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Italian Pages 256 Year 2016
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Daniel Innerarity Un mondo di tutti e di nessuno Pirati, rischi e reti nel nuovo disordine globale
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G u l l i ve r
Collana diretta da: Francesco Valagussa
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Gulliver | 2
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Daniel Innerarity Un mondo di tutti e di nessuno Pirati, rischi e reti nel nuovo disordine globale Traduzione dallo spagnolo e introduzione di Leonardo Mattana
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Titolo originale Un mundo de todos y de nadie Piratas, riesgos y redes en el nuevo desorden global © 2013, Paidós, Barcelona.
© 2016, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 – 00136 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Gulliver ISSN: 2499-7676 n. 2 – luglio 2016 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694228 ISBN – E-book: 9788898694686 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Man at a computer surrounded by icons © ellagrin – Fotolia.com
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Introduzione all’edizione italiana di Leonardo Mattana
Il volume di Daniel Innerarity non deve trarci in inganno circa la sua natura. Potrebbe farlo, certamente, a causa della sua veste ibrida, della trasversalità degli autori citati e dei riferimenti, a causa di quella forza propositiva che insiste per trovare un posto nelle agende politiche internazionali e che potrebbe far insospettire coloro che sono diffidenti nei confronti di una filosofia che offre soluzioni troppo dirette, senza passare dalla rarefazione speculativa. Quindi, il libro di Innerarity, nonostante questa apparenza, è un libro di filosofia. E aggiungerei che eventuali genitivi risultano superflui: non è un libro di filosofia politica o di filosofia della società, è un volume che propone un’ontologia e, quindi, se tratta di politica o di società, lo fa proprio per dare un’impronta filosofica a tali campi. Ritengo che alcune parole debbano essere dette proprio sulla funzione della filosofia nei confronti della riflessione politica e del suo rapporto con il senso comune. Come ci insegna anche questo volume, nel mondo di oggi viviamo pervasi dall’idea della tecnicizzazione della conoscenza, della necessità di un’accessibilità comune dei codici comunicativi, del fatto
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che dobbiamo essere in grado di fruire concretamente tutto ciò che viene prodotto, indifferentemente che si tratti di un hamburger o di un libro (quasi come se dovessero avere gli stessi tempi di digestione). Detto in maniera molto sintetica: sembra che ogni proposta debba far perno sul senso comune, come se esso coincidesse con il buon senso e valesse come un certificato di riuscita delle proposte. All’interno di questo paradigma, la filosofia rischia di vedersi confinata nello spazio ristretto e un po’ disdegnato della divulgazione, quasi amatoriale, contro i “veri” saperi scientifici: l’economia, il diritto, l’ingegneria, la ricerca medica e farmaceutica, la Statistica, e, infine, giusto per apportare un po’ di spirito critico (ma non troppo), le scienze politiche. Tradizionalmente, però, la filosofia ha sempre avuto un rapporto piuttosto conflittuale con il senso comune, o per dirla un po’ gergalmente, con il farsi capire da tutti (e tuttavia non ci si sofferma mai abbastanza sul fatto che i “veri” saperi appena citati risultino spesso oscuri ai più e restino limitati agli esperti). Il libro di Innerarity è tuttavia accessibile, usa un linguaggio comprensibile, rinuncia all’oscurità delle metafore, delle ombre e della decostruzione linguistica che pervade una certa tradizione della filosofia contemporanea, rinuncia persino all’effetto e alla suggestione: si fa capire. Se volessimo dare una struttura sillogistica al ragionamento che stiamo portando avanti, e date queste premesse, la conseguenza dovrebbe essere che il volume del nostro autore non è un libro di filosofia. Esattamente l’opposto di quanto affermato qualche riga prima. Cosa abbiamo sbagliato? A mio avviso, non ci siamo soffermati abbastanza su una delle premesse: ovvero abbiamo ritenuto che usare un linguaggio accessibile sia sinonimo di cadere nel senso comune e nella banalità, e che quindi non sia filosofia. Probabilmente, in quanto lettori dei filosofi più ostici, siamo Stati abituati diversamente e ci
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portiamo dietro una diffidenza verso la chiarezza espositiva e la volontà dell’autore di farsi capire. Tuttavia si può fare una proposta che conservi la radicalità della filosofia e che tuttavia si dispieghi in campi diversi da essa, senza limitarsi ad essere una proposta timidamente riformista: infatti, la spinta progressista del XX secolo si è esaurita, la socialdemocrazia è stanca, il suo sguardo disincantato, rinunciatario, eppure ai tempi della globalizzazione, nel momento in cui non c’è più il paracadute dello Stato nazionale, le sfide richiedono un nuovo vigore e nuova immaginazione politica. Abbiamo bisogno di una filosofia che aiuti a decidere, che sia in grado di fornire chiavi di interpretazione del mondo e che contribuisca a stabilire i temi prioritari delle agende internazionali. Ora, Un mondo di tutti e di nessuno può essere letto su più livelli: come abbiamo detto, risulta comprensibile ad un pubblico vasto, è utile per i politici e i politologi e si rivela addirittura necessario per i filosofi. Proprio perché comprensibile ai più, letto, invece, su un altro piano, implica un’analisi del discorso e un confronto con la tradizione filosofica, presente ma spesso implicita. Inoltre, ricordando il compito della filosofia appena richiamato, questo testo ci aiuta a riflettere e a decidere. Ho voluto fare questa premessa (quasi un’avvertenza) non per sdoganare o giustificare libro e autore come abitanti con pieni diritti nel mondo della filosofia (cosa di cui non c’è assolutamente bisogno e che comunque non spetterebbe a me farlo), quanto piuttosto per risaltare il valore di questo carattere di confine, proficuamente ambiguo, capace di tracciare trasversalmente linee che si congiungono in proposte innovative. Solo un lettore disattento non avvertirebbe la radicalità delle questioni poste: sicurezza globale, cambio climatico, asimmetria dello sviluppo nei vari Stati, per dirne alcuni. Ma ciò che altrettanto colpisce (e ancora un po’ insospettisce qualcuno) è la pacatezza e la lucidità delle proposte, sino al punto di chie-
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derci se esse siano all’altezza dei problemi. Difficile dirlo, perché è richiesto l’onere della prova. Tuttavia un tono allarmista o disfattista non sarebbe Stato più utile e, d’altronde, è vero che l’autore si mostra cautamente ottimista, ma non in modo ingenuo. Infatti non ritiene che vi sia un progresso necessario, seppure sia convinto di non dover rinunciare a fare delle proposte: la filosofia ha il dovere di farlo, proprio per richiamare quell’incessante domandare che le appartiene sin dalla sua origine. Cercheremo ora di entrare nel merito di alcune questioni esposte nel volume. Tuttavia per evitare di limitarci ad un riassunto o ad un elenco dei temi, vorrei mantenere sempre sotto traccia alcuni problemi con cui individuare un dialogo: assieme alla già citata questione del compito della filosofia, dovremmo indagare l’idea di comunità (Comunità Europea, Comunità globale) e l’idea di egemonia, in particolare per quanto riguarda il ruolo dell’Occidente nel progetto di una governance globale. Partiamo da una domanda fondamentale che costituisce l’epilogo del volume: chi siamo noi? Di fronte a questa domanda, Innerarity risponde così: noi siamo coloro che apparteniamo alla medesima classe, noi che ridiamo delle stesse cose, noi che siamo uniti dalla paura, noi i compatrioti, i cosmopoliti, i rivoluzionari, i civilizzati, i nazionali, noi il popolo, noi che condividiamo gli stessi valori, che abbiamo il medesimo interesse, i contemporanei, i nostri, quelli della stessa generazione, i complici e i solidari, quelli di qui e quelli di sempre, le vittime di una tragedia o di un’ingiustizia, gli indignati, i minacciati, gli esperti, noi che abbiamo ragione, i maschi, i normali, gli ortodossi, i sani di mente…
Si tratta evidentemente di una risposta provocatoria, di un lungo elenco che potrebbe essere ancora prolungato indefinitamente, e che però ci fa riflettere proprio perché ci mostra
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come l’attribuzione di ciascuno di noi ad un gruppo piuttosto che ad un altro sia del tutto arbitraria: persino quando ci riconosciamo in un ideale universale (come lo Stato, per esempio) lo facciamo attraverso la percezione di noi stessi; è a partire dal avvertirmi come me, in un contesto, che traccio reti relazionali, che stabiliscono un rapporto con l’altro, delineando distinzioni socio-culturali che ci uniscono oppure ci separano. Il problema, come una lunga tradizione filosofica insegna, è che passare dall’io al noi implica un cambio di statuto ontologico. Quanto è ancora presente quell’io nel noi? Quanto lo condiziona, sino al punto di rendere impossibile la coincidenza del noi con se stesso, in quanto tale? Eppure, noi dobbiamo chiederci: chi siamo noi? Una domanda su un io isolato e indefinito non ci aiuta a sgrovigliare la complessità del mondo attuale. Le difficoltà della domanda sul noi aumentano ancora se ci interroghiamo sugli altri: indipendentemente dalla posizione che si voglia occupare nello scacchiere ideologico, la logica bipolare non funziona più. Noi non siamo più i buoni, ma nemmeno, se lo volessimo, potremmo essere i cattivi. Il mondo non si divide in due ma in parti potenzialmente infinite, che pero sono inevitabilmente legate perché ci sono problemi globali che sono irreversibilmente comuni. In questo periodo sembra di rivivere ostilità assolute di schmittiana memoria. Voglio citare due esempi (non citati nel volume perché ancora più recenti del libro stesso) per poi applicarvi alcune categorie di Innerarity: l’ISIS che si prepara a muovere guerra all’Occidente (o almeno è ciò su cui una certa retorica insiste) e la contrapposizione tra Europa del Nord ed Europa del Sud, della Germania contro la Grecia. Il primo caso sembra la classica riformulazione di una logica bipolare a cui si aggiunge la componente religioso-culturale, derivante anche dalle retoriche sullo scontro di civiltà successive al 11 settembre, le quali donano al conflitto una parvenza
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quasi da guerra santa e spinge a ritenere che lo scontro frontale sia l’unica opzione. Il secondo, invece, pare essere la parola definitiva contro tutti i discorsi a favore dell’unità europea e della costituzione di una comunità politica. Si sostiene che le esigenze tedesche e nordeuropee siano opposte e inconciliabili con quelle greche e degli altri paesi mediterranei, per cui tanto vale uscire dall’Unione Europea e anche dalla moneta unica e tornare alle tanto rimpiante frontiere nazionali. Voglio partire dal secondo esempio: Un mondo di tutti e di nessuno non mette a fuoco esplicitamente il tema dell’Unione Europea. Il libro si incentra sul concetto di governance globale, che non è il medesimo di quello europeo, ma tuttavia vi possiamo riscontrare alcune dinamiche analoghe. Ora, è evidente che il già attuale livello di integrazione europeo, benché imperfetto e ampiamente migliorabile, è più avanzato di quello degli organismi internazionali su base globale, e, come sostiene Innerarity, nemmeno è auspicabile che questi giungano allo stesso livello. L’Unione Europea si muove, per quanto lentamente e incertamente, nella direzione di un livellamento delle condizioni sociali degli abitanti dei paesi membri e dei loro salari, si cerca di elaborare una politica estera comune così come si inizia a parlare di un esercito comune europeo maggiormente integrato rispetto alla Nato, esiste un bilancio comune europeo, seppure coesista con quelli nazionali. Insomma si fa avanti, negli ambienti più europeisti, l’idea di un’Europa federale, degli Stati Uniti d’Europa. Un’eventuale governance globale non potrebbe (né dovrebbe, ripetiamo) raggiungere tali livelli, quanto invece dovrebbe farsi carico di quelle sfide che hanno una dimensione, appunto, globale. Tuttavia vi è qualcosa che accomuna entrambi i livelli: la cessione di quote di sovranità da un livello inferiore ad uno superiore.
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Qui si gioca gran parte della riuscita o meno della costituzione di una comunità, sia che si tratti di quella europea oppure di un sistema di governance globale. Vivendo ormai da lungo tempo nello Stato nazionale, ci siamo abituati a pensare insieme sovranità e democrazia, e, ora, nel momento in cui viene chiesta la cessione di parte della nostra sovranità nazionale, siamo indotti a ritenere che la qualità della nostra vita democratica peggiorerà. Alla luce delle recenti tensioni che citavo, è vero che alcuni processi europei non hanno rispettato i livelli di democrazia a cui eravamo abituati e tuttavia sarebbe intellettualmente disonesto pretendere un’equiparazione immediata tra i livelli nazionali e quelli sovranazionali. Innerarity ci fa notare come ci siamo riscoperti molto esigenti sulla qualità della democrazia nell’Unione Europea e nei contesti internazionali, dopo che in non pochi contesti nazionali siamo reStati pressoché indifferenti nei confronti di cattive gestioni e mala politica. Le espressioni dell’indignazione anti-europea hanno diverse forme: si va dal populismo più esasperato che vorrebbe tornare a confini ormai scomparsi sino alle critiche puntuali sulla mancata trasparenza dei processi decisionali e sull’eccessivo peso dell’aspetto monetario rispetto a quello politico. E tuttavia, vi è un tratto comune che esige una soluzione: manca il senso di comunità. In alcuni casi è evidente che tale senso neanche lo si cerca, per esempio, in casi di xenofobia e razzismo. Ma anche nelle critiche più giustificate possiamo notare un senso di diffidenza e frustrazione. La domanda più difficile è: pur acconsentendo a cedere quote della sovranità nazionale, a chi dovremmo cederle? Perché gli organismi europei che hanno la legittimità democratica, in primis il Parlamento Europeo, non danno una forte impronta politica ai processi decisionali? E qui è bene introdurre due concetti fondamentali del libro di Innerarity: la riconversione della sovranità in responsabilità e l’umanismo transnazionale.
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Dovremmo abituarci a regimi ibridi, a spazi nei quali le decisioni si prenderanno contemporaneamente su vari livelli di governo: è molto poco probabile che un giorno si crei un governo mondiale oppure che i parlamenti e i governi nazionali scompaiano, nemmeno all’interno dell’UE, ma nel contempo, sarà sempre più frequente una certa ingerenza (o almeno ciò che ora ci sembra tale) di livelli superiori rispetto a quello statale (o addirittura quello regionale, laddove talvolta sono già presenti contestazioni nei confronti dello Stato). Per questo motivo, dobbiamo affiancare la responsabilità alla sovranità, perché di fronte a certi problemi come le migrazioni, i conflitti o la repressione di diritti fondamentali, non possiamo invocare ancora il principio di autodeterminazione dei popoli e far finta che non stia succedendo niente. Un mondo di tutti e di nessuno, senza confini, implica che il raggio dei diritti e dei doveri si estende su un orizzonte globale e che lo spettro delle mie decisioni politiche riguarda anche chi mi è più lontano, e viceversa. Ora, prima di fare qualche esempio concreto sulla responsabilità, vorrei introdurre il concetto di umanismo transnazionale. Parlare di umanismo oggi sembrerebbe un po’ desueto, eppure riesce ad avere la sua efficacia, se declinato nel giusto modo. In realtà, umanismo transnazionale significare avere per riferimento, nel quadro della governance globale, l’umanità. Certo, è necessario elaborare compiutamente cosa sia l’umanità, quali siano i connotati che la rendono tale, e tuttavia essa si mostra come un argine contro le spinte di reterritorializzazione e autarchia. In fondo, a voler essere disincantati, l’umanità esiste perché, se siamo in un mondo esposto, se il mio nemico può colpirmi in ogni luogo, allora anche il mio potenziale amico può essere raggiunto ovunque. Siamo costretti a vivere uno stesso spazio e quindi sta a noi renderlo più o meno vivibile e sicuro. Ai tempi della nascita dello Stato moderno, per uscire dallo Stato di natura, era sufficiente riconoscere un sovrano, costituire una comunità e quindi
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chiuderla nei confronti di coloro che non vi appartenevano. In questo modo, tutto sommato, si potevano garantire periodi di pace più o meno prolungati, a patto che la comunità non si spezzasse (guerra civile) oppure un elemento esterno intervenisse (aggressione nemica). Ma ora, evidentemente, non è più così: possiamo essere colpiti a distanza, attraverso la rete per esempio, oppure finanziariamente, per non parlare del pericolo atomico che non è certamente scomparso. Abitare, dunque, uno stesso spazio ci converte già in una comunità, per quanto ancora talvolta ci mostriamo ostili tra di noi. E quindi, se abitiamo uno spazio comune, vuol dire che non ci può essere un’ostilità totale: prendiamo coscienza della relazione che ci unisce all’altro, capiamo che possiamo declinare l’ostilità in negoziazione, che è la sospensione dell’ostilità, quindi raggiungere la pace, e persino arrivare alla collaborazione sulle grandi questioni globali. Occorre insistere sull’idea di umanità anche facendo leva sul versante negativo: l’idea opposta a quella di riconoscere che siamo una comunità è quella di essere disposti ad una guerra di annichilimento, come si pensava in passato, ma ancora più radicale, dato che una guerra di annichilimento, in un contesto globale, equivarrebbe ad una distruzione totale dell’umanità stessa. Al di là di tutti i conflitti presenti nel mondo, forse siamo intimamente convinti che l’idea di un’umanità transnazionale e di una governance globale sia preferibile a quella dell’autodistruzione. Tutto questo ragionamento ci riporta all’esempio citato del conflitto in seno all’Unione Europea tra paesi del nord e paesi del sud. A coloro che ritengono che l’UE non serva a nulla e che faremo bene a tornare ai confini nazionali dovremmo chiedere: Cosa ha portato il progetto europeo? 60 anni di pace (a cui si potrebbero aggiungere i benefici economici di cui molti paesi, specie del sud Europa, hanno goduto). Non sono pochi, tenendo conto che non ci sono indicatori del fatto che
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tale pace si interrompa. Vi sarebbe un’altra domanda: quanto tempo e quanti sforzi ci sono voluti per arrivare alla certezza di una pace duratura? Se consideriamo che l’idea d’Europa (in quanto entità che si contrappone ad altri parti del mondo) esiste da circa 4 secoli e il numero delle guerre in questo lasso di tempo è quasi impossibile da conteggiare, risulta evidente che il tempo richiesto per la costituzione di un progetto unitario europeo, così come le problematiche attuali dell’Unione, sono ben più modesti e largamente sproporzionati. È evidente che ci saranno momenti di tensione, così come è innegabile che di alcune misure beneficeranno alcuni paesi più di altri. L’alternativa è quella di tornare a innalzare muri e frontiere, cosa, come Innerarity ben evidenzia, piuttosto inutile anche per la sicurezza nazionale. Per ciò occorre insistere sull’umanità transnazionale e sull’idea di comunità includente. L’uscita di un paese della comunità europea non può essere brandita come una minaccia per cui si passa da essere amico ad essere nemico. Se l’Unione Europea si pone come una comunità chiusa, ridisegnando i propri confini ma costruendo delle frontiere di concezione analoga a quelle dei passati Stati nazionali, allora l’idea di governance globale viene di gran lunga ostacolata. Torna qui, dunque, il tema della responsabilità: il diritto-dovere di intervenire nelle questioni che sono di altri Stati. Rimanendo sullo stesso caso, chiediamoci se sia lecito che un organismo come la BCE o l’Eurogruppo possano imporre pacchetti legislativi molto esigenti a paesi con problemi strutturali, come la Grecia, per esempio. Da un lato, si potrebbe sostenere che quei parametri siano stati accettati da tutti i contraenti e che quindi debbano essere rispettati; dall’altro si può sostenere che i governi nazionali abbiano una legittimità democratica maggiore rispetto agli accordi che hanno fissato quei parametri e che ledere la sovranità popolare sarebbe un torto maggiore del non rispettare tali accordi. Ora, il principio di responsabilità che sottende l’idea di comunità ci dice due
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cose, apparentemente opposte: la prima è che, dal momento che le azioni altrui mi riguardano, ho il diritto di dire la mia opinione ed esigere che gli accordi si rispettino; la seconda, più importante affinché qualsiasi progetto unitario non fallisca, è che i criteri fondamentali, per cui uno Stato è dentro alla comunità, non vengano a meno: ovvero se l’Unione Europa si basa sul diritto alla sicurezza, sul rispetto dei diritti umani, politici e sociali, sulla convinzione di un progressivo Stato di benessere, allora, nel caso in cui l’intervento di organismi sovranazionali vada a ledere una di queste condizioni, tale intervento è illecito perché colpisce il principio stesso che lo legittima. Questo è un esempio classico per mostrare come nell’ambito dell’interdipendenza globale (o europea) per ogni decisione da prendere ci saranno ragioni in un senso o nell’altro, e che solo la giusta ponderazione delle ragioni potrà portare risultati sensati; per contro, arroccarsi in principi ormai superati come quello della frontiera o la sovranità ci riporterà indietro nel tempo: più insicuri, più esposti, e probabilmente più poveri. Ora, venendo all’altro esempio, quello relativo alla minaccia dell’ISIS, occorre dire che gli argomenti legati al concetto di comunità e di umanismo transnazionale sono simili al caso precedente e, tuttavia, la situazione si presenta in modo diverso. Rispetto a tensioni come quelle in seno all’Unione Europea, è evidente che la contrapposizione è più radicale: ne è la prova la serie di recenti attentati nei paesi che si affacciano sulla sponda sud del Mediterraneo, o quelli in Francia di gennaio 2015, così come la divulgazione delle immagini di decapitazioni nel Medio Oriente e la retorica ad esse connessa. Anche in Europa e in Occidente sembra avanzare la necessità di una guerra che muove, oltre che da presupposti geopolitici, anche da ragioni culturali e persino religiose. Dovremmo chiederci, interrogando il volume di Innerarity, se in un mondo nel qua-
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le siamo pronti a fare guerre adducendo (tra gli altri) motivi religiosi, possa davvero esistere una governance globale. Può un’organizzazione come l’ISIS, persino se si costituisse come uno Stato con un proprio territorio, appartenere alla comunità internazionale? Si tratta evidentemente di una provocazione, eppure se noi tutti (noi chi? gli europei, gli occidentali, i democratici?) respingessimo nettamente il diritto dell’ISIS ad appartenere ad una comunità globale, saremmo comunque chiamati a giustificare tale rifiuto; ovvero, dovremmo dire che l’ISIS viola dei principi che devono essere rispettati se si vuol far parte di questa comunità: per esempio, il rispetto dei diritti umani e politici fondamentali. Ma chi li decide questi diritti? Il concetto di responsabilità ci dice che se i principi che tengono insieme una comunità vengono violati, siamo chiamati ad intervenire, anche al di là dei propri confini nazionali. Il problema diventa, dunque stabilire tali principi affinché eventuali interventi internazionali (talvolta militari), non siano completamente arbitrari e dettati da ragioni tutt’altro che umanitarie. Ed è in questo momento che interviene il principio di egemonia, e, ancora, la domanda sul noi. Questo è punto molto difficile, e nemmeno il libro di Innerarity dà risposte certe, e tuttavia prende posizione sulla questione, mostrando notevole coraggio. La problematicità della vicenda nasce da un fatto abbastanza semplice quanto irriducibilmente compromettente: l’idea di organizzazioni sovranazionali e di federazioni di Stati nasce in seno alla cultura occidentale, e ha i suoi germi nella cultura illuministica. È vero che esistono organizzazioni comunitarie anche in Africa o Sudamerica, ed è vero che, nella logica bipolare della Guerra Fredda, anche il blocco sovietico aveva delle forme di federazione. Tuttavia l’idea di un’umanità globale e di un’interdipendenza totale si genera principalmente in Occidente, particolarmente legata all’apparato culturale e ideologico degli USA. È anche vero
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che tale egemonia è stata spesso gestita con arbitrarietà, alternando soft power e moral suasion con interventi militari non proprio rispettosi con i principi che pretendevano difendere. Ora, però, se noi eliminassimo questa componente di arbitrarietà (fatto già difficile di suo) e conservassimo soltanto l’idea di umanità transnazionale, quindi il rispetto dei diritti, i consessi internazionali di dialogo e la governance globale, il problema dell’egemonia non sarebbe comunque risolto, dal momento che noi, come occidentali, abbiamo già probabilmente un’idea più compiuta di quali siano le sfide globali (o almeno così riteniamo), siamo già più avanti nella costruzione di organismi internazionali e quindi pretendiamo che paesi come la Cina, l’India o i paesi africani, semplicemente entrino a far parte di questa nostra idea. Ammettendo che paesi non occidentali portassero il loro contributo ad una governance globale, non sarebbero tuttavia mai ideatori del suo impianto fondamentale. Vorrei introdurre una questione che mi pare tra le più acute del libro e che mostra la problematicità dell’egemonia occidentale: la giustizia climatica. Com’è noto negli ultimi anni ci sono state varie conferenze internazionali che si prefiggevano la riduzione di emissioni di CO2; e, com’è altrettanto noto, i risultati non sono mai Stati esaltanti. Come mai? Partiamo da una constatazione: la percezione dell’urgenza della riduzione delle emissioni cambia da un paese ad un altro, da una zona del mondo ad un’altra. Ciò non dovrebbe stupirci: in fondo ci sono stati che sono industrializzati dal XIX secolo e paesi che lo sono da non più di 30 anni. I primi siamo noi che abbiamo avuto modo di vedere l’impatto negativo sull’ambiente ma anche quello positivo sulla produzione di ricchezza, gli altri sono le potenze emergenti asiatiche e americane. A noi risulterà più facile ridurre le emissioni sia perché abbiamo preso coscienza del fatto che il cambio climatico rappresenta forse la sfida principale per una governance globale (motivo ideale)
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sia perché molta industria è stata dislocata dal nostro territorio proprio nei paesi emergenti e quindi ridurre le emissioni implica un minore sforzo per noi che per loro (motivo utilitaristico). Loro potranno dire che noi abbiamo beneficiato del progresso industriale e che ora loro non devono rinunciare ad un processo analogo per limitare i danni che noi abbiamo provocato. Entrambe le parti hanno le loro ragioni e l’unico modo di trovare una soluzione è trattare sino a confluire in un punto d’accordo (e in tal senso Innerarity avanza alcune interessanti proposte), ma il fatto è che questa questione mostra come anche in contesto globale esistono egemonie che continuano a voler primeggiare ed identità persistenti che non vogliono scomparire. D’altronde, un punto zero, di identità neutra per tutti non è possibile (per fortuna) e l’unica prospettiva è quella di convergere su obbiettivi comuni: non esistono formule matematiche per far convergere i conti e garantire sempre la riuscita dei negoziati. Dobbiamo stare attenti anche all’individuazione dei problemi e delle priorità da trattare in un contesto globale, in modo tale che i tentativi egemonici e i noi onnipresenti vengano limitati il più possibile; ne va sempre della possibilità stessa della comunità. La possibile minaccia dell’ISIS richiama un altro tema centrale del volume, che voglio analizzare per finire quest’introduzione. Come abbiamo accennato, in questa vicenda, non mancano le voci che parlano di questo conflitto come scontro di civiltà richiamando una componente religiosa nella contrapposizione, quindi assolutizzandola, come se dovesse essere una guerra all’ultimo sangue. Ebbene, nulla vieta di pensare a guerre di sterminio e annichilimento (certo, non risulta tanto compatibile con l’idea di governance globale) ma a coloro che ne promuovono la retorica andrebbe chiesto se siamo veramente pronti ad affrontarle sino in fondo. È utile richiamare il primo capitolo del libro che riguarda i pirati e la contrapposizione tra terra e mare: l’idea di guerra tradi-
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zionale implicava lo spostamento di gran quantità di mezzi e uomini, la circoscrizione di uno spazio delimitato entro cui si svolgevano le ostilità, l’apparato diplomatico di convenzioni e trattati; nei peggiori dei casi vi erano delle invasioni e delle occupazioni di territori. Tutto questo è quanto più lontano vi sia dalla logica con cui ha agito il terrorismo, assomigliandosi piuttosto alla pirateria che Innerarity ben descrive. L’idea di abitare un mondo gassoso, espressione con cui l’autore indica il superamento del mondo liquido di Bauman, comporta che le minacce siano ovunque e che non occorra lo spostamento di grandi eserciti per considerarci in guerra. Anzi, la logica del saccheggio e la razzia, tipici della pirateria, ritrova analogie con la minaccia terroristica: potremmo vivere in un regime di pace e nello stesso tempo essere completamente esposti ad un’aggressione che ci colpisce e ci getta nell’insicurezza, da un momento all’altro. Le somiglianze con la pirateria ci ricordano anche il fatto che per noi, europei del sud, molte scelte politiche, riguardanti la sicurezza, l’immigrazione o gli sbocchi commerciali, si giocano proprio sulle rive del Mediterraneo. Risulta, quindi, piuttosto ovvio che di fronte ad una minaccia così diffusa, a ben poco serve innalzare dei muri e delle barriere, oppure pensare che potremmo finire una volta per tutte con il nemico, anche perché non sappiamo nemmeno bene di chi si tratti. Occorre capire che siamo obbligati a convivere con alcuni rischi e mantenere una paura moderata; allo stesso modo bisogna lavorare nella logica della cooperazione globale per arginare fenomeni come il terrorismo e le violazioni dei diritti umani. Per concludere, vorrei riprendere il tema iniziale di questa introduzione: il compito della filosofia, la sua funzione in questo mondo pieno di sfide. Avevamo detto che la filosofia deve avere il coraggio di intervenire nella sfera politica, che deve aiutare a decidere, e allo stesso tempo deve pensare radicalmente i
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fatti che ci circondano discostandosi dal senso comune quando questo coincide con la banalità. E pensare radicalmente vuol dire non rinunciare alla complessità, farsi carico di essa, liberarsi dalle ossessioni identitarie e dai ragionamenti condotti per interesse o provocati da reazioni viscerali; deve fare questo ma deve essere in grado anche di esprimere proposte chiare, in grado di orientarci nel mondo. Ora, se riprendiamo alcuni degli elementi citati a proposito della governance globale, ritroviamo in fondo una funzione analoga: un politica globale è quella che non deve rinunciare alla complessità ma che non può cadere nell’aporia. Deve essere in grado di decidere nonostante sia consapevole che un paradigma unitario mondiale su tutte le problematiche presenti sia impossibile. In fin dei conti, una filosofia politica è già priva di genitivi perché è una filosofia tout court, dal momento che incessantemente si domanda chi siamo noi, interrogativo che sta alla base di ogni ontologia e che richiama la nostra intima consapevolezza nel momento costitutivo di aprirci agli altri, in questo mondo di tutti e nessuno, pieno di pirati e di rischi globali, ma nel quale viviamo e non potremmo (né forse vorremmo) fare altrimenti.
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Introduzione Di chi è il mondo?
Il mondo attuale è pieno di paradossi e molti di questi potrebbero riassumersi nell’idea che questo sia un mondo di tutti e di nessuno. Si moltiplicano le questioni che sono di tutti (che ci riguardano tutti e che richiedono azioni congiunte), ma delle quali, nello stesso tempo, nessuno può o vuole farsi carico (per le quali non vi è una sede competente, o delle quali nessuno si sente responsabile). Qual è la differenza tra il comune e l’ingovernabile, tra la responsabilità condivisa e l’irresponsabilità diffusa? Come distinguere ciò che è di tutti e ciò è che di nessuno, ciò che non ha padrone e ciò di cui nessuno si occupa? Non ci troveremo a chiamare universale ciò che è vuoto e a celebrare come un’apertura ciò che in realtà non è che intemperie e vulnerabilità? Questa ambiguità si riflette nelle valutazioni contrapposte con cui riceviamo le nuove realtà. Annunciamo la morte degli esperti, l’accessibilità ai dati, l’apoteosi della trasparenza e il superamento di ogni mediazione; ma queste medesime conquiste sono accompagnate dalla paura per la deregolamentazione, l’ingovernabilità e l’opacità. La società si divide tra ottimisti e pessimisti, che è proprio quell’asse lungo cui ci collochiamo quando non capiamo nulla di ciò che sta succedendo. Data questa ambivalente prospettiva, chi può assicu-
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rarci che tutto questo sia il presagio di grandi conquiste e non l’anticamera dei peggiori disastri? Propongo di comprendere questa nuova costellazione – la dialettica tra il tutti e il nessuno – come il presupposto a partire del quale si spiega ciò che potremmo chiamare, senza esagerazione metaforica, il ritorno della pirateria nell’era globale. C’è sempre pirateria laddove compaiano nuove realtà disponibili rispetto alle quali non risulta mai evidente chi ne detiene la competenza. Era logico che con l’aumentare dei beni pubblici dell’umanità – come il clima, la sicurezza, il sapere o la stabilità finanziaria – sia aumentata anche l’incertezza riguardo alla loro proprietà e gestione. La timida configurazione dell’umanità come soggetto e istanza d’appello converte eo ipso in pirati tutti coloro che prima erano Stati sovrani, detentori o praticanti di una qualsiasi unilateralità. L’attuale fluidificazione della proprietà è il controcampo dell’indebolimento della sovranità politica in un mondo di interdipendenze; entrambi i fenomeni condividono e hanno la loro origine nella medesima logica. La cartografia del mondo non stabilisce più un insieme coerente e compiuto di unità autosufficienti, ma piuttosto disegna una mappa incompiuta, con zone di sovranità ambigua, spazi di difficile regolamentazione e responsabilità diffuse. Tutto ciò ci obbliga a configurare un nuovo equilibrio tra Stato, mercato e società. Ciò che ci unisce, ciò che ci introduce in uno spazio comune non è altro che l’essere in comune delle nostre minacce, sono i rischi condivisi per i quali vi è l’impossibilità materiale di mettersi in salvo di forma isolata. Questa nuova intemperie può essere spiegata a partire da metafore come quella del mondo gassoso, di un’esposizione universale o di un mondo senza dintorni, che indicano una vulnerabilità condivisa, una simile assenza di protezione e un’impossibile immunità. L’altra faccia dell’interdipendenza è la paura al contagio e la fragilità
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comune. A partire da ciò possiamo sostenere che una coltivazione ragionevole della paura e la gestione dei rischi globali siano oggi tra i compiti più importanti del governo e costituiscano una nuova opportunità di rinnovamento della politica. Le società epidemiche hanno bisogno di accordi riguardo ai rischi accettabili, strategie che le proteggano di fronte alla propria irrazionalità, proprio come risulta evidente di fronte a fenomeni come le crisi, le conseguenze secondarie delle tecnologie o la gestione della sicurezza. Come pensare e governare un mondo costituito da minacce comuni e sovranità sopraffatte? Come proteggersi in spazi illimitati, in un mondo di reti, flussi e connessioni? Dobbiamo imparare una nuova grammatica che coniughi ciò che è proprio con ciò che è estraneo come se non si trattasse di due realtà necessariamente antagoniste. Dobbiamo capire che determinate richieste di sicurezza fanno precipitare ogni speranza di tramutare il pericolo in fonte di una nuova cosmopolitica, cioè, di una coscienza d’appartenenza ad uno stesso mondo, e per contro, nutrono il richiudersi di certe società (quelle più fortunate) per sottrarsi al mondo comune e mettersi al riparo dalle sue disfunzioni. Di fronte alle promesse di protezione che non possono portarsi a termine, possiamo soltanto offrire soluzioni cooperative, progetti di maggiore integrazione e forme di giustizia complessa per le quali abbiamo appena modelli e precedenti. In un mondo nel quale l’economia è per lo più deterritorializzata e le interdipendenze rendono più acuta la nostra comune vulnerabilità, non vi è altra soluzione che procedere verso una denazionalizzazione della giustizia e una governance globale. Si tratterebbe di superare quest’integrazione incompleta di un mondo che unifica gli ambiti tecnologici, economici e riguarda persino certi prodotti e stili culturali, che però si dimostra particolarmente analfabeta nella sua articolazione politica e
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giuridica. I beni pubblici comuni – la reciproca esposizione ai rischi globali riguardo alla sicurezza, nutrizione, salute finanziaria o medioambientale – richiedono una corrispettiva politica dell’umanità. Ciò che potremmo definire come civilizzare la globalizzazione non è altro che reinventare la politica su scala globale in modo tale che il mondo smetta di avere proprietari e diventi uno spazio di cittadinanza.
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Prima parte Un mondo all’intemperie
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Capitolo primo Il ritorno dei pirati nell’era globale
Nella sua celebre Storia della pirateria Philip Gosse ricorda che alla fine del XIX secolo si considerava la scomparsa dei pirati come qualcosa di prossimo (1932, 298). Era il sogno di un mondo dove non esisteva territorio che non avesse sovranità, dove, cioè, nessuno fosse sottratto alle regole dello Stato (Thompson 1994; Anderson 1997). La storia successiva sembra aver decisamente smentito questa previsione. La pirateria ha smesso di essere un caratteristico souvenir storico o una semplice metafora. I pirati sono tra noi e ovunque, prendendo le più svariate forme: pirati aerei e marittimi, radio pirata, deputati pirata, terroristi globali, pirati informatici e hackers, virus, spam, immigrati clandestini, squats, biopirateria, lobbisti, free riders, pirati finanziari, talpe, centri d’aggregazione di dati, bandiere ombra, crimine internazionale organizzato, riciclaggio di denaro... Il pirata forma parte dell’immaginario contemporaneo della globalizzazione, nel quale si incrocciano il capitalismo selvaggio, i movimenti integralisti, le reti che sfuggono agli Stati o i libertari del ciberspazio senza regole. La pirateria ha uno stretto legame con la figura del parassita, dal momento che il pirata non può esistere senza un sistema sociale grazie al quale vive, ma a cui non vuole appartenere: i virus vivono
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grazie al nostro organismo, coloro che piratano la proprietà intellettuale dipendono dal fatto che vi sia creazione culturale, l’economia finanziaria dipende in fin dei conti da ciò che denominiamo economia reale...Ci sono inoltre i “free riders”, ovvero, persone, istituzioni o paesi che vanno per conto proprio e sfuggono ad accordi che dovrebbero vincolarli. Il tema della pirateria presenta un’interessante prospettiva per mettere a fuoco molti dei nostri attuali conflitti riguardo ai modi con cui le idee e le tecnologie vengono create, distribuite e usate. Ciò che è in gioco, in fondo, è la natura della relazione che vorremmo stabilire tra la creatività e il commercio. Non mi sembra esagerato sostenere che si stia portando avanti la più profonda rivoluzione sulla proprietà intellettuale da metà del secolo XVIII, e che probabilmente tale rivoluzione finisca per estinguere l’idea di proprietà intellettuale che avevamo finora, e che è alla base dei nostri sistemi di copyright e brevetti. Adrian Johns enuncia questa trasformazione prendendo come metafora proprio l’idea di pirateria (Johns 2009). In particolar modo, le caratteristiche di Internet sembrano confermare l’esistenza di parecchie alternative percorribili alle normative della proprietà tradizionale. Molti nuovi modelli di affari si concentrano in fenomeni open software, che sfruttano le proprietà delle reti di forma inedita; si allarga la protesta verso gli abusi del sistema di brevetti farmaceutici... In ogni caso, le questioni in gioco sono qualcosa in più che una svolta tecnologica. A causa dell’economia dell’informazione, la pirateria si è diffusa come una metastasi sfidando la capacità di comprenderla e controllarla. L’accusa di pirateria è diventata il rimprovero della nostra epoca, un elemento sempre presente nelle discussioni sulla politica commerciale. Parallellamente alla crescita e diversificazione della pirateria, è emersa anche una controindustria che si dedica a combatterla.
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L’ambiguità del fenomeno suscita reazioni molto contrastanti. I più timorosi si lamenteranno sostenendo che ci volgiamo verso un mondo di depredazione e saccheggio generale; la prospettiva fa sperare in nuove emozioni, invece, a coloro che si annoiavano con la scena politica tradizionale. In ogni caso occorre chiedersi se questa riapparizione della pirateria ci dà qualche indizio per comprendere meglio il mondo attuale, le sue promesse e i suoi pericoli. Dovremmo verificare l’ipotesi secondo cui la pirateria è indissociabile dalla globalizzazione dei flussi commerciali, dalla formazione di un mondo marittimo transatlantico; per ciò continuiamo a trovare i pirati in ogni periodo di transizione, nel nostro caso, a causa dell’attuale indefinitezza riguardo la natura e la gestione dei beni comuni dell’umanità nel contesto della globalizzazione e della società della conoscenza. Nel Mediterraneo del VII secolo, a partire dal XVII nell’Atlantico oppure, ovunque nelle sue forme attuali, la tattica della pirateria consiste sempre nell’appostarsi il più vicino possibile ai flussi commerciali e il più lontano dai grandi centri politico-militari. Per trovare un luogo del genere ormai non è più necessario spostarsi, dato che la realtà della globalizzazione implica che in ogni dove il sistema finanziario s’impone sui sistemi politici; in ogni luogo, oggi, si è vicino a circuiti economici e lontano dal potere politico. L’attuale diffondersi della pirateria di diverso tipo è un’indicazione sul genere di mondo nel quale viviamo a causa della globalizzazione, che taluni hanno interpretato come un mondo “liquido”. Con l’aumento di ciò che possiamo chiamare beni pubblici comuni dell’umanità (il clima, Internet, la salute, la sicurezza, la stabilità finanziaria...), cresce anche l’incertezza circa la sua proprietà e la gestione. Tutti gli sforzi per regolamentare queste nuove realtà potrebbero essere intesi come tentativi per dotare di una certa intelligibilità territoriale gli ambiti dove finora è prevalsa una certa ambiguità. La grande difficoltà della questione è data dal fatto che ciò non può es-
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sere più fatto con le vecchie categorie dello Stato nazione e richiede un’altra forma di pensare e di gestire il nuovo spazio pubblico.
1. La terra e il mare Potremmo prendere come punto di partenza di quest’indagine la contrapposizione tra la terra e il mare, che fa parte del nostro immaginario geopolitico a partire da Tucidide, il quale oppose l’Atene marina alla Sparta terrestre, la prima democratica e l’altra conservatrice (1986). Il mondo premoderno era un mondo “marittimo” e imperiale, non organizzato su una base di territorialità stabile, come invece lo saranno, in epoca moderna, gli Stati nazionali. Il grande poeta del mondo marittimo, Herman Melville, fa dire ad uno dei suoi personaggi di Moby Dick: «la marea di Noé non si è ancora conclusa». Sia l’unità sia la ripartizione del pianeta d’allora erano una questione dipendente dall’elemento marino. Gli imperi volevano imporsi egemonicamente attraverso gli oceani. L’epoca imperiale non è comprensibile senza l’idropolitica. Il concetto legale di “territorio”, fisso e delimitato, invece, è un’invenzione della modernità. Il mondo antico era ancora troppo fluido e sconfinato. Le città e le repubbliche antiche e medievali stabilirono dei domini vincolati a determinate estensioni geografiche. Persino i romani dell’era imperiale ammettevano che il loro predominio si estendeva sino al limes dell’impero. Ma questo limite non era una frontiera. Era il punto nel quale si arrestava l’estensione di una certa giurisdizione, un punto raggiunto provvisoriamente dall’avanzata delle legioni. Nemmeno quando diventava qualcosa di stabile si costituiva come un limite rigido. Era piuttosto una zona di transito, commercio e comunicazione tra il mondo romano
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e quello barbaro. Gli spazi caratteristici delle città medievali erano di questo tipo. Non erano delimitati da linee di confine quanto divisi in zone, talvolta abbastanza ampie da permettere enclavi ed exclavi, e dove l’autorità poteva sempre essere messa in discussione. In senso stretto, la linea di demarcazione territoriale emerse molto dopo. Come hanno mostrato molti storici, la frontiera fu un’invenzione dello Stato assolutista, in particolar modo di quello francese. Il mare e la terra si confrontano anche tra le immagini di carattere epistemologico. In un celebre passaggio della Critica della ragion pura, Kant contrappone la terraferma, che indica come il «territorio della verità», all’oceano, «in cui ha la sua sede più propria la parvenza» dove i banchi di nebbia creano «l’illusione di nuove terre» (KrV B294-295/ A235; 2005, 264). La modernità comincia epistemologicamente con il predominio della fissazione territoriale contro la fluidità e l’ambiguità della liquidità marina. La modernità si traduce politicamente nella figura dello Stato nazione, di base territoriale, che stabilisce una nuova forma di determinare lo spazio del potere, con chiare attribuzioni di competenze e senza zone ambigue di sovranità. Ma questo periodo è un episodio della storia che viene oltrepassato intorno alla metà del XX secolo, quando si accentua quel processo che abbiamo definito globalizzazione, in virtù del quale le interdipendenze sembrano riportarci ad uno spazio che si assomiglia più all’indeterminazione marittima degli imperi che alla solidità terrestre degli Stati. La contrapposizione tra il mare e la terra ammette anche una considerazione più generale, di teoria politica, per la quale si polarizzano mentalmente due forme di intendere l’ordine sociale. Con tale intenzione polemica, troviamo questo antagonismo nelle riflessioni di Carl Schmitt durante il periodo tra le due Guerre (Schmitt 2008). Il giurista tedesco si lamentava
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del fatto che gli Stati di terra, protettori della sicurezza e della proprietà, si stessero indebolendo di fronte ai poteri marittimi, liberali ed oceanici. Per Schmitt i secoli XVI e XVII furono lacerati dall’antagonismo tra i poteri terrestri delle società chiuse e quelli marittimi delle società aperte. Questo quadro costituisce lo sfondo di tutti i dibattiti politici della modernità, che si sono imperniati intorno all’alternativa fondamentale tra gli Stati terrestri autarchici e i poteri marittimi sconfinati, intorno alla contrapposizione tra una filosofia politica della terra e una filosofia politica dell’oceano, tra un pensiero del limite e un pensiero dello smisurato. Per il reazionario Schmitt, il finito e il compiuto sarebbero l’ideale di fronte all’aperto e l’incompiuto, tipico delle società liberali. Il primato del politico si costituiva simbolicamente nella forza della terraferma, nella determinazione del continentale. Ciò che inorridiva Carl Schmitt era che la terra potesse collassare nel mare, cioè, che le nazioni potessero finire dissolte nell’ambiguità di un diritto pubblico comune. Da ciò deriva la sua forte contrarietà alla nascita di un nuovo ordine interstatale, così come si riteneva dopo la seconda guerra mondiale. Da allora, la stessa dinamica della globalizzazione ci ha condotti verso la configurazione di nuovi spazi che richiedono una giurisdizione al di là dello Stato nazionale, una gestione adeguata ai beni comuni interdipendenti e alla governance globale. “Umanità” è oggi un termine inevitabile; a partire dalle discussioni riguardo i diritti umani e i crimini contro l’umanità fino alle associazioni e gli interventi umanitari, il nome della nostra specie comune è fondamentale per riferirsi a determinate questioni che indicano un orizzonte cosmopolita. Questo antagonismo tra il mare aperto e la terra limitata si spiega molto bene attraverso le filosofie di Grozio e Hobbes. Il primo è il difensore del mondo senza sovranità Statiche e, quindi, senza proprietà stabili; Hobbes, invece, è l’avvocato dell’ordine terrestre.
