128 94 5MB
Italian Pages 455 [299] Year 2014
La Cultura 836 La casa editrice, esperite le pratiche per l’acquisizione dei diritti di riproduzione di immagini e testi, rimane a disposizione di chi avesse a vantare ragioni in proposito. Sito & eStore - www.ilsaggiatore.com Twitter - twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook - www.facebook.com/ilSaggiatore © by Ullstein Buchverlage Gmbh, Berlin. Published in 2012 by Propyläen Verlag Per le poesie © Juliane Lorenz, Rainer Werner Fassbinder Foundation, Berlin 1962 © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014 Titolo originale: Ein Tag ist ein Jahr ist ein Leben. Rainer Werner Fassbinder. Die Biographie
Jürgen Trimborn
Un giorno è un anno è una vita Rainer Werner Fassbinder. La biografia Edizione italiana a cura di Anna Ruchat Traduzione di Silvia Albesano, Alessandra Luise, Anna Ruchat
Un giorno è un anno è una vita a Robert
Introduzione in forma d’intervista «Rainer Werner Fassbinder, una conversazione pubblica con l’uomo che ancora incute terrore ai suoi critici» di Hella Schlumberger
Playboy, 4 aprile 1978 Hella Schlumberger, giornalista di Playboy, incontra Fassbinder per la prima volta in un bistrot del Viktualienmarkt a Monaco. Fassbinder se ne sta seduto con Charles Aznavour al tavolo; è scomposto, quasi non parla, probabilmente ha anche qualche difficoltà con il francese e l’inglese. Aznavour invece chiacchiera tutto entusiasta, cosa che alla fine gli permetterà di ottenere il ruolo di Meck in Berlin Alexanderplatz.1 L’appuntamento per l’intervista è per il giorno dopo, alle 18, nell’abitazione di Fassbinder in Reichenbachstraße. Puntuale, Hella Schlumberger suona, ma nessuno le apre. Lascia il registratore dai vicini, due anziani di una disponibilità squisita, e scende al bar a prendersi un caffè. «Deve andare da Fassbinder?» chiede impietosita la barista. «Allora dovrà aspettare parecchio… Vuole una parte?» Quando il locale chiude la giornalista torna all’appartamento. Le apre Armin Meier, il «compagno fisso» di Fassbinder da tre anni e mezzo a questa parte. Bavarese, orfano, macellaio qualificato, ha anche insegnato a Fassbinder come si fanno i würstel. Alla fine arriva il maestro. È pallido, gonfio, porta
una camicia color kaki con le spalline. Ospite e padrone di casa si ritirano in soggiorno mentre Armin se ne va in cucina a preparare i crauti. Gli piace cucinare, pulisce, lava i piatti, insomma una vera donnina di casa. «Massì, qualcosa bisogna pur fare, non ti regalano niente nella vita, e se poi hai anche la fortuna di amare qualcuno…» Fassbinder beve la sua CocaCola, fuma le sue Marlboro, di tanto in tanto fa cadere la cenere dietro il divano, apre i pantaloni, ci infila la mano e, se pure scontroso, sembra pronto alla conversazione. Parla piano, con lunghe pause, spesso risponde solo con un sì o con un no, evidentemente vuole che lo si pungoli. Durante il pranzo, di là in cucina, alla televisione, danno un vecchio film con Moser,2 e Fassbinder di colpo scoppia in una risata cristallina, infantile. Più tardi, quando la conversazione riprende, lui torna a interpretare la parte del bambino saggio e vulnerabile, ossessionato da paure e imposizioni, che di tanto in tanto si rigira fra le mani la sfera di cristallo dell’utopia, l’utopia di una società priva di aggressioni. È difficile fissare un secondo appuntamento. A Monaco, o non risponde nessuno al telefono, oppure Armin dice che il maestro la richiamerà e lui non richiama. Poi d’improvviso, un mattino alle otto, arriva una telefonata: stiamo partendo per Parigi. Così anche Hella Schlumberger parte per Parigi. Arriva davanti all’ultima delle palazzine a due piani in rue Cortot, bussa quattro, cinque volte, tutto tace. Le monta dentro una rabbia incontenibile. Se in quel momento Armin non avesse aperto la porta… Sono ancora molto stanchi dalla notte appena trascorsa… Al tavolo rotondo, nel locale dai soffitti alti e dalle finestre gigantesche – con due alberi (veri) e del fogliame decorativo (finto), con il camino e la scala che va al piano di sopra –, è seduto un ospite, un amico, la stessa faccia gonfia e scanzonata di Fassbinder, ma rasata. Porta scarpe rosa, una camicetta rosa, insomma una checca fatta e finita. È Walter Bockmayer, giovane regista che ha esordito in tv nell’inverno del 1977 con Jane bleibt Jane.
C’è anche Ingrid Caven in abito lungo, nero, con dei veli, poi c’è la madre di Fassbinder (nome d’arte: Lilo Pempeit) che si guarda intorno muta. Armin spadella in cucina e questo fa ben sperare. Ed ecco che il padrone di casa (affitto: 2500 franchi francesi al mese) scende le scale con passo felpato. Tutti trattengono il respiro: cosa vorrà? Di che umore sarà? C’è qualcosa che l’ha disturbato? No, niente l’ha disturbato, grazie a dio, ecco che si accende un’altra sigaretta. L’atmosfera è apparentemente distesa, ma si percepisce il sottile terrore dovuto alla presenza di Fassbinder, tutte le antenne sono puntate verso di lui: è lui che semina il panico, lui che stabilisce l’umore generale, è lui che sceglie con chi parlare e con chi andare a letto. Armin sistema rapidamente un ceppo nel camino, prima di ritirarsi con gli altri. Fassbinder si accoccola sul tappeto, la mano nei pantaloni, in posa da intervista: si parte! È molto più rilassato che a Monaco, ridacchia spesso, beve birra e fuma una sigaretta dopo l’altra. Ma l’aria è gelida, non c’è altro calore che quello del camino: anche nel privato Fassbinder coltiva l’artificiosità che ritroviamo nella maggior parte dei suoi film. Non gli piace mostrare i propri sentimenti. Forse non ci riesce nemmeno. Quanto a punti deboli, dice di non averne. Cinque ore dopo Fassbinder, Bockmeyer, Armin e l’intervistatrice escono a pranzo. In un pub che guarda caso non è molto frequentato dagli eterosessuali, in rue Castex, vicino alla Bastiglia, Fassbinder si rianima: ora è vestito in pelle, tiene la manina al regista Daniel Schmid, abbraccia Walter Bockmayer e alla fine schiocca addirittura un bacio sulla testa di Armin. In quel momento sembra l’emblema dell’equilibrio e della giustizia. Non appena tornano a Monaco però il maestro ci ripensa e dà il benservito al suo compagno Armin con un secco «Fuori dai piedi». PLAYBOY Lei critica continuamente il provincialismo tedesco
eppure non si trasferisce in America. Come mai?
FASSBINDER Non si possono trarre conclusioni dal fatto che io
sono ancora qui. E comunque passo la maggior parte del mio tempo a Parigi. Trovo che la Germania stia diventando un paese di individui sempre più simili gli uni agli altri. Vale a dire, veri individualisti…
PLAYBOY Come lei… FASSBINDER Questo lo dice lei… Voglio dire… Coloro che vedono
la realtà in modo un po’ diverso devono pensarci due volte prima di esprimere la propria opinione e chiedersi se ne valga la pena. È così che ha inizio la castrazione della fantasia.
PLAYBOY Comincia ad avvertire anche lei la cosiddetta «isteria del simpatizzante»?3 FASSBINDER Sì, probabilmente la cosa si attenuerà un po’, ma
rimane il fatto che da noi la critica non è gradita (il che è profondamente antidemocratico). È anche possibile che le cose peggiorino. Quello che è venuto alla luce dopo la faccenda Schleyer4 è solo la punta dell’iceberg.
PLAYBOY Quale iceberg? FASSBINDER Non mi piace usare la parola «fascismo», ma al
momento non me ne viene in mente una migliore. Si punta il dito contro il fascismo violento e sanguinario del Terzo Reich («Guardate, il fascismo è questo!») e intanto pian piano si introduce nella quotidianità un fascismo più praticabile. Di questo si dovrebbe poter discutere, visto che a quanto pare viviamo in una democrazia. E questa è la sola cosa di cui valga la pena interessarsi.
PLAYBOY Che cosa la trattiene ancora nella Germania Federale? FASSBINDER In primo luogo la lingua con la quale sono cresciuto
e lavoro; poi l’educazione e l’infanzia, che naturalmente hanno lasciato un segno – sono queste le sole ragioni per cui non mi trovo già da tempo altrove.
PLAYBOY Ma lei tiene sempre a precisare di non aver ricevuto
un’educazione.
FASSBINDER Non ho avuto una di quelle educazioni organizzate
e assillanti, contro le quali da adolescenti ci si deve
ribellare. Di conseguenza nessuno è mai più riuscito a integrarmi e a farmi fare quello che non volevo fare. PLAYBOY Si dice che lei sia una persona autoritaria. È vero? FASSBINDER In passato lo ero di più, perché non avevo molte
alternative. Oggi posso permettermi di lavorare senza esercitare quell’autorità che normalmente viene riconosciuta a un regista. Per questo preferisco avere a che fare con dei veri professionisti. Un tempo, quando tentavo di lavorare in modo non gerarchico, nei momenti decisivi, il gruppo si cercava sempre un papà o una mamma. Se non avessi assunto io quel ruolo, il gruppo, i diversi gruppi con cui ho lavorato si sarebbero sciolti molto prima. I professionisti invece non pretendono che io assuma un ruolo paterno.
PLAYBOY E cosa pretendono? FASSBINDER Che li accetti in quanto professionisti, che dia loro
una motivazione, che riconosca il valore del loro ruolo all’interno della produzione. Se sono messi nelle condizioni di lavorare bene, senza costrizioni e paure, il clima generale non è condizionato dalla paura.
PLAYBOY Paura di che cosa? FASSBINDER Del fallimento, di non trovare conferme
professionali. Finché non si è imparato il mestiere si crede di dover sempre avere il controllo di tutto, poi non è più così. Un tecnico delle luci al quale si lascia campo libero può fare cose incredibilmente belle e importanti per una produzione. Basta osservare tutti quei professionisti che lavorano nella grande macchina della televisione: gli tarpano le ali, li costringono nei binari delle proprie funzioni. Se si rifiuta la creatività e si pretende soltanto la routine, finisce che molti cominciano a bere per poter reggere l’omologazione cui sono costretti. E secondo me, se non hai coraggio nella vita, non lo puoi avere nemmeno sul lavoro. Noi però purtroppo viviamo in un paese in cui la codardia è favorita.
PLAYBOY E politicamente come si schiererebbe in questo paese,
se dovesse farlo?
FASSBINDER Qui non mi definirei «di sinistra». Se lo facessi
dovrei poi chiedermi in quale dei tanti gruppuscoli vorrei identificarmi, con quale di quei gruppi vorrei tentare di fare qualcosa per la libertà. Sono consapevole di questa deprimente inconcludenza e credo che si dovrebbero trovare modalità diverse per combattere cose terribili come il Berufsverbot.5 Tra un po’ non si potrà più nemmeno manifestare contro le centrali nucleari. Il fatto che questa situazione abbia preso piede a una velocità così folle, dimostra che da noi non c’è una sinistra che funziona, manca una vera opposizione.
PLAYBOY Nei confronti della destra, però, di solito non è così
duro.
FASSBINDER (irritato) Ma si guardi i miei film, per favore! Non ho
fatto un solo film che possa dirsi reazionario, e comunque quelli sanno cosa penso di loro.
PLAYBOY È vera la leggenda secondo cui lei scrive le sue
sceneggiature in un bistrot di Parigi mentre beve, ascolta musica e gioca a flipper?
FASSBINDER Sì, è vera. Ma anche a Monaco tengo sempre la
radio accesa, esco a farmi un giro, guardo la tv… Insomma mi serve un ambiente che mi dia modo di scappare. Quei terribili fogli bianchi hanno qualcosa di minaccioso, qualcosa di paralizzante nel momento in cui mi dico: adesso bisogna riempirli. Per me scrivere non è qualcosa di sacro che deve avvenire nel silenzio più assoluto. Trovo che la scrittura sia molto faticosa perché bisogna formulare ciò che nella testa è accaduto molto tempo prima.
PLAYBOY E come reagisce se le mettono i bastoni tra le ruote
nella realizzazione di un progetto, come è accaduto per I rifiuti, la città e la morte, accusandola di antisemitismo?
FASSBINDER Quell’accusa proprio non l’ho capita. L’ho trovata
indegna. Sono o non sono tra coloro che hanno fatto di più per il cinema tedesco all’estero? E poi le motivazioni! Quello degli ebrei è l’ultimo dei tabù, in Germania, e mantenerlo secondo me non significa proteggere gli ebrei,
ma introdurre un’altra discriminazione. È logico che un tabù finisca col ribaltarsi nel suo opposto. Se non si può parlare di loro, vuol dire che prima o poi dovranno fare di nuovo da capro espiatorio. Non mi posso spiegare la cosa in altro modo. PLAYBOY E gli altri tabù, omosessualità, prostituzione,
travestitismo?
FASSBINDER Se se ne mostra il lato esotico, glamour, allora non
ci sono tabù, ma quando li si cala nel vivo dei rapporti sociali è tutta un’altra cosa. È sempre così, per tutte le minoranze. Prima, quando facevo ancora dei film in cui i rappresentanti delle minoranze erano i buoni e gli altri i cattivi, la società li apprezzava molto. Ma da quando, molto più giustamente, ho deciso di mostrare le minoranze come realmente sono, così come la società le ha trasformate, con tutti i comportamenti sbagliati, ecco che i miei film non piacciono più. Il mio rapporto di empatia con le minoranze è problematico.
PLAYBOY Anche lei fa parte di una minoranza? FASSBINDER Di più di una, sì. PLAYBOY Quali? FASSBINDER Mah, della minoranza di coloro che si possono
permettere di andare via da questo paese. E poi, pur con la concreta utopia dell’anarchia in testa, rimango un sostenitore estremo della democrazia, e anche in questo senso appartengo a una minoranza. Questa cosa dell’anarchia oggi non la si può quasi più dire, perché dai media abbiamo imparato che anarchia è sinonimo di terrorismo. Da una parte infatti c’è l’utopia di uno stato senza gerarchie, senza paure né aggressioni, e dall’altra una situazione sociale concreta in cui le utopie vengono soffocate. Se è potuto nascere il terrorismo nel nostro paese è perché l’utopia veniva soffocata già da troppo tempo. Qualcuno ha dato fuori di matto, è comprensibile. E forse, in ultima analisi, è proprio quello che voleva, magari addirittura inconsciamente, una determinata classe
dirigente, per poter definire in modo più concreto la propria identità. PLAYBOY A discapito delle minoranze? FASSBINDER Non ce ne saranno più di minoranze, e non perché
vengono uccise ma perché si saranno integrate. A un certo punto le persone avranno tutte lo stesso aspetto, si vestiranno allo stesso modo, abiteranno negli stessi appartamenti. Questo sembra essere l’obiettivo finale, e non mi sembra una cosa particolarmente utopica.
PLAYBOY Come passa il tempo quando non lavora? Cosa le
viene voglia di fare?
FASSBINDER Mah (pausa), non saprei. Mi piace andarmene in
giro. Niente di avventuroso, come fanno i più giovani. Nooo. Mi piace andare in paesi e città dove ci sono altre civiltà e dove non mi sto a preoccupare delle ingiustizie sociali. Così, tanto per fare. Lo definirei addirittura turistico, come approccio.
PLAYBOY E viaggia da solo? FASSBINDER Cerco di imparare sempre di più a stare solo. PLAYBOY È vero quello che si legge di lei, che sia un «nemico
delle donne»?
FASSBINDER Trovo che sia idiota dover continuamente ripetere
«non sono un nemico delle donne», «non sono un antisemita». L’origine della mia fama di misogino me la spiego così: prendo le donne sul serio, più di quanto non facciano gli altri registi. Per me le donne non esistono soltanto per mettere in funzione gli uomini. Non sono degli oggetti. Questo è un atteggiamento del cinema che io disprezzo. E mostro proprio come le donne, più degli uomini, siano costrette a far ricorso a mezzi talvolta disgustosi per sottrarsi al ruolo di oggetti.
PLAYBOY E lei, personalmente, come si pone nei confronti di
questo problema?
FASSBINDER Nei confronti degli uomini e delle donne mi
comporto in modo simile. Quando dai bisogni nascono degli obblighi, quando ciò che prima ci divertiva si
trasforma in una pretesa reciproca, reagisco subito in modo aggressivo e negativo. Con Ingrid, la donna con la quale sono stato sposato, continuo ad avere l’intesa più profonda, il rapporto più importante della mia vita. PLAYBOY È stato anche piuttosto geloso in passato… FASSBINDER Lo sono ancora. PLAYBOY Ma al momento ce l’ha una relazione, diciamo così,
felice con qualcuno?
FASSBINDER No, non ce l’ho. Vivo con Armin da tre anni e
mezzo ed è un rapporto particolarmente difficile. Poi, come le dicevo, c’è la relazione con Ingrid, importantissima, che da quando siamo separati è tornata quella di una volta. Il fatto che qualcuno ci sia, semplicemente, che sia lì per te, capisce? Una cosa di cui non bisogna per forza servirsi sempre, di cui non ci si serve per abitudine. E poi ho un rapporto molto complicato con mia madre. Quando ho cominciato a capire che lei era mia madre, era malata. Questo da un lato ha generato compassione da parte mia, dall’altro un senso di colpa, perché io, nel mio egocentrismo, credevo si fosse ammalata per colpa mia, cosa che a sua volta scatenava la mia aggressività. Solo così mi sembrava di poter sopravvivere con il mio senso di colpa, per quanto fosse ridicolo e immaginario. Sicuramente mia madre e io non ci libereremo mai di queste complicazioni, ora però siamo in grado di costruire ciò che in passato non avremmo mai creduto possibile: un’amicizia.
PLAYBOY … E tutte queste relazioni lei le «sfrutta» – è questa la
parola che usa. Riesce ancora a vivere in modo spontaneo?
FASSBINDER Mah (fa una smorfia). A essere sinceri no. D’altra
parte credo che attraverso situazioni estreme di disperazione e di dolore, dovute anche allo sfruttamento reciproco, si possa raggiungere una nuova spontaneità. Mi sembra più facile ottenere una nuova ingenuità del sentire in questo modo, che non attraverso la rimozione.
PLAYBOY Sembrano le parole di un uomo distrutto, negativo,
un ambito positivo secondo lei non esiste?
FASSBINDER No, secondo me no (pausa). Trovo che il tessuto
sociale in cui vivo non sia contraddistinto da felicità e libertà, ma piuttosto dall’oppressione, dalla paura e dal senso di colpa. Quella che chiamano felicità chiedendoci di viverla come tale secondo me è un alibi, l’alibi che una società caratterizzata dalle costrizioni e dall’aggressività offre al singolo individuo. E questo alibi a me non interessa.
PLAYBOY Da dove prende allora la forza per continuare a
lavorare?
FASSBINDER Dall’utopia, da uno slancio utopico anche molto
concreto. Se mi dovessero togliere questa aspirazione, non farei più niente; perciò ho l’impressione che in Germania mi si stia uccidendo in quanto persona creativa, ma la prego non prenda questa mia affermazione come una paranoia. La caccia alle streghe che si è verificata da noi negli ultimi tempi e di cui parlavo poco fa, dicendo che era solo la punta dell’iceberg, è stata messa in scena a mio avviso solo per distruggere le utopie dei singoli. Per questo le mie paure e i miei sensi di colpa crescono a dismisura. Quando arriverò al punto che le mie paure saranno più grandi della mia aspirazione a qualcosa di bello, allora (pausa)… allora la farò finita e non solo con il lavoro.
PLAYBOY Con la vita? FASSBINDER Sì, certo. Non c’è ragione di esistere se manca un
obiettivo.
PLAYBOY Riesce a immaginare di innamorarsi follemente,
trasferirsi da qualche parte e non lavorare più?
FASSBINDER È strano, ogni volta che mi sono innamorato
follemente di qualcuno, ho finito per buttarmi a capofitto nel lavoro. E volevo sempre lavorare con la persona di cui mi innamoravo, perché lavoro e amore per me sono una cosa sola. Innamorarmi di qualcuno e ritirarmi su un’isola deserta? Per ora, almeno, non riesco proprio a immaginarlo.
PLAYBOY Come si trova a Parigi rispetto a Monaco?
FASSBINDER Meglio, perché a Parigi ci sono molte più occasioni
di godersi la vita, ma c’è anche la libertà di non farlo. Lì non devo riempirmi la testa di cose che farei volentieri e che non posso fare, come a Monaco.
PLAYBOY Quali? FASSBINDER Culturali, private, sessuali, qualunque cosa. PLAYBOY Potrebbe pensare di vivere in campagna? FASSBINDER No. PLAYBOY Che tipo di rapporto ha lei, sempre che ce l’abbia, con
la natura?
FASSBINDER Trovo che la natura non sia molto più umana degli
esseri umani.
PLAYBOY Altrettanto crudele? FASSBINDER Sì. PLAYBOY Quand’è che le capita di essere allegro? FASSBINDER Sempre, adesso per esempio sono molto allegro. PLAYBOY Ah, ecco. A vederla non si direbbe. FASSBINDER Non c’è bisogno che si noti. Un’allegria che si
manifesti in maniera palese, nei modi consueti, il più delle volte non è allegria. Io sono allegro in un modo particolare, e lo sono per me. Non sono però in grado di darlo a vedere.
PLAYBOY E non vuole nemmeno farlo. FASSBINDER Forse non riesco perché non voglio (ride). Quando
mi capita di essere così allegro da farlo trasparire, la gente è stupefatta e dice «probabilmente è fuori» o altre cose del genere. Ormai nella mia vita voglio recitare solo il minimo indispensabile.
PLAYBOY Perché? FASSBINDER Farlo comporta uno sforzo che finirebbe col
distruggere la mia emotività.
PLAYBOY L’emotività degli altri invece le è indifferente?
FASSBINDER No. Sento la gioia degli altri proprio come sento la
mia. Non c’è bisogno che me la comunichino.
PLAYBOY Non le hanno mai detto che la sua presenza per gli
altri non è proprio un incentivo ad aprirsi perché attorno a lei aleggia sempre una certa artificiosità?
FASSBINDER Direi piuttosto il contrario. Le persone con cui ho
rapporti di lunga data apprezzano che si possa stare semplicemente insieme. Quando però qualcuno, mentre mangia, crede di dover dire continuamente «Ah, che meraviglia questa carne», oppure «Questo sughetto ha un sapore eccellente», allora ho l’impressione che costui, per qualche misteriosa ragione, stia cercando di convincersi. Oppure si fa una passeggiata e l’altro dice di continuo che è così bello passeggiare con me guardando il tramonto, a quel punto mi viene da pensare no, grazie, fermiamoci qui. Perché se uno ha sempre bisogno di dire quello che prova, significa che sta cercando di convincersene.
PLAYBOY Così lei si costringerebbe a non dire nulla anche in
situazioni straordinarie?
FASSBINDER No, non costringerei né me né altri. Bisognerebbe
saper capire se il sentimento è davvero così forte da doverlo esprimere a tutti i costi. In questi casi capita spesso, però, di sentire espressioni di livello bassissimo, molto al di sotto di quel che direbbe un poeta, per esempio. La lingua è un «mezzo di trasporto fondamentale» ma non è sempre l’unico. In particolare sono molto critico quando si parla dei sentimenti.
PLAYBOY Ma lei lo dice «ti amo», se è il caso di dirlo? FASSBINDER (orgoglioso e imbarazzato) Questo sì, sono in grado di
farlo. Arriva un momento in cui non si può fare a meno di dirlo. Pensi che ormai non aggiungo nemmeno più quanto lo trovi stupido. All’inizio era così, dicevo «ti amo» e poi subito facevo dell’ironia. Nel frattempo ho imparato, e quando è il momento (ride) mi limito a dirlo. Questo non significa però che io non mi osservi mentre lo faccio. Ma il dover ogni volta capire come potrai «sfruttare» la relazione, è un altro problema.
PLAYBOY Ma poi lei le utilizza anche, queste scene d’amore! FASSBINDER (sospira) È vero, sì, da un lato utilizzo ciò che ho
vissuto, dall’altro lascio anche molta più libertà ai personaggi che non a me stesso. Per esempio, capita che dia ai personaggi dei miei film la possibilità di esprimere direttamente un sentimento molto prima di quanto farei io nella vita.
PLAYBOY Allora attraverso i suoi personaggi… FASSBINDER Con i miei personaggi… PLAYBOY … attraverso e con i suoi personaggi, insomma, lei è
cambiato?
FASSBINDER Sì. Se si guardano i miei primi dieci film uno dietro
l’altro si nota che quei personaggi avevano davvero la possibilità di reagire in modo molto diretto alle situazioni. In fondo sono molto silenziosi, no? E d’improvviso (ride)… Nei primi dieci film si sente almeno una cinquantina di volte l’espressione «pazzesco!», perché uno giudica una situazione così forte, così complessa, che non può dire altro. E quel «pazzesco» può essere tutto: terribile o meraviglioso. È una cosa che io all’epoca non mi sarei permesso di esplicitare. Oggi invece me lo permetterei.
PLAYBOY Qual è il suo rapporto con la sessualità? FASSBINDER Hm, hm, hm (sospira)… La domanda è troppo
generica.
PLAYBOY Nei suoi film, comunque, la sessualità gioca sempre
un ruolo importante. Potrebbe diventare uno scrittoreeremita e rintanarsi in una baita sperduta?
FASSBINDER No, non potrei. Quando faccio un film per me il
lavoro è un atto sessuale ed è molto più appagante di quello con un altro essere umano. Non vivo come un eremita nella foresta, ma i contatti sessuali più appaganti ce li ho con il mio lavoro.
PLAYBOY Nella sua vita amore e lavoro si completano o si
contraddicono?
FASSBINDER Per me le cose non sono così schematiche, un
giorno si vive e un altro si scrive. Magari vivo per un paio di settimane con una cosa che si concretizza nella testa e poi per un paio di giorni o un paio di settimane – dipende – c’è solo lavoro, e allora è proprio un rapporto sessuale con il processo lavorativo, mi eccita. Non a caso nella mia vita ci sono state persone più gelose di un blocco di fogli, di una macchina da scrivere, di un registratore o una cinepresa, che di un altro essere umano.
PLAYBOY Lei riesce ad abbandonarsi a un’altra persona? FASSBINDER Ho avuto una volta una relazione in cui sono
arrivato molto vicino a lasciarmi andare completamente. È successo una volta. Non mi succederà mai più.
PLAYBOY Sicuro? FASSBINDER Sicurissimo. PLAYBOY Una forma di autoprotezione? FASSBINDER Sì, dopo quella volta ho imparato a non permettere
mai più che una relazione arrivi fino a quel punto.
PLAYBOY E una relazione paritaria tra due persone altrettanto
forti?
FASSBINDER Sarebbe auspicabile, naturalmente. Nella realtà
(soffia), sì, si può solo sperare (ride), diciamo così.
PLAYBOY Allora in teoria lei potrebbe anche vivere da solo. FASSBINDER Mi sta chiedendo perché non rinuncio alle mie
relazioni? Ne avrò comunque bisogno, per un motivo o per l’altro (pausa). Purtroppo.
PLAYBOY Purtroppo? FASSBINDER Sì, direi purtroppo. Ora come ora sarei molto
contento di poter vivere senza relazioni fisse. Probabilmente sarei più felice. Se riuscirò mai a raggiungere questo obiettivo, è un’altra questione.
PLAYBOY Cos’altro fa lei oltre a lavorare, amare, fumare e bere? FASSBINDER Niente. Quello che faccio mi diverte, anche gli
obblighi che ogni tanto mi impongo, scadenze da
rispettare e così via, tutto questo non è per me fonte di stress. PLAYBOY A quale pubblico pensa per esempio con Berlin
Alexanderplatz?
FASSBINDER A tutte le persone che si trovano nelle condizioni
psichiche in cui mi sono trovato io quando ho letto il libro per la prima volta. Credo che ce ne siano parecchie in giro: due o venti milioni, non saprei.
PLAYBOY In cosa si differenziano la versione cinematografica e
quella televisiva di Berlin Alexanderplatz, lunghezza a parte?
FASSBINDER Sono due modi radicalmente diversi di raccontare,
epico per la versione televisiva, e concentrato per il film. Per me è stato molto importante, scrivere prima di tutto le 2500 pagine di copione per la televisione.
PLAYBOY Che cos’è che la affascinava tanto nel romanzo di
Döblin? La figura di Franz Biberkopf?
FASSBINDER In molti miei film ci sono citazioni da questo
romanzo di Döblin. Non è tanto la figura di Franz Biberkopf in sé, quanto le circostanze in cui si trova, il modo in cui le persone si rovinano la vita. Quando vanno in pezzi perché non osano più confessare i propri desideri e i propri bisogni essenziali, e per via delle storpiature che la loro anima subisce non sono più capaci di vivere la cosiddetta vita normale. Quel romanzo, che ne fossi consapevole o no, mi ha davvero aiutato a liberarmi di parecchie cose. Per questo sento la necessità di raccontarlo ad altri, di tradurlo in altri linguaggi così che allo spettatore possa accadere almeno in parte ciò che è successo a me leggendo il libro.
PLAYBOY Cosa succede secondo lei dopo che ci si è liberati dalle
costrizioni?
FASSBINDER Non ho soluzioni, non sono un filosofo in grado di
offrire allo spettatore un sistema di pensiero al quale attenersi. Non sono nemmeno un politico che propone un programma, al quale io peraltro non potrei credere. Penso che se il singolo individuo riesce a liberarsi dalle
costrizioni, dovrà poi essere lui a decidere cosa farsene della sua libertà. PLAYBOY Che funzione ha quella lingua artificiale che c’è già
nei suoi primi film e nelle opere teatrali – una lingua che non si parla da nessuna parte?
FASSBINDER Non mi piace quando quello che si vede o si sente
in un film sembra l’imitazione della realtà. Trovo orribile ogni volta che in un film qualcuno parla come nella vita reale. Questo toglie forza al pensiero, elimina l’inquietudine diffusa. Come posso dire? Sminuisce tutto. E l’artificiosità, secondo me, è l’unico modo per consentire a un pubblico allargato di entrare nel cosmo tutto particolare costituito da un’opera letteraria.
PLAYBOY Lei ha lavorato con altri registi al film Germania in
autunno. Qual è stato l’aspetto che ha privilegiato nel filmare la situazione politica nella Germania Federale dopo il caso Schleyer?
FASSBINDER Niente di ciò che ho fatto finora, nessuno dei miei
film è mai stato una reazione concreta a un evento politico, perché ho sempre pensato che per quello ci fosse la televisione. Ma in questo caso avevamo i mezzi per produrre un film e ci siamo ripromessi di dire quello che gli altri media non dicevano più. Io stesso ho insistito molto sul fatto che ognuno di noi dovesse raccontare in modo molto personale la propria reazione psicologica a questo tempo.
PLAYBOY Come si definirebbe lei, se dovesse farlo? Quali sono
le sue fragilità?
FASSBINDER (pausa) È difficile rispondere a questa domanda. Per
come vedo io le cose e per come vivo, non ho fragilità. Ho fatto in modo di non averne, ma questo non significa che oggettivamente non ne abbia, significa solo che dal punto di vista soggettivo vivo la mia vita con la massima intensità. So che è un privilegio. Forse la mia fragilità sta proprio nel vivere in questo modo. Ma alla sua domanda risponderei così: non ho punti deboli fintanto che continuo a lavorare sulle cose che trovo sbagliate. Le fragilità sono
tali quando si consolidano e diventano qualcosa di definitivo. PLAYBOY Quindi il suo partner ideale se lo immagina così, senza
fragilità?
FASSBINDER Sì, per me sarebbe l’ideale. PLAYBOY Sì? FASSBINDER Hm. PLAYBOY E una persona così non c’è mai stata nella sua vita? FASSBINDER Nooo, è difficile. PLAYBOY Allora le persone con le quali è stato finora erano il
suo opposto?
FASSBINDER Finora nella vita mi sono sempre cercato delle
persone, intendo quelle con cui ho convissuto a lungo, che non comportassero delle sfide intellettuali. Piuttosto delle sfide concrete, psicologiche. Forse è un mio punto debole. Ma d’altra parte in questo modo ho fatto tante esperienze importanti che, se ci fosse stato un confronto solo intellettuale, non avrei potuto fare. Il mio desiderio naturalmente sarebbe quello di legarmi a una persona con la quale sia possibile tutto. Un rapporto in cui sesso, eros, amore, consapevolezza, tutto sia presente in uno scambio continuo. Trovare tutto questo in una sola persona sarebbe bello, solo che non ci credo più.
PLAYBOY Negli ultimi dieci anni ha cambiato radicalmente i
temi, il tono generale, dei suoi film…
FASSBINDER No, il tono generale, se lo vogliamo chiamare così,
non è cambiato. Il tema è rimasto, e rimarrà, sempre lo stesso: l’uso, lo sfruttamento dei sentimenti all’interno del sistema in cui viviamo, e in cui certamente dovranno vivere anche le generazioni dopo di noi. Quello che è cambiato sono gli aspetti tecnici del mestiere, la forma, in cui ogni volta cerco di superarmi, di andare oltre quello che già so. Al contrario di altri artisti ho rinunciato alla concezione puristica dell’arte che avevo un tempo, l’idea che l’arte debba essere molto diretta e molto semplice. Per me questo aspetto ha sempre avuto a che fare con il livello
delle mie capacità tecniche. Sarebbe stato un errore rimanere fermo su queste teorie sviluppate allora. Per altri può essere stata la cosa giusta. PLAYBOY Nei suoi film spesso interviene la morte. Lei stesso ha
raccontato che nella sua vita ci sono stati momenti in cui ha accarezzato l’idea del suicidio. Qual è ora la sua posizione in merito?
FASSBINDER (farfuglia qualcosa) Trovo che la morte sia la
questione centrale della vita, per così dire. Solo nel momento in cui la morte viene accettata come elemento fondamentale dell’esistenza, si può davvero disporre della vita. Fintanto che la morte è un tabù, lo è anche la vita, che perde di interesse. In una società basata sullo sfruttamento dell’essere umano la morte deve essere tabuizzata.
PLAYBOY Detto più concretamente? FASSBINDER Nella mia vita ci sono stati due momenti
importanti. Quando mi sono reso conto razionalmente che l’uomo è mortale. E questo non è stato un problema, la cosa aveva ben poco a che fare con me. E quando invece il mio corpo ha capito improvvisamente di essere mortale. Questo è a tutt’oggi il momento più importante della mia vita. Da allora la vita per me è (molto triste) molto più divertente. Anche se (ride), come lei ha già più volte sottolineato, non sempre si direbbe. È stato quando ho avuto quei dolori al cuore. A un certo punto non riuscivo più a respirare e mi sono detto, va bene, adesso inghiotti quelle pillole, le prendi tutte. E solo dopo che il medico mi ha visitato e ha detto che da un punto di vista organico era tutto a posto, la paura se n’è andata. Nel giro di tre giorni. Il corpo è davvero una cosa mostruosa.
PLAYBOY Perché? FASSBINDER Questa differenza tra il corpo, al quale in fondo
siamo soggetti, e lo spirito che è immortale è proprio una discrepanza terribile. Uno spirito che dal punto di vista esistenziale può vagare liberamente nell’aria, e un corpo con gli intestini e tutto il resto, bleah…
PLAYBOY A quanto pare lei non ha un rapporto troppo
amorevole con il suo corpo.
FASSBINDER (ride) Si sbaglia di grosso. Ho un rapporto molto
amorevole con le possibilità di divertimento del mio corpo, il piacere, e tutto ciò che il corpo è in grado di produrre. Questo sì. Però (balbetta) il corpo non smette mai di essere disgustoso nel sottrarsi ai bisogni dello spirito. Lo spirito è lì, e se fosse in un altro corpo sarebbe diverso. Naturalmente lo spirito deve avere la padronanza di quel corpo specifico con il quale fa le sue esperienze. Questo non significa odiare il corpo e amare lo spirito, assolutamente no. Posso avere delle idee meravigliose in mente, meravigliose, le più belle del mondo. E poi di colpo zac – che ingiustizia (ride)!
PLAYBOY Le è mai capitato di voler essere un’altra persona o è
contento così com’è?
FASSBINDER No, no. Ecco, tra i quindici e i vent’anni avevo
un’acne fortissima. Credo che quello sia stato l’unico momento della mia vita in cui ho desiderato essere qualcun altro. Altrimenti mai. Sono fin troppo soddisfatto di me. Davvero, sono identico a me stesso al limite dell’idiozia.
1 Cfr. qui p. 255: «In un primo momento il regista aveva
pensato di girare, contemporaneamente alla lavorazione del serial tv, anche un film per il cinema con un cast internazionale». 2 Hans Moser (pseudonimo di Johann Julier), Vienna 1880-
1964, è stato un cabarettista e attore austriaco molto popolare.
3 Negli anni settanta, in Germania, chiunque tentasse di
conservare il senso delle proporzioni malgrado la crescente isteria (tra gli altri Heinrich Böll) veniva considerato un simpatizzante del gruppo Baader-Meinhof. 4 L’imprenditore tedesco Hans Martin Schleyer fu rapito
dalla Raf e ucciso il 18 ottobre 1977.
5 Il Berufsverbot è una limitazione del diritto al lavoro (che
in Germania non è sancito dalla Costituzione). Nel 1972 fu utilizzato per allontanare dalle professioni impiegatizie statali i comunisti dichiarati.
UN GIORNO È UN ANNO È UNA VITA
Ich möchte für das Kino sein, was Shakespeare fürs Theater, Marx für die Politik und Freud für die Psychologie war: Jemand, nach dem nichts mehr ist wie zuvor. Vorrei essere per il cinema quello che Shakespeare fu per il teatro, Marx per la politica e Freud per la psicoanalisi: uno dopo il quale nulla è più come prima. RAINER WERNER FASSBINDER, 1977
Premessa Life is so precious – even right now
«Fare tanti film perché la mia vita diventi un film»: secondo questo principio ha vissuto il più grande, il più eclettico, il più produttivo regista tedesco del dopoguerra. Lavoratore accanito, in soli tredici anni Rainer Werner Fassbinder, con un delirio creativo quasi senza precedenti, girò più di quaranta film, scrisse un pezzo di storia del cinema e per la prima volta dopo decenni restituì al cinema tedesco una notorietà internazionale. Mentre la maggior parte dei rappresentanti del Nuovo cinema tedesco (Neuer Deutscher Film) è da tempo dimenticata, i film di Fassbinder continuano a godere di un ampio riconoscimento. Ora come allora, è lui l’artista più rappresentativo del cinema tedesco del dopoguerra. Le grandi retrospettive a lui dedicate a Berlino, New York e Parigi sono state letteralmente prese d’assalto e la stampa lo ha celebrato con entusiasmo, come «il cineasta della Germania» o il «Balzac tedesco». Ancora oggi le sue pellicole vengono riproposte nei principali festival del cinema: Locarno, Cannes, Berlino. Rainer Werner Fassbinder ha scoperto tanti grandi attori, tra cui Hanna Schygulla e Barbara Sukowa, Kurt Raab e Günther Kaufmann, Ingrid Caven e Irm Hermann, Udo Kier e Harry Baer, Margit Carstensen e Klaus Löwitsch, Brigitte Mira e Günther Lamprecht, Armin Müller-Stahl e Rosel Zech, Barbara Valentin e Gottfried John, e ha dato in questo modo al cinema tedesco un nuovo star system, il primo dopo la fine della guerra.
I suoi film e la sua vita attraversano il dopoguerra tedesco. Le opere e le discussioni controverse che scatenarono alla loro uscita possono essere considerate un sismografo della storia degli anni sessanta e settanta. Fassbinder è stato di gran lunga il più importante cronista della Germania Federale da Konrad Adenauer ad Andreas Baader. Ha dedicato la sua attenzione al passato nazionalsocialista come pure alle deformità e alle zone d’ombra del miracolo economico, nonché al terrorismo della Raf nell’Autunno tedesco. Le reazioni passate e presenti alla sua opera dimostrano che i suoi film difficilmente mancano il bersaglio e sanno arrivare al cuore della sensibilità dei suoi connazionali. Pur essendosi dedicato a questioni e temi alquanto delicati, e avendolo sempre fatto con prese di posizione radicali, contrariamente a molti altri rappresentanti del Nuovo cinema tedesco, Fassbinder non dimenticò mai le esigenze del grande pubblico, consapevole che: «Le sale cinematografiche vuote non ci portano da nessuna parte». Combinando Bildungsidealismus e critica sociale, linguaggio formale e modalità narrative dei melodrammi e dei film gangster americani, riuscì, attraverso appassionanti storie individuali, a portare sullo schermo le condizioni e i problemi sociali dei tedeschi, creando così veri e propri sogni cinematografici in grado di coinvolgere e commuovere molte persone. L’estremismo che governava la vita di Fassbinder includeva anche il suo lavoro. «Un giorno è un anno è una vita» rispose una volta a chi gli chiedeva come riuscisse a produrre tanti film in così poco tempo. Sentendo che non avrebbe vissuto a lungo, era deciso a sfruttare ogni singolo giorno come se fosse tutta la vita. Droghe, alcol, eccitanti stimolavano la sua già incredibile capacità lavorativa e lo aiutavano a non cadere nel gorgo dei suoi tormenti interiori. Che quella vita sulla corsia di sorpasso prima o poi l’avrebbe ucciso, era una cosa che aveva messo in conto: «Potrò dormire quando sarò morto». Più i suoi tormenti si facevano sentire, più lui si buttava a capofitto nel lavoro. La sua tragedia personale era il suo
pungolo più importante: pagava un prezzo altissimo per l’espressione artistica. Ma anche molti dei suoi collaboratori rimasero vittime di quel delirio lavorativo maniacale e sfrenato, perché Fassbinder non risparmiava nessuno nel suo furore ossessivo e spesso arrivava a sfruttare le persone senza farsi scrupoli. Era un seduttore e un sadico capace di strappare ai suoi attori tutto quello che serviva alla sua sete di vita, alla fine però le sue opere straordinarie e durature gli davano ragione. Nel 1982 morì com’era vissuto, a soli trentasette anni, con la testa piena di progetti. Dopo la sua scomparsa il cinema tedesco perse importanza nel contesto internazionale. La sua fama invece rimase – ancora trent’anni dopo la sua morte il fenomeno Fassbinder continua a essere attuale, come hanno dimostrato ancora una volta sia il suo sessantesimo compleanno nel 2005, sia il venticinquesimo anniversario dalla morte nel 2007. Le pagine culturali l’hanno celebrato in lunghi articoli spesso a tutta pagina, molti canali televisivi hanno rimandato in onda i suoi film. Tuttavia l’entusiasmo per Fassbinder raggiunge vertici ben più alti all’estero che in patria. Tanto più sorprendente è il fatto che finora non sia stata ancora pubblicata nessuna biografia di Rainer Werner Fassbinder. I numerosi volumi a lui dedicati, quando non si rivolgono a un pubblico di nicchia con uno spiccato interesse per il cinema, sono spesso ritratti molto soggettivi di vecchi amici, collaboratori e compagni di strada. Un ritratto a tutto tondo, basato su ricerche indipendenti, che includesse la sua vita e il suo lavoro, mancava. Da anni inoltre imperversa una polemica bizzarra su chi debba detenere il primato nell’interpretazione dell’esistenza e delle opere di Fassbinder. Ingrid Caven, moglie del regista dal 1970 al 1972, ha attaccato a questo proposito Juliane Lorenz, che per diversi anni ha lavorato come montatrice per Fassbinder e dal 1992 è presidente della Rainer Werner Fassbinder Foundation, e si sente pertanto investita del compito di conservarne e diffonderne l’opera. Le critiche principali mossele da Ingrid Caven, sostenuta da numerosi compagni di strada del regista, è che falsifichi consapevolmente l’eredità
di Fassbinder, che cerchi di cancellare sistematicamente dalla memoria i collaboratori di un tempo da lei malvisti, rendendosi così colpevole della «censura di una vita». In qualità di biografo ho ritenuto importante fin dall’inizio accostarmi a Rainer Werner Fassbinder superando queste polemiche, a mio avviso alquanto sterili, e lasciando parlare, piuttosto che l’impeto dei sentimenti, fatti e documenti che abbiano un riscontro nella realtà, oltre ai film di Fassbinder dall’impronta più fortemente autobiografica. Senza farmi influenzare dall’uno o dall’altro partito, mi sono impegnato a intervistare numerosi testimoni dell’epoca, molti dei quali non avevano mai condiviso pubblicamente il proprio ricordo, in modo da costruire un’immagine di Fassbinder che fosse solo mia. Il risultato della ricerca è il ritratto di una vita per molti aspetti indubbiamente estrema, ma è proprio questa vita che ha spinto Fassbinder a girare i film ora consegnati ai posteri, la cui visione costituisce ancora oggi un arricchimento enorme.
Un bambino raggelato 1945-1963
Rainer Werner Fassbinder venne alla luce a Bad Wörishofen, nella regione bavarese dell’Allgäu, il 31 maggio del 1945, appena tre settimane dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Da un lato si sarebbe divertito a giocare su quella vicinanza temporale tra la sua nascita e la guerra, raccontando agli amici di ricordare i bombardamenti che sentiva nella pancia della madre,1 dall’altro, dichiarando sistematicamente per anni ai giornalisti di essere nato nel 1946, avrebbe cercato di prendere le distanze da quell’evento epocale, vissuto dalla maggior parte dei tedeschi non come una liberazione, ma come una sconfitta.2 Bad Wörishofen, apprezzata località di cure idroterapiche immersa nel paesaggio idilliaco del Mittelschwaben e consegnata alla storia della letteratura da un racconto di Katherine Mansfield, 3 era stata presa dalle truppe americane tre settimane prima della nascita di Fassbinder. In quella stessa località, a fine Ottocento, il parroco Sebastian Kneipp, grazie alle sue conoscenze sul potere terapeutico dell’acqua, aveva sviluppato le cosiddette cure Kneipp. Senza dubbio gli approvvigionamenti si erano dimostrati migliori nella rurale Wörishofen che nelle grandi città tedesche, ma il caos dovuto alla fine della guerra si avvertiva anche in questo luogo tranquillo. Nella clinica della cittadina infatti si forniva assistenza agli ex internati dei campi di concentramento, che fino ad allora erano stati costretti a lavorare per l’industria bellica in un campo satellite di Dachau situato nella vicina Türkheim. Molti di loro morirono per le conseguenze della prigionia. Inoltre gli americani avevano allestito in città un’apposita area per displaced persons, dove numerosi lituani e ucraini reduci dai campi di lavoro avevano trovato riparo in attesa di tornare in patria.4 La madre di Fassbinder, Liselotte Irmgard Pempeit, era nata nel 1922 nella cittadina polacca di Kuval,5 a sud della metropoli di Włocławek sulla Vistola, ed era poi cresciuta dapprima nel villaggio di Schmiede,6 a ovest di Danzica, quindi a Zigankenberg, un sobborgo della città.7 Nel 1944, aveva lasciato Monaco per seguire il marito nell’Allgäu. Helmuth Fassbinder, una volta conclusi gli studi, era stato richiamato dalla Wehrmacht per lavorare come medico assistente nell’ospedale militare di Bad Wörishofen. L’ospedale era stato sistemato in quella che un tempo era la casa di cure termali, poiché il fiorente commercio dell’idroterapia era quasi completamente venuto meno durante la guerra. Franz Karl Helmuth Josef Fassbinder, nato nel 1918, poco dopo la fine della Prima guerra mondiale, in una famiglia fortemente cattolica di preti, maestri e presidi, era già al secondo matrimonio. Dalla prima moglie, che gli aveva dato due figli, si era separato dopo essersi innamorato dall’oggi al domani della ventenne Liselotte, che chiamava teneramente «Li». Dopo la maturità e il servizio del lavoro obbligatorio a Danzica, nel 1942 Liselotte aveva intrapreso gli studi di germanistica a Monaco e lì aveva conosciuto quello che poi sarebbe diventato suo marito, di quattro anni più grande di lei. La giovane insegnante e il medico erano uniti dal comune amore per la letteratura. Helmuth infatti, figlio di un preside di scuola superiore, aveva frequentato, parallelamente agli studi di medicina, le lezioni di germanistica e coltivava il sogno, mai realizzato, di diventare scrittore. Continuò l’esercizio della professione medica fino in tarda età.8 La coppia si sposò nel 1944. Per paura di essere spedito al fronte all’ultimo minuto – benché la guerra apparisse ormai da tempo senza vie d’uscita – e di poter quindi morire, Helmuth volle a tutti i costi un figlio. Liselotte, che voleva terminare gli studi, non condivideva, almeno nell’immediato, quel suo desiderio, così lui non faceva che tormentarla: «Se mi ami davvero, il bambino lo vuoi anche tu, ora».9 La giovane donna cedette e Rainer Werner Fassbinder fu concepito nell’autunno di quello stesso anno nell’ospedale da campo di Bad Wörishofen.10 Fatte salve alcune trasferte a Monaco, Liselotte trascorse la gravidanza nell’Allgäu, regione perlopiù risparmiata dagli eventi bellici, e diede alla luce il suo unico figlio in una clinica ostetrica che fino
a poco tempo prima era ancora gestita dall’Hilfswerk Mutter und Kind (opera di soccorso nazionalsocialista «Mamma e bambino»).11 Si diceva che proprio lì il piccolo Rainer Werner12 fosse stato scambiato in culla, e pare che solo i tipici zigomi mongoli, eredità di una bisnonna lituana, abbiano chiarito il malinteso.13 Poco dopo la nascita del figlio, Helmuth e Liselotte tornarono a Monaco, che distava ottanta chilometri da Bad Wörishofen ed era stata invece distrutta dalle bombe. Negli innumerevoli e in buona parte devastanti attacchi delle forze aeree britanniche e americane ampie zone della «capitale del movimento»14 erano state ridotte in macerie. Molti degli emblemi di Monaco erano stati distrutti o gravemente danneggiati e oltre la metà delle abitazioni era inagibile. Tra le rovine vagavano persone rimaste senza casa alla ricerca dei parenti. Quasi nessuno riusciva a immaginare come da quei mucchi di macerie sarebbe potuta un giorno risorgere una città. Klaus Mann, tornato nella sua città di origine con indosso l’uniforme delle forze speciali dell’esercito americano, scrisse sconvolto nel maggio del 1945 le sue impressioni: «Mi ero immaginato qualcosa di assai brutto; ma è ancora peggio. Monaco non c’è più».15 Per garantire il sostentamento della sua famiglia, Helmuth Fassbinder decise di aprire non appena possibile uno studio medico. A questo scopo prese in affitto un grande appartamento di cinque stanze in Sendliger Straße,16 una via commerciale molto frequentata nel cuore di Monaco, dove poté sistemare sia l’ambulatorio che i familiari. Nell’immediato dopoguerra le condizioni di vita nella città bavarese erano tutt’altro che semplici. «Alle finestre non c’erano i vetri. Il combustibile non bastava» raccontò in seguito la madre di Fassbinder.17 A fronte delle misere condizioni abitative e della catastrofica situazione degli approvvigionamenti alimentari, Helmuth Fassbinder, in quanto medico, non poteva ignorare che in quelle circostanze sarebbe stato estremamente difficile far superare l’inverno al figlio che avevano messo al mondo. Senza consultare la moglie, decise che in autunno il piccolo Rainer, di soli quattro mesi, sarebbe stato portato da suo fratello gemello e dalla sua famiglia nella Foresta Nera. Anche sua cognata, che aveva uno studio medico di campagna nel piccolo comune di Kippenheim, nel Baden-Württemberg, aveva avuto, alla fine di luglio, un figlio: Egmont, il cugino di Rainer.18 Così Rainer trascorse i primi mesi di vita, decisivi per lo sviluppo di un bambino, senza padre né madre. Per Liselotte, come lei stessa ebbe a dire, non era stato facile consegnare il figlio nelle mani della cognata, ma alla fine si era piegata alla decisione del marito, dettata dal buon senso: «Ho accettato la cosa nonostante le mie grandi resistenze. Si figuri cosa può significare per una madre vedersi togliere il figlio quattro mesi dopo la nascita. È stato terribile».19 Forse fu proprio questa precoce separazione, che non deve essere stata semplice per nessuno, a impedirle di costruire un normale rapporto madre-figlio. Soltanto nell’estate del 1946, poco dopo il suo primo compleanno, Fassbinder fu nuovamente accolto in famiglia a Monaco, dove le condizioni di vita si erano un po’ stabilizzate. Nel frattempo, in mancanza di altro alloggio, nello spazioso appartamento di cinque stanze vivevano anche la madre di Liselotte, fuggita da Danzica, e il fratello con la moglie. In Germania, subito dopo la guerra, questo genere di convivenza forzata era usuale. Accanto allo studio medico del padre, nella parte posteriore dell’appartamento, c’erano altre stanze, date in subaffitto, in cui vivevano «ospiti occasionali», come ebbe a raccontare lo stesso Rainer Werner Fassbinder descrivendo le condizioni di vita in quella casa: «Così da bambino avevo a che fare più con quegli ospiti che con i miei genitori. Alla fine per me era difficile distinguere: chi sono a quel punto i tuoi genitori?».20 Per un bambino della sua età il caos di quell’abitazione doveva essere sconcertante: nella «famiglia allargata», messa insieme alla rinfusa, mancavano una struttura familiare chiara e delle gerarchie ben riconoscibili, così Rainer non riuscì a costruire con nessuno una relazione stabile, basata sulla fiducia reciproca. Il frequente alternarsi dei subaffittuari, nonché l’andirivieni dei pazienti del padre accrescevano l’instabilità e l’inquietudine di Rainer, segnandone ulteriormente lo sviluppo: «Credo di non aver mai avuto nessuno su cui poter davvero contare».21 I genitori erano troppo presi dalla loro vita per occuparsi in modo adeguato del figlio. Mentre il padre era perennemente occupato nell’ambulatorio, la madre lavorava come traduttrice. Nella sua inesperienza giovanile, nel 1940, prima ancora di aver compiuto i diciotto anni, era diventata membro dell’Nsdap (Partito nazionalsocialista dei lavoratori),22 e una volta finita la guerra, con suo grande rammarico, non le era stato permesso di insegnare; volendo quindi esercitare una professione e guadagnare qualcosa, non le era rimasto che accettare incarichi di traduzione.23
Anche quando ebbe ripreso Rainer con sé, dopo mesi di separazione, Liselotte Fassbinder non si sentiva in grado di dedicarsi affettuosamente al figlio. Fin da molto piccolo dunque Rainer si abituò al fatto che sua madre si ritirava per ore alla scrivania e lì, immersa nel lavoro, non doveva essere disturbata. Liselotte affidava le cure del figlio principalmente alla nonna, la quale, oltre a occuparsi di tutte le faccende domestiche per quella grande famiglia, badava al nipote non potendo però sostituire il ruolo materno. Il riserbo e la freddezza di Liselotte nei confronti di Rainer erano dovuti a diverse ragioni. Lei stessa ha dichiarato che a ventitré anni si sentiva ancora troppo «poco matura» per poter crescere un bambino,24 tanto più che era rimasta incinta solo perché si era lasciata convincere dal marito. Inoltre era stata a sua volta una figlia a cui la madre «avrebbe voluto rinunciare. Mi ha dato via quando avevo tre anni. Sono cresciuta con dei parenti. Odiavo mia madre».25 In seguito Liselotte cercò di spiegare quel suo disorientamento di fondo, quella sensazione di non riuscire ad allevare un bambino, con il fatto di aver dovuto sperimentare sulla propria pelle, prima da scolara e poi da ragazza del Bdm (Bund Deutscher Mädel, Lega delle ragazze tedesche, divisione femminile della Gioventù hitleriana), l’indottrinamento nazionalsocialista. E tuttavia in quell’occasione tacque la sua adesione all’Nsdap, che tenne segreta fino alla morte: «Quando nel 1945 compresi che tutti noi eravamo stati strumentalizzati e che era stato tutto un errore, mi resi conto anche di quanti problemi potessero sorgere nei processi educativi, al punto che mi parve di non essere in grado di educare e rifiutai quel compito».26 Quella motivazione data a posteriori è certamente riduttiva. Non c’erano soltanto le carenze non rielaborate della sua infanzia, Liselotte e suo marito avevano un’idea davvero insolita di come dovesse crescere un bambino. Giocattoli e libri per bambini erano malvisti in casa Fassbinder, anche la lettura dei fumetti era vietata, e al figlio non rimaneva che immergersi nei libri d’arte dei genitori: «I miei libri illustrati erano i volumi di Dürer, Altdorfer o Michelangelo che si trovavano in casa».27 Se i genitori leggevano delle pièce teatrali spartendosi i ruoli, il piccolo Rainer doveva sedersi ad ascoltare anche se non aveva l’età per capire. L’ambiente in cui cresceva non era adatto a un bambino. A Monaco poi i Fassbinder abitavano nei pressi del quartiere a luci rosse, e tra le pazienti del padre c’erano molte prostitute che andavano e venivano dall’appartamento, il che era motivo di frequenti scontri con gli altri inquilini dello stabile. Le prostitute divennero la compagnia abituale del piccolo Rainer, e ciò contribuì sicuramente a far sì che un giorno lui stesso non avesse alcun problema a prostituirsi e che il mondo delle puttane, dei marchettari e dei magnaccia fosse così presente nei suoi film. Era molto raro che Helmuth e Liselotte riflettessero sul loro ruolo di genitori e sui doveri che ne conseguivano: «Non mi capitava spesso d’incontrare i miei genitori da bambino, ma quando li incontravo era sempre un evento eccezionale. Succedeva sempre qualcosa di speciale». A posteriori Fassbinder avrebbe interpretato questi «intermezzi euforici» come proiezioni di desideri che attribuiva ai genitori in relazione a se stesso. «Prima di mettermi al mondo avevano idee davvero grandiose, pensavano che sarebbero diventati dei genitori meravigliosi, genitori che avrebbero aiutato il loro piccolo a cavarsela nella vita.»28 Ma quegli intervalli armoniosi, grazie ai quali i Fassbinder cercavano evidentemente di riguadagnare a tutta velocità il tempo perduto, nel bambino suscitavano soltanto degli scompensi affettivi che lo rendevano ancora più insicuro. Infatti quei brevi momenti gioiosi in cui godeva della presenza del padre e della madre gli dimostravano tanto più chiaramente che perlopiù doveva cavarsela senza il loro sostegno: «C’erano giornate intere in cui mi ritrovavo completamente solo, ed ero un bambino».29 Così, per necessità, Rainer manifestò molto presto una innaturale autonomia. La madre sviluppò una certa diffidenza nei confronti di quel figlio precoce e impertinente: «Ho notato quasi subito che non era possibile educarlo. Non appena cominciò a parlare, fu una sfida continua. A quattro anni mi disse: “Quel vestito non lo dovresti mettere, non ti sta bene, e i capelli dovresti farli crescere, i capelli corti sono brutti”». Questi rimproveri non facevano che aumentare il rifiuto di Liselotte Fassbinder nei confronti del figlio: «A volte pensavo, se le cose stanno così, se i figli demoliscono a quel modo le loro madri, allora dovremmo rifiutarci di metterli al mondo».30 Una volta, quando Rainer aveva cinque anni, si arrabbiò talmente con lui che gettò la sua amatissima tartaruga in strada, dove fu schiacciata da un’automobile sotto i suoi occhi inorriditi. Lo sgomento per la crudeltà della madre s’annidò profondamente nell’animo di Fassbinder, tanto che ancora venticinque anni dopo, quando una ragazzina ignara dell’accaduto volle presentargli la sua tartaruga, lui ebbe un attacco di panico.31 Man mano che Rainer cresceva, non solo peggiorava il suo rapporto con la madre, ma aumentavano anche le tensioni fra i genitori. A Liselotte pesava molto che suo marito le
rinfacciasse in continuazione le proprie origini modeste. Come se non bastasse, le era palesemente infedele e aveva una storia con l’infermiera dell’ambulatorio.32 Inoltre si verificarono due eventi tragici, destinati ad avere pesanti conseguenze per tutta la famiglia e legati al fatto che Helmuth praticava sempre più spesso aborti clandestini sulle prostitute e subaffittava le stanze dell’appartamento a donne disperate di quell’ambiente. Dopo il suicidio di una di loro nell’appartamento dei Fassbinder e il tentato suicidio di un’altra, che si gettò dalla finestra dello studio, gli altri inquilini fecero in modo che i Fassbinder ricevessero lo sfratto.33 Così la famiglia, nel 1950, si stabilì in un nuovo alloggio nella Stielerstraße, nei pressi della Theresienwiese.34 Anche qui Helmuth sistemò lo studio accanto all’abitazione della famiglia. Poco dopo tuttavia dovette rinunciare alla professione perché, essendo stato denunciato per via degli aborti, gli fu revocata l’abilitazione.35 La perdita della sicurezza materiale sembra aver dato il colpo di grazia al matrimonio di Helmuth e Liselotte Fassbinder, che nel 1951 si separarono, mandando definitivamente in pezzi il piccolo mondo del figlio. Helmuth Fassbinder a quel punto lasciò Monaco e si trasferì prima a Bad Godesberg, nei pressi di Bonn, e più tardi a Colonia, dove viveva una delle sue sorelle. Negli anni successivi andò a trovare il figlio solo raramente. Con il divorzio dei genitori Rainer non perse soltanto il padre, perse tutta la famiglia allargata nella quale era cresciuto nei primi sei anni di vita. La nonna e lo zio materno con la moglie si cercarono una nuova sistemazione, mentre Liselotte prese in affitto un appartamentino di due stanze nella vicina Lindenwurmstraße, dove si sistemò con il bambino. La separazione fu un duro colpo per Rainer: quando per la prima volta festeggiò il Natale da solo con la madre, per lui il mondo era ormai incomprensibile, come ricordò più tardi Liselotte Fassbinder: «Ho decorato l’albero di Natale, ho sistemato i regali e Rainer si è limitato a dire: “Ma come? Noi due soli?”».36 Dopo la separazione la madre di Rainer, che continuava a guadagnarsi da vivere facendo la traduttrice, si sentiva più sopraffatta di prima, cosa che del resto non stentava ad ammettere: «Dopo la guerra e dopo la separazione probabilmente non riuscivo a dare a Rainer neanche un po’ di amore».37 Certo non era una donna che in quelle circostanze potesse crescere il figlio con sensibilità e offrirgli consolazione. Sempre più spesso riversava su di lui l’amarezza nei confronti di Helmuth, che prima l’aveva convinta ad avere un figlio e poi l’aveva piantata in asso, lasciandola con un matrimonio fallito e i sogni infranti. Se ai suoi occhi Rainer era stato maleducato, poteva non parlargli per giorni interi, e negandogli l’amore in quel modo crudele non faceva che riproporre inconsapevolmente ciò che lei stessa aveva patito da bambina.38 Anche se più tardi Fassbinder cercò di nobilitare la cosa dicendo che non aver avuto una famiglia normale lo aveva arricchito, la mancanza di un ambiente protetto e di affetti sicuri, e le tante esperienze dolorose dell’infanzia lasciarono in lui segni profondi. Avrebbe poi ammesso infatti che «già da bambino ero quello che si definisce un maniaco depressivo»,39 condizione che rendeva molto difficili i suoi rapporti con gli amici e i compagni di giochi. Da un momento all’altro il bambino allegro che giocava con gli altri si poteva trasformare in un guastafeste imbronciato e poco socievole, il che lo rese ben presto un emarginato. «A volte ero felice, allegro e giocavo molto volentieri con i miei compagni, poi d’improvviso non ne avevo più nessuna voglia. Allora mi sedevo da qualche parte e gli altri non riuscivano a capire. Pensavano che fossi matto.»40 La conseguenza di questo atteggiamento fu che sempre più spesso gli altri bambini lo evitavano e lui se ne stava in disparte. I vicini più tardi lo avrebbero ricordato come un bambino introverso, «timido e riservato».41 Mentre un compagno di giochi dell’epoca lo avrebbe definito come il «bambino più infelice e triste» che avesse mai conosciuto.
