo; cf. ad es. Lumen gentium (LG) 35 (EV 1/375.377); Christus Dominus (CD) 6 (EV 1/583); Presbyterorum ordinis (PO) 5 (EV 1/1253); Ad gentes (AG) 27 (EV 1/1186); 29 (EV 1/1197); 36 (EV 1/1212); 38 (EV 1/1220-1226); 39 (EV 1/1228); 40 (EV 1/1283). 2
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Ecclesiologia, cristologia ed evangelizzazione
Il secondo periodo ruota attorno al sinodo del 1974, dedicato al l’evangelizzazione e sfociato nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi che Paolo VI promulgò l’anno successivo.4 Il contesto culturale, almeno in Occidente, era mutato rispetto a dieci anni prima. L’ateismo militante stava perdendo sempre più terreno, in favore di quella secolarizzazione che, pur essendo in atto da parecchio tempo, assumeva caratteristiche più sfumate e insidiose: le innumerevoli analisi hanno denunciato il passaggio da un ateismo prevalentemente teorico a uno pratico, dall’opposizione a Dio all’indifferenza nei suoi confronti, dalla contestazione aperta al rifiuto di porre la domanda religiosa. Il problema ecclesiologico fondamentale, poi, non era più tanto la scissione tra laici e ministri, quanto la scissione tra la Chiesa e Cristo. Lo stesso Paolo VI lamentava il fatto di cristiani «che desiderano amare il Cristo, ma non la Chiesa, ascoltare il Cristo, ma non la Chiesa, appartenere al Cristo, ma al di fuori della Chiesa».5 L’urgenza che il concilio aveva espresso con la parola «missione» andava quindi precisata: per questo si affermò il termine «evangelizzazione»; non solo i più lontani, i classici destinatari dell’attività missionaria della Chiesa, ma gli stessi cristiani, gli stessi cattolici, hanno bisogno di ripartire dall’ascolto del vangelo, che si incentra sull’evento di incarnazione, morte e risurrezione di Cristo.6 Nell’ultimo ventennio, infine, si è imposto un altro aspetto dell’evangelizzazione: quello del rapporto con le altre religioni. Se già il Vaticano II aveva offerto alcuni orientamenti fondamentali (specialmente nei grandi testi di Lumen gentium, n. 16 e di Nostra aetate), e se EN vi aveva pure accennato, è però solo dall’inizio degli anni ’80 che il tema viene alla ribalta nella teologia cristiana, a motivo soprattutto di un certo relativismo che deriva da una nuova mutazione del contesto culturale. Oggi, infatti, la secolarizzazione sta scivolando verso un suo frutto impazzito, che viene chiamato post-modernità, dove sembrano prevalere l’irrazionalismo, l’autogestione del sacro, il collage religioso. Anche tra molti cristiani matura
Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi sull’evangelizzazione nel mondo contemporaneo (d’ora in poi: EN) (8.12.1985): EV 5/1588-1716. 5 Vale la pena di riportare il contesto di queste affermazioni: «C’è dunque un legame profondo tra Cristo, la Chiesa e l’evangelizzazione. Durante questo tempo della Chiesa è lei che ha il mandato di evangelizzare. Questo mandato non si adempie senza di essa, né, e ancora meno, contro di essa. È bene accennare a questo, quando avviene di sentire, nei nostri tempi, non senza dolore, persone che vogliamo credere bene intenzionate ma certamente disorientate nel loro spirito, ripetere che esse desiderano amare il Cristo, ma non la Chiesa, ascoltare il Cristo, ma non la Chiesa, appartenere al Cristo, ma al di fuori della Chiesa. L’assurdo di questa dicotomia appare nettamente in queste parole del vangelo: “Chi respinge voi, respinge me”. E come si può voler amare il Cristo senza amare la Chiesa, se la più bella testimonianza resa a Cristo è quella di san Paolo: “Egli ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei”?» (EN 16: EV 5/1608). 6 «L’evangelizzazione conterrà sempre – anche come base, centro e insieme vertice del suo dinamismo – una chiara proclamazione che, in Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, morto e risuscitato, la salvezza è offerta ad ogni uomo, come dono di grazia e di misericordia di Dio stesso» (EN 27: EV 5/1619). 4
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l’idea che in fondo Dio è sempre lo stesso, da qualunque prospettiva religiosa venga osservato; il problema ecclesiologico più grande, allora, non è più neppure la scissione tra la Chiesa e Cristo, bensì quella ancora più radicale tra Cristo e Dio. Le teologie funzionali a questa visione propongono una netta distinzione tra il Logos e Gesù: il Logos è la forza divina che ispira ciascuna religione e Gesù è una sola delle tante possibili concretizzazioni storiche del Logos.7 Il moltiplicarsi non solo di studi teologici,8 ma anche di documenti magisteriali9 che affrontano questo aspetto, dà un’idea della sua importanza nella Chiesa attuale. In relazione a questo nuovo tornante del dibattito, la teologia dell’evangelizzazione precisa ulteriormente il suo metodo consacrando definitivamente il binomio dialogo-annuncio, ormai comunemente adottato dal magistero e dalla teologia: dove, ancora una volta, una cristologia pasquale-trinitaria diventa imprescindibile, pena la rinuncia al dialogo (quando non esiste apertura trinitaria-pneumatologica) o all’annuncio (quando viene taciuta la peculiarità del mistero pasquale).10 Se la rapidissima lettura appena proposta – pur nella sua schematicità – è plausibile, ne risultano indicazioni importanti per un’ecclesiologia plasmata dall’istanza dell’evangelizzazione: prima di trarle, è però opportuno soffermarci su alcune ecclesiologie che, non avendo potuto assumere in gran parte queste istanze, si mostrano oggi inadeguate: avremo il riscontro più puntuale della loro incompletezza verificando, per ciascuna di esse, il fondamento cristologico; ogni volta, infatti, che una determinata ecclesiologia fa a meno o può fare a meno del mistero pasquale-trinitario, risulterà inadeguata.
È d’obbligo citare almeno R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, Cittadella, Assisi 1988. Sono diventati legione, negli ultimi anni, i libri e gli articoli su questo argomento. Ricordiamo solo, per il ventaglio di posizioni che presentano, due volumi che propongono tesi contrapposte: J. Hick – P.F. Knitter (a cura di), L’unicità cristiana: un mito?; G. D’Costa (a cura di), La teologia pluralista delle religioni: un mito?, entrambi editi da Cittadella, Assisi 1994. 9 Cf. Segretariato per i non cristiani, documento L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni. Riflessioni e orientamenti su dialogo e missione (4.9.1984): EV 9/988-1031; Giovanni Paolo II, lettera enciclica Redemptoris missio sulla permanente validità del mandato missionario (7.12.1990): EV 12/547-732; Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso – Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, istruzione Dialogo e annuncio. Riflessioni e orientamenti sull’annuncio del vangelo e il dialogo interreligioso (19.5.1991): EV 13/287-386; cf. anche il recente documento dell’autorevole Commissione teologica internazionale, Il cristianesimo e le religioni, approvato il 20 settembre 1996, in Il Regno-documenti 42(1997), 75-89. 10 Da una parte infatti il dialogo per la Chiesa «ha la sua fonte, il suo modello e il suo fine nella Trinità santa», e dall’altra l’annuncio è testimonianza «di Cristo crocifisso e risorto» (Commissione teologica internazionale, Il cristianesimo e le religioni, n. 114). 7 8
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2. Ecclesiologie
insufficienti
L’ecclesiologia occidentale, fino alle soglie del Vaticano II, è stata investita dalla stessa aria di emarginazione della risurrezione di Gesù che spirava nella cristologia.11 Dal XIV secolo – quando prende forma un vero e proprio trattato di ecclesiologia – fino al concilio, la risurrezione di Gesù non trova un posto significativo nella dottrina sulla Chiesa, che viene invece strutturata attorno ai concetti di societas perfecta, inaequalis, hierarchica, con un riferimento piuttosto esteriore all’immagine del corpo e delle membra. Siamo ben lontani dalla concezione patristica, sostanzialmente mantenuta nell’Oriente cristiano, che S. Harkianakis sintetizza nell’espressione «Chiesa della risurrezione»12 e che ruota attorno al mistero eucaristico, presenza del Crocifisso-Risorto nella Chiesa. Si passa perciò da un’ecclesiologia eucaristica a un’ecclesiologia societaria-corporativa, il cui esito ultimo è dato dalle diverse concezioni che, attraverso l’illuminismo fino ai nostri giorni, caratterizzano alcuni modi oggi parziali ma diffusi di pensare la Chiesa. Proprio da questi modi oggi diffusi prendiamo spunto, per ricostruirne brevemente le radici teologiche: emergerà che essi, anche quando suppongono un qualche collegamento tra Cristo e la Chiesa, hanno in comune una trascuratezza quasi completa nei confronti della risurrezione di Gesù e quindi del mistero trinitario. La matrice comune di questi modi parziali di intendere la Chiesa sembra la concezione corporativista, che ha le sue radici nella progressiva dimenticanza del fondamento eucaristico della Chiesa a partire dall’inizio del secondo millennio: a questo aspetto dedicheremo perciò una certa attenzione; dall’idea corporativista dipende quell’impostazione visibilista che caratterizza l’ecclesiologia specialmente dal XVI alla prima metà del XX secolo e che si riflette, o per traduzione o per reazione, in varie e contrastanti idee di Chiesa.
11 Scrive con ottima sintesi F.X. Durrwell: «In tempi a noi molto vicini, la teologia trattava della redenzione di Gesù Cristo, senza menzionare la risurrezione. Ci si limitava a valorizzare la portata apologetica dell’avvenimento pasquale, ma nessuno pensava di scrutarlo in sé, quale insondabile mistero di salvezza. L’opera redentrice di Cristo era concepita come portata a compimento mediante il ciclo della sua incarnazione, vita e morte in croce. Si insisteva sul carattere riparatorio, satisfattorio e meritorio della vita e della morte e, per lo più, ci si fermava qui. Se a volte si menzionava la risurrezione, più che per darle un posto nel mistero della nostra salvezza, era per additare in essa il trionfo personale di Cristo sui suoi nemici, e quasi una rivalsa gloriosa sugli anni di umiliazioni redentrici. La risurrezione di Cristo, insomma, era privata del suo profondo significato, annunziato dai primi messaggeri del cristianesimo e confinata ai margini dell’economia della nostra restaurazione. Mancanza deplorevole, per cui la teologia della redenzione risultava impoverita» (F.X. Durrwell, La risurrezione di Gesù mistero di salvezza, Paoline, Roma 1965, 7). 12 S. Harkianakis, «Der auferstandene Christus und die Kirche», in Pro Oriente (1975), 180.
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2.1. Dalla Chiesa «corpo» alla C hiesa « corporazione » Più che una delle concezioni ecclesiologiche parziali, quella corporativista è l’alveo nel quale scorre la maggior parte delle visioni parziali di Chiesa. Non solo i non credenti e non praticanti, ma anche i cristiani ferventi hanno in molti casi questa idea di Chiesa: un gruppo di persone che, come ogni altro gruppo umano, si dà una struttura, una gerarchia, dei mezzi e dei fini; con l’unica differenza che la Chiesa si ispira ai principi evangelici anziché ad altri. Non è questa l’idea di Chiesa che domina nei padri e negli autori altomedievali, nei quali rimane viva la consapevolezza, centrale nel Nuovo Testamento, che la Chiesa è frutto della Pasqua: consapevolezza mediata dal riferimento eucaristico. La Chiesa è il frutto dell’eucaristia, nella quale Cristo vivo è presente con la potenza della sua croce. È la graduale svalutazione del fondamento eucaristico della Chiesa – dall’inizio del secondo millennio – la principale causa della concezione ecclesiologica societaria, dove la risurrezione di Gesù non trova più spazio. H. de Lubac ha da tempo illustrato questa vicenda studiando il concetto di corpo mistico.13 Oggi, quando parliamo di «corpo di Cristo» senza altra specificazione, intendiamo l’eucaristia; se dobbiamo parlare della Chiesa, aggiungiamo magari «mistico». Così l’eucaristia è per noi il corpus Christi (verum) e la Chiesa il corpus Christi mysticum. Ed è diffusa l’idea che la designazione della Chiesa come «corpo mistico di Cristo» risalga a san Paolo o a qualche antico autore: invece non ve n’è traccia nell’antichità. Nei padri, infatti, si trovano tante espressioni riferite alla Chiesa (corpo di Cristo; corpo giunto a pienezza in Cristo; corpo della Chiesa; corpo della Chiesa di Cristo; corpo perfetto; corpo spirituale; corpo intero dei santi di Cristo; grande e prezioso corpo di Cristo; corpo comune della Chiesa; generale corpus; corpus ecclesiasticum; corpo sacro; corpus intellectuale; ecc.), ma mai corpus mysticum. Qualche volta ci si avvicina all’aggettivo «mistico»: e tuttavia non v’è scrittore dell’antichità cristiana o dell’alto medioevo nel quale sia stata trovata fino a oggi l’espressione «corpo mistico» per designare la Chiesa. Nel primo millennio, dunque, «corpo di Cristo» si dice invariabilmente della Chiesa e dell’eucaristia. Come san Paolo, così anche i teologi antichi non si preoccupano di aggiungere altre specificazioni per distinguere i due aspetti del «corpo di Cristo». Se una differenza c’era, era che parlare di corpo di Cristo senza alcun’altra specificazione «indicava più spesso la Chiesa che non l’eucaristia».14 Quando si voleva aggiungere una spe-
13 H. de Lubac, Corpus Mysticum. L’Eucarestia e la Chiesa nel Medioevo, Jaca Book, Milano 1982. 14 Cf. ivi, 107. Se il corpo di Cristo eucaristico viene specificato con diversi aggettivi, il corpo di Cristo ecclesiale viene semplicemente detto «corpus Christi», «dominicum corpus», «corpus quod est Ecclesia», «corpus scilicet Ecclesia».
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cificazione per distinguerli, si aggiungeva «mistico» all’eucaristia. Qua e là si trova infatti attestata, nel primo millennio, la dizione «corpo mistico di Cristo» applicata all’eucaristia: «mistico», cioè mystice significatum sotto le specie del pane e del vino.15 E se un aggettivo veniva riservato anche alla Chiesa, era l’aggettivo «vero»: vero perché non nascosto da segni materiali, vivente, attivo. Dunque: «corpus Christi mysticum» era l’eucaristia e «corpus Christi» semplicemente16 o «corpus Christi verum» la Chiesa. È l’uso linguistico esattamente inverso rispetto a quello oggi comune. Il progressivo distacco tra Chiesa ed eucaristia ha introdotto il correlativo passaggio da un’ecclesiologia eucaristica a una corporativista; la Chiesa, a partire dal basso medioevo, veniva intesa sì come «corpo», ma in un senso sempre meno eucaristico e sempre più corporativista: organismo formato da membra che, avendo come capo visibile il papa, svolgono funzioni diverse e complementari.
2.2. La Chiesa come «ceto visibile» e « società perfetta » L’ecclesiologia corporativista, che ha sottaciuto la sua radice eucaristica e quindi la presenza di Cristo vivente nella Chiesa, si trasforma gradualmente, nella teologia della Controriforma, in una vera e propria ecclesiologia visibilista; fu la reazione all’invisibilismo dei luterani (al quale tra poco accenneremo) che portò i cattolici, per reazione, a sottolineare la visibilità della Chiesa ancora più di quanto non facesse l’ecclesiologia corporativista. È divenuto consueto considerare il grande teologo gesuita Roberto Bellarmino come punto di partenza, o almeno di condensazione, dell’ecclesiologia visibilista. Polemizzando con i protestanti sulla natura
15 «Mistico» indicava infatti, nella tradizione cristiana antica, tutto ciò che aveva attinenza col mistero dell’altare. Non c’è dunque da meravigliarsi se l’aggettivo viene presto applicato all’eucaristia. Tutto ciò che riguarda la messa – preghiere, gesti, oggetti, oblazione, sacrificio, elementi, ecc. – viene qualificato «mistico». Perciò «parlare di “corpo mistico” a proposito della eucaristia significava semplicemente conformarsi alla logica del linguaggio più tradizionale, più universale» (ivi, 66). 16 Osserva p. de Lubac: nell’antichità cristiana «l’accento sulla Chiesa vien messo con tale forza che quando, in una trattazione sul mistero eucaristico, appare nudo e crudo il termine “corpo di Cristo”, esso designa spesso non l’eucaristia ma la Chiesa» (ivi, 33): così ad es. Ildefonso di Toledo († 669), che non nega – ovviamente – la presenza reale di Cristo nell’eucaristia, ma non se ne forma una concezione indipendente dalla Chiesa; è al frutto spirituale dell’eucaristia che va subito l’attenzione dei padri e degli antichi scrittori cristiani. Non che siano «simbolisti» nel senso di mettere in questione il realismo eucaristico: «Il pane consacrato è veramente, per essi, il corpo di Cristo […], però quel che anzitutto vedono in questo pane è la figura della Chiesa» (ivi, 37). Il sacramentum panis li porta immediatamente, come già per Paolo, al mysterium unitatis Ecclesiae. La parola «comunione» può significare non solo la recezione del sacramento, ma – più profondamente – il rapporto che si crea tra chi lo recepisce. «Il corpus per eccellenza, quello al quale si pensa in primo luogo, quello che non è necessario designare in altro modo, è sempre la Chiesa» (ivi, 45).
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della Chiesa, egli sostenne che essa è «coetus hominum ita visibilis et palpabilis ut est coetus populi Romani vel regnum Galiae aut Res Publica Venetorum».17 Sebbene Bellarmino non intendesse esaurire in questa frase la sua ecclesiologia, essa venne costantemente citata a sostegno dell’ecclesiologia visibilista fino alla metà del nostro secolo, mentre si dimenticò la dimensione più globale e misterica della Chiesa. La concezione bellarminiana venne tradotta, a partire dall’Ottocento, nella formulazione: Chiesa come società perfetta ineguale-gerarchica.18 Nei trattati di ecclesiologia, fino a Pio XII escluso, si partiva generalmente dal concetto filosofico di società per applicarlo alla Chiesa e per concludere che essa è società perfetta. Il manuale di apologetica di E. Carretti, professore di dogmatica al Seminario regionale di Bologna, rappresenta un’ottima sintesi di questa impostazione: partendo dalla descrizione di società come massa di uomini mossa da un medesimo fine e dagli stessi mezzi e retta da un’autorità, ne riscontra puntualmente gli elementi nella Chiesa così come Gesù l’ha fondata;19 anzi, poiché non ha bisogno per sostenersi di altre società – e in primo luogo dello Stato – ma è originale, autonoma e ha in sé per diritto divino tutti i poteri necessari al conseguimento del suo fine soprannaturale, essa è società perfetta.20 Riecheggia qui la proposizione 19 del Sillabo di Pio IX (1864), nella quale è condannata la tesi secondo cui «la Chiesa non è una società vera e perfetta, del tutto libera, e non si regge su leggi proprie e costanti, ricevute dal suo divino fondatore; spetta invece al potere civile stabilire quali siano i diritti della Chiesa ed entro quali limiti la Chiesa li possa esercitare».21 Una volta tralasciato il fondamento eucaristico, la reazione all’invisibilismo protestante prima e alle temute invadenze dello Stato sulla Chiesa poi, ha ristretto le prospettive ecclesiologiche fino a sottovalutare il rapporto con il Cristo risorto e vivente e con lo Spirito Santo: per legittimare la Chiesa come società perfetta è infatti sufficiente, a rigor di logica, un Gesù puramente uomo che abbia raccolto degli apostoli i quali abbiano, a loro volta, designato dei successori; non a caso in questa prospettiva Cristo è ricordato quasi esclusivamente come il divino Fondatore della Chiesa: il riferimento cristologico è quindi ridottissimo ed esclusivamente basato sulla «istituzione» della Chiesa ad opera di Gesù. Si comprende lo smarrimento generale dei cattolici quando, dall’inizio del nostro secolo, anche da parte di esegeti e teologi appartenenti alla Chiesa di Roma si manifestava una certa simpatia verso tesi che, circolanti tra i protestanti già da alcuni decenni, mettevano in dubbio o negavano un legame tra la
R. Bellarmino, Dichiarazione più copiosa della dottrina cristiana, Colonia 1617, 1429. Cf. un’ottima sintesi in Y. Congar, «La situazione dell’ecclesiologia al tempo dell’Ecclesiam suam», relazione al Colloquio sull’«Ecclesiam suam» (Roma, 24-26 ottobre 1980), in Il Regno-documenti 26(1981), 170-177. 19 Cf. E. Carretti, La propedeutica alla Sacra Teologia ossia le basi razionali del cristianesimo, Bononia, Bologna 1927, 202-208 (§§ 92-93). 20 Cf. ivi, 208-210 (§ 94). 21 DS 2919. 17 18
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coscienza del Gesù pre-pasquale e la Chiesa, facendo risaltare invece la centralità della predicazione del Regno ad opera di Gesù. È la prospettiva che A. Loisy riassume nella notissima sentenza: «Cristo ha predicato il Regno ed è nata la Chiesa».22 Un’ecclesiologia che cercava legittimazione nel «divin Fondatore» aveva validi motivi per tenere il fiato sospeso di fronte alle ricerche storico-critiche e per avversarle con tutte le sue forze, cercando soprattutto di mostrare l’autenticità dei «loci petrini».
2.3. La Chiesa come «ente
moralizzatore »
Nel clima dell’illuminismo, che perseguiva in campo filosofico-teologico l’ideale di una religione naturale e razionale nella quale potessero riconoscersi tutti gli uomini, sorse un’impostazione ecclesiologica che si potrebbe definire didattica o moralizzatrice: alla Chiesa, cioè, veniva riconosciuta una certa legittimità a patto che si ponesse al servizio dell’educazione morale dei cittadini. Uno dei più validi esempi di questa impostazione è il libro La religione nei limiti della semplice ragione,23 che I. Kant pubblicò nel 1793. Contrapponendo la «religione statutaria» (oggi diremmo «istituzionale») alla «religione naturale» (iscritta nella ragione e nella coscienza di ciascuno), il filosofo ammette sì la necessità di una comunità visibile di fedeli, che ha il suo «fondatore» in Cristo,24 ma non considera Gesù se non come «maestro» e la Chiesa, correlativamente, se non come istitutrice universale, il cui compito consiste nel predicare le virtù, educare le coscienze alla legge naturale, moralizzare lo Stato. Gli aspetti misterici della religione (specialmente quelli liturgici) vengono riletti da Kant in questa prospettiva didattica: spogliati, perciò, di ogni riferimento soprannaturale e mantenuti solo nella misura in cui possono «insegnare» qualcosa al popolo. È ovvio che, per sostenere un’ecclesiologia di questo tipo, viva ancora oggi nella coscienza di tanti cristiani e non cristiani inclini a considerare la Chiesa come ente moralizzatore (nel bene e nel male) della società, non è affatto necessario che Gesù fosse più che un uomo: è sufficiente che fosse un maestro di verità universali. Sebbene Kant, come abbiamo visto, si riferisca a Gesù come al «fondatore» della Chiesa (in questo è debitore ai manuali di teologia), basterebbe molto meno per sostenere la sua concezione: sarebbe sufficiente che Gesù avesse inserito nella storia umana alcune idee morali universalmente valide, senza neppure pensare all’istituzione di una «comunità» che dovesse continuare a diffonderle. Gran parte del messaggio di Gesù, però – anzi, la parte più originale –, dovrebbe essere lasciata cadere: tutto ciò che rientra nella logica della croce (dono di sé, amore per i nemici, sacrificio, ecc.), che non regge alla morale «razionale», non fa parte della religione naturale. A maggior
A. Loisy, L’Évangile et l’Église, Alphonse Picard et Fils, Paris 1902, 153. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, TEA, Milano 1997. 24 Cf. ivi, 167. 22 23
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ragione, inutile dirlo, è da tralasciare il mistero pasquale-trinitario: non hanno alcuna funzione, nel pensiero religioso di Kant, né la morte e risurrezione di Gesù, né il dono dello Spirito Santo. Una variante di questa concezione è l’idea di Chiesa come ente assistenziale: anzi, buona parte della stima di cui continua a godere la Chiesa è probabilmente dovuta alla sua opera capillare di assistenza e, spesso, di supplenza dello Stato. Rilanciata nel dopo-concilio specialmente dalle tendenze più estremiste della teologia della liberazione,25 questa impostazione coglie un altro aspetto vero ma parziale della Chiesa: il suo errore è di trasformare questo aspetto nella categoria ermeneutica fondamentale dell’ecclesiologia. Il riscontro è dato, ancora una volta, dal riferimento cristologico sufficiente per legittimare una Chiesa di questo tipo: nemmeno in questa ecclesiologia il mistero pasquale ha un peso; basta un Gesù uomo, un filantropo universale, socialmente impegnato nella liberazione dei suoi contemporanei e nella restaurazione della giustizia sociale.
2.4. La Chiesa come incarnazione continua
Contrastante direttamente con le ecclesiologie precedenti è quella che considera la Chiesa come la continuazione dell’incarnazione. Reagendo all’invisibilismo protestante e al moralismo illuminista, J.A. M öhler tracciò nella Simbolica (1832) un quadro ecclesiologico che faceva leva sul Verbo incarnato. Dalla realtà dell’incarnazione discende, per Möhler, la necessità della Chiesa visibile e delle sue strutture. Di particolare densità è il brano che segue: Il motivo ultimo della visibilità della Chiesa sta nell’incarnazione del Verbo divino; se questi fosse disceso nel cuore degli uomini, senza assumere la figura di servo e senza quindi apparire in forma corporea, avrebbe fondato anche una Chiesa solo invisibile e interiore. Invece il Verbo è diventato carne, si è espresso in una maniera umana esteriormente percepibile, ha parlato da uomo a uomo, ha sofferto e agito alla maniera degli uomini per riconquistarli al regno di Dio, sì che il mezzo scelto per raggiungere questo scopo corrispose pienamente al metodo universale di insegnamento e di educazione condizionato dalla natura e dai bisogni umani. Ciò fu decisivo per la costituzione di quel mezzo, attraverso cui il Figlio di Dio voleva continuare ad agire nel mondo e per il mondo anche dopo la sua scomparsa dagli occhi di questo. Se la divinità in Cristo si era mostrata operante nel modo umano abituale, con ciò
25 Cf. Sacra congregazione per la dottrina della fede, istruzione Libertatis nuntius su alcuni aspetti della «teologia della liberazione» (6.8.1984): EV 9/866-987, in particolare dove si segnalano i pericoli di separare il pane dalla Parola (VI.3: EV 9/910), di identificare il regno di Dio con la liberazione umana (IX.3: EV 9/942), di dimenticare l’aspetto misterico e trascendente della Chiesa, ritenendola semplicemente una forza immanente alla storia (IX.4: EV 9/947) e di intendere le espressioni «Chiesa dei poveri» e «Chiesa del popolo» nel senso classista che ricevono dal marxismo (IX.9-13: EV 9/948-952).
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Ecclesiologia, cristologia ed evangelizzazione veniva indicata anche la forma in cui la sua opera sarebbe stata continuata. La predicazione della sua dottrina abbisognava ora di una mediazione umana visibile, doveva essere affidata a messaggeri visibili, docenti e educanti nella maniera abituale; uomini dovevano parlare a uomini e trattare con loro, al fine di portare ad essi la parola di Dio; e come nell’umanità tutte le cose grandi maturano solo in seno alla comunità, così anche Cristo stabilì una comunità, e la sua parola divina, la sua volontà vivificante e l’amore da lui diffuso esercitarono un influsso intrinsecamente unificatore sui suoi, sì che alla sua istituzione esteriore corrispose un influsso da lui immesso nel cuore dei credenti, ed essi formarono un’unione vitale, percepibile con gli occhi, e si poté dire: qui e qui essi sono, qui è la sua Chiesa, la sua istituzione, in cui egli continua a vivere, in cui il suo Spirito continua a operare e la parola da lui pronunciata risuona eternamente. Sotto questo profilo la Chiesa visibile è pertanto il Figlio di Dio continuamente apparente tra gli uomini in forma umana, sempre rinnovantesi ed eternamente ringiovanentesi, la sua incarnazione continua, così come a loro volta i credenti vengono detti nella Sacra Scrittura il corpo di Cristo.26
Möhler, diversamente dalla maggioranza dei cattolici, rispondeva all’impostazione luterana non semplicemente riaffermando la «visibilità» di una Chiesa-società che si ispira a Cristo come al suo Fondatore, ma recuperando la presenza attuale e perenne del Verbo incarnato nella Chiesa. Agli illuministi, poi, Möhler propose una Chiesa che è vita,27 non semplicemente «istituzione». Il riferimento cristologico nell’impostazione incarnazionista, ripresa e approfondita nel nostro secolo dalla monumentale opera di C. Journet L’Église du Verbe incarné,28 è decisamente più ampio rispetto alle impostazioni finora considerate: non è più semplicemente il Gesù uomo, ma è la persona del Verbo nelle due nature, umana e divina, che viene posta a fondamento dell’ecclesiologia. Finalmente anche la divinità di Gesù diventa essenziale per sostenere la natura della Chiesa, sebbene non sia ancora esplicitato (anche se ovviamente presupposto) il mistero pasquale. Il limite più evidente della concezione di Chiesa come incarnazione continua è di favorire quella quasi-identificazione tra Cristo e la Chiesa, che apre la strada a un’ecclesiologia trionfalistica: come se la Chiesa fosse sic et simpliciter Cristo che continua a vivere sulla terra. Quando il concilio, nel famoso passo di LG 8 sulla «non debole analogia» tra la Chiesa e il Verbo incarnato, si è rifatto a questa impostazione, ha sentito il bisogno di attenuarla («non debole analogia» è un raro concentrato di sfumature) e di integrarla, sia menzionando lo Spirito Santo accanto al Verbo incarnato, sia mettendo in evidenza che il parallelismo tra la Chiesa e Cristo consiste non tanto nella semplice natura tean drica di entrambi quanto nel fatto che in tutti e due l’elemento umano è al servizio di quello divino.
26 J.A. Möhler, Simbolica o esposizione delle antitesi dogmatiche tra cattolici e protestanti secondo i loro scritti confessionali pubblici, Jaca Book, Milano 1984, 279-280, § 36. 27 Per l’importanza di questo concetto in Möhler, cf. H. Savon, Introduzione a Johann Adam Möhler, Queriniana, Brescia 1967, 50-62. 28 Cf. C. Journet, L’Église du Verbe incarné, Desclée de Brouwer, Bourges 1962.
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2.5. La Chiesa come corpo mistico di
Cristo
Un’importante versione incarnazionista dell’ecclesiologia ruota attorno alla Mystici corporis di Pio XII (1943).29 L’enciclica, ispirandosi alla migliore ecclesiologia corporativista, supera la pura e semplice assimilazione della Chiesa a una società, e vede nel corpus Christi mysticum la formula più propria per definire o almeno descrivere la Chiesa stessa. Con il termine corpus Pio XII intende esprimere l’unità della Chiesa compaginata organicamente e gerarchicamente; la Chiesa è corpo unico, indiviso, visibile, organico (nn. 14-17), dotato di «organi vitali», che sono i sacramenti (nn. 18-19), e formato da membra determinate, i cattolici (n. 20). La Chiesa è corpus Christi: Cristo ne è il Fondatore (nn. 24-31), il Capo (nn. 32-49), il Sostentatore (nn. 50-56), il Conservatore (n. 57). Egli la sostiene sia attraverso il suo Spirito, «anima della Chiesa» (n. 55), sia con la missione dei successori degli apostoli e soprattutto del successore di Pietro: «Si trovano quindi in un pericoloso errore quelli che ritengono di poter aderire a Cristo, Capo della Chiesa, pur non aderendo fedelmente al suo Vicario in terra» (n. 39). L’attributo mysticum vuole prendere le distanze da due interpretazioni estreme di «corpo». La prima è quella organica: la Chiesa non è da concepire come un organismo biologico, un corpo fisico in cui le singole membra perderebbero il proprio valore e la propria irripetibilità (n. 59). La seconda è quella puramente morale: la Chiesa non si deve intendere come una società dove il principio di unità non sia altro che il fine comune o la comune cooperazione per raggiungerlo; in questo caso la parola «corpo» sarebbe una semplice metafora e l’unione da esso affermata sarebbe solo sociale ed esteriore (n. 60). Il concetto di corpo mistico esclude pertanto ogni opposizione fra Chiesa dell’amore e della «grazia da una parte e Chiesa dell’istituzione» e del diritto dall’altra (cf. nn. 62-67). Le due realtà, anzi, vengono identificate: la Chiesa corpo mistico di Cristo è la Chiesa cattolica: ciò ha un’evidente conseguenza sul problema dell’appartenenza alla Chiesa: per l’enciclica solo i cattolici sono reapse membri della Chiesa e, dunque, del corpo mistico di Cristo; tutti gli altri – senza distinguere tra battezzati e non battezzati – possono essere «ordinati» al corpo mistico solo mediante il votum o desiderio inconsapevole (cf. nn. 20 e 102). Questa concezione mantiene desta l’attenzione verso le mediazioni visibili, evitando di cadere nei pericoli dello spiritualismo e dell’individualismo; evidenzia il radicamento della Chiesa nella storia; e tutto ciò perché mantiene la continuità tra la Chiesa e il Verbo incarnato, sottolineando la presenza viva di Cristo nella Chiesa. I limiti più grandi consistono nella
29 Pio XII, lettera enciclica Mystici corporis sul corpo mistico di Gesù e sulla nostra unione in esso con Cristo (29.6.1943): Enchiridion delle Encicliche 6/151-260. Cf. l’approfondita ricerca di V. Maraldi, Lo Spirito e la Sposa. Il ruolo ecclesiale dello Spirito Santo dal Vaticano I alla Lumen gentium del Vaticano II, Piemme, Casale Monferrato 1997, 111-180.
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sottovalutazione della dimensione invisibile della Chiesa, della gradualità – riconosciuta poi dal Vaticano II (cf. LG 14) – dell’appartenenza ad essa, della presenza del peccato nella Chiesa e della conseguente necessità di un suo continuo rinnovamento (cf. ad es. UR 6). Alla base di tutto sta anche in questo caso il limite fondamentale: la sottolineatura unilaterale dell’incarnazione non fa sufficientemente spazio al mistero pasquale di morte e risurrezione e di conseguenza alla pneumatologia.
2.6. La Chiesa come diaspora È diffusa ancor oggi l’idea che la Chiesa debba scomparire nelle pieghe della storia e che, anzi, essa esista solo sotto la forma della diaspora. Questa visione si sposa molto bene all’individualismo contemporaneo, che esaurisce volentieri la pratica della fede in un rapporto di coscienza tra il singolo e Dio, rifuggendo da ogni mediazione istituzionale. Le radici di questa concezione, che ha avuto un certo influsso anche in anni recenti nel nostro Paese,30 si incontrano nell’area della riforma protestante. Il problema del rapporto tra Chiesa visibile e invisibile, in realtà, esiste da sempre: era uno dei motivi conduttori dell’ecclesiologia agostiniana e attraversò il medioevo sotto la questione dell’appartenenza (reale o apparente) alla Chiesa, per sfociare nelle proposte predestinazioniste di Wyclif e Hus. Ma Lutero si incaricò di raccogliere attorno a una concezione invisibilista tutto quanto era stato detto in proposito prima di lui e di strutturarlo dentro a un sistema perfettamente coerente. Egli prese avvio dall’affermazione del primato assoluto del vangelo della grazia, dalla quale fece discendere la sua ecclesiologia: gli elementi ecclesiali istituzionali potrebbero anche costituire la Chiesa del diavolo: tutto infatti dipende dal loro uso conforme o meno alla parola di Dio. Non è il ministero che giudica la dottrina, ma la dottrina che giudica il ministero; non è la Chiesa che custodisce la Parola, ma la Parola che custodisce la Chiesa.31 Reagendo contro l’invasione delle pratiche esteriori, Lutero ha voluto ristabilire l’interiorità del rapporto religioso e ha creduto necessario, per questo, rifiutare ogni mediazione visibile della salvezza; è significativo il fatto che il Riformatore non ami il termine «Chiesa» e spesso lo sostituisca con «cristianesimo»: segno di uno spostamento di accento da una designazione propriamente ecclesiologica a una puramente cristologica. La Chiesa è dunque la comunità di coloro che accolgono nella fede la vera parola di Cristo donata gratuitamente da Dio. Il primato assoluto della parola di Cristo e della fede come azione diretta di Dio nell’uomo, senza
30 Cf. il dibattito tra i sostenitori di una cultura della «presenza», della «mediazione» e della «diaspora» in B. Sorge (a cura di), Il dibattito sulla «ricomposizione» dell’area cattolica in Italia, Città Nuova, Roma 1981. 31 Cf. ad es. M. Lutero, «Secondo la Scrittura una assemblea o comunità cristiana ha il diritto e la facoltà di giudicare ogni dottrina e di chiamare, insediare e destituire i dottori», in V. Vinay (a cura di), Scritti religiosi, UTET, Torino 1967, 639-651.
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mediazioni visibili, conduce coerentemente alla concezione della Chiesa come comunità invisibile. Lutero è il primo a usare l’espressione «Ecclesia invisibilis» (nel 1521); e in diverse maniere esprime ripetutamente lo stesso concetto: «Ecclesiam nemo videt»; la Chiesa è «sola fide perceptibilis», è «abscondita»; la Chiesa «latet».32 L’invisibilismo luterano corrisponde perfettamente alla theologia crucis, sebbene quello venga elaborato in relazione all’ecclesiologia e questa in relazione alla soteriologia. Contrapposta alla theologia gloriae – espressione con la quale Lutero indicava la teologia cattolica, che sotto il pretesto dell’analogia aristotelico-tomista di fatto, a parere del Riformatore, cadeva nell’univocità – la theologia crucis sottolinea il primato assoluto dell’agire divino, indeducibile dalle strutture dell’uomo, insindacabile dalla sua ragione, spesso anzi contrapposto a ciò che l’uomo attende. Dio agisce al contrario, rispetto alle attese dell’uomo. Il pregio principale di questa concezione ecclesiologica sta nel sottolineare che la dimensione visibile della Chiesa è al servizio di quella invisibile e spirituale, così da evitare le tentazioni trionfaliste ed esterioriste tipiche delle ecclesiologie incarnazioniste. Ma i limiti che la rendono inaccettabile come interpretazione globale della Chiesa, sono evidenti: se la Chiesa fosse del tutto invisibile, non sarebbe più «Chiesa», ma si frantumerebbe in una serie indefinita di interiori esperienze religiose eterogenee; dove sarebbe, allora, il messaggio autentico di Cristo? E di quale Cristo si tratterebbe? Non certo del Cristo incarnato e risorto corporalmente, che esige di essere incontrato in maniera incarnata, visibile e corporea; sarebbe invece un Cristo tutto interiore, soggettivo e spirituale. Non a caso la tendenza fondamentale della teologia protestante è stata, lungo i secoli, quella di «adattare» il Cristo alle mutevoli esigenze culturali, cadendo in un attualismo che, facendo a meno della tradizione ecclesiale, di fatto vi sostituiva le filosofie del momento: è l’inevitabile esito dell’invisibilismo ecclesiologico. La sottolineatura del mistero della croce, così forte in Lutero da diventare unilaterale, se sganciata dall’incarnazione e dalla risurrezione, favorisce unicamente la «scomparsa» della Chiesa, il suo annientamento nella storia. La teologia della secolarizzazione e la teologia della morte di Dio non sono che l’estrema – e però coerente – conseguenza di queste premesse.33
32 Per la documentazione dell’ecclesiologia luterana qui appena abbozzata, cf. Y. Congar, Vraie et fausse réforme dans l’Église, Cerf, Paris 1969, 341-385. 33 Cf. l’esposizione di R.L. Richard, Teologia della secolarizzazione, Queriniana, Brescia 1972.
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Ecclesiologia, cristologia ed evangelizzazione
3. Teologia
dell ’ evangelizzazione ed ecclesiologia trinitaria
Paolo VI, nella Evangelii nuntiandi, scrive che evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare […]; il concilio Vaticano II ha ricordato e il sinodo del 1974 ha fortemente ripreso questo tema della Chiesa che si evangelizza mediante una conversione e un rinnovamento costanti, per evangelizzare il mondo con credibilità.34
Il papa, quindi, fa risalire al concilio il recupero della centralità dell’evangelizzazione. Il concilio, in effetti, traccia una concezione di Chiesa dinamica, tutta relativa alla salvezza che riceve da Cristo per se stessa e per il mondo. È perciò a partire dall’ecclesiologia conciliare che si può comprendere la teologia dell’evangelizzazione.
3.1. La missione: fulcro dell ’ ecclesiologia
conciliare
È divenuto consueto indicare nella «comunione» l’apporto ecclesiologico più cospicuo del Vaticano II: al concilio viene spesso attribuita una decisa svolta da un’ecclesiologia giuridica a una di comunione;35 gli argomenti non mancano: è agevole infatti dimostrare come il Vaticano II si riavvicini a quell’ecclesiologia patristica della «communio»36 che, trascurata in Occidente, era invece stata sempre riaffermata (spesso con intenti polemici contro il «giuridismo» romano) dai teologi orientali, anche alla vigilia del Vaticano II.37 Il recupero della radice eucaristica della Chiesa, al quale de Lubac, come è emerso, aveva contribuito in maniera decisiva, offrì ai padri conciliari ulteriori stimoli per ripensare l’ecclesiologia in chiave comunionale. È su questa base che si muovono l’intera struttura della LG (con la famosa inversione dei capitoli II e III) e specialmente i testi che fondano una «teologia della Chiesa locale», a partire da quello fondamentale di Sacrosanctum concilium, n. 41. Senza negare l’importanza della comunione nell’ecclesiologia conciliare, crediamo però di poter individuare l’asse centrale attorno al quale ruota la visione della Chiesa che traccia il Vaticano II nell’idea di missione. Non che le due idee contrastino: l’una senza l’altra non avrebbe alcun
EN 15: EV 6/1601.1605. È la tesi di fondo di A. Acerbi, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella Lumen gentium, EDB, Bologna 1975. 36 È ancora utile lo studio di L. Hertling, Communio. Chiesa e papato nell’antichità cristiana, Libreria editrice della Pontificia Università Gregoriana, Roma 1961. 37 Cf. N. Afanassieff, «La Chiesa che presiede nell’amore», in Il primato di Pietro nel pensiero contemporaneo, Il Mulino, Bologna 1965, 487-555. 34 35
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senso. Ma se c’è una chiave di lettura dell’ecclesiologia propria del concilio, questa è la missione. L’idea di comunione, infatti, sebbene appoggiata su fondamenti diversi, animava anche l’ecclesiologia del corpo mistico e perfino quella societaria: non permeava quelle ecclesiologie, invece, l’idea di una Chiesa essenzialmente e interamente missionaria, esistente per gli uomini e non per se stessa. Il concilio presenta una Chiesa missionaria anche quando non usa il termine: la stessa «definizione» che LG 1 dà della Chiesa «come un sacramento» viene intesa in termini missionari, poiché non la si spiega non solo come segno ma anche, dinamicamente, come strumento della comunione con Dio e dell’unità degli uomini. L’istanza ecclesiologica di fondo del Vaticano II è la ridefinizione del rapporto tra la Chiesa e il mondo; il fil rouge di tutte le riflessioni conciliari è come trasmettere al mondo la salvezza portata da Cristo in maniera da raggiungere e interessare gli uomini senza tradire la verità. Entrambi i fuochi attorno ai quali si polarizza l’attenzione del concilio – Ecclesia ad intra ed Ecclesia ad extra – rispondono a quest’unica grande questione: se i padri conciliari riflettono sulla Chiesa «in sé» non è per il puro desiderio di contemplarne il mistero, ma per l’urgenza di un annuncio più incisivo di Cristo. È sulla base di questa istanza missionaria e pastorale che le quattro costituzioni recuperano in primo luogo le fonti della Chiesa – la liturgia e in special modo il mistero eucaristico da una parte (Sacrosanctum concilium) e la parola di Dio e in special modo la Scrittura dall’altra (Dei Verbum) – e che in secondo luogo precisano la natura della Chiesa (Lumen gentium) e il suo rapporto con il mondo (Gaudium et spes). I documenti minori sono mossi dalle stesse istanze pastorali e missionarie.
3.2. Dalla missione al recupero dei « soggetti » ecclesiali I padri conciliari avevano però a disposizione una nozione di «missione» affetta da una duplice riduzione.38 La prima riduzione può essere definita orizzontale: il discorso sulla missione non veniva condotto avanti teologicamente per l’intera Chiesa, ma solo per alcuni suoi membri, sia nel campo extraecclesiale che in quello intraecclesiale. In campo extraecclesiale veniva chiamata missione solo l’opera che alcuni uomini conducevano nel mondo non ancora evangelizzato: in tal modo si era creata la mentalità della delega, per la quale la missione era demandata ad alcuni, detti appunto missionari. In campo intraecclesiale la missione veniva riservata ai preti e ai vescovi. Se intesa, infatti, in senso ampio, essa indicava l’azione salvifica della Chiesa: questa azione salvifica, però, era ricondotta all’attività sacramentale dei sacerdoti nei confronti dei fedeli,
38 Per la dettagliata ricostruzione dei «modelli» di missione lungo la storia e fino al Vaticano II, cf. S. Dianich, Chiesa in missione. Per una ecclesiologia dinamica, Paoline, Milano 1985.
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così che i primi erano considerati i soggetti e i secondi i destinatari della missione, mentre il rapporto dei laici con le realtà temporali non era ancora considerato parte dell’attività salvifica vera e propria della Chiesa. Se intesa invece in senso stretto, la missione indicava soprattutto l’abilitazione giuridica che veniva data al sacerdote per esercitare il suo potere di ordine nella comunione ecclesiale (missio canonica racchiusa all’interno della potestas iurisdictionis). Volendo sottolineare il radicamento battesimale della missione, il concilio recupera la nozione di popolo di Dio, imperniandovi addirittura l’intero capitolo secondo della LG. La seconda riduzione – pastoralmente conseguente ma teologicamente precedente la prima – si può definire verticale: non si parla, se non sporadicamente, di Chiesa missionaria per natura fino al Vaticano II. Per il concilio invece la Chiesa è essenzialmente missionaria; la missione è la sua stessa natura e non esiste per altro se non per portare Cristo al mondo. Mentre fino al nostro secolo si tendeva a dire che la missione è solo un momento della Chiesa – momento che avrà fine quando tutto il mondo sarà cristiano –, il concilio, accogliendo stimoli dalla teologia precedente, ha precisato che la missione non cesserà mai. E se tutti gli uomini, un giorno, accettassero di entrare nella Chiesa? Anche allora essa resterà missionaria, perché il germe del peccato ben annidato in ogni uomo non permetterà che la Chiesa si adagi comodamente: il vangelo non è solo per tutti gli uomini, ma anche per tutto l’uomo. Parliamo di riduzione verticale, perché prima del concilio si dimenticava proprio la radice teologica della missione: l’opera trinitaria; è la missione del Figlio da parte del Padre e la missione dello Spirito da parte del Padre e del Figlio a costituire la Chiesa. Proprio in forza della missione trinitaria la Chiesa – tutta la Chiesa – è proiettata fuori di sé, verso il mondo. È questa la grande inquadratura di LG 2-4 e AG 2-4, testi che fondano appunto un’ecclesiologia missionaria. Il recupero della dimensione missionaria della Chiesa procede così di pari passo con la determinazione del duplice soggetto ecclesiale: da una parte la Trinità39 e dall’altra il popolo di Dio.40 Si può dire che per il concilio la Trinità è il soggetto misterico della Chiesa e il popolo di Dio ne è il soggetto storico.
39 Per approfondire il rapporto tra il fondamento trinitario dell’ecclesiologia e la teologia della missione nel Vaticano II, cf. L. Sartori, «Trinità e missione nel Concilio Vaticano II», in Ad Gentes 1(1997), 17-34. 40 La relazione fra l’ecclesiologia del concilio e la riscoperta del «popolo di Dio» è stata magistralmente messa in evidenza da G. Colombo, «Il “Popolo di Dio” e il “mistero della Chiesa” nell’ecclesiologia postconciliare», in Teologia 10(1985), 97-169.
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3.2.1. La Trinità soggetto misterico della
Chiesa
LG 2-4 e AG 2-4 rappresentano una specie di commento a Efesini 1: la Chiesa non nasce da iniziativa umana né semplicemente da una sola delle tre persone, ma dall’opera congiunta della Trinità che la «convoca». Il Padre (cf. LG 2 e AG 2) crea, eleva gli uomini alla partecipazione alla vita divina, presta aiuto all’uomo decaduto conformemente al disegno di predestinazione universale alla salvezza che si compie in Cristo. Il Figlio (cf. LG 3 e AG 3) viene a inaugurare il regno dei cieli, nel quale anche la Chiesa risulta coinvolta; essa è infatti «il regno di Cristo già presente in mistero» (LG 3) o «il germe e l’inizio» del Regno (LG 5). Ma è nella croce (sangue e acqua che escono dal costato di Cristo) che il Signore sigilla la sua comunione con l’umanità, cioè la Chiesa. E siccome il sacrificio della croce ripresenta la sua efficacia pasquale nell’eucaristia, è l’eucaristia che oggi ripresenta e produce l’unità dei fedeli. L’azione dello Spirito (cf. LG 4 e AG 4), donato nella Pentecoste, viene indicata nel testo di LG con la massima aderenza alla Scrittura (attraverso un intarsio di 15 citazioni neotestamentarie) nell’elencazione di una serie di azioni: santifica, dà la vita, dimora nella Chiesa, prega nei fedeli, testimonia della loro figliolanza, guida la Chiesa verso la verità, la unifica, la provvede di diversi doni (accenno all’unica origine di gerarchia e carismi), la dirige, la abbellisce, la fa ringiovanire, la conduce allo Sposo.41 Questo ampio affresco trinitario rende giustizia di tante visioni parziali di Chiesa e anche di quell’esclusivo riferimento al problema della «fondazione» o «istituzione» da parte del cosiddetto Gesù storico, nel quale la manualistica del Novecento – reagendo all’esegesi liberale prima e bultmanniana poi – si era soffermata a lungo, facendone (come abbiamo accennato) una questione basilare per la legittimità della Chiesa. Per legare la Chiesa a Gesù, invece, il concilio evita di fossilizzarsi in una prospettiva troppo ristretta e allarga lo sguardo all’intera opera trinitaria, della quale l’opera di raccolta dei discepoli da parte di Gesù (come inizio della costituzione del Regno) rappresenta solo un elemento. Le dimensioni della Chiesa si estendono dunque all’intera storia salvifica: la Chiesa è l’opera della Trinità nella storia. 3.2.2. Il
popolo di
Dio
soggetto storico della
Chiesa
La presentazione della Chiesa come «popolo di Dio», con le conseguenze che ne sono derivate, rappresenta il fatto ecclesiologicamente più
41 Per approfondire il ruolo dello Spirito Santo nell’ecclesiologia del Vaticano II (specialmente in LG 1-8), cf. Maraldi, Lo Spirito e la Sposa, 181-375.
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rilevante del Vaticano II.42 Si può dire, utilizzando un’espressione che nel concilio non compare, che il popolo di Dio viene presentato dal Vaticano II come soggetto storico. L’unica espressione capace di fare da soggetto – insieme a «Chiesa» – è l’espressione «popolo di Dio».43 Quando si tenta di definire la Chiesa con un linguaggio che non sia più quello delle immagini, si fa talvolta ricorso a categorie come: istituzione, comunione, evento, mistero, sacramento. La Chiesa è connotata da tutte queste categorie, ma non «è» nessuna di esse: la Chiesa esiste in forma di istituzione, fonda la comunione, vive sull’evento di Cristo, è una realtà esistente come mistero, è come un sacramento… ma nessuna di queste categorie è intercambiabile con «Chiesa». Così come le singole immagini bibliche (vigna, gregge, tempio, corpo di Cristo, Sposa, ecc.), anche le diverse categorie usate nel post-concilio dicono qualcosa della Chiesa, ma non dicono la Chiesa. L’unica categoria che può fare da soggetto in senso vero e proprio – e può dunque sostituirsi a «Chiesa» – è quella di popolo di Dio: non si può dire «il corpo di Cristo che è in Milano», ma si può dire «il popolo di Dio che è in Milano». In termini più semplici: quando ci si chiede chi è la Chiesa, la risposta più completa è «la Chiesa è il popolo di Dio»; tutte le altre immagini e categorie o esigono un’attenuazione (ad es.: la Chiesa è «come» un sacramento; la Chiesa è «anche» istituzione; ecc.) o dicono un aspetto della Chiesa; ma l’unica categoria che sia capace di esprimere tutte le valenze di «Chiesa» è quella di popolo di Dio. Fin qui l’idea di soggetto. Ma il popolo di Dio è il soggetto storico. Scrive S. Dianich: Quella di «popolo di Dio», quindi, non è un’immagine simbolica, né si tratta di un modo di esprimere una certa caratteristica della Chiesa o di un modello sul quale la Chiesa debba venir misurata. «Popolo di Dio» dice effettivamente la Chiesa come soggetto storico esistente nella storia e portatore nella storia del mistero salvifico.44
Secondo G. Colombo, tutto ciò che si può e si deve dire della Chiesa si riferisce al popolo di Dio come a suo «soggetto» storico.45 Già Y. Congar affermava lapidariamente: «Chi è il sacramento della salvezza? Il popolo di Dio. Dove e in che modo? In tutta la sua vita, in tutta la sua storia, vis-
42 È la tesi di fondo del citato studio di Colombo, «Il “Popolo di Dio” e il “mistero della Chiesa” nell’ecclesiologia postconciliare». La Commissione teologica internazionale, da parte sua, afferma: «L’espressione “popolo di Dio” ha finito per designare l’ecclesiologia conciliare. Di fatto, possiamo asserire che si è preferito “popolo di Dio” alle altre espressioni cui il concilio ricorre per esprimere il medesimo mistero, quali “corpo di Cristo” o “tempio dello Spirito Santo”» (Temi scelti di ecclesiologia [7.10.1985]: EV 9/1683). 43 Cf. S. Dianich, «Popolo di Dio (I). Un nome impegnativo per la Chiesa», in La Rivista del Clero Italiano 71(1990), 165-175, in particolare 166-171. 44 Ivi, 170. 45 Cf. Colombo, «Il “Popolo di Dio” e il “mistero della Chiesa” nell’ecclesiologia postconciliare», 102-103.
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suta nella storia del mondo».46 Che cosa significa dunque che il popolo di Dio è soggetto storico? Significa che la Chiesa non esiste solo nella forma del mistero: la Chiesa è mistero e storia assieme. Se si dimenticasse il mistero si arriverebbe a un’ecclesiologia di tipo puramente orizzontale; se si dimenticasse la storia si arriverebbe a ritenere accidentale il suo dispiegarsi nella vita concreta degli uomini. Affiancando la prospettiva misterica con la nozione di «popolo di Dio», invece, diventa chiaro che la dimensione storica è intrinseca alla Chiesa stessa e non è una sua appendice, né tantomeno una sua deviazione. Come afferma la Commissione teologica internazionale: Il carattere di «mistero» designa la Chiesa in quanto procede dalla Trinità, mentre quello di «soggetto storico» le si addice in quanto essa agisce nella storia e contribuisce a orientarla. Eliminato ogni rischio di dualismo e di giustapposizione, occorre approfondire la correlazione, esistente nella Chiesa come «popolo di Dio», tra l’aspetto del «mistero» e del «soggetto storico». Infatti è il carattere di mistero che per la Chiesa determina la sua natura di soggetto storico. Correlativamente è il soggetto storico che, da parte sua, esprime la natura del mistero; in altre parole, il popolo di Dio è simultanea mente mistero e soggetto storico: cosicché il mistero costituisce il soggetto storico e il soggetto storico rivela il mistero.47
Individuando nel «popolo di Dio» la nozione basilare dell’ecclesiologia conciliare, non si nega ovviamente l’importanza delle altre nozioni: la stessa LG, elencando le principali (cf. n. 6) e dando particolare risalto all’immagine del corpo di Cristo (cf. n. 7), suggerisce che la categoria di popolo di Dio va integrata: in effetti, pur avendo il merito di mettere in primo piano ciò che unisce tutti i cristiani prima di ciò che li distingue,48 di estendere l’evento della Chiesa a tutta la storia della salvezza e collocarla in continuità con Israele, di aprire spazi nuovi per il dialogo ecumenico per la sua maggiore elasticità rispetto alla categoria di «corpo di Cristo» e di sottolineare il carattere pellegrinante della Chiesa «in cammino» verso il Regno, superando la tentazione di identificare le due grandezze,49 la nozione di «popolo di Dio» presenta però anche dei limiti che impediscono di assolutizzarla e ne esigono un’integrazione; già Y. Congar affermava che essa «è insufficiente a esprimere da sola la realtà della Chiesa. Sotto la nuova alleanza, quella delle promesse realizzate dall’incarnazione del Figlio e dal dono dello Spirito, il popolo di Dio riceve uno statuto
46 Y. Congar, Un popolo messianico. La Chiesa, sacramento di salvezza. La salvezza e la liberazione, Queriniana, Brescia 1976, 91. 47 Commissione teologica internazionale, Temi scelti di ecclesiologia: EV 9/1688-1689. 48 Cf. Y. Congar, «La Chiesa come Popolo di Dio», in Concilium 1(1965), 21. 49 Cf. J. Ratzinger, «L’ecclesiologia del Vaticano II», in Id., Chiesa, ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia, Paoline, Milano 1987, 22.
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che non si può esprimere se non nelle categorie e nella teologia del corpo di Cristo».50
3.3. Per un’ecclesiologia a partire dall ’ evangelizzazione Le intuizioni problematiche e le istanze della teologia dell’evangelizzazione invitano dunque a una ricerca del fondamento della Chiesa e della sua missione nell’opera trinitaria: in una prospettiva, quindi, che non solo si sciolga da un legame troppo stretto con un Gesù puramente uomo, ma anche dall’assolutizzazione del riferimento al Verbo incarnato, al Capo del corpo mistico, al Crocifisso. Esiste comunque un rischio anche in questa impostazione: quello dell’allegorismo trinitario, che alcune ecclesiologie post-conciliari non sembrano aver evitato,51 appoggiandosi a una concezione trinitaria «paritetica» che livella il ruolo di Cristo nell’evento della Chiesa a quello delle altre due persone divine: Cristo, invece, non può non rimanere il riferimento fondamentale della Chiesa (un’ecclesiologia non cristocentrica non è nemmeno cristiana), perché è il Verbo a essersi incarnato; Cristo – e non il Padre e lo Spirito – è morto e risorto; è quindi attraverso di lui che va recuperata l’opera del Padre e quella dello Spirito. Il doppio pericolo del cristomonismo da una parte e dell’allegorismo trinitario dall’altra si evita partendo, come di fatto avvenne all’inizio della storia dell’evangelizzazione, dal Cristo risorto e glorificato, attraverso il quale si rileggono la croce, l’incarnazione e il mistero trinitario. Fu dalla risurrezione, infatti,
50 Congar, «La Chiesa come Popolo di Dio», 41-42. Cf. anche Ratzinger, «L’ecclesiologia del Vaticano II», 24; J. Hoffmann, «La Chiesa e la sua origine», in M. Falchetti (a cura di), Iniziazione alla pratica della teologia, III: Dogmatica II, Queriniana, Brescia 1986, 134. 51 Si può sottoscrivere interamente quanto afferma C. Pagazzi: la rilettura dell’ecclesiologia alla luce del mistero trinitario, rispetto all’ecclesiologia eucaristica, rappresenta un modello interpretativo più completo; «essa infatti riesce a rendere ragione, all’interno del mistero cristiano, non solo dell’unità, ma anche della differenza, entrambe viste come dimensioni della carità trinitaria. Tuttavia l’immediato riferimento dell’unità-differenza ecclesiale all’unità-differenza trinitaria non sembra in grado di sfuggire a un certo allegorismo. Del resto, il vocabolario usato dagli autori lascia adito a questa interpretazione: l’amore trinitario è “icona”, “esempio”, “modello”, “paradigma” dell’amore ecclesiale. Certo, tale tendenziale allegorismo non dipende semplicemente dal lessico utilizzato (che, anzi, pare sottolineare il carattere reale della relazione), ma è forse attribuibile a una certa insufficienza cristologica. Ci sembra cioè che il rinvio al Dio trinitario come elemento decisivo della soluzione della questione sia a volte compiuto a scapito della centralità cristologica. Con quanto appena detto non si intende evidentemente affermare che ci si dimentica di Cristo come unico rivelatore del Padre, ma che si considera questa sua opera di rivelazione ancora nella prospettiva di una comunicazione della verità, cioè come qualcosa di esterno alla sua persona […]. Ma ciò che a noi sembra determinante, e che pare non pienamente considerato, è che la forma della persona di Gesù (forma che modella tutta la sua storia e tutte le sue parole e non solo l’evento pasquale) rivela la forma del Dio trinitario» (C. Pagazzi, La singolarità di Gesù come criterio di unità e differenza nella Chiesa, Glossa, Milano 1997, 30-31).
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che prese avvio da una parte l’interesse per l’umanità di Gesù (passione, predicazione, miracoli, vita nascosta, infanzia) e dall’altra l’interesse per la teologia trinitaria; di qui, infine, riprese corpo il soggetto apostolico, origine dell’intero popolo di Dio e del ministero ordinato.52 È a partire dalla risurrezione che si recupera una cristologia integrale, che da una parte assume l’incarnazione e la morte senza assolutizzarle, e dall’altra si apre all’opera del Padre e dello Spirito senza allegorizzarle. Ignorare la risurrezione di Gesù (come avviene nelle ecclesiologie che si rifanno al solo Gesù uomo) o sottovalutarla (come succede nelle ecclesiologie cristomoniste) oppure, al contrario, eguagliarla all’opera delle altre due persone della Trinità in una concezione allegorista (come in certe ecclesiologie post-conciliari), significa costruire l’ecclesiologia su una cristologia parziale e insufficiente: una cristologia integrale, che prenda avvio dalla risurrezione di Gesù, è invece capace di ispirare un’ecclesiologia che assume le istanze più urgenti della teologia dell’evangelizzazione. Fu dalla risurrezione di Gesù che nacquero la cristologia, la soteriologia, la trinitaria, l’ecclesiologia, la sacramentaria, l’escatologia: nacque, insomma, la dottrina cristiana. A partire dall’esperienza pasquale divenne chiaro ai discepoli il senso della croce e, quindi, si rivelò la realtà dell’incarnazione. La risurrezione di Gesù rappresenta il centro del cosmo e della storia, la lente attraverso la quale va riletta tutta la realtà: non è uno dei fatti che costellano la storia, ma è l’evento da cui tutta la storia prende senso.53 La risurrezione di Gesù dimostra che il tempo non è ci-
52 «L’“evento” decisivo della primitiva storia cristiana, della storia della nuova fede, è “la risurrezione, operata da Dio, di Gesù di Nazaret che era stato crocifisso”; in questo punto si accese la fede, e di qui derivò una visione completamente nuova dell’uomo, del mondo e di Dio e un orientamento diverso – nel complesso e nei particolari – di tutte le cose» (O. Kuss, Paolo. La funzione dell’Apostolo nello sviluppo teologico della Chiesa primitiva, Paoline, Milano 1974, 421). La risurrezione è il «chiodo» a cui stanno appese tutte le verità di fede, il nucleo attorno al quale ruota tutto il Credo (cf. T. Schneider, Was wir glauben. Eine Auslegung des Apostolischen Glaubensbekenntnisses, Patmos, Düsseldorf 1985, 279); «Qualsiasi teologia ecclesiale ha il suo punto di partenza nella risurrezione ed è soltanto da qui che ricevono il loro peso l’esistenza terrena di Gesù e la sua croce» (H.U. von Balthasar, «Il cammino verso il Padre (pasqua)», in J. Feiner – M. Löhrer [a cura di], Mysterium salutis, 5: L’evento Cristo, Queriniana, Brescia 1971, 327). Si potrebbero moltiplicare all’infinito le citazioni, ma alla fine il risultato non cambierebbe: la teologia contemporanea ha riscoperto la centralità della risurrezione di Gesù e non perde occasione per riaffermare che al centro del messaggio cristiano non c’è una dottrina, una morale, una teoria ascetica: c’è un evento nel quale si incrociano Dio e l’uomo, l’eternità e la storia. Tutto il resto – comprese le esigenze più alte dell’etica cristiana (l’amore, il perdono, il sacrificio) – ne deriva e acquista di qui il suo significato. 53 Giustamente i teologi sottolineano che la risurrezione di Gesù non ha e non può avere alcuna analogia nella storia, poiché è da essa che la storia diventa davvero tale. Cf. ad es. J. Moltmann, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1970, 194-185 e 197-198; W. Kasper, Gesù il Cristo, Queriniana, Brescia 1974, 201: «La risurrezione di Gesù non ammette dunque alcuna correlazione e analogia con altri avvenimenti; essa sta a significare che nella storia ha preso inizio un nuovo eone».
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clico, che i ritmi del cosmo non racchiudono il senso della vita: l’irruzione della vita divina nella storia e nel cosmo umani ha spezzato il cerchio dell’eterno ritorno e ha dato alla storia passata e futura una direzione e un senso.54 Il tempo è tempo redento, non più profano,55 poiché la potenza di Dio si innesta nella storia e la storia sale, trasfigurata, in Dio.56 La risurrezione rivela e compie la messianicità di Gesù, la sua figliolanza divina, il suo carattere di rivelatore (Verità), salvatore (Vita), mediatore (Via). È a partire dalla risurrezione di Gesù che si rivela la Trinità: se Cristo, il Crocifisso, è risuscitato dal Padre, è davvero il Figlio di Dio fatto uomo, e come tale la sua rivelazione e la sua salvezza rimangono presenti per sempre nella storia attraverso lo Spirito, inviato dal Padre e dal Figlio. La risurrezione corporea del Risorto esige una presenza attuale non solo interiore e spirituale, ma anche corporea (di una corporeità trasfigurata ma reale). È per questo che egli si rende presente pienamente attraverso la Chiesa, suo corpo formato attraverso la partecipazione al corpo eucaristico, che annuncia, celebra e vive la risurrezione.57 In questo senso la Chiesa è suo «sacramento», cioè suo segno e strumento: tutta la Chiesa è sacramento (e non solo qualcuno al suo interno) per cui nel «popolo di Dio» vi è diversità di ministeri e unità di missione (cf. AG 5). La Chiesa intera, il popolo di Dio, è perciò sacramento di Cristo-Verità, attraverso l’annuncio della Parola che sprigiona la potenza del Signore ben oltre la povertà o l’efficacia degli annunciatori; è sacramento di Cristo-Vita, attraverso la celebrazione dei sacramenti – specialmente del battesimo58 e dell’eucaristia59 – che innestano gli uomini nel corpo di Cristo e «fanno» la Chiesa; è sacramento di Cristo-Via, attraverso la diaconia e la testimonianza della carità, che inseriscono nella storia i germi di liberazione del regno di Dio.
54 Cf. ad es. la sintesi di M. Schmaus, Dogmatica cattolica, Marietti, Torino 1970, II, 320-321. 55 Si può richiamare almeno M. Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1995, insieme agli innumerevoli studi che hanno approfondito il rapporto tra concezione ciclica e lineare del tempo. 56 Una delle tante citazioni possibili: «La svolta dei secoli fu posta nel giorno di Pasqua. Lo Spirito inaugurò in Gesù il nuovo tempo e anche il nuovo spazio […]. La risurrezione non è soltanto il punto di partenza storico, ma ancora il centro ontologico nel quale sta ancorato il tempo nuovo; il tempo cristiano ha inizio a una data della storia e, contemporaneamente, in questa realtà sempre presente, la risurrezione, che è nel Cristo» (Durrwell, La risurrezione di Gesù mistero di salvezza, 339). 57 Cf. Kasper, Gesù il Cristo, 220; H. Kessler, Sucht den Lebenden nicht bei den Toten. Die Auferstehung Jesu Christi in biblischer, fundamentaltheologischer und systematischer Sicht, Patmos, Düsseldorf 1985, 94; cf. anche 378-386; G. O’Collins, Jesus Risen. An Historical, Fundamental and Systematic Examination of Christ’s Resurrection, Paulist Press, New York-Mahwah 1987, 157-158. 58 Per il rapporto tra battesimo e risurrezione, cf. C. Porro, «Risurrezione di Cristo», in Dizionario Teologico Interdisciplinare, Marietti, Torino 1977, III, 104-105. 59 Per la connessione tra eucaristia e risurrezione, cf. Kasper, Gesù il Cristo, 207-210.
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Se la Chiesa nasce dall’esperienza del Risorto e vive di questa presenza, è segnata da un paradosso irriducibile: sorgendo dalla pasqua di Gesù, incrocio di storia e mistero, è essa stessa storia e mistero insieme: tutta la sua vita e attività sono segnate dal carattere di paradosso,60 dal già e non ancora, dalla dialettica fra storia ed eschaton. Se togliessimo uno dei due elementi, non ci sarebbe più Chiesa, ma da una parte resterebbe una società fra tante altre, senza tensione verso il compimento del Regno (tentazione materialista), e dall’altra resterebbe un’entità sospesa tra cielo e terra, tutta intenta a questioni che non interessano nessuno, nella beata illusione di identificarsi con il regno di Dio (tentazione spiritualista). Nel primo caso basterebbe un Cristo-uomo – non importa se finito in croce – al quale ispirarsi; nel secondo basterebbe una risurrezione solo spirituale, attraverso la quale Cristo si rende presente nell’interiorità della persona. Né l’una cosa né l’altra, ma uomo e Dio, incarnazione, croce e risurrezione assieme: così la Chiesa vive incarnata nelle vicende storiche, le purifica e si lascia purificare attraverso la logica della croce e opera con l’energia della risurrezione. In tal modo, illuminati e compiuti dalla risurrezione, i misteri dell’incarnazione e della croce acquistano il loro autentico valore e non rischiano né la sottovalutazione né l’assolutizzazione. I tre misteri cristologici, in un’ecclesiologia che prende avvio dalla risurrezione, diventano criteri della missione ecclesiale e in particolare degli aspetti connessi all’evangelizzazione. Negli immensi campi della teologia della missione e del dialogo-annuncio interculturale (inculturazione) e interreligioso, i misteri cristologici sottolineano come il vangelo si innesti nelle culture e nelle religioni, ne purifichi i tratti e ne mostri il compimento in Cristo: se mantenuti in equilibrio, i tre misteri tradotti nell’ecclesiologia offrono le indicazioni essenziali per un’evangelizzazione che non trascuri né la valorizzazione dei germi di verità e di salvezza presenti dovunque, né la loro purificazione alla luce di Cristo, e si impegni a mostrare che ogni elemento «umano», assunto in Cristo, anziché uscirne mortificato ne esce valorizzato. L’avvio dalla risurrezione di Gesù, poi, apre la strada a una considerazione della presenza e azione dello Spirito nelle diverse culture e religioni più ampia di quanto finora sia stata svolta.61 Nel campo della promozione umana (come si diceva vent’anni fa) o testimonianza della carità (come si dice oggi), l’avvio dalla risurrezione di Gesù evita alla Chiesa un approccio sociologista o moralista, conducendola invece nella triplice direzione della Chiesa con i poveri, in quanto modellata su colui che si fece povero e annientò se stesso per condivide-
Cf. Harkianakis, «Der auferstandene Christus und die Kirche», 182. Cf. le importantissime affermazioni di Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, nn. 28-29: EV 12/604-608; tra gli studi che possono aiutare ad approfondire questa prospettiva, cf. V. Maraldi, «La missione personale dello Spirito Santo nella storia», in Ad Gentes 1(1997), 35-60. 60 61
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Ecclesiologia, cristologia ed evangelizzazione
re la nostra situazione (cf. 2Cor 8,9 e Fil 2,6-11), della Chiesa povera, in quanto presenza del Risorto che porta ancora i segni della croce in attesa della pienezza del Regno, e della Chiesa per i poveri, in quanto si impegna per travasare nella storia la potenza della risurrezione di Gesù, anticipo e primizia di quel Regno nel quale non vi saranno più miserie né peccato. Dove la «scelta preferenziale per i poveri» trova la sua motivazione non in una sorta di classismo, ma nel fatto che in essi si traduce con maggiore intensità la fragilità della condizione umana assunta dal Verbo di Dio. Approfondendo e integrando questi spunti, un’ecclesiologia che prende avvio dalla risurrezione – e quindi da una cristologia integrale – si mette in grado di affrontare le grandi sfide attuali dell’evangelizzazione.