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Ricordiamo la vicenda che diede origine a questa singolare contrapposizione ideologica. Nel 1603, un vascello portoghese era Stato rapito da un altro della Compagnia olandese delle Indie Orientali nello stretto di Malacca. Il Portogallo denunciò questo atto di pirateria e richiese la restituzione del carico, per contro la Compagnia cercava di giustificare la cattura. Gli olandesi si rivolsero quindi a Hugo de Groot, allora giovane avvocato, che argomenta, in uno scritto dal titolo De iure praedae comentarius (1606), che si era trattato di un atto di legittima difesa contro un paese, il Portogallo, che esigeva il controllo esclusivo dei mari asiatici per assicurarci il proprio commercio. Il significato di tale argomentazione si riassume nel fatto che, in nome del diritto naturale, nessuno può appropriarsi né dell’aria né dell’acqua, e che quindi è impossibile appropriasi del mare, dato che appartiene a tutti. In questo modo, Grozio giustifica il diritto di preda, di appropriazione, come nuova logica del mare, mettendo in questione così le ambizioni degli Stati sovrani di appropriarsi dei mari. Grozio giunge a dire che gli oceani inabitabili avevano uno statuto legale particolare che li avvicinava piuttosto alle proprietà aeree. Su elementi di tale sorta non era possibile acquisire nessuna sovranità fissa. Le pretese di proprietà sui mari aperti, seppure a titolo di “scoperta”, attraverso bolle papali, leggi di guerra o conquiste, erano ad ogni modo non valide. Una logica di questo tipo era stata anche espressa anche dal grande scrittore dei mari, Herman Melville, il quale stabiliva una distinzione riguardo alla legittimazione della cattura coloniale tra il “fast-fish” che apparteneva alle autorità stabili, consolidate e il “loose-fish”, che era liberamente a disposizione (“fair game”) di chi arrivasse per primo. E concludeva che sotto la categoria di “pesce libero” si trovavano l’America per Cristoforo Colombo, la Polonia per gli zar o l’India per gli inglesi. C’è una vecchia tradizione che associa la proprietà alla coltivazione della terra e considera che ciò che non è coltivato
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o coltivabile (come il mare) non può propriamente appartenere a nessuno. Già Plutarco denominava gli abitanti di una certa isola come pirati per il fatto che non sapessero coltivare la terra. Era il medesimo argomento per cui si sosteneva che l’America fosse disabitata quando arrivarono i conquiStatori. Abitare è coltivare la terra; coloro che non lo fanno non posseggono nessun diritto sullo spazio. Per ciò fu lecito espellere gli indiani in America oppure navigare liberamente per i mari. Il Leviatano (1651) di Hobbes potrebbe interpretarsi proprio come l’intento di stabilire l’ordine e la sicurezza terrestri contro il disordine marino. Il moderno Stato nazione sorge così contro il disordine del mare, contro quell’elemento di tutto ciò che è mobile, instabile, galleggiante, fluttuante, sfuggevole e che i pirati rappresentano simbolicamente. Non è strano, quindi, che Schmitt trovasse in Hobbes un precedente per la sua concezione di Stato sovrano, come elemento che introduce l’ordine e il limite di fronte al caos marittimo.
2. La nuova economia del saccheggio Tutto sembra indicare che la battaglia si volge attualmente a favore di ciò che Zygmunt Bauman ha definito «mondo liquido» (2007): la globalizzazione è spinta dalla fluidificazione generale, che implica il diventare liquido, non soltanto delle vecchie frontiere, ma addirittura dell’idea stessa di frontiera, che diventa qualcosa di obsoleto in uno spazio deterritorializzato. Potremmo comprendere ciò che sta accadendo con la metafora di un’“oceanificazione” del mondo, nel quale i flussi si sono liberati dalle costrizioni territoriali. Si tratta di un mondo nel quale gli spostamenti e la flessibilità sono l’unica realtà, un mondo a circolazione diffusa, in cui tutti navigano, sia in spazi digitali, finanziari oppure mediatici. Non sembra essersi
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avverato il sogno di Virgilio, laddove, nella sua quarta Egloga, sosteneva che in futuro saremo vissuti in un’epoca felice nella quali i viaggi marittimi sarebbero scomparsi. Benché vi siano mezzi di trasporto più veloci, non è diminuito il traffico marittimo: il 95% dell’attuale traffico mondiale di merci viene effettuato via mare. Il mare, questo medium amorfo, senza traccia, l’universo del pericolo e la conquista, è ora la società del rischio, gli spazi deregolamentati delle finanze e del consumi, sui quali il vecchio Stato nazione appare come una potenza senza autorevolezza. Siamo di fronte ad una configurazione del mondo che si assomiglia alle forme arcaiche delle società di raccoglitori e cacciatori, che viene concepito più in termini di itinerari, di bottini e di patti che come spazi chiusi e proprietà stabilite. Non c’è nulla di strano nel fatto che la figura del pirata emerga in un mondo di questo tipo, e che lo faccia con tutta l’ambivalente carica di libertà e barbarie. La nave pirata è l’utopia multirazziale e multireligiosa di una libera adesione; la celebrazione del diritto di partire contro l’obbligo dell’identità. Ci sono diversi studi recenti riguardo l’economia pirata e le sue particolarità (Lesson 2009). Lo storico marxista Christopher Hill richiamò l’attenzione sul fatto che molti radicali giudicarono la pirateria come qualcosa di più rispettabile che la cultura della canna da zucchero basata sulla schiavitù (Hill 1973). Il pirata rappresenta la figura di un tipo di nemico che non minaccia tanto un paese in particolare, ma piuttosto le nazioni terrestri in generale. Pirata è colui che «sfida ogni forma di rispettabilità organizzata», dice Philip Gosse. Un pirata si distingue da un corsaro per il fatto che non ubbidisce a nessuna legge terrestre, non dispone dell’avvallo di nessun governo territoriale. Cicerone parlava di coloro che si trovano al di là degli obblighi della «immense societate humani generis» (2012, 1.53). All’interno della tassonomia delle inimicizie,
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i pirati occupano un luogo speciale dovuto al loro carattere ostile nei confronti di chiunque trovino per la propria strada. Un pirata non è un nemico particolare ma piuttosto il nemico comune a tutti (communis hostis omnium) (Heller-Roazen 2009). Per il pensatore romano, far parte della comunità umana implica appartenere ad un territorio chiaramente delimitato. E ciò non è il caso dei pirati ed è da qui che deriva la loro inquietante pericolosità. La pirateria è l’opposto dell’egemonia, non nel senso che sia in grado rivaleggiare con gli imperi sul terreno del potere, ma perché impugna l’idea stessa di sovranità. La pirateria si frammischia negli interstizi che i cicli della sovranità non smette di aprire, nello «spazio senza testimoni, nel vuoto morale» (Sloterdijk 2005, 180). Da quest’ostilità assoluta provengono le nostre attuali denominazioni per definire i genocidi come “crimini contro l’umanità” o il terrorismo dei “unlawful combatants”, che si assomiglia meno alla guerra tradizionale tra Stati e più alla pirateria che ne deriva dall’indebolimento delle convenzioni moderne riguardo alla guerra tradizionale (Chomsky 2002; Innerarity 2004). Ci troviamo di fronte a “brigands”, nel senso che Bodino dava a questo termine per riferirsi a coloro che non rispettano le regole del gioco (e ciò ha anche un suo efetto perverso, dato che la ricollocazione del nemico come “brigand” è stata usata come pretesto per una forte regressione del diritto, per indebolire lo Stato di diritto e le leggi internazionali). Il parallelismo tra la vecchia pirateria e l’attuale terrorismo risiede nel fatto che entrambi i fenomeni si situano al margine del quadro territoriale. Ebbene, non credo di forzare la metafora se affermo che la pirateria rappresenta una nuova forma di stare in un mondo che è diventato liquido. Non mi riferisco soltanto al terrorismo globale ma anche a forme attuali della globalizzazione che riprendono il modello della rapina. Potremmo pensare
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al comportamento dei consumatori, così simile al saccheggio (come risulta evidente in un primo giorno di saldi nei grandi magazzini oppure in una qualche forma di consumo che implica un danno all’ecosistema). Il successo dei prodotti finanziari sarebbe inspiegabile se non fosse perché attraverso essi si promette una grande redditività che maschera i rischi che comportano. Penso anche alla biopirateria, termine che compare agli inizi degli anni ‘90 per definire l’appropriazione illecita delle risorse genetiche. In questo caso, le istituzioni scientifiche o mediche denunciate come pirati non sono chiamate così perché distruggono la proprietà, ma perché la introducono in luoghi dove prima non esisteva. Esiste una relazione tra molti conflitti attuali e la disposizione riguardo determinate risorse naturali, per cui si potrebbe parlare di «un’ecologia politica della guerra». In sostanza, l’attuale proliferazione del saccheggio si spiega in relazione alla debolezza degli Stati nel momento in cui devono controllare efficacemente i loro territori e all’accentuazione delle disuguaglianze che risulta particolarmente insopportabile. L’analogia prende piede se consideriamo anche l’attuale panorama ideologico, più liquido che terrestre, con delle strategie politiche più vicine alla pirateria che all’azione tradizionale. L’attuale disinganno ideologico risulta evidente dal fatto che né la sinistra né la destra sono particolarmente interessate a intervenire attraverso i soliti strumenti di rappresentanza. Sia l’individualismo conservatore sia la sinistra radicale comprendono se stessi come “contropoteri”, come “parapolitica”. Nell’immaginario di entrambi, il pirata rappresenta il paradigma della lotta contro la rigidità dello Stato e contro l’ordine neo-liberale; per motivi diversi, e persino opposti, la pirateria viene considerata come la strategia più adeguata per affrontare le evoluzioni economiche e culturali del capitalismo.
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Alcuni fanno appello alla società civile e altri alla moltitudine (Hardt/Negri 2000), entrambi concetti molto liquidi e molto poco politici. Ormai non siamo più nell’epoca della destra e la sinistra istituzionalizzata, bensì in quella del Tea Party e dei movimenti sociali. La destra preferisce il mercato allo Stato e la sinistra evoca, invece che le tradizionali forme di lotta sindacale, sociale, istituzionale o armata, dei sostituti del combattimento come l’esilio, la defezione o la nomadizzazione. Come suggerirono Deleuze e Guattari, il nomade, ancor più del proletario, è il resistente per eccellenza (1980). Nell’ambito della sinistra le strategie più innovatrici riflettono il tramonto degli ideali rivoluzionari. La massima aspirazione può essere il “détournement”, quella parodia satirica che propone l’arte contemporanea seguendo un termine coniato dai situazionisti, ovvero, la pretesa di sabotaggio, distorsione o sovversione. Si tratta, per dirla con Deleuze, di interruzioni o micro-sfere di insurrezione. Certo, niente che richiami la vecchia brama di assalire il potere; la proposta più ambiziosa è quella di trarre beneficio dagli interstizi o dalle zone dismesse dallo Stato. Naomi Klein, una delle principali ideologhe dei movimenti noglobal, fa un appello a questa forma di resistenza del “cultural jamming”, a quest’interferenza che vorrebbe trasformare i messaggi pubblicitari dei marchi senza alterare i loro codici di comunicazione affinché vengano riconfigurati i valori che tali marchi trasmettono (Klein 2000). Chiunque può avvertire la contraddizione di questo altermondialismo, dal momento che decidersi per la pirateria impone proprio che non si ritenga che «un altro mondo sia possibile». La razzia, che era una forma di appropriazione abituale nel mondo arcaico e classico, e che lo Stato moderno volle risolvere stabilendo forme di proprietà codificate, ha assunto attualmente (nel mondo della finanza e dell’informazione) forme d’enorme complessità. Una delle figure più evidenti della pirateria contemporanea sono i paradisi fiscali, quei luoghi
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senza identità, senza fiscalità né obbligo di residenza. Là vi è la consacrazione del curioso diritto di abbandonare ogni spazio politico sottraendosi alle imposte, che sono l’emblema del potere territorializzato. Altra strategia di de-politicizzazione, nella sua forma più lacerante. Non è un caso che molti di questi “paradisi” siano isole, nelle quali non vanno più i respinti ma le élites che abbandonano la terra degli Stati e le loro costrizioni. Il ciberspazio fornisce allo stesso modo una grande quantità di metafore marittime e piratesche. Come gli oceani e l’aria, il ciberspazio è un territorio di navigazione. Il vocabolario della rete è molto esplicito in tal senso. Si naviga in rete, e i pirati assalgono, immobilizzano, sabotano e s’impadroniscono dei server, talvolta per il semplice gusto del gioco, altre per motivi criminali e geostrategici. Là si aggirano altri naviganti con la stessa logica libertaria con cui gli esperti finanziari creano prodotti per sfuggire ad una possibile regolamentazione. Gli hackers si intrufolano nelle fessure della rete e gli uomini di finanza cercano spazi off shore allo stesso modo che i pirati circolano tra gli spazi della sovranità. Come i pirati storici, i naviganti della rete vivono in un arcipelago nel quale lo Stato impotente non ha il monopolio della violenza legittima. Il sogno delle logiche libere è ciò che ha fatto diventare Internet l’utopia politica che ha appassionato una generazione. Molti commentatori hanno sottolineato la vicinanza di certi ideali contro-culturali con il semplice anarchismo liberale. Si tratta di ciò che alcuni hanno chiamato “the californian ideology” (Barbrokok/Cameron 2001) per avere la sua origine nel contesto anti-autoritario degli anni ‘70 e che ha dato luogo ad una vicinanza ideologica tra i libertari del mercato e l’iperrealtà virtuale, tra l’anarchismo hippie e il liberalismo economico. Questo bizzarro mix tra MacLuhan e Hayek è qualcosa che non solo si spiega attraverso una credenza comune nel determinismo tecnologico, il quale, invece, ha radici più profonde.
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Luc Boltanslki e Ève Chiapello hanno evidenziato come, dopo i movimenti contestatari del ‘68, la critica al capitalismo prese due vie differenti: una “sociale” che rivendica una trasformazione dei rapporti di forze dominanti e un’altra “artistica” che ha la pretesa di liberare gli individui affinché essi diventino più autentici e creativi (1999). Internet ha offerto al movimento un viatico d’espansione per l’autonomia dell’individuo, l’autoorganizzazione e il rifiuto delle limitazioni collettive. Questa dimensione anti-istituzionale possiede molti punti in comune con l’ideologia libertaria. Più volte si è richiamata l’attenzione sul fatto che gli hippies contestatari degli anni ‘70, così gelosi dell’autonomia personale, non avessero troppi problemi nell’adeguarsi alle politiche liberali e di deregolamentazione. Si è così configurato un nuovo terreno on line della lotta politica retto dalla libertà d’informazione e dalla diffidenza verso l’autorità e la centralizzazione. Militanti del software libero intercedono per la dissoluzione delle frontiere digitali e portano avanti un’apologia della gratuità. Per loro, la rendita costituisce qualcosa di illegittimo perché la regolazione della domanda non è vincolata ad una superiorità intrinseca del prodotto, bensì alla sua anteriorità, che è spesso accidentale. D’altro canto, ciò appare anche come qualcosa di eccessivo perché chi detiene questo potere cerca di far si che esso sia irreversibile, imponendo, per esempio, una scarsità artificiale e ritenendo illegale o impossibile la duplicazione del prodotto. Di fronte a questa proprietà, i nuovi pirati del ciberspazio difendono il diritto di contraffare, che viene contraStato in nome della protezione dei marchi. Queste forme di pirateria non cercano di rovesciare il capitalismo ma piuttosto di creare spazi al riparo della mercificazione generale.
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3. Capitalismo senza proprietà La decostruzione del mondo attuale è dovuta, in gran parte, ad una serie di cambiamenti che non possono essere compresi né regolati con gli strumenti che avevamo. Il mondo ci si presenta come una realtà comune, senza padrone, nella quale è difficile fissare responsabilità o assegnare competenze. Questa mancanza di configurazione fa il paio con una profonda trasformazione del concetto di proprietà; si potrebbe parlare persino del suo esaurimento in un “capitalismo senza proprietà”. Potremmo spiegare quest’idea attraverso un procedimento che vale in qualsiasi realtà storica. Quando vogliamo comprendere il significato di qualcosa che sta finendo, la cosa migliore è considerarne il suo senso iniziale. Se la crisi attuale ha svelato una profonda trasformazione del capitalismo, può essere utile cercare di capire cosa significò la costituzione del capitalismo come sistema generale della proprietà e del mercato. Ebbene, ciò che fece lo Stato moderno fu privilegiare la proprietà e i proprietari. Tutti gli ordinamenti giuridici concedono una grande importanza alla protezione della proprietà e diffidano delle realtà senza padrone. Tre quarti degli articoli del Codice Civile Francese del 1784 si riferivano alla proprietà come centro dei rapporti e dei conflitti di una società. Non c’era niente al mondo che non potesse divenire proprietà di qualcuno, e nemmeno nessuno che potesse rimanere al di fuori dei rapporti di proprietà. Chi è senza proprietà, chi è assolutamente disinteressato del possesso stabile di beni, è un pericolo pubblico; può essere uno speculatore, un pirata, un terrorista suicida o semplicemente qualcuno che non merita fiducia. Colui che è privo di proprietà è pericoloso perché non rientra propriamente all’interno della società. Chi è soltanto povero, invece, ha bisogno della protezione dello Stato, consuma sebbene poco e richiede di essere riconosciuto dalla
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società; può essere cittadino, diventare responsabile, essere rintracciato. Per questo motivo i sistemi politici moderni considerarono che la libertà civile non può essere esercitata senza proprietà, per quanto questa possa essere scarsa. Nel secondo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, la proprietà si trova tra i diritti fondamentali, accanto alla libertà, alla sicurezza e alla resistenza contro l’oppressione. Ora, cosa succede quando i meccanismi del capitalismo arrivano al punto di poter rinunciare all’etica della proprietà? Cosa occorre quando non ha più bisogno della proprietà (dei suoi vincoli e dei suoi obblighi) per apportare al mercato gli impulsi necessari? Questa è la questione che attualmente ci viene proposta e che necessita di un nuovo di tipo governance. Un sondaggio fatto in Russia (e che potrebbe essere sperimentato in altri paesi) mostrava il seguente dato: alla domanda riguardo quale fosse il diritto a cui si attribuiva la maggiore importanza, la grande maggioranza rispondeva il diritto alla sicurezza sociale, al lavoro e all’educazione ben al di sopra del diritto alla proprietà. Potremmo concludere che la maggioranza dei russi non vuole essere proprietario. Senza interesse per la proprietà, non ci si interessa nemmeno allo Stato come garante di tale proprietà, ma si è soltanto interessati ad un’amministrazione che garantisca determinate prestazioni; chi vive senza proprietà, quindi, senza un ambito privato, nemmeno si preoccupa della dimensione pubblica. Il capitalismo globalizzato non ha bisogno della proprietà e delle sue virtù civiche. È entrato in uno Stato di autonomia o autoriflessione nel quale può mantenersi in moto senza la civiltà che caratterizzava ciò che Macpherson chiamò «l’individualismo possessivo» (1964). Così si mette in evidenza nell’attuale rapporto tra lavoro e proprietà. La proprietà non è più vincolata alla creatività imprenditoriale e al lavoro, vincolo che non è più necessario quando la proprietà che ha veramente valore
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è quella del valore delle azioni. Nel contempo, il genere ideale di lavoratore è il tecnico autonomo che non sempre è presente nel luogo di lavoro, che trattiene cooperazioni informali, che non è legato ai sistemi di solidarietà del lavoro tradizionale propri della produzione di beni materiali né a organizzazioni formali gerarchiche. Nell’economia dei servizi, l’antica morale del lavoro sembra qualcosa di desueto. Laddove si verifica meglio la dimensione di questo capitalismo senza proprietà è nella finanziarizzazione dell’economia e nel mondo della borsa. Le azioni sono la nuova forma della proprietà. Benché non ogni proprietà abbia a che fare direttamente o indirettamente con il possesso di azioni, è in borsa che si decide alla fin fine il valore della proprietà. Sono i mercati finanziari globali che stabiliscono il genere di aspettative che determinano i movimenti di capitale attraverso le azioni. La proprietà, che è stata l’espressione di un guadagno, quindi, di un passato, e che era vincolata con l’idea di patrimonio ed eredità, si fluidifica attualmente sino a diventare la semplice aspettativa, soggetta all’oscillazione delle azioni. Se prima la proprietà era il simbolo della continuità, della volontà di trasmissione verso i posteri e, quindi, della volontà di eternizzare in un certo modo la propria esistenza, ora deve prescindere da tali pretese ed essere continuamente disponibile a reagire ai movimenti del mercato, della borsa. La fluidificazione della proprietà in azioni corrisponde alla trasformazione della proprietà in aspettativa. Il successo è dato dall’adattarsi con abilità, senza generazione né responsabilità, soprattutto senza le responsabilità civili della proprietà. L’azionista aumenta il valore delle proprie azioni, ma non con l’intento di rafforzare il capitale di sua proprietà come patrimonio ereditabile. L’attuale azionista non è consapevole delle molte occasioni in cui sta partecipando con le proprie azioni e nemmeno come è gestita l’azienda di cui comproprietario, limitandosi a segui-
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re passivamente le indicazioni che stabiliscono i grandi poteri d’investimento. È solo apparentemente padrone della sua proprietà. E nel contempo è una preda facile delle reazioni di panico, bottino di movimenti di capitale che non riflettono più tanto il valore oggettivo delle cose quanto le oscillazioni emozionali. Se questi sono i fatti, occorrebbe allora interrogarsi sulla funzione economica della proprietà delle azioni, cioè, riguardo, cioè, l’apporto di un segnale di progresso e crescita nel tumulto delle forze di mercato. Sebbene le azioni siano necessarie per legittimare il mercato, hanno sempre più spesso la funzione di claqueur dei movimenti di capitali e del divenire delle azioni, che in pochi sono in grado di interpretare. La forza economica e sociale delle azioni consiste teoricamente nel fatto che collocano chi le possiede al centro dell’attività capitalistica, trasformandoli in imprenditori. Ma in realtà rimane appena qualcosa per la grande maggioranza dei piccoli e medi azionisti. L’azione si limita ad essere un’aspettativa d’aumento di valore, ma non appartiene al mondo della proprietà, nella quale il suo proprietario potrebbe identificarsi in qualcosa di disponibile. Un capitalismo così configurato non ha apparentement bisogno di quadri stabili per mantenere la sua continua agitazione. Ma una delle cose che la crisi ha messo in evidenza è che o troviamo qualcosa che svolga la funzione equivalente ai compiti che venivano portati avanti dagli Stati quando vi era un capitalismo di proprietari, oppure l’attuale capitalismo senza proprietà porterà ad errori di mercato che in quanto società civilizzate non ci possiamo permettere.
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4. Spazi non governati Molte cose che ci stanno accadendo sembrano alludere al fatto che viviamo in un mondo “offshore”, ovvero, un mondo di poteri letteralmente “lontani dalla costa”, delocalizzati, un mondo i cui poteri decisivi non rendono conto a nessuno, sono irresponsabili e fuori portata dall’autorità politica legittima. Come direbbe Palan (2003), un mondo di mercati sovrani, spazi virtuali e miliardari nomadi. Abbiamo la sensazione che a governare non siano coloro che dovrebbero farlo e che comandino coloro che non ne avrebbero la legittimità. Mi riferisco, ovviamente, ai terroristi e ai signori della guerra, per esempio, ma anche ai pirati informatici, alle agenzie di rating e agli evasori di capitali, i quali costituiscono una specie di autorità alternativa o ci influenzano di forma ingiustificata, negli spazi non governati, oppure laddove l’autorità politica è debole o maldestra. Il caso più grave e generale di spazi non governati è quello che definiamo come “Stati falliti”, termine con cui ci riferiamo a società dove gli Stati nominali sono incapaci di esercitare la sovranità effettiva. Questi insuccessi politici hanno già una lunga storia. Con l’avvio della decolonizzazione ci si attendeva che i nuovi territori seguissero la via “occidentale” di sviluppo di un potere sovrano, cioè, la capacità di controllare l’utilizzo della forza, imporre decisioni politiche all’interno di un territorio e respingere gli attacchi esterni. Orbene, questo paradigma non ha mai descritto adeguatamente la realtà di due terzi del pianeta, nel quale vi sono piuttosto dei quasi-Stati o aree di sovranità limitata. Questo scarto tra sovranità legale e sovranità effettiva risiede nell’origine dell’emergenza di strutture di autorità alternative in tali zone: forme feudali di potere, insorgenze, tribalismi, mafie...Inoltre, si potrebbe sostenere che l’inclusione di quegli spazi decolonizzati nell’economia globale ha complicato la loro capacità di organizzare un’autorità
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politica vera e propria ed esercitare il controllo effettivo al loro interno. Le forme d’autorità favorite dal capitalismo globale non coincidono spesso con quelle che sono rivestite della sovranità legale in quei territori. Era questa una preoccupazione che, negli anni ‘90, a seguito della fine della guerra fredda, ha dato origine alla paura che il terrorismo potesse usare i “failed states” come rifugi. La preoccupazione per gli spazi non governati in senso stretto sorge dalla premessa secondo la quale la sovranità degli Stati territoriali è l’unica e corretta forma di organizzazione politica in grado di garantire l’ordine mondiale. Ma questa prospettiva è troppo riduttiva perché non tiene conto degli spazi non governati che esistono nel sistema internazionale e in altri ambienti virtuali, con attori transnazionali e diverse reti, all’interno degli Stati organizzati, nelle periferie e nei centri di molte città. Abbiamo la tendenza a vedere gli spazi pericolosi come qualcosa di esterno, il che è un errore dato che, anche negli spazi sottoposti alla sovranità statale legittima, il territorio non è mai uniformemente controllato. È diventata abituale l’esistenza di zone dove è meglio non penetrare all’interno di alcune città, oppure aree rurali sotto il controllo degli insorgenti. E se la difficoltà di governare fosse qualcosa di meno straordinario, e più inquietantemente normale? Innanzitutto, lo Stato non deve essere compreso soltanto come uno spazio territoriale ma piuttosto come uno spazio funzionale e regolatore. Da questo punto di vista, l’autorità statale fallisce ogni qualvolta non fornisca le prestazioni che gli vengono richieste, quando regola male o di forma insufficiente. Il problema dell’ingovernabilità è più ampio se prendiamo in considerazione non soltanto i casi estremi di vuoto di potere o di fallimento statale, ma lo riteniamo come una caratteristica generale del mondo in cui viviamo. C’è chi sostiene esplicitamente che gli spazi virtuali della finanza e dell’informazione comportano la
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fine della sovranità (Strange 1996). In ogni caso, è interessante comprendere come sia avvenuta la trasformazione della statualità in un’epoca a debole sovranità; esistono spazi non governati in cui gli Stati hanno ceduto sovranità, di forma volontaria o meno, ragionevolmente o no, di forma totale o parziale, ad altre autorità. Se capiamo che gli spazi non governati sono quelli in cui il potere dello Stato è assente, debole o conteStato, allora, oltre a riferirci a territori retti dal potere tribale o persistentemente insorti, dovremmo estendere questa categoria ai domini di Internet o ai mercati dove operano gli agenti economici con regolazione pubblica insufficiente. L’onda della globalizzazione neoliberale attraverso una deregolamentazione del commercio e dei mercati finanziari ha portato a compromettere significativamente la capacità degli Stati nella regolazione dei flussi di beni, servizi, informazione, persone, tecnologie e danni ambientali. L’attuale crisi finanziaria globale ha la sua origine negli strumenti finanziari sviluppatisi nello spazio dei mercati deregolamentati e mostra drammaticamente il rapporto tra globalizzazione, sovranità diffusa, spazi di irresponsabilità economica (come le banche offshore, i paradisi fiscali e certa legislazione sul segreto bancario) e la generazione di autorità alternative (tra cui si evidenziano le agenzie di rating, la cui indipendenza e senso di responsabilità sono sempre messe maggiormente in questione). L’estensione globale del neoliberismo ha compromesso la capacità e la legittimità degli Stati nel governare i mercati finanziari e nella creazione delle condizioni per una prosperità economica equilibrata. L’idea dell’offshore evoca luoghi esotici e isole lontane, ma in verità gran parte delle transazioni avvengono nei grandi centri finanziari di New York, Londra o Tokio. L’offshore non è da riferirsi alla localizzazione geografica di determinate attività economiche quanto piuttosto allo statuto giuridico di un insie-
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me di ambiti in espansione grazie al carattere astratto dell’attuale finanza. Questo non sminuisce lo scandalo sul fatto che le Isole Caiman siano il quinto centro finanziario del mondo, così come non ha nessun senso che il Lussemburgo abbia più banche che la Svizzera, un paese nel quale vi sono più banchieri che dentisti, che la Liberia sia la nazione con più navi al mondo, oppure che gli abitanti delle Antille Olandesi passino mediamente tre mesi all’anno facendo telefonate internazionali. L’altro caso di deregolamentazione inquietante è Internet. Certamente non si tratta di uno spazio completamente ingovernato, dal momento che vige in esso una patnership ufficiosa tra Stati e aziende. Nonostante ciò, il ciberspazio continua ad essere un luogo pericoloso; è una costruzione davvero transnazionale, dove le demarcazioni e i confini sono di poco conto per cui, in relazione al carattere globale dei flussi, le regolamentazioni sono nazionali ed incomplete; possiede un’epidemiologia a sé, similare alle pandemie degli spazi fisici, e dei delitti anche essi particolari e particolarmente difficili da combattere. Sebbene gli Stati giochino ancora un ruolo importante nel controllo degli spazi digitali (come si è visto nelle rivolte del Nord Africa o in Cina), è che chiaro che la governance di Internet farà diminuire la centralità dello Stato nazione nella politica globale. La conclusione a cui possiamo pervenire dopo tutto ciò è che esistono più spazi ingovernati di quanto pensiamo, ma che sono meno ingovernati di quanto temiamo. Ciò che in un primo momento può apparire disordinato, spesso ha una sua propria forma d’ordine. Molti dei beni che tradizionalmente venivano forniti dagli Stati, ora lo sono da attori locali oppure transnazionali. L’imperativo di governare tali spazi si compie spesso a partire di una prospettiva Stato-centrica, come se lo Stato – nella sua
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forma tradizionale – fosse l’attore decisivo riguardo la capacità di provvedere alla governance e generare sicurezza. Ma nel mondo del XXI secolo, la sovranità degli Stati è diventata diffusa e lo Stato si trova affiancato da molti altri attori, benigni e maligni, che a volte rivaleggiano, altre collaborano nel momento di proporzionare governance e sicurezza attraverso forme di organizzazione non gerarchiche e orizzontali. La preoccupazione riguardo alla perdita di autorità sovrana sia funzionale che regionale corrisponde all’erosione dello Stato nazionale come giudice esclusivo. Spesso tale preoccupazione è esagerata; in altri occasioni è ragionevole ma sottostà alla debolezza degli Stati tradizionali nell’esercitare il monopolio al quale aspiravano in un nuovo mondo multicentrico con diverse sfere d’autorità (Rosenau 1990). Molti degli spazi ingovernati e delle autorità alternative che essi rappresentano sono lì per rimanerci, che piaccia o meno, e gli Stati dovrebbero preoccuparsi sulla forma con cui gestire, limitare e coesistere con essi in relazione al fatto di proporzionare la dovuta sicurezza alle proprie popolazioni. In molti casi, collocare l’autorità degli Stati in una rete che include organizzazioni non governative o agenzie internazionali contribuisce alla creazione di sistemi che forniscono migliori regole e maggiore sicurezza. Non si tratta di dimenticare la sovranità nominale, bensì di svilupparla con una comprensione più sfumata delle strutture dell’autorità che agiscono in ogni luogo e in ogni sottosistema della società. I mercati e il ciberspazio saranno sempre più ingovernabili, se per governare intendiamo il sistema di comando che agiva all’interno degli Stati tradizionali. Bisogna tornare a governare ciò che il cambio sociale tende a depolicitizzare; il problema è che occorre farlo in un altro modo.
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5. Alla ricerca della responsabilità perduta La pirateria è indicativa della mancanza di regolamentazione, sia per il fatto che ci troviamo di fronte a forme di proprietà inedite, beni comuni di difficile identificazione, sia di fronte ad innovazioni che presuppongono problemi normativi. Che dire, per esempio, di quella guerra di patenti per i fondali marini ai fini di brevettare organismi per sviluppare applicazioni mediche od energetiche? La nuova pirateria è dovuta in particolare all’attuale moltiplicazione di beni pubblici, all’indeterminatezza della loro natura. Di fatto, l’epoca moderna poté essere compresa come un’epoca nella quale l’azione era più veloce della legislazione, da allora succede così ed è possibile che ciò rientri nella cifra generale della modernità. Colui che in tempi stabili e regolamentati è un saccheggiatore e un delinquente, nei momenti storici di scoperta ed espansione diventa un pioniere, un avventuriero, eroe o missionario della civiltà. Pensiamo anche alle pandemie, alla sicurezza, al clima, alla conoscenza, alla rete o ai rischi finanziari, la cui liquidità dipende dal fatto che non sempre è facile sapere chi se ne fa carico, a chi compete, a chi appartiene, chi ne è il responsabile, chi è l’autore... A tutto ciò si aggiunge un effetto tipico della deterritorializzazione: la difficoltà di discernere tra il privato e il pubblico, il proprio e il comune, l’interno e l’esterno. È necessario precisare, per esempio, le condizioni di accettabilità delle rendite in una società della conoscenza e dell’informazione, quando e in che misura è legittimo il beneficio dei creatori (in ambito artistico, finanziario o farmaceutico). Occorre trovare un nuovo equilibrio tra sicurezza e difesa nella vita privata, tra diritto d’autore e diffusione della cultura, tra le esigenze della ricerca e il diritto alla salute. Abbiamo bisogno, in sostanza, di una nuova regolamentazione per un mondo nel quale il sapere è disseminato di informazione disponibile, di
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luoghi accessibili e comunicazioni immediate, un mondo di interdipendenze e vincoli. Si potrebbero interpretare gli attuali tentativi di regolare questi nuovi spazi come un tentativo di ri-territorializzare il mondo e combattere la sua eccessiva liquidità. È la logica che sottostà ai tentativi di controllare i flussi finanziari ed eliminare i paradisi fiscali, che ormai non si trovano più nella periferia ma nel cuore del nuovo mondo globale. Queste isole dove non vige il diritto scambiano il rapporto tra la terra e il mare: la terraferma si trova ora nella periferia di un mondo liquido, gli Stati nella periferia del mondo finanziario. È come se vivessimo in un mondo nel quale il mare avesse preso il sopravvento sulla terraferma. Per ciò si può interpretare l’attuale battaglia contro i paradisi fiscali come una rivincita delle potenze terrestri contro le derive del nuovo potere deterritorializzato. Pensiamo, per esempio, all’idea di “tracciabilità” che si propone come esigenza ecologica per i prodotti di consumo e che non è altro che il tentativo di risalire nella catena delle transazioni per assegnare una responsabilità. Che cosa ha a che vedere il fatto che un pirata avesse un passato così poco identificabile e non fosse attribuibile a nessuna identità statale conosciuta, con l’indeterminazione di molti dei prodotti dell’attuale industria alimentare o con l’inquietudine che provocano certi beni di consumo la cui produzione possiamo ritenere sia legata ad abusi lavorativi? In fondo, in entrambi i casi, è l’assenza di passato ciò che provoca la paura. Attraverso l’idea di tracciabilità si cerca di de-piratizzare l’ordine alimentare e il nostro consumo in generale, ricuperare una fiducia che può essere ottenuta soltanto identificandone l’origine e l’evoluzione storica, sostituendone l’ambiguità senza tracce della sua condizione liquida per un percorso terrestre riconoscibile. Ma i problemi sono così incontrollabili quanto la confusione che provoca una realtà di interdipendenze così dense. Come
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far la guerra ai pirati in un mondo liquido nel quale non vi è propriamente un campo di battaglia? La repressione della pirateria, durante il XVIII secolo, ci fornisce un modello, che, fatte salve le distanze, può orientare il nostro scontro contro i delitti globali. L’editto Alien tort statute attraverso il quale gli americani cercarono di eliminare i pirati nel 1789 ci dà alcuni indizi riguardo la governance e la giustizia globali: dibattiti aperti, consensi più ampi, unificazione dei criteri e delle legislazioni. La lotta contro la pirateria poté essere davvero efficace soltanto quando fu considerata come “legislazione universale”, cioè, come qualcosa che andava al di là delle competenze nazionali. Nell’attuale ambivalenza delle realtà de-territorializzate diventa evidente un problema per il quale ancora non abbiamo un quadro gestionale adeguato. Da un lato, è un passo avanti che i diritti siano validi indipendentemente dal territorio in cui ci si trova. Così lo stabilisce, per esempio, il Working Group on Arbitrary Detention delle Nazioni Unite: se uno Stato esercita un controllo su determinati soggetti, quello Stato è comunque responsabile sotto il diritto internazionale. Ma ci sono forme perverse di deterritorializzazione come Guantanamo, simbolo di tutta una serie di terre di nessuno, nelle quali si verifica che i limiti del territorio non sono necessariamente coestensivi con i limiti del diritto. Le attuali esigenze di avviarci verso una legislazione universale ha le sue radici legali nel vecchio diritto di chiunque di perseguitare e punire i saccheggiatori marittimi. Se facciamo attenzione, molti dei grandi problemi attuali richiedono di andare al di là della fissazione territoriale e trovare soluzioni “oceaniche”. Per esempio, l’esigenza di rivedere e ampliare i criteri di accesso alla cittadinanza in materia d’immigrazione imporrebbe di svincolare la cittadinanza stessa dalla statualità o denazionalizzare i diritti. Non rimane altra soluzione che
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superare il principio di territorialità del diritto in accordo con la natura deterritorializzata delle minacce che dobbiamo affrontare, far sì che il diritto sia, per così dire, più “marittimo” e meno “continentale”, farlo diventare isomorfo con il suo oggetto. La nuova presenza dei pirati nell’era globale mette in evidenza che il segno dei tempi ha a che fare con il ritorno dei mari e la progressiva irrilevanza della terra.
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Capitolo secondo L’umanità minacciata
Come sostiene Ulrich Beck, diversamente da altre civiltà, noi non possiamo attribuire tutto ciò che ci minaccia a cause esterne; le società si confrontano con se stesse, con la produzione di ciò che non desiderano. Spiegarlo contrasta con il nostro senso comune, che tende a stabilire causalità chiare, distingue tra i soggetti e gli oggetti, pensa in termini gerarchici e concepisce la difesa con categorie di protezione spaziale. Per identificare e comprendere la natura delle minacce in un mondo che è di tutti e di nessuno si richiede uno sforzo “metaforologico”. Qui proporrò tre metafore per correggere il nostro modo abituale di pensare tali questioni. Partirei dall’idea secondo cui il mondo può spiegarsi a partire da certe proprietà gassose, meglio che liquide; in secondo luogo, analizzerei le caratteristiche e gli effetti della sovraesposizione nella quale ci troviamo quando vigono le logiche dell’interdipendenza; e infine, direi che il nostro mondo è privo di dintorni, nel senso che, difatti, niente rimane al di fuori, al margine o completamente isolato, costituendo un principio normativo che ci impedisce di considerare qualsiasi cosa come assolutamente esteriore. Tra Stati gassosi, realtà contagiose e spazi che non si chiudono ne va della comprensione del mondo in cui viviamo, così necessaria per farne qualcosa di ragionevole.
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1. Un mondo gassoso Può che darsi che anche nelle metafore il diavolo ci metta lo zampino, e quindi, chi fa circolare una metafora, che allo stesso tempo mette in luce certi aspetti della realtà, finisce certificando i propri limiti. Così come non vi è luce senza ombre, allo stesso modo non c’è metafora brillante che non ci abbagli ogni tanto e ci impedisca di apprezzare alcune dimensioni della realtà che intendeva esplicitare. Così capita all’idea di una società diventata “liquida”, così come il sociologo Zygmunt Bauman ha fotografato il mondo attuale, il mondo dei flussi contro la rigidità degli Stati nazionali e quadri tradizionali di governo. Secondo tale prospettiva, sarebbe cambiato il rapporto con la geografia che fonda la geopolitica tradizionale e la questione centrale non sarebbe più il controllo dello spazio geografico quanto il controllo di tali flussi liquidi. Ebbene, per quanto la metafora della liquidità risulti suggestiva, essa non risulta sufficiente, a mio avviso, per descrivere tutta la realtà degli attuali processi sociali; questa è la ragione per cui falliscono gli interventi regolatori degli Stati e degli organismi internazionali, come si verifica ripetutamente per quanto riguarda il controllo dell’immigrazione, evasione di capitali o governance del cambio climatico, solo per citare gli esempi più evidenti. Ci stiamo avvicinando ai limiti di ciò che è stato definito come “keynesismo idraulico”. La metafora della liquidità – a causa dell’omogeneità dell’elemento liquido – non riesce a rendere conto delle turbolenze mediatiche, di scala planetaria – i buzz – che si generano intorno ad un evento che in un primo momento sono esplosive ma in seguito e velocemente si sgonfiano; non spiega nemmeno a sufficienza il fenomeno delle bolle speculative e della sfuggevolezza economica. Se dobbiamo proprio scegliere un’immagine persuasiva, le bolle di Sloterdijk (1998) hanno una maggiore forza esplicativa per capire un mondo fatto di fenomeni più atmosferici
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che materiali, un mondo fatto di frottole, rumors, nebbie, rischi, panico, speculazione e fiducia. I limiti analitici sono di solito accompagnati da fallimenti strategici; le teorie insufficienti si traducono in azioni inefficaci. Ormai da tempo sappiamo che il controllo dei canali per i quali transitano gli scambi non garantisce il controllo del contenuto. Sebbene la Russia, per esempio, controlli una parte importante dei trasferimenti di gas e petrolio, per contro appena partecipa nello stabilire il prezzo finale nelle piazze di New York o Londra. Paesi o attori che non esercitano nessun potere fisico sui canali di transito “liquidi” hanno invece un’influenza notevole nella formulazione di tali prezzi. Vi è un divario sempre maggiore tra i flussi commerciali, i flussi di capitali e gli scambi di valuta; il volume superiore di questi in rapporto ai prodotti a cui fanno riferimento, la crescita spettacolare dei mercati d’opzioni e futures o la speculazione finanziaria sono fenomeni più vicini all’irrealtà atmosferica che all’elasticità liquida. È sempre più scisso anche il valore intrinseco del “liquido”soggiacente che circola nei tubi (il gas, i flussi finanziari, le informazioni...) e il valore d’uso per i suoi utilizzatori finali, valore che può “contrarsi” o “esplodere” a seconda delle oscillazioni finanziarie. Al controllo dei canali non sempre corrisponde un successo. Questo è particolarmente evidente quando si cercano di mettere barriere all’immigrazione considerandola come una questione di flussi e canali, dimenticando che si tratta di un problema che dipende piuttosto da questioni economiche generali. L’emigrazione non si produce perché vi siano vie di transito tra un paese e un altro ma perché vi sono disuguaglianze che lo spostamento di lavoratori tende a riequilibrare allo stesso modo dello spazio delle pressioni atmosferiche. Per questo motivo il controllo serrato delle frontiere incide appena sul risultato dei flussi migratori, i quali non vengono frenati
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da nessuna barriera ma piuttosto dal contrarsi delle opportunità economiche. Più che un mondo liquido, il processo di globalizzazione ha prodotto un “mondo gassoso”. Questa metafora si adatta meglio agli attuali mercati finanziari e al mondo dei media che sono caratterizzati, come i volumi che si contraggono e si espandono nello Stato gassoso, da cicli di espansione e contrazione, crescita e recessione, senza avere un volume costante. Il gassoso risponde meglio agli scambi immateriali, vaporosi e sfuggevoli, molto lontani dalle realtà solide che caratterizzavano ciò che nostalgicamente chiamiamo economia reale, ma anche più complessi che lo scorrere dei flussi liquidi. È un’immagine molto azzeccata per descrivere la natura, sempre più incontrollabile, di certi processi sociali, il fatto che tutto il mondo finanziario, mediatico e comunicativo sia basato più sull’informazione “gassosa” e non sulla verifica dei fatti. Nel nuovo contesto di questo mondo gassoso, la possibilità degli Stati o degli organismi internazionali di gestire i processi è tanto desiderabile quanto difficile. La metafora proposta può aiutarci a comprendere tale complessità. È più difficile controllare le fuoriuscite gassose che la circolazione di un liquido. Il grande problema politico del mondo contemporaneo è la maniera in cui organizzare ciò che è instabile. E per questo non basta controllare i contenitori e i canali di transito, dato che una parte sempre maggiore degli scambi si effettua al di là delle vie tradizionali e il suo valore d’uso dipende sempre più dalle condizioni particolari imposte dall’utilizzatore finale. Ogni tentativo di regolamentazione dovrebbe intensificarsi sull’azione delle condizioni e i contesti che provocano espansione o contrazione di questi fenomeni speculativi gassosi. Il compito politico fondamentale è creare un ambito di mercato i cui parametri essenziali siano in qualche modo governabili. La classica azione rigida della veicolazione dovrebbe esse-
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re sostituita da una configurazione flessibile che, allo stesso modo del campo magnetico con le particelle elettriche, agisca a distanza definendo i limiti dentro i quali i movimenti sono liberi e non vincolati. Questa flessibilità consentirebbe di conciliare le libertà individuali con le regolamentazione che sembrano essere necessarie affinché tali movimenti liberi non distruggano le proprie condizioni di possibilità, il sistema dentro al quale possono essere compiuti senza provocare situazioni catastrofiche. In tali condizioni, l’effetto d’attrazione è tanto meccanico quanto funzionale: il flusso che si sposta da un luogo ad un altro è così banale come i venti che operano tra due campi di differente pressione. In questo senso si potrebbe parlare di regolazione, come è testimoniato dalla storia europea del XIX secolo e dall’attuale necessità di riequilibrio demografico a livello internazionale.