Colpito da una pubertà quasi assassina All’infanzia difficile seguirono un’adolescenza e una giovinezza altrettanto problematiche: nemmeno la scuola riuscì a dare un sostegno a Rainer. Già alle elementari della Stielerstraße, dove cominciò nel 1951 all’età di sei anni, ebbe serie difficoltà perché non riusciva a integrarsi nella classe secondo le aspettative degli insegnanti. Il giorno in cui, dopo aver ricevuto uno schiaffo da una maestra, si gettò a terra e, isterico, invocò la polizia, per la direzione della scuola la misura fu colma: «Hanno detto che il bambino non può rimanere qui, deve andare in una scuola speciale».42 Liselotte Fassbinder riuscì a impedire che si mandasse suo figlio in una scuola o addirittura in un istituto per ragazzi difficili; anzi, fece in modo che Rainer passasse alla Rudolf-Steiner-Schule della Leopoldstraße, nella speranza che in una struttura privata a gestione autonoma e con classi decisamente più piccole potesse trovarsi meglio. In quella scuola fondata nel 1947 e che negli anni
cinquanta era ancora ospitata nelle baracche provvisorie, vigevano la Waldorfpädagogik43 e la visione antroposofica di Rudolf Steiner. Lì non si inculcava un sapere nozionistico, ma si stimolavano negli allievi l’intelligenza emotiva, la competenza sociale e le capacità pratiche: «Il pensare, il sentire e il volere dei ragazzi vanno sollecitati e stimolati allo stesso modo».44 Se si prescinde dalla tesi, che a quanto pare veniva spesso sostenuta a lezione, secondo cui i bambini alla scuola Steiner sarebbero cresciuti «spensierati come fiorellini», l’istituto non deve avere impressionato particolarmente Rainer, o, perlomeno, in seguito lui non sembra aver conservato particolari ricordi della scuola Steiner e degli anni trascorsi lì. Dal momento che la nuova scuola si trovava nel centro del quartiere di Schwabing, per raggiungerla Rainer doveva percorrere venti minuti di strada con il tram. In un primo tempo la madre si preoccupò che il figlio frequentasse regolarmente. Nel 1953, tuttavia, quando Rainer aveva cominciato da poco la seconda, Liselotte Fassbinder si ammalò di tubercolosi e dovette sottoporsi a cure molto impegnative.45 Poiché il suo stato di salute non migliorava, il dispensario locale sollecitò un soggiorno in sanatorio, ma, allevando suo figlio da sola, Liselotte si oppose a quella soluzione con le unghie e con i denti, finché non la minacciarono in presenza di Rainer: «Con questa tubercolosi aperta, se non ci andrà spontaneamente, verrà portata in sanatorio di forza»,46 e così dovette adeguarsi alle misure stabilite dalla sanità pubblica. Mentre la madre trascorreva nove mesi a Kempfenhausen, sul lago di Starnberg,47 il piccolo Rainer, di soli otto anni, rimase a casa, più o meno abbandonato a se stesso. Di tanto in tanto veniva tenuto d’occhio da vicini, parenti o amici, e il cibo se lo andava a prendere perlopiù al baracchino dei würstel. Non c’era nessuno che badasse davvero a lui o che si informasse se andava regolarmente a scuola: «Dipendeva solo da me decidere di andarci oppure no».48 E sempre più spesso non ci andava, perché ormai una passione s’era impossessata di lui e non lo avrebbe più abbandonato: il cinema, dove da solo, nel buio della sala, poteva abbandonarsi ai propri sogni. Già sua nonna, quando lui aveva cinque anni, lo portava spesso con sé al cinema, accendendo così il suo entusiasmo per il grande schermo. Sua madre invece desiderava che il figlio si occupasse di arte o di letteratura, e si oppose fin dall’inizio a quella passione: «Il cinema per me non era arte, era divertimento. Pensavo, cosa ne sarà di questo bambino se cerca sempre soltanto il divertimento?». In un primo momento dunque Liselotte aveva cercato di dirottare l’interesse di Rainer su altre cose, gli aveva comprato il meccano della Märklin o le scarpe per giocare a pallone. Ma i suoi sforzi furono inutili, neppure i divieti sortirono alcunché: il figlio era ormai inguaribilmente contagiato dal cinema.49 Mentre sua madre era in sanatorio, Rainer intensificò ancora di più la sua frequentazione dei cinema, che poteva permettersi grazie alla paghetta relativamente generosa che Liselotte gli dava per scaricarsi la coscienza. I film divennero la sua medicina e il punto di riferimento principale della sua infanzia e della sua adolescenza. Solo nel momento in cui si faceva buio in sala e si apriva il sipario, cominciava la sua vera vita: «Era l’unica cosa in cui trovassi un minimo di divertimento».50 Rainer divenne addirittura succube di quel mondo: fuggire negli universi paralleli del cinema, perdersi in film per i quali spesso era ancora troppo giovane e che lo avrebbero segnato per sempre. «Tutti i miei sentimenti li ho imparati al cinema» ammise una volta.51 Le storie del grande schermo lo consolavano quand’era triste e gli raccontavano le cose della vita che fino a quel momento nessuno gli aveva spiegato. I problemi di salute di Liselotte Fassbinder non finirono però con il suo ritorno da Kempfenhausen, si resero infatti necessari altri soggiorni in ospedale e in sanatorio, cosa che contribuì ad aumentare le tensioni tra madre e figlio. La nonna di Rainer peggiorava ulteriormente la situazione ripetendogli che il suo atteggiamento riottoso e le preoccupazioni che dava alla madre erano la ragione delle sue ricadute – una prospettiva che lo opprimeva, «perché io, nel mio egocentrismo, […] mi convincevo di essere la causa della sua malattia, e questo scatenava in me altra aggressività».52 Nei brevi intervalli in cui madre e figlio si ritrovavano insieme, la conflittualità, sempre latente, si rafforzava, soprattutto se nella vita di Liselotte comparivano altri uomini ai quali Rainer opponeva sempre un rifiuto. Quando aveva nove anni, sua madre ebbe una relazione con un uomo decisamente più giovane di lei. Il fatto che la donna, allora trentenne, avesse un amante di diciannove anni gli pareva già di per sé una cosa inaccettabile, che poi l’amante, poco più grande di lui, volesse fargli da padre, era follia pura.53 Alla fine reagiva con gelosia nei confronti di tutti coloro a cui la madre dimostrava il proprio affetto, e nessun uomo ebbe la fortuna di essere accettato da lui. In seguito a un’ulteriore ricaduta, che richiese un ricovero in ospedale più lungo dei precedenti, Liselotte decise di non lasciare da solo suo figlio e di mandarlo in collegio a
Ravensburg, a duecento chilometri da Monaco, dove ancora una volta il ragazzino dovette abituarsi a nuovi insegnanti e a nuovi compagni. Nel 1955, dopo il ritorno di Liselotte, Rainer cambiò nuovamente scuola quindi, terminate le elementari e superato l’esame di ammissione, fu iscritto al Theresiengymnasium. Fondato nel 1895, questo liceo a indirizzo umanistico si trovava in un imponente edificio antico non lontano dalla Theresienwiese, in Kaiser Ludwig Platz. Il fatto che Liselotte Fassbinder, nonostante le manifeste difficoltà scolastiche di suo figlio, avesse optato per quella scuola, considerata uno degli istituti migliori della capitale bavarese, dimostra che lei continuava ad avere grandi progetti per Rainer: «Volevo che facesse la maturità, che studiasse, che imparasse un mestiere e conducesse una vita ordinata».54 Ma ben presto fu evidente che anche qui Rainer non si trovava bene. Dopo un solo anno dovette lasciare l’istituto. L’ennesima ricaduta di sua madre, che trascorse i successivi due anni in un sanatorio per malattie polmonari, costrinse Fassbinder a passare nel 1956 all’Annakolleg, un liceo umanistico con convitto di Augsburg. Anche durante il periodo trascorso in collegio Rainer continuò a fuggire nel mondo dei film; i suoi istitutori non potevano impedirglielo, come non l’aveva potuto impedire sua madre, che vedeva quel suo «andare al cinema in modo incontrollato» come un «pericolo per l’anima del bambino».55 Ma Rainer Werner Fassbinder si era ormai dato anima e corpo al cinema: a dodici anni prese la decisione di diventare un regista importante. In seguito avrebbe indicato Zéro de conduite (Zero in condotta) del francese Jean Vigo (un film del 1933 al quale facevano riferimento molti dei registi della Nouvelle Vague) come la più significativa esperienza cinematografica della sua infanzia. Non era in grado di dire però quale fosse esattamente l’aspetto della pellicola che lo aveva più affascinato, se il contenuto (il film si svolge in un collegio e racconta la ribellione dei ragazzi contro il regime autoritario del direttore), che doveva per forza averlo coinvolto visto che lui stesso era stato un collegiale ribelle, o l’atmosfera onirica, molto vicina al surrealismo. Certo è che da quando l’aveva visto aveva capito che un giorno avrebbe girato dei film.56 «Il problema non si poneva nemmeno. Era solo una questione di tempo.»57 Ma la vita non era fatta soltanto dei sogni che il cinema alimentava. La scuola chiedeva i suoi tributi, Rainer invece continuava a non mostrare interesse per le lezioni e il suo rendimento lasciava molto a desiderare in quasi tutte le materie. In una pagella del 1958 viene giudicato insufficiente in tedesco e latino e sufficiente in geografia, biologia e musica. Il giudizio migliore è «discreto», che compare per matematica, religione, educazione fisica e arte. Alla luce di questi voti più che modesti, la sua promozione era ancora una volta a rischio.58 Anche se la madre lontana scriveva parole incoraggianti al «caro piccolo Rainer», assicurandogli che certo non gli mancava «l’intelligenza per studiare al liceo»,59 il suo rendimento scolastico, entro la fine dell’anno, non migliorò, e il figlio, che non aveva evidentemente nessuna voglia di studiare, nell’estate del 1958 fu costretto a lasciare il liceo e, dopo le vacanze estive, passò al Realgymnasium, a indirizzo tecnico-scientifico. Contrariamente al liceo, che metteva l’accento sulle lingue antiche e sulla cultura umanistica, qui il corso di studi era focalizzato sulle lingue moderne e le materie scientifiche. Anche in questa scuola, però, Fassbinder rimase solo un anno. Nel 1959, dopo l’ennesima bocciatura, rientrò per la prima volta a Monaco dopo i tre anni trascorsi ad Augsburg, e da quel momento in poi frequentò il Neues Realgymnasium München, la sua settima scuola. Liselotte, che lo aveva portato invano da uno psicologo60 per via dei suoi problemi scolastici, vedeva suo figlio, ora quattordicenne, come una personalità molto autonoma: un ragazzo che ormai da tempo prendeva per conto suo decisioni di vitale importanza. Non solo le aveva annunciato di voler fare un giorno dei film, ma le aveva anche confessato in piena consapevolezza – non da ultimo perché in collegio aveva avuto qualche esperienza in questo senso61 – di essere omosessuale. Avendo cominciato la sua vita sociale nel Terzo Reich ed essendo cresciuta con l’ostilità del nazionalsocialismo nei confronti degli omosessuali, Liselotte, come ci si poteva aspettare, reagì con orrore al coming out, peraltro piuttosto precoce, del figlio. «A quattordici anni venne da me in cucina e mi annunciò con un sorriso radioso: mammina, sono gay. A quel punto pensai, ora ci vuole lo psichiatra. Qualcosa era evidentemente andato storto.»62 Le sedute dallo psichiatra, che all’epoca erano considerate da molti genitori la strada migliore in questi casi, a Rainer furono risparmiate. Sebbene gli mancassero ancora ben sette anni per giungere alla maggiore età,63 era già troppo autonomo perché sua madre potesse decidere per lui. Rainer non permetteva più a nessuno di imporgli dei limiti o di prendere decisioni prevaricanti. Il fatto che Liselotte, nonostante l’isteria iniziale, non avesse poi impedito al ragazzo di cercare da sé la propria identità sessuale, non voleva dire che lei ne avesse compreso o addirittura ne
avesse accettato l’omosessualità. Per tutta la vita continuò a sperare che Rainer potesse essersi sbagliato in merito al proprio orientamento sessuale e che prima o poi tornasse sulla «retta via». Ancora dieci anni dopo la morte del figlio, in un’intervista ebbe a dire che «con le donne non aveva semplicemente avuto fortuna».64 Da parte sua Fassbinder non ha invece mai fatto mistero della propria omosessualità e l’ha sempre vissuta con grande naturalezza e disinvoltura. Rientrare a Monaco non significò per Rainer tornare ad abitare con sua madre, per la quale lui continuava a essere soltanto un fattore di disturbo. Liselotte, dichiarata definitivamente guarita in seguito a un’operazione al polmone destro, aveva conosciuto il giornalista cinquantaquattrenne Wolff Eder, che a posteriori, e travisando lei stessa i fatti, tentò di presentare come un «socialista affidabile» e un «socialdemocratico convinto».65 In realtà, proprio come lei, Eder era stato iscritto all’Nsdap a cui aveva aderito già nel 1937.66 Eder, originario di Oranienstein in Renania, aveva fatto rapidamente carriera nel Terzo Reich ed era considerato un giornalista fedele alla linea.67 Dal 1930 era collaboratore e redattore delle Münchner Neuesten Nachrichten dove aveva continuato a svolgere la sua attività anche dopo il 1933, quando tutti i giornalisti considerati politicamente inaffidabili erano stati licenziati su pressione dei nazisti.68 Nonostante questo suo passato decisamente equivoco, Eder, dopo il 1945, aveva potuto proseguire la sua carriera con la benedizione degli addetti stampa dell’esercito americano ed era diventato collaboratore del Main-Post a Würzburg. Dopo aver diretto per un certo periodo la sede di Monaco del periodico d’informazione Der Spiegel,69 era passato alla libera professione e aveva lavorato per diverse testate. Nel febbraio del 1959 Liselotte Fassbinder si era unita in matrimonio con Wolff Eder, che aveva diciassette anni più di lei e non era mai stato sposato, e si era trasferita a casa sua a Monaco-Bogenhausen, in un piccolo appartamento nella Possarstraße. Il fatto che l’alloggio si fosse rivelato troppo piccolo per tre persone non fu la ragione determinante che spinse Liselotte Eder a non accogliervi il figlio. Rainer non amava il patrigno e si era categoricamente rifiutato di partecipare alle nozze. La profonda antipatia comunque era reciproca. Liselotte Eder, dissimulando ancora una volta la realtà, avrebbe in seguito raccontato che, se all’inizio c’era stata qualche tensione tra i due a causa della gelosia di Rainer, poi tutto sommato la relazione si era stabilizzata nel segno del reciproco rispetto, e che il «soccorrevole» Wolff Eder aveva persino dato «un certo equilibrio» a suo figlio mostrando comprensione anche per le sue inclinazioni omosessuali.70 Le cose però stavano in modo ben diverso. Un amico di gioventù di Fassbinder ricorda: «Wolff Eder era una persona sgradevole, un tipo molto scorbutico. Era terribilmente conservatore, anzi, addirittura reazionario. Quando seppe che Rainer era omosessuale, disse subito: “Quello lì a casa mia non ci viene”. E la madre accettò le sue condizioni ferendo enormemente il figlio. Rainer si sentiva abbandonato, non capiva come il nuovo compagno potesse essere più importante di lui. Questa cosa gli spezzò il cuore, e Rainer non glielo perdonò mai. Fu l’inizio di un odio-amore che durò per tutta la vita».71 Liselotte dunque sistemò il figlio nel convitto St. Georg, non lontano dal suo appartamento. Profondamente deluso, Rainer si sentiva rifiutato dalla madre, che non sembrava volergli offrire neanche una casa o un po’ di sicurezza. Ancora una volta era completamente abbandonato a se stesso e non aveva nessuna intenzione di sottomettersi al regolamento del nuovo collegio. Liselotte Eder non faceva che ricevere lamentele sul suo comportamento. In particolare erano le fughe serali per andare al cinema a creare malumore. Poiché la madre non era in grado di contenere quel «figlio difficile», Wolff Eder volle fare una predica al figliastro con l’unico risultato di scatenare una lite violenta, nel corso della quale Rainer dichiarò senza mezzi termini all’odiato patrigno: «Lei non è mio padre e io non sono tenuto a obbedirle».72 Dopo che Rainer, per provocarlo, una volta era comparso davanti a lui con il volto truccato e lo smalto sulle unghie,73 la madre decise di vedere suo figlio solo in assenza del marito. Quando Rainer annunciava una sua visita, Eder lasciava fugacemente l’appartamento. Vista la situazione caotica in cui Rainer era costretto a vivere, i suoi risultati scolastici continuavano a lasciare molto a desiderare. Alla consegna delle pagelle di metà anno, all’inizio del 1961, l’ammissione alla classe successiva appariva di nuovo in forse. Rainer rischiava di dover lasciare, dopo il liceo, anche il Realgymnasium, e a quel punto si sarebbe potuto diplomare soltanto in una scuola professionale. Nonostante queste tristi prospettive le sue prestazioni scolastiche rimasero insufficienti. Anche in questo caso l’ormai quasi sedicenne non riuscì a far fronte alle richieste della scuola, quindi dovette lasciarla anzitempo, e senza un diploma, nel maggio 1961.74 Sentendosi del tutto indesiderato dalla madre che, sempre più presa dal suo secondo matrimonio, metteva i desideri del marito sopra ogni cosa, Rainer decise di lasciare Monaco e di
trasferirsi a Colonia dal padre. Liselotte Eder accettò quella decisione e sbrigò subito i preparativi necessari per il suo trasferimento sul Reno. Se davvero la decisione del figlio l’abbia «sconvolta»,75 come disse in un’intervista, o se piuttosto non si sia sentita sollevata all’idea di liberarsi finalmente di quel ragazzo difficile, non possiamo saperlo. Nell’estate del 1961, in ogni caso, Rainer si trasferì a Colonia e nei due anni successivi visse con il padre. Dopo la separazione da Liselotte, Helmuth Fassbinder si era stabilito a Colonia perché lì viveva sua sorella. Gisela Fassbinder aveva tre anni più del fratello e lavorava come attrice76 e regista presso il teatro Der Keller (La cantina). Nel 1940 si era sposata con l’importante compositore di musica sacra e musicologo Hermann Schroeder. Helmuth viveva in un appartamento di sua proprietà nella centralissima Roonstraße, con la sua fidanzata, un’infermiera che aveva lavorato presso il suo ambulatorio, che in seguito avrebbe sposato e con la quale avrebbe avuto altri due figli. Costretto ad abbandonare la professione medica dopo la revoca dell’abilitazione, viveva ora un’esistenza molto confortevole grazie alla sostanziosa eredità lasciatagli dal padre. Con il fratello gemello, Helmuth, che aveva sempre coltivato una passione per la letteratura, aveva tentato in un primo momento di dare una svolta alla sua vita fondando la casa editrice Kurfürsten-Verlag, un progetto fallito probabilmente senza che venisse pubblicato un solo libro.77 Grazie all’eredità, Helmuth Fassbinder era entrato in possesso di molti appartamenti, che affittava soprattutto a lavoratori stranieri, in crescita a Colonia per via delle officine Ford, e ora suo figlio Rainer avrebbe dovuto aiutarlo a trovare nuovi inquilini per gli appartamenti ancora sfitti. Per un ragazzo della sua età non doveva essere un compito molto gradevole, ma Rainer, che da tempo aveva imparato a prendere la vita come «una lotta»,78 sapeva come muoversi e ben presto finì col trovarsi bene nel mondo degli immigrati. Nei curricula aveva l’abitudine di definire questa sua attività certo non edificante come lavoro «nell’agenzia immobiliare» del padre. Tuttavia anche questa impresa era destinata a fallire. Helmuth Fassbinder, che era un vero e proprio sprovveduto nelle questioni contabili, aveva continue difficoltà con le autorità fiscali, tanto che alla fine le case che possedeva gli furono pignorate e lui dovette far fronte a una montagna di debiti.79 Il rapporto tra padre e figlio si dimostrò ben presto altamente problematico. Erano estranei l’uno all’altro e dopo dieci anni di lontananza non avevano più granché da dirsi. Helmuth Fassbinder sedeva per ore davanti al televisore appena acquistato e seguiva trasmissioni culturali e documentari sulla natura che al figlio non interessavano minimamente. Inoltre, proprio come Wolff Eder, aveva serie difficoltà ad accettare l’omosessualità di Rainer, che la viveva invece con estrema consapevolezza, e come la sua ex moglie, cercava disperatamente delle spiegazioni per quell’inclinazione. Pare che, decenni dopo la morte di Fassbinder, si arrovellasse ancora per trovare le ragioni di quell’«erotismo sbagliato» e che, una volta stabilitosi a Duisburg come psicoterapeuta, fosse giunto alla conclusione che lo shock degli attacchi aerei, cui si era esposta la madre in gravidanza durante le visite a Monaco, e lo stretto rapporto con i bambini di strada dovevano aver «influenzato» negativamente il figlio.80 Sempre più spesso fra i due si verificavano scontri violenti che, a causa del temperamento collerico del padre, abituato a ribadire con impeto la propria autorità, finivano spesso con «terribili scazzottate». «E allora lui telefonava a colei che è poi diventata sua moglie e diceva: “Prendi nota: mio figlio ha tentato di uccidermi!”, e allora lei prendeva nota, e c’è un libro, che esiste ancora oggi, in cui c’è scritto quante volte ho tentato di ucciderlo e tutto quello che gli ho fatto».81 Il ragazzo sedicenne sentiva il duro rifiuto che il padre gli opponeva per via della sua omosessualità, ma sicuramente anche per l’apparente assenza di obiettivi nella vita, e cercava continuamente di provocarlo. Così Rainer provò persino a sedurre l’amante del padre scrivendole «focose poesie d’amore».82 «I tentativi furono senz’altro molto audaci.»83 I conflitti insolubili tra padre e figlio spinsero infine Rainer a trasferirsi presso la zia, nella non lontana Burgunderstraße. A Colonia Rainer cominciò presto a esplorare l’ambiente omosessuale, vivace ma ancora clandestino. Quando Fassbinder era giovane infatti era in vigore il paragrafo 175, ovvero il cosiddetto Schwulenparagraph, il comma degli omosessuali, promulgato nel 1871, inasprito dai nazisti, ripreso senza modifiche nei codici della Germania Federale e solo nel 1969 mitigato, per poi essere del tutto abolito nel 1994. I severi controlli all’ingresso dei bar e dei locali omosessuali nonché le regolari retate della «buoncostume» erano dunque all’ordine del giorno. Per un minorenne dev’essere stato molto avventuroso e ardito muoversi all’interno di quel «mondo proibito» ed esotico. Rainer tuttavia era fermamente deciso a conquistare quel mondo senza farsi intralciare da nessuno. Il fatto che all’epoca non fosse una cosa semplice poter vivere apertamente la propria omosessualità non pareva disturbarlo molto. Per lui il proprio
orientamento sessuale era qualcosa di così normale che solo dalle reazioni di rifiuto notava che «gran problema potesse essere per gli altri».84 Nelle sue scorribande nei club gay lo accompagnava spesso Udo Kierspe, che aveva appena un anno più di lui, e che più tardi avrebbe fatto carriera come attore con lo pseudonimo di Udo Kier, diventando addirittura «il più famoso comprimario del mondo».85 A quel ragazzo bellissimo, che come Fassbinder aveva scoperto da tempo la propria inclinazione per il suo stesso sesso, piaceva truccarsi e vestirsi da donna. Con grande abilità imitava la sua star preferita dell’epoca, Caterina Valente, dalla quale si sentivano attratti molti omosessuali.86 I due ragazzi si erano incontrati per la prima volta nell’eccentrico «Bei Leni», «una vera e propria osteria frequentata da operai, camionisti, travestiti e segretarie», come ricorda Udo Kier. «Ci si azzuffava e si trangugiavano boccali di birra: insomma, la vita. Quella è stata la mia scuola e anche la sua.»87 I due sedicenni cominciarono così a esplorare l’ambiente omosessuale di Colonia. Sebbene nella maggior parte dei bar e dei club l’ingresso fosse consentito a partire dai diciott’anni, loro riuscivano comunque quasi sempre a entrare. Presero a frequentare quei locali notturni in cui gli omosessuali di una certa età erano disposti a pagare per procurarsi incontri con ragazzi giovani, anche minorenni. Entrambi notarono subito che gli altri uomini li trovavano attraenti e così iniziarono a prostituirsi.88 Rainer all’epoca era afflitto da una brutta forma di acne ed era estremamente timido e riservato di fronte agli estranei – tanto che faceva fatica a guardare negli occhi i suoi interlocutori –, ma imparò presto che il sesso gli dava potere e che i rapporti sessuali fugaci, grazie ai quali si potevano persino guadagnare dei soldi, riuscivano a compensare la sua mancanza di fiducia in se stesso. Lui, che fino a quel momento non era mai riuscito a placare la sua sete di attenzioni, di colpo si sentiva oggetto di ammirazione e di desiderio. In tutta la sua vita il sesso avrebbe occupato un ruolo centrale. Ben presto Fassbinder, che avrebbe poi sperimentato ogni genere di dipendenza, sviluppò una dipendenza dai rapporti sessuali occasionali, che mise le prime radici proprio a Colonia e crebbe poco più tardi nell’ambiente omosessuale di Monaco. Poiché fin dalla prima infanzia aveva avuto rapporti con molte rappresentanti del milieu a luci rosse, non parve avere nessuna difficoltà a mercificare il sesso e il proprio corpo. «Per me la prostituzione è sempre stata una cosa molto più normale di quanto non lo fosse per altre persone.»89 Non avendo mai sperimentato una relazione a due armonica e funzionante, era molto affascinato al pensiero di poter vivere in modo completamente separato amore e sessualità – anche se per tutta la vita desiderò profondamente un legame sentimentale stabile con un altro uomo. Anche in questo caso, il cinema gli faceva da modello. Uno dei suoi film preferiti era Vivre sa vie (Questa è la mia vita) di Jean-Luc Godard, che racconta di una donna separata che per difficoltà economiche si vede costretta alla prostituzione e tuttavia, pur vendendo il proprio corpo, riesce a conservare l’innocenza. Ciò che più lo affascinava in quel film era quanto stava vivendo anche sulla propria pelle. «Un giorno andando a battere la protagonista si rende improvvisamente conto di essere diventata importante, che per determinate persone ha assunto un’importanza che prima non aveva.»90 La citazione di Montaigne posta in epigrafe al film, «Mon opinion est qu’il faut se prêter à autrui et ne se donner qu’à soi-même» (Bisogna prestarsi agli altri e darsi a se stessi), s’impresse profondamente nella memoria di Rainer.91 Era ormai determinato a gustarsi il più possibile tutto ciò che la vita gli avrebbe offerto. In una poesia scritta in quel periodo confessò: «Liebe, Lust und Leben / Heisse Hoffnung unerfüllt / ich will alles geben, / was das Leben stillt» (Amore, piacere e vita / speranza ardente irrealizzata / tutto voglio dare / pur di fermare il tempo).92 Nel settembre del 1962, più di un anno dopo il trasferimento a Colonia, Rainer cominciò a frequentare una scuola serale. Se fino a quel momento era sembrato poco interessato a ottenere un diploma, di colpo si mostrò deciso ad arrivare alla maturità. La ragione era che presso l’università di Colonia si poteva studiare al primo istituto di storia del teatro al mondo, fondato nel 1920. In un primo momento la prospettiva di poter realizzare, grazie a quegli studi, il suo sogno di diventare un regista, fu una spinta sufficiente per applicarsi con più impegno di prima alla sua formazione. Ma alla fine anche quell’esperienza s’interruppe prima del diploma. Poiché sentiva quell’unica vocazione e tutto il resto per lui era impensabile, Fassbinder non si sforzò di riorientarsi professionalmente o di cominciare un apprendistato. Era assolutamente convinto che con un lavoro normale come quello auspicato per lui dai genitori sarebbe poi stato infelice o insoddisfatto. Anche più tardi continuò a chiedersi in modo ossessivo cosa ne sarebbe stato di un essere umano come lui se fosse stato costretto a intraprendere una professione normale. A metà degli anni settanta, quando ormai era uno dei registi tedeschi più affermati,
dichiarò: «Voglio provare a fare un film su di me, su come sarebbero andate le cose se non avessi avuto successo. Cerco di capire cosa ne sarebbe stato di me».93 Ma quell’opera, alla quale lui aveva già dato un titolo, Die täglichen Launen der letzten Gewissheit (Le lune quotidiane dell’ultima certezza), non ha mai visto la luce. Nel periodo in cui si trovava a Colonia, Fassbinder cominciò a scrivere poesie, radiodrammi e racconti brevi che perlopiù narravano di storie infelici e di giovani uomini che sognavano di diventare artisti, di amore e solitudine, morte e nostalgia, nonché dell’impossibilità di amare nella società contemporanea. Rileggendo oggi quelle poesie e quei racconti ci rendiamo conto che molti dei motivi ricorrenti e degli atteggiamenti di fondo che in seguito avrebbero dato forma ai suoi film, erano già ancorati nel pensiero di quel ragazzo diciassettenne. Con la serietà che informa quelle prime prove era pienamente consapevole di volersi distinguere dal padre e dai suoi sogni irrealizzati di scrittore: «È completamente pazzo, da non credere: sostiene con forza che se avesse avuto, anche solo una volta nella vita, quella sicurezza che serve per scrivere, il mondo avrebbe potuto assistere a qualcosa straordinario».94 Anche in questo senso dunque, il padre non era la persona in cui poteva trovare un modello. Con tanta maggior determinazione Fassbinder cominciò quindi a mettere in pratica i suoi sogni di artista e decise di levare le tende da Colonia e ritrasferirsi a Monaco. Negli anni seguenti Fassbinder mantenne con Helmuth contatti molto sporadici e alla fine degli anni sessanta arrivò la rottura definitiva. A provocarla fu una nuova, profonda delusione quando Fassbinder si recò a Colonia per portargli le prime critiche positive alle sue regie teatrali e il padre si mostrò del tutto disinteressato ai successi del figlio. Anche se da ragazzo Rainer aveva sempre mostrato un atteggiamento combattivo e ribelle nei suoi confronti, ciò non significa che la sua opinione gli fosse del tutto indifferente. Evidentemente non riuscì nemmeno allora a far colpo sul genitore, e la cosa lo ferì a tal punto che per il resto della vita non tentò più in alcun modo di ottenere la sua approvazione o il suo affetto. Ogni volta che il padre cercava di raggiungerlo per telefono, e anche questo capitava raramente, Fassbinder non si faceva trovare.95 Solo molto malvolentieri, in seguito, avrebbe accettato di rievocare gli anni trascorsi a Colonia, che per lui erano un «brutto» periodo.96 Quando Rainer, nel 1963, tornò a Monaco, la sua situazione non era cambiata. Nell’appartamento della madre e del patrigno continuava a essere indesiderato e dovette quindi cercarsi un altro posto dove stare. Come prima, Liselotte riceveva il ragazzo, che ora aveva diciotto anni, solo quando Wolff Eder era fuori casa. Il fatto che lei continuasse a piegarsi senza opporre la minima resistenza alla volontà del marito, respingendo così il figlio, costituiva tra loro una sorta di muro insormontabile. Trovandosi ancora una volta completamente abbandonato a se stesso e senza alcun sostegno economico né dal padre né dalla madre, Rainer si vide costretto a fare marchette.97 Il quartiere malfamato intorno al teatro Am Gärtnerplatz, le osterie, le bettole e i cessi pubblici in cui si vendeva a dei perfetti sconosciuti, divennero luoghi addirittura magici. Aveva trovato un mondo le cui leggi gli parevano convincenti e in cui riusciva a muoversi senza problemi. Per i coetanei Rainer non mostrava molto interesse, mentre aveva un debole per gli uomini di una certa età dai quali – diversamente da quanto aveva fatto con suo padre – si lasciava guidare. In quel periodo, per esempio, stava con un operaio greco decisamente più anziano di lui. Quando Fassbinder lo presentò a sua madre, lei gli oppose un netto rifiuto: aveva da ridire perché «non padroneggiava la lingua tedesca» e perché «non era un accademico».98 L’unico amico di Fassbinder che Liselotte Eder abbia mai accettato è Michael Fengler, eterosessuale e di buona famiglia, che s’era diplomato con successo al liceo dei gesuiti e perdipiù studiava all’università di Monaco. Nei suoi confronti si mostrò subito affettuosa, tanto più che lui la aiutava nelle traduzioni. Lei infatti, pur avendo solo qualche rudimento di francese e italiano, accettava incarichi di traduzione anche da queste lingue, lavori che non sarebbe mai riuscita a portare a termine senza l’aiuto di Michael. Liselotte Eder continuava a indicarlo quale esempio di persona brillante, lasciando intendere che le sarebbe piaciuto se Rainer fosse stato un po’ come lui. Quando in seguito il figlio venne bocciato all’esame di ammissione per la Filmhochschule,99 lei disse che era «tipico» da parte sua: «Michael sarebbe stato senz’altro promosso».100 Anche se Fassbinder ingoiava la rabbia per le uscite di sua madre, quelle continue offese lo perseguitarono per tutta la vita e trovarono espressione nei suoi film, che per lui dovevano equivalere a un «processo di identificazione», il tentativo, insomma, di «capire un po’ meglio» se stesso.101 Nei film di Fassbinder troviamo spesso madri fredde e distanti nei confronti dei propri figli.102 Così, per esempio, nel Mercante delle quattro
stagioni (Der Händler der vier Jahreszeiten) un uomo si arruola con il suo migliore amico nella Legione Straniera perché non sopporta più la sorveglianza e le punizioni di sua madre – interpretata da Gusti Kreissl che, non a caso, somiglia a Liselotte Eder. Quando il protagonista torna a casa solo e racconta alla madre della morte dell’amico, lei lo aggredisce fredda: «Sempre la stessa cosa. I migliori se ne vanno e quelli come te invece tornano». Però, mentre Fassbinder evitava sistematicamente il conflitto diretto con Liselotte Eder, e trangugiava rabbia per le offese, la freddezza, le ferite che lei gli infliggeva, il figlio del film Il mercante delle quattro stagioni può permettersi di scagliare addosso alla madre tutto il suo disprezzo: «Ti odio, mamma, ti odio».
Una deviazione, passando per il teatro 1963-1969
Fin dall’inizio la grande passione di Fassbinder fu il cinema. «Ho desiderato fare film dal momento in cui ho cominciato a riflettere sul mio futuro» disse una volta a Hanna Schygulla,1 una delle sue attrici di riferimento. Se dapprima si dedicò al teatro, non fu che per ripiego, una sorta di deviazione che bisognava mettere in conto per poter raggiungere l’obiettivo vero e proprio.2 Nonostante la giovane età, Fassbinder era tutt’altro che un ingenuo, era anzi perfettamente consapevole che non sarebbe stato poi così semplice realizzare dei film. Sarebbero serviti soldi, collaboratori, interpreti, nonché la necessaria attrezzatura; e lui non possedeva nulla di tutto questo. Gli mancavano inoltre le competenze. Una scuola di cinema, un luogo in cui si potesse imparare il mestiere dalla A alla Z, a quei tempi in Germania non esisteva ancora. D’altra parte non poteva nemmeno studiare storia del teatro all’università perché non aveva un diploma. Così si vide costretto a cercare delle alternative. «In mancanza di altre idee»3 si decise per un corso di recitazione; gli era infatti giunta voce che a breve sarebbero state fondate a Berlino e a Monaco delle accademie di cinema. Fassbinder sapeva che non avere la maturità avrebbe potuto ostacolarlo non poco anche in questo proposito e sperava di avere qualche possibilità in più grazie alla formazione di attore. In primo luogo però gli serviva il consenso della madre, ancora responsabile per la sua formazione. Con sua grande sorpresa, lei non ebbe nulla in contrario al progetto e, nel settembre del 1963, il diciottenne Fassbinder cominciò a prendere lezioni di recitazione una volta la settimana.4 Suo insegnante era il settantaseienne attore e cantante monacense Max Krauss. Krauss era stato un baritono di successo e fino ai primi anni cinquanta aveva lavorato come direttore artistico presso il Landestheater di Coburg; dopo il ritorno a Monaco, decise di trasmettere ai giovani attori la sua pluridecennale esperienza sulla scena con il «Laboratorio di espressione e interpretazione». Nel marzo del 1964, scaduti i sei mesi di prova con Krauss stabiliti dal contratto, Fassbinder passò al Friedl Leonhard Studio, un’altra scuola di recitazione privata. Per poterne sostenere i costi piuttosto alti, lavorava a ore negli archivi della Süddeutsche Zeitung e prestava servizio come comparsa presso i Münchner Kammerspiele.5 Sembra che frequentasse abbastanza regolarmente le lezioni, che comprendevano esercizi di dizione e di respirazione, nonché lo studio approfondito dei ruoli e la libera improvvisazione. Tuttavia Fassbinder, che non vedeva il suo futuro nella recitazione, si faceva ben poche illusioni sul fatto che quel corso di studi potesse portare a un impegno effettivo nel teatro. In fondo la scuola di recitazione per lui era un luogo che esisteva in funzione di un unico obiettivo: «Quel desiderio sfrenato che hanno tanti ragazzi e ragazze di calcare le scene e incendiare il palcoscenico come fosse il mondo».6 Nonostante questa valutazione pessimista, Fassbinder portò a termine la formazione nel maggio del 1966, così se non altro disponeva di un diploma, ancorché professionale. Malgrado ciò, all’esame di stato di recitazione organizzato dal consorzio dei teatri tedeschi fu bocciato. L’aver frequentato quella scuola non rimase però, nella vita di Fassbinder, una parentesi del tutto priva di conseguenze: lì infatti conobbe Hanna Schygulla, che aveva due anni più di lui. Sia Fassbinder che la Schygulla venivano considerati degli outsider, e in effetti lo erano. Ma sebbene entrambi si tenessero alla larga dai compagni e intervenissero raramente nelle loro discussioni, la posizione di outsider, almeno in un primo tempo, non li portò ad avvicinarsi. Fassbinder, decisamente timido quando si trovava tra la gente, osservava da una certa distanza l’introversa Schygulla dall’aria sempre un po’ assente. Alla sua compagna di corso, d’altro canto, Rainer appariva chiuso e scostante. Ne era convinta: «A quel tizio non piaccio».7 Certo, lei allora non poteva sapere che Fassbinder, a diciannove anni, la vedeva già come la protagonista dei suoi film futuri. Solo parecchi anni dopo Hanna Schygulla venne a sapere di questa intuizione sorprendentemente precoce, e a quel punto aveva già lavorato in una ventina di film del regista.8
Ai tempi della scuola, tuttavia, lui non aveva ancora nemmeno osato rivolgerle la parola né chiesto a un amico di dirle quanto lo entusiasmasse il suo modo di recitare.9 Solo quando i due constatarono di avere lo stesso sguardo critico su quanto accadeva nel corso di recitazione, di non condividere del tutto i metodi che vi venivano insegnati e di provare la stessa repulsione nei confronti dei compagni di corso troppo ambiziosi, si avvicinarono via via l’uno all’altra. Fin dall’inizio li unì «un comune sentire in cui le parole non servivano»,10 come ricordò Fassbinder anni più tardi. Le loro conversazioni però non vertevano mai su questioni private, perlopiù parlavano dei film che Rainer un giorno avrebbe girato ma anche dei libri che Hanna divorava: «Lei raccontava della letteratura e della vita, io dei film e della vita».11 Mentre lui non vedeva il suo futuro nella recitazione ma nella regia, Hanna non sapeva ancora dove l’avrebbe portata il suo viaggio. La studentessa, figlia di modesti profughi dell’alta Slesia, a scuola di recitazione ci andava di nascosto.12 I genitori infatti erano convinti che si stesse dedicando anima e corpo agli studi di filologia che aveva iniziato, e non immaginavano che Hanna fosse determinata a fare della sua vita qualcosa di speciale. Di aspetto poco appariscente, sognava fin da ragazzina di essere desiderata dagli uomini e acclamata dal pubblico. Gli idoli della sua giovinezza erano superdonne come Brigitte Bardot e Marilyn Monroe. Dopo la maturità era andata a Parigi come ragazza alla pari; gli studi, iniziati subito dopo all’università di Monaco, non riuscivano a darle granché, per questo, decisa a «diventare qualcosa d’altro»,13 tentò la strada del teatro. Dalla scuola di recitazione tuttavia rimase delusa, proprio come il suo compagno Rainer. È vero che si studiavano i grandi ruoli femminili della storia del teatro come l’Antigone di Sofocle o la Gretchen di Goethe, ed era contenta delle parole incoraggianti degli insegnanti che prevedevano per lei un grande avvenire, però ebbe da subito l’impressione di peggiorare invece di migliorare, cosa che la portava continuamente a bloccarsi sulla scena durante le prove. Tormentata dai dubbi sul proprio futuro, alla fine interruppe le lezioni di recitazione e si dedicò completamente allo studio e alla preparazione degli esami di stato per diventare insegnante. Dopo che ebbero lasciato il Friedl Leonhard Studio, le strade di Rainer e di Hanna in un primo momento si separarono. Mentre la Schygulla dimenticò ben presto il giovanotto, Fassbinder perseguiva imperturbato il suo progetto di far diventare un giorno Hanna la star dei suoi film, e quando cominciò a lavorare in teatro, la invitò subito a collaborare. Con la massima naturalezza due anni più tardi le offrì poi il ruolo di protagonista nel suo primo film e la scritturò per le pellicole successive. Fassbinder credeva nel suo talento e ben presto la trasformò in una «Marilyn di periferia»14 molto rispettata: il giovane regista aveva così avviato una delle carriere attoriali più importanti e sorprendenti del dopoguerra tedesco.
Quel che si chiama amore A metà degli anni sessanta Fassbinder conobbe altre due persone che a vario titolo avrebbero lasciato il segno nella sua vita. Nell’autunno del 1965, nell’ambiente omosessuale di Monaco, incontrò il suo primo compagno, Christoph Theodor Roser, che lui chiamava Theo, e si trasferì ben presto nel suo appartamento in Rathgeberstraße, nel quartiere di Monaco-Moosach. La sua affittacamere infatti lo aveva sfrattato senza preavviso dopo avergli letto la posta trovandovi, con sua grande indignazione, le lettere d’amore oscene dell’amante.15 Roser, che in un primo tempo era stato un cliente di Fassbinder e che aveva approfittato delle sue marchette prima di innamorarsi di lui,16 aveva circa trentacinque anni, quindici più di Fassbinder. Già all’apparenza erano una coppia molto diseguale. Mentre Roser badava moltissimo al proprio aspetto e ce la metteva tutta per vestirsi sempre in maniera impeccabile e all’ultima moda, Fassbinder si presentava sempre trasandato e sciatto, con le sue giacche di pelle consunte, le magliette sudicie, le camicie aperte fino all’ombelico e i pantaloni provocatoriamente stretti, «come doveva portarli allora ogni omosessuale» scrive Rosa von Praunheim «per attirare l’attenzione su di sé».17 Roser era un attore fallito. È vero che nel 1960 era stato scritturato per breve tempo al Neues Theater di Monaco, ma in seguito ottenne ruoli sempre più piccoli e meno importanti. Se per un verso non era riuscito a rimediare un ingaggio a lungo termine in un teatro, per l’altro il suo fervente desiderio di ottenere una scrittura come attore di cinema non s’era ancora realizzato. L’agenzia cinematografica alla quale si era affidato non era mai riuscita a procurargli una parte. Poiché anche con il teatro non aveva impegni in vista, si guadagnava da vivere facendo il rappresentante e spesso si trovava in viaggio fuori Monaco. La sua situazione però non lo
soddisfaceva e sognava di poter ancora scardinare quell’esistenza stabile ma noiosa per tentare di nuovo la sorte come attore. Il fatto che Rainer, il suo giovane amico entusiasta del cinema, credesse così fermamente nel proprio futuro di regista, dev’essere stato un incentivo importante per indurlo a cominciare una relazione con lui. E in effetti il desiderio di Roser di tornare a recitare doveva poi realizzarsi, seppure per breve tempo, accanto a Rainer, perché sotto la sua regia si esibì davanti alla cinepresa nei due cortometraggi, Der Stadtstreicher (t.l.18 Il vagabondo) e Das kleine Chaos (t.l. Il piccolo caos), che lui stesso aveva finanziato. La sua carriera cinematografica tuttavia finisce qui. Dopo la separazione da Rainer, Roser tornò definitivamente alla vita borghese. Mentre Roser non fu che una breve parentesi nella vita di Fassbinder, l’amicizia nata nello stesso periodo con Irm Hermann, di tre anni più grande di lui, ebbe una durata decisamente maggiore. Quando Fassbinder la conobbe, la ventitreenne di origini piccolo borghesi non inseguiva ancora il sogno di diventare attrice, anche se di tanto in tanto immaginava di abbandonare i suoi binari fissi e di «fare altro».19 Prima ancora di compiere quattordici anni era stata costretta dall’anziano padre a seguire un apprendistato come promotrice editoriale, così che, se lui fosse morto, lei avrebbe potuto mantenere la famiglia. Terminata quella formazione, aveva trascorso tre anni in Francia e in Inghilterra a lavorare come ragazza alla pari, dopo di che era tornata a Monaco dove faceva la segretaria presso l’automobilclub Adac. Irm Hermann e Fassbinder si conobbero grazie a Susanne Schimkus, un’altra studentessa del Friedl Leonhard Studio. Quel giovanotto con la testa piena di progetti per i suoi prossimi film, che fumava una sigaretta dopo l’altra, l’aveva subito incantata: «Era molto, molto affascinante, riservatissimo, ti guardava con quei suoi grandi occhi castani e io ero bell’e cotta».20 Anche se gli amici le avevano caldamente consigliato di non impegolarsi con lui, lei se ne innamorò pazzamente. Nemmeno il fatto che Rainer avesse una relazione con Christoph Roser e che non facesse mistero della propria omosessualità la dissuase. Lei sapeva del legame tra i due uomini, ma «dell’omosessualità non le importava niente»: «Non riuscivo a immaginarmi cosa fosse e non volevo nemmeno provarci».21 Sebbene in un primo tempo Irm Hermann non osasse nemmeno pensare di poter stare davanti alla cinepresa e di fare l’attrice, si lasciò presto convincere da Fassbinder a prendere parte al suo primo cortometraggio, Der Stadtstreicher: «Sono stati i miei primi passi fuori dalla vita borghese».22 Il regista esordiente capì subito che bastava poco per far felice la giovane donna che lo adorava incondizionatamente: «Alla fine delle riprese, mi regalò il suo accappatoio sdrucito. Disse che se lo metteva quando aveva bisogno di fortuna e che funzionava sempre. Oh, mio Dio, come l’ho amato per questo!».23 Presto la loro amicizia si fece più intensa. Ogni giorno Fassbinder andava a prenderla al lavoro e alla fine la convinse a rompere con la sua vita borghese. Mandò a suo nome una lettera di dimissioni all’Adac, e su esortazione dell’amico regista Irm fondò un’agenzia per attori che rappresentò oltre a Rainer anche Christoph Roser e più tardi, per breve tempo, Hanna Schygulla. Con gli ultimi risparmi viaggiò instancabilmente, e invano, per tutta la Germania nel tentativo di promuovere i suoi attori ancora sconosciuti. Quando tirava fuori le foto di Fassbinder, si sentiva dire che quello lì, con il suo aspetto, di sicuro non avrebbe avuto alcuna possibilità come attore. Rainer, del resto, non aveva ambizioni serie in quel campo, sperava solo di guadagnare qualche soldo. Il suo scopo era «diventare il più grande regista di tutti i tempi», come ricorda Irm Hermann: «Io gli credevo, sapevo che ce l’avrebbe fatta ed ero pronta a qualunque sacrificio per lui».24 All’inizio del 1966, poiché di soldi ce n’erano sempre meno, Rainer e Christoph si trasferirono a casa di Irm, un appartamentino di quaranta metri quadri nella Ainmillerstraße, dove abitarono in tre fino alla separazione dei due uomini nell’estate del 1967. Dal momento che Fassbinder continuava a portare in casa le sue conquiste occasionali, ben presto, nel giro gay di Monaco, l’appartamento si guadagnò il nomignolo di «Bumsburg», rocca delle scopate.25 Il fatto che Rainer andasse a letto con altri uomini, che si mantenesse prostituendosi e che passasse troppo tempo nei bagni delle stazioni e dei grandi magazzini mentre lei lo aspettava, non sembrava disturbare Irm nel suo ingenuo innamoramento. Per anni lei visse nella speranza che l’omosessualità di Rainer fosse solo una fase passeggera e che un giorno avrebbe potuto avere una relazione con lui.26 Nel frattempo, restando al suo fianco si godeva quella vita da vagabondo e da bohémien che Rainer si era costruito, felice per ogni ora che poteva trascorrere con lui. «Quello è stato davvero il nostro momento più intimo. Eravamo sempre in giro, a passeggio all’Englischer Garten, nei caffè, a sentire musica, a giocare a flipper, a fumare, andavamo al cinema due o tre volte al giorno.»27
Presto la giovane donna dovette però ammettere che essere amici di Rainer era anche molto faticoso: «Non potevo mai dormire e nemmeno ammalarmi». Soprattutto la gelosia di Fassbinder e il suo bisogno di controllo, a lungo andare, resero insopportabile la convivenza. «Nei primi anni ho sofferto molto per il fatto che lui mi dominava, che non potevo stare un minuto da sola, che lui decideva, giorno e notte, quello che avremmo fatto.» Leggeva ogni lettera che riceveva e gliele censurava, e quando lei andava a comprare qualcosa, anche solo il latte, e aveva l’impressione che c’impiegasse troppo, la metteva bruscamente in riga: «Perché non sei tornata subito?». Questo tuttavia non cambiava nulla nei sentimenti che Irm provava per lui: «Amavo Rainer con ogni fibra del mio cuore».28 Sebbene Fassbinder continuasse a vivere appieno la propria omosessualità frequentando molti uomini diversi, aveva evidentemente bisogno di legare a sé anche delle donne, con la sua possessività, le sue richieste e i continui rimproveri. Irm Hermann fu solo la prima di una lunga serie di figure femminili che il regista irretì, cercando a volte di assoggettarle completamente, per assecondare il proprio desiderio di una vita il più possibile non convenzionale e antiborghese. Gli piaceva essere corteggiato e adorato. Era felice soprattutto quando più persone intorno a lui ambivano al suo amore, perché allora poteva farle ingelosire e metterle l’una contro l’altra. Quando per esempio Hanna Schygulla tornò nella sua vita, si trovò, suo malgrado, invischiata nel sempre più complesso intreccio di relazioni. Irm lo conferma: «Certo che ero gelosa di Hanna: mi veniva continuamente presentata come un esempio luminoso; lei era così meravigliosa e io non ero niente».29
Sapevo che avrei fatto film Chiunque incontrasse Fassbinder in quei primi anni sessanta veniva investito dal suo grande entusiasmo, dai suoi progetti cinematografici. Di certo qualcuno l’avrà preso per un sognatore, sorprende però il numero di coloro che sentirono istintivamente che lui «voleva davvero fare dei film, anzi, che li doveva fare».30 Originario di Königsberg, nella Prussia orientale, Michael Fengler aveva cinque anni più di Fassbinder e fu una delle amicizie platoniche più strette di questo periodo, oltre che un alleato decisivo nella sua ossessione cinematografica. Anche lui figlio di un medico, aveva studiato germanistica e romanistica a Monaco, ma da tempo, come Fassbinder, aveva legato il suo cuore al cinema. I due si erano conosciuti nel 1964 tramite l’allora fidanzata di Fengler, Molly von Fürstenberg,31 che frequentava la scuola di recitazione insieme a Rainer e Hanna Schygulla. Fengler trovò subito interessante il diciannovenne pallido e timido, «anche se aveva un aspetto spaventoso. Aveva un’acne pazzesca che curava spalmandosi una crema pastosa su tutto il volto. Sembrava una maschera».32 I due uomini fecero presto amicizia. Fassbinder sentì subito la necessità di informare il nuovo amico su tutti gli aspetti della sua esistenza, compresa l’omosessualità. Non solo gli mise in mano un’edizione ciclostilata di Querelle di Brest di Jean Genet, il suo libro preferito di allora, ma lo portò con sé nell’ambiente omosessuale di Monaco. Michael Fengler ricorda: «Per me quella fu un’avventura molto pericolosa, potevano esserci delle retate in qualsiasi momento. Però trovai la cosa molto interessante e divertente perché naturalmente non conoscevo affatto quel mondo. Rainer Werner mi portò in una casa chiusa in cui lui si prostituiva, e mi mostrò come si conquistava cinquanta marchi. Per lui farsi comprare era una cosa del tutto naturale, da questo punto di vista non aveva nessun tipo di scrupolo».33 Fin dall’inizio, al centro di quell’amicizia ci fu la comune passione per il cinema. Fengler aveva studiato per qualche mese a Parigi, ma aveva passato più tempo alla Cinémathèque française che all’università. A Fassbinder raccontava entusiasta dei registi della Nouvelle Vague. I due giovani trascorrevano insieme moltissime ore nei cinema di Monaco e a volte vedevano anche due o tre film uno dietro l’altro. Inoltre divennero ospiti fissi del Deutsches Institut für Film und Fernsehen (Istituto tedesco per il cinema e la televisione) di Monaco, precursore della Münchner Hochschule für Fernsehen und Film (Hff). Qui, in una vecchia villa della Kaulbachstraße, potevano spulciare riviste come i Cahiers du Cinéma e Sight and Sound in biblioteca, e guardarsi film a volontà. Facendosi passare per collaboratori dell’Istituto, chiedevano ai distributori copie di tutti i film che avevano voglia di vedere, pur avendo un debole per il cinema americano e quello francese. L’Istituto aveva poi un altro vantaggio. «C’era una certa signora Ulrich» ricorda Michael Fengler «che ci aveva preso in simpatia e ci metteva a disposizione non solo la sala di montaggio in cantina, ma anche, gratuitamente, i film da 35 mm. Così potevamo guardarceli per ore, fotogramma per fotogramma, al banco di montaggio, e studiare esattamente com’erano stati fatti.