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«Chiesa che evangelizza»: modelli ecclesiologici e pastorali
Mario Fini
La «teologia dell’evangelizzazione», un tempo caratteristica della sezione del Seminario regionale dello STAB, oggi una delle specializzazioni dei dipartimenti FTER, è un aspetto della teologia pastorale. Non affronto, in questo testo, lo statuto epistemologico di questa scienza, che verrà discusso dal prof. Paolo Boschini.1 A me preme mettere in evidenza come la riflessione ecclesiologica sia centrale nella teologia dell’evangelizzazione in quanto essa non solo studia il soggetto che evangelizza, ma anche il vangelo che genera la Chiesa. In questi anni – nello studio teologico – i corsi che affrontavano temi ecclesiologici sono stati numerosi, con un’attenzione particolare all’esperienza delle Chiese in Italia e al magistero a partire dalla «magna charta» sull’evangelizzazione: l’esortazione post-sinodale Evangelii nuntiandi. La letteratura teologico-pastorale da un lato è abbondante – con una particolare attenzione oggi alla comunicazione della fede e all’iniziazione cristiana con una nuova riflessione sul primo annuncio –, dall’altro non ha prodotto opere sintetiche di grande rilievo teologico.2 In questo testo cerco di riflettere su quali modelli ecclesiologici e pastorali possano manifestare concretamente la dimensione missionaria di una Chiesa che ha come compito primario la comunicazione del vangelo. Le domande centrali che oggi le Chiese si pongono nella riscoperta della loro missionarietà, possono così esprimersi:
Il riferimento è a un intervento all’interno del medesimo Convegno [ndr]. Cf. i testi della CEI: Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (2000; d’ora in poi: CVMC); Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (2004); Questa è la nostra fede (2005). 1 2
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Mario Fini
– in che senso le Chiese sono chiamate a essere «comunità educanti»? – Come diventare cristiani adulti, cioè come abitare la Chiesa e viverne le diverse dimensioni? – Quale figura «testimoniale» di Chiesa, come comunità che esiste per comunicare il vangelo? Sono le domande che richiedono una riflessione teologico-pastorale, in particolare sul «soggetto» Chiesa nel suo articolarsi nelle varie realtà ecclesiali tra le quali la parrocchia, come «dimensione ecclesiale elementare». Questa riflessione parte dal rinnovamento ecclesiologico conciliare e dalla sua discussa ermeneutica e recezione post-conciliare per arrivare a comprendere lo stretto rapporto tra ecclesiologia e teologia dell’evangelizzazione. La mia attenzione si colloca sulla scia del congresso ATI del 2003, che ha voluto interrogarsi su «Annuncio del vangelo “forma ecclesiale”», prendendo in esame la questione della «figura di Chiesa» che oggi sembra più idonea alle necessità dell’annuncio del vangelo.3
1. Percorso
storico - teologico dal concilio V aticano II a oggi , con particolare attenzione alla C hiesa in I talia
Nel periodo del concilio e del primo post-concilio due teologi in particolare si interrogano sul «soggetto» Chiesa, cioè chi è Chiesa: il teologo Y. Congar e H.U. von Balthasar. Congar, nella linea dell’ecclesiologia dei padri, presenta il soggetto Chiesa come il «noi dei cristiani». La Chiesa è la «madre cattolica» che ci genera alla vita. Il testo che, in chiave teologico-pastorale, meglio presenta questa dimensione comunitaria è l’introduzione che il teologo scrive per il libro di K. Delahaye, Ecclesia mater, nel 1964, ove, dopo aver presentato l’idea patristica secondo la quale l’intera comunità cristiana nel suo insieme è il soggetto della sua missione, e aver accennato all’«involuzione individualistica» nei secoli successivi, presenta alcune prospettive di rinnovamento pastorale indicando cinque aspetti della maternità spirituale di tutta la Chiesa che deve manifestarsi in ogni comunità parrocchiale: una comunità fraternizzante, orante, un ambiente di conversione, una solidarietà crocifissa, una comunità testimoniante. Questa immagine della Chiesa madre è molto importante nell’ecclesiologia conciliare, come ha dimostrato nella sua dissertazione dottorale G. Ziviani,4 il quale annota:
3 Cf. D. Vitali (a cura di), Annuncio del vangelo «forma ecclesiale», San Paolo, Milano 2005. 4 Cf. G. Ziviani, La Chiesa madre nel concilio Vaticano II, PUG, Roma 2001.
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«Chiesa che evangelizza»: modelli ecclesiologici e pastorali La prospettiva più in generale dei testi conciliari è vicina al senso patristico antico, che designa come madre tutta la comunità dei credenti nelle sue dinamiche di generazione e di riconciliazione, nel ricevere la fede e nel donarla a sua volta. È l’intero corpo ecclesiale che celebra, evangelizza, prega, educa, dirige e così facendo esprime quella fecondità che la Sposa accoglie dallo Sposo e la traduce in maternità amorosa.5
Congar sviluppa poi questo tema attraverso l’affermazione della Chiesa come popolo messianico, cioè come comunità di popoli che rende presente il messianismo profetico di Gesù Cristo e diviene quindi sacramento universale di salvezza.6 L’impostazione ecclesiologica di von Balthasar, che riflette sulla «persona» della Chiesa, è totalmente cristocentrica: la Chiesa è la sposa che è totalmente unita a Cristo suo Sposo e Capo, è da lui continuamente purificata. Essa trova la sua realizzazione emblematica in Maria come colei che accoglie nella fede il Verbo fatto carne.7 G. Colombo, nel suo studio fondamentale su «“Il popolo di Dio” e il “mistero” della Chiesa nell’ecclesiologia postconciliare»,8 dopo aver messo a confronto le tesi di Balthasar e Mühlen per coglierne le differenze ma anche il consenso, afferma: Ciò che non è in primo piano nella riflessione sulla Chiesa «persona» e quindi sul soggetto Chiesa, in Balthasar e Mühlen, è l’identificazione della Chiesa con il «popolo di Dio». Intenti a comprendere la nozione e il contenuto di mistero […] non cercano d’identificare il suo carattere storico, e quindi senza riferirsi alle categorie in grado di metterlo debitamente in luce.9
Congar invece procede nella direzione di identificare il «mistero» della Chiesa con il «popolo di Dio». In altri termini, la nozione di «popolo di Dio» realizza in se stessa la nozione di «mistero» e quella di «soggetto storico». Tuttavia sia Congar che J. Ratzinger mettono in luce che la Chiesa è il popolo di Dio che ha la forma del corpo di Cristo.10 Ma mentre Congar sviluppa in modo particolare la categoria di «popolo messianico» per esprimere la missione della Chiesa, Ratzinger sottolinea la «novità» del popolo di Dio nella sua concentrazione cristologica. Nella storia della costituzione dogmatica sulla Chiesa emerge, in modo evidente, l’intenzione di tenere uniti i due aspetti, cosicché, dopo aver presentato la Chiesa nella sua «sorgente» trinitaria e nella sua «dimensione» cristologica,
5 Id., «La Chiesa madre: immagine di rinnovamento», in Vitali (a cura di), Annuncio del vangelo «forma ecclesiale», 360. 6 Cf. Y. Congar, Un popolo messianico. La Chiesa, sacramento di salvezza. La salvezza e la liberazione, Queriniana, Brescia 1976. 7 Cf. R. Fisichella, «Balthasar H. Urs von», in Dizionario critico di teologia, Borla-Città Nuova, Roma 2005, 184-189. 8 Cf. G. Colombo, «“Il popolo di Dio” e il “mistero” della Chiesa nell’ecclesiologia postconciliare», in Teologia 10(1985), 97-168. 9 Cf. ivi, 169. 10 Congar, Un popolo messianico; J. Ratzinger, Il «nuovo» popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1971.
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essa viene definita con la categoria «biblica» di popolo di Dio, nuovo, messianico. Così afferma Colombo: «Effettivamente “popolo di Dio”, l’espressione privilegiata dal concilio per dire la Chiesa, è la Chiesa in quanto “soggetto storico” che ha le sue radici nel mistero».11 Nel dibattito teologico post-conciliare, l’ecclesiologia del concilio ha avuto interpretazioni diverse riguardo all’«immagine» centrale di Chiesa emersa dai testi conciliari. Tuttavia credo che l’affermazione di Colombo, suffragata dalla ricostruzione precisa fatta dai protagonisti del concilio, sia la più corretta interpretazione. Il concilio ha voluto presentare la Chiesa nella sua dimensione storica, quindi come «comunità concreta», nella quale ognuno ha un proprio dono per partecipare alla sua missione, che è quella di essere «serva dell’umanità» (Paolo VI). Questa presentazione della Chiesa nella sua dimensione missionaria ha portato a un ripensamento dei «modelli pastorali» con i quali la Chiesa stessa realizza la sua missione: da una pastorale di «cristianità», a una pastorale di evangelizzazione. Anche nella Chiesa italiana, a partire dagli anni ’70, si prende coscienza della necessità di mettersi in «stato di evangelizzazione»12 e quindi di privilegiare anche nella catechesi il metodo presente nel rito di iniziazione cristiana degli adulti,13 anche se poi nel programma pastorale si privilegia semplicemente il rapporto tra evangelizzazione e sacramenti. Nella teologia pastorale di area tedesca14 – cha ha il suo influsso anche in Italia – si riflette sulle necessità del passaggio da una Chiesa «grande istituzione» a Chiesa «rete di comunità», da «Chiesa di popolo» a Chiesa comunità, con particolare attenzione alle «comunità intermedie» strettamente legate al territorio.15 Nella pastorale vi sono vari modelli: dalle «comunità di base» (cf. EN 58) alle comunità all’interno della parrocchia.16 Solo nel 1980 la Chiesa italiana mette al centro il soggetto ecclesiale con il programma Comunione e comunità. I vescovi ricordano l’attualità «conciliare» della riflessione sulla comunione, vedono il fiorire di quella realtà che si può chiamare «fenomeno comunitario» (n. 4/b), ne sottolineano la ricchezza, ma anche l’ambiguità (n. 7), intravedono una società che si disgrega (nn. 10-11) e per questo sentono che l’esperienza di comunione della Chiesa può essere un segno di speranza. La relazione iniziale all’assemblea CEI che affrontava questo tema nel 1981 fu tenuta dal card. Martini. Le sue riflessioni sul rapporto tra comunione e comunità sono ancora oggi illuminanti.
11 Colombo, «“Il popolo di Dio” e il “mistero” della Chiesa nell’ecclesiologia post-conciliare», 161. 12 Cf. Relazione di mons. Aldo Del Monte nel 1973. 13 Cf. Relazione di mons. Marco Cè nel 1973. 14 Cf. K. Klosterman, Parrocchia, comunione di comunità, Cittadella, Assisi 1976. 15 Cf. A. Fallico, Gruppi e parrocchia, quale rapporto, AVE, Roma 1981, è il promotore del progetto pastorale parrocchiale «Missione, Chiesa-Mondo». 16 Cf. CEI, L’evangelizzazione nel mondo contemporaneo (1974), nn. 88-89.
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«Chiesa che evangelizza»: modelli ecclesiologici e pastorali A ben guardare, il nodo dottrinale messo in evidenza dal post-concilio e bisognoso della massima chiarificazione, è precisamente quello costituito dal rapporto comunione-comunità nella determinazione della Chiesa. Occorre tener presente le due precisazioni necessarie a dissipare le ombre residue del post-concilio: la prima, concernente il riferimento essenziale e costitutivo della comunità alla comunione; la seconda, concernente l’importanza della comunità in quanto espressione storica della comunione (n. 3).
La comunità non è soltanto un aggregato sociologico, ma è l’espressione storica della comunione trinitaria; in questa affermazione il termine «comunità» connota propriamente le Chiese particolari. Da questo deriva che «nessuna profezia o movimento dello Spirito antico o nuovo, può far Chiesa a sé, ma tutti sono oggettivamente finalizzati alle Chiese particolari, nelle quali soltanto trovano il proprio senso compiuto» (n. 312). All’interno delle Chiese particolari, la struttura fondamentale è la parrocchia, che può giovarsi delle cosiddette «comunità intermedie», ma che non può essere sostituita da esse, né possono essere messe come opzioni pastorali sullo stesso piano. Come ho ricordato, già all’inizio degli anni ’70 – e all’estero anche subito nel primo post-concilio – la teologia pastorale aveva riflettuto sulla parrocchia come comunità, partendo dal concilio che l’aveva presentata come «una comunità di fedeli che rende presente in qualche modo la Chiesa in un determinato luogo» (Apostolicam actuositatem, n. 10) e gli stessi vescovi avevano indicato la strada del rinnovamento di essa attraverso le «comunità intermedie» nelle quali possono svilupparsi ministeri diversi. Tuttavia le affermazioni del piano pastorale decennale delle Chiese in Italia chiedono una «conversione pastorale» a partire proprio dal «soggetto» che evangelizza, cioè la comunità. E tutto questo nel dialogo anche critico con il «fenomeno comunitario», all’interno del quale si presenta da alcuni la Chiesa come «movimento» senza particolare attenzione alla teologia della Chiesa locale/particolare, da altri come «comunità alternativa» nella radicalità della sequela di Gesù.17 Prendendo coscienza della falsa contrapposizione tra Chiesa di popolo e Chiesa comunità, perché la Chiesa è Chiesa di popolo che ha come vincolo unico fondamentale la fede e il battesimo, che è chiamata alla sequela di Cristo come comunità di discepoli, i vescovi italiani ritornano alla convinzione della necessità di percorsi di «iniziazione cristiana» perché si formino comunità adulte in una fede che plasma la vita e quindi la cultura: una Chiesa continuamente evangelizzata che evangelizza. Una Chiesa costruita dalla «carità», che evangelizza anche attraverso una vita di carità, è chiamata attraverso una «conversione pastorale» e un «discernimento comunitario» a un «progetto culturale», cioè a superare lo iato sempre maggiore tra fede e vita. Alla base di tutto questo c’è un cammino
Cf. G. Lohfink, Gesù, come voleva la sua comunità?, San Paolo, Milano 21990.
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formativo dei fedeli laici che deve tornare a mettere al centro la domanda «come si diventa cristiani» e come diventare «cristiani adulti in una fede operante nella carità». È questo il senso delle tre note pastorali sull’iniziazione cristiana e della nota sul «primo annuncio» Questa è la nostra fede (2005). Nel documento programmatico del 2000 Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia i vescovi presentano due «livelli» di comunità: quella eucaristica e quella dei battezzati, l’una missionaria dell’altra (n. 46). E questo per poter raggiungere anche coloro che hanno aderito ad altre religioni e i non battezzati presenti nelle nostre terre. Il documento poi presenta una riflessione sulla «comunità eucaristica», che trova il suo centro nell’eucaristia nel giorno del Signore e che sviluppa una cultura animata cristianamente (nn. 47-55). Nel presentare poi alcuni aspetti della «comunità dei battezzati», cioè dei battezzati che vivono un fragile rapporto con la Chiesa, il documento non delinea in che senso sono Chiesa, ma piuttosto come bisogna configurare la pastorale secondo il modello dell’iniziazione cristiana (nn. 56-60). Invece il documento dei vescovi sulle parrocchie non segue questa distinzione, perché nella linea conciliare presenta sempre la parrocchia strettamente collegata alla diocesi, in una pastorale integrata che la fa così uscire dall’essere «comunità autoreferenziale». Il documento indica alcune dimensioni ecclesiologiche della parrocchia: figura di Chiesa radicata in un luogo, vicina alla vita della gente, semplice e umile, Chiesa di popolo. Infine conclude: «Le molte possibili risposte partono da un’unica prospettiva: restituire alla parrocchia quella figura di Chiesa eucaristica che ne svela la natura di mistero di comunione e di missione» (n. 4).
1.1. Conclusione «critica» sul cammino storico dal concilio a oggi
Nei testi delle Chiese in Italia e anche nel sinodo straordinario a venti anni dal concilio, mi sembra che emergano aspetti contraddittori: da una parte si afferma la missionarietà come elemento essenziale della Chiesa; la necessità di una «conversione pastorale»; la missio ad gentes viene presentata come paradigma della pastorale (CVMC 32) e dall’altra si giunge sempre ad affermare che la Chiesa comunità eucaristica è la «forma» della Chiesa missionaria; che l’eucaristia è l’azione missionaria per eccellenza. Ritengo sia necessario riflettere su quanto affermava S. Dianich: «L’eucaristia è mistero di fede», è celebrata e partecipata da coloro che sono battezzati e quindi c’è una buona dose di ambiguità nell’affermare che l’eucaristia è l’azione missionaria per eccellenza.18 Penso sia l’annuncio
18
S. Dianich, Chiesa in missione, Paoline, Milano 1985, 66-67.
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«Chiesa che evangelizza»: modelli ecclesiologici e pastorali
del vangelo l’azione missionaria per eccellenza. E allora quale Chiesa – soggetto storico concreto – può realizzare il compito primario dell’annuncio del vangelo a tutti?
2. Chiesa «popolo di Dio», «popolo messianico» È necessario ora riflettere in modo sistematico sul «modello» di Chiesa che meglio contribuisce a una teologia dell’evangelizzazione. Se si risale al costituirsi della Chiesa in Gesù Cristo e nello Spirito Santo, all’origine sta sempre l’azione gratuita della riconciliazione attuata da Dio in Cristo (cf. Ef 2,11-13; 2Cor 5,14ss). Ciò significa che, in un’umanità lacerata, Dio vuole ristabilire l’unità. Dalla Pasqua e dal dono dello Spirito Santo a Pentecoste nasce la Chiesa come evento di comunione che si realizza in una comunità concreta retta dalle quattro «perseveranze» (cf. At 2,42-48). In un’ecclesiologia biblica e conciliare, la Chiesa non viene colta principalmente nella sua dimensione «istituzionale», ma specialmente nella sua dimensione comunitaria. Il concilio, per presentare la missione della Chiesa, ha utilizzato la categoria di «sacramento universale» di salvezza che nella teologia post-conciliare ha avuto interpretazioni differenti.19 Anche il sinodo straordinario a venti anni dal concilio presenta la Chiesa sacramento, che ha la sua sorgente nella parola di Dio e che celebra i misteri di Cristo per la salvezza dell’uomo. Alcuni teologi con determinazione si sono interrogati sul «soggetto» che è sacramento di salvezza, e hanno ritenuto che solo la descrizione della Chiesa come popolo di Dio possa indicare un «soggetto concreto». È emblematico che il teologo conciliare Congar, nel suo libro-sintesi sulla missione della Chiesa nella storia, nella prima parte ove presenta la ricerca su Chiesa-sacramento, chiedendosi: «Chi è sacramento della salvezza?», risponda: «È il popolo di Dio portatore del sacramento di salvezza», anzi: «Il sacramento della salvezza è lo stesso popolo di Dio, la comunità cristiana».20 Ma è soprattutto Colombo che, oltre ad aver presentato, per il documento della Commissione teologica internazionale sull’ecclesiologia del 1985 in preparazione al sinodo, un’esauriente ricerca su «il popolo di Dio» e «il mistero della Chiesa» nell’ecclesiologia post-conciliare, anche in un testo sul concilio e il post-concilio che diviene come il suo testamento,21 ri-
19 Cf. G. Canobbio, «La Chiesa sacramento della salvezza», in RassTeol 46(2005), 663-694. 20 Congar, Un popolo messianico, 69-71. 21 Il teologo G. Colombo è morto il 13 giugno 2005. Il testo, pubblicato su La Scuola cattolica 133(2005), 3-18, è ripreso in Il Regno-documenti 50(2005), 419, dal quale io cito.
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badisce la sua convinzione della necessità di presentare la Chiesa popolo di Dio, soggetto storico che accoglie e visibilizza il mistero. Il teologo milanese recentemente scomparso, nella conclusione della sua ricerca del 1985, afferma che la Lumen gentium (LG) precisa che la Chiesa realizza insieme il carattere sia di «soggetto storico», sia di «mistero». Infatti la Chiesa è il popolo di Dio unito a Gesù Cristo nello Spirito: «popolo nuovo» in quanto nasce dalla nuova ed eterna alleanza. È un popolo di battezzati, di fedeli che vivono nella carità i doni dello Spirito in una «comunione gerarchica». Il popolo di Dio non si identifica quindi con l’umanità, in quanto nel suo costituirsi e nella sua esistenza concreta realizza una profonda comunione con Gesù Cristo, in particolare attraverso i sacramenti e una «sequela» di vita. Tuttavia questo «popolo di Dio» porta a pienezza i doni che Dio Padre offre all’umanità, per questo motivo la Chiesa ha, da una parte, il compito di operare nella storia perché l’umanità tutta diventi la famiglia di Dio, e, dall’altra, essa stessa è aiutata nella sua missione al mondo (cf. Gaudium et spes [GS], nn. 43-44). Nello stesso anno la Chiesa celebrò il sinodo straordinario a venti anni dal concilio e nella relazione finale – La Chiesa nella parola di Dio celebra i misteri di Cristo per la salvezza del mondo – di fatto scomparve la descrizione della Chiesa «popolo di Dio», sostituita dalla presentazione della Chiesa come mistero di comunione e missione. Il teologo milanese annotò: Il concilio Vaticano II nell’impiego privilegiato della categoria di popolo di Dio per connotare la Chiesa ha voluto sottolineare il soggetto storico che ha una missione storica. È sorprendente che la Relazione l’abbia dimenticato […]. La preterizione è troppo clamorosa per non essere intenzionale.22
E nell’ultimo testo pubblicato ribadisce: «È evidente che mentre la Chiesa “popolo di Dio” si dichiara aperta in costante attenzione alla storia, la Chiesa “comunione” sembra raccogliersi in se stessa e chiudersi nei suoi problemi di assestamento interno».23 Commentando infine alcuni interventi alla II Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei vescovi (1999), rileva che solo alcuni vescovi presentarono i problemi reali nei quali le Chiese vivono e che sono chiamate ad affrontare.24 Egli ritiene che questo sia anche la conseguenza del fatto che, «avendo inteso la Chiesa come “comunione”, estraendola dalla storia, cioè cancellandola come “popolo di Dio”, il post-concilio si è concentrato sui problemi interni della Chiesa».25
22
G. Colombo, «Per una lettura del sinodo», in La Rivista del Clero Italiano 67(1986),
417. Id., in Il Regno-documenti 50(2005), 421. Il teologo cita il card. Martini, il card. Eyt e il card. Danneels. 25 Colombo, in Il Regno-documenti 50(2005), 424. 23 24
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«Chiesa che evangelizza»: modelli ecclesiologici e pastorali
L’analisi di Colombo della situazione post-conciliare si accompagna a una riflessione sul tema dell’«evangelizzazione» come missione della Chiesa, a partire dall’EN (1975). In un «piccolo» testo sintetico del 1997, egli afferma che la Chiesa si presenta come la porzione dell’umanità storica che vive l’esistenza umana come l’ha vissuta Gesù Cristo ed è destinata a proporre a tutti gli uomini di vivere come ha vissuto Gesù. Da questo emerge che l’evangelizzazione è l’essere stesso della Chiesa. Il popolo di Dio ne tiene viva la memoria annunciandola a tutti gli uomini. In ultima analisi, è da pensare che solo se le Chiese particolari possono mostrare di essere il «luogo» dove l’esistenza umana nella sua concretezza storica […] può essere vissuta nel modo inconfrontabilmente «più felice» (cioè quella «vita felice» di Gesù), possono ridiventare richiamo e attrazione e quindi «compiere» efficacemente l’evangelizzazione.26
Il teologo milanese sviluppa così la nota affermazione di Paolo VI, cioè che l’uomo contemporaneo ascolta i «testimoni» e che la via principale dell’evangelizzazione è la testimonianza della vita. Proprio per questo motivo, egli riafferma che solo la Chiesa intesa come soggetto storico, quindi popolo di Dio, può diventare essa stessa evangelizzazione. Solo una Chiesa che si lascia continuamente evangelizzare può adempiere la sua missione, che è l’annuncio del vangelo a coloro che non l’hanno ancora accolto. Un altro teologo italiano, S. Dianich, ha sviluppato nella sua Ecclesiologia il rapporto tra vangelo e Chiesa, concludendo sempre che la Chiesa è il popolo di Dio che nasce dalla Parola accolta e condivisa, e che «la missione di evangelizzare è fundamentale officium populi Dei (CIC c. 781)».27 La tesi di fondo è che la Chiesa nasce da un atto comunicativo: «Il vero e proprio evento dell’ecclesiogenesi […] si dà solo quando e dove si dà l’atto comunicativo delle fede».28 Sta qui la dinamica della «Chiesa estroversa», cioè di una Chiesa che è consapevole che è dall’atto della comunicazione della fede al non credente che ogni altra attività deve essere misurata. Per questo motivo la comprensione della Chiesa e della sua missione passa attraverso la comprensione del suo atto missionario fondamentale, quello della comunicazione della fede. Nella relazione al Congresso ATI (2004), su «Annuncio del vangelo, forma ecclesiae», dopo aver presentato il rapporto fondante vange-
Id., Sulla evangelizzazione, Glossa, Milano 1997, 61. Cf. Dianich, Chiesa in missione; Id., Ecclesiologia. Questioni di metodo e una proposta, Paoline, Milano 1993; Id. – S. Noceti, Trattato sulla Chiesa, Queriniana, Brescia 2002; Id., «Dall’atto del vangelo alla forma ecclesiae», in Vitali (a cura di), Annuncio del vangelo «forma ecclesiale», 95-141. 28 Dianich – Noceti, Trattato sulla Chiesa, 189. 26 27
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lo-Chiesa, si interroga su «in qual forma la Chiesa viene alla luce nel suo momento primordiale, cioè nell’atto stesso del vangelo».29 Egli presenta la «forma» della Chiesa con alcune caratteristiche: estroversa, sobria, una Chiesa di laici, una Chiesa disponibile, una Chiesa non egemone. Mi sembra importante riflettere insieme a questo teologo sul fatto che l’annuncio del vangelo è compito fondamentale del popolo di Dio, come recita il canone 781 del Nuovo Codice di diritto canonico. Quest’affermazione, in profonda sintonia con l’ecclesiologia del «popolo di Dio» del II capitolo di LG, indica che il soggetto dell’atto del vangelo è quindi il fedele cristiano in quanto tale, prima di ogni distinzione e senza bisogno di nessun mandato. Il teologo afferma che è necessario che sia data visibilità ecclesiale a questo soggetto primario e fondamentale, come dice il concilio Vaticano II: Se il popolo di Dio è lo «strumento della redenzione di tutti» perché «quale luce del mondo e sale della terra, è inviato a tutto il mondo» (LG 9), al di là della generica indicazione di alcuni doveri (cann. 209 § 2; 210) e di alcuni diritti dei fedeli (cann. 211; 215; 216; 225 § 1; ecc.), la Chiesa ha bisogno di un’impostazione teologica e giuridica del popolo di Dio, che contempli al centro di tutta la sua missione il compito fondamentale al quale si viene sacramentalmente deputati attraverso il battesimo e la confermazione.30
Dal confronto con questi due teologi si rafforza la convinzione che la comprensione della Chiesa come popolo di Dio possa essere fondamentale per una corretta teologia dell’evangelizzazione. Presentare la Chiesa come popolo di Dio significa non solo coglierla come soggetto storico concreto, ma anche come comunità di fedeli che hanno la stessa dignità e la stessa missione. Questo popolo di Dio, comunità di fedeli, si manifesta nelle Chiese particolari o locali dentro la storia degli uomini. Non c’è quindi alternativa vera tra «Chiesa di popolo» e «Chiesa-comunità», perché sempre il popolo di Dio indica una forma comunitaria, ma non «elitaria». Mi sembra sia questo l’esito degli studi di G. Lohfink, strettamente correlati alla sua «esperienza» di Chiesa, il quale abbandona l’espressione «comunità alternativa» per indicare la Chiesa e incentra la sua ecclesiologia sul tema del popolo che Dio ha scelto e continua a scegliere per realizzare il suo disegno di salvezza.31
Dianich, «Dall’atto del vangelo alla forma ecclesiae», 113. Ivi, 126. 31 Cf. G. Lohfink, Gesù, come voleva la sua comunità?; Id., Dio ha bisogno della Chiesa? Sulla teologia del popolo di Dio, San Paolo, Milano 1999. 29 30
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«Chiesa che evangelizza»: modelli ecclesiologici e pastorali
3. Elementi
conclusivi : una rinnovata recezione del concilio
Il concilio per esprimere la missione del popolo di Dio ha indicato varie dimensioni di questo popolo di Dio. Mi sembra utile ritornare a due «aggettivi» qualificanti questo popolo: «messianico» e «cattolico».
3.1. Popolo messianico Questo popolo messianico ha per capo Cristo «che è stato dato a morte per i nostri peccati, ed è risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4,25), e che ora, dopo essersi acquistato un nome che è al si sopra di ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Questo popolo ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come nel suo tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cf. Gv 13,34). E, finalmente, ha per fine il regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cf. Col 3,4) e «anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio» (Rm 8,21). Perciò il popolo messianico, pur non comprendendo di fatto tutti gli uomini, e apparendo talora come il piccolo gregge, costituisce per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza (LG 9).
Riprendo ora gli elementi essenziali di questo testo. a) È la fede in Gesù Cristo che genera e costruisce la Chiesa, come afferma il testo poco dopo: «Coloro che guardano a Gesù come autore della salvezza e principio di unità e di pace». La Chiesa è quindi il popolo di Dio radunato in un luogo concreto che riconosce e segue Gesù come unico Signore della vita e dell’universo. b) La vita della Chiesa ha per condizione «la dignità e la libertà dei figli di Dio». Come ricorderà ancora il concilio: «Nessuna ineguaglianza riguardo alla dignità, alla stirpe, al sesso […]» (LG 32). I cristiani nella Chiesa sono chiamati a fare l’esperienza della libertà dei figli di Dio nella comunione. Da ciò consegue che il popolo di Dio deve operare nella storia per difendere sempre l’uguaglianza di ogni persona e nazione e ogni autentica libertà, segno della libertà che il Padre dona ai suoi figli. c) Nella Chiesa vige la nuova legge dell’amore e quindi della «complementarità» e «corresponsabilità» (cf. LG 7). È questa legge che ha guidato Cristo nella sua esistenza terrena dall’incarnazione fino alla croce. Da ciò consegue che la «diaconia» del popolo di Dio come servizio all’uomo è segno della fedeltà al suo Signore (cf. LG 8). d) Il fine della Chiesa è il regno di Dio. La Chiesa è il segno visibile e comunitario che il regno di Dio è già presente: nella Chiesa le forze vittoriose del Cristo risorto e del suo Spirito sono già presenti e il «mondo nuovo» è già iniziato (cf. LG 5 e 48).
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Mario Fini Per questo motivo il popolo di Dio è nell’umanità segno di speranza e di unità ed è solidale con essa. Infatti «la comunità dei discepoli di Gesù è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre e hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (GS 1).
3.2. La «cattolicità» del popolo di D io Questo popolo messianico è presente in tutti i popoli della terra, perché il popolo di Dio «nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le risorse, le ricchezze, le consuetudini dei popoli, nella misura in cui sono buone, e accogliendole le purifica, le consolida e le eleva» (LG 13). Questo popolo di Dio è incarnato dentro la storia dei popoli e il vangelo è come un seme che trasforma le culture e genera le Chiese «autocto ne», cioè le Chiese particolari, nella comunione ecclesiale; cosicché «le tradizioni particolari insieme con le qualità specifiche di ciascuna comunità nazionale, illuminate dalla luce del vangelo, saranno assunte nell’unità cattolica» (Ad gentes, n. 22). Questo unico popolo di Dio, nei vari popoli e dai vari popoli, manifesta e realizza la vocazione dell’umanità di divenire la famiglia dei figli di Dio, quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo tra tutti gli uomini (cf. GS 92). La Chiesa, che si è manifestata a Pentecoste «cattolica», in grado di rovesciare Babele, che ha la forza dello Spirito Santo che è amore unificante, è chiamata sempre ad accogliere nuovi popoli e nuove culture per inserirli nell’unità cattolica, affinché nella storia si realizzi nuovamente l’evento-Pentecoste, cioè che l’unico vangelo di Gesù Cristo il Signore sia annunciato, accolto, vissuto nelle lingue dei popoli e cresca il popolo di Dio fino alla pienezza del regno di Dio.
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Ouverture. «Né su questo monte né a Gerusalemme» Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità (Gv 4,21-24).
Il Nuovo Testamento narra l’incontro presso un pozzo detto popolarmente di Giacobbe, nella regione della Samaria, fra Gesù e una misteriosa donna samaritana: è descritto, unico tra i quattro vangeli canonici, dal Vangelo di Giovanni (4,1-26). Gli esegeti spiegano che l’aspetto determinante del colloquio fra i due personaggi è rappresentato dal fatto che, agli occhi dei pii ebrei, da molti secoli i samaritani apparivano di regola dei veri e propri eretici, scismatici impenitenti che avevano consapevolmente deciso di rompere con alcune consolidate leggi di Israele; e viceversa, beninteso. In aggiunta a tale disagio di fondo, c’è poi il fatto che di fronte a Gesù – stanco e assetato – si trovi una donna, sconosciuta: il che, in una società patriarcale e maschilista come quella ebraica dell’epoca, rafforza l’anomalia della situazione. È mezzogiorno. Un uomo e una donna. Due interpreti di altrettante letture della Torah, divaricanti ma a loro modo fedeli alla rispettiva tradizione, fino a condurre inevitabilmente allo scontro: ad esempio, a proposito del luogo santo più efficace presso cui adorare Dio, rispettivamente il tempio di Gerusalemme e il monte Sinai, da una parte, e il monte Garizim, dall’altra. Tuttavia Gesù, davanti alla domanda di lei su dove sia più 263
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opportuno pregare, accetta le differenze e mantiene le identità in campo, radicalizzando la questione e proiettando piuttosto il quadro su un futuro escatologico, peraltro già avviato: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre…». E sarà adorato «in spirito e verità». Viene in mente, a mo’ di suggestione, la ben nota considerazione lapidaria di Marcel Gauchet secondo cui il cristianesimo sarebbe «la religione dell’uscita dalla religione».1 In ogni caso, qui quelle due identità in perenne conflitto si vedono riflesse in un domani in cui saranno annullate, per fondersi in un unico sguardo. Uno sguardo in cui le raffinate discussioni teologiche sulla localizzazione corretta di Dio cesseranno, perché Dio sarà oltre: oltre tutti i santuari, le montagne e i fiumi sacri, le chiese e le moschee, le sinagoghe e le pagode. Ma soprattutto, perché «Dio sarà tutto in tutti», «e asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4).
1. Vedere. Dalla religione degli italiani all ’I talia delle religioni «L’idea che l’Italia sia un paese in cui la religione si coniuga sempre più al plurale – ha scritto qualche tempo fa Franco Garelli – sembra non trovare conferma dai dati delle più recenti indagini empiriche».2 Secondo il sociologo torinese, infatti, tutti i sondaggi e le indagini sulla situazione della religiosità nel Belpaese evidenzierebbero un’appartenenza al cattolicesimo che si aggira da parecchi anni intorno all’80% della popolazione, con scarti poco significativi, dipendenti più dal modo in cui sono formulate le domande che da un sentimento mutato nel corso del tempo. Alla domanda: «A quale religione sente di appartenere?», ad esempio, nel quadro di una ricerca su La nuova religiosità in Italia (2006), risponde: «Alla religione cattolica» ben l’86,1%, mentre la quota riservata al capitolo delle «altre religioni» è del 4,8% e il 9,1% dichiara di non appartenere ad alcuna religione. Cosa pensare di queste cifre? È lo stesso Garelli a metterci in guardia dal giungere a conclusioni affrettate, spiegando che l’idea di far parte di una Chiesa o di un determinato gruppo religioso, in effetti, appare più selettiva del senso di appartenenza a una religione, termine che può evocare una generale accettazione del repertorio di simboli e significati prevalenti all’interno dell’ambiente socioculturale in cui si vive e nel quale ci si è formati. Elemento di fatto confermato dall'indagine condotta nel 2010 da Paolo Segatti, docente di Sociologia politica all’Università di
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M. Gauchet, Un mondo disincantato?, a cura di D. Frontini, Dedalo, Bari 2008, 72. F. Garelli, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, Il Mulino, Bologna 2006.
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Milano, per la rivista Il Regno, secondo cui il processo di secolarizzazione in Italia non si è fermato, bensì ha prodotto un’accentuata varietà nei modi di vivere il rapporto con la religione, nel quadro di un Paese che da cattolico è divenuto genericamente cristiano.3 Sta di fatto che non solo una progressiva secolarizzazione, ma anche il pluralismo religioso è un dato acquisito del nostro paesaggio sociale e culturale: dalla religione degli italiani, è stato detto a più riprese con uno slogan accattivante, all’Italia delle religioni. Un mutamento – certo – non ancora metabolizzato che, per certi versi, non è recente, e ha radici lontane, riconducibili a tendenze lunghe delle società occidentali; mentre, per altri aspetti, è connesso a fenomeni innescatisi dopo la seconda guerra mondiale, e acceleratisi dalla metà degli anni ’60.4 In ogni caso, l’attuale quadro di un’Italia delle religioni era impensabile, sino a poco tempo fa. Nel giro di soli venti anni (meno di una generazione) la nostra carta socioreligiosa è radicalmente cambiata: anche se l’aumento del tasso di pluralismo religioso e culturale sembra andare in questa fase storica di pari passo con la crescita del tasso di ostilità nei confronti di ciò che tale fenomeno induce, un senso di spaesamento, l’idea dell’invasione e della minaccia d’imbarbarimento. Detta in sintesi: gli italiani sono certo ancora in maggioranza cattolici, per storia e deposito culturale, ma meno e diversamente rispetto a ieri e, soprattutto, vivono in vari mondi cattolici.5 In tal senso, occorrerà attrezzarsi per affrontare un simile panorama eccezionalmente in progress, destinato a convivere col processo di secolarizzazione tuttora in atto (una contraddizione solo apparente). Verso la realizzazione effettiva di una casa comune delle fedi, per ora in larga parte ancora tutta da costruire, e impossibile da edificare se non accettando a pieno titolo la sfida faticosa di una laicità inclusiva e del pieno riconoscimento reciproco.
2. Giudicare. Fare missione
in un mondo plurale
«Un’altra terra è possibile». Questo lo slogan – oltre dieci anni fa, era il gennaio del 2002 – della seconda edizione del Social forum mondiale (SFM), a Porto Alegre, capitale dello Stato brasiliano del Rio Grande do Sul. C’era molta speranza nell’aria, e la maggior parte degli oratori inter-
3 P. Segatti – G. Brunelli, «Da cattolica a generalmente cristiana», in Il Regno-att (2010)10, 337-351. Cf. anche R. Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, Il Mulino, Bologna 2011. 4 Per una panoramica complessiva rimando al nostro P. Naso – B. Salvarani (a cura di), Un cantiere senza progetto. Secondo rapporto sull’Italia delle religioni, EMI, Bologna 2012, e a E. Pace, Vecchi e nuovi dei, Paoline, Cinisello Balsamo 2011. 5 Utile, al riguardo, l’analisi di M. Marzano, Quel che resta dei cattolici, Feltrinelli, Milano 2012.
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venuti ripetevano, come un mantra: «Ma non un’altra terra nell’aldilà. Un’altra terra è possibile qui, su questo pianeta!». Solo un’utopia millenaristica? O uno dei tanti sogni infranti, in questa stagione confusa e segnata più dalle chiusure identitarie e dalle paure diffuse che dall’accoglienza e dal dialogo?6 Qualsiasi risposta finisce per essere fragile… Come difficile è stabilire, in un mondo sempre più saldamente globalizzato e nell’avanzare sicuro di un cristianesimo globale,7 quanto le religioni, con il loro potenziale di sogni e di profezia, siano in grado di assumersi la loro porzione di responsabilità in vista di un radicale cambiamento etico e ambientale. Le cronache di quel SFM, in ogni caso, raccontano che, tra i mille colori di quel popolo convenuto sulle rive dell’impetuoso fiume Guaíba, si potevano scorgere i paramenti sacri di tante differenti tradizioni di fede: vi si percepiva un pressante pluralismo culturale e religioso, proteso verso l’idea che questo mondo possa essere finalmente altro, differente, qualitativamente diverso. Ma quale altra terra sarebbe possibile? In teoria tutti noi vogliamo, da sempre, pace e giustizia, e le vogliamo per tutti. Ora, però, questi beni che caratterizzano lo shalom messianico dipendono dalla sostenibilità delle risorse economiche e politiche, tecnologiche e scientifiche in un pianeta squassato dal vento della globalizzazione eppure, paradossalmente, sempre più limitato dalla misura stessa del suo progresso. In altre parole, perché questa terra sia sostenibile, è necessario che sia altra. La prima sostenibilità è, allo stesso tempo, ecologica ed etica: un’etica di convivenza pacifica e di abitabilità; e, di conseguenza, di pluralismo e di giustizia. In che modo le religioni, la spiritualità, la missione possono aiutare questo pianeta a essere sostenibile ecologicamente ed eticamente, aiutandolo a diventare altro? A questo punto del nostro percorso, occorre soffermarsi sul rapporto dialettico, ma vitale, che oggi deve intercorrere nel cristianesimo tra missione e dialogo.
2.1. La
trasformazione della missione …
A partire da un presupposto decisivo, anche se non sempre condiviso nella sua ampiezza: l’agenda missionaria la stabilisce il mondo. Non meraviglia, pertanto, che in un’epoca di eccezionali e vorticosi mutamenti l’idea e la prassi missionaria – al pari del dialogo – stiano attraversando una crisi d’identità e di crescita. «La missione – scrivono Stephen Bevans e Roger Schroeder – testimonia, annuncia, celebra e opera per un nuovo modo di pensare e di vedere gli esseri umani, le
6 Sulla necessità di demistificare gli attuali identitarismi, rinvio ad A. Sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006. 7 Cf. P. Jenkins, La terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi, Roma 2004 (nuova edizione aggiornata e ampliata: The Next Christendom. The Coming of the Global Christianity, Oxford University Press, New York 2007).
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creature della terra e lo stesso universo creato».8 Mentre già due decenni fa David Bosch incoraggiava, nel monumentale La trasformazione della missione,9 a leggere tale crisi con occhi pieni di speranza, e comunque non come qualcosa di meramente accidentale e reversibile, ma piuttosto come l’esito di un basilare mutamento di paradigmi (si badi: non soltanto per la missione stessa o la teologia, bensì per l’esperienza e il pensiero del mondo nel suo complesso). Come in passato, quando diversi paradigmi della missione si succedettero nel corso dei secoli, ciascuno di essi – sosteneva Bosch10 – rappresentava la fine di un mondo e la nascita di un altro, in cui dovette essere ridefinito gran parte di ciò che la gente era abituata a pensare e a fare. Si può ritenere senz’altro, in effetti, che l’odierno pluralismo culturale e religioso – e in particolare l’appello a ciò che si è usi chiamare la promozione umana, il processo di sempre maggiore umanizzazione del mondo – costituisca un’autentica sfida per il cristianesimo, ma anche un’occasione forse irripetibile per un suo rinnovamento radicale. È necessario perciò evidenziare, almeno in sintesi, una serie di elementi cruciali dell’odierno panorama pluriculturale, cominciando a riflettere su come il messaggio cristiano – e segnatamente la missiologia – potrebbe relazionarsi felicemente a essi. «Voi Africani siete ormai i missionari di voi stessi. La Chiesa di Cristo è davvero piantata in questa terra benedetta!».11 Quando Paolo VI pronunciava questo appello, a metà fra la constatazione e l’augurio, era il 31 luglio di oltre quarant’anni fa. Era l’Omelia della celebrazione eucaristica conclusiva del primo Simposio dei vescovi africani e del Madagascar, a Kampala, in Uganda. È fondamentale dunque mettere a fuoco le problematiche legate al cristianesimo del continente nero, nella consapevolezza che siamo di fronte non più alla cenerentola di quello che è ormai definito il cristianesimo globale, ma piuttosto a una terra su cui, verosimilmente, si giocheranno non pochi dei destini del domani ecclesiale. Come ha messo felicemente in luce lo stesso Jenkins ne La terza Chiesa,12 stiamo oggi attraversando un momento di trasformazione profonda nella storia delle religioni, un mutamento silenzioso che il cristianesimo ha in realtà cominciato a conoscere già nel secolo scorso, col suo centro di gravità spostatosi notevolmente verso il Sud: Africa, America Latina, Asia (si badi, trattasi di aree soggette a vaste migrazioni tanto intra-continentali quanto inter-continentali). Tale tendenza è, con ogni probabilità, destinata a divenire più visibile, e di molto, nei prossimi decenni:
8 S.B. Bevans – R.P. Schroeder, Teologia per la missione oggi. Costanti nel contesto, Queriniana, Brescia 2010, 594. 9 D. Bosch, La trasformazione della missione. Mutamenti di paradigma in missiologia, Queriniana, Brescia 2000 (ed. or. 1991). 10 Ivi, 17. 11 Paolo VI, Discorso ai vescovi del SECAM: AAS 61(1969), 573-578. 12 Jenkins, La terza Chiesa.
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col cristianesimo che dovrebbe godere di un autentico boom mondiale, anche se la grande maggioranza dei credenti non sarà bianca, né europea, né euroamericana. Anzi – come ipotizza l’autore sulla base delle proiezioni statistiche attualmente disponibili13 – nel 2050 solo un quinto dei tre miliardi di cristiani (delle diverse confessioni, sempre più omologate) sarà costituito da bianchi non-ispanici: eppure, ancora, le Chiese dell’emisfero australe cristiano permangono pressoché invisibili agli osservatori del Nord, mentre lo stesso Samuel P. Huntington, nel suo celebrato bestseller che ha fondato nella vulgata corrente la teoria dello scontro fra le civiltà, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale,14 si riferisce comunemente al cristianesimo come fenomeno occidentale, e come se non potessero darsene altri. Interessante è la descrizione proposta da Jenkins, ovviamente ipotetica ma non priva di credibilità, di questo futuribile cristianesimo: sostanzialmente povero dal punto di vista economico, conservatore nella fede, nella dottrina e in morale, largamente orientato al soprannaturale. Carismatici, apocalittici, visionari, attirati da guarigioni non meno che da esorcismi e visioni oniriche, attaccati alla lettera della Scrittura, i cristiani di domani dovrebbero essere in larga misura dei pentecostali (i quali, dal canto loro, contando la versione originale evangelica e la traduzione cattolica, Rinnovamento nello Spirito e gruppi carismatici vari, rappresenterebbero secondo stime verosimili già oggi un quarto dei cristiani sparsi sul pianeta).15 Ma non solo! Fautori di «un cristianesimo post-coloniale, fiero delle proprie caratteristiche indigene, che pensa con categorie culturali proprie (non più modellate su quelle della tradizione filosofica europea) e si organizza in modo molto più flessibile rispetto alle complesse formazioni ecclesiastiche che hanno dominato la storia del cristianesimo occidentale».16 Sono già, in ogni caso, dei nuovi cristiani, «i nuovi cristiani del terzo millennio» (E. Pace), che non sono nati né stanno crescendo nel classico (per l’Europa, almeno) regime di cristianità: e con cui appare indispensabile fare i conti.
13 Il riferimento, in particolare, è all’ormai classico D.B. Barrett – G.T. Kurian – T.M. Johnson, World Christian Encyclopedia: A Comparative Survey of Churches and Religions in the Modern World, Oxford University Press, New York 2001. Ottimi dati sono reperibili anche sul sito del Center for the Study of Global Christianity, collegato con il GordonConwell Theological Seminary (www.gordonconwell.edu). 14 S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000 (ed. or. 1996). 15 Cf. E. Pace – A. Butticci, Le religioni pentecostali, Carocci, Roma 2010 (con una buona bibliografia alle pp. 127-136). «Il successo religioso più notevole del secolo scorso è stato ottenuto dalla religione che più di tutte fa appello alle emozioni: il pentecostalismo» (J. Micklethwait – A. Wooldridge, God Is Back, Pinguin Press, New York 2009, 17). Sul (presumibile) roseo futuro del pentecostalismo, rimando all’ormai classico H. Cox, Fire from Heaven, Reading Mass, Addison-Wesley 1985. Uno sguardo antropologico al riguardo non privo d’interesse è offerto da M. Marzano, Cattolicesimo magico. Un’indagine etnografica, Bompiani, Milano 2009 (si vedano in particolare le pp. 147-182). 16 Pace – Butticci, Le religioni pentecostali, 19.
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2.2. Nel tempo del cristianesimo globale Ripetiamolo: anche il cristianesimo è diventato un fatto globale (in fondo, si tratta di inverare finalmente la vocazione cattolica, cioè universale, del messaggio di Gesù). Si può ammettere che l’idea di un cristianesimo che sta letteralmente andando verso il Sud risulti abbastanza familiare, sia agli studiosi di cose religiose sia agli ambienti missionari, ma molto meno ai media generalisti e ai cristiani feriali. Il tema, infatti, è stato analizzato sin dagli anni ’70 del secolo scorso, quando Walbert Bühlmann coniava un’espressione che avrebbe avuto parecchio successo, quella di Terza Chiesa, basandosi sull’analogia con Terzo Mondo,17 a suggerire come il Sud rappresenti una nuova tradizione paragonabile per importanza alle Chiese occidentali e orientali del passato. E un fine missiologo come Andrew Walls si spingeva a vedere nella fede dell’Africa una tradizione cristiana altra, comparabile addirittura a cattolicesimo, protestantesimo e ortodossia, leggendovi «il cristianesimo standard dell’epoca presente, un modello che mette in evidenza il proprio carattere».18 Sono quegli stessi anni, i ’70, in cui, del resto, ha cominciato a prendere piede una radicale revisione del ruolo delle congregazioni e degli istituti missionari europei in conseguenza del decreto conciliare Ad gentes e della definitiva decolonizzazione, via via sostituiti da congregazioni nate in loco, che ora inviano missionari in altri Paesi del mondo. Già nel ’66, del resto, era stato Karl Rahner a parlare del Vaticano II come del primo concilio autenticamente cattolico, germe di una Chiesa mondiale (Weltkirche) che avrebbe trovato nuove espressioni nella diversità conciliata di popoli e culture19 (l’espressione ha ispirato il teologo Rosino Gibellini, che, in occasione del Congresso internazionale di missiologia di Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo, del ’94, pronosticava: «Se si guarda alla recente storia della Chiesa e della sua teologia, si potrebbe definire il XIX secolo come il secolo missionario, il XX secolo come il secolo ecumenico, e già si può intravedere il XXI secolo come il secolo di una Chiesa mondiale, che si realizza nelle diverse culture e nei diversi contesti sociali, praticando un’inculturazione, che appella, nella reciprocità, alla pratica dell’inculturalità: la Chiesa mondiale è una comunità di apprendimento, una comunità dove si apprende reciprocamente»).20 Poco più di quarant’anni dopo, è il vaticanista di Le Monde, Henri Tincq, ad ammettere plasticamente che «i cattolici hanno cambiato emisfero e colore», essendo «precipitati in un altro mondo».21 Un esempio,
W. Bühlmann, La Terza Chiesa alle porte. Un’analisi del presente e del futuro ecclesiali, Paoline, Alba 1976. 18 A. Walls – C. Fyfe (a cura di), Christianity in Africa in the 1990s, University of Edinburgh, Edinburgh 1996, 3. 19 K. Rahner, Nuovi Saggi: Società umana e Chiesa di domani, Paoline, Roma 1986. 20 Cf. www.queriniana.it/blog/la-missione-in-una-chiesa-mondiale/34. 21 H. Tincq, I cattolici. Chi sono e che fine faranno, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, 346 (ed. or. 2008). Cf. anche M. Graziano, Il secolo cattolico. La strategia geopolitica della Chiesa, Laterza, Roma-Bari 2010. 17
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ormai classico, è quello offerto da Odon Vallet, che suggestivamente ha evidenziato che Dio sta cambiando indirizzo: se durante la seconda guerra mondiale i primi tre Paesi cattolici su scala mondiale erano la Francia, l’Ita lia e la Germania (che aveva annesso l’Austria), con relativa leadership sul piano simbolico e teologico, ora sono stati rimpiazzati rispettivamente da Brasile, Messico e Filippine, con un forte ridislocamento verso la cultura ispanica e il terzo mondo. Non diverse le risultanze in campo protestante: se gli Stati Uniti conservano il primato, al secondo posto c’è la Nigeria, più o meno alla pari con la Germania e l’Inghilterra. Mentre la maggioranza degli anglicani sono di pelle nera, africani, americani o australiani.22 Nel complesso, le Chiese cristiane si trovano esposte a una cesura che può essere considerata la più profonda dal tempo della comunità primitiva. Come il pianeta economico, infatti, oggi anche quello cristiano ha i suoi Paesi emergenti: quelli dell’Africa subsahariana, in primis Congo e Nigeria, e poi Brasile, Messico, Filippine, Corea del Sud, ma pure India e Cina. Fra l’altro, in poco più di un quarto di secolo – quello corrispondente al lungo papato di Karol Wojtyła – la popolazione cattolica è aumentata di oltre il 45%: da 757 milioni del ’78 a più di un miliardo e cento milioni del 2005. Ancora. Un’ipotetica mappa del centro di gravità statistico del cristianesimo globale indica che tale centro si sta costantemente spostando verso il Sud: da un punto dell’Italia settentrionale nel 1800, alla Spagna centrale nel 1900, al Marocco nel 1970 e a Timbuctu – antica città del Mali – ora. E mentre lo spagnolo è considerabile, almeno dagli anni ’80 del secolo scorso, la lingua principale dei cristiani nel mondo, l’hindi, il cinese e lo swahili sono destinati in un prossimo futuro – sostiene qualche commentatore – a svolgere un ruolo persino più rilevante.23 «Anche se in Europa assistiamo a un certo affanno delle nostre chiese – scrive Claude Geffré – dobbiamo prendere le distanze da questo continente e contemplare il mondo dall’alto»; e «quando ci lamentiamo che le nostre chiese stanno diventando deserte, non possiamo dimenticare la vitalità demografica e spirituale delle giovani chiese di quello che definiamo Terzo Mondo».24 Mentre già nel 1979, in un importante discorso a Strasburgo, Yves Congar sosteneva la centralità del Vaticano II in tale processo: un concilio che aveva operato «una sorta di decentramento dell’Urbs sull’Orbis, della Città sul Mondo, per il fatto che l’Orbis prendeva possesso sull’Urbs», perché la Chiesa aveva nell’occasione finalmente preso atto della sua cattolicità, della sua universalità.25 La stessa elezione dell’argentino Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco, a vescovo
22 O. Vallet, cit. in I. Ramonet, «Géopolitique des religions», in Manière de Voir. Le Monde diplomatique (1999)48, 6. 23 P. Jenkins, «Verso Sud. Uno sguardo al cristianesimo che verrà», in La Rivista del Clero Italiano (2008)4, 270. Una breve panoramica dell’odierno cristianesimo globale è reperibile in F. Mastrofini, Geopolitica della Chiesa cattolica, Laterza, Roma-Bari 2006. 24 C. Geffré, «Il futuro della fede cristiana e la sfida del pluralismo», in Il Regno – Annale 2007, EDB, Bologna 2008, 129. 25 Cit. in www.queriniana.it/blog/i-mulini-di-dio-macinano-lentamente/61
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di Roma il 13 marzo 2013, può essere letta nella medesima direzione: è il primo pontefice proveniente dal Sud planetario, che – come ha detto egli stesso appena eletto – i fratelli cardinali sono andati a prendere quasi alla fine del mondo.
3. Agire. La missione come dialogo profetico Cosa comportano queste trasformazioni per la missione?26 In primo luogo, va denunciato il rischio di trovarsi in un mondo interpretato entro categorie tradizionali e vissuto entro abitudini consolidate, incapaci di cogliere le trasformazioni in atto, e di costruire relazioni positive ed esperienze dotate di senso. Il disorientamento sembra essere la condizione più comune. Come può rispondere a ciò una missione non più ingenua, e consapevole di trovarsi di fronte a quello che Bosch definiva l’emergente paradigma ecumenico del cristianesimo?27 In primo luogo, evitando di arroccarsi su posizioni di retroguardia, di rinchiudersi nella difesa di un mondo tramontato, che non può più essere. Eppure, molti imprenditori della politica propongono (purtroppo con successo) la soluzione della chiusura localistica, che fa riferimento a un concetto deprivato, rigido, difensivo di cittadinanza. È la cittadinanza che fonde in modo perverso il sangue (la stirpe, la genealogia) con la terra (la nostra terra), la genetica con la cultura, in barba alle più elementari acquisizioni della scienza. E lo Stato è tentato, ora più che mai, avendo drammaticamente perduto presa sul mondo economico, di rilanciare la logica della paura, disinteressandosi della condizione d’incertezza che viene dalla logica del libero mercato, e lasciando, come scrive Beck, che siano gli individui a trovare soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche.28 Si può immaginare che la missione possa assumere una direzione di marcia diversa, evitando le trappole e le strumentalizzazioni sia della politica della paura, sia di un mercato lasciato in balìa degli animal spirits? La costruzione di un mondo più equo, sostenibile, partecipato e rispettoso delle differenze, è certo e prima di tutto un compito politico, ma è anche un’irrinunciabile sfida missionaria, religiosa, culturale e educativa, che chiama in causa tutti i soggetti che ne sono protagonisti. Per far ciò sarà indispensabile prendere sul serio le trasformazioni sopra citate, accettare la propria scomposizione in atto, non pretendere di aggrapparsi nostalgicamente a identità che nulla hanno più da dire al mondo, ma cercare
26 Riprendo qui alcune considerazioni proposte da R. Morselli – A. Tosolini, «Nomadi del presente, cittadini del futuro», in CEM Mondialità (2010)6, 18ss. Per una sintetica panoramica delle attuali tendenze della missiologia, rimando a M. Menin, Missione, EMI, Bologna 2010. 27 Bosch, La trasformazione della missione. 28 U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2001.
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nelle proprie storie, individuali e collettive, gli elementi utili a costruire il nuovo. Con gli altri, attraverso il dialogo e la co-evoluzione solidale.29 È la missione, in effetti, a essere messa in crisi in modo sorprendente (anche) dalla svolta epocale che il nostro villaggio globale sta vivendo, per affrontare la quale occorre disporsi a una rivoluzione del pensiero, del metodo e delle forme di relazione. Ma anche guardare con occhi nuovi al campo di gioco. Se infatti il territorio diviene lo spazio di articolazione tra globale e locale, tra economia dei flussi ed economia dei luoghi, lo scenario entro il quale le differenze si incontrano e si scontrano, confliggono e si ibridano, il luogo della scomposizione ma anche della possibile ricomposizione, allora gli attori del sistema-missione devono partire da qui, da questa nuova categoria interpretativa e da questo spazio di azione. Nel quadro di una quanto mai necessaria messa in relazione di tutti gli attori educativi (istituzionali e non) che hanno un ruolo rilevante sul territorio, affinché si confrontino sui temi della convivenza nonviolenta, della solidarietà intergenerazionale, della sobrietà materiale e della crescita culturale. Servirà dunque un nuovo patto tra questi soggetti, nella costruzione della cittadinanza glocale. Ecco il panorama in cui andrebbe inserita la riflessione missiologica.30 Ai credenti delle diverse Chiese, essa è chiamata a porre in particolare due aut aut. Da una parte, l’obiettivo di un’estensione globale della solidarietà, di una pratica di giustizia, di pace e di salvaguardia del creato su scala planetaria; dall’altra, l’esigenza di un nuovo stile di cattolicità ecumenica, capace di affrontare una dialettica tra località e universalità, e di porsi al servizio di un mondo riconosciuto come casa della vita, nella ricerca dialogica di un’etica condivisibile. Due sfide da far tremare i polsi, ma ineludibili, pena la sostanziale, progressiva insensatezza dell’annuncio evangelico.31
3.1. Un approccio comprensivo alla missione
Molti sono i tentativi di definire la missione, ma quasi tutti compiuti in epoca recente, poiché se guardiamo alla Chiesa delle origini non troviamo alcun esperimento del genere: gli scritti degli evangelisti e di Paolo, però, ci mostrano che sin dai suoi esordi era ben presente una definizione di cosa la Chiesa era chiamata a fare nel mondo, e la consapevolezza della
Rinvio, a tale proposito, al mio Vocabolario minimo del dialogo interreligioso, EDB, Bologna ²2008. 30 Cf. S. Morandini, Da credenti nella globalizzazione. Teologia ed etica in orizzonte ecumenico, EDB, Bologna 2008. 31 Sulla visione di un cristianesimo globale, oltre ai testi già citati, rimando almeno a A. Hastings (a cura di), A World History of Christianity, Eerdmans, Grand Rapids 1999; D. Chidester, Christianity: A Global History, Harper, San Francisco 2000; P.R. Spickard – K.M. Cragg, A Global History of Christians, Baker Book House, Grand Rapids 2001; C. Albini, Quale cristianesimo in una società globalizzata, Paoline, Milano 2003. 29
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centralità del grande mandato ricevuto dallo stesso Gesù in Mt 28,18-20. A cominciare dal XIX secolo si sono sviluppate diverse teorie a riguardo, ma hanno portato al rischio di vedere la missione in ogni attività della Chiesa: «Se tutto è missione, nulla è missione». In buona sostanza, fino al XVI secolo il termine missione veniva riferito solo al mandato di Dio Padre al Figlio (in chiave teologica), mentre a partire dal Cinquecento, con l’azione e la riflessione dei gesuiti, assunse una caratterizzazione più tecnica. La missiologia vera e propria, peraltro, nascerà molto più tardi: per diversi secoli quindi si andò nelle terre di missione senza rifarsi a una riflessione sistematica, che veniva rimandata ad altre branche della teologia, come l’ecclesiologia. Dalla conferenza del Consiglio missionario internazionale a Gerusalemme del 1928 si iniziò a cercare un approccio comprensivo al tema missionario, fino a definire la missione, negli anni seguenti, come testimonianza resa con l’annuncio, la comunione e il servizio: una formula, peraltro, un po’ limitativa agli occhi del missiologo David Bosch, che ammetteva però fosse servita a liberare la missione dal semplice accostamento con l’annuncio o l’insediamento di Chiese, la classica plantatio Ecclesiae.32 Negli ultimi anni il concetto di missione è stato sottoposto a una forte revisione rispetto ai modelli finora adottati, revisione attuata non solo dai teorici della missione, ma anche dagli stessi operatori sul campo, dai missionari stessi. Le risposte sono assai diversificate, così come i vissuti concreti: dai modelli più tradizionali a esperienze che nel corso della loro messa in opera hanno vissuto un forte cammino di inculturazione del proprio lavoro, del proprio annuncio, nella consapevolezza che occorre partire ascoltando la realtà, prima ancora di detenere dottrine e idee da portare sic et simpliciter. Dal primo convegno missionario, poco più di un secolo fa (Edimburgo 1910, fonte riconosciuta anche del movimento ecumenico), la tesi di fondo che emergeva è che, nel giro di poco, tutto il mondo sarebbe diventato cristiano. Oggi, evidentemente, quell’ipotesi appare per lo meno ingenua! Questa considerazione è tratta da La trasformazione della missione, l’opera già citata in cui Bosch, teologo riformato sudafricano morto in un incidente stradale nel 1992, un anno dopo la prima edizione del volume, raccoglie il frutto di anni d’intenso studio e di esperienza missionaria in presa diretta. Si tratta di un lavoro tuttora insuperato, in cui, dopo un rapido sguardo sul Primo Testamento ma prendendo le mosse soprattutto dal Nuovo Testamento (cui è dedicata tutta la prima parte, che comincia con la vicenda di Gesù e si sofferma poi su Matteo, Luca-Atti, Paolo), l’autore ripercorre le tappe storiche del modo di pensare e attuare la missione. Ne risulta una sorta di storia della Chiesa e della teologia, lette magistralmente secondo la prospettiva della missione. L’assunzione della nozione
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Bosch, La trasformazione della missione.
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di paradigma, in connessione con le descrizioni che ne dà l’epistemologo T. Kuhn, permette a Bosch di individuare sei paradigmi, corrispondenti ad altrettante grandi epoche. Egli si preoccupa di mostrare i fattori culturali, economici, storici e teologici, che hanno determinato le trasformazioni del paradigma. L’ampio capitolo dodicesimo, dedicato agli elementi di un nascente paradigma ecumenico (quello più recente e ancora in progress), evidenzia la conoscenza che egli aveva dei processi in atto anche nella Chiesa cattolica (un’attenzione particolare è rivolta al Vaticano II e alla Ad gentes) circa alcuni temi specifici: l’evangelizzazione, la liberazione, l’inculturazione, il dialogo ecumenico e interreligioso. Salutato con entusiasmo dalla critica, questo volume fa testo negli studi di missiologia, e continuerà ancora a lungo a essere utile a quanti intendano comprendere alla luce della storia come si possa/debba attuare la missione.
3.2. Fedeltà
del passato , fedeltà nel presente
Ora, finalmente, a questo volume cruciale se ne può accostare un altro di un livello non inferiore, pure già citato (l’edizione originale risale al 2004), predisposto da una coppia di teologi statunitensi che, senza trascurare il riferimento a Bosch, hanno l’ambizione di portare avanti alcune sue intuizioni, aggiornandole e ampliandole ulteriormente. Il suo titolo è Teologia per la missione oggi. Costanti nel contesto, compare – come il Bosch – nella collana «Biblioteca di teologia contemporanea» della Queriniana, e gli autori si chiamano Bevans e Schroeder.33 Perché questo titolo? I due missiologi verbiti lo spiegano da subito: la missione cristiana è sia ancorata alla fedeltà del passato sia sfidata alla fedeltà nel presente. Essa è chiamata a preservare, difendere e annunciare le costanti delle tradizioni della Chiesa; allo stesso tempo, deve rispondere in maniera creativa e coraggiosa ai contesti in cui si viene a trovare. La storia cristiana è, principalmente, una storia della Chiesa in missione; si potrebbe dire, prendendo a prestito l’eloquente espressione di Harvie Conn, una storia dell’incontro del Verbo eterno con mondi cangianti. Nei termini utilizzati in queste pagine, una storia di costanti nel contesto. Punto focale del volume è il tentativo di dare risposta a due fondamentali sfide degli studi teologici, missiologici e storici contemporanei. La prima, articolata in particolare dal testo di Bosch, è quella di costruire una teologia che tragga ispirazione dalla costante azione missionaria di Dio nel mondo e che abbia come scopo non solo una maggiore conoscenza di Dio e dei suoi propositi, ma una partecipazione più riflessa e intelligente a questi ultimi. Tutta la teologia, in altri termini, dovrebbe essere una teologia missionaria. La seconda sfida è quella di elaborare una storia della Chiesa cristiana che sia in realtà una storia del movimento cristiano mondiale,
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Bevans – Schroeder, Teologia per la missione oggi.
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che incorpori tutte le diverse correnti del cristianesimo e in questo modo racconti la vicenda del cristianesimo così com’è realmente accaduta: non come qualcosa di unidirezionale (dalla Palestina all’Europa al resto del mondo), ma come qualcosa di multidirezionale (dalla Palestina all’Asia, dalla Palestina all’Africa, dalla Palestina all’Europa); non semplicemente come l’espansione di un’istituzione, ma come l’emergere di un movimento; non semplicemente come la diffusione di una dottrina precostitui ta, ma come l’ininterrotta scoperta dell’infinita traducibilità e dell’intenzione missionaria del vangelo. Per cogliere il senso della proposta di Bevans e Schroeder, è utile riportare le tre importanti lezioni che i due ammettono di aver appreso in vari anni di esperienza di vita, di insegnamento e di ministero interculturale.34 La prima è che, quando si attraversa il confine di un altro contesto – culturale, razziale, religioso o di gender –, inevitabilmente si impara non soltanto qualcosa sull’altro, ma, ed è questa forse la cosa più importante, su se stessi. In secondo luogo, una parte preziosa di ciò che impariamo su noi stessi è che la storia, le lotte e la gioia dell’altro sono realmente, in ultima analisi, parte delle nostre stesse storie, lotte e gioie. In terza battuta, in tutto questo processo ci rendiamo conto anche di quanto non sappiamo, né potremo mai sapere, dell’altro. Quando si partecipa davvero alla missione divina del dialogo profetico, concludono, sono queste le lezioni che si apprendono!
3.3. La missione come dialogo profetico La seconda parte del testo di Bevans e Schroeder mette a fuoco sei momenti nella storia del movimento cristiano, dalla Chiesa primitiva alla fine del XX secolo, collocando ogni particolare modello di prassi missionaria all’interno del suo contesto politico, sociale, religioso e istituzionale, descrivendo le principali dinamiche del periodo e identificando i principali agenti missionari del tempo. Alla fine di ciascuno dei sei capitoli relativi, si argomenta come le sei costanti trovino espressione e agiscano all’interno di un particolare contesto storico, quindi vengono tratte diverse conseguenze circa il modo in cui il periodo in questione potrebbe accrescere e mettere in discussione la teologia della missione e la prassi missionaria odierne. Mentre la terza parte, infine, elabora una teologia della missione per i nostri giorni. Nel cristianesimo cattolico, ortodosso, protestante storico, evangelicale e pentecostale, gli autori riconoscono tre tendenze di pensiero che hanno rappresentato la base per la prassi e la teologia missionaria dell’ultimo quarto del XX secolo. Il climax del volume, dichiarano gli stessi Bevans e Schroeder, è costituito dal dodicesimo capitolo (dal titolo «La missione come dialogo profetico»), ammet-
34 Si noti la terminologia, modernissima, che segnala il tentativo di rispondere il più adeguatamente possibile alle sfide dell’odierna società liquida (cf. Z. Bauman, Paura liquida, Laterza, Roma-Bari 2008).
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tendo che a loro parere, se tutti e tre gli approcci discussi nelle pagine precedenti sono validi, soltanto una loro sintesi potrà produrre una teologia capace di dare un fondamento alla prassi missionaria della Chiesa in questi anni iniziali del XXI secolo e del nuovo millennio. A tale sintesi essi assegnano appunto il nome di dialogo profetico. Dialogo, in quanto attinge alla natura dialogica della vita missionaria trinitaria di Dio e a una valutazione positiva del contesto dell’esistenza umana in quanto buono, degno di fede e santo. E profetico, almeno in un duplice senso. Da un lato, la Chiesa in missione deve parlare chiaramente in favore degli esclusi del mondo, contro la violenza umana ed ecologica, e in nome del regno di Dio di giustizia e pace; dall’altro, anche di fronte ai «raggi di verità divina» che si trovano all’interno delle religioni del mondo, deve annunciare senza esitazioni, fedelmente – e però rispettosamente – il nome, la visione e la signoria di Gesù Cristo. La missione come dialogo profetico andrà inoltre considerata come una «realtà unitaria, ma complessa» (Redemptoris missio [RM], n. 41: EV 12/631), e perciò concepita ora come costituita di un certo numero di elementi in relazione fra loro e critici gli uni degli altri. Se i documenti ecclesiali e svariati teologi hanno proposto diversi insiemi di tali elementi, i nostri avanzano l’idea che la missione sia composta da questi sei: testimonianza e annuncio; liturgia, preghiera e contemplazione; giustizia, pace e integrità del creato; dialogo interreligioso; inculturazione; riconciliazione. La missione, essi concludono, deve essere vissuta in un’audace umiltà: audace nella testimonianza e nel discorso profetico, umile nel dialogo riguardoso.
3.4. Un compito essenziale Come risulta evidente dalla sintesi sinora tracciata, e per stessa ammissione degli autori, Teologia per la missione oggi è certo un volume complesso, quanto ambizioso. Sebbene esso contenga numerosi dettagli, il suo scopo non è né potrebbe realisticamente essere quello di presentare una teologia sistematica esaustiva né una storia esauriente del movimento cristiano. Non tutte le dottrine teologiche, evidentemente, sono trattate dettagliatamente dal punto di vista storico o sistematico; non tutti gli eventi, i movimenti, i Paesi, le persone e le culture sono affrontati nei capitoli storici (dal terzo all’ottavo). Il nostro scopo – spiegano – non è quello di fornire una teologia o una storia completa, ma quello di discernere e presentare degli schemi di teologia cristiana che hanno plasmato, esplicitamente o implicitamente, la teologia e la prassi della missione della Chiesa, e inoltre di discernere e presentare determinati modelli di attività missionaria che sono influenzati da, e a loro volta influenzano, la teologia e la vita della comunità cristiana.35
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Bevans – Schroeder, Teologia per la missione oggi, 24s.
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Pienamente coerente con la rinascita missiologica della fine del secolo scorso, Teologia per la missione oggi richiama dunque i cristiani a riconoscere nel profondo di essere partecipi, innanzitutto, della missione di Dio. A riconoscere nel proprio servizio al Regno e alla giustizia di Dio un elemento costitutivo della propria identità ecclesiale. A confessare l’assolutezza e l’unicità di Gesù Cristo, riflettendo allo stesso tempo sulle implicazioni della presenza evidente dello Spirito all’interno delle tradizioni e delle pratiche delle altre vie religiose. Se in chiave di sintesi ribadiscono con forza che «oggi la missione dovrebbe essere caratterizzata innanzitutto come esercizio di dialogo»,36 in tale direzione Bevans e Schroeder non nascondono i rischi più vistosi attualmente in agguato, che potrebbero depotenziare, e persino annullare, la forza profetica dell’annuncio evangelico. Ad esempio, in un mondo compresso dal punto di vista spaziale e temporale, attento ai diritti umani e consapevole dei raggi di verità presenti nelle diverse religioni, i cristiani liberali possono essere tentati di togliere mordente alla tradizione profetica del cristianesimo, accontentandosi di una testimonianza impegnata in un dialogo rispettoso che però finisce per sposare, in realtà, le cause liberali, illuministiche e post-illuministiche. Ancora. In un mondo segnato da una crescente violenza religiosa, dal fervore pentecostale e dai problemi ecologici, una Chiesa del terzo mondo tendenzialmente più conservatrice – che rappresenta già la maggioranza dei cristiani37 – potrebbe essere tentata di scegliere uno stile di testimonianza e comunicazione cristiana vigoroso e profetico, ma di trascurare alcuni dei valori di tolleranza e di dialogo che la modernità occidentale ci ha lasciato come preziosa eredità. Secondo la tesi del volume, cedere all’una o all’altra di queste due tentazioni significherebbe tradire la complessità del contesto odierno. Una volta di più, spiegano i due, la missione deve essere a tutti i costi dialogica, perché in ultima analisi non è altro che la partecipazione alla natura dialogica del Dio unitrino, missionario; ma deve altresì essere profetica, perché in fondo non vi può essere alcun dialogo reale quando la verità non è espressa e articolata chiaramente. Fino a concludere: «Soltanto annunciando, servendo e testimoniando il regno di Dio in un dialogo profetico audace e umile, la Chiesa missionaria sarà costante nel contesto di oggi».38 Un compito essenziale, peraltro, se s’intende rispondere alle «gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi» (Gaudium et spes [GS], n. 1: EV 1/1319).