2. L’esposizione universale Le principali preoccupazioni che pervadono oggi l’umanità non sono tanto mali concreti quanto minacce indeterminate. Non sono pericoli percepibili ad inquietarci quanto rischi diffusi che potrebbero espandersi in ogni dove e nel momento più imprevisto, e per i quali non abbiamo sufficienti protezioni. Certo, ci sono pericoli concreti che possiamo identificare, ma ciò che più ci preoccupa del terrorismo, per esempio, è il suo carattere imprevedibile; la cosa inquietante dell’economia attuale è la sua sfuggevolezza, ovvero, la debolezza dei nostri strumenti per difenderci dall’instabilità finanziaria; in generale, molti dei nostri disagi sono dovuti al grado di esposizione di fronte a minacce che possiamo controllare soltanto in parte. I nostri antenati abitavano in un ambiente più pericoloso ma
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meno rischioso; sicuramente vissero in una miseria che a noi oggi risulterebbe intollerabile, per contro noi siamo esposti a dei rischi che loro non conobbero. Se noi fatichiamo a comprendere la natura di tali rischi, per loro sarebbero Stati letteralmente inconcepibili. Pensiamo a tutto ciò che ha a che fare con gli effetti del cambio climatico, i rischi dell’energia nucleare, le minacce terroriste (così diverse qualitativamente dai pericoli della guerra convenzionale), gli effetti collaterali dell’instabilità politica, i contraccolpi economici delle crisi economiche, le epidemie che sorgono a partire dalla circolazione di persone ed alimenti, le conseguenze della finanziazione dell’economia sino a poco tempo fa sconosciute, la propagazione dei rumors, la sfiducia o il panico, il quale è tanto veloce e incontrollabile quanto la velocità delle informazioni... In tutti questi fenomeni, facciamo esperienza della parte più preoccupante dell’interdipendenza generale che sta alla base del mondo globalizzato: contagio, concatenazioni, inquinamento, turbolenze, tossicità, instabilità, fragilità condivisa, affezione universale, sovraesposizione. Si potrebbe parlare di carattere epidemico della società contemporanea (Lemarchand 2003; Neyrat 2004). All’origine dei nostri disagi si trova quel «timore panico che esse [le società] hanno di un flusso che possa sfuggire ai loro codici», al quale si riferivano Deleuze e Guattari già qualche anno fa e che con il passare degli anni non ha fatto se non accrescersi (1975, 155). Qual è la causa di questo sentimento di essere così esposti e il suo conseguente disagio? Quest’inquietudine la dobbiamo alla realtà della nostra reciproca dipendenza, cosa che tra l’altro ci ha concesso molti benefici. Parlare di interdipendenza è un modo per riferirsi al fatto che siamo esposti in una misura senza precedenti, senza un adeguato abbraccio protettivo. Interdipendenza equivale a dipendenza reciproca, intemperie condivisa. Viviamo in un mondo nel quale «all thing hang to-
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gether», o per dirla con un linguaggio leibniziano, «tutto cospira». Non c’è niente di completamente isolato, e nemmeno esistono più gli “affari esteri”; tutto è diventato familiare; i problemi degli altri sono ora i nostri problemi, verso i quali non possiamo atteggiarci con indifferenza o sperando che si traducano necessariamente in profitto. Questo è il contesto della nostra particolare vulnerabilità. Le cose che ci proteggevano (la distanza, l’intervento dello Stato, la previsione del futuro, i metodi classici di difesa) si sono indebolite per diversi motivi e ora appena ci proporzionano protezione sufficiente. Possiamo sostenere che sono finite le grandi divisioni tra il fuori e il dentro, tra la natura e l’umano, tra ciò che è proprio e ciò che è estraneo; o, se si preferisce, con un’affermazione più accettabile, sono finite tali divisioni in quanto divisioni nette e non controverse. «Les grands partages» che secondo Latour hanno organizzato sinora i nostri spazi di vita devono essere pensati come dimensioni che si combinano, dando luogo a logiche in parte inedite (Latour 1999). È ciò che Ulrich Beck chiamava la scomparsa del concetto di “intorno”: non c’è modo di espellere verso l’esterno ciò che è indesiderabile delle nostre azioni, che in qualche modo finirà per riguardarci attraverso un effetto boomerang. Potremmo definire ciò come l’auto-affezione del mondo moderno. Forse non abbiamo ricavato tutte le conseguenze geopolitiche che conseguono da queste nuove logiche che ci portano ad essere così dipendenti gli uni dagli altri. In un mondo così intricato nemmeno il più potente è abbastanza protetto: la logica dell’egemonia si scontra con il fatto che, sebbene il piccolo non sia Stato mai sottovalutato, gli attuali fenomeni di frammentazione e autonomizzazione creano situazioni di asimmetria e squilibrio che non sempre favoriscono il gioco del più forte. Il debole, quando è certo di non poter vincere, può nuocere il più forte, facendolo addirittura perdere alla
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fine. Se durante l’ordine westfaliano la legge era determinata dal peso specifico di ciascuno degli Stati, in un mondo di interdipendenze il più forte è incessantemente ostaggio più debole: nella sua sicurezza, nella sua salute, nella sua stabilità economica o nella protezione del “suo” ambiente. Tutti sono esposti agli effetti del disordine e delle turbolenze che si sviluppano in periferia. Quando le frontiere sfumano in maniera tale che non è più facile determinare dove sta il proprio e l’estraneo, quando i fenomeni circolano e si espandono a grande velocità, quando non c’è azione che non abbia replica, è logico che il problema delle minacce e delle protezioni si pone con impellenza, seppure a volte in forma delirante. In assenza di protezioni globali e di fronte alla debole sicurezza che forniscono gli Stati, gli individui cercano microsfere immunologiche come muri, macchine, stigmatizzazioni dell’altro, protezionismi, segregazione...Da ciò sorge tutta questa politica paranoica che cerca frontiere, che si intestardisce nel recuperare la vecchia divisione tra il fuori e il dentro, le insularità autistiche che pretendono l’immunità totale. Il problema è che certi meccanismi di difesa sono pericolosi, perché risultano potenzialmente autodistruttivi quando vogliono proteggere. Le bolle autistiche corrono il rischio di diventare protezioni ridondanti che provocano disastri simili a quelli che pretendono scongiurare. Pensiamo all’associazione pericolosa di medicamenti, guerre preventive che si perdono, muri che più che proteggerci dal male ci isolano dal bene ed esasperano l’odio verso l’altro. Forse ciò che mostra meglio questo paradossale vincolo tra sovraesposizione ed eccesso di immunizzazione, la logica delle protezioni nocive, sia la descrizione dell’uomo occidentale come essere sottoposto alla tensione dell’automobilista, alla sua condizione doppia, am-
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bivalente, tra sensazione immunitaria e massima esposizione (Brossat 2003, 95). Come svegliarsi da questo sogno immunologico? Come proteggersi senza auto-distruggersi? Tra i rischi dell’”immunopolitica” (Sloterdijk 1998; Esposito 2002) vi è la distruzione della comunità, dell’essere in comune, attraverso l’asimmetria delle protezioni. Nella dualizzazione sociale tra gli immuni e i massimamente esposti si mostra la peggiore delle disuguaglianze. La comunità si distrugge quando non c’è reciprocità e interazione perché una comunità implica un certo avere in comune dei rischi. In una società eccessiva e protetta di forma diseguale, piuttosto che comunità abbiamo diverse sfere di auto-protezione che permettono di «tenere l’altro a distanza» dando luogo così ad una sorta di «corpi intangibili» (Brossat 2003, 15). Inoltre vi è una questione di principio che svela i paradossi di ogni immunità. Chi volesse proteggere deve innanzitutto cominciare limitando la portata e l’estensione dei suoi dispositivi di difesa, se non vuole distruggere se stesso nel caso in cui i meccanismi di difesa vadano oltre la distruzione degli elementi presubilmente patogeni; dovrà, pertanto «proteggersi contro la sua propria protezione, contro la sua polizia, contro il suo proprio potere di rifiuto, contro il suo isolamento, cioè, contro la propria immunità» (Derrida 2001, 67). Il male assoluto, dice Derrida, sarebbe l’immunità totale, il successo delle protezioni, che sarebbe uguale ad un’autodistruzione. Il male assoluto è il fallimento del risarcimento assoluto, ovvero, il suo successo totale. Questa situazione di sovraesposizione è in buona misura inedita e quindi suscita un gran numero di quesiti per i quali non abbiamo le risposte opportune. Di che natura possono essere le protezioni in un mondo di questo tipo?
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Dobbiamo evitare, innanzitutto, di cadere nella tentazione di produrre sfere di sicurezza ermetiche; sigillare assolutamente è impossibile e l’illusione di tale impossibilità comporta un’energia considerevole. Impariamo dall’organismo umano, il quale dispone di procedure di protezione molto sofisticate, ma meno rigide di quanto riteniamo e di quanto vorremmo in linea di principio. Ma il fatto è che dobbiamo la nostra singolare sopravvivenza alla flessibilità delle nostre difese. Se l’ecologia ci ha fornito il modello di pensiero sistemico, potremmo pensare ad un’ecopolitica globale che tenesse conto di qualcuna delle sue proprietà. Innanzitutto, dovremmo notare che l’organismo umano ha micro-organismi simbiotici in un numero 10 volte maggiore rispetto alle proprie cellule. Si potrebbe persino dire che l’organismo è più esogeno che endogeno. C’è una simbiosi vera e propria nel caso dei batteri dell’intestino che sono indispensabili per la digestione; certi micro-organismi che tolleriamo svolgono allo stesso modo una funzione immunitaria. Non ha nessun senso, quindi, considerare i batteri come delle esteriorità pericolose e l’immunità dell’organismo come una lotta a morte contro tutto ciò che da esso è diverso. Al contrario, pensare l’immunità a partire dai fenomeni di tolleranza, interazioni e internazionalizzazioni abituali vuol dire sostenere che l’organismo non è scisso dal suo ambiente e assolutamente protetto di fronte alle sue influenze. Ciò che potremmo chiamare barriere – come la pelle o le membrane – sono più luoghi di scambio che di isolamento. L’organismo non è solo capace di interiorizzare esseri esteriori, ma addirittura quest’interiorizzazione è necessaria per la sua preservazione, per il suo normale funzionamento, per la sua immunità. Certamente non c’è vita possibile senza protezione. Se le bolle autistiche sono pericolose, la pura esposizione a tutto ciò che arriva è impensabile. Ma le protezioni sono efficaci qualora
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permettano un certo tipo di rapporto e siano integrate nei processi di costruzione del comune. Non è strano che una globalità vulnerabile, contagiosa, lanci inevitabilmente strategie di prevenzione e protezione, che non sempre sono efficaci né ragionevoli, che si traducono spesso in movimenti isterici, paure infondate e reazioni spropositate. Molte delle nostre attuali strategie di difesa – di cui potrebbero essere illustri emblemi le costruzioni di barriere – o sono letteralmente inefficaci oppure risvegliano dei sentimenti di paura e xenofobia che finiscono per fare alle nostre società più danni di quelli provocati da ciò di cui ci proteggiamo. Nell’epoca del riscaldamento climatico, le bombe intelligenti, gli attacchi digitali e le epidemie globali, le nostre società devono essere protette con strategie più complesse e sottili. Non possiamo proseguire con procedure che sembrano ignorare l’ambito di interdipendenza e la comune esposizione rispetto a questi rischi globali. Dobbiamo imparare una nuova grammatica del potere in un mondo che è costituito più da beni e mali comuni che da interessi propri. Questi non sono scomparsi, ovviamente, ma risultano indifendibili se restano al di fuori del quadro comune nel quale siamo tutti implicati. Se l’antico gioco del potere promuoveva la protezione di ciò che era proprio e la noncuranza di ciò che era estraneo, la sovraesposizione obbliga a rendere comuni i rischi, a sviluppare procedure cooperative, a condividere informazioni e strategie. Bisogna approfondire questo dibattito che punta alla governance globale, l’orizzonte che l’umanità deve perseguire oggi con tutte le sue energie. Sembra duro ma non ha nulla a che fare con il pessimismo: governare i rischi globali è il grande imperativo dell’umanità se non vogliamo che la tesi sulla fine della storia si avveri, non già come apoteosi di una quieta vittoria della democrazia liberale bensì come il peggior fallimento collettivo.
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3. Un mondo senza dintorni Forse la prima formulazione dell’idea di globalizzazione la possiamo trovare in Kant quando avvertiva che, data la superficie sferica della terra, tutti finiremo per incontrarci: gli essere umani non possono essere dispersi all’infinito per cui non vi è altra soluzione che tollerare la compagnia altrui. Se il mondo avesse un’altra forma, sarebbe possibile la dispersione, la protezione degli uni contro gli altri, l’isolamento o l’esclusione definitiva (Kant 1968/6, 358). Il fatto che tutto sia collegato ci invita a ritenere il mondo come un sistema unificato (il che non esclude asimmetrie e disfunzioni), nel quale le iniziative generano resistenze, la separazione tra il di dentro e il di fuori diventa problematica e tutti siamo esposti alla medesima intemperie. Sicuramente dobbiamo la coscienza di condividere una sorte comune alla presenza di rischi che ci minacciano allo stesso modo e rendono relativa la distinzione tra il particolare e il comune. Allo stesso modo che i suddetti rischi indesiderati non rispettano le delimitazioni né gli ambiti di competenza, il mondo comune si costituisce in una soppressione della differenza rigida tra ciò che è proprio e ciò che è estraneo; risulta sempre più inservibile la contrapposizione tra l’interesse particolare e quello comune, allo stesso modo per cui sfuma la contrapposizione tra qui e là. Questa curiosa costellazione può spiegarsi con la metafora per cui il mondo è rimasto senza dintorni, senza margini, senza periferie (Innerarity 2004, 119127). Globale è ciò che non lascia nulla al di fuori di se stesso, che contiene ogni cosa, vincola e integra in modo che nulla rimanga slegato, isolato, indipendente, perso o protetto, al sicuro o condannato, nella sua esteriorità. Il “resto del mondo” è una finta o un modo di dire laddove non c’è niente che non faccia parte in qualche maniera del nostro mondo comune. In un mondo senza dintorni, la vicinanza, l’immediato smettono
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di essere l’unica misura e l’orizzonte di riferimenti si allarga notevolmente. La dittatura della prossimità si distende e altre considerazioni entrano in gioco. Si potrebbe sostenere ciò con un esatta espressione di Martin Shaw: «there are no others» (1996). Secondo Beck, la globalizzazione implica anche l’esperienza dell’autominaccia civilizzatrice che sopprime la pura giustapposizione plurale di popoli e culture, per introdurli in uno spazio unificato, in un’unità destinale cosmopolita (2004, 37-38). E David Held parla, in termini simili, di «comunità con destini sovrapposti» (2000, 400; Albrow 1996; Robertson 1992) per indicare che la globalizzazione dei rischi provoca una comunità involontaria, una coalizione non pretesa, in maniera tale che nessuno rimane fuori da questa sorte comune. La soppressione dei margini implica la fine di due operazioni abituali che costituiscono due facce della stessa medaglia: assicurarsi la propria immunità e dislocare ciò che è indesiderato verso i margini. Quando esistevano i dintorni vi era un insieme di operazioni che consentivano di disporre di quegli spazi marginali. Si poteva fuggire, disinteressarsi, ignorare, proteggere. Aveva un senso l’esclusività del proprio, l’utenza particolare, le ragioni di Stato. La scomparsa dei dintorni, nella misura in cui annulla la distinzione tra l’interno e l’esterno, implica la perdita di una zona immune dalla quale osservare tranquillamente il naufragio degli altri; significa, pertanto, la fine di ogni garanzia immunitaria. Diventa difficile quella delimitazione, sia essa spaziale che temporale, che permetteva di metterci al riparo di fronte a determinati problemi. D’altro canto quando disponevamo di dintorni, praticamente ogni cosa poteva risolversi nella semplice operazione di esternalizzare il problema, relegarlo in un margine, fuori portata dalla vista, in un luogo lontano o verso un altro tempo. I dintorni indicano proprio il luogo nel quale consegnare pacificamente i problemi non risolti, gli scarti, una discarica. La teoria
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moderna dello Stato nazionale sovrano si configurò esplicitamente spostando il problema del disordine verso l’esterno: Hobbes assicurava l’ordine interno attraverso un concetto di sovranità che implicava “esportare” l’anarchia verso l’esterno, dando luogo così ad un sistema internazionale competitivo ed escludente. Forse possiamo esprimere con quest’idea di soppressione dei dintorni il lato più benefico del processo civilizzatore e la linea di progressione per la costruzione di spazi del mondo comune. Senza la necessità che qualcuno lo sancisca esplicitamente, è sempre più difficile scaricare le responsabilità ad altri, a regioni lontane, alle generazioni future, ad altri settori sociali. La globalizzazione implica l’impossibilità di espellere l’altro in un luogo posto al di fuori della nostra portata. I nostri migliori progressi hanno la forma di un obbligo a interiorizzare e ci vietano l’esternalizzazione. È così perché un mondo senza periferia è un mondo che si è configurato sistemicamente, cioè, a partire dalla consapevolezza del fatto che ad ogni resistenza corrisponde un principio di resistenza, che non vi è azione senza reazione, intenzione senza effetti secondari, decisione senza protesta, sovrani che non siano osservati, nessuno che sia completamente passivo o semplice destinatario; chi agisce in un mondo globale e interdipendente si confronta con le conseguenze di ciò che fa in modo particolarmente intenso. È il tempo della cooperazione, ma anche delle interdizioni reciproche. A chi si richiede cooperazione gli viene riconosciuta anche la capacità di interdire, che è la forma più elementare di sovranità. Alla base di questo riequilibrio del mondo si trova l’incrinatura di ogni dicotomia rigida tra l’interno e l’esterno. Non bisogna scordarsi del fatto che i beni collettivi, il cui rifornimento era espletato dagli Stati nazionali, siano stati definiti come quelli per i quali l’uso e lo sfruttamento non possono essere non ga-
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rantiti agli “insiders” e che dispongono contemporaneamente le procedure per autorizzare l’esclusione degli “outsiders” (Olson 1971). I sistemi complessi, invece, sono caratterizzati da “overlapping memberships” e “cross-cutting affiliations”. A partire da ciò sono sorti negli ultimi tempi un’infinità di dibattiti che possono essere posti soltanto in seguito all’indebolimento delle tradizionali delimitazioni tra il dentro e il fuori. Dopo aver sviluppato una nuova legittimità per gli interventi militari e gli aiuti umanitari, per esempio, a seguito delle intense discussioni in merito alle regolamentazioni transnazionali e alla legislazione universale, ora si parla addirittura di un diritto “all’ingerenza monetaria” che, tenendo conto della realtà della globalizzazione possa regolare il mercato mondiale di credito. Tutte queste circostanze implicano, nel contempo, uno straordinario ampliamento di ciò che deve considerarsi uno spazio pubblico e una difficoltà inedita nel configurare spazi comuni per i quali non abbiamo attualmente gli strumenti adeguati. Questa complicazione ha la sua origine nella trasformazione più radicale di un mondo nel quale viene compiuto tendenzialmente l’annullamento dei suoi dintorni, ovvero: la difficoltà di tracciare limiti e organizzare a partire da essi qualsiasi strategia (organizzativa, militare, politica, economica...). Nel migliore dei casi, qualora sia possibile delimitare, occorre tenere a mente che ogni costruzione di limiti è variabile, plurale, contestuale, e che questi devono essere definiti e giustificati di volta in volta, a seconda della questione a cui si riferiscono. Ne consegue innanzitutto il fatto che vengono a mescolarsi in qualsiasi attività l’interno e l’esterno. Ora si sostiene come verità indiscutibile – e probabilmente senza aver ricavato tutte le conseguenze che ciò comporta – che non vi sia problema importante che possa essere risolto localmente, che non vi è più politica interna in senso vero e proprio così come non vi sono nemmeno affari esteri, e che tutto è diventato politica interna.
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Aumenta il numero di problemi che gli Stati possono risolvere soltanto in forma cooperativa, allo stesso tempo che si rafforza l’autorità delle organizzazioni transnazionali e perde di legittimità il principio di non-intervento nelle questioni di altri Stati. Sono diventati estremamente labili i limiti tra politica interna ed estera; fattori “esterni” come i rischi globali, le normative internazionali o gli attori transnazionali sono diventati “variabili interne”. La nostra maniera di concepire e realizzare la politica non sarà all’altezza delle sfide che vengono poste se non si rende problematica la distinzione tra “dentro” e “fuori”, tra “noi” e “loro”, ritenendoli concetti ormai inadeguati per governati spazi smisurati (Grande/Risse 2000, 251). Il mondo è ormai un insieme di destini incrociati, di spazi che si sovrappongo, un coinvolgimento involontario nel quale si verificano prossimità insolite e spazi dove si gioca un destino comune. I nostri destini sono intrecciati sino a condividere una sorte comune. La mondializzazione è un amalgama di beni e opportunità comuni che ci rende tutti più forti, ma anche estremamente vulnerabili. È qualcosa che diventa particolarmente doloroso nei mali comuni che, come le catastrofi, non conoscono limiti e non si arrestano di fronte a nessuna barriera. Qui si mostra uno dei nostri più incredibili paradossi: abbiamo sviluppato il senso d’unità del genere umano più di fronte al male che in previsione del bene, cioè, di fronte ai problemi globali come la pace e la guerra, la sicurezza, l’ambiente, l’inquinamento, il cambio climatico, i rischi alimentari, le crisi finanziarie, le migrazioni o gli effetti delle innovazioni tecniche e scientifiche. Per ciò si è parlato del rischio come fattore potenzialmente unificatore (Habermas 1996) oppure della forza produttiva e mobilitante dei pericoli (Jonas 1979). Sono le conseguenze dell’esperimento civilizzatore dell’umanità che ci collocano in un’intelaiatura di dipendenze che ci obbligano a tenere in considerazione gli interessi altrui se non vogliamo compromettere i nostri. Sebbene la soluzione di tali
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problemi non possa non essere controversa, sono gli stessi conflitti che hanno una funzione integrativa, nella misura in cui mettono in evidenza la necessità di trovare soluzioni comuni e mediate. Il punto di partenza per costruire un mondo di beni comuni è costituito dal rendersi conto di cosa significhi l’implicazione dei diversi spazi in un destino che tende ad unificarsi o, quantomeno, a scuotere qualsiasi delimitazione di ambiti e soggetti, così come le logiche nazionali hanno preteso. Non si può capire la situazione del mondo attuale senza tenere in conto il carattere intrinsecamente polemico della domanda: chi siamo noi? La globalizzazione è un processo che rende più complessa e più ampia la determinazione della propria identità, più permeabile e intrecciata ad altri destini collettivi. Nell’era della globalizzazione – nell’era dei destini intrecciati, degli effetti secondari che riguardano tutti – torna ad essere pienamente valida quell’idea di Dewey (1988; Beck/Grande 2004, 63) per cui la politica crea i suoi spazi pubblici in funzione della posta in gioco di ogni momento: le controversie politiche non sorgono tanto nei luoghi di decisione quanto nei diversi contesti in cui si percepiscono le conseguenze drammatiche di tali decisioni. Qualunque cosa sia, un governo della globalizzazione dovrebbe quindi essere qualcosa come un regime delle conseguenze secondarie, i cui raggi d’azione non coinciderebbero con i confini nazionali: il mondo pubblico è piuttosto tutto ciò che viene percepito come conseguenza esasperante delle decisioni della civiltà. Da questo punto di vista si può ben capire che l’attuale crisi economica sia un ottimo esempio del carattere della globalizzazione e dell’idea secondo cui ci troviamo in un mondo senza dintorni. Innanzitutto, si può sostenere senza esagerare che questa sia la prima crisi economica veramente globale, in cui la globalità ha contribuito a rendere più grave la cri-
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si. Normalmente i rapporti economici e finanziari tendono a costituire un ruolo da moderatore nelle crisi nazionali. I movimenti internazionali di capitale e le variazioni dei tassi di cambio permettono di mitigare l’impatto iniziale dirottandolo parzialmente sul “resto del mondo”. Ma nel caso di una crisi globale, invece, non vi è “resto del mondo” che possa svolgere tale ruolo moderatore e allora la crisi non può fare altro che dispiegare la sua logica interna sino alla fine. Infatti, si era già avvertito che le crisi simultanee a livello internazionale erano più forti e più dispendiose economicamente che le altre crisi. Questo è ancora più vero per le crisi globali, nella misura in cui non siamo attrezzati di istituzioni in grado di gestire questa globalizzazione e i suoi rischi. D’altro canto, la crisi ha messo in evidenza l’inadeguatezza di distinguere tra il dentro e il fuori senza tenere conto della loro interazione. In ambito finanziario, per esempio, la regolazione bancaria si è rivelata inefficace a causa della sua natura microprudenziale, cioè, per il fatto che avverte il rischio vincolato all’insolvenza di un’entità bancaria, ma non all’insolvenza del sistema bancario in generale (che invece tende a provocare). Le regolamentazioni hanno prodotto una differenziazione molto nociva tra bilancio bancario e prodotti fuori bilancio. Il “fuori bilancio” ha fatto da “dintorno” e questo, come abbiamo visto, non funziona più. Il sistema bancario può essere affetto tanto dall’esplosione di rischi interni del suo bilancio quanto da rischi esterni al bilancio stesso, una volta che tale esplosione eccede una certa ampiezza e raggiunge una dimensione sistemica. La ricerca del minore rischio possibile a tutti i costi, sia esteriorizzando i rischi del bilancio delle banche (attraverso la cartolarizzazione e i prodotti finanziari) sia attraverso esigenze di capitali sempre più elevati, si espone ad un fenomeno pernicioso di effetti indesiderati.
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Se la crisi ha questa natura, allora risulta evidente la necessità di darne una risposta sistemica e cooperativa. Gli squilibri finanziari sono dovuti, in gran parte, all’incapacità di scambiare informazione tra gli agenti regolatori, al fatto che gli Stati si siano limitati – nel migliore dei casi – a giustapporre politiche nazionali, tralasciando una ricetta globale per la crisi. Ma dal fallimento in fatto di cooperazione, che fu la causa della crisi reale del ‘29, sappiamo di essere in una nuova epoca nella quale gli Stati non sono più in grado di portare avanti i propri interessi se si disinteressano completamente degli interessi altrui e devono lasciarsi alle spalle quanto prima quel periodo in cui hanno avuto grandi difficoltà a gestire le interdipendenze e le esternalità transnazionali. L’orizzonte di una governance finanziaria si segnala sempre di più come un traguardo inevitabile, una volta che si sia evidenziato che il quadro interstatale è incapace, in quanto insufficiente, di agire efficacemente su una crisi globale e, di forma più generale, di prevenire gli squilibri economici e finanziari globali. Tutto ciò ci porta, in fondo, ad una riformulazione della legittimità come inclusione. Le metafore dei rifiuti e dell’immunità puntano alla medesima esigenza di inclusione, di lotta contro le asimmetrie, verso le quali cresce il disagio: l’asimmetria spaziale tra la natura territoriale degli Stati e la natura globale di molti dei nostri problemi; l’asimmetria temporale che si suggerisce di adottare una prospettiva intergenerazionale nell’ora di prendere certe decisioni (tutte quelle che hanno a che fare con la sostenibilità) al di là dei paletti della presente legislatura; l’asimmetria conoscitiva che deriva dalla complessità delle questioni politiche e ci spinge a ricercare nuovi equilibri tra il sapere esperto e le esigenze di partecipazione. Non è strano che cresca la domanda affinché diminuisca la distanza tra i decision makers e i shareholders, tra coloro che decidono e quelli che sono colpiti da tali decisioni, in modo tale che si ricomponga la simmetria tra chi agisce e chi subisce, che si
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ristabilisca la congruenza tra la geografia politica e la geografia economica. I processi volti a politicizzare la globalizzazione hanno la medesima legittimità di quelli che spingono per la decentralizzazione politica o di altri simili: in entrambi i casi si tratta di dar luogo alla possibilità di includere nel processo di decisione coloro che sono affetti dalla decisione medesima. Qualsiasi impeto democratizzatore è partito dallo scandalo che vi fossero decisioni vincolanti che non fossero state decise tra tutti. E così succede anche nella mondalizzazione, sebbene sappiamo che i processi per democratizzarla dovranno essere più complessi di quelli che servirono per la configurazione degli Stati nazionali. In tal senso David Held formulava un «criterio di estensività» che s’impegnava a calcolare la portata delle persone le cui attese vitali sono significativamente affette da una determinata decisione (Held 2005, 252). E non sembra peregrino sostenere che in futuro si intensificheranno i dibattiti circa la legislazione adeguata per trattare i beni pubblici, per impedire che tali questioni siano decise da asimmetrie inaccettabili o ritenendo che la logica del mercato possa risolverle.
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Seconda parte L’incompiuta promessa di proteggere
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Capitolo terzo La paura globale
Per capire una società è utile esaminare più i suoi timori che i suoi desideri. Dimmi che paura hai e ti dirò chi sei, potremmo dire. Nella tassonomia delle paure potremmo attualmente registrarne una con caratteristiche nuove, definibile come paura globale, ovvero, paura delle conseguenze del processo di globalizzazione. Si tratta di rischi che devono essere gestiti e di fronte ai quali abbiamo il diritto di essere protetti. Nel contempo, le reazioni meno ragionevoli a certe inquietudini provocate da questo processo esprimono le patologie di un io globale che reagisce autoritariamente per supplire alla propria impotenza, di un soggetto che è tanto insicuro quanto tirannico, tanto apatico quanto vorace. Questa ambiguità corrisponde molto bene alle proprietà della “paura liquida” di Bauman: una paura indeterminata e diffusa, che ha la sua origine nella percezione della perdita di controllo sugli eventi. In questo modo diventa comprensibile questa sensazione di assedio che prova buona parte del mondo occidentale, quel mondo che vive in una situazione di sicurezza oggettiva come mai è accaduto in nessun’altra epoca passata della storia dell’umanità.
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1. La razionalità della paura Aver paura è qualcosa di essenziale per la condizione umana. Tutti abbiamo timore e niente indica che smetteremo di averne, sebbene i motivi della paura possano essere molto diversi, in lungo e in largo nel mondo e attraverso il tempo. Ogni epoca della storia si differenzia dalle altre per aver conosciuto forme particolari di paura, o meglio, per aver dato un nome e un significato diversi alle angosce che da sempre accompagnano la vita sociale. Jean Delumeau (1978), Corey Robin (2004) y Joanna Bourke (2005), hanno scritto libri straordinari nei quali si spiega come la percezione della paura muti nel tempo. Ciò che rimane da spiegare è la natura della paura globale attuale che accade proprio quando l’umanità sembra essersi assicurata la vittoria di fronte all’arbitrio della natura e alla brutalità del conflitto sociale. I lavori di Bauman (2006) e Pulcini (2009) cercano di rispondere a tale enigmatico paradosso. Come è possibile che ci siano simultaneamente una società sicura ed una civiltà della paura, che ci sia più paura quando ci sono meno motivi oggettivi di timore? Innanzitutto, perché nella nostra società molte paure sono dovute proprio all’aumento della sicurezza; l’abitudine alla sicurezza ha reso più acuta la percezione della perdita. Viviamo in un mondo nel quale possiamo perdere di più perché abbiamo tanto, rispetto ad un mondo in cui c’era tanto da guadagnare perché avevamo molto poco. Una spiegazione psicologica ha a che fare con l’avversione alla perdita: la gente considera più sgradevole una perdita dello status di quanto ne consideri auspicabile un suo guadagno. Il dispiacere di perdere ciò che abbiamo è maggiore del piacere che viene procurato dalla possibilità di migliorare ciò che abbiamo (Sunstein 2005, 41). Il paradosso si spiega anche attraverso la differenza tra pericoli antichi e rischi attuali. Nelle società tradizionali esistevano grandi paure le quali erano però piuttosto prevedibili: la scar-
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sità, la fame, le malattie, la guerra. Ciò che era improbabile si poneva nell’orizzonte di una tipologia della paura costante. Contro quelle paure ci si poteva organizzare attraverso diverse modalità. Ora invece, le fonti della paura sono più incerte e indeterminate, il che costituisce più un mondo di rischi che uno di pericoli. Nella nostra società non possiamo programmare i rischi, non abbiamo un elenco che li cataloghi. L’elemento dell’imprevedibilità non può essere domato, soprattutto dal punto di vista cognitivo. L’attuale aumento della paura non è dovuto soltanto al fatto che sono aumentati certi rischi che minacciavano la società ma piuttosto al fatto che sono aumentate le condizioni di incertezza nelle quali trascorre la vita delle persone. La nostra società è costantemente esposta all’imprevedibile. Il mondo è diventato più complesso e non riusciamo ad essere all’altezza di tale complessità. Per questo motivo lo spazio dell’immaginario si allarga considerevolmente, così come il suo uso politico: si fanno guerre, si vincono elezioni e si governa sull’immaginario. Per comprendere questi cambi di paradigma è necessario farsi carico della diversa funzione che la paura ha avuto nella costruzione della comunità politica moderna o nell’attuale fragilità degli spazi globalizzati. La paura è la passione che sta all’origine della vita associata. Se rileggiamo Hobbes troveremo atteStato questo passaggio, che ora possiamo ricordare brevemente. Gli esseri umani abbiamo una capacità simile di distruzione reciproca. La paura di morire per mano altrui spinge gli individui verso la costruzione di una società civile e politica che garantisca la sicurezza. La reazione autoconsevativa sta all’origine dell’artificio statale moderno. Sottomettersi al sovrano è il prezzo che occorre pagare per smettere di aver timore dei nostri simili. Ora, nell’era globale, non è più così. Continuiamo ad avere paura di molte cose, ovviamente, ma ciò che si è indebolito
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è la metamorfosi produttiva della paura, la sua traduzione in azione razionale che dà forma alle istituzioni comuni. La paura è diventata qualcosa di inefficace, improduttivo e disperato. Nelle attuali detonazioni di paura non rimane niente di quella forza produttiva che produsse le istituzioni politiche della modernità (Pulcini, 2009). Nel contempo, succede che i due principali dispositivi per liberare l’uomo dalla paura – la tecnica e la politica – hanno perso in gran misura la loro efficacia. La tecnica è diventata un moltiplicatore del rischio e l’incertezza, mentre la politica, nella sua classica forma statale, è incapace di affrontare le sfide della globalizzazione. In questo contesto, come potevamo non ricadere in quell’”analfabetismo della paura” di cui parlava Musil e che rivela la nostra incapacità ad averne ragionevolmente? Oltre alla sua improduttività politica, la paura globale si contraddistingue dal fatto che non ha la sua origine nella minaccia potenziale del simile, bensì nell’inquietudine provocata da ciò che è differente. L’altro, lo straniero, il diverso ricoprono il ruolo di una differenza perturbatrice. Così come nell’era globale la distinzione dentro/fuori non funziona più con la nettezza hobbesiana, non è nemmeno possibile mandare al confino lo straniero o il nemico e mettere al sicuro così la propria identità minacciata. L’altro, lo straniero, è ora tra noi. Non si ha paura di un confronto simmetrico – che implica l’uguaglianza – ma dell’assimilazione o la contaminazione. L’altro che fa paura non è più il simile (quel simile ostile, la cui pericolosità derivava dal fatto di avere la medesima capacità distruttiva dell’io, secondo lo schema basilare di Hobbes), ma il differente dal punto di vista etnico, religioso, culturale o ideologico. Dato che la paura contemporanea non deriva dall’uguale ma dal differente, questa paura non può convertirsi facilmente in un dispositivo che trasfiguri quell’equivalenza delle minacce
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in un’equivalenza dei diritti. Anche questo è il segno evidente della natura profondamente antimoderna e improduttiva delle nostre attuali paure. Riguardo alla costituzione o al mantenimento di una società democratica, la paura non è né buona né cattiva; tutto dipende dall’uso che si fa di questa passione umana elementare. La grande sfida che ci troviamo ad affrotare oggi consiste nell’incanalare la paura ragionevolmente, trasformandola in una forza costruttiva che ci permetta di conoscere meglio la realtà e rafforzare la convivenza democratica. Bisogna avere un buon rapporto con la paura e gestire questa doppia dimensione, quella sorta di ambiguità che la caratterizza: può paralizzare ma anche portare ad organizzare strategie di difesa e costruzione. La paura non è solo paralizzante ma può essere anche organizzativa. Ben gestita, può avere una grande capacità cognitiva di fronte al rischio. La capacità di riconoscere i pericoli e considerarli nella giusta misura è ciò che Hans Jonas chiamava «l’euristica della paura», suggerendoci di non disprezzare quella straordinaria risorsa grazie alla quale l’immaginazione del peggio può agire come un motore ragionevole d’azione (1979). Infatti, il nostro problema principale non è la «freedom from fear», per usare un’espressione celebre di Roosevelt, ma, come sosteneva Günther Anders, la «freedom to fear», la libertà di avere paura, che presuppone la capacità la giusta angoscia se vogliamo liberarci dei veri pericoli che ci minacciano (Anders 1956). La paura non è solo uno strumento di controllo per le élites ma una passione elementare ed universale, la cui prima e indispensabile funzione consiste nel garantire l’autoconservazione degli individui mantenendo in loro la memoria della propria vulnerabilità (Robin 2004). La politica serve, tra le altre cose, per coltivare nella società una paura proporzionata e ragionevole. Certamente vi è un “mettere paura” antidemocratico,
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populista, che attraverso la stigmatizzazione pretende neutralizzare le virtualità democratizzanti del pluralismo; la paura si può provocare artificialmente per poi proporsi come salvatore oppure per condurre una società al letargo in modo che sia più facilmente governabile. Ma c’è anche una paura che può essere fonte di lucidità e liberazione. L’opportuna drammatizzazione dei rischi è un antidoto contro quel presente stolto che non fa altro che andare avanti per inerzia (Beck, 1997). In riferimento a molte delle minacce reali alle quali facciamo fronte, riattivare la paura può essere utile per uscire dalla passività autodistruttiva e ricuperare la forza motrice contro la catastrofe. Uno dei nostri compiti principali consiste proprio nel razionalizzare la paura globale, il che è comunque molto comprensibile, tenuto conto della comune esposizione dell’umanità al rischio di autodistruzione, la reciproca interdipendenza che ci vincola al destino dei nostri simili. La vulnerabilità, rifiutata da un soggetto che si era pensato sovrano e autosufficiente, può convertirsi nel presupposto per la formazione di un soggetto in relazione, capace di farsi carico dell’altro e del mondo (Pulcini 2009, 264). E se la conservazione del mondo fosse la rivoluzione copernicana dell’era globale? L’idea di prendersi cura e conservare aiuterebbe ad abbandonare il suo sentore Statico e antiprogressista per assumere un senso emancipatore. In questo modo avremmo così un compito per inquietare veramente quel soggetto predatore, parassitario, spettatore e consumatore, che ora è terrorizzato dalla paura.
2. Governare i rischi globali Il settimanale britannico The Economist definisce se stesso nel seguente modo: «questa rivista viene pubblicata dall’anno
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1843 per prendere parte nella dura battaglia tra l’intelligenza, che spinge sempre in avanti, ed una futile e intimorita ignoranza, che ostacola il nostro progresso». Questa dichiarazione liberale, dalle sfumature epiche, attualmente ha un carattere anacronistico. Oggi giorno, tranne eroiche eccezioni, potremmo dire che la precauzione abbia sostituito la progettualità e che abbiamo una relazione piuttosto profilattica con il futuro. Per chi è cresciuto nelle paure degli anni ‘70 e ‘80 del XX secolo (limiti di crescita, minaccia nucleare, crisi ecologica, scarsità di risorse...), la parola “progresso” ha un suono frivolo. Ora, nel mezzo della tempesta della crisi, usare un linguaggio manageriale che esalta la cultura del rischio e la propensione al fallimento sembra una provocazione. In generale, oggi, essere progressista non ha nulla a che fare con il progresso, bensì con l’essere prevenuti di fronte alla scienza e alla tecnica. Di fatto, è diventato ricorrente citare quella frase di Benjamin contro Marx sul fatto che rivoluzionario vuol far uso del freno d’emergenza della storia. E attualmente, tra crisi finanziarie e il problema del cambio climatico, questo accezione impropria dell’idea di progresso non ha fatto che accrescersi. Il vuoto ideologico sorto in seguito allo sfondamento della coscienza ingenua nel progresso è stato riempito dal sospetto per la pericolosità delle innovazioni tecniche e scientifiche. La novità e il progresso ci appaiono sotto forme di rischio. Ciò che incominciò come uno scetticismo avanguardistico, oggi, è diventato un luogo comune. Dalla politica ci si attende, nel migliore dei casi, la possibilità di scongiurare le minacce che si presentano nell’avvenire. Non è strano che il tema della sostenibilità abbia avuto una così forte risonanza, e che si sia formulato e applicato con così tanta intensità il principio di prevenzione. Tenendo conto della gravità dei rischi che affrontiamo, la paura non è del tutto infondata. C’è chi mette in guardia sugli
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eccessivi allarmismi e l’avversione al rischio, ritenendola una paranoia dei paesi al riparo. Certamente, l’isteria è una maniera poco ragionevole di opporsi ai rischi, ma non dice nulla contro la loro esistenza; i rischi continuano ad essere un motivo di preoccupazione seppure la nostra maniera di affrontarli possa essere esagerata o ridicola. Ciò di cui abbiamo bisogno è una riflessione profonda sui limiti della prevenzione. Facciamo qualche esempio vicino. È probabile che l’inverno tra il 2009 e il 2010 passi alla storia per essere Stato la stagione degli allarmismi, primo fra i quali quello per l’influenza A/ H1N1 e quelli per la prevenzione di certi fenomeni meteorologici potenzialmente catastrofici. Non saprei dire se fossero problemi di coscienza per non aver anticipato la crisi economica, ma il caso è che i governi esagerarono con gli allarmi riguardo a possibili contagi o forti venti, la cui stessa denominazione (“ciclogenesi esplosiva”, “tempesta perfetta”) avevano tinte ammonitrici. I governi preferiscono avvertire che farsi carico poi delle accuse per non aver previsto il peggio. Questo atteggiamento sembrerebbe molto consigliato, eppure ha degli inconvenienti persino nel caso in cui le cose non fossero andate così male come ci avevano fatto temere. Il fatto è che non si possono seguire tutti i rischi allo stesso modo; ogni atteggiamento preventivo ha un costo, sia in termini economici sia perché la prevenzione è inevitabilmente selettiva e sottolineare un rischio implica disattenderne un altro. Nessuno richiede responsabilità per la paura indotta, i costi della paura, il denaro speso male o l’attenzione privata ad altre questioni importanti. L’eccesso di allarmi è meno grave del suo opposto, ma non è nemmeno la cosa migliore. La lezione che dobbiamo trarre dagli allarmi eccessivi è che i programmi per escludere completamente il rischio generano effetti controproduttivi. Il progetto di eliminare completamente la paura attraverso la prevenzione totale è un assurdo
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perché le paure fanno parte della condizione umana, del suo carattere aperto e della correlata indeterminazione delle democrazie liberali (Sunstein 2005). Le prevenzioni implicano solitamente qualche divieto, e questi, in una società aperta, devono essere stabiliti – ora sì – con la massima precauzione. Un blocco generalizzato dell’innovazione sarebbe molto rischioso. Infatti, da dove la società ottiene le innovazioni necessarie per lottare contro la fame, la povertà o le catastrofi? La relativa irresponsabilità della scienza è il fondamento del suo successo e nessuno ha il monopolio del giudizio per distinguere attualmente i cattivi rischi dalle buone innovazioni. La prevenzione ha i suoi costi e capita spesso che dove si elimna una paura ne nasca un’altra. Un altro esempio recente viene dal cambio di definizione che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha fatto del termine pandemia che ha permesso di introdurre medicine e vaccini per via d’urgenza, cioè, con minori garanzie e maggiori rischi. Potremmo anche citare il pericolo del riverbero delle paure e del loro contagio o delle conseguenze perverse delle legislazioni esagerate ed innecessarie. Anche la prevenzione ha i suoi rischi, soprattutto quando è ridondante (Wildavsky 1988). Tutto ciò deve inoltre essere considerato in una prospettiva temporale: molti modelli e metodi che ieri erano ritenuti in buona fede come previsioni fidabili oggi appaiono come esercizi di frivolezza irresponsabile. Non credo di sbagliarmi troppo se affermo che le nostre principali discussioni future si centreranno su come valuteremo i rischi e di quali atteggiamenti adotteremo di conseguenza. Il confronto politico si muove intorno alle probabilità di pericoli e all’agenda dei rischi. La politica sembra più una gara intorno ai pericoli che sulle opportunità. Gli attori politici si assomigliano nel fatto che si impegnano allo stesso modo nell’avvertire la prossimità di determinati pericoli e nell’offrirsi per sal-
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varci dal disastro; spiccano unicamente nel ritenere la perdita d’identità o la vulnerabilità sociale, i rischi legati all’insicurezza o quelli che procedono dal possibile abuso dei guardiani, il maggior pericolo possibile. Ma appena ci si sforza nel proporre immaginari di ciò che sarebbe auspicabile, scalzati dal timore del male possibile. La rivalità tra le minacce sembra aver soppiantato la rivalità tra le progettualità. Gli agenti politici hanno meno ideologia che risorse di allarmi. Tali controversie si nutrono di una percezione del rischio che implica una forte componente di percezione soggettiva. Ulrich Beck profetizza che questa contrapposizione si estenderà su scala planetaria provocando una «guerra di religioni del rischio» (2006). Il fatto che in certe culture si tema ciò che in altre viene considerato normale ha una dimensione geopolitica inedita dovuta al fatto che l’irruzione di paesi come Cina e India sulla scena politica di primo piano implica l’ingresso di culture del rischio molto diverse rispetto a quelle a cui siamo abituati. Le differenti culture del rischio hanno la tendenza a vedere un’opportunità in ogni pericolo, in rapporto alla cui apparizione si punta in termini di verosimiglianza. Diventerà sempre meno “normale” quella assunzione di rischi che avevamo finora considerato normale. Questo dibattito si è acuito in seguito all’irruzione della questione dei rischi globali nelle agende politiche. Il cambio climatico, le nuove minacce alla sicurezza, i rischi sanitari e alimentari, le crisi finanziarie pongono, innanzitutto, una sfida alla nostra concettualizzazione di quei futuri incerti. Come possiamo conoscere il rischio possibile? Come rapportarci ai rischi, che non sono fatti verificabili bensì possibilità latenti di controversa identificazione? Come tenere conto di ciò che è improbabile? Ogni futuro incerto ci mette di fronte a dilemmi particolarmente difficili: quale prevenzione è ragionevole, in che modo possiamo anticipare le catene causali catastrofiche,
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quale tipo di azione concertata corrisponde al trattamento globale dei nostri problemi, come gestiamo la nostra inevitabile ignoranza riguardo gli eventi futuri... Innanzitutto è necessario capire bene la natura di tali rischi se si pretende gestire adeguatamente l’incertezza che essi comportano. I rischi, specie quelli globali, sfuggono dal calcolo dettato da criteri scientifici, per cui la fede nella realtà o irrealtà di questi diventa un fattore decisivo. Ciò che insensato è contrapporre “le opinioni poco informate” della gente sui presunti rischi alla visione razionale che gli esperti hanno dei rischi reali. Troppo spesso il razionalismo degli esperti, con i loro calcoli di verosimiglianza, sbaglia allo stesso modo degli allarmisti che innalzano la paura a massimo organo di conoscenza. L’allarmismo populista è tanto sospetto quanto la frivolezza tecnocratica. Abbiamo bisogno di trovare un accordo sui rischi accettabili. In molte decisioni che hanno a che fare con i rischi non si tratta di scegliere tra alternative sicure e rischiose, bensì con alternative che sono ad ogni modo rischiose. Come ho appena evidenziato, ogni misura preventiva implica rischi, sia per ciò che fa sia per ciò che smette di fare. La paura è un segnale e rispetto ai segnali non è ragionevole né disinteressarsi né amplificarli. Finora non siamo riusciti ad articolare un concetto ed una strategia di ciò che dovrebbe essere un equilibrio ragionevole tra rischi e sicurezza, del quale abbiamo un’idea vetusta. Sembra che non abbiamo capito né una cosa né l’altra: sino a che punto il rischio è nelle viscere delle nostre società e quanto sia inservibile un concetto di sicurezza messo a punto in altre epoche. Per questo motivo i nostri sentimenti che riguardano la paura diventano massimamente vulnerabili. L’aver a che fare con un futuro incerto, che comporta dei pericoli, è uno dei comportamenti più difficili da apprendere: molte
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volte abbiamo paura quando non vi sono particolari motivi e in altre siamo temerari al di là di ogni ragionevolezza. Secondo autori classici della sociologia come Parsons o Durkheim, l’incertezza ha un risvolto negativo, come se provocasse delle irregolarità che devono essere ricondotte a sicurezza. Attualmente sta prendendo piede un’altra concezione che considera l’incertezza come qualcosa che genera quelle flessibilità e capacità d’apprendimento che risultano essenziali per una società dell’innovazione. È illusorio pensare che le incertezze o le insicurezze possano essere del tutto conosciute e calcolate. Data la complessità dei sistemi sociali abbiamo piuttosto grandi problemi nel momento in cui dobbiamo identificare e ridurre le insicurezze. Per ciò abbiamo bisogno di una nuova cultura dell’insicurezza, una specie di “terza via”, tra l’avversione al rischio e la temerarietà che indaghi la possibilità di ricuperare una funzione equiparabile a quella della sicurezza completa, attraverso la costruzione di fiducia, regolazione e cooperazione. Trattandosi di società complesse, dove tutto è strettamente collegato, la grande questione è come proteggerci dalla nostra propria irrazionalità. Le concatenazioni catastrofiche da cui ci dobbiamo proteggere risultano provenire dalla nostra irresponsabilità nell’avere troppa o troppo poca paura. Nella crisi economica, per esempio, chi gestiva le innovazioni finanziarie ne aveva troppo poca; ora, la sfiducia dagli agenti economici si spiega perché forse ne hanno troppa. Parliamo in termini generali, sicuramente dovremmo fare una regolazione generalizzante ex ante, che permetta di prevenire quanto non è possibile sanare, anticipare più che reagire, impedire di più e correggere di meno. E dato che le paure non possono essere eliminate completamente, abbiamo bisogno di nuove strategie per governarle. Per questo vi sono le istituzioni ed è questa una delle funzioni del buongoverno: generare fiducia e
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prevedibilità, impedire che la paura diventi panico oppure che l’audacia promuova l’irresponsabilità. Le società contemporanee affrontano la questione cruciale sul come determinare nuovamente il rapporto tra rischio e sicurezza. La ricerca di procedure per gestire i rischi in maniera effettiva e socialmente accettabile è diventata un compito di speciale interesse sia per la riflessione politica che per la prassi della governance. Quale funzione può svolgere in questo contesto la politica? Concretamente, che innovazione politica richiede una società che dipende in gran misura dalle innovazioni tecniche ma che conosce anche le loro conseguenze indesiderate, in termini ecologici, economici e sociali o in rapporto alla concordanza con i valori di libertà e giustizia?