Eravamo entrambi autodidatti, ma lì, nelle ore che trascorrevamo da soli in quella stanza, abbiamo imparato moltissimo.»34 Poiché non poteva ancora pensare di realizzare un film tutto suo, Fassbinder rimise mano ad alcuni abbozzi di scrittura teatrale dei tempi di Colonia, e prendendo ispirazione da Nuit et brouillard (Notte e nebbia), l’opprimente documentario di Alain Resnais sui campi di concentramento e di sterminio nazionalsocialisti,35 realizzò la sua prima opera per il teatro. Nur eine Scheibe Brot (Per un pezzo di pane) racconta la storia di un giovane regista che tenta di girare un film su Auschwitz. Consapevole del fatto che, visto il tema, sarebbero piovuti su di lui premi e onorificenze per quell’opera prima, viene sopraffatto dagli scrupoli. Si confronta sempre più accanitamente con la realtà dei campi di concentramento nazisti e alla fine arriva a una conclusione: «Non ho il diritto di girare questo film, nessuno può farlo. Rappresentare questi fatti significherebbe necessariamente minimizzarli».36 Nonostante la ferma convinzione che non si possa mettere in scena ciò che non si riesce a capire, lui, alla fine, si lascia convincere dal produttore a consegnare il film come pattuito, e in questo modo, come aveva previsto, si farà un nome. La sua opera prima non solo viene giudicata «di grande valore», ma è anche insignita di tre Bundesfilmpreise. Con Nur eine Scheibe Brot Fassbinder si presentò a un concorso per opere teatrali bandito dalla Junge Akademie München. Poiché era preoccupato che i giurati, tra i quali c’erano Laurens Straub e Tankred Dorst, lo ritenessero troppo giovane e inesperto visto che aveva appena vent’anni, presentò il lavoro sotto il nome di Christoph Roser, il quale dovette anche recitare il pezzo nell’ambito del concorso. «In ogni caso Rainer non ci sarebbe riuscito, era troppo timido per farlo» fa notare Irm Hermann.37 La giuria attribuì al lavoro teatrale di Fassbinder il terzo premio.38 Michael Fengler si mostrò irritato per il fatto che l’amico, entusiasta del cinema, di colpo si mettesse a scrivere opere teatrali, «perché a noi, in fin dei conti, interessava il cinema».39 Ma Fassbinder non aveva certo perso di vista il suo sogno. Dopo le innumerevoli ore di studio passate al cinema e al banco di montaggio, la sua voglia di acquisire i fondamenti del mestiere era diventata incontenibile. Nel maggio del 1966 si recò a Berlino per sostenere l’esame di ammissione alla Deutsche Filmund Fernsehakademie (Accademia tedesca per il cinema e la televisione) che doveva aprire i battenti a settembre. Nella documentazione per il concorso Fassbinder incluse, oltre al curriculum, anche una sceneggiatura che aveva scritto sulla base di Nur eine Scheibe Brot e che aveva chiamato Parallelen. Notizen und Texte zu einem Film über Auschwitz (Parallelismi. Note e testi per un film su Auschwitz). Anche se i candidati dovevano avere un’età compresa tra i ventitré e i ventotto anni, nel suo caso si fece un’eccezione, e così fu tra coloro che, su duecentocinquanta domande, erano stati scelti per essere ammessi all’esame. Sia Erwin Leiser, uno dei due direttori della nuova accademia di cinema, che il regista Peter Lilienthal, membro della commissione giudicatrice, avevano sostenuto espressamente la sua candidatura. Leiser trovava che Fassbinder, vista la giovane età, avesse presentato una sceneggiatura «davvero notevole», e il giudizio di Lilienthal fu: «Sorprendente la forza della sua scrittura, deve presentarsi all’esame di ammissione».40 L’esame, che durò tre giorni, ebbe luogo nel maggio del 1966. Consisteva di una parte scritta e una pratica; in quella scritta bisognava dapprima compilare un questionario in cui si chiedeva di ricostruire a memoria la trama dell’Amleto di Shakespeare o di analizzare delle opere teatrali di Beckett. Seguivano quindi domande di attualità (quell’anno sui rapporti tedesco-israeliani) e altre di politica internazionale (si sollecitava una valutazione dell’importanza dell’ultimo congresso del Partito comunista sovietico). L’esaminando doveva indicare le opere d’arte che più lo avevano colpito, i libri e i film preferiti, per permettere alla commissione d’esame di capire quale fosse «l’orientamento generale del candidato, il suo livello culturale e i suoi interessi anche al di fuori dell’ambito artistico».41 Altri esercizi da svolgere per iscritto erano un tema, un breve abbozzo di sceneggiatura per la versione cinematografica di un racconto,42 l’analisi di una sequenza, nonché un giudizio circostanziato su un film – fra quelli proposti, Fassbinder scelse il suo preferito, Vivre sa vie di Godard. La prova pratica conclusiva consisteva nel girare un cortometraggio di otto minuti con una cinepresa da 8 mm. Il candidato aveva libertà di decidere se farlo in forma di reportage documentando la vita quotidiana intorno alla Funkturm di Berlino, o come libera improvvisazione con degli attori. L’esperimento di regia di Fassbinder, come quelli degli altri candidati, purtroppo non è stato conservato. Per Fassbinder fu una grande delusione non trovare il proprio nome nell’elenco degli ammessi quando furono esposti i risultati dell’esame. Le ragioni per cui non fu preso non si riescono a
ricostruire con esattezza. Visto che la sceneggiatura presentata aveva immediatamente suscitato reazioni positive, dev’essere stato il cortometraggio a determinare la scelta della commissione – ed è plausibile, dato che fino a quel momento Fassbinder non aveva mai tenuto in mano una cinepresa – oppure la sua scarsa coscienza politica. Quest’ultima era una premessa indispensabile per tutti i candidati e all’epoca, in un’istituzione come quella, l’orientamento doveva essere dichiaratamente di sinistra e ostile all’establishment della Repubblica Federale Tedesca.43 Allora però l’interesse di Fassbinder per le questioni politiche era decisamente scarso, inoltre non aveva letto né la bibbia di Mao, che andava per la maggiore negli ambienti intellettuali di sinistra, né altri scritti programmatici analoghi. Nel questionario d’esame aveva risposto in modo dettagliato alle domande sui film, sui libri e sulle opere teatrali, lasciando pressoché in bianco quelle su temi più esplicitamente politici. Altri candidati avevano carte migliori da questo punto di vista perché erano già molto più concretamente politicizzati. Tra coloro che superarono l’esame c’era, per esempio, Holger Meins, divenuto in seguito un membro della prima generazione della Raf; già quand’era studente della Filmakademie girò un film dal titolo Wie baue ich einen Molotow-Cocktail? (Come si costruisce una bomba molotov?). La pellicola si conclude con un appello incendiario; Meins infatti fa seguire alla dimostrazione di come si appicca un incendio, l’immagine della sede della casa editrice Springer. Fassbinder non ha mai nascosto che quella bocciatura per lui fu «una sconfitta umiliante e triste».44 Daniel Schmid,45 uno dei trentacinque ammessi, che aveva da poco stretto amicizia con Fassbinder, suo ospite durante il soggiorno berlinese, lo ricordava a pezzi: «Rainer piangeva a dirotto. […] Era completamente a terra».46 Fassbinder si riprese comunque con sorprendente rapidità. Caparbio, decise di ritentare l’esame l’anno successivo presentandosi molto più preparato. Appena rientrato a Monaco, nel luglio del 1966, girò il suo primo cortometraggio in Super 8, una tecnica che si era sviluppata in ambito amatoriale solo l’anno precedente e che era ormai diventata di uso comune. Dal momento che non aveva denaro a sufficienza, ma nemmeno la faccia tosta di rubare una cinepresa al Deutsches Institut für Film und Fernsehen come aveva fatto senza tante remore Werner Herzog,47 chiese aiuto alla sua amica Irm Hermann. Come c’era da aspettarsi, lei si impegnò con grande disponibilità a trovare i fondi per finanziare i primi passi di Fassbinder nel cinema: «Ho aperto un credito presso una banca, due o tremila marchi, non di più. Lui voleva fare un cortometraggio e mi ha giurato e spergiurato che me li avrebbe restituiti, cento marchi alla volta; poi ovviamente non l’ha fatto».48 La stessa Irm non era in grado di ripagare il prestito, e quell’aiuto disinteressato la mise in serie difficoltà. La carcerazione preventiva presso la prigione di Monaco-Stadelheim, già minacciata, fu evitata per un pelo grazie a una dichiarazione giurata. Per Fassbinder This Night, la sua opera prima della durata di otto minuti, ora dispersa, fu un’esperienza decisiva. Persino molti anni dopo, poche settimane prima della morte, il regista ricordava: «Quando ho girato la prima inquadratura della mia vita, è stato pazzesco, più del migliore orgasmo che abbia mai avuto. È stata una sensazione indescrivibile».49 Decisamente meno gratificante è stato invece il suo tentativo di fare pratica con un altro regista. Nell’estate del 1966 gli si offrì inaspettatamente l’opportunità di lavorare per un programma televisivo dal titolo Hoffnungsgruppe (Gruppo della speranza) come collaboratore e assistente alla regia del documentarista sudtirolese Bruno Jori.50 Il film, girato con una piccola squadra, racconta la storia di un istituto cattolico per ragazze madri minorenni a Verona. L’operatore Richard Rimmel ricorda: «Fassbinder era molto preso dal tema del film. Il contesto sociale, il destino di donne e bambini, il bisogno di amore e tenerezza, erano temi che condividevamo tutti».51 Fassbinder era incaricato soprattutto dell’audio, limava però anche i commenti off scritti da Jori. Come galoppino, si occupava inoltre dell’organizzazione del set, sistemava gli accessori di scena e non rinunciava, di tanto in tanto, a comparire in sala montaggio. Grazie ai moltissimi film che aveva visto e alle ore di studio passate con Fengler al banco di montaggio, aveva già idee molto concrete su come andasse fatto un film e secondo Jori s’intrometteva fin troppo nel lavoro. Alla fine, Rainer non riuscì più a sopportare di non poter decidere in prima persona, come ammise in seguito: «Per l’assistenza alla regia, evidentemente non ero portato, visto che ogni posizione della cinepresa, ogni movimento di macchina e indicazione di regia mi parevano ridicoli e al tempo stesso falsi».52 Il problema di Fassbinder era che in Germania a quei tempi mancavano registi visionari e famosi presso i quali poter stare davvero a bottega, per di più gli mancavano le conoscenze linguistiche e le possibilità finanziarie per fare esperienze all’estero: in Francia, per esempio, dove il cinema in ambito culturale aveva sempre goduto di maggiore considerazione rispetto alla Germania. Proprio per questa ragione Volker Schlöndorff era andato a Parigi e aveva imparato il mestiere facendo da assistente a Louis Malle, Alain Resnais e Jean-Pierre Melville. Così ben presto Fassbinder abbandonò il tentativo di fare pratica lavorando con altri registi.53 Guardare film gli
sembrava semplicemente la preparazione migliore in vista del momento in cui lui stesso, un giorno, avrebbe fatto dei film. Molto meglio che seguire dei registi che non riusciva a prendere sul serio: «Il vero apprendistato da cineasta per me consisteva nel guardare sistematicamente tre, quattro film al giorno».54 Dopo averci preso gusto con il primo film in Super 8, la volta successiva volle assolutamente provare i 35 mm, il formato standard in ambito cinematografico. Affittare l’attrezzatura e acquistare il materiale necessario era molto più costoso che nel caso di un film in Super 8. Fassbinder non poteva proprio permetterselo, a mala pena rimaneva a galla grazie ai lavori occasionali e alla prostituzione. Per sua fortuna riuscì a convincere il compagno Christoph Roser, che possedeva dei risparmi, a finanziargli il cortometraggio. In cambio gli concesse il ruolo di protagonista, cosa che spinse Roser a credere che la sua carriera fosse finalmente ripartita. Nel novembre del 1966 Fassbinder poté così girare il suo primo cortometraggio, Der Stadtstreicher,55 un film di dieci minuti concepito come un omaggio alla sua nuova opera preferita, Le signe du lion (Il segno del leone), in cui Éric Rohmer, regista della Nouvelle Vague, racconta la storia di un uomo che diventa improvvisamente un clochard e deve cavarsela per le strade di Parigi. In Der Stadtstreicher Christoph Roser interpreta a sua volta un barbone che, vagando senza scopo per le vie di Monaco, a un tratto trova una pistola. Dopo aver tentato invano di liberarsi dell’arma comincia pian piano a immaginare di puntarsi la pistola alla tempia ponendo così fine alla sua vita. Quando ha ormai cominciato a prendere confidenza con l’idea del suicidio, di colpo due uomini gli portano via l’arma e lo abbandonano in lacrime all’Englischer Garten. I due in realtà stavano seguendo il vagabondo già da parecchio tempo e si sono permessi con lui un gioco macabro: vedere come reagisce una persona in una situazione del genere. Dal momento che le riprese venivano continuamente rimandate per via del cattivo tempo, i costi del film cominciarono a lievitare perché aumentavano i giorni d’affitto dell’equipaggiamento, e in Christoph Roser, il «produttore», cresceva lo scontento. Roser era però una persona «cara, molto dolce», ricorda Michael Fengler, che era il responsabile del suono del film. Ma Fassbinder lo dominava completamente. «Faceva tutto quello che Rainer gli diceva e non osava mai contraddirlo. Ogni volta che cautamente lo avvertiva che il film stava diventando sempre più caro, Rainer si limitava a lanciargli un’occhiata severa, e Roser non diceva più niente.»56 Dopo aver ultimato il montaggio, Fassbinder organizzò per i collaboratori, gli amici e i conoscenti una proiezione all’Arri-Kino, un cinema della Türkenstraße, a Monaco. Sperando in un giudizio positivo, nell’aprile del 1967 Fassbinder presentò il cortometraggio anche alla Filmbewertungsstelle di Wiesbaden,57che però diede un parere negativo. Fassbinder diffuse poi la leggenda, ancora oggi in circolazione, secondo cui il giudizio positivo gli sarebbe stato negato perché la Filmbewertungsstelle s’era convinta che il film fosse un’apologia del suicidio.58 La valutazione, che non è mai stata pubblicata, enumera invece, dopo alcuni apprezzamenti, anche i molti punti deboli di quel debutto: «Un riconoscimento va espresso per le riprese, ottime. Inoltre nel film si trovano alcune scene di una certa forza espressiva, per esempio la sequenza finale, quando i due giovani giocano con la pistola». Ma per la commissione prevalgono decisamente le lacune: «Nel complesso il film è poco trasparente dal punto di vista drammaturgico. Lo spettatore non capisce dove voglia andare a parare. In ogni caso quella che ci viene presentata non è l’esperienza di un vagabondo, ma ci si avvale, con un certo compiacimento, della figura del vagabondo per dar voce a una serie di idee non sempre comprensibili. […] La commissione non vuole però entrare nel merito di ogni singola sequenza perché le lacune del film sono così evidenti che non sarebbe comunque possibile emettere un certificato di qualità. I problemi riguardano soprattutto gli attori, non solo il protagonista, ma anche le figure che compaiono di sfuggita e che risultano del tutto finte nelle loro brevi apparizioni. La musica, abbinata alle immagini, risulta patetica. Del tutto priva di gusto è poi la scena con la “crocifissione”», una sequenza onirica in cui Christoph Roser è appoggiato a una parete come un uomo crocefisso e accanto a lui c’è un’immagine di Gesù sulla croce. «Questa scena in particolare dimostra che chi l’ha costruita non sapeva dove andare a parare.»59 Prima ancora di avere tra le mani il giudizio distruttivo della Filmbewertungsstelle, giunto nel maggio del 1967, Fassbinder aveva girato, a gennaio, il suo secondo cortometraggio in 35 mm, sempre finanziato dal compagno, che aveva nuovamente convinto a cedergli i suoi risparmi. Questa volta dietro la cinepresa c’era Michael Fengler. I tre ruoli principali li interpretavano lo stesso Fassbinder, Christoph Roser e Marite Greiselis, che aveva frequentato la scuola di recitazione con Rainer. In realtà lui aveva pensato quel ruolo per Hanna Schygulla, ma all’epoca i
due si erano persi di vista. Das kleine Chaos racconta la storia di due uomini e una donna che vanno in giro per la città a vendere abbonamenti per settimanali illustrati. Stanchi di essere continuamente respinti dalla gente e di non guadagnare nulla, in preda alla frustrazione, i tre aggrediscono una donna nel suo appartamento puntandole contro una pistola; la tormentano, la umiliano e le portano via i pochi risparmi. Poi se ne vanno indisturbati. Pur essendo un omaggio a Vivre sa vie di Godard, il secondo lavoro di regia di Fassbinder è anche molto influenzato dai film gangster hollywoodiani, per i quali lui aveva da tempo un debole. Dopo la delusione per il giudizio tanto negativo della Filmbewertungsstelle su Der Stadtstreicher, Fassbinder rinunciò a presentare alla commissione il secondo cortometraggio. In questo modo la possibilità che i due film circolassero nei cinema si faceva remota, perché senza certificato nessuna casa di distribuzione li avrebbe accettati nei suoi fuori programma. Il tentativo di Michael Fengler e Irm Hermann di vendere le pellicole alle televisioni non sortì alcun risultato, proprio come la richiesta di Fassbinder di proiettarli al Festival di Oberhausen. Anche se i film furono rifiutati, nella primavera del 1967 Fassbinder e la Hermann andarono comunque in autostop a Oberhausen per presentarli, con una proiezione privata in margine al festival, a un piccolo gruppo di amici e conoscenti. Al regista però mancò il coraggio di proporli ad altri cineasti e gente del mestiere. In ogni caso, visto che i primi due cortometraggi non furono distribuiti nelle sale, Christoph Roser, che ne era il finanziatore e produttore, non riuscì più a recuperare i suoi soldi. Il mancato successo dei film nei quali Fassbinder e il suo compagno avevano riposto tante speranze causò molte frizioni nel rapporto tra i due uomini. Nell’estate del 1967, due anni dopo che si erano conosciuti, i due si lasciarono definitivamente. In seguito, quando ormai Fassbinder guadagnava molto bene con i suoi film, Christoph Roser tentò a più riprese di farsi restituire i 18mila marchi60 che aveva messo a disposizione dell’amico, ma non ebbe molta fortuna. Fassbinder gli dava delle speranze, ma poi trovava continuamente delle scappatoie per non restituirgli il denaro, che in effetti Roser non rivide mai.61 Nonostante le occasionali liti sui soldi, i due uomini non si allontanarono del tutto. Anche dopo la fine della loro relazione continuarono a tenersi in contatto e, fino alla morte di Fassbinder, di tanto in tanto si incontravano a Monaco. Da quella relazione amorosa s’era sviluppata via via un’«amicizia emotivamente consolidata».62 Fassbinder rielaborò il rapporto con Roser nella pièce Tropfen auf heiße Steine – Eine Komödie mit pseudotragischem Ende (Come gocce su pietre roventi – commedia pseudotragica). L’opera fortemente autobiografica, mai pubblicata né messa in scena quando Fassbinder era in vita,63 è stata ripresa nel 2000 da François Ozon, che ne ha tratto l’omonimo film Gouttes d’eau sur pierres brulantes (Gocce d’acqua su pietre roventi). Il testo teatrale di Fassbinder e il film di Ozon raccontano la storia di Leopold, un uomo navigato che si porta a casa il ventenne Franz e lo seduce con abilità. Sebbene Franz abbia una fidanzata con cui si vuole sposare, si trasferisce dall’amico, che si sente intralciato nella propria rodata quotidianità dalla presenza del giovane amante e provoca liti continue. Quando nel gioco entrano due donne, la fidanzata di Franz, Anna, e l’ex compagna di Leopold, Vera, l’amicizia tra i due uomini va definitivamente a gambe all’aria, Franz prende del veleno e muore, mentre il suo amico si diverte a letto con Anna e Vera. Nella commedia pseudotragica, Fassbinder capovolge almeno in parte la realtà dei fatti. Se da un lato tematizza in modo molto autentico le sue esperienze di bambino cresciuto negli istituti e sempre speranzoso di trovare una casa, il suo rapporto problematico con il patrigno e il fatto che Roser avrebbe voluto diventare un attore, dall’altro non dice però che nella relazione con Roser, maggiore di quindici anni, fin dall’inizio era lui la parte dominante e disegna se stesso come la vittima dell’amante più maturo. A prima vista appare sorprendente che Fassbinder, pur vivendo a Monaco, la città che dopo la guerra era diventata di gran lunga la più importante per il cinema nella Germania Federale, non facesse alcun tentativo di entrare in contatto con i principali rappresentanti dell’industria cinematografica. Si manteneva anzi ben lontano da quel genere di mondanità con cui non volle mai avere niente a che fare.64 Non frequentava Schwabing, la Mecca modaiola degli artisti monacensi che negli anni sessanta era considerata addirittura l’«ombelico del mondo»,65 preferiva andare in un’osteria poco appariscente della Türkenstraße. Mentre a Schwabing trascorrevano il loro tempo personaggi affermati, che a lui non sembravano interessare perché avevano un’idea di cinema radicalmente diversa, al Kleiner Bungalow s’incontravano a giocare a flipper e ad ascoltare musica coloro che, al pari di Fassbinder, sognavano di poter fare un giorno dei film, come per esempio Wim Wenders o Hans W. Geißendörfer. Solo pochi degli ospiti fissi di quell’osteria erano già riusciti a emergere: Ulrich Schamoni, per esempio, il cui film Es, insignito di cinque Bundesfilmpreise, ottenne un notevole successo di pubblico e di critica, o Peter Handke,
la cui pièce Publikumsbeschimpfung (Insulti al pubblico) fu addirittura osannata mentre Handke diventava la nuova popstar del panorama letterario tedesco. Anche se nel locale Fassbinder frequentava chi la pensava come lui, rimaneva comunque molto in disparte, scontroso e inaccessibile, atteggiamento che gli serviva per mascherare l’insicurezza. Wim Wenders ricorda: «Lo guardavamo sempre con un po’ di diffidenza, perché non parlava quasi con nessuno e si limitava a rispondere a monosillabi – e poi ci ha superato tutti a sinistra».66 Ma in quel momento, a ventidue anni, Fassbinder era ancora ben lontano dalla corsia di sorpasso, anzi, doveva incassare un altro duro colpo. Nel 1967 fu nuovamente rifiutato alla Filmakademie di Berlino. Questa volta oltre ai due cortometraggi in 35 mm aveva anche presentato due sceneggiature per la televisione.67 Il giudizio della commissione fu negativo già all’esame della documentazione inviata: «Non abbastanza preparato. I film: insufficienti».68 A quel punto non fu neppure ammesso all’esame. Lo shock fu tale che in un primo momento Fassbinder non tentò nemmeno di candidarsi per l’ammissione alla Hochschule für Fernsehen und Film di Monaco, che apriva quello stesso anno:69 voleva risparmiarsi altre umiliazioni.70 Due anni più tardi, quando, anche senza la consacrazione di una scuola di cinema, riuscì a presentare il suo primo lungometraggio alla Berlinale, parlava ormai soltanto con disprezzo di quella «stupida scuola».71 Quando divenne il regista tedesco più importante e più riconosciuto a livello internazionale, il fatto di averlo respinto per due volte e che la commissione esaminatrice evidentemente non si fosse accorta della presenza di un genio fu un vero smacco per la Filmakademie di Berlino. Yaak Karsunke, uno dei compagni di strada di Fassbinder, che in seguito avrebbe insegnato presso la Deutsche Film- und Fernsehakademie, ricorda: «Se si voleva mettere a tacere qualcuno in quella scuola, bastava fare il nome di Fassbinder, allora tutti si zittivano subito».72
E poi naturalmente il Grand-Guignol fassbinderiano La stagnazione paralizzante causata dalla doppia bocciatura alla scuola superiore di cinema e dal rifiuto dei due cortometraggi ebbe fine soltanto quando Fassbinder, nel 1967, incontrò il gruppo dell’Action-Theater di Monaco. In quel momento non sapeva davvero come tirare avanti e viveva alla giornata. Stava scrivendo diverse pièce teatrali e qualche progetto di film ma niente che andasse oltre l’abbozzo. Per guadagnare qualche soldo, visto che la scrittura non gliene portava, occasionalmente faceva l’attore. Lo troviamo così in un ruolo secondario nella satira sull’esercito tedesco Mit Eichenlaub und Feigenblatt (Con foglie di quercia e foglia di fico) di Franz-Josef Spieker, considerato allora una grande promessa del Nuovo cinema tedesco, e tra i membri del cast di Der Bräutigam, die Komödiantin und der Zuhälter (Il fidanzato, la commediante e il protettore), un cortometraggio di Jean-Marie Straub. Fassbinder non attribuiva però grande importanza a queste incursioni nella recitazione. Si aprirono invece prospettive davvero nuove quando incontrò i membri dell’Action-Theater, che avevano cominciato da poco a esibirsi in un piccolo teatro della Müllerstraße, nel quartiere di Glockenbach, a Monaco. La testa e il cuore di quella compagnia libera era la ventiseienne Ursula Strätz, che aveva fondato l’Action-Theater con il marito, Horst Söhnlein. I due, appassionati di teatro, si erano conosciuti e innamorati in una scuola di recitazione di Monaco.73 Con altri compagni, tra cui Doris Mattes, Lilith Ungerer e Hans Hirschmüller, divenuti poi attori di Fassbinder, e con Peer Raben, suo futuro compositore nonché amico e confidente, decisero di mettere in piedi un teatro vivo, indipendente, che proponesse qualcosa di completamente diverso da quanto offrivano i palcoscenici sovvenzionati. Il sogno di un «altro teatro», un teatro che contrapponesse qualcosa di nuovo, interessante, antitetico al rigido mondo teatrale di Monaco, era animato dallo spirito antiautoritario del tempo e attirava anche Fassbinder, perché tutte le rappresentazioni che aveva visto fino a quel momento al Residenztheater e ai Kammerspiele non erano riuscite ad appassionarlo. In realtà tra Fassbinder e Ursula Strätz, di cinque anni più grande di lui, c’erano stati degli incontri già mesi prima che l’Action-Theater esordisse. Prima di realizzare i loro progetti teatrali, la Strätz e la sua troupe avevano dato vita, nei locali del «National-Lichtspiele», da poco fallito, al cosiddetto Action-Kino, dal programma molto impegnato. La cosa non era certo sfuggita al cinefilo Fassbinder, frequentatore ormai assiduo dell’ambiente omosessuale di Monaco, che proprio in quegli anni si stava consolidando nel quartiere di Glockenbach. Quando Ursula Strätz, che stava alla cassa, gli raccontò un giorno che il suo vero progetto era fare teatro, Fassbinder si entusiasmò subito: «Se farete teatro come scegliete i film, voglio essere della partita».74 Per la
giovane donna quel primo incontro con Fassbinder fu «un’esperienza decisiva, un colpo di fulmine, per così dire».75 Visse così intensamente la breve conversazione con lui, tutta incentrata sui film e il teatro, che ebbe l’impressione di aver tradito suo marito, Horst Söhnlein. Decise quindi di essere cauta e non cercò altri contatti con Fassbinder. Gettò immediatamente anche il biglietto sul quale lui le aveva scritto il proprio nome. Qualche mese più tardi però, quando il progetto dell’Action-Theater stava ormai prendendo forma, Rainer Werner Fassbinder si ripresentò. Nell’agosto del 1967, venne a sapere da Marite Greiselis, che aveva conosciuto nello studio di Friedl Leonhard e che aveva già lavorato nel suo cortometraggio Das kleine Chaos, che l’Action-Theater aveva aperto i battenti nel vecchio cinema riattato e che il terzo spettacolo in cartellone era addirittura l’Antigone di Sofocle.76 Andò a vedersi l’allestimento di quell’antica tragedia, finalmente libera dalle convenzioni teatrali più comuni e intercalata con testi di Brecht, uno spettacolo che nella sua intensità esercitò su di lui un certo fascino «perché era qualcosa di completamente diverso» da tutto ciò che aveva visto fino a quel momento.77 L’Action-Theater era molto influenzato dal Living Theatre, che cominciava a farsi conoscere anche in Europa. Fondato a New York nel 1947, il gruppo teatrale anarchico d’avanguardia, che negli anni cinquanta e sessanta aveva fatto parlare di sé con le sue pièce antimilitariste contro la guerra di Corea e contro la guerra del Vietnam improvvisate in luoghi pubblici, si confrontava in modo critico e impegnato con temi di attualità politica e sociale. Poiché la compagnia, a causa del clima repressivo che regnava negli Stati Uniti, continuava a entrare in conflitto con le autorità americane, dal 1963 si era trasferita in Europa, dove nacquero tutte le sue produzioni più importanti. Grazie alle numerose tournée, il Living Theater era ormai conosciuto anche a Monaco, e per via delle sue posizioni pacifiste e severe nei confronti della società aveva già molti adepti, in particolare negli ambienti di sinistra. In Germania nacquero ben presto gruppi analoghi, di solito attivi in teatri piccoli e spesso improvvisati, che affrontavano le questioni sociali e politiche più pressanti ignorate nei teatri statali sovvenzionati. Anche l’Action-Theater si considerava di sinistra, pacifista, e fin dall’inizio si era battuto contro la guerra del Vietnam e contro ogni forma di autorità pubblica e di incondizionata ragion di stato. Il gruppo di Monaco sentiva di appartenere alla tradizione del Living Theater non solo da un punto di vista tematico ma anche in relazione alle convenzioni sceniche. Il coinvolgimento attivo del pubblico, che poteva bere vino o birra durante lo spettacolo e in seguito prendeva parte a un dialogo con gli attori, era sicuramente un omaggio a quel grande esempio. A Fassbinder questa modalità di fare teatro, per lui del tutto nuova, vivace e anarchica, interessava molto di più della sovrastruttura politica che l’Action-Theater si dava, definendo per esempio la propria messinscena dell’Antigone una riflessione sulla guerra del Vietnam: «Il tutto aveva una finalità dichiaratamente politica, ma questo io non lo capivo e su di me la questione politica non aveva nessuna presa».78 Dopo lo spettacolo, Marite Greiselis, che interpretava Antigone, presentò a Fassbinder il regista, Peer Raben. Originario della foresta bavarese, Raben, detto da tutti Willi, in realtà si chiamava Wilhelm Rabenbauer. Dopo aver terminato la scuola di recitazione, aveva ottenuto un ingaggio al teatro di Wuppertal, a cui però aveva subito rinunciato su richiesta di Ursula Strätz. Influenzato dagli spettacoli del Living Theatre, rientrò a Monaco e si calò completamente nel suo nuovo ruolo di regista stabile dell’Action-Theater. Più tardi avrebbe ricordato così il suo primo incontro con Fassbinder: «Da ogni cosa che diceva si capiva questo: “Io devo rimanere qui e lavorare qui”».79 A Peer Raben il giovanotto piacque subito. La sera stessa si decise che sarebbe entrato a far parte della compagnia. Poiché qualche giorno dopo il suo arrivo l’attore Anatol von Gardner si assentò per malattia, Fassbinder ebbe subito la possibilità di cimentarsi sulla scena. Interpretò il messaggero di guerra in Antigone. «E con questo fu dei nostri.»80 Non tutti i membri dell’Action-Theater approvavano che entrasse una persona nuova, e in particolare Fassbinder, nel gruppo, così si sollevarono forti opposizioni. Il più diffidente di tutti era l’omosessuale Kurt Raab, un compagno di scuola di Peer Raben, che in principio era tutt’altro che un sostenitore di Fassbinder. A ventisei anni, era l’unico del gruppo che non avesse frequentato una scuola di recitazione. Studiava germanistica e storia, e lavorava come trovarobe per la televisione. All’inizio stava semplicemente alla cassa, finché il suo amico Peer Raben non lo nominò attore e lo fece entrare in scena. Raab si sentiva respinto dallo sguardo burbero, «cupo e prepotente»81di Fassbinder, inoltre, in generale, non era d’accordo sul fatto che la compagnia, così ben affiatata, venisse allargata: «Avevamo già una coscienza di gruppo, e poi è arrivato quel nuovo acquisto».82
Fassbinder riuscì a introdursi nel gruppo solo perché Peer Raben e Ursula Strätz, entrambi attratti dal giovanotto, credendo nel suo talento e volendo a tutti i costi lavorare con lui, gli coprivano incondizionatamente le spalle. Chiesero agli altri di dargli una possibilità, sostenendo che il gruppo doveva aprirsi a nuovi membri e non poteva avvitarsi su se stesso. Anche chi era rimasto contrario all’ingresso di Fassbinder alla fine si piegò, poco entusiasta di quelle pressioni. Se il marito di Ursula Strätz proprio in quel periodo non fosse stato ricoverato in ospedale per diverse settimane con la colonna vertebrale rotta a causa di un grave incidente d’auto, probabilmente Fassbinder non sarebbe riuscito a farsi accogliere nell’Action-Theater, visto che Söhnlein aveva sviluppato da subito una forte antipatia nei suoi confronti. Poté dunque entrare a farne parte soltanto perché in quel momento Ursula Strätz dirigeva il teatro da sola. E per Fassbinder il teatro divenne ben presto una sorta di sostituto della famiglia. Odiava stare solo, ed era affascinato dall’idea di lavorare e vivere con persone che come lui volevano svolgere un’attività artistica. Proprio nello spirito degli anni sessanta e del Sessantotto che era alle porte, l’Action-Theater si considerava una sorta di comune creativa. Ciascun membro doveva poter vivere secondo le proprie capacità e i propri bisogni, in modo che nessuno fosse costretto in un ruolo e ognuno si potesse esprimere nella stessa misura come attore, regista o scenografo, a seconda dell’estro del momento. Ben presto si instaurò l’abitudine di stare insieme non solo durante le prove e gli spettacoli ma anche nel resto della giornata. Così in teatro si cucinava e si mangiava, e di notte si passava da una casa all’altra e capitava che non sempre si dormisse nel proprio letto. Ursula Strätz, per esempio, mentre il marito era in ospedale, ebbe brevi storie con Anatol von Gardner83 e con Peer Raben.84 Non appena divenne membro dell’Action-Theater, Fassbinder cominciò a mettere in discussione le idee stesse che stavano alla base del giovane gruppo teatrale. Originariamente si era stabilito che lo spettacolo successivo sarebbe stato un allestimento collettivo della commedia di Büchner Leonce und Lena (Leonce e Lena): gli uomini avrebbero curato la regia delle donne e le donne quella degli uomini. Ma Fassbinder, che aveva il ruolo del valletto Valerio, non era per niente d’accordo con quell’impostazione, come ricorda Peer Raben: «Diceva, non va bene, non ha senso, di regista ce ne deve essere uno solo. Ed era inequivocabile che intendeva se stesso». E anche se il suo audace tentativo non mancò di provocare accese discussioni e Kurt Raab si batté con tutte le sue forze affinché Fassbinder non diventasse il regista unico dello spettacolo, questi alla fine riuscì a spuntarla e a prendersi la regia della pièce, anche grazie al sostegno di Ursula Strätz: «A quel punto cominciarono le prove, e non se ne parlò più».85 Prima ancora che lo spettacolo con la regia di Fassbinder potesse debuttare, accadde un fatto sconvolgente. La sera del 7 settembre 1967 Fassbinder se ne stava all’osteria con alcuni attori, tra i quali c’erano l’attrice Marite Greiselis e il venticinquenne Heine Schoof, entrambi impegnati in Leonce und Lena. Schoof, soprannominato «principe cuoredighiaccio», non era un attore ma uno dei «fricchettoni» che Peer Raben raccattava all’Englischer Garten, per portare la «vita vera» in teatro. Considerati dall’establishment gentaglia che non aveva voglia di lavorare, venivano allora definiti con disprezzo «fricchettoni» i giovani fan del rock, che facevano parlare di sé per via dell’aspetto eccentrico, i capelli lunghi e il consumo di hashish. Invece di percepire un compenso Schoof e i suoi amici avevano la possibilità di abitare, dormire e mangiare gratis in teatro. Schoof, che si definiva un anarchico e rifiutava le regole e le leggi dello stato, nonostante la giovane età aveva alle spalle un passato estremamente problematico. Già da ragazzo era stato più volte perseguito penalmente e condannato per piccoli furti dal tribunale dei minori. Dopo essere scappato nella Ddr nell’autunno del 1961, per poi rientrare nella Repubblica Federale nel febbraio del 1962, scontò ulteriori pene detentive per diverse infrazioni. Inoltre, a causa dei ripetuti tentativi di suicidio, era stato internato più volte in clinica psichiatrica.86 Marite Greiselis s’era ingenuamente imbarcata in una relazione con lui, uscito poche settimane prima dalla prigione di Monaco-Stadelheim. Quella sera Schoof si era messo in testa di accompagnarla a casa, ma lei si era opposta con le unghie e con i denti. Seguì una lite violenta che terminò a notte fonda, quando Schoof, ubriaco, in un folle attacco di gelosia, aggredì l’attrice con sette coltellate. Riuscirono a fermarlo solo spaccandogli una sedia in testa. Marite Greiselis rimase paralizzata e da allora fu costretta su una sedia a rotelle, dovendo così abbandonare il sogno a lungo cullato di dedicare la sua via al teatro.87 Schoof fu condannato a dieci anni di carcere per tentato omicidio.88 Per i membri dell’Action-Theater fu un episodio scioccante. Fassbinder invece approfittò della situazione per ampliare il suo potere all’interno del gruppo, trovando la sostituta di Marite Greiselis, di cui c’era urgente bisogno. Il giorno seguente Hanna Schygulla, la sua ex compagna di
studi alla scuola di recitazione, che aveva appeso al chiodo il sogno di diventare attrice, trovò un biglietto nella cassetta della posta: «Avresti voglia di recitare nell’Antigone? La prima è dopodomani. Vieni al cinema della Müllerstraße. Ciao, Rainer».89 La Schygulla accettò e le prove, con la riassegnazione della parte, poterono cominciare. Dopo l’Antigone, Hanna Schygulla continuò, in modo intermittente, a partecipare agli spettacoli dell’Action-Theater. Non volle mai diventare un membro fisso del collettivo, preferendo scegliere di volta in volta se prendere parte o meno a una produzione; risoluto, Fassbinder ne fece tuttavia uno dei volti più considerevoli della compagnia. La sua Antigone gli sembrò subito straordinaria e questo diede l’avvio, per entrambi, a una lunga e proficua collaborazione: «Fassbinder diceva di me: “È stata la mia star fin dalle prime prove”. Allo stesso modo io posso dire che lui è stato il mio regista fin dalle prime prove. Anche quando recitavamo insieme, con lui era come con nessun altro. Prima di lui comunque non c’era stato niente e, dopo, neanche».90 La Schygulla non fu l’unica nuova leva ad aggiungersi al gruppo grazie a Fassbinder. Il regista cominciò infatti a sfruttare la sua posizione sempre più forte all’interno dell’Action-Theater per ingaggiare nuove persone. Quando per esempio il diciannovenne Rudolf Waldemar Brem, che lavorava per un giornalino scolastico, si recò all’Action-Theater per fare un’intervista a Ursula Strätz in vista di un articolo, Fassbinder lo adocchiò subito. Dopo aver sentito che aveva già avuto esperienze di teatro a scuola, gli offrì una parte in Leonce und Lena. Brem accettò entusiasta e da quel momento in poi fu un membro della compagnia. Fino al 1974, prese parte a quasi tutti gli allestimenti di Fassbinder ed ebbe un ruolo in ben dodici suoi film: «Ero un po’ il cucciolo del gruppo e Fassbinder mi considerava la sua mascotte».91 Mentre, per l’ingresso di Brem, Fassbinder dovette lottare contro l’ostilità di Ursula Strätz e Peer Raben, poco tempo dopo, quando fece entrare nel gruppo Gunter Krää (compagno di scuola di Brem) e Irm Hermann, fino a quel momento digiuna di esperienze teatrali, non dovette più vincere nessuna resistenza. Questo fu possibile anche perché a quell’epoca molti attori che a lui non erano graditi e con i quali non riusciva a interagire avevano già lasciato il teatro per protesta nei suoi confronti.92 In brevissimo tempo, quel ragazzo di ventidue anni era riuscito a decimare i suoi avversari all’interno del gruppo e a moltiplicare coloro che gli erano amici e alleati. Tutto ciò accadeva, non da ultimo, perché le novità che Fassbinder portava nel lavoro teatrale erano tutt’altro che campate per aria: «La sua posizione dominante fu accettata per via del suo evidentissimo talento artistico»,93 di questo Peer Raben era certo. Anche il suo avversario più tenace, Kurt Raab, cambiò immediatamente partito, e di colpo definì Fassbinder, che fino a quel momento aveva combattuto con grande ostilità, «un regista straordinario», cosa che più tardi, con onestà disarmante, commentò così: «Ero già allora un opportunista».94 Nell’ottobre del 1967 il Leonce und Lena di Fassbinder fece molto scalpore, e altrettanto ne fece la pièce Die Verbrecher (I criminali) di Ferdinand Bruckner,95 che diresse due mesi dopo. Grazie ai suoi allestimenti l’Action-Theater ottenne quell’attenzione di cui fino a quel momento nella scena underground di Monaco non aveva goduto se non in cerchie ristrette. Sempre più spesso i giornali locali parlavano di quella troupe che faceva un teatro nuovo e stimolante, così diverso da tutto ciò che veniva prodotto a Monaco o nei liberi teatri della Germania occidentale. Incuriosito dalle recensioni dei giornali, un numero crescente di personalità di spicco del panorama culturale prese a frequentare il teatro; tra queste Peter Zadek e August Everding, Volker Schlöndorff e Margarethe von Trotta. Se, fino a quel momento, la maggior parte dei critici teatrali aveva ignorato il gruppo, di colpo il Bayernkurier, il Münchner Merkur e l’Abendzeitung cominciarono a scrivere pezzi molto positivi sull’Action-Theater. Solo la Süddeutsche Zeitung restava scettica, e il 9 di ottobre espresse la propria riprovazione con una stroncatura di due righe: «Tutti i bambini del mondo dovrebbero leggere Leonce und Lena di Georg Büchner, non tutti però dovrebbero farlo pubblicamente».96 I critici conservatori, più orientati verso la tradizione, spesso non riuscivano a comprendere quel nuovo teatro, in cui uno stesso ruolo veniva interpretato da attori diversi che si alternavano ritmicamente, o la musica dei Beatles faceva da sottofondo alle nozze fra Leonce e Lena e tutti danzavano selvaggiamente sul palcoscenico. Nei critici legati all’industria culturale, quel modo di rapportarsi ai classici della storia del teatro così spigliato e disinvolto suscitava diffidenza e veniva considerato proprio come ciò che realmente era, ovvero una provocazione nei confronti della concezione tradizionale del teatro e delle sue antiche convenzioni. Fassbinder contribuì moltissimo al nuovo successo di pubblico dell’Action-Theater perché la maggior parte delle idee che attiravano l’attenzione di spettatori e critici era sua. Il regista teatrale alle prime armi, grazie alle eccellenti conoscenze in fatto di storia del cinema, pensava in modo cinematografico senza peraltro vergognarsi di ammettere che il cinema gli interessava molto di più del teatro. I suoi allestimenti erano ricchi di idee e trovate – sketch e farse ne sono un
esempio –, che si distinguevano nettamente dal teatro tradizionale e per questo risultavano molto innovativi e insoliti. Già secondo Peer Raben la particolarità di Fassbinder era «che le sue soluzioni sceniche venivano principalmente dal cinema. È stato il primo a introdurre elementi cinematografici negli allestimenti teatrali».97 Anche Yaak Karsunke, a quei tempi critico teatrale presso la radio bavarese, nonché uno dei primi promotori dell’Action-Theater, sentiva che «Fassbinder aveva il fuoco dentro, voleva raggiungere qualcosa. Quello che faceva lui non lo faceva nessun altro, era totalmente fuori dal coro. A me colpiva soprattutto che ogni nuova sperimentazione gli riuscisse, non sbagliava mai un colpo, capiva perfettamente la situazione e poi ne tirava fuori qualcosa. Di qui nasceva la qualità del suo lavoro. Era davvero molto innovativo, realizzava allestimenti per certi versi molto grezzi, ma anche molto lirici, intrisi di poesia. Se non ci fosse stato Fassbinder oggi nessuno parlerebbe più dell’Action-Theater».98 Ambizioso com’era, il regista s’irritava non poco ogni volta che i giornalisti liquidavano l’Action-Theater come un teatro di dilettanti, e, da un certo momento in poi, tenne molto al fatto che i membri del gruppo che ancora mancavano di una formazione attoriale colmassero quella lacuna, frequentando una scuola di recitazione il più possibile rinomata. Mentre questo suo proposito fallì nel caso di Irm Hermann, che non fu presa alla famosa scuola Otto Falckenberg, con Rudolf Waldermar Brem ebbe maggior fortuna: «Mi ha convinto lui a sostenere l’esame di ammissione alla Otto Falckenberg (io stavo ancora studiando per la maturità) e mi ha anche promesso di aiutarmi nella preparazione. Una promessa che ha poi mantenuto, così io, grazie a lui, ho superato brillantemente l’esame. E ai giornalisti che volevano confinarlo nel cliché del teatro di dilettanti, lui poteva far presente che nell’Action-Theater recitavano allievi della rinomata scuola Otto Falckenberg».99 Il più importante alleato e confidente di Fassbinder divenne presto Peer Raben. Già durante le prove di Leonce und Lena i due uomini avevano avuto una storia. Fassbinder fece in modo che il suo amante, più vecchio di lui di cinque anni, si trasferisse nell’appartamento della Ainmillerstraße, non più grande di quaranta metri quadri, dove lui viveva ancora con Irm Hermann. Il ménage a tre portò inevitabilmente a forti tensioni. Irm, costretta a dormire per terra mentre Rainer e Peer si dividevano il letto, reagì con comprensibile gelosia nei confronti del rivale, così come lui si mostrò geloso di lei: «Credo che lui mi odiasse molto. L’armonia non durò a lungo, cominciammo subito a litigare dal mattino alla sera».100 Visti i continui attriti, Fassbinder e il suo nuovo compagno si trasferirono provvisoriamente nell’appartamento di Ursula Strätz, il cui marito si trovava ancora in ospedale. Quando nel novembre del 1967 Horst Söhnlein fu finalmente dimesso, la situazione dell’ActionTheater si complicò notevolmente. Non solo mentre era ricoverato gli era già stato detto che Ursula si era presa una cotta per Fassbinder, ma al suo ritorno dovette anche prendere atto che, durante la sua assenza forzata, il teatro da lui fondato, sotto l’influenza del giovane Rainer, era molto cambiato. Molti dei compagni di strada di un tempo se n’erano andati e i rapporti con coloro che erano rimasti, schieratisi dalla parte di Fassbinder, si raffreddarono presto; tra questi c’era anche la moglie. Come già per Irm Hermann, anche in questo caso Fassbinder non aveva fatto fatica a attrarre la Strätz nella propria orbita. All’epoca la direttrice del teatro era innamorata persa di lui, proprio come lo era la Hermann, e desiderava una storia con il ragazzo di sei anni più giovane. Fassbinder respinse il suo amore senza esitazioni, cosa che non scoraggiò comunque i sentimenti della donna. Al contrario: per lei c’era «solo Fassbinder, nient’altro che Fassbinder»,101 e al regista poteva solo andare bene che la Strätz lo amasse incondizionatamente, vista la sua posizione all’interno dell’Action-Theater. Tuttavia non apprezzava che lei di fronte a suo marito sostenesse di avere una storia appassionata con lui, e continuò a negarlo: «Insomma, una relazione non ce l’abbiamo mai avuta, era semplicemente una bella amicizia, ma lei cominciò a fingere, con Horst, che avessimo una relazione». Fassbinder tentò invano di ricondurre la Strätz alla ragione: «Mi sono semplicemente difeso in modo sempre più energico e alla fine con una certa brutalità. Le ho mollato una sberla».102 Ma neppure questo servì a impedire che la Strätz si immedesimasse a tal punto in quella relazione inventata, da essere perfettamente convinta fino alla morte nel settembre del 2011 di aver avuto una «storia molto intensa e passionale» con l’omosessuale Fassbinder e di aver dato al marito di allora, Horst Söhnlein, «tutte le ragioni per essere geloso di lui».103 Se già le parole inequivocabili di Fassbinder depongono a sfavore dell’intima relazione di cui lei parla, le dichiarazioni dei testimoni fanno sorgere molti dubbi sulla sua versione dei fatti. Kurt Raab disse senza mezzi termini a Ursula Strätz che lei si era inventata tutto solo per consolarsi del fatto che l’uomo di cui si era innamorata aveva approfittato dei suoi sentimenti.104 Anche Doris Mattes, per
tre anni compagna di Ursula Strätz alla scuola di recitazione e membro dell’Action-Theater fin dall’inizio, sottolinea: «Non credo affatto che ci siano stati rapporti intimi tra i due. Per me Rainer non aveva nemmeno un accenno di bisessualità, gli interessavano solo gli uomini. Quello che Ursula Strätz e anche altre donne hanno raccontato dopo non erano altro che loro proiezioni. Ursula non ce l’ha mai fatta a superare veramente tutta la faccenda con Fassbinder, ed è per questo che poi si è messa a bere».105 Qualunque fosse il grado di intimità tra Fassbinder e la Strätz, Horst Söhnlein, di fronte alle affermazioni della moglie, non poté che prendere atto del fatto che lei avesse davvero una relazione con Fassbinder e reagì con violenti attacchi di gelosia nei confronti del rivale. Ancora non capiva che, in fondo, la loro rivalità non riguardava Ursula ma il teatro che aveva fondato con lei. L’istinto però gli diceva che era arrivato il momento di provare se non altro a dare una svolta alla situazione e a riportare il teatro sotto il suo controllo, tentativo che, a posteriori, sarebbe parso logico anche a Fassbinder: «La cosa buffa era che, quando Horst Söhnlein uscì dall’ospedale, si ritrovò in un teatro che non era più il suo ma il mio, e a quel punto cercò di dividere il gruppo».106 Ma Söhnlein fu subito costretto a constatare che Fassbinder s’era portato avanti: Kurt Raab, Peer Raben, Ursula Strätz, Irm Hermann e Rudolf Waldemar Brem stavano saldamente dalla parte del regista. Solo Lilith Ungerer, che aveva avuto una storia con Söhnlein, e pochi altri sostenevano il fondatore del teatro, cosicché lui non riuscì, come aveva creduto, a cacciare il suo rivale. Söhnlein era così frustrato dalla situazione che diede sfogo alla sua rabbia in modo drastico. Nel novembre del 1967, dopo l’ultima rappresentazione di Leonce und Lena, distrusse il teatro che aveva faticosamente costruito con le sue mani. Sulla parete del palcoscenico ridotto in pezzi, un rimprovero dipinto a lettere cubitali e rivolto a Fassbinder diceva: «Questa è opera tua!».107 Deluso per come si erano messe le cose, Söhnlein in un primo tempo si ritirò completamente, mentre Fassbinder ricostruiva il teatro con i suoi fedelissimi affinché la prima di Die Verbrecher (I criminali) di Bruckner potesse andare in scena come previsto il 19 dicembre 1967. Poiché Söhnlein, nella sua rabbia, aveva buttato fuori di casa non solo sua moglie Ursula Strätz ma anche Fassbinder e il suo compagno Peer Raben, i tre si trasferirono nuovamente nel piccolo appartamento di Irm Hermann nella Ainmillerstraße. Anche se la situazione disagevole dell’abitazione era tutt’altro che romantica, a Fassbinder piaceva molto vivere con tre persone in competizione per il suo affetto. Irm Hermann lo conferma: «Gli piaceva molto essere amato. Allora mi consideravo la sua donna principale, Ursel non era una vera rivale per me».108 Fassbinder, i cui interessi sessuali continuavano a riguardare solo gli uomini, si divertiva a metterle l’una contro l’altra. A coronamento di quegli scenari così simili a quelli tanto amati dei film gangster, la cosa migliore sarebbe stata che si fossero prostituite per lui, ricorda Irm Hermann: «Era questo che s’immaginava, quel piccolo Mackie Messer».109 Mentre Irm si limitava a lavorare di tanto in tanto come cameriera in un bar per guadagnare qualche soldo, Ursula Strätz sarebbe stata disposta a prostituirsi per amore del teatro. Il gruppo non riusciva a vivere dei miseri incassi degli spettacoli e ogni giorno si accumulavano nuovi debiti perché quasi ogni sera, nonostante le recensioni positive, c’erano più attori sulla scena che spettatori in sala. Ursula Strätz non aveva problemi a incontrarsi di tanto in tanto con un uomo che chiamava il suo «mecenate», se da questo dipendeva la sopravvivenza del suo teatro. «Era una decisione mia, di contribuire così al sostentamento del teatro.»110 Alla fine riuscì a far sedere nuovamente suo marito e Fassbinder attorno a un tavolo. Si appellò alla ragionevolezza di Söhnlein e lo convinse che, vista la situazione finanziaria del gruppo, non si poteva rinunciare a Fassbinder e al suo fiuto per gli allestimenti che facevano presa sul pubblico. Poco entusiasta, Horst Söhnlein tornò a far parte dell’Action-Theater. Ma dopo che il gruppo si fu ricompattato in extremis, un nuovo evento era destinato ad avere ripercussioni importanti sul futuro del teatro. Era passato da poco il Natale del 1967 quando, a cinque giorni dalla prima de I criminali, Ursula Strätz fu coinvolta in un grave incidente d’auto. A causa del trauma cranico subito, dovette trascorrere molti mesi in ospedale. Mentre lei desiderava con tutto il cuore che nell’ActionTheater le cose proseguissero come prima, suo marito Horst Söhnlein, dal quale si era ormai separata, colse subito l’occasione per buttar fuori sia Fassbinder che Peer Raben, riprendendo, con un colpo di mano, il controllo sul teatro da lui fondato. A Fassbinder e Raben non restò che accettare la decisione di Söhnlein perché senza Ursula Strätz, loro due non erano in grado di far valere le proprie ragioni. Dal momento che stavano preparando un nuovo spettacolo, cercarono in fretta e furia un luogo dove poterlo mettere in scena. Rapidamente trovarono posto nel Büchner-Theater di Isabellastraße, noto per il suo
orientamento sperimentale, dove cominciarono subito le prove e nel febbraio del 1968 vi fu la prima. A soli cinque mesi dall’inizio della sua carriera teatrale, Fassbinder debuttò come autore, anche se con un’opera basata su un testo altrui. Aveva scelto la pièce Pioniere in Ingolstadt (Pionieri a Ingolstadt) scritta negli anni venti da Marieluise Fleißer, un’allieva di Brecht ormai dimenticata. Poiché la casa editrice non aveva voluto concedere i diritti a un gruppo teatrale ancora sconosciuto, Peer Raben si era rivolto personalmente alla scrittrice, che aveva dato l’autorizzazione e non poté poi fare a meno di assistere alle prove con l’amica Therese Giehse. Fassbinder rielaborò la pièce, ambientata negli anni venti, trasferendo l’azione nel presente, e la intitolò Zum Beispiel Ingolstadt (Per esempio Ingolstadt). Dato che il nome Action-Theater veniva rivendicato da Horst Söhnlein, lo spettacolo in cui recitavano Kurt Raab e Rudolf Waldemar Brem, Irm Hermann e Hanna Schygulla debuttò come Büchner-Theater-Produktion. Su iniziativa di Ursula Strätz, che anche dall’ospedale continuava a lottare per Fassbinder, poco tempo dopo la troupe tornò a far parte dell’Action-Theater. Horst Söhnlein, che aveva sempre sognato di fare del teatro schiettamente politico, aveva chiesto all’emergente Jean-Marie Straub, uno degli antesignani e dei più stimati rappresentanti del Nuovo cinema tedesco, di mettere in scena per lui il ciclo drammatico Krankheit der Jugend (Gioventù malata) di Ferdinand Bruckner. Straub, che aveva fatto parlare di sé con riduzioni cinematografiche di testi di Böll e con una pellicola dal titolo Chronik der Anna Magdalena Bach (Cronaca di Anna Maddalena Bach), chiese di poter avere tra gli attori, accanto a Peer Raben, Rudolf Waldemar Brem, Hanna Schygulla e Irm Hermann, anche Rainer Werner Fassbinder. Poiché il nome di Straub prometteva di richiamare una maggiore attenzione sullo spettacolo e quindi anche maggiori incassi, Ursula Strätz pregò insistentemente il marito di esaudire il desiderio del regista. Horst Söhnlein, che essendosi appena liberato di Fassbinder e dei suoi non li avrebbe più voluti nel suo teatro per nessuna ragione al mondo, accettò a denti stretti. Appena Fassbinder ebbe di nuovo un piede dentro, sfruttò la situazione per far valere la sua influenza. Lo aiutò il fatto che Straub aveva ridotto il ciclo drammatico di Bruckner, della durata di tre ore e mezzo, a quindici minuti (!), e a quel punto si cercava disperatamente una seconda pièce da mettere in scena con Krankheit der Jugend. E Fassbinder aveva qualcosa. Incoraggiato da Peer Raben aveva da poco cominciato a scrivere un’opera teatrale intitolata Katzelmacher (Terrone) e la offrì spontaneamente a Horst Söhnlein quando ancora non era terminata. Come c’era da aspettarsi, Söhnlein non aveva nessuna intenzione di riprendersi Fassbinder in veste di drammaturgo, e quindi rifiutò l’offerta. Ma, ancora una volta, il coltello dalla parte del manico ce l’aveva Fassbinder, che minacciò Söhnlein e i suoi di boicottare lo spettacolo di Jean-Marie Straub. Söhnlein non poté fare altro che cedere. Fassbinder si mise dunque al lavoro mentre già erano cominciate le prove di Krankheit der Jugend e, riprendendo i due drammi che aveva nel cassetto, Per un pezzo di pane e Come gocce su pietre roventi, realizzò la sua prima opera teatrale destinata al palcoscenico. Katzelmacher è la storia di un gruppo di giovani di un villaggio bavarese, che si sentono minacciati dal greco Jorgos, un lavoratore straniero appena trasferitosi lì. Quando Jorgos inizia a uscire con la bella Marie, nei ragazzi si risvegliano fantasie di violenza e di assassinio, che alla fine fanno sì che il greco venga brutalmente picchiato con l’intenzione di spingerlo a tornarsene a casa e di ristabilire così l’«ordine» perduto nel villaggio. Katzelmacher, con i suoi dialoghi brevi e concisi, e la sua narrazione asciutta, è inconfondibilmente influenzato dal lavoro di Fassbinder sull’opera di Marieluise Fleißer e dallo stile minimalista degli allestimenti di Straub. Il tema invece è debitore nei confronti dell’opera teatrale di Martin Sperr Jagdszenen aus Niederbayern (Scene di caccia in Bassa Baviera), messa in scena due anni prima, che racconta la reazione spietata di una piccola comunità locale all’intrusione di coloro che vengono etichettati come outsider. La pièce non nasceva dal nulla, Fassbinder scriveva in modo mirato per i membri dell’Action-Theater, ritagliando loro i ruoli su misura. Doris Mattes ricorda: «Mi ha chiesto senza mezzi termini se fossi disponibile a recitare nella sua pièce, e solo dopo il mio sì, Rainer ha scritto la mia parte».111 Nell’aprile del 1968, prima ancora del debutto di Krankheit der Jugend e di Katzelmacher, la strada per la ripresa definitiva del potere da parte di Rainer Werner Fassbinder all’interno dell’ActionTheater si spianò in modo tanto insperato quanto insolito. I segnali della radicalizzazione politica della Germania Federale gettarono le loro ombre anche sul piccolo teatro di Monaco e fecero sì che Horst Söhnlein, il più duro avversario di Fassbinder, sparisse definitivamente dalla circolazione. Verso la fine di marzo erano comparsi all’Action-Theater Andreas Baader e Gudrun Ensslin, i futuri fondatori della Raf.112 Insieme a Thorwald Proll, erano venuti a Monaco da Berlino per cercare sostenitori al progetto di Baader, intenzionato a inasprire lo scontro avviato
dall’opposizione extraparlamentare, che dopo l’uccisione di Benno Ohnesorg, nel giugno dell’anno precedente, si trovava su posizioni sempre più radicali. Baader voleva appiccare un incendio in un grande magazzino in segno di protesta. Non avendo individuato nessuno a Berlino che fosse disposto a entrare nel gruppo, Baader e compagni tentavano ora di trovare degli adepti a Monaco. L’Action-Theater fu il loro primo contatto, perché Andreas Baader (contrariamente a quanto sostiene qualcuno),113 era un vecchio amico di Horst Söhnlein.114 Quando Baader, Ensslin e Proll varcarono la soglia del teatro della Müllerstraße, gli attori dell’Action-Theater erano nel bel mezzo delle prove di Krankheit der Jugend, ricorda Thorwald Proll.115 I tre, che non si facevano troppi problemi a gridare i loro slogan dentro il teatro e che per qualche giorno andarono e vennero come se fosse casa loro,116 furono testimoni di un violento scontro tra Horst Söhnlein e Ursula Strätz, appena dimessa dall’ospedale, sulla solita questione del ritorno di Fassbinder. Proprio dopo aver assistito alla lite, Baader, la Ensslin e Proll parlarono con il responsabile dell’Action-Theater, ed ebbero gioco facile nel portarlo sulle loro posizioni e nel coinvolgerlo nei loro progetti. Horst Söhnlein era da tempo impegnato politicamente e intratteneva stretti rapporti con l’Sds (Sozialistischer Deutscher Studentenbund, Lega tedesca degli studenti socialisti), il più importante vivaio della nuova sinistra tedesca.117 Il tentativo di reclutamento ebbe buon esito, anche per la situazione che si era venuta a creare all’Action-Theater. In ogni caso Ursula Strätz in seguito sostenne che l’adesione dell’ex marito al gruppo di Andreas Baader e Gudrun Ensslin era stata una diretta reazione a tutti i dissapori e gli scontri avuti sul teatro che avevano fondato insieme.118 Frustrato da quell’ultimo litigio in teatro, Söhnlein decise spontaneamente di andarsene a Francoforte con Baader, la Ensslin e Proll: «Nei loro bagagli c’erano ordigni incendiari, confezionati con bottiglie di plastica e benzina, sveglie, batterie da torcia e detonatori inseriti in miscele esplosive fatte in casa».119 Nella notte del 2 aprile 1968 le bombe esplosero in due grandi magazzini di Francoforte. Poche ore dopo, Baader, la Ensslin, Proll e Söhnlein furono arrestati dalla polizia, che aveva avuto indicazioni precise sui responsabili degli attentati. Nell’autunno di quello stesso anno ebbe luogo il processo. Tutti e quattro furono condannati a tre anni di carcere; Söhnlein e Proll iniziarono a scontare la pena nel 1970, Baader e la Ensslin invece entrarono in clandestinità e fondarono la Raf.120 La notte prima di partire, Söhnlein era tornato nel suo teatro e lo aveva demolito per la seconda volta, in modo ancor più devastante. Quel gesto ebbe per lui indubbiamente un forte significato simbolico: era determinato a far saltare i confini dell’estetica per passare dal teatro politico all’azione politica lasciandosi alle spalle la vita vissuta fino a quel momento. Secondo Kurt Raab quello fu «un gesto consapevole, voluto e simbolico. […] Non soltanto voleva chiudere con la vita del teatro, ma anche eliminare dal suo orizzonte il gruppo di Fassbinder. Perché lui odiava Rainer, gli aveva portato via Ursel».121 Dopo l’uscita di scena di Söhnlein la strada per fare dell’Action-Thea-ter un Teatro-Fassbinder era definitivamente sgombra. In piena emergenza, nel giro di pochissimo tempo Fassbinder ricostruì il teatro con gli altri membri del gruppo, e il 7 aprile 1968, solo quattro giorni dopo l’arresto di Söhnlein, Krankheit der Jugend e Katzelmacher poterono andare in scena come da programma. La stampa e il pubblico reagirono con entusiasmo. La Süddeutsche Zeitung scrisse così del debutto di Fassbinder come drammaturgo: «È un intreccio di incontri spesso affascinante, sorgono centri sempre nuovi, si danno sempre nuove combinazioni: un caleidoscopio di atteggiamenti, pregiudizi, passioni, sogni e orrori quotidiani».122 Dopo il successo dei due debutti si poneva la domanda su cosa ne sarebbe stato dell’Action-Theater. Ursula Strätz non era disposta a rinunciare alla guida del teatro da lei fondato col marito e avrebbe voluto continuare a dirigerlo con Fassbinder e Peer Raben. Fassbinder però voleva la direzione tutta per sé, visto che gli impulsi artistici decisivi venivano da lui. A soli ventitré anni Rainer cercava consapevolmente lo scontro con la sua promotrice di un tempo, che a causa delle conseguenze dell’incidente stradale era molto provata. Per di più la Strätz si attribuiva la colpa del fatto che Horst Söhnlein avesse partecipato all’incendio dei grandi magazzini e che si trovasse coinvolto in un processo clamoroso,123 e ciò minò ancora di più il suo equilibrio. Il suo consumo di alcol crebbe in misura preoccupante, tanto che non fu più in grado di dirigere il teatro in modo adeguato, e la sua posizione si indebolì ulteriormente. Ormai colei che aveva fondato l’Action-Theater non era più nelle condizioni di tener testa a Fassbinder, che da parte sua seppe sfruttare la situazione con grande abilità. A questo punto ottenne definitivamente il controllo. «Il collettivo nacque a quell’epoca, e noi tutti sapevamo che un collettivo ha bisogno di un capo» ricorda Doris Mattes. «In un battibaleno la cosa fu decisa. E quando gli andava bene di usare il collettivo, lui usava il collettivo e quando invece gli andava bene di fare il capo che si impone sul collettivo, si comportava di conseguenza.»124 Anche Ursula Strätz vedeva le cose in
quel modo: «Era un collettivo, ma lui si era accaparrato tutto il potere, grazie alla sua forte personalità».125 Mentre la stampa dell’epoca parlava già con insistenza di «Rainer Werner Fassbinder e il suo Action-Theater», i membri del gruppo continuavano a considerarsi un collettivo di recitazione, cosa che sarebbe emersa molto chiaramente nell’allestimento che seguì Katzelmacher. Primo e unico autentico lavoro collegiale dell’Action-Theater, la pièce Axel Cäsar Haarmann, scritta e messa in scena da tutti i membri della compagnia, debuttò a fine aprile 1968. L’opera era nata come reazione immediata all’attentato dell’11 aprile contro il leader del movimento studentesco Rudi Dutschke e univa nel titolo il nome dell’editore Axel Cäsar Springer126 con quello di Fritz Haarmann, il serial killer di Hannover giustiziato negli anni venti. Il tentato omicidio di Dutschke fece infiammare gli animi già caldi all’interno del movimento di protesta della Germania occidentale. Le manifestazioni, che degeneravano in vere e proprie guerriglie urbane, avevano come obiettivo le sedi del gruppo editoriale Springer, i cui giornali, in particolare Bild, erano da molti considerati responsabili dell’atmosfera che regnava nel paese e, in ultima istanza, anche dell’attentato a Dutschke. Nell’ambito della campagna «Espropriate Springer», l’editore assurse a personalità più controversa della repubblica.127 Anche l’Action-Theater, nel suo spettacolo, si interrogava sulla corresponsabilità della stampa Springer e basandosi su esempi concreti tentava di dimostrare come un editore così influente fosse in grado di scatenare processi sociali da cui poter poi trarre profitto per le pagine dei suoi giornali. I membri del teatro consideravano la pièce come una dichiarazione politica, «la nostra risposta agli spari».128 Fassbinder non volle firmare da solo lo spettacolo, soprattutto perché, se da un lato si rendeva conto che l’Action-Theater doveva in qualche modo reagire agli incalzanti problemi dell’epoca, come l’attentato a Dutschke o l’approvazione delle leggi speciali (leggi d’emergenza contro la crisi economica e l’opposizione extraparlamentare),129 dall’altro, contrariamente ai suoi compagni, non credeva seriamente che col teatro si potesse cambiare il mondo. In generale, le possibilità di influire sulla politica e sulla società attraverso il teatro erano, secondo lui, davvero minime: «Per me era chiaro che contro le leggi d’emergenza, se mai fosse stato possibile fare qualcosa, lo si poteva fare in televisione o per strada, non in un teatro dove al massimo arrivano sessanta persone».130 Conseguenza di questa visione fu che negli allestimenti successivi lo slancio politico progressista che aveva animato i fondatori del gruppo, Strätz e Söhnlein, cominciò via via a calare, mentre prendeva piede un altro orientamento: «La cosa più importante, mi sembra, è creare disagio nelle strutture della borghesia».131 Con l’allestimento collettivo Axel Cäsar Haarmann si conclude la storia dell’Action-Theater. Probabilmente furono, non da ultimo, i titoli dei giornali sull’arresto di Horst Söhnlein a far sì che il teatro entrasse nel mirino dei tutori dell’ordine di Monaco. Dopo un’ispezione dei locali furono riscontrate delle irregolarità nell’impianto elettrico che portarono, a inizio giugno, alla chiusura immediata. Fassbinder e gli altri membri del collettivo erano certi che i motivi addotti per la chiusura fossero soltanto un pretesto, mentre il problema reale era che gli autori degli incendi ai due grandi magazzini di Francoforte, che in quel momento erano sotto processo, avevano bazzicato nell’Action-Theater e che per di più l’Action-Theater, con Axel Cäsar Haarmann, aveva messo in scena una pièce fortemente politica e sediziosa. Anche se il gruppo, dopo questo ennesimo colpo, si sentiva scoraggiato, Fassbinder e Peer Raben incitarono gli altri a non gettare la spugna, sostenendo che adesso proseguire era ancora più importante. A posteriori Fassbinder spiegò: «All’epoca era un po’ un salvare il salvabile. Avevo la sensazione che ci fossero resistenze da ogni parte», ammettendo però apertamente che c’erano anche ragioni personali che lo spingevano a esortare gli altri a non mollare tutto: «Senza contare che io non sapevo proprio cos’altro avrei potuto fare».132 Così cominciarono a cercare disperatamente un nuovo teatro che potesse ospitarli, impresa che in un primo momento si rivelò assai difficile visto lo stato disastroso delle loro finanze e l’impossibilità di garantire un successo di pubblico quando veniva offerta loro una potenziale sede. In questo frangente si arrivò alla rottura definitiva tra Fassbinder e la Strätz poiché quest’ultima cercava di riguadagnare il proprio potere e di portare avanti da sola il teatro. Soprattutto non voleva «assolutamente cedere il nome Action-Theater» ricorda Doris Mattes. «Rainer venne da me perché non sapeva cosa fare, perché lei non voleva cambiare idea. Io allora gli ho consigliato di chiamarlo semplicemente in un altro modo, di dargli il nome Antitheater. A lui è sembrata una buona idea.» Volendo opporsi al teatro tradizionale e rompere con la concezione borghese dell’arte, il nome ovviamente calzava a pennello, anche se si decise subito di scriverlo con tutte le lettere minuscole e senza la h. Negli anni sessanta una grafia così
anticonvenzionale era considerata innovativa e provocatoria. Ribattezzando il gruppo con il nuovo nome di antiteater e separandosi da Ursula Strätz, Rainer aveva trasformato l’ActionTheater di un tempo in un Teatro-Fassbinder, come conferma anche Doris Mattes: «Diciamo pure che Rainer, con un colpo di mano, si è portato via il teatro».133 Il clima entusiasta in cui l’antiteater cominciò a lavorare nell’auditorium della Kunstakademie di Monaco, affittata per le prove e le prime rappresentazioni, fu soffocato bruscamente. Il primo allestimento fu un insuccesso, di pubblico e di critica. Il gruppo aveva deciso di mettere in scena Wie dem Herrn Mockinpott das Leiden ausgetrieben wurde (Come il signor Mockinpott fu curato dalle sue sofferenze) di Peter Weiss, un dramma didattico sull’autoliberazione dell’uomo. Nell’allestimento di Mockinpott, come Fassbinder chiamava la sua versione, firmata con Jörg Schmitt, da poco aggiuntosi al gruppo, andavano in scena tutti i membri fondatori dell’antiteater, tra cui Peer Raben e Kurt Raab, e inoltre Rudolf Waldemar Brem e Gunter Krää, Lilith Ungerer, Doris Mattes e Irm Hermann; mancava solo Hanna Schygulla, che decideva di volta in volta se accettare la parte che le veniva offerta oppure no e che si accontentava solo di ruoli principali molto promettenti. La prima andò in scena il 10 luglio 1968 nell’auditorium della Kunstakademie. Viste le terribili stroncature, il pubblico disertò gli spettacoli, cosa che non solo costrinse il collettivo dell’antiteater a eliminare delle repliche, ma gli impedì, dopo quel fallimento, di usufruire ancora dell’auditorium come sede d’emergenza. Così la troupe era di nuovo senza un tetto e da quel momento trovò ospitalità al BüchnerTheater, che già aveva accolto cinque mesi prima Fassbinder e Peer Raben con il loro Zum Beispiel Ingolstadt. Qui, il 2 agosto 1968, venne allestita la pièce Orgie Ubuh (Orgia Ubu), tratta dall’Ubu roi (Ubu re) dello scrittore francese Alfred Jarry. La versione di Fassbinder racconta di una festa in famiglia in un ambiente piccolo borghese che degenera in un’orgia con sesso di gruppo. Il proprietario del teatro si sorbì cinquanta minuti di satira sui borghesucci, ma quando Kurt Raab cominciò lo striptease sul coro dei prigionieri del Nabucco di Verdi, la misura fu colma e lui, senza lasciarsi impressionare dalle proteste degli spettatori, spense le luci. Anni dopo Fassbinder era ancora stupito di tanto perbenismo: «Non l’avrei mai creduto possibile».134 Quella prima finita bruscamente, che procurò al gruppo titoloni che gridavano allo scandalo e invocavano la censura, ebbe come conseguenza il fatto che l’antiteater finì per strada un’altra volta, finché la troupe non trovò una nuova dimora nel retro dell’osteria Witwe Bolte (Vedova Bolte) dell’Amalienstraße, a Schwabing. Grazie allo scalpore per quel debutto boicottato, Orgie Ubuh ebbe, nella nuova sede, un enorme successo di pubblico di cui si rallegrarono sia la compagnia che il proprietario dell’osteria, il quale si era riservato il diritto di vendere la sua birra durante gli spettacoli. Entro la fine dell’anno l’antiteater mise in scena altri tre spettacoli, tutti con la regia di Rainer Werner Fassbinder. Nell’ottobre del 1968 allestirono l’Ifigenia in Tauride di Goethe in una versione molto disturbata dalla musica e poco vicina all’originale. A dicembre seguì un altro doppio debutto. Presentarono infatti Ajax (Aiace), un’«operetta arcaica da Sofocle», trasformando con intelligenza l’antica tragedia in una pièce contemporanea da osteria, e una commedia per tre personaggi, Der amerikanische Soldat (t.l. Il soldato americano).135 Fassbinder si rendeva conto sempre più chiaramente che gli allestimenti gli riuscivano meglio ed erano più apprezzati sia dal pubblico che dalla critica se il testo che metteva in scena era suo. La Süddeutsche Zeitung scriveva: «Sono riusciti a fare più o meno tutto quello che si può fare senza soldi. Hanno un buon gruppo di attori (chi lamenta l’assenza di nuove leve dovrebbe andarli a vedere); hanno registi capaci di creare uno stile ben riconoscibile che favorisce al meglio le intenzioni della compagnia; soprattutto, però, ci sono autori nell’ensemble che scrivono proprio quei testi che la compagnia sa e vuole rappresentare».136 Mentre i membri del gruppo spesso avevano grandi timori quando si trattava di interpretare i classici e Irm Hermann, che era ancora molto insicura, addirittura si rifiutava di recitare in pièce di Sofocle o Goethe, tutti gli attori erano invece molto più convincenti quando Fassbinder, nelle sue opere, scriveva ruoli appositamente per loro. In questo modo avevano a che fare con testi che potevano recitare più spontaneamente. Con le sue pièce create per l’antiteater, Fassbinder stesso poteva sfruttare molto meglio il potenziale della compagnia che non mettendo in scena dei classici, che, nonostante le idee poco convenzionali del regista, spesso risultavano legnosi e non particolarmente graditi al pubblico. In seguito Fassbinder avrebbe considerato L’opera del mendicante (Die Bettleroper), messa in scena nella primavera del 1969, la «più bella produzione dell’antiteater».137 Trasformata da Fassbinder in una commedia grottesca trasposta nella Monaco di quegli anni, la pièce di John Gay The Beggar’s Opera, concepita all’inizio del diciottesimo secolo, venne recitata con grande entusiasmo e spirito ludico. Nonostante, o forse proprio a causa, delle molte oscenità, il nuovo lavoro godette di un
grande successo di pubblico. Dopo le lodi della Süddeutsche Zeitung, che definì quell’allestimento «la produzione teatrale attualmente più importante a Monaco», ogni sera c’era il tutto esaurito. L’opera del mendicante rese Fassbinder, che non ne era solo regista e autore, ma anche uno dei protagonisti (una sorta di ardito Mackie Messer dei bassifondi bavaresi), la star dell’antiteater, accanto a Kurt Raab e Hanna Schygulla, mentre gli altri attori per l’opinione pubblica erano sempre più relegati sullo sfondo. «Più Fassbinder diventava famoso, più noi passavamo in secondo piano. Impossibile stargli dietro. Era una cosa inquietante» ricorda Kurt Raab.138 Rainer Werner Fassbinder era incontestabilmente diventato il motore di tutta quell’impresa. La sua straordinaria energia e produttività esercitavano un fascino irresistibile sui membri del gruppo, ai quali si erano recentemente aggiunti Harry Baer e Ingrid Caven, future star dei suoi film. Gli altri seguivano a fatica. D’altra parte lui si comportava come un padrone e trasformava sistematicamente l’antiteater nel palcoscenico della propria vita, anche se continuava a considerarlo un collettivo. Delegava quindi volentieri i compiti scomodi: mentre spediva i suoi collaboratori ad appendere i manifesti delle rappresentazioni, lui passava le serate a giocare a flipper nella sua osteria. La sua mente instancabile intanto continuava a lavorare. Detestava i giorni in cui non si andava in scena: «Volevo scrivere per il teatro, volevo mettere in scena quel che scrivevo, volevo anche recitare».139 Sapeva perfettamente che non tutti gli allestimenti erano capolavori e che non sviluppava davvero fino in fondo molte idee, la cosa però non gli impediva di portare di continuo sulla scena spettacoli realizzati in fretta e furia. Secondo il suo amico Michael Fengler, «si affidava – e in questo la stampa, che ama gli autori zelanti, gli dava ragione – alla sua capacità di trasformare sulla scena anche lavori mediocri e poco originali in modo tale che il pubblico ne fosse soggiogato. Raramente si impegnava davvero e comunque mai con la testa».140 In questo periodo Peer Raben divenne in modo sempre più evidente il braccio destro di Fassbinder, mettendo al suo servizio le proprie capacità. Anche dopo la fine della loro relazione i due uomini conservarono un’ottima intesa. Fassbinder lo considerava il suo collaboratore più importante, quello che capiva all’istante ciò che lui voleva e che lo sosteneva nel raggiungimento degli obiettivi. Peer Raben, che non aveva nessuna ambizione da primadonna, riteneva «molto gradevole trovarsi accanto a uno che si comporta come un motore che gira senza interruzione».141 I due erano accomunati da una grande serietà, che dava una forte impronta al gruppo. «Naturalmente cercavamo di manipolare tutto secondo la nostra volontà e la nostra idea di collaborazione.»142 Mentre per loro il teatro era davvero l’unica ragione di vita, gli altri membri del gruppo dovevano darsi da fare diversamente per sbarcare il lunario. Doris Mattes lavorava part-time in un’agenzia per attori e Kurt Raab aveva un impiego ben pagato come cameriere. Quando una volta, essendo di turno, Raab fu costretto a farsi sostituire in uno spettacolo, Fassbinder si rivelò completamente incapace di comprenderlo, dimostrando a tutti che lui non scherzava quando si trattava del lavoro comune. Senza nessuna pietà lo espulse dal gruppo e non gli consentì più di entrare in teatro. La lite mise in luce quanto fosse forte, già all’epoca, l’influenza di Fassbinder sulla compagnia, perché, dopo che lui lo ebbe bandito, anche gli altri membri del collettivo abbandonarono Raab al suo destino: «Nessuno parlava con me. Tutti mi ignoravano».143 In seguito i due si riconciliarono e Raab partecipò a quasi tutti gli spettacoli e alla maggior parte dei film di Fassbinder finché non si arrivò, nel 1977, alla rottura definitiva. Contrariamente al compagno di scuola Kurt Raab, Peer Raben si confermò, fino alla fine della vita di Fassbinder, la costante professionale più importante e il maggior sostegno del regista. Anche se la loro storia era fallita, Raben continuava a provare per Fassbinder un profondo affetto e non ebbe problemi a vivere all’ombra di quell’uomo più giovane di lui di cinque anni. Raben compose le musiche di tutti i suoi film, fino all’ultimo, Querelle. Se era passato dal ruolo di attore a quello di regista e poi di compositore lo doveva soltanto al suo amico. Quando Fassbinder era venuto a sapere che Raben, prima di frequentare la scuola di recitazione, aveva fatto due semestri di musicologia, aveva deciso d’impulso che sarebbe stato il responsabile delle musiche per le sue pièce e per i suoi film, e da quella scelta si sviluppò una collaborazione fruttuosa e di lungo corso. Al di là dell’attività di «compositore di corte» di Fassbinder, Peer Raben giocò, anche umanamente, un ruolo fondamentale nell’attività artistica del regista. Lo si era capito fin dalle prime collaborazioni, come ammise Fassbinder in seguito: «Già durante Leonce und Lena, Willi mi aveva messo a disposizione tutta la sua energia creativa e già allora diceva che il senso della sua vita sarebbe stato mettermi nelle condizioni di lavorare».144 Per quanto si buttasse con tutte le sue forze nel lavoro teatrale, Fassbinder non perdeva mai di vista il suo vero sogno, quello di fare dei film. Già verso la fine del 1968 cominciò a scrivere la sceneggiatura del suo primo lungometraggio, intitolato provvisoriamente Kalter Stahl (Acciaio
freddo), ambientato nel mondo dei gangster. All’inizio non badò affatto a come procurarsi un finanziamento solido per il progetto: «Non ci ho proprio pensato che ci sarebbero voluti dei soldi o qualcosa del genere, non mi è proprio venuto in mente. Volevo semplicemente fare un film».145 Nessuno poteva sapere allora che appena un anno dopo sarebbe stato un cineasta acclamato, una promessa del cinema tedesco. Allora, nel migliore dei casi, era un nome solo nella cultura underground di Monaco, uno che fuori della metropoli sull’Isar restava uno sconosciuto, e questa non era la premessa migliore per trovare i soldi per un film. La deviazione attraverso il teatro si rivelò un ottimo terreno di sperimentazione. In pochissimo tempo, imparò molto sulla regia, su come si dirigono gli attori e su come si lavora in gruppo, ma anche sul modo migliore di raccontare una storia affinché il pubblico la consideri interessante e coinvolgente. Non stupisce quindi che abbia usato il teatro come trampolino di lancio per il cinema e che volesse realizzare i suoi film con un team già rodato. Nelle prime opere cinematografiche gli fu di grande aiuto l’aver sempre ragionato sul teatro in modo cinematografico; fin dall’inizio, infatti, i suoi allestimenti impiegavano tecniche di montaggio e di collage prese a prestito dal cinema, come pure coreografie che ricordavano quelle dei film. Il fatto che in fondo le sue messinscene fossero una via di mezzo tra le due arti nei primi film gli permise di ricollegarsi senza soluzione di continuità al lavoro sul teatro. «Mettevo in scena il teatro come se si trattasse di cinema e più tardi giravo i film come se si fosse trattato di teatro.»146 Se negli anni seguenti i giornalisti gli chiedevano di raccontare come il suo percorso l’avesse portato dal teatro al cinema, lui rispondeva con impeto: «Non sono passato dal teatro al cinema, sono passato dal cinema al teatro».147 Tuttavia neppure queste parole così esplicite di Fassbinder impediscono a critici e studiosi di teatro di continuare ancora oggi a presentare il teatro come «il suo primo amore»,148 nonostante la realtà dei fatti sia un’altra. È innegabile che l’esperienza teatrale sia stata determinante per il cammino successivo di Fassbinder, come conferma l’attore Rudolf Waldemar Brem, a quell’epoca molto vicino al regista: «Il cineasta Rainer Werner Fassbinder non è pensabile senza il teatro. È con il teatro che ha imparato tutto ciò che gli sarebbe servito più tardi, soprattutto la flessibilità e l’arte di improvvisare. Senza l’esperienza accumulata con l’Action-Theater e con l’antiteater non avrebbe mai potuto affinare il suo modo di fare cinema come ha fatto».149 Fassbinder stesso ne era consapevole. Una volta confessò a Doris Mattes: «Sono capitato nel posto giusto al momento giusto».