3.5. Per un pianeta
dal volto umano
Assumendo seriamente tali preoccupazioni, sarà necessario dunque con ogni mezzo perorare l’istanza di una missione – «realtà unitaria, ma complessa» (RM 41) – in grado di collocarsi in modo consapevole nell’orizzonte
Ivi, 550. Cf. Jenkins, La terza Chiesa. 38 Bevans – Schroeder, Teologia per la missione oggi, 626. 36 37
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socioculturale che abitiamo, cogliendone gli interrogativi e le domande emergenti. La storia, ricorda la costituzione conciliare Gaudium et spes (EV 1/1324ss), è pur sempre lo spazio abitato dal soffio dello Spirito e bisogna scrutarla con attenzione, per leggere i segni dei tempi che vi si manifestano (GS 4.11). In essi siamo invitati a cogliere, nella complessità del loro darsi, elementi rilevanti per la vocazione dell’umanità e della Chiesa. La stessa istanza di complessità evidenzia, però, anche l’urgenza di uno sforzo ermeneutico attento, per leggere l’attuale contesto in tutta la sua dimensione multiculturale e multireligiosa. Una prospettiva esplicitamente teologica, poi, potrà leggervi, cioè, un segno concreto dell’agire di quello Spirito che chiama la storia umana a diventare spazio di autentica fraternità, in una convivenza giusta e solidale (e sostenibile, va aggiunto adesso) sul pianeta Terra. Pur nell’ambiguità che caratterizza ogni fenomeno storico, è allora possibile vivere anche questo tempo accidentato e caotico come autentico kairos e inedita occasione di crescita, per quella che lo stesso Vaticano II definisce famiglia umana (GS 1). Si tratta di una realtà non riducibile a dato biologico o sociologico, ma che si presenta invece come densa di profonde connotazioni etiche e teologiche: è la figura di un’umanità che – al di là dei differenti stili di vita che la caratterizzano – ha la sua origine comune nell’atto creatore di Dio, è interamente redenta in Cristo e interamente chiamata alla comunione escatologica nello Spirito. Libertà, responsabilità, giustizia, diritti, dignità umana, salvaguardia del creato: ecco allora, a conti fatti, le parole chiave della globalizzazione, su cui si misurerà – in un futuro che è già iniziato –, per una Chiesa tutta missionaria, la capacità di contribuire a edificare un pianeta (finalmente) dal volto umano.39
4. Finale. Attrezzarsi
al dialogo
Di fronte a quanto sopra esposto, esiste solo la possibilità di assumere il rischio di porsi consapevolmente in gioco nella corrente. Questo è uno dei compiti primari delle Chiese oggi, chiamate a leggere le domande di formazione della società e dei territori in cui si collocano, elaborando risposte competenti e processi formativi adeguati. Se le città in cui viviamo sono sempre più multiculturali e multireligiose, esse dovrebbero sentire l’obbligo di contribuire a formare cittadini capaci di vivere con pienezza dentro i nuovi contesti glocali caratterizzati dal pluralismo. Rispetto ai quali la soluzione a tale inedita sfida non può certo venire da una ripresa del multiculturalismo identitario, che postula la creazione di spazi sociali divisi, e nemmeno dall’imposizione di un modello assi-
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Cf. ivi, 583-598.
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milativo in cui una mitica e fantomatica identità italiana (al singolare) è proposta come termine cui adeguarsi. Rispetto alle città interculturali, che saranno altre dalle nostre attuali città, ognuno di noi (autoctoni e immigrati) è straniero, straniero a noi stessi.40 Vale a dire, ognuno di noi è chiamato a farsi pellegrino e a mettersi in viaggio verso un nuovo spazio comune dove ciascuno e tutti, a partire dalle proprie differenze, possano sentirsi a casa e nessuno sia ospite/straniero/estraneo. Solo così saranno ricostruiti i legami sociali e la solidarietà che tengono assieme la vita delle/nelle città. Per farlo, occorre attrezzarsi al dialogo, all’incontro, alla mediazione e alla continua ri-negoziazione di vissuti e significati. Non si tratta di fondere i propri orizzonti in un sincretismo omogeneizzante o nell’universo simbolico del più forte, quanto di costruire assieme un nuovo linguaggio plurale e dialogico.41 Al riguardo lo scrittore Alessandro Baricco, ne I barbari, ha descritto con evocatività la sfida che la società, ma anche le Chiese e le religioni tutte, si trovano oggi a dover affrontare: Non c’è mutazione che non sia governabile. Abbandonare il paradigma dello scontro di civiltà e accettare l’idea di una mutazione in atto non significa che si debba prendere quel che accade così com’è, senza lasciarci l’orma del nostro passo. Quel che diventeremo continua a esser figlio di ciò che vorremo diventare. […] Detto in termini elementari, credo che si tratti di essere capaci di decidere cosa, del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo. Cosa vogliamo che si mantenga intatto pur nell’incertezza di un viaggio oscuro. I legami che non vogliamo spezzare, le radici che non vogliamo perdere, le parole che vorremmo ancora sempre pronunciare, e le idee che non vogliamo smettere di pensare. È un lavoro raffinato. Una cura. Nella grande corrente, mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo.42
J. Kristeva, Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano 1990. Mi permetto di rimandare, per un’analisi della condizione del dialogo oggi, al mio Il dialogo è finito? Ripensare la Chiesa nel tempo del pluralismo e del cristianesimo globale, EDB, Bologna ²2012. 42 A. Baricco, I barbari, Feltrinelli, Milano 2006, 179s. 40
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Parte quinta Area etica
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Evangelizzazione ed etica: appartenenza ed autonomie
Massimo Cassani
Nel numero scorso della Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione il prof. Boschini, proponendo al termine di un suo articolo1 alcune riflessioni circa il rapporto tra teologia dell’evangelizzazione e scienze storico-sociali della religione, concludeva che una questione chiave e un primo terreno di confronto può essere costituito dall’eticità, o meglio dal rapporto tra universalità della morale e particolarità della religione cristiana. Penso anch’io che questo sia, per l’odierna riflessione teologica e prassi ecclesiale circa l’evangelizzazione, un punto particolarmente delicato e problematico, e non solo in relazione alle scienze storico-sociali della religione. In questi ultimi decenni, diciamo dal concilio Vaticano II in poi, un duplice rischio è sembrato insidiare l’opera di evangelizzazione della Chiesa. Da un lato la «spiritualizzazione» dell’annuncio cristiano, ossia la sua riduzione a messaggio intimistico, puramente individuale e consolatorio, sostanzialmente disincarnato, contenente delle verità dogmatiche e delle regole ascetiche ma svincolato da ogni indicazione di tipo etico, specie se di natura sociale. Dall’altro l’«eticizzazione» o «moralizzazione» del vangelo, cioè la tendenza opposta a ridurre il vangelo e il cristianesimo a una serie di regole da osservare e ad impegno etico.2
1 P. Boschini, «Scienze storico-sociali e teologia secondo Max Weber», in RTE 1(1997), 221-236. 2 Nell’ambito della Chiesa cattolica, l’espressione forse più nota, ma certamente non l’unica, di questa seconda tendenza la si può individuare in alcune forme radicali di teologia della liberazione che riducevano il cristianesimo a liberazione socio-politica, ossia a comunione e solidarietà con i poveri e gli emarginati di ogni tipo e a fraternità sociale: natura e compito della Chiesa come del singolo cristiano erano così tutti finalizzati ed esauriti nel
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Ambedue questi rischi chiamano in causa il rapporto dell’evangelizzazione con l’etica e pongono l’esigenza di un suo ripensamento e chiarificazione. Non poteva pertanto mancare una considerazione specifica sul tema in questo numero della rivista interamente dedicato a una riflessione sulla natura e i possibili contenuti di una teologia dell’evangelizzazione. Argomento al quale, del resto, la riflessione teologico-morale contemporanea non ha mancato di dedicare attenzione. Quanto qui scriveremo non vuole aprire inediti fronti di indagine o fornire ricette risolutive per un problema indubbiamente complesso: più modestamente, si propone di raccogliere alcune indicazioni e offrire qualche spunto di riflessione a partire dalle ricerche che l’attuale dibattito teologico ha prodotto.
1. L’evangelizzazione all ’ universalità
di fronte
del fenomeno morale
Un primo motivo di difficoltà circa il rapporto tra evangelizzazione ed etica è dato dalla natura stessa dell’etica. L’esperienza etica, infatti, in sé e per sé non è cosa propria ed esclusiva del cristiano né esige e sgorga necessariamente dalla fede, ma è fenomeno universale: ogni uomo è dotato di coscienza morale, ha un senso morale ed è quindi capace, in linea di principio, di formulare giudizi morali e di discernere il bene dal male. La stessa sacra Scrittura riconosce e afferma l’universalità del fatto etico.3 Questa constatazione fa nascere immediatamente la domanda sul senso, la legittimità e i contenuti di un’etica cristiana, ma anche, di riflesso, analoghe domande circa l’etica «umana». Tra l’esperienza etica universale e le esigenze morali che promanano dalla fede cristiana si crea così, quasi inevitabilmente, una certa tensione, che esige che la questione venga formalizzata, definita e dibattuta sul piano teoretico. A un livello più storico/esistenziale, spesso la tensione si risolve positivamente in un confronto e in un dialogo aperti tra cristiani e non cristiani, tra etica cristiana ed etica cosiddetta «laica»,4 che puntano alla convergenza e all’ar-
riscatto degli ultimi, e il vangelo diventava il manifesto espressivo e promozionale di questo riscatto sociale. 3 Cf. ad es. Rm 1,21; 2,14; Fil 4,8. 4 Questa espressione «etica laica», abitualmente posta in alternativa all’altra espressione «etica cristiana», è in realtà polivalente, come del resto polivalente è il termine «laico». Può essere adoperata per designare semplicemente l’etica «umana» e razionale. Ma spesso viene adoperata per indicare quella parte dell’etica contemporanea che parte da presupposti atei o agnostici. Questo fatto rischia di generare o favorire l’ambiguità e il fraintendimento, inducendo un’identificazione tra le due prospettive. Identificazione che però è non solo inesatta, ma indebita. Essa, come rileva Antonio Da Re, è determinata dal fatto che sembrano esservi due significati solitamente connessi e sottintesi, da parte dei suoi stessi fautori, in questa caratterizzazione «laica» dell’etica: l’autonomia rispetto alla religione e
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ricchimento reciproco; ma non sempre l’esito è così felice: in determinate occasioni la tensione si acutizza fino ad assumere talora i caratteri di una contrapposizione, quando la fede chiede scelte etiche o fornisce regole di comportamento che sembrano andare in senso contrario alla sensibilità etica corrente o a ciò che la «ragione pratica», per usare una terminologia tradizionale, sembra essere in grado di raggiungere con le sue autonome forze e strumenti. Il luogo in cui queste tensioni sono particolarmente avvertite e discusse è la teologia morale, in quanto punto di contatto e di incontro/confronto tra i contenuti etici della rivelazione (la teologia morale può infatti essere compresa come scienza degli aspetti etici della fede) e l’universale ricerca etica umana. L’enciclica Veritatis splendor di Giovanni Paolo II autorevolmente riconosce questa doppia valenza della teologia morale, quando al n. 29 afferma che essa «è una riflessione che riguarda la “moralità”, ossia il bene e il male degli atti umani e della persona che li compie, e in tal senso è aperta a tutti gli uomini; ma è anche “teologia”, in quanto riconosce il principio e il fine dell’agire morale in colui che “solo è buono” e che, donandosi all’uomo in Cristo, gli offre la beatitudine della vita divina». Ciò pone la teologia morale in una condizione che è stata definita di «bipolarità intrinseca»:5 da un lato l’avvenimento Cristo con le sue implicazioni etiche da decifrare ed esplicitare, dall’altro l’universalità dell’esperienza morale, che interpella anche il credente in Cristo e che la teologia morale non può ignorare, deve anzi assumere e debitamente valorizzare, perché «tutto quello che», in relazione all’agire, «è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode» (Fil 4,8), tutto ha portata salvifica e dunque tutto rientra nell’ambito del suo oggetto di studio.6 La tensione di cui parlavo sopra chiama l’etica cristiana a un ripensamento del suo statuto e dei suoi contenuti. In questa linea, gli anni ’70
il riconoscimento del ruolo primario e fondante della razionalità. Ma, osserva l’autore, i due criteri dell’autonomia e della razionalità non sembrano in verità costituire due tratti distintivi e discriminanti dell’etica atea o agnostica rispetto ad altri approcci metaetici. «Se infatti i criteri dell’autonomia e della razionalità definiscono la laicità dell’etica, credo che in tal senso laica si potrebbe definire anche un’etica elaborata all’interno dell’orizzonte culturale cristiano, che affida alla ragione il compito di identificare i principi morali dell’agire dell’uomo […] anche se ovviamente tale autonomia non giunge a negare l’esistenza di Dio e nemmeno a prescinderne» (A. Da Re, «Il ritorno dell’etica nel pensiero contemporaneo», in Etica oggi: comportamenti collettivi e modelli culturali, Fondazione Lanza-Gregoriana, Padova 1989, 206). 5 K. Demmer, Christi vestigia sequentes. Appunti di Teologia Morale Fondamentale, PUG, Roma 21991, 1. 6 Ne deriva per la teologia morale una duplice esigenza, insieme metodologica e contenutistica: da un lato è chiamata a riflettere sulla fede cristiana e sui suoi contenuti etici, che deve sempre meglio esplicitare e approfondire; dall’altro però deve anche essere capace di accogliere e assimilare la sapienza etica accumulatasi al di fuori dei confini socio-culturali della Chiesa, e inserirsi come partner attivo nel dialogo etico universale, sapendo introdurvi, rendere comprensibili e far apprezzare, anche ai non credenti o ai credenti non cristiani, le particolari prospettive e tradizioni sorte sotto l’influsso della fede.
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hanno visto nascere e svilupparsi un dibattito ampio e spesso accalorato intorno a due temi, tra loro connessi: quello della specificità e quello dell’autonomia della morale cristiana. Il primo concerneva soprattutto i contenuti, e si domandava quali fossero, all’interno dell’etica cristiana, quelli «specificamente» cristiani e quali invece i «puramente umani» e, più in radice, «se» ve ne fossero di «specificamente» cristiani. Il secondo, sorto a seguito del primo e come sua immediata conseguenza, investiva invece più il piano metodologico e poneva la questione se il modo in cui l’etica cristiana (la teologia morale) arriva a definire e fissare i suoi contenuti, quanto meno sul piano immediatamente operativo, non dovesse in fondo essere quello di una razionalità «pura» e «autonoma», che cioè non fa riferimento ad altre autorità al di fuori di se stessa, fatti salvi naturalmente il presupposto teonomo, senza il quale non si potrebbe più parlare di etica cristiana, e le diverse «intenzionalità» e motivazioni, scaturenti dalla fede, con cui le norme individuate dalla ragione possono essere giustificate e vissute da parte del credente e dell’intera comunità ecclesiale.7 Tanto la specificità quanto, in misura minore, l’autonomia non sono, per la verità, questioni assolutamente nuove e inesplorate. Fin dalle origini, dall’epoca patristica ma ancor prima nella stessa epoca apostolica e neotestamentaria, il cristianesimo è entrato in contatto con culture anche molto raffinate ed elaborate sotto il profilo della riflessione morale (si pensi alla ricchezza e varietà dell’etica greca), e si è interrogato sulle modalità con cui rapportarsi ad esse.8 Eppure la questione del rapporto tra etica cristiana ed etica umana sembra riproporsi ad ogni fase storica di crisi e di grandi e profonde trasformazioni, e il nostro tempo indubbiamente lo è. Mai però in maniera semplicemente identica, perché i termini in cui la questione è oggi posta risentono, e non può essere diversamente, del modo in cui il fenomeno etico come tale è percepito e interpretato all’interno della nostra cultura. E il nostro tempo è segnato da almeno due peculiarità.
7 Non è possibile, nel breve spazio di questo articolo, riprendere anche solo le linee salienti di ambedue i dibattiti citati, con la relativa bibliografia. In merito alla questione dell’autonomia della morale, che mi sembra la più rilevante e decisiva ai fini di individuare linee di soluzione significative anche per l’altro tema della specificità, mi permetto di rimandare a una panoramica della questione da me redatta qualche anno fa: M. Cassani, «Autonomia morale e incidenza del vangelo. Proposte di soluzione per una questione dibattuta», in E. Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione. Saggi in onore di mons. Serafino Zardoni, EDB, Bologna 1993, 319-348. Vi si potranno trovare anche abbondanti riferimenti bibliografici. 8 Le lettere paoline, ad esempio, secondo un’interpretazione largamente accreditata tra gli studiosi, attestano un’assunzione, o quanto meno una condivisione, di alcune tematiche care all’etica greca, ma anche una loro parziale ricomprensione e revisione a partire da prospettive antropologiche inscindibilmente legate ai contenuti fondamentali del credo cristiano. Sono cioè i tratti salienti e irrinunciabili di un’antropologia biblicamente ispirata e fondata, che fungono da criteri di verifica e di giudizio per discernere la compatibilità o meno di una certa dottrina etica pagana con la fede.
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La prima è che ci troviamo di fronte a una grande molteplicità di proposte etiche: l’odierna condizione di complessità e pluralismo, che caratterizza tutta la nostra società e cultura, sembra aver investito anche la filosofia morale, che presenta perciò uno spettro assai ampio di posizioni, alquanto diversificate tra loro e non di rado antitetiche.9 L’etica filosofica sembra attraversare in questo momento storico una fase di grande incertezza. D’altra parte, osservazione analoga si può fare anche per la cosiddetta «morale cristiana», ossia per l’etica teologica, all’interno della quale convivono posizioni molto diverse. E non mi riferisco soltanto alle differenze tradizionali tra etica cattolica, protestante e ortodossa: il dato più caratteristico del nostro tempo è forse proprio che le differenze di concezioni etiche non sono ormai più tanto marcate dall’appartenenza confessionale o dalla distinzione fra credenti e non credenti, ma piuttosto sono interne ai singoli gruppi, così che può succedere che su temi particolari un moralista cattolico si trovi ad esempio più in sintonia con colleghi di altra fede o anche non credenti che con altri moralisti cattolici.10 La seconda peculiarità della nostra epoca è costituita dal sostanziale scetticismo o disinteresse nei confronti di qualsiasi riferimento religioso, fenomeno che viene solitamente denominato «secolarizzazione»,11 e dal-
9 Per qualche riferimento bibliografico, tra i tanti possibili, utile a tratteggiare un quadro sommario delle principali dottrine e correnti attualmente presenti nella etica filosofica, cf. C.A. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Etica oggi: comportamenti collettivi e modelli culturali, già citato; M. Bizzotto, La rinascita dell’etica. Ethos, valori e doveri nel contesto della cultura contemporanea, LDC, Leumann 1987; T. Bartolomei Vasconcelos – M. Calloni (a cura di), Etiche in dialogo. Tesi sulla razionalità pratica, Marietti, Genova 1990; J. Russ, L’etica contemporanea, Il Mulino, Bologna 1997. 10 Questa situazione magmatica complessifica ancor più la questione del rapporto tra etica cristiana ed etica umana, per la difficoltà a definire in modo adeguato e sufficientemente condiviso perfino le rispettive nature e i contenuti delle due discipline (specie quelli dell’etica cristiana), condizione previa indispensabile per poterne poi convenientemente tratteggiare le reciproche differenze e connessioni. 11 Si tratta di un fenomeno in realtà assai complesso e articolato, e quindi difficile perfino da definire in modo univoco ed esaustivo, ma che, in sostanza, consiste «in una progressiva emancipazione della cultura, del costume e della vita sociale dall’influenza, un tempo determinante, della religione» (E. Berti, «La riscoperta dell’etica nella società pluralistica», in Etica oggi: comportamenti collettivi e modelli culturali, 13). Iniziato agli albori dell’età moderna, si è progressivamente esteso e affermato fino a divenire predominante nell’epoca contemporanea. Non significa necessariamente ateismo, cioè negazione di Dio. Indica piuttosto quella dinamica socio-culturale per cui molte importanti attività umane, un tempo legate e dipendenti dalla religione, tendono ora a strutturarsi e organizzarsi autonomamente, prescindendo dalla vita e dall’esperienza religiosa. La religione perde di rilevanza storica e sociale ed è spesso ridotta a fatto puramente privato. La secolarizzazione ha prodotto conseguenze importanti anche sull’ethos, cioè sul modo corrente e comune di sentire e interpretare i valori morali, almeno qui in Occidente: ha infatti contribuito a produrre la crisi di quello che è stato denominato il modello etico tradizionale, il quale, tra le sue principali caratteristiche, aveva proprio quella di derivare e dipendere sostanzialmente da un atteggiamento generale marcatamente religioso, che determinava e fondava anche i valori morali, che erano pertanto mutuati in larga misura dal cristianesimo: era dalla religione, più esattamente dall’insegnamento morale della Chiesa, che si apprendeva o si ricavava ciò che è bene e ciò che è male, quel che si deve e non si deve fare. Attribuire
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la connessa convinzione che competa alla ragione umana, intesa in chiave puramente «autonoma» (e qui per «autonomia» s’intende la convinzione o la pretesa che la credenza in Dio non debba giocare alcun ruolo in etica, neppure a livello della determinazione di significato della vita e dell’agire dell’uomo), e ad essa sola, risolvere ogni questione etica.12
tuttavia alla sola secolarizzazione l’esclusiva responsabilità (merito o colpa, a seconda dei punti di vista) dell’attuale evoluzione sarebbe una forzatura e un eccesso. Altri fattori non meno importanti hanno concorso a determinare la situazione nella quale oggi ci troviamo. La secolarizzazione rappresenta un ostacolo non piccolo anche per l’evangelizzazione, giacché questa si trova a «fare i conti con un mondo che ha già conosciuto il cristianesimo, ma che lo ha, per così dire, scavalcato: un mondo che può essere definito post-cristiano» (G. Piana, «La cultura dell’indifferenza», in Rivista di Teologia Morale 24[1992], 449). Tale scavalcamento, secondo don Giannino Piana, non indica solo un superamento, un essere andati oltre, ma contiene e produce anche «un atteggiamento diffuso di indifferenza verso la proposta cristiana considerata come un retaggio desueto del passato». Indifferenza che Piana legge a tre diversi livelli: a) a un primo e più radicale livello, come perdita di significato della stessa domanda religiosa: «Dio non ha più bisogno di essere combattuto; viene, più semplicisticamente, ignorato, perché considerato del tutto irrilevante» (ivi, 450); b) a un secondo livello, in stretta correlazione col primo e quale reazione ad esso, si riscontrano nella società occidentale chiarissimi fenomeni di nostalgia e di ritorno al sacro, spesso associati a un rifiuto della ragione e al ricorso all’irrazionale, al magico, al superstizioso, all’esoterico. Ma non raramente questo ritorno del sacro «si incarna in una sorta di sincretismo dai contorni sfumati e ambigui. L’indifferenza assume qui, è questo il secondo livello, i connotati di un indifferentismo religioso, cioè di assimilazione di forme di religiosità diverse senza alcun discernimento» (ib.); c) il terzo livello lo si riscontra nei cristiani praticanti, fra i quali non infrequentemente emergono tendenze a relativizzare e selezionare le verità cristiane secondo criteri utilitaristici o di comodo e appartenenze ecclesiali «deboli», cioè vissute in modo limitato e parziale, anche qui assumendo solo ciò che serve o che piace e rifiutando invece tutto ciò che non rientra nel proprio quadro di interpretazione della realtà. Nell’insieme, si ha l’impressione che ci sia a volte quasi come un «deficit» di comunicazione, cioè che i cristiani parlino un linguaggio non solo differente ma incomprensibile, o quasi, per il mondo, per la società secolarizzata, che ci si trovi su due frequenze differenti senza possibilità reale di sintonizzazione e di dialogo. Il messaggio che noi portiamo non solo non è accettato, ma spesso dà l’idea che non sia nemmeno capito, che manchino quelle precomprensioni comuni che in ultimo rendono possibile ed efficace una comunicazione. Lo scenario è molto particolare e per vari aspetti del tutto inedito rispetto a epoche passate, e anche per questo occorre una nuova evangelizzazione, nuova non solo perché seconda rispetto alla prima evangelizzazione fatta all’epoca dei nostri padri, ma perché bisognosa di nuovi criteri e modalità per riuscire incisiva sull’odierna realtà. 12 Si ricordi quanto detto alla nota 4 a proposito dell’«etica laica». Anche a questo riguardo, però, le posizioni sono in realtà più articolate e complesse di quanto non appaia a prima vista. Anche fra chi non condivide presupposti teistici, infatti, le concezioni etiche sono assai differenziate. Padre Joseph Fuchs, noto docente emerito di Teologia morale alla Pontificia Università Gregoriana in Roma, rilevava qualche anno fa che a volte si riscontrano concezioni non esplicitamente teiste, almeno nel senso che noi cristiani solitamente diamo a questo termine, ma che in qualche modo si pongono seriamente il problema di un fondamento assoluto del reale, e lo risolvono appellandosi ad esempio al mistero. Scrive padre Fuchs: «Non è senza interesse vedere come anche fra i “padri” della “scuola di Francoforte” (filosofico-sociologica) c’era – come M. Horkheimer – chi insisteva, specialmente verso la fine della sua carriera, sulla necessità di una “teologia”: loro (in quanto atei) non intendevano parlare “di Dio”, ma del “senso” più profondo della realtà, la cui “ingiustizia”
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Da ciò il dibattito, all’interno della teologia morale, sulla «autonomia teonoma» della morale cristiana; dibattito che ha sollevato due ineludibili e basilari interrogativi: circa le possibilità e i limiti della ragione nella ricerca della verità etica (e, quindi, anche circa il contributo o l’integrazione che alla riflessione etica può essere offerto dalla fede) e, più a monte, circa il significato e la funzione che si intende riconoscere o attribuire alla ragione stessa. Ciò che infatti, forse più di ogni altra cosa, ha caratterizzato questo nostro secolo, è stato l’enorme sviluppo del sapere scientifico, tanto sul piano delle scienze empiriche quanto su quello delle scienze umane (psicologia, sociologia, antropologia culturale, ecc.) e, connesso a questo, l’accrescimento esponenziale del potere tecnico-scientifico dell’uomo sulla realtà che lo circonda e su sé medesimo. Ormai l’immagine che noi abbiamo del mondo è forgiata in modo essenziale e condizionata dalle scienze, e anche la nostra concezione dell’uomo è fortemente influenzata dai risultati delle scienze umane. Ciò non è affatto, in linea di principio, negativo né errato. Tuttavia, i successi della scienza hanno favorito l’affermarsi di una concezione della ragione vista esclusivamente, o prevalentemente, come razionalità strumentale e funzionale, sul modello delle stesse scienze, finendo così per mettere in dubbio il senso e il valore di discipline «speculative» quali la filosofia e la teologia.13 Così, problemi che tradizionalmente rientravano nell’ambito della cosiddetta philosophia practica, in tempi più recenti, con l’avvento delle scienze umane e sociali, sembrano essere passati nell’orizzonte della considerazione epistemica propria di queste ultime discipline, le quali, molto più della filosofia, sembrano fornire la garanzia di un sapere «scientifico». A prescindere dal fatto che questa apertura di credito e questa fiducia illimitata nella scienza hanno messo in luce anche i suoi limiti e le insidie che comporta,14 è oggi da più parti avvertito e denunciato il rischio di
evidente potrebbe non essere l’“ultima parola”. Nella stessa linea s’inserisce la concezione di certi umanesimi che ammettono la categoria morale, ammettono l’idea di un assoluto non però come un “Dio personale”, ma come “un mistero” non ulteriormente spiegabile. Così per es. l’associazione umanistica fiamminga-olandese degli ultimi decenni, ma anche l’umanesimo di alcuni marxisti-umanisti» (J. Fuchs, Essere del Signore. Un corso di Teologia Morale Fondamentale, ad uso degli studenti, PUG, Roma 1981, 73). Dunque, non è sempre facile o possibile nemmeno tracciare un confine netto fra fondazione teistica e ateistica dell’etica. 13 Ulteriore conseguenza è stata anche il diffondersi della convinzione che il progresso scientifico dovesse essere sottratto a qualsiasi vincolo o freno di ordine etico, o anche solo a qualsivoglia valutazione, perché sempre positivo e bene in se stesso. Ma su questo non mi soffermo. 14 Infatti «gli sviluppi a cui arriva l’indagine scientifica nell’ingegneria genetica, nella produzione dell’energia nucleare e nella razionalizzazione della vita in tutte le sue forme, ripropongono alla discussione il principio weberiano della avalutabilità delle scienze. Le minacce che si profilano in seguito alle scoperte della scienza costringono a riflettere sui propri punti di partenza per vedere se tutto ciò che è tecnicamente possibile lo è anche moralmente. Le scienze con i loro metodi neutrali si sono sospinte a un punto tale da dover postulare un’integrazione di ordine etico che si appella alla coscienza assiologia» (Bizzotto, La rinascita dell’etica, 24).
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questa indebita riduzione della «ragione» a sola ragione strumentale e «scientifica», che concede attenzione e spazio solo a ciò che è quantitativo e verificabile, rinunciando per tale via a riconoscerle competenza e capacità di attingere una verità che trascenda la pura empiria o l’analisi tecnico-scientifica, e colga invece la natura (l’«essere») e il senso ultimo della realtà e dell’uomo. Non è possibile qui entrare nel merito di dibattiti tanto ampi e complessi. Mi limito a raccogliere alcune osservazioni storico-filosofiche di Armido Rizzi che mi paiono illuminanti. Egli riscontra un paradosso significativo nello sviluppo del pensiero filosofico: Grozio e più tardi Kant, fra i primi e più illustri esponenti di una morale «autonoma», di fronte allo spettacolo di una cristianità divisa e di Chiese che tenacemente si contrapponevano e si combattevano, anche militarmente, in nome di uno stesso vangelo, avevano cercato un fondamento «laico» alla morale, con l’intento di metterla al riparo e sottrarla all’effetto distruttivo delle controversie confessionali, e di fondarla su una base che la rendesse universalmente e inconfutabilmente accettabile e giustificabile. Per loro, dunque, «mettere tra parentesi il fondamento religioso significa sottrarre la morale al pericolo di relativismo che proviene dalla pluralità delle confessioni cristiane e piantarla sull’incrollabile fondamento dello spirito come dimensione di universalità».15 Malgrado queste apprezzabili intenzioni, gli esiti storici di questo processo sono stati però, nota Rizzi, ben altri. Infatti, «il disancoramento religioso della morale ha contribuito al suo oscuramento, è stato il primo passo sulla strada della crisi. Lo è stato storicamente: la crisi della coscienza religiosa nell’età moderna è sfociata nella crisi della stessa coscienza etica della modernità».16 Non però immediatamente, ma attraverso due passaggi o tappe, che Rizzi chiama rispettivamente «prima» e «seconda secolarizzazione».17 Nella prima secolarizzazione avviene il trapasso da una fondazione dell’etica sulla fede a una sulla sola ragione; però «in questo trapasso la ragione ha portato con sé il bagaglio etico della fede»: non solo i contenuti dell’etica restano ancora sostanzialmente i medesimi, ma pure la presunta capacità fondativa della ragione, quella capacità che nella tradizione cristiana era stata espressa nella dottrina della legge morale naturale, rimane riconosciuta. Nella seconda secolarizzazione, invece, la ragione ha «secolarizzato» se stessa, «rinunciando ad avere valori e funzioni che prima aveva la fede. Diventa allora ragione non più fondante né normativa, non più capace di dettare il dover-essere, non più eticamente carica, ma semplice amministrazione del mondo dei fenomeni». E proprio questa «crisi della ragione» (intesa come ragione speculativa ed etica, e non solo tecnico/strumentale) comporta e provoca la crisi
A. Rizzi, Crisi e ricostruzione della morale, SEI, Torino 1992, 18-19. Ivi, 18. 17 Cf. ivi, 107. Da questa pagina sono attinte anche le citazioni immediatamente successive. 15 16
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del discorso etico fondato sulla ragione autonoma. «È difficile», scrive ancora Rizzi, «dire se questo risultato fosse intrinsecamente necessario o fosse invece evitabile; comunque, esso è avvenuto». Ad andare in crisi e a essere negata è stata alla fin fine la stessa possibilità di una fondazione universale e oggettiva dell’etica: appunto ciò in nome del quale si era voluto prescindere da Dio e dalla religione. E di questa crisi della ragione autonoma e dell’etica su di essa fondata, l’espressione e l’esito ultimo e più radicale è il relativismo. Un punto veramente decisivo sembra perciò essere il concetto di ragione, la sostanziale ambiguità e indeterminatezza di un appello generico ad essa (quale ragione? di che tipo?) e la sua capacità di attingere la verità etica. In proposito, si può osservare che non esiste «la ragione» astrattamente intesa, esiste sempre e solo l’uomo storico concreto che ragiona, e che nel suo ragionare è inevitabilmente condizionato dall’ambiente e dalla cultura nella quale vive ed è stato educato. Questo non significa che la verità etica non esista o sia inaccessibile agli uomini: comporta però che il cammino alla sua ricerca non è semplice né breve e soprattutto che non è possibile parlare dell’uomo, e delle sue diverse dimensioni e componenti, ragione compresa, semplicemente come se si trattasse di un oggetto, poiché l’evidenza dell’«oggetto/uomo» al «soggetto/uomo», cioè a sé medesimo, non può prescindere dall’autocoscienza del soggetto, cioè da quella percezione di sé non tematica realizzata anteriormente ad ogni riflessione.18 All’origine della diversità di molti percorsi «logici» e relative conclusioni etiche sembra stare allora una differenza di punti di partenza, ossia di presupposti o precomprensioni, specie sul piano antropologico, cioè in ordine a domande primordiali ed essenziali relative al chi sono, perché esisto, da dove vengo e dove vado.19 Ed è proprio a livello di questi presupposti antropologici che l’evangelizzazione può dare un suo significativo apporto all’etica e, più in generale, alla cultura e alla società.
Cf. G. Angelini, «Fede e morale», in Teologia 8(1983), 212-213. Questa prospettiva è particolarmente evidenziata da quei teologi (Demmer, Angelini) che sono molto sensibili alle istanze dell’ermeneutica. 19 Come già scrivevo nel contributo alla miscellanea Zardoni, «la determinazione concreta di ciò che è “razionale” è in realtà spesso tutt’altro che pacifica: ciò che uno reputa come sicuramente tale, a un altro può apparire addirittura “irrazionale”. E l’origine di questa disparità in molti casi è da ricondurre a una diversità di punti di partenza, di presupposti. Perché le conclusioni etiche cui “logicamente” giunge la ragione dipendono sempre, in modo più o meno diretto e immediato, ma comunque sostanziale, dai presupposti di ordine antropologico da cui essa parte, inerenti il senso del vivere e dell’agire umano. Questi, a loro volta, s’inseriscono all’interno di una più ampia concezione circa la realtà, il mondo, la vita, e chiamano in causa le soluzioni date alla questione di Dio e del rapporto che lega l’uomo al trascendente. Certo, anche la definizione di quali siano i presupposti giusti è compito della ragione. Ma non è impresa facile, anche perché non esiste “la ragione” in astratto, esiste sempre e solo l’uomo storico che ragiona, e che nel suo ragionare è sempre in certo modo influenzato e condizionato dalla sua storia, dalla cultura in cui vive, dall’educazione ricevuta» (Cassani, «Autonomia morale e incidenza del vangelo», 330). 18
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Non vi è dubbio, infatti, che la fede cristiana contenga determinati presupposti antropologici, ultimamente fondati sulla rivelazione, su ciò che essa dice dell’uomo, e in modo particolare e decisivo sulla figura dell’Uomo Gesù, sulla sua autocoscienza, su ciò che egli ha operato nel corso della sua esistenza terrena e su quanto ha insegnato della condizione presente e del destino futuro della intera umanità.20 Questi presupposti sono per essa irrinunciabili, in quanto parte costitutiva del suo patrimonio. Sono essi che, sul piano storico-esistenziale, plasmano e determinano l’autocomprensione che il credente ha di sé medesimo. E poiché i presupposti antropologici comportano necessariamente anche dei riflessi sul piano etico, possiamo affermare che vi sono dei contenuti etici che sono «propriamente» cristiani, non necessariamente nel senso di «esclusivamente» cristiani, ma in quanto parte integrante ed essenziale della visione cristiana, e quindi irrinunciabili. Si tratta di presupposti inaccessibili alla sola ragione? Forse no, o almeno non tutti e non completamente?21 Proprio perché «cristiano» non è sinonimo di «irrazionale», l’evangelizzazione deve sforzarsi di veicolare, rendere comprensibili e far apprezzare ad ogni uomo, anche a chi si proclama non credente, questi presupposti e contenuti, ossia le particolari prospettive e tradizioni sorte sotto l’influsso della fede. Ricercando a tal fine argomentazioni e giustificazioni «che siano universalmente accessibili alle persone “di buona volontà” e insieme pienamente fedeli al Vangelo».22 E in tale sforzo, essa va incontro a una delle esigenze oggi più profonde, ma anche delle carenze più avvertite, della nostra cultura moderna: quella di una risposta soddisfacente alla domanda «di senso ultimo dell’agire umano, e di come questo si articoli con la molteplicità dei sensi intermedi o penultimi del lavoro, della sessualità, del matrimonio-famiglia, della politica, dell’economia, della scienza, ecc.».23 Si tratta di recuperare la dimensione spirituale profonda della vita, a fronte di un vissuto che si concepisce spesso come unidimensionale in senso puramente immanentistico e materialistico.
20 Mi rifaccio qui alle acute ed equilibrate osservazioni di padre K. Demmer, già presentate in Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione, 339-345. 21 Si pensi, tanto per fare due esempi, al discorso biblico sul peccato e sulla conseguente fragilità umana, che è per molti aspetti un fenomeno e un’esperienza comune all’intera umanità, e a quello sull’uomo immagine di Dio, che fonda e giustifica in modo pieno quella dignità assoluta di ogni uomo e l’esistenza di diritti fondamentali e inalienabili, tanto cari all’epoca contemporanea e così frequentemente rivendicati. 22 B. Seveso, «La “nuova evangelizzazione”», in La Scuola cattolica 123(1995), 187. E aggiunge: «La volontà di esprimere le proprie convinzioni e la capacità di argomentarle sono disposizioni irrinunciabili in un mondo segnato dal libero mercato delle opinioni. La fede cristiana è impegnata a raccomandarsi per la bontà delle proprie posizioni». 23 L. Lorenzetti, «Evangelizzare la morale», in Rivista di Teologia Morale 24(1992), 467. E commenta: «Sarebbe davvero deludente se la Chiesa evadesse dal farsi, con il suo dire e con il suo fare, propositiva di senso. L’insieme dei divieti e dei permessi non risultano superflui, ma riacquistano quell’orizzonte adeguato entro cui si palesano credibili e sensati».
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Nell’espletamento di questo servizio l’evangelizzazione può giovarsi ed essere rinfrancata e sostenuta da una doppia consapevolezza derivante dalla fede. Primo: il fatto che Gesù è l’Uomo per eccellenza, il prototipo e il modello di ogni autentica umanità e che, come afferma Gaudium et spes, «Cristo è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina» (n. 22: EV 1/1389), cioè non è mai esistita, non esiste e non esisterà mai persona umana che non sia in vista di Cristo, chiamata a partecipare alla sua filiazione divina; e se unica è la vocazione, unico deve anche essere l’ordine morale: in questo senso i valori evangelici non sono esclusivamente cristiani ma in fondo veramente e pienamente «umani», dell’umanità «nuova» che è quella in Cristo. Secondo: che lo Spirito Santo, che soffia dove vuole e non solo entro i confini della Chiesa istituzionale, dall’interno sempre illumina le menti e muove le volontà degli uomini retti in direzione della pienezza della verità e del bene; la comprensione e attuazione dei valori evangelici non è pertanto preclusa ai non credenti o ai credenti non cristiani, in virtù della grazia. L’opera di evangelizzazione, sotto questo profilo, contribuisce a promuovere la sensibilizzazione e maturazione «morale» dell’intera umanità. Questo è dunque il compito e dovere primario dell’evangelizzazione sul piano etico: annunciare tutte le implicazioni antropologico-etiche dell’avvenimento Cristo, implicazioni che la Chiesa non può ignorare né minimizzare, se non vuole sminuire, e in fondo rinnegare, il mandato finale conferitole da Gesù di andare e ammaestrare tutte le nazioni non solo «battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo», ma anche «insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20). E il primo apporto che l’evangelizzazione può offrire all’etica è forse proprio quello di fornirle una collocazione e un limite precisi nel quadro più generale della tensione innata dell’uomo, di ogni individuo e dell’intera umanità, verso il compimento di sé, verso l’autorealizzazione, operandone in pari tempo, per così dire, una «desacralizzazione» e una «risacralizzazione». Desacralizzazione perché toglie all’etica, ma soprattutto all’uomo che dell’etica è sempre il soggetto e il destinatario sul piano degli effetti, ogni pretesa e ogni vanto di autosufficienza: l’etica, presa nella sua autonomia, non può essere principio e fonte di salvezza per l’umanità, giacché nessuno sforzo umano, per quanto grande, è in grado, da sé solo, di eliminare il male che è nel mondo, di superare l’intrinseca debolezza e fragilità dell’impegno umano, e soprattutto di travalicare e vincere la morte. Nessun uomo si salva in virtù delle sue opere. Né la redenzione finale, la salvezza escatologica cristiana può essere identificata e ridotta alla semplice liberazione umana di tipo socio-politico ed economico.24 Anche l’etica necessita perciò di redenzione. E quindi anch’essa ha bisogno di essere
24 Su questo aspetto si sofferma a lungo papa Paolo VI ai nn. 31-38 dell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975 (EV 5/1623-1632).
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evangelizzata. E l’evangelizzazione è apportatrice di una speranza che trascende i confini dell’immanente e gli ambiti del puro sforzo umano. Risacralizzazione perché mostra come l’impegno etico, posto nel contesto dell’opera divina di redenzione e in relazione ad essa, non ne risulta annichilito o superfluo, anzi acquisisce nuovo vigore e rilevanza come risposta/accettazione della salvezza offertaci in Cristo, ma non imposta, data mediante un assenso non esclusivamente interiore e mentale, ma che investe il piano storico-esistenziale e chiede un mutamento, una «conversione» di vita. L’evangelizzazione deve tradursi e prolungarsi in impegno etico coerente col vangelo. E «la stagione della nuova evangelizzazione può offrire l’occasione di un superamento dell’approccio meramente prescrittivo al problema morale e di un ricupero di quello propositivo-profetico»,25 capace cioè di indicare quel senso, quella finalità ultima e complessiva dell’agire, e prima ancora dell’esistere umano, di cui sopra si parlava. Senso che forse non è sempre possibile «dimostrare» inconfutabilmente in sede razionale, ma che è sempre possibile, e per il cristiano doveroso, «testimoniare» in un duplice modo: mediante l’annuncio profetico e con il servizio della carità. Lasciando allo Spirito il compito di renderlo interiormente «comprensibile» e «credibile» per l’interlocutore.26 Resta comunque in tutta la sua ampiezza la difficoltà, già sopra accennata,27 di un’evangelizzazione della morale cristiana per i giorni e la società attuali: l’annuncio/inculturazione dei contenuti etici del vangelo, infatti, sempre difficile, risulta esserlo ancor più quando si tratta di culture, come la nostra, che una volta erano cristiane e adesso non lo sono più, e reputano il cristianesimo una dottrina ormai superata. Anche tra i praticanti si registrano, come ampiamente rilevato da varie indagini sociologiche, pericolosi scollamenti tra le convinzioni religiose e i criteri che regolano il comportamento. Il fenomeno può avere differenti cause e spiegazioni, ma certo non ultimo è il fatto che anche su di loro fanno presa e incidono una mentalità e una cultura per larga parte scristianizzate. Conseguenza fondamentale di questo stato di cose è che «l’evangelizzazione non può essere limitata al semplice annunzio, essa deve diventa-
25 Lorenzetti, «Evangelizzare la morale», 467. E così continua due pagine dopo: «Si avverte la necessità di un’etica cristiana che sappia accompagnarsi alle etiche laiche non solo per correggere o per condannare, ma per offrire un supplemento di speranza e di risurrezione, e questo anche a quelle della disperazione e dell’indifferenza. Pure queste vanno decodificate per leggere, dal loro interno, l’anelito alla verità e alla speranza molto spesso nascosto dietro l’apparenza di un dichiarato scetticismo e relativismo esasperato» (ivi, 469). 26 «La testimonianza morale del cristiano, nelle parole come negli atti», commenta Grelot, «non può dunque mai essere separata dalla sua testimonianza di fede. È tuttavia suscettibile di essere compresa anche da coloro che non condividono esplicitamente questa fede, innanzitutto perché il bene morale è accessibile alla loro ragione, poi perché la loro coscienza è il luogo nel quale lo Spirito Santo è già all’opera, mediante l’attrattiva stessa del Bene morale che essi avvertono nel loro intimo» (P. Grelot, «La morale évangélique dans un monde sécularisé. Réflexion à partir de l’Écriture sainte», in Revue Théologique de Louvain 14[1983], 30). 27 Cf. supra, nota 11.
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re più formazione».28 Con tutte le implicazioni ed esigenze che una retta formazione delle coscienze si porta dietro e sulle quali non è qui possibile soffermarsi.
2. Evangelizzazione
ed etica cristiana di fronte a un mondo secolarizzato
Il compito dell’evangelizzazione in rapporto all’etica umana, però, non si esaurisce qui. Al pari di quanto dicevamo all’inizio per la teologia morale, anche l’evangelizzazione si trova in una situazione di bipolarità intrinseca: deve annunciare l’avvenimento Cristo con tutte le sue implicazioni antropologico-etiche; ma deve anche porsi, se vuole essere veramente efficace, in ascolto della condizione e del cammino dell’umanità contemporanea. Perché la fede cristiana può essere vissuta solo nella situazione storica concreta, non al di fuori di essa. E quello dell’umanità contemporanea è un cammino a volte confuso e incerto negli intenti e nelle mete, caratterizzato spesso, in virtù della secolarizzazione e del crollo delle ideologie, da una mancanza di punti di riferimento stabili e sicuri e di visioni organiche e unitarie della realtà, ciò che induce sensi di smarrimento, insicurezza e solitudine, che in pari tempo però attestano anche un bisogno e una ricerca di valori e di senso profondamente radicati nel cuore dell’uomo; dunque un cammino segnato da ansie, dubbi, paure, ma anche da interrogativi aperti, ricerche stimolanti, nuove scoperte scientifiche, possibilità di confronti culturali a più vasto raggio, riacquisizioni e scelte più consapevoli e personali. E di questa situazione l’evangelizzazione deve saper farsi carico, operandone un discernimento critico e sapienziale, e accogliendo e assimilando quanto di buono e di vero vi è nella riflessione ed esperienza etica generatesi anche fuori dei confini socio-culturali e della tradizione della Chiesa. In questo senso, non ha soltanto un compito o una funzione attivi, ne ha anche uno in un certo modo «passivo», di ascolto e recezione, che non è meno necessario del primo.29
28 G. Cardaropoli, «Evangelizzazione morale e nuova modernità», in Orientamenti pastorali 42(1994)2, 41. 29 Credo siano da respingere o superare visioni e atteggiamenti puramente negativi, o addirittura apocalittici, di totale rifiuto e biasimo, nei confronti della «modernità», che oltre tutto hanno spesso per effetto l’«auto-ghettizzazione» della morale cristiana, cioè il suo isolarsi, trincerarsi in un’orgogliosa autosufficienza ed escludersi da sé dal dialogo etico universale, e provocano nella controparte (l’ambiente «laico») reazioni improntate al sospetto e al rifiuto. Bruno Seveso rileva in proposito che «le contestazioni maggiori nei confronti di “nuova evangelizzazione” si fanno forti della denuncia del vizio di integrismo di cui sarebbe affetta. Vi si sospetta un progetto di riconquista cristiana che si alimenta alla denigrazione sistematica e ingenerosa, se non scorretta, dello spirito moderno» (Seveso, «La
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Tra evangelizzazione e contemporaneità deve infatti instaurarsi un rapporto dialettico sì, ma non di sterile contrapposizione quanto piuttosto di circolarità (il famoso «circolo ermeneutico»). E la circolarità comporta un reciproco interpellarsi, non esente da momenti di difficoltà e tensione, in vista di un altrettanto reciproco vantaggio e arricchimento. È, in fondo, il problema dell’inculturazione della fede e del legame tra evangelizzazione e inculturazione, dove l’apporto che ci si può aspettare non va in un senso solo (dal vangelo alla cultura), ma è bidirezionale e circolare: vangelo e cultura interagiscono e si illuminano reciprocamente. Non che alla rivelazione manchi qualcosa che possa venire aggiunto dalla cultura, però la comprensione che il soggetto (inteso sia come individuo che come collettività) ha della sua identità e vocazione umana (e, se credente, cristiana), e quindi anche del suo compito e responsabilità storica ed etica, non è mai qualcosa di già acquisito una volta per tutte, ma si attua progressivamente all’interno della storia (pur essendo la verità, nella sua accezione ultima e più alta, qualcosa che trascende la storia) ed è mediata dalla concretezza della situazione storica vissuta. E il vissuto, se da un lato attesta l’esistenza nell’uomo di esigenze e istanze sempre uguali e insopprimibili perché radicate e iscritte nella sua stessa natura, e si trova criticamente interpellato e deve verificarsi alla luce del patrimonio di principi, valori e norme già acquisiti, dall’altro però e in pari tempo mostra sempre anche aspetti parzialmente nuovi e originali della situazione concreta, che possono stimolare o esigere ulteriori approfondimenti del patrimonio etico tradizionale, mettendone in luce aspetti inediti e limiti, e suggerendone integrazioni, precisazioni, nuove chiavi di interpretazione e nuove applicazioni. In tal modo l’esperienza umana «provoca» e arricchisce l’evangelizzazione, costringendola a tornare alle sue fonti, per nuovamente interrogarle e approfondirle su aspetti precedentemente non ancora o non sufficientemente considerati.30
“nuova evangelizzazione”», 186). Nella realtà in cui viviamo, nella situazione sociale, culturale, economica, politica che ci circonda, sono senza dubbio rinvenibili e profondamente incidenti molteplici fattori negativi, ma si devono ricercare, come ci ha ricordato il concilio, anche i «segni dei tempi», che sono poi anche segni di speranza, e che certamente ci sono, dal momento che Dio Padre in Cristo per lo Spirito Santo non ha cessato di essere presente e all’opera nel mondo e nella storia. 30 Un caso emblematico della portata e potenzialità di questa circolarità vangelo-cultura può essere offerto ad esempio dalla riscoperta e dall’approfondimento che in questo nostro secolo si sono avuti della dignità e dei diritti fondamentali di ciascun uomo: è indubbio che la sorgente sul piano storico e il fondamento ultimo sul piano teoretico di tali categorie antropologiche si possono ricondurre in larga misura all’affermazione biblica dell’uomo «immagine di Dio» e, più ampiamente, a tutto il quadro dell’antropologia biblica, specie neotestamentaria; ma è altrettanto indiscutibile che alla sua riscoperta in questa epoca hanno contribuito in modo sostanziale anche dinamiche culturali, spesso nate da esperienze storiche traumatiche (cf. campi di concentramento), che hanno favorito, e anzi quasi imposto, la ripresa e il ripensamento di quelle categorie antropologiche, cercandone anche una più chiara esplicitazione e determinazione contenutistiche in rapporto all’attuale contesto storico socio-culturale.
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Accanto a quella tra le fonti e l’oggi c’è anche un’altra circolarità importante in etica: quella tra teoria e prassi, tra ragione e azione: giacché l’apprendimento della verità etica non è frutto di un processo che si colloca unicamente a livello logico/teoretico, ma investe la totalità della persona e risente, e in certa misura dipende, dalle scelte antecedentemente compiute dalla persona stessa in ordine al bene conosciuto. Con questo intendo dire due cose. Primo: che la scelta d’un valore non è mai solo un fatto logico, qualcosa che possa venire tradotto ed espresso compiutamente in termini puramente razionali. «Altro è ciò che si recepisce a livello di esperienza, altro ciò che si recepisce a livello di speculazione. Il razionalismo ha tentato di assorbire il sapere assiologico in quello logico, ma ha chiaramente ignorato il complesso contesto di situazioni e sentimenti propri della sensibilità morale».31 L’intuizione e la sensibilità morale non si lasciano circoscrivere ed esaurire dalla logica. Secondo: che il problema della conoscibilità intuitiva/razionale del bene è indissolubilmente legato a quello dell’effettivo orientamento etico di tutta un’esistenza. Il singolo arriverà cioè a comprendere effettivamente, e con sempre maggior chiarezza e sicurezza, ciò che in ogni situazione è conforme al bene solo se e nella misura in cui si sarà sforzato di vivere conformemente al bene già conosciuto o almeno intravisto. C’è in questo senso interdipendenza e circolarità tra ragione etica e concrete decisioni operative: la riflessione teorica non basta per un incontro effettivo e personale coi valori (e con Dio, Valore assoluto), occorre che tutta la persona aderisca esistenzialmente e si sforzi di attuare i valori percepiti e conosciuti intellettivamente, perché la ragione umana non è un compartimento stagno all’interno della persona. Tanto più un uomo vive in maniera difforme dalla verità che percepisce con la ragione e con la coscienza, tanto più gli risulterà poi difficile riuscire a individuare o a vedere più chiaro sulla strada del vero e del bene, perché vivendo concretamente, quotidianamente in contraddizione con se stesso, di fatto progressivamente si chiude sempre più anche alla comprensione razionale della verità e del bene. Quanto appena detto forse non è privo di significato e di conseguenze in rapporto all’evangelizzazione, perché mostra come l’accettazione esplicita e consapevole del vangelo, la fede cristiana, pur essendo innanzitutto un dono dall’alto, un’illuminazione interiore dello Spirito Santo, sia tuttavia inevitabilmente influenzata e condizionata dalla qualità e dal grado della sensibilità e maturità etica individuale. Nasce allora la domanda se non si possa pensare alla crescita etica del singolo o di una collettività, anche al di fuori di un’esplicita professione di fede cristiana, come momento in certo modo propedeutico all’evangelizzazione stessa, quasi come una pre-evangelizzazione. Se Dio è il Bene, qualsiasi apertu-
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Bizzotto, La rinascita dell’etica, 17.
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ra al bene e qualsiasi volontà di bene si può pensare come un’implicita e inconsapevole apertura a Dio, e quindi come una facilitazione sulla strada della conoscenza e accettazione della piena e perfetta rivelazione di Dio che è il Signore Gesù. E in effetti, stando a un importante e famoso passo di Lumen gentium, n. 16, perfino coloro che «senza colpa da parte loro non sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di Dio, e si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta», sono incamminati sulla via della salvezza in Cristo, poiché, spiega il testo conciliare, «tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione al vangelo, e come dato da Colui che illumina ogni uomo affinché abbia finalmente la vita».32 Probabilmente la sensibilità etica e la rettitudine di coscienza non sono l’unico fattore che «prepara» l’annuncio evangelico;33 però lo sono realmente, come dice Lumen gentium, e, in tempi difficili e faticosi per l’evangelizzazione come gli attuali, credo non ci possiamo permettere di ignorare o trascurare anche questa possibile «via» al vangelo.
32 Il problema è certamente complesso, aggravato dal fatto che qui in Italia la grandissima maggioranza di coloro che si dichiarano non credenti o professano una fede in Dio con aspetti molto soggettivi e comunque assai differente da quella della Chiesa, sono battezzati. L’interrogativo circa l’esistenza di un’eventuale colpevolezza dunque inevitabilmente nasce. E si può rammentare l’affermazione di un altro testo conciliare, Gaudium et spes, n. 19 (EV 1/1375), secondo cui «senza dubbio coloro che volontariamente cercano di tenere lontano Dio dal proprio cuore e di evitare i problemi religiosi, non seguendo l’imperativo della loro coscienza, non sono esenti da colpa». Però la stessa GS 19 riconosce che «con il termine di “ateismo” vengono designati fenomeni assai diversi tra loro», che comportano un differente grado di responsabilità personale, e che anche la civiltà moderna «può rendere spesso più difficile l’accesso a Dio». In ogni caso, lasciando a Dio che solo scruta e conosce i cuori il giudizio sulla colpevolezza o non colpevolezza individuale, resta la verità dell’affermazione di Lumen gentium, n. 16 (EV 1/326) sulla rettitudine di coscienza come possibile preparazione al vangelo. 33 Piana ad esempio, nell’articolo già sopra citato, vede come necessaria e urgente componente di questa opera di pre-evangelizzazione il ricupero all’interno della nostra cultura di una visione della vita e della persona umana meno empirica e più «simbolica» e aperta al mistero. A suo parere, la promozione di un atteggiamento interiore di autentica apertura e disponibilità personale alla fede presuppone infatti «il passaggio da una razionalità puramente ideologica o strumentale a una razionalità simbolica, che non pretende di spiegare tutto, ma si proietta verso l’inedito e verso l’infinito. Il sentimento religioso nasce dalla percezione dell’incompiutezza di sé e del mondo e si esprime nell’invocazione di un compimento che può aver luogo soltanto mediante l’appello all’assoluto. Certo la fede non si esaurisce nella religione. Ma essa si radica nel bisogno religioso di un uomo che riconosce la propria finitudine e si rende disponibile ad accogliere il mistero». E così conclude: «L’evangelizzazione non può prescindere da questo compito, che è eminentemente culturale, se intende ricreare le premesse per un’efficace penetrazione del messaggio evangelico» (Piana, «La cultura dell’indifferenza», 452). Si tratta, per così dire, di precondizioni «umane» alla fede, che certo non vincolano o limitano l’azione della grazia divina, e che tuttavia hanno una loro obiettiva rilevanza, dato che l’uomo vive comunque sempre dentro un determinato contesto storico e socio-culturale che inesorabilmente lo condiziona, nel bene come nel male.
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3. A
titolo di conclusione
Del nesso tra morale ed evangelizzazione, o meglio «nuova evangelizzazione», parla direttamente anche Giovanni Paolo II ai nn. 106-108 dell’enciclica Veritatis splendor del 1993, interamente dedicata ad «alcune questioni fondamentali della dottrina morale della Chiesa». Il papa ricorda che la nuova evangelizzazione manifesta la sua autenticità e, nello stesso tempo, sprigiona tutta la sua forza missionaria, quando si compie attraverso il dono non solo della parola annunciata, ma anche di quella vissuta. In particolare è la vita di santità, che risplende in tanti membri del popolo di Dio, umili e spesso nascosti agli occhi degli uomini, a costituire la via più semplice e affascinante sulla quale è dato di percepire immediatamente la bellezza della verità, la forza liberante dell’amore di Dio, il valore della fedeltà incondizionata a tutte le esigenze della legge del Signore anche nelle circostanze più difficili.34
Le affermazioni papali mi pare possano servire da debita conclusione e integrazione a quanto sopra detto. Si può e si deve infatti continuare a riflettere e dibattere per cercare di focalizzare meglio sul piano concettuale il rapporto tra etica ed evangelizzazione; ma è necessario anche ricordare che la questione non può esaurirsi al solo piano accademico: ha una sua necessaria concretezza, derivante dal fatto che tanto il vangelo quanto l’etica esigono di essere attuati e non semplicemente teorizzati. La santità vissuta costituisce la confluenza e la sintesi pratica più bella e più convincente delle due realtà. E proprio l’esempio di vita di tanti santi è il segno e la riprova di quanto il rapporto tra etica ed evangelizzazione sia questione importante e possa essere apportatore di buonissimi e copiosi frutti, non solo in prospettiva escatologica, ma pure sul piano «umano» e intra-storico.
34 Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa (6.8.1993), n. 107: EV 13/2798.
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Segni di speranza nella storia: prospettive offerte dai recenti sinodi sulla famiglia
Massimo Cassani
In un contesto come l’attuale, pesantemente segnato, almeno qui in Europa, da una profonda crisi di valori, tra le virtù di cui maggiormente si avverte la carenza e insieme la necessità c’è, a mio avviso, la speranza, intesa non solo come virtù teologale, ma anche come puro dato e atteggiamento umano. È esperienza comune l’incontro con persone, anche credenti, che nei confronti del domani, tanto personale quanto collettivo, hanno uno sguardo e un atteggiamento improntati a sostanziale sfiducia e paura, e talora rasentano la disperazione. Ciò, però, è in radicale contrasto con la fede cristiana. Dio, infatti, non viene meno alle sue promesse e al suo amore, e attraverso le vicende storiche, sia intra-ecclesiali che civili, continua a offrire segni e motivi di speranza a coloro che in lui confidano. Tra tali vicende mi pare si possano annoverare anche i due recentissimi sinodi sulla famiglia che papa Francesco ha voluto indire nell’ottobre 2014 e 2015.1
1 Non è possibile, nel contesto di una relazione di convegno, rifare la cronaca dell’even t o sinodale in tutti i suoi momenti e sviluppi. Mi limito solo a ricordarne l’origine, in quanto espressione degli intenti che l’hanno generato. La vicenda sinodale inizia ufficialmente l’8.10.2013, quando un comunicato della sala stampa della Santa Sede annuncia che papa Francesco ha indetto un’Assemblea sinodale straordinaria sul tema: «Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione». Il comunicato evidenziava due importanti novità. La prima era la scelta del tema. Scelta nient’affatto scontata, visto che il Consiglio ordinario della Segreteria generale del sinodo, costituito dopo la conclusione del precedente sinodo sull’evangelizzazione (2012), e nei cui compiti rientrava anche la proposta del tema per il successivo XIV sinodo ordinario – previsto per l’anno 2015, data la ricorrenza, quell’anno, del 50° anniversario della chiusura del concilio Vaticano II – si era orientato su due argomenti: il tema cristologico e quello antropologico a partire da Gaudium et spes, n.
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Massimo Cassani
Non intendo con ciò dire che quella sinodale è stata un’esperienza idilliaca, dove tutto è andato alla perfezione. Chi ha seguito, anche solo
22. Il 23.8.2013 papa Francesco comunicò invece la sua decisione che il prossimo sinodo fosse incentrato sulla famiglia. Ma c’era una seconda importante novità, inerente la modalità di svolgimento del sinodo. Data l’ampiezza e complessità del tema, ma pure data la sua urgenza, papa Francesco decise infatti di articolarlo in due momenti o tappe: 1) nel 2014, un’Assemblea generale straordinaria (la terza nella storia post-conciliare dei sinodi) avente per tema: «Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione» con queste finalità: valutare e approfondire dati, testimonianze e suggerimenti delle Chiese particolari; 2) nel 2015, un’Assemblea generale ordinaria (la quattordicesima nella storia dei sinodi), su «La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo» e avente come finalità di compiere una riflessione ulteriore sulle tematiche per individuare linee pastorali operative. L’indizione di un’Assemblea straordinaria non rappresentava di per sé una novità. Ce n’erano già state altre due nei decenni precedenti (la prima, dall’11 al 28 ottobre 1969, sul tema: «La cooperazione tra la Santa Sede e le conferenze episcopali»; la seconda, dal 24 novembre all’8 dicembre 1985, voluta da Giovanni Paolo II per celebrare «Il ventesimo anniversario della conclusione del concilio Vaticano II»). Ma era la prima volta che su un medesimo tema veniva indetta una doppia Assemblea generale: prima un sinodo straordinario e poi uno ordinario. E circa il sinodo straordinario il canone 346 § 2 dell’attuale Codice di diritto canonico stabilisce che il papa può convocarlo qualora ci siano da «trattare affari che richiedono una soluzione sollecita». Questo particolare indica in modo eloquente quanto il tema della famiglia stia a cuore a papa Francesco e come esso, ai suoi occhi, sia urgente. L’anno di tempo che intercorre tra un sinodo e l’altro e cronologicamente li separa, inoltre, non è visto da papa Francesco come un momento di «vacanza» o di «tregua», ma piuttosto come un’occasione data a tutta la Chiesa, e non solo a coloro che hanno partecipato all’Assemblea sinodale, affinché possano discutere sul tema, confrontarsi e fare le loro osservazioni e proposte, da inoltrare ai vertici. In verità un sinodo sul tema della famiglia c’era già stato. Era la quinta Assemblea generale ordinaria svoltasi dal 26 settembre al 25 ottobre 1980, avente per tema appunto «La famiglia cristiana». Relatore scelto da papa Giovanni Paolo II per quell’Assemblea fu l’allora cardinale Joseph Ratzinger e, sulla scia delle discussioni e delle proposte emerse in assemblea, il papa pubblicò l’anno successivo (1981) l’esortazione apostolica Familiaris consortio. Ma da quel sinodo erano ormai trascorsi ben 35 anni, e nel frattempo la situazione delle famiglie era profondamente mutata in varie parti del mondo, e sotto molteplici aspetti (sociale, culturale, legislativo, etico, di promozione della donna e del bambino, ecc.), cambiamenti che, in vaste zone del mondo, a causa anche di un accentuato processo di scristianizzazione e di allontanamento dai valori tradizionali, avevano determinato una situazione che si poteva definire di «grave crisi». L’aveva riconosciuto lo stesso papa Francesco quando, in un passaggio dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013, aveva scritto: «La famiglia attraversa una crisi culturale profonda, come tutte le comunità e i legami sociali. Nel caso della famiglia, la fragilità dei legami diventa particolarmente grave perché si tratta della cellula fondamentale della società, del luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri e dove i genitori trasmettono la fede ai figli» (n. 66). Il papa, tuttavia, parlando di crisi, non lo fa in chiave pessimistica o disfattista; al contrario, è convinto che dalla crisi si può e si deve venir fuori con maggiore slancio. La crisi può cioè essere un fattore di crescita, se sappiamo affrontarla e capirla bene e intravedere quelle strade che portano fuori da essa. Da qui la scelta del papa, che non si limitava però a riprendere la tematica del sinodo dell’80, ma la orientava e ricalibrava su «Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione». Con una scelta, così, che aveva fin dall’inizio una chiara duplice valenza: da un lato si poneva in continuità col sinodo precedente (2012), incentrato sull’«Evangelizzazione nel mondo contemporaneo», ribadendone e accentuandone in tal modo l’importanza e l’urgenza per l’oggi; dall’altro, declinava ed esaminava secondo tale prospettiva la complessa realtà della famiglia, conferendole così un’ottica decisamente più pastorale e missionaria.
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attraverso i mass-media, l’evento è consapevole che ci sono state tensioni interne, come pure questioni sulle quali non si è riusciti a definire una posizione chiara e condivisa e che sono rimaste aperte.2 Ciò detto, occorre in pari tempo riconoscere che, per vari aspetti, il doppio sinodo si è rivelato anche un momento di grazia, con aperture e stimoli significativi che sarebbe peccato ignorare o lasciar cadere nell’oblio, e che non concernono solo lo specifico ambito coniugale/familiare ma vanno oltre, e investono la vita e lo stile della comunità cristiana tutta. Ecco, in attesa di un documento pontificio (un’esortazione apostolica?) che dia continuità e tragga conseguenze dalle indicazioni del sinodo, con la presente relazione vorrei cercare di cogliere alcuni elementi di rilievo, che denotano e aprono la via a significativi sviluppi e cambi di atteggiamento, senza tuttavia soffermarmi esclusivamente sulla pastorale familiare, ma ricercando invece aspetti dell’esperienza sinodale che valgano a più largo raggio, ossia nei confronti della pastorale in genere, della vita ecclesiale e della testimonianza della Chiesa nel mondo. Novità che, ovviamente, nascono dal sinodo, ma che sono riconducibili innanzitutto al magistero, alla sensibilità e alle modalità d’azione di papa Francesco; tuttavia, in quanto lui ha presenziato, presieduto e stimolato con le sue indicazioni le diverse fasi del lavoro sinodale, hanno certamente investito e influenzato il sinodo stesso, e vi hanno trovato anche un interessante luogo e palestra di esercizio. Scelgo qui di soffermarmi in particolare su due questioni che, a mio avviso, hanno costituito apporti significativi e in certa misura originali delle due assemblee episcopali: la sinodalità e il discernimento. Prima di entrare in argomento, vorrei però fare una breve ma importante premessa. Perché va in primo luogo riconosciuta e apprezzata la volontà e il coraggio del pontefice che, su un tema come quello del matrimonio e della famiglia, di interesse universale ma al giorno d’oggi estremamente delicato, complesso e controverso, ha scelto di non ignorare la questione. Fattori come l’estrema varietà e complessità delle situazioni socio-culturali e legislative, differenti da Paese a Paese e ancor più da continente a continente, il crescente e diffuso allontanamento dai valori tradizionali, specie nel mondo occidentale, le differenti visioni antropologiche sottese alle varie culture e l’influsso e il dibattito che esse generano nelle Chiese locali esponevano al rischio, che si è in parte effettivamente realizzato, di generare o alimentare tensioni e divisioni interne allo stesso corpo ecclesiale. Ciò poteva consigliare di non toccare la questione, rimandandola a tempi migliori. Papa Francesco, invece, ha voluto lasciarsi interpellare/provocare dagli interrogativi del mondo di oggi e ha invitato la Chiesa universale a misurarsi con le difficoltà, i costumi e la mentalità della nostra epoca. Senza farsi vincere dalle paure. Ma senza nemmeno arroccarsi e chiudersi in atteggiamenti puramente apologetici di fronte alle sfide della post-modernità.