3. La politica, sola di fronte al pericolo Nel nostro immaginario collettivo la tecnica appare come una minaccia potenziale. Questa diffidenza ha la sua origine nel fatto che, fino a non molti anni fa, sia la destra che la sinistra, concepivano la tecnica come una realtà forte, indiscutibile e di successo. Alcuni speravano che le questioni politiche potessero essere risolte (o addirittura dissolte) grazie alla chiaroveggenza degli esperti e all’esattezza delle loro procedure, altri accusavano questo processo di depoliticizzazione tecnocratica che sarebbe sfociato nel controllo, la manipolazione, la distruzione e l’omologazione. In ogni caso, le valutazioni venivano comunque dopo aver concordato sul fatto che alla fine questa tecnicizzazione del mondo si sarebbe comunque imposta. Per citare un solo caso di presentimento pessimista, tutti ricordiamo l’avvertimento di Lane (1966) sul fatto che ci trovassimo
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all’inizio di una nuova era in cui le conoscenze scientifiche avrebbero ridotto la significazione del politico. La realtà di oggi è ben diversa: oltre a quelle che sono risultate vantaggiose, siamo circondati di tecniche che hanno fallito. Alcuni casi attuali ci hanno portato ad essere più coscienti sul fatto che vi sono rischi prodotti dall’essere umano che sono sempre più fuori controllo. I rifiuti tossici nel golfo del Messico, la crisi economica prodotta in gran misura dal fallimento di quei sofisticati dispositivi tecnologici che sono i prodotti finanziari, il cambio climatico provocato dal nostro modello di sviluppo, non solo sono disastri con gravi ripercussioni sociali ma anche, innanzitutto, evidenti fallimenti tecnologici. Potremmo dedurre, di fronte a tali fallimenti, che i tecnocrati si sbagliavano, ma lo facevano anche coloro che temevano più i successi della tecnica e non tanto i suoi fallimenti. La cosa interessante di questa torsione della storia è che ha modificato radicalmente il nostro modo di intendere l’articolazione tra politica e tecnologia. Né la destra tecnocratica né la sinistra neomarxista degli anni ‘60 e ‘70 avevano previsto che un giorno il rinnovamento della politica potesse derivare dal fallimento della tecnica. Pensavano piuttosto alla carriera trionfale della tecnica, nel bene e nel male, celebrandola o temendola. La critica alla tecnocrazia è ormai rimasta superata dal fatto che abbiamo una tecnica impacciata e una politica il cui intervento è richiesto a partire da diverse esigenze. Speravamo che la politica ci proteggesse dal potere della tecnica e ora invece risulta che la politica è chiamata in causa per risolvere i problemi generati dalla debolezza della tecnica stessa. Lungi dal far diventare la politica un anacronismo, la tecnica (o meglio, i suoi fallimenti sonori o i suoi rischi potenziali) ha rinforzato il prestigio della politica, dalla quale ora ci si attende ciò che altri agenti non sono riusciti a fornire. Per ciò non è un’esagerazione sostenere che la gestione di questi rischi può
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essere una nuova fonte di legittimazione dell’azione politica (Czada 2000). Altra cosa diversa è che la politica stia agendo bene nel momento di esercitare questa responsabilità oppure che abbia a disposizione degli strumenti necessari per far ciò. La politica ritorna così in tre aspetti fondamentali: come ritorno dello Stato, come ricupero della logica politica e come esigenza di gestire democraticamente i rischi. Vediamo brevemente ciascuno di questi tre aspetti. Innanzitutto, catastrofi come quelle finanziarie o ambientali segnalano l’esigenza di una nuova forma di statualità regolatrice. Se la svolta neoliberale ha comportato un ritiro dello Stato, la progressiva coscienza dei pericoli della civiltà tecnologica spinge lo Stato stesso ad assumere nuovi compiti, sebbene ci si trovi in un contesto molto diverso da quello in cui era abituato ad agire sovranamente. Conviene infatti non farsi trasportare troppo su questo punto in ciò che potremmo chiamare un’illusione neokeynesiana: lo Stato che torna non è un ricco sovrano, ma quello indebitato e bisognoso di cooperazione. Quanto prima capiremo questa nuova realtà e indagheremo le sue possibilità di intervento, meno tempo perderemo a celebrare la storia che ci ha dato nuovamente ragione. Possiamo vivere un momento di ripoliticizzazione in relazione proprio allo screditamento dei presunti esperti. Hanno fallito coloro che monopolizzavano l’esattezza e l’efficacia; è diventata ideologicamente sospetta la chiamata alla scienza e alla tecnica perché mettessero un punto definitivo alle contese; il mondo degli esperti si è rivelato così poco unanime altrettanto quanto le nostre società plurali. Tutto ciò vuol dire che stiamo restituendo al sistema politico il potere di disegnare la situazione, che abbiamo una possibilità inedita di ricuperare la politica, cioè, di esercitare l’arte di trasformare in decisioni la nostra mancanza di visione.
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La gestione di rischi, pericoli e catastrofi può diventare anche un elemento di democratizzazione. Un mondo più incerto non deve essere per forza meno democratico rispetto al mondo di certezze (ormai scomparso), ma anzi, è il contrario. Un esempio può essere dato dalla stessa evoluzione del movimento ecologista. Il discorso ecologista, che negli anni sessanta portava avanti una retorica antistatale, si trasformò in seguito in una rivendicazione nei confronti dello Stato regolatore. Il fatto stesso di introdurre la protezione dell’ambiente come uno dei compiti dello Stato, aprì una fonte di legittimazione per la politica regolatrice nel momento in cui sembrava che si fosse esaurita quella legittimazione dello Stato di benessere incentrata nella politica di redistribuzione. Sottoporre i rischi tecnologici a procedure politiche ufficiali ha fatto sì che il conflitto tra economia ed ecologia si sia immesso nel sistema di governo, e non abbia niente di sovversivo o destabilizzante. Lo sviluppo dei Verdi, soprattutto in Germania, è un esempio lampante. Dopo un lungo dibattito, si è imposta finalmente l’ala che premeva per entrar a far parte delle coalizioni di governo su quella che spingeva per l’opposizione esterna. Ciò che alcuni definirono come “guerra civile ecologica” riguardo all’energia nucleare non comportò il collasso delle autorità politiche della Repubblica Federale Tedesca, come molti temevano o si auspicavano. Gli ecologisti che, agli inizi degli anni ‘80, stavano formulando l’abolizione del monopolio statale della violenza, nel 2000 finirono per riconoscere che i loro scopi potevano solo essere raggiunti attraverso la politica e il diritto. Quindi, si può giustamente sostenere che, mentre le antiche catastrofi potevano essere il varco d’accesso per Stati d’eccezione antidemocratici, i conflitti della “società del rischio” hanno avuto una funzione democratizzante e hanno promosso una cultura politica del dialogo e della risoluzione dei conflitti. La nostra maniera di concepire come debbano essere affron-
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tati i pericoli in società democratiche si differenzia evidentemente dalla concessione autoritaria che si accorda al sovrano per risolvere situazioni eccezionali. I pericoli della “società del rischio” non richiedono uno Stato di eccezione nel senso tradizionale. Ciò che richiedono è, piuttosto, esercitare tutta la normalità che sia possibile nella gestione delle minacce. In una democrazia sono presenti talvolta situazioni d’eccezione e ciò che ci auspichiamo è che si gestiscano in modo che si torni alla normalità. Per quel giurista reazionario che fu Carl Schmitt, invece, lo Stato d’eccezione non sorge con la catastrofe bensì nella battaglia contro di essa. Per Schmitt è il potere supremo che decide sovranamente se vi sia o meno uno Stato d’eccezione. È in gioco qui qualcosa di più di una sfumatura teorica: ciò che distingue la gestione democratica delle attuali catastrofi contro il sovranismo autoritario è, di fatto, la preoccupazione per la normalità. Ci troviamo, quindi, di fronte ad uno strano paradosso: la politica non si è rafforzata grazie alla perfezione della tecnica ma a causa del suo fallimento. La tecnica ha bisogno più che mai della regolamentazione politica. I progressi della scienza hanno ingrandito il territorio del politico nella misura in cui ha prodotto nuove esigenze normative e di regolazione. Quando i fallimenti della tecnica sono percepiti come gravi minacce per i diritti della cittadinanza, alla politica viene richiesta la responsabilità di creare le condizioni che ci permettano di far fronte, come società, a tali conseguenze. Senza i requisiti di legittimazione democratica e di Stati che funzionino (oppure sotto la forma di una governance globale), non è possibile affrontare le insicurezze, i pericoli e gli incidenti che le moderne tecnologie costituiscono. Laddove prima ritenevamo che non vi fosse nessun problema al quale non avremmo trovato soluzione tecnica nel futuro, oggi si inverte il punto di vista – sebbene più discretamente
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– e piuttosto possiamo ritenere ragionevolmente che i problemi generati dalla tecnica o li risolviamo politicamente oppure non li risolveremo affatto.
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Capitolo quarto Un mondo asserragliato
L’attuale trasformazione di molte delle nostre frontiere in muri è un chiaro indicatore dell’ambiguità del processo di globalizzazione, che alterna apertura e frammentazione, sconfinamento e chiusura. In questa vicenda ci giochiamo aspetti cruciali per l’umanità dato che le frontiere e i limiti sono vincolati alle logiche dell’interno e dell’esterno, dell’inclusione e dell’esclusione, alle questioni dell’identità e della differenza. La tendenza attuale a moltiplicare le strategie di chiusura mettono in evidenza che abbiamo grandi difficoltà nel momento in cui dobbiamo configurare in un altro modo ciò che ha a che fare con l’ordine giuridico-politico, la cittadinanza, l’identità o la sicurezza. Forse è giunto il momento di pensare ad una concezione diversa di frontiera come opportunità, che smetta di essere concepita come muro e si costituisca come luogo di riconoscimento, comunicazione e demarcazione.
1. La proliferazione dei muri Siamo così assorti a celebrare l’avvento di un mondo smisurato, gli spazi aperti della globalizzazione, l’indeterminazione della rete, le libertà di movimento e comunicazione, il nuovo
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linguaggio dell’interdipendenza, il soft power, che ci siamo trovati in ritardo nel momento in cui dovevamo riconoscere l’altra faccia della realtà: un mondo riterritorializzato, persino asserragliato, lo spazio frammentato della multiculturalità, il protezionismo, la proliferazione di gated communities, e le barricate fisiche. L’elogio funebre delle frontiere dovrebbe considerare piuttosto se non ci troviamo in realtà di fronte alla loro moltiplicazione e dislocazione. Il mondo che chiamiamo globale mostra una strana ambiguità dato che per un verso è aperto, liberalizzato, senza limiti, ma dall’altro presenta anche strategie – probabilmente come reazione che consegue all’altro aspetto – di ripiegamento, vigilanza e protezione. Inoltre, l’esperienza dei limiti e la loro trasgressione è divisa in modo iniquo, asimmetricamente. Innanzitutto, ciò che per certi cittadini è una formalità – entrare od uscire da un certo territorio – diventa per altri una vera e propria impossibilità o una lotta contro gli strumenti di setaccio e controllo. Persone diverse hanno esperienze diverse riguardo alle frontiere a seconda di chi siano, da dove provengano, dove vadano e quale sia il motivo del loro viaggio. Da tutto ciò dovremmo trarre la conclusione che i discorsi riguardo un “borderless world” siano fantasie di pochi che godono di un’esistenza digitale in un mondo in cui per molti la semplice esistenza è una lotta costante. Questo contrasto risulta più stridente rispetto alla proliferazione di muri in seguito alla fine di quella grande barriera fisica ed ideologica che fu la Guerra Fredda. Dal 1989, quando cadde il Muro di Berlino, la costruzione di nuovi muri si è moltiplicata, come se si trattasse di una corsa frenetica per far fronte ad una nuova mancanza di protezione: tra Messico e gli Stati Uniti (negli Stati di California, Arizona, New Mexico e Texas), in Cisgiordania, tra l’India e il Pakistan, tra l’Irak e
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l’Arabia saudita, tra il Sudafrica e lo Zimbawe, tra la Spagna e il Marocco (chiudendo le città di Ceuta e Melilla), tra la Tailandia e la Malesia...L’elenco si potrebbe ampliare se conteggiassimo anche quelli che sono in progetto, come il muro che Grecia vuole dispiegare lungo la frontiera con la Turchia. A dispetto delle previsioni che annunciavano la configurazione di un mondo senza frontiere come conseguenza della globalizzazione, soltanto gli Stati Uniti, India e Israele hanno costruito un totale di 5700 chilometri di barriere di sicurezza (Jones 2012). In cosa consistono questi muri? Qual’è la loro utilità? O almeno, con quale intenzione vengono innalzati? Queste barriere non sono pensate per impedire gli attacchi di altri sovrani o di eserciti nemici, bensì per impedire il transito di persone; vogliono far fronte piuttosto a forze persistenti e disorganizzate che a strategie militari od economiche; sono più “post-”, “sub” e transnazionali che internazionali; sono una risposta ai flussi scollegati dalle sovranità statali. I muri attuali non rispondono alla logica della Guerra Fredda bensì sono muri di protezione; sono soprattutto indicatori della diffidenza verso l’altro, verso lo straniero, e dicono molto in questo modo sulle ambiguità della globalizzazione. «Le barriere non separano un ‘dentro’ corrispondente a un sistema politico legale e sovrano da un ‘fuori’ straniero, ma hanno lo scopo di bloccare il movimento attraverso un territorio» (Weizman 2009, 176). Sono rivolti contro il movimento di beni e persone che spesse volte non ha la sua causa in un’invasione esteriore ma piuttosto in una domanda interna: mano d’opera, droghe, prostituzione... Su questo aspetto, condivido pienamente la tesi di Wendy Brown e la sua paradossale spiegazione: ciò che ha portato alla costruzione frenetica di muri non è il trionfo della sovranità statale bensì il suo indebolimento (2010). Quest’osservazione contraddice la dogmatica tradizionale sulla sovranità. Da Carl
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Schmitt a Giorgio Agamben, la sovranità è stata definita come il potere di stabilire uno Stato d’eccezione, del quale il muro sarebbe l’immagine più emblematica. Questa concezione ha sullo sfondo l’idea che le forme extralegali o iperboliche del potere sono espressione di sovranità, quando invece occorrerebbe dire piuttosto il contrario: che sono manifestazioni del fallimento del potere sovrano. Le mura attuali non indicano un rafforzamento dello Stato-nazione nel mezzo della tarda modernità, bensì sono emblemi della sua erosione. Come ogni iperbole, mettono in luce una perplessità, una vulnerabilità e un’instabilità nel cuore stesso di ciò che pretendono difendere. Indicano l’incapacità di governare le potenze liberate dalla globalizzazione. Il ricorso alla barriera e al blocco è un tentativo di porre rimedio disperatamente a questa situazione di ingovernabilità. Un muro non è tanto una cosa materiale quanto uno Stato mentale, che traccia una linea di separazione tra un “di dentro” che si sente minacciato e un “di fuori” minaccioso, considerato nemico globale, stereotipato, onnipresente e talvolta spettrale. I muri funzionano come un simbolo rassicurante nella misura in cui ristabiliscono una distinzione chiara tra l’interno e l’esterno, tra l’amico e il nemico, che spesso coincide con le frontiere nazionali. Tutti i processi di ghettizzazione partecipano alla medesima logica nel momento in cui ritagliano la città in maniera invisibile, rovinando così la sua vocazione ad avvicinare i suoi abitanti. Le barriere ricuperano una modalità di potere sovrano, visibile, materiale e delimitato in un ambiente, per alcuni inquietante, nel quale il potere si presenta come una realtà sfumata e debole. I muri sono una risposta psico-sociologica all’infiacchimento della distinzione tra interno ed esterno, alla quale si accompagnano altre distinzioni che sono diventate problematiche, come la differenza tra esercito e polizia, diritto e non-diritto, il pubblico e il privato, l’interesse personale e quello generale.
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La costruzione di muri non rappresenta soltanto un passo indietro nel sogno di un “mondo globale”, ma è il testimone di alcune spinte sotterranee della globalizzazione che nutrono il ritorno di certe forme di “neofeudalizzazione” del mondo. Un mondo nel quale sono incredibilmente compatibili l’integrazione dell’economia globale e l’isolamento psico-politico. Si potrebbe persino affermare che la difesa di tale compatibilità sia divenuta un obiettivo ideologico in questa sintesi di neoliberalismo politico e nazionalismo statale di una certa nuova destra il cui progetto potrebbe essere descritto con il doppio scopo di avere «lo spazio economico in via di denazionalizzazione e il discorso politico che...si sta rinazionalizzando» (Sassen 1998, 14-15). Non viviamo in un mondo sconfinato, ma piuttosto nella tensione tra una geografia dei mercati aperti, che tende ad abolire le frontiere, e una territorialità della sicurezza nazionale che tende a costruirle. Non c’è coerenza tra la pratica geoeconomica e la pratica geopolitica che equilibri le diverse agende del commercio e della sicurezza.
2. Psicopatologia dei limiti Sappiamo, fin dai tempi di Machiavelli, che le fortezze sono generalmente più nocive che utili (1971, II, 24). I muri progettano un’immagine di giurisdizione e spazio rassicurante, una presenza fisica spettacolare che è contraddetta dai fatti: normalmente non contribuiscono nella risoluzione di conflitti e riducono la circolazione ai termini minimi. Complicano l’obiettivo, obbligano a cambiare il percorso, ma in quanto divieti transitori sono per lo più poco efficaci. La proliferazione di muri nell’epoca degli spazi smisurati è un prova del fatto di quanto ancora gli essere umani si aggrappino a soluzioni storicamente scadute, che però vengono ancora
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praticate nonostante la loro inutilità. Per esempio la costruzione di fortificazioni continuò ad essere praticata ignorando il fatto che i metodi della guerra le avessero rese completamente superflue. Possiamo citare il caso delle cittadelle costruite in epoche nelle quali erano prive di senso. Uno degli esempi più assurdi è quello di Amberes, che innalzò una cinta muraria esteriore a nove miglia di distanza e questa barriera finì per limitare lo spazio della città, che si vide così circondata dalle proprie recinzioni difensive e che, inoltre, era sprovvista di soldati sufficienti per difendere la propria fortezza. Certamente i muri non servono per ristabilire una sovranità statale, scomposta all’interno del sistema internazionale. Alla scarsa efficacia bisogna aggiungere attualmente il loro anacronismo nell’epoca del riscaldamento climatico, le bombe intelligenti, gli attacchi digitali e le pandemie globali. Le mura non possono non avere un carattere vetusto in un mondo di flussi; sono un monumento alla solidità in mezzo all’evanescenza, una delimitazione che contrasta con l’indeterminazione degli spazi finanziari e comunicativi, un’affermazione Statica contro la mobilità generalizzata, un gesto d’isolamento in un ambiente di interdipendenza, un simulacro di un nido protettore che sembra ignorare la comune esposizione di tutti ai medesimi rischi globali. Dal punto di vista della sicurezza, da tempo, ormai si è reso particolarmente palese che le fortificazioni sono del tutto obsolete in quanto mezzi di difesa (Hirst 2005). Gli esperti in sicurezza sconsigliano la chiusura dello spazio territoriale. Così infatti, le delimitazioni strette, al meglio rappresentate dai muri, mettono in scena un potere e un controllo sovrani che non vengono esercitati, ed in questo momento meno che mai. L’esempio più lampante in tal senso lo troviamo nel controllo dell’immigrazione, che aumenta o diminuisce a causa di fattori che non sono legati alla rigidità o alla porosità delle frontiere.
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C’è immigrazione perché vi è un differenziale di opportunità o, se si preferisce, perché le disuguaglianze sono attualmente percepite su scala globale. Ritenere che impiantando delle barriere si troverà la soluzione di fronte all’aumento del numero di immigrati e rifugiati, rispecchia un modo di pensare che considera la flessibilità delle barriere la causa di tale spostamenti, il che è radicalmente falso. Se non assolvono la funzione che viene loro assegnata, allora, a cosa servono queste frontiere che prendono le forme di muri? Senza dubbio il loro status è indipendente dalla loro funzionalità. Data la mancanza di funzionalità, ciò che occorre chiedersi è quali necessità psicologiche la loro costruzione possa soddisfare. E la risposta sta nella necessità di limitazione e protezione di quelle che si percepiscono – spesso contro ogni evidenza – come «società assediate» (Bauman 2002a). Che qualcosa serva per uno scopo diverso di quanto è dichiarato o potrebbe sembrare, è un fenomeno che oramai non dovrebbe sorprenderci. Per quanto riguarda i muri, è chiaro che si riferiscono innanzitutto ad una difesa contro assaltanti che vengono da un “infuori” caotico, ma servono anche come strumenti di identificazione e coesione, rispondono alla paura per la perdita di sovranità e la scomparsa delle culture omogenee. In questo modo si costruisce una sinistra equazione tra alterità e ostilità, il che è tra l’altro un errore di percezione (la maggior parte degli attentati che sono avvenuti negli Stati Uniti sono stati compiuti da terroristi “locali”). E si consolida il pregiudizio secondo cui la democrazia possa esistere soltanto in uno spazio chiuso ed omogeneo. Si tratta, quindi, di rattoppi fisici per problemi psichici, di una teatralizzazione con effetti più visivi che reali. Un muro sembra offrire sicurezza in un mondo dove la capacità di protezione dello Stato è diminuita considerevolmente e i soggetti sono più vulnerabili alle vicissitudini economiche globali e alla
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violenza transnazionale. Ciò che accompagna la scenografia pletorica dei muri non sono altro che gesti politici destinati ad accontentare un certo elettorato, a sopprimere l’immagine di un caos politicamente imbarazzante, sostituendola con una di un ordine rassicurante (Andreas 2000, 144). Benché spesso sia impossibile chiudere le frontiere, è peggio dar l’impressione di non far niente. «Costruire una barriera è il modo migliore per non far niente facendo credere di far qualcosa»; in questo modo si spiega «un’avvincente politica salvifica diretta contro un insieme di problemi particolarmente complessi, per i quali risulta impossibile applicare soluzioni a breve termine» (Bhagwati 1986, 148). I muri sarebbero innocui se si limitassero a non risolvere i problemi che pretendono così semplicisticamente delimitare. Ma non è questo il caso: i muri generano zone di non-diritto e conflittualità, aggravano molti dei problemi che cercano di risolvere, esasperano le ostilità reciproche, progettano verso l’esterno i fallimenti interni ed escludono ogni confronto con le disuguaglianze globali. Inoltre, quando si accentua ostentatamente la sicurezza, si provoca nel contempo un sentimento di insicurezza. Sono troppi i danni collaterali di fronte alla debole protezione che i muri possono fornire.
3. Vecchia e nuova sicurezza Le frontiere precise, ininterrotte lungo una linea, furono un elemento costituente dello Stato nazionale moderno, che si definisce sovrano entro un determinato territorio. La frontiera come linea fissa e continua crea uno spazio chiuso – sacro – e lo delimita di fronte agli altri, rendendo più difficile il passaggio od impedendolo. Dalla fine del XVIII secolo il controllo delle frontiere diventa una strategia sistematica. I limiti sono
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segnati, controllati dalla polizia e difesi militarmente. Il potere degli Stati si mette in scena nella linea di frontiera, che è il luogo del legittimo controllo (anche qualora non esista un sospetto concreto), il luogo dove lo Stato legittimamente mette tutti sott’accusa allo stesso modo. Ci ricorda Bauman che la modernità fu un’impresa per colonizzare lo spazio, come se fosse qualcosa che potesse essere conquiStato e chiuso, sul quale montare la guardia e limitarlo ponendo indicazioni del tipo “vietato il transito”. La ricchezza ed il potere sono stati tradizionalmente grandezze pesanti, voluminose e immobili, che con la loro espansione crescevano nello spazio e che dovevano essere protette difendendo proprio lo spazio che occupavano. Ma le cose liquide, diversamente dai solidi, possono appena confermare la loro forma. Dove meglio si avverte che il potere sia diventato qualcosa di extraterritoriale è nel fatto che lo spazio ha perso il suo classico valore di barriera e protezione. Con la fluidificazione dello spazio, è stata parzialmente soppressa la differenza tra ciò che è vicino e ciò che è lontano, così come la differenza tra civiltà e mondo selvaggio. Lo spazio non è ormai un ostacolo assoluto per l’azione, le distanze appena contano e hanno perso significato strategico. Se tutti i luoghi nello spazio possono essere raggiunti con facilità, allora nessuno di essi risulta privilegiato rispetto agli altri. È questo il contesto nel quale si può parlare di un certo fallimento o inefficacia della politica di delimitazione. I nuovi spazi e le nuove logiche neutralizzano ciò che John Agnew chiamò «la trappola dell’immaginario geopolitico moderno» e che è costruito a partire da tre presupposti problematici: gli Stati hanno un potere esclusivo all’interno dei suoi territori così come suggerito dal concetto di sovranità; la sfera domestica e quella internazionale devono essere distinte; le frontiere dello Stato definiscono le frontiere della società (Agnew 1994).
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La crescente complessità e differenziazione dei limiti nella politica globale contrasta con la semplicità delle nostre pratiche in rapporto ad essi. Nella società contemporanea, i limiti non stanno là dove li aveva stabiliti l’immaginario geopolitico contemporaneo. Nell’immagine della rete, la società smette di essere interpretata come una macchina o un organismo – come si è stato soliti fare dal Leviatano di Hobbes sino alla fine del XX secolo-, come un corpo territoriale segnato da limiti nitidi. Le reti non conoscono spazi delimitati, ma connessioni comunicative e canalizzazioni infrastrutturali di flussi. Per ciò dobbiamo iniziare a comprendere che i bordi non sono più dov’erano, in quel luogo istituzionalizzato dove finiva una sovranità e ne iniziava un’altra. Come afferma Balibar, le frontiere non sono più alla frontiera (Balibar 1998, 217). Da ciò deriva l’inutilità di sostenere una distinzione rigorosa tra gli spazi interni ed esterni, tipica della politica moderna. Le nuove forme di governance globale attenuano la distinzione tra l’interno e l’esterno, il che ha disgregato le nozioni di sovranità, territorio e sicurezza (Walker 1993; Bigo 2006). L’“era dello spazio” che cominciò con la Muraglia Cinese, e che ebbe il suo apice con la linea Maginot, entrò nel suo ultimo stadio con la caduta del Muro di Berlino. Con l’11 Settembre divenne evidente che il territorio non può più essere una carta da giocare tra le risorse per la sicurezza. «La forza e la debolezza, la minaccia e la sicurezza sono diventate questioni extraterritoriali» (Bauman 2002b, 82). Questa destabilizzazione ha avuto una risposta intuitiva ma poco intelligente in ciò che concerne la sicurezza: far diventare zona di frontiera un intero territorio – come fecero gli americani dopo l’11 Settembre-, rinforzando quella tendenza, praticata a seguito della fine della Guerra Fredda, di ridurre le spese militari e incrementare il budget per il controllo delle frontiere. Si compiva così un passo nella direzione di consu-
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mare poco a poco la differenza tra il controllo dei limiti e quello dell’interno. Vi è qui un effetto perverso di certe politiche di sicurezza: l’ampliamento del campo d’azione converte la minaccia in qualcosa di ubiquitario e permanente. Ma allora, come difendersi in un mondo sconfinato? Qual’è la differenza tra la vecchia e la nuova sicurezza? Innanzitutto, occorre comprendere bene la logica delle nuove minacce. Il nuovo tipo di trasgressore se ne approfitta delle fortezze della società-rete, ne sfrutta la sua apertura, le sue tecnologie, la densità delle sue connessioni. La politica della sicurezza non è ormai retta da una chiara distinzione tra la minaccia criminale e la minaccia militare, tra il nemico e il delinquente. Tutto ruota intorno alla lotta contro le “minacce non convenzionali”. Di fronte a questo tipo di pericoli, la difesa dei limiti è molto poco efficace. Il controllo delle frontiere soffre di un punto debole per principio: può espellere persone solo alla frontiera, il che è inefficace in relazione alle nostre principali minacce. In ogni caso, la difesa dei limiti non è più la difesa di una linea territoriale bensì la conquista di posizioni difensive che sono disperse nella rete. Il fatto è che la sicurezza, oggi, è lontana dalle frontiere e le linee di difesa possono essere molto lontane dal proprio territorio. Le linee di difesa militare sono dislocate verso una determinata retroguardia, raggiungono i punti dove si presume che sorgano i pericoli, nei punti caldi generati dalle pieghe della globalizzazione. Per questo motivo la vulnerabilità generale prodotta dagli attuali flussi globali non si risolve isolandosi completamente dall’esterno, ma attraverso procedure di cooperazione e governance globale che implicano un’interiorizzazione attiva dell’esterno.
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4. L’avvenire delle frontiere I limiti e le frontiere non sono diventati qualcosa di obsoleto, eppure nemmeno il tratto territoriale è del tutto scomparso. Ma tutto ciò deve essere comunque pensato in un altro modo. Innanzitutto, occorre capire che il concetto di frontiera o limite rientra in un ordine giuridico-politico e non naturale, oppure come una pratica neutra. Vi è un uso irriflessivo in questo concetto, che porta a dimenticare la contingenza dell’ordine politico e a reificarlo. Con la retorica della nazione impermeabile si trascura il fatto che le culture e le identità, lungi dall’essere immutabili, sono di natura storica e si trasformano costantemente a causa dell’aggiunta di nuovi elementi. Dobbiamo abituarci alla diversità culturale, sdoganando la sua giustapposizione, e dobbiamo favorire la circolazione di persone, rendendo flessibili gli aspetti più Statici della contiguità. Le delimitazioni rigide sono un metodo primitivo per provvedere alla sicurezza, così come i muri risultano inefficaci. Il miglior antidoto per il muro è la frontiera intesa come ricupero dei limiti che definiscono, stabiliscono soglie di transito e permettono il riconoscimento. Ciò che occorre combattere non sono le frontiere ma i muri. Il fatto è che vi sono altri usi della frontiera che l’ossessione securitaria tende a sottovalutare, tra i quali vorrei fondamentalmente evidenziare due: la comunicazione e la demarcazione. I muri sono più barriere che frontiere. La frontiera, invece, non è soltanto qualcosa che divide e separa; permette anche il riconoscimento e l’incontro con l’altro; è più liquida che solida, un luogo di passaggio, di transito economico e scambio. Lungi dal bloccare, separare ed omologare, la frontiera “comunicherebbe”. È ormai da tempo che in tutti gli ambiti del sapere (fisica, biologia, geografia, economia e persino diritto) si pensa alla frontiera senza vincolarla ad una distinzione assoluta tra interno ed esterno.
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La frontiera è anche un dispositivo che stabilisce ambiti, non necessariamente esclusivi. Ben compresa, la frontiera può essere uno strumento di demarcazione in un mondo che, a causa del suo carattere sconfinato, ha bisogno di procedure di protezione ed equilibrio; ma anche su questo punto dobbiamo applicare il principio secondo cui dobbiamo proteggerci da ciò che ci protegge e capire che ogni delimitazione è contingente e compatibile con altri ambiti e si sovrappone ai loro limiti. Di fronte alla nostalgia per un ordine perduto che inneggia a limiti spigolosi e barriere di esclusione, la rivendicazione di una frontiera che comunichi, demarchi, equilibri e limiti può essere una strategia ragionevole per trasformare quegli spazi di scontro, chiusura e sovranità, in zone porose di contatto e comunicazione (Martins 2007, 176). L’alternativa, in ogni caso, non è tra una frontiera e la sua assenza, bensì tra frontiere rigide che continuano ad occupare il nostro immaginario politico e una frontiera-rete che permetterebbe di pensare il mondo contemporaneo come una molteplicità di spazi che si differenziano e si incrociano, dando luogo a punti di frontiera che sono anche punti di transito e di comunicazione.
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Terza parte Governare, ovvero l’arte di farsi carico
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Capitolo quinto La società dell’osservazione
Il potere ha sempre comportato una capacità di osservare, nascondere e persino nascondersi. Vedere implica controllo sociale; generalmente, più aumentano le possibilità di osservare, più diminuiscono quelle di essere visti. Da ciò deriva il fatto che il potere sia Stato sempre accompagnato dalla costruzione di avamposti e osservatori o dalla sofisticazione dei dispositivi d’osservazione della società, come i censimenti e i sondaggi. Nel mondo attuale continua ad esserci questa pretesa, che è addirittura migliorata dalle tecniche di controllo, ma, in una società della conoscenza e dell’informazione, la tecnologia che rendeva possibili tali operazioni di vigilanza è disponibile anche in mani ai controllati. Foucalt vincolò l’esercizio del potere alla vigilanza continuativa sugli individui (1975, 220); il riequilibrio che oggi si sta producendo ha a che fare con il fatto che siano aumentate la supervisione dei cittadini sul potere e le possibilità tecnologiche per farlo. Ciò che abbiamo è una sorta di “panoptismo civico” che ha rovesciato l’esercizio della disciplina. Il potere è più un soggetto passivo che attivo dell’osservazione e i cittadini hanno smesso di essere semplici spettatori per essere puntigliosi controllori. La sovrapposizione dello spazio delle nuove tecnologie sullo spazio pubblico tradizionale fa sì che la scena politica sia più osservata, più da vicino e da tutti gli angoli possibili.
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La democrazia rappresentativa implicava un divario di capacità tra governanti e governati che non ha luogo quando aumenta l’informazione o la formazione in generale. Nelle società più avanzate i governanti diventano più vulnerabili e dipendenti (Rosanvallon 2008, 61). Le tecnologie della comunicazione e dell’informazione rendono possibile una vigilanza democratica che era impensabile in altre epoche di asimmetria informativa. «I vecchi meccanismi di governo non funzionano in una società dove i cittadini dispongono delle stesse informazioni di coloro che sono al potere» (Giddens 2000, 92). La società osservatrice è una società più vigile, che pone nuove esigenze di trasparenza, e che però deve imparare a gestire questi ambienti informativi aperti nei quali il problema non è tanto l’occultamento quanto l’interpretazione della realtà.
1. Noi, gli intrusi Ogni società che si democratizza genera uno spazio pubblico corrispondente, cioè, diventa un ambito nel quale vigono nuove logiche di osservazione, vigilanza, volontà di trasparenza, dibattito e controllo. Così accadde al sorgere degli Stati nazionali e qualcosa di analogo sta succedendo ora con lo spazio mondiale. In entrambi i casi si ambisce a costruire uno spazio di libero dibattito e pubblicità, che conduce ad una diplomazia pubblica che si incrementa e sollecita l’opinione pubblica. L’analogia è valida solo in parte e non conviene pensare alla governance globale con le stesse categorie che risultano valide nello spazio limitato degli Stati nazionali; tuttavia non c’è dubbio che qualcosa di molto simile ad uno spazio pubblico mondiale si stia poco a poco formando, grazie alla confluenza delle possibilità comunicative e dell’estensione dei valori democratici.
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Il fenomeno dei wikileaks è un indicatore del fatto che le questioni geostrategiche e diplomatiche non sono in grado di frenare questo processo di pubblicizzazione e di rimanere protette segretamente com’era accaduto finora. Ciò non vuol dire che il segreto o la discrezione saranno del tutto aboliti dalla diplomazia mondiale, bensì che si stiano riducendo a causa della configurazione di un’umanità osservatrice che dispone sempre più di strumenti per conoscere ciò che accade nei tranelli del potere. La logica che spiega questo processo è l’inarrestabile irruzione delle società nella scena politica. La diplomazia, che è stata uno spazio riservato, regno del segreto, ultimo baluardo della ragion di Stato, un luogo immune, l’ultimo rifugio di fronte agli assalti della democratizzazione, si trova oggi assediata da ciò che potremmo chiamare un diritto delle società a vigilare sulle questioni publiche. Stiamo transitando verso una forma di diplomazia pubblica che rompe con l’idea tradizionale del segreto. Con l’irruzione nella scena internazionale, le società modificano profondamente il gioco diplomatico. L’internazionalizzazione implica, innanzitutto, una visibilità crescente delle questioni sociali. In un mondo in cui tutti si osservano, tutti si confrontano, le frontiere perdono la loro capacità di delimitazione e riservatezza. Le società non interagiscono soltanto con il proprio governo; queste logiche di convergenza mettono anche lo spazio mondiale sotto il controllo sociale. Il processo di costruzione dello spazio pubblico mondiale può essere inteso, negativamente, come un processo nel quale i soggetti si emancipano dal quadro statale. I comportamenti sociali si svincolano sempre più dal quadro di socializzazione nazionale: opinione, valori, gusti, investimenti e comportamenti si articolano ai margini dell’inquadramento istituzionale. Ci troviamo nel mezzo di una serie di dinamiche la cui complessità e interdipendenza dipendono in buona misura dal fatto che sono in gioco strut-
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ture “cross-cutting”, gruppi d’attori e interessi sovrapposti che ci consentono di affermare che il concetto di “noi”, così come configurato dagli Stati, non coincide con le realtà sociali ed economiche. Il processo di configurazione di uno spazio pubblico mondiale mira alla formazione di un nuovo soggetto, l’umanità globale, che è l’istanza ultima che valuta le pratiche politiche. Grazie alla globalizzazione, il mondo è diventato un luogo sotto vigilanza pubblica. Le dinamiche contestatarie hanno comportato l’entrata delle società nel dibattito politico internazionale. Lo spazio pubblico globale ha dato luogo a istanze che si esprimono e a cui ci si appella. Certamente non bisogna farsi troppe illusioni. L’opinione che irrompe sulla scena internazionale non è il contropotere ideale, non è una forza efficace che possa contraddire il potere degli Stati. La funzione di supervisione delle società è appena limitante, non ha capacità di veto, ma condiziona il gioco internazionale sino al punto di far diventare l’arbitrarietà estremamente dispendiosa. Questa intrusione e vigilanza si oppone già al mero gioco del potere o a quel beneficio prodotto dall’ignoranza che è stato di grande utilità per i potenti (Badie 2004). Quindici milioni di persone per strada, nel febbraio del 2003, non riuscirono ad impedire la guerra in Irak, ma contribuirono decisamente a delegittimarla. L’attuale conoscenza degli “affari esteri” è il primo passo per introdurli in uno spazio di dibattito nel quale ognuno possa prendere parte senza alcuna tutela governativa e al di fuori di qualsiasi allineamento patriottico. Viviamo in un mondo che respinge l’appello al segreto, che vorrebbe modificare profondamente il senso della diplomazia per inserirla in una discussione pubblica. La politica internazionale è stata privilegiata per molto tempo dal beneficio dell’ignoranza. Gli Stati potevano permettersi praticamente tutto quando appena era noto ciò che accadeva.
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Il golpe dell’esercito sovietico a Budapest nel 1956 ebbe meno resistenza di quello che si produsse dodici anni dopo a Praga; ma nel secondo caso la televisione si era affermata nelle case europee e l’immagine dei carri armati dispiegati dal Patto di Varsavia contribuì a plasmare l’inizio di un’opinione pubblica internazionale. In questi ultimi anni si è resa popolare l’idea di una diplomazia pubblica che sostituisca le vecchie pratiche del segreto con un marketing che lusinghi l’opinione pubblica. Questo cambio di strategia corrisponde al fatto che il potere è stato sottoposto alla vigilanza attiva di un’opinione pubblica gelosamente sollecitata. È sempre più difficile richiamare la democrazia senza cercare l’adesione dell’opinione pubblica, e senza accettare di abbandonare una parte del proprio potere al gioco della deliberazione collettiva. Il XX secolo ha esaurito il monopolio del quale godevano gli Stati in quanto unici attori internazionali. Tale denazionalizzazione risponde alla creazione di uno spazio pubblico di libera discussione e di compromesso all’interno del quale siamo tutti testimoni di genocidi, danni alla legalità, oppressioni di ogni sorta, disuguaglianze, ecc. La mondializzazione è anche uno spazio di attenzione pubblica che riduce percettibilmente le distanze tra testimoni e attori, tra responsabili e spettatori, tra se stessi e gli altri. Si configurano infatti nuove comunità transnazionali di protesta e solidarietà. I nuovi attori, nella misura in cui vigilano e denunciano, destabilizzano sempre più la capacità del potere di affermarsi in forma coercitiva. Nessuno Stato è proprietario della propria immagine. L’umanità osservatrice partecipa direttamente nel dibattito che fonda lo spazio pubblico mondiale e agisce in nome di una legittimità universale, in modo tale che alcuno Stato possa sottrarsi da uno sguardo che si indirizza verso di lui. È molto significativo a tal riguardo la svolta compiuta dalla discussione intorno alla
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giustizia penale internazionale: stiamo passando da una giustizia dettata in nome del popolo ad una giustizia che si appella all’umanità. La nuova responsabilità internazionale degli Stati risponde al fatto che l’umanità si impone sempre più come un riferimento dell’azione internazionale.
2. I limiti della trasparenza Il nostro tempo è segnato dall’immediatezza. Niente ci risulta più sospettoso delle mediazioni, gli intermediari, le costruzioni e le rappresentazioni. Pensiamo che per conoscere la verità sia sufficiente che i dati siano a portata di mano; che per avere una democrazia è sufficiente soltanto che non vi sia nulla che ci impedisca di decidere. Nel nostro inconscio collettivo (e talvolta anche in forma esplicita) consideriamo che sono più utili i dati delle interpretazioni, e, a causa del medesimo pregiudizio, tendiamo a pensare che sia più democratico partecipare piuttosto che delegare. Una tale diffidenza di fronte alle mediazioni ci porta a supporre automaticamente che qualcosa sia vero quando è trasparente, che qualsiasi rappresentazione falsifica e che ogni segreto sia illegittimo. Non c’è niente di peggio che un intermediario. Per ciò ci risulta più vicino a primo acchito un informatore di un giornalista, un dilettante di un professionista, le ONG piuttosto che i governi, e, pertanto, il nostro disprezzo maggiore è diretto verso chi rappresenta la mediazione maggiore: come ci ricordano i sondaggi, il nostro grande problema è...la classe politica. Di questo passo, si finirà per affermare che le loro pensioni sono la causa della crisi economica. L’attuale fascino dei social networks, la partecipazione o la prossimità mettono in evidenza che l’unica utopia che continua ad essere viva è la disintermediazione.