Il ragazzo prodigio del cinema tedesco 1969-1970
Quando, a fine giugno del 1969, ebbe inizio la Berlinale, nessuno ancora immaginava di assistere all’esordio di un regista che avrebbe segnato in modo decisivo il futuro corso della cinematografia in Germania, tanto da diventare a livello internazionale l’icona del cinema tedesco del dopoguerra. Il primo lungometraggio di Fassbinder, L’amore è più freddo della morte (Liebe ist kälter als der Tod), che accanto a opere di registi affermati come Luis Buñuel, Brian De Palma e Jean-Luc Godard rappresentava ufficialmente la Germania Federale al festival, fu proiettato in prima mondiale con il suo titolo originale Liebe – kälter als der Tod.1 Il film suscitò molta curiosità anche se le reazioni di pubblico e critica furono quasi unanimemente negative. Il giovane artista debuttava sia come regista sia come attore di cinema, avendo interpretato lui stesso il personaggio di Franz, un piccolo malvivente e protettore al quale viene offerto di affiliarsi al «sindacato» (racket) del crimine. Gli altri ruoli erano affidati a membri dell’antiteater: Hanna Schygulla e Irm Hermann, oltre a Ingrid Caven, Ursula Strätz, Kurt Raab, Rudolf Waldemar Brem e Hans Hirschmüller. Per il commissario di polizia la scelta cadde sul critico teatrale nonché amico Yaak Karsunke: «Fassbinder mi reclutò perché, tra le persone che conosceva, ero l’unico ad avere un abito e una cravatta».2 Se da un lato al regista piaceva l’idea di girare il suo primo film con un’équipe di attori già affiatati, dall’altro era cosciente di aver bisogno, tra quei volti ancora sconosciuti in Germania, di una star che fungesse da attrazione per il grande pubblico. Per questo mise gli occhi sul venticinquenne Ulli Lommel che, nonostante la giovane età, aveva già recitato in una lunga serie di film per il cinema e la tv e aveva lavorato al fianco di attori come Hildegard Knef e Maria Schell, Heinz Rühmann e Bernhard Wicki. L’avvenente Lommel aveva molti ammiratori, soprattutto tra il pubblico femminile; in più, solo l’anno prima era stato eletto dai lettori di Bravo, popolare rivista tedesca per ragazzi, «divo del momento». Fassbinder sapeva che sulla scrivania di Lommel, oltre alle migliaia di richieste di autografi, vi erano innumerevoli offerte di lavoro, una più allettante dell’altra, che l’avrebbero probabilmente impegnato per gli anni a venire. Tuttavia decise di tentare sfacciatamente la fortuna e andò a cercare il giovane attore, con il quale l’anno precedente aveva preso parte al musical televisivo Tonys Freunde (t.l. Gli amici di Toni) di Paul Vasil, al Kleiner Bungalow, il suo locale preferito. Dopo aver trascorso la serata al cinema3 e aver scoperto di essere entrambi sulla stessa lunghezza d’onda, il regista gli confidò: «Voglio fare un film. Ti va d’interpretare il ruolo principale? Qualcuno mi ha promesso del denaro se tu accetti».4 La tattica fu vincente. Lommel, al quale piacque «quel modo provocatorio di atteggiarsi a genio, a Generale del Diavolo5 e a ubriacone disperato», e che trovava il cineasta esordiente «per certi versi dolce e sexy»,6 accettò senza esitazioni. L’attore rimase colpito da Fassbinder che, pur non avendo ancora realizzato un solo film, ostentava una straordinaria sicurezza. Poco dopo che s’erano conosciuti, il regista gli aveva presentato Hanna Schygulla, che lavorava come cameriera nell’osteria dov’erano andati a bere, con queste parole: «Devo presentarti la donna che farò diventare la più grande star d’Europa».7 Ottenuto l’assenso di Lommel, Fassbinder riuscì effettivamente a trovare un finanziamento. Tuttavia gli ottomila marchi che aveva rimediato si rivelarono insufficienti. In realtà aveva deciso, senza consultare i membri dell’antiteater, di sospendere parte dei compensi degli attori, contando poi di ricevere il cachet per un ruolo in un film che aveva a sua volta accettato solo per poter finanziare il suo progetto.8 Fu soltanto grazie all’ulteriore contributo di diecimila marchi offerto da Eva Madelung, mecenate dell’arte ed ereditiera Bosch, che Fassbinder raggiunse la somma necessaria per poter almeno iniziare la lavorazione: «Lei ce li diede e ci disse che se la pellicola avesse avuto successo, glieli avremmo restituiti, se no, niente. Diversamente non sarebbe stato
possibile».9 Solo a queste condizioni il cineasta riuscì a ottenere mediante cambiali 95mila marchi, che coprirono il costo effettivo del lungometraggio. Se alla fine le spese di produzione rimasero così contenute fu principalmente perché gli attori decisero di rinunciare al proprio onorario. L’unico a ricevere un cachet giornaliero di cinquanta marchi fu il direttore della fotografia. Nel gruppo tutti guardarono a quell’impresa come a una vera e propria avventura. Stando al racconto di Peer Raben, nessuno si aspettava di ricevere quanto pattuito nel contratto.10 Intanto, proprio Raben aveva assunto – comparendo con il suo vero nome, Wilhelm Rabenbauer – il nuovo ruolo di amministratore e produttore della antiteater-X-Film, la casa cinematografica appena fondata – ma mai iscritta nel registro delle imprese – che avrebbe prodotto i primi otto film di Fassbinder, dopo che altre case di produzione, alle quali il cineasta, con l’appoggio di Lommel, aveva proposto il suo soggetto, avevano rifiutato di collaborare con un autore ancora del tutto ignoto. Per il primo lungometraggio Fassbinder scelse di proposito una storia poliziesca. Già nel cortometraggio Das kleine Chaos era venuta alla luce la sua passione per i film gangster di Hollywood. Uno dei film che più amava era White Heat (La furia umana), una pellicola del 1949 diretta dal regista americano Raoul Walsh che racconta gli intrighi di un cinico gangster interpretato da James Cagney. Trasportato dall’entusiasmo per questo genere cinematografico, Fassbinder optò quindi per il film gangster motivando così la sua scelta: «Personalmente guardo volentieri i film polizieschi e credo di non essere il solo».11 Al tempo stesso non intendeva girare un poliziesco convenzionale, voleva andare oltre gli stereotipi di questo filone e mostrare come, secondo lui, fossero le strutture sociali a creare le condizioni che trasformano le persone in criminali: «Dal film deve emergere che l’aspetto criminoso non consiste in realtà nelle aggressioni e negli omicidi bensì nel fatto che certe persone vengono educate in un dato modo, e stabiliscono poi delle relazioni simili a quelle che si vedono nel film, senza più riuscire a venirne a capo».12 L’amore è più freddo della morte fu girato a Monaco nell’aprile del 1969. Ulli Lommel, l’unico del gruppo ad avere già una certa esperienza in campo cinematografico, era sconcertato dall’ingenuità con cui Fassbinder portava avanti il progetto. Per esempio, una mattina Irm Hermann lo chiamò senza nessun preavviso e gli disse che le riprese sarebbero iniziate un’ora dopo. In quel momento Lommel non sapeva ancora nulla né della trama né del suo ruolo. Non aveva nemmeno firmato un contratto. Quando varcò la soglia dell’appartamento di Fassbinder e di Irm Hermann, si rese conto tuttavia che le riprese stavano davvero per cominciare. Ma la cosa più sconvolgente fu che l’intero staff consisteva solo in un operatore, nemmeno l’ombra di un tecnico del suono o delle luci, di un qualsiasi assistente o di un truccatore. Poiché Fassbinder era molto indaffarato ed era impossibile parlargli, Lommel si rivolse a Hanna Schygulla, che era già lì, chiedendo se almeno esistesse un copione. Al che lei rispose: «No, ma tanto ha tutto in testa Rainer». Lommel cominciava a chiedersi se fosse stata una buona idea farsi coinvolgere in quell’«avventura un tantino folle» e pensò: «Questo Fassbinder o dà i numeri o è un genio».13 Insoddisfatto degli abiti di scena del protagonista, il cineasta spedì subito il giovane divo nell’emporio più vicino ad acquistare un borsalino e un impermeabile come quelli indossati da Alain Delon nel film di Jean-Pierre Melville Le samouraï (Frank Costello faccia d’angelo). Bruno, il personaggio interpretato da Lommel – un gangster tanto fascinoso quanto efferato che su ordine del racket deve convincere il riluttante Franz a entrare nell’organizzazione criminale –, era chiaramente ispirato alla figura di Frank Costello, il killer professionista impersonato da Delon due anni prima. Lommel, che essendo una vera star, era abituato a essere servito e riverito, scoprì così che sul set di Fassbinder doveva provvedere ai propri abiti di scena e al trucco. «Qui ci trucchiamo da soli. Fatti più bello che puoi, ok?» si era raccomandato il novello cineasta. Quando le riprese cominciarono, Ulli Lommel continuava a non sapere niente del film. Il regista gli disse soltanto di gesticolare davanti alla parete bianca con una pistola. Se Lommel tollerò condizioni così anomale fu probabilmente perché lui stesso pensava da tempo di mettersi dietro alla macchina da presa. Al fianco di Fassbinder ebbe infatti l’opportunità di seguire da vicino una persona che imparava il mestiere da zero, un’esperienza che gli tornò utile due anni più tardi, quando girò il suo primo film. Dopo quell’esperienza Lommel amava definirsi l’«apprendista stregone» di Fassbinder.14 Come tutti gli altri, anche il giovane divo dovette adeguarsi al modo di girare di Fassbinder, che non dava istruzioni precise agli attori, non gradiva prove lunghe e faticose e non voleva nemmeno sentir parlare di rielaborare collegialmente le parti. Si aspettava piuttosto che i nuovi interpreti, come accadeva nel gruppo storico dell’antiteater, capissero più o meno istintivamente come trasferire nella recitazione l’idea molto concreta che lui aveva del personaggio. Hanna Schygulla ricorda: «Rainer non diceva molto su quello che doveva essere fatto. Non spiegava, non
si perdeva in tanti discorsi, non si addentrava minimamente nella psicologia dei personaggi».15 Anche Lommel racconta che Fassbinder non usava dare istruzioni dettagliate, in compenso cercava sempre di creare sul set l’atmosfera giusta affinché la troupe sapesse esattamente quello che doveva fare. Fassbinder avrebbe poi detto: «In realtà non davo nessuna indicazione di regia ai miei attori o comunque pochissime, al massimo dicevo loro dove stare oppure come guardare, era soprattutto grazie all’atmosfera generale che avveniva quello che in fondo io volevo».16 Questo metodo all’apparenza tanto anomalo aveva il vantaggio di essere molto economico, una condizione necessaria per le prime pellicole, proprio dal punto di vista strettamente finanziario. Il regista, tuttavia, continuò a lavorare così anche in seguito, quando ormai, dedicandosi a progetti ben più complessi con budget milionari, aveva la possibilità d’imporre tempi di lavorazione più lunghi. In ogni caso fu grazie a questo metodo che riuscì a girare il suo primo lungometraggio di novanta minuti, L’amore è più freddo della morte, in soli ventiquattro giorni. Durante le riprese Fassbinder dimostrò subito di avere già tutto il film in testa, sequenza dopo sequenza, proprio come la Schygulla aveva annunciato a Lommel. Il cineasta procedeva nel suo lavoro senza aver bisogno di appunti o di un copione. Sebbene fosse al suo esordio nella regia di un lungometraggio, ostentava una sicurezza straordinaria che poco alla volta contagiò l’intera squadra. Rudolf Waldemar Brem, che nel film interpretava una piccola parte come poliziotto, racconta: «Ognuno capì all’istante che Rainer sapeva molto bene cosa stava facendo. Motivo per cui tutti noi seguivamo volentieri le sue indicazioni. Se, per esempio, diceva: “Attraversa la scena da sinistra a destra”, lo si faceva, ed ecco che la sequenza era girata, e lui era contento. Una cosa che Rainer detestava era quando i suoi interpreti gli facevano domande sui ruoli e volevano discutere del perché un personaggio in una data situazione dovesse reagire in questo e non in quell’altro modo. L’unica che poteva permetterselo era Hanna Schygulla. Lei lo irritava più di tutti gli altri, ma la sua soglia di tolleranza nei confronti dell’attrice era molto alta trattandosi della sua star».17 In realtà, già durante il suo apprendistato in teatro, l’artista aveva elaborato una tecnica, che avrebbe poi affinato nel corso degli anni, grazie alla quale riusciva a distogliere la Schygulla da discussioni lunghe e per lui improduttive sui personaggi da lei interpretati. Impartendo istruzioni di regia molto vaghe, le dava la sensazione di recitare non per soddisfare la fantasia di un’altra persona ma «per realizzare se stessa al cento per cento – una cosa evidentemente molto importante per lei».18 Poiché il budget a disposizione era estremamente ridotto, molte cose venivano improvvisate. Fassbinder si occupava degli allestimenti di scena con Ulli Lommel, mentre a Peer Raben fu dato il compito di provvedere alla musica, dato che mancavano i soldi per commissionarla ad altri. Il coinvolgimento degli attori nelle mansioni più svariate era all’ordine del giorno. Capitava così che Fassbinder ordinasse all’uno o all’altro di reggere un faro o, finite le riprese, di mettere via l’attrezzatura. «Il confine tra il lavoro svolto davanti e dietro alla macchina da presa era alquanto sfumato, o meglio, inesistente» ricorda Ulli Lommel.19 Dopo i primi sei giorni di riprese arrivarono i campioni di pellicola dallo studio di riproduzione. Quando Fassbinder li visionò inorridì. L’operatore20 che lui stesso aveva ingaggiato era un incapace. Affetto da grave miopia, aveva sbagliato tutte le inquadrature. «Sembra di essere sulla Reeperbahn» sbraitò il regista e lo sbatté fuori dalla porta.21 Dopo aver passato la notte a piangere in preda alla disperazione – ora avrebbe dovuto trovare un nuovo finanziamento per girare da capo le scene –, il regista decise di non mollare. Convinse la sua mecenate Eva Madelung a dargli un altro contributo di cinquemila marchi e si rimise al lavoro. Reclutò subito un nuovo direttore della fotografia, Dietrich Lohmann, che, pur avendo fatto solo l’assistente in film di Alexander Kluge e Werner Herzog, al contrario del suo predecessore dimostrò grande competenza, tanto da collaborare con Fassbinder nei successivi tredici lungometraggi. Con Lohmann, le cui inquadrature a detta di Fassbinder erano «straordinariamente belle»,22 il film fu ultimato in appena diciotto giorni. Il montaggio lo eseguì il regista personalmente. Per non comparire troppe volte nei titoli di testa, Fassbinder, nel suo ruolo di montatore, figurava sotto lo pseudonimo di Franz Walsch, un nome d’arte che mantenne poi fino alla fine. Di fatto si trattava di una sintesi tra il nome proprio di uno dei personaggi letterari da lui più amati, Franz Biberkopf, il protagonista del romanzo di Alfred Döblin Berlin Alexanderplatz, e il cognome di uno dei suoi registi prediletti, Raoul Walsh. La pellicola d’esordio di Fassbinder narra la storia di Franz, un piccolo delinquente che per ordine del racket viene abbindolato da Bruno, gangster bello e spregiudicato. L’attrazione omoerotica tra i due uomini, repressa e non consumata, costituisce il nucleo del film. Franz cerca di raggiungere quest’intimità impossibile dando a Bruno la possibilità di andare a letto con la sua ragazza, Joanna – interpretata da Hanna Schygulla –, la quale comunque già si prostituisce per lui.
Innamorato e soggiogato dall’amico, Franz non si rende minimamente conto che, in realtà, l’efferato criminale lo sta distruggendo. Bruno uccide sei uomini ma, privo di scrupoli com’è, fa ricadere i sospetti su Franz. Joanna, che in segreto coltiva il sogno di una vita di coppia piccolo borghese, è gelosa di Bruno, e sa che il gangster suo rivale porterà inevitabilmente Franz alla rovina. Quando i due amici progettano un colpo in banca, la ragazza informa la polizia. Mentre Bruno rimane ucciso nella sparatoria con i poliziotti, Franz e Joanna riescono a fuggire. Come previsto, Fassbinder rappresentò la storia non come un normale film gangster ma come uno studio su tre personaggi relegati ai margini della società, tre individui che hanno assunto gesti, espressioni e atteggiamenti propri della malavita, non essendo capaci di esprimere altrimenti se stessi e i propri sentimenti né avendo mai imparato a relazionarsi con gli altri in modo diverso. Paragonati ai protagonisti dei film americani dello stesso genere, non sono eroi sfolgoranti bensì, usando le parole dello stesso regista, dei «poveretti ai quali è toccata questa sorte senza alcuna possibilità di riscatto».23 La pellicola fece scalpore anzitutto per l’insolito impianto narrativo. La mancanza di mezzi tecnici e di finanziamenti aveva costretto Fassbinder a girare meno scene di quelle previste inizialmente, prediligendo lunghi piani sequenza, talora statici e privi di dialoghi, che se da un lato, venendo meno l’abituale linguaggio visivo, irritavano lo spettatore, dall’altro lo catturavano con la loro particolare intensità. Molte scene sono composte da inquadrature fisse e si svolgono in ambienti spogli e bianchissimi, in modo tale che il pubblico possa concentrarsi sulla mimica e la gestualità degli attori. I dialoghi scarseggiano e non contengono una sillaba in più dello stretto necessario. Inoltre – visto che mancavano i soldi per un tecnico del suono – sono completamente postsincronizzati. Tutto ciò, sommato alle inquadrature sovraesposte, quasi prive di ombre e spesso montate in rapida successione, conferisce alla storia un’atmosfera a tratti irreale e claustrofobica. Quel modo di girare, frutto in realtà degli scarsi mezzi tecnici e finanziari, fu recepito come l’espressione di un nuovo linguaggio cinematografico, spiazzante e fortemente sintetico. Molti critici vi lessero il tentativo da parte del regista di sovvertire il gusto comune e di criticare gli standard estetici di allora. Fassbinder, dal canto suo, non fece che alimentare queste impressioni. Ogni volta che i giornalisti gli ponevano domande sulle peculiarità stilistiche del suo film, lui trasformava quelle che erano le oggettive carenze imposte da un budget ridotto nella cifra del suo rinnovamento stilistico: «Oggi, secondo me, le dotazioni tecniche di una macchina da presa danneggiano l’impianto drammaturgico di un film e ne pregiudicano la trasparenza e la pulizia. Se faccio molte zoomate, enormi primi piani e tanti cambi di fuoco, se muovo in continuazione la cinepresa, ciò che ottengo, a mio avviso, non è un film ma un giochetto».24 Quando, anni dopo, al direttore della fotografia di Fassbinder, Dietrich Lohmann, venne chiesto un parere su queste esternazioni, il suo commento fu: «A quel tempo non eravamo affatto in grado di sviluppare concetti estetici come quelli di cui parlò lui. Credo che volesse solo farsi un po’ bello».25 Alla vigilia della prima mondiale alla Berlinale ci furono anche dei critici che seppero cogliere la vera radicalità di L’amore è più freddo della morte. Sebbene i finanziamenti dichiarati dal regista fossero il doppio di quelli ricevuti, si lodò il fatto che un giovane autore fosse riuscito a produrre «un lungometraggio con un budget che, nei bilanci di altri film, sarebbe bastato giusto per la voce “extra”».26 Subito si cercarono i probabili maestri di Fassbinder, e spuntarono Jean-Pierre Melville, Howard Hawks, Raoul Walsh e Jean-Marie Straub. Il settimanale Der Spiegel citò il primo Godard,27 e in effetti più avanti Fassbinder avrebbe confessato di essersi ispirato a Vivre sa vie di Godard per il suo film d’esordio.28 Il regista citava apertamente i suoi modelli e riconosceva con franchezza di non avere nessun problema a copiare stili altrui o a ricorrere a citazioni estrapolate dai film che più amava. In ogni caso, indipendentemente dai riferimenti e dagli elementi presi in prestito da Godard o dai film gangster di Hollywood, non sfuggì a nessuno che Fassbinder era riuscito a inventare qualcosa di veramente nuovo e originale. Tutta la critica conveniva sul fatto che L’amore è più freddo della morte sarebbe piaciuto in particolare ai cultori e agli studiosi di cinema: «La pellicola di Fassbinder è per gente che al cinema vuole vedere delle immagini, possibilmente immagini tratte da film che già conosce: film gangster, western all’italiana o le pellicole lente di Jean-Marie Straub».29 Fassbinder aveva mandato il suo primo lungometraggio alla Berlinale su consiglio di Ulli Lommel, ma non si sarebbe mai aspettato di esservi invitato: «Lo trovavo assolutamente ridicolo. Tutti allora lo trovavamo totalmente folle».30 Quando, terminata la proiezione del film, il regista uscì sul palco accanto a Lommel, fu assalito da una pioggia di fischi e di buh. Il pubblico gli diede
del dilettante, gridò che era una vergogna. Fassbinder, dal canto suo, mantenne una calma sorprendente e non reagì alle violente provocazioni. Sicuro di sé, alla conferenza stampa dichiarò: «Non è una brutta sensazione ricevere una stroncatura dalla critica berlinese perché la critica berlinese, secondo noi, è molto provinciale».31 A quell’epoca nessuno avrebbe scommesso sul futuro del giovane cineasta, o ritenuto possibile che L’amore è più freddo della morte uscisse presto nelle sale e in tv sul canale Ard, o ancora che il successivo lungometraggio di Fassbinder, Katzelmacher, facesse incetta di premi e il regista fosse salutato come il nuovo prodigio del cinema tedesco. Ulli Lommel ricorda: «Il film non piaceva a nessuno, arrivava una stroncatura dopo l’altra. La conferenza stampa fu un disastro, tutti ridevano».32 Scherno e derisione non scalfirono minimamente la consapevolezza di Fassbinder, forse perché era cosciente di aver girato un film «che sarebbe stato ostico per il pubblico».33 A un giornalista che gli chiese, tra le risate dei colleghi, se avesse intenzione di ripresentarsi anche alla prossima Berlinale, lui replicò spigliato: «Naturalmente – e non solo alla prossima, anche a quelle successive».34
Questo giovane cinema tedesco è fottuto Quando Fassbinder debuttò con L’amore è più freddo della morte, il Giovane cinema tedesco – poi ribattezzato Nuovo cinema tedesco – esisteva già da sette anni e stava attraversando una crisi profonda. Nel 1962 – Fassbinder aveva allora diciassette anni – i principali rappresentanti di questo movimento, guidati da Alexander Kluge, avevano pubblicato il Manifesto di Oberhausen. L’intento dei ventisei giovani firmatari era, da un lato, di contrastare il cinema tedesco del dopoguerra – ormai superato e reazionario – apportando modelli nuovi e moderni, dall’altro di denunciare lo strapotere dell’industria cinematografica hollywoodiana che dal 1945 si era imposta con tale forza sul mercato europeo da minare l’autonomia della cultura cinematografica del paese. Il Manifesto, che dava per morto «il cinema di papà», sanciva un bisogno urgente di rinascita e di cambiamento radicale. Soprattutto invitava a ravvivare l’impegno politico ormai praticamente scomparso dalle pellicole tedesche. I giovani cineasti sostenevano che il cinema non doveva servire soltanto all’intrattenimento e alla distrazione del pubblico, come accadeva con gli sdolcinati Heimatfilme, patriottici e sentimentali, e con gli Schlagerfilme, le zuccherose commedie musicali che si imposero negli anni sessanta, o ancora con le pellicole tratte dalle opere dello scrittore inglese Edgar Wallace e del tedesco Karl May, ma doveva offrire uno spaccato della vita contemporanea, stimolare la riflessione e influenzare così concretamente la sensibilità sociale e morale del paese. L’industria cinematografica tedesca non doveva più sottostare solo alle leggi commerciali ma puntare al rinnovamento artistico e alla produzione di film socialmente impegnati in grado di offrire una visione disincantata del presente. Incoraggiati dal movimento inglese del Free Cinema e da quello italiano del Neorealismo, ma ispirati soprattutto alla Nouvelle Vague, che comprendeva registi del calibro di Claude Chabrol, Alain Resnais, François Truffaut e Jean-Luc Godard, i giovani cineasti tedeschi si battevano affinché anche in Germania prendesse piede quel nuovo modo di fare film affermatosi in Inghilterra e in Francia. Auspicavano dunque la nascita di un cinema d’autore impegnato, libero dalle convenzioni e dai condizionamenti del mercato ma anche indipendente dai finanziamenti dei tradizionali studios tedeschi dell’Altbranche, ovvero dell’establishment del paese. Si puntava a realizzare opere che, diversamente dalle produzioni hollywoodiane e dai film europei mainstream che le imitavano, non promuovessero l’evasione ma si confrontassero con l’attualità o col passato nazionalsocialista e con le sue conseguenze. Negli anni sessanta, in particolare nell’ambito del movimento sessantottino, il cinema diventò, più ancora della letteratura, lo strumento preferito per misurarsi con la «difficile madrepatria». Il Manifesto di Oberhausen costituiva innanzitutto un atto di denuncia della stagnazione artistica che aveva colpito il cinema tedesco a partire dagli anni cinquanta. Dopo il 1945 l’industria cinematografica del paese aveva continuato imperterrita a produrre quando invece avrebbe dovuto fermarsi. In Germania occidentale quelli che facevano film e li finanziavano avevano puntato tutto sulla continuità, appellandosi anche in questo campo allo slogan di Konrad Adenauer «Keine Experimente!», «Niente esperimenti!». Dopo un inizio molto promettente con Die Mörder sind unter uns (Gli assassini sono tra noi) o Zwischen gestern und morgen (Tra ieri e domani)35 – due film che, nell’affrontare con impegno il problematico passato recente del paese e il
nazionalsocialismo, avevano dimostrato uno spirito del tutto nuovo – erano stati presto ripresi temi leggeri, per niente insidiosi. E questo fondamentalmente perché, nonostante l’accoglienza calorosa della critica, il cosiddetto «cinema delle macerie» non riempiva le sale. Billy Wilder, inviato in Germania nel 1945 come ufficiale dell’esercito americano per sovrintendere al programma di denazificazione dell’industria cinematografica, aveva subito sollevato la questione: «Accetteranno i tedeschi, da bravi studenti, di andare regolarmente al cinema per imparare ad assumersi le proprie colpe?».36 E in effetti i dubbi del regista americano trovarono rapidamente conferma: i film in cui i tedeschi non facevano una bella figura o in cui si avvertiva un tentativo di edificare lo spettatore e fargli la morale non portavano grandi incassi. Il giornalista cinematografico Will Tremper sintetizza così: «Cosa se ne facevano i tedeschi di quelle pellicole? Mortificati com’erano, potevano forse pensare di rilassarsi prendendosi un altro calcio nel sedere?».37 Il risultato fu un repentino ritorno alle commedie banali, ai drammi piccolo borghesi, alle vivaci trasposizioni filmiche di operette e ai melodrammi sentimentali, per non parlare degli Heimatfilme, che, ben lontani dall’affrontare le scottanti questioni del presente, con i loro paesaggi rasserenanti e le loro storie d’amore a lieto fine costituivano un vero narcotico per l’anima e diventarono il genere per eccellenza nella Germania Federale del dopoguerra.38 Film come Schwarzwaldmädel (La fanciulla della Selva Nera) e Grün ist die Heide (Verde è la brughiera)39 inaugurarono già nei primissimi anni cinquanta questo filone. A differenza del «cinema delle macerie», autocritico e pessimista, gli Heimatfilme presentavano un mondo ancora intero, e comprensibile, senza grandi sconvolgimenti e incertezze. Caratteristiche, queste, che negli anni sessanta perduravano negli Schlagerfilme e nelle Urlaubskomödien (commedie delle vacanze). Gli Heimatfilme appagavano il profondo bisogno di evasione. Il pubblico tedesco sapeva che per almeno due ore poteva dimenticare i problemi del presente e le città sepolte sotto le macerie immergendosi in una dimensione spensierata possibilmente sospesa nel tempo: «Sognare a ogni costo, annullare la realtà con acquavite scadente» sosteneva Hellmuth Karasek.40 Proprio come è accaduto in Germania negli altri ambiti della vita, anche nel cinema del dopoguerra non vi era stata una Stunde Null, un’«ora zero»: persone, strutture e contenuti erano rimasti gli stessi. La maggior parte dei registi, degli sceneggiatori, degli operatori e degli scenografi aveva infatti già lavorato nella macchina propagandistica di Goebbels, cosicché sul piano formale non ci fu quasi rottura. Quella che, fino a poco tempo prima, veniva ancora chiamata l’«estetica di Goebbels», stava alla base del cinema tedesco occidentale degli anni cinquanta. Il retaggio nazionalsocialista non permeava solo gli aspetti esteriori ma anche i contenuti e i personaggi dei film. I filoni erano gli stessi come pure i divi. Star come Johannes Heesters, Heinz Rühmann, Hans Moser, Theo Lingen, Marika Rökk, Zarah Leander, Kristina Söderbaum e Marianne Hoppe continuavano a essere ingaggiati e interpretavano ruoli che quasi non si distinguevano da quelli impersonati sotto il Terzo Reich. «È grottesco, ma molte di quelle pellicole non si differenziavano né nei soggetti né nei titoli da quelle girate prima e durante la guerra fino alla capitolazione del regime. Dalla programmazione nelle sale nessuno avrebbe detto che gli spettatori uscissero da un’epoca che aveva sconvolto il mondo» commentò Johannes Heesters, il re dell’operetta cinematografica tedesca.41 Non sorprende dunque che i firmatari del Manifesto di Oberhausen vedessero in questo cinema il prolungamento di quello nazista e pertanto pretendessero una rottura radicale con la tradizione – per loro inequivocabilmente reazionaria – nonché un congedo definitivo dall’ipocrisia della fabbrica dei sogni: «Il vecchio cinema è morto. Noi crediamo in quello nuovo».42 Tuttavia dovettero presto constatare che era molto più facile redigere proclami denunciando con forza la commercializzazione dell’industria cinematografica che non finanziare concretamente quei film secondo loro tanto urgenti e necessari per la società. Al contrario di quanto succedeva in altri paesi, i grandi produttori tedeschi non erano affatto interessati a collaborare con registi giovani e innovativi. I rapporti tra vecchia e nuova cinematografia furono fin dall’inizio conflittuali, non da ultimo perché i sostenitori del Manifesto stavano mettendo in discussione tutto il sistema preesistente. Emerse così che l’auspicato nuovo corso sarebbe stato possibile solo mediante sovvenzioni statali e prescindendo necessariamente dall’appoggio delle vecchie forze. Per questo motivo, nel 1965, nacque il Kuratorium Junger Deutscher Film (Commissione del giovane cinema tedesco), che prese a finanziare, grazie al sostegno economico del ministero degli Interni tedesco, numerosi film di giovani autori, favorendo soprattutto i registi della seconda generazione del Nuovo cinema tedesco, come Ulrich Schamoni e Klaus Lemke. Si arrivò allora a produrre una serie di opere significative come Nicht versöhnt (Non riconciliati), un film del 1965 diretto da Jean-Marie Straub, o Der Junge Törless (I turbamenti del giovane Törless) di
Volker Schlöndorff tratto dall’omonimo romanzo di Musil e grande successo al Festival di Cannes del 1966, o Abschied von gestern (La ragazza senza storia) di Alexander Kluge, Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia nello stesso anno. Successi, questi, molto incoraggianti, in quanto dopo il 1945 il cinema tedesco era scaduto e, a causa del suo provincialismo, era uscito dai circuiti internazionali. I rappresentanti del Nuovo cinema tedesco lo riportarono così alla ribalta. Dai loro lungometraggi affiorava una Germania diversa, più consapevole, un paese che non aveva rimosso il proprio passato ma vi si rapportava criticamente. Questi riconoscimenti non occultarono tuttavia la problematica di fondo. Se, da un lato, i lavori dei giovani cineasti raccoglievano onori ai festival internazionali, esportando così per la prima volta dopo la guerra il cinema tedesco, l’interesse per queste pellicole all’interno del paese era pressoché nullo. In Germania ad apprezzare i film di Straub, Schlöndorff e Kluge era una platea ristretta, composta perlopiù da intellettuali e studenti. Il grande pubblico non sapeva che farsene di queste opere nelle quali i giovani autori si confrontavano con il passato tedesco e l’impossibilità di elaborare il lutto, ma anche con l’attualità, in particolare con la lacerante questione delle due Germanie. Gli spettatori avevano paura di certi film che puntavano il dito sul presente della nazione, oltretutto sperimentando con audacia forme e stili alternativi che stravolgevano le abitudini visive. Persino i critici più autorevoli parevano spesso non capire e rifiutare queste «abborracciature alla moda». Fu subito chiaro che con le sovvenzioni statali si producevano film che non interessavano quasi a nessuno, anzi allontanavano sempre più il pubblico dal cinema tedesco. A essere finanziate erano soprattutto pellicole sperimentali, di difficile fruizione e quindi senza un futuro commerciale. Escluse pochissime eccezioni come, per esempio, la commedia di May Spils, Zur Sache, Schätzchen (Veniamo al dunque, tesorino), che nel 1968 sbancò il botteghino, i film sostenuti dallo stato venivano proiettati davanti a platee deserte. Nel corso degli anni sessanta le sale cinematografiche, già in crisi in seguito al boom della televisione, si svuotarono ulteriormente a causa della produzione in serie di film che nessuno voleva vedere, e il vertiginoso calo di pubblico portò alla chiusura di molti cinema, mentre diverse case di produzione e distribuzione dovettero dichiarare bancarotta. Il 75 per cento dell’utenza – fino ad allora spettatori di cinema – optò per il mezzo televisivo. Da parte sua, la televisione prese a trasmettere a tutto spiano «i bei film di una volta» assecondando così quei gusti che il grande schermo riusciva sempre meno a soddisfare. Negli anni sessanta il fatto che con i fondi statali si producessero pellicole non rivolte al grande pubblico non fu recepito come una contraddizione in quanto si riteneva che la componente artistica non fosse comunque compatibile con quella commerciale. Il Nuovo cinema tedesco era di per sé una corrente di nicchia, un cenacolo di outsider e di anticonformisti, a detta dei quali il disinteresse da parte del pubblico confermava la qualità del proprio lavoro. Anche a livello statale il fallimento commerciale di questi progetti fu accolto come un successo della politica del paese in campo cinematografico. Ne conseguì un «insolito e malsano isolamento del Giovane cinema tedesco rispetto al pubblico del paese».43 Le elucubrazioni intellettuali non riuscirono tuttavia a sviare a lungo l’attenzione dalla reale crisi che attraversava il settore in generale. Non solo il numero degli spettatori appassionati del Giovane cinema tedesco era minimo, ma anche quei registi, come Heinz Rühmann, che erano sempre stati una garanzia d’incassi, ormai non riempivano più le sale. La cinematografia tedesca si trovava in una situazione di stallo e di smarrimento. Per far fronte all’emergenza, nel 1968 il Governo federale emanò una nuova legge, il Filmförderungsgesetz. A Berlino Ovest fu inoltre istituita la Filmförderungsanstalt, un ente pubblico per il sostegno e la promozione delle opere cinematografiche. Suo obiettivo era sovvenzionare quei progetti che avrebbero potenziato la qualità e la redditività dei film nazionali. Per i giovani autori del movimento fu quasi impossibile beneficiare di questi aiuti poiché, su pressione della vecchia industria del cinema, si preferì promuovere pellicole il cui budget prevedeva almeno mezzo milione di marchi. Per realizzare i propri progetti produttori e registi, esponenti della nuova corrente, finirono così per dipendere dalle collaborazioni con le emittenti televisive che garantivano loro robusti finanziamenti. La terza generazione del Nuovo cinema tedesco, che oltre a Rainer Werner Fassbinder comprendeva anche Rudolf Tome, Werner Herzog e Wim Wenders, dovette quindi battere nuove strade per girare i film che tanto sognava. Nonostante le condizioni avverse essi riuscirono ad affrancarsi dalla contraddizione in cui versava il loro movimento, il quale aveva sì affossato il «cinema di papà» ma non aveva saputo offrire un’alternativa vincente, in grado di conquistare il grande pubblico. Motore, mente, nonché anima di questa ripresa, fu senza dubbio Fassbinder. Fin da subito il regista dimostrò che in
Germania era possibile girare film senza il sostegno della potente industria del cinema e senza le sovvenzioni dello stato. Il suo primo lungometraggio, L’amore è più freddo della morte, ne fu una prova chiara e tangibile. Questo autore straordinariamente prolifico sarebbe diventato in breve tempo espressione della nuova cultura cinematografica tedesca.44 Quando, nel 1968, Fassbinder aveva cominciato a scrivere la sceneggiatura del suo primo film, le sue chance di affermarsi come cineasta erano minime. In quel momento aveva già abbandonato la speranza iniziale di cavalcare l’onda del Nuovo cinema tedesco, come si apprende dalle sue stesse parole: «Dopo una fase di euforia – più o meno lunga a seconda dei quotidiani – ci fu un abbattimento generale, e io persi ogni speranza che stesse nascendo un’industria cinematografica efficiente, all’interno della quale potessi anch’io trovar posto e diventare regista, con un percorso normale».45 Un boccone molto amaro per Fassbinder, che aveva riposto grandi aspettative nell’avvento del nuovo cinema d’autore e si ritrovava ora a dover cercare un’altra strada per raggiungere il suo obiettivo, consapevole che né la vecchia industria cinematografica né il Nuovo cinema tedesco avrebbero potuto aiutarlo ad avvicinarsi al sogno della sua vita – una verità, questa, che in un primo momento «paralizzò tutti i suoi pensieri precipitandolo in una depressione profonda e ingestibile».46 Ma il desiderio di realizzare i film che aveva sempre sognato era troppo intenso perché il regista si lasciasse scoraggiare a lungo. Essere riuscito a debuttare con un lungometraggio girato in modo indipendente e con un budget irrisorio fu un passo molto importante e decisivo per il suo cammino. Fassbinder non dimenticò mai ciò che aveva imparato in questa fase della sua vita nella quale aveva potuto contare solo su stesso. Anche in seguito, divenuto un cineasta di successo responsabile di progetti molto dispendiosi, non smise di girare, accanto alle grandi produzioni, i film che gli stavano davvero a cuore, portati a termine con budget limitati e pochi collaboratori. Affermatosi dunque con le sue sole forze, nonostante le previsioni più nere, non avrebbe poi permesso a nessuno di manipolarlo. In questo modo poté ricavarsi uno spazio molto personale nella cinematografia tedesca, tra i film del Nuovo cinema, caratterizzati da un forte impegno intellettuale, e le grandi produzioni di pellicole commerciali di puro intrattenimento. Il suo stile tipico e inconfondibile gli consentì inoltre di conquistare poco alla volta il grande pubblico, un’impresa riuscita a ben pochi dei suoi giovani colleghi. Come già gli era accaduto ai tempi dell’Action-Theater, anche in questo caso Fassbinder arrivò al momento giusto, quando l’euforia che aveva accompagnato la nascita del Nuovo cinema tedesco s’era ormai spenta, ed era venuto meno l’entusiasmo nei confronti dei giovani registi che all’inizio erano parsi tanto promettenti. Nella ricerca disperata di una via di uscita dalla fase di stagnazione in cui si trovava la cinematografia nella Repubblica Federale si diffuse un insolito fervore di sperimentazione di cui Fassbinder seppe approfittare: «Non c’è dubbio che allora l’industria culturale avesse bisogno proprio di uno come me, altrimenti certe cose non mi sarebbero state consentite così facilmente, perché c’erano migliaia di altre persone disposte a tutto pur di lavorare, alle quali però non è stata data l’opportunità».47
L’estrema assurdità della vita vissuta Prima ancora di aver trovato un distributore che portasse L’amore è più freddo della morte in alcune sale cinematografiche della Germania Federale, Fassbinder aveva finito di girare il suo secondo film, Katzelmacher. La pellicola si basava sull’omonima opera teatrale scritta dal regista per l’Action-Theater nell’aprile del 1968. Alla pièce, in origine di venti minuti, Fassbinder aggiunse diverse scene in modo da aumentarne la durata e ottenere così un lungometraggio. Mentre nel testo teatrale il fulcro della storia è la figura dell’immigrato greco Jorgos, nella versione cinematografica il regista pone in primo piano le condizioni di vita di coloro che mettono in croce l’operaio straniero e sviluppano un atteggiamento di rifiuto e odio verso il Katzelmacher.48 Per il suo secondo film Fassbinder mantenne perlopiù lo stesso cast che aveva usato per la messinscena teatrale. Oltre al regista vi presero quindi parte Hanna Schygulla, Irm Hermann, Peer Raben, Rudolf Waldemar Brem e Doris Mattes, mentre fu necessario rinunciare a Ingrid Caven che in quel momento era in viaggio. Agli attori di sempre si aggiunsero Harry Baer, Peter Moland, Hannes Gromball, Hans Hirschmüller, uno dei fondatori dell’Action-Theater e presenza fissa in molti film futuri di Fassbinder, e infine Elga Sorbas, che interpretò Rosy. In realtà questa parte era destinata a Rosy Rosy, la «supertettona di Monaco», un’icona della subcultura bavarese di quegli anni, con la quale però Fassbinder aveva subito litigato. «Un giorno la mia agenzia mi comunicò
che Rainer Werner Fassbinder voleva conoscermi» racconta Elga Sorbas. «Quel nome naturalmente non mi diceva niente. Andai sul luogo delle riprese. Stavano girando una scena in un piccolo parco, e regnava il caos più totale. Tutto era molto anarchico, e mi piacque terribilmente.» Sorbas accettò all’istante la parte e l’indomani si presentò sul set. Ancora oggi ricorda con stupore la disponibilità che il regista dimostrò nei suoi riguardi. Una volta lei ebbe l’impressione che il film non trasmettesse abbastanza bene l’interiorità del suo personaggio, Fassbinder fece preparare di nuovo la macchina da presa e le disse semplicemente: «Riprova e vediamo!». L’attrice seguì la sua ispirazione e cantò Young Man Blues di Mose Allison, una sequenza che poi fu inserita interamente nella versione definitiva del film: «La scena era nata senza alcuna preparazione. Con Fassbinder funzionava così, io lo trovavo strepitoso, non esistevano altri registi in grado di fare una cosa simile».49 Il lungometraggio di novanta minuti fu girato in soli nove giorni e nuovamente finanziato dall’erede Bosch, Eva Madelung, che in quell’occasione mise a disposizione un capitale iniziale di 20mila marchi, grazie ai quali Fassbinder poté poi ottenere i crediti necessari per accedere a un prestito. Anche Katzelmacher, visto il budget ridotto, si fonda in gran parte sull’improvvisazione. I soldi infatti erano serviti per il noleggio presso la Bavaria Film di un’enorme e vecchia cinepresa Arri, un apparecchio difficile da manovrare e con un pesante rivestimento per l’isolamento acustico. Per questo motivo il regista ebbe ancora meno libertà nelle riprese rispetto al suo primo film. Aveva bisogno di sei uomini solo per trasportare la gigantesca cinepresa su per le scale e raggiungere così l’appartamento scelto come set, motivo per cui girò gran parte delle scene a pianoterra. E poiché l’apparecchio non permetteva panoramiche né zoomate, filmò da un punto fisso le sequenze in cui faceva entrare e uscire di scena gli attori come a teatro. Sia per le azioni estremamente lente che per i dialoghi ridotti all’osso, Katzelmacher, come già L’amore è più freddo della morte, si presentò come un film oltremodo statico, quasi claustrofobico, anche perché Fassbinder rinunciò a spezzare le scene lunghe e povere di dialoghi con primissimi o mezzi primi piani. Mancando inoltre il denaro per il noleggio di un carrello, fu necessario ingegnarsi. Rudolf Waldemar Brem ricorda: «Avevamo un’Opel Kapitän nel cui bagagliaio avevamo sistemato la cinepresa, e lentamente spingevamo l’auto. Così facendo, riuscimmo a fare alcune sequenze in movimento, alle quali altrimenti avremmo dovuto rinunciare».50 Eccetto sei carrellate tutte girate nello stesso modo e accompagnate in sottofondo dal Sehnsuchtswalzer di Franz Schubert, Katzelmacher è una pellicola costruita solo su inquadrature decisamente lunghe e statiche che, com’era già accaduto con L’amore è più freddo della morte, finirono per irritare molto il pubblico. Fassbinder ammise in seguito di aver girato così poche inquadrature per dispetto, per protestare contro le «reazioni [a suo parere] stupide e ottuse» della critica nei cui articoli si continuava a sostenere «che [nel suo primo film] tutto era così immobile, le scene erano così lunghe», per cui in Katzelmacher le aveva «rese di proposito ancora più statiche e lente».51 Se il suo lavoro d’esordio era composto da 129 inquadrature, Katzelmacher ne aveva appena 50. Il regista fece di necessità virtù, trasformando un vincolo finanziario e tecnico nella sua cifra stilistica. Tuttavia il rigido impianto narrativo e la mancanza di accadimenti unita alla povertà di dialoghi furono recepiti da una buona fetta di pubblico come una tortura. Wim Wenders, all’epoca studente alla Münchner Filmhochschule, formulò la seguente critica: «La cosa terribile di questo film è la mancanza assoluta di pathos».52 Il secondo lungometraggio risulta in effetti particolarmente faticoso e statico per le abitudini visive di oggi ma lo fu anche per quelle di allora; i dialoghi spesso molto scarni e decisamente artefatti, recitati tra l’altro in uno pseudobavarese, infastidirono ulteriormente gli spettatori. Come nel suo primo film, anche in Katzelmacher Fassbinder voleva rappresentare sul grande schermo l’incomunicabilità dilagante nella società moderna. Il film racconta i rapporti abituali, le relazioni extraconiugali, i sogni e i desideri della gente semplice, i loro pregiudizi e le ordinarie crudeltà che scandiscono la vita di tutti i giorni. Il confronto critico con le costrizioni e i principi morali insiti nella società si delinea così come uno dei temi centrali delle sue prime pellicole, temi che, stando alle dichiarazioni dello stesso regista, gli interessavano assai più delle concrete questioni politiche: «Per me è molto più importante che le persone vengano educate a vivere in coppia, a desiderare di avere un figlio e a sentire di dover provare questi sentimenti anche se non li hanno affatto».53 Influenzato dalla lettura delle opere teatrali di Samuel Beckett, Fassbinder voleva mettere in scena in questo suo secondo lungometraggio «l’estrema assurdità della vita vissuta».54 Come già a teatro, anche nel film analizzò con uno sguardo impietoso l’atmosfera soffocante della provincia, la noia opprimente e l’immobilità di un mondo piccolo borghese, ma anche l’intolleranza, i risentimenti e la potenziale violenza che, nascosti dietro la facciata di un moralismo gretto e perbenista, possono venire a galla in qualsiasi momento.