2 Una per tutte: l’annosa questione della comunione ai divorziati risposati o riaccompagnati.
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1. La
sinodalità / collegialità
1.1. Significato e origine Il tema matrimonio/famiglia è stato affrontato e trattato in un clima e con uno stile improntati al principio e al metodo della sinodalità/collegialità. I due termini «sinodalità» e «collegialità» sono spesso considerati e adoperati come sinonimi, anche se c’è chi vi coglie delle differenze. Il primo, «sinodalità», è preferito in Oriente. Deriva da due parole greche: syn che significa «con» e odos che significa «camminare». Quindi in senso letterale sinodo significa «camminare insieme». Un camminare insieme che si riferisce a tutta la Chiesa e ne attesta la profonda natura comunionale, giacché la Chiesa è composta da una molteplicità di esseri umani riuniti dall’unico e indiviso Spirito di Dio. Il termine «collegialità», invece, è più comune in Occidente e ha origine dal diritto romano classico, dove «collegio» indicava una società di eguali. E appunto questo suo originario significato «egualitario» ha fatto sì che, quando durante il concilio Vaticano II si discusse di «collegialità», una minoranza di padri conciliari guardò la cosa con sospetto perché la riteneva una lesione o una minaccia per il primato petrino. In concreto, e come suo primo aspetto, la sinodalità/collegialità significa una modalità di gestione della vita e dell’autorità nella Chiesa dove la suprema autorità all’interno della Chiesa (papato) si pone, e si propone, più che come potere decisionale monarchico, come figura di coordinamento e di garanzia rispetto ai contenuti fondamentali della fede cristiana, e grazie alla quale, da un lato, le varie voci e opinioni ecclesiali possono liberamente e schiettamente esprimersi e confrontarsi, dall’altro si compie un forte atto di fede e di speranza nell’azione illuminatrice e comunionale dello Spirito Santo, così che esito e frutto finale del confronto possa essere non uno stravolgimento/rinnegamento della dottrina, ma una sintesi più ampia, che possa raccogliere consensi unanimi o molto larghi, e che al medesimo tempo sia rispondente alle sfide del tempo presente e aperta verso futuri sviluppi. La sinodalità è stata riscoperta e ha ricevuto un autorevolissimo avallo dal concilio Vaticano II, che ne tratta esplicitamente in due testi, la costituzione Lumen gentium e il decreto Christus Dominus,3 e ha ricevuto la
Ecco i brani: «Come san Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per istituzione del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, sono congiunti fra di loro» (Lumen gentium, n. 22: EV 1/336); «Una più efficace collaborazione al supremo pastore della Chiesa la possono prestare, nei modi dallo stesso romano pontefice stabiliti o da stabilirsi, i vescovi scelti da diverse regioni del mondo riuniti nel consiglio propriamente chiamato Sinodo dei vescovi; rappresentando tutto l’episcopato cattolico, questo sinodo dimostra che tutti i vescovi sono partecipi, in gerarchica comunione, della sollecitudine della Chiesa universale» (Christus Dominus, n. 5: EV 1/581). 3
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sua istituzionalizzazione con il motu proprio di Paolo VI Apostolica sollicitudo del 15.9.1965 che istituisce il Sinodo dei vescovi. Papa Francesco si muove nel solco di queste indicazioni, quindi nello spirito conciliare. Nella sua mente e nelle sue intenzioni questa dinamica e metodologia sinodale e «aperta» dovrà sempre più caratterizzare e plasmare la vita della Chiesa. «Lo aveva già annunciato chiaramente nell’intervista che ha concesso a La Civiltà cattolica – pubblicata il 19 settembre 2013 – con queste parole: “Si deve camminare insieme: la gente, i vescovi e il papa. La sinodalità va vissuta a vari livelli”».4 Lo aveva ribadito più volte nell’enciclica Evangelii gaudium del novembre 2013, dove aveva posto tale sinodalità in collegamento con altri due importanti fattori: la decentralizzazione nelle scelte e nelle decisioni e la conversione pastorale della Chiesa intera. Infatti, al n. 16, aveva scritto: «Non è opportuno che il papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere a una salutare “decentralizzazione”». E al n. 32 aveva aggiunto: Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello a una conversione pastorale. Il concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le conferenze episcopali possono «portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente» [Lumen gentium, n. 23]. Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria.5
In una lettera al card. Baldisseri del 1° aprile 2014 papa Bergoglio torna sul tema e scrive: Trascorsi quasi cinquant’anni dall’istituzione del Sinodo dei vescovi, avendo anch’io perscrutato i segni dei tempi e nella consapevolezza che per l’esercizio del mio ministero petrino serve, quanto mai, ravvivare ancor di più lo stretto legame con tutti i pastori della Chiesa, desidero valorizzare questa preziosa eredità conciliare. A tal proposito, non v’è dubbio che il vescovo di Roma abbia bisogno della presenza dei suoi confratelli vescovi, del loro consiglio e della loro prudenza ed esperienza.6
4 A. Spadaro, «Una Chiesa in cammino sinodale. Le sfide pastorali sulla famiglia», in La Civiltà cattolica 165(2014)4, 214. Il testo a cui Spadaro si riferisce è Id., «Intervista a papa Francesco», in La Civiltà cattolica 164(2013)3, 466. La medesima frase è citata anche dal card. Baldisseri nella sua Relazione di apertura del sinodo il 6.10.2014 (cf. F. Garelli, Famiglie, I testi principali in versione integrale dei Sinodi dei vescovi 2014 e 2015, EDB, Bologna 2015, 32). 5 Cf. anche i nn. 244.246. 6 Il canonista Ladislas Örsy, per spiegare le origini prossime della sinodalità come istanza dentro la Chiesa, ricorda «un episodio fondamentale accaduto durante la terza sessione del concilio Vaticano II. I padri conciliari avevano ormai concluso il loro lavoro sulla Lumen
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In prospettiva storica, possiamo rilevare che la gestione monarchica dell’autorità e una forte dinamica di centralizzazione è stata la via percorsa dalla Chiesa cattolica lungo tutto il secondo millennio della sua storia. Ma non è stato così per il primo millennio. In questo senso, il concilio Vaticano II, recuperando la dimensione sinodale, non ha assolutamente inventato nulla, ha piuttosto riscoperto una prassi antica. Inoltre, mentre sotto gli ultimi pontificati, pur riconoscendo valore alla sinodalità, l’approccio di governo era ancora prevalentemente di tipo monarchico, papa Francesco a più riprese, in differenti occasioni, ha manifestato la sua opzione preferenziale per le procedure collegiali. Proprio durante l’ultima Assemblea ordinaria, infatti, nel settembre 2015, l’istituzione sinodale ha compiuto cinquant’anni.7 In questo lasso di tempo la prassi sinodale ha certamente conosciuto delle modificazioni. Tuttavia nell’intervista del 2013 a La Civiltà cattolica papa Francesco aveva detto: «Forse è il tempo di mutare la metodologia del sinodo, perché quella attuale mi sembra statica».8 Segno che la metodologia adottata nei sinodi precedenti non era pienamente rispondente alle sue attese. Nella già citata lettera a Baldisseri del 2014 riprende il tema e, pur riconoscendo «l’enorme bene» che i sinodi passati hanno fatto alla Chiesa, cita Giovanni Paolo II che il 29 ottobre 1983, nell’omelia a conclusione della VI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, aveva affermato: «Forse questo strumento [il sinodo] potrà essere ancora migliorato. For-
gentium, la costituzione dogmatica sulla Chiesa, e prima di passare all’approvazione finale e solenne sottoposero il testo all’esame del papa per avere il suo assenso. Paolo VI si mostrò perplesso. Ciò che lo preoccupava era il rapporto tra primato e collegialità. In linea con la tradizione, i vescovi avevano riaffermato la dottrina secondo cui il papa ha una potestà piena, suprema e universale sulla Chiesa ma, nello stesso paragrafo, dichiaravano che il collegio episcopale, «insieme col suo capo il romano pontefice», è «pure soggetto di piena, suprema e universale potestà sulla Chiesa», utilizzando i medesimi termini (cf. n. 22: EV 1/337). Paolo VI, da uomo prudente qual era, intuì il pericolo. Le due espressioni, se non specificate, potevano diventare fonte di fraintendimenti e di conflitti (il ricordo del conciliarismo a Roma era ancora vivo). Alla fine, egli trovò una soluzione. Sotto le sue direttive e autorità, un gruppo di eminenti teologi redasse una Nota esplicativa previa che fu inviata al concilio. In breve, nella Nota si specificava che il papa è il vicario di Cristo e pertanto detiene la potestà di governare la Chiesa in forma monarchica. Tuttavia, egli è anche il capo del collegio episcopale e come tale può scegliere una forma di governo collegiale. Tale scelta rientra nel suo potere discrezionale. Si confermava così il potere assoluto, ma la porta alla collegialità era aperta. Il documento fu inviato al concilio quale guida interpretativa inderogabile e definitiva della costituzione dogmatica sulla Chiesa. I padri conciliari, per rispetto del papa, recepirono la Nota senza alcuna particolare discussione o votazione. A rigore, essa non divenne mai un «atto del concilio» né fu mai considerata parte integrante del testo della costituzione, ma vi fu acclusa come un’appendice al momento della solenne ratifica finale. Solo un piccolo gruppo di padri votò contro il testo nella sua integralità» (L. Örsy, «Lo stile di vita della Chiesa. Radicata nella sinodalità, operante in modo collegiale», in Il Regno-att 59[2014]16, 537). 7 Ricordo qui i numerosi appuntamenti sinodali che hanno contrassegnato i cin quant’anni: 13 assemblee generali ordinarie, 3 straordinarie, 10 assemblee speciali. In totale, 26 assemblee. In media, un’assemblea ogni due anni. 8 Spadaro, «Intervista a papa Francesco», 466.
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se la collegiale responsabilità pastorale [dei vescovi] può esprimersi nel sinodo ancor più pienamente». Papa Francesco precisa inoltre che «scopo precipuo del Sinodo dei vescovi» è una «comunione» non solo «affettiva» ma realmente «effettiva».9 E individua a fondamento di tale più piena sinodalità il fatto che mistero e orizzonte della Chiesa di Dio sono la missione e la comunione. Ne consegue, egli scrive, che «si possono e si devono cercare forme sempre più profonde e autentiche dell’esercizio della collegialità sinodale, per meglio realizzare la comunione ecclesiale e per promuovere la sua [della Chiesa] inesauribile missione». E aggiunge: «Il successore di Pietro deve sì proclamare a tutti che è “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, ma in pari tempo deve prestare attenzione a ciò che lo Spirito Santo suscita sulle labbra di quanti […] partecipano a pieno titolo al collegio apostolico». Ma la sinodalità/collegialità non è, da papa Francesco, intesa unicamente come modalità di esercizio dell’autorità magisteriale-pastorale e come corresponsabilità dell’intero episcopato cattolico in vista del bene universale della Chiesa. Si allarga a investire anche i rapporti, all’interno della Chiesa, tra la gerarchia e l’insieme del popolo di Dio. Diventa cioè categoria comprensiva della Chiesa tutta. E postula un coinvolgimento assai maggiore del laicato nella vita e nelle scelte della comunità tutta. Tale convinzione, sempre fondata sulla natura comunionale della Chiesa, ha trovato forte espressione e conferma nella doppia amplissima consultazione che il pontefice ha voluto precedesse le due assemblee sinodali e costituisse pars magna nella costruzione e redazione dell’Instrumentum laboris tanto della prima come della seconda assemblea. Per la prima volta nella storia della Chiesa cattolica, un sinodo è stato preparato tramite una consultazione non solo di vescovi, teologi e «addetti ai lavori», ma rivolta al popolo di Dio nella sua totalità. Questa novità, che comportava un coinvolgimento il più ampio possibile delle varie realtà ecclesiali lo-
9 Circa questa valutazione della prassi sinodale, nei sinodi precedenti, come espressione di una comunione più affettiva che effettiva, possiamo dire che è questione sollevata e discussa anche in sede teologica. Mi limito qui, a titolo esemplificativo, a citare un autore, Maurizio Gronchi, professore ordinario di Teologia dogmatica alla Pontificia Università Urbaniana in Roma, consultore della Congregazione per la dottrina della fede e, in qualità di esperto, membro dei due sinodi sulla famiglia, il quale in un suo libretto a commento della doppia vicenda sinodale così scrive: «Dinanzi a questo lungo e articolato percorso [= i cinquant’anni della istituzione sinodale con le ventisei assemblee che si sono succedute] le valutazioni appaiono alquanto discordanti, soprattutto se si tiene conto che alla lettera della recezione conciliare, attestata dai documenti seguiti ai sinodi, in realtà non sembra aver corrisposto la percezione dell’effettiva collegialità di cui volevano essere espressione. Il sospetto di un centralismo sempre più accentuato sembra aver oscurato, in certo senso, la pretesa di sinodalità rappresentata dal convenire, seppur così frequente, dei vescovi in assemblea». Più avanti aggiunge: «Le maggiori perplessità sulla effettiva corrispondenza del sinodo al suo scopo si concentrano intorno a due principali questioni. In primo luogo, la dottrina conciliare della collegialità riesce ad esprimersi, anche giuridicamente, attraverso lo strumento del sinodo? In secondo luogo, le conclusioni condivise dall’Assemblea sinodale riescono veramente ad incidere sulla prassi ecclesiale?» (M. Gronchi, Chiesa sinodo famiglia, LEV, Città del Vaticano 2016, 27.29-30).
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cali, ha trovato, nell’insieme, un’accoglienza entusiastica e una risposta piuttosto vasta,10 anche se ovviamente vi sono state differenze marcate da zona a zona, e ha suscitato ampio interesse e forti aspettative anche al di fuori della comunità cattolica, nell’intera opinione pubblica nazionale e internazionale. È evidente che la scelta del metodo sinodale sottende una particolare visione ecclesiologica e ne è indice e strumento. Non si tratta, come qualcuno ha detto, di una «democratizzazione» della vita ecclesiale. La Chiesa non ragiona in termini di democrazia, ma di comunione. L’ecclesiologia sottesa alla sinodalità legge la Chiesa soprattutto come realtà comunionale di un popolo, il popolo di Dio, radunato nell’unità/comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e mosso e guidato nella sua vicenda storica dallo Spirito Santo. Ma proprio il richiamo all’azione dello Spirito Santo non nega la diversità dei carismi né svuota il ruolo e il compito specifici della gerarchia e del magistero, ossia la sua particolare funzione e responsabilità di esercitare, nel nome di Gesù Cristo, «per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito» (DV 5), un servizio autoritativo affinché, per un dono speciale dello Spirito, la Chiesa rimanga nei secoli costantemente rivolta e fedele a Cristo e sia sempre capace di orientare a lui l’intera umanità. Il magistero è la condizione carismatica, ma insieme stabile e istituzionale perché necessaria, della fedeltà della Chiesa a Cristo. Anzi si potrebbe dire che «il Magistero apostolico non è altro che la fedeltà del Cristo alla Chiesa che diventa per lo Spirito, per via di un’istituzione coestensiva a tutti i tempi, la fedeltà indefettibile della Chiesa al suo Cristo e per ciò stesso all’uomo».11 Magistero e gerarchia non sono però fuori o al di sopra della Chiesa, ma dentro il popolo di Dio. E non hanno l’esclusiva dello Spirito Santo. Per poter meglio esercitare il suo ruolo, con maggior efficacia e frutto, il magistero deve allora porsi in ascolto del popolo di Dio, nelle sue molteplici e variegate realtà e articolazioni. Così, la communio episcoporum deve collocarsi nel più ampio contesto della communio ecclesiarum e «la dottrina della collegialità non può esaurirsi in una questione interna alla sola gerarchia, perché il suo esercizio non può prescindere dal riferimen-
10 Nella sua Relazione introduttiva all’Assemblea sinodale straordinaria, tenuta il 6 ottobre 2014 (giorno di inizio dei lavori sinodali), il card. Lorenzo Baldisseri, Segretario generale del sinodo, ha fornito i seguenti dati: il Documento preparatorio, con l’accluso Questionario, «ha suscitato grande interesse tra i pastori e i fedeli. Lo dimostra l’alta percentuale delle risposte pervenute, che è dell’83,11% del totale degli aventi diritto (88,59% delle conferenze episcopali; 65,38% dei dicasteri della Curia romana; 76,92% dei sinodi delle Chiese orientali)». A queste risposte si aggiungono le numerosissime riflessioni, suggerimenti, istanze, che singoli, gruppi, movimenti e associazioni, sia dentro che fuori la Chiesa, hanno inviato direttamente alla Segreteria generale del sinodo, a Roma. Tutti i contributi sono stati oggetto di attenta considerazione e studio da parte di persone esperte che hanno letto, studiato e riassunto le risposte al Questionario. 11 G. Martelet, «Praxis humaine et magistère apostolique», in Nouvelle Revue Théologique 97(1975), 527.
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to al sensus fidei, quale espressione adeguata della capacità profetica del popolo di Dio».12 Ma la novità rappresentata da questo doppio sinodo sulla famiglia si apre anche al domani. Nell’importante discorso tenuto il 17.10.2015 in occasione della commemorazione del 50° anniversario, papa Francesco ha auspicato un’estensione e un radicamento sempre maggiori della prassi sinodale e ha parlato di una «Chiesa tutta sinodale», che si esprime a tre livelli: – nelle Chiese particolari; – nelle regioni ecclesiastiche e nelle conferenze episcopali; – nella Chiesa universale. Si tratta di un disegno ecclesiologico in gran parte ancora da costruire, ma che apre il cuore alla speranza di una comunità cristiana più viva, partecipata e comunionale.
1.2. Postulati
della sinodalità / collegialità : la parresia , l ’ ascolto umile , la fede nell ’ azione dello S pirito S anto
La sinodalità/collegialità, per poter «funzionare» adeguatamente e dare i frutti che da essa ci si attendono e si sperano, necessita però di condizioni previe alla sua applicazione, condizioni che investono sia l’ambito del metodo sia il piano dei contenuti spirituali o meglio degli atteggiamenti interiori personali. Papa Francesco li ha indicati con molta chiarezza e semplicità nel saluto ai padri sinodali all’inizio del primo sinodo, il 6.10.2014, quando li ha esortati a «parlare con parresia e ascoltare con umiltà». Parresia è un vocabolo greco, presente anche nella Bibbia, in particolare nel NT. Qui racchiude una pluralità di significati, che dipendono anzitutto dall’oggetto verso cui è indirizzata. Il Nuovo Testamento conosce infatti due tipi di parresia: verso Dio e verso gli uomini. Della prima si occupa soprattutto il corpus johanneum, della seconda il libro degli Atti. In san Paolo troviamo ambedue le accezioni. Indirizzata verso Dio, la parresia è soprattutto la possibilità di accostarsi a Dio, di entrare in relazione con lui, senza essere sopraffatti dalla paura o dalla vergogna per le proprie colpe, ma anzi avvicinandosi a lui con fiducia.13 In 1Gv 3 si aggiunge che questa parresia verso Dio è possibile solo se «osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli
D. Vitali, Verso la sinodalità, Qiqajon, Magnano 2014, 75. In Ef 3,12 Paolo accosta il termine parresia al vocabolo prosagoˉgeˉ, che significa «avvicinarsi [a Dio]» e dice che in Cristo Gesù noi «abbiamo la libertà di accedere a Dio in piena fiducia mediante la fede in lui». È quindi la libertà di poter stare al cospetto di Dio senza dover abbassare lo sguardo, di poter sopportare la vicinanza di Dio. 12 13
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è gradito» (v. 22). E al v. 23 si dice: «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri». Dunque la parresia nel rapporto con Dio è data dalla fede in Gesù Cristo e dall’amore del prossimo. Questi sono per Giovanni i presupposti della parresia.14 Accanto alla parresia verso Dio, ce n’è però anche una verso gli uomini. E sotto questo profilo la parresia nel NT riguarda soprattutto l’annuncio del vangelo, la proclamazione della buona novella: è cioè il coraggio e la franchezza nel predicare e professare apertamente e pubblicamente la fede anche di fronte a minacce e persecuzioni.15 Questa parresia apostolica non è frutto di coraggio o di sapienza puramente umane, ma è donata agli apostoli dallo stesso Signore tramite l’invio dello Spirito. Infatti in At 14,3 si dice che gli apostoli «parlavano con franchezza in virtù del Signore» e in At 4,31 che «tutti furono colmati di Spirito Santo e proclamavano la parola di Dio con franchezza». Nel linguaggio di papa Francesco la parresia assume anche una valenza propriamente intra-ecclesiale: diventa cioè il coraggio, la libertà, la franchezza di dire apertamente e senza timore ciò che si pensa anche all’interno della Chiesa. Tuttavia tale «parresia intra-ecclesiale» è inseparabilmente connessa e unita, nel magistero di Bergoglio, ad altre due cose: la disponibilità ad ascoltare gli altri con uguale attenzione e apertura d’animo e la fiducia che nella Chiesa, per l’azione dello Spirito Santo, questa dinamica a doppio senso di franchezza nel parlare e di prontezza nell’ascoltare non finisce per esacerbare le tensioni e i conflitti, ma invece fa crescere la comunione e induce un progresso nella comprensione della verità. Mirabili, da questo punto di vista, i due discorsi pontifici tenuti in apertura e chiusura del sinodo straordinario. Il primo è il Saluto ai padri sinodali durante la 1a Congregazione generale, il lunedì 6 ottobre 2014, dove papa Francesco, proprio insistendo sul tema della sinodalità, ne precisa una «condizione generale di base»: Parlare chiaro […], perché bisogna dire tutto quello che nel Signore si sente di dover dire: senza rispetto umano, senza pavidità. E, al tempo stesso, si deve ascoltare con umiltà e accogliere con cuore aperto quello che dicono i fratelli. Con questi due atteggiamenti si esercita la sinodalità […]: parlare con parresia e ascoltare con umiltà. E fatelo con tanta tranquillità e pace, perché il sinodo si svolge sempre cum Petro et sub Petro, e la presenza del papa è garanzia per tutti e custodia della fede.
14 Aggiunge ancora Giovanni: «Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato» (1Gv 3,24). L’osservanza dei comandamenti non è una capacità naturale dell’uomo ma è un dono di Dio nello Spirito. Conseguentemente c’è parresia verso Dio là dove Dio dimora nell’uomo per lo Spirito. Anche la parresia è quindi primariamente un dono di Dio effuso per mezzo dello Spirito (cf. anche 2Cor 3,18 e Fil 1,19-20). 15 Su questo insistono molto gli Atti degli apostoli (cf. At 4,29.31; 9,27-28; 18,25-26) ma il senso si ritrova analogo anche in san Paolo (cf. Ef 6,19-20; 1Ts 2,2).
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Il secondo intervento è il Discorso per la conclusione dell’Assemblea sinodale del 18 ottobre 2014, nel quale, dopo essersi compiaciuto per avere ascoltato interventi «pieni di fede, di zelo pastorale e dottrinale, di saggezza, di franchezza, di coraggio e di parresia» (come aveva chiesto nel discorso d’apertura), rassicura i padri sinodali, invitandoli, anche di fronte a momenti di tensione e a discussioni animate, a «vivere tutto questo con tranquillità, con pace interiore», perché «la Chiesa è sempre guidata dallo Spirito Santo, vero promotore e garante della sua unità e armonia» e perché «il sinodo si svolge cum Petro et sub Petro, e la presenza del papa è garanzia per tutti». Questi due brevi interventi pontifici, gli unici che papa Francesco ha fatto lungo tutta la durata del sinodo straordinario, pur presenziando egli personalmente a tutte le congregazioni sinodali (salvo quelle del mercoledì, perché impegnato nell’udienza generale), attestano, a mio avviso, due cose significative: 1) che il papa ha voluto lui per primo sottostare e rispettare la metodologia sinodale proposta, senza compiere interventi finalizzati a chiudere il dibattito o a «orientarlo» e condizionarlo, in una direzione o nell’altra; 2) questo «silenzio» papale non è però da interpretare come indifferenza del pontefice nei confronti dell’assemblea o della tematica. Né, come paventato da alcune parti, come segno di una barca ecclesiale che va alla deriva «senza timoniere». Perché, come dicevo, i due interventi, in apertura e in chiusura del sinodo straordinario, pur brevi, non sono affatto apparsi come «formali» o «di circostanza»; hanno invece offerto indicazioni e spunti di riflessione davvero importanti, per non dire decisivi. E specie l’ultimo invita a un salto di fede, cioè a non leggere e interpretare il sinodo e il dibattito in esso avvenuto con categorie semplicemente socio-culturali e politiche (come spesso invece ha fatto la stampa, nazionale e internazionale), ossia secondo la corrente e comune distinzione/contrapposizione conservatori/progressisti, destra/sinistra. Queste categorie valgono per l’agone politico, ma non per l’ambito ecclesiale, non perché nella Chiesa vi sia o debba esservi un pensiero unico, ma perché ciò che accomuna tutti i credenti è la fede in Cristo e la ricerca della verità. E la verità non ha colorazione politica, non è né di destra né di sinistra, è verità e viene dallo Spirito Santo. Il quale, a sua volta, conduce e illumina il cammino ecclesiale, sotto la guida dei suoi legittimi pastori e in primo luogo del successore di Pietro, il papa. Per questo la verità non scaturisce dal prevalere di una parte sull’altra, ma piuttosto dalla costante e sincera ricerca, da parte di tutti, dell’unica verità. E il confronto aperto e leale delle varie posizioni, unito alla volontà condivisa di camminare e crescere insieme, come comunità, come Chiesa che è anzitutto «una», apre la Chiesa all’ascolto dello Spirito e alla possibilità di pervenire, come avvenuto al concilio Vaticano II, a scelte e decisioni in ultimo ampiamente condivise.16
16 Scrive Javier Elizari: «Tutti gli osservatori sono rimasti impressionati dalla grandissima libertà di parola, inedita in un contesto simile. La divergenza di opinioni tra vescovi
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I medesimi concetti papa Francesco mi pare li abbia ripresi e ribaditi anche nell’intervento di apertura del sinodo ordinario del 2015, il 5 ottobre.17 Qui, i tre aspetti della parresia, dell’ascolto umile e dell’atteggiamento di fede sono espressi in termini differenti (= coraggio apostolico, umiltà evangelica e orazione fiduciosa), ma sostanzialmente molto simili nel contenuto. Mi sia consentito dire, tentando un’applicazione del discorso di papa Francesco sulla sinodalità e sui suoi «postulati», che non lo tradisce ma lo attualizza, che forse il tutto, rapportato alla vita di ogni giorno del singolo fedele e delle particolari comunità cristiane, potrebbe essere tradotto,
su questioni “spinose” è stata un normale frutto della libertà di espressione dei vescovi. In passato le differenze, eccetto casi molto limitati, rimanevano abbastanza nascoste. Adesso si sono manifestate pubblicamente fuori del sinodo e al suo interno. Non eravamo abituati a questo spettacolo inedito di un dibattito pubblico all’interno della gerarchia. […] il papa ha visto questo fatto come una “normalità” ecclesiale. “Personalmente mi sarei molto preoccupato e rattristato se non ci fossero state […] queste animate discussioni; questo movimento degli spiriti, come lo chiamava sant’Ignazio (Esercizi spirituali, 6), se tutti fossero stati d’accordo o taciturni in una falsa e quietista pace” (Discorso all’ultima Congregazione generale, 18.10.2014). Senza dubbio non pochi media, che spesso non hanno gli strumenti per comprendere eventi ecclesiali, lo hanno interpretato sullo stile delle cronache sportive o politiche» (F.J. Elizari, «La familia. Sínodos con aire nuevo», in Moralia 38[2015], 198). 17 Riporto qui il testo integrale: «Vorrei ricordare che il sinodo non è un convegno o un “parlatorio”, non è un Parlamento o un Senato, dove ci si mette d’accordo. Il sinodo, invece, è un’espressione ecclesiale, cioè è la Chiesa che cammina insieme per leggere la realtà con gli occhi della fede e con il cuore di Dio; è la Chiesa che si interroga sulla sua fedeltà al deposito della fede, che per essa non rappresenta un museo da guardare e nemmeno solo da salvaguardare, ma è una fonte viva alla quale la Chiesa si disseta per dissetare e illuminare il deposito della vita. Il sinodo si muove necessariamente nel seno della Chiesa e dentro il santo popolo di Dio di cui noi facciamo parte in qualità di pastori, ossia servitori. Il sinodo inoltre è uno spazio protetto ove la Chiesa sperimenta l’azione dello Spirito Santo. Nel sinodo lo Spirito parla attraverso la lingua di tutte le persone che si lasciano guidare dal Dio che sorprende sempre, dal Dio che rivela ai piccoli ciò che nasconde ai sapienti e agli intelligenti, dal Dio che ha creato la Legge e il sabato per l’uomo e non viceversa, dal Dio che lascia le novantanove pecorelle per cercare l’unica pecorella smarrita, dal Dio che è sempre più grande delle nostre logiche e dei nostri calcoli. Ricordiamo però che il sinodo potrà essere uno spazio dell’azione dello Spirito Santo solo se noi partecipanti ci rivestiamo di coraggio apostolico, umiltà evangelica e orazione fiduciosa. Il coraggio apostolico che non si lascia impaurire né di fronte alle seduzioni del mondo, che tendono a spegnere nel cuore degli uomini la luce della verità sostituendola con piccole e temporanee luci, e nemmeno di fronte all’impietrimento di alcuni cuori che – nonostante le buone intenzioni – allontanano le persone da Dio. “Il coraggio apostolico di portare vita e non fare della nostra vita cristiana un museo di ricordi” (Omelia a Santa Marta, 28.4.2015). L’umiltà evangelica che sa svuotarsi dalle proprie convenzioni e pregiudizi per ascoltare i fratelli vescovi e riempirsi di Dio. Umiltà che porta a non puntare il dito contro gli altri per giudicarli, ma a tendere loro la mano per rialzarli senza mai sentirsi superiori ad essi. L’orazione fiduciosa è l’azione del cuore quando si apre a Dio, quando si fanno tacere tutti i nostri rumori per ascoltare la soave voce di Dio che parla nel silenzio. Senza ascoltare Dio tutte le nostre parole saranno soltanto “parole” che non saziano e non servono. Senza lasciarci guidare dallo Spirito tutte le nostre decisioni saranno soltanto delle “decorazioni” che invece di esaltare il vangelo lo ricoprono e lo nascondono».
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ben espresso e compendiato con la parola «dialogo». Perché, come dice ancora papa Francesco nell’enciclica Lumen fidei, la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti (n. 34: EV 29/1000).
Un dialogo, però, che, per risultare veramente tale e dare i frutti attesi, esige di essere condotto secondo i tre postulati sopra indicati: parresia, ascolto, fede.
2. Il
discernimento
Occupiamoci ora del tema del discernimento. Il sinodo nella sua totalità e nei suoi due appuntamenti può essere visto come una grande occasione offerta alla Chiesa per operare un discernimento in ordine alla tematica coniugal-familiare. Nella Relazione finale del sinodo del 2015 il discernimento è definito come «principio generale» (n. 51) e come «criterio complessivo» nella pastorale e nella valutazione delle situazioni. Ma tale discernimento esige e si compie tramite un determinato iter metodologico, che comporta una selezione e articolazione di tematiche. Anche i due sinodi hanno proceduto così. Le scelte fatte per organizzare e dare sistematicità al lavoro sinodale si possono vedere riflesse nella struttura e negli indici dei documenti prodotti dai due sinodi. Si tratta di una strutturazione che in sé ricalca e mutua molto da quella già adottata in epoche passate e cara al concilio Vaticano II nella Gaudium et spes incentrata sui tre termini «vedere, giudicare, agire». Che il sinodo però ha riconiugato e reinterpretato secondo tre termini differenti: ascoltare-accogliere-accompagnare. Consideriamoli uno per uno.
2.1. L’ascolto Primo passo o primo momento è l’ascoltare. Ascolto di che cosa? Degli uomini del nostro tempo e delle loro vicende, perché, come dice la costituzione conciliare Gaudium et spes proprio nel suo incipit, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. […] Perciò essa [la comunità cristiana] si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia (n. 1: EV 1/1319).
Ascolto significa appunto attenzione al presente, alle sue dinamiche ed evoluzioni, e quindi attenzione alla storia, sempre mossi da un unico e
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comune intento e finalità: promuovere e assicurare il bene autentico degli uomini. Il sinodo ha fortemente sottolineato questo aspetto: tutta la prima parte della Relazione finale del sinodo del 2015 (nn. 5-34) si pone come un tentativo di descrivere la realtà della famiglia oggi nel mondo intero, dove da un lato impressiona la lunga lista di situazioni e casi menzionati e dall’altro si mette in luce la differenza di considerazione e trattamento che dette situazioni hanno nelle varie parti e culture del mondo. Accanto alla parola di Dio, che deve rimanere fonte primaria della fede della Chiesa e del lavoro teologico, c’è dunque un altro riferimento molto importante e parimenti necessario: l’attenzione alla storia, alla contemporaneità. Senza di essa, l’annuncio evangelico e la teologia rischiano l’astrattezza, la a-storicità, rischiano cioè di fare un discorso che vale per tutti i tempi, ma alla fin fine non ne intercetta né interpella alcuno, un discorso cioè che, come si dice, vale «per tutte le stagioni» ma dove, in fin dei conti, nessuna situazione storica concreta viene effettivamente inquadrata e interpellata né si sente messa in questione. Ma qual è la finalità, lo scopo di questa attenzione alla storia? Non è soltanto per erudizione o per riuscire accetti ai nostri contemporanei, ma per una ragione e valenza propriamente teologica. Perché la Chiesa, e al suo interno la teologia e in particolare la teologia morale in quanto riflessione critica e scientifica sull’agire cristiano, si trova al punto d’incrocio e di confronto tra la fede cristiana, con la formulazione teorica dei suoi contenuti, e la realtà concreta dell’uomo di oggi e del suo mondo. Si muove così in due direzioni e verso due fuochi tra loro in permanente tensione eppure parimenti essenziali e ineliminabili: da un lato deve annunciare il vangelo all’uomo di oggi, ricercandone ed esplicitandone implicazioni e conseguenze sul piano esistenziale/operativo, senza venir meno o rinunciare al compito profetico di illuminazione e critica che il Signore le affida; dall’altro, deve continuamente ascoltare e confrontarsi anche col mondo, per comprendere e portare al Signore le gioie e i dolori, i problemi e gli interrogativi, le attese e le speranze dell’uomo di oggi affinché possano venire illuminati, valutati e purificati alle fonti della divina rivelazione. Ma per poter adempiere convenientemente questo doppio importante compito, la comunità cristiana e il teologo devono: 1) conoscere e comprendere in profondità e dall’interno il mondo e l’uomo moderno e le linee principali della loro evoluzione dinamica; 2) saper usufruire dell’apporto e dei dati scientificamente attendibili delle moderne scienze antropologiche ed empiriche; 3) essere attenti ai «segni dei tempi» (cf. Mt 16,3), ossia devono riconoscere nella storia, tramite una lettura «sapienziale», illuminata e guidata dallo Spirito, della realtà attuale con le sue esigenze e prospettive, il trapelare dell’amore di Dio, il progressivo realizzarsi del suo disegno di grazia e di salvezza e il risuonare del suo comandamento per l’oggi; 4) impostare e arricchire la loro riflessione morale anche alla luce e sulla base dell’esperienza umana, come propone Gaudium et spes, n. 46;
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5) accogliere e valorizzare tutti i semi di verità (anche parziali e nascosti) contenuti nella riflessione etica umana, tanto dei secoli passati che contemporanea. Questa attenzione alla storia non è certamente una novità o un’invenzione del sinodo.18 Si tratta, come ha insegnato il concilio Vaticano II, di discernere e investigare i segni dei tempi. E i desideri, le ansie e le speranze dei giovani e degli sposi di oggi sono segni dei tempi da decifrare e interpretare, per giungere a un’intelligenza più profonda e «incarnata» del matrimonio e della famiglia.
2.2. L’accoglienza Il secondo aspetto evidenziato al sinodo è stata l’accoglienza. Accoglienza di che cosa? Di ciò che viene ormai comunemente chiamato «il vangelo del matrimonio e della famiglia», ossia il patrimonio di verità di varia natura (biblica, dogmatica, etica, spirituale, pastorale) che la Chiesa ha potuto decifrare e cogliere lungo l’arco di questi due millenni di storia cristiana. Perché se la verità è una ed è immutabile, la comprensione ecclesiale della medesima è invece sempre in divenire, è sempre un work in progress. La teologia della famiglia è dunque innanzitutto una ricerca e uno sforzo costante per capire il disegno di Dio su matrimonio e famiglia, comprenderne il senso e la finalità. Suo punto di riferimento, pertanto, non può essere solo la ragione umana ma la rivelazione divina, ossia la parola di Dio, quella Parola che Dio ha comunicato lungo il corso della storia e da ultimo, in forma definitiva e piena, con Gesù di Nazaret e che è affidata alla Chiesa per una custodia e una comprensione sempre più profonda. Come potrebbe esserci un discorso teologico se si perde di vista la parola di Dio? Come si potrebbe comprendere il disegno di Dio sul matrimonio-famiglia se la fonte primaria non fosse la rivelazione? Nel corso della storia, tuttavia, il rischio di abbandonare, o quanto meno di mettere in secondo piano, la parola di Dio per seguire altre strade, c’è stato. E anche oggi lo si può correre, quando luci e criteri di valutazione sono desunti più dalla sociologia, dalla cultura o da altre scienze antropologiche che dal vangelo. E non per caso, nel sinodo appena celebrato, ci sono stati momenti forti di tensione, all’interno dell’assemblea si-
18 Proprio in riferimento all’ambito «matrimonio/famiglia», già l’esortazione apostolica Familiaris consortio, a sua volta documento riepilogativo delle riflessioni del primo sinodo sulla famiglia dopo il concilio, nel 1981, esplicitamente diceva: «È alle famiglie del nostro tempo che la Chiesa deve portare l’immutabile e sempre nuovo vangelo di Gesù Cristo, così come sono le famiglie implicate nelle presenti condizioni del mondo che sono chiamate ad accogliere e a vivere il progetto di Dio che le riguarda. Non solo, ma le richieste e gli appelli dello Spirito risuonano anche negli stessi avvenimenti della storia, e pertanto la Chiesa può essere guidata a un’intelligenza più profonda dell’inesauribile mistero del matrimonio e della famiglia anche dalle situazioni, domande, ansie e speranze dei giovani, degli sposi e dei genitori di oggi» (n. 4: EV 7/1533).
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nodale, tutte le volte che si è diffusa l’impressione o è nato il sospetto che la rincorsa dietro i temi di attualità e l’istanza, del resto legittima, di dare risposta alle situazioni problematiche e agli interrogativi del momento presente facessero dimenticare o mettere in ombra il vangelo del matrimonio e della famiglia nella sua bellezza e ricchezza e nella pienezza dei suoi contenuti. La riflessione teologica ed ecclesiale deve costantemente tornare alla rivelazione, ossia alla parola di Dio letta alla luce della tradizione sotto la guida del magistero, se vuole non solo perdurare ma consolidarsi e ringiovanire. Perché la Scrittura è veramente, diceva già Pio XII nella Humani generis, un tesoro inesauribile, infinitamente più ricco di qualunque riflessione umana per quanto profonda e articolata, al quale continuamente attingere nuovi temi e nuovi orientamenti per la ricerca teologica. D’altra parte, se la teologia deve tener conto della storia e dei suoi sviluppi, valutandoli però sempre innanzitutto alla luce della parola di Dio, si deve aggiungere che anche la lettura della parola di Dio ha conosciuto delle evoluzioni nel corso dei secoli. E proprio il tema matrimonio/famiglia, con i grandi e decisivi sviluppi che ci sono stati, specialmente in questi ultimi decenni sotto i pontificati di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Francesco, è un caso emblematico di come la teologia non sia un’interpretazione statica e ripetitiva della sacra Scrittura, ma invece cresca, maturi, si approfondisca nel corso della storia, pur guardando e traendo ispirazione sempre dall’unica e medesima fonte. Evoluzione, dinamicità quindi della ricerca teologica, non come totale sovvertimento di quanto detto in precedenza, ma come graduale crescita e approfondimento di un patrimonio di dottrine che, nell’insieme, è coerente e sempre più ricco. Aspetto ulteriore, anche questo sottolineato dai due sinodi: questa riflessione teologica, centrata sulla parola di Dio, deve entrare in dialogo con coloro che cercano ugualmente di capire il significato del matrimonio attraverso la semplice ragione umana. Peculiarità della riflessione teologica, come «intelligenza della fede» o fede che ricerca una comprensione razionale, è infatti che la sua argomentazione è innanzitutto ex revelatione. Ma la rivelazione non è l’unico «libro» dove sia possibile conoscere Dio e apprendere la sua volontà. C’è un’altra fonte che Dio stesso ci ha donato e dalla quale possiamo attingere con abbondanza: è la creazione, investigata dalla ragione che indaga sulla realtà e sull’esperienza umana. Ciò determina di riflesso l’istanza di verificare, alla fine, che cosa di suo la riflessione teologica apporti nei confronti di una riflessione meramente filosofica o nei confronti delle scienze umane.
2.3. L’accompagnamento Terza e ultima dimensione del discernimento sinodale è l’accompagnamento. E questo terzo passaggio ha acquistato una rilevanza particolare nei due sinodi a motivo del carattere volutamente e primariamente pastorale che gli si è voluto conferire. Fin dall’inizio, infatti, il doppio sinodo era stato pensato e impostato con finalità pastorali, e nei
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documenti intersinodali si era parlato di una vera e propria «svolta pastorale».19 Tale svolta era stata coniugata in rapporto soprattutto a due istanze: una pastorale retta dall’«arte dell’accompagnamento»20 e allo stesso tempo arricchita e stimolata dal magistero di papa Francesco, che pone e ripropone incessantemente a tutta la Chiesa universale l’istanza della misericordia. E forse proprio l’insistenza sulla misericordia ha generato qualche difficoltà e timore, perché c’è stato chi, soprattutto fuori dall’assemblea sinodale, ha sollevato il sospetto di un presunto conflitto tra una pastorale della misericordia e la salvaguardia della verità e integrità della dottrina morale cristiana. Ma perché questa accentuazione posta sull’accompagnamento? Al l’origine della questione sta un problema serio, specie qui in Occidente: il grave scollamento fra l’insegnamento morale della Chiesa e le scelte e i comportamenti di tanti, anche cattolici praticanti. Nella sensibilità di molti nostri contemporanei, infatti, la dottrina morale cristiana è avvertita come troppo rigida e discriminante. I giudizi morali ivi espressi sono spesso interpretati come arbitraria limitazione della libertà soggettiva e come indebita interferenza negli affari privati; le persone si sentono condannate e rifiutate; e in quanto espressi dalla Chiesa, tali giudizi negativi assumono una valenza ancor più drammatica perché talora interpretati come rifiuto e condanna da parte di Dio stesso; esito di ciò è spesso un allontanamento dalla pratica cristiana e dalla frequentazione ecclesiale e sfocia in un ateismo o agnosticismo pratico o nella costruzione di una religione «fai da te», a propria misura. Tutto questo perché? Perché i nostri contemporanei sono più malvagi degli uomini delle generazioni precedenti? Non penso proprio. Penso invece che la difficoltà si possa ricondurre a una doppia causa. Da un lato un influsso culturale forte e altamente condizionante: fattori come
19 Nel questionario allegato ai Lineamenta in preparazione al sinodo del 2015, nell’Introduzione alla terza parte, si legge: «Nell’approfondire la terza parte della Relatio Synodi, è importante lasciarsi guidare dalla svolta pastorale che il sinodo straordinario ha iniziato a delineare, radicandosi nel Vaticano II e nel magistero di papa Francesco. […] È necessario far di tutto perché non si ricominci da zero, ma si assuma il cammino già fatto nel sinodo straordinario come punto di partenza». All’espressione «svolta pastorale» adoperata in questo testo, se ne aggiungono altre equivalenti leggibili in testi della Relatio Synodi 2014: «dimensione nuova della pastorale familiare» (n. 27), «necessità di un radicale rinnovamento della prassi pastorale» (n. 37), «necessità di scelte pastorali coraggiose» (n. 45). 20 Era quanto emerso nel primo sinodo (quello del 2014) ed esplicitamente sottolineato nei testi che hanno accompagnato e supportato il lavoro delle diocesi nel periodo intersinodale. Infatti, nelle Domande per la recezione e l’approfondimento della Relazione del sinodo (è il questionario allegato alla Relatio Synodi 2014 e parte integrante dei Lineamenta in preparazione al sinodo del 2015), nella breve introduzione alle domande 35-39 si legge: «Nel dibattito sinodale è stata evidenziata la necessità di una pastorale retta dall’arte dell’accompagnamento». E il sostantivo «accompagnamento» e il verbo «accompagnare» tornano numerose volte nella Relatio Synodi 2014 (cf. nn. 12.14.24.27.28.36.40.43.44.46. 47.51).
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l’individualismo imperante, il relativismo etico diffuso, il pesante condizionamento prodotto dai mezzi della comunicazione sociale, assieme allo smarrimento o al forte indebolimento del senso e della pratica della fede (scristianizzazione), influenzano e condizionano enormemente i costumi e la mentalità della gente. Dall’altro lato, però, quello della comunità cristiana e della Chiesa istituzionale, un certo legalismo e moralismo, preoccupato di salvare le norme, ma senza spiegarne il senso e la motivazione, e senza tener debito conto della varietà delle situazioni, contribuisce ad accrescere più che a contrastare la difficoltà. Da qui la parola del sinodo, che facendo proprio dell’«accompagnamento» la cifra caratteristica e il contenuto principale della anzidetta «svolta pastorale», prende le mosse e cerca di proporre un’altra prospettiva, più conforme all’atteggiamento che Gesù teneva negli incontri e dialoghi con le persone. Un atteggiamento che anzitutto non ti giudichi, ma al contrario ti aiuti a scoprire, se già non lo sai o lo hai dimenticato, che tu, indipendentemente dal tuo agire e prima di esso, vali molto per Dio, sei stato e sei amato da lui e sei il destinatario e beneficiario di uno splendido progetto divino, incentrato e realizzato in Gesù Cristo. Ma occorre raccogliere qualche indicazione più specifica circa i contenuti di tale accompagnamento. Il sinodo ne offre molte: qui ne riprendo soltanto qualcuna, scegliendo quelle che hanno validità e importanza anche oltre lo specifico ambito della pastorale familiare. 2.3.1. Uno
sguardo più positivo
sulla persona umana e sulle realtà che essa vive
Dice il n. 77 della Relatio Synodi 2015 citando l’Evangelii gaudium, n. 169: La Chiesa dovrà iniziare i suoi membri – sacerdoti, religiosi e laici – a questa «arte dell’accompagnamento», perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cf. Es 3,5). Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana.
La prima indicazione per l’accompagnamento è quella di uno sguardo positivo, direi quasi estatico e contemplativo, sulla persona umana e sul mistero che essa è. L’altro, il prossimo, chiunque esso sia e qualunque ne sia la condizione umana e morale, è «terra sacra», perché immagine di Dio e chiamato a un destino di eternità. Questo primo aspetto ne comporta un secondo: la prossimità, vista però non come uno stato ma piuttosto come un cammino. Prossimi lo si diventa, perché è una scelta, non una casualità o una necessità. Prossimità che esige in primo luogo il rispetto e la compassione, due istanze che fondano e danno contenuto alla misericordia. Ma poi implica la scelta coraggiosa, perché inattuale, di uno sguardo positivo e fiducioso, anzi-
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ché scoraggiante e sospettoso, sull’altro e sulle sue possibilità. Così si è espressa la Relatio Synodi 2014 al n. 11: La Chiesa avverte la necessità di dire una parola di verità e di speranza. Occorre muovere dalla convinzione che l’uomo viene da Dio e che, pertanto, una riflessione capace di riproporre le grandi domande sul significato dell’essere uomini possa trovare un terreno fertile nelle attese più profonde dell’umanità. […] Occorre accogliere le persone con la loro esistenza concreta, saperne sostenere la ricerca, incoraggiare il desiderio di Dio e la volontà di sentirsi pienamente parte della Chiesa anche in chi ha sperimentato il fallimento o si trova nelle situazioni più disparate. Il messaggio cristiano ha sempre in sé la realtà e la dinamica della misericordia e della verità, che in Cristo convergono.
Ecco un elemento che certamente colpisce delle posizioni assunte dal sinodo: la cura a esaminare la realtà coniugale/familiare attuale, anche negli aspetti non conformi alla dottrina cattolica, e oggi sono tanti, con uno sguardo critico ma in pari tempo con un approccio meno legalistico e un’ottica più accogliente. Esempio eloquente di tale taglio nuovo lo si legge nel n. 41 della Relatio Synodi 2014, numero che si occupa di coloro che vivono nel matrimonio civile o in convivenze e dove si legge questa affermazione, a mio parere nuova e rilevante: Mentre continua ad annunciare e promuovere il matrimonio cristiano, il sinodo incoraggia anche il discernimento pastorale delle situazioni di tanti che non vivono più questa realtà. È importante entrare in dialogo pastorale con tali persone al fine di evidenziare gli elementi della loro vita che possono condurre a una maggiore apertura al vangelo del matrimonio nella sua pienezza. I pastori devono identificare elementi che possono favorire l’evangelizzazione e la crescita umana e spirituale. Una sensibilità nuova della pastorale odierna consiste nel cogliere gli elementi positivi presenti nei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, nelle convivenze. Occorre che nella proposta ecclesiale, pur affermando con chiarezza il messaggio cristiano, indichiamo anche elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più ad esso.
La «sensibilità nuova della pastorale odierna» è dunque ricondotta a un discernimento che sia capace di «indicare anche elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al messaggio cristiano». Ciò equivale a dire che, in rapporto alle situazioni concrete delle persone, la pastorale, in un orizzonte «nuovo», ma anche più in sintonia con l’ideale evangelico, deve considerare non soltanto il bene che manca ma anche il bene che in ogni situazione già c’è, per quanto scarso sia, e, prendendo le mosse da qui, sostenere e incoraggiare ad andare oltre, proseguendo nel cammino.21
21 Tale sensibilità e ottica nuova, applicata nel n. 41 alla situazione degli sposati solo civilmente e, in misura inferiore, dei conviventi, viene in altri numeri della Relatio Synodi 2014 estesa ad altre situazioni. Ad esempio al n. 25, in rapporto ai divorziati risposati (oltre che agli sposati solo civilmente e ai conviventi) si dice che «seguendo lo sguardo di Cristo
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2.3.2. Il
vangelo del matrimonio e della famiglia
e l ’ esperienza della fragilità umana : ricadute etiche e pastorali
Il sinodo, dunque, sembra muoversi tra due istanze fondamentali, compresenti ed egualmente forti: a) da un lato una Chiesa che annuncia con gioia e convinzione la bellezza e sovraeminente ricchezza del «vangelo del matrimonio e della famiglia», mostrando con forza e grande consapevolezza l’altezza e la profondità dell’idea di famiglia di cui è latore il cristianesimo, senza nascondere o sottacere quanto in essa trascende il puramente umano; b) evitando però, al medesimo tempo, che la sua bellissima luce non offra più speranza, o peggio, sia avvertita come motivo di condanna e di emarginazione per molti credenti che vivono condizioni familiari «difficili» o «irregolari». Alla base di tale doppia preoccupazione pastorale, mi pare si possano leggere una comprensione e un apprezzamento differenti e relativamente nuovi (rispetto al modello o alla concezione che ha predominato in morale per secoli) della realtà umana, specie in quella sua componente che oggi chiamiamo «fragilità umana» e che nell’impostazione tradizionale della morale cristiana non trovava grande considerazione oppure era letta solo in chiave negativa, mentre oggi viene sempre più riscoperta nella sua universalità e serietà, nella sua problematicità e talora nella sua drammaticità, ma pure col carico di speranze, potenzialità, interrogativi e sfide esistenziali che si porta dietro. Fragilità che il sinodo ha voluto esplicitamente ricordare mettendola in relazione con la funzione «materna» della Chiesa. Si legge infatti al n. 51 della Relazione finale del 2015: La Chiesa, in quanto maestra sicura e madre premurosa, pur riconoscendo che tra i battezzati non vi è altro vincolo nuziale che quello sacramentale, e che ogni rottura di esso è contro la volontà di Dio, è anche consapevole della fragilità di molti suoi figli che faticano nel cammino della fede. «Pertanto, senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno. […] Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di
[…] la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo incompiuto, riconoscendo che la grazia di Dio opera anche nelle loro vite dando loro il coraggio per compiere il bene, per prendersi cura con amore l’uno dell’altro ed essere a servizio della comunità nella quale vivono e lavorano». Ai nn. 22 e 35 si leggono significativi riconoscimenti e apprezzamenti anche in rapporto alle unioni matrimoniali presenti in altre religioni e/o culture (sono i cosiddetti «matrimoni naturali»), per i quali però il sinodo trova già un precedente di rilievo nelle parole della dichiarazione conciliare Nostra aetate al n. 2, anche se non esplicitamente ed esclusivamente rivolte alla dimensione coniugale/familiare. E anche in ordine a queste situazioni viene ribadito il medesimo criterio e approccio: «In queste diverse realtà religiose e nella grande diversità culturale che caratterizza le nazioni è opportuno apprezzare prima le possibilità positive e alla luce di esse valutare limiti e carenze» (Relatio Synodi, n. 35).
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Segni di speranza nella storia: prospettive offerte dai recenti sinodi sulla famiglia chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute» (Evangelii gaudium, n. 44).
L’universale esperienza della fragilità, dunque, ricorda e richiama in primo luogo l’universalità, gratuità e sovrabbondanza della misericordia divina. Ma proprio perché ripensata con la chiave di lettura della misericordia, è vista dal sinodo non solo in termini negativi, come peccato, ma pure come «occasione», «tempo propizio», non in sé ma per la provvidenza e misericordia del buon Dio, giacché racchiude e dischiude potenzialità e risorse per «cammini di crescita» forse fino al presente ignoti e insospettati. Le stesse problematiche familiari più gravi vanno considerate come un «segno dei tempi», da discernere alla luce del vangelo. La sfida consiste allora nel non limitarsi semplicemente a enunciare o ribadire la norma morale tradizionale e a stigmatizzare il peccato. Ovvio che, rispetto a una norma considerata nella sua letteralità, il singolo può soltanto essere «o dentro o fuori». Ma il sinodo vede l’osservanza della norma piuttosto come punto di arrivo di un cammino, che può avere tappe e modalità differenti a seconda del variare delle situazioni concrete. I padri sinodali chiedono perciò alle Chiese locali di saper progettare e attuare itinerari pastorali nei quali: – non ci si limiti alla formale condanna del loro stato di «peccatori»; – si sappiano accostare in modo accogliente coloro che vivono situazioni affettive e coniugali tradizionalmente definite «irregolari», e più in generale ogni situazione non conforme alle regole morali; – si mettano in condizione, tramite un’azione di evangelizzazione, comprensiva di annuncio e testimonianza vissuta, di riscoprire e apprezzare la bellezza e ricchezza umana del cosiddetto «vangelo del matrimonio e della famiglia»; – sapendo inoltre individuare e proporre itinerari pastorali, adatti a loro e alle loro esigenze, che, a partire dall’esistente, e secondo tappe di crescita, consentano gradualmente di «recuperare» un rapporto col Cristo Signore e con la comunità cristiana e infondano motivi di speranza e di impegno al loro cammino. Perché nella vita sessuale/familiare, come in ogni altro ambito, non è possibile esigere dalle persone più di quanto esse siano concretamente in grado di fare. La posta in gioco è alta, giacché, in ultima istanza, si tratta di sanare e superare ogni dualismo e falsa contrapposizione tra dottrina e pastorale, evitando il duplice scoglio o pericolo di una dottrina altissima sotto il profilo etico, ma che non si occupa delle persone concrete che la debbono osservare, e di conseguenza è percepita come una mannaia che piomba sulle teste e sulle vite della gente e le giudica e le condanna senza eccezioni e senza misericordia o, viceversa, di una pastorale che, in nome della misericordia, va per conto proprio, completamente ripiegata e misurata sul sentire individuale, ma indifferente o scarsamente interessata
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rispetto al compimento effettivo della volontà di Dio all’interno della storia e dell’oggi. 2.3.3. Due
riflessi pastorali :
discernimento caso per caso e superamento di forme di esclusione o emarginazione nella vita ecclesiale
Concludo limitandomi solo ad accennare a due aspetti qualificanti del citato discernimento/accompagnamento che i documenti sinodali enunciano. Il primo lo troviamo indicato al n. 51 della Relazione finale del 2015: Di fronte a situazioni difficili e a famiglie ferite, occorre sempre ricordare un principio generale: «Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni» (Familiaris consortio, n. 84). Il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, e possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione. Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione.
Il sinodo invita a cogliere e apprezzare la varietà e differenza delle situazioni in cui persone, coppie e famiglie possono venire a trovarsi. Il discernimento non rimane quindi a livello astratto, teorico, ma investe il piano individuale e storico-esistenziale. Ciò costituisce un aspetto significativo dell’impostazione sinodale, che ha esercitato un’influenza via via crescente sul sinodo stesso fino a caratterizzarne le conclusioni. Il secondo aspetto è l’integrazione, intesa come l’azione pastorale di una «Chiesa che non solo si preoccupa di insegnare il cammino verso Cristo, ma che si pone al fianco delle persone in questo camminare insieme verso l’incontro con lui».22 Una comunità cristiana, quindi, che si faccia compagna del cammino di ognuno, a immagine e somiglianza di Gesù. E l’obiettivo ultimo qual è? Quello di ricondurre e mantenere tutte le pecorelle di Dio nell’unico gregge del Signore, dentro l’ovile dell’unico autentico e universale pastore che è il Signore Gesù, in attesa del suo ritorno escatologico e del definitivo avvento del regno di Dio. Che il Signore guidi e illumini la Chiesa in questo difficile ma promettente cammino.
22 F.J. Elizari, «Impresiones y reflexiones de un proceso sinodal», in Moralia 39(2016), 66. E aggiunge: «Probabilmente questa nuova accentuazione rivela anche la convinzione che l’accompagnamento delle famiglie, specie nei momenti difficili, è un alleato pastorale molto più efficace nell’animare e aiutare nella sequela di Cristo che qualsiasi documento dottrinale, per quanto buono sia» (ib.).
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Segni di speranza nella storia: prospettive offerte dai recenti sinodi sulla famiglia
Bibliografia 1. Documenti
del sinodo
Garelli F., Famiglie. I testi principali dell’Assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi, EDB, Bologna 2014, 21-117. Sinodo dei vescovi. XIV Assemblea generale ordinaria, La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo. Instrumentum laboris. Guida alla lettura di Franco e Pina Miano, San Paolo, Milano 2015. —, La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo. Relazione finale al Santo Padre Francesco, EDB, Bologna 2015. Spadaro A., La famiglia è il futuro. Tutti i documenti del Sinodo straordinario 2014, Àncora-La Civiltà cattolica, Milano 2014. 2. Studi Baldisseri L., «Una lettura del sinodo sulla famiglia», in S. Zamboni (a cura di), Le sfide della famiglia oggi. Atti del Convegno Accademia Alfonsiana, Roma 18-19 marzo 2015, Supplemento 6 a Studia Moralia 53(2015)1, 11-28. Bonny J., «Sínodo sobre la familia. Esperanzas de un obispo diocesano», in Moralia 37(2014), 349-387. Bonny J. – Nichols V. – ACERAC – Vesco J.-P., «I vescovi, le domande e le attese», in Il Regno-doc 59(2014)17, 547-561. Elizari F.J., «La familia. Sínodos con aire nuevo», in Moralia 38(2015), 193-229. —, «Impresiones y reflexiones de un proceso sinodal», in Moralia 39(2016), 66. Gronchi M., Chiesa Sinodo famiglia, LEV, Città del Vaticano 2016. Kasper W., Il vangelo della famiglia, Queriniana, Brescia 2014. Majorano S., «Problemi morali emergenti dal sinodo», in Zamboni (a cura di), Le sfide della famiglia oggi, 29-49. Martelet G., «Praxis humaine et magistère apostolique», in Nouvelle Revue Théologique 97(1975), 527. Örsy L., «Lo stile di vita della Chiesa. Radicata nella sinodalità, operante in modo collegiale», in Il Regno-att 59(2014)16, 537-539. Spadaro A., «Intervista a papa Francesco», in La Civiltà cattolica 164(2013)3, 466. —, «Una Chiesa in cammino sinodale. Le sfide pastorali sulla famiglia», in La Civiltà cattolica 165(2014)4, 213-227. Vitali D., Verso la sinodalità, Qiqajon, Magnano 2014.
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La nuova umanità alla luce della Laudato si’
Matteo Prodi
Siamo sull’orlo di una crisi ecologica probabilmente non reversibile, che potrebbe costituire addirittura l’inizio di una crisi globale, di ordine economico, sociale, politico; anzi: potrebbe costituire una concreta minaccia per la sopravvivenza dell’umanità. In questo contesto papa Francesco scrive la Laudato si’.1 Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo, tra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che geme e soffre le doglie del parto. Dimentichiamo che noi stessi siamo terra. Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora.2
Il tema dell’ecologia è il punto di partenza; l’obiettivo è costruire una nuova umanità dentro la storia degli uomini.
1 Il presente articolo ha origine da un seminario tenutosi presso la Scuola di formazione teologica di Bologna, patrocinata dalla FTER, sul tema «Quale sviluppo a partire dall’enciclica Laudato si’?» (Bologna, 22 aprile – 27 maggio 2016). Alcune riflessioni sono già state pubblicate in M. Prodi, «Alcune piste di impegno a partire dalla Laudato si’», in il Margine 35(2015)9, 26-38. 2 Francesco, lettera enciclica Laudato si’ (LS) sulla cura della casa comune (24.5.2015), n. 2, in http://w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_ 20150524_enciclica-laudato-si.html
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1. Il
metodo
La Laudato si’ si basa su convinzioni teologiche e pastorali di fondo, già presenti nella Evangelii gaudium,3 frutto di un cammino collettivo molto ampio – ecclesiale e non – che ha caratterizzato la maturazione delle Chiese latinoamericane negli ultimi sessant’anni. Per affrontare questioni urgenti degli uomini – ecologiche, economiche, politiche e antropologiche – papa Francesco fa infatti riferimento a un determinato impianto teorico e teologico: «La vera speranza cristiana, che cerca il Regno escatologico, genera sempre storia».4 La storia umana è un luogo di vita e di conflitto essendo percorsa da una corrente di processi generativi e degenerativi. La fede cristiana vissuta personalmente, ecclesialmente e in maniera disseminata nella storia entra in tali percorsi storici, li vaglia con attento discernimento, opera al loro interno accompagnando i processi positivi, contrastando quelli negativi, creandone di nuovi. Questo avviene con un’immersione nella realtà che va colta nelle sue polarità, va interpretata in maniera realistica e prospettica, va quindi letta come luogo in cui è possibile che lo Spirito creatore e vivificatore sia all’opera e, infine, va modificata rispettando le quattro prospettive fondamentali dei processi costruttivi di bene: il tempo è superiore allo spazio, il tutto è superiore alla parte, la realtà è superiore all’idea, l’unità è superiore al conflitto, dove con «superiorità» non si vuole indicare una polarità dialettica irriducibile, ma la possibilità di un’integrazione a un livello più ampio e più profondo. Qui la misericordia, cioè l’amore gratuito, realistico, creativo, interdipendente e responsabilizzante del Dio cristiano, diventa un seme fecondante le coscienze, le Chiese, gli uomini di buona volontà e, quindi, capace di avviare cammini di redenzione e sanazione storica.
2. La
necessaria antropologia
Come l’uomo si rapporta con l’ambiente è la cartina di tornasole per capire il suo atteggiamento di fondo verso ciò che lo circonda: l’uomo oggi tende a possedere, accaparrarsi, sfruttare e seguire il proprio godimento immediato. È la risposta alla presenza del limite. Mancandoci sicurezza, beni, ricchezze, cerchiamo di appropriarci di quanto possa colmare quel vuoto nel quale siamo immersi. Nietzsche ha dato la sua risposta, affrontando il tema delle dise guaglianze:
Per le radici teologiche degli scritti di papa Francesco, cf. ad esempio F. Mandre«L’idea di Europa di Erich Przywara: una riflessione critica per l’ora attuale», in RTE 18(2014)35, 187-221. 4 Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium (EG) sull’annuncio del vangelo nel mondo attuale (24.11.2013), n. 181: EV 29/2287. 3
oli,
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La nuova umanità alla luce della Laudato si’ Cos’è buono? Tutto ciò che eleva il senso della potenza. Cos’è cattivo? Tutto ciò che origina dalla debolezza. I deboli e i malriusciti devono perire: questo è il principio del nostro amore per gli uomini. E a tale scopo si deve essere loro di aiuto. Che cos’è più dannoso di qualsiasi vizio? Agire pietosamente verso tutti i malriusciti e i deboli.5
Si propone, quindi, l’elogio della distanza,6 per stare il più lontani possibile da ogni forma di compassione. Proprio perché buoni sono i potenti, cattivi gli inferiori, questi ultimi non potranno che provare l’invidia verso i potenti, invidia che spingerà verso il tentativo di esproprio. L’unico percorso possibile per tutti gli uomini verso la felicità è proporre ai forti la felicità dell’eccesso, ai deboli la tranquillità dell’arrendevolezza. Qui sta la felicità per tutti. Ma la plebe dirà ammiccando: «Noi siamo tutti eguali […]. Non vi sono uomini superiori, noi siamo tutti eguali, l’uomo è uomo; davanti a Dio siamo tutti eguali!» Ma questo Dio è morto. Davanti alla plebe, però, noi non vogliamo essere tutti uguali […]. Uomini superiori, questo Dio era il vostro più grande pericolo […] Dio è morto: ora noi vogliamo che viva il Superuomo.7
L’uomo è libero di realizzare se stesso, libero dai suoi limiti, a partire dalla condizione di adultità che la modernità gli aveva garantito. Diversamente ragiona Emmanuel Lévinas: «La responsabilità per l’Altro diventa la struttura essenziale, primaria, fondamentale della soggettività. […] Io sono in quanto sono per gli altri. Essere ed essere per gli altri sono in pratica sinonimi».8 Il volto dell’altro mi chiama fuori dall’isolamento dell’esistere. «Se obbedisco a questo volto dell’altro non è per il potere dell’altro ma per la sua debolezza».9 Il fondamento del mio agire deriva dall’impossibilità di sottrarmi alla ricerca della felicità sia mia che dell’altro: «Io posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me: è questa la mia inalienabile identità di soggetto».10 Oggi il denaro definisce l’individuo e le relazioni umane; il principio democratico «una persona un voto», ora è diventato «un dollaro un voto». Sappiamo che non può essere così; un tempo Dio era il fondamento di ogni potere e autorità. Giustamente nelle nostre democrazie laiche il riferimento al divino non può essere più accettato. Ma
5 F. Nietzsche, Opere, VI/3: […], L’Anticristo, versioni di F. Masini – R. Calasso, Adelphi, Milano 21975, 168-169. 6 Cf. ivi, 249. 7 F. Nietzsche, Opere, VI/1: Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, versione di M. Montinari, Adelphi, Milano 21973, 206.348-349, citato da Z. Bauman, L’arte della vita, Laterza, Roma-Bari 2009, 152-153. 8 Bauman, L’arte della vita, 154. 9 Ivi, 155. 10 E. Lévinas, Etica ed infinito. Il volto dell’altro come alterità etica e traccia dell’infinito, trad. it. di E. Baccarini, Città Nuova, Roma 1984, 97-99.
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Matteo Prodi il «sacro» può non essere necessariamente legato alla trascendenza ed essere più laicamente considerato. Con le rivoluzioni dell’Occidente, su cui si è costruito il costituzionalismo democratico, il «sacro» come fondamento di legittimità, di ordine e di senso comunitario, non discende più dall’alto attraverso la persona del sovrano, secondo la formula paolina (omnis potestas a Deo), ma si trasfonde direttamente nei diritti dell’uomo e del cittadino definiti, nelle prime Carte rivoluzionarie, «sacri e inviolabili». I diritti della persona vanno difesi, per i credenti in quanto essa è costruita a «immagine e somiglianza di Dio», per i non credenti in quanto la persona «ha valore in sé e per sé», come «bene comune», e non solo per la sua utilità.11
Il potere ha, quindi, questo fine: valorizzare la sacralità della persona, nella continua ricerca della sua verità, nell’ininterrotto dialogo tra culture che abbiano a cuore il progresso dell’umanità. Con quale antropologia possiamo iniziare a costruire un mondo diverso? Non può essere l’homo oeconomicus. Propongo l’homo responsus a partire da Gen 2,20, dove l’uomo cerca un aiuto che gli corrisponda. È un uomo che parte dal suo limite (è solo maschio e gli manca metà della creazione dell’uomo), dalla sua povertà e, cercando l’aiuto che lo porti alla pienezza, contemporaneamente reca in dono la propria pienezza anche all’altro/altra; sceglie, decide di essere dono per avere una vita realizzata. Nel mondo l’homo responsus cerca e trova il senso del suo esistere, proprio accogliendo l’altro come dono e come svelamento del proprio essere e, offrendosi parallelamente all’altro, gli presenta un simmetrico aiuto. È un’antropologia che valorizza il limite come apertura e pienezza; il limite non spinge all’egoismo come nell’homo oeconomicus, come se l’altro fosse sempre e solo un concorrente di beni scarsi, ma svela un percorso di liberazione dal limite stesso: il mondo offre la risposta alle angosce e alla finitudine dell’uomo; con lo spendere la sua responsabilità, l’uomo trova le risposte al senso della sua vita, delle sue crisi, della sua crescita. È responsus e non respondens perché innanzitutto l’uomo riceve la vita e solo dopo offre all’altro le sue risposte. Abbiamo lavorato e lavoriamo nelle fabbriche, nei campi, nelle miniere e siamo rimasti umani anche perché lo abbiamo fatto insieme, fianco a fianco, perché abbiamo incrociato occhi alla pari, anche quando pieni di lacrime o di rabbia. La cultura del lavoro e le sue nuove forme di organizzazione rischiano di riportarci alla stagione dell’Adam solo.12
Dobbiamo recuperare la centralità delle relazioni dentro al progetto di una nuova umanità, di un’ecologia integrale. Assieme alle meraviglie che la globalizzazione ci ha permesso di conoscere e utilizzare, i cittadini e le comunità hanno fatto spesso l’esperienza dell’essere seriamente appesantite e gravemente danneggiate dalle sue manifesta-
A. Barbera, «Laicità come metodo», in Il cortile dei gentili, Donzelli, Roma 2011, 103. L. Bruni, Le imprese del patriarca. Mercato, denaro e relazioni umane nel libro della Genesi, EDB, Bologna 2015, 21-22. 11 12
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La nuova umanità alla luce della Laudato si’ zioni di prevaricazione, egoismo, squilibrio. Libertà e bene comune, invece, esigono che ci si dedichi strutturalmente, non episodicamente, come condizione perché tutti possiamo stare bene, a costruire legami; tra le generazioni, le città, i cittadini, le culture e i saperi, le religioni, le fatiche e le risorse, il fuori e il dentro, il vicino e il lontano. Solo tessuti sociali e civili non lacerati, ma robustamente amalgamati e coesi, sono in grado di reagire alle crisi.13
L’uomo può essere capace di reciprocità anche nel lavoro. Esistono nelle persone dei valori morali e delle preferenze «pro-sociali», ovvero il piacere di rendere altre persone felici. Aggiungeremmo noi che tali preferenze sono del tutto ovvie se ci riconduciamo agli ultimi risultati in materia di antropologia, sull’essenza relazionale dell’essere umano.14
Se, quindi, l’uomo non solo è in relazione, ma è essenzialmente relazione e a partire dal proprio limite scopre la bellezza di donarsi all’altro, allora «attraverso la relazione e la cura dell’altro, scopre se stesso perché donandosi si “ri-ha” essendo la sua fioritura determinata fondamentalmente dall’arricchimento e dalla conoscenza di sé derivata dalla relazione con gli altri».15 L’altro diventa il fratello, se non addirittura lo sposo; questa è la vera rivoluzione; il dinamismo che si crea è, in qualche modo, l’anticipazione delle immagini finali dell’Apocalisse, dove la nuova e definitiva umanità è la città e la sposa. La felicità dell’altro è la mia felicità.16 È il superamento della deriva antropologica che il papa denuncia: L’uomo e la donna del mondo postmoderno corrono il rischio permanente di diventare individualisti e molti problemi sociali attuali sono da porre in relazione con la ricerca egoistica della soddisfazione immediata, con le crisi dei legami famigliari e sociali, con le difficoltà a riconoscere l’altro.17
3. Quattro 3.1. Il
frontiere
potere
«La miope costruzione del potere frena l’inserimento dell’agenda ambientale lungimirante all’interno dell’agenda pubblica dei governi».18 L’uomo tende, come abbiamo già detto, a possedere per dominare il mondo. Il papa sottolinea spesso nella sua enciclica come esistano precisi luo-
13 B. Draghetti, «La centralità delle relazioni per un’ecologia integrale», in Abiterai la terra. Commento all’enciclica Laudato si’, AVE, Roma 2015, 72. 14 L. Becchetti, Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni, Città Nuova, Roma 2009, 119. 15 Ivi, 153. 16 Cf. M. Prodi, «Il superamento dell’homo oeconomicus», in RTE 19(2015)38, 509-535. 17 LS 162. 18 LS 178.
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Matteo Prodi
ghi di potere: dalla tecnologia, alla finanza, al mondo dell’economia in generale fino alla politica, che pure appare ultima nella capacità di iniziare processi virtuosi: questo ci impedisce di agire per il bene. Lo sottolinea Naomi Klein: La vera ragione per cui non riusciamo a mostrarci all’altezza del momento climatico in cui viviamo è che le azioni richieste rappresentano una sfida diretta per il paradigma economico imperante […], per le teorie su cui si fondano le culture occidentali […] e per molte di quelle attività che formano le nostre identità e definiscono le nostre comunità (fare shopping, condurre una vita virtuale e poi riprendere a fare shopping). Tali azioni, inoltre, significherebbero l’estinzione dell’industria più ricca e più potente mai sviluppatasi: quella del petrolio e del gas, che, se vogliamo evitare di estinguerci, non potrà sopravvivere in una qualche forma paragonabile a quella attuale. In breve, non abbiamo finora risposto a questa sfida perché siamo prigionieri, in senso politico, fisico e culturale; solo dopo aver individuato queste catene potremo avere una possibilità di liberarci.19
Bisogna bilanciare i poteri, smascherarne la propensione demoniaca e perversa. La nostra rivelazione cristiana ci propone una riflessione nel libro dell’Apocalisse; l’apostolo Giovanni, nell’ultimo libro della Bibbia, presenta una teologia della storia, letta come il tempo della lotta dei vari poteri contro l’unico vero Signore, l’agnello sgozzato. La politica, l’economia e la cultura cercano di ottenere dagli uomini la piena adorazione; sta al credente smascherare questa pretesa per poter seguire l’Agnello ovunque vada. Ma anche il pensiero costituzionale ci insegna che l’unica vera soluzione è la divisione e il bilanciamento del potere e dei poteri.20 Le suggestioni di Jeremy Rifkin possono aiutarci a riflettere: questo visionario ipotizza, ad esempio, che solo una diversa produzione di energia, capace di demolire i potentati economico-finanziari, può davvero far passare da una gestione verticale del potere a una orizzontale, dove i cittadini riescono a plasmare la loro vita e a tutelare i propri interessi.21
3.2. Il
denaro , l ’ economia e il lavoro
Una rivoluzione è auspicata per l’economia: abbiamo bisogno di «cambiare modello di sviluppo globale, la qual cosa implica riflettere respon-
19 N. Klein, Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli, Milano 2015, 93-94. 20 Cf. l’analisi dell’antropologia nella Costituzione italiana che propongo nel mio Una bussola per l’uomo di oggi. La Costituzione italiana alla luce della crisi, Cittadella, Assisi 2015. 21 Cf. J. Rifkin, La terza rivoluzione industriale. Come il «potere laterale» sta trasformando l’energia, l’economia e il mondo, Mondadori, Milano 2011.
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sabilmente sul senso dell’economia e sulla sua finalità».22 La prima sfida è ripensare il profitto. Il principio della massimizzazione del profitto, che tende a isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la produzione, interessa poco che si produca a spese delle risorse future o della salute dell’ambiente.23
Occorre, inoltre, riflettere sul lavoro e sulla centralità della persona in ogni decisione economica: Affermiamo che l’uomo è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale (GS 63) […]. La realtà sociale di oggi esige, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, che si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro […]. Il vero obiettivo dovrebbe essere sempre consentire ai poveri una vita degna mediante il lavoro. Tuttavia l’orientamento dell’economia ha favorito un tipo di progresso tecnologico finalizzato a ridurre i costi di produzione in ragione della diminuzione dei posti di lavoro sostituiti dalle macchine […]. Rinunciare a investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società.24
Tutti i decisori dell’economia, ma in particolare le aziende, devono tendere alla meta di offrire a tutti un lavoro dignitoso e sicuro. In un’economia governata dall’accumulo di capitale, deve essere chiaro che il paradigma deve essere ribaltato: il capitale è un mezzo, il lavoro per tutti un fine. Occorre, quindi, ripensare radicalmente il mercato, affinché sia un mezzo per creare il bene comune. Troppi sono i suoi fallimenti e sappiamo bene che non è adeguato ad affrontare i temi della giustizia sociale e dell’ambiente. Il papa nella Evangelii gaudium aveva già condannato questa economia che uccide e aveva già avvisato il mondo sulla necessità del suo superamento. Gli studi di Piketty,25 in particolare, hanno ampiamente dimostrato come sia necessario che il denaro non sia solo gestito per ottenere rendite, ma per generare un vero sviluppo che tocchi la vita dei più poveri. Una frontiera che il papa indica per una nuova economia è l’adozione di un modello circolare di produzione
LS 194. LS 195. 24 LS 127-128. Si può anche ricordare che l’obiettivo della piena occupazione non ha diritto di cittadinanza nella vulgata economica del neoliberalismo, dove regna la concorrenza più selvaggia. Questo si riflette anche nei trattati dell’Unione Europea che consegnano lo sviluppo alla concorrenza, dimenticandosi radicalmente della piena occupazione (cf. L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, Einaudi, Torino 2015, 80). 25 Cf. T. Piketty, Il capitale del XXI secolo, Bompiani, Milano 2014. Piketty dimostra come il principale fattore destabilizzante sia il fatto che il tasso di rendimento del capitale è, ormai strutturalmente, più alto del tasso di crescita del reddito e del prodotto. 22 23
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Matteo Prodi che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento, riutilizzare e riciclare. Affrontare tale questione sarebbe un modo per contrastare la cultura dello scarto che finisce per danneggiare il pianeta intero, ma osserviamo che i progressi in questa direzione sono ancora molto scarsi.26
Almeno a livello di pronunciamenti qualcosa si muove in questa direzione: la Commissione Europea ha pubblicato una road map per la Circular Economy dove si afferma: Un’economia circolare ha lo scopo di mantenere il valore delle materie prime e dell’energia impiegato nei prodotti nella catena del valore per una durata ottimale, cioè minimizzando rifiuti e risorse impiegate. Mediante il prevenire perdite di valore dai flussi di materie prime, crea opportunità economiche e vantaggi competitivi basandosi sulla sostenibilità.