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Arrivati a questo Stato di cose, nessuno può sorprendersi del fatto che le soffiate di wikileaks siano state accolte come una conferma di quanto si sapeva: il sistema è cattivissimo e noi innocenti. Capita questo proprio nel momento in cui accade una crisi economica i cui esegeti ripetono in continuazione che a pagarla siamo coloro che non l’abbiamo provocata. Per fortuna noi non formiamo parte di quel mercato che è dedito alla cospirazione e all’attacco. Identificati i problemi e assegnate le responsabilità, ci siamo risparmiati praticamente tutto il lavoro di pensare un mondo complesso e di adattare la democrazia a nuove realtà. L’indignazione può continuare a sostituirsi in forma accomodante alla riflessione e allo sforzo democratico. La trasparenza è indubbiamente uno dei principali valori democratici, grazie alla quale la cittadinanza può controllare l’attività dei rappresentanti eletti, verificare il rispetto delle procedure legali, capire i processi di decisione e aver fiducia nelle istituzioni politiche. Grazie ad Internet, questa trasparenza può aumentare sino ad avere una portata inedita dal momento che i dati possono essere resi pubblici in modo diretto e anonimo. Ebbene, siamo così sicuri che disporre liberamente di 250.000 documenti della diplomazia americana ci renda più intelligenti e più democratici? Sapremo di più riguardo al mondo se i segreti fosse soppressi? Siamo cittadini migliori man mano che scopriamo quanto maldestre e ciniche siano molte delle nostre autorità? Non dovremmo lasciarci sedurre dall’idea per cui siamo in un mondo d’informazione disponibile, trasparente e senza segreti. Innanzitutto, perché siamo coscienti del fatto che certi negoziati di successo del passato non sarebbero andati a segno se fossero Stati trasmessi in diretta. Vi è qualcosa che potremmo definire come benefici diplomatici della non-trasparenza. Certamente, a tal riguardo, occorre dire che molti procedimenti tradizionali sono destinati a scomparire e che
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chi, a partire da adesso, partecipi ad un processo diplomatico deve essere cosciente che praticamente ogni cosa verrà alla luce. Ma è anche vero che l’esigenza di una trasparenza totale potrebbe immobilizzare l’azione pubblica in non poche occasioni. Ci sono compromessi che non possono essere raggiunti attraverso gli stenografi, svolgendosi alla luce del sole, il che potrebbe portare ad una radicalizzazione delle posizioni degli attori. Malgrado certe celebrazioni affrettate di un imminente mondo senza doppi fondi né zone d’ombra, la distinzione tra palcoscenico e quinte continua a rivelarsi necessaria per la politica. Il fatto è che vi è anche un’ambiguità della nuda trasparenza, non contestualizzata. È un’illusione pensare che sia sufficiente rendere i dati pubblici perché regni la verità in politica, i poteri si spoglino e la cittadinanza capisca ciò che realmente accade. Oltre all’accesso ai dati pubblici, vi è la questione del loro significato. Mettere in rete grandi quantità di dati e documenti non basta per rendere più intelligibile l’azione pubblica: occorre interpretarli, comprendere le condizioni nelle quali sono stati prodotti, senza dimenticare che comunque si riferiscono ad una parte della realtà. L’accessibilità a informazioni su Internet non garantisce la loro visibilità. Si chiama in causa spesso la trasparenza e l’accesso ai documenti come un indicatore sicuro della democraticità di un’istituzione, ma se uno volesse sapere ciò che accade, che documenti dovrebbe richiedere? (Weiler 1999, 349). La trasparenza è reale soltanto se chi la governa, oltre a mettere a disposizione i dati, fornisce informazioni. E qui torniamo ad imbatterci nel problema della mediazione, che avevamo ritenuto superato. È ingannevole affacciarsi ad Internet con le categorie dello spazio pubblico tradizionale pensando che tutto sia pubblico e costituisca dell’informazione (Cardon 2010). Affinché qualcosa sia pubblico non è sufficiente che sia acces-
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sibile; perché esista informazione è necessario che vi sia una certa elaborazione di dati. In questa indeterminatezza consiste la grandezza della rete, ma anche il suo limite. Oltre a tali limiti, la trasparenza può avere effetti perversi. Non sono pochi ad aver avvertito come Internet possa diventare uno strumento di opacità: l’aumento dei dati forniti ai cittadini complica il loro lavoro di vigilanza (Fung/Weil 2007). Se fossimo incapaci di filtrare l’informazione saremmo simili a quei personaggi di Eschilo che «pur vedendo non vedevano» (1966, 122). È l’opacità e non l’assenza di trasparenza ciò che più impoverisce le democrazie. Ossessionarsi con la trasparenza trascurando tutto il resto vuol dire mancare il centro d’attenzione. Il nostro grande nemico non è il segreto, l’occultamento o gli intrighi, bensì la banalità. E riguardo a ciò, vale la pena citare un effetto insolito secondo il quale, la realtà politica ci risulta inintelligibile non a causa della mancanza di dati o, piuttosto perché non investighiamo adeguatamente i nostri rappresentanti, ma perché lo facciamo in forma eccessiva, costante e immediata. La vigilanza estrema sugli attori politici può portarli a proteggere di più le loro azioni. Un esempio a riguardo è il fatto che molti politici, sapendo che i loro atti e dichiarazioni persino meno importanti saranno esaminati e diffusi, tendono a soffocare la comunicazione. La democrazia oggi è più impoverita dai discorsi che non dicono nulla che dal nascondimento esplicito dell’informazione. Le società democratiche esigono a ragione un accesso maggiore e più facile all’informazione. Ma l’abbondanza di dati non garantisce vigilanza democratica; per questo occorre, inoltre, mobilitare comunità di interpreti in grado di ricreare un contesto, un senso e una valutazione critica. Separare l’essenziale dall’aneddotico; analizzare e porre in una prospettiva adeguata i dati richiede mediatori che abbiano il tempo e le competenze cognitive. I partiti politici sono uno strumento
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indispensabile per ridurre tale complessità. In questo lavoro di interpretazione della realtà anche i giornalisti sono imprescindibili: il loro lavoro non sarà superfluo nemmeno nell’era di Internet, ma tutt’altro. I giornalisti sono chiamati a giocare un ruolo importante in questa mediazione cognitiva per sollevare l’interesse della gente, promuovere il dibattito pubblico e decifrare la complessità del mondo (Rosenvallon 2008, 342). Sto, però, difendendo la necessità cognitiva del sistema politico e dei mezzi d’informazione e non i loro rappresentanti che, come tutti, sono evidentemente migliorabili. Non dovremmo sottovalutare le difficoltà dell’interpretazione in un mondo di flussi nel quale l’informazione trabocca e le nostre capacità di comprensione sono sovrastate, sature e disorientate. Commentare ed interpretare la realtà non è qualcosa che qualsiasi persona possa fare bene, così come fa credere il sogno di un produzione dell’informazione per mano degli stessi internauti. Valutare, interpretare, comunicare l’informazione implica avere delle competenze e costituisce un esercizio di responsabilità. Difendere oggi questo lavoro di mediazione significa andare controcorrente, dato che quasi nessuno vuole rinunciare a questo canale dove l’indignazione possa dispiegarsi e aver la possibilità di sopprimere il mediatore. Contro tutte le promesse di pazienza interpretativa, Internet è uno spazio che offre partecipazione e democrazia diretta, espressione e decisione senza intermediari. Tutto ciò fa breccia in quella diffidenza democratica verso l’esperto e la conseguente celebrazione del cittadino comune, il quale sembra essere un democratico ineccepibile. La libertà dell’amateur contro la rigidità del professionista: sarebbe questo il nuovo antagonismo per il quale Internet costituisce un formidabile campo di battaglia (Leadbeater/Miller 2000; Keen 2008; Flichy 2010). Taluni si auspicano persino l’irruzione di un nuovo giornalista dilettante
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che sostituisca quello professionista. La presenza del dilettante, dell’informatore indignato, è molto importante e contribuisce indubbiamente a democratizzare il processo di creazione e circolazione dell’informazione. Ma in realtà vi è una catena di cooperazione molto più complessa tra gli uni e gli altri: solo i grandi quotidiani di riferimento hanno le competenze per sfruttare quelle moli di informazione. Un segnale riguardo al fatto che la trasparenza non sia l’unico elemento ad essere in gioco si verifica proprio nel momento in cui il filtraggio di notizie viene contrattato esclusivamente all’interno di un gruppo limitato di giornali. Alla fine ci accorgiamo di aver bisogno di mediazione, professionalità e rappresentazione. Senza di esse il mondo è meno intelligibile e più ingovernabile. Consideriamo piuttosto se questi elementi fanno bene ciò che devono fare e non lasciamoci prendere dalla pigra illusione secondo cui la loro semplice assenza ci renderà liberi.
3. I segreti sono altrove Dire che viviamo in una società complessa è un’altra forma di far riferimento al fatto che le cose ci risultano molto confuse. Le nostre illimitate possibilità di osservazione e d’informazione non sono proporzionate alla nostra scarsa capacità di ottenere un’idea coerente del mondo, di sapere cos’è davvero importante e di smascherare i nascondimenti ingiustificati. Quest’opacità è dovuta al fatto che la distribuzione del potere è più sfuggevole; l’assegnazione delle cause e delle responsabilità più complessa; le presenze sono virtuali e i nemici diffusi. La società si capisce sempre meno a partire dalle azioni visibili di individui o gruppi concreti e si configura, piuttosto,
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come una trama a partire da interazioni complesse e difficilmente identificabili. In una democrazia questa opacità non è accolta come una buona notizia, bensì come qualcosa, che in prima battuta, deve essere contrastata. All’origine della democrazia moderna vi è un sospetto verso il potere e particolarmente verso il potere nascosto. Tendiamo a pensare che lo Stato tenti sempre di abusare delle proprie prerogative (che protegge invocando troppo spesso la segretezza) e che fornisca soltanto le informazioni che non gli nuocciono. In questa tensione si sono forgiate le nostre istituzioni e pratiche politiche, confrontandosi all’esigenza di trasparenza e pubblicità. Non dovrebbero meravigliarci né questo sospetto cittadino, ma nemmeno quell’appello statale al segreto, dato che entrambi fanno parte del dibattito politico di una società democratica. Ciò che desta la nostra attenzione è il fatto che guardiamo la realtà con un solo occhio, per così dire, che scrutiamo con tanto zelo il sistema politico e con altrettanta superficialità il mondo economico, nel quale abbiamo preso delle decisioni epocali pensando che si dessero delle condizioni ottimali d’informazione e trasparenza. Opacità in politica e trasparenza in economia? Se una cosa è stata messa in evidenza dalla crisi è che tale contrapposizione non è veritiera, e che è addirittura il risultato di un’ordita manovra ideologica, dato che l’osservazione permanente che esercitiamo sulla politica contrasta con l’elevata clandestinità della quale hanno goduto gli agenti economici. Infatti, benché tutto sia migliorabile, né l’opacità degli Stati è così grande come talvolta si denuncia, né la trasparenza dei mercati è così effettiva come alcuni annunciano. Innanzitutto, qualsiasi Stato deve sottomettersi ad una serie di regole per comunicare le sue decisioni, siano esse presenti (con l’obbligo di pubblicizzare e costruire strumenti Statistici che esplichino la sua azione) o siano passate (con la creazio-
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ne e messa a disposizione dei propri archivi). I controlli e le valutazioni interne, le garanzie dello Stato di diritto, la regolazione rigorosa dei segreti ufficiali e dei temi riservati, la vigilanza dei mezzi d’informazione, la valutazione delle politiche pubbliche, tutto ciò nutre un’incessante attività di controllo, di critica e di contro-argomentazione. Ranking, dossier e Statistiche forniscono un’informazione sugli Stati che oramai appena sono padroni della propria immagine. E se non bastasse, gli Stati sono vigilati da altri Stati (di forma particolarmente intensa nel caso dell’Unione Europea dove, a causa delle interdipendenze e la cessione delle sovranità nazionali, gli Stati sono obbligati almeno a tenere conto dell’impatto delle proprie decisioni sugli altri). E lo Stato è anche scandagliato dagli attori economici, che valutano le politiche fiscali e giudicano il loro livello di rischio. Lo Stato appena può sfuggire all’esigenza di rendere note le proprie azioni e i propri metodi. Come avverte Castells (2003), lo Stato oggi giorno è più osservato che osservatore; ormai molto distanti dal vecchio privilegio di guardare senza essere visti, gli attori politici sono sottoposti ad un’osservazione continua ed illimitata. Vediamo cosa accade dove non siamo soliti guardare. Negli ultimi anni, infatti, l’opacità economica non ha smesso di crescere. È vero che il funzionamento dei mercati per principio richiede trasparenza. Un attore economico può solo adottare decisione corrette se le sue previsioni sono ben fondate, ovvero, se ha a disposizione tutta l’informazione necessaria per limitare l’arbitrio delle sue decisioni. Ora bene, a partire dagli anni ‘80, la teoria economica cerca di spiegare le situazioni di distorsione o asimmetria dell’informazione che falsano i rapporti tra gli attori e la possibilità di un equilibrio generale del mercato. Questa disuguaglianza è ancor più arbitraria nei mercati finanziari o quando gli effetti di contagio dell’opinione pubblica o le profezie che si autoavverano fanno diventare l’informazione un’arma nella guerra economica. Lo abbiamo
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visto nella crisi finanziaria: la sofisticazione dei prodotti finanziari ha creato una complessità fuori controllo che nutre rischi capaci di destabilizzare l’insieme della vita economica. Non mi riferisco soltanto al fatto che la deregolamentazione abbia permesso il ricorso ingegnoso a zone fuori controllo: segreto bancario, paradisi fiscali, mercati over-the-counter, darks pools...Tutto ciò potrebbe essere inteso come qualcosa di eccezionale. Il problema più grave è che vi è un’opacità di carattere strutturale: dovuto al fatto che i prodotti finanziari derivati, per esempio, sono basati su altri strumenti finanziari e spesso combinano diversi rischi aggiuntivi, il potenziale delle perdite non può essere del tutto misurato. La dinamica dell’innovazione nelle finanze globali configura una catena di rischio che potenzia il rischio generale attraverso influenze sconosciute ed effetti combinati. La cartolarizzazione ha agito come un meccanismo globale di deresponsabilizzazione, che disseminava e mascherava i rischi, introducendo nei mercati titoli i cui rischi non erano valutabili da nessuno. Lo sviluppo di nuovi strumenti finanziari esotici e non liquidi, l’aumento dei prodotti derivati sempre più complessi e il fatto che molte istituzioni finanziarie siano opache o poco regolate hanno contribuito alla mancanza generale di trasparenza. Quest’opacità ha distrutto la fiducia degli investitori. La difficoltà di valutare i prezzi, i rischi o la tossicità dei prodotti finanziari si trasformata in un’incertezza generale. Alla fine, succedeva che di fronte a certi prodotti finanziari uno non sapeva esattamente cosa stesse acquistando e quale fosse il rischio che comportava. Non è strano che ce ne rendiamo conto ora, col senno di poi, sino a che punto la crisi economica sia il risultato di calcoli e misurazioni che vantavano un’esattezza che non erano in grado di fornire (Charolles 2008; Beauvallet 2009). Ci sono sempre più voci che ci mettono in guardia sui limiti inerenti a
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qualsiasi modello o mettono in questione l’affidabilità presuntamente assoluta dei sistemi di misurazione o dell’esattezza delle previsioni. La sfiducia attuale può essere interpretata come una reazione degli investitori contro un sistema finanziario opaco, la cui dimensione non riescono a comprendere. «La complessità matematica delle innovazioni e transazioni finanziarie ha soprafatto non soltanto la capacità di seguirle da parte dei regolatori (e ancor più quelle di controllarle a priori) ma anche quella di capirle da parte di molte aziende» (Cerny 1994, 331). L’economia non è certo una realtà semplice, ma, quando l’inevitabile complessità diventa sospetta opacità, gli attori si bloccano e i mercati smettono di funzionare. Potremmo parlare in tal caso di un’opacità ideologicamente provocata. Il fatto stesso di presentare le questioni finanziarie come qualcosa di eccessivamente tecnico e complesso ha agevolato un trasferimento di autorità verso i presunti esperti e ha degradato quella dei governanti. Ciò ha depoliticizzato tali questioni e sottratto decisioni rilevanti al pubblico dibattito. Non è giusto che la vigilanza sul mondo sia così mal distribuita. Sarebbe sufficiente che l’economia fosse sottoposta alla stessa osservazione esercitata sulla politica perché le cose andassero molto meglio. Quando ci sarà un wikileaks dei mercati? Sarebbe un altro nome, in assenza di un termine migliore, per quello che chiamiamo una governance economica globale.
4. Sgrovigliare un’illusione Da anni la rete suscita illusioni di democratizzazione che non corrispondono completamente ai risultati sperati. Ci avevano annunciato l’accessibilità all’informazione, l’eliminazione dei segreti e la dissoluzione delle strutture di potere, di forma tale
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che sembrava inevitabile avanzare nella democratizzazione della società, rinnovando la nostra noiosa democrazia e impiantandola nelle società che sembravano vaccinate contro gli effetti più benefici della rete. I risultati non sembrano essere all’altezza di quanto annunciato e già si formulano le prime teorie di tale delusione, che pretendono di smontare il mito della democrazia digitale. Probabilmente sia molto umana questa tendenza a non ponderare le promesse in base alle possibilità, e pertanto oscilliamo tra le aspettative e le delusioni, prima di capire ciò che ragionevolmente possiamo attendere. È anche molto umana l’illusione che viene alimentata da qualsiasi innovazione tecnologica. L’utopia sociale fa parte dell’irruzione delle tecnologie e la storia è piena di sogni esagerati provocati dalle possibilità tecniche. Marx credeva che la ferrovia avrebbe dissolto il sistema delle caste in India; il telegrafo fu annunciato come la fine dei pregiudizi e delle ostilità tra le nazioni; certi celebrarono l’aereo come un mezzo di trasporto che avrebbe cancellato, oltre alle distanze, anche le guerre; sogni altrettanto simili accompagnarono la nascita della radio e della televisione. Ora guardiamo queste supposizioni con ironia e sdegno, ma nel loro momento sembrarono una promessa verosimile. Le tecnologie a cui dobbiamo l’attuale dispiegamento delle reti sociali non sono state estranee a tale fenomeno, in questo caso, con delle buone ragioni. È logico che una tecnologia che dà potere, vincola liberamente e facilita l’accesso alla conoscenza desti illusioni di emancipazione democratica. La narrazione anarco-liberale dei fondatori di Internet ha visto personaggi provenienti da tutto il panorama ideologico, sia a destra che a sinistra. I “cyber-cons” hanno sopravvalutato sempre l’effetto democratizzante della libera circolazione d’informazione, così si era ritenuto alla caduta dei regimi comunisti. D’altro canto, alcuni
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hippies finirono nelle università e nei centri tecnologici cercando di provare che Internet poteva fornire quanto promesso negli anni ‘60: maggiore partecipazione democratica, emancipazione individuale, rafforzamento della vita associativa... Superate le aspettative esagerate, siamo in grado di disinnescare quest’illusione e chiederci se veramente Internet abbia accresciuto la sfera pubblica, e sino a che punto abbia reso possibili nuove forme di partecipazione, aumentando il potere della gente contro a quello delle élites. Senza smettere di riconoscere le capacità della rete, possiamo esaminare criticamente le promesse del ciberutopismo, ingenua convinzione di una natura inesorabilmente emancipatrice della comunicazione online che misconosce i suoi limiti o persino il suo lato oscuro. Mi sembra che questi equivoci si possano sintetizzare con la concezione della tecnica, del potere e della democrazia che sottendono il sogno della democrazia digitale. Spesso si intende la tecnica in maniera deterministica e senza considerare abbastanza il suo contesto sociale; il ciberspazio è concepito come un ambito dove il potere si dissolve; esaltiamo la funzione destabilizzante della rete in rapporto ai sistemi repressivi senza fare sufficientemente attenzione alla dimensione costruttiva della democrazia. Nel caso concreto delle tecnologie dell’informazione e la comunicazione conta anche il fatto che l’entusiasmo per la tecnologia ha semplificato la visione dei suoi effetti politici, ha amplificato le sue possibilità e ridotto le sue limitazioni. Gran parte delle nostre perplessità di fronte ai limiti o alle ambiguità dei processi sociali resi possibili dalla tecnologia sono dovute al fatto di non aver capito che qualsiasi innovazione tecnica viene compiuta in un contesto sociale e ha degli effetti sociali che mutano a seconda del contesto nel quale si trovano. Il determinismo tecnologico tende a pensare gli utenti come soggetti passivi della tecnologia subita e non come persone che si impossessano di essa di forma autonoma.
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L’informazione non scorre nel vuoto ma in uno spazio politico che è già occupato, organizzato e strutturato in termini di potere (Keohane/Nye 1998). Se avessimo tenuto conto sufficientemente di questo, non saremmo caduti nell’ingenuità di pensare che una tecnologia così sofisticata come Internet potesse causare risultati identici in paesi diversi. Sapremmo che Internet mette in moto delle dinamiche che aumentano l’incertezza riguardo all’andamento che prenderanno le società, sia nelle società democratiche come nei regimi autoritari. Le reti sociali sono ovviamente un fattore di democrazia, ma anche tante altre cose. Non avendo capito che la logica della tecnologia cambia da un contesto ad un altro, non abbiamo valutato adeguatamente il peso di Internet nei regimi autoritari e i suoi effetti inaspettati; gli osservatori occidentali hanno dato per scontato che i dittatori non avrebbero potuto mettere la rete al proprio servizio perché ritenevano che la decentralizzazione del potere promossa da Internet fosse un fenomeno universale, una logica senza eccezioni, e non una logica propria delle nostre democrazie. L’altro principio che si è ritenuto acquisito riteneva che le reti globali costituissero un movimento contrario alla concentrazione di potere, che destabilizzava l’autorità delle élites e tendeva ad annullare le asimmetrie consolidate (Castells 2011, 136). Ebbene, quindi, sino a che punto è aperta l’archittetura d’Internet? È vero che i cittadini sono più ascoltati nel ciberspazio, che le reti decentralizzano gli spazi di ascolto, favoriscono la flessibilità delle organizzazioni e rendono possibili la disintermediazione dell’attività politica? Può darsi che i meccanismi di esclusione siano mutati, ma questo non vuol dire che siano scomparsi. I “gatekeepers” (che si inseriscono nei canali d’informazione e condizionano le nostre decisioni) continuano a far parte del nostro habitat sociale e politico. C’è chi sostiene
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persino che la concentrazione dello spazio d’ascolto è maggiore nella rete che nei media tradizionali (Hindman 2009). Non vi è necessariamente più oggettività e meno faziosità nello spazio aperto d’Internet rispetto ai mezzi d’informazione tradizionali. Il fatto che il potere sia decentralizzato o sia diffuso, non significa che vi sia meno potere, che siamo più liberi e la democrazia sia di migliore qualità. Internet non elimina i rapporti di potere ma li trasforma. La grande apertura di Internet è ciò che paradossalmente ha contribuito alla creazione di nuove élites. È assodato che i blog più influenti negli USA sono molto poco rappresentativi della pluralità sociale (quasi tutti appartengono a maschi bianchi di classe media ed alta). Nella rete continuano ad esserci asimmetrie; è un’ingenuità pensare che Internet favorisca sempre e necessariamente l’oppresso di fronte all’oppressore. È vero che le nuove tecnologie permettono una sorta «monitorial citizenship» (Schudson 1999), una vigilanza critica da parte del pubblico che ha effetti democratizzanti, ma vi sono anche fenomeni di censura “crowdsourcing”, di vigilanza regressiva nella quale possono intervenire gli agenti della rete. Di fatto, vi è sempre più censura compiuta dagli intermediari che dai governi e la censura acquista una forma più commerciale che politica. Ma la ragione più importante che spiega la persistenza di potere nella rete, è strutturale, e risiede nella propria architettura. Per capire l’infrastruttura del potere in Internet bisogna tenere conto che la sua natura connettiva determina il contenuto che i cittadini vedono e, a causa di ciò, non tutte le scelte sono uguali. La rete persegue una logica del «winner takes all» che ha profonde implicazioni in termini di disuguaglianze (Lessig 1999). Ciò non è dovuto a normative o leggi ma alle decisioni che rientrano nel progetto di Internet e che determinano ciò che è permesso o meno agli utenti. La topologia link
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che regola il traffico della rete fa di Internet qualcosa di meno aperto di quanto ci si attende o si teme. Esiste una gerarchia strutturale dovuta agli “hyperlinks”, una gerarchia economica delle grandi corporazioni come Google o Microsoft e una gerarchia sociale dato che un certo tipo di professioni è sovrarappresentato nell’opinione online. C’è nella rete una concentrazione di providers di motori di ricerca, che appaiono come semplici mediatori o che sostengono di limitarsi a riflettere il traffico esistente, ma che in realtà lo dirigono e addirittura lo condizionano. La rete permette la proliferazione di pagine e luoghi, ma di fatto i motori di ricerca centralizzano l’attenzione del pubblico in maniera tale che le interazioni sono più limitate di quanto crediamo e il numero di luoghi che visitiamo è più ridotto di quanto riteniamo. A cos’è dovuto questo? È dovuto al fatto che le opzioni sono strettamente predefinite e trascurano le alternative nelle occasioni più importanti. Benché, in teoria, sarebbe possibile che gli individui controllino tali opzioni, solo una minoranza è in grado di farlo. «Il grande trucco di Google consiste nel far sentire tutti soddisfatti della possibilità di scegliere, senza però che venga esercitata davvero per modificare le impostazioni predefinitie del sistema (default settings)» (Vaidhyantathan 2012, 134). Tenendo conto di ciò, non è esagerato affermare che l’attuale imperialismo culturale non sia una questione di contenuto quanto di forma. Qui si gioca la vicenda della neutralità della rete: l’influenza che si esercita sugli utenti non è nel contenuto ma nell’inquadramento. È a questo livello che si strutturano i nostri modi di cercare e trovare, di scoprire e comprare; si tratta di un’influenza che condiziona quasi inavvertitamente, come un buffetto, le nostre abitudini e che, in ugual misura, può essere considerata espressione di un’ideologia. Il valore supremo di tale ideologia è la “libera espressione” nella quale si ravvisa
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una somiglianza sospetta con valori come la deregolamentazione, la libertà di circolazione o la trasparenza intesi in senso neoliberale. E per lo stesso motivo, tali valori sono difficilmente assimilabili in altre culture, ma anche in paesi democratici che, come Francia e Germania, per esempio, cercano di impedire l’accesso a siti antisemiti. L’attivismo digitale c’è già da qualche anno e ci permette di ricavare alcune esperienze. La fondamentale è che dobbiamo distinguere la funzione critica e destabilizzante dalla capacità di costruzione democratica. L’esempio delle “primavere arabe” in questi ultimi anni mette in evidenza che abbattere non è costruire e che la decentralizzazione non è una condizione sufficiente per il successo delle riforme politiche; il fatto che Obama sia Stato un candidato migliore di quanto sia presidente dovrebbe essere utile per controllare il fascino che la rete ha esercitato su coloro che sembrano aver dimenticato che vincere delle elezioni non è la stessa cosa di governare, allo stesso modo che comunicare bene non equivale a prendere le decisioni opportune. Per trasformare dei sistemi autoritari, la presenza della rete, così necessaria, può rivelarsi persino inefficace e illusoria. Morozov ha criticato quel «cloud activism» (2011, 170) che può giungere a implicare un disprezzo per la prassi, per altre forme d’azione sociale così importanti per la democratizzazione come l’occupazione fisica degli spazi. La relativa “comodità” del mondo digitale può comportare che la mobilitazione soppianti l’organizzazione (Davis 2005). Il fatto che la rete stia distruggendo barriere, indebolendo il potere delle istituzioni e degli intermediari, non dovrebbe farci dimenticare che il buon funzionamento delle istituzioni è fondamentale per la conservazione delle libertà. È questa la ragione per cui Internet può agevolare la distruzione di regimi autoritari ma non sia allo stesso modo efficace nel momento
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in cui dovrebbe consolidare la democrazia. L’accesso agli strumenti di democratizzazione non implica la democratizzazione della società. Gli entusiasti delle reti sociali dimenticano spesso che se un governo perde il controllo sulla popolazione non è automatico che la democrazia sia l’inevitabile sostituto. Talvolta, peggio di uno Stato autoritario è uno fallito. Il potere delle reti assieme all’incompetenza di uno Stato debole è l’anticamera dell’anarchia e dell’ingiustizia. Potremmo concludere evidenziando che l’irruzione di Internet modificherà profondamente la politica, la quale non può essere praticata allo stesso modo di come è stato fatto finora. Nel contempo, non dovremmo cadere in quel bigottismo digitale che sembra misconoscere le proprie ambiguità. Il fatto che Internet sia basato sulla facilità e la fiducia costituisce anche la sua vulnerabilità; agevola la resistenza, la critica e la mobilitazione, ma ci espone di forma inedita a nuovi rischi. Certi fenomeni come la finanziarizzazione dell’economia o la diffusione di controvalori e errori fanno parte anche di quel lato della rete che qualcuno definisce oscuro ma che io preferirei chiamare rischioso. Ebbene, quando abbiamo avuto gli esseri umani uno strumento le cui capacità di emancipazione non includessero possibilità di autodistruzione? Governare significa precisamente promuovere quelle capacità e ostacolare o prevenire queste possibilità.
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Capitolo sesto Dalla sovranità alla responsabilità.
Un mondo di tutti e di nessuno è un mondo che deve essere pensato e governato con delle categorie differenti da quelle dello Stato nazionale. Dobbiamo rassegnarci al fatto che la governance globale sia portata a termine senza le esigenze democratiche o possiamo immaginare una democrazia nell’ambito delle conformazioni globali? È legittimo l’intervento negli affari degli «altri» o dobbiamo accettare qualsiasi cosa che sia compiuto nel nome della sovranità? Esiste un qualche criterio di giustizia globale o dobbiamo considerare che la giustizia sia un valore in grado di misurare soltanto i rapporti all’interno degli Stati? Sono tre nozioni queste – democrazia, umanismo, giustizia – che devono essere pensate in un nuovo contesto che potrebbe riassumersi nell’idea che dobbiamo passare dalla sovranità alla responsabilità.
1. Democrazia al di là delle nazioni Poniamo, benché sia già tanto questo porre, che le nazioni siano democratiche o che, almeno, siamo a conoscenza di come si creino e sviluppino delle istituzioni democratiche nel quadro dello Stato nazionale. Cosa accade allora quando parliamo
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di istituzioni al di là delle nazioni, come l’Unione Europea o delle istituzioni propriamente internazionali? In tali ambiti, è possibile e auspicabile che le decisioni vengano prese democraticamente o siamo obbligati ad arrenderci all’impossibilità di tale compito? E soprattutto, cosa accade quando aumenta l’importanza delle decisioni che si adottano in quegli ambiti che sono al di là dello Stato nazionale? Vi è qui un problema, forse il più serio tra quelli che l’organizzazione politica dell’umanità affronta. La globalizzazione è depoliticizzata, cioè, scorre senza indirizzo oppure con un indirizzo non democratico, spinta da processi ingovernabili o da autorità non legittimate. Molteplici ambiti di decisione si stanno dissociando dallo spazio di responsabilità statale e democratica, il che pone delle difficoltà di legittimità e accettazione. Sempre più ci sono politiche invadenti che l’opinione pubblica difficilmente può capire ed accettare (dagli interventi militari derivati dalla responsabilità di proteggere delle popolazioni sino al controllo esercitato sulle economie di altri paesi con i quali si condivide il medesimo destino). Come si giustificano democraticamente le pressioni dei mercati speculativi, i divieti riguardo al fatto che certi paesi sviluppino determinati armamenti o le esigenze europee di austerità di bilancio? Chi ha il diritto di dire alla Grecia, alla Siria o all’Iran ciò che devono fare? Il problema si amplifica nel momento in cui acquistano importanza istituzioni che combaciano poco con i nostri criteri di legittimazione democratica. Le istituzioni internazionali risultano fondamentali per la soluzione di certi problemi politici, ma dovremmo ritenerle strutturalmente non democratiche se applicassimo i criteri con i quali misuriamo la qualità democratica di uno Stato nazionale. Questo insieme di circostanze provoca innanzitutto una logica di insoddisfazione, come si può verificare dall’alto indice di disaffezione alla politica, dal-
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le proteste locali e globali, dallo scoramento in relazione alla capacità della politica di esercitare le sue legittime capacità di governo nelle attuali circostanze, e più concretamente, dalla mancanza d’identificazione rispetto alle istituzioni internazionali e all’Unione Europea, che sono particolarmente vulnerabili nei confronti del populismo. Ebbene, a provare che gli insoddisfatti non hanno sempre ragione rimane il fatto che alcune delle proposte risolutive siano ancora più insoddisfacenti dei problemi riscontrati. Le proteste mirano nella corretta direzione – trasparenza, partecipazione, controllo democratico – ma si sbagliano quando non riescono ad immaginare un’altra forma di legittimità che possa valere per spazi e decisioni che non si trovano più nell’ambito dello Stato nazionale e che è molto poco probabile che tornino in quel terreno noto. All’origine del fallito Trattato Costituzionale Europeo c’era proprio il desiderio di liquidare i «consensi permissivi» e riattivare una politicizzazione che potesse provenire dall’approvazione popolare esplicita. In questo Stato di cose, nessuno può essere sorpreso dal fatto che l’identificazione nel processo d’integrazione europea risulti indebolita, processo che viene accusato di non adempiere alle esigenze democratiche che, a quanto pare, invece vengono pienamente soddisfatte dai suoi Stati membri. Sia a destra che a sinistra vi è un movimento generale verso il ritorno ad un spazio sicuro, sia in chiave di identità nazionale o di protezione sociale. A seconda della sensibilità ideologica che si abbia, ad alcuni preoccuperà una cosa piuttosto che l’altra, ma in ogni caso sembra imporsi un ritorno verso vecchi riferimenti e verso un rifiuto totale nei confronti di qualsiasi forma di sperimentazione politica. Questo movimento regressivo verso il noto ebbe un momento emblematico nella sentenza del Tribunale Costituzionale tedesco riguardo al Trattato di Lisbona nel 2009, nella quale si
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prendeva la democrazia nazionale come modello per valutare la legittimità dell’Unione Europea, senza apprezzare la novità istituzionale che l’Unione rappresenta. Esigeva il controllo democratico del potere senza tenere conto dell’altra faccia della medaglia: la realizzazione e la tutela della democrazia richiede oggi istituzioni che vadano al di là dello Stato nazionale. Inoltre, il Tribunale pretendeva questo richiedendo un controllo delle istanze europee da parte di organismi tedeschi, per cui, se un analogo controllo venisse esercitato allo stesso modo da altri Stati membri, qualsiasi decisione a livello europeo sarebbe bloccata. Da una posizione inequivocabilmente federale ma con degli effetti che giustificano il ritorno ad un ambito nazionale, Jürgen Habermas scrisse un articolo che venne pubblicato nei principali quotidiani europei nell’Ottobre del 2011 in cui coniava il termine «Europa postdemocratica» per far riferimento all’attuale situazione dell’Unione, a suo parere monopolizzata dalle élites e dagli imperativi dei mercati senza legittimazione democratica (Habermas 2011). La proliferazione dei governi «tecnici» o delle politiche che si giustificano più secondo una tecnica contabile che un’accettazione democratica esplicita, sembrava convalidare tale accusa. Lo schema di Habermas è molto abusato: élites torbide contro popoli democratici, sistema contro mondo della vita. Come se i cittadini sapessimo perfettamente ciò che si deve fare e in che modo, mentre i nostri politici non lo sanno e non possono saperlo. Questo dilemma ha una soluzione che non sia cinica e nemmeno populista? È possibile una via di mezzo tra la tecnocrazia e la demagogia? Robert Dahl riassumeva il dilemma fondamentale della politica nell’era della globalizzazione come la contraddizione tra l’efficacia del sistema e la partecipazione popolare (Dahl 1994). Si riferiva a questo attraverso i due tipi fondamentali di legittimazione su cui si fondano le nostre isti-
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tuzioni e pratiche politiche: alla legittimità che proviene dal sostegno popolare o dall’accettazione delle sue decisioni grazie alle procedure democratiche (input legitimacy), oppure alla legittimità che si acquisisce dalla capacità di assicurare i beni pubblici e risolvere i problemi della globalizzazione economica (output legitimacy). È innegabile che le giustificazioni puramente funzionali, apolitiche, delle istituzioni internazionali e dell’Unione Europea sono insufficienti (Zürn/ Ecker-Ehrhardt 2012). Non è accettabile che delle élites di pochi paesi, escludendo le opinioni pubbliche nazionali e globali, condizionino le politiche nazionali di altri paesi. Ora, l’incidenza delle decisioni politiche internazionali negli spazi domestici non è sempre un’intrusione ingiusta, bensì una realtà sempre più presente che richiede legittimazione. Accade qualcosa di simile con l’espansione di criteri tecnici nella politica attuale, persino con la creazione di governi «tecnocrati». La competenza tecnica è un elemento essenziale della buona politica e la sua trascuratezza porta a provocare una chiamata disperata all’efficacia come unico modo di salvezza. Sicuramente questo genere di situazioni sono giustificabili soltanto in circostanze eccezionali e di forma provvisoria. In ogni caso il nostro ideale di democrazia sarebbe del tutto irrealistico se lo pensassimo come un plebiscito permanente, senza nessuna dimensione di delega, senza interventi di «altri». Se la democrazia non potesse che essere popolare e vicina, se fosse inconcepibile al di là degli spazi e delle questioni per i quali l’autodeterminazione è possibile e auspicabile, allora potremmo congedarci da imprese al di là dello Stato nazionale e tornare – se ciò fosse possibile – a società più semplici contenute in spazi delimitati. Paradossalmente tale abbandono non comporterebbe che i problemi globali venissero risolti con criteri democratici migliori ma, semplicemente, rimanes-
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sero lasciati alla propria sorte, che è la cosa meno democratica che ci sia. È così, nell’era della politica al di là dei limiti nazionali, delle interdipendenze e le reti, la legittimazione funzionale è chiamata ad acquisire una maggiore importanza in rapporto alla rappresentanza territoriale. Il sistema politico deve rispondere all’attesa del fatto che viviamo in «società che risolvono problemi» (Scharpf 1997). Affinché quest’affermazione non implichi un abbandono dei principi che reggono le nostre società democratiche, l’accentuazione sulla funzionalità esige una differenziazione dei propri ambiti perché essa non possa avere lo stesso peso in questioni immediate che in problemi globali, nella tonalità temporale dell’urgenza così come nei dispostivi costituzionali. Fa parte della nostra condizione politica la presenza di principi dibattuti, non facilmente compatibili, ma che occorre saper coordinare adeguatamente in funzione del problema in questione e delle circostanze che lo condizionano. Ora come ora, non possiamo progredire nella necessaria federalizzazione europea confidando nel sostegno di popolazioni alle quali non risulta comprensibile la costruzione europea stessa, popolazioni che sono state per anni bombardate da discorsi protezionisti e alle quali ora si offre un’immagine dell’Europa come agente disciplinatore al servizio dei mercati, senza ricordare le responsabilità che condividiamo e i vantaggi reciproci di cui siamo beneficiari. Ci risulta intellettualmente e politicamente molto confortevole l’appello al popolo sovrano e il ricorso alla critica della nostra classe dirigente. Ci fa sentire moralmente inattaccabili di fronte all’innocente moltitudine. Qualcuno dovrebbe ricordare che, nonostante tutto, non vi sarebbero leader populisti se non vi fossero popoli populisti. È poco realista pensare di trasporre le categorie della democrazia nello Stato a processi come l’Unione Europea o, ancor
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più, la governance globale. David Held sostiene che se volessimo parlare di democratizzazione globale, dovremmo essere meno esigenti nei criteri di democraticità rispetto a quelli che solitamente richiediamo quando parliamo di Stati democratici. Piuttosto è ragionevole capire che nei processi globali «vi è poco campo per la democrazia ma molto spazio per la legittimità» (Willke 2007, 127). A partire da questa prospettiva e con tutte queste sfumature, dovremmo rivedere il luogo comune secondo cui la democrazia è realizzabile soltanto nel quadro di uno Stato nazionale. L’idea di Schumpeter, per la quale il successo di una democrazia dipende dal fatto che l’ambito di decisione politica non si estenda troppo, si basa su una vecchia esperienza, ma sembra invitarci ad abbandonare gli attuali processi globali ad una logica opposta a qualsiasi genere di idea di buongoverno (Schumpeter 1942). In fondo, il problema non è se, negli ambiti globali, si possa o meno avere una democrazia simile a quella che si configura negli Stati nazionali, ma come superare le incongruenze tra gli spazi sociali e quelli politici. Ciò che è fondamentale è che vi sia governo o governance legittimi e non tanto che si possano estendere globalmente i requisiti democratici che valgono soltanto, in termini rigorosi, per gli spazi delimitati. In tal senso, le istituzioni internazionali (anche l’Unione Europea, benché non sia propriamente un’organizzazione internazionale ma qualcosa di più intenso) rendono possibile che la politica ricuperi la capacità d’attuazione di fronte ai processi economici denazionalizzati. È un errore considerare che il rafforzamento dell’Unione Europa e delle istituzioni internazionali implichi necessariamente una minaccia alla democrazia. Si tratta invece di capire l’equilibrio tra i livelli nazionali, europei ed internazionali come una sfida per estendere la democrazia verso processi inediti. Le
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interdipendenze economiche e sociali (soprattutto in Europa) fanno sì che le decisioni di alcuni abbiano effetti su altri, in modo tale che la messa in comune dei rischi e persino l’intervento degli altri dovrebbe essere compresa nel contesto della propria responsabilità democratica. La sovranità, che nel suo tempo fu un mezzo di configurazione di società democratiche, attualmente può servire per trovare ambiti di decisione che mettano insieme efficacia e legittimità democratica, soltanto se viene trasformata e condivisa. In un mondo interdipendente dobbiamo passare da una sovranità intesa come controllo ad una sovranità come responsabilità (Deng/Rothchild/Zartman 1996). A partire da questa prospettiva si può legittimare l’intervento in spazi che la sovranità vorrebbe esclusivi. Con tutte le garanzie che siano necessarie, lo stesso argomento che è stato sviluppato nei confronti della violenza, deve valere anche quando si tratta di rischi economici che possano avere conseguenze catastrofiche sulle persone. Come riuscire a superare questi deficit quando le decisioni democratiche hanno luogo all’interno di comunità politiche che si fondano sulla fiducia e la solidarietà mentre invece non esiste una comunità politica transnazionale? Di fronte a coloro che, da una dimensione piuttosto Statica, considerano che il problema non è tanto l’assenza di kratos ma di demos a livello globale, possiamo dire di aver l’esperienza del fatto che relazioni internazionali possono dar luogo alla creazione di elementi per un demos transnazionale, come risultato della dinamica propria delle istituzioni internazionali o delle transazioni intense, in termini di solidarietà, fiducia, costruzione di memorie condivise (Zürn-Waiter-Drop 2011). Così è stato messo in evidenza, per esempio, nella recente storia europea. Le istituzioni europee sono passate da essere, benché in maniera ancora debole, una semplice aggregazione di interessi ad una comunità con destini sempre più condivisi.
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Per esempio, si è smussata l’esigenza di unanimità andando verso decisioni maggioritarie in istituzioni come il FMI o la Banca Mondiale; vi sono molti elementi deliberativi di sovranità condivisa nell’Unione Europea, certamente, ma anche nella Corte Penale Internazionale, il WTO e persino, in certa misura, nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Non si può dubitare che esista un conflitto tra i principi normativi della democrazia e l’effettività della politica per risolvere alcuni problemi collettivi di straordinaria portata. Ma le istituzioni internazionali sono parte della soluzione, per quanto questa sia difficile, e non parte del problema. Non tutti gli obblighi che abbiamo assegnato allo Stato possono essere attualmente portati a termine al suo interno e con gli strumenti della sovranità statale; quanto prima riconosciamo questo, prima cominceremo a pensare e a lavorare ad una nuova configurazione politica nella quale vi sia un equilibrio tra democrazia, legittimità e funzionalità.
2. Umanismo transnazionale Gli interventi militari della comunità internazionale, così dissimili, dall’Irak alla Libia, hanno generato un intenso dibattito. Non mancano di ragione coloro che sottolineano la contraddizione di certe operazioni e il loro carattere selettivo secondo l’interesse delle grandi potenze. È vero che intervenire su altri in nome di grandi principi è una delle pratiche più arbitrarie della storia. Il gioco del potere concede agli Stati più forti il diritto di decidere sulla sovranità altrui. Le nostre relazioni internazionali sono dettate a partire dal cinismo e l’interesse, il che oramai non dovrebbe sorprenderci. Ma bisogna non dimenticare da dove proviene il dovere di tali interventi. Da un lato, la realtà della nostra interdipendenza
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ci ha posti di fronte a nuove responsabilità; dall’altro, dalla Ruanda a Srebrenica sappiamo che il trattamento strettamente umanitario delle crisi e le catastrofi non ha alcuna efficacia quando sono presenti massacri crudeli e la repressione brutale dei diritti umani più elementari. Questa esperienza ha fatto sì che il discorso umanitario sia uscito dalla logica della neutralità per entrare nella logica della responsabilità. Se i diritti umani sono stati utili per costruire la sovranità degli Stati, oggi la condizionano e la mettono in questione. Dopo secoli di costruzione dello Stato di diritto e la democrazia si è riusciti a dedivinizzare la sovranità interna degli Stati; ora si tratta di relativizzare i loro interessi in materia di politica estera (Badie 2002). Se in altri momenti della storia dei diritti umani fu relativizzata la politica interna degli Stati, attualmente si punta alle relazioni internazionali: la grande sfida dei diritti umani è oggi la scoperta dell’umanità al di là della nazione. Il fatto è che la costruzione dello Stato non è stata accompagnata da un ordine internazionale conforme al diritto, come se la sicurezza interna fosse incompatibile con le norme venissero dall’esterno. Prendere sul serio la sovranità implicherebbe liberarsi di qualsiasi obbligo normativo precedente ed estraneo; l’azione internazionale sarebbe un puro equilibrio di forze dato che ciascuno sarebbe poi padrone assoluto nel proprio territorio. È questo carattere assoluto della sovranità che viene messo in dubbio quando si formulano compiti di intervento contro coloro che aggrediscono certi valori fondamentali. Poco a poco l’umanità s’impone come un riferimento della politica internazionale, facendo retrocedere la sovranità nazionale e i corrispondenti interessi. Viviamo in un momento di rottura dell’ordine internazionale: sono finite le storie del bipolarismo, lo scontro ideologico e le potenze militari rivali, ma anche il mondo inteso come una giustapposizione di Stati nazionali dediti a competere tra di loro o a coesistere nella reciproca indifferenza. La globalizza-
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zione ha fatto dell’interdipendenza un principio attivo del gioco internazionale che mette sotto accusa direttamente l’idea stessa di sovranità. La sovranità è messa in questione, innanzitutto, per la sua inefficacia in un contesto di densa interdipendenza. La sovranità è soprafatta dall’irruzione di nuovi problemi che non possono essere affrontati da soli: l’ecologia, la complessità crescente dello sviluppo, i contrasti provocati dalla globalizzazione, la promozione dei beni comuni come la pace, la salute, l’alimentazione o i diritti umani. Sono sempre di meno le questioni gestibili nello spazio stretto dello Stato sovrano e autosufficiente. Le logiche aggregative tendono quindi quasi inevitabilmente a catturare gli Stati, per necessità, conformità o pressione. Responsabili attivi o passivi, volontari od obbligati, convinti o scettici, soli o in unione con altri, gli Stati finiscono per giocare al gioco dell’interdipendenza e si impegnano con i beni comuni. In questo modo, all’idea di sovranità si contrappone quella di responsabilità. Gli Stati sono sempre più responsabili dell’ordine mondiale. Ad una responsabilità contrattuale di fronte ai cittadini, si aggiunge ora una responsabilità che li vincola dall’esterno per quanto concerne temi come l’ambiente, la pace o lo sviluppo. Nella sua forma tradizionale, la sovranità richiama ad una serietà che deve, per definizione, levarsi al di sopra di ogni equivoco, dubbio o malinteso: è un potere ultimo dal quale deriva ogni autorità, l’argomento definitivo che si contrappone alle pretese o alla critica dell’altro, il capolavoro dell’ideologia che autorizza ogni Stato a diventare l’attore esclusivo sulla scena internazionale ufficiale, un potere centralizzato che si esercita come autorità suprema su un territorio senza tenere conto degli altri. Benché sia stata smascherata, considerata una finzione ambigua, contraddittoria o inadatta, la sovranità non è stata abolita. Continua ad essere, ovviamente, un valore mobilitante e
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un argomento autorevole. Tuttavia non può più ergersi come qualcosa di assoluto; è un principio in mezzo ad altri che la contraddicono direttamente. È probabile che non sia mai esistita nella sua forma assoluta, che sia stata sempre violata nella pratica da altri poteri contrapposti. Nessun potere si muove in uno spazio vuoto senza forze capaci di agire su di esso, contraddicendolo e modificandolo. Attualmente la normalità consiste nella limitazione della sovranità; lo Stato si trova obbligato ad agire in contraddizione con il principio che lo fonda e ad accettare di coesistere con attori che sfuggono alla sua sovranità. Infatti, in fondo, lo Stato perde più sovranità che potere. La sovranità è sottoposta all’effetto corrosivo dell’interdipendenza. Ma il potere permane, seppure modificato; la capacità d’attuazione può persino aumentare attraverso la cooperazione che le permette di accedere a nuove risorse, ricuperando una funzione specificamente politica. Oltre alla realtà dell’interdipendenza, l’altro grande principio che limita la sovranità è il rispetto dei diritti umani, la cui violazione implica il dovere di intervenire da parte della comunità deputata a farlo. In fondo, entrambi i principi sono collegati, dato che ciò che ha provocato la pratica generalizzata dell’intervento non è l’idealistica scoperta dei diritti umani, ma la realtà della nostra interdipendenza. Questa dipendenza reciproca ha dato luogo a nuovi scenari di responsabilità nei quali aumentano le domande di cooperazione e d’intervento: chiamate ad aziende perché investano e creino posti di lavoro, agli Stati perché adempiano a certe esigenze budgetarie che non nuocciano l’insieme, alle istituzioni internazionali perché prestino od assistano, ad un potere regionale o mondiale affinché ristabilisca la sicurezza... È questo il contesto a partire dal quale l’Onu formula il principio della «responsabilità di proteggere», come un dovere che accompagna, a certe condizioni, il diritto di ingerenza. La
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sovranità fu salvata o congelata dalla Guerra Fredda. La minaccia esterna implicava che il potere degli Stati rimanesse intatto, a costo del perpetrarsi dei più gravi attentati ai diritti umani. I blocchi ideologici credettero di poter ignorare esigenze umane fondamentali in nome del principio di non ingerenza, del quale non facevano che un uso puramente retorico di fronte ai propri rivali. Ma le circostanze ora sono cambiate radicalmente. Un vera politica dei diritti umani risulta possibile quando non è più strumentalizzata dalla rivalità bipolare. I diritti umani degli altri sono sempre un fatto quotidiano della vita internazionale, indipendentemente dalle matrici ideologiche, che non possono più essere la scusa per sopportare situazioni intollerabili. La vita internazionale non si può più considerare una giustapposizione di sovranità e un confronto di poteri. Si sta man mano configurando un umanismo internazionale, o meglio, transnazionale. Esistono già delle istituzioni in grado di stabilire pratiche efficaci: la lenta ascesa del principio di legislazione universale, l’universalizzazione dei diritti umani e il rafforzamento dell’integrazione internazionale sono elementi di buona governance capaci di far fronte nel lungo periodo allo spargimento della violenza. Ci sono molti attori e reti che intervengono per rendere operativa l’idea d’umanità, in contrapposizione agli interessi nazionali, modificando il valore e l’efficacia delle risorse classiche dell’esercizio del potere. Nel contempo, il riferimento all’umanità ha smesso di essere un discorso privato, proprio delle istituzioni «senza frontiere», per politicizzarsi nella misura in cui gli Stati affrontano nuove responsabilità e diventare un principio di vigilanza internazionale. Certamente, non possiamo ancora parlare di democratizzazione della vita internazionale giacché rimane ancora molto potere statale arbitrario: la politica internazionale dei diritti
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umani non ha sostituito il cinismo con la morale oppure i governi con delle ONG. Seppure sempre e ovunque si sia fatto appello all’umanità, questo riferimento ha nel mondo attuale una nuova opportunità: l’umanismo transnazionale consiste nel porre l’esigenza di integrazione oltre i vantaggi unilaterali o nel convincere che tali vantaggi sono passeggeri se non sono inscritti in un processo d’integrazione internazionale.