Contrariamente a quanto accadde con il suo primo film, Katzelmacher esplose come una bomba nel panorama cinematografico e fu insignito di ben cinque Bundesfilmpreise. Inoltre alla Mannheimer Filmwoche, allora la più importante vetrina del giovane cinema europeo, ricevette il Preis der Internationalen Filmpresse (Premio Fipresci) e il Preis der Akademie für darstellende Künste (Premio accademia tedesca delle arti performative). La Filmbewertungsstelle di Wiesbaden, che solo due anni prima aveva distrutto il cortometraggio Der Stadtstreicher emise per Katzelmacher i giudizi «artisticamente meritorio» e «pregevole per il contenuto» e, a posteriori, il giudizio «valido» per L’amore è più freddo della morte. Tanto entusiasmo da parte della critica sicuramente era dovuto anche al fatto che Fassbinder aveva affrontato una questione di estrema attualità, visto che nella Germania occidentale continuava l’ondata di immigrazione. L’attrice Elga Sorbas sottolinea inoltre che Fassbinder si era avvicinato a questo argomento con un approccio assolutamente nuovo: «Mi piaceva che Rainer non dipingesse la realtà solo in bianco o in nero, come era accaduto in altre pellicole. Nel suo film lo straniero non è automaticamente un personaggio positivo: tradisce la moglie in Grecia, s’impegola con le prime che capitano, e nutre a sua volta rancore verso gli immigrati turchi con i quali non vorrebbe avere niente a che fare. In realtà è un debole come tutti gli altri».55 Il motivo di tanto successo va ricercato non da ultimo nel linguaggio visivo radicalmente innovativo e autonomo. «Era qualcosa di completamente nuovo, come parlavamo, come ci muovevamo» ricorda Hans Hirschmüller. «Faceva un effetto davvero insolito, per via dello stile originale, indipendente e la gente rimaneva sbalordita.»56 La critica prese a parlare di «stile fassbinderiano». La prestigiosa rivista cinematografica Sight and Sound, che aveva definito il giovane regista esordiente un «talento davvero straordinario», scrisse che per il suo secondo film Fassbinder aveva creato uno stile «che si adattava come un guanto all’argomento».57 Con il trionfo di Katzelmacher Rainer Werner Fassbinder diventò improvvisamente il regista più acclamato tra i nuovi cineasti della Germania Federale. Inevitabile, quindi, che vi fosse grande attesa per i suoi lavori successivi. La pellicola, costata in origine solo 80mila marchi, gli fece ottenere da parte del ministero degli Interni e della Filmförderungsanstalt la bellezza di 950mila marchi,58 un capitale che il regista decise di utilizzare al più presto per la realizzazione di quei film che per primo avrebbe visto volentieri al cinema. Sicuro di sé, confessò a un amico: «Vedrai, in uno o due anni avrò guadagnato così tanto che potrò fare tutti i film che vorrò».59 Felicissimo di essere riuscito a imporsi nel mestiere che era il sogno della sua vita, Fassbinder era fermamente deciso a non farsi troppo desiderare prima di ripresentarsi con nuovi lavori. A soli due mesi dalla conclusione di Katzelmacher, nell’ottobre 1969 fu girato il primo ciak del suo nuovo film gangster Götter der Pest (Gli dèi della peste), prosecuzione ideale de L’amore è più freddo della morte, nel quale però il personaggio di Franz, il piccolo malvivente, non è più interpretato da Fassbinder bensì da Harry Baer. Il ventiduenne neodiplomato, all’anagrafe Harry Zöttl, era approdato nella squadra di Fassbinder otto mesi prima, per puro caso. I suoi compagni di scuola Brem e Krää gli avevano fatto sapere che l’antiteater stava cercando un sostituto per il percussionista che si era ammalato. Attratti dal bel giovane, Fassbinder e Peer Raben si adoperarono affinché venisse reclutato come attore e gli procurarono una piccola parte nella pièce teatrale Die Bettleroper. Il suo debutto davanti alla macchina da presa avvenne con Katzelmacher, in cui tra l’altro aveva dovuto girare subito una scena di nudo al fianco di Elga Sorbas. Senza nemmeno consultarsi con il diretto interessato, Fassbinder inserì nei titoli di coda il nome d’arte Harry Baer – ancora oggi usato dall’attore – al posto di Harry Zöttl. La rabbia per l’arbitraria decisione di Fassbinder si stemperò quando questi gli fece sapere che avrebbe interpretato la parte del protagonista nel suo film successivo. Harry accettò entusiasta ed esclamò sorpreso: «Come niente diventi una star! Fantastico!».60 Nel film Götter der Pest Fassbinder ingaggiò anche sua madre Liselotte. Dopo una breve apparizione nel cortometraggio Das kleine Chaos anche lei iniziò così la carriera nel mondo del cinema. Abbandonato l’ambito della traduzione, dal 1969 Liselotte lavorava come programmatrice presso la Gesellschaft für Strahlen- und Umweltforschung (Società per la ricerca sulle radiazioni e l’ambiente), attività che avrebbe esercitato fino al 1985.61 Di tanto in tanto, quando non era impegnata, Fassbinder la scritturava con il suo nome da ragazza, Lilo Pempeit. Ai giornalisti, che una volta gli chiesero se sua madre fosse un’attrice, lui lasciò inequivocabilmente intendere che lo era diventata solo per volere suo concludendo: «Ora di fatto lo è».62 Sul set Fassbinder trasformava la madre – spesso assente nella sua infanzia – in una propria creatura su cui poi esercitava il suo potere. A seconda delle circostanze, le si rivolgeva chiamandola «mamma», «Lilo» o «signora Eder». «Nelle situazioni critiche mi dava sempre del Lei» ricorda Liselotte.63
Alla domanda della stampa sul perché coinvolgesse così spesso la madre nei suoi film, Fassbinder replicava: «Con mia madre […] ho un rapporto cordiale, ma rifiuto tutto ciò che va oltre questo limite. Io non ho bisogno del contatto madre-figlio».64 Solo pochi mesi prima di morire il regista sarebbe stato più esplicito a riguardo e avrebbe speso qualche parola in più sul loro complicato rapporto: la prima volta che Liselotte aveva provato a atteggiarsi a mamma nei confronti del figlio, all’epoca sempre più famoso, Rainer, trovando la cosa estremamente ipocrita, l’aveva redarguita severamente, con modi così brutali «da farla più o meno a pezzi. Il mio non era solo un rifiuto ma una violenta reazione di difesa. Volevo a tutti i costi zittirla».65 L’autore rinfocolava di continuo il sentimento di amore-odio nutrito nei riguardi della madre, non solo usando con lei maniere brusche ma anche affidandole «ripetutamente ruoli freddi e respingenti, invece di parti simpatiche e cariche di calore umano».66 Sebbene i rapporti tra loro restassero tesi – Fassbinder non le parlava mai dei suoi film e nell’ultimo periodo si sarebbe ulteriormente allontanato da lei – il regista continuò ad assegnarle piccoli ruoli. Liselotte collaborò a ben venti produzioni, da Götter der Pest fino a Veronika Voss. Stando alle parole di Harry Baer, il fatto che i ruoli scritti appositamente per lei da Fassbinder fossero una sorta di costante rimprovero «la lasciava quasi indifferente». Recitava «volentieri […] per il figlio» ed eseguiva umilmente «nel proprio ruolo di attrice e madre tutte le sue indicazioni».67 Anche il terzo lungometraggio di Fassbinder, Götter der Pest, venne realizzato in tempi brevissimi. Dopo solo quattro settimane ci fu l’ultimo ciak. Per la prima volta il regista riuscì a ottenere un contratto di distribuzione in anticipo sulle riprese. Benché i finanziamenti per Katzelmacher non fossero stati ancora versati completamente, il plauso della critica per il suo ultimo lavoro fece sì che i potenziali investitori si dimostrassero molto generosi, mettendo a disposizione un capitale di 180mila marchi, il budget più alto mai stanziato per un film di Fassbinder fino a quel momento. Con questa somma il cineasta non solo noleggiò un’attrezzatura tecnica migliore ma si fece anche costruire – cosa per lui del tutto nuova – le scenografie. Arrivò persino a concedersi due riprese aeree con l’elicottero che gli costarono uno sproposito. In questo modo voleva replicare alle critiche che gli erano state rivolte in merito alla mancanza di dinamismo delle sue prime due pellicole. Se Katzelmacher, con la sua realtà illusoria, era stato recepito come un netto rifiuto del cinema classico, Götter der Pest – per il quale l’autore aveva potuto contare su un budget più consistente e di conseguenza anche su una dotazione tecnica più raffinata – mise subito in evidenza la sensibilità di Fassbinder per il linguaggio tradizionale del cinema hollywoodiano che tanto lo aveva segnato nella sua infanzia e giovinezza. Determinante fu, da questo punto di vista, il contributo di Thea Eymèsz, una montatrice che nei cinque anni successivi avrebbe lavorato al suo fianco su diversi altri progetti. Avendo montato perlopiù documentari ed essendo passata soltanto allora ai lungometraggi, la trentatreenne ebbe modo di sperimentare, assieme allo stesso regista, le possibilità drammaturgiche della tecnica di montaggio – un aspetto sin qui insondato nei film realizzati da Fassbinder –, scandagliandone le potenzialità con sempre maggiore consapevolezza. Mentre in Katzelmacher il cineasta aveva del tutto rinunciato agli inserti, in Götter der Pest e nei lavori seguenti ricorse sempre più spesso a primi e primissimi piani, una scelta da attribuirsi sicuramente al contributo di Thea Eymèsz. Regista e montatrice lavorarono subito in assoluta armonia. Fassbinder apprezzava molto la grande serietà della sua assistente che, anche nei momenti più snervanti, dava prova di capacità e avvedutezza. Dal canto suo, Eymèsz godeva della piena libertà che il cineasta le lasciava al banco di montaggio. Si abituò talmente ai ritmi di Fassbinder che faticò poi a lavorare con altri registi: «Ho l’impressione che un film realizzato senza stress e frenesia non sia un buon film».68 Attraverso questa collaborazione Fassbinder poté far propri i principi basilari del montaggio e prese gradualmente a trasferirli sul set. Riuscendo a immaginare il film già confezionato, era in grado di girare le inquadrature in modo da facilitare poi la loro composizione, ed evitava inoltre di usare quantità enormi di pellicola. Alla montatrice non restava che assemblare le scene così com’erano state filmate e badare alla sincronizzazione delle immagini con la colonna sonora. Perno del film Götter der Pest è Franz Walsch, interpretato da Harry Baer e alter ego di Fassbinder. Appena scarcerato, il piccolo delinquente e protettore progetta con Günther, un suo vecchio amico, una nuova rapina in un supermercato. Anche questa volta il rapporto tra i due uomini ha un’impronta fortemente omoerotica. Franz è molto attratto da Günther, sebbene sia il sicario che, su ordine del racket, ha sparato a suo fratello, e gli confessa di amarlo. Il suo amore per lui è ben più profondo di quello che prova per le donne. Lasciata la sua ragazza, Joanna – cantante in un nightclub interpretata da Hanna Schygulla –, di cui non sopporta più la possessività, intesse una nuova relazione con Margarethe, impersonata da Margarethe von Trotta, ma rimane freddo e distaccato. Entrambe deluse in amore, Joanna e Margarethe si rivoltano
contro Franz e informano la polizia dell’imminente colpo. Nella sparatoria che manda all’aria la rapina Franz rimane ucciso mentre Günther viene ferito gravemente. Il film si chiude in modo melodrammatico con il funerale di Franz. Götter der Pest riprende da L’amore è più freddo della morte non solo il motivo del tradimento per opera delle donne ma anche certi elementi tipici dei film gangster americani e francesi, tanto cari al regista. Tuttavia, a differenza delle prime due pellicole di chiara impronta teatrale, quest’ultima ha già un impianto più cinematografico. Sebbene lo sviluppo della trama sia ancora lento, il cineasta rinuncia qui a quelle lunghissime inquadrature che tanto avevano connotato i suoi lavori precedenti, aggiungendo nelle sequenze molti più inserti di quanto avesse mai fatto. In questo modo Fassbinder, oltre a adottare le convenzioni del cinema d’intrattenimento, dimostrava di essere sempre più consapevole del proprio ruolo di «narratore di storie». Nonostante tutte queste concessioni al gusto popolare, la speranza del cineasta che il film potesse piacere ai maggiori distributori e arrivasse pertanto nelle grandi sale rimase disattesa. Götter der Pest era il secondo capitolo di una trilogia gangster che si sarebbe conclusa l’anno dopo con Der amerikanische Soldat. Nel frattempo, Katzelmacher e Götter der Pest furono seguiti da una pellicola attribuita a Fassbinder – e ancora oggi commercializzata come una sua opera – che in realtà c’entrava ben poco con l’autore. Ufficialmente Fassbinder e Michael Fengler sono, a pari diritto, registi e sceneggiatori di Perché il signor R. è colto da improvvisa follia? (Warum läuft Herr R. Amok?), anche se oggi Fengler viene quasi sempre liquidato come «coregista di Fassbinder».69 Di fatto le cose non stanno così. Unico vero regista e ideatore di questo progetto fu Fengler, il quale aveva intanto terminato gli studi e sostenuto l’esame di stato per l’abilitazione all’insegnamento. Tuttavia, per motivi promozionali, si preferì mettere nei titoli di testa e sui manifesti il nome di Fassbinder, che all’epoca era già un personaggio noto. Stando a Fengler, Fassbinder assistette alle riprese «per due sole giornate: la prima fu quando venne girata la scena con Hanna Schygulla, perché voleva avere il controllo totale e vedere come sarebbe venuta; la seconda invece per presenziare alla scena nel negozio di dischi in cui Kurt Raab era la figura centrale. In quel caso voleva assicurarsi che Kurti recitasse sul serio e non si limitasse a scheccare».70 In seguito Fassbinder negò la paternità esclusiva dell’opera: «Non è un film che posso dire di avere fatto io. Vi ho preso parte, ma non l’ho fatto io».71 Perché il signor R. è colto da improvvisa follia? racconta la storia di un uomo assolutamente normale. Il protagonista, interpretato da Kurt Raab, fa il disegnatore tecnico in uno studio di architettura, ha un capo che è una persona perbene, dei colleghi simpatici, una moglie carina e un figlio. La sua famiglia conduce una vita regolare, passa le serate guardando la tv, il sabato e la domenica riceve la visita dei suoceri. Tutto scorre in modo ordinato e tranquillo, finché un bel giorno il signor R. non regge più quel suo mondo piccolo borghese e, in preda a un impulso inspiegabile, senza peraltro mostrarsi minimamente turbato, ammazza la moglie, il figlio e una vicina di casa che è lì in visita per caso. L’indomani, quando il crimine viene scoperto, s’impicca, senza che la domanda espressa nel titolo trovi una risposta nel film. Non si indica un colpevole né si mostra quale avrebbe potuto essere una vita più sensata e dignitosa. Lo spettatore deve capire da sé perché il protagonista non tollera più la sua routine e cosa l’ha spinto a commettere il delitto. La pellicola rende in modo davvero impressionante il vuoto di un’esistenza piccolo borghese, assolutamente normale e comune, e ritrae una persona la cui vita rischia di essere soffocata dalla noia. Anche se in questo lavoro è del tutto assente la componente omosessuale, a prima vista Perché il signor R. è colto da improvvisa follia? si inserisce perfettamente nel corpus delle opere di Fassbinder per l’inesorabilità con cui seziona l’esistenza di un uomo. Al tempo stesso, però, osservando sia la scelta dei mezzi filmici sia il modo in cui gli attori sono diretti, appare evidente l’assenza della sua mano. Il cineasta infatti riteneva molto importante che gli attori si attenessero esattamente al copione. In questo film invece gli interpreti improvvisano liberamente le battute davanti alla macchina da presa. Del resto disponevano di una scaletta di appena due pagine sulla base della quale dovevano poi recitare autonomamente. Questa libera costruzione dei ruoli, di cui era solito avvalersi Michael Fengler, era considerata da Fassbinder un metodo del tutto inadeguato. A suo avviso era impossibile elaborare un film collettivamente – già lavorando in teatro aveva bocciato quel sistema. Il fatto che Fengler permettesse agli attori persino di muoversi come volevano davanti alla cinepresa deve essere stato una spina nel fianco per Fassbinder, lui che nei film metteva in scena con i suoi interpreti veri e propri tableau coreografici e non tollerava che le figure gli sfuggissero di mano sviluppando una vita propria. Inoltre il lungometraggio fu girato a mano con una cinepresa 16 mm, un ulteriore aspetto che non depone a favore della paternità di Fassbinder. Nei suoi film, dove le inquadrature lunghe e statiche erano diventate in un certo senso una cifra distintiva, le cineprese a mano non venivano nemmeno prese in considerazione.
Fassbinder non aveva infatti mai nascosto di nutrire un’avversione per le scene girate manualmente. Non c’è da stupirsi quindi che egli definisse «miserabili»72 le riprese di Perché il signor R. è colto da improvvisa follia?. Solo alcuni critici si resero conto di quanto la pellicola, «che non sembrava proprio un film di Fassbinder»,73 si differenziasse dalle sue opere precedenti. Sebbene dunque Michael Fengler ne sia senza alcun dubbio il vero autore, il film fu recepito dalla stampa di allora quasi indistintamente come un’opera di Fassbinder, cosa possibile non solo perché tra i due nomi il suo era il più famoso ma anche perché vi partecipò pressoché tutta l’affiatata e rodata compagnia del noto regista. Dietrich Lohmann era l’operatore, Kurt Raab, come sempre, il responsabile della scenografia e Harry Baer l’aiuto regista. Quasi tutto il cast proveniva dalla scuderia di Fassbinder: oltre al protagonista Kurt Raab, vi erano Hanna Schygulla, Lilith Ungerer, Harry Baer, Peer Raben, Irm Hermann, Doris Mattes, Ingrid Caven e Lilo Pempeit. All’inizio probabilmente Fassbinder pensò che il manifesto con il suo nome fosse una sorta di trampolino di lancio per il suo vecchio amico Michael Fengler, che lui stimava molto e aveva già reclutato come assistente alla regia per il film Katzelmacher. Quando però, a pellicola terminata, vide il film e si rese conto che non rifletteva affatto la sua idea di cinema, fece subito un passo indietro. Così racconta Fengler: «Appena il film fu pronto, naturalmente lo mostrai subito a Rainer Werner. Finita la proiezione, se ne andò via senza dire una parola. Il giorno dopo mi chiese di togliere il suo nome dai titoli di testa. Gli spiegai che la cosa sarebbe costata come minimo duemila marchi e io non ero disposto a spendere quei soldi. A quel punto, seppure a denti stretti, si rassegnò. Solo per questo il suo nome è rimasto nei titoli di testa. Tuttavia, quando alla Berlinale il film riscosse applausi sia dal pubblico che dalla critica, cambiò subito atteggiamento. Alla conferenza stampa fu lui la star e rilasciò un’intervista dietro l’altra. D’un tratto non gli dava più fastidio che il film fosse suo. Ciò non toglie che non gli sia mai piaciuto».74 In seguito Fassbinder non avrebbe avuto alcuna difficoltà a definire Perché il signor R. è colto da improvvisa follia? – che era pur sempre valso a entrambi il Nastro d’oro del prestigioso Bundesfilmpreis come migliori registi – «un film decisamente disgustoso e a tratti addirittura rivoltante».75 Il lungometraggio successivo, un lavoro che porta di nuovo la sola firma di Fassbinder e racconta ancora una volta di un’amicizia tra uomini fortemente omoerotica, fu Rio das Mortes. L’idea di fondo della pellicola – la prima a colori per il cineasta – veniva da Volker Schlöndorff che aveva sviluppato l’intreccio per un proprio film ma poi l’aveva passato a Fassbinder considerando il giovane regista un assoluto talento. Mentre Schlöndorff aveva pensato di raccontare la storia di due amiche che, ritrovatesi dopo tanto tempo, decidono di concretizzare il loro sogno d’infanzia di andare a vivere su un’isola dei mari del Sud, Fassbinder – all’epoca ancora molto lontano dall’idea di fare un film tutto al femminile –, pur mantenendo l’idea di fondo, narra invece di un’amicizia maschile. I protagonisti – il piastrellista Michael e Günther, appena congedatosi dal servizio militare – tornano a inseguire ingenuamente un loro vecchio sogno: fuggire dalla fredda e noiosa routine di tutti i giorni e partire alla volta del Perù per cercare un tesoro nella zona del Rio das Mortes. Un desiderio che condividono da quando erano bambini. Presto capiscono che non sarà facile reperire il denaro per intraprendere una spedizione nella foresta vergine peruviana. La fidanzata di Michael, Hanna, è estremamente gelosa del suo rivale Günther e fa l’impossibile per ostacolare il piano dei due uomini – dopotutto vorrebbe mettere su famiglia con Michael. I due amici però non si lasciano distogliere dalla loro voglia di avventura e alla fine riescono a trovare una mecenate che, appassionatasi all’idea di una caccia al tesoro, mette loro a disposizione il denaro per la spedizione. Quando all’aeroporto i due uomini stanno per imbarcarsi, Hanna estrae una pistola nel tentativo di trattenerli, ma all’ultimo momento lascia cadere l’arma e l’aereo con i due amici a bordo decolla. Nella sceneggiatura originaria Fassbinder aveva previsto che Hanna sparasse a Günther. Siccome però questo film, a differenza dei precedenti così cupi e drammatici, presentava i tratti di una commedia, il regista optò per il lieto fine, facendone la sua opera di gran lunga più leggera: «Fosse stato un film come quelli che avevo già fatto, Hanna avrebbe sparato».76 Se consideriamo i primi lavori di Fassbinder nell’ordine in cui sono stati realizzati, emerge chiaramente che l’artista si perfezionò di pellicola in pellicola e conseguì via via sempre più sicurezza. Va quindi riconosciuta la validità di quanto il regista affermava di se stesso, ovvero di aver imparato a fare film semplicemente facendoli.77 L’ingenuità tecnica che saltava ancora agli occhi in L’amore è più freddo della morte, e che aveva suscitato le critiche della stampa specializzata, andò scemando di produzione in produzione. Essendo più o meno un autodidatta, lui stesso sapeva che nel suo primo periodo creativo sarebbe dovuto scendere a molti compromessi e che, in virtù dei bassissimi budget a disposizione, non avrebbe potuto realizzare tutto così come lo aveva in testa. Sapeva però anche che avrebbe fatto gradualmente dei progressi e avrebbe
padroneggiato sempre meglio la sua professione. Fu per questo che si tuffò con grande curiosità nell’acquisizione degli strumenti di lavoro, affinando e perfezionando mano a mano la sua tecnica e il suo stile narrativo: «Io devo poter fare i miei errori, solo così in ogni nuovo film posso eliminare quelli vecchi e non rifarli più».78 L’aver girato già agli esordi tanti lungometraggi accelerò enormemente questo processo di apprendimento. Fassbinder avrebbe poi ammesso: «I primi film li ho girati innanzitutto per farmi un’idea del cinema».79 Herbert Paetzold, che è stato assistente alla fotografia di Fassbinder a partire da L’amore è più freddo della morte, conferma che «all’inizio era un po’ difficile e faticoso lavorare al suo fianco perché non sapeva ancora quasi niente degli aspetti pratici e tecnici del fare cinema. Il suo assistente alla fotografia Dietrich Lohmann e io – entrambi avevamo già una certa esperienza in ambito cinematografico – l’abbiamo preso per mano, gli mostravamo molte cose sui punti macchina o sulle inquadrature oppure gli spiegavamo cos’è un campo-controcampo. Fassbinder era straordinariamente intelligente, aveva un’incredibile capacità di apprendimento, le cose che gli sembravano logiche le assimilava con grande velocità e poi le trasferiva nel suo lavoro in modo da conseguire, film dopo film, sempre più sicurezza».80 Per Lohmann era proprio quella comune voglia di sperimentare, che connota tutti i primi film, a far sì che Fassbinder sviluppasse uno stile inconfondibile: «Ora proviamo un po’ in quest’altro modo, facciamo un passo avanti. Da questo suo atteggiamento nascevano tanti spunti nuovi».81 La crescente abilità nell’affrontare gli aspetti più artigianali del mestiere era legata anche al grande controllo che Fassbinder aveva sempre esercitato sui suoi attori, dai quali si aspettava non solo incondizionata fiducia ma anche totale e possibilmente silenziosa sottomissione. Yaak Karsunke, che aveva interpretato piccole parti in L’amore è più freddo della morte e in Götter der Pest, ricorda: «Certe volte sul set venivamo trattati in modo grossolano e sgradevole. Non si discuteva mai. Se solo uno provava a esprimere la propria idea, Fassbinder poteva imbestialirsi e mettere tutti a tacere. Quindi diceva con voce stridula: “Ora fai come voglio io perché so io come si deve fare”. E dopo uno sbotto simile nessuno più osava controbattere – anche perché dal risultato si capiva che sapeva esattamente quello che stava facendo».82 Fassbinder elaborò un suo modo personale di intendere la regia che consisteva nel dare il minimo indispensabile di istruzioni. Gradualmente estese questa tecnica, nata in origine dalla sua collaborazione con Hanna Schygulla, anche agli altri interpreti. Perlopiù spiegava loro velocemente com’era costruita la scena che si preparavano a girare e poi impartiva qualche indicazione sul modo in cui dovevano muoversi davanti alla macchina da presa e su ciò che si aspettava da loro: «Di fatto ho sempre solo cercato di spiegare la cornice di quello che doveva accadere. Mi sembrava già un modo molto libero di dirigere gli attori, che concedeva loro più spazio di quanto ne avessero normalmente».83 Provare in precedenza le scene di solito gli pareva superfluo, per questo era estremamente esigente e rigoroso quando si doveva filmare una sequenza molto complicata dal punto di vista delle carrellate. In genere rinunciava anche a ripetere le riprese, convinto del fatto che «tanto la seconda volta non viene meglio».84 Fassbinder era felice quando ogni inquadratura riusciva subito al primo ciak. Ulli Lommel conferma che il regista «voleva in realtà sperimentare tutto solo una volta, senza prove, e possibilmente in un’unica ripresa».85 Questo metodo di lavoro così insolito garantiva al regista che al ciak, tutti i collaboratori si sarebbero concentrati al massimo sapendo di avere in pratica solo quella possibilità per assolvere al meglio il loro compito. Un’altra abitudine che Fassbinder assunse da subito e mantenne fino alla fine, fu quella di non visitare, prima delle riprese, i luoghi scelti come set dai suoi collaboratori. Gli piaceva arrivare sul posto e poi, di volta in volta, reagire spontaneamente alla situazione: «Per me è stimolante trovarmi davanti all’imprevisto».86 Un regista come Stanley Kubrick, che preparava i suoi film con grande acribia per anni, prima di girarli, appariva a Fassbinder sospetto, «troppo matematico e troppo pedante».87 La tanto amata spontaneità richiedeva molto a tutto il suo entourage: «Attraverso la sua creatività si era stimolati, invogliati, a essere a nostra volta creativi, ognuno nel proprio campo» ricorda Lohmann.88 Molto presto doveva emergere un altro carattere distintivo che avrebbe segnato l’intera carriera di Fassbinder. Solitamente il regista cominciava a girare il film dopo aver redatto il piano di lavorazione e deciso il cast. Avendo però già tutta l’opera in testa e sapendo esattamente come sarebbe stata una volta montata, col tempo la fase concreta delle riprese diventò per lui un peso. «Girare le scene era in un certo senso solo il compimento riuscito di un progetto che lui aveva già visto scorrere nella sua testa e di cui ora doveva solo produrre la copia materiale», questa l’opinione di Peter Märthesheimer, redattore dell’emittente Westdeutscher Rundfunk che avrebbe lavorato al fianco di Fassbinder per molti anni.89 Lo stesso gli succedeva quando doveva
scrivere una sceneggiatura. Fosse stato per lui, avrebbe girato film ben più complessi basandosi solo su un breve soggetto. Poiché le Filmförderungsanstalten e altri finanziatori esigevano di norma le sceneggiature dei progetti, molto spesso era costretto a redigerle – e lo faceva comunque in un battibaleno. Anche in questo caso i suoi collaboratori avevano l’impressione che il regista dovesse semplicemente mettere per iscritto «quanto era già ben definito nella sua testa».90 Mentre, dunque, gli attori erano tutti concentrati sul film girato in quel momento, in genere Fassbinder era già proiettato sull’elaborazione e la preparazione di nuove idee e produzioni. Proprio questa impazienza e questa sua creatività irrefrenabile imposero un ritmo mozzafiato al succedersi delle singole pellicole, tanto che il regista riuscì a realizzare in soli tredici anni più di quaranta film per il cinema e la tv.
Ormai mi posso permettere un sacco di cose 1970-1971
A Monaco, lo stile di vita traboccante, volutamente antiborghese e sregolato di Fassbinder e della sua cerchia divenne ben presto un argomento all’ordine del giorno. Dopo l’impresa dell’ActionTheater, il suo ideale era costituire una comune creativa, una sorta di sostituto della famiglia, in cui vivere e lavorare con persone di idee affini. Al termine di quell’esperienza, Fassbinder tentò di coltivare con alcuni membri dell’antiteater quel modo di vivere così tipico della sua epoca. Base della comune divenne un appartamento che Fassbinder prese in affitto nell’estate del 1968 nel tratto nord della Auffahrtsallee, dove andò ad abitare con Peer Raben, Irm Hermann e anche Ursula Strätz la quale, dopo il definitivo fallimento dell’Action-Theater, che in un primo tempo aveva cercato di portare avanti con altri attori, era tornata a capo chino da Fassbinder. Mentre Rainer occupava la camera più grande e più bella, gli altri coinquilini dovevano accontentarsi delle stanzette rimanenti. Nel 1969 Fassbinder e i suoi si trasferirono in una mansarda piuttosto grande, in un edificio destinato all’abbattimento nella Stollbergstraße, vicino all’Isar. Dal momento che quella vecchia casa era decisamente più spaziosa rispetto alla precedente, il regista tentò in concreto di riprendere l’idea di comune che aveva animato l’Action-Theater e di fondare una Factory, così come la concepiva Andy Warhol; un luogo in cui non ci fosse separazione tra il lavoro e la vita. I coinquilini di Fassbinder erano sempre Peer Raben, Irm Hermann e Ursula Strätz, poi si trasferirono lì anche Kurt Raab, Ingrid Caven e il suo fidanzato di allora Gottfried Hüngsberg. Anche l’informatico Hüngsberg, che nel 1974 avrebbe sposato la scrittrice Elfriede Jelinek, diede un suo contributo creativo, recitando un piccolo ruolo in L’amore è più freddo della morte e curando il suono di Katzelmacher e di Götter der Pest.1 Nel nuovo appartamento «andavano e venivano persone che noi nemmeno conoscevamo»2 ricorda Peer Raben. A Fassbinder piaceva quel senso di comunità e ne aveva bisogno, «era una specie di open house. Non c’erano solo le sei o sette persone che ci abitavano. Il posto era sempre pieno zeppo e si respirava una bella atmosfera. Ci si poteva andare come si va all’osteria, capitava spesso qualcosa e si trovava qualcuno con cui parlare». Ma non mancavano anche le zone d’ombra: persino Fassbinder riconosceva che «nessuno si occupava di tener pulita la casa».3 Ai visitatori non potevano sfuggire gli svantaggi di quella vita comunitaria: «In cucina regnava un gran caos. Nelle stanze con i materassi per terra ordine e pulizia erano parole sconosciute».4 Al centro della comune c’era ovviamente Fassbinder, il quale dichiarava apertamente che bisognava fare come voleva lui, perché era «un nemico giurato delle discussioni».5 La maggior parte dei coinquilini era sorprendentemente disposta a adattarsi senza fare obiezioni: per esempio Kurt Raab, che si descrive come «massaio, donna delle pulizie, segretario personale, babysitter, nonché sottomesso esecutore di ordini spesso anche insensati».6 Un ruolo particolare ce l’aveva Irm Hermann, sulla quale Fassbinder amava sfogare i propri malumori. Il regista sfruttava spudoratamente i suoi complessi di inferiorità7 e approfittava del fatto che la giovane donna fosse perdutamente innamorata e non avesse ancora perso la speranza di fondare una famiglia con lui: «Avrei potuto camminare carponi, tanto lo trovavo geniale. Avrei fatto qualunque cosa per Rainer».8 Fassbinder, da parte sua, non faticava a riconoscere che quella donna, a lui così devota, diventava spesso oggetto dei suoi giochini crudeli: «Irm Hermann è una di quelle persone che si potrebbero definire nate per essere vittime: trova la propria identità, o prova piacere, solo nella sofferenza, nel farsi schiacciare».9 Fassbinder continuava a punzecchiarla e a umiliarla, preferibilmente davanti agli altri. Quando poi Irm Hermann divenne vegetariana, Rainer cominciò a prenderla in giro chiamandola «mangiagranaglie», e una sera, durante una cena di soli uomini, salvo lei, le buttò lì la proposta: «Senti, Irm, il tuo più grande desiderio non è venire a letto con me? Se mangi un pezzo di questa carne, ci sto».10 Gli altri membri del gruppo osservavano queste scene con un certo compiacimento, come ammette Kurt Raab nelle sue memorie: «Fassbinder le faceva spesso saltare i nervi, la tormentava e la umiliava e
per noi era un vero spasso, perché se per un verso ci divertivamo a guardare quello spettacolo, per l’altro finché lui si accapigliava con Irm per un po’ lasciava in pace noi».11 Ai continui rimproveri di lei – «Hai promesso di sposarmi! Hai promesso che avremmo avuto dei bambini. Perché non mi sposi?»12 – Fassbinder reagiva spesso con dei ceffoni o con nuove umiliazioni. Quando un giorno, respinta per l’ennesima volta, salì sul davanzale della finestra della mansarda e minacciò di buttarsi di sotto, lui le rispose impassibile: «E buttati, stronza!».13 Irm Hermann ammette: «Mi sarei buttata davvero, non sapevo più come andare avanti. Non vedevo alcun futuro senza Rainer».14 Nel privato, e anche sul set, a Fassbinder piaceva dimostrare agli altri il potere incondizionato che aveva su di lei. «Mi umiliava in pubblico, “Di’ a quella stronza che la deve girare a sinistra, la testa!”, lo faceva di continuo. E io durante le riprese avevo sempre le lacrime agli occhi.»15 Nei film la relegava al ruolo di megera isterica che lei, con sua grande irritazione, non poteva far altro che continuare a interpretare. «Ma io non avevo scelta. Se volevo stare con Rainer dovevo accettare quei ruoli. Se in privato mi capitava di avere delle divergenze di opinione con lui, nel film o nella pièce successiva non c’erano più ruoli per me.»16 Fassbinder metteva spesso in atto queste misure punitive. Quando Irm Hermann, in uno dei suoi allestimenti teatrali, si rifiutò, nonostante i ceffoni e le botte, di andare su e giù da una scala a pioli nuda come un verme, nel film successivo, per punizione, non poté lavorare.17 Ma alla fine lei, che per Fassbinder tentò tre volte il suicidio,18 giustificava tutte le umiliazioni e i rifiuti: «Gli perdonavo tutto perché sapevo benissimo che era come un bambino cui l’amore non bastava mai. Non ho nemmeno mai provato del risentimento nei suoi confronti».19 Come gli altri membri della comune creativa, anche Irm Hermann era irrimediabilmente succube di Fassbinder. Tutti facevano buon viso a cattivo gioco. Anche Thea Eymèsz «trovava molto forzata quell’esibizione di vitalità all’interno del gruppo. Per me Rainer non era una persona allegra. Quando ci ritrovavamo soli a chiacchierare non mi è mai sembrato un tipo pieno di vita. Sempre pungolato dalle persone che gli stavano intorno, che lo tiravano per la giacchetta e che volevano tutte qualcosa da lui».20 Ma le cose non stavano esattamente così, non erano solo i membri dell’antiteater ad aspettarsi qualcosa dal regista. Lo stesso Fassbinder cercava molto consapevolmente quella vicinanza. Durante la lavorazione di un film voleva sempre al suo fianco i collaboratori più stretti, persino quando le riprese erano finite. Anche Michael Ballhaus, il quale ha lavorato con Fassbinder per molti anni come operatore, sostiene che il cineasta non sopportava che gli altri avessero «una vita autonoma, separata dalla sua. Aveva un bisogno disperato di compagnia».21 L’unica a cui concedeva di avere una sua vita era Hanna Schygulla, per la quale era fondamentale, pur avendo un ruolo importante nel cosmo di Fassbinder, mantenere l’autonomia e la possibilità di agire in modo indipendente. Solitaria e diffidente nei confronti dell’obbedienza di gruppo richiesta da Fassbinder, la Schygulla conservò fin dall’inizio una certa distanza: «Nei suoi confronti provavo un misto di attrazione e di allarme, come se qualcosa mi dicesse di non avvicinarmi troppo per non scottarmi. Avevo la sensazione di dovergli stare lontana. Sentivo quanto lui potesse essere pericoloso per coloro che gli si abbandonavano anima e corpo».22 Per questo l’attrice preferì non andare a vivere nella comune, e la relazione tra il regista e la sua star rimase esclusivamente professionale, come Fassbinder avrebbe ammesso nel 1981: «Peraltro sono certo che io e la Schygulla, in tutti quegli anni, non abbiamo scambiato una sola frase di natura personale».23 Il regista riteneva che la Schygulla fosse «ostile al gruppo»,24 la considerava una persona cui, alla fine, interessava soltanto «soddisfare la propria vanità»,25 «brillare in questo o quel ruolo»,26 il che secondo lui non era sminuente, anzi del tutto comprensibile in un attore. Per Fassbinder era importante che la Schygulla, nella collaborazione con lui, si comportasse secondo le sue aspettative: «Nel lavoro Hanna si sottometteva completamente, perché stava più attenta degli altri alle indicazioni che davo e perché fin dall’inizio è stata la più perspicace nel capire le mie regie. Nel privato abbiamo sempre evitato qualsiasi contatto. Questo è accaduto certamente per volontà di entrambi, anche se in modo inconsapevole, perché era chiaro per tutti e due che non avremmo più potuto lavorare assieme, se ci fossimo fatti invischiare in una relazione».27 I giochini di potere usati di continuo con Irm Hermann e con altri, nel caso della Schygulla Fassbinder li evitò da subito, come ricorda per esempio Michael Ballhaus: «Con lei Rainer aveva un rapporto tutto particolare perché Hanna non apparteneva veramente al clan. Non era legata né da un punto di vista economico né da un punto di vista amoroso alla famiglia-Fassbinder, ed era, per questo, abbastanza indipendente».28 Il rapporto speciale che c’era tra il regista e l’attrice aveva le sue ripercussioni anche durante le riprese. Mentre sul set Fassbinder sottoponeva gli altri membri
del gruppo dell’antiteater a un’enorme pressione per raggiungere un determinato risultato, trattava invece la Schygulla con i guanti di velluto, come conferma Ingrid Caven: «Hanna era un’eccezione. A lei diceva sempre: “Tu sei la più bella, tu sei la migliore”».29 Quando poi con il successo dei primi film cominciarono anche ad arrivare i soldi, nel maggio del 1970 Fassbinder affittò, a Feldkirchen, a est di Monaco, una villa di fine Ottocento circondata da un parco meraviglioso. Poiché era lui a pagare il costoso affitto dell’intera tenuta, volle di nuovo per sé la stanza più grande e pretese di assegnare gli altri locali. Mentre Irm Hermann aveva rinunciato a vivere con il suo aguzzino, continuavano invece a far parte della comune creativa Peer Raben, Kurt Raab e Ursula Strätz, nonché Ingrid Caven e Gottfried Hüngsberg, e ora anche Michael Fengler e la sua fidanzata Molly von Fürstenberg. Nell’isolamento della vita di campagna, i giochi di potere messi in atto da Fassbinder e le lotte per entrare nelle sue grazie si intensificarono. Si ripetevano continuamente scene estreme, spesso di grande violenza. Molte volte i vetri andavano in pezzi e capitò che Fassbinder, nei suoi accessi di rabbia, distruggesse tutto l’arredamento. Persino un fautore della comune come Rainer Langhans, che per un periodo aveva lavorato come assistente alla regia di Fassbinder – e quindi conosceva bene il gruppo –, aveva qualche difficoltà con loro: «Il modo in cui sfiniva le persone coinvolgendole in quelle relazioni di amore-odio, tutte storie fortemente passionali che poi sfruttava nei suoi film […]. Un simile teatro dei sentimenti non l’avevo davvero mai sperimentato, anche se ne avevo viste di cotte e di crude». Insomma, era troppo anche per Langhals: «La loro convivenza, per me, proprio dal punto di vista umano, era davvero pessima. Si ferivano reciprocamente, per non parlare di quelle continue docce scozzesi dei sentimenti che si impartivano con raffinata perfidia».30 Anche Peer Raben ritenne in seguito che il periodo di Feldkirchen fosse stato «il peggiore».31 La lontananza da Monaco si rivelò presto un grosso problema: i continui viaggi in taxi verso la città comportarono, in breve tempo, spese spaventose; dopo soli sei mesi, e con grande sollievo del vicinato, quella sede della comune fu abbandonata. A quel punto, nel dicembre del 1970, Fassbinder prese alloggio con Ingrid Caven e Peer Raben in un appartamento della Münchner Reitmorstraße. Anche in questo caso erano solo i ritmi di Fassbinder a scandire la vita domestica. Da tempo s’era abituato a scambiare il giorno con la notte e a dormire il meno possibile, perché, come ripeteva spesso: «Potrò dormire quando sarò morto».32 La vita sfrenata della comune fassbinderiana comparve presto sulle pagine dei giornali. Non era un segreto per nessuno che l’alcol in quell’ambiente giocasse un ruolo sempre più importante. Lo Stern definiva già allora Fassbinder un «alcolizzato e un genio».33 Nel periodo del teatro, come raccontano unanimemente tutti i testimoni,34 beveva ancora soltanto Coca-Cola. Le cose cambiarono quando giunsero i primi successi nel cinema.35 Come accadeva con tutto ciò che lo riguardava, ben presto anche il consumo di alcol assunse forme eccessive. Beveva birra e vino, rum, whisky e grappa, e gli piaceva scommettere ogni sera su chi tollerasse meglio l’alcol, facendo bere tutti, come ricorda Harry Baer, «finché non finivano sotto il tavolo».36 Naturalmente Fassbinder non avrebbe potuto sopportare di lasciare il primato a qualcun altro e poté vantarsi di aver bevuto senza problemi in una sera ben trenta Bacardi-Cola.37 Quando beveva, tendeva a far danni. Una volta, durante una lite, ferì un cliente dell’osteria al punto che fu poi condannato per gravi lesioni personali.38 In certi locali, come per esempio il Romagna Antica, frequentato da tutti coloro che a Monaco avevano a che fare con il mondo del cinema a un certo livello, non poteva più mettere piede, perché i proprietari sostenevano che si fosse comportato con loro come un animale.39 L’alcol non era l’unica forma di dipendenza di Fassbinder. Anche se all’epoca rifiutava ancora completamente il consumo delle droghe, era comunque, fin dalla prima giovinezza, un fumatore accanito e fumava fino a centoventi sigarette al giorno «come se, senza sigarette, dovesse perdere l’equilibrio».40 Il suo assistente alla fotografia di allora, Herbert Paetzold, ricorda: «Rainer si serviva di un solo fiammifero al giorno, la mattina presto, poi nel resto della giornata accendeva una sigaretta con l’altra. Fumava davvero una sigaretta dopo l’altra. Non riesco nemmeno a immaginarmelo senza la sigaretta».41 Anche nei confronti del cibo Fassbinder si mostrò presto bulimico. Preferiva piatti malsani, molto grassi, e al ristorante ordinava quasi sempre arrosto di maiale con knödel fritti nel burro, salsicce arrostite o bollite, oppure Leberkäse. Di notte, quando aveva bevuto molto, spesso lo prendeva una voglia di würstel che doveva soddisfare a ogni costo. Kurt Raab veniva «svegliato nel cuore della notte con la richiesta di un wienerli o di un debrecziner, e bisognava procurarglielo al più presto. Così si andava alla ricerca disperata di ciò che desiderava per non uscire dalle sue grazie. Era infatti più difficile recuperare la sua benevolenza che non
trovare, nella Monaco notturna e addormentata, un’osteria il cui proprietario si lasciasse convincere a venderti i würstel».42 Anche se Fassbinder aveva la sensazione di essere forte come un toro e di poter vivere come gli eroi dei suoi film, al di sopra delle leggi dei comuni mortali, in realtà le sue condizioni di salute non erano brillanti. Già a ventiquattro anni un medico gli consigliò caldamente di cambiare stile di vita, altrimenti non sarebbe vissuto a lungo. Quando Volker Schlöndorff ingaggiò il suo collega per un film, la società di assicurazione chiese che tutti coloro che facevano parte della produzione si facessero visitare. Anche Fassbinder dovette sottoporsi a quel controllo. Schlöndorff ricorda: «Il medico gli ha detto: “Lei non può andare avanti così. Non può bere così tanto e dormire così poco. Deve fare un po’ di sport, altrimenti tra dieci anni sarà messo molto male. Il suo cuore è debole e tutto il fisico sta già cadendo a pezzi”. Ma Rainer naturalmente ci ha riso sopra e non gli ha creduto».43 Da quel momento in poi evitò il più possibile di andare dal dottore; l’unica terapia per cui mostrò, anche se per breve tempo, un certo interesse fu la psicoanalisi. Nel 1971 dichiarò in un’intervista: «Mi piacerebbe una volta farmi psicoanalizzare, per vedere quello che c’è dentro di me».44 A tanto però non è mai arrivato. Secondo Ingrid Caven Fassbinder voleva andare in analisi perché lei c’era stata: «E di sicuro per lui sarebbe stata una buona cosa, ma si era messo in testa di farsi seguire dallo stesso psicoanalista da cui ero in cura io, il professor Kilian. E questo naturalmente non era possibile. Di affidarsi a un altro non voleva saperne e così, purtroppo, non se n’è fatto niente».45 Più erano alti gli incassi dei suoi film, più Fassbinder ci prendeva gusto ad avere soldi, così, tanto per spenderli. Sebbene continuasse a pagare molto poco i membri dell’antiteater, cominciò ad abituarsi a uno stile di vita sempre più lussuoso – gli piaceva mostrare in giro la sua ricchezza. A quell’epoca sviluppò un rapporto addirittura erotico con il contante e pagava «i conti astronomici delle consumazioni estraendo il denaro da mazzette di banconote che teneva sempre infilate nella tasca posteriore dei pantaloni, come nei film americani».46 A una giornalista della Abendzeitung di Monaco confessò di amare il denaro: «Si può prendere il tè con il rum, o comprare un’auto veloce, o fare un film».47 Aveva un debole per le auto sportive americane, anche se non aveva la patente, essendo stato bocciato per due volte all’esame. Questo però non gli impediva di mettersi di continuo al volante della sua auto preferita (la Corvette Stingray della Chevrolet che costava 50mila marchi), spesso con conseguenze disastrose. Secondo Michael Fengler, Fassbinder è riuscito «in un solo anno a distruggere ben quattro Stingray. Erano sempre gli altri che poi dovevano metterci la faccia e prendersi la responsabilità degli incidenti».48 Nonostante non si dichiarasse pubblicamente che Fassbinder aveva causato gli incidenti, il regista non esitava a posare per l’Abendzeitung davanti al rottame della macchina. «Rainer lo trovava fortissimo. Più l’auto era distrutta, meglio era.» Harry Baer ammette tuttavia che questo comportamento causava malumori all’interno del gruppo. Tenuti a stecchetto, i membri dell’antiteater «non capivano perché mai servisse di colpo una Stingray e perché, quando questa era ridotta a un rottame, il giorno dopo ce ne fosse già una nuova».49 Fassbinder era perfettamente consapevole di potersi concedere quello stile di vita eccentrico solo perché era un artista: «Ormai mi posso permettere un sacco di cose. La gente dice, massì, dai. Se facesse la stessa cosa un capofficina, perderebbe subito il lavoro».50 La cricca Fassbinder non perdeva occasione per dimostrare quanto poco tenesse alle convenzioni. Dal momento che non erano disposti a indossare abiti da cerimonia nelle occasioni deputate, a volte venivano lasciati fuori. Così, nel 1971, al regista e ai suoi accompagnatori fu vietato l’accesso al ricevimento che seguì alla premiazione del Filmpreis in cui Fassbinder aveva ricevuto un riconoscimento come migliore regista per Perché il signor R. è colto da improvvisa follia?. Mentre il ministro Hans-Dietrich Genscher era a cena con gli altri premiati, Fassbinder e i suoi se ne stavano fuori dalla porta.51 Coglievano poi ogni occasione per farsi notare e per provocare; spesso devastavano le camere d’albergo, come accadde per esempio durante le riprese nell’elegante hotel Schweizerhof di Berlino, dove il personale alla fine era talmente disgustato da rifiutarsi «anche solo di mettere piede nelle loro stanze».52 Altrettanto sgradevole era il modo in cui litigavano sempre più violentemente tra loro anche di fronte agli estranei. Non di rado finivano col prendersi a botte durante il lavoro.53 Il tono che usavano era più che sgarbato. Insulti come «troia schifosa», «porco», «stronza» erano all’ordine del giorno. Una volta Fassbinder se la prese con il suo produttore e lo ricoprì di improperi davanti all’intero team: «Adesso ti spacco il muso, porco infame. T’ammazzo, ti faccio a pezzi!».54 Gli accessi di rabbia di Fassbinder spesso partivano dal nulla. Se il cavolo rosso che gli servivano in tavola non aveva lo stesso sapore di quello che gli preparava sua madre, andava fuori di testa. Se un attimo prima era di buon umore e chiacchierava dei nuovi progetti, un momento dopo poteva esplodere e, come ricorda Michael
Fengler, «tutto diventava molto sgradevole».55 Svicolava quando gli si chiedeva delle sue ire: «A volte mi metto effettivamente a urlare, ma non ce l’ho con nessuno. È soltanto per qualcosa che sta succedendo dentro di me, e allora lo tiro fuori gridando. Chi non mi conosce si sente colpito personalmente e nel momento in cui è tutto finito viene da me e mi dice: “Sei ancora arrabbiato?”. E io non so nemmeno di cosa stia parlando».56 La cricca Fassbinder stava insieme soprattutto per via del lavoro comune. Anche con la sua professione il regista aveva un rapporto di dipendenza esagerata. L’idea di rilassarsi o di staccare gli era completamente estranea. «La minima pausa lo mandava in uno stato depressivo che provocava poi in lui nuovi accessi d’ira.»57 Tra un progetto cinematografico e l’altro non sapeva cosa fare se non buttarsi a programmare i successivi, sviluppando nuove idee e aspettandosi che gli altri componenti dell’antiteater fossero sempre al passo con lui. Faticosissime erano anche le sue vacanze, che nessuno trovava riposanti perché l’ozio non esisteva nel vocabolario di Fassbinder. Organizzò per esempio un viaggio in Africa per il quale sarebbero stati necessari due mesi di tempo, comprimendolo in tre giorni e mezzo. Non facevamo altro che volare da un posto all’altro e viaggiare in auto sempre a centottanta all’ora. Una follia»58 ricorda Harry Baer. Non riuscendo a rilassarsi, Fassbinder detestava che i suoi compagni di viaggio si godessero la vacanza, come sostiene anche l’attore Peter Kern: «Quando ce ne andavamo in giro senza Fassbinder, la giornata trascorreva meravigliosamente serena – lui al sole non ci stava mai. Prima di rientrare però dovevamo pensare bene a cosa dire per evitare di dargli l’impressione che ci fossimo divertiti. Allora ci inventavamo dei piccoli drammi per convincerlo che avevamo trascorso una giornata orribile, ci lamentavamo per le scottature, per le spiagge brutte, così lui era contento e la serata era salva. Se invece aveva l’impressione che ci fossimo divertiti poteva diventare insopportabile». Le bellezze della natura non gli interessavano granché: «In quella casa, sull’isola greca di Skopelos c’era una terrazza sulla quale trascorrevamo le nostre serate e da dove si vedevano tramonti bellissimi. Eravamo tutti lì, commossi, e quello spettacolo ci pareva meraviglioso. Solo Fassbinder se ne stava seduto con la schiena rivolta al tramonto a leggersi il suo libro e non lo si poteva disturbare. Giusto un secondo dopo che il sole era tramontato si voltava, guardava brevemente l’orizzonte, e poi tornava a leggere».59 Anche l’omosessualità di Fassbinder e di molti altri suoi collaboratori contribuì a tenere unito il gruppo. Con Peer Raben Rainer aveva avuto una breve storia; Kurt Raab, omosessuale, vedeva in lui una sorta di sostituto paterno e Harry Baer divenne suo intimo amico, anche se seppe sottrarsi ai tentativi di avvicinamento del regista. Fassbinder fece delle avance persino agli attori eterosessuali dell’antiteater. S’innamorò per un po’ di Rudolph Waldemar Brem,60 e poi voleva a tutti i costi andare a letto con Hans Hirschmüller, che era sposato: «Siccome gli piacevo, ma sapeva che non ero omosessuale, mi ha proposto un triangolo con lui e Ingrid Caven, la quale però, grazie a Dio, si è rifiutata. Ma lui ha continuato a provarci. E quando ha capito che tra noi non ci sarebbe mai stato nessun rapporto sessuale, cominciarono forti tensioni».61 Finite le riprese, Fassbinder, con i suoi amici omosessuali, frequentava regolarmente i locali e le saune gay.62 Nessuno nascondeva il proprio orientamento. Tutti gli uomini della sua cricca usavano tra di loro nomi di donne e si parlavano ricorrendo alla forma femminile, cosicché il migliore amico diventava «la migliore amica» – una mania molto comune in determinati circoli gay di allora. Kurt Raab si chiamava «Emma Patata», Harry Baer «Ilse Zott», Peter Kern «la grassa Paula», Udo Kier «Dodo», Walter Sedlmayr «Sedlputz», Christoph Hohoff era la «Christl dei disastri» e Dieter Schiedor veniva chiamato «Kitty Babuffke». Nemmeno gli eterosessuali potevano sottrarsi a simili soprannomi. Così a Michael Ballhaus fu affibbiato da Fassbinder il nomignolo «Sonja», il suo assistente Horst Knechtel divenne «Ute», Karlheinz Böhm era chiamato «Charlotte», Burkhard Driest «Agathe», Ulli Lommel «Lommellina», Mario Adorf «Pola», Armin Müller-Stahl «Armandina», mentre il produttore Peter Berling aveva eletto Fassbinder «mammina» della truppa. L’unico a non essere stato ribattezzato con un nome femminile era Peer Raben, che veniva chiamato «Willi», diminutivo di Wilhelm, suo vero nome. Il regista era per tutti «Mary». Per Fassbinder, nel frattempo, vivere alla luce del sole la propria omosessualità era diventato molto più facile che non negli anni della giovinezza, quando la cultura gay fioriva ma doveva rimanere nascosta. Dopo la riforma del paragrafo 175 da parte della coalizione social-liberale di Willy Brandt, che nel 1969 cancellò l’onta dell’illegalità, in tutta la Germania furono aperti club, caffè, osterie frequentati quasi esclusivamente da omosessuali. A Monaco, per esempio, l’Ochsengarten della Müllerstraße era stato il primo Lederlokal63 a essere inaugurato, e Fassbinder aveva subito cominciato a frequentarlo. Anche se in tutte le grandi città tedesche era solito andare in questo genere di locali, quello che preferiva era l’ambiente parigino, che alla fine degli anni sessanta gli sembrava il più aperto. Quasi ogni fine settimana partiva con qualche amico,
come Harry Baer, per la capitale francese – aveva affittato un appartamento a Montmartre, vicino alla chiesa del Sacre-Cœur – e lì frequentava assiduamente gli ambienti gay. Era per lui una «piacevole consuetudine»64 recarsi in certe saune, luoghi d’incontro che la Germania Federale, piccolo borghese com’era, non gli poteva offrire. Ma, da questo punto di vista, anche a Parigi la libertà sessuale era ancora oggetto di limitazioni, cosa di cui Fassbinder poté rendersi conto già nel 1968, in occasione di uno dei suoi primi soggiorni in città. Ufficialmente in Francia, dove il corrispettivo del paragrafo 175 era ancora in vigore, l’omosessualità era messa al bando, cosicché bisognava fare i conti con continue retate. Nel novembre del 1967 Fassbinder fu ferito durante uno scontro con la polizia parigina,65 e proprio nel maggio del 1968, nel momento culminante della rivolta studentesca, fu arrestato in una sauna frequentata soprattutto da arabi in rue Wagram e dovette rimanere in carcere per cinque settimane.66 Il fatto aveva subito destato scalpore in Germania, ma le vere ragioni dell’accaduto non vennero alla luce. La Süddeutsche Zeitung scriveva: «Non è chiaro se Fassbinder abbia preso parte attivamente alle dimostrazioni o se sia semplicemente caduto nelle mani delle forze dell’ordine mentre vi assisteva da spettatore».67 Al suo rilascio Fassbinder si guardò bene dal rivelare pubblicamente la verità. Persino a sua madre aveva fatto credere di essere stato fermato dalla polizia perché si trovava sulle barricate. Solo con Michael Fengler ammise «che le cose erano andate diversamente e che in realtà era stato arrestato durante un’orgia in una sauna gay irregolare. Tutti coloro che erano stati presi in quella retata erano stati rinchiusi proprio nella prigione di Vincennes, dove in quei giorni venivano incarcerati gli studenti che protestavano. Così, naturalmente, aveva potuto scodellare in quel modo la storia a sua madre, che da quel momento aveva visto in lui una sorta di secondo Cohn-Bendit».68
Forse l’amore è un’impostura Nel settembre del 1969 Rainer Werner Fassbinder conobbe, durante le riprese dello sceneggiato televisivo di Volker Schlöndorff Baal, uno dei grandi amori della sua vita: Günther Kaufmann. Nella riduzione televisiva dell’opera di Brecht Fassbinder aveva il ruolo del protagonista, un giovane poeta di talento ma villano, mentre Kaufmann era stato ingaggiato da Schlöndorff per una particina secondaria. Il giovane, ancora del tutto sconosciuto, voleva diventare attore per fare della sua vita qualcosa di speciale. Era nato due anni dopo Fassbinder ed era un figlio illegittimo. Sua madre, mentre il marito era prigioniero di guerra, aveva avuto una storia con un soldato americano di colore che era stato immediatamente rispedito negli Stati Uniti, perciò Kaufmann non aveva mai conosciuto il vero padre. Il patrigno aveva subito accettato il ragazzino – che i vicini prendevano in giro chiamandolo «negretto» o «bastardo» o «testa di moro» – e l’aveva riconosciuto senza esitazioni come figlio suo. Già quando andava a scuola, Kaufmann sognava un mestiere artistico e aveva frequentato un gruppo di ballo. Il suo più grande desiderio era però diventare musicista. I genitori tuttavia optarono per una normale formazione professionale e a quattordici anni lo spedirono a lavorare in una cartiera. Finito l’apprendistato Kaufmann si arruolò in Marina e si imbarcò come caporale sul Gorch Fock, la leggendaria nave scuola a vela della Marina militare tedesca. Rientrato a Monaco lavorò dapprima come tipografo e poi vendendo libri e dischi porta a porta. Per puro caso era stato scoperto e preso direttamente dalla strada da Schlöndorff, che l’aveva ingaggiato per un ruolo nel suo Baal, cosa che aveva risvegliato in Kaufmann il desiderio di buttarsi nel cinema: «Potrei fare l’attore. Diventare una star del cinema con la Rolls Royce e la villa al mare».69 Fassbinder fu subito colpito da quel giovane di bell’aspetto e anche molto affascinante, benché in un primo tempo non lo desse a vedere e anzi si mostrasse nei suoi confronti particolarmente freddo e burbero. All’epoca era già fortemente attratto, e lo fu poi per tutta la vita, dagli uomini di colore e dagli arabi – un debole che condivideva con molti omosessuali. Fino a quel momento i suoi contatti con loro si erano limitati agli incontri nelle saune parigine, ora però era davvero entusiasta di aver trovato un «negro bavarese», come poi avrebbe sempre chiamato Günther Kaufmann in virtù del suo forte accento. A ventidue anni Kaufmann era abituato al fatto che gli omosessuali lo trovassero attraente e già quand’era in Marina aveva dovuto difendersi da avance di questo genere. Fu tuttavia lusingato dall’interesse del regista, già noto, che al loro primo incontro lo aveva squadrato da capo a piedi, e non rimase indifferente al suo carisma, come avrebbe ricordato anni dopo: «I suoi occhi avevano un’espressione intrigante e piena di fascino».70 Pare che in principio Kaufmann non si fosse nemmeno reso conto di quanto era accaduto; furono le persone nella cerchia del regista a dovergli dire che Fassbinder s’era innamorato di lui. In effetti di avance concrete all’inizio Fassbinder non ne fece, si accontentava di qualche abbraccio e di un bacio sulla guancia quando si salutavano. I
due divennero amici. Più di questo Fassbinder non riuscì a ottenere. Nutriva però la speranza di procurarsi presto i favori del «negro bavarese», il cui matrimonio era in crisi, visto che la moglie Gaby non approvava la scelta del marito di darsi alla recitazione. Pensando alla sua famigliola, lei avrebbe preferito che si dedicasse a un mestiere regolare. Ma Kaufmann dopo le riprese di Baal ci aveva preso gusto, ed era entusiasta sia delle prospettive che d’un tratto gli si aprivano sia dello stile di vita non convenzionale del regista: «Fassbinder significava estasi e bohème». 71 Cominciò a trascorrere con la troupe molto più tempo di quanto non ne passasse con la moglie e i bambini. In ogni caso, la separazione che Fassbinder auspicava in un primo momento non avvenne. Quando un giorno gli capitò di vedere la moglie di Günther, dapprima scoppiò in lacrime, poi in un accesso di rabbia incontenibile distrusse la cucina della villa di Feldkirchen. Kaufmann intuiva che approfondendo l’amicizia e la collaborazione con Fassbinder le cose potevano diventare difficili, ma non voleva farlo arrabbiare e rimosse il problema. «In fondo era la mia opportunità. In qualche modo me la sarei cavata, pensavo con ottimismo.» Certamente, se accettò il gioco di Fassbinder non fu solo per calcolo; il regista gli piaceva molto: «Mi piaceva anche il modo in cui mi desiderava, lo ammetto. Io però non ero omosessuale».72 Le difficoltà e i conflitti, in effetti, non tardarono ad arrivare, ma in un primo tempo non riguardarono tanto Fassbinder quanto gli altri membri del clan che, gelosi, attaccarono l’intruso. Il regista reagì con veri e propri raptus d’ira. Se qualcuno parlava male di Kaufmann, o peggio gli faceva delle avance, come per esempio Kurt Raab, costui veniva punito e magari si ritrovava senza il suo ruolo o veniva tormentato durante le riprese. Nel clan di Fassbinder erano perciò tutti convinti che Kaufmann, per fare carriera, avesse accondisceso a una liaison che comportava intimità sessuale. Kaufmann ha poi contestato queste voci. La sua versione dei fatti è sostenuta anche da Ingrid Caven, che fu per breve tempo la moglie di Fassbinder: «Günther è stato il grande amore di Rainer, l’ha amato molto. Ma non c’è mai stata tra loro – di certo con grande dispiacere di Rainer – una relazione sessuale. In questo Günther dice il vero».73 Fassbinder sperava con tutto il cuore di poter legare di più a sé Günther, scrivendo per lui un ruolo dopo l’altro, e trasformando l’amato nella vera e propria star dei suoi film. Questa era la più grande dichiarazione d’amore che gli potesse fare. I personaggi che Fassbinder creò per Kaufmann e il modo in cui lo diresse dimostrano quanto l’attore debba aver significato per il regista. Subito dopo che si erano conosciuti gli aveva assegnato un ruolo in Götter der Pest. Kaufmann doveva impersonare il piccolo delinquente Günther, il migliore amico di Franz, l’alter ego di Fassbinder interpretato da Harry Baer. I due personaggi sono legati da un’amicizia che ha evidenti tratti omosessuali. Franz confessa a Günther senza mezzi termini: «Io ti amo». Anche in Rio das Mortes, girato pochi mesi dopo, Fassbinder inserisce nella sceneggiatura una parte ritagliata apposta per Kaufmann. Questa volta gli dà addirittura il ruolo di coprotagonista. Il tema è di nuovo un’amicizia maschile fortemente omoerotica. Il modo in cui Fassbinder, nei suoi film, idealizza Günther e il loro rapporto lascia supporre che in quel periodo fosse già accecato dall’amore e fosse anche convinto di poter conquistare il cuore di Kaufmann. Nel film successivo, Whity, arrivò a scrivere per lui la parte del protagonista, sperando così di dargli grande visibilità. Fassbinder considerava quel suo primo e ultimo western come un omaggio a Raoul Walsh – il suo regista preferito del momento – e ai suoi drammi sugli stati del Sud, in particolare Band of Angels (La banda degli angeli) del 1957. In relazione a Whity Fassbinder nutrì subito grandi aspettative. Non solo il film sarebbe stato girato con la tecnica del cinemascope, che avrebbe coinvolto di più il pubblico, ma era anche dotato di un budget di 680mila marchi, tanto che lo staff di produzione era cinque volte più grande rispetto a quelli precedenti. Queste premesse consentirono a Fassbinder di realizzare il suo primo film davvero «cinematografico», sfruttando fino in fondo le possibilità del mezzo. Inoltre, grazie al produttore Peter Berling – al quale peraltro la pellicola è dedicata –, le riprese di Whity furono effettuate all’estero. Incontrato l’anno precedente, Berling – cui Fassbinder aveva subito assegnato la piccola parte di un commerciante d’armi nel suo primo film, L’amore è più freddo della morte – sarebbe diventato un altro importante compagno di strada del regista. All’epoca trentacinquenne, Berling, che viveva tra Roma e la Germania, si stava conquistando una posizione nell’ambito delle coproduzioni italo-tedesche. Avendo già finanziato alcuni progetti del Nuovo cinema tedesco e prodotto cortometraggi con Alexander Kluge e Klaus Lemke,74 non era nuovo al mondo del cinema, motivo per cui Fassbinder l’aveva messo a capo della produzione di Whity. In questo suo ruolo fu proprio Berling, che pure definì il film una «scemenza sudista e astrusa»,75 a fare in modo che le riprese potessero avvenire gratuitamente in Spagna, ad Almeria, nella città del western all’italiana nonché set di C’era una volta il West di Sergio Leone.