Il modello dell’economia circolare punta su nuove forme di approvvigionamento (privilegiando fonti rinnovabili o risorse riciclabili o biodegradabili), sul prolungamento del ciclo di vita del prodotto, sul considerare il prodotto non come una proprietà di qualcuno ma come servizio che si può condividere (costruendo, ad esempio, forme di collaborazione tra utenti di prodotti attraverso piattaforme di proprietà dell’azienda). Un’altra prospettiva è l’imprenditoria. Perché continui a essere possibile offrire occupazione è indispensabile promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale. Per esempio vi è una grande varietà di sistemi alimentari agricoli e di piccola scala che continua a nutrire la maggior parte della popolazione mondiale, utilizzando una porzione ridotta del territorio e dell’acqua e producendo meno rifiuti, sia in piccoli appezzamenti agricoli e orti, sia nella caccia e nella raccolta di prodotti boschivi, sia nella pesca artigianale.27
L’idea forte è quella di recuperare il legame tra chi vive sul territorio e la produzione. Il punto di partenza è non la proprietà ma l’uso dei beni.28 Un esempio può venire dagli orti comuni. Gli orti significano lavoro per la riproduzione, libero. Favoriscono il rispetto per il suolo, per la natura, per una vita equilibrata. Ma nel paradigma neoliberista odierno se si lavora nel proprio orto invece che nel mercato delle braccia, si rischia di essere chiamati scansafatiche o scrocconi perché non si ha un posto o non lo si cerca. Gli orti sono un posto tranquillo in cui scaricare lo stress. Regalano una sensazione di sicurezza e un legame con le altre generazioni. Veicolano un senso di cittadinanza, una benvenuta combinazione di
LS 22. LS 129. 28 Cf. P. Dardot – C. Laval, Del Comune o della Rivoluzione del XXI secolo, DeriveApprodi, Roma 2015. 26 27
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La nuova umanità alla luce della Laudato si’ diritti culturali, sociali, ed economici per via del contatto con la terra e del diritto economico di produrre per la famiglia, gli amici e la comunità.29
Il concetto di valore condiviso30 è la frontiera decisiva per il vero contributo delle imprese a uno sviluppo integrale. Si crea valore economico in modo da creare valore anche per la società rivolgendosi ai suoi bisogni e sfide. Il valore condiviso non è responsabilità sociale, filantropia o al limite sostenibilità, ma una nuova via per ottenere il successo economico. Infatti, lo scopo della corporation deve essere la creazione di valore condiviso, non il profitto. Ciò produrrà una riforma del capitalismo e del suo rapporto con la società e una legittimazione del fare impresa. I bisogni della società, non quelli semplicemente economici, definiscono i mercati. Le debolezze della società frequentemente creano costi interni per le imprese. Affrontarli non produce costi maggiori. Anzi; e bisogna capire che il problema non è dividere in modo diverso la torta (come fa il commercio equo e solidale), ma renderla più grande. Un business ha bisogno di una comunità piena di successo, non solo per creare domanda per i suoi beni ma anche per i beni pubblici essenziali e un ambiente capace di fornire supporto. Una comunità ha bisogno di imprese di successo per creare lavoro e salute per i cittadini, recuperando il legame con la società e l’ambiente, perso a causa della globalizzazione, e la possibilità di crescere assieme. Il punto di partenza per creare valore condiviso è identificare tutti i bisogni della società, i vantaggi e gli svantaggi che sono o possono essere inclusi nei prodotti dell’impresa. Infine, occorre fare almeno un cenno alla decrescita. Nella Laudato si’, per la prima volta, un’enciclica parla di questa prospettiva. Contrariamente alla formula sventurata dell’enciclica Populorum progressio, lo sviluppo non è il nome nuovo della pace ma quello della guerra, guerra per il petrolio o per le risorse naturali in via di esaurimento. Nella società della crescita non ci sarà mai né pace né giustizia. Al contrario, una società della decrescita riporterà al proprio centro la pace e la giustizia.31
È questa la prospettiva di Francesco? Sicuramente desidera che si cambi il modello di sviluppo globale, «la qual cosa implica riflettere responsabilmente sul senso dell’economia e sulle sue finalità per correggere le sue disfunzioni e distorsioni».32 Proprio per questo «è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti».33 Più che una
G. Standing, Diventare cittadini. Un manifesto del precariato, Feltrinelli, Milano 2015,
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273. 30 Cf. M.E. Porter – M.R. Kramer, «Creating Shared Value», in Harvard Business Review 89(2011)1-2. 31 S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2011, 192. 32 LS 194. 33 LS 193.
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decrescita quantitativa sembra esserci un’indicazione precisa sulla giustizia globale, anche attraverso il dono e la gratuità, già protagonisti della riflessione della Caritas in veritate (CV): La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza. L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime e attua la dimensione di trascendenza.34
La proposta della CV per il futuro sviluppo e la rifondazione dell’intera vita economica ordinaria a partire dalla gratuità e dal dono è una possibile, non certo l’unica. I «profeti» della decrescita sono certamente più radicali nella critica al mondo che abbiamo davanti, fino a mettere in discussione i fondamenti teorici su cui si basa la scienza economica.35
3.3. La
proprietà privata
Un’ulteriore frontiera che ci consegna papa Francesco è la valutazione della proprietà privata. «Il principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni e, perciò, il diritto universale al loro uso, è una regola d’oro del comportamento sociale e il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale».36 Perché è necessaria questa riflessione? «L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti. Chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti. Se non lo facciamo, ci carichiamo sulla coscienza il peso di negare l’esistenza agli altri».37 La teoria del «benicomunismo» ci aiuta a fare un passo in questa direzione, comprendendo come né il privato né il pubblico offrono una soluzione integrale ai problemi del nostro mondo: «Per i benicomunisti proprietà privata e sovranità statale sono l’esito istituzionale dello stesso progetto di concentrazione del potere ed esclusione».38 Ripensare ai beni nell’ottica del comune consente di operare una vera rivoluzione, creando le prospettive per una società più equa e meno diseguale. La struttura giuridica del comune rompe con la natura estrattiva e individualizzante della giuridicità borghese fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura, e costruisce una visione generativa e relazionale del diritto, lontana dal mondo dell’avere, del dominare e dell’escludere (che acco-
34 Benedetto XVI, lettera enciclica Caritas in veritate sul progresso umano integrale nella carità e nella verità (29.6.2009), n. 34: EV 26/725. 35 Cf. S. Latouche, L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri, Torino 2010. 36 LS 93 (dove cita Laborem exercens di Giovanni Paolo II al n. 19: EV 31/673). 37 LS 95. 38 U. Mattei, Il benicomunismo e i suoi nemici, Einaudi, Torino 2015, 4.
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La nuova umanità alla luce della Laudato si’ muna tanto il pubblico statalista quanto il privato dominicale) e vicina a quella dell’essere, del condividere e dell’includere.39
È assumere come punto di partenza non la proprietà ma l’uso dei beni.40
3.4. La tecnologia Nella Laudato si’, il papa accusa con precisione e forza il fenomeno che chiama «la globalizzazione del paradigma tecnocratico».41 Sotteso a tale paradigma emerge il convincimento che ogni cosa che sia tecnicamente possibile è anche eticamente giustificabile. Si finisce per arrivare a un esito irrazionale, che è l’uso incontrollato e parossistico di scienza, tecnica, economia e organizzazione della società e della politica per appropriarsi di ogni forma di risorsa ambientale sfruttabile per produrre cose, denaro e servizi. Si perde perfino di vista quali siano le utilità e la forma di benessere che si vogliono ottenere, tanto è illimitato e veloce il dominio assoluto ed estremo sulla natura che ci siamo abituati a perseguire.42
L’umanità non mostra così l’intelligenza che dovrebbe connotare il suo essere Homo sapiens, perché taglia il ramo dell’albero su cui si è seduta. La Terra e le creature tutte che essa contiene, animali, vegetali e inanimate hanno dei limiti di sfruttamento invalicabili, oltre i quali c’è solo il nulla e la morte. Lo stesso concetto di dominio assoluto, di crescite e sfruttamento infiniti sono dunque un’idiozia pura facile da comprendere.43
La scienza e la tecnica, ogni sapere dovrebbero essere proiettati a conoscere i limiti e i confini dentro i quali la vita di tutta l’umanità può muoversi, per comprendere il manuale della nostra casa comune. È ora di cambiare gestione e di cominciare a condividere i beni comuni in modo intelligente da vero Homo sapiens, cambiando noi stessi in Homo sapiens solicitus, cioè abbastanza intelligente da sapersi prendere cura allo stesso modo di tutti e ciascuno dei membri della specie e delle future generazioni. Se non lo facciamo subito, tra poco staremo parlando di Homo evanescens, una specie che non fu sapiente abbastanza per evitare di divenire in via di scomparsa.44
Ivi, 88. Cf. Dardot – Laval, Del Comune o della Rivoluzione del XXI secolo. 41 LS 106. 42 S. Calvani, «La globalizzazione oltre il paradigma tecnocratico», in Abiterai la terra, 39 40
86. 43 44
Ib. Ivi, 96.
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4. Un
luogo di guarigione : i poveri
La vera rivoluzione è possibile a partire dai più poveri, sapendo che il deterioramento dell’ambiente e quello delle società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta […]. Vorrei osservare che spesso non si ha chiara consapevolezza dei problemi che colpiscono particolarmente gli esclusi […] ma oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri.45
Che il punto di partenza per i credenti in Cristo siano i poveri, è stato ripetuto infinite volte. Potrebbe essere, ormai, chiaro che questo deve accadere anche per ogni uomo che abbia a cuore un mondo migliore. Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati a essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo […]. Rimanere sordi a quel grido, quando noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto, perché quel povero griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te (Dt 15,9).46
Ripartire dai poveri, in concreto, nell’economia, significa almeno due cose: ridurre le diseguaglianze, paradossalmente aumentate nella crisi, attraverso una più giusta redistribuzione dei redditi e dei profitti; rafforzare lo stato sociale, partendo dalla sanità e dall’istruzione, i due luoghi centrali per la cura dell’umano. Partendo dal creato, vissuto come dono radicale di Dio per ogni uomo, possiamo camminare verso questa meta, mettendo al centro le relazioni che danno senso all’esistenza. Dobbiamo incamminarci verso «la fraternità universale»,47 basata sull’amore sociale e sulla cultura della cura48 di ciò che abbiamo in comune, a partire dal nostro essere uomini di pari dignità. Tutto ci spinge a essere in relazione come vivono le tre persone all’interno della Trinità.49 Il mondo è la nostra casa comune e noi dobbiamo fare dell’interdipendenza reciproca una leva positiva per costruire sentieri di sviluppo.
LS 48-49. EG 187: EV 29/2293. 47 LS 228. 48 Cf. LS 231. 49 L’affermazione secondo cui nella nostra vita tutto è in relazione e intimamente connesso ritorna moltissime volte, come ad esempio in LS 42.61.70.91.117.120.137.138. 142.240. 45 46
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La nuova umanità alla luce della Laudato si’ Un mondo interdipendente non significa unicamente capire che le conseguenze dannose degli stili di vita, di produzione e di consumo colpiscono tutti, bensì, principalmente, fare in modo che le soluzioni siano proposte a partire da una prospettiva globale e non solo in difesa degli interessi di alcuni Paesi. L’interdipendenza ci obbliga a pensare a un solo mondo, a un progetto comune.50
5. Per
costruire la nuova umanità
Per arrivare a costruire la nuova umanità desiderata dal papa occorre seguire alcune indicazioni del c. VI, «Educazione e spiritualità ecologica»: Molte cose devono riorientare la propria rotta, ma prima di tutto è l’umanità che ha bisogno di cambiare. Manca la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti. Questa consapevolezza di base permetterebbe lo sviluppo di nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di vita. Emerge così una grande sfida culturale, spirituale e educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione.51
Innanzitutto, bisogna partire dalla consapevolezza che larghissima parte della crisi economica, sociale e ambientale ha come causa le scelte e l’agire dell’uomo. Quindi, occorre lavorare sulla libertà dell’uomo e su come viene usata: l’ambiente naturale e l’ambiente sociale hanno ferite, tutte causate dal «medesimo male, cioè dall’idea che non esistano verità indiscutibili che guidano la nostra vita, per cui la libertà umana non ha limiti».52 Vale la pena ascoltare come papa Francesco parla del consumo: Dal momento che il mercato tende a creare un meccanismo consumistico compulsivo per piazzare i suoi prodotti, le persone finiscono con l’essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese superflue. Il consumismo ossessivo è il riflesso soggettivo del paradigma tecno-economico […]. Tale paradigma fa credere a tutti che sono liberi finché conservano una pretesa di libertà di consumare, quando in realtà coloro che possiedono la libertà sono quelli che fanno parte della minoranza che detiene il potere economico e finanziario. In questa confusione, l’umanità postmoderna non ha trovato una nuova comprensione di se stessa che possa orientarla, e questa mancanza di identità si vive con angoscia. Abbiamo troppi mezzi per scarsi e rachitici fini.53
La libertà dell’uomo viene liberata solo attraverso un futuro che si proietti verso altissime mete e valori.
LS 164. LS 202. 52 LS 6. 53 LS 203. Vale la pena citare un recentissimo libro, scritto da due premi Nobel per l’economia: G.A. Akerlof – R.J. Shiller, Ci prendono per fessi. L’economia della manipolazione e dell’inganno, Mondadori, Milano 2016. La tesi del libro è che anche il nostro sviluppo economico, oltre alla gestione del potere politico, si basa sulla capacità di individuare persone manipolabili e di far fare loro quello che la pubblicità desidera. 50 51
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Matteo Prodi Ciò che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale. La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono implicare dall’inizio alla fine di un processo diverse intenzioni e possibilità, e possono configurarsi in vari modi. Nessuno vuole tornare all’epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane.54
È singolare che anche il papa usi la parola rivoluzione, seppur accostata all’aggettivo culturale. L’Occidente ha creato le sue fortune sulla possibilità di pensare e realizzare nuove visioni del mondo. Le crisi dentro le quali ci stiamo dibattendo sono anche il frutto dell’incapacità di concepire un’idea radicalmente nuova e, appunto, rivoluzionaria, dell’umanità. Non un semplice restyling o una timida riforma sono necessari oggi, ma una vera e propria rivoluzione.55
5.1. Alcuni elementi
decisivi
1. Occorre considerare tutti gli aspetti etici del nostro vivere e del nostro scegliere. Occorre recuperare il pensiero critico. 2. «A tal fine occorre assicurare un dibattito scientifico e sociale che sia responsabile e ampio, in grado di considerare tutta l’informazione disponibile e a chiamare le cose col loro nome» (LS 135). 3. Occorre una profonda formazione delle coscienze (LS 214). 4. Occorre saper prestare attenzione alla bellezza e lasciarsene incantare (LS 215). 5. Occorre una conversione ecologica che sia del popolo (LS 219): «L’istanza locale può fare la differenza. È lì infatti che possono nascere una maggiore responsabilità, un forte senso comunitario, una speciale capacità di cura e una creatività più generosa, un profondo amore per la propria terra, come pure il pensare a quello che si lascia ai figli e ai nipoti. […] Si richiede una decisione politica sotto la pressione della popolazione» (LS 179). 6. Occorre uno stile di vita profetico e contemplativo (LS 222). 7. Lo stile di vita nuovo e rivoluzionario deve anche essere concreto e misurabile, capace di incidere su ogni livello, dalle piccole cose di tutti i giorni (l’uso dell’acqua nelle case) fino ai macrofenomeni che vediamo ai telegiornali. 8. Occorre saper recuperare la logica del dono. Ogni cosa che abbiamo, di fatto, è un dono. Anche l’ambiente lo è. «L’ambiente si situa nella logica del ricevere. È un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva» (LS 159).
LS 114. Cf. P. Prodi, Il tramonto della rivoluzione, Il Mulino, Bologna 2015.
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La nuova umanità alla luce della Laudato si’
9. Occorre recuperare le virtù, capaci di nutrire e indirizzare lo sviluppo umano. «Solamente partendo dal coltivare solide virtù è possibile la donazione di sé in un impegno ecologico» (LS 211). 10. Occorre sviluppare tutte le potenzialità della parola «cura». «La cura per la natura è parte di uno stile di vita che implica capacità di vivere insieme e di comunione. Gesù ci ha insegnato che abbiamo Dio come Padre nostro comune e che questo ci rende fratelli» (LS 228) e ci chiede di avere cura gli uni degli altri.
6. Conclusione:
lo sviluppo desiderato
Riprendiamo alcuni concetti già espressi lungo il corso dell’articolo, a partire dalla parola «sviluppo». «La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, perché sappiamo che le cose possono cambiare».56 Sembra che lo sviluppo sia il fine e l’unione dell’umanità il mezzo. Tutto il procedere dell’enciclica chiede di ribaltare l’equilibrio mezzi-fini: il fine è la nuova umanità, la fraternità universale; l’ambiente è «solo» un mezzo per porre il tema davanti agli occhi di tutti. La cura per la natura è parte di uno stile di vita che implica capacità di vivere insieme e di comunione. Gesù ci ha ricordato che abbiamo Dio come nostro Padre comune e che questo ci rende fratelli. L’amore fraterno può solo essere gratuito, non può mai essere un compenso per ciò che un altro realizza, né un anticipo per quanto speriamo che faccia. Per questo è possibile amare i nemici. Questa stessa gratuità ci porta ad amare e accettare il vento, il sole o le nubi, benché non si sottomettano al nostro controllo. Per questo possiamo parlare di una fraternità universale.57
Qui si arriva attraverso la costruzione di relazioni radicalmente nuove tra le persone, a partire dalla cura, dalla solidarietà, dalla responsabilità verso i più deboli per arrivare all’amore politico e civile: Occorre sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme
LS 13. LS 228.
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Matteo Prodi di violenza e crudeltà e impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente.58
L’amore nella vita sociale è il vero obiettivo dell’enciclica.59 La sfida, massimamente affidata ai laici seriamente impegnati in politica e in economia, come nella ricerca e nello studio, è quella di tradurre operativamente questa meta altissima aiutando ogni uomo a superare la grande barriera dell’indifferenza. L’amore, pieno di piccoli gesti di cura reciproca, è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che cercano di costruire un mondo migliore. L’amore per la società e l’impegno per il bene comune sono una forma eminente di carità, che riguarda non solo le relazioni tra gli individui, ma anche macro-relazioni, rapporti sociali, economici, politici. Per questo la Chiesa ha proposto al mondo l’ideale di una civiltà dell’amore.60
Qui si gioca la santità dei cristiani nel XXI secolo: «Quando qualcuno riconosce la vocazione di Dio a intervenire insieme con gli altri in queste dinamiche sociali, deve ricordare che ciò fa parte della sua spiritualità, che è esercizio della carità, e che in tal modo matura e si santifica».61
LS 229. Cf. Pontificio consiglio della giustizia e della della Chiesa, LEV, Città del Vaticano 2005, 582. 60 LS 231. 61 LS 231. 58 59
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Compendio della Dottrina sociale
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Parte sesta Area liturgica
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Liturgia ed evangelizzazione
Enzo Lodi
Premessa Questo tema, che già ho trattato in un precedente articolo1 in cui la problematica post-conciliare era considerata sotto l’angolo positivo, cioè senza affrontare le nuove ricerche che sono state condotte in questo ultimo quinquennio, viene qui svolto soprattutto alla luce dei contributi che il recente volume su Liturgia ed evangelizzazione nell’epoca dei Padri e nella Chiesa del Vaticano II2 ha proposto all’attenzione degli studiosi. Si tratta qui ora di esaminare il problema di un rapporto che può sembrare acritico e quasi ovvio, dal momento che la liturgia, benché non esaurisca tutta l’azione della Chiesa (Sacrosanctum concilium [SC], n. 9), può essere detta il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, «la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (SC 10). Infatti è l’azione sacerdotale di Cristo, resa attuale e visibile attraverso i segni sensibili che la Chiesa compie nella celebrazione, per cui si «ottiene con la massima efficacia la santificazione degli uomini e la glorificazione di Dio» (SC 10), rinnovando nel tempo l’opera della divina redenzione. Come è noto, questo rapporto fra Parola-fede-sacramento nella riforma rituale del Vaticano II è già stato trattato da R. Falsini nel volume sopra citato3 particolarmente in rapporto
E. Lodi, «Evangelizzazione e liturgia nella problematica post-conciliare», in E. Mani(a cura di), Teologia ed evangelizzazione, EDB, Bologna 1993, 249-282. 2 E. Manicardi – F. Ruggiero (a cura di), Liturgia ed evangelizzazione nell’epoca dei Padri e nella Chiesa del Vaticano II, EDB, Bologna 1996, 535. 3 R. Falsini, «Parola-Fede-Sacramento nella riforma rituale del Vaticano II», in Manicardi – Ruggiero (a cura di), Liturgia ed evangelizzazione, 351-373. 1
cardi
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Enzo Lodi
all’eucaristia, a cui la frase di SC 10 specificamente si riferisce; ma restano aperti ancora alcuni problemi che oggi, nel progresso dell’approfondimento della scienza liturgica, si presentano emergenti. Per questo contributo, si tratta dunque di chiedersi se la duplice svolta antropologica della liturgia, che viene ora teorizzata in ambito teologico-liturgico, presenta aspetti più adeguati e più significativi rispetto all’opera dell’evangelizzazione, intesa secondo le tre valenze corrispondenti alle tre situazioni ecclesiologiche ricordate dalla Redemptoris missio (n. 33): la missione «ad gentes» o evangelizzazione propriamente missionaria; la cura pastorale ordinaria della comunità cristiana dove parole e sacramentalità sono associate; la nuova evangelizzazione di interi gruppi di battezzati che hanno perduto il senso della fede, o addirittura non si riconoscono più come membri della Chiesa, conducendo un’esistenza lontana da Cristo e dal suo vangelo. Sempre in questa fase di metodologia preliminare, intendo confrontare la prospettiva della liturgia orientale con quella della liturgia latina sia in rapporto alla carica evangelizzatrice che la celebrazione eucaristica in quanto tale contiene ed esercita, sia per la valenza comune di essere il punto di approdo di un itinerario di annuncio e di accoglienza del vangelo. Al termine di questo panorama, risulterà che la liturgia oggi attraversa una crisi, specialmente rispetto ad alcuni aspetti della cosiddetta cultura post-moderna, che sembra svuotare gli strumenti che anche la liturgia usa per trasmettere il mistero cristiano, cioè le parole e i simboli, del loro significato corrente e tradizionale. Ci chiederemo perciò quale sia la piena capacità di evocazione e di invocazione di questo linguaggio simbolico-rituale nei confronti del primato della soggettività, rispetto all’oggettività, che si esprime nell’esperienza del vissuto, conformemente al principio evangelico del «veritatem facientes in caritate» (Ef 4,15).
1. La
prospettiva della duplice svolta antropologica nella teologia liturgica
Partendo da un concetto di svolta antropologica nel senso di Rahner,4 cioè di una teologia che deve sempre parlare della salvezza dell’uomo, che è sempre rinviato all’essere assoluto essendo Dio l’assoluto futuro di ogni realtà, si rileva che la teologia sacramentaria sembra porre in luce le intime strutture dell’actus humanus costituito dalla fede: così c’è il rischio di fare del sacramento solo un «modello» della Parola che si manifesta in modo valido nella Chiesa, e di cui il cristiano partecipa come di qualcosa che già possiede, dato che egli accede a qualcosa in cui propriamente già si trova (la chiara determinatezza di una donazione di fede) e da cui
4 Cf. P. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996, 93-111, ove si chiarisce l’ambiguità di questo termine generico che comprende diverse discipline: l’antropologia filosofica e l’antropologia culturale, in senso tecnico.
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ciò che vi deve compiere trae la propria forza. Ma questa svolta di teologia antropologica non corrisponde alla descrizione conciliare della liturgia (SC 7), dove la liturgia è definita come dialogo; in cui l’aspetto soteriologico (la discesa divina) rende possibile l’ascesa umana del culto latreutico-laudativo, in un’interdipendenza inscindibile. Allora questa prospettiva di una definizione dialogica della liturgia sembra essere meno teocentrica di una puramente cultuale, che prenda in considerazione la glorificazione di Dio da parte dell’uomo, cioè la dimensione antropocentrica dominante nella manualistica. Ora ci si può chiedere se la svolta antropologica nella teologia sia un movimento opposto alla definizione di una liturgia in senso dialogico. La risposta è certamente negativa, perché il Dio che entra in relazione con l’uomo è colui che rende possibile la ricerca umana nei suoi confronti, e quindi anche la preghiera e la celebrazione cultuale a lui rivolta. L’alternativa che si pone nei confronti di una teologia antropologicamente focalizzata del nostro tempo e la liturgia che ha come presupposto del dialogo la dimensione discendente, nella quale la «doxa» divina manifesta la sua potenza nel far partecipare l’uomo alla pienezza della propria vita,5 è la seguente: o nella fede si celebra il fatto che Dio agisce per la salvezza dell’uomo, che si compie questa discesa divina invitante a entrare nella pienezza della vita divina; o la religione e il culto entrano nei fenomeni caratteristici dell’uomo che sono oggetto di studio dell’antropologia, e perciò anche la sua singolare disposizione a pregare e a celebrare.6 Dal punto di vista della teologia orientale non può esserci alcuna svolta antropologica, perché la teologia ha alla sua base il principio teandrico (umano-divino) dell’economia della salvezza nel suo complesso. Il principio di equilibrio che spiega il fondamentale principio teandrico dell’economia della salvezza7 esige che, per una comprensione teocentricamente orientata della liturgia, si ponga al primo posto la gloria di Dio, cioè quel servizio che viene prestato a noi da Dio, e che anzitutto richiede e rende possibile il nostro culto; la salvezza consiste nella gloria di Dio. Questa correzione o integrazione della svolta antropologica applicata alla liturgia non è però ancora sufficiente per spiegare non solo l’accordo tra mondo moderno e pensiero teologico, ma anche per comprendere le ragioni della crisi della modernità, che è la secolarizzazione, che priva l’uomo di quel riferimento a una cultura antropologica «originaria» (quindi non solo originale dell’uomo contemporaneo occidentale) che è propria dell’«homo» anche «religiosus». Il problema della modernità diventa un problema di immediatezza, che dalla modernità è stata perduta nel riferimento diretto al trascendente attraverso lo spostamento a un’immediatezza autoreferenziale e coscienziale. Proprio in riferimento all’an-
5 Cf. Ireneo, AH IV,207: «La gloria di Dio è l’uomo vivente ma la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio»: SC 100,648. 6 Cf. M. Kunzler, «Una svolta teologica nella scienza liturgica?», in La Liturgia della Chiesa, Jaca Book, Milano 1993, 40. 7 P. Evdokimov, L’Ortodossia, EDB, Bologna 1981, 14ss.
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tropologia culturale nelle sue diverse ramificazioni sociali, simboliche, psicologiche e funzionalistiche, noi possiamo valorizzare il contributo del dato rituale per una fondazione di un’adeguata teologia fondamentale.8 Il dato, di cui la tradizione non ha parlato, è un’esperienza rituale, oggettiva e comunitaria dell’evento fondante che, anche se non è esclusivo né sufficiente, è tuttavia necessario all’integralità della mediazione teologico-fondamentale dei presupposti della fede. Questa realtà sacramentale e liturgica dunque è intesa dall’antropologia culturale come mediazione (ossia «pratica letterale»), che va intesa prima di tutto come pratica rituale. Nella prospettiva della fondazione della fede, l’agire rituale ha il suo ruolo specifico che accredita l’evento fondante come tale, in quanto rappresenta una rottura e una trasgressione del «continuum vitale». Ogni concetto di rivelazione che non tenga conto del fondamento anche rituale della fede può cadere in una teoria della rivelazione come autocomunicazione, che toglie fin dal principio ogni forma di mediazione a livello di fondamento e che «evoca» un’immediatezza della comunicazione di Dio e un’assenza di oggettivazioni storiche mediatrici. Il rito è mediatore tra novità e tradizioni per la sua impossibile immediatezza, il suo essere non «dato» da interpretare ma «dato interpretante, operatore immanente di interpretazione».9 Non basta più raccordare la fede al cristiano del mondo moderno – come ha fatto la prima svolta antropologica applicata al culto, sulla base del soggetto che riflette, della sua libertà e prassi storica, al di là di ogni espressione-esperienza rituale; ma occorre integrare il rito nel fondamento riflesso della fede attraverso la maturata coscienza della relazione dialettica tra immediatezza e mediazione, tra oggettivo e soggettivo, tra interiore ed esteriore. La liturgia appare così come un dato in quanto è donato, e come tale è la differenza dell’immediato dall’originario; e la teologia fondamentale deve riconoscere di essere debitrice strutturalmente all’originaria inseparabilità tra immediato e originario. In questo senso si può concludere che a un’esperienza trascendentale postulata dalla svolta antropologica rahneriana si aggiunge un’esperienza rituale postulata come dato. Da «una liturgia per l’uomo», oggi il nuovo rapporto tra teologia e antropologia nella seconda svolta antropologica può riassumersi nella formulazione: «un uomo per la liturgia», nel senso che l’uomo pensa la teologia in relazione all’esperienza rituale. La teologia liturgica diventa così l’organo di una nuova comprensione fondamentale della fede, che non è una pura esperienza trascendentale quanto piuttosto una pratica rituale nella quale la priorità passa all’agire.
8 Cf. A. Grillo, «L’esperienza rituale come “dato” della teologia», in A.N. Terrin (a cura di), Liturgia e Incarnazione, EMP, Padova 1997, 167-224; G. Ruggieri, «La problematica della rivelazione come “concetto fondamentale del Cristianesimo”», in ATI, La teologia della rivelazione, a cura di D. Valentini, EMP, Padova 1996, 81-105, in particolare 82. 9 P. Ricoeur, citato in L.M. Chauvet, «La liturgia nel suo spazio simbolico», in Concilium 3(1995), 427, e G. Bonaccorso, «La liturgia tra funzione pedagogico-cognitiva e dimensione performativa», in Terrin (a cura di), Liturgia e Incarnazione, 317-339.
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2. La
valenza evangelizzatrice nel confronto fra le due tradizioni dell ’O ccidente e dell ’O riente
Abbiamo già visto che il ricupero dell’azione celebrativa nel fondamento stesso della rivelazione cristiana era stato già implicitamente riconosciuto dopo Casel dai liturgisti, che contestavano la riduzione della celebrazione alla funzione pedagogico-cognitiva, cioè all’esasperazione dell’aspetto dogmatico e morale; con la conseguenza che la liturgia avrebbe lo scopo di illuminare i credenti sui contenuti della propria fede e di stimolarli a essere coerenti con essa. Ma se la celebrazione rimane insostituibile (la Chiesa non ha mai potuto sostituire del tutto la liturgia con la predicazione, l’insegnamento o la parenesi), lo si deve alla sua dimensione «performativa». Gli studi che, a partire dagli anni ’70, caratterizzano questa riscoperta dell’originalità dell’azione rispetto alla conoscenza nell’ambito della ritualità, hanno portato a superare l’approccio cognitivista o la prospettiva catechetica della liturgia, secondo cui il centro di interesse non è rappresentato dal significato del rito ma dai significati mediati dal rito, con la prospettiva della dimensione performativa. Le convinzioni religiose non sono al di là delle azioni rituali, ma condizionate da queste ultime. In termini tecnici, si può ipotizzare che la pragmatica del rito condizioni la semantica religiosa. Senza citare le elaborazioni interpretative del rito di V. Turner10 e quelle di S.J. Tambiah,11 che fondano la relazione tra simbologia religiosa (aspetto conoscitivo) e relazioni sociali (aspetto pedagogico), si può sintetizzare questa nuova visuale nei seguenti termini, che hanno un’importanza determinante nel nostro assunto relativo al problema dell’evangelizzazione. Il rito non ha prevalentemente una funzione cognitiva, perché non è solo un insieme di contenuti e non ha neppure, prevalentemente, una funzione pedagogica, perché non è un semplice insieme di forme comportamentali, in quanto è contemporaneamente forma e contenuto. Per un verso, è una forma che ricalca il contenuto (il comportamento ricalca profondamente le convinzioni di un popolo); per un altro verso, esso è un insieme di convinzioni che si legittima fuori da quel determinato comportamento, un contenuto il cui valore dipende dalla forma. Ora la dimensione performativa del rito è proprio in questa intima connessione tra forma e contenuto, che nella liturgia cristiana prende il nome di sacramento.12 Se l’azione sacramentale è forma e contenuto della fede cristiana, si può comprendere come la celebrazione risolva la dicotomia del dogma e della morale. Infatti nella morale il contenuto
V. Turner, Antropologia della performance, Il Mulino, Bologna 1993, 81. S.J. Tambiah, Rituali e cultura, Il Mulino, Bologna 1995, 22-23. 12 Cf. Bonaccorso, «La liturgia tra funzione pedagogico-cognitiva e dimensione performativa», 330. 10
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religioso della forma comportamentale non è immediatamente evidente; mentre nel dogma si realizza l’opposto della morale, in quanto la forma religiosa del contenuto di fede non è immediatamente evidente (l’indipendenza delle forme espressive dai contenuti della fede). Nella liturgia invece la forma comportamentale ha un contenuto religioso-cristiano che è immediatamente evidente; e in ciò consiste l’efficacia della liturgia, in cui l’azione sacramentale implica sempre una qualche modifica della realtà, indipendentemente dalle azioni morali dei celebranti. A. Le ricerche più recenti, ponendo l’accento sulla specificità dell’azione rituale,13 con un’analisi attenta dei riti religiosi, consentono di individuare due fattori fondamentali. Anzitutto gli elementi, che solitamente fungono da oggetti, nei riti spesso diventano come i soggetti, cioè diventano degli «oggetti agenti» (ad es. l’acqua benedetta); inoltre i riti prevedono, in genere, l’intervento di un soggetto particolare, che può essere definito «agente superumano» (ad es. Gesù Cristo, principale sacerdote della liturgia cristiana). Secondo questa dualità di fattori, che sconvolge il modo usuale di pensare e significare la realtà, il rito si riferisce a loro come ai punti cardine di una globalità di senso dotata di una peculiare logica interna. Questa globalità di senso del rito, che si autolegittima, implica che il rito non è solo una sintassi (le regole interne) ma anche una semantica (i riferimenti esterni), però di tipo olistico-riflessivo. Infatti il rito, coinvolgendo una totalità di significato, in cui ha senso fare riferimento agli oggetti agenti e all’agente superumano, e viceversa nella direzione che si muove dagli agenti alla globalità di senso cioè dall’azione al significato (oltre che dal significato all’azione), diventa un significante attivo: un significato «fluttuante»14 che elabora senso nel momento stesso in cui compie azioni. Questa globalità di significato, che non sta entro i limiti del significare, non è dunque afferrabile da alcun significato, ma è solo dischiudibile da un significante aperto a un continuo arricchimento semantico. La dimensione performativa del rito consiste dunque nell’attitudine dell’azione rituale a essere un significante produttore di senso, per cui la liturgia cristiana non costituisce solo un’origine autentica della fede, e neppure solo un rapporto di fonte della «lex supplicandi» nei confronti della «lex credendi». La liturgia, intesa come azione rituale (come significante fluttuante-aperto) è un modo unico e insostituibile di vivere la fede: la «lex supplicandi» è la «lex credendi». Questo significa che il senso di fede dischiuso dalla celebrazione liturgica non sarà mai del tutto riproducibile fuori dalla celebrazione. Da questo punto di vista, si comprende come questo modo unico di significare del rito nella sua seman-
13 Cf. E.T. Lawson – R.N. McCauley, Rethinking Religion. Connecting Cognition and Culture, Cambridge University Press, Cambridge 1990 (cit. da Bonaccorso, «La liturgia tra funzione pedagogico-cognitiva e dimensione performativa», 333ss). 14 Il termine è usato da C. Lévi-Strauss; cf. J. Gill, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1978, III, 1097-1106.
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tica olistica e autoreferenziale, sia normalmente protetto, in molte popolazioni religiose, dal «segreto», specialmente nei riti di iniziazione.15 Nei tre gradi di consapevolezza di tale segreto (il punto di vista dei non iniziati, quello dei candidati o iniziandi e quello degli iniziatori), si gioca la dinamica del processo iniziatico, in cui il variegato gioco del segreto apre a ciò che è «altro» rispetto ad ogni singolo punto di vista, apre cioè alla trascendenza. La conclusione interessante di questo studio è quella che la strategia del segreto costituisce la «performatività religiosa» del rito, nel gioco fra azione e segreto (le caratteristiche formali del rito stesso, non tanto il simbolismo religioso). Nel presupposto di questi dati etnografici in cui la segretezza del rito, cioè la dinamica del segreto che svela il mistero (compiendo delle azioni, svelando il sacro attraverso il corpo), non è un optional del rito ma una sua dimensione intrinseca, si può scoprire un altro dato interessante. La discriminante fra osservatore esterno e partecipante interno è tale che, per quest’ultimo, il rito (la «fiction» rituale che per l’osservatore esterno può apparire come una qualsiasi rappresentazione teatrale o irrilevante per la vita quotidiana) non è una rappresentazione della realtà, ma un «di più» di realtà, cioè una «presenza eccezionale».16 Il segreto della proibizione di un’audience (distinzione fra attori e spettatori) è quell’atteggiamento in cui si rivela l’attitudine del rito a realizzare una profonda interazione fra i partecipanti che si sentono comunità (e non pubblico) e dall’interno dell’azione rituale sospendono la «visione spettacolare», e gli spettatori esterni che sono soltanto un pubblico che interpreta guardando. Infine questa dimensione performativa del rito dimostra di avere una capacità di creare una comunità (il rito è comunitario ma non pubblico) nella quale la prospettiva iconica è inseparabile dalla prospettiva tattile, in quanto mancando uno spettatore nessuno deve convincere, cioè «far credere», che sta celebrando. Le azioni rituali non sono viste e interpretate come simboli del sacro o del divino, ma sono vissute come contatto con il sacro e col divino. In conclusione, la celebrazione liturgica crea un contatto sacramentale fra Dio e l’uomo in cui la comunità, che vive toccando il divino, sembra essere lo strumento più idoneo a esprimere la salvezza in modo efficace, in quanto la celebrazione ha una «funzione poietica» nel continuo dischiudersi di senso, che è tipico del significante liturgico. B. La liturgia orientale, di fronte a questa prospettiva della teologia liturgica dell’Occidente, presenta caratteri tipici che appaiono nel noto racconto leggendario riferito nelle prime cronache russe, che qui viene riportato.
15 Cf. le ricerche di M. Houseman, «The interactive Basis of Ritual Effectiveness in a Male Initiation Rite», cit. da Bonaccorso, «La liturgia tra funzione pedagogico-cognitiva e dimensione performativa», 335 nota 41. 16 Cf. S. Maggiani, «Competenza per celebrare o per fare teatro?», in Rivista Liturgica 73(1986), 56-73.
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Enzo Lodi Siamo andati dai greci [i dieci messi inviati dal principe Vladimir col compito di cercare una formula di preghiera pubblica particolarmente significativa e coinvolgente, nel 988] che ci condussero là dove rendono il culto al loro Dio. E non sapevamo più se eravamo in cielo o sulla terra. Poiché sulla terra non vi è un tale spettacolo o una tale bellezza, noi siamo incapaci di esprimerlo. Ma sappiamo soltanto che è là che Dio abita con gli uomini e che il loro culto supera quello degli altri paesi. No, non possiamo dimenticare questa bellezza, poiché ogni uomo che ha gustato qualche cosa di dolce, in seguito non sopporta più l’amaro.17
Questo aneddoto manifesta alcuni caratteri tipici nella Chiesa orientale, fra i quali il canto è l’espressione normale della preghiera perché con l’utilizzo delle potenzialità umane delle corde vocali, escludendo qualsiasi strumento, nessun altro strumento riesce a eguagliare il dono di Dio che è la voce umana. Il canto, accanto al parlato che è pure mezzo di comunicazione tra gli uomini, diventa la formula di riferimento per il linguaggio con il soprannaturale. La necessità di un gruppo-guida, che sostiene il canto di tutta l’assemblea, garantisce uno sviluppo notevole della vocalità e della coralità. Oltre al canto, c’è la ricca simbologia delle icone, che hanno lo scopo di riprodurre la presenza di Dio nella storia quotidiana dell’uomo. Inoltre giocano un certo fascino simbolico: la processione dell’evangeliario, rappresentante il Cristo che attraverso l’umanità-nava ta entra nel santuario; il velo agitato nel corso del canto del Credo, in ricordo dell’azione dello Spirito Santo sui padri conciliari; infine la triplice partizione della divina liturgia, che vuole richiamare il mistero centrale della Trinità rievocato anche dal segno di croce e dalle triplici antifone e orazioni. Questi e altri elementi servono a creare quel fascino del mistero inteso nel senso dell’«apofatico», del non comprensibile, dell’indicibile e forse anche dello s-personale. Di fronte all’esigenza occidentale di intuire e capire ogni singola azione, ponendo in secondo piano ciò che non è comprensibile, l’atteggiamento di rispetto, di venerazione, di attesa e di stupore per qualcosa che non è razionalmente classificabile, sembra essere più atto a far entrare nel mistero celebrato nella prassi liturgica orientale. Semplificando si può dire, in modo sintetico, che la liturgia dell’Oriente è la liturgia del cuore, inteso come una facoltà più affettivo-esperienziale, mentre la liturgia dell’Occidente è la liturgia della mente, cioè della parola che istruisce collegata a riti facilmente comprensibili. Ma questo confronto non sembra adeguatamente chiarificatore se si accetta l’impostazione della riscoperta antropologica dell’azione rituale, che precedentemente è stata esposta. Questo tema necessita di un’ulteriore riflessione, che può guidarci a comprendere meglio la problematica dell’evangelizzazione attribuita alla prassi celebrativa.
17 Il racconto fa parte della così detta Cronaca Laurenziana (redatta nel 1937) sul battesimo di Vladimiro di Kiev, all’anno 987, quando, nella missione inviata a Costantinopoli, i messi rimasero abbagliati dalla magnificenza della liturgia definita come «bellezza ecclesiale»: cf. Nel Millennio del Battesimo della Rus’ di Kiev, LEV, Città del Vaticano 1988, 47.
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3. La
problematica della liturgia nell ’ esperienza del gioco come linguaggio simbolico
Di fronte al polo dello scopo, che pone il centro di gravità di una cosa al di là e al di fuori di sé, per cui essa è così solo un passaggio anche se necessario e talvolta decisivo, c’è il polo del senso, assolutamente gratuito, che non va riportato forzatamente alla tirannia dello scopo e della logica meramente utilitaria. Il testo di Pr 8,30-31 contiene una frase che, nella tradizione patristica, ha avuto un’interpretazione problematica, per rimuovere questa dimensione giocosa del verbo di Dio: «Ero la sua delizia ogni giorno, dilettandomi [ludens = giocando] davanti a lui in ogni istante, dilettandomi sul globo terrestre». Salonio, nell’esegesi mistica dei libri sapienziali,18 si interroga: «La Sapienza, cioè il Figlio di Dio, ha dunque giocato dinanzi al volto del Padre come un bambino?». E risponde: «Non lo si pensi. Là dove si dice che ha giocato, si deve intendere: “si è rallegrato”». Persino la versione greca dei LXX – come nell’antica versione latina della Bibbia – ha sostituito «giocare» con «gioire». Ma Gregorio Nazianzeno ha mantenuto viva, insieme con altri padri greci, questa realtà del gioco-danza della Sapienza divina (Logos): «[…] poiché il sublime Logos […] gioca. Con le immagini più variopinte egli adorna, a suo piacere in ogni forma, il cosmo».19 Spesso anche il Logos è rappresentato come un bambino che tiene nelle mani giocanti la sfera dell’universo: è il simbolo di questa tensione tra onnipotenza e gioco, tra energia divina e debolezza infantile. È proprio perché il gioco del bambino è senza scopo (è la qualità ludica in quanto tale, nella sua forma più pura ed esemplare) che egli dà ad esso un significato profondo; e così il gioco diventa espansione disinteressata e completamente gratuita della vita (gioco-epifania della vita). Il gioco quindi, in quanto non appartiene alla «vita ordinaria», cioè è fuori del processo di immediata soddisfazione dei bisogni, diventa l’immagine più adeguata della liturgia, come canta il Sal 42,4 (antico introito alla messa): «Introibo ad altare Dei, ad Deum qui laetificat iuventutem meam». La celebrazione liturgica come dono di grazia, cioè come gioco donato, deve corrispondere all’umana attesa di gioco, attingendo a piene mani all’arte, cioè al dominio del gratuito; e, come il gioco autentico, vive di ritmi e melodie, si riveste di colori e di paludamenti che non appartengono alla vita ordinaria. Come afferma R. Guardini: «Fare un gioco dinanzi a Dio, questo costituisce il nucleo più intimo della liturgia».20 Anche san Beda canta questo gioco divino di cui siamo resi partecipi, in una delle sue poesie: «Per il credente è un gioco / essere abbracciato dal-
18 Cf. Salonius Ver., In parabolas Salomonis Expositio mystica: «Quod dicit ludens, intelligendum est gaudens»: PL 53,974A. 19 Gregorio Naz., Carminum liber I, Sez. II, Poemata moralia: PG 37,624A. 20 R. Guardini, Lo spirito della liturgia. I santi segni, Morcelliana, Brescia 1980.
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la tua gioia…».21 Ma qui sorge il conflitto fra il gioco e la serenità, perché nella nostra coscienza che tende al pragmatismo utilitaristico, anche di tipo catechistico o morale, quasi condividiamo il disprezzo di Mikal, figlia di Saul, che contemplava dalla finestra il re Davide che saltava e danzava dinanzi al Signore, mentre l’arca del Signore entrava nella città di Davide (2Sam 6,12-16). Il commento di sant’Ambrogio è significativo in merito a questo testo: Giocava davanti al volto del Signore questo servo. Ma quella donna, che biasimò la danza, fu punita con la sterilità e non partorì un figlio regale. E se ancor dubiti, ascolta la parola dell’evangelo. Dice il Figlio di Dio: «Abbiamo cantato, ma voi non avete danzato» (Mt 11,17). Furono respinti i giudei perché non danzarono, perché non seppero battere il tempo con le mani, e furono eletti i popoli pagani che applaudirono Dio religiosamente. Questa è la gloriosa danza che David danzò. E perciò al solenne passo di danza dello Spirito poté salire fino al trono di Cristo, dove lo vide e lo udì mentre il Signore diceva al suo Signore: «Siedi alla mia destra».22
«Per fare in libertà, bellezza, santa letizia dinanzi a Dio il gioco da lui regolato della liturgia», come scrive R. Guardini, bisogna essere non troppo sensibili all’utile immediato, e superare quella finzione di essere o diventare precocemente adulti, sempre lì inquieti a chiederci a che cosa serve il celebrare, cosa ne viene a noi, a che scopo e perché. Inoltre la liturgia è pre-ludio di quella celeste (cf. SC 8): «Noi partecipiamo nella vita terrena, pregustandola, a quella celeste, nella santa città di Gerusalemme dove il Cristo siede alla destra di Dio e con tutte le schiere della milizia celeste cantiamo al Signore l’inno di gloria». La vita eterna, come continuazione e compimento di questo gioco, di questo cantico eterno di lode che l’«homo ludens» nella liturgia attende di consumare con la danza celeste, corrisponde a un dato antropologico che caratterizza tutte le forme del religioso. In esso si rivela questo rapporto strutturale culto-gioco,23 perché l’essenza del culto porta in sé, sotto ogni punto di vista, le caratteristiche formali del gioco; come già Platone (Leggi VII,803) non esitava a comprendere nella categoria del gioco le cose di ordine sacro, nella sua concezione di uomo fatto «giocattolo», cioè trastullo e strumento del «Deus ludens». E questa è la parte migliore in lui, anzi la suprema perfezione della creatura. Massimo il Confessore conferma questa concezione mistica e cristiana: infatti, poiché Dio è un «Deus vere ludens», l’uomo deve essere un «homo ludens». «Noi stessi concepiti e generati come tutti gli animali terreni, poi diventati bambini, finalmente passati dalla gioventù alle rughe della vecchiaia, simili a un fiore che dura un solo istante,
Beda, Hymnus XIII: «En ludus est credentium / tuis frui amplexibus»: PL 94,633. Ambrogio, Ep. 58,7: PL 16,1179ss. 23 Cf. J. Moltmann, Sul gioco. Saggi sulla gioia della libertà e sul piacere del gioco, Queriniana, Brescia 1988; J. Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino 1973; H. Cox, La festa dei folli. Saggio teologico sulla festività e la fantasia, Bompiani, Milano 1971. 21
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poi moribondi e portati all’altra vita […] veramente meritiamo di essere detti giocattoli di Dio».24 Di fronte a questa realtà della celebrazione liturgica, come luogo esistenziale in cui apprendiamo il gioco di cui siamo giocattoli-protagonisti, si può condividere il fondato sospetto, come lo dichiarano sia Guardini sia Huizinga, che la nostra epoca dell’uomo «post-moderno» non sia in grado di compiere quello «specifico» dell’atto liturgico perché, avendo smarrito il senso del vero gioco e delle sue regole, non c’è più una vera attesa neppure di un gran bel gioco donato. Di fronte a una vera e propria mistificazione del gioco, per la perdita drammatica dell’autentica capacità di giocare, della competenza ludica – come dimostra J. Moltmann –, per cui il gioco appare ormai solo una pausa, una sospensione pienamente funzionale e pienamente congeniale con l’economia dominata dalla ricerca dell’utile (la contraffazione del «gioco indotto»), ci si chiede: la dimensione simbolica del linguaggio liturgico (parole, segni, riti) è ancora la forma più intensa della comunicazione, così come la presuppone la teologia liturgica orientale e la stessa svolta antropologica moderna in Occidente, già evocata?
4. L’evangelizzazione
attraverso la prassi celebrativa come risposta alla crisi del fascino e del pericolo del mistero
Può sembrare che di fronte alla crisi dell’autentica capacità in cui la liturgia dovrebbe essere il «pre-ludio» (in senso letterale) di quella libera serenità che avrà la sua evidenza nell’eterno gioco della visione bea tifica,25 la risposta ci venga dal fascino del mistero, dell’irrazionale, di quell’alone impenetrabile che immediatamente notiamo quando partecipiamo al fasto simbolico e allo splendore rituale di certe liturgie solenni orientali. Secondo un teologo russo, sembra che questo rifugio in queste forme di s-personalizzazione sia come una necessità, una specie di parentesi umana per concedersi uno spazio al silenzio, alla preghiera, alla contemplazione trascendente all’umano. Ma non bisogna dimenticare che il fascino del mistero può trasformarsi nel pericolo o nel rischio di evitare di personalizzare, di dare significato, in fondo di dare vita, così rifugiandosi nel vuoto e nella paura, proteggendosi dal pensare, dal liberare la
Massimo il Confessore, Ambiguorum Liber: PG 91,1416C. Gregorio Naz., Orat. VII in laud. Cesarii fratris: PG 35,777CD: «La vita dell’uomo, fratelli miei, è il labile istante di ogni cosa vivente, è il nostro gioco infantile sulla terra, un’ombra di luce, un uccello in volo, la scia di un vascello, polvere, spirar di nebbia, rugiada all’alba e fiore che si dischiude». 24
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mente, chiudendosi in una difesa strenua degli elementi del passato che hanno costituito, almeno esteriormente, una qualche certezza. Invece il centro della liturgia è l’esperienza dell’incarnazione. Nella cultura moderna è necessario il dialogo con il mondo e i suoi problemi consistenti in esigenze ed emergenze di vita, senza ridurla ad abbellire il fascinoso sistema composto di canti, di icone, di riti non immediatamente percepibili dalla razionalità. La liturgia ha bisogno di dialogare con il vissuto quotidiano, senza perdere il «trasgressivo» della festa; di condividere, non di sopravvivere.26 E ciò si compie attraverso la «personalizzazione», che consiste nel dare un significato vivo all’esperienza «trinitaria» degli elementi rituali, per ritrovare la conoscenza del cuore che permette di fare esperienza della realtà divina e di comunicarla agli altri come strumento di evangelizzazione. Questa esigenza di fare esperienza secondo la regola della «lex orandi» che fonda la «lex credendi», significa che questa si identifica con quella, per l’implicazione reciproca tra teoria e prassi. Essa non contraddice alla constatazione antropologica, già sopra esposta, in cui la strategia del «segreto rituale» costituisce la performatività religiosa del rito. La rilevanza del sentire autentico della persona a livello conscio o inconscio, cioè profondo intuitivo-affettivo che la psicologia denomina «ortopatia» (rispetto all’ortodossia e all’ortoprassi), si spiega con la dinamica psicologica dell’atto celebrativo. Questo, nell’esperienza religiosa,27 si qualifica come «sintesi attiva» fra due poli: quello interiore (polo umano del primo significante) e il polo del presente-assente (del secondo significante, reso percettibile attraverso il linguaggio simbolico). Essa agisce tramite alcuni fattori, quali la mutua presenza affettiva ed effettiva e la mutua interpellanza, che diventa anche superamento della così detta simbolizzazione «interferita», a causa delle strategie dell’inconscio (la gratificazione vicaria e la fuga preventiva); questa indebolisce, e talvolta depista, il simbolo nella sua funzione di significare una realtà attraverso un’altra. Quando invece avviene la simbolizzazione attraverso la messa in tensione dei due poli, allora bisogna dare priorità al polo invisibile, cioè al presente-assente. Nel linguaggio simbolico, l’indifferenza è impossibile, perché il «sapere» dell’esperienza è un gustare-toccare, e non un sapere solo cognitivo; perciò il ruolo che svolge il linguaggio liturgico sta nell’esprimere, in modi svariati, l’esperienza della solidarietà tra colui che lo percepisce e lo usa con se stesso, con gli altri uomini, con il mondo e soprattutto con Dio stesso. Già C.G. Jung ammoniva: L’uomo ha bisogno, disperatamente, di una vita simbolica. Nella nostra vita incontriamo solo cose banali, comuni, razionali o irrazionali […] ma non
26 L. Passalacqua, «Rilevanza della dimensione psichica in relazione alla liturgia e al corpo», in Terrin (a cura di), Liturgia e Incarnazione, 341-360. 27 Cf. A. Godin, Psicologia delle esperienze religiose. Realtà e desiderio, Queriniana, Brescia 1984 (parte III); G. Sovernigo, Religione e persona. Psicologia dell’esperienza religiosa, EDB, Bologna 1995.
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Liturgia ed evangelizzazione abbiamo una vita simbolica. Dove viviamo simbolicamente? In nessun luogo, se non quando partecipiamo al rituale della vita. Ma chi nella gran massa della gente? Pochissimi. Quasi nessuno, se pensate al rituale della Chiesa protestante. Persino la santa comunione è stata razionalizzata […]. Solo la vita simbolica può esprimere i bisogni dell’anima […] i bisogni che la nostra anima manifesta ogni giorno. E poiché non l’abbiamo, non possiamo mai liberarci di questa diabolica macina. Questa vita spaventosa, opprimente, banale, in cui non siamo che nullità. Nel rituale si è vicini a Dio, persino divini. Pensate al sacerdote della Chiesa cattolica che è partecipe della divinità. Sull’altare egli compie il sacrificio: si offre come vittima sacrificale…28
Queste ultime parole del grande psicologo viennese sono un invito a ridare valore al linguaggio non solo delle parole ma anche dei gesti, spesso privati del loro senso autentico, sviliti, abusati, inflazionati e distorti, senza risonanza esistenziale. Nella liturgia celebrata, dentro il rito, le parole e i gesti, a contatto con la Parola e con la presenza del divino, possono ritrovare la loro capacità di comunicazione evangelizzante. Già nel citato volume Liturgia ed evangelizzazione A. Catella ha offerto un’esemplificazione nell’eucaristia domenicale presentata, sotto l’aspetto celebrativo, quale «punto di approdo» di un itinerario di annuncio e di accoglienza del vangelo e insieme come «fonte di un’altissima carica evangelizzatrice», proprio nella sua dinamica celebrativa.29 Il partecipare liturgico significa «comunione» con l’evento della Pasqua. La diversità delle assemblee esige che la celebrazione si situi, e nello stesso tempo sostenga i celebranti nel divenire di un loro cammino di fede, con accentuazioni diverse: di tonalità catechetica; oppure di tipo kerygmatico, nel dare risalto alla provocazione al Regno; o anche di valore più contemplativo, favorendo la condivisione del mistero; o infine di carattere più catecumenale, per un vero discepolato cristiano. Occorre che, al di là dell’invito a condividere il mistero e dell’attenzione al cammino di fede, si trasformi la partecipazione all’eucaristia in un impegno di scelta, per farsi carico della missione della Chiesa. Si può comprendere come la celebrazione eucaristica, «culmen et fons» (SC 10), possa sintetizzare efficacemente tutte le valenze dell’orizzonte simbolico nel suo linguaggio rituale: il significato dell’eucaristia come rivelazione e comunicazione massima dell’amore del Padre, per mezzo del Figlio nello Spirito, è il più visibile e il più efficace mezzo per un’evangelizzazione autentica.
C.G. Jung, La vita simbolica, Torino 1991, XV, 195. Cf. A. Catella, «Liturgia ed evangelizzazione: prospettive attuali», in Manicardi – Ruggiero (a cura di), Liturgia ed evangelizzazione, 479-497, in particolare 489-495 (un’esemplificazione: l’eucaristia domenicale). 28
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5. Il
paradigma dell ’ evangelizzazione simbolica nella ritualità eucaristica
Un’applicazione ancora più marcata della valenza evangelizzatrice della celebrazione eucaristica si trova nella relazione del card. C.M. Martini, al XLV Conventus eucharisticus internationalis di Siviglia,30 di cui riporto le tematiche strutturali che illustrano questo culmine dell’evangelizzazione, quale punto di approdo di un itinerario di annuncio e di accoglienza del vangelo e quale carica evangelizzatrice nella sua dinamica celebrativa. a) I riti introduttivi, come convocazione ecclesiale, hanno lo scopo di purificare le soggettive intenzioni dei partecipanti (la messa come «precetto», come «fuga», come «pausa» e come «terapia») e di creare quell’appropriazione oggettiva delle ragioni della fede e della grazia che stabilisce, attraverso il complesso dei riti di preparazione, i contatti continuativi fra Dio e il suo popolo. b) Per la liturgia della Parola, che ha carattere esplicitamente liturgico, ci sono quattro ambiti. Essa evangelizza anzitutto la celebrazione in atto, riconducendola alla logica della storia della salvezza;31 poi essa evangelizza l’approccio alle sacre Scritture (la sintesi unitaria fra Antico e Nuovo Testamento); inoltre evangelizza la vita delle comunità cristiane sia per la naturale tensione al compimento sacramentale sia per il singolare modo di rendere ecclesiale l’ascolto delle divine Scritture; infine evangelizza la formulazione della preghiera della Chiesa, ricondotta continuamente alla sua genuina ispirazione biblica. c) Nella liturgia propriamente eucaristica, in cui lo schema celebrativo ternario (preparazione dei doni-preghiera eucaristica-riti di comunione) corrisponde alle azioni rituali di Cristo nell’Ultima cena (prese il pane-disse la preghiera di benedizione-lo spezzò e lo diede), si può scorgere la dinamica evangelizzatrice di ognuno dei tre momenti di questa seconda parte strutturale della celebrazione eucaristica. Anzitutto, nei riti di presentazione-preparazione dei doni si annuncia la bontà di tutto il creato e la sua destinazione all’ordine soprannaturale. Poi, nella preghiera eucaristica, i due aspetti di memoriale delle opere di Dio per la nostra salvezza e di epiclesi che raccoglie lo slancio dell’invocazione attualizzatrice possono essere valorizzati in funzione propriamente catechetica o mistagogica al senso e alla realtà dell’eucaristia. Inoltre la lettura dina-
30 Cf. C.M. Martini, «La celebrazione eucaristica culmine dell’evangelizzazione», in Christus «Lumen gentium», Eucharistia et Evangelizatio (XLV Conventus eucharisticus internationalis, Sevilla 7-13.6.1993), ex aed. Vaticanis 1994, 454-470. 31 Leone Magno, Sermo 19 de passione Domini = Tract. 70,1: CCL 138A,426: «Sacram, dilectissimi, dominicae passionis historiam evangelica, ut moris est, narratione decursam ita omnium vestrorum arbitror inhaesisse pectoribus, ut unicuique audientium ipsa lectio quaedam facta est visio».
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mica del testo della preghiera eucaristica conclude all’esito ecclesiale di ogni eucaristia, per cui il frutto proprio e specifico della santa messa è l’edificazione della comunità cristiana nella comunione di vita – esperienza nuziale – con Gesù Cristo e, per suo tramite, nella condivisione di destino con i fratelli di fede. Nei riti di comunione, si è attratti nella logica della vita di Colui di cui ci si ciba (Gv 6,54) e si fa l’esperienza di una fraternità nuova nell’attuazione del vangelo della carità e nell’invio alla sua pratica esistenziale. d) Infine i riti conclusivi, nella loro dinamica, possono mettere la comunità in stato di missione verso ogni persona, ogni ambito umano, ogni situazione, raggiunti dal lieto annuncio della pasqua di Cristo. Questa ricognizione puntuale della prassi celebrativa dell’eucaristia, per essere efficace, deve passare dal progetto alla sua attuazione nel vissuto delle comunità, per liberare il potenziale evangelizzatore delle nostre celebrazioni. Il richiamo all’educazione «intensiva», già proposta dal papa nella Dominicae cenae (24.2.1980) al n. 9, viene articolato secondo due esigenze. La prima esigenza è l’educazione ai linguaggi della celebrazione. Si esplica: sia previamente alla celebrazione, con le molteplici occasioni di annuncio e di catechesi; sia nell’animazione della stessa celebrazione, ritrovando le forme comunicative della fede, verbali e non verbali; sia a partire dalla celebrazione eucaristica, cioè con la riscoperta comunitaria dei due cardini dell’ufficiatura olivina (lodi e vespro); sia con l’aggancio più diretto delle diverse forme della pietà popolare con l’eucaristia celebrata. La seconda esigenza è l’educazione alla partecipazione: sia con un’ampia cooperazione ministeriale; sia con un’attenzione più impegnativa alle dimensioni partecipative più interiori e spirituali (ministero del silenzio e adorazione contemplativa) (PNMR c. 2). La proposta del card. Martini termina con l’indicazione di tre piste per una verifica di questo dinamismo evangelizzatore della celebrazione eucaristica, a cui qui si accenna soltanto. La prima è la verifica delle linee di spiritualità che derivano dalla comunità (specie parrocchiale) plasmata dall’eucaristia. La seconda verifica riguarda la catechesi posta in relazione con l’eucaristia, intrecciata con i ritmi dell’anno liturgico e integrata con la «lectio divina». La terza pista è il rapporto tra eucaristia e carità, nel senso che l’eucaristia evangelizza la carità facendone un clima spirituale previo all’azione; poi in quanto l’eucaristia dice lo scopo a cui tende il servizio della carità, cioè nell’orizzonte della Pasqua, la carità si impegna fino in fondo di fronte alla sofferenza, alimentando la speranza che la rende incrollabile di fronte ai pericoli di sconfitta. Infine tale evangelizzazione dice a chi la carità rivolge la propria preferenza, cioè ai più amati da Cristo. La riscoperta della centralità dell’evento eucaristico, in questa sintesi, non evidenzia solo la forza plasmatrice ma anche la carica evangelizzatrice dell’eucaristia nel mondo attuale. Infatti il rito stesso, compiuto attorno a una tavola, è un annuncio; la proclamazione della Parola è un annuncio; la riunione assembleare, fatta in memoria di Cristo, esprime la volontà di accettare l’offerta di comunione con Gesù; e infine il comportamento dei partecipanti è un
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annuncio di liberazione dal potere del male, per evitare la condanna già indicata da san Paolo (1Cor 11,17-20).
Conclusione Al termine di questa rassegna della problematica, si evince che la nuova svolta antropologica della liturgia propone alle discipline teologiche una messa in questione della ricerca conoscitiva (l’hybris del sapere tutto), del pedagogismo e dell’immediata declinazione morale. Nella riscoperta della dimensione religiosa dell’«homo ludens» (gioco e rito come dato antropologico), la carica di evangelizzazione, insita nella stessa pratica celebrativa, emerge in modo chiaro. La dimensione simbolica del linguaggio liturgico, con parole, simboli e riti, diventa la forma più intensa della comunicazione: il simbolo si potrebbe dire «la parola di tutte le cose», in quanto rivela ciò che sta al di là, stabilendo un contatto con le realtà della fede; e nello stesso tempo opera rendendo presente la realtà celebrata e mettendoci in comunicazione con essa. Nel simbolo rituale le realtà sacre diventano eventi, cioè cogliamo la dimensione storica della rivelazione cristiana in cui troviamo le radici della nostra esistenza. Inoltre in questa evangelizzazione simbolica l’indifferenza è impossibile, perché le verità e le realtà comunicate sono colte e gustate nella loro originaria e irripetibile differenza, che qualifica la stessa natura della fede cristiana rispetto ad ogni altro messaggio religioso. Infine la stessa esigenza di un segreto (gli antichi lo chiamavano «arcano») insita in ogni azione rituale, in cui non si è spettatori ma attori partecipanti, indica che l’evangelizzazione non è efficace se non diventa esperienza di una Presenza; questa permette alla coscienza dei destinatari del vangelo di liberarsi dalla sudditanza ai nostri processi concettuali, consentendo loro di mostrarsi in una mirabile varietà di aspetti a causa della varietà e della bellezza delle espressioni rituali, in cui gli elementi «esteriori» non sono ad sollemnitatem ma inerenti all’efficacia stessa dei simboli sacramentali (come si è visto specialmente nella celebrazione eucaristica). Un’evangelizzazione di carattere simbolico e liturgico, nel senso sopra sinteticamente esposto, appare dunque connaturale alla stessa struttura storico-dialogica-esperienziale della rivelazione cristiana.
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La liturgia luogo di coinvolgimento del sensibile nello Spirito e il suo ruolo nell’evangelizzazione
Davide Righi
1. La
liturgia ha un ruolo nell ’ evangelizzazione ?
Non so quanto sia presente oggigiorno la consapevolezza che la liturgia abbia un ruolo nell’evangelizzazione. Infatti, dopo il concilio, si è parlato di «evangelizzazione e promozione umana», di «evangelizzazione e sacramenti», di «pre-evangelizzazione».
1.1. Quale
ruolo nell ’ evangelizzazione ?
Che la liturgia abbia un certo rapporto con l’evangelizzazione, o prima di essa o accanto a essa o in conseguenza di essa, nessuno lo mette in discussione. Paolo VI, riflettendo sul rapporto dell’annuncio del vangelo con la liturgia, si soffermava su un momento particolare della liturgia, cioè sul ruolo dell’omelia nella liturgia rinnovata.1 Forse però è anche questa incertezza che mostra l’appannamento che regna oggi in merito al ruolo della liturgia nella vita della Chiesa nella sua missione evangelizzante. Riguardo a questo offuscamento è sufficiente notare l’inversione che, quasi insensibilmente, è stata operata nel post-concilio dell’endia di «culmen et fons», che è diventata quasi immancabilmente «fons et
1 Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8.12.1975), n. 43: EV 5/1636: «Basta una vera sensibilità spirituale per saper leggere negli avvenimenti il messaggio di Dio. Ma, dal momento che la liturgia rinnovata dal concilio ha molto valorizzato la “liturgia della Parola”, sarebbe un errore non vedere nell’omelia uno strumento valido e adattissimo di evangelizzazione».
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Davide Righi
culmen»,2 mentre il testo conciliare recita: «Liturgia est culmen ad quod actio ecclesiae tendit et simul fons unde omnis eius virtus emanat» (Sacrosanctum concilium [SC], n. 10). Si sono così operati almeno due slittamenti semantici e teologici: il primo slittamento è stato una «concentrazione eucaristica» con attenzione non a tutta la liturgia, ma all’eucaristia in modo quasi esclusivo. Tale slittamento è stato preparato in realtà dalla stessa costituzione conciliare, perché più volte si fanno affermazioni inerenti la liturgia per poi specificare che il discorso è valido soprattutto per l’eucaristia.3 L’eccessiva concentrazione sull’eucaristia fa così perdere valore e attenzione alle altre celebrazioni liturgiche, ad esempio alla liturgia delle ore o all’anno liturgico o ai sacramentali. Il secondo slittamento è stato lo smarrimento del riferimento al catecumenato al termine del cui cammino, quale culmen, si colloca la piena partecipazione liturgica che diventa anche inizio, fons, della vita cristiana. Infatti il numero 9 di SC, nei primi due paragrafi, sottolinea il progresso della fede dal momento in cui se ne è all’oscuro fino all’adesione di fede in Gesù Cristo, e al conseguente cambiamento di vita e alla penitenza. Il terzo paragrafo sembra sottolineare quale deve essere lo stile di vita e di fede che accompagna i credenti e li «dispone» continuamente ai sacramenti (ad sacramenta disponere). La sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa. Infatti, prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e alla conversione: «Come potrebbero invocare colui nel quale non hanno creduto? E come potrebbero credere in colui che non hanno udito? E come lo potrebbero udire senza chi predichi? E come predicherebbero senza essere stati mandati?» (Rm 10,14-15). Per questo motivo la Chiesa annunzia il messaggio della salvezza a coloro che ancora non credono, affinché tutti gli uomini conoscano l’unico vero Dio e il suo inviato, Gesù Cristo, e cambino la loro condotta facendo penitenza. Ai credenti poi essa ha sempre il dovere di predicare la fede e la penitenza; deve inoltre disporli ai sacramenti, insegnar loro a osservare tutto ciò che Cristo ha comandato, e incitarli a tutte le opere di carità, di pietà e di apostolato, per manifestare attraverso queste opere che i seguaci di Cristo, pur non essendo di questo mondo, sono tuttavia la luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini.
2 Basti pensare che, facendo una ricerca in Google dell’espressione «fons et culmen», si ottengono circa 30.100 risultati, mentre cercando «culmen et fons» se ne ottengono un terzo di meno. L’espressione è citata nella formulazione non conciliare anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 1324: «Eucharistia est totius vitae christianae fons et culmen», che ha così recepito la forma vulgata dell’espressione, come l’XI Sinodo dei vescovi nel 2005 che si è soffermato sull’«eucaristia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa». 3 Ad esempio, nello stesso passo di SC 10: «Ex Liturgia ergo, praecipue ex Eucharistia, ut e fonte…». Similmente anche in SC 2: «Liturgia enim, per quam, maxime in divino Eucharistiae Sacrificio, opus nostrae Redemptionis exercetur»; ma anche in SC 41: «In iisdem celebrationibus liturgicis, praesertim in eadem Eucharistia» (Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione Sacrosanctum concilium [4.12.1963]: EV 1/73).
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I padri conciliari discutendo quei numeri 9 e 10 della costituzione si erano interrogati sul ruolo della liturgia nella vita della Chiesa – dibattito che aveva occupato parecchi anni dei primi decenni del XX secolo – e soprattutto in rapporto alla fede dei credenti e al suo progresso: l’espressione sintetica fons et culmen diventa pertanto in un certo qual modo una «riduzione» sintetica, la quale però, tolta dal suo contesto e con l’inversione dei due termini, non significa più ciò che essa intendeva. Con essa si afferma che c’è qualcosa da attingere – fons –, si afferma che c’è qualcosa di elevato come non è possibile rinvenire in nessun altro luogo – culmen – ma si perde il riferimento alla dinamica catecumenale dell’itinerario di fede e al progresso della fede nella vita cristiana. Infatti i padri conciliari sottolineano che la Chiesa, a quanti hanno già creduto, i credenti, deve continuare a predicare la fede e la penitenza. Fede e penitenza perciò non sono due pratiche fatte una volta per sempre, ma sono attitudini e atteggiamenti che la Chiesa invita i credenti a praticare proprio a partire dalla liturgia, così da «disporli ai sacramenti».