3. Giustizia globale È piuttosto facile sapere cosa stiamo dicendo quando affermiamo che una persona sia giusta o ingiusta; le cose si complicano quando tale proprietà la attribuiamo a società o paesi, o ancor più se sosteniamo che il mondo sia ingiusto. Quest’ultima, tuttavia, è un’affermazione ricorrente nelle nostre conversazioni quotidiane. Con essa non rivolgiamo accuse a qualcuno in concreto (o non solo) ma ci riferiamo ad una situazione strutturale d’ingiustizia. Il mondo non è giusto o ingiusto come lo può essere uno Stato oppure una persona. Richiamare una situazione strutturale d’ingiustizia vuol dire che stiamo parlando di una proprietà della forma del mondo, che non rientra nell’ingiustizia riconducibile a persone concrete, benché le ingiustizie strutturali includano necessariamente azioni personali ingiuste. Per alcuni parlare di giustizia globale è eccessivo e preferiscono parlare di giustizia internazionale, il che presuppone considerare lo Stato nazionale come il contesto proprio della giustizia. Questo primato è prevalso per molto tempo nella riflessione riguardo alla giustizia. Ma la dinamica della globalizzazione ha man mano eroso il modello di relazioni internazionali basate su Stati più o meno indipendenti. Allo stesso modo, nemmeno possono comprendersi le conseguenze del
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cambio climatico, i brevetti di certi medicinali, il saccheggio delle risorse naturali, la deregolamentazione dei mercati finanziari o la fame nel mondo, come questioni interne degli Stati che si dispiegano, giustificano o gestiscono all’interno di tali quadri statali. Le nuove realtà stanno scardinando l’impianto della giustizia pensata all’interno delle nazioni. Mi riferisco al modello liberale a due livelli, secondo il quale la definizione e la fornitura della giustizia competono allo Stato, mentre alla comunità internazionale corrisponderebbe di intervenire sui diritti sovrani soltanto nel caso di gravi violazioni dei diritti fondamentali. Il modello più sofisticato in tal senso è quello di John Rawls che elabora la sua teoria della giustizia a partire da uno scenario di Stati autonomi che contrattano non la giustizia globale ma la politica estera in apposite conferenze (Rawls 1971 e 1999). Come hanno segnalato i suoi critici, Rawls ha sviluppato una teoria per l’ordine di un mondo in piena decomposizione (Buchanan 2000); Julius (2006) si chiede se Rawls abbia presente l’attuale atlante mondiale e Fraser (1990) lo ritiene inadatto per un mondo post-wesfaliano. Parlare di giustizia globale – qualcosa di più radicale della giustizia internazionale – ha senso in un mondo di interdipendenze che stabilisce comunità al di là del quadro statale. Una delle conseguenze più banali della globalizzazione è che sempre di più siamo spinti a confrontarci con problemi che concernono l’intera umanità. Molti problemi ci riguardano indipendentemente dal luogo in cui viviamo. I media e l’immigrazione ci avvicinano la sofferenza del mondo; il cambio climatico e la crisi finanziaria ci hanno reso evidente che viviamo in un mondo globale. Le decisioni che si prendono lontano da qui ci toccano comunque. Non è esagerato sostenere che nell’orizzonte d’esperienza globale si stia configurando una «comunità di miseria e sofferenza» (Höffe 1999, 20).
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In tale contesto, risultano inservibili quelle teorie sulla giustizia che partono dal principio per cui gli obblighi della giustizia valgono soltanto per coloro che vivono in una comunità politica o sotto la medesima costituzione. Data la dipendenza globale, i principi di giustizia che vigono dentro delle nazioni devono applicarsi su scala globale (Beitz 1979). Vi sono legami internazionali anche là dove non c’è costituzione politica, per esempio quando vi è comunicazione e commercio che congiungono gli essere umani di differenti regioni del mondo al di là dei limiti nazionali. Le questioni relative alla giustizia non si pongono soltanto all’interno dei sistemi giuridici stabiliti. Le esigenze di giustizia e il rispetto dei diritti umani devono essere fatti valere anche laddove non esistano procedure di sanzione. Gli obblighi della giustizia sorgono in processi sociali che vincolano a persone; le istituzioni politiche sono piuttosto delle risposte a tali obblighi che il loro punto di partenza (Young 2010, 329). I doveri della giustizia precedono le istituzioni che li incanalano. Le questioni che riguardano la giustizia si pongono sempre più a livello globale, nella misura in cui tale livello costituisce una struttura politica nella quale si decidono le opportunità vitali di molti essere umani, e che permette o provoca evidenti ingiustizie. Vi sono ingiustizie che si riferiscono a strutture globali e che richiedono azioni specifiche a tale livello. Pensiamo, per esempio, al fatto che il commercio è regolato da una serie di convenzioni che hanno effetti negativi e positivi sui diversi partecipanti. Possiamo illustrare tale circostanza con l’idea di «ingiustizia strutturale» attraverso la quale Iris Marion Young (2010) si riferisce ad un complesso processo nel quale partecipano diversi attori, regole e pratiche; per illustrare tale complessità viene proposto di sostituire la metafora della catena con quella della struttura, secondo la quale non si può pensare ad una responsabilità seguendo il principio di causalità.
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La fissità all’interno del quadro nazionale è incapace di mostrare e farci comprendere la natura della povertà nel mondo e la corrispettiva struttura della responsabilità. Rawls, per esempio, vedeva le cause dell’estrema povertà soltanto nei paesi poveri, nel loro malgoverno o nell’assenza di redistribuzione all’interno di tali società. Ma, come ha avvertito Pogge (1989 e 2001), la verità è che l’attuale ordine mondiale è configurato sulla base di incentivi e regolazioni che toccano tali situazioni di povertà. La povertà non si spiega soltanto attraverso le cause locali ma anche attraverso i fattori che hanno a che fare con l’ordine internazionale: protezionismo che impedisce l’apertura dei mercato ai paesi in via di sviluppo, gli accordi dei brevetti che impediscono l’introduzione di medicinali generici in tali paesi...Occorre tener conto, inoltre, che l’attuale Stato dei paesi poveri è il risultato di un processo storico marcato in molti casi dalla schiavitù, il colonialismo e il genocidio. In sintesi: la loro povertà e la nostra ricchezza si basano su una storia comune. Capire tale causalità, complessa ma reale, è fondamentale per mettere a fuoco adeguatamente il dibattito riguardante la povertà e le azioni dirette a combatterla. Occorre sottrarre la giustizia globale dallo spazio e dagli «aiuti umanitari» dove vige una logica di donazione che maschera le responsabilità degli «Stati benevoli». Non ci troviamo di fronte all’obbligo positivo di diminuire la sofferenza attraverso gli aiuti umanitari quanto piuttosto di fronte a quello negativo di giustizia, che ci esige di cambiare l’attuale ordine del mondo in modo tale che non si continuino a ledere i diritti umani.
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Capitolo settimo Giustizia climatica
L‘atmosfera è un bene comune dell‘umanità alla quale corrisponde un valore centrale in rapporto alla vita e alla sopravvivenza degli esseri umani sulla terra. Data la complessità delle cause che incidono sul cambio climatico, la diversità degli impatti e le svariate responsabilità di agenti di varia natura, la determinazione di ciò che possa essere richiesto a ciascuno di questi fattori è un caso chiaro di ciò che potremmo definire “giustizia complessa”, la quale non può risolversi attraverso un meccanismo di assegnazione conforme alle regole del mercato, ma richiede accordi politici espliciti. Tra le istituzioni che condividono una qualche responsabilità nella lotta contro il cambio climatico e i diversi summit mondiali nei quali si rivede lo Stato delle cose e sono discussi nuovi obbiettivi, si sta configurando poco a poco un regime globale del cambio climatico la cui complessità non è e non può essere minore di ciò che pretende gestire.
1. Il tempo non è più quello di una volta A causa del cambio climatico non possiamo più annoverare la meteorologia tra i temi neutrali di conversazione, tra i riferi-
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menti oggettivi ed indipendenti dal nostro comportamento, grazie alla quale era possibile parlare di qualcosa che ci riguardava ma di cui nessuno era colpevole, così interessante come politicamente asettico. Tutto ciò che poniamo nello spazio neutro della fatalità è un tema formidabile per chiacchierate inconsistenti, nelle quali cerchiamo uno spazio di interesse comune e soprattutto di non arrecare disturbo. Ma il tempo non è più quello di una volta. Con il cambio climatico, la meteorologia ha smesso di essere qualcosa di inevitabile; si può essere più o meno contro, maledire i colpevoli, lamentarsi della nostra incapacità di fare qualcosa e, persino, provocare negando le evidenze; tutti motivi per cui l’argomento non serve più a generare un banale consenso. Questo non vuol dire che il clima sia una semplice costruzione umana e nemmeno che possiamo fare di esso ciò che vogliamo; significa che, a partire da adesso, si costituisce come un ambito di responsabilità (e, pertanto, è inevitabilmente controverso). Si è tentati di sentenziare dicendo che il progresso della civiltà consiste proprio nel fatto che ci sono sempre meno cose fatali ed indiscutibili e aumentano quelle che rientrano sotto la nostra possibilità. Le difficoltà per arrivare ad un accordo in materia di azioni contro il cambio climatico hanno la loro origine in tre caratteristiche, relativamente recenti, di questo fenomeno: il suo carattere antropogenico, la sua universalità e la densità delle interazioni che sono in gioco; ovvero, il fatto che sia una realtà modificabile dall’essere umano e che tutti siamo condizionati da essa e non risulti facile farsi carico della quantità di variabili che ne fanno parte. A causa di questa responsabilità umana, è sorto un nuovo ambito di deliberazione e di intervento in qualcosa che sinora era una necessità su cui non occorreva prendere decisione alcuna. Il tempo e il clima, paradigmatici di qualcosa di dato, sono attualmente delle realtà in parte mo-
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dificabili dagli esseri umani e, quindi, risultano oggetto di controversie. I nostri antenati non avrebbero capito che si potesse essere in disaccordo con il clima e ci si proponesse di modificarlo. Il clima ha provato una mutazione della propria natura e percezione in modo analogo ad altre realtà come la salute, l’intimità o le disuguaglianze: hanno smesso di essere fatti inevitabili per diventare delle variabili dipendenti, e pertanto, una questione tra le altre per la cittadinanza democratica. Il tempo era, per così dire, un argomento insipido per le conversazioni da ascensore e ora è diventato oggetto di dibattiti scottanti. Se l’argomento non vale più per generare banali consensi è dovuto alla sua gravità e complessità. Oggi il clima è pura politica, forse la questione politica più grave e coinvolgente della nostra agenda. Da qui al 2020 – un periodo di tempo piuttosto breve, appena due o tre legislature – possono decidersi le condizioni di vita delle prossime generazioni. Il cambio climatico è senza alcun dubbio il maggiore problema d’azione collettiva che il mondo abbia mai dovuto affrontare. Per ciò si è potuto parlare di una «tragedy of commons» (Hardin 1968) e il rapporto Stern definiva il cambio climatico come il «maggiore fallimento del mercato» (Stern 2007). Gli esseri umani abbiamo rivaleggiato per molte cose lungo la storia, abbiamo persino ucciso per alcune di esse, e ora potremmo farlo per il clima. Se le cose continuano a fare il loro corso, avranno luogo dei “conflitti climatici” le cui conseguenze sono appena prevedibili. Si acuirebbero le tradizionali guerre per le risorse, in tutto ciò che riguarda lo sfruttamento dei suoli e l’accesso all’acqua potabile. Il cambio climatico ha un potenziale di conflitto anche per quanto riguarda il rapporto tra le generazioni; vi è una chiara ingiustizia nel fatto che alcuni dovranno pagare gli eccessi dei propri antenati o la loro mancanza di previsione e autocontrollo.
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E vi saranno, senza dubbio, delle migrazioni di massa. Potremmo già parlare di “rifugiato climatico”, cioè, di una persona in situazione di fuga a causa di un evento climatico (Welzer 2007). Questo concetto si riferisce alle masse di rifugiati il cui sostentamento nei propri luoghi originari diventerà più difficile o impossibile, e quindi vorranno partecipare alle possibilità di sopravvivenza dei paesi privilegiati. Secondo i dati della Croce Rossa, il loro numero attuale è di 25 milioni e si stima che potrebbero diventare tra i 50 e i 200 milioni entro il 2050. Ormai non si può più distinguere tra rifugiati climatici e rifugiati di guerra, perché tante tra le nuove guerre sono causate dal clima. Vi è un legame diretto tra le due categorie in Sudan, per esempio, ma vi sono legami indiretti in molti altri casi, nella misura in cui il riscaldamento globale accentua le disuguaglianze e genera nuovi conflitti. I problemi, posti da tutte queste questioni, sono di un’enorme ampiezza e richiederebbero decisioni politiche, non solo sollecitazioni di mercato. Può darsi che la politica del cambio climatico, oltre ad arricchire le nostre conversazioni quotidiane, possa contribuire a portare a termine un rinnovamento della politica che sapevamo necessario ma che nessun motivo impellente ci obbligava a compiere.
2. Cause ed impatti La governance del cambio climatico pone, come questione preliminare, una difficoltà nell’identificare, attraverso giusti criteri, le cause, gli impatti e le responsabilità. Per tutte queste questioni vi sono somiglianze e differenze tra i paesi, il che li fa anche creditori di una responsabilità differenziata. Se iniziamo dalle cause, ci troviamo di fronte ad una grande asimmetria. Il riscaldamento globale è causato da una plura-
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lità d’attori, ma una maggiore responsabilità corrisponde ai paesi dell’OCSE sia per il loro alto livello attuale di emissioni quanto per quello degli anni passati. Sono circa 90 gli Stati che, a causa dell’utilizzo di energie fossili che viene fatto dalle loro forme di produzione o consumo, emettono anidride carbonica in dimensioni che condizionano il cambio climatico. Inoltre accade che i paesi che più incidono sul cambio climatico sono quelli che meno si vedono colpiti, mentre quelli che appena lo causano lo sono di più. Nei paesi industrializzati ogni abitante ne emette all’anno una media di 12,6 tonnellate, mentre in quelli poveri il dato è dello 0,9. Quasi la metà di tutte le emissioni mondiali – nonostante il ritmo delle potenze emergenti – è dovuta ai paesi di più precoce industrializzazione. Il rapporto Stern segnala che dal 1850 gli Stati Uniti e l’Europa hanno prodotto il 70% delle emissioni di CO2. I paesi sviluppati continuano a contribuire notevolmente all’aumento di tale quantità. Gli Stati Uniti è il paese con la maggiore quantità di emissioni di CO2 (più di venti tonnellate a persona all’anno); Europa e Giappone, circa della metà delle emissioni mondiali; la Cina, una quarta parte; l’India, la decima parte e il continente africano meno di una tonnellata pro capite all’anno. Quindi, vi è una grande disuguaglianza tra i paesi per quanto riguarda la responsabilità delle emissioni di gas con effetto serra: le popolazioni che vivono nei 100 paesi che saranno i più colpiti dal cambio climatico sono responsabili soltanto di un 3% delle emissioni mondiali. Se passiamo agli impatti, sembrerebbe che i danni sono equamente distribuiti, eppure nel contempo, vi è di fatto una notevole disuguaglianza. Innanzitutto, il cambio climatico è un fenomeno universale, cioè, colpisce tutti indistintamente, e non vi sono spazi assolutamente protetti né strategie territoriali per limitare la sua portata. L’uguaglianza riguardo all’impatto del cambio climatico consiste nel fatto che i suoi effetti non sono limitati spazialmente. Il cambio climatico finisce per
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incidere su quei paesi che sono più o meno indirettamente affetti da esso. Le sue conseguenze sono indipendenti dal luogo in cui si è originato. Gli Stati con scarsa capacità tecnologica od economica che appena hanno contribuito a creare il problema – come quasi tutti quelli dell’Africa – o quelli che proteggono il clima con maggiore ambizione – come gli europei – sono colpiti dai suoi effetti negativi allo stesso modo che gli Stati con maggiori emissioni. Ma occorre anche prendere in considerazione l’impatto ineguale, dato che il cambio climatico incide in modo diverso a seconda dei fattori geografici. Gli allagamenti colpiranno soprattutto le popolazioni che abitano i delta dei fiumi e l’aumento del livello del mare riguarderà le coste e le piccole isole. Ma la principale fonte di disuguaglianza è la povertà e la diversa capacità di reazione per far fronte a tali trasformazioni da un punto di vista infrastrutturale, tecnico ed economico. I paesi poveri sono relativamente più vulnerabili ai danni provocati dal cambio climatico (Serfati 2009). Benché tutti i paesi si vedano affetti dal cambio climatico, le aree geografiche più povere saranno quelle che patiranno di più e più intensamente le sue conseguenze, dato che sono quelle che hanno le temperature più alte, così come delle economie maggiormente agricole e meno diversificate. I fattori socioeconomici incidono di più rispetto al clima in quanto concerne, per esempio, l’espansione delle malattie. I casi di dengue sono mille volte maggiori nelle regioni del nord del Mexico che nel sud del Texas, nonostante il clima sia molto simile nel giro di 100 km. La stessa cosa accade con le catastrofi naturali, le quali colpiscono in maniera molto differente i diversi paesi a seconda di quale sia il loro livello di sviluppo. Non è uguale un terremoto in un paese piuttosto che in un altro, per cui, probabilmente si potrebbe dire che non esistano catastrofi naturali ma sociali, o catastrofi naturali i cui effetti hanno un impatto diverso in proporzione alle condizioni sociali.
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Il cambio climatico ha effetti regionali molto differenti e le sue ripercussioni sociali dipendono anche dalle corrispettive capacità. Nei paesi più progrediti, dove c’è un alto tenore di vita, una buona nutrizione e un alto livello di protezione di fronte alle catastrofi, e nei quali vi è la possibilità di risarcire i danni materiali, si presume che le possibili conseguenze sociali saranno limitate; regioni con fame, povertà, mancanza di infrastrutture e conflitti violenti saranno colpite con maggiore forza dai cambiamenti ambientali. Per quanto riguarda questi effetti, vi è un molteplice svantaggio: i paesi prevedibilmente più affetti sono quelli che hanno meno possibilità di far fronte alle conseguenze; quelli in cui gli effetti saranno minori o che persino potrebbero esserne beneficiati, dispongono di maggiori capacità per gestire i problemi derivati da tali cambiamenti. L’irregolarità dei monsoni colpisce innanzitutto i paesi del sudovest asiatico, gli allagamenti minacciano i grandi delta, come in Bangladesh o India. L’innalzamento del livello del mare si farà sentire più in piccole isole – come nel Pacifico-, ma anche in città come Mogadiscio, Venezia o New Orleans che sono al livello del mare. Per paesi ricchi come l’Olanda sarà in proporzione più facile migliorare le proprie dighe di protezione; un rimboschimento a seguito di una tempesta sarà più a portata di mano in Kansas che in Kerala (Santarius 2007, 19). Quindi, le asimmetrie e le disuguaglianze globali già esistenti si acuiscono a causa del cambio climatico. Un’altra asimmetria che complica ulteriormente le cose ha a che fare con la differenza d’impatto a seconda della generazione. Il tempo preme, effettivamente, ma non tanto da rendere più facili le soluzioni, dato che gli attori egoisti possono sperare di non soffrire le conseguenze del riscaldamento globale. L’obbligo a cooperare si indebolisce. A quelli che siamo vivi ora ci costa di più di quanto ci benefici. Gli incentivi per la cooperazione non funzionano perché le generazioni non coesistono contemporaneamente.
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E se non bastasse questo quadro di asimmetrie, c’è da dire che certi effetti potranno risultare nocivi per alcuni ma benefici per altri. Insieme alle conseguenze disastrose del cambio climatico nel Sud (allagamenti, siccità, perturbazioni delle correnti oceaniche, aumento delle malattie tropicali), potrebbero prodursi effetti positivi al Nord (valorizzazione delle terre, nuove rotte marittime) (Easterbrook 2007). Alcune regioni saranno avvantaggiate dato che potranno migliorare le condizioni delle produzioni agricole o la loro appetibilità turistica. La Russia, per esempio, potrà ottenere dei vantaggi dalle future crisi ecologiche dato che dispone di molto gas e petrolio, e l’aumento delle temperature renderebbe utili nuovi terreni coltivabili. È vero che il cambio climatico non affetta esattamente allo stesso modo coloro che vivono in uno spazio piuttosto che in un altro, ai ricchi piuttosto che ai poveri, oppure ai paesi i cui livello di sviluppo può o meno permettersi di porre certi autolimiti. Se la portata universale degli effetti può essere un motivo per andare d’accordo, il modo ineguale in cui gli effetti colpiscono è causa del fatto che vi siano diversi interessi che ostacolano l’accordo. In ogni caso, i vantaggi sono apprezzabili soltanto nel breve periodo; ma per la natura stessa del problema, alla fine, risultano soltanto svantaggi che si estendono in ogni luogo del mondo. In ultima istanza non vi sono che sconfitti. La causa ultima di tale uguaglianza catastrofica risiede nel fatto che questa «società del rischio globale» (Beck 2007) si caratterizza per un grado di connettività tra diversi attori la cui dimensione non ha precedenti nella storia (Homer-Dixon 2006, 112). In essa, si compie alla lettera quella teoria degli «effetti esterni» (Swaan 1993) per cui, a causa dell’alto livello di interdipendenza, i problemi di povertà o salute minacciano in maniera crescente a tutti i membri della società, e non solo
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a quelli direttamente colpiti, e quindi richiedono soluzioni collettive. Questa consapevolezza fu all’origine dello Stato di benessere e vale oggi allo stesso modo per quanto riguarda gli effetti del cambio climatico. Tutti i paesi finiremo per esserne colpiti e per ciò abbiamo bisogno di soluzioni cooperative. È qualcosa di cui anche Nobert Elias aveva avvertito nella sua teoria sociologica, mostrando sino a che punto un aumento dell’interdipendenza implicava una diminuzione dei differenziali di potere tra gli attori. Denominava questo processo una «democratizzazione funzionale» (1996, 72), che prima o poi finisce per trovare una conformazione istituzionale. Benché Elias descrivesse questo meccanismo sociologico a livello nazionale, si può attualmente constatare anche a livello di interdipendenze globali. I rischi finiscono per equiparare gli attori più disparati e ricondurre anche la loro diversa responsabilità verso un’azione concertata.
3. Un caso di giustizia complessa Oltre alla complessità che procede dall’analisi delle cause e degli impatti, c’è un’altra fonte di complessità che ha la sua origine nella rete globale di interdipendenze, di fronte alla quale ci troviamo, e che ostacola il raggiungimento di accordi intorno alla giustizia e responsabilità di governo. Non si tratta tanto della quantità degli attori coinvolti quanto della complessità dei criteri di giustizia che vengono fatti valere nei negoziati. Il suo carattere essenzialmente controverso è dovuto alla complessità delle interazioni che sono in gioco. Questo genere di accordi mette a prova la capacità dell’umanità per giungere ad un compromesso nel quale si bilancino interessi contrapposti e diverse pretese di giustizia. Infatti, i danni non sono geograficamente distribuiti con un criterio omogeneo;
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non è un fatto neutrale, ma piuttosto c’è chi risulta più colpito di altri. Da ciò deriva che il cambio climatico sia diventato una questione politica piuttosto controversa. Nei negoziati per gli accordi sul cambio climatico non si discute propriamente del clima, dato che nessuno mette in dubbio la necessità di un accordo per intervenire e frenare il cambio climatico. Gli Stati sembrano essere d’accordo sul principio di un’azione decisa contro il riscaldamento del pianeta, ma continuano ad essere profondamente divisi per quanto riguarda la spartizione degli sforzi, in particolar modo per quanto riguarda la divisione tra i paesi progrediti e quelli in via di sviluppo. Ciò che costituisce l’oggetto della controversia sono i criteri di giustizia a partire dai quali si devono prendere le decisioni corrispondenti: come, quando e chi si fa carico del fardello per la protezione dell’ambiente; qualcosa che ha a che fare non tanto con l’acqua, l’aria o gli alberi, ma piuttosto con l’occupazione e il benessere. I paesi meno sviluppati non capiscono perché debbano assumersi i costi dello sviluppo irresponsabile delle nazioni industriali. I paesi dell’Asia o dell’antico blocco sovietico non vogliono veder minacciato il loro processo di ripresa economica, mentre le economie più avanzate sono riluttanti a pagare per il resto del mondo. E i più sviluppati ritengono che sarebbero ingiustamente colpiti dalle restrizioni. Gli interessi contrapposti appena permettono di progredire nei compromessi. L’accordo quadro delle Nazioni Unite sul cambio climatico è stato costruito sulla base di un «principio di responsabilità comune ma diversificata», secondo le circostanze di ogni paese (articolo 4). Questa disposizione ha difatti implicato un alibi per la mancanza di un impegno nella riduzione delle emissioni da parte dei paesi emergenti in via di sviluppo, posizione inoltre confermata nel protocollo di Kyoto. Stati emergenti come la Cina – e ancor più l’India – non si sono mostrati affatto
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disposti a rinunciare ai vantaggi che in questo modo vengono loro concessi, persino nemmeno se questo impegno dovesse essere attuato non prima di 10 o 20 anni. Nel contempo, hanno sospeso qualsiasi iniziativa in tale direzione finché i paesi industrializzati – e soprattutto gli Stati Uniti – non dimostrino che realizzeranno sforzi sostanziali per diminuire le emissioni. Se gli impegni assunti dall’Europa nel vertice di Copenaghen furono ambiziosi è perché il costo di una riduzione dei gas serra è relativamente più basso che in altre regioni del mondo. Parlando in termini economici, agli Stati Uniti, ridurre le proprie emissioni del 4% da qui al 2020 costerebbe la stessa cifra con cui gli europei effettuerebbero una riduzione del 20% entro la stessa data. I paragoni degli impegni in materia di riduzione delle emissioni non possono essere pienamente percepiti senza far riferimento al costo economico che implicano. Quando l’Europa presume di essere un esempio in materia ambientale, occorre tenere in conto che lo fa da una posizione molto favorevole. I paesi in via di sviluppo hanno posto due linee di argomentazione in tal senso. La prima riguarda la “responsabilità storica” dell’anidride carbonica che hanno finora emesso le economie sviluppate. Questi paesi progrediti hanno esaurito gran parte della capacità dell’atmosfera per assorbire l’anidride e dovrebbero risarcire i paesi in via di sviluppo per tale “espropriazione”. È il «development imperative» proposto da Giddens (2009, 9): le nazioni più povere hanno provocato soltanto marginalmente il riscaldamento globale; devono avere l’opportunità di svilupparsi durante un periodo piuttosto ampio, persino se tale processo provoca emissioni. La tesi è seria ma ci sarebbero alcune osservazioni da fare. Innanzitutto, di fronte alla pretesa dei paesi emergenti di accelerare per una modernizzazione che ricuperi il ritardo storico, potremmo chiederci: la giustizia consiste nel dare a tutti la stessa possibi-
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lità di distruggere le condizioni di sopravvivenza dell’umanità? D’altronde, i paesi ricchi non hanno agito con cognizione di causa; si sono sviluppati con la convinzione – sino a poco tempo fa quasi universale – del fatto che l’atmosfera fosse una risorsa infinita. Inoltre, coloro che hanno “espropriato” sono morti e sepolti. I loro discendenti, seppure potessero essere identificati, non dovrebbero essere considerati responsabili di atti che non hanno compiuto. Vi è uno sfasamento tra la causa e l’effetto (non sono coevi coloro che generano un problema e coloro che dovranno risolverlo) che ostacola sia l’assegnazione delle responsabilità come la prosecuzione degli impegni. Queste obbiezioni non annullano completamente la tesi della “responsabilità storica” dato che le economie sviluppate si beneficiano in gran misura tuttora della loro industrializzazione passata. La seconda linea d’argomentazione dei paesi in via di sviluppo riguarda la giusta distribuzione delle emissioni di anidride carbonica future. Supponiamo che le emissioni globali siano controllate grazie a dei permessi di emissione. I paesi in via di sviluppo ritengono che tali permessi dovrebbero essere spartiti sulla base della popolazione o del reddito pro capite. Se si prende in considerazione la popolazione, il ragionamento è di ordine giuridico: ogni essere umano ha il medesimo diritto ad usufruire del carbonio globale. Sul criterio del reddito pro capite, l’argomentazione è egualitaria: i permessi dovrebbero essere concessi ai più poveri perché raggiungano lo status degli altri. Questi due principi implicano che tali permessi debbano essere concessi alle economie in via di sviluppo, sia perché esse esprimono la maggior parte della popolazione mondiale, ma anche perché rappresentano la maggior parte dei paesi poveri al mondo. Il problema è che tali principi non sono generalmente riconosciuti nelle relazioni internazionali. Se non esiste, per esempio, un qualsiasi accordo sul principio di distribuzione delle risorse naturali, come è possibile che se
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ne trovi uno per quanto riguarda l’atmosfera? Nemmeno si può affermare che l’idea di un egualitarismo rigoroso susciti grandi entusiasmi. Il sostegno allo sviluppo non ha mai raggiunto nemmeno la metà dello 0,7 preteso dall’ONU. Per uscire da questo labirinto, l’economista Vijay Joshi proponeva di applicare a questa vicenda un principio che è ampiamente accettato come condizione minima di imparzialità: agire senza far danni (2009). Nel contesto del cambio climatico, l’applicazione di questo principio vorrebbe dire permettere ai paesi in via di sviluppo di ridurre i propri sforzi finché non abbiano eliminato la miseria. Si tratterebbe di consentire il mantenimento dell’attuale ritmo di crescita per un certo periodo (più amplio in Africa che in Cina, per esempio), in seguito al quale la concessione di tali permessi verrebbe progressivamente ridotta. I modelli climatici ci offrono una base a partire dalla quale è possibile capirsi su tali periodo. Per accelerare il movimento di convergenza si potrebbe favorire il trasferimento di determinate tecnologie ai paesi meno sviluppati in modo tale che questi possano ridurre i costi dei loro sforzi. Questo modo di porre la questione ha inoltre il vantaggio di prendere in considerazione la “responsabilità storica”. Una parte significativa dei danni dovuti all’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera consiste nell’innalzamento dei costi di riduzione per tutti i paesi. Nel modello proposto una parte di questi costi sarebbe coperta per un certo periodo. Tiene anche in conto gli argomenti giuridici e egualitari dal momento che concede permessi d’emissione ai paesi più poveri, il che implica un notevole trasferimento finanziario, mentre la distribuzione di permessi sulla base delle emissioni attuali beneficerebbe eccessivamente i paesi ricchi. Tale trasferimento non andrebbe oltre un periodo la cui durata richiederebbe un accordo preliminare. Ciò sarebbe più accettabile, per i governi e per i cittadini dei paesi progrediti, della distribuzione dei
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permessi sulla base del reddito pro capite, il che implicherebbe dei trasferimenti verso i paesi in via di sviluppo ben superiori rispetto agli attuali flussi. I negoziati sul cambio climatico sono così importanti che nessuno si può permettere il lusso di arroccarsi sulle proprie posizioni. Per il successo dei negoziati è fondamentale le capacità di adattarsi, se si vuole includere negli accordi paesi come Cina, India o Brasile, dato che sono loro a rappresentare in un futuro vicino gran parte delle emissioni mondiali. E per ciò è necessario compiere la spartizione secondo uno spirito di giustizia. Certamente, le concezioni della giustizia sono così diverse e controverse come gli interessi e. proprio per questo, l’abilità politica per articolare una governance globale è insostituibile nel momento in cui si debba costruire un compromesso tra entrambe le parti.
4. La governance globale del cambio climatico Quale tipo di governance globale corrisponde a sfide come quelle poste dal cambio climatico? Il nucleo della difficoltà si potrebbe riassumere nell’idea secondo cui abbiamo affidato le soluzioni ai mercati ed abbiamo progredito molto poco nella costruzione di accordi politici. Perché è così necessario procedere verso accordi di natura politica per affrontare alla questione del cambio climatico? Non abbiamo già una serie di procedure che ci hanno permesso di fare alcuni progressi? Effettivamente ci sono soluzioni di mercato come il commercio di emissioni o l’“implementazione aggiunta” grazie alle quali si sono ottenuti dei risultati parziali ed è anche vero che non si avanzerà se si adottano delle soluzioni contro il mercato. Ma il problema è che c’è una dimensione della vicenda che il mercato non può risolvere. Il mercato fornisce “segni adeguati”
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per la produzione di beni privati, ma non per i beni collettivi e ancor meno per evitare le esternalità negative. Gli strumenti del mercato non sono appropriati per anticipare i costi ambientali nel lungo termine. I costi economici del cambio climatico sono prevedibili soltanto in misura molto approssimativa. In modo particolare gli avvenimenti futuri incerti non si possono tradurre in valutazioni precise dei costi. Ciò scoraggia gli attori economici a tenere conto di queste previsioni e ostacola il lavoro delle istituzioni politiche nel momento in cui devono stabilire una regolamentazione che possa essere accettata da tutti. È difficile che i negoziati si chiudano con un accordo all’altezza delle sfide attuali perché siamo depositari di un’idea di cambiamento dei comportamenti basati nell’incentivo economico. Il problema è che il ragionamento economico favorisce le attitudini dei cosiddetti “passeggeri clandestini”: si ritiene che tutti condividano gli sforzi ma il vincitore è colui che fa di meno. I beni pubblici globali, più di qualsiasi altra cosa, soffrono di ciò che si è denominato come “free riding” (Keohane 1984). Il fallimento dei permessi di emissione trattabili è una prova inquietante di ciò. La buona volontà degli Stati non basta per mettere in moto un sistema di azioni coordinate che si imponga su tutti. Una delle conseguenze dell’ideologia neoliberale è stata quella di limitare il campo delle opzioni politiche possibili, riducendo l’economia dell’ambiente quasi esclusivamente a «soluzioni d’accordo con il mercato», all’innovazione tecnologica e all’efficienza energetica (Paterson 1996, 169). I limiti di tale procedura hanno a che fare con l’idea per cui i diritti di emissione conferiscono a colui che emette proprio questo, un “diritto” da esercitare con le proprie pratiche nocive per l’ambiente, invece di promuovere accordi politici più esigenti, sostenendo la trasformazione dello stile di vita e le abitudini di consumo.
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Non smette di essere paradossale che si incarichi alle forze del mercato di trovare una soluzione ad un problema di cui le medesime forze sono responsabili. Questioni come il cambio climatico devono essere analizzate alla luce di un altro quadro concettuale e gestite con una logica differente. Si tratta di un bene pubblico di quelli che dovremmo ritenere esterni al mercato. Si parla di beni esterni quando il consumo o la produzione di un bene condiziona un altro senza che tale condizionamento sia percepito dal mercato. In quanto bene pubblico, il clima ha la proprietà della non rivalità (tutto il mondo ha un clima stabile), ma non risulta così evidente la sua non esclusività (si possono beneficiare, almeno nel breve termine, coloro che non fanno nulla per esso) e per quanto riguarda ciò, non c’è nessuno stimolo nel mercato per perseguirlo. Il mercato, particolarmente un mercato dell’energia configurato secondo un regime di oligopolio, non può produrre dal oggi al domani energie efficienti. Tutto ciò che abbiamo è la debole garanzia che il cambio climatico sia percepito come un pericolo reale per l’equilibrio delle economie e delle società nel lungo termine. Ora, questo avvertimento si può soltanto realizzare e gestire con una logica politica, concretamente con una politica nella quale si sia introdotta la prospettiva di lungo termine (Giddens 2009). Per ciò il clima è un bene che non si può abbandonare al mercato e che richiede una governance globale. Con la crisi economica questa esigenza è più evidente. È necessaria più politica che mercato e una politica meno sovranista. Il mondo nel quale potevano avere un qualche senso le pratiche sovrane è cambiato radicalmente in pochi decenni. Affrontare efficacemente il cambio climatico richiede indirizzarsi verso un mondo più cooperativo. Abbiamo bisogno di una soluzione cooperativa, che sia scientificamente solida, economicamente razionale e politicamente pragmatica.
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È evidente che non disponiamo di istituzioni che dovrebbero corrispondere alla gestione di un contesto di così intense interdipendenze. Non esiste un “Leviatano verde” che possa imporre accordi e incarichi. Il regime legislativo internazionale è debole; risulta molto frammentata la governance internazionale in questa materia. Si tratta di un regime complesso, con attori diversi, regolamenti e convenzioni. Per coloro che sono stati coinvolti nei negoziati sul cambio climatico dalle sue origini, la diversificazione si impone come una necessità evidente affinché i paesi in via di sviluppo siano progressivamente integrati in un dispositivo internazionale vincolante. Era necessario che, nella prima fase del Protocollo di Kyoto, i paesi più sviluppati fossero i primi a dare il buon esempio. Benché gli effetti di agire unilateralmente siano limitati, l’iniziativa UE e USA può avere un impatto esemplare sugli altri paesi (Sands 2003; Aldy 2009). In ogni caso, gli obbiettivi più ambiziosi di alcuni paesi non eviteranno da soli il riscaldamento globale. Il cambiamento climatico esige una soluzione multinazionale. In una situazione di concorrenza globale, le misure contro il cambiamento climatico non saranno svantaggiose per la competitività degli attori se vincolano tutti. Nel contempo, le difficoltà della politica internazionale in rapporto al cambio climatico non si risolveranno senza uno sforzo politico per sviluppare un’architettura che prometta progredire senza minacciare lo sviluppo dei paesi del Sud. Il Greenhouse Development Rights va in questa direzione: se gli accordi internazionali non garantiscono esplicitamente questo diritto allo sviluppo dei paesi del Sud, questi possono concludere che hanno poco da guadagnare con questa politica che, in ultima istanza, restringe l’accesso alle fonti di energia e alle tecnologie che hanno permesso storicamente la crescita nel mondo sviluppato. Il GDR si riferisce ad una soglia di sviluppo al di sotto del quale
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nessuno sarebbe disposto ad assumersi i costi di transizione, dato che la sopravvivenza e lo sviluppo sarebbero le sue priorità. In questo caso, hanno poca capacità e poca responsabilità per risolvere il problema climatico. Per questo la cooperazione – che include trasferimenti finanziari e tecnologici – è una parte imprescindibile della governance di stabilizzazione climatica. Benché i paesi sviluppati riducano le loro emissioni sino ad un livello vicino allo zero, dovranno anche mettere gli altri paesi nelle condizioni di farlo. I diversi vertici mondiali che hanno avuto luogo finora sono un elemento fondamentale nella costruzione di questa complessa governance. L’accordo di Copenaghen, a cui parteciparono 120 Stati che sono responsabili di 4/5 delle emissioni globali, fissò come obbiettivo la stabilizzazione del riscaldamento globale in due gradi, il che costituisce un progresso tenendo conto che finora questo obbiettivo era sottoscritto soltanto dall’Unione Europea, e dal 2009, anche degli Stati membri del G-8 e del G-20; ma non si tratta di un accordo con capacità normativa nel diritto internazionale ma qualcosa di cui “prendere visione”, privo di qualsiasi meccanismo che possa garantire che tale obbiettivo sia rispettato. Il problema di questi accordi è che sanciscono obblighi che gli Stati si autoimpongono, in modo tale che non vi è una sede che possa punirli per il loro inadempimento. Gli intoppi nei negoziati derivano in buona misura dal fatto che nei consessi finisce per imporsi l’obbiettivo dei paesi meno ambiziosi. Nonostante ciò, nella Conferenza di Cancún (2010) si riuscì a far sì che i contenuti più importanti dell’accordo di Copenaghen passassero al processo ufficiale dei negoziati delle Nazioni Unite e si stabilì un fondo per finanziare (sebbene non risulta del tutto chiaro come si raccoglierà il denaro), a partire dal 2020, i paesi meno sviluppati, affinché introducessero energie più pulite, invitandoli ad adattarsi al cambio
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climatico. Con gli accordi di Cancún, i risultati di Copenaghen sono più vincolanti, anche se le questioni principali rimasero aperte e rimandate alla conferenza di Durban nel 2011. Il tempo incalza dato che il Protocollo di Kyoto è scaduto nel 2012 e la comunità internazionale è rimasta senza nessun accordo in vigore in materia climatica. Il cambio climatico è un tipico fenomeno di “glocalizzazione”, di interdipendenza tra azioni ed omissioni locali con effetti globali. In qualche modo questo problema è il prototipo degli scenari complessi di un mondo globalizzato: nessuna azione si limita ad avere conseguenze nel locale, ma nemmeno esiste un’istituzione transnazionale che possa gestire la vicenda da una prospettiva globale. Il modo con cui risolveremo questa questione sarà un modello per la soluzione di conflitti simili. Si tratta chiaramente di una gestione della complessità: complessità delle responsabilità, degli impatti potenziali, dei costi dell’azione, così come delle rappresentazioni strategiche che gli Stati dovranno fare delle diverse questioni che sono in gioco.
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Capitolo ottavo Una politica dell’umanità
Da qualche anno a questa parte la realtà è diventata comunista. La Guerra Fredda l‘ha vinta il capitalismo, ma la dinamica delle cose ha imposto dei problemi che mettono al centro delle nostre preoccupazioni la cura del comune al di sopra del particolare. La globalizzazione è spesso collegata alla privatizzazione (attraverso la liberalizzazione economica o il dislocamento di certi beni e servizi in mani del mercato), ma può essere intesa anche come l’incremento del pubblico, come il fatto che le società diventino più interdipendenti. L’agenda politica si è riempita di problemi comuni, di beni pubblici dell’umanità. Non parlo di una battaglia delle idee, bensì di uno scontro reale, delle logiche che fanno breccia di fronte all’inerzia degli interessi isolati e immediati. I principali problemi delle nostre società sono i suoi beni pubblici e siamo consapevoli del fatto che devono essere comuni anche le strategie con cui affrontare tali problemi. La polluzione ambientale, il cambio climatico e lo sfruttamento delle risorse naturali, l’integrazione finanziaria e i rischi ad essa associati, la disuguaglianza globale e l’esplosione demografica, la criminalità globale che si manifesta nel traffico di droghe ed armi; tutte queste sono questioni che sono entrate con forza nell’agenda politica, dal momento che la crescente in-
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tegrazione dell’economia mondiale le accentua, modificando il contesto nel quale devono essere trattate. I sistemi globali complessi, da quello finanziario a quello ecologico, legano il destino delle comunità locali a quello delle comunità distanti. La sicurezza propria si dissolve di fronte alla sicurezza generale: ciascuno dipende da tutti gli altri, la sicurezza di chiunque è direttamente collegata alla sicurezza degli altri, siano vicini o lontani. Ci interessa sempre di più ciò che accade agli altri perché riteniamo che là risiedano possibilità e minacce che ci riguardano. Abbiamo già esperienze concrete nell’ambito della sicurezza, l’economia o l’ambiente che palesano il modo impacciato che mostriamo quando perseguiamo soltanto ciò che propriamente ci riguarda e che ci spinge a sviluppare un’intelligenza cooperativa. Si impone il senso comune, che non è tanto una categoria epistemologica quanto una scoperta politica: essersi resi conto del fatto che l’interesse particolare è talmente intersecato con quello degli altri che è conveniente capire quanto prima la logica di tale vincolo. Le logiche di interdipendenza pongono difficoltà inedite agli Stati nazionali, modificano i nostri beni e i nostri spazi pubblici. L’orizzonte verso cui tutto ciò mira è una politica dell’umanità, ovvero, la possibilità che l’umanità agisca come un tutto (qualunque cosa vi intendiamo), la necessità di configurare un livello di governance in risposta alla natura dei beni comuni dell’umanità, i quali mostrano il loro valore sempre con più insistenza negli spazi sconfinati della globalizzazione.