Whity fu coprodotto anche dalla antiteater-X-Film e dall’Atlantis-Film, una società cinematografica finanziariamente non molto affidabile appena fondata da Ulli Lommel. Oltre a essere uno dei protagonisti del film, Lommel procurò a Fassbinder la collaborazione dell’operatore Michael Ballhaus, che determinò l’importanza di Whity nella carriera di Fassbinder. Dietrich Lohmann, che era stato direttore della fotografia di Fassbinder da Katzelmacher in poi, aveva deciso di cominciare a rendersi autonomo da un punto di vista professionale e di lavorare sempre più spesso con altri registi. Fassbinder era dunque disposto ad assumere un nuovo assistente ma all’inizio aveva grandi pregiudizi nei confronti di Ballhaus, il cui «volto spaventosamente borghese»76 lo rendeva scettico. L’impressione che Michael Ballhaus ebbe di Fassbinder ad Almeria fu di una persona «fredda, piuttosto scortese, addirittura ostile»,77 e tra i due uomini si crearono forti tensioni, dovute certamente al fatto che Ballhaus – di dieci anni più grande – aveva lavorato come operatore sin dalla fine degli anni cinquanta, accumulando molta più esperienza di quanta ne avesse il regista: «Sulle prime temeva probabilmente di non riuscire a imporre il proprio stile».78 Fassbinder criticava di continuo Ballhaus o aveva da ridire sul suo lavoro. Abituato ad avere al suo fianco Lohmann, che eseguiva le sue indicazioni senza fare commenti, dava in escandescenze ogni volta che il nuovo operatore cercava di comunicargli le sue idee. Fassbinder allora gridava disarmato: «Non fa quello che gli dico!».79 Ballhaus era dunque convinto che quella collaborazione non avesse futuro e in un primo momento non disfece neppure le valigie. Le cose cambiarono quando Fassbinder poté metterlo alla prova in una scena piuttosto difficile di cui gli aveva spiegato tutti i dettagli tecnici e che doveva essere ripresa senza interruzioni. Le luci furono sistemate in appena mezz’ora, dopo di che Fassbinder poté cominciare e Ballhaus filmò quella scena complicata esattamente come gliel’aveva illustrata lui. Impressionato dall’abilità dell’operatore, Fassbinder cambiò di colpo il suo atteggiamento e abbandonò le perplessità iniziali. Da quel momento in poi ebbe occhi solo per Michael Ballhaus, pur senza darlo a vedere, almeno inizialmente. Durante la lavorazione non pronunciò una sola parola di lode nei suoi confronti: «Il massimo che si concedeva era: “Tutto a posto”»80 ricorda Ballhaus. Di fronte a Ulli Lommel, tuttavia, che aveva conosciuto Ballhaus nel 1969 durante le riprese del film di Peter Schamoni Deine Zärtlichkeiten (Mai più dolce sorella), Fassbinder non nascose il suo entusiasmo e dichiarò che, d’ora in avanti, avrebbe voluto solo lui.81 Otto anni e quindici film sarebbe durata la loro collaborazione, particolarmente stretta perché il regista, che in Lohmann aveva apprezzato il buon artigiano, amava in Ballhaus lo sguardo d’artista: «Fassbinder stava sempre molto vicino alla cinepresa e si muoveva con lei. Quindi sapeva abbastanza bene quello che ci sarebbe stato nell’inquadratura».82 Il nuovo collaboratore ebbe indubbiamente una parte importante in quello che più tardi fu definito dalla stampa il «tocco fassbinderiano», e da parte sua seppe approfittare della vicinanza con il regista. Secondo i ricordi di Hanna Schygulla, ogni volta che Fassbinder gli sottoponeva un nuovo progetto, lui rispondeva: «Difficile, ma bello!» e si metteva al lavoro.83 Whity è ambientato nel 1878, nel Sudovest degli Stati Uniti. Whity, figlio illegittimo del proprietario terriero Ben Nicholson e della sua cuoca nera, lavora a servizio in casa del padre che non esita a frustarlo quando lo ritiene necessario. Dai due fratellastri – uno omosessuale e innamoratissimo di lui, l’altro malato di mente – e dalla seconda moglie del padre – una donna gelida e un po’ ninfomane – il ragazzo meticcio viene spinto a uccidere il patriarca, perché essi possano impossessarsi delle proprietà e cominciare una nuova vita. Whity dapprima si rifiuta di dar seguito alla loro richiesta e sembra completamente calato nel ruolo del servo obbediente, capace di sopportare in silenzio e con remissività ogni umiliazione e ingiustizia. Alla fine però uccide l’intera famiglia ed esegue così la sentenza che i membri stessi hanno pronunciato ai propri danni con la loro falsità, la loro avidità, la loro incapacità di amare, i loro intrighi e la loro voglia di uccidere. Se è vero che Whity fu girato proprio come un western, con tutti i tratti e i temi tipici – dall’amoreggiare di Whity con la cantante alla zuffa nel saloon –, in realtà Fassbinder si avvalse degli stereotipi del genere per rappresentare un melodramma familiare, una storia di oppressione e sfruttamento dei sentimenti. Le riprese divennero per tutti un’impresa faticosissima perché c’erano continue tensioni tra Rainer e il suo protagonista. Sin qui Fassbinder non aveva osato fare a Kaufmann delle vere e proprie avance; ma ora che gli aveva affidato il ruolo principale, voleva tutto. Lontano da casa, aveva prenotato una camera doppia e fece in modo che avessero un po’ di tempo per rimanere soli. Quando però l’attore a letto rimase «rigido come un palo» e respinse l’invadenza di Fassbinder, il regista «divenne furente»84 e minacciò, come faceva in questi casi, di togliergli la parte. Per dar forza alla sua minaccia, prese il telefono e incaricò Harry Baer: «Procurami un altro negro. Kaufmann vuole tornare da sua moglie». Anche se Kaufmann riuscì poi a addolcire
Fassbinder e a farlo tornare sui suoi passi, quell’episodio gli fece comprendere in quale vespaio si fosse cacciato. «A quel punto capii chiaramente che ci legava una dipendenza reciproca: lui aveva bisogno di me perché mi amava o, se non altro, mi desiderava, e io avevo bisogno di lui per poter recitare.» Kaufmann sapeva benissimo che non poteva rischiare di urtare troppo Fassbinder, non volendo rinunciare al ruolo di protagonista, ma sapeva anche quanto sarebbe stato difficile resistere in quelle condizioni per sei settimane di riprese, facendo in modo che il regista mantenesse il buon umore senza però cedere alla sua insistenza sempre più assillante. Fassbinder, «abituato com’era a ottenere tutto molto facilmente», come ricorda Kurt Raab, non nascondeva di essere infelice, «reagiva con aggressioni, esplosioni d’ira, accessi di rabbia rivolti contro tutti e del tutto imprevedibili».85 Pare che abbia anche tentato il suicidio.86 L’atmosfera era quindi pessima e l’alcol scorreva a fiumi. Già di mattino presto, prima di cominciare a girare, il regista ordinava «cento cuba libre che poi venivano portati sul set in bicchieri di plastica».87 La lavorazione del film divenne perciò sempre più caotica e assurda. I preparativi per le riprese consistevano secondo Baer «principalmente in raduni di massa al bar, grandi bevute e insulti reciproci, scontri e schiamazzi nelle camere da letto fino a notte fonda». Era così, infatti, che si immaginavano Hollywood.88 Fassbinder continuava a minacciare di interrompere i lavori e di andarsene. Oppure si lanciava come un toro scatenato sul suo direttore di produzione Peter Berling ogni volta che qualcosa non andava esattamente come se l’era immaginata.89 Tutti dovevano fare i conti con la rabbia del maestro, anche Ulli Lommel, che non riuscì più a sostenere i costi della coproduzione di Whity, cosicché il film, con grande irritazione di Fassbinder, dovette infine essere finanziato quasi esclusivamente dalla antiteater-X-Film, e il regista fu costretto, dalla Spagna, a chiedere contributi a Bonn per poter continuare a girare. In una scena Ulli Lommel doveva comparire con la moglie Kathrin Schaake, sposata poco prima delle riprese di L’amore è più freddo della morte. Per via della rabbia montante nei confronti di Lommel, Fassbinder conferì al ruolo interpretato dalla Schaake tratti sempre più sadici, e aggiunse nella sceneggiatura una scena in cui l’attrice, per due minuti di seguito, doveva schiaffeggiare il marito con il dorso della mano: «Al termine della scena i Lommel erano entrambi a terra, e piagnucolavano per la vergogna, la nausea e la rabbia».90 Per tutti i presenti quella fu una situazione «terribilmente penosa», ricorda Michael Ballhaus.91 Fassbinder tuttavia era convinto che fosse meglio «provare dolore in quel modo che non tormentarsi con un’unione piena di falsità». Secondo Lommel il regista riteneva che il suo matrimonio fosse «ormai fallito e che gli inganni reciproci facessero parte del gioco».92 In fondo Fassbinder non aveva visto male con quella messinscena, e persino anni dopo «era felice come un bambino di aver contribuito allo scioglimento della coppia, pur mantenendo l’amicizia con entrambi».93 Quando Whity fu proiettato alla Berlinale nel 1971, la reazione fu di scherno e derisione. Alcuni critici erano convinti che Fassbinder avesse voluto girare una parodia del western all’italiana – mentre non era affatto così –, altri lo liquidarono semplicemente come un «melodramma pretenzioso e vuoto».94 Il problema principale era senza dubbio che nessuno si sarebbe aspettato un film del genere da Fassbinder. Fino a quel momento era stato considerato un «regista votato alla critica sociale»,95 un giovane cineasta elitario che si rivolgeva soprattutto a un pubblico di studenti e intellettuali, e analizzava temi di attualità nella Repubblica Federale. Il fatto che Fassbinder, con Whity, volesse di punto in bianco portare sullo schermo i sogni hollywoodiani, aveva spiazzato non poche persone. A causa delle critiche negative, non si riuscì a trovare un distributore per il film, che non arrivò mai nei cinema.96 Anche le emittenti televisive dissero «no, grazie», pertanto Whity divenne uno dei più grandi fiaschi del regista. Quella che a Fassbinder era sembrata una promettente partenza per nuovi lidi, s’era rivelata la sua prima fregatura, dal punto di vista sia commerciale che artistico. «La prima uscita nel grande business hollywoodiano,» riassume Harry Baer «il primo tentativo di staccarsi dall’orticello tedesco e di andarsene nel vasto mondo, fallì miseramente.»97 Nonostante lo scarso successo dell’impresa, Whity non fu l’unico tentativo di Fassbinder di aiutare Günther Kaufmann ad affermarsi come attore. In effetti il regista scrisse la sceneggiatura di Der amerikanische Soldat, che doveva concludere la trilogia iniziata con L’amore è più freddo della morte e Götter der Pest, espressamente per lui,98 riservandogli il ruolo del protagonista, Ricky, un killer di professione di origini tedesco-americane. Cresciuto a Monaco con la madre, Ricky si trasferisce in seguito dal padre – un soldato statunitense dislocato in Germania alla fine della guerra – ma è poi costretto a lasciare l’America per andare a combattere in Vietnam. Tornato in Germania, viene segretamente ingaggiato da tre agenti incitati dal capo della polizia ad abbattere con ogni mezzo il numero dei casi irrisolti. Ricky dovrà eliminare tre personaggi dei bassifondi
che loro non sono in grado di catturare. Prima di mettersi al lavoro e di uccidere, come gli è stato chiesto di fare, le tre persone, il protagonista incontra l’amico Franz, interpretato dallo stesso regista, e insieme vanno a visitare i luoghi della loro infanzia – Fassbinder girò questa scena nel cortile della casa della Sendlinger Straße dove aveva trascorso i primi sei anni della sua vita. Quando, dopo aver assolto freddamente il suo compito, il killer professionista sta per lasciare la città, viene raggiunto dai tre poliziotti, i quali, non avendo più bisogno del sicario – ormai scomodo e al corrente di troppe cose –, lo tolgono di mezzo. Anche Franz, accorso in suo aiuto all’ultimo minuto, resta ucciso. Il film termina con una canzone su un amore finito che Fassbinder aveva scritto assieme a Peer Raben apposta per Günther Kaufmann: «Our love is dead, my friend / our walk has now an end / our film is torn, my friend / and hate was born at end. / So much tenderness is in my head / so much loneliness is in my bed / so much tenderness over the world» («Il nostro amore è morto, amico mio / la nostra strada finisce qui / il nostro film è concluso, amico mio / e alla fine è nato l’odio. / C’è tanta tenerezza nella mia testa / tanta solitudine nel mio letto / tanta tenerezza in giro per il mondo»). Anche Whity si concludeva con una canzone interpretata da Kaufmann: «Goodbye, my love, goodbye / It doesn’t go together / your way of life and mine» («Addio, amore mio, addio / la tua vita e la mia / non sono in armonia»). La canzone Our Love Is Dead fu poi l’unico contributo di Günther Kaufmann al film Der amerikanische Soldat, perché all’inizio delle riprese lui e Fassbinder erano ormai arrivati alla rottura. Anche se, comprensibilmente, gli sarebbe piaciuto molto interpretare quel ruolo da protagonista, l’attore non sopportava più le continue umiliazioni e le punzecchiature di Fassbinder. Quando il regista raccoglieva intorno a sé la troupe con le parole: «Gli attori, prego, e il signor Kaufmann!», Günther si sentiva esplodere. Arrabbiato com’era rifiutò un’ulteriore collaborazione con Fassbinder, il quale ebbe un esaurimento nervoso e partì di punto in bianco per Parigi. Il regista, comunque, non ci mise molto a tornare in forma e a Monaco si ricominciò daccapo con le riprese, mentre il ruolo previsto per Kaufmann fu affidato all’attore Karl Scheydt, che da quel momento in poi partecipò a diversi film di Fassbinder. La pellicola fu girata nell’agosto del 1970, con la solita fretta, in soli quindici giorni. Der amerikanische Soldat è il film tecnicamente più riuscito di questa prima fase artistica; si nota che l’autore ha sempre più mestiere e abilità. Ma in Germania l’eco del nuovo lungometraggio, che come gli altri parla di freddezza dei sentimenti, di emozioni sprecate e di assenza di speranza, fu minima. All’estero invece suscitò maggiori consensi. Der amerikanische Soldat divenne per esempio il film preferito di Bob Dylan, poi fan scatenato di Fassbinder. Dopo la rottura con Günther Kaufmann, suo grande amore inappagato, Fassbinder cominciò inaspettatamente a fare la corte a Ingrid Caven che, aggiuntasi al gruppo dell’antiteater nel 1969, si mostrò incredula di fronte alla conversione del regista, non sapendo se prendere sul serio o meno quelle avance: «Pensavo, ma se è gay, cosa vuole da me? Lui però era davvero ostinato e cominciai improvvisamente a ritrovarmelo ovunque. Quella era la sua strategia per conquistarmi. Voleva un matrimonio borghese. Mi ha corteggiato come non faceva più nessuno a quell’epoca».99 Con sua grande sorpresa, Fassbinder le fece addirittura una dichiarazione in piena regola: «Era seduto a tavola per la colazione dopo la prima notte che avevamo passato insieme, nello stesso letto, e mi aspettava con indosso una camicia bianca stirata e inamidata, cosa per lui del tutto insolita durante il giorno. Io sono scesa dal piano di sopra e sono entrata nella stanza; non mi ero ancora seduta quando lui ha detto: “Ora ci dobbiamo assolutamente sposare!”. E l’ha detto con lo sguardo abbassato».100 Nel suo entourage, il progetto matrimoniale ebbe l’effetto di una bomba. Irm Hermann e Hanna Schygulla si ubriacarono. Ursula Strätz confessò di aver superato le notti successive al matrimonio solo grazie a molto «vino e valium 10».101 Nessuno riusciva a prendere davvero sul serio le intenzioni di Fassbinder. Anche Peter Berling non poteva crederci: «Lo avevo preso per uno scherzo, e nemmeno tanto di buon gusto».102 Per coronare la sua messinscena, Fassbinder scelse come testimone di nozze Günther Kaufmann, che fu molto irritato da tutta la faccenda: «Perché quel frocio di Werner voleva sposarla? E perché lei voleva sposare lui? E perché mai ha voluto me come testimone di nozze? Forse perché credessi davvero che si sarebbe sposato?».103 Sul fatto poi che Kaufmann fosse «il vero destinatario di quella messinscena»104 nessuno, nel clan di Fassbinder, aveva dubbi. Il matrimonio, organizzato in fretta e furia, si svolse il 26 agosto 1970, nel pieno delle riprese di Der amerikanische Soldat. Dopo l’appuntamento mattutino presso l’ufficio di stato civile e un pranzo al ristorante cinese della Türkenstraße, le riprese continuarono, e Fassbinder mantenne l’abito
bianco indossato per le nozze anche nel film. La sera ci furono poi i festeggiamenti veri e propri alla villa di Feldkirchen. Che Fassbinder e la Caven non abbiano trascorso insieme la prima notte di nozze, è ciò che dicono tutti i presenti. Ancora oggi gira una voce secondo la quale, al posto della Caven, ci sarebbe stato Kaufmann,105 una storia che fu subito divulgata dai giornali e che irritò enormemente l’attore. «Chi l’aveva inventata? Werner, che poi l’aveva diffusa? In ogni caso quella messinscena mi diede il colpo di grazia, ammesso che ce ne fosse bisogno.»106 Nell’opinione pubblica il matrimonio del regista con una delle sue attrici provocò una certa confusione. La stampa, meravigliata, si chiedeva come mai Fassbinder, che non aveva mai fatto mistero della propria omosessualità e non si era mai nemmeno definito bisessuale, improvvisamente si fosse sposato. Di sicuro lui non aveva mai considerato quel passo come un matrimonio di facciata, una pratica ancora molto diffusa tra gli omosessuali in vista dell’epoca. Leonard Bernstein e Charles Laughton, Rock Hudson, Arndt von Bohlen und Halbach e Rex Gildo erano andati all’altare per zittire le voci sul loro conto. Per Fassbinder invece il suo non era «un matrimonio-spettacolo»,107 perché non lo utilizzò per nascondere le proprie inclinazioni o per darsi una patina di normalità borghese. In una successiva intervista allo Spiegel, il regista sottolineò che il matrimonio con Ingrid Caven non era affatto un tentativo di iniziare una vita eterosessuale. Del resto, non ci aveva mai provato, nemmeno in precedenza: «So perfettamente che non avrebbe senso. Sono in grado di avere a che fare con una donna, ma non avrebbe senso. Funziono molto meglio nell’altro verso».108 Dopo il viaggio di nozze in Italia e in Grecia, che Fassbinder e la Caven avevano trascorso con il loro amico Daniel Schmid, il regista si buttò nella nuova avventura. Ingrid Caven ricorda: «Mi sono poi chiesta spesso perché avesse voluto sposare proprio me. Credo che in gran parte quella decisione fosse dovuta al fatto che avevamo un rapporto molto solido, sia da un punto di vista emotivo che intellettuale. Aveva capito istintivamente che i giochini sadomaso che faceva con gli altri con me non poteva farli, non l’avrei mai accettato. Questo ci ha permesso di avere un rapporto molto rilassato. Io, insieme a Peer Raben, sono stata l’unica con cui si sia davvero aperto e di cui si sia fidato. Mi ha raccontato molto della sua vita, cosa che non ha fatto con altri; preferiva piuttosto stare a sentire le loro storie. A Irm Hermann o Hanna Schygulla non ha mai detto niente di sé. Parlavano solo di lavoro. Credo sia rimasto così legato a me per questo, perché poteva confidarsi senza temere che io abusassi della sua fiducia. Per Rainer era una cosa molto particolare e preziosa. L’ho capito solo più tardi; io trovavo del tutto normale parlare apertamente con le persone, mentre per lui non era così. Con gli altri faceva molta fatica ad aprirsi, era estremamente riservato».109 Al contrario di quanto ci si poteva aspettare, Fassbinder non prese il matrimonio alla leggera. Ingrid Caven si meravigliava del fatto che il novello sposo, normalmente allergico alle convenzioni borghesi – in effetti mai accettate –, all’improvviso ci tenesse tanto a introdurla ovunque con la formula: «Posso presentarle mia moglie?». Il regista volle poi organizzare a tutti i costi un incontro formale con la madre, assente al matrimonio. In quell’occasione non mancò di dirle: «“Sai, amo mia moglie.” Mi sembrò molto strano che un figlio dovesse spiegare una cosa del genere alla madre, era una situazione strampalata».110 In qualità di marito, voleva decidere le sorti professionali di Ingrid Caven così, per esempio, nel film successivo, la mise a capo della produzione e la fece comparire nei titoli di testa con il nome «Ingrid Fassbinder», ma, in quanto sua legittima moglie, le impedì nel modo più assoluto di continuare a recitare: «Non dovevo essere una sua attrice, dovevo essere sua moglie; per lui le attrici erano tutte stupide e un po’ puttane. Aveva anche questo lato piccolo borghese che spesso gli omosessuali hanno».111 Fassbinder aveva previsto per la Caven un ruolo molto chiaro: «Mia moglie si mette il cappello, prende un libro e si sdraia in spiaggia».112 A conferma della sua idea retrograda del matrimonio, sebbene continuasse a fare le sue conquiste nell’ambiente gay, era geloso, e stava bene attento che nessuno corteggiasse Ingrid Caven e che lei non si lasciasse trascinare in una storia. «Pensavo, se lui va a letto con altri uomini, allora anch’io posso farmela con chi voglio. Invece non andava bene. Era terribilmente geloso.»113 Come c’era da aspettarsi, il matrimonio con la Caven non fu che un breve capitolo nella vita di Fassbinder. Il trasporto per la parte del marito non durò a lungo. Si arrivò presto a tensioni e liti continue le quali resero sempre più difficile la convivenza. Il regista capì che a lungo andare l’unione contratta non avrebbe rafforzato bensì distrutto la relazione d’amicizia con Ingrid Caven – per lui così importante. Avrebbe poi detto: «Quand’eravamo sposati non funzionava più nulla. Non riuscivamo più a fare una conversazione. Perdevo la testa persino se in albergo si registrava come Ingrid Fassbinder, o cose del genere».114 Nel 1972, a meno di due anni dalle nozze,
Fassbinder e Ingrid Caven si separarono. Alla stampa il regista spiegò: «Sposarsi è stata una cosa molto stupida. Non avremmo dovuto farlo. Ci capivamo molto meglio prima e abbiamo ripreso a intenderci solo dopo la fine del matrimonio».115 La Caven, che nel corso degli anni settanta intraprese poi la carriera di cantante, rimase una delle confidenti più importanti del regista. A pochissime persone fu concessa la stessa intimità di cui godeva lei. Dopo la separazione Fassbinder le assicurò: «Davanti a Dio continui a essere mia moglie».116 In un’intervista, cinque anni più tardi, confessò: «A Ingrid Caven, la donna con cui sono stato sposato, mi lega ancora una relazione di affinità elettiva per me importantissima».117 Essere stato respinto da Günther Kaufmann fu un’esperienza molto traumatica, che non smise di tormentare Fassbinder nemmeno durante il matrimonio. Rielaborò quel vissuto dapprima nell’opera teatrale Le lacrime amare di Petra von Kant (Die bitteren Tränen der Petra von Kant) – rappresentata per la prima volta al Landestheater Darmstadt nel corso della rassegna Experimenta, settimana di teatro sperimentale – e poi nell’omonimo film girato nel 1972. Entrambi sono un gioco di enigmi in cui il regista «traspone le sue relazioni, non relazioni, le sue passioni e i suoi intrighi, criptandoli e “transessualizzandoli”».118 Fassbinder mette in scena le sue vicissitudini sentimentali avvalendosi però di una storia tra due donne. Petra von Kant, creatrice di moda di successo brillantemente interpretata da Margit Carstensen – attrice di teatro aggiuntasi al gruppo poco tempo prima –, è l’alter ego di Fassbinder, mentre dietro il personaggio di Karin Thimm, impersonato da Hanna Schygulla, si cela il suo amore, Günther Kaufmann; Marlene, infine, domestica di Petra interpretata da Irm Hermann, è Peer Raben, angelo custode di Fassbinder al quale il film è dedicato. Il melodramma racconta di una donna che non sa amare senza pretendere, dell’amore come sfruttamento e malinteso, di false visioni di felicità che vengono sistematicamente distrutte dal desiderio di possesso e dalla gelosia. Servendosi della pièce, Fassbinder elaborò quanto aveva vissuto e provato nella relazione con Kaufmann, come conferma Harry Baer: «Anche attraverso le battute molto dettagliate dei dialoghi, che avevo sentito pronunciare identiche nei loro scambi, [Rainer cercò di elaborare quell’esperienza]».119 In effetti Fassbinder non ha mai nascosto che Le lacrime amare di Petra von Kant è stato frutto della sua relazione con Kaufmann,120 un «film dunque assolutamente autobiografico»: «Altre persone in questi casi vanno dallo psicoanalista. Io faccio un film».121 Ambiziosa e di successo, Petra von Kant vive con la sua domestica e assistente Marlene, muta e masochisticamente sottomessa alla stilista. Nella vita Petra ha avuto poca fortuna con gli uomini. Il primo marito è morto in un incidente, mentre dal secondo si è separata perché si sentiva oppressa. Vagheggiando nuove forme di convivenza, s’innamora di Karin – decisamente più giovane di lei e proveniente da un contesto sociale modesto –, che si lascia trasportare dagli eventi con scarsa determinazione e sogna di diventare una fotomodella famosa. Petra vuole la giovane donna tutta per sé e la convince a trasferirsi nel suo appartamento. Pigra di natura, Karin si gode il lusso che le viene offerto e approfitta della facoltosa Petra senza farsi troppi scrupoli. Alle dichiarazioni d’amore sempre più insistenti dell’amica, Karin reagisce in modo elusivo, attenta a salvaguardare i propri margini di libertà. Il rapporto si trasforma presto in una lotta per il potere. Quando Karin decide di tornare dal marito, Petra crolla. Disperata, capisce che il suo amore è fallito, e pensa al suicidio, finché non si rende conto che nella sua relazione con Karin non c’era altro che sottomissione e dipendenza. Karin si è lasciata comprare perché la convivenza con Petra era per lei vantaggiosa; a sua volta, Petra, non ha fatto che proiettare sull’amica le sue fantasie: «Non amavo Karin, la volevo soltanto possedere». Quando nella sua solitudine si rivolge d’improvviso alla domestica – fino a quel momento sempre maltrattata e umiliata – per proporle di vivere insieme un rapporto alla pari, Marlene, senza una parola, fa le valigie e l’abbandona. La pellicola, in realtà un «dramma omosessuale en travesti»,122 fu considerata e commentata dal pubblico come un film sulle donne, se non altro perché il regista aveva rinunciato in partenza all’impiego di attori uomini. Anche se a parole Petra si fa promotrice di ideali progressisti, nella vita non è in grado di sfuggire alla tradizionale suddivisione dei ruoli, che pure mette in discussione, perché suo malgrado è il prodotto della società in cui vive. Il regista ci mostra quanto possa essere difficile per una donna che si crede emancipata liberarsi dalle strutture ereditate, perché la sua coscienza è plasmata proprio su quelle tradizioni contro le quali cerca di insorgere. Vuole inoltre dimostrare come alla fine anche nei rapporti omosessuali tutto si riduca a una mera questione di possesso e di dipendenza – un tema ripreso diversi anni dopo nel Diritto del più forte. Le femministe videro nelle Lacrime amare di Petra von Kant una critica alle donne emancipate, e attaccarono duramente Fassbinder. Il regista rimase però piuttosto indifferente a quell’attacco, anche perché aveva consapevolmente raccontato la storia di una finta emancipazione fallita: «Petra parla e si comporta come se fosse una donna emancipata, ma poi si rende conto di non
esserlo affatto».123 Ben più del tema dell’emancipazione, a Fassbinder interessava portare sullo schermo l’isolamento in cui l’individuo passa la sua vita nella società moderna, senz’apprendere davvero a comunicare con gli altri. Questo era un argomento che aveva già affrontato a fondo nei suoi primi film, L’amore è più freddo della morte e Katzelmacher, e ora riprendeva dopo la dolorosa esperienza con Günther. Nel film Petra von Kant riassume la situazione in questo modo: «Credo che l’essere umano per sua natura abbia bisogno dell’altro. Non ha però imparato come si fa a stare insieme».
A macchia di leopardo Anche se Fassbinder con il suo collettivo realizzò in brevissimo tempo un numero incredibile di film, ciò non significa che stesse trascurando il teatro. Continuava a scrivere nuovi testi, e con il gruppo ormai affiatato, li metteva in scena non solo nel capoluogo ma sempre più spesso anche sui palcoscenici fuori città presso i quali veniva ospitato. Anarchie in Bayern (Anarchia in Baviera), un varietà cui fa da sfondo una rivoluzione anarchica in Baviera, era stata l’ultima opera rappresentata a Monaco nel giugno del 1969. Dopo il definitivo sfratto dall’osteria Witwe Bolte – nel cui retrobottega il gruppo aveva presentato per un po’ i suoi spettacoli – la compagnia, vista l’impossibilità di trovare una nuova sede che la ospitasse, fu costretta ad andare in scena ogni volta in un posto diverso. Su iniziativa di August Everding, l’antiteater, rimasto senza tetto, fu invitato alla Woche der Werkraumtheater, un festival organizzato dai Münchner Kammerspiele. Il gruppo si avventurava così per la prima volta nell’ambiente del teatro sovvenzionato, prendendo commiato dall’«epoca della cultura underground».124 In tutte le repliche di Anarchie in Bayern, gli attori si presentavano in abiti comuni, senza una scenografia né effetti di luce. Con questo allestimento l’antiteater riuscì a guadagnarsi una recensione sul settimanale Der Spiegel: «Recitano come vivono e vivono come recitano: allegri, senza preoccupazioni, in maniche di camicia».125 Nonostante la perdita di una sede stabile, il collettivo era deciso a proseguire le attività. Fassbinder diceva: «Siamo guerriglieri, non siamo legati a un luogo preciso o a degli spazi fisici, andremo in scena a macchia di leopardo».126 Grazie alla crescente popolarità del regista e alla notorietà raggiunta dal gruppo con gli ultimi film, spesso arrivavano offerte anche da altre città. Nel febbraio del 1969 l’antiteater, con un adattamento di Fassbinder dell’Opera del mendicante, fu ospite del Berliner Forum-Theater, in quegli anni considerato uno dei più importanti «e nuovi spazi di sperimentazione teatrale».127 Già in questa prima trasferta, Fassbinder volle sottolineare il proprio statuto speciale all’interno del gruppo: mentre tutti i membri dell’ensemble, con gli accessori di scena, viaggiavano per Berlino su un autobus stracolmo, lui fu l’unico a prendere l’aereo. Nel dicembre del 1969 l’antiteater fu nuovamente ospitato dal Berliner Forum-Theater. Questa volta fu rappresentato Werwolf (Licantropo), scritto con Harry Baer. In un collage di brevi quadri, il testo racconta la storia di un omicida seriale che si diceva avesse imperversato in Franconia nel sedicesimo secolo uccidendo ottanta persone di cui aveva poi bevuto il sangue. Ma il successo presso il pubblico berlinese fu scarso: «Sulla scena si vedono torture, stupri. Tra il pubblico si ridacchia, si sbadiglia».128 Viceversa, l’invito rivolto all’antiteater dalla libera città anseatica di Brema destò grande interesse. Il teatro di Brema, sotto la direzione di Kurt Hübner, era ritenuto allora uno dei più innovativi e importanti di tutta la Germania. Il grande regista Peter Zadek, che a quell’epoca ci lavorava e aveva fatto parlare di sé tutta la Repubblica Federale con la spettacolare rappresentazione dei Masnadieri di Schiller, ricorda: «Da un certo momento in poi, in Germania ogni attore o regista giovane e dotato voleva andare a Brema».129 Calcare un grande palcoscenico come quello non era per Fassbinder un’esperienza destinata a cambiargli la vita, ma un esperimento nel quale farsi trascinare con curiosità: «Adesso vado a Brema e faccio un po’ di cose e intanto vedo cosa succede qui a Monaco, poi magari giro ancora un paio di film».130 L’invito a rimanere per un’intera stagione presso il teatro della città anseatica era arrivato più o meno per caso. Hübner aveva visto l’Opera del mendicante a Monaco e voleva far allestire la pièce da uno dei suoi registi a Brema. Fassbinder e Peer Raben, recatisi insieme nella città portuale, giudicarono inadeguata la scelta del regista, e si candidarono per quel ruolo. Il direttore del teatro accettò entusiasta e diede così la possibilità al collettivo di presentarsi per la prima volta davanti al pubblico di Brema. Nell’autunno del 1969 il ventitreenne Fassbinder mise in scena una serie di spettacoli all’insegna del motto «Showdown», resa dei conti. L’antiteater mostrò i suoi due film L’amore è più freddo della morte e Katzelmacher e, oltre ad Anarchie in Bayern, portò in scena anche il classico di Carlo Goldoni La bottega del caffè, in un nuovo allestimento di Fassbinder. Il pubblico
rimase molto impressionato, come constatò il critico teatrale Peter Iden: «Raramente un talento si è imposto in modo così perentorio come è accaduto a Fassbinder nella città di Brema nel giorno di quella prova di forza».131 Al regista e alla sua troupe il celebre teatro rinnovò dunque l’invito per la stagione 1970-71. Proprio qui avvennero degli incontri importanti per Fassbinder: conobbe le attrici Margit Carstensen e Brigitte Mira, divenute poi star dei suoi film, e fece amicizia con Peter Zadek. Quest’ultimo, che da quando aveva visto Katzelmacher considerava Fassbinder un «regista di grande talento»132 – a Monaco aveva inoltre assistito alla pièce Leonce und Lena nel primo allestimento dell’Action-Theater –, stimava molto il giovane collega ed era un entusiasta della prima ora del suo lavoro con la troupe. Da Brema in poi Zadek, che riteneva Fassbinder un outsider nonché «un nemico di benpensanti e conformisti», sarebbe diventato un importante compagno di viaggio del regista. Tuttavia non tardò a capire che non sarebbe stato facile avere a che fare con il giovane autore: «Era un tipo scomodo, inaffidabile da tutti i punti di vista, salvo che per la sua arte».133 Fassbinder, da parte sua, s’era innamorato follemente di Zadek,134 ma, contrariamente a quanto aveva fatto con Kaufmann, non lo diede mai a vedere. Nella stagione 1970-71, presso il rinomato Stadttheater di Brema, la compagnia produsse complessivamente tre allestimenti, un’esperienza per loro del tutto nuova. Fino a poco tempo prima, infatti, erano stati attivi solo nella scena underground. Assillati dai problemi economici, avevano dovuto presentare gli spettacoli nel retrobottega di un’osteria, di fronte a pochissimi spettatori. Ora si muovevano in un ambito in cui avevano a disposizione opportunità di tutt’altro tipo, ed erano pronti a sfruttarle. Se fino a quel momento, sul modello del Living Theatre, avevano rinunciato consapevolmente a costumi e scenografie per sottolineare il carattere anarchico delle loro rappresentazioni, ora si avvicinavano per la prima volta agli espedienti teatrali classici. Già per La bottega del caffè l’allestimento scenico – una gigantesca ciotola di vetro con dentro un finto pezzo di torta – era stato realizzato dallo scenografo Winfried Minks, noto per le sue idee spettacolari e fortemente influenzato dalla popart americana. Essere integrati in un teatro stabile significava anche abbandonare, in un certo senso, la leggerezza e la spontaneità che sino a quel momento avevano caratterizzato gli allestimenti dell’antiteater. Tuttavia per Fassbinder Brema fu «un’occasione molto importante», e senza dubbio un passo avanti, perché lì si era reso conto «che si poteva anche lavorare con attori che non fossero membri del gruppo».135 Oltre a una nuova messinscena dell’adattamento di Fassbinder di Pionieri a Ingolstadt, che aveva la benedizione dell’autrice Marieluise Fleißer,136 l’antiteater presentò la pièce Das brennende Dorf (Il villaggio in fiamme), liberamente tratta da Fuente Ovejuna di Lope de Vega – racconto di una rivolta popolare nella Spagna del Quattrocento, in cui i semplici abitanti di un villaggio si ribellano a un tiranno crudele che s’è arricchito impunemente sfruttando le loro terre e ha violentato le loro donne. Nella versione di Fassbinder, allestita da Peer Raben, la storia ha una conclusione macabra: mandati in una missione punitiva a bruciare il villaggio, i soldati del re vengono uccisi dai rivoltosi e mangiati in un’orgia cannibalesca. Tra gli spettatori sedeva l’allora sedicenne Jürgen Trittin, divenuto poi un esponente dei Verdi: «Il pubblico borghese che se ne va sbattendo la porta; è una scena che non dimenticherò mai. A quei tempi si poteva ancora fare scalpore con il teatro».137 La terza pièce rappresentata presso lo Stadttheater della città anseatica è il lavoro scritto da Fassbinder appositamente per quell’occasione, Bremer Freiheit (Libertà a Brema). Il «dramma borghese» racconta di un crimine realmente avvenuto in città all’inizio del diciannovesimo secolo. L’assassina Geesche Gottfried, interpretata da Margit Carstensen, uccide, avvelenandoli, i genitori, il marito, i figli, amici, parenti e ammiratori, perché non vede altre possibilità per sfuggire alle costrizioni di un mondo in cui per lei non c’è nient’altro che oppressione e schiavitù. Per i suoi crimini viene giustiziata pubblicamente. Bremer Freiheit rimane tutt’oggi la pièce più rappresentata di Fassbinder, sia in Germania che all’estero, messa in scena da grandi registi quali Jürgen Flimm e Luc Bondy e persino adattata in forma di operetta da Adriana Hölszky, che l’ha trasformata in «una delle opere più appassionanti e originali nel suo genere».138 Nonostante gli impegni che lo vincolavano a Brema, l’antiteater non andò in scena solo nella città portuale, ma fu ospitato nello stesso periodo da altri teatri: nel marzo del 1971, per esempio, recitarono ai Nürnberger Kammerspiele. Per i festeggiamenti del cinquecentenario dalla nascita di Dürer, Fassbinder scrisse una pièce dal titolo Blut am Hals der Katze (Sangue sul collo del gatto). Una sorta di angelo che porta il nome di Phoebe Zeitgeist viene spedito sulla Terra da una stella straniera per capire come fanno gli esseri umani a vivere e a comunicare tra loro. Nel programma di sala della prima, Fassbinder spiegava: «La pièce ci mostra che in questo sistema, per come la
vedo io, tutto porta all’oppressione. Questo meccanismo s’innesca subito, non appena le persone cercano di comunicare tra loro».139 Nel giugno del 1971, alla rassegna teatrale Experimenta, l’antiteater presentò Le lacrime amare di Petra von Kant, che alla prima non piacque e fu stroncata in quasi tutte le recensioni. Solo l’omonimo film portò poi la pièce al successo. L’amicizia nata a Brema tra Fassbinder e Zadek fece sì che questi, divenuto sovrintendente del teatro di Bochum, invitasse subito il regista a collaborare alla prima stagione da lui diretta, quella del 1972-73, offrendogli addirittura un contratto di tre anni: «Dopo qualche esitazione lui accettò».140 Naturalmente Fassbinder portò con sé i suoi attori. Oltre a Hanna Schygulla e Ingrid Caven, c’erano Kurt Raab, Ulli Lommel, Peter Kern, e infine Margit Carstensen, che aveva abbandonato Brema e s’era unita al clan. Nei suoi allestimenti Fassbinder lavorò anche con gli attori del teatro di Bochum, che avevano atteso preoccupati e con sentimenti contrastanti l’arrivo del regista di Monaco. Günter Lamprecht, scritturato a Bochum e divenuto in seguito un importante attore di Fassbinder, ricorda ancora oggi «l’aspetto da rivoluzionari sopravvissuti al decennio passato» che avevano il regista e la sua troupe: «Alla mensa sentivo frasi del tipo: “Arriva quel gruppo di dilettanti dalla Baviera”. Uno disse addirittura: “Mi sa che m’iscrivo al corso di autodifesa”».141 Anche Margit Carstensen conferma: «Lo precedeva una reputazione terribile».142 A Bochum arrivarono presto le tensioni e le liti con Zadek. Non sentendosi sufficientemente apprezzato dal suo nuovo direttore, Fassbinder faticava a lavorare con lui. Quando apprese che il sovrintendente preparava la rivista Kleiner Mann, was nun? (E adesso, pover’uomo?), tratta dal romanzo di Hans Fallada, decise, per dispetto, di portare sulla scena la Käthchen di Heilbronn di Heinrich von Kleist, in un dispendioso allestimento della durata di sette ore, insistendo per avere sulla scena una vera cascata: «La cosa importante era che l’impresa di Fassbinder venisse a costare almeno quanto la mia».143 Ma anche Werner Schröter, che nello stesso periodo era stato chiamato a Bochum per mettere in scena la Salomè di Oscar Wilde, aveva l’impressione, come Fassbinder, «che Zadek per i propri allestimenti usasse ogni mezzo a disposizione mentre i nostri budget erano sempre piuttosto tirati».144 Sia il regista che il direttore erano due egocentrici, e non potevano che scontrarsi, come conferma anche Ulli Lommel: «In qualità di direttore del teatro Zadek era il boss, ma Fassbinder non si tirava indietro e voleva comandare».145 Per questa ragione cercava di continuo lo scontro con il sovrintendente, provocandolo per esempio durante le assemblee, solidarizzando con le maestranze del teatro o con gli elettricisti di scena, solo per rendergli la vita difficile. Dal canto suo Zadek preferiva sottrarsi al confronto, e spesso cercava di sfuggire a Fassbinder guadagnando dal suo ufficio l’uscita sul retro: «Non avevo nessuna voglia di discutere con lui. Era troppo faticoso».146 Fassbinder aveva un modo più creativo di affrontare la situazione. Si comprò un cane, un boxer, che chiamò Zadek, al quale dava, a scopo dimostrativo, degli ordini quando c’era il direttore nei paraggi: «Zadek, a terra! Zadek, a cuccia! Zadek, mangia!».147 Nonostante gli aspri litigi, dopo che Zadek fu riuscito a togliergli dalla testa i progetti megalomani sulla Käthchen di Heilbronn, a Bochum videro la luce due allestimenti di Fassbinder. In un caso il regista scelse un’opera di Ferenc Molnár, Liliom (Giglio), la storia di un uomo solitario distrutto dall’amore violento per due donne. Il modo di lavorare ossessivo e le liti continue che segnarono le prove di Liliom facevano saltare i nervi a Peter Zadek: «A volte c’erano delle scazzottate di fronte alle quali mi spaventavo io, o discussioni che lui, impaurito, cercava il più possibile di evitare».148 Nel gennaio del 1973, dopo la stroncatura di Liliom da parte della stampa, Fassbinder mise in scena la pièce Bibi – suo ultimo spettacolo a Bochum –, tratta dall’omonimo romanzo di Heinrich Mann. Poiché a quell’epoca gli era stata inaspettatamente proposta la sovrintendenza del teatro Am Turm di Francoforte, Fassbinder, avendo già anche provveduto a sciogliere il contratto a Bochum, volle finire alla grande, e concepì Bibi come una canzonatura del teatro diretto da Zadek, facendo interpretare a Peter Kern, in una parodia dolceamara, il ruolo del sovrintendente. Un «fatto singolare», osservò la Süddeutsche Zeitung: «Un sovrintendente veniva pubblicamente schiaffeggiato all’interno del proprio teatro».149 In seguito Fassbinder e Zadek si riavvicinarono rapidamente. In fondo si stimavano e apprezzavano l’uno il lavoro dell’altro. Tuttavia il loro rapporto non sfociò mai in una vera amicizia, come Zadek avrebbe poi ammesso: «Nel privato non avevamo niente da dirci».150 Per il sovrintendente il modo di vivere di Fassbinder rimase sempre un po’ sospetto e lo indusse a tenersi cautamente a distanza. Dell’iniziale innamoramento del regista nei suoi confronti, e dunque delle conseguenti lotte interiori e strategie di difesa di Fassbinder, Zadek sembra non aver mai saputo niente: «Per lui ero in un certo senso l’emblema stesso del nemico. In primo luogo ero
il direttore, poi ero vecchio – avevo quarantasei anni –, ero inglese, per così dire, e infine ero ebreo. Per di più non ero omosessuale».151 Negli anni successivi Fassbinder trattò Zadek sempre con estrema cortesia e arrivò addirittura a erigergli un monumento in Veronika Voss, dove gli fece interpretare il ruolo del regista.152
Un po’ di disprezzo per gli esseri umani Già dopo i suoi primi film molti vollero intervistare Fassbinder. Celebrato dallo Spiegel come il «ragazzo prodigio del Nuovo cinema tedesco»,153 il regista divenne rapidamente una personalità molto considerata e presente all’interno del dibattito pubblico. Il 5 maggio 1969, un mese e mezzo prima del debutto di L’amore è più freddo della morte,154 concesse la sua prima intervista. Ma era giovane e al principio i suoi rapporti coi giornalisti furono segnati dall’imbarazzo. All’inizio cercò di nascondere la sua insicurezza non lasciandosi avvicinare. Durante la prima conferenza stampa alla Berlinale, quando il suo film fu duramente attaccato, reagì all’aggressività «nascondendosi dietro una stizzosa inaccessibilità e un silenzio che sconfinava nell’idiozia»,155 ricorda il giornalista danese Christian Braad Thomsen. Il regista si comportò a quel modo anche in altre occasioni, tanto che lo Spiegel già gli attribuiva «tutte le carte in regola per diventare un tipico buzzurro di Monaco».156 Hans-Christoph Blumenberg, critico cinematografico del Kölner StadtAnzeiger, incontrò Fassbinder a margine di una proiezione per la stampa di Katzelmacher: «Non diceva niente. Se ne stava lì, come un contadino bavarese. A quell’epoca era piuttosto grasso e sedeva lì, coriaceo, come se si trovasse in un’osteria di paese. Sembrava completamente disinteressato alla conferenza stampa, cosa che io trovavo molto simpatica. Normalmente un regista si comporta come un rappresentante che cerca di vendere la sua mercanzia, lui invece se ne stava lì, con una calma incredibile, e non faceva niente».157 All’inizio della carriera, Fassbinder ostentava un contegno da persona in apparenza indifferente all’opinione pubblica, nascondendo l’insicurezza e la timidezza dietro gli atteggiamenti disinvolti che aveva imparato osservando sullo schermo i suoi eroi cinematografici: James Cagney, Charles Bronson e Mickey Rooney; si vestiva in modo trascurato e sudicio, con jeans quasi sempre strappati e l’immancabile giacca di pelle nera regalatagli da Ulli Lommel, divenuta presto il suo capo di abbigliamento preferito ma anche un segno distintivo: una «protezione dalla brutalità che si avverte in giro».158 Faceva di tutto per corrispondere all’immagine del giovane ribelle anticonformista, dell’anarchico, spauracchio della borghesia, che se ne frega delle convenzioni e di quello che la gente pensa di lui. Un giornalista, nell’estate del 1970, lo descriveva così: «A prima vista Rainer Werner Fassbinder ha l’aspetto di un pistolero che s’arrabbia se uno dei suoi dieci colpi non va a segno. Il volto, sul collo corto, appare scontroso, gli occhi sono ridotti a due fessure, intorno alla piccola bocca c’è, equamente distribuito, del disprezzo per il genere umano».159 Tuttavia alcuni giornalisti furono in grado di capire che quell’aura di scorbutica inavvicinabilità era solo uno scudo protettivo con il quale Fassbinder nascondeva la sua straordinaria sensibilità. «A guardar bene ci si rende conto che quel suo modo di presentarsi da nobile delinquente e quella sua aggressività un po’ volgare sono solo la copertura di un animo sensibile.»160 Fassbinder ammetteva senza difficoltà che la sua tanto studiata immagine di ribelle nasceva dalla paura di essere respinto e ferito. Già nell’ActionTheater aveva spesso interpretato i suoi personaggi con innegabile aggressività, per paura, come diceva lui, «che il pubblico non mi amasse, così gli dimostravo che nemmeno io lo amavo […]. Probabilmente in quel modo volevo impedire che mi si ferisse. Io infatti mi rifiuto di cercare il favore del pubblico».161 Più cresceva la sua consapevolezza in relazione al proprio lavoro, più si mostrava disponibile e sicuro di sé nei confronti dei media. Durante la sua prima conferenza stampa, aveva portato alla disperazione i giornalisti restando in silenzio di fronte alle loro domande, quasi fosse un idiota, rinunciando a dare spiegazioni, ad argomentare, e rifiutando ogni interpretazione dei suoi film, mentre riconosceva con una seducente ingenuità: «Sono dell’idea che si debbano fare cose molto semplici, ma per quanto semplici devono essere belle».162 Il giovane regista non tardò a mostrare grande disponibilità e apertura nel dare informazioni sulla lavorazione dei suoi film, sulle esperienze in teatro e anche su questioni molto personali.163 La franchezza delle sue risposte dipendeva molto da quanta simpatia gli ispirava il giornalista di turno: «Non racconto mai tutta la verità, ma di menzogne vere e proprie non ne dico».164 Colpiva la sua competenza e la capacità di autocritica. Con molta consapevolezza parlava dei suoi punti di forza e delle sue debolezze rimanendo sempre fedele al proprio stile antintellettuale:
«Reagiva con istintivo fastidio a ogni tentativo di dare, del suo lavoro, un’interpretazione intellettualistica. Lavorava con i sentimenti e disprezzava la tendenza generale, molto diffusa negli anni settanta, a voler analizzare ogni passo compiuto da una persona derivandone una teoria».165 Anche rispetto alle critiche che gli venivano rivolte, col tempo ebbe un atteggiamento sempre più distaccato: «So che i miei critici mi considerano uno psicopatico, ma per come la vedo io spesso sono loro ad aver bisogno di uno psicoterapeuta – in fondo, io posso liberarmi di tutto ciò che mi tormenta e mi opprime con il cinema, loro no».166 Arrivò persino a dire: «Per me è il lavoro a essere importante, non mi curo dei critici, tanto più che molto spesso sono stupidi».167 Il regista non ha mai negato che quasi tutti i suoi film abbiano un’impronta fortemente autobiografica: «Tutto ciò che faccio c’entra con quello che sono».168 A partire dal suo primo film nel 1969, e fino alla morte precoce nel 1982, Fassbinder ha concesso una marea di interviste, l’ultima delle quali poche ore prima della sua scomparsa.169 Sempre più disinvolto Fassbinder divenne ben presto un punto di riferimento nei pubblici dibattiti della Germania Federale. Chiedevano la sua opinione su tematiche politiche o sociali di rilievo, gli si domandava cosa ne pensasse del problema dei lavoratori stagionali o dell’emancipazione femminile o ancora della radicalizzazione della sinistra tedesca. La rapidità con cui lavorava e la sua straordinaria produttività furono subito al centro delle cronache dei giornali. Molti giornalisti rimanevano allibiti di fronte ai suoi tempi di lavoro e alla sua creatività apparentemente inesauribile: era molto difficile tenere il passo con lui. Alla fine del 1970, solo venti mesi dopo il suo debutto alla regia, Fassbinder aveva già realizzato undici film, senza contare i radiodrammi, le pièce teatrali e i nuovi allestimenti in diverse città della Germania. Quel ritmo mozzafiato e la sua mostruosa produttività gli venivano rinfacciati con ironia. La stampa lo definiva ormai il «filmaveloce»170 e lo accusava di figliare «come i conigli».171 Fassbinder volle consapevolmente alimentare questa immagine di sé perché il suo scopo era proprio quello di fare più film di chiunque altro. Così ricorda Dietrich Lohmann: «Essere più veloce di Godard, per Rainer, era molto importante. Se Godard faceva tre film all’anno, Fassbinder doveva farne quattro – è una cosa che ha sempre sottolineato: “La critica deve faticare a starmi dietro, ogni volta che un film viene recensito ne devo avere uno nuovo già pronto”. Era uno dei suoi principi fondamentali. Per questo era così svelto».172 Anche Volker Schlöndorff conferma: «Non solo aveva molte storie da raccontare, doveva anche dribblare tutti i registi che erano venuti prima di lui, doveva guadagnarsi la prima posizione nella storia del cinema».173 La produttività di Fassbinder per un verso veniva considerata ammirevole – si diceva che girasse un film nel tempo in cui altre persone arrotolano una sigaretta. D’altra parte però vi furono anche dei critici che di fronte al susseguirsi di nuovi film cominciarono a parlare di catena di montaggio, come per esempio Wolf Donner, il quale già nel 1970 scriveva sulla Zeit: «La catena di montaggio dell’antiteater procede instancabile e non si riesce a starle dietro».174 Le critiche erano dettate spesso da un senso di saturazione – il cinema tedesco non poteva cominciare e finire con Fassbinder – ma anche dalla convinzione che il regista si stesse consumando troppo rapidamente e che avrebbe capitolato: «Non sarebbe male se qualche volta Fassbinder, prima di produrre e di girare i suoi film, si mettesse anche a pensare».175 Ma nonostante tutti quegli uccelli del malaugurio, Fassbinder divenne in brevissimo tempo un regista con il quale tutti erano costretti a fare i conti. Mentre la maggior parte degli altri rappresentanti del Nuovo cinema tedesco parlava soltanto a un pubblico di cinéphiles, Fassbinder e le sue pellicole cominciarono ben presto a suscitare anche l’interesse di persone che non erano necessariamente appassionate di cinema. Con il suo irrefrenabile bisogno di comunicare, il suo particolare talento nel mettere in scena se stesso, il regista non considerò mai un problema il fatto di soddisfare l’interesse del pubblico nei suoi confronti; sapeva istintivamente come guadagnarsi il massimo dell’attenzione e come andava fornito il materiale ai media. Diventato una «personalità della vita pubblica»,176 si godeva l’aura che lo circondava, ammettendo senza imbarazzo che gli piaceva essere trattato come una star: «Da quando ho cominciato a riflettere su me stesso, mi sono visto come una “star”».177 Per questa ragione non ha mai fatto lo schizzinoso quando si trattava di accettare un invito in una trasmissione popolare d’intrattenimento, inviti che gli altri rappresentanti del Nuovo cinema tedesco rifiutavano sdegnati. Così, nell’aprile del 1974, partecipò al celebre quiz televisivo di Hans Rosenthal, Dalli Dalli, e nel dicembre del 1980, quando ormai era da tempo internazionalmente noto, fu ospite dello show televisivo Stars in der Manege (Star nell’arena). I suoi colleghi registi, che come lui si battevano per il Nuovo cinema tedesco, osservavano con una certa disapprovazione quel suo amoreggiare aperto e sincero con i media. Robert van Ackeren, per esempio, riscontrava in Fassbinder una «grande predisposizione per il successo e la carriera».178 Ma nemmeno queste
voci critiche trattenevano Fassbinder dal continuare a promuovere se stesso. Nel 1970 il già citato Wolf Donner dichiarava sulla Zeit: «Fassbinder preferisce rischiare di passare per il beniamino dei media o di essere visto come l’alibi o il pagliaccio di corte dell’industria culturale piuttosto che lasciarsi sfuggire le possibilità che in questo momento il cinema, il teatro e la televisione gli offrono».179
Molte cose feriscono, qualcuna uccide 1971-1973
Dopo aver realizzato in tempi record otto film per il grande schermo, quattro spettacoli teatrali, quattro radiodrammi,1 e aver allestito tre produzioni televisive, Rainer Werner Fassbinder era alla ricerca di nuove forme di espressione artistica, soprattutto nel cinema. Sino a quel momento aveva girato pellicole molto personali, fortemente influenzate dai film gangster americani e dalle opere della Nouvelle Vague francese, ed era stato considerato un cineasta d’avanguardia. Ora, però, quell’immagine riduttiva gli andava stretta. Rivolgendosi alle tradizioni narrative di un certo cinema mainstream, decise che in futuro «avrebbe fatto film per il grande pubblico»,2 per offrirgli un intrattenimento migliore, perché «preferiva le storie hollywoodiane ai film d’autore».3 L’intensa frequentazione delle opere di Douglas Sirk spinse Fassbinder a dedicarsi con particolare slancio al genere popolare del melodramma, forte di una convinzione: «La vita di ciascuno di noi è un melodramma».4 Questa nuova fase creativa andava di pari passo con la fine dell’antiteater. Già dopo il suo primo film, il regista aveva meditato di abbandonare il lavoro teatrale, perché sapeva di volersi impegnare soprattutto nel cinema. Inoltre, in seguito al suo successo, aveva la sensazione di essere quasi un intralcio per la compagnia teatrale, dal momento che con la sua crescente popolarità attirava su di sé tutta l’attenzione. Nel maggio del 1969 dichiarava a un giornalista: «È l’unico modo che loro hanno per andare avanti; io ho fatto tutto quello che potevo per il gruppo».5 Tuttavia, in un primo tempo, Fassbinder non pose fine alla collaborazione con la comune, anche perché, all’epoca, senza l’aiuto sollecito – spesso gratuito – dei membri dell’antiteater, non gli sarebbe stato possibile realizzare i suoi film e tenere ritmi di lavoro così sostenuti. Fu la turbolenta esperienza con le riprese di Whity a segnare una svolta per il cineasta, inducendolo a riflettere sulle possibilità e i limiti di quella collaborazione. A suo avviso «durante le riprese di Whity gli attori erano usciti dal proprio guscio monacense» scoprendo «di non essere mai stati un collettivo».6 I litigi sorgevano soprattutto su questioni di potere e sfruttamento reciproco. Mentre i membri della comune ritenevano che Fassbinder approfittasse del loro potenziale artistico e della loro dipendenza da lui per mietere successi personali, il regista aveva la sensazione di essere relegato nel ruolo dello sfruttatore senza scrupoli e, allo stesso tempo, si sentiva a sua volta sfruttato, poiché erano le sue trovate, la sua energia, la sua popolarità a tenere in vita la compagnia: «Mi hanno quasi costretto a girare dieci film all’anno. Mi hanno portato a un punto di sfinimento tale da poter dire che, in un certo senso, mi hanno succhiato il sangue».7 Fassbinder giunse quindi alla conclusione che coniugare vita e lavoro in una sorta di comune artistica fosse in fondo un’illusione, e fosse dunque tempo di rinunciare al sogno di una convivenza alla pari all’interno del collettivo. Per comunicare questa sua decisione, ricorse al mezzo per lui più immediato: girò un film schiettamente autobiografico. «In Attenzione alla puttana santa (Warnung vor einer heiligen Nutte), ha cacciato dentro tutto ciò che era accaduto durante le riprese di Whity» conferma Michael Ballhaus.8 Grazie alla mediazione di Peter Berling la pellicola si poté realizzare in forma di coproduzione italo-tedesca, ma non uscì mai in Italia a causa del fallimento della società partner. Per Fassbinder la coproduzione era vantaggiosa, significava avere a disposizione un budget maggiore, per la prima volta superiore al milione di marchi. Il film fu girato a Sorrento, nonostante le vicende fossero ambientate in Spagna, dove si erano svolte le riprese di Whity. Sebbene lo stanziamento consentisse un certo agio, Fassbinder insistette come sempre per girare a ritmi sostenuti e terminò il film in ventidue giorni. Attenzione alla puttana santa parla di una troupe cinematografica che, in un hotel spagnolo, attende l’arrivo del regista, l’attrezzatura mancante e i finanziamenti da Bonn, per poter finalmente cominciare le riprese. Lo stato d’animo dei tecnici e degli attori oscilla tra attacchi