1.2. Anche storicamente
la liturgia è stata sorgente della vita e della missione della C hiesa
Da appassionato di storia della liturgia, non posso che indicare l’esperienza liturgica e la sua centralità fin dalle origini nella vita della Chiesa quale motore propulsore dell’evangelizzazione. Parto dai segni sensibili e da ciò che di sensibile si può cogliere di essa. Nel mondo romano fino a tutto il II secolo il cristianesimo è stato considerato una forma di ateismo, perché già il congregarsi in case private era un elemento sensibile che non parlava di una fede, ma semmai di una superstizione (superstitio prava, immodica).4 Il radunarsi di sera, per poi accendere la lucerna e introdurla nell’assemblea orante, faceva pensare male tutti coloro che non comprendevano il rito della preghiera serale e vespertina.5 Al buio ciò che c’è di sensibile è la luce, ma se poi questa luce è accolta con il canto, l’altro elemento sensibile è la musica, e l’altro ancora sono le parole: capiamo così l’antichità dell’inno «o phoˉs ilaron», che già Basilio
Cf. Lettera di Plinio a Traiano 8: «Nihil aliud inveni quam superstitionem pravam, immodicam». Cf. anche il Martirio di Policarpo 9,2: «Portato davanti al proconsole, questi gli chiese se fosse Policarpo. Egli annuì e [il proconsole] cercò di persuaderlo a rinnegare dicendo: Pensa alla tua età e le altre cose di conseguenza come si usa: Giura per la fortuna di Cesare, cambia pensiero e di’: Abbasso gli atei (Ὄμοσον τὴν καίσαρος τύχην, μετανόησον, εἶπον∙ Αἶρε τοὺς ἀθέους). Policarpo, invece, con volto severo guarda per lo stadio tutta la folla dei crudeli pagani, tende verso di essa la mano, sospira e guardando il cielo disse: Abbasso gli atei (αἶρε τοὺς ἀθέους)». 5 Minucio Felice, Ottavio 8-9. 4
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dichiarava di non sapere chi l’avesse composto.6 Per la preghiera serale dunque, come possiamo immaginare secondo la descrizione della Tradizione apostolica, era sufficiente una lucerna, la mente per cantare i canti e i salmi appresi a memoria, la voce modulata nel canto. Faccio notare che la preghiera serale non comportava solo una preghiera comune, ma anche un pasto comune e la condivisione del pasto con chi era in ristrettezze.7 L’enorme produzione di apocrifi che caratterizzava la deriva gnostica non era certo estranea alla liturgia, perché tali produzioni letterarie erano proprio finalizzate a essa. Le lettere di Paolo non erano state scritte secoli prima ed erano trasmesse congiuntamente alle lettere di Ignazio di Antiochia, che non era stato martirizzato molti decenni prima. I vangeli, così come gli Atti degli apostoli, non erano stati scritti secoli addietro. Dunque nessuna meraviglia se la produzione di lettere, vangeli e atti attribuiti a questo o a quell’apostolo andavano a nutrire le liturgie delle comunità con deriva gnostica, e se il canone muratoriano della fine del II secolo dice cosa è da leggere nella Chiesa/assemblea, cosa non deve essere letto nella Chiesa/assemblea ma può essere letto in privato, e cosa non deve proprio essere letto. Tutta questa produzione letteraria nasceva dunque da persone che frequentavano la liturgia e che si dedicavano a comporre tali opere per «nutrire» la liturgia, in questo caso (vangeli, atti, lettere, apocalissi) la liturgia della Parola. La produzione del codice non sembra proprio estranea alla liturgia, anzi sembra proprio che sia stata l’esigenza liturgica a suggerire lo sviluppo e la diffusione di tale mezzo di trasmissione dello scritto. Quando Diocleziano dovrà perseguitare la Chiesa, chiederà la consegna dei libri e dei vasi.8 Quando Costantino dovrà procedere al decreto di libertà religiosa, procederà a restituire i luoghi requisiti: dunque luoghi per il ritrovo – che assumeranno l’impianto basilicale –, vasi sacri, libri/codici… apparivano anche esternamente come gli elementi essenziali della fede cristiana. L’eresia montanista come profezia assembleare nasceva come manifestazione liturgica di quella che chiamiamo «liturgia eucaristica». Una preghiera ispirata dallo Spirito, messa per iscritto da un tachigrafo/stenografo, è una scrittura ispirata alla pari delle antiche Scritture già «riconosciute» come ispirate dalla Chiesa? La Chiesa di quell’epoca mise a fuoco che per il discernimento dell’opera dello Spirito di Dio la conciliarità è il criterio sommo, anche in materia liturgica. Stando ai testi riportati da Eusebio di Cesarea si comprese che lo spirito di vanagloria può arrivare a «turbare» anche le azioni e le preghiere liturgiche «spacciandosi» per Spirito Santo.
6 È l’inno vespertino più antico che si conosca (cf. Basilio, Lo Spirito Santo 73: PG 32,205A). 7 Si comprende così l’enorme contributo di solidarietà testimoniato già da Tertulliano nell’Apologetico. 8 Cf. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica VIII,2,4 e altri passi del medesimo libro.
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I successori degli apostoli, testimoni autorevoli della tradizione apostolica, costituita da insegnamenti e stili di vita – come già Paolo di Tarso diceva nelle sue lettere9 –, furono allora riconosciuti come i garanti sommi della permanenza nella Chiesa della tradizione apostolica, condensata, quale criterio ermeneutico, nel simbolo battesimale. Se non si richiama però il contesto nel quale avveniva la successione apostolica non si comprende molto di come essa sia stata la garanzia della permanenza nella Chiesa della tradizione apostolica. Inizialmente fu probabilmente l’apostolo a designare il successore, ma tale successore era designato tra coloro che avevano ricevuto da lui, se non i sacramenti dell’iniziazione, almeno l’insegnamento quotidiano all’interno della liturgia. Chi aveva ascoltato l’apostolo, magari per anni, non avrebbe certo deviato così facilmente dall’insegnamento del proprio maestro e inoltre, per lo meno, non lo avrebbe fatto senza che la comunità di coloro che avevano ascoltato dall’apostolo il medesimo insegnamento insorgesse di fronte a un insegnamento estraneo. Accanto ai volumi antichi ci sono i volumi nuovi negli archivi, come li chiamava Ignazio di Antiochia: la Bibbia, cioè «i libri» – antichi e nuovi –, furono così i primi libri liturgici che il successore degli apostoli e quanti da lui designati e deputati a insegnare spiegavano ordinariamente nella liturgia, almeno nella liturgia mattutina.10 Lo stesso simbolo della fede, che in questo Anno della fede viene messo al centro dell’attenzione ecclesiale, se nelle strategie pastorali finisce solo per guadagnarsi alcune serate o alcuni «incontri» o «cicli di formazione», ma non mette in discussione le liturgie dove nelle sacre Scritture e in tutta l’eucologia e negli stessi gesti e azioni liturgiche tale fede viene professata e alimentata, finisce per non essere più collocato nel contesto che ha generato tali simboli. Il contesto era la catechesi in preparazione al battesimo. Tale catechesi era intesa come educazione alle verità fondamentali della fede, le verità etiche che da tali verità scaturivano, cambiamento di vita – accertato da un garante – soprattutto in riferimento agli affetti (le persone alle quali si era affettivamente legati: se si era liberi o schiavi, se si era sposati o no) e al mestiere esercitato.11 Si doveva essere stati assidui nella frequentazione della comunità, nelle opere di carità e di solidarietà verso i più deboli e i più poveri, con una preparazione più intensa nell’ultimo periodo (quaresimale o pasquale) scandito da riti particolari e, dopo una confessione verbale dei peccati al vescovo, un lavacro ricevuto nel fonte, l’unzione crismale che «legava» al vescovo. Il tutto era «concen-
9 Cf. il riferimento a insegnamenti che non sono esplicitati per iscritto dall’apostolo in 2Tm 2,2: «Le cose che hai udito da me davanti a molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali a loro volta siano in grado di insegnare agli altri». Per quanto riguarda gli stili di vita e gli esempi, cf. Fil 3,17: «Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi». 10 Cf. Ippolito, La tradizione apostolica 41. 11 Cf. ivi, 15s.
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trato» nel simbolo della fede che veniva professato al momento del lavacro battesimale, e che la Chiesa di Roma tardò a recepire e a inserire nella celebrazione eucaristica.
1.3. Lingue nuove
usate per tradurre la B ibbia e nei primi libri liturgici
In quale lingua erano scritti i libri sacri? Se consideriamo lo sviluppo delle letterature cristiane antiche (greca, latina, siriaca, copta, georgiana, etiopica) non possiamo pensare che ci sia stato un irrigidimento linguistico nella trasmissione della fede e nella diffusione della liturgia cristiana, anzi, la vitalità di tali Chiese è generata dalle esigenze liturgiche di tradurre innanzitutto le sacre Scritture nella lingua comprensibile a questi popoli, perché i fedeli le potessero udire, e non solo esserne istruiti, nella propria lingua. Un certo numero di parole che venivano lasciate appositamente non tradotte (Amen, Alleluja, Osanna, Sabaoth, Maranà tha) volevano ricordare il radicamento storico e l’origine di ciò che si aveva ricevuto e da chi lo si aveva ricevuto. Tale forzatura tuttavia non arrivò mai nei primi secoli a «imporre» la liturgia in una lingua incomprensibile, al punto che anche a Roma, dove si parlava e si comprendeva il greco, le comunità cristiane che erano di estrazione più popolare arriveranno ben presto a tradurre i testi biblici in latino. Efrem il Siro era ben al corrente delle dispute ariane che si agitavano nel mondo bizantino e che avevano nel mondo siriaco – ormai profondamente ellenizzato – tutte le loro risonanze. Egli tuttavia sapeva che non è con la disputa, con la polemica teologica che si aiuta il popolo di Dio a nutrirsi dei divini misteri e a crescere spiritualmente: per questo motivo dedicherà le proprie forze alla produzione poetica e artistica a servizio della liturgia perché dai suoi segni sensibili, accompagnato dai canti e dagli inni nella propria lingua, professando la propria fede e insieme nutrendola con la ripetizione di un ritornello denso di fede e di teologia, il popolo potesse attingere una sana esperienza di Dio. Basta scorrere alcuni di tali ritornelli: – Benedetto è chi è degno di ereditare il tuo paradiso! (Inni sul paradiso 5). – Benedetta la tua risurrezione! (Inni sulla risurrezione 1). – Lode a Te, per il quale tutte le cose sono facili, perché Tu sei onnipotente (Inni sulla natività 11). – Benedetto Colui che mi ha conquistato e ha portato vita ai morti per la Sua gloria! (Inni di Nisibi 3). – Per quanto grande sia la nostra meraviglia per Te, o Signore, la tua gloria supera ciò che le nostre lingue possono esprimere (Inni sulla verginità 7). – Rendi anche me degno di entrare nella stanza nuziale della tua gloria, vestito del tuo abito, Signore (Inni sulla verginità 33). – A te, Signore, la mia bocca porti un frutto di lode che ti è accetta (Inni di Nisibi 50).
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La liturgia luogo di coinvolgimento del sensibile nello Spirito e il suo ruolo nell’evangelizzazione
Si rischia di parlare tanto di Dio nel linguaggio ecclesiale, e ci si può dimenticare «dove» la Chiesa invita a fare esperienza di Dio o, meglio, qual è l’ambito privilegiato nella vita della Chiesa per tale esperienza. Possiamo parlare di redenzione e salvezza correndo il rischio di dimenticarci quali sono i luoghi nei quali veniamo salvati e il Salvatore passa. Tale rischio di smemoratezza non sarebbe nuovo nella vita plurimillenaria della Chiesa.
2. La
liturgia luogo di coinvolgimento del sensibile
2.1. Ritorno alle
origini ?
Il ritorno alle origini è sempre mediato dalla Chiesa e la Chiesa, si sa, è fatta di uomini, per i quali cambia anche la concezione di cosa era nelle origini e cosa no. Se tremila persone vengono battezzate nel giorno di Pentecoste, cosa ci impedisce di battezzare la domenica pomeriggio coloro che hanno chiesto il battesimo la mattina stessa? Se Filippo battezza l’eunuco dopo un viaggio di alcune ore, non giorni, cosa ci impedisce di battezzare dopo qualche ora dalla richiesta? Domande del genere sarebbero analoghe a quelle poste a Tertulliano da alcuni dei suoi fedeli: se Gesù nel vangelo dice più volte la tua fede ti ha salvato, perché c’è bisogno del battesimo per essere salvati? Ricordo che «battesimo» era sinonimo di tutto l’itinerario catecumenale che culminava nella celebrazione battesimale, crismale ed eucaristica ed era seguita dalle catechesi mistagogiche.
2.2. Il perché di un prolungamento catecumenale : parole e gesti , esperienza globale
Lo sviluppo catecumenale già testimoniato nella Tradizione apostolica non si arrestò neppure durante l’epoca carolingia, nella quale l’attenzione al battesimo e a tutti i segni battesimali fu altissima. Era dunque necessario che l’annuncio della fede e l’adesione progressiva alla fede fossero nei primi secoli seguiti, in epoca carolingia preceduti, dal segno celebrato. Ciò è chiaro a partire dalla Didaché, dall’Apologia di Giustino, dalla Tradizione e, per l’epoca carolingia, dai vari trattati riguardanti il battesimo e dagli scambi epistolari di Carlo Magno con alcuni arcivescovi.
2.3. Il rischio di un divorzio Il divorzio tuttavia tra la parte contenutistica e la parte sensibile/ espressiva si è dimostrato letale per la vita della Chiesa, soprattutto
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Davide Righi
con l’irrigidimento linguistico in Occidente dopo la riforma carolingia e in Oriente nelle diverse tradizioni linguistiche che hanno dovuto adattarsi – talvolta a malincuore – davanti alle mutate situazioni sociali e culturali. La riflessione amalariana, con le condanne e il disprezzo che si è attirata, è testimonianza del tentativo di riempire la parte sensibile/espressiva con dei contenuti congrui. A ben vedere, il Leitmotiv della riflessione amalariana – che non è isolata e ha avuto i suoi sviluppi in tutto l’Oriente a partire già da Teodoro di Mopsuestia – ha avuto il grande merito di dare un contenuto cristologico chiarissimo anche se, a riguardo dei singoli gesti e segni, nebuloso e aleatorio. La parte espressiva della liturgia, della quale non si coglieva più il significato ma solo, appunto, la parte espressiva, necessitava di qualcosa d’altro per il nutrimento dei fedeli.
3. L’attenzione
ai linguaggi della comunicazione liturgica e l ’ opera dello S pirito di D io
Purtroppo l’attenzione che si è concentrata sulle modalità di comunicazione nella liturgia e i cambiamenti inaugurati dalla riforma conciliare, talvolta già prima ancora che fosse varata – affermando che ci sono parti che «non solo possono ma anche debbono variare» –, hanno finito per far presumere ai partecipanti, e in primo luogo ai ministri, di avere il controllo di tutti i «canali di comunicazione» e i «codici comunicativi» che adesso, nel post-concilio, dovevano solo essere continuamente dosati sul destinatario, bambino, adulto, ragazzo, uomo, donna. Si è rischiato – e ancora si rischia – di pensare che una comunicazione liturgica inefficace sia da addebitarsi alla mancata o errata modulazione dei codici comunicativi, finendo però per fare illudere gli attori dell’azione liturgica di essere uno dei due poli della comunicazione e anche i giudici della sua qualità, ma facendo perdere di vista sostanzialmente due cose fondamentali. La prima: è Dio con il quale l’assemblea comunica; dunque la liturgia deve lasciare allo Spirito di Dio con la «S» maiuscola un margine «imponderato» e «imponderabile», e anche un supremo giudizio per la valutazione di tale comunicazione. La seconda: la liturgia è liturgia della Chiesa; dunque, anche se gli attori sono coloro che rendono possibile la celebrazione, non ne sono i padroni e devono cercare di essere fedeli a ciò che la Chiesa ufficialmente nei suoi libri liturgici ha indicato. L’azione educativa preconciliare, che nulla poteva nella modulazione dei «codici comunicativi», aveva concentrato la sua azione, fin dai tempi di Guéranger, a educare il fedele alla partecipazione, con strumenti, a ben vedere oggi, molto semplici, meno ricchi rispetto a quelli a nostra disposizione, ma che erano utilizzati in un’azione pastorale che nella partecipazione attiva alla liturgia e ai suoi segni sensibili aveva indivi-
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La liturgia luogo di coinvolgimento del sensibile nello Spirito e il suo ruolo nell’evangelizzazione
duato il punto cruciale e nevralgico in cui innestare un’azione pedagogica e mistagogica per la crescita spirituale del credente.
3.1. L’assemblea celebrante
è sempre evangelizzatrice perché è sempre la prima destinataria dell ’ accadimento del vangelo
Se consideriamo il fatto che la Chiesa chiama e deve chiamare i suoi figli a conversione («credentibus semper fidem et paenitentiam praedicare debet»: SC 9), allora capiamo che nella liturgia la Chiesa sempre evangelizza per il semplice fatto che essa, quale comunità congregata, è sempre la prima e immediata destinataria di tale azione evangelizzatrice. Noi che partecipiamo alle azioni liturgiche quali figli della Chiesa, già generati in passato alla fede ma continuamente chiamati a lasciarci nuovamente generare in essa e in essa crescere, siamo i primi destinatari del vangelo, non del vangelo come libro o contenuto di un libro, ma come parola del Signore proclamata; come verbo di Dio, persona del Cristo morto e risorto; accadimento e incontro che invita a una rinnovata professione di fede a partire dal nostro oggi; supplica a colui che deve venire a partire dalle situazioni di morte e di sofferenza nelle quali lavoriamo e viviamo; acclamazione a chi è indicato come presente per le vittorie che ci ha aiutato a riportare nelle scelte difficili della vita; Parola che per essere accolta ha bisogno di un silenzio meditativo e adorante in mezzo alle migliaia di parole di cui siamo circondati e che pronunciamo ogni giorno; segno povero e sempre vecchio, ma contemporaneamente sempre nuovo perché riesce a dare senso a tutto in mezzo a un mondo che ci vuole colpire con immagini e segni sempre diversi e sempre nuovi, che quando appaiono sono già diventati vecchi; lode per il memoriale delle opere nel passato – anche del nostro passato – nel quale lo pensavamo estraneo e che nel tempo scopriamo sempre presente; invocazione per l’opera che attendiamo nel futuro: è sempre lui, il Signore Gesù Cristo, che deve essere da noi nuovamente accolto per lasciarci continuamente evangelizzare. Se nel momento culminante della celebrazione eucaristica, subito prima della comunione, la Chiesa mette sulla bocca dell’assemblea dei fedeli la professione di fede di chi era considerato pagano e infedele – che non osò nemmeno incontrare Gesù –, possiamo intuire il ruolo della liturgia nell’evangelizzazione, nella nostra (genitivo oggettivo) evangelizzazione, e il coinvolgimento sensibile al quale lo Spirito di Dio chiama ogni credente per una risposta esistenziale all’amore di Dio che in Cristo si fa lavacro, unzione, cibo, bevanda, veste, parola, suono, luce, profumo, riposo, richiamo, incontro, missione, vocazione e, a dirla con Agostino, via e patria. Solo così sapremo dire a chi non è cristiano: «venite» e «gustate e vedete com’è buono il Signore!».
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Lo spazio sacro come kerygma e mistagogia*
Jean-Paul Hernández
Scrive san Giovanni Damasceno: «Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!, tu portalo in chiesa e mostragli la decorazione di cui è ornata, e spiegagli la serie dei quadri sacri».1 L’interesse per il patrimonio artistico cristiano è uno dei fenomeni di massa più sorprendenti negli ultimi anni. La comunità cristiana sta iniziando a cogliere questo «segno dei tempi» come un movimento dello Spirito che parla alle Chiese e le rinnova. Le masse di turisti che entrano nelle nostre chiese sono un’inattesa occasione di annuncio, ma esse ci colgono impreparati. Nasce allora una sfida per ripensare l’annuncio e l’accompagnamento nella fede. Il presente articolo si radica in una riflessione sul fenomeno, e fornisce alcuni materiali per nuove forme di annuncio e mistagogia a partire dallo spazio sacro.
* Il contributo offre la sintesi del corso «Chiavi di lettura kerygmatiche nella storia dell’arte cristiana» tenuto dal prof. Hernández dal 20 febbraio al 27 marzo 2010 presso la FTER all’interno del Laboratorio di iconografia, organizzato in collaborazione con l’associazione Icona. Il contenuto di quest’articolo viene ripreso e ampliato nel seguente libro dell’autore: J.-P. Hernández, Il corpo del Nome. I simboli e lo spirito della chiesa madre dei gesuiti, Pardes, Bologna 2010. 1 Giovanni Damasceno, Difesa delle immagini sacre 1,9: PG 94,1240A-B.
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Jean-Paul Hernández
1. Il
turismo religioso come kairos
Da decenni, il turismo si rivela come fuga da un quotidiano percepito come una «non-vita». Uscire dalla «rete», anche solo per poche settimane l’anno, è diventata in Occidente una questione di vita o di morte. La fitta griglia quotidiana di impegni e di comunicazioni veloci che promettevano all’uomo «di diventare simile a Dio» ha finito per rubare l’uomo all’uomo. L’illusione dell’onnipotenza ha tolto all’uomo ogni resto del suo tempo, della sua vita. Ogni giorno l’uomo vive ciò che non gli appartiene più, una vita che non è la sua vita, un tempo alienato. Il turista è allora un uomo alla ricerca della sua umanità perduta. Un uomo che cerca un tempo suo. Un tempo dove può ritrovarsi. È il tempo altro, il tempo separato, il tempo sacro. Il tempo che non obbedisce più alla logica stritolante di chi deve produrre. In altri termini: il tempo «libero», nel senso più forte della parola. In questo contesto i monumenti religiosi sono riscoperti come segni di questo «altro mondo», o altro modo di praticare il mondo. Essi diventano delle calamite per i turisti perché parlano di un tempo gestito secondo un’altra logica. Una cattedrale, un monastero parlano all’uomo di oggi di quella gratuità che chiamiamo bellezza e che è l’espressione di una libertà oggi persa. Ma negli ultimissimi anni il turismo ai luoghi religiosi aumenta in modo esponenziale non solo come fuga o nostalgia. L’uomo contemporaneo cerca, al di fuori del quotidiano, un luogo e un tempo per interpretare il quotidiano stesso. Il turista è allora un ricercatore di senso. E il monumento religioso è una proposta forte di senso. Anzi, una proposta del «senso forte». Allora l’uomo dal «senso liquido» è irresistibilmente attratto dalla solidità di quelle pietre secolari che hanno attraversato il tempo perché hanno osato scegliere un senso. Quelle pietre così libere da potersi legare per sempre a un senso. Il turista che entra in una nostra chiesa è spinto consapevolmente o inconsapevolmente da questo interrogativo: «Chissà che in questo luogo non trovi una novità per la mia vita, qualcosa che le dia senso?». In una lettura di fede, potremmo dire che è lo Spirito a spingere il turista in questa ricerca. Il turista al contempo desidera e teme questa scoperta. Perché se davvero trova qualcosa, allora la sua vita cambia. «Cambia»?… o «deve cambiare»… Lui pensa: «Deve cambiare». E perciò ha paura. In realtà, davvero «cambia». Perché quando l’annuncio della buona notizia tocca il cuore dell’uomo egli non può più rimanere indifferente, egli è già cambiato. E perciò è importante che la comunità cristiana accompagni questo cercatore in questo momento decisivo. Il turismo, e in particolare il turismo religioso, è quel momento di grazia, quel kairos, dove l’uomo è aperto all’annuncio. Anzi, cerca l’annuncio con la sete di chi cerca la propria vita. Lo cerca come senso ultimo dell’o-
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Lo spazio sacro come kerygma e mistagogia
pera d’arte che contempla, dove l’opera diventa una proiezione della sua stessa esistenza. Come in ogni processo spirituale, il desiderio di Dio è contrastato da una serie di resistenze. In primo luogo, il turismo stesso si struttura sempre di più secondo la logica da cui in realtà vuole fuggire. L’illusione di onnipotenza pervade tutti i programmi proposti dagli operatori turistici. Si visita in fretta, tanto per aver visto, per riportare a casa una foto, per poter dire che non mi manca nulla. Chi visita una città o un paese è perseguitato da questo fantasma: il non riuscire a vedere tutto, il passare accanto a qualcosa di importante. Allora il «tempo libero» diventa esso stesso un concentrato delle logiche schiavizzanti del quotidiano: la corsa estenuante dietro all’illusione dell’onnipotenza, la frammentarietà, la superficialità dei rapporti, degli incontri, delle visite. Per paura di mancare qualcosa si manca tutto. Ma ancora più emblematico è l’aspetto contenutistico delle guide ai luoghi d’arte cristiana. Cioè l’interpretazione che la macchina economica del turismo professionale dona al segno forte che aveva attratto il turista assetato di senso. È interessantissimo a questo punto studiare il contrasto fra il momento promozionale dell’impresa turistica e i contenuti reali che sono proposti all’interno dei singoli monumenti. In fase pubblicitaria, l’impresa turistica parla a ciò che davvero muove l’uomo: il ritrovare se stesso, la sete di senso, la nostalgia di libertà e di assoluto. Invece si può analizzare la maggior parte dei contenuti trasmessi dalle guide turistiche come un tentativo di disinnescare l’interrogativo stesso che aveva spinto il turista ad arrivare fin lì. L’interpretazione dell’opera d’arte cristiana si riduce così a una mera descrizione o alla narrazione di una logica puramente umana. Non solo le guide turistiche evitano per lo più di entrare nell’orizzonte di fede che anima l’opera d’arte religiosa, ma il loro discorso si concentra spesso sulle motivazioni «puramente umane» che stanno dietro al monumento religioso. Seguendo i criteri del giornalismo di mercato, la guida turistica esperta parlerà di quelle motivazioni che provengono dagli ambiti più «sensibili»: il potere, il sesso, i soldi. Così ad esempio, della visita a una chiesa il turista ricorderà soprattutto che la torre è così alta perché costruita per invidia rispetto a una chiesa rivale, e che il volto di un bassorilievo è la rappresentazione nascosta di una qualche relazione proibita. Quando il turista si convince che nel fondo anche lo spazio sacro obbedisce alla stessa logica del mondo, allora la sua ricerca si interrompe. O allora inizierà a desiderare di cercare altrove, magari penserà già a un altro viaggio, a un’altra vacanza. E così il turismo religioso, da ricerca di assoluto, diventa anch’esso consumismo eternamente deluso. Le motivazioni «mondane» non sono certo assenti nella storia dell’arte cristiana, anzi! Ma non ne sono certo il significato. Fermarsi a esse sarebbe come descrivere il tenero abbraccio di una madre al proprio bambino in termini di disfunzioni ormonali o scompensi affettivi della madre. Certo, gli scompensi affettivi attraversano ogni espressione di affetto e ogni relazione, ma non ne sono il significato.
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Lo stesso si può dire per le analisi più descrittive che si fermano alla tecnica artistica dell’opera d’arte cristiana. Certo l’opera non si comprende senza uno studio tecnico dei mezzi espressivi. Ma, ancora una volta, ciò non costituisce il suo significato. Fermarsi all’analisi tecnica sarebbe come descrivere quel gesto materno in termini di fisica o di meccanica che calcola i moti e le forze dei diversi muscoli in movimento durante l’abbraccio. Certo, un abbraccio è anche questo, ma ciò non è il suo significato. C’è ancora un terzo riduzionismo da evitare. I capolavori dell’arte cristiana non sono una mera illustrazione di episodi biblici o di verità di fede. Il termine Biblia pauperum non rispetta esattamente l’esperienza creatrice dell’artista cristiano. Vedere l’arte cristiana come strumentale sostituzione della parola biblica sarebbe come affermare che l’abbraccio materno non è altro che la sostituzione di una parola di affetto. Certo la madre può tenere in gola molte frasi di affetto, ma l’abbraccio non si riduce a queste. L’abbraccio è un evento che supera infinitamente ogni concetto. Così, l’arte cristiana è prima di tutto l’espressione di un’esperienza spirituale. Anzi, la creazione dell’opera d’arte cristiana è in se stessa un’esperienza spirituale. Dando forma visibile al materiale biblico, l’artista rivela la propria relazione con Dio, molto al di là dell’intenzione originaria. Si potrebbe dire che un’opera d’arte cristiana è ciò che rimane di quell’intensa esperienza di Dio che è la creazione artistica in materia religiosa. Come mostrano le performance dell’arte contemporanea, l’importante è l’evento creativo; ciò che rimane è invece solo un ricordo. Ma questo ricordo, come insegna la tradizione delle icone orientali, ha un valore quasi sacramentale. È un invito a ritornare a quell’esperienza originaria che ha creato l’opera. È un invito a fare esperienza di Dio. Urge allora ritrovare una via di senso per l’arte cristiana. Urge reinterpretarla a partire dal contesto di fede che l’ha generata. Urge guardarla come una «preghiera resa visibile». Per dirla con Gadamer, questa «fusione di orizzonti» (fusione fra l’orizzonte della comunità di fede committente e l’orizzonte del fruitore odierno) è la conditio sine qua non per un’autentica ermeneutica dell’arte cristiana. L’arte cristiana è quel tentativo di «gettare davanti agli occhi», di «ob-gettivare», un vissuto di fede che vuole aiutare altri vissuti di fede. È la messa in comune di un’esperienza di Dio che vuole essere condivisa. Questa oggettivazione del vissuto di fede non è allora solo annuncio, ma è vera e propria «teologia». E va letta come tale. L’analisi di un mosaico del IV secolo è un esercizio simile all’analisi di un testo patristico. L’arte della grande tradizione, come gli scritti teologici del primo millennio, ha il grande pregio di essere una teologia non fatta sulla cattedra universitaria ma nello svolgersi della liturgia. Essa obbedisce all’assioma «lex orandi, lex credendi». Perciò l’arte cristiana funziona sempre in relazione a una comunità viva, in preghiera. In particolare in una chiesa, le forme geometriche e l’iconografia sono inseparabili dalla funzione liturgica che esse inquadrano. La preghiera liturgica è allora la chiave di lettura privilegiata di
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Lo spazio sacro come kerygma e mistagogia
molte opere d’arte cristiana. Esse «abbracciano» l’assemblea e in qualche modo fanno parte della liturgia. Allora si può dire che l’arte cristiana è «mistagogia», cioè accompagnamento illuminante per chi partecipa alla liturgia. Si crea così una circolarità fra la liturgia dei viventi e l’opera d’arte. L’opera d’arte spiega il senso della liturgia ed è al tempo stesso compresa solo a partire dalla liturgia. Nell’analisi di un’opera d’arte si parla del tempo come della «quarta dimensione» dell’arte (oltre alle tre dimensioni dello spazio). È il «tempo della percezione». Un capolavoro rivela i suoi segreti dopo un certo tempo di osservazione. Nell’arte degli spazi sacri della cristianità, è la liturgia questa «quarta dimensione» dell’arte. Solo la comunità orante fruisce pienamente dell’opera d’arte. Ogni opera è un evento come lo è ogni abbraccio. E al di là degli «scompensi affettivi», della «meccanica dello scheletro», e del «concetto amore», essa è l’apertura a una relazione viva. Ecco il significato dell’opera d’arte cristiana: lo spazio per una relazione viva. O come dice Florenskij dell’icona: «È linea che contorna la visione».2 Il vero capolavoro cristiano è quello capace di immettere lo spettatore in questa visione. Il vero capolavoro cristiano è quello che introduce alla preghiera. Allora esporre il significato di un’opera d’arte cristiana sarà introdurre alla preghiera. Perciò la modalità stessa in cui si visita l’arte cristiana non è indifferente. Una visita guidata a una chiesa dove la guida stessa non sia un testimone o dove non ci sia un tempo di ascolto meditativo, tradisce l’essenza stessa dell’arte cristiana. Di particolare interesse è l’«arco voltaico» che nasce all’interno di una chiesa fra il turista «lontano dalla fede» e il capolavoro artistico. Questo incontro fra l’inespresso desiderio di Dio e la possibilità di una relazione viva con Dio diventa un nuovo campo teologico, a partire dal quale riformulare il kerygma e la mistagogia. Le precomprensioni dei turisti che si scontrano con le opere d’arte, le false immagini di Dio che urtano contro la lettura di fede delle forme artistiche, la capacità evocativa dell’arte come apertura ai molti modi di incontrare Dio… possono diventare il Sitz im Leben di una nuova teologia orante e kerygmatica al contempo. In seguito daremo alcune tracce per una teologia dell’arte cristiana che si proponga come nuova mistagogia.
2. La
mistagogia dello spazio sacro
Sacro/profano. In molte culture, la distinzione fra «sacro» e «profano» è una delle alternanze fondamentali nell’organizzazione dello spazio e
2
P. Florenskij, Le porte regali, Adelphi, Milano 2001, 53.
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del tempo. Pro-fano non significa altro che «davanti al tempio», cioè «fuori dal tempio». Nella Grecia antica l’area sacra è il temenos, da temnō (tagliare). Fra sacro e profano c’è un «taglio», una cesura che indica un’alterità. Il sacro è «altro», ma nella Bibbia il sacro è soprattutto «un Altro». Per Israele, varcare la soglia fisica del sacro significa prima di tutto varcare la soglia dell’interiorità, «entrare» (anche fisicamente) in quello «spazio del cuore» che è la relazione con Dio. Perciò diventa essenziale che chi entra in una chiesa possa incontrare «un altro» che gli parli dell’Altro. Il popolo della Bibbia sarà portato a superare la cesura fisica fra sacro e profano: nel Primo Testamento Israele e la creazione intera diventano tempio di Dio, nel Nuovo Testamento il tempio è il corpo di Cristo e il corpo di ogni battezzato, di ogni «altro». Creato prima del mondo. Il libro dell’Esodo parla di un «modello» celeste del tempio, mostrato a Mosè sul monte perché possa eseguirlo sulla terra.3 E Salomone prega Dio dicendo: «Mi hai detto di costruirti un tempio sul tuo santo monte, un altare nella città della tua dimora, un’imitazione della tenda santa che ti eri preparata fin da principio».4 Perciò in alcune tradizioni rabbiniche il tempio esiste «fin da principio», cioè «in principio», «come principio». E così anche la Torah, il Sabato e la Sapienza esistono come il tempio «prima della creazione del mondo». In altre parole: la Torah, il Sabato, la Sapienza e il Tempio sono la chiave di lettura più profonda della creazione, il suo «principio». Ancora nel VI secolo, Cosma Indicopleuste vede nella struttura binaria del tabernacolo di Mosè (tenda del convegno) il modello secondo cui il Creatore ha distinto il cielo e la terra. L’autore alessandrino scrive: «È secondo la figura del tabernacolo costruito nel deserto da Mosè che Dio fece l’insieme dell’universo in due spazi».5 Molti esegeti evidenziano come lo stesso racconto della crea zione (in Genesi 1) supponga una struttura architettonica che ricalca la costruzione del tempio. Oggi, il turista che entra in una chiesa entra alla ricerca di ciò che è originario, di ciò che sta «in principio». Nella Genesi, il primo racconto della creazione si conclude con il sabato, scopo ultimo di tutta l’attività creatrice di Dio.6 Nel sabato finalmente l’uomo e Dio possono stare «faccia a faccia» e «riposare» (restare) insieme. È il giorno «libero», memoria della libertà regalata da Dio dopo la schiavitù dell’Egitto. È nello spazio sacro che il turista può comprendere il senso stesso del suo «tempo libero». Tutta la creazione è un cammino in sette tappe verso questo tempo libero. Rivelazione della creazione. Nella sua struttura e nella sua decorazione, il tempio deve richiamare l’intera creazione, perché è il luogo dal quale si comprende l’intera creazione e che «comprende» l’intera creazione. Si va nel tempio per riscoprire che tutta la creazione è tempio, cioè luo-
Cf. Es 25,9.40. Sap 9,8. 5 Cosma Indicopleuste, Topografia cristiana: SC 159,28. 6 Gen 2,2ss. 3 4
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Lo spazio sacro come kerygma e mistagogia
go per incontrare Dio. Quando il salmista dice: «Quanto è grande il tuo Nome su tutta la terra»,7 sta descrivendo tutta la terra come quel luogo dove si può invocare il nome di Dio come lo si invoca nel tempio.8 Quando Ezechiele vede il cielo aperto e «il carro del Signore»,9 si apre su di lui una struttura spaziale ben precisa: la semisfera celeste che si posa sul cubo terrestre. È la Merkabah, che richiama il tempio a pianta centrale e che coincide con la creazione intera. Perciò già nel I secolo della nostra era Filone di Alessandria poteva scrivere: «La ragion d’essere di ognuno degli oggetti del tempio è di imitare e di raffigurare il cosmo».10 Lo stesso filosofo ebraico ribadisce: «Il tempio supremo e vero di Dio è, dobbiamo ritenerlo, il cosmo nel suo insieme».11 Analogamente, l’architettura cristiana concepirà la chiesa come immagine della creazione. Nel VII secolo, leggiamo nella dedicazione della cattedrale di Edessa: «Il tempio nella sua piccolezza è simile al vasto mondo, non per le dimensioni ma per il tipo».12 Anche per Massimo il Confessore, il rito dell’incensazione sta a significare che l’edificio ecclesiale è «forma e immagine dell’intero mondo».13 Secondo la spiritualità biblica, il peccato aveva fatto dimenticare all’uomo che tutta la creazione era parola di Dio per lui, che tutta la crea zione era incontro con lui. Nel peccato, cioè nel non vivere le cose come relazione con Dio, la creazione diventa opaca. Chi non ringrazia Dio per le cose, perde il senso delle cose. Allora Dio inventa una nuova creazione, un nuovo giardino, verso il quale conduce l’uomo: è la terra promessa. Il tempio ne è il simbolo essenziale. Perciò il tempio nella tradizione ebraico-cristiana è caratterizzato dalla simbologia del giardino ed è spesso decorato con i frutti della terra promessa. Il «giardino» è una delle immagini che attraversa tutta la Scrittura e che indica un luogo dove poter stare nudi l’uno di fronte all’altro. Descrivere una chiesa come un «giardino» è descrivere la preghiera come quel «luogo» dove posso essere «nudo» davanti a Dio, quel luogo dove posso finalmente essere me stesso, senza maschere, senza paura di essere giudicato. San Francesco d’Assisi e sant’Ignazio di Loyola diranno che la preghiera è un parlare col Signore «come un amico parla con l’amico». Capolavoro dell’Artista. Il tempio è il luogo della Sapienza, cioè dell’arte di vivere. E perciò il tempio è «l’opera d’arte» per eccellenza, simbolo dell’uomo stesso che è il capolavoro di Dio. Allora il tempio è quel luogo dove l’uomo si reca non solo per capire la creazione ma anche per capire se stesso. Per «compiere se stesso» e così «compiere la creazione».
Sal 8,2. Cf. anche Sal 29 e 104. 9 Ez 1,1-28. 10 Filone Alessandrino, Antiquitates Judaicae III,7,7. 11 Filone Alessandrino, De Monarchia II,2. 12 Sogitha 4. 13 Massimo il Confessore, Mistagogia 2. 7 8
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La genialità dell’Artista divino consiste nell’aver voluto concludere la sua opera collaborando con essa. Il compimento della creazione passa attraverso l’uomo stesso, creato «a immagine e somiglianza di Dio».14 Creatura a immagine del Creatore. Cioè creatura capace di creare. Già il giardino non è semplice natura bensì anche prodotto della cura umana. «Frutto della terra e del lavoro dell’uomo», come il pane che diventa corpo di Cristo. Il giardino è già l’emblema della collaborazione fra Dio e uomo per portare la creazione al suo massimo splendore. Analogamente lo è il tempio come opera d’arte. Il trasformare i materiali con sapienza per costruire il tempio diventa allora la metafora del «maneggiare» la vita con sapienza per farne un’opera d’arte. Perciò, nella Bibbia, la prima opera d’arte è il tempio. Secondo il libro dell’Esodo, è per la costruzione del tempio che Dio concede agli artisti «saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli in oro, argento e rame, per intagliare le pietre e incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro».15 Il tempio spiega allora cos’è l’arte: l’immagine di come l’uomo «maneggia la vita». Storia di liberazione. Il primo utilizzo che Israele fa delle capacità ricevute per la costruzione del tempio è la costruzione del vitello d’oro (cf. Es 32). Un idolo. Un «dio» che non prende l’iniziativa ma che posso manipolare («maneggiare») come voglio. Con l’arte regalata da Dio per maneggiare le cose, l’uomo pretende di maneggiare Dio. Cioè riduce Dio a una cosa. Questa è la rottura della relazione personale, la rottura dell’alleanza. Mosè deve allora risalire sul monte per ricevere le nuove tavole della Legge. È dopo la sua seconda discesa che Mosè ordina la costruzione del santuario. Il tempio è dunque già nella sua origine il segno dell’alleanza rinnovata. Il perenne ricordo del Sinai. Come a dire che l’alleanza non esiste se non già da sempre rinnovata. Già da sempre capace di inglobare l’idolatria. Perciò il tempio ebraico e poi cristiano è caratterizzato dalla simbologia del «monte dell’alleanza». «Salire» al tempio è salire sul Sinai. Nelle chiese cristiane, sarà in particolare l’altare (spesso sopraelevato) il «monte» sul quale l’alleanza è rinnovata. Il luogo di incontro con un Dio sempre pronto a rinnovare l’alleanza infranta. La vocazione stessa di Mosè (l’episodio del roveto ardente) è situata sull’Oreb (altro nome per il Sinai). E si conclude con le parole di Dio a Mosè: «Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte».16 Le parole «servire Dio» sono un’espressione tecnica che richiama il culto al tempio di Gerusalemme. Il Sinai è già visto qua come la vera identità del tempio. Stare nel tempio («servire Dio») è stare sul Sinai. Il tempio è allora quel «se-
Cf. Gen 1,26. Es 31,3-5. 16 Es 3,12. 14 15
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gno» mandato da Dio per ricordare l’uscita dall’Egitto e sostare sul monte santo. O meglio: per ricordare l’uscita dall’Egitto e dunque stare sul monte santo. Si potrebbe dire: il tempio è il «sacramento» del Sinai. Non a caso, Mosè ascolta queste parole dopo che si è «velato il viso».17 Questo velo sulla faccia impedisce di guardare Dio (sarebbe una bestemmia), ma permette di ascoltarlo. Ed è il primo modello materiale della «tenda». Prostrandosi a terra e ricoprendo la sua testa con il velo da beduino, Mosè «costruisce» la prima «tenda del convegno», prefigurazione del tempio. Luogo per imparare a passare dalla smania del vedere alla capacità di ascoltare. Questa «montagna sacra» è il «luogo dove il cielo tocca la terra». Il tempio è allora questo punto di contatto fra cielo e terra. Questa «scala di Giacobbe» dove salgono e scendono gli angeli.18 È il luogo dove si apre il cielo. La pietra che Giacobbe erige a base di questa scala del cielo è una delle prefigurazioni più suggestive di ogni chiesa. È una pietra scelta che Giacobbe unge (consacra) perché diventi «memoria» e «casa di Dio». «Questa pietra che io ho eretta come stele, sarà una casa di Dio».19 Scrive Florenskij: «La Chiesa è la scala di Giacobbe, e dal visibile essa eleva all’invisibile; ma tutto il santuario è il luogo dell’invisibile, il terreno separato dal mondo, lo spazio non di questo mondo. Tutto il santuario è cielo».20 L’aprirsi del cielo coinciderà nella storia d’Israele con il continuo rinnovarsi dell’alleanza di cui il tempio è memoria. L’aprirsi del cielo per Giacobbe e i suoi figli è l’alternanza infinita fra tradimento e perdono. Perciò il tempio è annunciato nella storia ebraica già all’inizio del suo pellegrinare. Appena attraversato il Mar Rosso, Israele prorompe in un canto di vittoria che conclude con queste parole: «Lo [il tuo popolo] fai entrare e lo pianti sul monte della tua eredità, luogo che per tua sede, Signore, hai preparato, santuario che le tue mani, Signore, hanno fondato».21 Il tempio è allora non solo lo scopo della creazione ma anche lo scopo della storia. La chiave di interpretazione ultima del pellegrinare umano. Si entra nel tempio per capire la propria storia, cioè ricordare che il Signore è stato fedele e rimarrà sempre fedele all’alleanza. Nell’architettura cristiana, la pianta longitudinale della chiesa esprime questo cammino del credente, questo «passare» umano che si unisce col «passare» divino. La tradizionale bipartizione fra navata e presbiterio (o «santuario») è sottolineata già nei primi secoli da cancelli che la tradizione orientale arricchirà. Questa cesura esprime ulteriormente l’importanza del «passaggio». L’intero edificio è un «pellegrinaggio verso il futuro».
Es 3,6. Cf. Gen 28. 19 Gen 28,22. 20 Florenskij, Le porte regali, 76. 21 Es 15,17. 17 18
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Vuoto dove Dio parla. Sul Sinai, si passa dall’idolo al tempio, dal «voler vedere» all’ascoltare. Ma la differenza non è solo formale. L’idolo è di oro massiccio. È «pieno». Egli cerca di attirare gli sguardi su di sé. Il tempio è invece una struttura fondamentalmente «vuota». Un luogo dove posso solo ascoltare ciò che è «oltre». Un luogo che rimanda ad «Altro» da sé. Perché «pieno» è solo Dio. Nel Santo dei santi del tempio di Gerusalemme non c’è niente di simile alla statua monumentale di un divo Augusto né alla statua criselefantina di Athena, ma c’è un vuoto. Uno spazio vuoto fra due cherubini situati ai lati dell’ilastērion che funge da coperchio dell’arca dell’alleanza.22 Davanti a quel vuoto, una volta l’anno, il sommo sacerdote può pronunciare il nome di Dio, altrimenti impronunciabile. Il Nome che «brucia le labbra come il bacio di un serafino» perché rende Dio presente. E quel vuoto diventa allora il luogo dell’ascolto per eccellenza. Il luogo da dove Dio risponde, dove egli si rivela. Con una Parola che è un invio. «Io ti darò convegno in quel luogo: parlerò con te da sopra il propiziatorio, in mezzo ai due cherubini che saranno sull’arca della Testimonianza, ti darò i miei ordini riguardo agli Israeliti».23 Il vuoto del tempio è una vera e propria «pro-vocazione», una chiamata in avanti, una missio. La rivelazione del Dio biblico ha la fragilità di una parola: non appena pronunciata essa scompare già nel silenzio. Un Dio che passa. Inafferrabile, ignorabile. Ma la rivelazione come Parola ha una forza che la rende unica: chi parla è vivo. È incontrollabile. Chi parla ha già preso l’iniziativa. Il Dio di Israele è «il Dio vivente». E una sola sua parola può cambiare la vita. La sua parola è sempre vocazione. Una vocazione che nasce dal vuoto. Gli autori del Nuovo Testamento si confrontano con la possente tradizione ebraica del tempio e la assumono come categoria importante per dire la buona notizia. Dopo il 70, la distruzione materiale del tempio di Gerusalemme ad opera dell’esercito romano di Tito sarà interpretata nella tradizione cristiana come il passaggio definitivo alla nuova comprensione del tempio. Il corpo di Cristo come tempio. Nel Nuovo Testamento, le caratteristiche del tempio di Gerusalemme vengono attribuite al corpo di Cristo. Egli è il compimento e la chiave di interpretazione di tutta la creazione. Giovanni scrive: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste».24 Per i padri della Chiesa, mentre Dio creava il mondo, egli aveva davanti agli occhi la croce del Figlio. In altre parole: lo stesso amore con cui Dio crea, lo porterà a dare la vita sulla croce. Tutta la creazione «tende» verso Cristo, come «tende» a diventare tempio del Padre. Sant’Ireneo spiegherà che durante la messa, sull’alta-
Cf. Es 25,17ss. Es 25,22. 24 Gv 1,3. 22 23
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re, portiamo con il pane e il vino la creazione intera affinché attraverso la porta dell’eucaristia diventi tutta corpo di Cristo. Perciò nel Nuovo Testamento, quando Cristo muore, la creazione si oscura. E la terra trema quando risorge, come erano tremati gli stipiti del tempio quando Dio apparve al profeta Isaia (Is 6). Cristo è anche il capolavoro per eccellenza. Egli è la Sapienza incarnata, il Maestro. È «il più bello tra i figli di Adamo» (Sal 45). Egli è il massimo della creatività divina perché non staccata dalla creatività umana. Leggendo i vangeli, si ha spesso l’impressione che Gesù, come il tempio, venga «plasmato», modificato e anche «sfigurato» dagli uomini. «Maneggiato». L’Ecce homo è ciò che l’uomo ha fatto dell’uomo. Ma la sua risurrezione sarà la massima manifestazione dell’abilità (hokma) divina. Già nella prima pasqua del Vangelo di Giovanni, Gesù lancia ai giudei: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».25 E Giovanni aggiunge: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo». Come il tempio, il corpo di Cristo è anche la memoria viva di una storia. Un memoriale che rende Dio presente. Una storia di liberazione e di perdono. Egli prende su di sé il peccato, le divisioni, per offrire l’unità, la riconciliazione. La Lettera agli Efesini descrive il Cristo come colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne […] per mezzo della croce […] l’inimicizia.26
E come il Santo dei santi, il corpo di Cristo è la storia di un vuoto che rivela. È la storia di colui che «svuotò se stesso»,27 «come un profumo versato»28 che proprio perché svuotato rivela la sua fragranza e riempie tutto lo spazio.29 La vita di Gesù è allora quello spazio dove risuona una volta per sempre il nome di Dio e dove il Padre pronuncia il suo invio. Il Cristo è l’Inviato per eccellenza. Il sommo Sacerdote, davanti al vuoto parlante del propiziatorio. Leggiamo nella Lettera agli Ebrei: Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna.30
Sommo sacerdote e tempio diventano uno nella storia di Gesù. Colpisce ancora nel Nuovo Testamento che la vera identità di Cristo sia messa in discussione soprattutto nei dibattiti che hanno luogo nel
Gv 2,19. Ef 2,14-16. 27 Fil 2,7. 28 Ct 1,2. 29 Cf. Gv 12,3. 30 Eb 9,11. 25 26
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tempio. La domanda centrale è dunque di sapere se Gesù è veramente il Tempio. Per rispondere positivamente, Giovanni riprenderà una visione del tempio di Ezechiele e scriverà: «Ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua».31 Per Ezechiele quell’acqua che esce dal lato destro del Tempio purificherà tutta la terra.32 E Germano di Costantinopoli (VI sec.) scrive: «La Chiesa è il cielo sulla terra, in cui il Dio che è al di sopra dei cieli dimora e passeggia. Essa è l’antitipo della crocifissione, della sepoltura e della risurrezione di Cristo». Ma se entrare in una chiesa significa ritrovarsi «nel corpo di Cristo», allora il corpo di Cristo (e dunque il tempio) è formato da chi «entra nella Chiesa», cioè da chi fa parte della comunità cristiana. La comunità come tempio. San Paolo descrive la varietà dei carismi dentro la comunità cristiana come la varietà delle membra di un corpo. E conclude: «Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte».33 Sulla via verso Damasco, allorché perseguitava i cristiani, Saulo si era sentito chiedere da Cristo: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». E alla domanda: «Chi sei, o Signore?» la risposta era stata: «Io sono Gesù, che tu perseguiti».34 La comunità cristiana, quella che Saulo perseguitava, è dunque il corpo del Cristo vivente. Si potrebbe dire: ciò che rimane della comunità cristiana non è altro che il corpo di Cristo. Un corpo che il Nuovo Testamento descrive ancora in corso di «edificazione».35 Quasi che la risurrezione sia un processo ancora non concluso e che passa attraverso la «costruzione» del «nuovo tempio» che è la comunità cristiana. Non le mura ma l’ekklesia, l’assemblea dei chiamati (da ek-kaleo, «chiamare da»), è per il Nuovo Testamento il «luogo» di Dio, lo «spazio sacro». Leggiamo nella Lettera agli Efesini: «In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito».36 E la Prima lettera di Pietro dichiara: Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo.37
San Paolo aveva già chiamato Cristo «pietra», paragonandolo alla roccia che Mosè colpisce nel deserto per farne scaturire l’acqua.38 Ma nel
Gv 19,34. Cf. Ez 47. 33 1Cor 12,27; cf. anche Rm 12,4-5. 34 At 9,4-5. 35 Cf. Ef 4,12. 36 Ef 2,21-22. 37 1Pt 2,4ss. 38 1Cor 10,4. 31 32
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designare ogni discepolo di Gesù come «pietra viva» del tempio, l’autore della Prima lettera di Pietro rielabora la metafora con un ossimoro. La pietra è ciò che nella natura appare meno dotato di movimento, di fertilità, di vita. La pietra è sempre «morta». Il contrasto fra il sostantivo «pietra» e l’aggettivo «viva» crea allora un effetto sorprendente che richiama la risurrezione. Ciò che era morto è vivo. Ma questa espressione gioca anche con un sostrato aramaico o ebraico. In ebraico, la radice «pietra» (aben) si pronuncia quasi come la radice «figlio» (b’n). Questa assonanza è già conosciuta nell’Antico Testamento e nella tradizione rabbinica. Per esempio Isaia dice a Gerusalemme: «Tutta la tua cinta sarà di pietre preziose, tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore».39 I figli sono le vere pietre della «casa paterna», cioè del «casato». Allora le pietre vive del nuovo tempio che è il corpo di Cristo sono i figli. Coloro che con il Figlio (rigettato dagli uomini ma divenuto pietra d’angolo) si sono riscoperti figli infinitamente amati dal Padre. E perciò formano la «dimora» della sua presenza. All’inizio del II secolo, sant’Ignazio di Antiochia svilupperà la metafora architettonica e scriverà ai cristiani di Efeso: «Voi siete pietre del tempio del Padre preparate per la costruzione di Dio Padre, elevate con l’argano di Gesù Cristo che è la croce, usando come corda lo Spirito Santo».40 Poco prima, l’Apocalisse di Giovanni aveva già compiuto un passo in più facendo coincidere il nuovo tempio delle pietre vive con l’intera città nuova, la Gerusalemme celeste (cf. Ap 21). L’amore rende sacro il profano e annulla la distinzione tra tempio e città. L’intera città degli uomini diventa allora dimora di Dio. Perciò il veggente dell’Apocalisse non vede più nessun tempio nella nuova Gerusalemme. Ma le sue mura sono fatte «di ogni sorta di pietre preziose». Questa volta tutte le pietre sono preziose, come Cristo. Tutti i figli sono scelti, «cristificati», nell’unico Figlio. Intimamente uniti, mantengono il proprio colore, la propria identità. La loro diversità esalta la bellezza della città nuova. Sorprendentemente nuova. La descrizione della Gerusalemme celeste nell’Apocalisse è forse la pagina biblica che ha maggiormente ispirato la storia dell’arte cristiana, dai mosaicisti dei primi secoli alla Sagrada Familia di Gaudì. E ciò perché dall’editto di Milano (313) in poi, ogni chiesa costruita è una preghiera in pietra per l’intera città degli uomini. Il corpo di ogni uomo come tempio. Le pietre preziose della Gerusalemme celeste formano un altro «ossimoro naturale». La gemma o la pietra preziosa affascina da sempre l’uomo perché appare come una sintesi di pietra e di luce. Vale a dire, mette insieme l’elemento più pesante, più «terrestre», che è la pietra, con l’elemento più «etereo», più «celeste», che è la luce. La pietra preziosa funge così da «metafora naturale» dell’unione fra cielo e terra. Ogni pietra preziosa è un «contenitore di luce»; ogni uomo, ogni «figlio», è capax Dei, capace di contenere la luce divina.
39 40
Is 54,12-13. Ignazio di Antiochia, Agli Efesini 9,1.
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Ecco allora perché san Paolo può scrivere: «Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente».41 A rendere la pietra luminosa è lo Spirito di Dio regalato ai figli: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? […] Perché santo è il tempio di Dio che siete voi».42 All’inizio del II secolo, Ignazio di Antiochia scriverà: «Facciamo dunque ogni cosa nella consapevolezza che egli abita in noi, perché possiamo essere suo tempio e perché egli in noi sia il nostro Dio».43 Ma san Paolo aveva spinto ulteriormente la metafora per sottolineare la dignità del corpo umano. L’apostolo scrive: «O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? […] Glorificate dunque Dio nel vostro corpo».44 La santità del corpo, l’inviolabilità del singolo, il fatto che non appartenga se non a Dio, diventa la base di ciò che nel pensiero cristiano sarà la dignità di ogni singola vita. Ma parlare del corpo come tempio richiama altre due dimensioni. Il corpo è prima di tutto l’espressione della finitezza dell’uomo. Il suo «con-fine», il suo limite naturale. Il «perimetro» secondo cui è «disegnato». Lo spazio non che egli «occupa» ma che egli «è»; e che lo rende unico. Allora dire che il corpo è tempio di Dio è riconoscere il proprio «confine» come pienamente voluto da Dio. Essere una creatura limitata non è allora una menomazione ma è un essere scelto e desiderato da Dio. Perché scegliere vuol dire limitare. E Dio crea scegliendo. Perciò il limite è il ricordo concreto della scelta fatta dal Creatore. Il corpo dell’uomo è il ricordo concreto di un Dio che lo ha scelto. Essere «tempio di Dio» vuol dire non essere Dio e al tempo stesso essere scelto da lui come abitazione prediletta. Quando l’uomo vince la tentazione di «essere Dio» e si scopre «scelto da Dio», allora è pieno di luce, «prezioso». L’altra dimensione richiamata dal corpo è quella della temporalità. Il corpo è la sedimentazione della storia personale di ciascuno. La sua memoria viva e visibile. Allora chiamare il corpo «tempio di Dio» significa riconoscere la storia di ogni singolo come luogo della piena presenza di Dio. Non solo la storia di Israele o del popolo di Dio è rivelazione di Dio ma anche il tempo vissuto da ogni singolo. È nel tempo che la verità si rivela. Possiamo dire che, nella Bibbia, il tempo è tempio. Il tempo «dice» Dio. Chi visita una chiesa sarà allora aiutato a capirne il significato, nella misura in cui sarà aiutato a ricordare la propria storia. La storia del visitante in dialogo con lo spazio sacro diventa allora un luogo di rivelazione. Oltre all’analisi dello spazio sacro in quanto tale, è importante fermarsi su alcune strutture ricorrenti che articolano la sua geometria e che sono esse stesse sostegno al kerygma e alla mistagogia.
2Cor 6,16. 1Cor 3,16ss. 43 Ignazio di Antiochia, Agli Efesini 16. 44 1Cor 6,19ss. 41 42
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3. La
geometria mistagogica
La basilica. Nell’antichità pagana la basilica è un edificio civile, per lo più affacciato sul foro. Esso permette in caso di pioggia il proseguimento delle attività politiche e commerciali che si svolgono sulla piazza pubblica. Dopo il 313 i cristiani assumono questo modello per i loro luoghi di culto, prima di tutto per non riprendere il modello del tempio pagano, cioè per distanziarsi dalla religiosità circostante. La basilica è un modello alquanto «laico». È semplicemente la riproduzione coperta della «piazza». Per i primi secoli cristiani, scegliere di celebrare «in basilica» è come voler «celebrare in piazza». L’incontro con il Dio incarnato avviene lì dove si parla di politica e dove si sbrigano gli affari. Eppure il nome «basilica» proviene in realtà dalla parola basileus che in greco significa «re», o «re-giudice». Prima di essere la «piazza coperta», la basilica è il palazzo di giustizia, la sede del «re-giudice»: un semplice rettangolo che trova il suo orientamento solo grazie all’aggiunta di un’abside, sede di chi presiede il processo. Ancora in pieno Cinquecento il Palladio potrà ricordare come nelle basiliche degli antichi cristiani «si poneva con molta dignità l’altare nel luogo del tribunale».45 Ma chi è questo «re-giudice»? Per i primi cristiani è Cristo stesso. Entrare nella basilica cristiana, entrare nella liturgia che si svolge in essa, è entrare in un processo, è un essere ammesso al «giudizio finale». L’eucaristia è in effetti anticipazione della fine. Ma la caratteristica di questo processo è che il condannato è il giudice stesso. Nei vangeli, i racconti della passione mettono in evidenza questa sconvolgente ambiguità del condannato Gesù. Egli è il re-giudice, innalzato sul suo trono che è la croce. Nell’essere condannato dagli uomini compie l’unico definitivo e divino giudizio (da ius-dicere): «dice-giusto» ogni uomo. Un dire che per Dio è sinonimo di fare. Allora è un giudizio che «fa-giusto» ogni uomo. È la giustificazione, la salvezza. L’eucaristia è un essere ammesso alla presenza del giudice crocifisso e lasciarsi «giu-dicare» (chiamare «giusto») e «giustificare» (rendere «giusto») da lui. Cioè entrare finalmente nella «giusta» relazione con Dio, nella salvezza. E in questo senso la messa è il giudizio più profondo, il giudizio «finale». Quel giudizio che porta l’uomo al suo compimento, alla sua pienezza, al suo «fine». Il processo storico di Gesù raccontato nei vangeli si prolunga nel cuore di ogni uomo. Come in ogni processo, si ascolta l’accusa e la difesa. L’accusatore, il «Satan», non accusa solo l’uomo ma prima di tutto Gesù. L’accusatore cerca di convincere l’uomo che Gesù non è il Cristo, non è il Salvatore. Che il suo nome («Dio salva») è un’impostura; cioè che non è vero che «Dio salva». L’accusatore cerca di far perdere all’uomo ogni
Andrea Palladio, I quattro libri dell’architettura, IV,1.
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speranza di essere salvato. Accusare in greco si dice «diaballo» (da cui «diavolo»), che significa anche dividere. L’accusatore divide l’uomo da Dio e l’uomo dall’uomo. L’altra voce nel processo di ogni cuore è l’avvocato difensore, in greco «Paraclito». È il nome dello Spirito Santo nel Nuovo Testamento. Solo «nello Spirito» possiamo dire «Gesù è il Cristo», Gesù è il Salvatore. Solo lo Spirito permette di vedere in un crocifisso il giudice che salva. Lo Spirito ridona la speranza perché permette di vedere «Dio-salva» nel fondo della morte, sulla croce. «Paraclito» significa anche «consolatore», colui che sta con chi è «solo», colui che rinnova la relazione. La liturgia eucaristica è il culmine di questo processo perché è un trovarsi davanti al crocifisso. Solo davanti a lui possiamo distinguere l’accusatore dal consolatore. Solo la croce dice chi è la «voce giusta», «dice il giusto». La croce è l’unico giudizio. La pianta a croce. Lungo il medioevo la pianta basilicale viene arricchita da un transetto. Appare la pianta a croce. La liturgia eucaristica è in effetti un essere presente davanti al crocifisso per diventare corpo stesso del crocifisso. Le lettere paoline concordano in questo punto con ciò che la liturgia eucaristica dei primi secoli sottolinea: la trasformazione del pane e vino in corpo e sangue di Cristo non è fine a se stessa ma è finalizzata alla trasformazione dell’intera comunità in corpo vivo di Cristo. Il compimento della messa non è un rimanere «davanti» a quel «pane», ma è un diventare quel «pane». «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10,17). Sant’Agostino ricorderà che le parole pronunciate dal ministrante mentre distribuisce la comunione («corpo di Cristo!») non sono solo riferite al pezzo di pane ma anche a colui che lo riceve. Nella liturgia eucaristica «diventiamo ciò che mangiamo» (Agostino). Il disegnare una chiesa con la forma della croce significa allora esattamente questo: descrivere la comunità orante come membra del corpo di Cristo. E descrivere la preghiera dell’assemblea come partecipazione all’unica preghiera vera e propria: quella di Cristo sulla croce. Non a caso per secoli il gesto liturgico più rappresentato dalle catacombe in poi è quello dell’orante, con le braccia alzate. Esso riproduce il gesto dell’uomo della croce. Ma la preghiera della croce è prima di tutto una preghiera fatta da Dio all’uomo. In effetti il Dio della Bibbia «prega» l’uomo prima che l’uomo preghi Dio. San Paolo riprende l’espressione di Isaia che descrive un Dio supplicante davanti alla durezza del suo popolo, un Dio con le mani alzate: «Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo disobbediente e ribelle».46 Ogni preghiera è allora una partecipazione alla pasqua del Signore, un’esperienza di «passaggio» e di «passione».
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Rm 10,21; cf. Is 65,2.
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I padri vedono numerosi precedenti al gesto delle mani alzate che ha ispirato la pianta a croce. Tertulliano ricorda come i pagani stessi pregano con gli avambracci in verticale e così «senza saperlo annunciavano già la passione di Cristo». In effetti il tempio greco è stato interpretato come una «foresta di avambracci» innalzati in preghiera. Ma è soprattutto l’Antico Testamento che la tradizione cristiana scruta per ritrovare questo gesto. L’episodio più noto è quello della vittoria di Israele su Amalek (Es 17), resa possibile dalla costante preghiera di Mosè, efficace solo se manteneva le mani alzate. La più antica rappresentazione della crocifissione – un bassorilievo del V secolo sulla porta di Santa Sabina a Roma – rappresenta Gesù in mezzo ai ladroni sul Calvario, dove il gesto delle tre figure coincide in modo sorprendente con quello dell’orante. Inoltre un interessante affresco del IV secolo che si trova nelle catacombe di San Gennaro a Napoli mostra tre personaggi di una famiglia defunta che forma nel suo insieme il gesto dell’orante, come fosse un solo corpo orante. Questo affresco ci permette di capire la simbologia che sottende la pianta a croce. È l’insieme della comunità che forma un solo corpo orante. D’altra parte il gesto dell’orante richiama anche l’esultanza della risurrezione. È il gesto della danza, come verrà esplicitato molto più tardi in alcune crocifissioni orientali di cui ancora il Cimabue si fa eco. La pianta a croce ricorda all’assemblea liturgica che essa diventa il corpo risorto del Crocifisso. Le tappe di un pellegrinaggio. Importante nella simbologia del tempio cristiano è il numero di campate che scandiscono la lunghezza dello spazio sacro. Il tempio cristiano è concepito come un percorso, un «pellegrinaggio» che va dalla facciata all’abside, dall’Occidente all’Oriente. Nella grande tradizione, l’abside è orientata a est (appunto «oriente»), luogo dove sorge il sole, simbolo primordiale di Dio. La figura del «Cristo-sole» appare fin dai primi secoli cristiani. Ed è anche da est che il Messia doveva entrare a Gerusalemme e nel tempio, secondo la tradizione biblica. Chi entra nella chiesa compie allora un percorso dall’oscurità (l’Occidente è dove «muore il sole») alla luce. Ma scopre che il suo camminare verso Oriente coincide con un cammino in senso inverso (dall’Oriente) già compiuto dal Messia che entra (idealmente dall’abside). Come dice l’Apocalisse, Cristo è «colui che viene». E camminare nella fede è vivere questa sua venuta. L’uomo crede di camminare per primo verso Dio, ma quando si mette in cammino scopre che Dio ha già camminato per primo incontro a lui. La coincidenza di questi due cammini incrociati è già presente nella teologia della chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Nei mosaici di questa chiesa ravennate la processione dei santi (registro inferiore) va dalla controfacciata all’abside e coincide con la storia di Gesù (registro superiore) raccontata in pannelli disposti in una sequenza che va dall’abside alla controfacciata.
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Le forme geometriche primordiali. Si tratta in particolare del quadrato e del cerchio, e della loro «impossibile sintesi», l’ottagono. Leon Battista Alberti iniziava nel 1450 il suo trattato De re aedificatoria con un’analisi del quadrato e del cerchio come elementi basilari della grammatica dell’architettura sacra. Nella tradizione antica e medievale, il quadrato e il rettangolo simboleggiano la terra. Il «mondo» come distinto dal «cielo». Quattro sono i punti cardinali, gli «angoli della terra», gli elementi del mondo nella cosmologia greca. Si parla dei «quattro venti», delle «quattro colonne» che sorreggono la terra. Quattro sono anche le stagioni e altri ritmi della natura. Il cerchio invece è simbolo del divino. Esso suggerisce spontaneamente la pienezza. Non ha né inizio né fine. È la forma del sole, del movimento delle stelle intorno alla stella polare. Il semicerchio, o meglio, la volta, è poi la forma che l’uomo arcaico attribuisce al cielo. Un cerchio che si iscrive nel quadrato suggerisce l’idea del divino che entra nell’umano. Unendo gli angoli di questo quadrato, e i punti di tangenza fra il cerchio e il quadrato circoscritto, otteniamo una ruota a otto raggi che ci permette di costruire un ottagono. L’ottagono è così la forma di «unione fra cielo e terra». L’ottagono e la stella a otto rami sono già nell’antichità pagana un simbolo del culto solare. Ma per i primi cristiani, l’otto sarà la cifra della risurrezione. E questo perché nel calendario ebraico il settimo giorno è il sabato e il Cristo risorge «il giorno dopo il sabato». Questo primo giorno della settimana ebraica (la domenica) non lo si chiama più «primo» ma «ottavo», per significare che con la risurrezione siamo in una nuova temporalità. Non ritorniamo più nell’eterno ripetersi della settimana ebraica, ma siamo «nell’ultimo giorno», che non avrà mai fine. Giorno radicalmente nuovo. L’ottagono è allora quell’unione fra cielo e terra avvenuta nella risurrezione. Quella «quadratura del cerchio», cioè quell’«impossibile novità» che solo Dio può compiere. Nell’arte cristiana, rappresentare l’ottagono è allora annunciare che nella vita dell’uomo è possibile una novità radicale come la risurrezione. Perciò otto sono spesso le campate della chiesa, ottagonali sono i battisteri paleocristiani, ma anche alcune chiese dei primi secoli come San Vitale a Ravenna. Più tardi, ottagonale è anche la sezione di molti pilastri gotici, il tamburo di molte cupole rinascimentali e barocche. Il cielo aperto. Una costante dell’architettura cristiana attraverso le diverse epoche è la rappresentazione dell’unione fra cielo e terra. Nell’Antico Testamento, il tempio è il luogo per eccellenza dove si assiste all’«apertura del cielo». Così, per esempio, in Isaia 6, la visione del cielo aperto nel tempio non è una semplice visione ma è anche un’audizione. Una coincidenza fra il vedere e l’ascoltare, fra la contemplazione e la vocazione. Ancora nell’Antico Testamento, Giacobbe, nella sua fuga disperata per allontanarsi da suo fratello, aveva sperimentato la fedeltà di Dio sotto la forma di un sogno: «Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo: ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di
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essa».47 Per i padri della Chiesa, questa scala di Giacobbe è la prefigurazione della liturgia eucaristica, dove gli angeli «portano il cielo sulla terra e la terra in cielo». Nel Nuovo Testamento «l’apertura del cielo» è descritta esplicitamente nell’episodio del battesimo di Cristo e meno esplicitamente in tanti altri episodi. Ma «il cielo aperto» che segnerà forse di più la tradizione spirituale e iconografica è quello contemplato nel racconto della lapidazione di Stefano. Il primo martire cristiano fissa gli occhi al cielo ed esclama: «Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla sua destra».48 «Martire» significa in greco «testimone», prima di tutto nel senso di «testimone oculare». E nella Scrittura il martire non è in prima battuta colui che muore di morte violenta ma colui che «vede Dio», o che vede «il compimento della storia», la venuta del Figlio dell’uomo. Un compimento che irrompe già oggi. Per l’autore sacro, Stefano è allora il modello di ogni cristiano che fissa gli occhi sulla venuta del Figlio. Questa contemplazione dona al «testimone oculare», al «martire», un «volto raggiante»49 e la libertà di donare la vita. Rappresentare il cielo aperto all’interno di un edificio ecclesiale è allora un modo per mettere il credente nella situazione di Stefano. La liturgia, la preghiera della comunità, è un fissare gli occhi sul Figlio, e un diventare «martire» della sua venuta. L’apertura del cielo è in realtà un tema iconografico e architettonico comune a molte altre civiltà. A Roma abbiamo l’esempio del Pantheon, il cui oculus centrale è un’interpretazione concreta di questa «porta del cielo». Esso corrisponde all’archetipo della grotta sotterranea la cui uscita è in alto. Questa grotta primitiva è in molte tradizioni religiose un luogo «iniziatico», un luogo di nuova nascita. Esso richiama in effetti il grembo materno, la cui uscita verso la luce si situa «in alto» (rispetto alla testa del nascituro). Il «rientrare in se stessi», l’esperienza dell’interiorità, è da sempre orientato verso un «rinascere dall’alto», come Gesù dirà a Nicodemo.50 Non a caso, grandi mistici come Benedetto, Francesco d’Assisi o Ignazio di Loyola scelgono in qualche periodo della loro vita una grotta come luogo di intimità con Dio e di rinascita. I primi battisteri paleocristiani riproducono questo schema. Essi sono, come dice Agostino, vulva et mater da dove rinasce il neofita. Perciò nella calotta della loro cupola è rappresentato spesso il cielo stellato. Esso riproduce anche l’apertura del cielo della scena del battesimo di Cristo, rivissuta dal neofita. Lo stesso cielo aperto è presente nel catino dell’abside di Sant’Apollinare in Classe, presso Ravenna. Esso sta a interpretare ciò che avviene durante la liturgia eucaristica: il cielo tocca la terra e la trasforma in giardino. Ma il cielo aperto di Ravenna contiene nel suo centro una croce gemmata, cioè una croce vittoriosa. Vale a dire: la croce del
Gen 28,12. At 7,55. 49 Cf. At 6,15. 50 Cf. Gv 3. 47 48
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Risorto è l’apertura del cielo. O, in altre parole: la morte e la risurrezione di Cristo aboliscono ogni separazione fra cielo e terra. Lungo tutto il medioevo, la volta della navata e l’abside sono i luoghi privilegiati della rappresentazione del cielo. La stessa volta gotica interpreta le sue nervature come «la croce che regge la volta celeste». E non a caso le quattro vele gotiche sono spesso decorate di stelle. Si tratta di un nuovo modo di presentare la croce del Risorto come unione di cielo e terra, con la chiave di volta che richiama «la pietra scartata diventata testata d’angolo».51 Il tardo medioevo e il rinascimento vedono invece lo sviluppo crescente della cupola come nuovo modo di «aprire il cielo». Ciò che Brunelleschi consegue a Firenze nel Quattrocento sarà il modello per i secoli seguenti. Il «cielo barocco» sarà invece un’«apertura all’infinito», come vediamo già nella chiesa dei Trinitari a Roma, «San Carlo alle quattro fontane». In essa il Borromini, dal 1638 al 1641, aveva costruito una cupola ovale dove giocava con la ripetizione «all’infinito» di forme geometriche che esprimono l’infinito di Dio e guidano lo sguardo in alto «verso la luce». Ma si tratta di un infinito ancora «geometrico». Così come l’infinito della famosa cupola di Guarino Guarini a Torino (1667). Ancora a Roma, nella chiesa del Gesù, l’infinito del Baciccia è invece un infinito figurativo. Un infinito di tanti «racconti» (figure di santi, angeli, personaggi coevi…) che formano una sola Storia.