1. I nuovi beni pubblici interdipendenti Quando vennero formulate, qualche anno fa, le prime teorie sulla globalizzazione, alcuni autori pretesero minimizzare la novità di tale fenomeno rimarcando che altri momenti della
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storia recente si erano connotati per una forte internazionalizzazione e integrazione economica. L’argomento proveniva dalla comparazione della nostra attuale situazione con il periodo che va dal 1870 al 1913, “l’epoca dorata” dell’economia internazionale. È un osservazione che non manca di buone ragioni, ma che dimentica il protezionismo dell’epoca o il fatto che il commercio avvenisse attraverso canali coloniali, e quindi, non si assomigliasse per niente all’attuale, di forma reticolare. Non si tiene nemmeno conto del fatto che l’integrazione economica fosse organizzata in maniera verticale, semplice e gerarchica, tra Stati sovrani e senza alcun quadro istituzionale internazionale. In quel momento della storia ci poté essere uno rapporto stretto tra nazioni, e persino relazioni di andata e ritorno, ma non vi era propriamente interdipendenza, così come la possiamo intendere oggi. L’indicatore più emblematico del fatto che ci troviamo in un altro contesto è la radicalità con cui la logica dell’interdipendenza ci mette di fronte a beni pubblici comuni dell’umanità e rischi globali, in relazione ai quali siamo vulnerabili allo stesso modo. Beni pubblici sono quelli i cui benefici –o costi, nel caso dei mali pubblici – colpiscono potenzialmente tutte le persone, paesi e persino generazioni. Il caso più eclatante è l’ambiente globale, ma vi sono altri come la conoscenza, la salute, la pace e la sicurezza, la stabilità finanziaria, l’efficienza dei mercati, la conservazione della biodiversità, l’accesso all’acqua. Questa è la logica ambigua dell’interdipendenza: una crisi economica, a causa del commercio e i flussi finanziari, colpisce molti, persino coloro che vivono nelle economie più robuste; criteri fiacchi in materia di sicurezza nutrizionale potrebbero creare problemi in altre parti del mondo a causa del turismo e l’esportazione; la facilità delle comunicazioni agevola anche l’evasione fiscale, il riciclaggio di denaro e il traffico di droghe. Riguardo i beni pubblici, vale il principio definito come «the triangle of pubblicness»: pubblici devo-
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no essere il consumo, i benefici e le procedure di decisione (Kaul/Conceiçao/Le Goulven/Mendoza 2003). Le grandi questioni politiche si sono quasi completamente dissociate dal quadro definito dagli Stati secondo una triplice dimensione: per quanto riguarda la generazione del problema (chi o quale comportamento causa un certo problema), per quanto concerne il suo impatto (chi patisce gli effetti negativi) e la sua soluzione (a chi e come compete la sua risoluzione) (Mayntz 2009, 74). L’origine, l’impatto e la soluzione di certi problemi (problem generation, problem impact, problem coping) non rientrano nei limiti dell’unità tradizionale che rappresentavano le società statalmente organizzate. Tutto ciò definisce un quadro di interdipendenza o dipendenza reciproca che implica una vulnerabilità condivisa. Per capire questa nuova circostanza è necessario farsi carico di ciò che ha rappresentato lo Stato nazionale moderno e le sfide attuali che ne stanno richiedendo una sua profonda trasformazione. Il successo del sistema politico moderno, la cui origine viene individuata con la Pace di Westfalia (1648), si deve a due conquiste che si rafforzano reciprocamente. In primo luogo, vi è la capacità degli Stati, individualmente considerati, –le loro strutture, i processi e le istituzioni endogene – per organizzare efficacemente lo spazio pubblico e fornire beni pubblici nell’ambito domestico, e nel contempo neutralizzano le ingerenze esterne e proteggono la sua società da ciò che gli economisti definiscono “exogenous shocks”. La seconda conquista è la capacità degli Stati, nel loro insieme, di sviluppare un sistema di regole, norme e pratiche che limitino o regolino il conflitto diretto tra di essi e rafforzino una serie di risoluzioni comuni durature che sorgano dalla loro inevitabile interazione (trattati, accordi commerciali, sistemi monetari, ecc.). Grazie a queste due capacità, gli Stati sono stati in grado di tenere in ordine il proprio interno e mitigare l’inevitabile “anarchia” esteriore che deriva dalla propria sovranità.
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Ebbene, entrambe capacità sono rese fragili dalla globalizzazione: né gli Stati sono più in grado di garantire i beni pubblici interni che promettevano e, nemmeno, la semplice giustapposizione degli Stati sovrani è sufficiente per garantire i beni pubblici esteriori. Alla luce di entrambi gli obbiettivi, tutti siamo Stati fallimentari, insufficienti. Gli Stati e il sistema di Stati sovrani hanno grandi difficoltà nel momento in cui devono promuovere la stabilità, la sicurezza, la prosperità e altri beni specificamente collettivi. Molti dei beni pubblici che sono stati forniti dagli Stati non possono più essere garantiti dagli stessi, a causa del fatto che si sono articolati transnazionalmente o si costituiscono in rapporto ai mercati. Si sta modificando l’idea che avevamo dei beni pubblici, sinora vincolati ad una sovranità statale che si faceva carico e li garantiva. Stiamo poco a poco prendendo consapevolezza del fatto che si tratta di beni non divisibili tra gli Stati, come accade per quanto riguarda l’ambiente, la sicurezza, la stabilità economica, i beni simbolici (sostanzialmente i diritti umani), che non si prestano ad una gestione sovrana, senza provocare gravi effetti perversi. Le crisi mondiali o i rischi globali non riguardano soltanto alle comunità nazionali più direttamente colpite bensì l’insieme dell’umanità, a causa delle conseguenze in catena o gli effetti derivati. Nella misura in cui si tratta di beni comuni dell’umanità, i beni pubblici smettono di essere soltanto beni sovrani. Le conferenze internazionali su alcuni di questi temi sono una prova del fatto che siamo consapevoli che la loro gestione va al di là delle competenze degli Stati sovrani. Perfino per quanto riguarda una delle principali competenze degli Stati, come la difesa e la sicurezza, lo Stato si vede sfidato dall’essere fornitore legittimo di tali beni collettivi. Nel contempo, il potere di stabilire e mantenere l’ordine mondiale si è frammentato oppure è condiviso tra gli Stati.
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Dal punto di vista di ciò che possiamo definire a pieno titolo i “beni pubblici comuni dell’umanità”, la sovranità è un passaggio preliminare alla concertazione per risolvere i principali problemi che ci concernono; nei confronti della maggioranza di essi, una politica isolata ed unilaterale è priva di senso. Le decisioni fondamentali non sono più adottate a livello nazionale, nel quale si prendono decisioni soltanto per quanto riguarda le questioni secondarie. In materia commerciale, monetaria, fiscale o sociale, le decisioni sono diventate profondamente interdipendenti, il che inaugura un modo di governance che implica non soltanto un rafforzamento delle coordinazioni intergovernative, ma anche la costituzione di spazi di mobilitazione e rappresentazione di interessi, di discussione e di dibattito pubblico, che trascendono i territori nazionali e le logiche sovrane. In questo modo, il principio di responsabilità prevale sul principio d’autonomia. Gli Stati si vedono obbligati a riconquistare spazi d’azione, in cambio del consenso di entrar a far parte del gioco del potere condiviso. La vulnerabilità di fronte ai nuovi rischi non è qualcosa che modifichi in quanto tale la sovranità legale bensì quella operativa, cioè, la capacità degli Stati di far valere la sovranità nelle questioni ordinarie della politica (Reinicke 1998, 56). Sebbene i principi e le dichiarazioni si mantengano nella tradizionale inerzia, la realtà è che gli Stati scambiano da tempo la sovranità con il potere. La reciproca esposizione ai rischi globali, in materia di sicurezza, nutrizione, salute, finanza o ambiente, rafforza la nostra interconnessione e contribuisce alla configurazione dell’umanità come nuovo soggetto che si costituisce non su basi metafisiche, bensì a partire da un’interdipendenza di fatto. Pensarsi come un’unica umanità non ha nulla a che fare con una totalità monistica e autoritaria; viviamo in un mondo unito ma non unico, interrelato ma non omologato. Si tratterebbe di pensa-
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re l’essere in comune senza cadere nell’assolutizzazione della comunità locale o nell’indifferenza globale (Pulcini 2009, 277; Cerutti 2007, 169). Una politica dell’umanità non dovrebbe implicare una trasposizione dei vecchi monismi su scala globale, bensì l’opportunità di pensare il vecchio soggetto politico con delle categorie includenti ma non totalizzanti.
2. La governance del capitalismo globale Il rapporto tra i mercati e la politica è particolarmente problematico da quando il capitalismo è diventato una forza globale svincolata dai poteri moderatori dello Stato nazione. Se governare l’economia non è mai Stato un compito facile, il capitalismo globale sembra essere qualcosa di letteralmente ingovernabile, fuori controllo. La globalizzazione sta rendendo difficile il compito di governare i mercati, innanzitutto, perché ha dato luogo ad una dissociazione fondamentale tra la portata globale delle transazioni economiche e finanziarie da un lato, e l’ambito locale delle regole e delle regolazioni, dall’altro, il che espone gli Stati nazionali all’incompetenza nella gestione delle crisi globali. È stata limitata la capacità d’azione dello Stato nazionale ma allo stesso tempo tale capacità non è stata trasferita alle istituzioni globali. Lo scarto tra i mercati globalizzati e i sistemi politici nazionali è una sfida per l’economia politica globale. Il governo del capitalismo sarà impossibile finché gli strumenti della governance si limitino agli Stati nazionali, con una capacità di controllo frammentata e facilmente raggirabile. La seconda ragione è l’opacità del sistema finanziario, delle sue complicate architetture che sfuggono al controllo degli Stati, ostacolando la supervisione e la responsabilità. Siamo immersi in una concatenazione non trasparente di rischi attra-
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verso gli strumenti di credito e un sistema massiccio di shadow banking che nasconde le transazioni, protegge la mancanza di trasparenza e copre con il velo dell’ignoranza buona parte del sistema finanziario, agendo al di fuori della supervisione bancaria e la regolamentazione nazionale. Tutto ciò ha fatto del capitalismo globale un sistema economico molto incline alle crisi, con un livello di instabilità che non ha precedenti nella storia umana, straordinariamente vulnerabile al rischio sistemico (Roubini/Mihn 2011, 210). La sfida che questa duplice circostanza –deterritorializzazione e non trasparenza – ci pone è di grande portata. Dobbiamo pensare una politica economica articolata secondo un modello di governance per sistemi altamente complessi, con una grande densità di interazioni e un’elevata sofisticazione tecnologica. La prima cosa necessaria a tale scopo è una buona analisi dell’interazione tra economia e politica e una buona diagnosi dell’attuale crisi economica. Dobbiamo far fronte, innanzitutto, ad un paradosso che ci ha lasciati perplessi e che spiega l’attuale impotenza dei governi. Detto senza le sfumature che andranno aggiunte in seguito: il mercato ha fallito ma questo non si è tradotto in un rafforzamento degli Stati. Come spieghiamo questa circostanza? e che conseguenze ha per quanto dovremmo fare nel futuro? La crisi globale ha distrutto il mito della libera autoregolazione dei mercati. Il mercato non può produrre le proprie precondizioni – per esempio, il rule of law, l’istituzione della proprietà privata o la prevenzione di monopoli – e per ciò necessita del potere regolatore della politica. Questa necessità si fa più impellente in un momento in cui la globalizzazione ha aumentato l’instabilità dei mercati, particolarmente la sfuggevolezza dei mercati finanziari. In questo contesto, esistono possibilità e spazi per il governo dei mercati, benché limitati, in modo tale che il sistema politico possa salvaguardare gli in-
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teressi a lungo termine, sia della società quanto dell’economia. I mercati dipendono da un quadro istituzionale, ed è a questo riguardo che la politica può agire: facilitando oppure ostacolando le transazioni economiche a seconda degli obbiettivi politici istituzionalmente progettati. Ora, il collasso dei mercati non implica un ritorno del ruolo degli Stati di tipo neokeynesiano. La crisi economica globale ha infranto i presupposti che si basavano sulla stabilità autoregolatrice dei mercati, ma non ha nemmeno confermato la superiorità della politica o dello Stato (incapace come si è rivelato di limitare il credito, regolare le innovazioni finanziarie, frenare il debito pubblico o prevenire il sistema bancario opaco). Gli Stati non sono nemmeno in una posizione di forza per quanto concerne le decisioni che dovrebbero prendersi per uscire dalla crisi. La capacità di governo degli Stati è sempre più soggetta a condizionamenti internazionali e costrizioni globali in ciò che si è venuto definendo come «sovranità scomposta» (Slaughter 2004, 266): abbiamo a che fare con la diffusione del potere in un’architettura politica su più livelli, con Stati sopraffatti e che hanno perso buona parte delle proprie prerogative (soprattutto per quanto riguarda l’autorità regolativa), in mezzo a potenti flussi e reti transnazionali. La sovranità non è più una categoria assoluta ma un concetto che indica le capacità di cui si dispone in un contesto di reciproche dipendenze. Gli sforzi delle società democratiche per controllare i mercati e le esternalità attraverso l’intervento diretto nell’economia sono stati molto poco utili. La lezione che dobbiamo ricavare da quest’esperienza è che la governance politica del capitalismo è più complicata e deve essere più indiretta nello stabilire un equilibrio tra l’autonomia del sistema economico e il quadro d’orientamento politico. Se Adam Smith promuoveva quella celebre esigenza affinché gli Stati fornissero
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«peace, easy taxes and a tolerable administration of justice», attualmente i requisiti sono più complessi e sofisticati. Quanto prima abbandoneremo questo tono di moralizzante semplicità che cerca responsabili e si richiama ad un sommario cambio di valori, prima intraprenderemo il compito di capire e governare una realtà particolarmente complessa. Se possiamo trarre un qualche insegnamento dallo Stato attuale della crisi, è che né il mercato da solo, né l’autorità statale isolata sono capaci di stabilire il tipo di quadro regolatore complesso necessario per far fronte all’opacità, sfuggevolezza e incertezza che caratterizzano il funzionamento delle finanze globali. Ciò vuol dire che il governo dei mercati non deve essere inteso come un semplice rafforzamento dei governi contro i mercati. Il sistema finanziario globale è troppo importante e comporta troppe conseguenze per essere abbandonato nelle mani di organizzazioni private, e troppo complesso e sofisticato da essere gestito da istituzioni pubbliche. Per ciò, l’obbiettivo consiste nel configurare un sistema misto di governance che includa elementi di auto-organizzazione e supervisione pubblica. Si richiede una modalità ibrida di esercizio dell’autorità in quei casi in cui né l’autorità pubblica né quella privata possono svolgere il compito perché, sostanzialmente, all’autorità pubblica manca il sapere e a quella privata manca il potere. I modi autoritari di governare sono scarsamente efficaci nei mercati globali. Benché sia vero che dobbiamo migliorare il potere delle istituzioni globali, non dobbiamo dimenticare che buona parte degli elementi costitutivi della governance non sono un esercizio del potere ma un insieme di incentivi che si portano a termine attraverso un argomento razionale, per esempio, l’aspettativa del beneficio reciproco o la paura di veder macchiata la propria reputazione. Per ciò, oltre a istituzioni regolative di portata regionale o globale, sono molto impor-
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tanti le entità “watch-dog” come Transparency International, associazioni di consumatori o la vigilanza globale esercitata da diversi movimenti sociali. Parliamo di governance globale del capitalismo proprio per riferirci a un sistema complesso nel quale intervengono elementi di autoregolazione, le istituzioni globali, l’autorità degli Stati, le loro procedure di cooperazione e le regolazioni ufficiose che provengono dal commercio internazionale o dalle associazioni globali di vigilanza. Mi piacerebbe sintetizzare queste possibilità di governance dei mercati in cinque compiti che la politica può condurre: 1. Migliorare la regolazione; 2. Farsi carico dei rischi sistemici; 3. Rafforzare la propria capacità cognitiva; 4. Istituzionalizzare la protezione del futuro e 5. Garantire la coesione sociale. 1.In primo luogo, si tratta di capire che non ci troviamo di fronte ad un problema di più regolazione quanto di migliore regolazione. Il funzionamento del mercato può essere minato sia dall’eccesso di libertà che dalla sua mancanza, per poca o troppa regolazione; nell’attuale mondo globalizzato ciò che più indebolisce è la regolazione inadeguata. Una cattiva regolazione può avere effetti perversi, così come è accaduto quando si sono sviluppati sistemi bancari camuffati oppure nel caso delle dinamiche pro-cicliche. Non ha alcun senso mettere ancora in marcia un nuovo ciclo di regolazione e deregulation; l’economia della società della conoscenza, globale e finanziarizzata, richiede un nuovo punto di vista. Non vi sono garanzie sul fatto che la regolazione preverrà crisi future finché non riusciremo a capire la loro dinamica e miglioreremo la governance, con procedure innovatrici al di là dello schema che ci fa oscillare tra la deregulation e il controllo. 2. La principale fonte di rinnovamento della governance economica globale viene dal farsi carico dei rischi sistemici. La sfida più importante che ha la società contemporanea, nel
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momento in cui deve governare i mercati, è la gestione dei rischi sistemici; responsabilità che non può essere lasciata nelle mani di economisti e attori finanziari, ma che è compito dell’economia politica e la teoria della governance. In un mondo interconnesso aumentano gli effetti sistemici non voluti. La crisi finanziaria ha messo drammaticamente in evidenza che la crescente interdipendenza globale di un gran numero di attori può avere come risultato effetti sistemici avversi. L’evoluzione della crisi, il suo potenziale di autodistruzione economica e la perplessità degli esperti hanno dato ragione a coloro che l’hanno interpretata come una crisi di ignoranza sistemica e non d’informazione asimmetrica (Skidelsky 2009). I rischi sistemici fanno appello all’interesse pubblico e alla responsabilità politica per stabilire disposizioni regolative capaci di prevenirli. Trattandosi di questioni di gravità sistemica (finanziarie, ambientali, pandemiche, di proliferazione di armi nucleari…) l’auto-governo è importante ma insufficiente per farsi carico di tali rischi. Un rischio sistemico è quello dei circoli viziosi che destabilizzano i mercati interconnessi. I rischi sistemici sorgono da un’interazione opaca tra componenti di una leva finanziaria in un insieme intrecciato (Willke 2012, 35). Ci muoviamo qui nel labirinto di ampie concatenazioni di effetti propri di un nuovo capitalismo che si caratterizza dall’interazione complessa dei componenti, il che dà luogo ad effetti combinatori inaspettati. L’attenzione a ciò che è sistemico implica un rinnovamento radicale del nostro punto di vista e delle nostre procedure di governo, miopi verso tutto ciò che non sia immediato e concreto. Sono le concatenazioni catastrofiche che dovrebbero preoccuparci; non tanto le cattive intenzioni particolari quanto le interazioni fatali del sistema. Quando l’attenzione regolatrice si concentra esclusivamente in attori singoli, la governance diventa cieca di fronte alle agitazioni sistemiche. Certo, tali agitazioni hanno la loro origine in determinate azioni, ma queste
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azioni diventano delle valanghe quando mettono in moto una serie di reazioni a catena in un sistema finanziario che non è disegnato per impedirle. Questo cambio di prospettiva è quello che il Tesoro degli USA invocava in seguito allo scoppio della crisi: «i regolatori non tennero in conto la minaccia che le istituzioni ampie, interconnesse e finanziariamente connesse ad alta densità possono causare nel sistema finanziario» (Treasury 2009, 5). 3. I governi devono migliorare la capacità cognitiva ed evolversi verso una modalità di decisione politica basata nella conoscenza. La buona governance dipende dal fatto che le decisioni siano fondate sul sapere esperto e legittimate democraticamente. In una società della conoscenza, vi è una maggiore esigenza riguardo al fatto che le modalità di decisione siano stabilite sulla conoscenza, cioè, più su considerazioni cognitive che su giudizi di valore, il che non significa che la politica debba sacrificare la sua funzione di fronte agli esperti, bensì che la politica stessa deve adottare uno stile più cognitivo che normativo. Le transazioni finanziarie, i modelli e i prodotti derivati son diventati qualcosa di molto sofisticato e quindi difficili da prevedere. Se i regolatori non lo capiscono, non potranno evidentemente regolare la situazione. Di fatto, le istituzioni regolatrici stanno continuamente sollecitando il consiglio dei migliori professionisti del rischio. L’autorità regolatrice sarà soltanto il risultato della collaborazione e non tanto una risorsa esclusiva e stabile dei governi. Timothy Geithner, già segretario di Stato alle finanze nell’amministrazione Obama, diceva nel 2008: «abbiamo bisogno di costruire un sistema che sia sicuro contro l’incertezza, contro l’ignoranza, contro i fallimenti nel momento di identificare l’origine di una futura crisi» (2008, 5). Ebbene, la vera rivoluzione epistemologica che richiede l’attuale crisi economica
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è, piuttosto, l’abbandono della presunzione di esattezza e il riconoscimento del fatto che governare vuol dire gestire l’ignoranza, farsi carico dell’incertezza nel governo dei sistemi complessi. C’è, nel capitalismo contemporaneo, un elemento di inevitabile opacità, che ha a che fare con fenomeni emergenti o con risultati sistemici di difficile previsione. Paradossalmente è meno pericoloso riconoscere tale ignoranza piuttosto che ostentare certezze. «Niente ostacola di più l’apertura che la certezza. Quando ci sentiamo possessori della risposta, scompare qualsiasi stimolo per mettere in questione la nostra maniera di pensare. La disciplina del pensiero sistemico ci insegna che non esiste una risposta corretta quando ci troviamo di fronte alla complessità» (Senge 1990, 281). Gli errori precedenti alla crisi economica (e alcune insistenze attuali) mostrano esattamente quest’inclinazione a sminuire l’ignoranza che accompagna i rischi finanziari, sull’effetto di determinate strategie di rischio e riguardo l’interazione degli elementi del sistema finanziario. 4. I governi dovrebbero essere i protettori di tali problemi nel lungo termine, coloro che si fanno carico di istituzionalizzare la protezione del futuro attraverso la cura, la responsabilità, la precauzione o la sostenibilità. Per molti aspetti la società contemporanea dipende da quanto i suoi attori e i suoi sistemi riescono ad andare al di là della prospettiva a breve termine ed impegnarsi in progetti a medio e lungo termine. La logica a breve termine delle strategie finanziarie, rese possibili grazie a certe tecnologie, ha messo in pericolo altri valori sociali molto importanti per l’economia, come la stabilità monetaria. L’esperienza della crisi ci spinge a modificare il nostro rapporto con il tempo e i modi di decisione. Si tratterebbe di trasformare le razionalità miopi di breve termine in futuri percorribili, attuare strategicamente invece
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che rispondere alle vertenze immediate o reagire alle necessità di breve periodo. 5. Una delle principali funzioni della politica è promuovere la coesione del tutto sociale, soprattutto quando ci troviamo nel mezzo di una forma di capitalismo che ha perso il suo senso di appartenenza ad una società, il suo inserimento in un contesto sociale e gli obblighi nei suoi confronti. La capacità dei mercati di governarsi da sé è una parte essenziale di quest’intelligenza diffusa che caratterizza le società moderne e funzionalmente diversificate in base alla loro expertise professionale, alla conoscenza specializzata e agli strumenti tecnologici. I sottosistemi sociali necessitano di questa autonomia dato che non vi è un vertice centrale o gerarchico in grado di controllare ogni cosa. Ebbene, questo autogoverno ha alcuni limiti, fondamentalmente quelli che derivano dagli errori del mercato e dalle eccessive esternalità negative come, per esempio, l’incompatibilità tra strategie di massimizzazione a breve termine e sostenibilità a lungo termine (Stiglitz 2010, 15). Nelle società diversificate, i sottosistemi sociali sono molto specializzati e preoccupati soltanto di ciò che li è proprio (nell’economia, la scienza, la salute o la cultura), il che pone problemi di integrazione e coordinamento generale. Vi è una proliferazione di logiche eterogene (redditività, verità, assistenza, innovazione…) che talvolta mette in pericolo la coesione sociale. È là che la politica ha una funzione ineludibile di coordinamento e integrazione. Quando determinate azioni possono avere effetti cumulativi o pongono rischi sistemici; si tratta, allora, di qualcosa abbastanza rilevante in termini sociali da non essere abbandonato nelle mani della responsabilità privata, delle persone e delle organizzazioni. Qui stanno i limiti, a mio giudizio, dell’affidare tutto ad una responsabilità sociale corporativa, per importante che essa possa essere. Se si tratta di una responsabilità “socia-
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le”, la sua definizione costituisce inevitabilmente un atto di formazione della volontà politica. La conclusione che possiamo dedurre da tutto ciò è che la doppia sfida della governance globale del capitalismo consiste nell’accorciare la distanza tra le istituzioni territoriali di regolazione e le costellazioni globali dell’economia da un lato, e, dall’altro, la distanza che ancora esiste tra i modelli burocratici tradizionali che organizzano la regolazione e la necessità di configurare modelli e processi di regolazione altamente sofisticati e navigati.
3. Governare gli spazi sconfinati I conflitti e le catastrofi hanno molti inconvenienti ma anche qualcosa di positivo: hanno una funzione integratrice perché mettono in evidenza come occorra necessariamente trovare soluzioni mondiali, qualcosa che non è possibile senza prospettive, istituzioni e norme globali. Ciò che sta avendo luogo è, infatti, una politicizzazione involontaria del rischio, perché tutti i rischi, quando sono ben compresi, spingono verso la cooperazione. I disastri sfidano l’autosufficienza dei sistemi, i limiti e le agende nazionali, condizionano le priorità ed obbligano i nemici a far delle alleanze. Agli spazi comuni minacciati corrisponde uno spazio d’azione, coordinazione e responsabilità comuni. È così che ci si rende conto del fatto che la strategia unilaterale risulta eccessivamente costosa mentre la cooperazione pone soluzioni più efficaci e durature. La cooperazione modifica la percezione dei rischi, riduce l’incertezza e fornisce informazione agli attori. In tal senso, abbiamo bisogno di sviluppare una nuova grammatica cosmopolita dei beni comuni, aumentare la sensibilità verso gli effetti dell’interdipendenza e pensare in termini di
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beni pubblici che non possono essere gestiti in modo autonomo, ma che richiedono un’azione multilaterale coordinata. La vera emergenza del nostro tempo consiste nel civilizzare o cosmopoliticizzare la globalizzazione, portando a termine una vera e propria “politica dell’umanità”. Attuare una politica dell’umanità vuol dire configurare strategie per autolimitare riflessivamente gli agenti sociali in favore del proprio interesse; si tratta, dal punto di vista culturale, di riuscire a far capire alle civiltà e alle culture la dipendenza che le vincola tra loro per definizione e l’arricchimento che implicano i processi di traduzione, scambio e ibridazione; e che, dal punto di vista politico, implica la ricerca di un nuovo modo di articolare l’interesse pubblico in un ambito la cui dimensione e significato ci sono appena noti. In questo orizzonte, benché molti continuino a pensare che i governi sono gli attori centrali della politica mondiale, vi è una crescente consapevolezza del fatto che le funzioni di governance si esercitino attraverso un insieme di forme istituzionali e che, in certi contesti, i governi non siano necessariamente gli attori più importanti (Held/McGrew 2002). Nel contempo, si sta modificando radicalmente la realtà che gli Stati affrontano. La concezione tradizionale che intendeva gli Stati come attori unitari, interessati e coesistenti in un ambiente anarchico, vede contrapporsi la teoria “realista” delle relazioni internazionali, secondo la quale gli interessi degli Stati sono predeterminati. A partire da questa concezione, gli Stati sono soltanto capaci di concepire il loro inserimento nella globalizzazione nella forma di un gioco a somma zero, conflittuale per definizione, e accettabile soltanto in un quadro rigorosamente inter-statale. Ma entrambi gli aspetti –l’autarchia e la predeterminazione dei suoi interessi – sono intimamente legati e sono stati allo stesso modo messi in questione dal momento che risulta sempre più evidente l’interdipendenza dei problemi che dovrebbero risolvere.
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È diventato evidente che lo Stato da solo (persino lo Stato più potente) non ha la dimensione critica nell’era della globalizzazione. Si tratterebbe di abbandonare l’idea di sovranità negativa (l’assenza di interferenze dall’esterno) in favore di una sovranità positiva che metta gli Stati nelle condizioni di agire e collaborare sia al loro interno che internazionalmente (Jackson 1990, 26). La logica attuale della competitività internazionale è incompatibile con il trattamento dei problemi globali e per questo motivo dobbiamo indirizzarci verso un modello di cooperazione. È un cambio di paradigma profondo dal momento che siamo abituati a pensare ad un mondo con più poli, cioè, un mondo di rapporti di forza non cooperativi. Forse l’idea d’interdipendenza, come valore sostitutivo o correttivo della sovranità, ci porterà a scoprire l’umanità intera al di là dei popoli e a convincerci che certe pratiche facilitano più di altre lo sviluppo dei beni comuni. Oggi siamo più consapevoli del fatto che risulta sempre più vantaggioso un atteggiamento convergente piuttosto di uno solitario, il quale tende ad essere più dispendioso. Nello stesso tempo, risulta sempre più difficile che la ricerca del proprio interesse non implichi dei benefici anche per altri. Queste circostanze stanno richiedendo qualcosa in più rispetto alla semplice giustapposizione degli interessi degli Stati, il che punta nella direzione di una governance globale, o se si preferisce, di una politica dell’umanità. La formula “comunità internazionale” concerne in modo ambiguo una realtà in parte compiuta: le convenzioni internazionali, il progresso del multilateralismo, l’abbondanza di organismi di portata globale. Risulta evidente anche la struttura imperfetta delle istituzioni internazionali, alcune delle quali hanno un nocciolo duro nel quale vengono prese le decisioni, mentre altri Stati restano al margine. Quindi, ciò che in realtà abbiamo, è un’integrazione incompleta in un mondo che connette l’ambito tecnologico con quello economico, anche attraverso determinati prodotti
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e stili culturali, ma che si mostra particolarmente analfabeta nella sua articolazione politica e giuridica. Contro le aspettative dei neofunzionalisti e altri, l’integrazione economica non ha generato un processo parallelo nell’ambito politico. La domanda di governance globale aumenta in proporzione alla crescita dell’interdipendenza negli ambiti economici, militari e ambientali. Queste nuove circostanze ci pressano affinché ci sia una vera dimensione politica nella cosmopoliticizzazione già esistente, che è fatta di dominio e unilateralità. Ci troviamo attualmente nella situazione di un certo vuoto politico nel quale lo Stato, come luogo tradizionale d’ordine e governo, non è in grado di gestire alcuni dei problemi fondamentali che affronta, mentre il quadro globale della governance si trova ad essere ancora debole. Delmas-Marty (2010) ha sostenuto che viviamo in un momento storico nel quale il sovranismo è sopraffatto e il pluralismo conteStato. Nel contempo, il valore dei beni pubblici non può essere stabilito efficacemente dai mercati dal momento che tali beni richiedono determinate decisioni collettive così come certi ambiti di regolazione. A causa della crescente interdipendenza dei problemi, vi è sempre una maggiore esigenza di elaborare forme transnazionali di regolazione. Si sta producendo una transizione dalle forme classiche di cooperazione intergovernativa alle istituzioni internazionali che sono più invadenti negli spazi nazionali e che pertanto richiedono nuove forme di legittimazione. Ora, la governance globale non consiste in una struttura gerarchica direttiva. Il processo di governance globale non è l’imposizione di un livello su un altro, bensì l’articolazione, fragile e conflittuale in non poche circostanze, di diversi livelli di governance. Non siamo alle porte di creare un sistema inclusivo nel quale si adottino decisioni globali e nemmeno, vista la complessità dei problemi, ciò sembra auspicabile. Al posto di
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una “worldcracy” che coordinasse i diversi compiti propri di un processo di integrazione, ci saranno molteplici istituzioni regionali che agiranno autonomamente per risolvere problemi comuni e produrre diversi beni pubblici (Schmitter 1999). Non avremo un governo mondiale ma un sistema di governance formato da accordi regolativi istituzionalizzati e procedure che richiedano determinati comportamenti senza la presenza di costituzioni scritte o di potere materiale. In questo senso, la governance può essere definita come la capacità del far sì che certe cose vengano realizzate senza tuttavia doverle imporre, ovvero, si tratta di una forma di autorevolezza più che di legislazione (Rosenau/Czempiel 1992, 250). «Ciò che mette un attore in grado di ottenere un accordo con un altro in un mondo smembrato, è una convergenza interdipendente delle sue necessità e non una specificazione costituzionale che assegni l’autorità suprema esclusivamente agli Stati e ai governi nazionali» (Rosenau 1999, 297). Il risultato di tutto ciò è più un campo di battaglia, privo di struttura, che un negoziato formale, nel quale si aprono possibilità di intervento e partecipazione ma anche forme di pressione o egemonia. Alcuni si sono mostrati scettici per quanto riguarda le possibilità di globalizzare il diritto, la solidarietà o la politica, facendo presenti le difficoltà di tali obbiettivi. Avishai Margalit, per esempio, si chiede quale elettorato possa farsi carico di tali scopi dato che il cosmo non ha politica, è privo di corpo politico, non vota e non decide (Margalit 2009). Contro questa osservazione si può affermare, innanzitutto, che non sono minori nemmeno le difficoltà della politica negli ambiti domestici, nei quali abbiamo non pochi problemi di governabilità. La politica dell’umanità non ha motivi di essere considerata più difficile rispetto, per esempio, alla politica dei cittadini nazionali, quando tali comunità non erano costituite oppure ora che le società sono più frammentate. Ma vi è, inoltre, un’obbiezione di principio contro l’idea per cui non si possa fare politica
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in un livello diverso ed inedito rispetto agli spazi già costituiti. Sicuramente la maggior parte dei problemi politici non hanno avuto un soggetto oppure una procedura per risolverli nel momento in cui sono sorti. La politica ha sempre una dimensione “costituente”; il soggetto di decisione si costituisce quando sorge un problema e non il contrario. Persino è pensabile la possibilità di una democrazia senza “demos”, come accade in certi esperimenti europei attuali. Non è vero che i processi di interdipendenza portino ad un esaurimento della politica (intesa anche nel senso di fine delle ideologie o persino della storia) come ci si auspica da parte della prospettiva neoliberale o ci si lamenta da parte del sovranismo classico. Anzi, il contrario. Se la politica è l’articolazione delle forme del vivere insieme, a livello globale abbiamo il compito di reinventare la politica in modo simile a quanto accaduto con l’invenzione delle comunità politiche lungo la storia. Ciò di cui si tratta ora sono le forme di convivenza, di organizzazione e i nostri obblighi reciproci nel contesto di profonde interdipendenze generati dalla globalizzazione. Quindi, la globalizzazione non deve essere necessariamente un processo di depoliticizzazione. Coloro che la pensano così non capiscono che le attuali sfide consistono nell’ampliare la democrazia al di là dello Stato nazione. La democratizzazione all’interno delle nostre società deve essere estesa agli spazi sconfinati e ai processi transnazionali. Abbiamo l’opportunità e la sfida di dissociare la legittimità politica dalla sua fissità degli spazi limitati. La globalizzazione pone molte costrizioni alla politica ma ciò non implica la sua fine, ma l’inizio di una nuova era politica. Come dice Beck, non è stata la politica a morire, bensì essa ha abbandonato i classici spazi nazionali delimitati per migrare verso gli scenari mondiali interdipendenti (2002, 364). Benché il regime di governance globale non sia diretto secondo
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modalità politiche tipiche degli Stati nazionali, alla politica corrisponde il compito autentico sia dell’elaborazione strutturale di tale regime che della configurazione dei corrispondenti processi di decisione.
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Epilogo
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Noi e gli Altri
In un mondo come il nostro, che è di tutti e di nessuno, di minacce condivise e beni comuni, dove la proprietà deve essere rivista e le esigenze di cooperazione sono sempre più forti; in un mondo che si apre e si protegge, che è privo di dintorni e nel quale siamo esposti allo stesso modo, frammischiati in interdipendenze e contagi, la domanda più difficile e nel contempo più esigente è: chi siamo noi? Como dobbiamo pensarci e agire coloro che abitiamo questo mondo comune? Distinguere tra noi e gli altri è una questione dirimente per determinare le nostre responsabilità, i nostri diritti e nostri doveri. Conviene partire dal riconoscere la difficoltà della questione e non ripararci in presunte evidenze, come se vi fosse una perfetta coincidenza tra noi e noi stessi. Un pregiudizio di questo genere si nasconde in non poche forme di intendere l’identità collettiva, nell’elitismo degli esperti, in certi riflessi di autoprotezione, in solidarietà che mascherano esclusioni, ma anche in una certa animosità nei confronti della rappresentanza e le mediazioni, sotto l’egida della democrazia diretta o l’autoregolazione economica. Sono esempi della forma di pensare e attuare che dà per scontata la risposta alla domanda concernente “chi siamo noi?”. Vi è una tendenza dell’essere umano a
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trascurare la contingenza negli aggruppamenti collettivi. Lungo la storia abbiamo declinato in diverso modo questa prima persona plurale: noi che apparteniamo alla medesima classe, noi che ridiamo delle stesse cose, noi che siamo uniti dalla paura, noi i compatrioti, i cosmopoliti, i rivoluzionari, i civilizzati, i nazionali, noi il popolo, noi che condividiamo gli stessi valori, che abbiamo il medesimo interesse, i contemporanei, i nostri, quelli della stessa generazione, i complici e i solidari, quelli di qui e quelli di sempre, le vittime di una tragedia o di un’ingiustizia, gli indignati, i minacciati, gli esperti, noi che abbiamo ragione, i maschi, i normali, gli ortodossi, i sani di mente, quelli che si fidano o si temono tra loro…tutte le conquiste dell’umanità sono state precedute da un interrogativo riguardo a questi aggruppamenti così evidenti che nascondono per lo più operazioni di esclusione. E se non fossimo propriamente ciò che siamo? È sempre più complesso stabilire esattamente chi siamo noi e chi sono gli altri. La parola “noi” non nomina una realtà, bensì un problema (Garcés 2011, 105). Interrogarsi intorno a chi siamo è un modo di scomodare quella prima persona plurale che tende a defilarsi dalla sua contingenza. Ogni riflessione etica e politica deve aver inizio questionando gli amministratori delle evidenze, chiedendoci se siamo tanti o pochi, quali siano le ragioni d’appartenenza e disaffezione, in virtù di quale motivo si stabilisca una frontiera con gli altri, in che modo incida il trascorrere del tempo su tale limite, quale genere di azioni occorra stabilire tra ciò che è nostro e ciò che è degli altri, che differenza sussista tra delegare e alienarsi o quali siano le condizioni della rappresentanza. È questo genere di domande scomode –chi siamo noi? Perché loro non sono dei nostri? – che ci permettono di distinguere un’attribuzione legittima da una inconfessabile, un soggetto di responsabilità e diritti contro una moltitudine alienata.
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Parlo di contingenza del noi nelle sue diverse manifestazioni perché non si tratta di sovvertire un valore stabile e trasformarlo nel suo opposto –come forse fecero in tanti, con indubbia utilità teorica, dai maestri del sospetto sino alla decostruzione – mostrando, come ironizzava Luhmann, che «questo in realtà è quello» e stabilendo con la stessa evidenza una nuova categoria risultante dall’inversione di quella che era stata dominante: gli eterodossi, l’infrastruttura, i carceri, il concreto e l’eccezione, la prossimità, il postcoloniale, la deviazione… Nemmeno a questi altri corrisponde l’evidenza che avevamo preteso per i noi tradizionali. Contingenza vuol dire, in rapporto al tema di cui ci occupiamo, che la categoria del noi continua ad essere utile e vera, ma che è nel contempo variabile, contestuale e sottoponibile ad essere riveduta. La totalità ormai risulta pensabile soltanto come «totalità polemica» (Röttgers 1983). Di fronte alle egemonie categoriali come quella di Stato nazionale, civiltà occidentale o altri spazi delimitati, l’attuale proliferazione dei contesti (percepibile nei fenomeni come l’interdipendenza, i rischi condivisi oppure l’intensificazione della mobilità e la comunicazione), conferisce alla realtà sociale una fluidità diffusa. Si sta producendo una complessità che riguarda ciò che Luhmann ha chiamato «esperienze primordiali della differenza», dualità come vicino/ lontano, proprio/improprio, familiare/estraneo, amico/nemico (1981, 195). Queste esperienze che ci orientavano richiedono ora una ridefinizione, che riguarda soprattutto la distinzione tra noi e gli altri. Tutto il mio cammino filosofico è stato una riflessione sull’intersoggettività, sul comune. La prospettiva che mi ha interessato, è quella che potremmo definire come intersoggettività decentrata: ospitalità, contingenza, dissenso, differenza, invisibilità, estraneità, dissonanza cognitiva, rischio, sono categorie che non contribuiscono al consolidamento trionfale del noi
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ma lo mettono in questione e lo contestualizzano. Penso che il problema del noi non si risolva a partire dall’idea di un’epistemologia dell’intersoggettività, così come ha provato a fare la filosofia trascendentale e i suoi epigoni, bensì in chiave sociopolitica, riuscendo a trovare qualcosa che sia veramente comune. Propongo di impostare questa vicenda partendo dalla priorità socioculturale di ciò che è comune contro la priorità metodologica di una filosofia della soggettività. Siamo “noi” perché c’è qualcosa che ci costituisce in quanto noi dal momento che c’è qualcosa che ci affligge, di cui siamo responsabili, dal momento che ci proteggiamo, condividiamo la stessa paura, siamo allo stesso modo minacciati…Una prospettiva di questo genere ci permetterebbe di superare il paradigma del consenso e il contratto per pensare al noi come un risultato di quella che è la posta in gioco. Svilupperò quest’idea modificando leggermente il noto schema di Kant che si interroga su ciò che siamo (ontologia del noi), su quanto ci è dato conoscere (epistemologia del noi), su cosa dobbiamo fare (prassi del noi) e su ciò che ci è dato sperare (convergenza del noi). Sintetizzerò le configurazioni del noi in undici figure.
I. Ontologia del noi 1. L’identità che ci costituisce Ogni qualvolta prendiamo in esame riflessivamente il concetto di noi, ci risulta meno afferrabile e più contingente. Questa contingenza della nostra identità si manifesta su due piani, che potremmo definire rispettivamente Statico e dinamico.
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Staticamente, la nostra identità non può essere concepita a partire da un’idea esclusiva e chiusa, attraverso la quale si costruiscono gli stereotipi entro i quali racchiudiamo gli estranei; tra l’altro perché il proprio si costituisce e si arricchisce anche nell’incontro continuo con ciò che gli è estraneo. Allo stesso modo, abbiamo appreso che la tradizione, a cui ciascun gruppo si richiama, è spesso il prodotto della nostalgia, della selezione e della drammatizzazione, cioè, di qualcosa che si avvicina abbastanza alla falsificazione; anche le identità collettive sono il risultato della costruzione sociale. Le identità si sono costruite molto spesso attraverso l’omologazione interna e l’espulsione dell’estraneo. Nei migliori dei casi, l’appartenenza e la delimitazione di fronte agli altri permetteva di tollerare la loro alterità all’interno trattandoli come casi speciali, come minoranze. Certamente vi era diversità, ma era organizzata intorno ad un’identità dominante ed egemonica. Questo ragionamento ha impedito di sviluppare la capacità di organizzare la coesistenza del proprio e l’estraneo nel medesimo spazio. Ciò che più contribuisce a flessibilizzare le identità è la consapevolezza del fatto che la distinzione tra noi e loro è una costruzione contingente, mobile e dai margini permeabili. Si tratta di una scoperta che contraddice la nostra naturale tendenza a fabbricare una coreografia della nostra autopoiesi. Il semplice fatto di constatare la mancanza di evidenza di qualsiasi di noi, implica una critica a quei modi di pensare che riducono le cose all’uniformità, omogeneità e consenso. Il vocabolario della descrizione e dell’analisi culturale deve essere esteso affinché vengano coinvolte le irregolarità, l’eccezione e il disaccordo. La cultura non rappresenta un’unità chiusa, qualcosa di fondamentalmente proprio, che si trova di fronte al pericolo di sfigurarsi nei suoi confini a causa della modernizzazione e dell’immigrazione. Un sistema culturale è una realtà mobile ed aperta, la cui vitalità dipende dalla capacità di
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gestire la propria pluralità interna e dialogare con l’estraneità esterna. L’asservimento dell’alterità non è un destino inesorabile; trattare con l’estraneo può essere appreso. La xenofobia non è una costruzione inevitabile della natura. L’essere umano è capace di rompere l’identità tautologica e mettere in gioco la capacità di relazione, di dar forma all’autenticità in espressioni che possano essere riconosciute da altri. La maturità, nell’ambito personale e sociale, potrebbe essere intesa come la presa di coscienza del fatto che la propria singolarità, come la scoperta del fatto che le nostre forme di intendere il mondo, o di agire su di esso, sono contingenti e, da certi punti di vista o per alcune persone, strane e persino ridicole. La “spettrologia” di Derrida (1993) ha posto questa contingenza del noi in modo molto originale. Di fronte all’identità trionfante, la presenza di “fantasmi”, cioè, di qualcosa che destabilizza il nostro presente, mette in questione l’ovvietà delle nostre distinzioni noi/loro, vivo/morto, presente/assente. Il fantasma è ciò che impedisce al presente –all’unità, all’identità – di chiudersi su se stesso; è la traccia di tale apertura, il luogo in cui appare il non-presente, l’alterità che risiede nel presente e che mette sotto accusa la sua sovranità. In tale instabilità abita, secondo Derrida, la promessa e la speranza in rapporto a ciò che può arrivare senza essere Stato progettato. Non si tratta di una possibilità, comunque incerta e non garantita, di una pienezza attualizzabile –così come ritiene Bloch – ma di impedire che un tale ordine si ponga in modo assoluto, insabbiando ciò che stona, chiudendo con le sue risposte l’apertura alla domanda. Questa speranza non è il superamento della morte e il trionfo della vita, bensì l’esperienza di una vita lambita dalla morte. Questa è l’unica concezione del noi che mi sembra legittima: quella di un noi mai pieno e padrone di se stesso, esposto sem-
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pre al visitatore, minato dall’alterità, abitato dagli ospiti. Riconoscere questa “imperfezione” che ci costituisce, è l’unico modo di impedire che il noi si totalizzi in un compiacimento escludente.
2. Le storie che siamo L’altro aspetto della contingenza del noi al quale vorrei riferirmi è piuttosto dinamico e cercherebbe di rispondere alla domanda che riguarda il come siamo arrivati ad essere ciò che siamo. Anche da questa prospettiva temporale, la nostra tendenza “naturale” ci porta a misconoscere la mancanza di necessità storica del noi che risultiamo essere. Contingenza significa qui che la nostra identità non è logica o nomologica, e nemmeno intenzionale, ma piuttosto il risultato di un’eccezione o di una singolarizzazione. Detto in modo provocatorio: siamo ciò che siamo perché non siamo riusciti ad essere ciò che volevamo essere. È ciò che rimarcava Paul Valéry quando si lamentava del fatto che non fosse possibile far niente senza che il tutto si metta in mezzo. Le identità dei soggetti e le particolarità dei popoli non sono dovute alla persistenza di una volontà di essere tali. L’identità non è il risultato di un’azione ma di una storia, ovvero, di un processo sviluppato sotto le condizioni che agiscono improvvisamente di fronte alle proprie pretese. Alla domanda storica “come è arrivato qualcuno ad essere ciò che attualmente è?” diretta a paesi, città o persone, si risponde solitamente con un’espressione di questo genere: «ciò può essere spiegato soltanto storicamente». Cosa significa che qualcosa risulta spiegabile soltanto attraverso la sua storia? (Lübbe 1973). Siamo ciò che siamo perché vi è stato qualche incidente, perché qualcosa ha impedito che accadesse il pre-
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vedibile oppure ha contraStato la nostra intenzione. Questa è la dimensione narrativa della storia, dove compaiono caratteristiche anomale e combinazioni singolari. Raccontiamo storie perché non siamo ciò che volevamo essere o ciò che si sperava dover essere. A partire da queste considerazioni si può capire quale sia la giustificazione del fatto che rivediamo in continuazione il nostro passato e riscriviamo la storia senza tollerare il fatto che essa si reifichi o si consegni all’illusione del definitivo. La ricerca storica è trainata dai cambi identitari dei soggetti che la compiono, in modo tale che l’identità propria e quella estranea tornino ad essere ridefinite in rapporto a tali modificazioni. Riscriviamo la nostra storia e quella degli altri perché la rappresentazione dell’identità –tanto la nostra quanto quella degli altri – è una funzione della nostra storia, attraverso la quale otteniamo la nostra propria identità. Le storie che raccontiamo devono restare aperte al cambiamento in quanto mutano le storie aperte che noi siamo. E a partire da questa prospettiva si capisce anche quali siano le condizioni che rendono sopportabile e legittima la nostra identificazione affettiva con un noi. Il patriottismo è per sua natura instabile. Il patriottismo si distende in una certa durata e quindi tende ad includere una riconsiderazione della propria storia. Ma tale durata è labile. Il problema del patriottismo è sempre la sua detautologizzazione (Fuchs 1991/2), la sua traduzione in situazioni concrete. Un patriota è nel medesimo posto nella misura in cui si muove, adattandosi così alla temporalizzazione di una società che diventa più complessa. In questo modo diventa evidente l’artificiosità della costruzione di qualsiasi noi con il quale poter identificarci. Occorre un’enorme coscienza liberale per saper far parte di una comunità che è la nostra, nella quale possiamo identificarci o difendere il suo diritto di disporre liberamente del proprio
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destino, e, nel contempo, essere consapevoli dell’artificiosità della sua costruzione, della sua non necessità, del suo coinvolgimento nel destino di altri.