isterici e la più completa apatia. L’occupazione principale è star seduti al bar a bere cuba libre, spettegolando su chi vada a letto con chi o passando il tempo a offendersi e sedursi a vicenda, per noia. Quando infine Jeff, il regista, arriva con l’attore protagonista, si ritrova subito al centro della mischia. Quasi tutti hanno con lui un rapporto di amore-odio, ma gli si sottomettono in una sorta di masochistico autoannullamento. Jeff reagisce alle aspettative e alle frustrazioni accumulate nei suoi confronti con accessi di rabbia sempre più violenti: «Non fate altro che sfruttarmi, tutti quanti». In un clima di grande nervosismo si tenta di accelerare i preparativi per il film. Presto, però, appare evidente che tutti sono presi più dai grovigli personali che dai compiti per cui vengono pagati. Sentendosi sempre più dipendente da Jeff, la squadra infine si ribella contro il regista accentratore e lo riempie di botte. Solo a questo punto possono finalmente cominciare le riprese. Mentre di solito Fassbinder preferiva rinunciare a sceneggiature dettagliate – scriveva infatti le battute di ciascun attore poco prima di girare le singole scene –, in questo caso aveva redatto un copione curato in ogni particolare, cui gli attori dovevano attenersi strettamente. Alla base del progetto c’era l’idea che, così come avviene nelle costellazioni familiari, ciascuno di loro, attraverso un gioco di ruoli, dovesse calarsi nei panni di un altro membro della troupe. In questo modo, per esempio, il personaggio di Sascha, interpretato da Fassbinder, non è altri che il direttore di produzione Peter Berling, mentre l’attrice Magdalena Montezuma (Irm nella finzione) è Irm Hermann, e infine l’attore Ricky, impersonato nel film da Marquard Bohm, è modellato su Günther Kaufmann. Solo a Hanna Schygulla e Kurt Raab fu concesso di interpretare se stessi. Il piano originale fu tuttavia trasgredito perché, come concessione alla società partner nella produzione, dovettero essere impiegati molti attori italiani. Inoltre, Fassbinder coinvolse due attori che non avevano partecipato alle riprese di Whity. La parte di Ron Randell – nel western il patriarca Benjamin Nicholson – fu affidata a Eddie Constantine, per impersonare il regista Jeff – alter ego di Fassbinder – si pensò in prima battuta a Mario Adorf. Per questo attore di quindici anni più vecchio di lui – recitava da oltre un ventennio e aveva partecipato a produzioni francesi, inglesi, italiane e addirittura russe – Fassbinder nutriva un immenso rispetto. Quando Adorf gli venne presentato a Roma, il regista non riuscì quasi a proferire parola e non osò nemmeno proporgli la parte, come ricorda l’attore: «Beveva il suo scotch e Coca-Cola o si tormentava le unghie non proprio impeccabili senza mai incrociare il mio sguardo. Dopo un paio d’ore non eravamo ancora riusciti a scambiare due parole».9 Fu solo grazie all’intervento di Peter Berling che si arrivò a un contratto, ma Adorf fu poi impossibilitato a partecipare per vincoli con altre produzioni e all’ultimo momento Fassbinder dovette assegnare il ruolo a un altro attore. Una collaborazione tra i due artisti poté in ogni caso concretizzarsi dieci anni dopo, quando Adorf ebbe una parte in Lola. Allo scopo di trovare velocemente un nuovo interprete, Fassbinder istruì il direttore di produzione dicendo: «Dev’essere fantastico, possibilmente famoso, stimato, per interpretare “Rainer Werner Fassbinder”. Ma anche economico, altrimenti non possiamo permettercelo».10 Alla fine fu ingaggiato in tutta fretta Lou Castel, un attore italo-svedese noto per alcuni western all’italiana,11 che dopo soli tre giorni di riprese si rivelò inadatto alla parte, anche se Fassbinder volle comunque lasciargli il ruolo di protagonista. Non appena il regista si accorse che il cast previsto inizialmente non funzionava, ridistribuì gran parte dei ruoli, e in un solo giorno, a una velocità folle, ripeté le settanta inquadrature già girate. Molti dei personaggi che compaiono in Attenzione alla puttana santa, compreso l’alter ego di Fassbinder, sono ritratti in modo poco lusinghiero, alcuni sono persino messi spietatamente alla berlina, come la Irm interpretata da Magdalena Montezuma, che strillando come un’isterica rinfaccia a Jeff di averle promesso di sposarla e poi, schiaffeggiata con brutalità davanti a tutti, viene cacciata dal set per punizione. Fassbinder lascia chiaramente intendere di considerare il cinema una forma di prostituzione nella quale sono tutti coinvolti, attori e registi, come pure tecnici del suono e truccatori: tutti in balia della «puttana santa». Al tempo stesso il film è una riflessione sulle ragioni per cui nel loro caso la condivisione di vita e lavoro in una comunità non può funzionare, «anche se la desiderano, anche se il loro ambiente ideale è il gruppo».12 In effetti, con Attenzione alla puttana santa, il regista riuscì a realizzare un film chiave – una sorta di terapia di gruppo cinematografica –, divenuto un appropriato autoritratto della sua combriccola. Quella resa dei conti così irriguardosa, e senza dubbio molto personale, scontentò diversi membri del collettivo. Peter Berling la definì una «messinscena della punizione e dello smascheramento»,13 addirittura un «processo intentato dal sovrano contro l’irriconoscente popolo dell’Antitheater [sic] che lo aveva deluso».14
Senza dubbio ispirato a Otto e mezzo di Fellini, il film è di fatto un chiaro messaggio del regista ai suoi compagni: «Attenzione alla puttana santa parla della necessità di svegliarsi e di rendersi conto che si è sognato qualcosa che non esiste, e che non sempre i sogni si realizzano».15 La pellicola segnò la fine della prima fase artistica di Fassbinder e venne definita dalla critica «una magnifica e diabolica lamentazione», «una mostruosità esibizionistica piena di sprezzante odio di sé, al tempo stesso vana e sentimentale».16 Dalla Filmbewertungsstelle ottenne a dire il vero il giudizio «molto valido», ma al pari di Whity non poté essere distribuita nei cinema, perché i produttori non furono nelle condizioni di pagare i diritti per i brani musicali scelti da Fassbinder: Elvis Presley, Ray Charles, Leonard Cohen.17 Questo nuovo fiasco finanziario non impedì a Fassbinder di considerare Attenzione alla puttana santa uno dei suoi film più importanti, non soltanto il bilancio di una fase del proprio lavoro, ma anche un atto liberatorio: «Con questo film abbiamo seppellito definitivamente la nostra prima speranza, l’antiteater. Non avevo idea di cosa sarebbe accaduto dopo, ma sapevo che così non si poteva andare avanti».18 La rottura da lui provocata in modo del tutto consapevole pose fine alla comune creativa, ma anche dopo lo scioglimento del collettivo Fassbinder rimase legato a un gruppetto di collaboratori sui quali non smise di fare affidamento: per mantenere i suoi ritmi di lavoro forsennati aveva bisogno di una squadra affiatata. Così, mentre Peer Raben continuò a occuparsi delle colonne sonore e Harry Baer fu più volte assistente alla regia, Kurt Raab procurò gli arredi di scena in gran parte dei film successivi. Dal canto suo il regista proseguì la collaborazione con molti attori dell’antiteater, escludendone invece definitivamente altri, come Lilith Ungerer o Doris Mattes. Fra le altre cose Attenzione alla puttana santa fu anche l’ultima produzione dell’antiteater-XFilm, in quel periodo in gravi difficoltà economiche. In qualità di amministratore e produttore, Peer Raben, eminenza grigia del collettivo, fu sin dall’inizio sopraffatto dal compito che gli era stato assegnato, perché mancavano i presupposti organizzativi necessari per produrre i film. Volker Schlöndorff ricorda: «All’inizio non veniva tenuta nemmeno la contabilità. Fassbinder si era informato presso di noi sui costi minimi di una ditta che si occupasse delle questioni fiscali, dell’assicurazione sanitaria, di compilare i libri contabili ecc. e aveva trovato il tutto troppo complicato».19 In pochissimo tempo fu il caos. Peer Raben raccoglieva ricevute e conti da pagare in cestini per la carta straccia e vecchie scatole da scarpe, perdendo poi facilmente il controllo della situazione. Per di più, oltre a non essere mai stata iscritta nel registro delle imprese, l’antiteater-X-Film non disponeva di alcun capitale d’esercizio, e per il finanziamento di nuovi progetti si reggeva sull’incasso di premi che talvolta venivano conteggiati due o tre volte. Lo stesso Fassbinder – al quale premeva soltanto realizzare i suoi film –, preso dall’euforia e da un’incontenibile smania di fare, non si preoccupava di assicurarsi finanziamenti solidi, e metteva in cantiere nuovi progetti, «senza rendersi conto di poter spendere i soldi una volta sola».20 Così, naturalmente, molte produzioni dell’antiteater-X-Film furono colossi dai piedi d’argilla e i debiti non fecero che accumularsi, come avrebbe ammesso Peer Raben: «Con gli introiti avrei dovuto coprire i debiti dei film precedenti, ma non riuscii mai a convincere Fassbinder a procedere in quel modo. Voleva usare tutto il denaro che arrivava per fare nuovi film. Era questo il problema».21 Per giunta, Fassbinder aveva le mani bucate e normalmente non si occupava di questioni finanziarie, ma era sempre il primo a cercare gli assegni nella posta in arrivo. Il suo stile di vita eccentrico e gli ingenti premi incassati dai suoi film gli procuravano titoli a tutta pagina. A lungo andare ciò non sfuggì all’attenzione dell’ufficio delle imposte, il quale, basandosi sugli articoli dei giornali, poté stimare guadagni consistenti sui quali non erano forse mai state pagate le tasse. Quando Peer Raben, dietro specifica richiesta, non fu in grado di esibire alcuna documentazione circa i bilanci della ditta, i funzionari quantificarono il debito nei confronti del fisco in 200mila marchi. Mancando inoltre l’iscrizione nel registro delle imprese, a Fassbinder non restò altra soluzione che ripianare a rate, e per molti anni, l’esposizione debitoria contratta. Nonostante fosse in gran parte responsabile di quanto era accaduto, il regista attribuì tutta la colpa del disastro finanziario a Peer Raben, un comportamento che diede adito a qualche dissapore passeggero tra i due.22 Fassbinder, che voleva continuare a produrre da sé i suoi film, fondò in seguito a Monaco una nuova casa di produzione, la Tango Film. Tuttavia, a riprova del fatto che niente era cambiato, l’impresa non fu registrata presso la Camera di commercio. Fassbinder affidò la contabilità alla madre, persuaso che non l’avrebbe mai raggirato e che avrebbe lavorato in modo più accurato di quanto non avesse fatto Peer Raben. Rimasta vedova del suo secondo marito nel 1971, Liselotte Eder si dedicò alle sorti della Tango Film fino al 1978, senza interruzioni. In origine la
ditta avrebbe dovuto contribuire anche alla realizzazione di film di altri registi, ma Fassbinder finì per dare sempre la precedenza ai propri progetti. Sul punto di produrre Heute Nacht oder nie (Questa notte o mai), il primo film dell’amico Daniel Schmid, all’ultimo si tirò indietro: «Lunedì comincio a girare il mio prossimo film».23 In una prima fase, dunque, la Tango Film produsse solo due pellicole che non erano opera di Fassbinder: il cortometraggio autobiografico di Ursula Strätz, Sonja und Kirilow haben sich entschlossen, Schauspieler zu werden und die Welt zu verändern (Sonia e Kirilow hanno deciso di diventare attori e di cambiare il mondo), nel 1970, e Zärtlichkeit der Wölfe (La tenerezza del lupo) di Ulli Lommel, nel 1973. Proprio nel periodo in cui Fassbinder dava vita alla sua nuova casa di produzione, a Monaco nacque il Filmverlag der Autoren, il cui primo amministratore fu Michael Fengler. Fondata nell’aprile del 1971 e strutturata come una cooperativa, la società intendeva organizzare la produzione e la distribuzione dei film di giovani registi indipendenti, cosa di cui avrebbe approfittato anche Fassbinder facendole commercializzare le sue opere affinché giungessero nelle sale. In questo senso, il Filmverlag era pensato come una sorta di gruppo di autoaiuto per chi, in Germania, faceva film d’autore e aveva molte difficoltà a trovare finanziamenti e distribuzione per i propri ambiziosi progetti. Fu subito evidente, infatti, che le sovvenzioni statali con cui si sarebbe dovuta sostenere la cinematografia giovane e critica nei confronti della società in realtà finivano in produzioni capaci di attrarre un pubblico maggiore, come Schulmädchen-Report (Rapporto sul comportamento sessuale delle studentesse) e Liebesgrüsse aus der Lederhose (t.l. Cari saluti dalla Baviera), o in commedie come Die Lümmel von der ersten Bank (t.l. I monelli del primo banco); le misure adottate erano dunque più utili ai film commerciali che a quelli con maggiori velleità artistiche. Per questa ragione tredici cineasti, tra cui Peter Lilienthal e Thomas Schamoni, Hark Bohm, Wim Wenders e Hans W. Geißendörfer, decisero di gestire la produzione, la tutela giuridica e la distribuzione dei loro film collettivamente, per non dover dipendere da organismi di settore corrotti. In questo modo volevano emanciparsi dalla concorrenza e dai meccanismi tipici dell’industria cinematografica, la quale, essendo dominata dai grandi produttori e distributori, era incapace di offrire opportunità a chi faceva film d’autore. Un difetto congenito del Filmverlag der Autoren, la cui nascita fu accompagnata da grandi aspettative, fu di occuparsi esclusivamente di questioni organizzative e non di contenuti, come ebbe modo di osservare Wim Wenders: «A differenza dei registi della Nouvelle Vague, non ci univa alcun programma estetico o culturale, e in tutti gli anni in cui, con una certa regolarità, ci siamo incontrati per discutere insieme, non si è mai spesa una parola sui contenuti dei film o sul linguaggio cinematografico».24 Anche per Fassbinder, che polemizzò a lungo prima di aderirvi – cosa che fece soltanto nel 1974 –, il Filmverlag era un’occasione mancata: «Quando abbiamo fondato l’unione dei cineasti, pensavo potesse diventare soprattutto un circolo di registi che si sarebbero scambiati idee su cosa fare e su come riuscire a imporsi. Ma in breve tempo è diventata un’associazione che si occupava solo di questioni giuridiche».25
Film di morte e d’amore Nel 1971, al Museo del cinema di Monaco, Fassbinder vide una piccola retrospettiva dedicata al cineasta tedesco-americano Douglas Sirk, all’epoca ormai dimenticato da molti.26 Hans Detlef Sirk, nato ad Amburgo nel 1897, era stato un popolare regista teatrale negli anni venti, prima di cominciare a girare film per la Ufa (Universum Film AG), nel 1934. A metà degli anni trenta scoprì Zarah Leander e la rese famosa con successi di cassetta come Zu neuen Ufern (La prigioniera di Sidney) e La Habanera (Habanera). Tre anni dopo si trasferì in America: qui prese il nome di Douglas Sirk e dalla metà degli anni quaranta proseguì la carriera di regista a Hollywood, diventando poi negli anni cinquanta uno dei più acclamati artefici di melodrammi sentimentali, il suo marchio di fabbrica. Fassbinder, che prima della rassegna di Monaco non li conosceva, rimase molto colpito dai suoi film. Ne ammirava la perfezione artigianale, ma era soprattutto affascinato dal loro impianto narrativo. Sirk scandagliava la sfera privata e gli stati d’animo senza mai trascurare la rilevanza politica delle tematiche affrontate, spesso riguardanti le collisioni tra sociale e privato: «È la goccia che fa traboccare il vaso; si capisce come va il mondo. […] Tutti questi film mostrano come la gente si inganni da sola, e perché sia costretta a farlo».27 Al centro dei film del regista tedesco-americano ci sono spesso uomini e donne in balia di un vano anelito e incapaci, quando questo si placa, di reggere alla realizzazione dei propri sogni. Il messaggio è il più delle
volte pessimistico: si parla delle sconfitte che nella vita tocca mandar giù e di come queste ci portino alla disillusione o addirittura ci distruggano. Fassbinder trovò particolarmente interessante il fatto che, come i suoi, i film del regista hollywoodiano sondassero le possibilità di riscatto dell’individuo all’interno di una società ostile. Sirk rappresenta i rapporti tra le persone in modo così trasparente da rendere lo spettatore consapevole di alcune dinamiche, invitandolo a riflettere, mostrandogli come le situazioni difficili possano essere superate prendendo le proprie decisioni, decisioni che magari infrangono le regole ma contribuiscono in primo luogo a cambiare la nostra vita e forse anche a rendere il mondo un poco migliore. Fassbinder apprezzava il fatto che il regista avesse girato i suoi film senza scendere a compromessi, e lo sentì affine a sé: «Sirk ha detto che il cinema è sangue, lacrime, violenza, odio, amore e morte. E ha realizzato film di sangue e di lacrime, di violenza e di odio; film di morte e d’amore».28 Entusiasta dei suoi melodrammi, Fassbinder fece il possibile per stabilire un contatto. Il primo incontro avvenne a Lugano, dove Sirk, conclusa la carriera hollywoodiana, si era trasferito nel 1960 ritirandosi a vita privata. Conoscerlo di persona fu molto emozionante per Fassbinder: assai colto, l’anziano regista – più vecchio di lui di quasi cinquant’anni – gli parve «l’uomo più intelligente»29 che avesse mai incontrato. Lo affascinava il fatto che, erudito ed esperto in molti campi, l’autore non si fosse mai fatto problemi nel girare a Hollywood storie semplicissime, rivolte al grande pubblico. Sirk divenne presto una sorta di figura paterna per Fassbinder e al tempo stesso un idolo: «Ho trovato un artista il cui modo di lavorare mi ha permesso di capire come anch’io devo cambiare alcune cose».30 Fassbinder decise di manifestare pubblicamente la sua passione per il cineasta. Nel 1971, sulla rivista specializzata Fernsehen und Film, dedicò ai suoi melodrammi un appassionato articolo di cinque pagine intitolato Imitation of Life. Über die Filme von Douglas Sirk,31 inaugurando in Germania la riscoperta del regista tedesco-americano. Fece inoltre da tramite con la Hochschule für Fernsehen und Film di Monaco affinché venisse assunto come docente. L’influenza di Sirk sull’attività registica di Fassbinder è innegabile; grazie all’intensa frequentazione della sua opera, alcuni temi particolari, per quanto presenti nel cinema di Fassbinder fin dagli esordi – come lo scandaglio dei desideri e delle paure represse delle persone, oppure la riflessione sul modo in cui i sentimenti vengono sfruttati, o ancora le influenze della società sull’individuo e sui suoi legami –, si rafforzarono. L’esplorazione degli abissi dell’animo umano, già avviata – trascendendo le convenzioni tipiche del genere – nei film gangster e nel western Whity, si intensificò ulteriormente nei melodrammi. Il punto di vista con cui il regista tedesco raccontava le sue storie rimase tuttavia molto personale, radicale nella sua soggettività: «Vorrei che lo spettatore comprendesse meglio come potrebbe essere una vita degna di essere vissuta, una vita alla quale potrebbe aspirare. Spero inoltre faccia qualcosa per poter esaudire questo desiderio».32 Fassbinder è debitore nei confronti di Sirk anche di un altro decisivo aspetto, ossia la maggiore attenzione che avrebbe riservato al grande pubblico: «Posso dire che Sirk mi abbia dato il coraggio di fare film popolari. Prima credevo che per lavorare seriamente ci si dovesse sottrarre in ogni modo alle sceneggiature di stampo hollywoodiano». I suoi film si calarono ancor più nella vita di tutti i giorni, mentre il regista trovava il coraggio di raccontare le sue storie con estrema semplicità, come accadeva a Hollywood: «Sirk mi ha fatto capire che lo si può fare, qualunque cosa si pensi dei suoi film. Altri si ispirano forse a Hitchcock, per me l’incontro decisivo è stato Sirk».33 In seguito Fassbinder avrebbe abbandonato del tutto i suoi modelli precedenti. Nei film girati tra il 1971 e il 1975 l’influenza di Sirk è fortissima, come dichiarò lui stesso: «Da quando ho visto i suoi film e ho cercato di scrivere qualcosa al riguardo, Sirk in realtà è presente in tutto ciò che faccio».34 Il mercante delle quattro stagioni (Der Händler der vier Jahreszeiten) aprì la nuova fase artistica e fu la prima opera realizzata dalla Tango Film: nei titoli di testa fu inserita con orgoglio la dicitura «Produzione Tango Film numero uno». La pellicola, il cui titolo provvisorio era «Molte cose feriscono, qualcuna uccide», racconta la storia di un uomo costretto a condurre una vita del tutto aliena da quella desiderata, che alla fine muore per l’insensibilità del proprio ambiente. Fassbinder attinge in questo caso a una vicenda realmente accaduta: il personaggio principale è ispirato a uno zio materno del regista, costretto a lasciare la polizia e a guadagnarsi da vivere come fruttivendolo, suscitando la disapprovazione del resto della famiglia. In ossequio al modello di Sirk, la storia doveva essere raccontata in modo estremamente semplice e sobrio, ma con empatia per le vicende umane rappresentate. Prima di cominciare a girare Fassbinder aveva
fatto leggere la sceneggiatura a Sirk, chiedendogli un parere e confrontandosi con lui su vari dettagli della trama. Per una volta si era preso del tempo, moltissimo per i suoi standard, prima di iniziare un nuovo film: dopo la frenetica fase produttiva culminata con le riprese di Attenzione alla puttana santa aveva deciso di concedersi una pausa di ben otto mesi per riflettere sui lavori a venire. Nel Mercante delle quattro stagioni Fassbinder racconta la storia del piccolo fruttivendolo Hans Epp, un uomo cresciuto senza amore, che a causa delle tante ferite e dei colpi bassi del destino non riuscirà mai a trovare la felicità. Hans, interpretato da Hans Hirschmüller, è un ex soldato della legione straniera, cacciato con disonore dalla polizia per essersi intrattenuto con una prostituta durante un interrogatorio. Da quel momento, per guadagnarsi da vivere, vaga di cortile in cortile con un carretto vendendo frutta. Anche l’amore della sua vita, una donna che appartiene a una classe sociale più elevata, lo ripudia, perché non vuole un semplice fruttivendolo per marito. Il Leitmotiv che aleggia nel film è: «Non si può avere tutto ciò che si vuole», da Buona notte, canzone di successo di Rocco Granata. Non potendo avere la donna dei suoi sogni, interpretata da Ingrid Caven, Hans sposa Irmgard, Irm Hermann nel film. Pragmatica e ombrosa, Irmgard non lo ama, e scarica su di lui le proprie frustrazioni, controllandolo costantemente, criticandolo, scoraggiandolo, tentando persino di reprimere in lui tutto ciò che contraddistingue la sua persona. Per sottrarsi ai continui rimbrotti della moglie, Hans non trova di meglio che trascorrere lunghe ore all’osteria a ubriacarsi. Un giorno, sotto l’effetto dell’alcol, picchia brutalmente Irmgard, e quando lei minaccia di lasciarlo, ha un attacco di cuore. I medici lo mettono in guardia: il vizio del bere e la fatica fisica possono portarlo alla morte. Dopo la convalescenza di Hans, la coppia tenta di ricominciare, almeno sul piano professionale: Hans e Irmgard gestiscono un banco di frutta al mercato e cercano un aiutante che giri per i cortili con il carretto di legno. Harry, interpretato da Klaus Löwitsch, ex commilitone di Hans nella legione straniera, sembra l’uomo giusto: è affidabile sul lavoro e diventa intimo della famiglia, ma a poco a poco si sostituisce a Hans, che si sente sempre più inutile e perde quel poco di autostima che ancora gli resta, facendosi sempre più silenzioso e introverso. Hans accetta infine il proprio fallimento e, sotto gli occhi della moglie e degli avventori della sua osteria preferita, beve sino a morirne. Il film, in cui prevale il punto di vista di Hans, non lascia dubbi sull’assoluta empatia di Fassbinder per il proprio antieroe ed è emblematico di un mutato atteggiamento del regista nei confronti dei suoi personaggi: «Se prima si trattava di smascherare il piccolo borghese con un’ironia feroce, ora Fassbinder ritraeva gli esseri umani con affetto e simpatia».35 Presentando alla stampa Il mercante delle quattro stagioni, cofinanziato dall’emittente Zdf e girato con la consueta velocità, in undici giorni, Fassbinder disse: «È una storia molto lineare, niente che possa far pensare che si tratti di arte. Un melodramma puro e semplice, senza fronzoli».36 La pellicola, ben girata e magistrale nella sua sobrietà, era anche il primo film tedesco ambientato negli anni cinquanta e fu un grande successo. Oltre a incontrare il favore del pubblico, il film fu onorato del giudizio positivo della Filmbewertungsstelle – «molto valido» – e insignito del Bundesfilmpreis. Il riconoscimento non andò solo a Fassbinder come miglior regista, ma anche a Irm Hermann e Hans Hirschmüller, che ebbero il Nastro d’oro come migliori attori protagonisti. Fassbinder ottenne inoltre un premio in denaro di 250mila marchi, che investì subito in nuovi progetti. Le pagine culturali dei giornali pullulavano di apprezzamenti e celebravano all’unanimità Il mercante delle quattro stagioni come la miglior prova di un regista tedesco dal 1945. La Frankfurter Allgemeine Zeitung lo giudicò «il miglior film tedesco degli ultimi anni»;37 per la Süddeutsche Zeitung era «il miglior film tedesco del dopoguerra».38 Fassbinder poteva dunque ritenersi soddisfatto del proprio esperimento e di essersi avvalso più liberamente dei mezzi della fabbrica dei sogni hollywoodiana: «Anche per il futuro, credo che racconterò storie di questo genere, perché sono quelle che mi piacciono di più».39
Dalla televisione il pubblico si aspetta una certa dose di realtà «Della televisione mi interessano soprattutto le possibilità del telefilm, che non può far riferimento a pièce teatrali, ma a testi pensati appositamente per le opportunità offerte dal mezzo televisivo. E in questo caso io opterei per un legame con l’attualità più recente, quindi per produzioni rapide e a basso costo.»40 Con questo punto di vista, espresso nel 1967, Fassbinder dimostrava di essere molto in anticipo sui tempi. Le aspettative nei confronti di formati narrativi creati apposta per la televisione erano altissime, perché, negli anni cinquanta
e sessanta, ciò che sfarfallava sugli schermi sotto la dicitura teledramma era fortemente influenzato dal teatro e dalle sue tradizioni. Per un verso, la ragione era che i responsabili del settore provenivano perlopiù dall’ambiente teatrale e in precedenza avevano lavorato come registi o sceneggiatori; d’altro canto, il mezzo televisivo, ancora relativamente nuovo nella Repubblica Federale Tedesca, era di fatto concepito come sostituto del teatro, tanto che i programmi delle emittenti Ard e Zdf erano stati inaugurati dal Vorspiel auf dem Theater (Prologo in teatro) tratto dal Faust di Goethe. In origine dietro tutto questo c’erano anche motivi tecnici: agli albori del mezzo televisivo, non potendo registrare le riprese, gli attori recitavano di fronte alle telecamere come in uno spettacolo dal vivo, ed era dunque scontato che si attingesse in prima battuta ai testi più noti del repertorio teatrale. Fu soltanto con l’ampliarsi delle possibilità tecniche che a poco a poco ebbero la meglio i fautori di sceneggiati televisivi più cinematografici, i quali, emancipandosi dal teatro, svilupparono forme e contenuti distinti. Per un concreto cambio di prospettiva si dovette tuttavia attendere gli anni settanta; la dichiarazione del 1967 di Fassbinder appare quindi lungimirante e innovativa: il giovane regista aveva istintivamente intuito le potenzialità del nuovo mezzo di comunicazione e la necessità di adattare di conseguenza contenuti e formati narrativi. Nel 1970, quando un’emittente televisiva si rivolse per la prima volta a Rainer Werner Fassbinder, la richiesta riguardava ancora l’adattamento di uno spettacolo teatrale. Il Westdeutscher Rundfunk di Colonia aveva proposto di registrare una produzione dell’antiteater – la compagnia era oggetto di un crescente interesse – affinché venisse trasmessa in televisione. Presto ci si accordò sull’allestimento della Bottega del caffè presentato a Brema da Fassbinder e Peer Raben, a cui avevano preso parte molti membri del collettivo, tra i quali Harry Baer, Margit Carstensen, Rudolf Waldemar Brem, Hans Hirschmüller, Ingrid Caven e Hanna Schygulla. Le riprese dell’opera di Goldoni, adattata da Fassbinder, furono realizzate nel febbraio del 1970 in uno studio di Colonia, in soli dieci giorni e con un unico apparato scenico, piuttosto spartano. La storia venne filmata con lunghe inquadrature da una telecamera fissa posizionata come in un auditorium, rinunciando a inserti e primi piani. All’epoca, questo stile di riprese, che imponeva ai telespettatori di guardare lo spettacolo come se fossero a teatro, era ancora il più diffuso. Il lavoro successivo realizzato da Fassbinder per conto del Zdf era basato sul suo adattamento di Pionieri a Ingolstadt di Marieluise Fleißer: il regista non fu per niente soddisfatto della collaborazione con l’emittente magontina, ed essendo ormai nel pieno delle riprese portò a termine il lavoro senza particolare impegno. L’opera, poco allettante per il pubblico, fu salutata dalla critica con una certa freddezza: «La sobrietà di Katzelmacher cede qui il posto a un’inutile opulenza. Se il Zdf lo ha finanziato, doveva per forza essere un film a colori, ma Fassbinder, evidentemente, non ci sa fare con i colori».41 In seguito il regista curò altri allestimenti televisivi di opere teatrali: il Saarländischer Rundfunk filmò nel settembre del 1972 Bremer Freiheit e nel maggio 1973 Nora Helmer, una lettura radicalmente nuova di Casa di bambola, il classico dramma sull’emancipazione femminile di Henrik Ibsen. Nel 1970, dopo l’allestimento della Bottega del caffè, Fassbinder ebbe dal Wdr l’incarico di realizzare il suo primo film per la televisione, Die Niklashauser Fahrt (t.l. Il viaggio a Niklashausen), in cui affrontava gli avvenimenti del Sessantotto. A differenza di tanti altri esponenti del Nuovo cinema tedesco, Fassbinder non aveva alcun timore a lavorare per la tv. D’istinto aveva capito che «non c’è nulla di più importante della televisione»,42 e che quel nuovo mezzo di comunicazione poteva essere, ancor più del cinema, un trampolino di lancio per raggiungere il grande pubblico. Quell’incarico rappresentava per lui una sfida molto particolare: «Intendo dire che, data l’enorme quantità di persone che vedono un film in televisione, ci si deve assumere un tipo diverso di responsabilità».43 E questo, secondo Fassbinder, era per un cineasta «forse il compito più arduo»,44 ma era convinto che per rispondere al meglio alle esigenze di una produzione televisiva si dovesse tenere ben presente il pubblico al quale ci si sarebbe rivolti. Mentre chi decide di andare al cinema di propria iniziativa è pronto a sorbirsi esperimenti e soluzioni insolite, il pubblico televisivo ha aspettative molto più concrete, che vanno assecondate per evitare di mancare il bersaglio. Anche se i responsabili dei palinsesti facevano spesso riferimento al compito formativo previsto nel Rundfunkstaatsvertrag (Trattato per la regolamentazione dell’emittenza radiotelevisiva) e desideravano che anche nei generi di intrattenimento si affrontassero questioni sociali di rilievo, Fassbinder riconosceva che la televisione è in primo luogo un mezzo destinato all’intrattenimento, gli spettatori desiderano quindi principalmente essere distratti e non ammaestrati con il dito alzato: «Questo non ha nulla a che vedere con la compiacenza nei confronti del pubblico, ma semplicemente con il fatto
di usare mezzi narrativi che, tanto per cominciare, non lo intimoriscano, creando una sintonia tra l’autore, l’opera […] e lo spettatore».45 Avendo già abbandonato l’avanguardia e le velleità artistiche nella sua produzione cinematografica per dedicarsi a generi più popolari, Fassbinder non ebbe alcun timore a realizzare, anche per la televisione, film che potessero piacere al grande pubblico – cosa che gli riuscì sempre, con l’eccezione del primo, Die Niklashauser Fahrt. Questo tipo di attività divenne «nel frattempo molto più importante per lui che non “produrre Arte” con la A maiuscola destinata a qualche cassetto».46 Dedicarsi all’intrattenimento, tuttavia, non significava creare mondi zuccherosi che fluttuassero al di sopra della realtà: «Penso che per la tv si debbano fare film più impegnativi che per il cinema. […] Dalla televisione il pubblico si aspetta una certa dose di realtà».47 Günter Rohrbach, allora responsabile della programmazione televisiva del Westdeutscher Rundfunk di Colonia, aveva da tempo messo gli occhi su Fassbinder e auspicava una collaborazione a lungo termine: «I miei colleghi e io avevamo l’ambizione di legare a noi il maggior numero possibile di giovani registi che in quegli anni avevano rivoluzionato il cinema tedesco. Fassbinder era uno di loro, probabilmente il più dotato».48 Die Niklashauser Fahrt, girato da Fassbinder nella primavera del 1970 con Michael Fengler, fu mandato in onda nell’ottobre dello stesso anno, ed era un tentativo di individuare le ragioni che portano al fallimento di una rivoluzione, con riferimento al Sessantotto. Allo scopo, il regista scelse un fatto storicamente accertato: nella seconda metà del quindicesimo secolo, nel villaggio di Niklashausen, in Franconia, era comparso un pastore che, dopo aver visto apparire la Madonna, s’era improvvisato predicatore di ideali rivoluzionari, raccogliendo intorno a sé diecimila seguaci che attribuivano erroneamente alle sue parole il valore di una rivelazione religiosa, attendendosi un miracolo. Come c’era da aspettarsi, la Chiesa reagì contro l’uomo venerato come un nuovo Messia e lo fece mettere in prigione e poi bruciare sul rogo per eresia. Fassbinder, al quale non interessava particolarmente l’autenticità dell’accaduto, ambientò la vicenda in uno strano mondo collocato fuori del tempo, scelse in modo arbitrario costumi e citazioni, usando sia testi del quindicesimo secolo, sia – secondo modalità già sperimentate nell’antiteater – opere contemporanee sulla rivoluzione mondiale, citazioni da Marx, Engels, Lenin, vecchi slogan del movimento studentesco: «Distruggete ciò che vi distrugge!». Lo stesso regista compare nel film nel ruolo del «monaco nero», con indosso una giacca di pelle; ad arrestare il pastore, al posto degli sgherri del vescovo, sono due poliziotti tedeschi e due soldati americani; continue sono le apparizioni di personaggi che sembrano appartenere a secoli differenti. Mentre i suoi adepti vengono assassinati con un mitra, il presunto eretico viene crocifisso e bruciato in un cimitero d’auto. Con questi mezzi stilistici Fassbinder e Fengler intendevano dimostrare che il loro film non era una versione adattata o ammodernata di fatti storici, ma una rappresentazione degli impulsi rivoluzionari che tendono a riproporsi nella storia: «Lo spettatore non deve poter pensare: sono vicende accadute nel 1476. Un pensiero del genere lo rassicurerebbe, mentre la visione del film dovrebbe invece inquietarlo».49 Il messaggio del film è pessimista: nonostante tutti i tentativi di rivoluzione, il futuro non migliora, perché gli uomini hanno disimparato a sviluppare la consapevolezza necessaria ai cambiamenti, da cui sono in ultima istanza terrorizzati, non riuscendo più nemmeno a immaginarseli. Per questa ragione, secondo Fassbinder, i movimenti politici di liberazione e le utopie collettive sono destinate a fallire: «Solo se ciascuno desidera qualcosa di diverso può nascere qualcosa di diverso».50 L’ambizioso collage cinematografico di Fassbinder sulla rivoluzione e sul suo inevitabile fallimento – che ancor prima della svolta del Mercante delle quattro stagioni (1971) faceva riferimento a film rivoluzionari contemporanei come One plus one di Godard e O Dragão da Maldade contra o Santo Guerreiro (Antonio das Mortes) di Glauber Rocha – non riscosse particolare simpatia nel pubblico televisivo. Due anni dopo gli avvenimenti del Sessantotto l’interesse al riguardo era scarso, per di più l’approccio sperimentale del film riusciva fastidioso. Il responsabile della programmazione sapeva che gli spettatori non avrebbero apprezzato molto l’ammaestramento fortemente politicizzato, e infatti Die Niklashauser Fahrt venne trasmesso poco prima di mezzanotte, nell’ambito della serie «Gli sceneggiati del lunedì». Anche i critici mostrarono una certa freddezza nei confronti dell’ultimo lavoro di Fassbinder: «Un manuale sul concetto di rivoluzione e sui tentativi di affrontarlo attraverso l’arte, corredato di un commento sovrabbondante».51
Molto più scalpore doveva invece suscitare Selvaggina di passo (Wildwechsel), secondo lavoro televisivo di Fassbinder. Basato su un testo teatrale di Franz Xaver Kroetz e prodotto sempre per il Wdr di Colonia, lo sceneggiato fu un vero e proprio scandalo. Kroetz, che Fassbinder conosceva già come interprete perché aveva recitato nel suo allestimento di Zum Beispiel Ingolstadt, era alla sua prima prova come drammaturgo e raccontava la storia di un amore impossibile, tra un operaio e una minorenne, destinato a concludersi tragicamente. Quando gli chiesero di realizzare un adattamento televisivo del dramma di Kroetz, la cui prima rappresentazione era stata salutata come il culmine del nuovo teatro tedesco, Fassbinder accettò con entusiasmo. Il ruolo dell’operaio Franz andò a Harry Baer, mentre per la quattordicenne Hanni venne scritturata Eva Mattes, figlia della star della Ufa Margit Symo. Il regista aveva conosciuto la ragazza, quindicenne, poco tempo prima, durante le riprese del film Mathias Kneissl, di Reinhard Hauff, in cui avevano recitato entrambi. Fassbinder era entusiasta della recitazione della Mattes, e anche la ragazza, che conosceva molti dei suoi film, desiderava da tempo lavorare con lui: «Ogni giorno fissavo il telefono, sperando che mi chiamasse per offrirmi la parte».52 A differenza di alcuni suoi colleghi, trovò il regista molto «cordiale e dolce».53 Ambientato nella provincia bavarese degli anni cinquanta, Selvaggina di passo è la storia di una ragazzina precoce, Hanni, che si ribella ai genitori piccolo borghesi – che la trattano come una bambina – impegolandosi in una relazione con Franz, un operaio di diciannove anni. Nel momento in cui il loro legame diventa di dominio pubblico, il ragazzo deve scontare diversi mesi di prigione ma, una volta rilasciato, i due riprendono a incontrarsi in segreto, suscitando le ire del padre di lei. Quando poi Hanni scopre di essere incinta, convince Franz a uccidere il padre, che continua a ostacolarli. Per amore di Hanni, Franz commette il crimine, e viene nuovamente incarcerato. Poco prima del processo, la ragazza va a fargli visita e gli dice che il loro bambino è nato morto, aggiungendo poi di non averlo mai davvero amato: «È stata solo una cosa fisica». Come già in Katzelmacher, Fassbinder racconta nuovamente di persone che non hanno mai imparato a comunicare, dell’esasperazione e dell’ottusità che regnano nella piccola borghesia e che rendono agli individui la vita difficile. Presso il pubblico televisivo Selvaggina di passo suscitò scalpore per l’azzardo nella scelta del tema, ma anche per la libertà, ai tempi insolita, con cui Fassbinder aveva girato alcune scene. L’attore protagonista, Harry Baer, compariva più di una volta nudo davanti alla macchina da presa e, cedendo alle pressioni del regista, aveva acconsentito a un primissimo piano del suo pene semieretto: «Non essere sciocco! In che secolo viviamo, in fin dei conti?» gli aveva detto Fassbinder.54 Nel gennaio del 1973, dopo la messa in onda del film, seguito da quindici milioni di telespettatori, le linee telefoniche degli studi della Ard collassarono. Il film fu tacciato di oscenità, il regista insultato per aver scandalizzato i benpensanti. Il clamore televisivo ebbe poi un ulteriore strascico, perché anche Franz Xaver Kroetz non risparmiò critiche severe al film. Per la sceneggiatura aveva lasciato carta bianca a Fassbinder, ed era seccato che dappertutto si discutesse ormai soltanto di Fassbinder, senza nemmeno chiamare in causa l’autore del testo. Secondo Kroetz, inoltre, il regista aveva enfatizzato troppo i risvolti sessuali della vicenda; lo disturbavano in particolare due scene aggiunte nel film per illustrare meglio i fatti: in una il padre tenta di sedurre la figlia, nell’altra Hanni prova a adescare un immigrato mentre Franz è in galera per la prima volta. Kroetz prese pubblicamente le distanze dall’adattamento di Fassbinder, che definì nel complesso «pornografia con un tocco di critica sociale»: «Mi pare osceno il modo in cui nel film i personaggi vengono fatti oggetto di discredito. La ragazza non è una civetta ninfomane: tenta semplicemente di sottrarsi al bigottismo cattolico della sua famiglia vivendo una bellissima storia d’amore. Anche Franz non è uno stupido depravato, ma un individuo bisognoso d’affetto».55 Fassbinder rispose alle critiche irose dell’autore con una lettera aperta: «Caro Franz Xaver Kroetz, è proprio un peccato che tu non voglia dire come stanno le cose. Perché mai ti vergogni di ammettere che hai rifiutato l’opportunità di realizzare assieme a me una sceneggiatura soddisfacente per entrambi? Ti vergogni forse delle tue stesse parole quando, dopo un rifiuto a continuare il lavoro sulla tua pièce, hai affermato: “Non mi interessa più quella vecchia schifezza, io voglio la grana”? Ammetti almeno di aver detto: “Fanne pure quello che vuoi tu”, e di esserti lasciato scappare, quando ti chiesi per la seconda volta una collaborazione, un bel “Vaffanculo”».56 Nella causa in tribunale intentata da Kroetz, Fassbinder ebbe la peggio, e le parti del film criticate dall’autore dovettero essere eliminate prima che questo arrivasse nelle sale. Un ulteriore taglio venne invece deciso in autonomia: il primo piano del pene di Harry
Baer, autorizzato in televisione, fu eliminato nella versione cinematografica. Anche se la Filmbewertungsstelle assegnò al film il giudizio «molto valido», ed Eva Mattes vinse il Nastro d’oro come miglior attrice emergente, la maggior parte della critica sottoscrisse l’opinione di Kroetz, secondo cui Fassbinder, nella versione televisiva, aveva calcato troppo la mano nella caratterizzazione dimostrativa dei personaggi. Le aspre discussioni sul film – che dopo l’intervento di Kroetz non poté mai più essere trasmesso – fecero sì che Fassbinder, in seguito, prendesse le distanze dalla pellicola. Nonostante il flop di Die Niklashauser Fahrt e lo scandalo suscitato da Selvaggina di passo, il Wdr era fermamente determinato a proseguire la collaborazione con Fassbinder. Il progetto successivo a cui misero mano fu una serie televisiva incentrata sul ceto operaio, una novità assoluta, dal momento che fino ad allora, alla televisione tedesca, gli sceneggiati a sfondo familiare avevano sempre offerto un intrattenimento leggero e alquanto superficiale, ed erano ambientati in contesti borghesi o piccolo borghesi. Sull’onda della politicizzazione generale subita dalla televisione dopo il Sessantotto, questo stato di cose era destinato a cambiare. Grande fu lo sforzo di affrontare le questioni sociali più scottanti in molti formati televisivi, compresi i giochi a premi, e il Wdr, che era considerato una rete progressista, voleva essere un precursore nel campo della fiction. Unire intrattenimento e informazione era un’impresa ardua, tutti i dirigenti della rete ne erano ben consapevoli, infatti in un primo momento si chiesero se tentare o meno un esperimento del genere: «Fassbinder era l’ultimo regista a cui pensassimo» ricorda Günter Rohrbach «ma lui aveva in qualche modo avuto sentore delle nostre elucubrazioni e ci aveva colti di sorpresa con un progetto compiuto, prima ancora che potessimo interpellare un altro autore. Ne venne fuori un’opera televisiva audace, singolare, un melodramma socio-romantico».57 Fassbinder era stato informato delle intenzioni della rete da Peter Märthesheimer, un redattore trentaseienne del Wdr che sarebbe diventato un suo importante sostenitore e compagno di strada. Märthesheimer aveva chiesto consiglio a Fassbinder perché aveva difficoltà nella progettazione della serie. Il giovane regista gli aveva spiegato che un’opera del genere non avrebbe dovuto imitare pedissequamente la realtà, quanto piuttosto indurre le persone a sognare opportunità migliori: «Nei confronti di venticinque milioni di spettatori maledettamente normali non ci si può permettere nient’altro».58 Bisognava inoltre avere ben chiaro che per rivolgersi a un ampio pubblico televisivo servivano storie semplici. Il venticinquenne Fassbinder ottenne quindi l’auspicato incarico per Acht Stunden sind kein Tag (t.l. Otto ore non sono un giorno). Il fatto che un noto rappresentante del Nuovo cinema tedesco come Rainer Werner Fassbinder si occupasse di un genere popolare, che per la maggior parte dei suoi colleghi sarebbe stato improponibile, fece scalpore. Dietro le quinte, invece, il progetto fu subito oggetto di discussioni, e la collaborazione si rivelò molto meno pacifica di quanto all’epoca venisse pubblicizzato all’esterno. Fassbinder riteneva il Wdr «un’istituzione ammuffita. L’intendente von Bismarck, per esempio, era contrario alla serie televisiva. Ma ci sono altri che hanno i miei stessi obiettivi, cioè fare cose che siano pericolose per la cosiddetta classe dirigente».59 Per le prime cinque puntate della serie, che ammontavano nel complesso a cinquecento minuti di trasmissione, il regista poté contare sul budget più alto che avesse mai avuto: se per Die Niklashauser Fahrt e Selvaggina di passo il Wdr gli aveva messo a disposizione circa mezzo milione di marchi, ora ne ebbe in dotazione quasi 1,4 milioni. Fassbinder, che aveva sempre lavorato con piccole squadre affiatate, si trovò d’un tratto a fare i conti con il grosso, e quindi lento, apparato produttivo del Wdr, un’esperienza per lui completamente nuova, come confermato anche da Peter Märthesheimer: «Credo fosse molto spaventato. Ma aveva la capacità di far apparire gestibili le situazioni preoccupanti, per il solo fatto di essersi preparato molto bene ad affrontarle».60 Non appena cominciò la produzione, Fassbinder elencò in modo estremamente preciso i mezzi tecnici di cui aveva bisogno: una mossa che fece molto colpo sui tecnici e valse al regista il loro sostegno. Nonostante la giovane età, Fassbinder dava l’impressione di sapere bene ciò che voleva e di conoscere il proprio mestiere. Abituato a lavorare velocemente, concentrato sull’obiettivo, procedette anche in questo caso con grande disciplina, non da ultimo perché, come sempre, «il film che voleva ce l’aveva già pronto in testa, non gli restava che girarlo».61 Si attenne senza fare storie al budget concordato, evitando di girare anche una sola spanna di pellicola che non fosse indispensabile, e concluse le riprese con quasi dieci giorni di anticipo. Grazie alla sua affidabilità sul lavoro e all’estrema oculatezza nella gestione del denaro, era ben visto da tutte le persone coinvolte, ricorda Peter Märthesheimer: «Piaceva a tutti: per la sua velocità, la precisione, il talento artistico e la forza espressiva».62
Di base Fassbinder ricorse ai suoi attori di fiducia, con i quali aveva continuato a collaborare anche dopo lo scioglimento del collettivo dell’antiteater: Hanna Schygulla e Irm Hermann, Kurt Raab e Karl Scheydt, Rudolf Waldemar Brem e Hans Hirschmüller. Poi ingaggiò alcuni beniamini del pubblico come la star della Ufa Luise Ullrich o l’attore e cabarettista Werner Finck. Fu in quel periodo che il regista sviluppò un debole per gli attori esperti, navigati: «Sono molto professionali e hanno un certo fascino, che io tengo in gran conto. Sono sempre stati bravi, gli è solo capitato di recitare in brutti film».63 Un vero colpo di fortuna fu l’assegnazione della parte di Jochen, il proletario da libro illustrato, a Gottfried John. Quest’ultimo, in seguito più volte ingaggiato da Fassbinder, aveva recitato soprattutto a teatro, anche per Hans Neuenfels. Nonostante gli capitasse sempre più spesso di lavorare con attori con cui non aveva mai collaborato in precedenza, Fassbinder mantenne l’abitudine di rinunciare alle consuete indicazioni di regia, aspettandosi dagli interpreti che afferrassero istintivamente ciò che voleva da loro e ciò che richiedevano le singole scene. Gottfried John ricorda: «Ero terribilmente nervoso, anche perché non mi diceva mai cosa fare. In fin dei conti la parte era mia, pensava. […] Ero un bravo attore e dovevo sapere da me come interpretare quel che mi spettava».64 La serie, ambientata nella Ruhr, affronta problematiche legate al mondo del lavoro, ma approfondisce al tempo stesso i conflitti che emergono nella sfera privata. Il fatto di toccare temi quali l’emergenza abitativa, il caro affitti, l’educazione dei bambini o la mancanza di posti negli asili doveva servire a rappresentare la realtà sociale di una famiglia operaia nel modo più autentico possibile. Eppure, in Acht Stunden sind kein Tag, Fassbinder non si limitava a descrivere uno stato di cose, ma intendeva piuttosto innescare dei processi di apprendimento, indicare alternative, proporre suggerimenti per liberare il mondo dai conflitti, senza tuttavia assumere un tono pedante. Il regista non associava la possibilità di un cambiamento ai gruppi o alle istituzioni, ma all’iniziativa del singolo, che può agire con pragmatismo e solidarietà, senza per questo doversi gettare tra le braccia degli ideologi di sinistra. Con la serie televisiva Fassbinder tentava dunque di trasmettere una scintilla di utopia e di dimostrare in modo emblematico come si possa reagire a determinati meccanismi sul posto di lavoro o a difficoltà nel privato, per «far capire chiaramente allo spettatore che le cose si possono cambiare, se solo ci si ribella».65 Per Gottfried John questa idea di fondo «aveva a che fare con la vera anarchia, in senso positivo, ovvero il principio secondo cui tutti possiamo emanciparci con la sola forza della ragione. Se ci liberiamo da una mentalità autoritaria, possiamo autodeterminarci e cambiare la società».66 Per rendere la serie più vicina possibile alla realtà, Fassbinder e i suoi collaboratori avevano condotto per quasi un anno ricerche accurate all’interno di fabbriche e aziende. Le sceneggiature erano poi anche state date in lettura ad alcuni operai della Ford di Colonia per verificare che le vicende rappresentate fossero realistiche: «Fu un processo lunghissimo e i copioni dovettero essere riscritti due o tre volte per via delle critiche dei lavoratori».67 Il 29 ottobre 1973 la Ard cominciò a mandare in onda Acht Stunden sind kein Tag. I dati di ascolto, che oscillavano tra il quarantacinque e il sessanta per cento, erano notevoli: dai venti ai venticinque milioni di spettatori seguivano la serie, trasmessa in prima serata, subito dopo il telegiornale. Anche le reazioni del pubblico furono prevalentemente positive. I critici invece furono molto duri e liquidarono Acht Stunden sind kein Tag come un esempio di kitsch socialmente impegnato. La Frankfurter Allgemeine Zeitung si espresse in questi termini: «Fassbinder non rende le cose facili agli spettatori; nel suo sceneggiato si sovrappongono due intenti: la polemica condotta contro le serie televisive girate fino a oggi e l’onesto tentativo di rappresentare il mondo del lavoro».68 Günter Wallraff aveva già preventivamente sollevato l’interrogativo se un genere popolare come la serie televisiva a sfondo familiare «fosse idoneo a far maturare le coscienze in senso progressista».69 Critiche particolarmente severe giunsero dagli ambienti sindacali, che rimproveravano a Fassbinder di aver edulcorato i problemi sociali dei lavoratori in modo inammissibile e di aver dipinto un’immagine non realistica degli operai, i quali nella serie non sono organizzati in partiti politici o sindacati; in effetti nelle prime cinque puntate della serie quasi non si fa cenno alle organizzazioni sindacali o ai consigli di fabbrica. Irritato dalle critiche, nelle sceneggiature delle restanti tre puntate, già programmate, il regista dedicò maggiore attenzione ai sindacati, verso i quali mantenne tuttavia una posizione molto critica: «Volevamo affermare, per esempio, che il sindacato non ha ormai più niente da dire alle persone, e che se i sindacati volessero davvero far qualcosa per la gente, dovrebbero tornare a rivolgersi alla base. Ma queste, a quanto pare, non sono cose di cui si può parlare apertamente, senza giri di parole».70 In realtà le puntate successive, già concordate, non vennero più girate. A causa dell’accesa protesta dell’Unione sindacale presso il direttore del Wdr
– l’organizzazione si opponeva alla prosecuzione della serie –, dopo sole cinque puntate e nonostante il grande successo di pubblico, Acht Stunden sind kein Tag dovette chiudere i battenti. Alla stampa il responsabile della programmazione Werner Höfer dichiarò: «Dopo un attento esame delle sceneggiature e una franca discussione con tutti gli interessati siamo giunti alla conclusione che una prosecuzione di Acht Stunden sind kein Tag avrebbe senso solo se venissero eliminati i difetti già messi in luce. Non essendovi certezze in questo senso, abbiamo preferito abbandonare definitivamente il progetto».71 Tutti gli interessati avevano ben chiaro che le ragioni drammaturgiche avanzate dalla rete televisiva per giustificare la chiusura della serie tanto discussa erano solo un pretesto, e che in realtà il problema era un’incolmabile divergenza di vedute sul piano dei contenuti. Nonostante ciò e sebbene il regista non avesse celato la sua indignazione al riguardo, tra Fassbinder e il Wdr non ci furono dissapori, tanto che l’anno successivo il cineasta tornò a lavorare per la rete di Colonia. Il mondo sul filo (Welt am Draht), un film di fantascienza diviso in due parti, fu uno dei lavori televisivi di Fassbinder più spettacolari e visionari. Il progetto, ancora una volta sostenuto da Peter Märthesheimer e realizzato nel 1973 con un budget di 950mila marchi, era basato su Simulacron 3, un romanzo utopico dello scrittore americano Daniel F. Galouye, dal quale Fassbinder trasse la sceneggiatura con l’aiuto di un suo coetaneo, Fritz Müller-Scherz. Mentre il romanzo originale è ambientato nel futuro, i due sceneggiatori decisero di collocare la trama nel presente, ovvero negli anni settanta. Per la scelta del cast Fassbinder adottò lo stesso principio applicato con successo in Acht Stunden sind kein Tag. In parte si affidò quindi ad attori a lui familiari, come Kurt Raab e Margit Carstensen, Ulli Lommel e Peter Chatel, ingaggiando poi una serie di star degli anni sessanta, come Adrian Hoven e Ivan Desny, Eddie Constantine, Christine Kaufmann e Barbara Valentin, ad alcuni dei quali assegnò ruoli in contraddizione con la loro immagine consueta: una strategia cui ricorse con successo anche in seguito, nel caso di Brigitte Mira e Karlheinz Böhm. Azzeccata fu anche la scelta del protagonista, Klaus Löwitsch, che si rivelò subito perfetto per la parte. L’attore era già stato diretto da Fassbinder in Pionieri a Ingolstadt, nel 1970, e nel Mercante delle quattro stagioni l’anno successivo. Il mondo sul filo ruota intorno al personaggio interpretato da Löwitsch, Fred Stiller, nominato direttore di un istituto di cibernetica e futurologia ipermoderno. Il suo predecessore si è suicidato in circostanze misteriose ma Stiller, per via delle scottanti ricerche condotte dall’istituto – con implicazioni politiche, economiche e militari di incommensurabile importanza –, non crede alla versione ufficiale e sospetta un complotto. Con l’aiuto di un computer avanzatissimo viene ricreato un mondo completamente fittizio abitato da «unità simulate», cioè individui virtuali: è una sorta di laboratorio elettronico gigante in cui vengono prodotti esseri umani, grazie al quale si possono esercitare le più svariate pressioni in campo sociale, politico ed economico, prevedendone con relativa sicurezza le conseguenze. Stiller capisce ben presto di trovarsi in presenza di fatti assai misteriosi e comincia a fare delle ricerche. Dopo l’improvvisa scomparsa del capo della sicurezza del centro, d’un tratto tutti negano di averlo mai conosciuto. Alla luce degli strani avvenimenti, Stiller è indotto a chiedersi se sta diventando pazzo o se tutto ciò che lo circonda è solo un’illusione. Sconvolto, alla fine si rende conto di esistere soltanto nel mondo virtuale e di non essere nient’altro che un circuito elettronico, uno degli individui programmati dal computer Simulacron, e dunque una parte del gigantesco «mondo sul filo». Poiché alle unità simulate non è concesso avere alcuna coscienza di sé, cosa che le renderebbe un pericolo per l’intero sistema, Stiller, come il suo predecessore – che aveva fiutato il segreto prima di lui –, deve essere «spento». In fuga dagli inviati dell’istituto che minacciano di arrestarlo, Stiller finisce vittima di una caccia all’uomo durante la quale verrà ucciso. Il mondo sul filo è un gioco affascinante tra realtà e simulazioni informatiche, tra il mondo reale e quello generato dal computer. Nonostante la trama si sviluppi su piani narrativi e oggettivi di estrema complessità, Fassbinder, nelle due puntate del Mondo sul filo, riesce a raccontare la storia in modo sorprendentemente semplice e avvincente. Con la sua incursione nella fantascienza anticipa un dibattito che nel 1973 era ancora di là da venire, destinato ad accendersi solo alcuni decenni più tardi. Oggi che la realtà virtuale e i mondi simulati al computer sono ormai qualcosa di scontato, è difficile comprendere quanto Fassbinder fosse all’avanguardia per i suoi tempi e quanto potesse riuscire destabilizzante. Allora, quasi nessuno poteva immaginare che grazie a un computer potentissimo venisse creato un mondo artificiale, in cui gli individui fossero, a loro insaputa, entità puramente elettroniche. Fassbinder non si
limitò a sfruttare questa fantasia utopica per suscitare una riflessione su vantaggi e svantaggi del progresso tecnico, ma volle invece approfondire la questione se l’uomo, dal punto di vista sociale, sia un individuo che si autodetermina e non un burattino in balia di un’autorità superiore, e se possa rimanere se stesso in un contesto in cui viene costantemente controllato e manipolato. Il mondo sul filo è una visione audace del futuro ed è ormai da molto tempo considerato un classico del genere fantascientifico. Nella prima metà degli anni settanta Fassbinder toccava temi ripresi poi per la prima volta vent’anni dopo, in film come Matrix, quando ormai l’idea dei mondi generati al computer era da tempo diventata realtà. A quarant’anni dalla sua realizzazione, con le scenografie dai colori freddi e i suggestivi movimenti di macchina, Il mondo sul filo appare ancora oggi moderno e all’avanguardia. In occasione della tanto attesa replica del film, proiettata alla Berlinale del 2010, Der Spiegel ha definito «un piccolo miracolo» il fatto che a Fassbinder, in tempi tanto remoti, fosse stato concesso di occuparsi di un tema del genere per la televisione tedesca: «Il mondo sul filo è una vera e propria meditazione, arricchita con inserti d’azione, sulla natura della paranoia individuale e collettiva nell’era dell’informazione, nata in un momento in cui l’era dell’informazione non era nemmeno cominciata».72 Anche in seguito Fassbinder continuò a realizzare film per la televisione e a coltivare in questo campo ambizioni non sempre coronate dal successo. Meno noto è invece che scrisse insieme a Laurens Straub un soggetto per una puntata del telefilm poliziesco Tatort (t.l. Luogo del delitto), che non venne mai girata.73 Nel 1974, inoltre, firmò per il Wdr Wie ein Vogel auf dem Draht (t.l. Come un uccello sul filo), uno spettacolo tutto dedicato a Brigitte Mira basato su un modello americano. La triviale carnevalata, presentata da Der Spiegel come «una sorta di porcheria»,74 in cui Brigitte Mira cantava canzoncine indecenti, attorniata da palestrati mezzi nudi, non suscitò particolare entusiasmo nei magnati della Ard. Per avere nuovamente l’opportunità di partecipare a una grossa produzione televisiva in più puntate Fassbinder dovette attendere il 1979, con l’opulento Berlin Alexanderplatz.