4. Un
esempio : lo spazio sacro come spazio della risurrezione nella chiesa di S an S alvatore in C hora (I stanbul )
Le chiavi di lettura kerygmatiche e mistagogiche evidenziate fino ad ora possono applicarsi a numerosi edifici sacri della cristianità. Un esempio fra tanti è la lettura della chiesa di San Salvatore in Chora (Istanbul), conosciuta soprattutto per il celebre affresco dell’Anastasis. La navata centrale della chiesa di San Salvatore in Chora risale ai primi anni del V secolo. Essa fu costruita fuori dalle mura della città, da cui il suo nome Chōra, in greco «campagna» (ma prima ancora «spazio», «posto», «recipiente», «contenitore», da cui «terra»). La nuova cinta muraria di Teodosio II, nel 414, inglobò la chiesa, che mantenne però il nome di «Chora» come richiamo a due mosaici che la decorano: il mosaico del Cristo Chōra tōn zōntōn (Cristo, «terra dei viventi») e il mosaico di Maria Chōra tou Achōrētou (Maria «contenitrice dell’Incontenibile»). Il primo appellativo riprende un tema caro al Nuovo Testamento: il corpo di Cristo «è» la terra promessa, cioè lo spazio vitale e concreto dove Dio e
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Cf. Sal 117,22.
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uomo sono in comunione e dove si compiono le promesse. Il secondo appellativo fa parte delle molte invocazioni mariane a struttura paradossale che raccontano di un Dio diventato uomo perché l’uomo «diventi Dio». La «chiesa di Chora» rappresenta dunque al tempo stesso un contenitore di Dio e una terra promessa che è Cristo stesso. Intorno alla struttura del V secolo, l’edificio si allarga in fasi successive fino al XII secolo, in particolare con la costruzione di un doppio nartece e di un parekkleˉsion, o cappella laterale, usato soprattutto per le liturgie funerarie e che conteneva numerosi sarcofagi. Non è allora un caso se l’abside di questo «luogo dei morti» è decorata da uno splendido affresco della discesa di Cristo al regno dei morti: l’Anastasis. Quasi a dire che dall’abside, cioè dall’Oriente (luogo da dove arriva la luce), arriva il Cristo per rialzare coloro che stanno in questo luogo di morte. Nella tradizione orientale, la discesa agli inferi (Sabato santo) è il culmine della salvezza, e contiene già la risurrezione.52 Questo famoso affresco absidale è datato all’inizio del XIV secolo, come la maggior parte della decorazione attualmente visibile a San Salvatore in Chora. Al centro, Cristo è vestito di bianco, colore che «ricapitola» tutti i colori, simbolo della luce piena che è la risurrezione. Egli prende Adamo ed Eva per il polso e li fa uscire dalle loro rispettive tombe che richiamano i sarcofagi disposti nel parekkle¯sion. La presa per il polso (e non per la mano) sta a sottolineare l’iniziativa di Cristo. È lui che prende. All’uomo spetta solo di lasciarsi prendere. Questo tipo di presa all’avambraccio è particolarmente sicuro. L’allargamento del carpo e metacarpo funge da freno a un eventuale slittamento della presa. Il Risorto prende con forza. La sua vittoria salva con certezza.53 Inoltre questa gestualità corrisponde esattamente a un rito ben noto nella corte imperiale di Bisanzio. Quando un nobile aveva tradito ed era caduto in disgrazia, poteva, dopo una lunga penitenza, essere riabilitato. Nella cerimonia di riabilitazione l’imperatore fa rialzare il nobile in ginocchio prendendolo per il polso. Adamo è qua il nobile «rialzato», cioè «risorto». La parola anastasis, che in greco designa la risurrezione, non significa altro che «rialzata». Il Cristo fa rialzare i due progenitori e in questo senso fa rialzare tutta la storia umana. Nella sua discesa agli inferi, il Cristo attraversa tutti gli strati della storia e viene a salvare fino al primo peccatore. Il Risorto non solo trasforma il presente e apre un nuovo futuro, ma trasforma anche il passato. Dell’umanità, e di ogni uomo. Il Cristo di San Salvatore in Chora non si limita a rialzare Adamo, ma Adamo ed Eva, insieme. Facendoli uscire dalle loro tombe, li mette di nuovo in relazione. Cristo «è venuto a disturbare la solitudine del primo
Cf. H.-U. von Balthasar, Teologia dei tre giorni, Queriniana, Brescia 1990. Von Balthasar parla di «apertura forzata della porta eternamente chiusa, mano del Redentore tesa al primo Adamo», cit. in G. Marchesi, La cristologia trinitaria di Hans Urs von Balthasar, Queriniana, Brescia 1997, 50. 52 53
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peccatore». Egli ricrea così la relazione primordiale fra uomo e donna, come in una nuova Genesi. Solo come relazione «uomo-donna», l’essere umano è «immagine di Dio».54 La risurrezione consiste dunque nella rinascita della relazione fondamentale, che è la relazione sessuata, immagine della Relazione che è Dio stesso. Sotto la figura di Cristo, vediamo l’anti-relazione, il divisore. Egli è vittima di se stesso, cioè della morte, divisione per eccellenza nella quale adesso Dio stesso è entrato. Perciò il divisore è adesso legato, vinto. Ha perso il potere. Intorno a lui scorgiamo tutti i suoi arnesi, simboli delle sue tante strategie che legano, imprigionano, torturano. Ma adesso non possono più vincere. Le due ante della «porta degli inferi» stanno sotto i piedi del Cristo. Esse formano idealmente una X (Chi), prima lettera greca del nome di Cristo. Ma queste due ante di legno coincidono anche con le due travi della croce, legno che ha permesso al Cristo di entrare nel regno della morte. I personaggi dietro a Adamo sono, in alto, Giovanni il Battista e più in basso Davide e Salomone, ambedue con la corona regale. Si tratta di tre «precursori» di Cristo. Dietro a Eva, col bastone, vediamo Abele il pastore. Il Cristo è circondato da un alone di luce a forma di mandorla, decorata di stelle. È il simbolo del cielo che entra negli inferi. Con l’incarnazione, la terra era diventata cielo. Con la pasqua del Cristo, anche gli inferi diventano cielo. I tre strati concentrici di questa forma sono un’allusione alla Trinità. Quasi a dire che la discesa agli inferi e la risurrezione sono la massima manifestazione della Trinità. E che della Trinità non possiamo vedere che Cristo, e Cristo risorto. Dirà Massimo il Confessore: «Ecco il grande mistero nascosto. Egli stesso ha reso visibile il fondamento più intimo della bontà del Padre».55 La forma della mandorla allude allo scudo del vincitore, che l’iconografia antica mette in verticale dietro al condottiero dell’esercito vittorioso. Gesù Cristo è il vincitore della morte. E la mandorla sta a ricordare questa vittoria, questa buona notizia. Nell’antichità pagana, la parola euangelion era usata precisamente in contesto militare come annuncio di una vittoria decisiva. La forma della mandorla richiama anche l’olio di mandorla col quale si ungevano i sovrani nell’Oriente antico. E «Cristo» è precisamente l’«Unto». I padri commentano questa simbologia ricordando anche quanto la scorza della mandorla sia dura e quanto il suo interno sia squisito. Nello stesso modo, il mistero cristiano ha una «scorza» difficile da aprire, ma una volta dischiuso è il migliore dei sapori.
Cf. Gen 1,27. Massimo il Confessore, Quaestiones ad Thalassium 60: PG 90,621A-C.
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Un ulteriore significato della mandorla nell’iconografia cristiana è il richiamo alla pupilla del felino, che vede nella notte. E in questo è il simbolo dell’occhio della fede. Allora l’affresco di San Salvatore in Chora è un invito a fissare il Cristo risorto sulla «retina del cuore» così da poter vedere attraverso le notti della vita. Le rocce rappresentate sullo sfondo si chiudono leggermente in alto secondo uno schema comune anche all’iconografia orientale del battesimo di Cristo. Si tratta di un richiamo alla grotta primordiale, al «ventre della terra». In definitiva, all’utero materno. La risurrezione è allora una nuova nascita, un «rinascere dall’alto» come Cristo indica a Nicodemo. La risurrezione di Cristo non è il ritorno di Cristo alla vita di prima, ma la «presa» di tutta l’umanità nella sua nuova nascita. Infine sul cielo blu possiamo leggere in greco il titolo dell’opera: H ANASTASIS (la «risurrezione»). Le altre quattro lettere in basso corrispondono alla prima e ultima lettera delle parole Iesous Christos (IS – XS). È la proclamazione di fede del primo cristianesimo: «Gesù è il Cristo».
5. Altre
piste
Questo articolo ha voluto offrire alcune piste per un discorso kerygmatico e mistagogico nei luoghi sacri cristiani. In realtà molti altri aspetti dell’architettura e dell’arte figurativa cristiana potrebbero essere approfonditi nella stessa ottica. Basti pensare alla densità simbolica e teologica di elementi come la porta, l’altare, la pietra angolare (o chiave di volta), la croce e il cristogramma, il ruolo della luce… Senza pretesa di essere esaustive, queste pagine hanno voluto anche mostrare quanto «fare teologia a partire dall’arte» possa aprire nuovi orizzonti alla stessa teologia. In particolare, nel dover pensare un annuncio a chi visita una chiesa, il pensiero teologico si ritrova «costretto» a ripartire dal kerygma e a tematizzare subito la preghiera e i sacramenti come fruizione della stessa opera d’arte.
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Parte settima Area di teologia spirituale
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La spiritualità: tra inquietudini e nuove chances Tracce di spiritualità laicale per l’evangelizzazione Bruno Secondin
Nella schiena gibbosa del cammello, come tutti sappiamo, c’è una riserva idrica, a cui attingere nell’aridità del deserto. Ma è sempre meglio avere altra riserva propria: e soprattutto non è saggio né intelligente attraversare il deserto fidandosi solo di quella riserva nascosta nella gobba. Ci vuole esperienza e orientamento, abilità e pazienza, tenacia e resistenza, provviste e organizzazione, per non restare insabbiati. Oggi pare che la spiritualità stia diventando curiosamente come la riserva idrica della gobba del cammello. Perché tutti vi fanno ricorso, come a un estremo rimedio che appare più narcotizzante che nutriente. Nello smarrimento universale dei valori e dei progetti, nella desertificazione nichilista della caduta delle ideologie e delle paure apocalittiche, si chiede alla spiritualità di fare da compensazione e riserva consolatoria. Abbondano le spiritualità vagabonde e selvagge, le esperienze mistiche improvvisate e multiformi, le realizzazioni personali che mescolano gnosi e istinto, paganità e saggezza orientale.
1. La
spiritualità come avventura vagabonda
Più che messaggi e criteri di orientamento seri e impegnativi, come sarebbe giusto, capita che alla spiritualità si chieda di offrire segnali rassicuranti, compensazioni emotive senza impegno, tisane politeiste per un eclettismo senza angosce e senza traccia di valori assoluti né di divieti a fortiori. La speleologia dell’anima è il grande cantiere di psichiatri e romanzieri, cineasti e confessori laici: ognuno scava ed esplora, portando alla luce detriti e ciottoli, ma anche spasmi e paure, angosce e mali oscuri.
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Un’enorme sete di «esperienza» e forse anche di «speranza» a consumo rapido caratterizza la nostra stagione culturale e le nostre società post-moderne. Perché un’enorme rivoluzione religiosa si sta realizzando sotto i nostri occhi: e non sappiamo neppure chi veramente la provoca e dove si vorrà mai arrivare. Si sa che la storia è piena di sorprese: e questo veloce cambio di direzione – dalla secolarizzazione quasi adorata, alla «nuova religiosità» mitizzata – in pochi decenni, lo conferma. L’ossessione dell’efficienza e del «consumo rapido» e spensierato di esperienze ed emozioni, sta creando un vuoto nei paesaggi interiori della psiche e dell’anima, che terrorizza. La stessa parola «spiritualità» oggi la si pronuncia con compiacenza e quasi con orgoglio; eppure solo qualche decennio addietro ci si vergognava di usarla, perché alludeva a un mondo poco serio e molto emotivo. Ci si aggrappa a tutto in questa specie di «fuga immobile», si consuma di tutto per non avere «incubi», e la spiritualità diviene allora il nuovo supermarket per i naufraghi di senso e di progetti vitali. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: questa «nouvelle vague» panspiritualista provoca un profondo ripensamento. Si stanno rimescolando le carte anche per quanto riguarda la spiritualità in senso più proprio e dignitoso: cioè il mondo delle esistenze in cui lo Spirito Santo lavora per plasmare fedeltà creativa al Cristo e per sollecitare cammini di libertà e di nuova fraternità. Ci si rende conto che non ci si può permettere una spiritualità al modo della riserva d’acqua contenuta nella gobba del cammello. Ma ci vuole piuttosto una spiritualità che offra orientamento e segnali di direzione per attraversare il deserto, che sappia scoprire piste carovaniere e offrire segnali per distinguere orizzonti fatui e oasi vere. La spiritualità non è un discorso simbolico o gnostico sull’anima, né su una profondità generica o uno spirito vago. È riconoscere all’opera lo Spirito del Figlio. Lo Spirito innalza non genericamente, ma modella secondo l’archetipo Gesù di Nazaret. Non può pertanto che essere un sapiente lavoro di accordatura fra tradizione e nuovo inizio: a Nazaret il Redentore ha appreso la sapienza delle tradizioni, ha gustato il pianto e il canto dei profeti, ha sentito narrare la memoria di un popolo nomade e pellegrino, in cerca di casa e di pascoli. Quel linguaggio di un’esistenza sul filo dell’anonimato è del quotidiano, non è la premessa di tempi pieni, non è solo una preparazione alla redenzione: è il luogo più tipico e proprio del dialogo della redenzione.1 È lì che avviene la tessitura quotidiana dell’agape: e lì splendono le virtù più comuni, ma anche più preziose della «forma ecclesiae», come diceva in una poesia Teresa di Gesù Bambino.2 Bisogna ripartire da questa situazione della presenza di immersione, dell’assimilazione senza fretta del
1 Cf. le acute annotazioni di P. Sequeri, «La qualità spirituale nel post-moderno», in Id., Sensibili allo Spirito. Umanesimo religioso e ordine degli affetti, Glossa, Milano 2001, 3-44. 2 Santa Teresa di Gesù Bambino, Opere complete: Poesie, LEV, Città del Vaticano 1997, 721-727: «Perché ti amo, Maria».
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vivere umano. È quello il grande archetipo dell’identità: la compagnia, la vicinanza, lo stare in mezzo a tutti, vivendo con serietà la vita di tutti.
2. Oltre
la religione in eredità
L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo. Provocati dall’intelligenza e dall’attività creativa dell’uomo, sullo stesso uomo si ripercuotono, sui suoi giudizi e desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e agire sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche nella vita religiosa (Gaudium et spes [GS], n. 4).
Il concilio Vaticano II aveva riconosciuto – anche se con qualche sofferenza e talune reticenze – che la mentalità moderna e le nuove sensibilità culturali andavano erodendo e trasformando la tradizione religiosa dei popoli. A distanza di quattro decenni, ci si rende conto che forse non si aveva allora la chiara percezione delle dimensioni planetarie dei cambi. La Chiesa veniva da una chiusura secolare al nuovo, da un rifiuto al dialogo con i nuovi trend culturali. Si affacciava con timidezza e trepidazione alla «modernità», fino allora temuta ed esorcizzata. Ma i padri conciliari si rendevano conto che questi cambi veloci e ingovernabili sfidavano la Chiesa a uscire allo scoperto, per misurarsi con essi, e a fare scelte di campo in modo nuovo, inedito, creativo e profetico. Rischiando di stare in mezzo al guado, di smarrirsi nelle turbolenze dei déplacements e nelle agonie dell’accelerazione culturale.3 L’auspicio di «nuove sintesi» (GS 5) non ha trovato ancora soluzione, mentre sono aumentati sia il pluralismo scompaginatore che la globalizzazione coercitiva e pervasiva. E la spiritualità ha subito i contraccolpi e anche il fascino delle mode, non sempre districandosi con saggezza e discernimento nel groviglio delle nuove proposte teologiche e culturali.4 Certo c’è stato chi ha rincorso le mode e le contingenze, offrendo i propri servigi «spirituali», cioè rivestendo panni non propri, pur di avere qualche proselito. Ma si sa, chi sposa le mode resta presto vedovo. Altri si sono ritirati nel loro castello interiore, in atteggiamento sprezzante e cataro: preoccupati di salvare il salvabile di un mondo spirituale ormai
3 Ho affrontato più volte questo tema: ad es. in Messaggio evangelico e culture, Paoline, Milano 1982; Segni di profezia nella Chiesa, OR, Milano 1987; La spiritualità nei ritmi del tempo, Borla, Roma 1997. 4 Una ricognizione l’ho presentata in La spiritualità in dialogo. Nuovi scenari dell’esperienza spirituale, Paoline, Milano 1997; altra panoramica in due contributi nel libro in collaborazione Recrear nuestra espiritualidad, Claretianas, Madrid 2001, 15-34 e 87-111; un’altra panoramica interessante in H. Schmidinger (a cura di), Geist, Erfahrung, Leben. Spiritualität heute, Tyrolia, Innsbruck 2001. In riferimento all’attività missionaria e alla sua spiritualità è molto interessante il fascicolo di Ad Gentes 6(2002)1: «Lasciarsi condurre dallo Spirito. La spiritualità missionaria».
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Bruno Secondin
frantumato e polveroso. Per conseguenza questi ultimi rischiano di fare della spiritualità un museo senza più voce né profezia. E in questo nuovo contesto, questi fautori di una spiritualità irrigidita e divoratrice devota di antiche tradizioni riappaiono ancora più fieri.5 Altri ancora sono passati a proporre percorsi spirituali e modelli di identità cristiana per pochi eletti, raccolti in cenacoli simbiotici. E sono là dentro per consumare il patrimonio cristiano secondo riletture dettate da un leader illuminato ed emarginando il popolo credente, sul quale anzi si fanno gratuitamente giudici severi e impietosi. Oggi questi percorsi iniziatici stanno arrivando alla conclusione della loro parabola esploratrice: cioè si avvolgono nel manto della loro identità riconosciuta o anche spesso autocertificata. Sono preoccupati di perpetuare se stessi e non hanno voglia di esplorare nuove possibilità epifaniche per la salvezza. Incerta è la loro parabola per il futuro.6 Altri infine hanno cercato di accodarsi ora qua ora là, cercando come a tastoni di ricomporre i pezzi frantumati della propria esistenza spirituale. E così abbiamo una gran quantità di persone smarrite: non ce la fanno a tenere il ritmo dei nuovi movimenti ecclesiali; non ce la fanno a vivere solo di vecchie tradizioni e devozioni, incrostate di scorie superstiziose o pagane. Ma non ce la fanno neppure a vivere tranquilli collezionando riti religiosi secondo lo schema dell’obbligo, con qualche variazione estemporanea, come appunto avviene in molte comunità parrocchiali. Il frastuono della post-modernità rischia di metterli fuori gioco, anzitutto con se stessi. Si trascinano un’identità cristiana e spirituale che non riescono a far diventare progetto aperto, capace di dialogare con il presente complesso, ambiguo, politeista.7
3. La
crisi dei modelli e degli schemi classici
E che dire infine della caduta di plausibilità culturale e di forza comunicativa che da decenni investe certe figure classiche dell’identità cristiana? I modelli di clero, di religiosi e religiose, di famiglia cristiana si trovano in questo scenario: purtroppo si continua a credere che gli aggiusta-
5 Fra la molta letteratura citiamo R. Luneau (a cura di), Il sogno di Compostella. Verso la restaurazione di una Europa cristiana, Queriniana, Brescia 1992; il fascicolo di Concilium 17(1981)1: «Il neo-conservatorismo: un fenomeno sociale e religioso»; P. Stauder, La società devota, Quattro Venti, Urbino 1996. 6 Cf. due visioni completamente diverse: C. Hegge, Il Vaticano II e i movimenti ecclesiali. Una recezione carismatica, Città Nuova, Roma 2001 e G. Urquhart, Le armate del Papa. Focolarini, Neocatecumenali, Comunione e Liberazione. I segreti delle misteriose e potenti nuove sette cattoliche, Ponte alle Grazie, Firenze 1996. 7 Cf. F. Garelli, Forza della religione e debolezza della fede, Il Mulino, Bologna 1996; S. Martelli, La religione nella «società post-moderna» tra secolarizzazione e desecolarizzazione, EDB, Bologna 1990.
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menti da fare possano essere in fondo solo marginali. Credo che sia tutto un equivoco: in questo ambito bisogna avere il coraggio di abbandonare il modello ormai consunto sia di «ideale» che viene dai secoli quanto di prassi formativa e pastorale. Bisogna esplorare nuove modalità, sotto la guida di un filtro creativo che tenga conto dei nodi non risolti, delle chances nuove che la post-modernità ci mette a disposizione, della sfida a un’esistenza in rete, nel dono e nel dialogo di nuovo conio.8 In tensione e quindi in crisi sono andati anche i grandi schemi di «itinerario spirituale». Si partiva per lunghi viaggi che erano solo immaginari in realtà, verso dentro, il centro dell’anima. Si partiva per restare fermi, immaginando scalate e discese, transizioni e dimore diverse, fantasmi e abissi; ma di fatto rigirandosi attorno per anni. Oggi il «viaggio» è di altro genere culturale, ha altra forma e senso: torna di moda Abramo che parte e non sa verso dove. Prevale il partire senza ritornare, l’andare vagabondi, collezionisti di emozioni effimere e senza radici, senza meta eppure curiosi, seekers di tutto, cercatori di altro, predatori di un giorno, ma vagabondi una vita intera.9 La vera sfida attuale non sta nel riuscire a elaborare discorsi da chierici per distinguerci ed etichettare gli altri. La vera sfida attuale è proprio quella di discernere – in mezzo a questo affollamento di proposte ed esperienze dette «religiose» o «sacre» – quello che è genuino e valido.10 Si rischia la bulimia spirituale, come in un recente passato prevaleva a volte l’anoressia e la diffidenza. Le avanguardie oggi non sono i negatori della religione, ma i nuovi profeti della mistica, della trascendenza, di una religione cosmica che recuperi perfino le antiche forme pagane. Diceva Nietzsche: «E ora l’uomo senza miti sta, eternamente affamato in mezzo a tutti i passati e scavando e frugando cerca radici a costo di scavare per questo nelle antichità più remote» (La nascita della tragedia). In questa fruizione selvaggia e golosa, non fa da guida il criterio della coerenza interna e dell’autenticità legata all’identità originaria. Ma tutto è usufruito e proposto secondo il criterio della fruibilità appagante, disgiunta da ogni razionalità apparente. Importante è l’appetibilità personale, la «gratificazione» istantanea, la «felicità» soggettiva.11 Come in un
8 Cf. ad es. per la vita religiosa le molte questioni che solleva E. Bianchi, Non siamo migliori. La vita religiosa nella chiesa, tra gli uomini, Qiqajon, Magnano 2002; o le implicazioni che possono derivare dalle riflessioni a più voci nel libro Cammini di perfezione cristiana. Modelli definitivamente superati?, Glossa, Milano 2001. Chiarisce con pacatezza le problematiche E.M. Costa, Tra identità e formazione. La spiritualità sacerdotale, ADP, Roma 1999. Abbiamo fatto anche noi delle proposte in Abitare gli orizzonti. Simboli, modelli e sfide della vita consacrata, Paoline, Milano 2002. 9 Ne ha tracciato una mappa C. Gatto Trocchi, Nomadi spirituali. Mappa dei culti del nuovo millennio, Mondadori, Milano 1998. 10 Ne è diventato grande specialista J. Vernette, autore di molti libri su tutta questa galassia: citiamo solo Nouvelles spiritualités, nouvelles sagesses, Le Centurion, Paris 1999; Le XXIe siècle sera mystique ou ne sera pas, PUF, Paris 2002. 11 Cf. il numero di Concilium 35(1999)4: «La fede in una società della gratificazione istantanea».
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enorme frullatore, tutto viene agitato e ricomposto, dosato secondo esigenze di felicità personale, non di adesione a valori oggettivi provenienti da altrove, e con propria ermeneutica specifica. Tutto è rovesciato, secondo funzioni e significato completamente differenti da quelli del passato. È sapiente, per la cultura attuale, non chi ha molto assimilato, con letture e riflessione, ma chi ha molto «viaggiato», chi ha moltiplicato contatti e vissuto esperienze differenti. Chi ha molto «navigato» in questo mare magnum della società complessa e globalizzata. Si vede subito che la religione in eredità sta subendo una profonda trasformazione instauratrice.
4. Naufraghi
senza ancora e senza meta
Un’ondata gigantesca di neo-spiritualismo ha caratterizzato l’inizio del millennio: a cui non ha contribuito solo un certo recupero di autorevolezza e di notevole visibilità del cattolicesimo. C’è anche il nuovo vigore missionario delle altre tradizioni religiose, come l’islam e l’induismo. Per questo qualcuno ha parlato della «rivincita di Dio».12 Inoltre la rivisitazione storica del patrimonio culturale ha portato – quasi per compensazione – i precedenti profeti laici della secolarizzazione a sognare un ritorno in vita perfino del paganesimo precristiano. Non solo a sognarlo, ma anzi a proporlo, come correttivo per sottrarsi alle abitudini aggressive e fondamentaliste delle religioni storiche più recenti.13 È come un vento che tutto sconvolge e spira da tutte le parti, una dolce seduzione che tutti affascina a volte come brezza leggera, altre volte come un rombo impetuoso. Ma poi, quando cerchi di delimitarne l’efficacia, non sai come stringerla. È come voler tracciare la mappa delle nuvole: cambiano sempre. Si potrebbe parlare del neo-spiritualismo come di una spiritualità scatenata, in cui si associano crisi culturale e cultura dell’io, immagine polimorfa di Dio e biografia fai-da-te. La razionalità moderna che sembrava dominare e non solo coordinare tutto, si trasforma da un lato in metanetwork che tutti collega, e pone online la vita di tutti quasi senza più segreti né libertà di movimenti e scelte. E dall’altro favorisce la voglia di fuga, il bisogno di nuova privacy, di nuove relazioni interpersonali fuori dagli schemi e dalle convenzioni. E così aumentano i naufraghi dello spirito alla ricerca di altre sensazioni e altri incontri.14 Quanti sono alla deriva come su zattere online! Guardate ai giovani: intenti nel «chattare» selvaggio e curioso. Quel nomadismo telematico tra culti e tecniche, senza mai approfondire quei contatti
12 G. Kepel, La rivincita di Dio. Cristiani, ebrei e musulmani alla riconquista del mondo, Rizzoli, Milano 1991. 13 Cf. S. Natoli, I nuovi pagani, Averbi, Roma 1995; C. Gérard, Parcours païens, L’Âge d’homme, Lausanne 2000. 14 Les Naufragés de l’Esprit. Des sectes dans l’Église catholique, Seuil, Paris 1996.
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puramente virtuali eppure affascinanti, non sono forse una risposta alla mancanza di relazioni vitali, calde, guaritrici, liberanti? Al logos onnipotente che divora l’individualità e la sua autonomia – si pensi ai sistemi informatici che schedano tutto e tutti – si sostituisce un logos frantumato, che sembra ombra fuggente del sacro. Si pensi – a completamento – alla «sindrome orientale», specialmente indiana o cinese, che attira molti verso le mistiche orientali; si pensi all’avventura spirituale della «New Age» e dei suoi epigoni di sviluppo del potenziale umano e di ricerca della scintilla divina nelle profondità personali o nel coseno incantato; si pensi anche alla risorgenza di una specie di mistica pagana.15 In realtà è un «surrogato» che sembra per tanti dare una nuova identità, fluida, intercambiabile, a puzzle.16 Di fatto poi è un labirinto, dentro il quale perdersi è come ritrovarsi, senza mete né uscite, senza riferimenti né soluzioni.17 Vagabondi per caso, ma alla fine è proprio questa la nuova identità: un fluire senza punti fermi, una sensazione oceanica che già i mistici avevano sentito, ma con altro significato. In realtà i nuovi pescatori d’anime sono proprio i servers, con i loro portali, e i banners che occhieggiano maliziosi e provocatori, e i milioni di links che ti disperdono nella meta e nel cammino.18
5. Guarire
gli affetti senza vergogna
Possiamo rifarci a un notissimo episodio biblico, emblematico e ispirativo, anche per il gioco dei gesti e delle parole: l’incontro e il dialogo fra Gesù e la samaritana presso il pozzo di Giacobbe (Gv 4,1-26). Tutta la simbologia di quell’episodio è molto suggestiva. Presso quel pozzo, Gesù e la samaritana ci vanno per la sete: ma c’è un di più nella vita che da quella sete è alluso. Gesù e la donna hanno bisogno di relazioni autentiche. Sono bisogni più profondi, a cui quella donna ha dato risposte che l’hanno ferita (ne sono simbolo evidente i suoi sei mariti). Gesù invece cerca interlocutori secondo il cuore del Padre. Più che i discepoli andati a far spesa nel villaggio e pervasi da pregiudizi, è la donna con la brocca che ha questa apertura di cuore, nonostante le apparenze. Lei è messe matura, e può anche mietere più di loro, con l’adesione dei samaritani (cf. Gv 4,35-38). Gesù aiuta la donna a riconoscere che i suoi affetti sono feriti, ma non per questo manca nel suo cuore una religiosità. La donna lo dice in ma-
15 Su tutto questo informa bene Vernette, Le XXIe siècle sera mystique ou ne sera pas, 105-151. 16 Cf. Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000. 17 Cf. S. Latouche, Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, Torino 1993; F. La Cercla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Laterza, Roma-Bari 1996. 18 M. Merlini, Pescatori di anime, nuovi culti e internet, Averbi, Roma 1998.
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niera emblematica. Nella sua domanda provocatoria sul «luogo dove si deve adorare» (Gv 4,20) si notano due forme di religiosità. La forma organizzata, controllata, istituzionale, che è quella di Gerusalemme, del tempio, delle istituzioni, dei divieti. Ma c’è anche la forma «sul monte»: cioè fuori istituzione, in maniera più vaga, cosmica, fluida. Appare evidente, e Gesù stesso lo rileva, che il problema di fondo non è né la religione istituita, né quella più aperta, ma la rete di relazioni che il cuore coltiva.19 E quella donna ha coltivato una rete intensa e deludente di relazioni. Così risponde Gesù, sorprendendola; e così si apre uno spiraglio di meraviglia nel cuore assetato della donna. Ed ella lascia abbandonata la brocca (Gv 4,28), ormai la sua sete interiore ha ricevuto un’acqua nuova, inattesa. Da quel momento si farà testimone presso i suoi di una guarigione degli affetti, che prima solo nascondeva con vergogna. I discepoli erano andati tutti in città, e tornano soli, con le provviste e i pregiudizi (quando vedono che Gesù dialoga con una donna). La donna corre sola in città e trascina fuori «molti samaritani» (Gv 4,39), innescando un processo di ascolto e di adesione nella fede.
6. La
religione del cuore ferito
Oggi sembra proprio che dilaghi una «religione del cuore ferito», assetato di felicità. Quegli «adoratori in spirito e verità», di cui parla Gesù, sembrano visibilizzarsi in questa folla immensa di credenti in un Dio vago, cosmico, pure pagano, se vogliamo. Che anzitutto risponde alla sete di felicità, al bisogno di relazioni calde e gratificanti; ma che allo stesso tempo non imponga divieti e obblighi, dogmi, norme o rappresentanti. È il dominio del culto sulla montagna: insieme politeista e polimorfo, dilatato e risolto individualista, flessibile e sincretista, che fa della trascendenza un oggetto da consumo e dell’inquietudine personale un luogo per tutte le divinità, come fosse un pantheon. La salvezza oggi sembra doversi chiamare «felicità», non più redenzione:20 perché la nostra cultura ha espunto il senso del peccato, e preferisce vedere solo disagi e «intenzioni» mal riuscite. C’è un bisogno coercitivo di «un’altra dimensione», perché la vita è troppo assurda, perché le tragedie sono senza spiegazioni. «Dio» (tra virgolette) riempie questo vuoto esistenziale e la sua assurdità caotica e angosciante. Giustamente scrive J.B. Metz, la crisi di orientamento del nostro tempo è in realtà «crisi di Dio»: perché riduce il concetto di Dio a un
19 Prendo spunto da un’interessante riflessione di A. Torresin, «Dammi da bere», in Il Regno-att 46(2001)14, 97-100. 20 S. Natoli, La felicità di questa vita. Esperienza del mondo, stagione dell’esistenza, Mondadori, Milano 2000. Un’analisi dal campo cattolico e in prospettiva terapeutica: E. Drewermann, C’è speranza per la fede? Il futuro della religione all’inizio del XXI secolo, Queriniana, Brescia 2002.
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«mio» orizzonte (Dio per me), mentre dovrebbe essere quello di «Dio per il mondo». È un Dio immanente, che dovrebbe essere per così dire prêt-à-porter, per una biografia religiosa fai-da-te. Non c’è chi non veda il rischio di questa situazione, ma anche la chance che essa offre. Questa assenza bruciante, questo silenzio di Dio in un contesto di angoscia mortale e di prepotenza istituzionalizzata, troppo velocemente la si riempie di un «divino» che, comunque sia, deve dare senso e consolazione. La risposta è certamente deviante quasi sempre; ma la domanda è giusta e autentica.
7. Ritornare
alla teologia del silenzio
Mai come ora si sta rivalutando il senso «teologico» di un famoso quadro di E. Munch: Il grido. Quella bocca spalancata nell’urlo insieme disperato e implorante, pare diventata un simbolo teologico. Dio è assenza bruciante, Dio è presenza viva là dove domina solo l’urlo assoluto. Non nella risposta immediata, ma nell’eco cosmico di quel grido. Questo vale anche per la supplica estrema sulla croce, non tanto perché il Padre risponde, ma perché l’urlo è simbolo della millenaria e assoluta indigenza dell’uomo. Urlare e gridare è tanto teologico quanto trovare la risposta. Senza darsela da sé, ma passando per le tenebre del pomeriggio del Venerdì santo e per il lungo silenzio del Sabato. Direi che perfino gli «aromi e oli profumati» che le donne preparano a casa (Lc 23,56) con animo affranto e tanta tenerezza, quando già si accendevano le prime luci del sabato (Lc 23,54), non sono la risposta a quell’urlo. Sono quasi un altro linguaggio per rilanciare quell’urlo, dando a quel corpo tutta la dignità che sostenga la forza dell’urlo, il bruciore di un’assenza angosciante e assurda. Non sono gli aromi la risposta, ma ancora la domanda. La risposta la darà Dio Padre, alle prime luci del giorno dopo il sabato. Anche qui un urlo di vittoria, con altra grammatica, con altra sintassi: il silenzio che romba, il sepolcro vuoto, la gloria che trasforma la morte in altra visibilità. Sarà sempre il crocifisso, l’ucciso, ma ora vivente (Lc 24,5-8; Mc 16,6-7). Non il rovescio dell’umiliazione, ma la sua ultima rivelazione, oltre, in modo altro. Non dicibile se non in simboli e frammenti, per gesti e libertà interiore. Nessuna idolatria di corpo e di carne (che invece Tommaso voleva verificare: Gv 20,25), nessuna possibilità di stringere qualcosa (come Maria di Magdala voleva fare: Gv 20,17), niente può delimitare la nuova presenza (Gesù passa attraverso le porte chiuse: Gv 20,19.26).21
21 Cf. H. Verweyen, Gottes letztes Wort, Pustet, Regensburg 2000 (trad. it. La parola definitiva di Dio, Queriniana, Brescia 2001); S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992.
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La nuova moda della spiritualità sembra quasi ignorare questo punto fondamentale. Col rischio di favorire un esibizionismo furbo e opportunista; col pericolo di debordare nella pura superstizione o nel fideismo gratuito e idolatrico. La grande corrente apofatica sembra obliata nel nuovo spiritualismo, anzi scacciata come irriverente verso un Dio così disponibile, alla mano e à la carte, ubiquitario e a pronto uso, senza bisogno di istruzioni. E se proprio questo «esibizionismo» – di un Dio in tempo reale – fosse segno di un bisogno irriverente e immanente da soddisfare, comunque, in mancanza di meglio? Si spingerà mai questa forma religiosa oltre il gioco degli specchi, che rimandano se stessi all’infinito? Per paradosso, nella sua presenza pervasiva (in realtà solo presunta), tipica anche di certe correnti spirituali cattoliche così invadenti, Dio si mostra ancor più l’altro, l’assente, il totalmente Altro. Dio non è là, è altrove: là c’è solo il suo simulacro, una pantomima irriverente. È una theologia sub contrario. Una fede che pensa e indaga, una fede che tace e non ha risposte, sembra fuori gioco oggi: ma forse è proprio qui uno dei nodi per il discernimento. Tornare al vuoto, al muto silenzio, alla notte senza luce, alla soglia del mistero, senza presumere di manipolarlo: questa è una sfida per la nostra post-modernità.22 Questo tipo di «nuova spiritualità» da mercato, che offre di tutto in tempo reale, è davvero nuova ed è davvero spiritualità? A me pare che sia solo l’ombra del sacro, la mercificazione di attese autentiche, l’ipertrofia del fai-da-te che inquina anche il campo religioso, e di fronte alla quale bisogna operare una seria verifica, per non prendere abbagli. E per non indorare di sacro esistenze senza dignità né qualità, percorsi iniziatici che portano al «divino» e non a Dio vivo e vero, che confondono sentimenti di angoscia con l’inquietudine metafisica autentica.
8. Solchi
dell ’ alleanza e interstizi della storia
Da dove ricostruire allora i progetti e come recuperare il senso per la vita, per non vivere inventando semplicemente e affannosamente senza progetti più ampi? C’è un’espressione del filosofo danese S. Kierkegaard: «La nave ormai è in mano al cuoco di bordo e il megafono non trasmette più la rotta, ma ciò che mangeremo domani». Siamo incapaci di riconoscere i nuovi orizzonti e paurosi di affrontare i fondali ignoti, perché sprovvisti di profeti e poeti, e in mano ai pragmatisti del concreto ed efficace. Sono essi i cuochi di bordo. Oggi i cuochi di bordo, che gridano dentro il megafono, sono gli economisti della Banca europea che custodiscono scrupolosi i parametri di
22 Sul senso complesso della «notte» cf. il nostro «Quanto resta della notte?… Il simbolo della “noche oscura” nel contesto culturale attuale», in La spiritualità nei ritmi del tempo, Borla, Roma 1997, 310-323 (con bibl.).
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Maastricht e i patti di stabilità, sono i guru di Wall Street e gli analisti del Fondo monetario e della Banca mondiale. Sono essi che mandano su e giù le monete, che impongono risanamenti barbari alle economie collassate, stroncando le speranze di riscatto dei continenti più deboli e dei poveri di tutto il mondo. La scelta strategica è prendere in mano il megafono, e non i fornelli della cucina: per dare segnali di rotta, per contestare profeticamente profittatori e saltimbanchi dell’economia, illusionisti della vita e delle emozioni. Non ci sono solo ordini per il menu del giorno o riforme fiscali urgenti da annunciare; ci sono anche ragioni di vita, nuove convivialità fra popoli e culture, per non vivere da consumatori telecomandati e annoiati. Si tratta di uscire al largo, nel vasto mare delle dimensioni planetarie di tutti i valori e le suggestioni: economiche, culturali, religiose, antropologiche, artistiche, ecc. Ci sarà anche l’opportunità di vivere una dilatazione universale prima sconosciuta, per una nuova stagione di alleanza e di fedeltà creativa. La Chiesa, come serva e testimone dell’alleanza nuova e universale, può diventare ora interprete nuova delle sue esigenze e vigilare perché non si instauri una universalità oppressiva e manipolatrice. Si tratta di fare uso ampio della libertà creativa, della fedeltà dinamica, «con cuore largo e occhio penetrante» (cf. Novo millennio ineunte [NMI], n. 58). Senza per questo trascurare il valore del frammento, del locale, del gesto minore, che ha forza simbolica di universalità. Bisogna anche abitare gli interstizi, le fessure, che sembrano solo accenni di spazio, e possono diventare invece il luogo del gesto più profetico.23 Si pensi alla scena del papa davanti al Muro del pianto a Gerusalemme, durante il suo viaggio giubilare: solo, bianco, curvo, in silenzio. Poi si avvicina, con un piccolo foglio in mano: in quel momento fa suo un gesto che ogni pio israelita desidera fare davanti a quelle pietre enormi, consunte dal tempo.24 È il momento culminante di un pellegrinaggio: presentare a Dio una supplica, con cuore umile, e depositarla lì, in quegli interstizi che i secoli hanno scavato erodendo le pietre. In quelle fessure giacciono tanti piccoli fogli, arrotolati; umili invocazioni e professioni di fede. Il papa depone il suo foglietto lì, con gesto un po’ impacciato: perché davanti a quel muro imponente sta portando il peso enorme di secoli di ingiustizie e di grida di dolore. E la memoria delle sofferenze dei figli di Abramo, fino alla Shoah. Ecco, in quegli interstizi il papa ha deposto il pentimento della Chiesa e l’invocazione di una nuova alleanza. Il più umile dei gesti – comune a tutti gli altri pellegrini – è diventato il più sublime, il più eloquente, il più liberatore.
23 Mi pare capace di buoni suggerimenti il testo di C. Gasparini, Sociologia degli interstizi, Mondadori, Milano 1995. 24 Sul valore emblematico di molti gesti di quel viaggio, cf. il nostro «Il pellegrinaggio del Papa nei luoghi biblici», in Rivista di Vita Spirituale 54(2000)6, 635-650.
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Ha così instaurato fra ebrei e cristiani una nuova relazione di identità, con cuore implorante e adorante, come il Padre cerca (cf. Gv 4,23). Ha dato con questo simbolo una lezione enorme, pacificatrice e implorante, a un’umanità atrofizzata dalla sua memoria ferita, dalla sua incapacità di fare pace fra i figli di Abramo, dalla sua mancanza di profezia disarmata e penetrante. In un gesto del genere si possono riassumere secoli negativi e decenni positivi: e si propongono progetti di nuova fraternità. Proprio in quella scena di Gerusalemme si fondono la memoria solenne delle pietre del tempio, rievocata senza farla diventare pesante, stando davanti ad essa eretti e coscienti, e la coerenza creatrice, che è azione vitale, liberatrice, fatta di fantasia e poesia. Non è la teologia dello splendore ma lo splendore di una fede umile e implorante, di una presenza divina percepita pellegrinando come tutti i pii del popolo dell’alleanza. E deponendo nelle fessure delle pietre e della storia, in biglietti modesti, i grandi sogni, che solo la fede può rendere visibili e pieni di senso. Vedo in quel gesto semplice e carico di simbolismo una funzione che potrebbe fare propria la spiritualità oggi. Affrancare il desiderio da tutti gli ostacoli del formalismo, della vergogna, dei fallimenti. Per lasciar emergere le ferite di relazione, e guarirle non con un gesto magico, ma con il più umile dei gesti, proprio della religiosità popolare, che esalti il dialogo, i silenzi di attesa, la paziente scoperta dei sentieri che hanno portato al fallimento, e dei gesti simbolici carichi di stupore e libertà. Per guarire il cuore bisogna saper instaurare nuove relazioni, gratuite, rispettose, che interrogano non per indagare, ma per abbracciare e avvolgere di rispetto. Ci vuole un sussulto di profezia e di immaginazione liberatrice per arrivare a certe vette.
9. Fare
nostro l ’ estro di
Dio
Siamo in una stagione caratterizzata dall’indebolimento del pensiero e dall’esibizionismo mercantile delle esperienze religiose come se fossero gadget in omaggio a chiunque. La concentrazione sull’incondizionato «fuori di sé» del Messia a Nazaret – cioè senza apparenza né distinzione: «Non ritenne un geloso tesoro la sua uguaglianza con Dio» (Fil 2,6) – si pone come criterio di giudizio e di discernimento. Come appello a una fede che ama la terra e la abita con gratitudine e serietà, senza morire di conservazione, ma con coerenza creatrice. Per questo vedo uno stretto collegamento fra la Nazaret dell’anonimato del figlio di Maria e la Gerusalemme con la fessura nel «Muro del pianto»: gli inizi della redenzione e l’ultimo gesto del viaggio del papa si richiamano e si congiungono con una risonanza nuova. Nella sua lettera post-giubilare il papa ha invitato ad avere «occhi penetranti e cuore grande» (NMI 58) per traversare i giorni e gli anni del nuovo millennio cercando il volto del Signore, e servendolo con l’immaginario della carità e la disponibilità disarmata all’ascolto di fronte alle nuove sfide. Solo così non si sarà né finti acrobati né rassegnati nani: non
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saranno gli dèi del neopaganesimo a guarirci, e neppure questa equivoca rinascita religiosa a darci il sapore della vita. Dio non può essere una specie di protesi malriuscita per le nostre angosce zoppe. Per essere i viatores dei sentieri profetici del Regno e i tenaci costruttori dell’alleanza nuova, bisogna sfidare e superare i modelli esclusivisti e statici di riferirsi a Dio e di proporne l’incontro in categorie e paradigmi ripetitivi. Dice la Lettera agli Ebrei: «In molte circostanze e in molti modi Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti. Da ultimo ha parlato per mezzo del Figlio…» (Eb 1,1s). E una continua creatività di linguaggi e circostanze del manifestarsi di Dio, fino alla più sorprendente di tutte le forme nella carne del Figlio – pieno di gloria e di verità (cf. Gv 1,14.16) –, non può essere accolta solo per farne un’ordinata antologia, che organizzi la varietà e risponda ai criteri di logica formale a beneficio di una rapida consultazione. È questa la grammatica che condiziona ogni nostro parlare di Dio e dell’incontro nostro con lui: cioè risaltando la varietà di forme e linguaggi, di persone e culture, di memorie e progetti. Dio è stato ricco di estro, di originalità, di inventiva, sorprendente fino a sconcertare – «Tu sei un Dio misterioso» proclama Isaia (45,15) –, che rifiuta concetti e figure rigidi, eppure è anche insieme «Dio dei nostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe» (Es 3,4; 1Re 18,36). Se fosse proprio questo estro di Dio25 che ci manca oggi? Eppure viviamo in un contesto di fantasiose possibilità di variazioni, in una cultura dove dominano il simbolico, l’immagine cangiante, la creatività più destrutturante, la manipolazione virtuale dalle risorse impensabili. Per i sentieri dello sguardo estetico, simbolico, iconico, dossologico ci dobbiamo incamminare, senza ulteriori ritardi.
10. Una
mistica meno imbalsamata
Chi ha potuto vedere e riflettere sullo svolgimento delle grandi Giornate della gioventù di questi ultimi anni – come a Roma o a Toronto – si sarà reso conto molto bene di una novità sorprendente: i giovani hanno imposto loro «rituali» e loro linguaggi per proclamare la fede e per farla vibrare nelle grandi assemblee, ma anche nei contatti interpersonali spiccioli. Non si trattava solo di «stile giovanile»: si trattava di una genialità spontanea e liberante; quella che anche il papa ha sempre saputo interpretare e, appoggiandosi su di essa, elevare e mettere in relazione con i grandi ideali, senza timore di essere frainteso. Si trattava di parlare di Dio in forma dossologica, non puramente rituale e formale: lasciando che anche il corpo usasse il suo linguaggio, come la danza, il vestire, il canto, la musica, l’improvvisazione, il silenzio, la fatica.
25 Cf. P.A. Sequeri, L’estro di Dio, Glossa, Milano 2000; cf. anche la monografia «Il lato luminoso della fede», in Concilium 36(2000)4.
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Bruno Secondin
Potrebbe mai questo parlare «dossologico» e simbolico rientrare anche nel linguaggio delle strutture istituzionali? È ben difficile che organizzazioni rigide e massificanti, costruzioni mastodontiche e arcigne come tanti palazzi e chiese, come certi documenti minacciosi che sembrano rivelare più paura che serena verità, certe liturgie pompose e teatrali protette da transenne con guardie armate, e via dicendo, parlino un linguaggio che affascini e sorprenda, incanti e faccia sognare, liberi la fantasia e la libertà gioiosa. Eppure non mancano nella memoria biblica elementi più eloquenti: come la tenda provvisoria, la fruibilità semplice e popolare dei luoghi di culto, la religiosità che trasfigura campi e monti, alberi e animali, il cantico d’amore carico di simboli e partecipazione spontanea. Abbiamo bisogno di tende sulle strade che percorrono oggi uomini e donne in migrazione continua, non solo geografica ma spirituale, religiosa, culturale, antropologica, simbolica. Nessuno più si sente – salvo frange isolate – sicuro dove sta e con quello che ha: e la «frattura» psicologica, culturale e religiosa introdotta nella coscienza collettiva da avvenimenti come l’olocausto o i gulag o i genocidi dell’ultimo secolo, ma anche dalla caduta delle due torri di New York, non sarà più colmata. Siamo arrivati a un tempo in cui fare domande, grandi domande, è più saggio che avere sempre delle risposte pronte. Forse in questa costante capacità di interrogare e di interrogarsi la religione e la spiritualità avrà una chance in più per dialogare con i contemporanei. Il lavoro di accordatura dei frammenti e dei tessuti sfilacciati, con soluzioni provvisorie e continui rifacimenti, è più efficace e ispira la vita, più che la proposta rigida di soluzioni preconfezionate e sacralizzate, sovente espresse in un linguaggio di élite. Il Dio dell’esodo e quello dei profeti, il Dio dei sapienti e quello degli oranti, è un Dio che di continuo rifà lo schema, cambia prospettiva, sorprende con nuovi incontri, nuovi sogni, fa «cose nuove» (Is 43,18s), in una parola. E alla fine della rivelazione, anche gli ultimi scritti ci ricordano che, alla chiusura della storia, ci saranno «cieli nuovi e terra nuova»; e non ci saranno più né strutture sacre (il tempio) né città murate (le strutture sociali), ma solo l’Agnello redentore e la «sposa bella» (Ap 21–22). Dovremmo tornare a questa esperienza di Dio, a questa «vita nello Spirito» che è creazione e profezia, vita e vento, fuoco e fonte, bellezza, canto, sogno.
11. La
coerenza creativa della memoria
Nella cena pasquale, al momento del distacco doloroso e sconcertante, Gesù rassicura i suoi discepoli nell’intimità del Cenacolo: non li lascerà soli, ma invierà lo Spirito di verità, che li accompagnerà nella fedeltà alla memoria e nella ricerca di una verità più ampia e senza incrinature (Gv 16,12-15). Questo Spirito esegeta della memoria, ma anche profeta di nuovi cammini, è lo stesso che sta al centro della «vita nello Spirito
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del Signore»; e richiama una prospettiva dinamica aperta, e non di pura manutenzione. Come non vederlo attivo nelle molteplici esperienze di «spiritualità narrativa»? Per intenderci, le proposte dei nuovi movimenti ecclesiali, centrati sulla spiritualità condivisa a partire dalla Parola, dalla liturgia, dalla comunione fraterna. E anche le nuove forme di comunità monastica, i molteplici centri e iniziative di incontro fra tradizioni religiose differenti, la varietà dei gruppi di terapia spirituale, le nuove esperienze di risveglio della coscienza femminile, della spiritualità ecologica, della religiosità popolare, della sensibilità artistica, ecc. Senza dimenticare infine questa fame della parola di Dio che si manifesta nella pioggia di iniziative che vanno sotto il nome di «lectio divina».26 C’è chi teme questo agitarsi dal basso, che fa vivere i grandi principi e li mette in feconda tensione con la prassi. Perché vi scorge anzitutto il rischio dell’estetizzazione del quotidiano, cioè dell’esibizionismo narcisista e del raccontare il proprio vissuto come se fosse una rappresentazione sacra. O perché lo colpisce una certa superbia religiosa ed ecclesiale, per la mancanza di dialogo e di collaborazione con altre esperienze e altri protagonismi. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che è proprio grazie a questi percorsi nuovi, a questi nuclei esploratori e minoranze cognitive, che le grandi scelte del concilio non sono rimaste quasi lettera morta, o comunque proposte fragili e confuse.27 Mi pare che in questa nuova stagione aggregativa la memoria non sia puro riporto statico e caotico, ma qualche cosa di ispirativo, e ripreso con una recezione selettiva. E la progettualità non è semplice e sconclusionata rottura degli schemi, ma laboratorio di nuova spiritualità, di nuova sintesi fra teologia e vita, fra prassi cristiana autentica e percorsi antropologico-culturali. A mio vedere non abbiamo in queste esperienze – almeno nelle migliori – una pura riformulazione terapeutica, per ricomporre esistenze sconnesse, ma senza progetti. Piuttosto è in gioco la creatività e il rischio; per tendere alla verità più ampia, sulle strade del futuro. Potremmo chiamare questo la coerenza creativa della memoria: perché non è semplice riporto di frammenti non più comprensibili e inutili. Non è mito del passato, sempre migliore del presente e del probabile futuro. I filosofi parlerebbero di «filtro creativo»:28 cioè di quella selezione che mira a cogliere nella memoria i semi di futuro non ancora sviluppati, le possibilità inedite e le intuizioni castrate sul nascere da circostanze e pregiudizi, ma ora recuperabili e coltivabili con maggiore humus recet-
26 Cf. il nostro inventario «Spiritualità: esperienza, cultura, comunicazione», in R. Fisichella (a cura di), Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 526-542; sulle nuove comunità monastiche in Italia: M. Torcivia, Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Piemme, Casale Monferrato 2001. 27 Per una chiarificazione su questo aspetto, rimando al mio libro I nuovi protagonisti. Movimenti, associazioni e gruppi nella Chiesa, Paoline, Cinisello Balsamo 1991. 28 Cf. A.G. Gargani, Il filtro creativo, Laterza, Roma-Bari 1999.
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Bruno Secondin
tivo. Mi riferisco alle promesse inadempiute del passato, di cui parla P. Ricoeur: Il passato, in realtà, non è solamente il compiuto, ciò che è avvenuto e non può essere cambiato: esso è vivo nella memoria grazie alle frecce di futuro non lanciate o la cui traiettoria è stata interrotta. Il futuro inadempiuto del passato rappresenta forse la parte più ricca di una tradizione. La liberazione di questo futuro inadempiuto del passato è il vantaggio maggiore che si può attendere dall’incrociarsi delle memorie e dello scambio di racconti.29
L’artefice più autentico di questa operazione – nella prospettiva cristiana – è, per affermazione dello stesso Signore, lo «Spirito di verità, che conduce alla verità tutta intera» (cf. Gv 16,13): egli disvela nella memoria la consistenza dei suoi contenuti e le frecce di direzione; ma anche apre nuovi orizzonti da frequentare e verso i quali incamminarsi con la bisaccia del pellegrino e il gesto largo del seminatore che getta il seme. Nessuno è propriamente un credente cristiano; finché non trova in Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto, la ragione e il contenuto del suo credere; finché non accetta di misurare la propria mentalità su quella di Gesù detto il Cristo; finché non ha imparato da Lui a conoscere chi è Dio e chi è l’uomo; non ha trovato «logico» costruire la propria vita come «memoria» della sua. Quando Gesù Cristo è talmente il punto di riferimento della vita di un uomo, allora quel credente si qualifica come cristiano.30
12. Cercare
altrove sempre
L’insuperabilità di Cristo nell’esperienza cristiana non va intesa come sguardo rivolto indietro, come memoria rivolta solo al passato. Deve anche essere memoria futuri,31 cioè proclamazione creatrice dell’attesa del ritorno escatologico del profeta messianico, amico dei poveri e maestro sovversivo di fronte alle tradizioni pigramente ripetute. In fondo la nostra «sequela» radicale e la nostra conformazione più accurata alla vita e alle ragioni di vita di Gesù di Nazaret non hanno altro scopo che seminare nei solchi della storia la speranza ultima e una fraternità universale. Quell’invito fatto ai discepoli di gettare le reti dove le acque sono più profonde, e ripetuto dal papa per i credenti di oggi – duc in altum –, più che annunciare una nuova stagione quasi parossistica di opere e attività apostoliche, è invito ad andare oltre l’emotività negativa, la delusione e la notte sprecata (cf. Lc 5,5). Per scandagliare sempre da capo le profondità dello smarrimento del cuore umano, e tirare a galla confusi e inde-
P. Ricoeur, La traduzione, una sfida etica, Morcelliana, Brescia 2001, 84. G. Moioli, Temi cristiani maggiori, Glossa, Milano 1992, 53. 31 Cf. i suggerimenti di C. Duquoc, Cristianesimo, memoria per il futuro, Queriniana, Brescia 2002. 29 30
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cifrabili timori, ma anche la generosità di «lasciare tutto» per seguire il Signore Gesù. Ma fermiamo un istante l’attenzione sulla gran quantità di pesci che non è stata raccolta da una barca sola. Si sono messe insieme le due barche, per non perdere tanta abbondanza (cf. Lc 5,7). Ma anche per capire meglio cosa poteva implicare quell’esperienza. E insieme poi lasciano tutto e seguono il Maestro. Perché anche per loro la verità di quel giorno è altrove. Lo stesso accadeva alla donna samaritana: abbandonò la brocca ormai inutile (cf. Gv 4,28)32 per correre in città. Ormai la sua sete di vita e verità era altrove. E diventò capace di far uscire tanta gente da quel villaggio: per conoscere insieme colui che l’aveva guarita negli affetti. E molti passarono da una curiosità religiosa a un’adesione a colui che «è veramente il Salvatore del mondo» (Gv 4,42). Se ci sarà ancora un futuro per la spiritualità – la bulimia del momento attuale non preconizza un buon futuro, quando verrà il tempo del rigetto – non potrà che essere: guarire le relazioni ferite, insegnare a rischiare di navigare in acque ampie e profonde, ritrovare la coerenza creatrice della memoria, indicare nuove ragioni di vita e stimolare il discernimento corale per cogliere gli «interstizi» della storia. Lo è sempre stata in fondo una sapienza orientatrice, suggerendo itinerari alla profondità più autentica. «Si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell’incarnazione e, in definitiva, con la stessa tensione escatologica del cristianesimo» (NMI 152). Se non vorrà ridursi – come talvolta accadde – a manutenzione di esigenze standardizzate e alienazione in un eone di vaghe emozioni e malate sensazioni, la spiritualità dovrà impegnarsi a indicare – al di là dei deserti e degli smarrimenti – anche nuovi orizzonti e stimolare a conoscerli per abitarvi.
32 Prende lo spunto da qui il commento di B. Maggioni, La brocca dimenticata. I dialoghi di Gesù nel Vangelo di Giovanni, Vita e Pensiero, Milano 1999, 47-64.
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Opere di storia dell’evangelizzazione
Maurizio Tagliaferri
Questa vuole essere una rassegna simbolica, un contributo della storia della Chiesa allo studio della teologia dell’evangelizzazione. Mi limito, a grandi linee, a indicare quelle che – a mio avviso – sono le tappe più significative di questa storia, i punti essenziali, e alcuni saggi recenti che illustrano le caratteristiche del fenomeno storico dell’evangelizzazione.
1. Tappe
significative per una storia dell ’ evangelizzazione
La storia dell’evangelizzazione cammina di pari passo con la storia della Chiesa. Questo non sfugge allo storico.1 Lo stesso concilio Vaticano II sembra averlo percepito con chiarezza là dove ricorda che l’evangelizzazione e le missioni hanno una loro storia, e che è fondamentale conoscerla.2 Per lo storico l’evangelizzazione è, essenzialmente, quell’attività svolta dai cristiani per diffondere il messaggio evangelico, conquistare alla fede e stabilire la Chiesa. All’evangelizzazione segue generalmente la fase della cristianizzazione, che consiste in un’ulteriore penetrazione del cristianesimo nelle coscienze individuali e nella vita sociale. Gli storici
1 Cf. K. Schäferdiek (a cura di), Kirchengeschichte als Missionsgeschichte, 2: Die Kirche des früheren Mittelalters, Kaiser, München 1978, I. Si veda pure U. Gianetto, «L’evangelizzazione nella storia della chiesa», in CredereOggi 62(1992)1, 5ss. 2 «È dunque indispensabile al futuro missionario attendere agli studi di missiologia […] sapere quali strade abbiano seguito, nel corso dei secoli, i messaggeri del vangelo» (decreto Ad gentes, n. 26: EV 1/1179; si veda pure decreto Optatam totius, n. 14: EV 1/800s).
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Maurizio Tagliaferri
oggi preferiscono tenere ben distinti il fenomeno dell’evangelizzazione da quello della cristianizzazione perché questi due momenti non sono legati a una progressione inarrestabile, ma al contrario sottomessi a ricominciamenti continui.3 Le tappe dell’avanzata dell’evangelizzazione cristiana a macchia d’olio, per contagio, o per osmosi nei secoli successivi all’epoca apostolica – nonostante il cristianesimo abbia incontrato ovunque forti opposizioni a livello cultuale e culturale –, danno l’impressione allo storico che i cristiani abbiano continuato a sentirsi – fino all’epoca costantiniana – tutti in «stato di missione». L’azione missionaria svolta dalla Chiesa romana tra il I e il IV secolo, come è noto, si è sviluppata lungo le grandi vie consolari, iniziando dalle città che, per la facilità di comunicazione con le altre località e per l’importanza politica, militare e commerciale, ben si prestavano a diventare il fulcro dell’irradiamento nei centri secondari. Gli studiosi da Adolf von Harnack a Gustave Bardy, da Arthur Darby Nock a Hans Kuhn, hanno ricostruito e interpretato il cammino di questa conversione al cristianesimo. Se l’Harnack aveva visto nell’ellenizzazione una grave corruzione dell’«essenza» del cristianesimo,4 per Bardy questo costituiva un passaggio positivo e la conversione non era filosofica, ma teologica: desiderio di verità, desiderio di liberazione e di salvezza, desiderio di santità erano le cause principali della conversione. Questa allora era accompagnata dalla rinuncia al passato, dall’adesione ai dogmi misteriosi, dallo sforzo verso la santità, dalla rottura dei legami famigliari, dalla rottura dei legami sociali.5 Se per A.D. Nock la conversione era un «riorientamento dell’anima di un individuo, il suo deliberato rivolgersi dall’indifferenza», da una precedente forma di pietà a un’altra e comportava consapevolezza del fatto, che il vecchio fosse sbagliato e il nuovo fosse giusto,6 per Hans Kuhn, che si è occupato negli anni ’60 della sopravvivenza del paganesimo germanico dopo il passaggio al cristiane-
3 In generale si veda: Storia della Chiesa, iniziata da A. Fliche – V. Martin, LICE, Torino 1972-1978, II-VII; Storia della Chiesa, diretta da H. Jedin, Jaca Book, Milano 21992-21995, I-IV; G. Penco, Storia della Chiesa in Italia, Jaca Book, Milano 1977, I; Gregorio Magno e il suo tempo, 2 voll., Augustinianum, Roma 1991; indispensabili risultano La conversione al cristianesimo nell’Europa dell’alto medioevo, Centro Italiano di Studi sull’Altomedioevo (d’ora in poi CISAM), Spoleto 1967; Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell’alto medioevo, 2 voll., CISAM, Spoleto 1982; Segni e riti nella Chiesa alto medievale, 2 voll., CISAM, Spoleto 1987. 4 A. von Harnack, Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, presentaz. di A. Agnoletto, introduz. di G. Borelli, Lionello Giordano, Cosenza 1986 (ed. tedesca 1902). 5 G. Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli, Jaca Book, Milano 1994 (4a rist.; ed. francese 1947). 6 A.D. Nock, La conversione. Società e religione nel mondo antico, introduz. di M. Mazza, Laterza, Roma-Bari 1985.
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Opere di storia dell’evangelizzazione
simo, la conversione consisteva nel battesimo, nella rinuncia aperta all’idolatria e in pochissimo altro.7 Raoul Manselli,8 Karl Baus, Hans Georg Beck, Eugen Ewig, Hermann Josef Vogt,9 Giovanni Tabacco,10 Christopher Dawson,11 Léopold Genicot,12 Jacques Le Goff,13 Paolo Siniscalco14 sono solo alcuni tra gli autori che si sono occupati dell’evangelizzazione dei popoli mediterranei e della cristianizzazione dei germani e degli slavi. I loro lavori fanno ancora scuola e sono ampiamente ripresi da tutti quelli che trattano di storia dell’evangelizzazione.15 Dopo l’editto di Milano, si ritiene che sia iniziata una nuova «politica dell’evangelizzazione». Il cristianesimo avrebbe cominciato a godere con Costanzo e Costante, figli di Costantino, e successivamente con Costanzo II, con Teodosio e Giustiniano, di particolari privilegi, divenendo così non più una delle tante religioni, ma la vera, l’unica: «Non solo professare una diversa religione, ma professare la stessa religione cristiana in forme diverse da quelle che professa la religione cattolica e apostolica è di per
H. Kuhn, «Das Fortleben des germanischen Heidentums nach der Christianisierung», in Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli, 743-757. 8 R. Manselli, «La conversione dei popoli germanici al cristianesimo», in Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli, 15-42; Id., «Resistenze dei culti antichi nella pratica religiosa dei laici nelle campagne», in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell’alto medioevo, I, 57-108. 9 K. Baus – H.G. Beck – E. Ewig – H.J. Vogt, «La Chiesa tra Oriente e Occidente. La Chiesa imperiale in Oriente – L’incontro della Chiesa con i Barbari – Il monachesimo latino (V-VII)», trad. it. di L. Tosti, nuova introduz. di E. Guerriero, in Storia della Chiesa, diretta da H. Jedin, III. 10 G. Tabacco, «L’evangelizzazione dell’Europa e lo sviluppo della potenza ecclesiastica», in La Storia: i grandi problemi. Il Medioevo, 1: I quadri generali, Utet, Torino 1988. 11 C. Dawson, Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale, introduz. di S. Carmo Feliciani, Rizzoli, Milano 1997. 12 L. Genicot, Profilo della civiltà medievale, Vita e Pensiero, Milano 1968. 13 J. Le Goff, La civiltà dell’occidente medievale, Einaudi, Torino 1981 (ed. francese 1961). 14 P. Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero romano, Laterza, Roma-Bari 1987. 15 Cf. ad es. G.D. Gordini, «Il Cristianesimo in Italia dagli inizi fino al principio del secolo VII», in J. Daniélou – H. Marrou, Nuova storia della Chiesa. Dalle origini a S. Gregorio Magno, Marietti, Torino 1989, I, 531-546. Non sono mancati tentativi di verifica di tali considerazioni attraverso l’analisi puntuale delle poche fonti rimaste. Oltre ai volumi dedicati alle storie delle diocesi italiane, meritano menzione alcune ricostruzioni che hanno provato una rilettura del fenomeno dell’evangelizzazione di alcune città, diocesi o regioni. Cf. A. Fatucchi, «Aspetti della cristianizzazione delle campagne della Tuscia nord-orientale», in Atti Mem. Acc. Petrarca 1(1988), 43-71; S. Sodi – M.L. Ceccarelli Lemut, «Per una riconsiderazione dell’evangelizzazione della Tuscia: la Chiesa pisana dalle origini all’età carolingia», in Rivista di Storia della Chiesa in Italia 50(1996)1, 9-56; G. Orioli, «Il cristianesimo a Norcia dalle origini fino al secolo VII», in Ravenna Studi e Ricerche 1(1994), 249-263; R. Budriesi, «Evangelizzazione e popoli. L’ultima stagione dell’antico: Val Bidente e altri luoghi», in Storia antica in Val Bidente: l’ultima stagione. Atti del Convegno di Studi (Galeata, 18 giugno 1994), Ravenna s.d. (ma 1995), 39-54; Id., «Culto e territorio. Nuovi problemi di archeologia cristiana nel faentino», in Studi Storici Faentini in memoria di Giuseppe Bertoni (estratto dal vol. XLVII[1997] della Deputazione di Storia patria per le province di Romagna), Bologna 1997, 57-120. 7
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sé un male sociale indipendentemente dalle sue manifestazioni».16 Era l’inizio dell’intolleranza.17 Con la trasmigrazione dei popoli germanici la Chiesa cattolica-romana si è trovata di fronte a una situazione completamente nuova, e perciò nella necessità di svolgere un’azione totalmente diversa. Il teatro della sua attività non è stata più l’area dell’antico impero greco-romano del Mediterraneo, ma quella dei nuovi popoli formatisi nel Centro Europa. La Chiesa non si è limitata a portare a questi popoli il senso di una salvezza di tipo trascendentale, ma ha svolto opera mediatrice facendo incontrare le tribù germaniche con una civiltà superiore. L’integrazione delle Chiese nel quadro delle rispettive nazioni avrebbe provocato quella che Le Goff chiama la «barbarizzazione» del cristianesimo. Cioè la crescente partecipazione della Chiesa alla violenza, lo sviluppo delle primitive forme di giustizia (ordalie) e di penitenza (penitenziali), la penetrazione di gusti e mentalità barbarici nell’arte e nella letteratura. Lo storico francese ritiene, pertanto, che la cristianizzazione di questi popoli sia stata «un insuccesso».18 Un capitolo complesso è quello relativo all’evangelizzazione cosiddetta «forzata»: quella legata ai tempi di Carlo Magno, quella intrapresa per convertire le popolazioni slave del mar Baltico tra il XII e il XVI secolo,19 quella che ha sorretto la «conquista» dell’America Latina,20 quella che ha accompagnato gli effimeri tentativi di evangelizzazione nei secoli XVII e XVIII lungo le coste occidentali e orientali dell’Africa, e quella che ha appoggiato i vari imperialismi europei.21 Il salto nell’epoca moderna della storia della Chiesa e la denuncia del mito di un medioevo integralmente e pacificamente cristiano, ha portato gli storici a interpretare ulteriormente il processo di cristianizzazione. Per Jean Delumeau la cristianizzazione nell’epoca moderna va intesa come
B. Biondi, Il diritto romano-cristiano, A. Giuffrè, Milano 1952, I, 254. Cf. F.E. Consolino (a cura di), Pagani e cristiani da Giuliano l’Apostata al sacco di Roma, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995; I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Bompiani, Milano 1995. 18 Cf. Le Goff, La civiltà dell’occidente medievale. 19 Cf. H. Trevor-Roper, L’ascesa dell’Europa cristiana, Rusconi, Milano 1994, 81-108. 20 La conquista è oggetto dell’attenzione più o meno distaccata delle indagini di G. Chaliand, Vincitori e vinti. La conquista spagnola dell’America, Einaudi, Torino 1992, costruite attraverso le testimonianze indiane e le cronache spagnole del tempo, e di V. Mattioli, Rilettura di una conquista, Marietti, Genova 1992, il quale ha privilegiato invece l’aspetto ideologico e giuridico del fenomeno, occupandosi soprattutto di verificare i modi e i tipi di legittimazione che i conquistatori seppero escogitare: tema questo che è stato per molti anni oggetto delle indagini di S. Zavala, di cui nel 1991 è uscita in edizione italiana (la prima edizione spagnola risale al 1947) la riflessione sulla cultura filosofica e teologica dei principali teorici dell’espansione coloniale spagnola: Il pensiero politico nella Conquista, Ponte alle Grazie, Firenze 1991. Tra le riproposte ricordiamo anche B. Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Cultura della Pace, Firenze 1991. 21 In questo caso anche le Chiese protestanti hanno conosciuto una nuova stagione missionaria: cf. in particolare J. Metzler (a cura di), «Dalle Missioni alle Chiese locali, 18461965», in Storia della Chiesa, iniziata da A. Fliche – V. Martin, XXIV. 16 17
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lotta organizzata e guidata dall’alto «contro la mentalità pagana» ancora sopravvivente, ma anche come «fautrice di un conformismo della pratica nell’età barocca»; ad essa si oppone la decristianizzazione come rottura, per il maggiore dinamismo sociale del Settecento, il conformismo comportamentale barocco e la liberazione delle isole di religiosità più autentica, laica ed ecclesiastica, che supererà il nuovo conformismo irreligioso delle fasi più acute della rivoluzione francese: «Il cattolicesimo uscì dalla prova [rivoluzione francese] quantitativamente diminuito, ma qualitativamente purificato […] cristianizzazione e scristianizzazione hanno progredito di pari passo: cristianizzazione di una minoranza e scristianizzazione di una maggioranza».22 Dopo la Rivoluzione la decristianizzazione appare a qualche storico come il prodotto degli inurbamenti forzati nell’Ottocento industriale e come effetto ultimo della vittoria politico-economica della rivoluzione borghese. Processo di secolarizzazione e scristianizzazione che la Chiesa ha tentato di frenare con l’azione capillare delle missioni popolari e della predicazione straordinaria.23 Giuseppe Alberigo,24 Giovanni Miccoli,25 Guido Verucci,26 Pietro Scoppola27 e Daniele Menozzi28 hanno seguito questo ulteriore processo di secolarizzazione e scristianizzazione, inutilmente rallentato dal papato: ora opponendosi ad ogni tragico «divorzio» tra trono e altare, ora rivendicando un magistero esclusivo, ora condannando la rivoluzione francese e la conseguente distruzione dello Stato cristiano che toglieva alla Chiesa lo strumento per modellare il corpo sociale secondo le proprie norme, e apriva la strada, con l’affermazione delle libertà moderne, al dilagare di ogni genere di errori. Ancora ha annotato Miccoli – recensendo il libro di Menozzi:
22 J. Delumeau, Il cattolicesimo dal XVI al XVIlI secolo, ed. it. a cura di M. Bendiscioli, Mursia, Milano 1976, 225-287, qui 268; Id., Cristianità e cristianizzazione, Marietti, Genova 1983. Da ultimo si veda J. Delumeau – F. Bolgiani (a cura di), Storia vissuta del popolo cristiano, SEI, Torino 1985. 23 Cf. G. Martina – U. Dovere (a cura di), La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento tra Cinquecento e Settecento. Atti del X Convegno di Studio dell’Associazione italiana dei professori di Storia della Chiesa (Napoli, 6-9 settembre 1994), Dehoniane, Roma 1996. Si veda pure A. Gambasin, Religione e società dalle riforme napoleoniche all’età liberale. Clero, sinodi e laicato cattolico in Italia, Liviana, Padova 1974; X. Toscani, Il clero lombardo dall’Ancien Régime alla Restaurazione, Il Mulino, Bologna 1979; G. Martina, «Il clero italiano e la sua azione pastorale verso la metà dell’800», in R. Aubert, Storia della Chiesa, 2: Il pontificato di Pio IX, iniziata da A. Fliche – Y. Martin, XXI/2, 761-807. 24 G. Alberigo, Il cristianesimo in Italia, Laterza, Roma-Bari 1997. 25 G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-società nell’età contemporanea, Marietti, Casale Monferrato 1985. 26 G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1988. 27 P. Scoppola, La «nuova cristianità» perduta, Studium, Roma 1985. 28 D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Einaudi, Torino 1993; si veda pure Id., «Secolarizzazione, cristianità e regno sociale di Cristo», in Le Carte 2, Quattroventi, Urbino 1997, 3-36.