3. Nativi e immigrati Non bisogna essere particolarmente critici o scettici per sapere che la percezione che abbiamo delle cose non è sempre corretta. Nel caso dell’immigrazione, fenomeno attraverso il quale si configura l’identità dei nativi e degli estranei, vi sono due motivi di confusione che, senza la cui rivisitazione, non si può rispondere adeguatamente alla domanda su chi siamo noi: tendiamo a pensare che l’immigrazione ponga un grave problema economico alle società che accolgono, e che l’influenza si muova in una sola direzione, ovvero che siano “loro”, gli immigrati, che condizionano “noi”; entrambe le questioni promuovono certe inquietudini. E se anche su tale aspetto valesse il principio per cui ciò non è come appare? A giudicare da certi discorsi, alcuni dei quali molto redditizi elettoralmente, siamo sommersi da un’ondata di immigrazione massiva. In tale affermazione, come in tante altre questioni, ci sono pochi numeri e molti fantasmi. Uno di questi si riferisce al costo dell’immigrazione, cioè all’aumento della spesa sociale e alla disoccupazione che provoca. Conviene affrontare questo pregiudizio e non fondare tutta l’argomentazione su ragioni umanitarie. Gli argomenti economici non hanno il prestigio delle ragioni morali, ma non dovremmo sprezzarli nel momento in cui fissiamo i nostri compiti di giustizia. Può darsi che la xenofobia, oltre ad essere eticamente ingiustificabile, sia anche economicamente fallimentare. Possiamo affermare che gli immigrati siano i responsabili della disoccupazione? I sondaggi mettono in luce che la maggior
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parte della gente ritiene positiva tale affermazione. Gli economisti, per contro, sono relativamente d’accordo –cosa piuttosto poco comune – nella tesi opposta (Chojnicki/Rago 2012). L’immigrazione ha un impatto molto basso sul tasso di disoccupazione dei nativi. Vi è l’impressione che il peso dell’immigrazione nel dibattito pubblico è inversamente proporzionale al suo impatto economico, il quale invece è relativamente neutro. L’immigrazione è solitamente presentata come un incremento dell’offerta di manodopera nel mercato del lavoro. L’immigrazione, quindi, dovrebbe spingere al ribasso i salari dal momento che aumenta il livello di concorrenza tra i lavoratori “sostituibili”. Ma questo tipo di ragionamento è molto semplice e non tiene conto della complessità del fenomeno. Innanzitutto, l’immigrazione agisce sull’offerta ma anche sulla domanda. Gli immigrati contribuiscono ad aumentare la domanda finale di beni e servizi, il che stimola l’attività economica e, quindi, l’impiego. Gli immigrati si trovano piuttosto in un rapporto complementare più che sostitutivo con i nativi (la rivalità è più presente tra vecchi e nuovi immigrati). Un altro pregiudizio simile fa riferimento al presunto peso che gli immigrati rappresentano per le finanze pubbliche. Il nostro sistema di protezione sociale è ascendente, cioè, implica un trasferimento dei giovani verso gli adulti, in particolar modo verso i pensionati. I due ambiti della protezione sociale attraverso cui si assiste fondamentalmente agli anziani –la sanità e le pensioni – rappresentano oggigiorno circa l’80 % della spesa sociale, mentre gli immigrati si collocano nelle fasce d’età più attive. Il fatto che gli immigrati aumentino certi costi sociali si riequilibra abbondantemente per il fatto che essi si trovano per lo più in un’età nella quale si paga più di quanto si riceve dal sistema di redistribuzione. Occorre ricordare anche che gli immigrati partecipano anche al finanziamento della
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protezione sociale attraverso i loro contributi. In una pura logica contabile si potrebbe valutare la loro contribuzione netta (la differenza tra i contributi e le prestazioni), il che permetterebbe di chiedersi riguardo agli eventuali benefici di una riduzione dell’immigrazione, così come talvolta si propugna. Certamente, meno immigrazione implica meno spesa sociale, ma anche e soprattutto meno contributi. In ogni caso, un inasprimento della politica migratoria non aiuterebbe a risolvere i nostri problemi di deficit budgetari. D’altro canto, se gli immigrati rischiano di costituire un maggiore un aumento delle spese derivate dall’indennità di disoccupazione o dai salari sociali, spendono molto di meno dei nativi in tutto ciò che riguarda la salute o la vecchiaia. In ogni caso, se portassimo all’estremo la logica di escludere coloro che costituiscono la maggiore spesa per il sistema di protezione sociale, bisognerebbe mettere sotto accusa anche i disoccupati, i disabili e i malati, il che metterebbe in dubbio il concetto stesso di giustizia sociale. Nei sentimenti che provoca l’immigrazione, e in buona parte dei discorsi dominanti, vi sono altri luoghi comuni che ci impediscono di vedere una parte di realtà. Per esempio, considerarla come una potente minaccia contro la nostra presunta fragile identità. Si parla sempre dell’influenza che gli immigrati hanno sull’identità e sulla cultura che gli accoglie, con timore oppure celebrando la nuova diversità, ma appena si prende in considerazione l’influenza nel verso opposto. La questione che si pone è se l’immigrazione, unita ad una debole natalità, consentirà alle società europee di mantenere la propria identità, dato che le nostre città, si dice, si assomigliano sempre di più a quelle africane o asiatiche. Sia l’ideologia xenofoba che teme la perdita della propria identità e il “rimpiazzamento etnico”, sia l’atteggiamento liberale che, con le migliori intenzioni, difende “l’integrazione” di coloro che arrivano,
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considerano l’immigrazione come un fenomeno che agisce sul paese d’accoglienza ma appena riflettono sull’influenza che l’immigrazione ha nei paesi e le culture d’origine. E se, così come loro condizionano noi, allo stesso modo noi influenzassimo loro? Perché non considerare che l’immigrazione, lungi dall’indebolire la nostra identità, è un mezzo per estendere i nostri valori nel mondo? Innanzitutto, è singolare che tali timori ci impediscano di vedere la radicale asimmetria che caratterizza il fenomeno dell’immigrazione. Sembra che si siano invertite le parti tra il forte il debole, e le minacce provenissero dall’elemento indubbiamente più fragile della relazione. In primo luogo, gli immigrati sono, generalmente, una minoranza nelle società d’accoglienza e sono più esposti alla cultura dei nativi di quanto questi siano esposti a quella degli immigrati. In secondo luogo, gli immigrati, da un punto di vista economico, sociale e politico, costituiscono un gruppo dominato più che dominante, e la loro influenza sulla cultura della società che li accoglie è molto minore rispetto al senso inverso. Per tali ragioni, ci sono ragioni più che sufficienti per pensare che chi sarà più condizionato dall’incontro è colui che arriva e non chi accoglie. Gli immigrati sono continuamente esposti alle idee, ai valori e alla pratiche della società in cui vivono, in modo tale che possono farli propri e trasmetterli alle loro comunità d’origine. La questione non è tanto se si modifica l’identità della società d’accoglienza, ma piuttosto sapere in che misura, attraverso gli immigrati, le società d’origine sono esposte ai valori che fondano l’identità delle società d’accoglienza. Dovremmo, quindi, considerare l’immigrazione come un processo a doppio senso, che porta alla società d’origine degli immigrati un certo numero di elementi mutuati dalla società d’accoglienza. Viste le cose in questo modo, gli immigrati non sarebbero soltanto
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portatori di valori e pratiche non occidentali nei paesi occidentali, ma anche, in senso opposto, canali, attraverso i quali, i valori e le pratiche occidentali sono diffusi in altri luoghi del mondo. Gli immigrati non soltanto inviano denaro, ma anche idee e modelli di comportamento. Dato che gli immigrati sono spesso considerati, nei loro paesi d’origine, persone che hanno avuto successo, quelle società possono aprirsi quindi a valori e pratiche che hanno generato tale successo. In modo tale che l’immigrazione possa essere uno strumento d’influenza e diffusione culturale in una direzione che abitualmente non si prende in considerazione. Ciò che ci impedisce di capire il fenomeno dell’immigrazione in tutta la sua complessità e le sue sfumature è il fatto che ancora manteniamo una concezione Statica delle culture e le società. Integrazione o sostituzione sono i due termini che cercano di spiegare il rapporto tra due culture che si urtano nella medesima direzione. Conservatori e liberali tendono a pensare che le differenze culturali si tramandano attraverso le generazioni, permettendo che le popolazioni toccate possano riprodursi indipendentemente le une dalle altre. Non tengono in conto la bidirezionalità delle loro influenze e dei fenomeni di meticciato, come l’esogamia che tende ad aumentare con il tempo. Classificare le persone come native o straniere finisce per essere una cesura arbitraria in un continuum nel quale non vi sono due popolazioni, bensì una costituita da persone che presentano un gran numero di combinazioni possibili in termini di origini. Dato il dinamismo e la permeabilità delle società attuali, l’attribuzione ad un solo gruppo sarà sempre più l’eccezione che la regola. Esaminare il fenomeno dell’immigrazione in tutta la sua complessità è il modo migliore di far tacere certi luoghi comuni. Perché dietro ai pregiudizi vi è normalmente una realtà che non si è ancora capita.
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4. I limiti della comunità L’esplosione della complessità mette in moto il desiderio di ridurla entro una dimensione che si possa capire e governare. Bisogna prevedere sempre una restaurazione di ciò che è perduto e una stilizzazione di una protesta malinconica di fronte alla crescente estraneità delle realtà sociali; è possibile anche costruire enclave comunitarie di senso, composte da conferme reciproche e senza alcuna problematizzazione. La contrapposizione archetipica di Tönnies (1887) tra comunità e società –con i suoi dualismi tipici: organismo contro dispositivo, comprensione contro contratto – pone un’antinomia esemplare della politica nella modernità, almeno dall’impianto romantico. In continuità con quest’impostazione, il concetto husserliano di “mondo della vita” diventò, a partire dal 1926, il controcampo delle agitazioni sociali. Probabilmente, la suggestione che esercita sia dovuta al fatto che la sua semplice nominazione apre un ambito di familiarità e affidabilità, un grembo protettivo. Simbolizza l’opposto di tutto ciò che vi è di complesso e di estraneo nella struttura sociale, promettendo un mondo equilibrato in mezzo alla confusione del sistema sociale. Di fronte all’artificio contrattuale, la comunità è il luogo popolato dalle raffigurazioni dei noi enfatici, dei vincoli e le identificazioni originarie. Ma non è possibile chiudere il vaso di Pandora e immaginare una configurazione più semplice del mondo. Le società moderne non devono la sua forza a caratteri identitari, ma alla resistenza contro l’ipostasi di una familiarità perduta così come contro la determinazione definitiva del campo sociale. Se una società vuole rimanere libera, deve rifiutare qualsiasi unità totalizzante tra il rappresentante e ciò che viene rappresentato. Prendendo per esempio la Dichiarazione d’Indipendenza americana, Derrida ha mostrato il carattere circolare e con-
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tradditorio dei documenti costituzionali, nei quali un “popolo” firma una costituzione, costituendosi come un soggetto unitario attraverso tale firma. Ebbene, il popolo non esiste prima del suo atto di fondazione, atto che precede il popolo come istanza autorizzante. È un fatto talmente strano che il popolo, attraverso la sua firma, viene al mondo come soggetto libero e indipendente, come possibile firmante. Firmando si autorizza a firmare (1980, 66). Nel noi riunito nell’atto della fondazione si maschera un’eterogeneità originaria. Il popolo è un soggetto decretante e nel contempo anche un ammasso empirico di individui ancora dispersi; è promulgatore di una legge alla quale esso stesso si sottopone. L’irripetibile e finta fondazione non rappresenta altro che l’iniziale non-identità che si divide in una continua interazione. Quest’identità impossibile ricorda che la fondazione non è chiusa una volta per tutte, che il comune non è né originario né presente, né previo né deducibile, ma qualcosa continuamente dislocato, prorogato, rimandato. L’eterogeneità della comunità, che fonda se stessa, è costretta a ripetere, ancora una volta, la propria fondazione. «Il soggetto collettivo è sempre in uno Stato di continua autocostituzione e il giudizio che emetterà avrà un effetto riflesso sull’identità propria di una comunità» (Beiner 1983, 143). All’interno di qualsiasi ordine costituzionale, di ogni convivenza democratica, vi è un noi inconsistente, uno squarcio e una contraddizione, che continuamente ridisegna in modo provvisorio le dimensione dell’inclusione e dell’esclusione. Per ciò, il politico non può essere monopolizzato dalle realtà istituzionali, dall’organizzazione della società e dalla statualità ritualizzata. Il politico è piuttosto il luogo in cui una società agisce su se stessa e rinnova le forme dello spazio pubblico comune. La società non è sorta nel tracollo della comunità, non vi è una spartizione originaria né una prima unificazione, né innocenza perduta della vita collettiva o di un’istituzione iniziale. Ciò non vuol dire che il noi non esista in assoluto, ma piuttosto esso
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ha una dimensione instabile, una realtà aperta e modificabile, sottratta dagli esseri umani alle assegnazioni del destino e posta nell’ambito dell’uso che facciamo della nostra libertà.
II. Epistemologia del noi 5. Il familiare e lo strano Il noi ha anche una dimensione epistemologica: noi siamo coloro che sappiamo qualcosa contro quelli che non sanno, quelli che capiamo qualcosa che gli altri non comprendono, quelli a cui certe cose risultano familiari ed altre estranee, oppure abbiamo un’abilità specifica che ci differenzia. La regione epistemologica del noi si è formata in diversi modi e ha il suo contrario nello strano, negli inesperti, o nel ridicolo. Le comunità umane hanno sempre fatto resistenza nel riconoscere la propria contingenza, come se tale riconoscimento le esponesse ad un’intemperie morale. Ogni sistema culturale si ribella contro la propria contingenza producendo strumenti per confermare la propria identità. Inni, feste, genealogie e diritti costituiscono rituali per compensare una necessità inesistente e fornire degli schemi scevri di qualsiasi arbitrarietà, grazie ai quali alcune pratiche vengono dotate di evidenza e normalità. Un altro mezzo preponderante per questo rafforzamento interno è l’allontanamento dagli altri, la cui alterità è rivestita da un stranezza incomprensibile. Affinché la propria forma di vita sembri naturale vengono emarginate altre forme, sino a considerarle persino riprovevoli. A volte, tale emarginazione è quasi offensiva, così come risulta evidente in ciò che consideriamo ridicolo, o che addirittura deridiamo. Forse, questo
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spiega l’abbondanza di barzellette che risultano dalla frammentazione del mondo, come malintesi interculturali o disprezzi tribali (non vi è paese o località che non abbia creato una geografia immaginaria –perlopiù riguardante il più vicino – che funge da scenario dove accade il ridicolo). I sistemi sociali si sviluppano in un ambito familiare che è sempre estraneo per gli altri. Ebbene, la dimensione di ciò che è familiare, è mobile perché ci sono processi di estraniamento, di perdita dell’evidenza, della fiducia e della familiarità. Mentre nelle società arcaiche l’ambito del familiare aveva la medesima estensione della stessa società conosciuta e l’estraneo era tutto ciò che non si lasciava ridurre a tale ambito, nelle condizioni moderne succede che l’estraneo è sempre più socialmente presente. Non è più necessario abbandonare la società per trapassare i limite del noto; esistono familiarità esclusive, come lo spazio della privacy, e dimensioni sconosciute alle quali potremmo accedere attraverso la ricerca o il viaggio; abbiamo a che fare con congegni sofisticati grazie alla fiducia nel fatto che per alcuni esperti non sono realtà enigmatiche. La distinzione tra il familiare e lo strano è così labile quanto l’osservazione; sappiamo inoltre che il familiare non è una dimensione ontologica bensì culturale, che è familiare da un certo punto di vista ma estranea dall’altro. Conosciamo a partire da una situazione, inseriti in una determinata comunità di formazione, ma la ragione conosce anche tale condizione e può in certa misura trascenderla. La costruzione di una certa distanza di fronte al proprio ci permette di osservare dal di fuori la propria situazione. È lo schema tradizionale delle Lettre persanes de Montesquieu, a cui segue una lunga tradizione letteraria nella quale il narratore adotta un’extraterritorialità, come quella di colui che ritorna, del bambino, del malato, del disadattato…Ciò che è ragionevole è istituire delle forme di rapporto con il mondo che possano annoverare
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una pluralità di prospettive stabilendo così nuove opportunità per l’esercizio della tolleranza che Luhmann e Fuchs hanno riassunto con l’espressione «incongruenza coltivata» (1989, 223). È umana soltanto un’identità che permetta la presenza dell’incongruente, che prenda in considerazione ciò che altri dicono di se stessa, che si preoccupi delle esclusioni che potrebbe provocare, che sia in grado di pensarsi in modo diverso da com’è, che sappia ridere di se stessa. Prendere in considerazione l’estraneo significa sviluppare uno sguardo speciale nei confronti delle cesure e dei paradossi che, nonostante tutto, abitano l’evidente. L’esperienza culturale dell’estraneo implica sempre un confronto con le possibili alternative della propria vita e provoca una messa alla prova del proprio. L’estraneo è un serbatoio per arricchire e correggere i limiti delle proprie posizioni. In questo senso, le utilità epistemologiche del comico vengono date a partire dalla conoscenza della propria relatività, dall’esperienza del fatto che qualcosa di ritenuto valido non lo è per sempre, o in un altro contesto. Il comico è sempre una certa relativizzazione dei criteri dominanti, una piccola sovversione; la misura di ciò che è corretto non è assolutamente stabile, ma culturale e storicamente variabile. Ciò si può osservare nell’esempio di quella persona che assiste al funerale di un morto in un paese vicino e chiede: qui si piange già nella casa del deceduto oppure si aspetta al cimitero? Lo strumento per escludere o ridicolizzare, quindi, messo al servizio dell’autorrelativizzazione, è molto utile anche nel momento di gestire la propria contingenza. Qualsiasi aggruppamento è sempre minacciato dalla possibilità di sembrare ridicola in una qualche prospettiva.
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6. Coloro che sanno e gli inesperti Quello degli esperti è un noi epistemologico a partire dal quale si è articolato da sempre il potere e l’esclusione. Ce lo rammentano le élites nei momenti delle grandi decisioni, ma anche l’esperienza quotidiana (“può essere aperto solo da un esperto”; “consulti il farmacista” ecc.). L’autorità degli esperti è invocata per legittimare un’azione, il che implica solitamente sminuire o escludere coloro che non sono tali. Così come tante altre differenze che ho preso in considerazione, quella che sussiste tra coloro che sanno e i profani, non ha mai smesso di esistere; tuttavia, in una società democratica, questa differenza è continuamente richiesta per accreditare la propria legittimazione ed è assalita dall’aspirazione degli altri di essere ascoltati e poter partecipare. L’attuale discussione pubblica sui temi scientifici, per esempio, non implica che le competenze scientifiche abbiano smesso di avere senso, ma che la distinzione tra coloro che stanno dentro del campo scientifico e quelli che stanno fuori si è smussata. Non siamo più nell’epoca in cui gli esperti parlavano di dati incontrovertibili e grazie al loro sapere si chiudeva ogni controversia. In una società della conoscenza, la gente possiede più capacità cognitive. Sorgono nuove organizzazioni e gruppi d’interesse che contribuiscono ad indebolire l’autorità degli esperti. Ciò che in un passato fu un potere essoterico del sapere, ora è pubblicamente dibattuto, controllato e regolato. L’obbiettivo di una democrazia della conoscenza consiste nel trattare tutti come cittadini ugualmente responsabili delle decisioni politiche, senza che questo implichi annullare il loro diverso grado di competenza. Quindi, il nostro grande problema consiste in come portare a termine la reintegrazione sociale della scienza, nel momento in cui sappiamo che sono in gioco questioni troppo importanti da essere lasciate soltanto in mano agli specialisti. Nei nostri
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esperimenti collettivi non funziona quella divisione del lavoro nella quale aveva senso la figura dell’esperto come mediatore tra la produzione del sapere e la società. Grazie alla nuove tecnologie dell’informazione e la comunicazione viviamo una sorta di “sagra dell’amateur”, una società di dilettanti, una democratizzazione senza competenze (Flichy 2010). Senza necessità di permessi e istruzioni, la nuova figura del cittadino è quella di un amateur che si informa da se, esprime apertamente la sua opinione e sviluppa nuove forme di impegno; e quindi diffida sia degli esperti che dei rappresentanti. L’intelligenza diffusa sfida gli esperti, nella misura in cui, innanzitutto, mette in grado chiunque di accedere alla conoscenza. In una società della conoscenza aumenta il livello medio del sapere, la libera circolazione dell’informazione, la capacità di comunicare le proprie opinioni. Per questa ragione, la nuova circolazione di conoscenze e competenze ha un grande potenziale democratizzante. La democrazia sorse proprio contro il monopolio del potere e come un’universalizzazione dei requisiti per governare; questa nuova democratizzazione si basa ora nel fatto che le innovazioni tecnologiche permettono a chiunque di acquisire ruoli di vigilanza, controllo e giudizio in ogni momento. In una società della conoscenza, gli Stati non hanno più di fronte una massa informe di inesperti ma un’intelligenza diffusa, una cittadinanza più esigente e un’umanità osservatrice, della quale formano parte una grande numero di organismi internazionali che non valutano soltanto, ma che dispongono spesso di un sapere maggiore e migliore degli Stati. Detto senza eufemismi: colui che comanda non è colui che sa di più. In ogni caso, e anche per ragioni epistemologiche, è importante che la scienza non screditi le spinte e i malumori proveniente dal suo “fuori” come l’ignoranza o l’isteria. Può darsi che
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nemmeno gli esperti siano quelli che più sanno di più e che, trattandosi di questioni epistemologiche, sarebbe opportuno che vi fosse una maggiore porosità nel confine che divide i saggi dai profani.
III. Le prassi del noi 7. I nostri beni comuni Se la verità è difficilmente patrimonializzabile da un noi erettosi a casta di esperti, qualcosa di simile accade con il bene, se non altro per il fatto che, in un mondo con destini condivisi, di contagi e vulnerabilità comuni, è sempre più complicato intendere il bene come proprietà di qualcuno in concreto, in maniera esclusiva. Innanzitutto, una società complessa, nella quale vi è un pluralismo profondo e inconvertibile, non permette una definizione sostanzialistica del bene comune. La subordinazione di tutti gli egoismi individuali ad un “bene d’insieme” è qualcosa che non si produce in modo intuitivo e automatico. Si potrebbe dire che questa ambiguità è costitutiva delle nostre società e che la politica sia proprio l’articolazione di questo spazio di discussione, che non è più tutelato da nessuna autorità indiscutibile, e che quindi è protetto da qualsiasi tentativo di monopolizzazione. Nessuno dispone di un monopolio interpretativo riguardo al bene comune né rappresenta immancabilmente tutti. In ultima istanza, si tratta di un principio che, più che giustificare, limita, ostacolando che in prima battuta qualcuno si possa appropriare dell’interesse generale, dell’universalità. Esercita, per così dire, la funzione di tenere sott’occhio la totalità sociale impedendo che qualcuno se ne impadroni-
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sca. Ogni determinazione concreta del bene comune implica inevitabilmente un qualche tipo di inclusione ed esclusione (il noi, infatti, non coincide solitamente con il tutti) che è opportuno riconoscere proprio per rendere possibile la rettifica. Ci troviamo in un momento storico in cui l’ampliamento del proprio interesse risulta particolarmente necessario. Il bene comune ha perso il suo riferimento fisso in un quadro stabile di identificazione e gestione, come poteva essere l’ambito dello Stato nazionale o quello di una comunità chiaramente delimitata; eccede e si particolarizza, nel contempo in cui aumentano e si scompongono i soggetti ai quali si riferisce. Vi sono movimenti che ci impegnano a considerare che in realtà siamo più di quelli che siamo (immigrazione, processi di integrazione in spazi politici più ampi, globalizzazione), mentre, in altre occasioni, ci troviamo di fronte all’esigenza di singolarizzare e prenderci cura di una pluralità trascurata (processi di decentralizzazione, attenzione verso le minoranze, discriminazioni positive). Le sfide globali hanno indebolito fortemente la distinzione tra il qui e il lì, tra noi e loro, tra ora e dopo. Per ciò risulta tanto difficile quanto urgente ridimensionare e rendere operante il concetto di bene comune. L’identificazione del noi beneficiario è particolarmente difficile in spazi fluidi, transnazionali, non isolati e non circoscritti da limiti incontrovertibili di enclave comunitarie o statali. Vi sono sempre altri che possono contestare gli effetti negativi del nostro bene comune (obbligo di giustificazione esterna) e vi è sempre più una maggiore pluralità interna delle unità sociali di misura, per cui risulta più difficile raggiungere un consenso (differenziazione interna). Il comune non è qualcosa di incontrovertibile, bensì costituisce una dimensione contestualizzata ed elastica, come il limite entro il quale definiamo chi sono i nostri.
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La domanda che Claus Offe (2001) poneva con intento critico: per chi è buono il bene comune? Cioè, di che genere di comunità stiamo parlando? chi fa parte dei beneficiari? Sono domande che oggi si possono declinare in un altro modo, indicando una risposta nei beni comuni dell’umanità che beneficiano agli uni come agli altri, così come nemmeno le minacce fanno distinzioni e preferenze. La presenza di questi beni comuni fa sì che abbia sempre meno senso considerare il clima, la stabilità finanziaria o la sicurezza, come beni di alcuni, raggiungibili a danno di un terzo. Nell’era delle interdipendenze crescenti continuano ad esserci interessi esclusivi, certamente, ma l’intrecciarsi dei destini collettivi impedisce di definire il nostro bene come un male altrui, oppure pensare che si possa raggiungere il proprio bene senza promuovere, seppure in modo collaterale e involontario, anche quello degli altri.
8. Chi è il nostro prossimo? Si è insediato nel linguaggio comune il termine “complicità”, (che sinora stava ad indicare cospirazione, collaborazione, intrigo o insabbiamento nei confronti di un crimine), come una parola innocente che indica un simpatico cameratismo. Questo slittamento può tradire la vicinanza che, nonostante tutto, esiste tra la solidarietà e la confabulazione, così come non poche volte il noi si costituisce contro gli altri, gli amici sono tali perché condividono nemici e non vi è coalizione senza esclusione. Qualcosa di simile può accadere all’attuale esaltazione della prossimità, che ha il prestigio incontestabile della sua notorietà morale e religiosa –i doveri verso il prossimo o il valore della vicinanza-, ma che, in un’epoca di interdipendenza, annullamento delle distanze e immediatezza comunicativa,
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lascia il dubbio sul fatto se non sia insufficiente, una specie di complicità con i simili basata sulla discriminazione dei differenti e gli emarginati, nei confronti dei quali, comunque, sono aumentate le interazioni e quindi i doveri. Il corso della prossimità si mette in evidenza nel fatto che proliferano gli appelli al valore della vicinanza contro ciò che lontano, del concreto e la differenza contro l’universale e l’astratto. Le relazioni di prossimità correggono la verticalità delle relazioni e delle regole sociali impersonali, giudicate spesso troppo generiche. Per capire in che misura questo punto di vista implichi una novità bisogna tenere conto che, sino a non molto tempo fa, la prossimità provocava diffidenza. La prossimità ha sempre evocato privilegi e disuguaglianze, arbitrarietà e favoritismi. I miti fondatori della modernizzazione hanno funzionato secondo una logica inversamente proporzionale a quella che osserviamo oggi: la modernità veniva dal centro, la distanza era sinonimo di imparzialità, efficacia e legittimità. In questo contesto, è molto indicativo, rispetto alle attuali trasformazioni, il fatto che certe politiche pubbliche che si sono costituite storicamente contro il “locale” (la polizia, la giustizia o l’educazione) mettano ora l’accento sulla prossimità. Ma anche la prossimità ha molto di artificioso. Dobbiamo ricordare che la prossimità non è semplicemente qualcosa di dato ma una costruzione sociale e, molte volte, si riduce ad un’impressione di prossimità prodotta dagli attori che portano a termine con successo le proprie strategie di avvicinamento. Per ciò non è strano che vi siano esperti e aziende specializzate in produrla. Gli usi e riti della prossimità ci portano talvolta a confondere la prossimità con la notorietà e la visibilità, con la suggestione di prossimità costruita dai media. Vi è un “effetto” di prossimità che è semplice messa in scena, costruzione mediatica, finta vicinanza, soprattutto a partire dal momento
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in cui può prodursi senza la presenza fisica effettiva attraverso i mezzi di comunicazione. D’altro canto, la prossimità non è una grandezza fisica o una dimensione indiscussa, particolarmente nei nostri spazi virtualizzati e mediatici, senza determinismo territoriale, in un mondo globalizzato e sempre più mobile. Buona parte degli scontri sociali sono condotti per pretendere la prossimità e la sua definizione. La prossimità è diventata l’ideologia centrale per la quale molteplici attori lavorano alla loro legittimazione. Ma, cos’è, propriamente parlando, il più prossimo? Come si definisce la vicinanza e la distanza? Coloro che lavorano a favore della prossimità non dovrebbero comunque dimenticare che, nella nuova configurazione degli spazi sociali, la prossimità non si traduce con la soppressione della distanza, e che vi sono cose vicine che sono lontane e prossimità molto distanti.
9. Noi, i contemporanei Se, da un punto di vista spaziale, la categoria della prossimità risulta discutibile, qualcosa di simile accade ad un prospettiva temporale. Non sarà che questa preferenza per la prossimità fa parte di una fissazione del presente che stabilisce una coalizione dei viventi contro i diritti delle generazioni future? Non saremmo quindi di fronte ad una versione temporale del privilegio che alcuni vogliono compiere sul piano spaziale, di una specie di colonialismo temporale? In entrambi i casi si stabilisce una complicità del noi sulle spalle di un terzo: se nell’esclusivismo degli spazi si trattava di chi veniva da fuori, nell’imperialismo temporale è colui che viene dopo che si fa carico delle spese della nostra distinzione. L’esternalizzazione degli impatti del presente in un futuro che non ci riguarderebbe diventa una vera e propria irresponsabilità. Vi è una specie
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di impunità nell’ambito temporale del futuro, un consumo irresponsabile del tempo o un esproprio del futuro altrui. Noi, i contemporanei, siamo degli occupanti abusivi del futuro. Stiamo portando a termine ciò che Alexander Kluge ha chiamato «un attacco del presente al resto del tempo». Quanto più viviamo per il nostro proprio presente, meno saremo in grado di comprendere e rispettare gli “ora” degli altri. Quando i contesti d’azione si estendono nello spazio, sino a condizionare le persone che si trovano agli antipodi del mondo, e nel tempo, influendo nel futuro di altri vicini o lontani, allora vi sono molti concetti e pratiche che richiedono di essere profondamente rivisti. Questo intreccio, spaziale ma anche temporale, deve essere preso in considerazione riflessivamente, il che significa rendere trasparenti i condizionamenti espliciti e convertirli in oggetto di processi democratici. Una delle esigenze etiche e politiche fondamentali consiste proprio nell’ampliare l’orizzonte temporale. Detto in sintesi: smettere di considerare il futuro come il cassonetto del presente, come «spazio di discarica» (Koselleck), luogo dove si dislocano i problemi non risolti e in modo tale da lenire così il presente. La constatazione del fatto che i destini delle generazioni sono tanto intrecciati quanto gli spazi della mondializzazione mette in questione il nostro insediamento del futuro. Se la responsabilità rispetto al futuro è diventata un acuto problema è perché ha avuto luogo un’espansione degli scenari futuri di cui dobbiamo tenere conto nelle nostre attuali decisioni e pianificazioni. Non vi è un noi legittimo se non si prendono in considerazione, con criteri di giustizia, i trasferimenti che si compiono da una generazione ad un’altra, l’eredità, la memoria, ma anche le aspettative e le possibilità che si consegnano alle generazioni future, in termini di capitale fisico, ambientale, umano, tecnologico e istituzionale.
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L’interdipendenza delle generazioni richiede un nuovo modello di contratto sociale. D’accordo con le nuove realtà derivanti dall’intreccio spazio-temporale, smette di avere senso intendere il contratto sociale in una connotazione esclusivista o come qualcosa di contemporaneo, ovvero, come qualcosa che riguarda soltanto il noi di una comunità determinata o degli attualmente viventi. Il modello del contratto sociale che regola soltanto gli obblighi dei contemporanei deve estendersi verso i soggetti futuri, rispetto ai quali ci troviamo in una completa asimmetria. Le questioni di giustizia intergenerazionale non si risolvono in una logica della reciprocità ma in un’etica del tramandamento. E la prima riflessione di questo nuovo ordito del mondo ci impone di chiederci chi dobbiamo considerare come “prossimo”: in sostanza, passare da una responsabilità delle “relazioni corte” (Paul Ricoeur) ad un’altra che sia retta dalle cose più lontane (per dirla con Nietzsche), che i prossimi non siano semplicemente i più vicini nello spazio o nel tempo, ampliando il nostro orizzonte di riferimento in modo tale che la giustizia intergenerazionale non si riduca al semplice trasferimento tra generazioni contigue. Il principio di responsabilità è oggi orientato proprio al futuro lontano e ad un noi che non può costituirsi legittimamente come prossimo a danno degli “emarginati”, la cui inclusione è richiesta in qualche modo.
IV. La convergenza del noi 10. La reiterazione della domanda sul noi Qualsiasi esame riguardante i compiti che ci vincolano rimanda alla questione intorno a chi siamo noi. Gli esseri umani ab-
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biamo risposto in diversi modi a questa domanda lungo la storia, e le nostre risposte stentano perché mutano le condizioni sociali, le possibilità tecnologiche o la consapevolezza che abbiamo di noi stessi. I grandi progressi dell’umanità si devono alla reiterazione di tale domanda e al fatto che abbiamo agito di conseguenza una volta scoperto che siamo qualcosa in più di quanto pensavamo e che ci sono esclusioni in tutto l’ordine sociale. Chi può far parte dei nostri e chi smette di essere annoverato tra le nostre file? Allora scopriamo che ci troviamo più o meno, nelle dovute proporzioni, sotto determinate condizioni che il tempo modifica. La libertà umana implica sempre una capacità di assentarsi da quei luoghi nei quali essa è posta in modo plurale per convocare un altro genere di aggruppamento. E scopriamo che vi sono “altri”, donne, stranieri, sottoposti, che non hanno gli stessi diritti. Qualsiasi discorso organizzato distribuisce in modo imperfetto le opportunità di farsi valere. Questo problema non si risolve semplicemente con un’organizzazione equilibrata del potere degli interlocutori. Esistono anche voci che sono sistematicamente o indirettamente escluse, differenze che non possono farsi sentire oppure che si adeguano al criterio dominante. Nello spazio della mondializzazione, delle identità permeabili e molteplici, in interazioni complesse, dove regge la contaminazione e l’interdipendenza, dove tutto si contagia e non vi è un grembo protettore, il “noi” è caratterizzato da una grande indeterminatezza. In uno spazio di beni e mali comuni qualsiasi delimitazione troppo rigida tra noi e gli altri è inappropriata. Dobbiamo pensare noi stessi in un modo potenzialmente universale. Nel contempo, occorre costruire nuovi sistemi di responsabilità che siano operativi e riflettano la complessità di un mondo interdipendente.
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Lo Stato nazionale è stato una formidabile risposta a questa domanda intorno a chi siamo. Noi abbiamo rappresentato i nazionali, con una chiara contrapposizione di interessi di fronte agli stranieri, gli affetti dai medesimi problemi, gli abitanti di uno stesso spazio circondato da frontiere fisse, rappresentati conformemente a criteri di legittimità democratica, con identici diritti e doveri, in un ambito di decisione e solidarietà determinato. Da un po’ di tempo, questo quadro si è rivelato insufficiente. Lo Stato nazionale, in quanto forma politica del noi, è sopraffatto dalla povertà globale, dall’obbligo di proteggere gli altri, dalla preponderanza dei beni comuni, dalla complessità degli accordi globali in ambito climatico o finanziario. La globalizzazione ha prodotto una vera e propria disarticolazione nazionale della giustizia, il che non si traduce necessariamente in una giungla neoliberista ma nell’esigenza di porre i diritti e i doveri in un contesto inedito. Le principali teorie sulla giustizia sono partite dal principio secondo cui gli obblighi di giustizia valgono soltanto per coloro che vivono in una comunità politica o sotto la medesima costituzione. In realtà, dovremmo pensare che i doveri sulla giustizia sono precedenti alle istituzioni che li veicolano (Young 2010, 329). Per questo motivo dobbiamo reiterare la domanda sul noi in modo innovativo, il che, dal momento che il noi non è più contenuto a sufficienza nello Stato nazionale, impone attualmente di pensare globalmente la giustizia, scoprire l’umanità al di là della nazione, passare dalla sovranità alla responsabilità. La maggior parte dei nostri obblighi reciproci non si spiegano né si gestiscono in quadri statali. La giustizia e l’ingiustizia sono sempre più condizionate da strutture globali e richiedono azioni su tale livello. La povertà, per esempio, non si spiega soltanto attraverso le cause locali ma attraverso i fattori globali. Qualcosa di analogo accade anche con la responsabilità di
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proteggere ed intervenire militarmente, i cui casi si moltiplicano in un mondo più interdipendente. Ridefinire i noi rassicurati dalla sovranità statale implica superare la semplice giustapposizione o coesistenza indifferente. L’universalizzazione dei diritti umani, la lenta ascesa del principio di legislazione universale e il rafforzamento dell’integrazione internazionale sono indicatori che mirano nella direzione di un umanismo transnazionale, dell’umanità come il noi che si costituisce in quanto riferimento di un mondo interdipendente. Da questo punto di vista, noi siamo, sempre di più, i transnazionali.
11. La costruzione dell’universalità Noi raramente siamo tutti; innanzitutto, perché vi è un’inevitabile e perlopiù innocente singolarità (quegli aspetti della nostra identità che non possono essere scelti né modificabili; non tutti possiamo esser nati in un posto, né modificare assolutamente –benché le possibilità tecnologiche siano in aumento – la nostra condizione fisica). Vi è un secondo piano nel rapporto tra noi e gli altri che fa riferimento alle condizioni d’accesso, inclusione e espulsione da una comunità, dove la contingenza è maggiore e, quindi, lo è anche la modificabilità. Il terzo piano ha a che vedere con la tensione che mira verso l’umanità nel suo insieme. In questo livello, in un qualche modo e in accordo con quanto è in gioco, noi possiamo e dobbiamo essere tutti. A questa possibilità, dovere o aspirazione si riferiscono gli obbiettivi di una governance globale, gli obblighi transnazionali e persino certi doveri che vanno al di là della solidarietà interna alla nostra specie, facendo di noi qualcosa in più di un noi in quanto umani. Tutti i dibattiti tra il patriottismo e il cosmopolitismo ruotano intorno all’articolazione di questi tre piani e molti malintesi provengono dal non averli differenziati dovutamente.
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L’universalità, l’umanismo e il cosmopolitismo devono essere pensati come costruzioni e non come acquisizioni, come orizzonti che si perseguono e non come identificazioni che si monopolizzano. Spesso, il problema non è che non vogliamo essere universali, ma che crediamo di esserlo in modo immediato, risparmiandoci lo sforzo della sua costruzione; gli esseri umani tendiamo ad identificare con troppa leggerezza la nostra singolarità con l’universale. Non vi è peggior singolarità di quella non riconosciuta. Così, per esempio, durante la prima Guerra Mondiale, Max Weber pretendeva di appoggiare l’impero tedesco in nome della Kultur, mentre Emile Durkheim chiedeva la stessa cosa per la Francia in nome della Civilisation. In entrambi i casi vi era una pretesa di totalità, un noi totalizzante che credeva di rappresentare perfettamente l’universalità. Ebbene, non vi è costruzione di universalità laddove non vi si riconosce la propria singolarità di ogni noi, unica sede dove può generarsi questa tensione verso l’universalità. Il mondo attuale offre nuove possibilità di costruzione di ciò che è comune, proprio perché in esso regge una densa interdipendenza, si condividono gli stessi rischi, l’azione sovrana è inefficace, le protezioni unilaterali risultano insufficienti, l’immunità si rivela come un’illusione, la distinzione tra ciò che è nostro e ciò che è degli altri è così problematica come quella tra noi e loro o quella che stabiliamo tra l’interno e l’esterno. Ho definito come un “mondo senza dintorni” questa moltiplicazione di riferimenti che indebolisce nello stesso tempo la prossimità di ciò che è genuinamente nostro. In un mondo così ci sono più cose nostre, più realtà che ci riguardano, di quanto siamo abituati a pensare. La mancanza di considerazione di quanto non sembra nostro finisce per essere un intoppo che ci nuoce, per cui la cooperazione si impone come la strategia più intelligente. Allo stesso modo che la globalizzazione fa diventare la nostra identità qualcosa di più permeabile e aperto, anche i nostri destini sono sempre più intrecciati.
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L’inclusione diventa una chiave fondamentale per il trattamento di problemi globali. Una vera politica globale dovrebbe cominciare a smascherare le rappresentazioni illegittime del noi dell’umanità, le appropriazioni istituzionali che non sono sufficientemente inclusive. Quante istituzioni globali rappresentano meglio alcuni piuttosto che altri o hanno consolidato asimmetrie democraticamente ingiustificabili? Una “politica dell’umanità” potrebbe essere definita in tal senso come il progetto di ricuperare la simmetria tra coloro che decidono e coloro che subiscono. La legittimità di qualsiasi noi –di qualsiasi delimitazione o circoscrizione di interessi – si stabilisce in funzione del fatto che si ponga o meno in questa linea di tensione. Non c’è bisogno che noi siamo tutti (qualcosa che non è né possibile né positivo), eppure dovremmo mantenere sempre attiva la domanda sul fatto che siamo tutti quelli che stiamo al mondo così come ci troviamo al mondo tutti quelli che siamo.
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251
Indice
Introduzione all’edizione italiana di Leonardo Mattana
p. 9
Un mondo di tutti e di nessuno. Pirati, rischi e reti nel nuovo disordine globale Introduzione: Di chi è il mondo?
p. 27
Prima parte Un mondo all’intemperie Capitolo primo Il ritorno dei pirati nell’era globale 1. La terra e il mare 2. La nuova economia del saccheggio 3. Capitalismo senza proprietà 4. Spazi non governati 5. Alla ricerca della responsabilità perduta
p. 33 p. 36 p. 40 p. 47 p. 51 p. 56
Capitolo secondo L’umanità minacciata 1. Un mondo gassoso 2. L’esposizione universale 3. Un mondo senza dintorni
p. 61 p. 62 p. 65 p. 72
252
Seconda parte L’incompiuta promessa di proteggere Capitolo terzo La paura globale 1. La razionalità della paura 2. Governare i rischi globali 3. La politica, sola di fronte al pericolo Capitolo quarto Un mondo asserragliato 1. La proliferazione dei muri 2. Psicopatologia dei limiti 3. Vecchia e nuova sicurezza 4. L’avvenire delle frontiere
p. 83 p. 84 p. 88 p. 95 p. 101 p. 101 p. 105 p. 108 p. 112
Terza parte Governare, ovvero l’arte di farsi carico Capitolo quinto La società dell’osservazione 1. Noi, gli intrusi 2. I limiti della trasparenza 3. I segreti sono altrove 4. Sgrovigliare un’illusione
p. 117 p. 118 p. 122 p. 127 p. 131
Capitolo sesto Dalla sovranità alla responsabilità 1. Democrazia al di là delle nazioni 2. Umanismo transnazionale 3. Giustizia globale
p. 139 p. 139 p. 147 p. 152
253
Capitolo settimo Giustizia climatica 1. Il tempo non è più quello di una volta 2. Cause ed impatti 3. Un caso di giustizia complessa 4. La governance globale del cambio climatico
p. 157 p. 157 p. 160 p. 165 p. 170
Capitolo ottavo Una politica dell’umanità 1. I nuovi beni pubblici interdipendenti 2. La governance del capitalismo globale 3. Governare gli spazi sconfinati
p. 177 p. 178 p. 183 p. 192
Epilogo Noi e gli altri
p. 201
Bibliografia
p. 233
254
255
256
Gulliver - 2
Vi è una tendenza dell’essere umano a trascurare la contingenza negli aggruppamenti collettivi. Lungo la storia abbiamo declinato in diverso modo questa prima persona plurale: noi che apparteniamo alla medesima classe, noi che ridiamo delle stesse cose, noi che siamo uniti dalla paura, noi i compatrioti, i cosmopoliti, i rivoluzionari, i civilizzati, i nazionali, noi il popolo, noi che condividiamo gli stessi valori, che abbiamo il medesimo interesse, i contemporanei, i nostri, quelli della stessa generazione, i complici e i solidari, quelli di qui e quelli di sempre, le vittime di una tragedia o di un’ingiustizia, gli indignati, i minacciati, gli esperti, noi che abbiamo ragione, i maschi, i normali, gli ortodossi, i sani di mente, quelli che si fidano o si temono tra loro…tutte le conquiste dell’umanità sono state precedute da un interrogativo riguardo a questi aggruppamenti così evidenti che nascondono per lo più operazioni di esclusione. E se non fossimo propriamente ciò che siamo?
Collana diretta da Francesco Valagussa Comitato Scientifico Danielle Cohen-Levinas Georg Bertram Adriano Fabris Elio Franzini Thomas Harrison Luca Illetterati Valerio Rocco Lozano Giampiero Moretti Federico Vercellone Emanuele Vimercati
ISBN E-book 9788898694686
Daniel Innerarity è professore di filosofia política e social, ricercatore IKERBASQUE nell’Università dei Paesi Baschi e direttore dell’Instituto de Gobernanza Democrática. È stato visiting professor presso numerose università europee e americane tra cui, recentemente, il Robert Schuman Centre for Advanced Studies, l’Istituto Europeo di Firenze e la London School of Economics. Attualmente è direttore di Studi associato della Fondation Maison des Sciences de l’Homme di Parigi. Tra i suoi ultimi titoli: La società invisibile (2004); Il nuovo spazio pubblico (2006); Il futuro e i suoi nemici. Una difesa della speranza politica (2009); La democrazia della conoscenza (2010); La politica ai tempi dell’indignazione (2015). Nel 2004 la rivista francese Le Nouvel Observateur ha indicato Daniel Innerarity come uno dei 25 pensatori più influenti a livello mondiale.
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