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Maurizio Tagliaferri Nel Natale 1942, al chiudersi di un anno tra i più foschi della seconda guerra mondiale, Pio XII, in un radiomessaggio rivolto all’umanità intera, tracciava le linee maestre per la costruzione di un «ordine interno degli Stati e dei popoli» tale da assicurare al mondo un futuro ordinato e pacifico. Proponendo la Chiesa e la sua suprema gerarchia quale maestra e guida per i governanti e le nazioni, egli si contrapponeva al «lungo processo di secolarizzazione del pensiero, del sentimento, dell’azione, che venne a staccare e sottrarre la città terrena dalla luce e dalla forza della città di Dio». Stava in tale processo infatti la radice delle sciagure che affliggevano la società. Portavoce, interprete e guida in terra della «città di Dio», Pio XII reclamava perciò la «restituzione» di un ruolo di suprema guida anche nei confronti della «città terrena» per poterne avviare la ricostruzione e garantirne la salvezza. Non erano un’analisi né una rivendicazione nuove. Da oltre un secolo il magistero di Roma e il pensiero politico cattolico le proponevano con varietà di sfumature e di accenti ma con una sostanziale unità di fondo. Il fatto che Pio XII le riproponesse come risposta e antidoto a una vicenda così sconvolgente quale fu la seconda guerra mondiale dà la misura dell’importanza che egli attribuiva loro e del consenso di cui godevano nel mondo ecclesiastico e nella cultura cattolica.29
Alla secolarizzazione e al disorientamento etico della società «post-cristiana» si è accompagnato un bisogno di sacro che oggi si esprime in forme di sincretismo religioso e in atteggiamenti spesso irrazionali. La stessa Chiesa cattolica sembrerebbe, dopo il concilio Vaticano II, non sottrarsi a questo processo.30 Oggi si parla di nuova evangelizzazione, e gli storici e i pastoralisti individuano le sue cause materiali nelle sfide del pluralismo, del secolarismo, dell’immanentismo, dell’ignoranza religiosa, e in una nuova domanda religiosa.31
29 «Recensione» di G. Miccoli al libro di Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, in L’Indice (1993)10. 30 F. Garelli, Forza della religione e debolezza della fede, Il Mulino, Bologna 1996. Ancora molto significativo G. Alberigo – J.P. Jossua (a cura di), Il Vaticano II e la Chiesa, Brescia 1985. 31 Cf. la breve rassegna bibliografica sulla nuova evangelizzazione compilata da L. Soravito, «Invito alla lettura», in CredereOggi 67(1997)1, 105-110. Esiste invece una segnalazione bibliografica più ampia, in chiave teologica, di M. Fini, «Nuova evangelizzazione 1979-1993. Annunciare il Vangelo nel compimento del Moderno», in Il Regno-att (1993)2, 44-55. Fini ricostruisce in forma sintetica e unitaria l’intero percorso teorico e pratico della nuova evangelizzazione attraverso quattro tappe: a) il rinnovamento conciliare e il successivo magistero sinodale ed episcopale; b) il ruolo dell’ecumenismo nell’identificare le modalità della testimonianza ecclesiale oggi; c) la riflessione che singoli, gruppi e Chiese hanno sviluppato; d) per arrivare infine a identificare le maggiori problematiche teologiche e pastorali ancora aperte. In pratica in quindici anni l’intuizione «nuova evangelizzazione» si candida a diventare progetto pastorale organico: «La nuova evangelizzazione sta diventando la sigla sintetica dell’urgente rinnovamento dell’annuncio cristiano dopo la stagione della modernità, del marxismo e del razionalismo. Proposta come intuizione da Giovanni Paolo II alla fine degli anni ’70 nel contesto europeo e latinoamericano, è via via cresciuta nel magistero, nella riflessione teologica e nella prassi pastorale, imponendosi all’attenzione delle comunità» (ivi, 44). Si veda, da ultimo, G. Colombo, «L’evangelizzazione. Dalla “Gaudium et spes” alla “nuova evangelizzazione”», in C. Ghidelli (a cura di), A trent’anni
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Opere di storia dell’evangelizzazione
2. Dall’evangelizzazione dei popoli del M editerraneo alla cristianizzazione dei germani e degli slavi
Anche i più recenti manuali di storia della Chiesa e del cristianesimo hanno contributi specifici su questa fase dell’evangelizzazione. Jean Guyon nel suo saggio definisce missionaria l’opera di cristianizzazione dei primi secoli in Italia. L’autore, senza portare grosse novità, illustra sinteticamente le difficoltà e i progressi del cristianesimo nelle principali città italiane, con particolare attenzione a Roma; muovendo dal celebre passo di Svetonio, Guyon porta la sua ricerca fino alla diffusione del monachesimo tra il V e VI secolo.32 Giovanni Tabacco dedica un articolato saggio ai «processi di cristianizzazione» nell’alto medioevo latino dal V secolo al XII secolo.33 «Le conversioni al monoteismo salvifico» furono travagliate e superficiali. L’adesione al monoteismo cristiano, spesso nella forma arianeggiante diffusa nel mondo germanico, ha conservato a lungo forti residui di culto idolatrico. La conversione delle popolazioni slave fu agevolata dalla concezione che avevano della divinità «quale forza incombente e garanzia di vittoria» (p. 15). Tabacco insiste sul fatto che nella «transizione al medioevo» occorra «distinguere» tra la profonda diversità di livello culturale che il pensiero cristiano è riuscito a mantenere nel mondo italiano e iberico, grazie anche a figure come Gregorio Magno († 604) e Isidoro di Siviglia († 636), e il desolante quadro di decadenza in Gallia. Così «la cristianizzazione dei Franchi significò dunque essenzialmente, in una prima fase, sottomissione a una gerarchia di prepotenze temporali ed ecclesiastiche e all’onnipotenza del Dio predicato dai vescovi» (p. 7). E successivamente a promuovere e ad accelerare il processo valse una predicazione di carattere assai elementare, imperniata sulla denuncia dell’impotenza e della falsità delle divinità germaniche e sostenuta dalla violenza con cui i missionari, protetti dal potere pubblico, si scagliavano contro gli oggetti e i luoghi del culto politeistico a dimostrazione della loro inanità (p. 8).
Un certo tipo di storiografia si è occupata del livello e dei limiti dell’evangelizzazione al momento in cui l’impero romano entrava in crisi e le popolazioni germaniche prendevano il sopravvento, si è pure interessa-
dal Concilio. Memoria e profezia, Studium, Roma 1995, 329-345; Id., Sulla evangelizzazione, Glossa, Milano 1997. 32 J. Guyon, «I primi secoli della missione cristiana in Italia», in A. Vauchez (a cura di), Storia dell’Italia religiosa, 1: L’antichità e il medioevo, Laterza, Roma-Bari 1993, 79-110. 33 G. Tabacco, «Il cristianesimo latino altomedievale», in G. Filoramo – D. Menozzi (a cura di), Storia del cristianesimo. Il medioevo, Laterza, Roma-Bari 1997, 6-106, in particolare 7-35.
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ta delle resistenze e sopravvivenze pagane e della progressiva perdita di identità cristiana nel passaggio tra ellenizzazione e germanizzazione, dando l’impressione che la cristianizzazione non abbia avuto una sua storia nel medioevo italiano, ma piuttosto si sia trattato della permanenza di lunga durata di una situazione creatasi nei secoli precedenti dell’impero romano, con una serie di difficoltà e avvicinamenti alterni di elementi pagani e cristiani.34 Da questa linea ci sembra si discosti un recente saggio di Robert A. Markus,35 insigne storico inglese. Markus esamina come i cristiani, da minoranza minacciata e assediata, siano giunti tra il IV e il VI secolo a definire la propria identità «in un mutato contesto di rispettabilità religiosa, dove la loro fede era divenuta una fonte di privilegi, prestigio e potere». Lo storico inglese individua nel culto dei martiri, nella creazione di schemi di tempo sacro e di spazio sacro, nel richiamo esercitato dall’ascetismo sulla Chiesa in generale, gli elementi che hanno favorito una transizione fondamentale, il passaggio da forme di cristianità antica a quelle della cristianità medievale, un mutamento che ha comportato il passaggio «da una cultura laica più antica e più varia» a una «cultura religiosa che poggia su di una solida base biblica». Un elemento importante in questo mutamento storico riguarda proprio il processo di crisi delle istituzioni laiche romane, con conseguente impoverimento del «profano», cioè di quel «settore della vita che non si considera essere di diretto significato religioso» (p. 32). È come se si assistesse a un fenomeno di desecolarizzazione. Per Markus questo non è semplicemente il graduale collasso della cultura e delle istituzioni «laiche», e non è neppure, come spesso lo si è fatto apparire, la «cristianizzazione», che mano a mano diventa più estesa e approfondita, della società e della cultura romana. Insieme a questo c’era qualcos’altro, un mutamento nella natura della cristianità medesima: una riduzione nella sfera che la cristianità o, più precisamente, i suoi funzionari e i rappresentanti del clero colto accordavano al «profano» (p. 33). Un ulteriore tentativo di ricerca innovativa del fenomeno della cristianizzazione dell’Italia nel medioevo è stato compiuto da Marina Montesano.36 Come osserva Agostino Paravicini Bagliani nella prefazione a questo lavoro, l’autrice ha tenuto conto delle «nuove metodologie, prese in prestito dagli storici agli studiosi del folklore, dell’antropologia culturale, dell’etnologia e così via» (p. VII). La sintesi della Montesano, in realtà, ripercorre le tappe e le vicende fondamentali della cristianizzazione dell’Italia, senza grandi confronti dialettici tra la storia e l’etno-antropologia,
34 Cf. R. Manselli, «La conversione dei popoli germanici al cristianesimo», in La conversione al cristianesimo nell’Europa dell’alto medioevo, 15-42; Id., «Resistenze dei culti antichi nella pratica religiosa dei laici nelle campagne», in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica nelle campagne dell’alto medioevo, I, 57-108. 35 R.A. Markus, La fine della cristianità antica, Borla, Roma 1996 (ed. inglese 1990). 36 M. Montesano, La cristianizzazione dell’Italia nel Medioevo, presentaz. di A. Paravicini Bagliani, Laterza, Roma-Bari 1997.
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e senza troppi scavi intorno alle tante problematiche più dibattute. L’autrice tiene ben distinti il fenomeno dell’evangelizzazione da quello della cristianizzazione, sottolineando come la progressiva affermazione della Chiesa istituzionale abbia raramente coinciso con la reale evangelizzazione della società cui il messaggio cristiano era rivolto. «Dallo scontro con la tradizione religiosa di Roma la nuova fede uscì definitivamente vittoriosa verso la fine del IV secolo» (pp. 15-16). Tuttavia la piena evangelizzazione ha dovuto superare altri ostacoli: «Il sincretismo pagano aveva condotto a una localizzazione dei culti, che si erano profondamente radicati nelle province dell’impero, sovrapponendosi e mischiandosi alle tradizioni precedenti» (p. 16). In pratica nelle campagne, al di fuori delle città, il cristianesimo penetrava a fatica, specialmente nei luoghi dove si conservava memoria di culti e tradizioni pagani. Del resto «la religiosità delle regioni marginali si radicava sui luoghi fisici (monti, foreste, sorgenti, fiumi, confini e così via) e sui ritmi tradizionali (la nascita, la morte, le nozze, il raccolto) con i quali si viveva a stretto contatto e da cui sovente si dipendeva» (p. 16). La Montesano sinteticamente riporta i dati essenziali relativi alla prima evangelizzazione nelle varie regioni italiane (pp. 20-30) e giunge alla conclusione – condivisa da tutti – che «l’evangelizzazione dei centri urbani, o quanto meno l’adesione formale alla nuova fede poté dirsi completata in Italia solo alla fine del V secolo» (p. 38). Un’evangelizzazione che «deve molto ai semplici eremiti che si aggiravano in zone remote, inaccessibili ai vescovi e ai loro missionari» (p. 45). Grande rilievo è dato dall’autrice alle diversità degli strumenti culturali adoperati dalla Chiesa nel suo rapporto delicato tra dottrina ufficiale e religiosità non «acculturata». Per tutto il medioevo persistono sopravvivenze di tipo popolare del retaggio pagano italico e greco-romano: anche in presenza di un’azione pastorale efficace, l’evangelizzazione non avrebbe contrastato davvero le credenze precristiane, anzi avrebbe favorito una loro sincresi con i nuovi culti, in particolare con quello dei santi. Nell’alto medioevo primeggia la figura di papa Gregorio Magno. I suoi scritti «testimoniano la sua preoccupazione per le carenze nell’evangelizzazione delle regioni d’Italia; il suo approccio nei confronti delle “sopravvivenze” materiali o mentali del paganesimo è sempre diretto e teso alla netta affermazione del cristianesimo, priva ormai di timori reverenziali verso le reliquie del passato» (p. 59). Se Gregorio aveva consigliato al missionario Mellito, inviato in Anglia, un approccio «morbido» e ri-cristianizzante dei luoghi di culto pagani, «in Italia, dove i residui pagani dovevano apparire uno scandalo, Gregorio non poteva che aderire alle gesta di san Benedetto da Norcia, che aveva fondato il celebre monastero sul monte Cassino distruggendo le vestigia dei templi pagani» (ib.). Si ha quasi l’impressione che per l’autrice il processo di cristianizzazione sia una questione di accorpamento di luoghi di culto, di usi e costumi. L’età carolingia e l’epoca ottoniana portarono avanti «l’opera di protezione e di dilatazione della cristianità», attraverso la conquista militare e l’opera di cristianizzazione (pp. 69 e 74). Fra il X e l’XI secolo «la grande importanza assunta dall’ordine benedettino e
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dai benedettini riformati della congregazione cluniacense fece sì che essi promuovessero un’importante opera di inquadramento religioso nei confronti delle popolazioni rurali» (p. 77). Il cattolicesimo consentiva, per la Montesano, di conservare molte delle pratiche e delle tradizioni locali avviando con esse un processo di reciproca acculturazione, mentre di fatto la diffusione della prassi riformatrice successiva al Mille, segnata da una ricerca più forte della purezza evangelica, portava a uno scontro netto con la cultura tradizionale. Nei sermoni dei vescovi tra il X e l’XI secolo ricorrono condanne di pratiche «magico-superstiziose». Ora la sopravvivenza di credenze e costumi superstiziosi (festeggiamenti «pagani» in occasione della festa di san Giovanni, tempestarii, pratica delle lamentazioni funebri, ecc.) non andrebbe ricondotta a una predicazione negligente e carente, ma – secondo la Montesano – a un sincretismo piuttosto evidente, «segno che l’evangelizzazione aveva condotto non all’estirpazione delle credenze precristiane, ma a una loro sincresi con i nuovi culti, in particolare con quello dei santi: l’osservanza di particolari usi legati alle feste pagane si integrava oramai nel calendario pagano» (p. 78). Uno dei nodi centrali del confronto storico fra cristianizzazione e acculturazione è per la Montesano quello dei temi legati alle pratiche di tipo magico-superstizioso di cui già gli autori antichi avevano fornito – spesso con intento critico – numerose notizie. E questo in relazione alla «rinnovata cura per la pastorale». Infatti «la predicazione dei secoli XI e XII, da una parte troppo coinvolta nelle vicende della riforma “gregoriana” e poi nella lotta antiereticale, dall’altra sovente mutuata dai modelli carolingi, non aveva presentato sotto questo profilo motivi di particolare interesse» (p. 102). A partire dal XIII secolo e soprattutto nel secolo successivo si sarebbero affermate forme di «pensiero magico» colte, legate alla riscoperta di testi greco-latini, talvolta circolati in traduzioni arabe ed ebraiche, che riconsegnavano all’Occidente un sistema di conoscenze e concezioni proprie del mondo antico. Ciò che colpisce è che non si tratta più di superstitiones circoscritte a pratiche e credenze popolari, come quelle denunciate nei secoli precedenti, ma di una magia dotta, di un insieme sapienziale che in parte sembra contrapporsi in modo organico al dettato cristiano (cf. p. 104). Dal Duecento in poi la Chiesa, per la sua opera di cristianizzazione, ha potuto utilizzare un’intera classe di intellettuali nuovi – i grandi scolastici, gli ordini mendicanti, ecc. – per tentare di combattere e sradicare, ancor più sistematicamente di prima, ciò che non poteva essere accolto come cristiano, perché eretico. Soprattutto la Legenda aurea (1260) del domenicano Jacopo da Varazze «è il testo che meglio esemplifica il sorgere di questi timori in seno alla cultura ecclesiastica» (p. 104). Nel Trecento papa Giovanni XXII «equiparò definitivamente all’eresia le pratiche o le credenze magiche, consentendo a queste ultime le normali procedure inquisitoriali» (p. 103). Nella seconda metà del Trecento il problema della magia malefica trovava una completa sistemazione giuridica, che culminava nella configurazione della stregoneria come nuovo crimine. In questo senso Zanchino
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Ugolini, un giurista che aveva lavorato a lungo in Romagna nella prima metà del Trecento, verso il 1330 dedicava un capitolo del suo trattato Super materia haereticorum a «divinatores, incantatores et similes», giungendo alla conclusione, annota la Montesano, che si poteva legittimamente considerare come eretico e trattare alla stregua di eretico chiunque mostrasse noncuranza o disprezzo per la Chiesa e i suoi insegnamenti, e cioè non solo i «maghi», ma anche gli scismatici, gli ebrei e gli infedeli; tuttavia, anche lui finiva col riconoscere un vero carattere di eresia soltanto a divinazione e riti demonolatrici esplicitamente riconoscibili come tali pur sottomettendo i singoli giudizi alla discrezionalità del giudicante (p. 112).
Ma era soprattutto l’aiuto dell’osservanza francescana, e in particolare di san Bernardino da Siena, nella definizione di uno statuto della figura della strega, a fornire «un contributo essenziale alla definizione del problema magico» (cf. pp. 115-117), anche se – ritiene la Montesano – in Italia il fenomeno della caccia alle streghe presenta tendenze meno radicali rispetto al resto dell’Europa continentale. Il saggio della Montesano si chiude con una riflessione sulle età della Riforma e Controriforma. Per l’autrice in Italia, all’epoca della Controriforma e del concilio di Trento, il cattolicesimo avrebbe saputo «serbare molte delle tradizioni locali, magari in una sincretica simbiosi con le pratiche cristiane». Tale flessibilità, che «aveva da sempre caratterizzato la storia cattolica, e che certo era stata spesso anche causa di rilassamento morale e spirituale, poteva favorire un approccio morbido all’alterità» (p. 145). In questo senso si dovrebbe reinterpretare l’intera storia della Controriforma, che per la Montesano non può essere «niente più che una “restaurazione”» (p. 144), ossia un’opera essenzialmente di «repressione di ogni forma di non-conformismo» (ib.). Di contro, «lo zelo dei riformatori protestanti, la ricerca di purezza evangelica di cui si credevano unici depositari, non potevano che portare a una cancellazione ben più sistematica e brutale di tale patrimonio» folkloristico europeo (p. 145).
3. L’evangelizzazione
nel continente americano
Un’ampia rassegna della quantità di opere apparse in occasione delle celebrazioni colombiane è stata curata da Manlio Bonati nei fascicoli 5865 di Trekking e da vari autori ne L’Indice del 1993, n. 9. In generale nel panorama editoriale sembra ci siano state poche novità: «Le iniziative editoriali non hanno saputo – anzi spesso non hanno voluto – evitare un’impostazione stucchevolmente apologetica o di preconcetto rifiuto di quelle vicende e dei loro protagonisti, con cedimenti al sensazionalismo».37
F. Surdich, «Scoprire l’America. Centenario variopinto», in L’Indice (1993)9, 18.
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Tra i contributi più significativi, relativi alla storia dell’evangelizzazione del Nuovo mondo, si vedano in particolare i lavori coordinati da Enrique Dussel38 e le riflessioni di Leonard Boff.39 Il loro ampio lavoro potrebbe essere sintetizzato in questi termini: Lo sbarco di Cristoforo Colombo in America poneva, sotto il profilo religioso, interrogativi fondamentali relativi alla natura di quella grande moltitudine di indios. Con tali premesse fu avviata l’opera di evangelizzazione che si sovrappose inevitabilmente a quella di colonizzazione, da cui fu condizionata e vincolata. Proprio a causa della contraddizione tra l’annuncio del vangelo e il comportamento dei cristiani, sì alzò la protesta di tanti evangelizzatori come Bartolomé de Las Casas contro coloro che negavano la piena natura umana degli indios e propugnavano una conversione operata con la forza.40
Il tentativo più recente di sintesi organica è rappresentato dall’intervento di Francesca Cantù all’XI Convegno di studio dell’Associazione italiana dei professori di storia della Chiesa (Roma, 2-5 settembre 1997),41 con una relazione dal titolo: Problemi e conclusioni delle recenti discussioni su scoperta, colonizzazione ed evangelizzazione dell’America. La relatrice ha messo l’accento dapprima sull’influenza della scoperta dell’America sulla «coscienza europea», in particolare per quello che ha significato la revisione dei saperi e delle metodologie conoscitive, la novità, la diversità, l’alterità del Nuovo mondo, e la stessa comunicazione nell’incontro tra i due mondi: dai segni alle immaginazioni simboliche, al linguaggio (orale e scritto). La scoperta del Nuovo mondo ha avuto, anche, un’influenza sulla formazione di una «coscienza americana»: attraverso il suo «dire il senso della storia» dal «rovescio della storia», cioè mediante le fonti indigene e la loro interpretazione. Per quel che riguarda la «colonizzazione», in questi ultimi anni la storiografia ha fatto il processo storico alla conquista, o meglio «al conquistatore» spagnolo o portoghese, cioè alla sua identità, ai ruoli e alla mentalità da questi trapiantati nel Nuovo mondo, alle nuove istituzioni e alla nuova organizzazione dello Stato. Dalla conquista è certamente venuta la mutazione dell’ecosistema naturale e dell’ecosistema umano americano. L’ultimo aspetto, sviluppato nella relazione della Cantù, è stato quello dell’evangelizzazione con tutte le sue sfumature e i suoi risvolti, dal contesto storico della Chiesa evangelizzatrice agli agenti dell’evangelizzazione (specialmente gli ordini religiosi: domenicani, francescani, gesuiti); dal volto istituzionale della Chiesa americana fino ai primi tentativi di sintesi organiche, cioè alle più recenti «storie» della Chiesa latinoamericana con le nuove (dopo Manila) inter-
38 E. Dussel et al., La Chiesa in America Latina: 1492-1992 (il rovescio della storia), Cittadella, Assisi 1992. 39 L. Boff, 500 anni di evangelizzazione. Dalla conquista spirituale alla liberazione integrale, Cittadella, Assisi 1992. 40 F. Cantù – M. Simone, «La prima evangelizzazione in America Latina», in La Civiltà Cattolica (1992)2, 365-377, qui 365. 41 Atti in attesa di pubblicazione.
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pretazioni delle radici fondanti della prima evangelizzazione. Ebbene, la Cantù, attraverso l’analisi storica delle comunità cristiane organizzate dal vescovo Quiroga, del modello di «Chiesa indiana» formulato dai francescani in Messico, dell’evangelizzazione pacifica promossa da Bartolomé de Las Casas in Centro America, delle reducciones dei gesuiti tra Brasile e Paraguay, ha colto il segno e il senso di una testimonianza cristiana che ha vissuto l’annuncio evangelico combattendo contro l’ingiustizia instaurata nei fatti dal sistema di dominio e di sfruttamento coloniale. È stata individuata così un’efficace linea di «utopia» cristiana, intesa come «l’irruzione nel mondo concreto della storia della forza critica e progettuale del Vangelo».42 Ovviamente restano ancora vasti settori da approfondire e studiare: dalle relazioni dei missionari all’azione evangelizzatrice e civilizzatrice, dall’inculturazione a un tentativo di giudizio storico sulla teologia della liberazione.43 Naturalmente non sono mancate le polemiche. Dall’ipotesi di un processo di beatificazione di Isabella di Castiglia muovono Anna Borioni e Massimo Pieri per stigmatizzare un’evangelizzazione realizzata con lo spirito e i metodi della lotta contro eretici, ebrei e musulmani. E allora la «scoperta» dell’America – come impropriamente si continua a dire – avvenne in un periodo in cui l’Inquisizione diventava il principale strumento di diritto e di governo delle nazioni cattoliche. La colpa ritenuta più grave, in quegli anni, era l’eresia, cioè l’espansione della diversità e del dissenso dalla dottrina cristiana: un’opinione che veniva punita col rogo. E fu proprio il Paese dove il delirio contro gli infedeli avrebbe raggiunto le punte più acute, la Spagna dei re cattolici, a incontrare ed evangelizzare l’America. Le conseguenze – per i due autori – sono note: genocidio delle popolazioni native, annientamento di culture millenarie, distruzione di ambienti e natura, depredazione di risorse e ricchezze, schiavitù di massa. Meno noto è forse il fatto che il modello ispiratore con cui i cristiani si proposero di conquistare gli indiani era stato sperimentato e collaudato nella madrepatria. Appena sei mesi prima della partenza delle navi di Colombo, il 31 marzo 1492 i re cattolici cancellavano violentemente, con un editto di espulsione, i resti della più importante comunità ebraica del mondo, dopo anni di feroci persecuzioni, conversioni forzate, autodafé, processi sommari, roghi e assassinii di centinaia di migliaia di persone: nel nome della Santa Fede Cattolica.44 Da ultimo resta emblematico l’atteggiamento di Giovanni Paolo II. In una lettera indirizzata all’arcivescovo di Genova (24 giugno 1992) in oc-
42 M. Tagliaferri, «Storiografia: metodi e percorsi», in Settimana, n. 34 (28 settembre 1997), 5. 43 G. Martina, «Nuove prospettive della storiografia ecclesiastica (cronaca del convegno di Roma)», in Notiziario dell’Associazione italiana dei professori di storia della Chiesa 26(1998), 7. 44 Cf. A. Borioni – M. Pieri, Maledetta Isabella, maledetto Colombo. Gli ebrei, gli indiani, l’evangelizzazione come sterminio, Marsilio, Venezia 1991.
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casione delle celebrazioni colombiane, oltre a parlare dell’ispirazione di fede che aveva animato l’impresa di Colombo, ricordava l’«opera svolta con generoso impegno dai missionari, ai quali spetta il merito di avere anche saputo raccogliere con amore le testimonianze culturali e antiche degli indigeni, mitigare gli eccessi dei conquistatori, lottare perché diventasse effettivo il rispetto delle popolazioni locali». Tuttavia, qualche mese dopo, durante il suo viaggio a Santo Domingo, il pontefice ammetteva: «Si deve fare una confessione dei peccati di cinque secoli fa». E al rientro in Vaticano addirittura parlava di quel pellegrinaggio in America Latina come «atto di espiazione» nei confronti degli indiani d’America, e di «colpe dei missionari».45
4. Il
di
tentativo di sintesi Comby
Un tentativo di sintesi storica dei duemila anni di evangelizzazione e cristianizzazione è stato compiuto, in questi ultimi anni, da Jean Comby, professore presso la Facoltà di Teologia cattolica a Lione.46 Il risultato è quello di un volume denso di notizie. Una storia dello sviluppo dell’evangelizzazione lungo i secoli, con un’attenzione specifica ai diversi momenti e stili di evangelizzazione che si sono succeduti nel tempo, in corrispondenza alle sfide presentate all’annuncio cristiano da parte delle situazioni e delle culture. Il lavoro di Comby utilizza una vasta bibliografia, soprattutto francese. L’autore costruisce il suo saggio utilizzando le voci di enciclopedia relative alla storia delle missioni, le opere generali di storia della Chiesa, le guide di missionologia, le raccolte di documenti ufficiali sulle missioni, e gli studi che propongono le problematiche dell’evangelizzazione e dell’incontro fra le culture. Ciascun capitolo (dieci in tutto) termina sempre con una rassegna di documenti. Ogni epoca – leggiamo nella premessa – ha la sua caratterizzazione nella metodologia per l’espansione della fede: dalla prima evangelizzazione degli apostoli e dei loro successori e dalla testimonianza efficace dei cristiani all’espansione «per sconfinamento», quasi per osmosi, da un
45 L. Accattoli, Quando il Papa chiede perdono. Tutti i mea culpa di Giovanni Paolo II, Leonardo, Milano 1997, 126-131. 46 J. Comby, Duemila anni di evangelizzazione. Storia dell’espansione cristiana, SEI, Torino 1992 (ed. francese 1992). Sono messe in evidenza varie tappe: il mondo antico (secc. I-V); la nascita dell’Europa cristiana (secc. V-XI); il tempo della cristianità medievale (secc. XI-XIV); l’età moderna (secc. XV-XVIII); il secolo della Rivoluzione e della Restaurazione (secc. XVIII-XIX); l’epoca della colonizzazione (secc. XIX-XX); l’ultimo nostro mezzo secolo, con la fine della colonizzazione e l’accesso all’indipendenza degli Stati, vede cominciare una tappa nuova dell’evangelizzazione. Quello di Comby non è l’unico tentativo di sintesi, è di questi giorni il saggio di L. Tescaroli, Evangelizzare o rievangelizzare oggi? Storia dell’evangelizzazione, Coletti, Roma 1998.
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Paese già cristiano a uno vicino o a un popolo occupante ancora pagano. Il cristianesimo viene predicato «in molte maniere» soprattutto «da persone che non necessariamente fanno parte del clero né sono “missionari” professionisti». Il loro messaggio finisce con l’impregnare «le culture, le antiche tradizioni religiose e il mondo politico». Il vero «tempo delle missioni» comincia nel 1200 e ha il suo culmine nel 1500. Questa nuova stagione si deve all’intensa attività di singole personalità, specialmente dopo l’avvento degli ordini mendicanti: «La cristianità si lancia alla conquista del mondo». Con la scoperta e la conquista dell’America e la penetrazione delle grandi potenze all’interno dell’Asia e dell’Africa, si ha la grande partenza missionaria organizzata verso le nuove terre, con le grosse problematiche della violenza conquistatrice, la pressione coattiva verso il battesimo, la tratta dei negri, l’aiuto, ma anche le soffocanti pretese, delle potenze occupanti. Ora la fede si trasmette ai Paesi lontani per ricavarne «vantaggi economici e politici». In questo tempo «l’evangelizzazione diventa la “missione”, con i suoi specialisti, i “missionari”, inviati dai superiori di congregazioni e di ordini che ne hanno ricevuto mandato». Ma allo stesso tempo, come negli anni dell’espansione carolingia, la missione «ha bisogno dell’appoggio dei poteri politici e dell’aiuto finanziario degli Stati e delle vecchie Chiese europee». Con l’epoca moderna nasce una maggiore sensibilità verso le altre culture (questione dei riti cinesi e malabarici) e, a mano a mano, l’evoluzione verso un’azione maggiormente inculturata. Nonostante la nascita del romanticismo missionario alimentato da Il genio del cristianesimo di Chateaubriand, le missioni cattoliche conservano un forte spirito concorrenziale nei confronti del protestantesimo: «La vista degli incredibili sforzi degli eretici per la propagazione dei loro errori non animerà i cattolici di generosa emulazione? Speriamo che lo zelo dei figli della luce divenga ardente come quello dei figli delle tenebre».47 Questo linguaggio è sopravvissuto fin nel XX secolo. Nella prima metà del nostro secolo, in periodo ancora di dominante colonialismo, la coscienza missionaria mirava all’implantazione delle Chiese indigene, secondo l’enciclica Maximum illud di Benedetto XV. Il supporto teologico, che alimentava localmente le vocazioni missionarie, in prevalenza sacerdotali, era dato dalla presa di coscienza dell’altro, marcata dall’ansia di aprire le frontiere nazionali alla buona novella. In una successiva fase evolutiva della coscienza missionaria, nel periodo post-coloniale, su indicazione dell’enciclica Evangelii praecones di Pio XII, si chiariva la natura «soprannazionale» della Chiesa. Finché la teologia conciliare, preparata nello specifico dalla Fidei donum di papa Pacelli e dalla Princeps pastorum di papa Roncalli, favoriva un ulteriore passaggio collegando la parrocchia diocesana con le Chiese locali d’oltre confine. E maturava, così, nelle coscienze il principio del decreto Ad gentes, secondo cui «la Chiesa
47 Annales (dell’Associazione per la propagazione della fede) III(1828)13, cit. da Comby, Duemila anni di evangelizzazione, 242.
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che vive nel tempo di natura sua è missionaria» e insieme capace di un dialogo sincero e rispettoso.48
5. Osservazioni
conclusive
È evidente che la conoscenza di un passato così ricco e variegato, a volte così greve di distruzioni e lacerazioni, di odii e intolleranze, può costituire un importante contributo alla cultura e teologia dell’evangelizzazione. Innanzitutto, la conoscenza della storia dell’evangelizzazione può aiutare a sviluppare una capacità di autocritica sicuramente benefica; in secondo luogo, può infondere coraggio e sostenere l’evangelizzatore nei momenti difficili; ma soprattutto la storia dell’evangelizzazione può essere un giacimento di risorse e di idee per individuare metodi e stili di nuova evangelizzazione. A nessuno, infatti, sfugge che, nel ricco contesto storico dell’evangelizzazione, si trovano anche strategie e metodi che non sono per niente invecchiati. L’evangelizzazione è parte integrante della Chiesa, possiede un orizzonte non solo storico, pastorale, liturgico, ma anche teologico, è in se stessa un fare teologia. Oggi – si dice – il cristianesimo deve fare i conti con le religioni. I cristiani sono tornati a essere un po’ minoranza, se non minacciata certamente assediata. Oggi essere cristiani non è più fonte di privilegi, prestigio e potere. Ma soprattutto, oggi i cristiani devono capire come è possibile conciliare la «pretesa» di un Cristo unico e vero salvatore con l’affermazione del Vaticano II che ha fatto definitivamente tramontare l’assioma «extra ecclesiam nulla salus». In una società secolarizzata e multireligiosa, una storia dell’evangelizzazione aiuta solo indirettamente ad allargare lo sguardo oltre i confini ecclesiocentrici e a confrontarsi con le altre fedi, religioni o movimenti spirituali che caratterizzano l’attuale epoca, in cui risultano dominanti, appunto, le questioni del dialogo interreligioso e dell’interculturalità. La cultura dell’evangelizzazione può certamente nascere dalle ceneri del passato, dalla coscienza dei suoi limiti, dalla sua purificazione. Ma, come hanno ribadito gli ultimi papi, «l’evangelizzazione è realtà ricca, complessa e dinamica», e i «modi di come evangelizzare variano secondo le circostanze di tempo, di luogo, di cultura e lanciano pertanto una sfida alla nostra capacità di scoperta e di adattamento […] specialmente per i laici».49 Evangelizzare è vocazione di tutto il popolo dei battezzati, per
48 Per quello che riguarda l’evoluzione della mentalità e della sensibilità nel movimento missionario tra Otto e Novecento, la progressiva scomparsa del giogo coloniale nell’attività missionaria e il successivo passaggio dalla «Chiesa di missione» all’autentica Chiesa particolare sotto guida indigena, oggi disponiamo del volume di Metzler (a cura di), «Dalle Missioni alle Chiese locali, 1846-1965». 49 Cf. Paolo VI, esortazione apostolica post-sinodale Evangelii nuntiandi (8.12.1975), nn. 17.40: EV 5/1609ss. Evangelizzazione è soprattutto «rinnovamento dell’umanità, testimonianza, annuncio esplicito, adesione del cuore, ingresso nella comunità, accoglimento
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questo è auspicabile che i cristiani tornino a sentirsi in «stato di missione», portando il messaggio cristiano nelle culture dei popoli senza compromettere la specificità e l’integrità della fede cristiana.
dei segni, iniziative di apostolato» (n. 24: EV 5/1616). E nel 1986 Giovanni Paolo II, in vista del giubileo del 2000, si augurava che la Chiesa sapesse uscire dal Cenacolo per evangelizzare con coraggio (parresia) la parola di Gesù (cf. enciclica Dominum et vivificantem [18.5.1986], n. 25: EV 10/503ss). E due anni dopo il papa ricordava che tutti i battezzati partecipano «all’intera missione della Chiesa che si concentra nell’evangelizzazione» (cf. esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici [30.12.1988], n. 33: EV 11/1744ss).
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Indice dei contributi
1. La
teologia dell’evangelizzazione: traiettorie dalla nascita dello
STAB FTER (E. Castellucci) in M. Marcheselli (a cura di), Evangelizzare nelle criticità dell’umano (Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione 11), EDB, Bologna 2017, 17-32. all’oggi della
La 2.
teologia dell’evangelizzazione a
Bologna nel quadro della teologia Un bilancio tra continuità e sviluppi (L. Luppi) in M. Tagliaferri (a cura di), Teologia dell’evangelizzazione. Fondamenti e modelli a confronto (Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione 9), EDB, Bologna 2014, 39-59. post-conciliare.
3. La Bibbia nell’evento dell’evangelizzazione (E. Manicardi) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 2(1998)3, 21-39. 4. Scrittura ed evangelizzazione: nodi emergenti (G.D. Cova) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 2(1998)3, 61-71. 5. Contributi biblici ad una teologia dell’evangelizzazione (M. Marcheselli) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 10(2006)19, 65-75. Tra 6.
vangelo e culture: la teologia dell’evangelizzazione come scienza della
(P. Boschini) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 10(2006)19, 47-64. fede annunciata
7. Dire Dio nel mondo secolarizzato. Il vangelo nel tempo dell’inquietudine (P. Boschini) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 19(2015)38, 283-311. La questione antropologica come luogo della verità teologica in un contesto 8. plurale (P. Boschini) in M. Tagliaferri (a cura di), Teologia dell’evangelizzazione. Fondamenti e modelli a confronto (Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione 9), EDB, Bologna 2014, 189-222.
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Indice dei contributi 9. Dall’Evangelii nuntiandi alla Fides et ratio. Evangelizzazione ed esercizio della ragione (G. Sgubbi) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 4(2000)8, 283-311. 10. Lo Spirito protagonista dell’evangelizzazione (V. Maraldi) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 2(1998)3, 5-20. 11. Ecclesiologia, cristologia ed evangelizzazione (E. Castellucci) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 2(1998)3, 73-94. 12. «Chiesa che evangelizza»: modelli ecclesiologici e pastorali (M. Fini) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 10(2006)19, 11-25. 13. Pluralismo religioso ed evangelizzazione (B. Salvarani) in M. Tagliaferri (a cura di), Teologia dell’evangelizzazione. Fondamenti e modelli a confronto (Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione 9), EDB, Bologna 2014, 251-267. 14. Evangelizzazione ed etica: appartenenza ed autonomie (M. Cassani) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 2(1998)3, 111-125. 15. Segni di speranza nella storia: prospettive offerte dai recenti sinodi sulla famiglia (M. Cassani) in M. Marcheselli (a cura di), Evangelizzare nelle criticità dell’umano (Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione 11), EDB, Bologna 2017, 197-219. 16. La nuova umanità alla luce della Laudato si’ (M. Prodi) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 20(2016)40, 415-434. 17. Liturgia ed evangelizzazione (E. Lodi) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 2(1998)3, 95-109. 18. La
Spirito e il suo ruolo (D. Righi) in M. Tagliaferri (a cura di), Teologia dell’evangelizzazione. Fondamenti e modelli a confronto (Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione 9), EDB, Bologna 2014, 79-87. liturgia luogo di coinvolgimento del sensibile nello
nell’evangelizzazione
19. Lo spazio sacro come kerygma e mistagogia (J.-P. Hernández) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 14(2010)28, 353-380. 20. La
spiritualità tra inquietudini e nuove chances.
Tracce di spiritualità (B. Secondin) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 6(2002)12, 261-276.
laicale
per l’evangelizzazione
21. Opere di storia dell’evangelizzazione (M. Tagliaferri) in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 2(1998)3, 175-189.
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Indice dei nomi
Accattoli L. 428 Acerbi A. 123 125 126 133 134 239 Afanassieff N. 239 Agnoletto A. 416 Agostino di Ippona 22 138 213-215 367 384 387 Akerlof G.A. 337 Alberigo G. 125 419 420 Alberti L.B. 386 Albini C. 272 Aletti J.-N. 91 92 Alfaro J. 176 Amaducci L. 90 Ambrogio 352 Angelini G. 203 291 Anselmo d’Aosta 168 Apel K.O. 112 Appi F. 42 104 112 Arendt H. 112 Aristotele 21 Asimov I. 137 Atanasio 211 Aubert R. 419 Augusto 378 Baccarini E. 327 Baciccia 388 Baldisseri L. 305 306 308 Balthasar H.U. von 35 214 215 246 252 253 389
Baraúna G. 116 122 129 132 Barbaglio G. 54 Barbera A. 328 Barbotin E. 203 Bardy G. 416 417 Baricco A. 279 Baroni G. 93 Barrett D.B. 268 Bartolomei Vasconcelos T. 287 Basilio 215 361 362 Bauman Z. 275 327 401 Baus K. 417 Beauchamp P. 92 Becchetti L. 329 Beck H.G. 417 Beck U. 271 Beda 351 352 Bellarmino R. 231 232 Bendiscioli M. 419 Benedetto da Norcia 387 423 Benedetto XV (papa) 429 Benedetto XVI (papa) 25 35 92 132 141 166 167 177 179 188 194 203 204 244 245 253 302 334 Benzi G. 30 92 94 Benzi O. 44 Berger P. 107 168 Bergoglio J.M. vedi Francesco (papa) Bernardino da Siena 425 Berti E. 287
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Indice dei nomi Betori G. 91 92 Bevans S.B. 266 267 274-277 Bianchi E. 399 Bianchi Porro B. 44 Biemmi E. 9 10 Biffi F. 127 Biffi G. 91 Biguzzi G. 92 Biondi B. 418 Bizzotto M. 287 289 297 Blondel M. 99 119 123 166 185 186 Boff L. 426 Bolgiani F. 419 Bonaccorso G. 346-349 Bonati M. 425 Bonhoeffer D. 17 119 Bordoni M. 177 Borelli G. 416 Borioni A. 427 Borromini F. 388 Bosch D. 267 271 273 274 Boschi G.B. 88 89 Boschini P. 7 42 45 47 99 100 108 109 110 115 128 133 139 141 145 161 165 167 169 251 283 Brambilla F.G. 30 Bressan L. 9 Brunelleschi F. 388 Brunelli G. 265 Bruni L. 328 Budriesi R. 417 Bugaité E. 108 Bühlmann W. 269 Bultmann R. 23 100 101 112 119 132 Butticci A. 268 Calasso R. 327 Calloni M. 287 Calvani S. 335 Canobbio G. 223 257 Cantù F. 426 427 Cardaropoli G. 295 Carlo Magno 365 418 Carmo Feliciani S. 417 Carretti E. 232 Carrier H. 180 Cartocci R. 265 Casali M. 88 89 Casel O. 347 Cassani M. 6 10 42 102 283 286 291 301
Castellucci E. 13 29 30 37 40 41 93 104 108 109 225 Catella A. 355 Catti G. 90 Cè M. 254 Ceccarelli Lemut M.L. 417 Chaliand G. 418 Chateaubriand F.-R. 429 Chauvet L.M. 346 Chenu M.-D. 132 Chica F. 225 Chidester D. 272 Cimabue 385 Colombo C. 426-428 Colombo G. 40 176 177 193 202 241 243 253 254 257-259 420 Colzani G. 223 Comby J. 428 429 Concetti G. 127 Congar Y.-M. 134 210 232 238 243245 252 253 257 270 Conn H. 274 Consolino F.E. 418 Cosma Indicopleuste 374 Costa E.M. 399 Costante 417 Costantino 362 417 Costanzo 417 Costanzo II 417 Cothenet E. 90 91 Cova G.D. 37 75 89-93 101 Cox H. 268 352 Cragg K.M. 272 Dagens C. 47 Daniélou J. 116 417 Danneels G. 258 Dardot P. 332 335 Da Re A. 284 285 Dawson C. 417 D’Costa G. 228 Dehaye P. 116 117 121 124 Delahaye K. 252 Delbrêl M. 44 48 49 Del Monte A. 254 Delumeau J. 418 419 Demmer K. 285 291 292 Dianich S. 240 243 256 259 260 Di Gregorio A. 202 Dossetti G. 33 44 90 121-123 125 135 Dovere U. 419
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Indice dei nomi Draghetti B. 329 Drewermann E. 402 Dunn J.D.G. 210 211 Duquoc C. 410 Durrwell F.X. 229 247 Dussel E. 112 426 Dylan B. 20 Efrem il Siro 364 Eliade M. 247 Elizari F.J. 311 312 322 Equizio 212 Eusebio di Cesarea 362 Evdokimov P. 345 Evrard P. 198 Ewig E. 417 Eyt P. 258 Fabris R. 55 90 91 Facchini F. 42 Falchetti M. 245 Fallico A. 254 Falsini R. 343 Fatucchi A. 417 Federici T. 223 Feiner J. 246 Ferraro G. 214 Filone Alessandrino 375 Filoramo G. 101 421 Fini M. 9 38-40 42-44 101 103 169 209 224 251 420 Fisichella R. 253 409 Fliche A. 416 418 419 Florenskij P. 373 377 Flores D’Arcais P. 185 Folliet J. 122 Foucault M. 111 171 Francesco (papa) 5 10 13 15 25 28 270 301-303 305-307 309-313 316 317 325 326 333 334 337 Francesco d’Assisi 375 387 Fregni G. 44 Frontini D. 264 Fuchs J. 288 289 Fyfe C. 269 Gadamer H.-G. 372 Galileo Galilei 138 Gallino L. 331 Gambasin A. 419 Garcia-Baro M. 182
Garelli F. 264 305 398 420 Gargani A.G. 409 Garrone G.-M. 175 Gasparini C. 405 Gatto Trocchi C. 399 Gauchet M. 264 Gaudì A. 381 Geertz C. 107 108 Geffré C. 270 Genicot L. 417 Gérard C. 400 Germano di Costantinopoli 380 Ghidelli C. 420 Gianetto U. 415 Gianotti D. 30 103 113 Gibellini R. 269 Gill J. 348 Ginzburg C. 83-85 Giovanni (evangelista) 18 213 263 310 330 378-381 424 Giovanni XXII (papa) 424 Giovanni XXIII (papa) 15 117 141 159 163 Giovanni Crisostomo 212 Giovanni Damasceno 369 Giovanni Paolo II (papa) 15 20 24 25 27 37-40 58 64 67 70 80 83 84 112 127 139 141-143 145-153 155 157 158 160 162 167 168 173 174 180 185 186 190 192 194 196 198 201 228 248 270 285 299 302 306 316 334 420 427 428 431 Giovanni Scoto Eriugena 138 Gisel P. 198 Giustiniano 417 Giustino 365 Godin A. 354 Gogarten F. 35 Gonnet D. 125-127 Gordini G.D. 90 417 Grandi V. 90 Graziano M. 269 Gregorio Magno (papa) 212 214 421 423 Gregorio Nazianzeno 351 353 Grelot P. 294 Grillo A. 346 Gronchi M. 307 Grozio U. 290 Guardini R. 153 351-353 Guarini G. 388
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Indice dei nomi Guéranger P. 366 Guerriero E. 417 Guerzoni G. 42 Gutiérrez G. 35 167 Guyon J. 421
Kristeva J. 279 Kuhn H. 416 417 Kuhn T. 274 Kunzler M. 345 Kurian G.T. 268 Kuss O. 246
Habermas J. 112 Hamer R.G. 25 Harkianakis S. 229 248 Harnack A. von 416 Hastings A. 272 Hegel G.W.F. 195 Hegge C. 398 Henrici P. 177 180 199 Hernández J.-P. 369 Hertling L. 239 Hick J. 228 Hoffmann J. 245 Horkheimer M. 288 Houseman M. 349 Huizinga J. 352 353 Huntington S.P. 268 Ignazio di Antiochia 312 362 363 381 382 Ignazio di Loyola 375 387 Ildefonso di Toledo 231 Ippolito 363 Ireneo 223 345 378 Isabella di Castiglia 427 Isidoro di Siviglia 421 Jacopo da Varazze 424 Jedin H. 416 417 Jenkins P. 266-268 270 277 Johnson T.M. 268 Jossua J.P. 420 Journet C. 235 Jung C.G. 354 355 Kant I. 233 234 290 Kasper W. 35 101 178 181 192 193 199 223 246 247 Kehl M. 223 Kepel G. 400 Kessler H. 247 Kierkegaard S. 404 Klein N. 330 Klosterman K. 254 Knitter P.F. 228 Kramer M.R. 333
Laberthonnière L. 119 La Cercla F. 401 Làconi M. 88 89 Las Casas B. de 19 418 426 427 Latouche S. 333 334 401 Latourelle R. 176 180 Laval C. 332 335 Lawson E.T. 348 Le Goff J. 417 418 Leibovitz Y. 81 Leone Magno (papa) 356 Leone XIII (papa) 65 127 212 Leopardi G. 191 Lessing G.E. 167 Lévinas E. 200 327 Lévi-Strauss C. 348 Lodi E. 37 90 104 343 Lohfink G. 255 260 Lohrer M. 246 Loisy A. 233 Lorenzetti L. 292 294 de Lubac H. 124 181 230 231 239 Luca (evangelista) 18 94 210 273 Luckmann T. 107 Luneau R. 398 Luppi L. 29 43 49 Lutero M. 71 76 237 238 Maggiani S. 349 Maggioni B. 411 Mamma Nina 44 Mandreoli F. 43 326 Manicardi E. 30 31 34 37 53 56 69 71 72 89-91 93 94 101 102 209 286 292 343 355 Manselli R. 417 422 Maraldi V. 41 42 106 207 213 218 220 236 242 248 Marcel G. 130 Marcheselli M. 5 30 37 87 90 91 94 101 Marchesi A. 186 Marchesi G. 389 Marco (evangelista) 18
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Indice dei nomi Marella O. 44 Markus R.A. 422 Marrou H. 417 Martelet G. 177 308 Martelli S. 398 Martin V. 416 418 419 Martina G. 419 427 Martini C.M. 60 61 82 93 254 258 356 357 Marvelli A. 44 Marzano M. 265 268 Masini F. 327 Massimo il Confessore 352 353 375 390 Mastrofini F. 270 Mattei U. 334 Matteo (evangelista) 18 273 Matteuzzi G. 90 Mattioli V. 418 Mazzillo G. 9 McCauley R.N. 348 McDonnell K. 212 Mellito 423 Menin M. 271 Menozzi D. 419-421 Mereu I. 418 Merlini M. 401 Metz J.B. 35 99 133 402 418 430 Metzler J. 418 430 Miccoli G. 419 420 Micklethwait J. 268 Minucio Felice 361 Möhler J.A. 234 235 Moioli G. 410 Moltmann J. 35 246 352 353 Monari L. 91 92 Montague G.T. 212 Montesano M. 422-425 Montinari M. 327 Montini G.B. vedi Paolo VI Morandini S. 272 Moretto D. 42 Mori E.G. 90 Mori L. 212 Morselli R. 271 Mounier E. 119 Mucci G. 197 Mühlen H. 253 Munch E. 403 Nardello M. 42
Naso P. 265 Natoli S. 400 402 Nietzsche F. 119 191 326 327 399 Nigro C. 220 221 Noceti S. 259 Nock A.D. 416 Norelli E. 55 Nostradamus 137 O’Collins G. 247 Orioli G. 417 Örsy L. 305 306 Pace E. 265 268 Pagazzi C. 245 Palladio A. 383 Panikkar R. 228 Panizzolo S. 225 Pannenberg W. 100 203 Paolo (apostolo) 18 54 55 69 79 84 144 160 166-168 170-172 211 221 227 230 231 272 273 309 310 358 362 363 380 382 384 Paolo VI (papa) 10 13 15 31 36 37 39 58 63 65 126 130 139 141-144 146 148 150 161 173 179 180 182-184 201 202 207 226 227 239 254 259 267 293 305 306 316 359 430 Paravicini Bagliani A. 422 Passalacqua L. 354 Penco G. 416 Penna R. 92 Pesce M. 80 Petrà B. 9 Petrini M. 90 Peuchmard M. 134 Piana G. 288 298 Pié-Ninot S. 187 Pieri M. 427 Piketty T. 331 Pio IX (papa) 120 232 Pio XII (papa) 65 120 122 232 236 316 420 429 Platone 194 352 Poma A. 31 Porro C. 247 Porter M.E. 333 Pottier B. 201 Prades J. 188 Prandi M. 44 Prete B. 88 89
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Indice dei nomi Prodi M. 42 325 329 338 Quinzio S. 403 Rabitti P. 31 Rahner K. 35 36 132 134 137 166 269 344 Ramonet I. 270 Ratzinger J. vedi Benedetto XVI (papa) Recchia V. 212 Richard R.L. 238 Ricoeur P. 108 346 410 Rifkin J. 330 Righi D. 41 164 359 Rizzi A. 290 291 Rosmini A. 194 Rossi De Gasperis F. 82 Ruggiero F. 90 91 343 355 Ruini C. 32 35 36 Russ J. 287 Salonio 351 Saltini V. 44 Salvarani B. 41 43 263 265 Sartori L. 241 Sartre J.-P. 119 Sauter G. 101 223 Savon H. 235 Scalfari E. 191 Schäferdiek K. 415 Scheler M. 119 Schillebeeckx E. 99 Schleiermacher D.F. 99 119 Schmaus M. 247 Schmidinger H. 397 Schneider T. 246 Schroeder R. 266 267 274-277 Sciacca M.F. 123 Scoppola P. 419 Secondin B. 395 Segatti P. 264 265 Sen A. 266 Sequeri P.A. 49 344 396 407 Serra Zanetti P. 44 90 Seveso B. 292 295 Sgubbi G. 42 108 110 112 173 Shiller R.J. 337 Sigismondi G. 225 Simone M. 426 Siniscalco P. 417
Smulders P. 129-131 Sobrino J. 99 Sodi S. 417 Soravito L. 420 Sorge B. 237 Sovernigo G. 354 Spadaro A. 305 306 Spickard P.R. 272 Standing G. 333 Stauder P. 398 Stefani P. 78 Surdich F. 425 Svetonio 421 Tabacco G. 417 421 Tagliaferri M. 5 30 33 43 44 141 415 427 Tambiah S.J. 347 Taylor C. 107 Teilhard de Chardin P. 119 166 Teodoro di Mopsuestia 366 Teodosio 417 Teodosio II 388 Teresa di Gesù Bambino 396 Terrin A.N. 346 354 Tertulliano 362 365 385 Tescaroli L. 428 Theobald C. 10 Thincq H. 269 Thurian M. 214 Tito 378 Todorov T. 107 Torcivia M. 409 Torresin A. 402 Toscani X. 419 Tosolini A. 271 Tosti L. 417 Trakatellis D. 210 Tremolada P.A. 91 92 Trevor-Roper H. 418 Troeltsch E. 100 119 153 Troisfontaines C. 189 Turner V. 347 Ugolini Z. 425 Urquhart G. 398 Valentini D. 346 Vallet O. 270 Vanhoye A. 211 Vattimo G. 200
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Indice dei nomi Vauchez A. 421 Vernette J. 399 401 Verucci G. 419 Verweyen H.J. 203 403 Viano C.A. 287 Vigna C. 200 Vignolo R. 91 92 Vinay V. 237 Vitali D. 252 253 259 309 Vladimiro di Kiev 350 Vogt H.J. 417
Wagner H. 225 Walls A. 269 Weber M. 106-108 110 116 119 283 Welsch W. 198 Wojtyła K.J. vedi Giovanni Paolo II (papa) Wolinski J. 211 Wooldridge A. 268 Zardoni S. 31-36 90 92 291 Zavala S. 418 Ziviani G. 30 109 252
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Introduzione Maurizio Marcheselli....................................................................... p. 5 Parte prima Testi fondativi La teologia dell’evangelizzazione: traiettorie dalla nascita dello STAB all’oggi della FTER Erio Castellucci................................................................................ » 13 1. La Licenza in Teologia dell’evangelizzazione a Bologna.... » 13 2. Il fondamento cristologico della teologia dell’evangelizzazione..................................... » 16 3. L’orizzonte antropologico della teologia dell’evangelizzazione..................................... » 20 4. Il soggetto ecclesiale della teologia dell’evangelizzazione. » 24 Bibliografia.................................................................................. » 28 La teologia dell’evangelizzazione a Bologna nel quadro della teologia post-conciliare. Un bilancio tra continuità e sviluppi Luciano Luppi.................................................................................. » 29 Premessa..................................................................................... » 29 1. Il valore di una scelta coraggiosa e anticipatrice: una Licenza in Teologia dell’evangelizzazione (TE).......... » 30 2. Significativi indicatori di marcia: i convegni....................... » 32 3. Due primi fondamentali contributi....................................... » 33
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3.1. L a redenzione di Cristo operata nella storia della Chiesa (mons. Serafino Zardoni)...... » 33 3.2. L ’uomo e l’annuncio della parola di Dio (s.ecc. mons. Camillo Ruini)............................................ » 35 4. Traiettorie di approfondimento della teologia dell’evangelizzazione.................................... » 37 4.1. Provocazioni dell’evangelizzazione alla teologia sistematica................................................. » 37 4.2. « Nuova evangelizzazione» ossia quale Chiesa per quale vangelo?......................... » 38 4.3. L a prospettiva pasquale-trinitaria decisiva per un ripensamento fecondo dell’evangelizzazione.. » 40 4.4. La provocazione del panorama culturale contemporaneo alla TE.................................................. » 42 4.5. L a provocazione dei vissuti spirituali e pastorali alla TE........................................................... » 43 5. Note per una riflessione sullo statuto epistemologico della TE.................................................................................. » 45 Parte seconda Area biblica La Bibbia nell’evento dell’evangelizzazione Ermenegildo Manicardi................................................................... » 53 1. La Bibbia nell’evangelizzazione in alcuni passi del Nuovo Testamento .......................................................... » 54 1.1. L’annuncio prepaolino e le Scritture d’Israele ............ » 54 1.2. L’annuncio paolino e il riferimento alle Scritture ....... » 55 1.3. Lo schema lucano del rapporto tra evangelizzazione e Scritture ................................... » 56 2. Bibbia ed evangelizzazione nella comprensione cattolica a partire dal Vaticano II ........................................................ » 58 2.1. Bibbia ed evangelizzazione nella prospettiva della Dei Verbum (1965) ............................................... » 58 2.2. B ibbia ed evangelizzazione nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975) .......................... » 62 2.3. A ttualizzazione e inculturazione della Bibbia secondo la Pontificia commissione biblica (1993) ....... » 65 3. La realtà teologica della Bibbia nel circuito dell’evangelizzazione ........................................ » 68 3.1. La Bibbia e la comunicazione della fede a livello interpersonale .................................................. » 68 3.2. La Bibbia e l’inculturazione della fede ........................ » 70 Scrittura ed evangelizzazione: nodi emergenti Gian Domenico Cova....................................................................... » 75 1. Testo e traduzione ................................................................. » 76
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2. Chiesa e Israele ..................................................................... » 78 3. Antico e Nuovo Testamento ................................................. » 83 Contributi biblici ad una teologia dell’evangelizzazione Maurizio Marcheselli....................................................................... » 87 1. I convegni delle due sezioni dello STAB (1982-1998) ........ » 88 2. Studi e saggi della sezione Seminario regionale dello STAB (1993-1997) ........................................................ » 89 3. La Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione ...................... » 91 4. L a collana «Biblioteca di Teologia dell’Evangelizzazione»... » 93 Parte terza Area filosofica Tra vangelo e culture: la teologia dell’evangelizzazione come scienza della fede annunciata
Paolo Boschini ................................................................................. » 99 1. L’autocomprensione della teologia dell’evangelizzazione e le altre teologie contemporanee ........................................ » 100 2. Teologia dell’evangelizzazione come tematizzazione dello statuto consensuale della verità .................................. » 104 3. La teologia dell’evangelizzazione non è una teologia contestuale, ma contestualizzante ........................................ » 109 Dire Dio nel mondo secolarizzato. Il vangelo nel tempo dell’inquietudine Paolo Boschini.................................................................................. 1. La secolarizzazione come ateismo nella costituzione pastorale Gaudium et spes..................... 1.1. Explicatio terminorum................................................... 1.2. Dire Dio nel tempo dell’indifferenza: il problema dell’ateismo culturale................................ 1.3. Dire Dio nel tempo delle ideologie: comprendere i motivi dell’ateismo sistematico........... 1.4. La Chiesa e gli atei: ricominciare dalla fraternità evangelica...................... 2. Dire Dio nel tempo dell’ambivalenza: quale ermeneutica del moderno?......................................... 2.1. Chiesa cattolica e trasformazioni globali..................... 2.2. Il controverso nesso verità-libertà nella dichiarazione Dignitatis humanae...................... 3. La gioia e la speranza del vangelo: trasformare il disagio ecclesiale in risorsa evangelizzatrice................... 3.1. Il presupposto teorico: l’autonomia delle realtà terrene........................................................ 3.2. La Chiesa cattolica nel mondo divenuto secolare....... 3.3. Per una teologia del mondo: il secolare a servizio della fede e dell’evangelizzazione..............
» 115 » 115 » 115 » 116 » 119 » 120 » 121 » 121 » 125 » 129 » 129 » 131 » 133
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4. La Chiesa cattolica nel mondo secolarizzato: tre questioni conclusive......................................................... 4.1. A chi si rivolge la costituzione pastorale?.................... 4.2. Come parla la costituzione pastorale?.......................... 4.3. Qual è la portata ecclesiale delle affermazioni di GS sul mondo secolarizzato?....................................
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La questione antropologica come luogo della verità teologica in un contesto plurale
Paolo Boschini.................................................................................. 1. Premessa storico-metodologica............................................ 1.1. La centralità della questione antropologica nel magistero post-conciliare......................................... 1.2. Un’analisi per modelli: 1967-1998................................. 2. Il modello dialogico: il profilo antropologico della verità...................................... 2.1. L’antropologia relazionale: il profilo creaturale della verità..................................... 2.2. Il personalismo cristologico: il profilo teologico della verità....................................... 3. Il modello metafisico............................................................. 3.1. L a fondazione metafisica della verità nella trascendenza e nell’intuizione dell’essere........... 3.2. L a verità come fondamento ontologico della persistenza nel vero.............................................. 4. Il modello ermeneutico......................................................... 4.1. La fusione degli orizzonti linguistici: la verità come areopago................................................. 4.2. La convergenza di prospettive: i semi della verità...... 5. Perché è preferibile il modello ermeneutico. Sei tesi sulla verità teologica nel magistero post-conciliare............ 6. Cinque tesi conclusive per il ripensamento della teologia dell’evangelizzazione alla luce dell’idea ermeneutica di verità teologica............................. Dall’Evangelii nuntiandi alla Fides et ratio. Evangelizzazione ed esercizio della ragione Giorgio Sgubbi................................................................................. Introduzione................................................................................ 1. Gaudium et spes. La verità cristica dell’uomo..................... 2. Evangelii nuntiandi: evangelizzazione come servizio all’uomo............................. 3. Fides et ratio: un orizzonte cristologico-sacramentale......... 4. Fides et ratio: l’autonomia della ragione come dimensione partecipativa all’evento salvifico............. 5. Fides et ratio: la verità condizione dell’amore. L’annuncio nell’epoca del nichilismo e del post-moderno.... 6. Maestri o testimoni?...............................................................
» 139 » 139 » 139 » 140 » 141 » 142 » 147 » 150 » 151 » 157 » 159 » 160 » 164 » 165 » 169
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Parte quarta Area sistematica Lo Spirito protagonista dell’evangelizzazione Valentino Maraldi ........................................................................... 1. Temi tradizionali: un duplice fronte dell’azione dello Spirito ......................................................... 1.1. Lo Spirito Santo nell’evangelizzatore .......................... 1.2. L o Spirito Santo nel destinatario .................................. 1.3. Q uale rapporto tra i due dinamismi? ........................... 2. G esù evangelizzatore: dalla funzione all’incontro personale ................................... 2.1. Evangelizzazione nell’agape ........................................ 2.2. Evangelizzazione nella kenosi ..................................... 3. A lcune conseguenze per l’opera di evangelizzazione della Chiesa ...................... Ecclesiologia, cristologia ed evangelizzazione Erio Castellucci ............................................................................... 1. Teologia dell’evangelizzazione dal concilio a oggi ............ 2. Ecclesiologie insufficienti ...................................................... 2.1. Dalla Chiesa «corpo» alla Chiesa «corporazione» ...... 2.2. La Chiesa come «ceto visibile» e «società perfetta» ... 2.3. L a Chiesa come «ente moralizzatore» ......................... 2.4. La Chiesa come incarnazione continua ....................... 2.5. La Chiesa come corpo mistico di Cristo ....................... 2.6. La Chiesa come diaspora .............................................. 3. Teologia dell’evangelizzazione ed ecclesiologia trinitaria . 3.1. La missione: fulcro dell’ecclesiologia conciliare ......... 3.2. Dalla missione al recupero dei «soggetti» ecclesiali .. 3.3. P er un’ecclesiologia a partire dall’evangelizzazione .. «Chiesa che evangelizza»: modelli ecclesiologici e pastorali Mario Fini ........................................................................................ 1. Percorso storico-teologico dal concilio Vaticano II a oggi, con particolare attenzione alla Chiesa in Italia ................... 1.1. C onclusione «critica» sul cammino storico dal concilio a oggi .......................................................... 2. Chiesa «popolo di Dio», «popolo messianico» .................... 3. E lementi conclusivi: una rinnovata recezione del concilio ... 3.1. P opolo messianico ......................................................... 3.2. L a «cattolicità» del popolo di Dio ................................. Pluralismo religioso ed evangelizzazione Brunetto Salvarani........................................................................... Ouverture. «Né su questo monte né a Gerusalemme»............ 1. Vedere. Dalla religione degli italiani all’Italia delle religioni.......................................................... 2. Giudicare. Fare missione in un mondo plurale...................
» 207 » 209 » 209 » 213 » 215 » 216 » 217 » 219 » 221 » 225 » 226 » 229 » 230 » 231 » 233 » 234 » 236 » 237 » 239 » 239 » 240 » 245 » 251 » 252 » 256 » 257 » 261 » 261 » 262 » 263 » 263 » 264 » 265
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2.1. L a trasformazione della missione….............................. 2.2. Nel tempo del cristianesimo globale............................. 3. Agire. La missione come dialogo profetico.......................... 3.1. Un approccio comprensivo alla missione...................... 3.2. F edeltà del passato, fedeltà nel presente..................... 3.3. L a missione come dialogo profetico.............................. 3.4. Un compito essenziale.................................................... 3.5. Per un pianeta dal volto umano..................................... 4. Finale. Attrezzarsi al dialogo................................................
» 266 » 269 » 271 » 272 » 274 » 275 » 276 » 277 » 278
Parte quinta Area etica Evangelizzazione ed etica: appartenenza ed autonomie Massimo Cassani ............................................................................ 1. L’evangelizzazione di fronte all’universalità del fenomeno morale ............................................................. 2. Evangelizzazione ed etica cristiana di fronte a un mondo secolarizzato ...................................... 3. A titolo di conclusione ...........................................................
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Segni di speranza nella storia: prospettive offerte dai recenti sinodi sulla famiglia
Massimo Cassani............................................................................. 1. La sinodalità/collegialità........................................................ 1.1. Significato e origine....................................................... 1.2. P ostulati della sinodalità/collegialità: la parresia, l’ascolto umile, la fede nell’azione dello Spirito Santo....................................... 2. Il discernimento...................................................................... 2.1. L’ascolto.......................................................................... 2.2. L’accoglienza.................................................................. 2.3. L’accompagnamento...................................................... Bibliografia............................................................................. La nuova umanità alla luce della Laudato si’ Matteo Prodi..................................................................................... 1. Il metodo.................................................................................. 2. La necessaria antropologia.................................................... 3. Quattro frontiere..................................................................... 3.1. Il potere........................................................................... 3.2. Il denaro, l’economia e il lavoro.................................... 3.3. La proprietà privata........................................................ 3.4. L a tecnologia................................................................... 4. Un luogo di guarigione: i poveri............................................ 5. Per costruire la nuova umanità.............................................. 5.1. Alcuni elementi decisivi................................................. 6. Conclusione: lo sviluppo desiderato.....................................
» 301 » 304 » 304 » 309 » 313 » 313 » 315 » 316 » 323 » 325 » 326 » 326 » 329 » 329 » 330 » 334 » 335 » 336 » 337 » 338 » 339
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Parte sesta Area liturgica Liturgia ed evangelizzazione Enzo Lodi.......................................................................................... Premessa..................................................................................... 1. La prospettiva della duplice svolta antropologica nella teologia liturgica ........................................................... 2. La valenza evangelizzatrice nel confronto fra le due tradizioni dell’Occidente e dell’Oriente............... 3. La problematica della liturgia nell’esperienza del gioco come linguaggio simbolico.................................................... 4. L’evangelizzazione attraverso la prassi celebrativa come risposta alla crisi del fascino e del pericolo del mistero....................................................... 5. Il paradigma dell’evangelizzazione simbolica nella ritualità eucaristica ....................................................... Conclusione................................................................................ La liturgia luogo di coinvolgimento del sensibile nello Spirito e il suo ruolo nell’evangelizzazione Davide Righi..................................................................................... 1. La liturgia ha un ruolo nell’evangelizzazione?.................... 1.1. Quale ruolo nell’evangelizzazione?.............................. 1.2. Anche storicamente la liturgia è stata sorgente della vita e della missione della Chiesa........................ 1.3. Lingue nuove usate per tradurre la Bibbia e nei primi libri liturgici................................................. 2. La liturgia luogo di coinvolgimento del sensibile............... 2.1. Ritorno alle origini?........................................................ 2.2. Il perché di un prolungamento catecumenale: parole e gesti, esperienza globale................................. 2.3. Il rischio di un divorzio................................................... 3. L’attenzione ai linguaggi della comunicazione liturgica e l’opera dello Spirito di Dio............................................... 3.1. L’assemblea celebrante è sempre evangelizzatrice perché è sempre la prima destinataria dell’accadimento del vangelo........................................ Lo spazio sacro come kerygma e mistagogia Jean-Paul Hernández...................................................................... 1. Il turismo religioso come kairos............................................. 2. La mistagogia dello spazio sacro........................................... 3. La geometria mistagogica...................................................... 4. Un esempio: lo spazio sacro come spazio della risurrezione nella chiesa di San Salvatore in Chora (Istanbul).................................................................. 5. Altre piste................................................................................
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Parte settima Area di teologia spirituale La spiritualità: tra inquietudini e nuove chances. Tracce di spiritualità laicale per l’evangelizzazione Bruno Secondin ............................................................................... 1. La spiritualità come avventura vagabonda.......................... 2. Oltre la religione in eredità.................................................... 3. La crisi dei modelli e degli schemi classici........................... 4. Naufraghi senza ancora e senza meta.................................. 5. Guarire gli affetti senza vergogna......................................... 6. La religione del cuore ferito................................................... 7. Ritornare alla teologia del silenzio........................................ 8. Solchi dell’alleanza e interstizi della storia.......................... 9. Fare nostro l’estro di Dio........................................................ 10. Una mistica meno imbalsamata........................................... 11. La coerenza creativa della memoria................................... 12. Cercare altrove sempre........................................................
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Parte ottava Area storica Opere di storia dell’evangelizzazione Maurizio Tagliaferri ........................................................................ 1. Tappe significative per una storia dell’evangelizzazione .. 2. Dall’evangelizzazione dei popoli del Mediterraneo alla cristianizzazione dei germani e degli slavi.................... 3. L’evangelizzazione nel continente americano .................... 4. Il tentativo di sintesi di Comby ............................................. 5. Osservazioni conclusive ........................................................
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Indice dei contributi .........................................................................
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Indice dei nomi ..................................................................................
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