In fondo voglio soltanto che mi amiate 1973-1974
A metà degli anni settanta Fassbinder visse un momento di trionfi e di insuccessi. Con pellicole come La paura mangia l’anima (Angst essen Seele auf), Martha e Effi Briest (Fontane Effi Briest) fece scalpore, ottenne molte recensioni positive e riscosse un crescente apprezzamento presso il grande pubblico. Nel frattempo, tuttavia, continuava a girare film ambiziosi, destinati a cerchie più ristrette di spettatori, che quasi immancabilmente gli procurarono non lodi ma critiche. Con Il diritto del più forte (Faustrecht der Freiheit) e Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel (t.l. Il viaggio in cielo di Mamma Küsters) urtò rispettivamente la sensibilità degli omosessuali e delle persone di sinistra. Fassbinder non voleva lasciarsi incasellare in nessuno schieramento né risultare in alcun modo compiacente. Nemmeno i successi lo avrebbero indotto a sfornare soltanto film di cassetta che fossero compatibili con i gusti delle masse e avessero ottime chance di essere distribuiti nei cinema. Il suo obiettivo rimase sempre e comunque quello di girare i film che lui, a titolo squisitamente personale, riteneva importanti. Con l’aumentare della fama e del denaro, che Fassbinder riusciva a guadagnare anche grazie alle grandi produzioni televisive, il regista si andava sempre più innamorando del lusso, e si comportava come tutti i piccolo borghesi ai quali si spalancano improvvisamente le porte del gran mondo. «Si notava già allora che pian piano il successo gli stava dando alla testa» ricorda il suo fedele assistente operatore Herbert Paetzold. «Quando lo incontrai per la prima volta, in occasione delle riprese di L’amore è più freddo della morte, era ancora pressoché sconosciuto; all’improvviso si ritrovò a dirigere produzioni televisive relativamente grandi, come Acht Stunden sind kein Tag, e divenne un regista famoso. Già allora ci teneva molto che lo andassero a prendere con auto costosissime, che venissero affittati per lui gli appartamenti più cari e prenotati gli alberghi e i ristoranti più esclusivi. Dava un gran peso a questo genere di cose, il che lo ha sempre reso molto antipatico ai miei occhi. Da quel momento in poi è cominciato il suo declino dal punto di vista umano.»1 Anche Ursula Strätz trovava che fosse diventato «un vero e proprio fantoccio»: «Bacardi-Cola – la musica a tutto volume – soldi – bar – macchine sportive».2 Non andava mai da nessuna parte senza uno stuolo di accompagnatori. Se entrava con il suo entourage nell’atrio di un hotel di lusso, «passava inosservato quanto una tarantola su una fetta di torta alle noci»,3 per dirla con le parole del suo vecchio compagno di strada Yaak Karsunke. Il regista spiegò che l’abitudine di comparire sempre scortato dal seguito, almeno nei primi tempi della sua notorietà, aveva anche una funzione protettiva: «Ci siamo sempre presentati al gran completo, perché avevamo tutti molta paura del mondo esterno, e un gruppo di quindici persone non passa certo inosservato».4 Nel 1974 Fassbinder si trasferì in un grande appartamento situato in un palazzo d’epoca della Reichenbachstraße, a Monaco Isarvorstadt. Chiamava quella casa «la salsiccia», perché vi troneggiava un imponente divano costituito da «salsicce di pelle» cucite insieme. A detta di quasi tutti i visitatori, bisognava abituarsi agli ambienti: «Era tutto nero: i mobili, le pareti, in pratica tutto tranne i bagni, marrone scuro, e la cucina, che era chiara e molto rustica, confortevole».5 Anche lì Fassbinder era sempre attorniato da amici e conoscenti, che dovevano trasmettergli la sensazione di non essere solo. Di conseguenza, in casa, regnava una gran confusione: «C’era un televisore sempre acceso, il telefono squillava ininterrottamente, e continuavano ad arrivare persone che volevano qualcosa da lui, in sostanza l’atmosfera era sempre sovraccarica».6 Nella Reichenbachstraße, proprio di fronte all’appartamento di Fassbinder, c’era la Deutsche Eiche (La quercia tedesca), che divenne presto il locale preferito del regista: era una vecchia osteria ultrabavarese dove si mangiavano sostanziosi piatti locali, con annessa pensione in cui spesso pernottavano gli ospiti del regista.7 Poiché i gestori erano molto aperti e molto ben disposti nei confronti degli omosessuali, fin dagli anni cinquanta il locale era frequentato da artisti gay, attori e ballerini del vicino Gärtnerplatztheater. Nell’ambiente omosessuale cittadino
erano ben note le chiassose feste in costume, specie i balli di carnevale, a dir poco eccentrici, a cui partecipava, travestendosi, anche Fassbinder. Il regista apprezzava l’atmosfera familiare dell’osteria e vi si tratteneva tanto spesso da riferirsi alla Deutsche Eiche come al «salotto» di casa propria. In fondo al locale, molte volte affollato fino all’inverosimile, c’era sempre un grosso tavolo riservato per lui e i suoi ospiti. Se per sbaglio qualcuno che non apparteneva al suo entourage si sedeva al tavolo o gli chiedeva se fosse libero, Fassbinder poteva reagire anche in modo molto sgarbato, perché considerava la Deutsche Eiche a tutti gli effetti parte della sua sfera privata. Di ritorno in Germania dopo aver girato un film all’estero, gli piaceva recarsi nel locale ancor prima che nel suo appartamento, e dopo la chiusura di un progetto cinematografico era solito invitare lì tutta la squadra. Fassbinder continuava ad aver bisogno di pochissime ore di sonno. Anche gli orari di chiusura dei locali in vigore all’epoca non erano per lui un deterrente. Quando chiudevano tutti i bar e le osterie, trasferiva il consesso di amici e collaboratori nel proprio appartamento, situato dall’altra parte della strada, dove i bagordi proseguivano fino alle prime ore del mattino. In casa sua regnava una grande libertà, tanto che Fassbinder, anche quando ospitava gli amici, amava girare completamente nudo.8 L’alcol scorreva a fiumi e abbondavano anche gli spinelli. La festa finiva solo quando il regista si ritirava per andare a dormire. E nonostante non si concedesse mai più di quattro ore di sonno, la mattina dopo era di nuovo fresco e riposato e pieno di idee, pronto a far ballare sulla corda il suo entourage.
Non avevo dubbi che un giorno o l’altro sarebbe accaduto Il nuovo film, La paura mangia l’anima, fu un grande successo internazionale. Ancora una volta Fassbinder aveva affrontato un tema che lo toccava molto da vicino, con il quale si era già misurato in un suo film precedente, Katzelmacher: le reazioni della società nei confronti dei lavoratori stranieri, di persone, cioè, che già solo per il loro aspetto vengono percepite come estranee e di conseguenza suscitano rancore. Nel 1971 Fassbinder aveva conosciuto in una sauna gay parigina il marocchino El Hedi ben Salem m’Barek Mohammed Mustafa, di dieci anni più vecchio di lui. Fin dal primo momento era rimasto affascinato da quel bell’uomo straniero, ricorda l’amico Daniel Schmid, che fece loro da interprete durante il primo incontro, perché Fassbinder non parlava francese ed El Hedi ben Salem non sapeva il tedesco: «Poi hanno cominciato a parlare, e per oltre due anni non hanno mai più smesso, in un modo tutto loro».9 Anche se Salem a casa in Marocco aveva moglie e figli, divenne il compagno di Fassbinder e fu promosso a suo accompagnatore ufficiale. Nel 1972 i due uomini parteciparono insieme alla Berlinale. Salem fece addirittura trasferire i due figli Abdel e Hamdan dal Marocco a Monaco, dove per breve tempo entrarono a far parte del clan di Fassbinder. Poi, però, viste le continue difficoltà con il permesso di soggiorno e i fastidi causati dai due ragazzi sradicati dal loro contesto abituale, Fassbinder e Salem li rispedirono in patria.10 Come già era accaduto con Kaufmann, il regista manifestò il suo affetto al nuovo compagno facendolo diventare un attore. Salem ebbe quindi piccoli ruoli nel film per il grande schermo Il mercante delle quattro stagioni e nelle produzioni televisive Acht Stunden sind kein Tag e Il mondo sul filo, ma assunse spesso, in parallelo, anche incarichi da trovarobe e direttore di produzione. Furono soprattutto le ascendenze esotiche di Salem ad affascinare Fassbinder, che lo volle accanto a sé in quanto straniero, come conferma Ingrid Caven: «Nella visione romantica di Rainer, Salem doveva essere una sorta di sostituto paterno che gli raccontava fiabe orientali. All’inizio non voleva nemmeno che imparasse il tedesco. Quando cominciai a insegnargli qualche parola, Rainer divenne letteralmente furioso».11 Già la condizione di Günther Kaufmann lo aveva spinto a confrontarsi – in film come Rio das Mortes e Whity – con i problemi dei meticci e il loro essere divisi tra culture di appartenenza diverse. Sei anni dopo Katzelmacher, l’amore per Salem portò nuovamente il regista ad affrontare il tema dell’ostilità nei confronti degli stranieri – ora aveva anche trovato il protagonista ideale. Katzelmacher non fu comunque l’unico precedente. Nel 1970, nel film Der amerikanische Soldat, Fassbinder aveva assegnato a Margarethe von Trotta, nel ruolo di una cameriera d’albergo, un lungo monologo basato su un’autentica notizia di cronaca che avrebbe anticipato la storia poi raccontata in La paura mangia l’anima, con un’unica ma sostanziale variante: in quel film il turco Alì uccideva l’amante più anziana, mentre in La paura mangia l’anima, il cui titolo provvisorio era «Tutti i turchi si chiamano Alì», ciò non avviene.12
Fassbinder decise di legare la questione dei lavoratori stranieri a un altro nucleo tematico: i pregiudizi a cui si espone una donna di condizioni sociali modeste legandosi a un uomo molto più giovane di lei. A questo riguardo il regista aveva di nuovo tratto ispirazione da un melodramma del suo idolo Douglas Sirk, All That Heaven Allows (Secondo amore).13 In quel caso è una vedova benestante, interpretata da Jane Wyman, a innamorarsi di un giardiniere, impersonato da Rock Hudson. A causa di questa relazione con un uomo di quindici anni più giovane, per di più molto inferiore a lei socialmente, la vedova, fino ad allora saldamente inserita nei circoli di una piccola cittadina americana, si scontra con l’incomprensione e il rifiuto da parte dei suoi figli e degli amici: «Sono dei presupposti di merda per iniziare una grande storia d’amore» fu il laconico commento di Fassbinder sul film.14 In La paura mangia l’anima Fassbinder ha sostituito la ricca vedova con una semplice donna delle pulizie, e ha trasformato l’amante di vent’anni più giovane in un lavoratore straniero, un emarginato nella società degli anni settanta, esasperando così ulteriormente la problematica di fondo – cioè quella di un amore che si infrange sugli ostacoli posti dall’ambiente circostante – e creando di conseguenza la materia prima ideale per un melodramma al passo con i tempi e di grande attualità. Ancora una volta, Fassbinder ha impresso al tema un taglio del tutto personale: mentre la disapprovazione degli altri, all’inizio, non fa che unire ancora di più Emmi e Alì, la relazione tra i due – che nonostante le fortissime resistenze dei figli di Emmi arrivano addirittura a sposarsi – comincia a sgretolarsi proprio nel momento in cui l’ottuso ambiente circostante abbandona il proprio atteggiamento ostile verso la coppia male assortita e dà prova di una crescente tolleranza nei loro confronti. Solo allora i veri conflitti tra i due coniugi, a lungo rimossi, vengono allo scoperto. Fassbinder dimostra quindi per l’ennesima volta la sostanziale impossibilità di una relazione amorosa felice: «Così è la vita».15 Come protagonista femminile scritturò la sessantaquattrenne Brigitte Mira, conosciuta due anni prima allo Schauspielhaus di Bochum, dove l’attrice recitava nel varietà di Peter Zadek Kleiner Mann, was nun?. Fassbinder intuì fin dal primo momento il potenziale artistico ancora inesplorato della Mira, e prese d’istinto la decisione di lavorare con la ex soubrette. A quell’epoca Brigitte Mira conosceva il regista soltanto di nome, non aveva ancora visto i suoi film, né «si era mai nemmeno sognata»16 che lui potesse interessarsi a lei. Fassbinder, invece, senza pensarci troppo, le affidò una piccola parte nella serie televisiva Acht Stunden sind kein Tag, e le procurò un ruolo anche nel film di Ulli Lommel Zärtlichkeit der Wölfe, di cui era produttore. All’inizio della collaborazione con il regista, di trentacinque anni più giovane di lei, Brigitte Mira era piuttosto seccata: «Durante le riprese non si scambiava mai una parola che esulasse dal lavoro. Fassbinder, per di più, non mi spiegava nulla. Non mi diceva come si immaginasse una determinata situazione, né mi faceva grandi correzioni. Bene, mi dicevo, quest’uomo non sa che farsene di te, vuole liquidarti al più presto». Eppure, quando lei, mossa dalla propria insicurezza, decise di interpellarlo, comprese che Fassbinder, sul set, era laconico soprattutto con gli attori di cui era soddisfatto: «Ma sei stata fantastica» disse. «Perché avrei dovuto starti dietro tutto il giorno, se ha funzionato fin dal primo momento?»17 In La paura mangia l’anima lo stile di regia poco convenzionale di Fassbinder mise letteralmente le ali a Brigitte Mira, che interpretò la sua parte in modo magistrale. L’attrice riuscì senza alcuno sforzo a esaudire le aspettative del regista, dimostrando così che fino a quel momento le erano stati assegnati ruoli molto al di sotto delle sue effettive capacità attoriali, proprio come aveva sospettato Fassbinder, che invece aveva subito visto in lei l’interprete ideale per la parte della cameriera Emmi. Se Brigitte Mira riuscì a calarsi tanto bene nel personaggio fu anche per l’esperienza maturata in prima persona con un ragazzo americano molto più giovane di lei, con il quale aveva una relazione. Lei stessa aveva subito la disapprovazione del proprio ambiente, si era sentita osservata alle feste e ai ricevimenti, e aveva visto suoi conoscenti prendersi gioco del compagno, additato malignamente come «il figlio della Mira». La collaborazione tra la Mira e Fassbinder, che aveva all’incirca l’età dei figli di lei, crebbe nella massima armonia e divenne presto più stretta, nonostante le iniziali difficoltà dell’attrice a relazionarsi con il resto del clan: «Ero un’amica, una mamma, una collega, una sorella e non so cos’altro ancora. Dipendeva tutto dal momento. Gli piaceva molto quando raccontavo aneddoti sulle mie esibizioni e le mie tournée nel dopoguerra, ma facevamo anche discorsi molto seri».18 Fino all’ultimo Brigitte Mira fu grata a Fassbinder per averle assegnato il primo ruolo da protagonista della sua vita e non si stancò di sottolineare di essere diventata una star solo grazie a lui. In realtà, prima di lavorare con Fassbinder, aveva già recitato in una quindicina di film, sebbene il fulcro della sua attività fossero sempre stati il teatro e l’operetta, nonché ruoli minori in produzioni televisive: «Lui ebbe il coraggio di presentarmi in modo completamente diverso da tutti i registi con cui avevo lavorato in precedenza. E non in un programma televisivo notturno, ma al cinema».19
Fassbinder girò La paura mangia l’anima con grande entusiasmo, ricavandone un capolavoro: l’intera lavorazione, dal primo ciak alla versione sincronizzata, richiese soltanto quattro settimane. Dopo produzioni dispendiose e di enormi proporzioni quali Acht Stunden sind kein Tag e Il mondo sul filo, era stato per lui molto stimolante tornare a girare un film con una squadra di collaboratori più contenuta, circostanza che gli consentiva quella spontaneità e flessibilità che tanto apprezzava. «Sono così contento, quando giro piccoli film» confessò a Doris Mattes, che aveva accettato una particina in La paura mangia l’anima. «È una cosa che mi rende felice, mentre le grandi produzioni sono molto stressanti per me. Se potessi, girerei soltanto piccoli film.»20 Nonostante la durata assai limitata delle riprese, Fassbinder in quest’occasione si prese molto più tempo del solito soprattutto per le indicazioni di regia destinate a El Hedi ben Salem, che non era un attore professionista, e non ebbe paura di ripetere più volte alcune scene: «Ho girato quasi tutte le inquadrature dieci, quindici, venti volte, cosa che prima non avrei mai fatto. Ma volevo davvero ottenere il massimo».21 Tutti, nel gruppo, avvertivano con quanta gioia il regista si buttasse nel lavoro. Il «piccolo film» di Fassbinder fu un grande successo. La proiezione al Festival di Cannes del 1974 fu un autentico trionfo per il regista e la sua squadra. Dal momento che l’anno prima non era stato selezionato nessun film tedesco, il solo fatto che Fassbinder fosse stato invitato a Cannes aveva suscitato molto scalpore, anche se la pellicola, non essendo proiettata all’interno del programma ufficiale,22 non aveva alcuna chance di ottenere un premio. In seguito Brigitte Mira avrebbe ricordato con grande piacere con quanta frenesia fossero stati accolti sulla scalinata del Palais del festival: «Una massa di gente ci spingeva in avanti, stringendosi sempre di più intorno a me e a Fassbinder. Rainer mi teneva forte: “Niente paura, Biggi, vedrai che ce la faremo” mi disse con uno sguardo raggiante». Entrambi erano impressionati da tutti quei volti entusiasti, dalle grida di incoraggiamento, dalla tempesta di flash di centinaia di fotografi. Fassbinder gioiva del nervosismo procurato a tutte quelle persone «come un bambino alle prese con il suo primo trenino».23 Era talmente agitato, che non se la sentì di assistere alla proiezione ufficiale per cogliere in presa diretta le reazioni del pubblico internazionale, e durante lo spettacolo si ritirò con i suoi accompagnatori in un ristorante lì vicino. Seppe quindi soltanto dopo che il suo film era stato interrotto ben diciassette volte da vere e proprie ovazioni e che alla fine c’era stata un’ulteriore mezz’ora di frenetici «Bravo». Fassbinder era completamente sopraffatto. In un primo momento pianse senza ritegno per un buon quarto d’ora, come ricorda l’allora capo del Filmverlag der Autoren Laurens Strab, che lo aveva accompagnato a Cannes. Poi, appena riacquistato il controllo, decise di godersi fino in fondo quel successo appena conquistato: «Adesso ce ne andiamo nel ristorante qui di fronte e ci mettiamo davanti alla vetrina, in modo che tutti ci possano vedere».24 Per Fassbinder, essere riconosciuto dal pubblico internazionale di Cannes era il massimo. Ancora a maggio del 1982, quando si recò al festival per l’ultima volta, poco prima di morire, si vantò con l’amico Harry Baer dicendo: «Vedrai, quanto sono famoso. È da non credere. Uno dei più famosi in assoluto!».25 Anche la stampa internazionale reagì con insolito entusiasmo. Il quotidiano inglese The Guardian, noto per la sua diffidenza, sostenne che il regista avrebbe dovuto ottenere il massimo riconoscimento, la Palma d’oro.26 Fassbinder dovette tuttavia accontentarsi del premio Fipresci e di quello della Giuria ecumenica. La grande risonanza ottenuta dal suo film – laconico e privo di sentimentalismi ma pieno di compassione – presso la platea internazionale divenne un importante passepartout per la carriera del regista tedesco all’estero. A seguito del successo trionfale a Cannes, La paura mangia l’anima fu venduto in quarantacinque paesi, compresi gli Stati Uniti e la Gran Bretagna; solo a Londra, la pellicola rimase in programmazione per nove mesi, facendo il tutto esaurito. All’inizio degli anni ottanta, il film venne addirittura presentato a Mosca, nell’ambito del cinema militante contro il razzismo.27 In Germania, invece, quell’importante successo internazionale continuò a essere messo in discussione dai guastafeste. Malgrado il film avesse preso a circolare nelle grandi sale commerciali e non più solo in sparuti cinema di dimensioni ridotte, la Filmbewertungsstelle di Wiesbaden rimproverò a La paura mangia l’anima di essere un dramma sociale molto naïf, dai tratti fiabeschi, per poi assegnargli comunque il giudizio «di grande valore». Anche i giornalisti tedeschi, molti dei quali avevano apertamente ammesso di essersi aspettati il fallimento di Fassbinder a Cannes, si ostinarono a cercare il pelo nell’uovo. In una intervista televisiva, al regista fu addirittura chiesto se il fatto di aver conquistato una platea internazionale con un film tanto provocatoriamente semplice e un tema così provinciale non l’avesse sorpreso, al che lui rispose: «Il film è meno provinciale di voi».28 Anche quando gli fecero notare quanto il suo successo fosse stato inatteso,
reagì in modo brusco ma con grande consapevolezza di sé: «Non è stato affatto inatteso. Non avevo dubbi che un giorno o l’altro sarebbe accaduto».29
È bello veder pensare una donna Nel 1974, poco dopo l’uscita nei cinema di La paura mangia l’anima, Fassbinder portò a termine altre due opere. A maggio l’emittente televisiva di Colonia Wdr mandò in onda il film Martha, seguito a giugno da Effi Briest, poi proiettato nelle sale tedesche a distanza di un mese. Con queste due pellicole il regista si guadagnò presso il grande pubblico la fama di autore impegnato per i diritti delle donne, anche se gli stessi titoli gli valsero da parte delle femministe attacchi talvolta anche violenti. Il fatto che il cineasta, da La paura mangia l’anima in poi, ponesse al centro dei suoi film, in modo sempre più marcato, delle figure femminili, era dovuto, non da ultimo, al suo modello di riferimento, Douglas Sirk: «Normalmente le donne reagiscono, fanno quello che fanno le donne, mentre nel cinema di Sirk pensano. Notatelo, è bello veder pensare una donna. Fa sperare, veramente». Fino ad allora non gli era mai capitato di cogliere niente di simile in nessun altro regista.30 Nei suoi primi film gangster le donne sono perlopiù figure marginali o vittime inermi in una società dominata dagli uomini. Sia in L’amore è più freddo della morte che in Götter der Pest e Rio das Mortes, il personaggio di Joanna, interpretato da Hanna Schygulla, si trova diviso tra due uomini, e non le è concessa l’armoniosa vita di coppia che pure si augurerebbe. Nel film d’esordio, Joanna arriva addirittura a prostituirsi per assecondare i desideri dell’uomo che ama. Fino ad allora il binomio femminilità-prostituzione era stato una costante significativa nell’opera di Fassbinder. In L’amore è più freddo della morte Ingrid Caven, Gisela Otto e Ursula Strätz interpretano delle prostitute; in Katzelmacher Elga Sorbas è una giovane donna che si concede volentieri agli uomini del vicinato; in Der amerikanische Soldat Irm Hermann è una prostituta. Anche la cantante di saloon di Whity, sempre interpretata da Hanna Schygulla, si vende per denaro. Nei film di Fassbinder le donne sono perlopiù esseri innamorati senza speranza e crollano sotto il peso del loro amore non corrisposto, come accade alla cameriera d’albergo in Der amerikanische Soldat, suicida a causa dei dispiaceri amorosi. Nei suoi primi lavori, inoltre, sorprende la frequenza con cui il regista mostra donne che sono vittime della violenza maschile, donne umiliate, picchiate o addirittura uccise. Nel Mercante delle quattro stagioni Irmgard, interpretata da Irm Hermann, viene brutalmente malmenata dal marito; in Der amerikanische Soldat il sicario uccide a sangue freddo la propria amante per obbedire a un ordine; infine, in Perché il signor R. è colto da follia improvvisa? due donne vengono pestate perché un uomo non riesce più a sopportare le loro chiacchiere senza senso. In La paura mangia l’anima, dove Brigitte Mira dà voce con grande partecipazione alle necessità e alle preoccupazioni della vedova Emmi – con cui le spettatrici possono identificarsi e solidarizzare –, Fassbinder dimostra per la prima volta di considerare la donna come «la figura più affascinante all’interno della società», i cui conflitti vengono più chiaramente alla luce.31 Con Martha, un film per la televisione, il regista prosegue su questa strada. Il film racconta in modo molto commovente la storia di una trentenne che durante un viaggio a Roma incontra l’uomo destinato a cambiare la sua vita. Fin dal primo momento Helmut Salomon, un gentiluomo molto avvenente e vestito in maniera impeccabile, esercita su di lei un grande fascino. Martha diviene succube dell’uomo, che ha quindici anni più di lei, e lo sposa. Già durante il viaggio di nozze il benestante ingegnere non perde occasione per mettere in atto i suoi interventi pedagogici e le sue pressioni, trasformando a poco a poco Martha in una sua creatura, esiliandola in una villa isolata e impedendole di continuare a lavorare come bibliotecaria. Martha deve essere a sua completa disposizione, sarà lui il solo scopo della sua vita. Quando la donna, per vincere la solitudine, si procura un gatto, Helmut lo uccide. Anche in sua assenza, il marito la obbliga ad ascoltare la musica che piace a lui e a leggere i suoi libri. Spesso si avventa sulla moglie brutalmente, arrivando persino a violentarla. Per sottrarsi a Helmut, un giorno Martha riesce a fuggire dalla villa ma provoca un grave incidente, nel quale resta ucciso l’ex collega presso il quale ha cercato rifugio. La donna rimane a sua volta invalida per il resto della vita, costretta su una sedia a rotelle. In queste condizioni è totalmente in balia dell’arbitrio e delle attenzioni sadiche del marito. Nella scena finale, in cui Helmut va a prenderla in ospedale, Martha sembra aver accettato la sua condizione.
Il film, un misto di melodramma e thriller psicologico, racconta la storia in modo molto serrato e rigoroso, senza digressioni, concentrandosi esclusivamente sulle vicende della coppia. Il rapporto di dipendenza tra Martha e Helmut – per quanto caricato – viene descritto soprattutto sul piano psicologico, e l’amore, come avviene nel caso del suo idolo Sirk, viene presentato da Fassbinder come il più efficace mezzo di repressione sociale: «Dopo aver visto i film di Douglas Sirk mi convinco sempre più che l’amore è il miglior strumento di oppressione sociale, il più insidioso ed efficace».32 Nel film la protagonista femminile interpretata dalla Carstensen anela a essere sottomessa e trova soddisfazione solo nel momento in cui non deve più farsi carico di alcuna responsabilità nella propria vita. «In realtà Martha non viene oppressa bensì educata» spiega Fassbinder. «E questa educazione coincide con la repressione. […] Quando Martha, alla fine del film, non è più in grado di vivere da sola, ottiene di fatto ciò che ha sempre desiderato. […] Il film risponde in fondo alla domanda: come può una donna in quelle condizioni essere felice?» Con questa interpretazione il regista suscitò aspre critiche nei circoli femministi, specie per via della conclusione secondo cui molte donne si possono anche sentire protette all’interno di un rapporto di dipendenza come quello rappresentato nel film: «La maggior parte degli uomini però non è in grado di opprimerle con la perfezione che loro vorrebbero».33 Fassbinder aveva scritto la sceneggiatura di Martha in completa autonomia. Solo dopo la messa in onda si scoprì che la trama presentava notevoli analogie con il racconto For the Rest of Her Life (Per il resto della vita) del giallista americano Cornell Woolrich, e tale circostanza fu all’origine di lunghe diatribe legali. Sebbene il regista dichiarasse di non aver mai letto il racconto, il Wdr si vide comunque costretto ad acquistarne i diritti cinematografici e a inserire un riferimento a Woolrich nei titoli di coda. Fassbinder fu molto turbato da queste controversie, che gli valsero pur sempre un’accusa di plagio, e «per anni si tormentò chiedendosi se fosse stata un’invenzione parallela o se avesse invece letto il racconto di Woolrich e poi l’avesse rimosso».34 A rendere improbabile un deliberato tentativo di plagio è un particolare rimasto finora quasi sconosciuto, ovvero che il regista aveva concepito Martha ispirandosi al matrimonio dei suoi genitori. Pur non avendone mai parlato pubblicamente, durante le riprese lo aveva confidato all’attore protagonista, Karlheinz Böhm: «Il personaggio di Martha era sua madre, mentre la figura maschile, che interpretavo io, era senza alcun dubbio il padre. Trovo molto affascinante il modo in cui Fassbinder nel film analizza il matrimonio, con una sincerità sconvolgente, inedita nella storia del cinema».35 Poiché per questa pellicola ottenne dal committente, il Wdr, un budget doppio rispetto a quello stanziato per La paura mangia l’anima, Fassbinder poté contare su un cast eccellente e prestigioso, anche per le parti più piccole. Come già nel caso di Brigitte Mira, anche in questa occasione diede prova di grande fiuto nell’azzeccare la scelta degli attori. Lavorava ormai sempre più spesso con nuovi interpreti. Se in film come Il mercante delle quattro stagioni o La paura mangia l’anima il cast era costituito quasi interamente da vecchi compagni di strada, ora si affidava in modo più sistematico ad attori professionisti. Per i genitori di Martha si rivolse a Adrian Hoven e Gisela Fackeldey, e assegnò altre parti a Günter Lamprecht, Ortrud Beginnen e Barbara Valentin. Pochi furono i membri del suo clan a essere coinvolti, perlopiù in ruoli minori: Peter Chatel, Ingrid Caven e Kurt Raab. Pur lavorando più frequentemente con interpreti che non conosceva, conservò il proprio stile di regia, ormai collaudato. Günter Lamprecht, che ebbe una piccola parte in Martha, racconta come Fassbinder ingaggiasse in modo del tutto istintivo un attore che riteneva adatto per un determinato ruolo, e poi si affidasse alle capacità e alla fantasia del prescelto, senza discutere il personaggio con lui e senza perdere tempo con le indicazioni di regia: «Questo metodo però non funzionava sempre. Grande era allora la delusione del regista, che poteva diventare insopportabile. L’interessato passava dei brutti momenti. Ma se invece le sue aspettative venivano esaudite, gli si leggeva in faccia una gioia infantile. Si metteva addirittura a ballare e a canticchiare a fior di labbra qualche motivetto sdolcinato».36 Fassbinder aveva assegnato il ruolo di Martha a Margit Carstensen, conosciuta a Brema nel 1969 in occasione di un suo allestimento presso il noto teatro cittadino. Dopo quel primo incontro, l’attrice era stata scritturata in molti suoi spettacoli teatrali. Nel 1970, con il regista, aveva poi fatto il suo esordio davanti alla macchina da presa in una riduzione cinematografica della Bottega del caffè. Pur di parteciparvi la Carstensen aveva lasciato il suo posto fisso al teatro di Brema, e da quel momento in poi si era unita alla troupe di Fassbinder. In seguito la si era vista nelle versioni cinematografiche di Bremer Freiheit e Nora Helmer, nelle produzioni televisive Acht Stunden sind kein Tag e Il mondo sul filo, e in Le lacrime amare di Petra von Kant, nel ruolo della protagonista. Per il personaggio di Martha, costantemente sull’orlo dell’isteria, la Carstensen fu senza dubbio la scelta ideale, vista la commovente intensità con cui seppe interpretarlo. Nel ruolo di Helmut, Fassbinder
aveva invece ingaggiato Karlheinz Böhm, che da anni cercava di affrancarsi dall’identificazione con il Franz-Joseph della serie di film dedicati a Sissi, incontrando tuttavia grandi difficoltà. In Germania non veniva più scritturato dal 1960 e non gli era riuscito nemmeno di trovare spazio in televisione, così cercava di sbarcare il lunario recitando in teatro e lavorando come doppiatore. Il fatto che Fassbinder gli offrisse il ruolo di protagonista in Martha fu per lui una grossa opportunità. A Monaco Böhm aveva già assistito ad alcuni dei primi allestimenti di Fassbinder con l’antiteater, e aveva anche molto apprezzato Katzelmacher, così non ebbe alcuna esitazione nell’accettare la sfida di interpretare il marito sadico in Martha. Quando Fassbinder, durante le riprese, si rese conto che l’attore non si era ancora riconciliato con la propria immagine «alla Sissi», gli consigliò di non rinnegare quanto aveva fatto fino a quel momento e per il resto di guardare avanti: «È un principio che da allora non ho mai dimenticato, è stato uno dei fondamenti della mia vita, il migliore che potessi augurarmi».37 Come per Margit Carstensen, anche nel caso del protagonista maschile il regista era andato a colpo sicuro, azzeccando la scelta: la profonda simpatia che suscita Böhm potenzia infatti l’effetto sorpresa nello scoprire che in realtà, nel film, è un sadico oppressore della moglie. Fassbinder parlò della collaborazione con Böhm in termini molto elogiativi: «Eravamo rapidi, concreti, e ci capivamo al volo».38 Nonostante la grande stima che nutriva per Fassbinder, l’attore dovette riconoscere che il regista «non era una persona cordiale, nel senso comune del termine», ma lavorare con lui gli parve «qualcosa di radicalmente nuovo» e gli piacque molto poter interpretare un personaggio così estremo. Ancora oggi Böhm considera Martha il film più importante della sua carriera, insieme alla pellicola inglese Peeping Tom (L’occhio che uccide), in cui interpreta un brutale assassino, anche se – comprensibilmente – questo suo primo film con Fassbinder non gli valse la simpatia del pubblico, anzi: «Quando nel maggio del 1974 Martha fu trasmesso per la prima volta in televisione, gli spettatori reagirono con lettere piene di rabbia e di insulti».39 Nel film Fassbinder insiste soprattutto sul fatto che le donne sono condizionate tanto quanto gli uomini dalla società patriarcale in cui vivono. Le riserve mosse in particolare dalle rappresentanti dei movimenti femministi dipendevano non da ultimo dalla scelta deliberata del regista di non idealizzare il personaggio di Martha ma, come già era avvenuto per l’immigrato greco Jorgos in Katzelmacher, di considerarlo in modo critico, e dunque in fondo l’indignazione delle femministe divertiva Fassbinder. La pellicola avrebbe dovuto far riflettere sulle dinamiche e le strutture sociali, secondo la massima: «A un certo punto i film devono smettere di essere film, smettere di essere delle storie, e diventare vivi, inducendo le persone a chiedersi: cosa sono diventato? e a che punto è la mia vita?».40 Martha era nato durante le riprese di un altro lavoro di Fassbinder, Effi Briest, che si erano protratte per oltre due anni perché uno dei protagonisti, Wolfgang Schenck, aveva avuto un infarto ed era stato a lungo assente. Fassbinder concepiva dunque Martha come una parafrasi moderna del suo adattamento cinematografico del romanzo di Fontane. Anche in Effi Briest, infatti, si parla di rapporti di dipendenza all’interno di una coppia, benché in quel caso, sottraendosi alle regole severe della società in cui vive, la protagonista paghi un prezzo più alto. Quando i critici tentarono di inserire Effi Briest tra i suoi film sulle donne, il regista protestò sostenendo che era «un film su Fontane, sull’atteggiamento di un letterato verso la società a cui appartiene, […] un uomo che smaschera e critica gli errori e le debolezze di quella società, pur riconoscendole un valore per sé».41 Contro la sua volontà, la diciassettenne Effi Briest viene data in moglie al barone von Innstetten, di vent’anni più vecchio di lei e in passato innamorato di sua madre. Nel matrimonio la giovane donna si sente sola, non amata, e viene spesso imbrigliata dal marito, più esperto della vita. La sua infelicità è alleviata dall’incontro con il giovane maggiore Crampas, il nuovo comandante del distretto locale, che inizialmente appare innocuo perché legato da un vincolo d’amicizia anche nei confronti del barone. Presto, però, tra Effi e Crampas nasce una relazione clandestina, che termina nel momento in cui Innstetten ed Effi si trasferiscono dal mar Baltico a Berlino. Solo sei anni dopo, in seguito al ritrovamento di lettere compromettenti, il barone scopre in modo del tutto casuale di essere stato tradito con il maggiore. Nonostante ami Effi e a distanza di tanto tempo non provi più alcun rancore nei confronti di Crampas, Innstetten decide di seguire le convenzioni sociali e «le regole vigenti», e sfida il suo rivale a duello. Alla fine lo uccide, sentendo così di aver reso giustizia al «culto dell’onore» cui ci si deve sottomettere, e ripudia Effi. La figlia Annie rimane con il padre e diventa una marionetta obbediente, istigata contro la madre. Esclusa dagli ambienti che frequentava e respinta anche dai genitori, Effi muore per una forma di tubercolosi latente in lei già da molto tempo. Sul letto di morte dichiara alla madre di aver
perdonato il marito, che in fondo aveva ragione su tutto: «Giacché nella sua natura vi era molto di buono ed era molto nobile, come può esserlo chi è incapace di vero amore».42 Per poter realizzare questa riduzione cinematografica proprio come l’aveva in mente, cioè in bianco e nero, Fassbinder decise di produrla in totale autonomia, sostenendo personalmente i costi di 750mila marchi, perché nessuna delle case di produzione interpellate era pronta a farsi carico delle sue concezioni artistiche: ormai i film in bianco e nero erano giudicati poco adatti al grande pubblico.43 Nel suo adattamento del romanzo pubblicato da Fontane nel 1895, il regista è estremamente fedele alla fonte letteraria, rinuncia a cambiamenti o ampliamenti della storia e si concentra sul rapporto tra Effi e il marito molto più anziano. Proprio come in Martha, approfondisce soprattutto le forme e i meccanismi oppressivi all’interno del matrimonio, cui Effi tenta di sottrarsi almeno temporaneamente attraverso la relazione con Crampas. Nella sua analisi Fassbinder evita i forti chiaroscuri e le attribuzioni di colpa, e racconta il romanzo di Fontane come una storia di sole vittime. Effi non viene ritenuta l’unica responsabile del fallimento del matrimonio, così come il barone non è considerato un mostro. Nel film Innstetten viene presentato come un uomo che a sua volta, e ripetutamente, dubita di sé. Nelle situazioni che lo disorientano, reagisce secondo i dettami della sua educazione: si attiene alle regole della società in cui è nato. Il regista mostra così come in un contesto patriarcale non solo le donne ma anche gli uomini debbano sottostare a innumerevoli obblighi e siano in fondo vittime delle proprie leggi: «Per questo trovo che gli uomini non siano particolarmente interessanti come personaggi, perché fanno sempre ciò che devono; mentre le donne, nonostante le si creda costrette a interpretare ruoli che vengono loro assegnati, sono spesso capaci, nelle singole situazioni, di affrancarsi da quei ruoli e di fare cose che non si sarebbero ritenute possibili».44 A Fassbinder premeva riuscire a portare sullo schermo, con la massima precisione possibile, la realtà della vita alla fine del diciannovesimo secolo così come la ritrae il romanzo. Già la scelta di girare il film in bianco e nero – per la prima volta dopo Der amerikanische Soldat – intendeva sottolineare la distanza temporale degli avvenimenti rappresentati. Il regista creò per il film immagini caratterizzate da un’illuminazione molto artificiale e da una composizione severa, rinunciando perlopiù a includere l’orizzonte, o rendendolo astratto e straniante, per dimostrare come i personaggi siano prigionieri del proprio mondo. Ai suoi protagonisti – oltre a Hanna Schygulla nel ruolo di Effi Briest e Wolfgang Schenck in quello del barone von Innstetten, erano coinvolti Ulli Lommel, Ursula Strätz, Irm Hermann e Lilo Pempeit, nella parte della madre di Effi – Fassbinder chiese di recitare in modo monocorde e trattenuto, senza quasi far trasparire emozioni, come se fossero marionette prive di libertà, vincolate al sistema dominante e costrette a vivere in un mondo inflessibile, dove non c’è spazio per sentimenti e passioni. Tutti i dialoghi sono tratti parola per parola dal romanzo. Nel film, inoltre, la voce narrante di Fassbinder legge lunghi brani da Effi Briest per fornire informazioni supplementari sulla trama. Il regista sentiva una grande affinità con l’atteggiamento di Fontane, il quale nei suoi libri denunciava gli errori della società in cui viveva, pur riconoscendo di non avere altre possibilità se non di aspirare a diventarne un membro riconosciuto. Anche Fassbinder considerava la società del suo tempo bisognosa di mutamenti ma incapace di attuarli, e dunque vi si adattava, demandando ai suoi film la denuncia delle disfunzioni sociali, nel tentativo di contribuire al cambiamento spingendo il pubblico a prendere coscienza degli errori commessi. Per dimostrare di non essersi avvalso della storia di Fontane come semplice traccia per la sua pellicola, ma di aver invece tentato di mettere a punto una resa cinematografica adeguata del romanzo, Fassbinder decise di non intitolarla soltanto «Effi Briest», bensì Fontane Effi Briest, e dichiarò: «Non è un film che, come la maggior parte degli altri, satura la mente di chi lo guarda. Qui, secondo me, allo spettatore viene lasciato un margine di libertà, è questo l’aspetto più particolare».45 Il regista non aveva dubbi: l’esperimento era riuscito, aveva dato vita a un capolavoro. Orgoglioso, affermava fosse la prima delle sue opere ad «ambire all’eternità»46 e «uno dei pochi» veri adattamenti cinematografici di un testo letterario.47 Senza dubbio gli va riconosciuto il merito di aver fatto della letteratura il tema centrale del film, invece di limitarsi a usare la trama di un romanzo come fonte. Si può notare però, di fronte al risultato finale, che la pellicola «è un romanzo e che nel romanzo la cosa più importante non è la storia che si racconta, ma come la si racconta».48 Le immagini non dovrebbero perciò inibire la fantasia, bensì incoraggiare lo spettatore a fantasticare sulla vicenda presentata, perché in ultima istanza «è colui che [viene chiamato a] completare il film».49 Le quotazioni di Fassbinder lievitarono. La critica festeggiò Effi Briest come una delle sue opere più audaci e sottolineò come il regista fosse effettivamente riuscito a fare della pellicola un romanzo. Con grande sorpresa di tutti, il cineasta raggiunse inoltre, con questo ambizioso adattamento cinematografico, un pubblico più ampio del
solito, tanto che gli incassi furono i più alti mai ottenuti in Germania da un suo film, messi in ombra in seguito soltanto da Il matrimonio di Maria Braun. Alla fine delle riprese Hanna Schygulla decise che non avrebbe più recitato per Fassbinder, almeno nell’immediato. Durante i lavori di Effi Briest l’attrice – qui al suo sedicesimo film con Rainer – aveva avuto il sentore che fosse ormai tempo di concludere la loro collaborazione. Il prodotto finale la rinsaldò nel suo proposito, poiché nella pellicola si vedeva come una «creatura ammaestrata», non diversamente dal suo personaggio, e temeva che sotto la regia di Fassbinder si sarebbe irrigidita del tutto: «Quel che era cominciato all’insegna del divertimento e dell’entusiasmo sconfinava ormai nel disagio. All’inizio ero affascinata dal mio stesso straniamento sullo schermo, mentre ora vedevo solo rigidità, ripetitività e menzogna, oppure ero soltanto esausta? Il sogno stava diventando un incubo».50 In realtà, riguardo al modo migliore di realizzare l’adattamento e di rendere la parte di Effi, tra il regista e la sua star si erano già manifestate divergenze di vedute durante le riprese. Fassbinder arrivò addirittura a includere questo conflitto nel film, facendo dire a Effi – in una scena in cui la protagonista dovrebbe partecipare a un allestimento teatrale diretto dal maggiore Crampas – quanto segue: «Come regista è un po’ aggressivo. Bisogna recitare come vuole lui, non come ci si sente di fare».51 Quei contrasti non furono tuttavia l’unico motivo della separazione. Certamente pesava anche il fatto che nell’ultimo periodo Margit Carstensen otteneva ruoli sempre più importanti e sempre più spesso a scapito della Schygulla. Fassbinder aveva assegnato alla Carstensen la parte della protagonista sia in Le lacrime amare di Petra von Kant sia in Martha e aveva in cantiere altri progetti con lei, il che dimostra quanto desiderasse affidare i ruoli principali anche ad altre attrici: «Di colpo ho avuto voglia di persone che arrivassero da fuori e che lavorassero per soldi, in modo decoroso, e per il resto mi lasciassero in pace». I film con il suo idolo di un tempo non soddisfacevano più Fassbinder: «All’improvviso, dopo quindici anni, Hanna ha cominciato a comportarsi in modo strano e ad avanzare delle pretese che in un lavoro come questo non è più possibile accontentare».52 Smentendo la versione della Schygulla, secondo la quale l’idea della separazione sarebbe venuta soltanto da lei, Fassbinder avrebbe poi dichiarato che la causa era stata un allontanamento reciproco e dunque si era trattato di una «decisione condivisa».53 Hanna Schygulla era certamente consapevole che un nuovo inizio non sarebbe stato facile. Era considerata «l’attrice di Fassbinder» e le era capitato molto di rado di lavorare con altri registi,54 perché Fassbinder aveva vigilato gelosamente affinché la sua star venisse diretta solo da lui e secondo le proprie concezioni. In realtà, dopo la fine del loro sodalizio, all’attrice vennero proposti moltissimi ruoli, perché d’un tratto volevano tutti lavorare con la primadonna spodestata, ma nessuno di quei film le regalò successi pari a quelli ottenuti fino ad allora. Dopo quattro anni tornò da Fassbinder, interpretò i personaggi più importanti della sua carriera e, grazie a colui che l’aveva scoperta ed era stato suo mentore, assurse al rango di celebrità di fama mondiale.
Faccio film per farvi infuriare Dopo Effi Briest alcuni settori dell’industria cinematografica, come parte della critica e dei fan di Fassbinder, nutrivano la speranza che il regista tanto chiacchierato fosse finalmente divenuto popolare. Ma il cineasta decise deliberatamente di deludere quelle aspettative, volendo evitare a ogni costo di cadere nella routine: «Dopo Effi Briest avrei potuto fare infiniti adattamenti di testi letterari: avrei ottenuto senza alcuna difficoltà finanziamenti generosi. Ma mi sono rifiutato di fare film che non fossero nelle mie intenzioni».55 Fassbinder non era mai stato interessato a seguire la via più sicura, quindi tornò a girare i lavori successivi su temi che riteneva importanti per la società e che lo toccavano personalmente, mettendo in conto che si sarebbe trattato di produzioni rivolte non alle masse, ma a un pubblico circoscritto: «Entro certi limiti, è giusto lavorare per un pubblico più ristretto, l’importante è che non sia sempre così».56 Il film seguente intendeva approfondire le potenzialità e i limiti dei rapporti d’amore omosessuali. Ad aprile, poche settimane prima dell’inizio delle riprese della sua nuova pellicola, Il diritto del più forte (Faustrecht der Freiheit), Fassbinder si era separato, dopo quasi tre anni, da El Hedi ben Salem. La decisione di lasciarsi era partita da Rainer, a causa delle forti tensioni dovute all’alcolismo di Salem, che si andava aggravando. Se da sobrio il compagno marocchino era una persona mite, socievole, gentile, quando aveva bevuto diventava violento, sia nei confronti di
Fassbinder sia verso i propri figli. Prima di incontrare il regista, Salem aveva condotto un’esistenza disordinata e inconcludente: a Parigi lavorava in una fabbrica e si prostituiva per arrotondare. La parte del lavoratore immigrato Alì in La paura mangia l’anima l’aveva reso, da un giorno all’altro, la star di un grande successo cinematografico internazionale: una condizione dalla quale forse si sentì sopraffatto e cui non riuscì mai a far fronte. Oltretutto, nonostante avesse frequentato alcuni corsi intensivi, continuava a non padroneggiare la lingua tedesca, sentendosi così sempre uno straniero e un emarginato. Darsi al bere dovette sembrargli l’unica maniera per reggere quella pressione eccessiva. A causa del crescente abuso di alcol di Salem, Fassbinder prese le distanze dal compagno, che sopportava sempre meno. La sua aggressività lo terrorizzava al punto da arrivare a nascondersi, tenendo segreto il luogo in cui si trovava. «Fassbinder voleva allontanarsi da Salem» ricorda Kurt Raab «non fece nemmeno lo sforzo di chiedersi quale potesse essere il modo migliore per aiutarlo, disperato e privo di prospettive com’era. L’ha abbandonato così, vulnerabile e incompreso, e il povero Salem ha rischiato di soccombere.»57 Quando il compagno scoprì che i frequenti fine settimana del regista a Parigi non avevano nulla a che vedere con il lavoro ma che Fassbinder ci andava, per conto suo, per fare conquiste nelle saune gay, reagì con furiosi attacchi di gelosia.58 Alla fine, i due si separarono nei primi mesi del 1974. El Hedi ben Salem tornò in patria, in Marocco, dove peraltro si sarebbe presto presentata l’occasione di rivedersi. Salem infatti aveva scritto a Fassbinder assicurandogli di essere molto cambiato e di avere smesso di bere. Nella sceneggiatura del Diritto del più forte il regista, che evidentemente voleva credere in un miracolo, aggiunse in tutta fretta una scena ambientata a Marrakech, per poter incontrare al più presto l’ex compagno. I due si riconciliarono; Salem tornò in Germania, dove riprese a bere, e Fassbinder lo lasciò nuovamente. A Salem venne a mancare la terra sotto i piedi. Si diede sempre di più all’alcol e cercò di escogitare un sistema per nuocere a Fassbinder: «Uccido qualcuno, così tutti i giornali ne parlano e Rainer è finito».59 Qualche settimana dopo in effetti, in un accesso di follia, accoltellò tre persone a Berlino, ma riuscì a evitare il carcere solo grazie a una pronta fuga in Francia, dove poi, a Nîmes, finì in prigione per via di altri reati commessi. Fassbinder restò sconvolto dai tragici sviluppi della vicenda; Daniel Schmid ricordava «ancora molto bene» quanto Rainer «avesse pianto per tutto il viaggio in auto da Berlino a Colonia».60 Dopo il fallimento della relazione con El Hedi ben Salem, Fassbinder si fece presto coinvolgere in un nuovo amore. Chiusa una breve storia con il proprietario di un locale per omosessuali,61 nel 1974, ancor prima di concludere le riprese del Diritto del più forte, aveva conosciuto alla Deutsche Eiche, il suo locale preferito a Monaco, il trentenne Armin Meier. Il giovane, molto attraente e di bell’aspetto, che a Fassbinder ricordava James Dean, era nato nel 1944 in uno dei centri Lebensborn62 in cui i nazisti avevano tentato di crescere nuove leve di pura razza ariana. Meier, che dopo la guerra era stato spedito dalla madre in un orfanotrofio cattolico a Ratisbona, faceva il macellaio e in più la sera serviva da bere al banco della Deutsche Eiche. Dopo essersi innamorati e aver trascorso una prima notte insieme, Armin, che aveva una stanza presso l’osteria, si trasferì nell’appartamento di Fassbinder, dall’altro lato della strada. Testimoni dell’epoca lo descrivono come una persona buona, allegra, piuttosto semplice sul piano intellettuale e completamente devota a Fassbinder.63 «Il legame tra i due è una sorta di film montato frettolosamente, con bruschi alti e bassi, ma Meier è stato senza dubbio il grande amore di Rainer.»64 Non ci volle molto perché Fassbinder trasformasse Armin, con il suo marcato dialetto della bassa Baviera, in un interprete dei suoi film, e lo stesso Armin si immedesimò presto nel ruolo del compagno del regista famoso. Se Fassbinder girava un nuovo film, annunciava orgoglioso: «Facciamo un altro film». Per Armin non fu facile inserirsi nella vita eccentrica ed eccessiva di Fassbinder, che continuava a rifiutare il classico rapporto a due e al di fuori della relazione si concedeva scappatelle negli ambienti gay, come si evince anche dalla dedica del Diritto del più forte: «Ad Armin e a tutti gli altri». Il diritto del più forte è il primo film ambientato esclusivamente nel mondo omosessuale. Fino ad allora, in quasi tutte le sue opere teatrali e i suoi film, erano comparsi temi e personaggi omosessuali, ma Fassbinder non si era mai dedicato in modo esplicito all’argomento in sé, o almeno non come regista. L’anno prima, in qualità di produttore, aveva realizzato il film di Ulli Lommel Zärtlichkeit der Wölfe – lanciato come Tango Film Produktion numero 4 –, incentrato sulla figura di Fritz Haarmann, omosessuale cannibale e omicida di bambini giustiziato a Hannover nel 1924. Kurt Raab, qui in veste anche di cosceneggiatore, interpreta il killer seriale, sorta di vampiro umano che molesta e uccide ragazzini minorenni di cui poi succhia il sangue. Gli spettatori furono turbati da una scena in particolare, in cui l’omicida, dopo aver consumato il suo crudele delitto,
spoglia un ragazzo e lo trascina in camera da letto. I critici sostennero che Lommel si era servito della storia per fare un film scandalistico sui vampiri, e alla Berlinale del 1973 la pellicola non ottenne alcun riconoscimento. Lommel e Fassbinder, il cui intento era di girare «un thriller con molto sangue», «un misto fra M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang e Psycho di Hitchcock»,65 si difesero dalle critiche sostenendo di aver realizzato solo la trasposizione cinematografica di un caso autentico e ben documentato. In qualità di produttore, Fassbinder dichiarò a un giornalista londinese: «Quello a cui aspiro è un realismo aperto, che consenta di identificarsi emotivamente con personaggi che la società ci ha insegnato a disprezzare».66 Fin dall’inizio Fassbinder aveva inteso Il diritto del più forte come una risposta al film di Rosa von Praunheim Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (t.l. Non è l’omosessuale a essere perverso, ma la situazione in cui vive), che due anni prima aveva fatto scalpore ma veniva considerato dal regista uno dei film tedeschi più insignificanti che avesse mai visto.67 Il rapporto tra i due cineasti era sempre stato piuttosto negativo. Praunheim, che Fassbinder incontrava regolarmente negli ambienti omosessuali, non faceva alcun mistero della sua antipatia: «Trovavo ripugnanti la sua bruttezza fisica e il suo carattere introverso e scaltro. […] Era così diverso da me. Viveva in modo perverso e faceva film incentrati su tematiche borghesi; io invece ero borghese e facevo film perversi».68 Dal canto suo Fassbinder era infastidito dalla consapevolezza ostentata dal collega circa la propria missione. Lo insospettiva il fatto che Praunheim credesse «davvero di essere l’unico ad avere il diritto, pressoché un monopolio, di affrontare con lo strumento del cinema il tema dell’omosessualità sua o altrui».69 Praunheim considerava il suo film in primo luogo un appello rivolto ad altri omosessuali, affinché solidarizzassero e combattessero insieme per un futuro migliore e la parità dei diritti. La controversa messa in onda della pellicola, nel gennaio del 1972, diede poi l’avvio al movimento di liberazione omosessuale in Germania. L’interesse di Fassbinder per questi cambiamenti fu sempre molto marginale. Nonostante vivesse la propria omosessualità molto apertamente e la dichiarasse orgoglioso durante le interviste, non si ritenne mai un attivista né un pioniere del movimento; lasciò quel ruolo al cugino Egmont Fassbinder, suo coetaneo, che oltre a numerosi gruppi omosessuali fondò anche la prima casa editrice tedesca dedicata alla letteratura omosessuale, il Verlag Rosa Winkel.70 Pur prendendo con Il diritto del più forte una posizione molto chiara e concreta sul ruolo degli omosessuali nella società, Fassbinder non si fece mai promotore degli interessi di alcuna consorteria. Il regista concepì la sua pellicola come una sorta di proposta alternativa alla visione di Praunheim, nel cui film l’omosessualità viene costantemente rappresentata come un fenomeno eccezionale ed esotico. Quello di Fassbinder era «il primo approccio al tema dell’omosessualità in cui l’omosessualità non viene problematizzata – e questa era la cosa importante per me […] si tratta semplicemente di una storia, che ha per protagonisti degli omosessuali».71 Nel Diritto del più forte Fassbinder racconta il destino di un ragazzo – l’omosessuale Franz Walsch, interpretato dal regista stesso – che sogna di fare della sua vita qualcosa di speciale, anche se nella realtà sbarca il lunario con un baraccone in un parco dei divertimenti, prostituendosi di tanto in tanto per arrotondare. La sua esistenza cambia all’improvviso quando diventa ricco grazie a una vincita al lotto. Nell’ambiente omosessuale piccolo borghese cui fino a quel momento non ha avuto accesso, e nel quale viene introdotto grazie a un incontro casuale con l’antiquario e mercante d’arte Max – interpretato da Karlheinz Böhm –, inizialmente lo guardano tutti dall’alto in basso, considerandolo un rozzo proletario. Soltanto quando vengono a sapere che ha vinto mezzo milione di marchi cominciano a mostrare interesse per lui. Franz e Eugen, l’elegante figlio di un imprenditore interpretato da Peter Chatel, si innamorano, nonostante siano poco compatibili per via della diversa condizione sociale. Poiché Eugen appartiene a una famiglia benestante, Franz è convinto di essere amato da lui indipendentemente dalla vincita al lotto e nella sua sconfinata ingenuità non si accorge che il compagno comincia molto presto a sfruttarlo senza alcun ritegno, arrivando pian piano a derubarlo di tutto il suo denaro. Quando i soldi della vincita finiscono, Eugen abbandona Franz senza pietà e lo inganna cinicamente per impossessarsi delle quote dell’azienda di famiglia – in cui Franz ha investito il suo denaro – come pure dei diritti sull’appartamento che i due hanno acquistato insieme. Spogliato di tutto per via delle subdole macchinazioni di Eugen, Franz, che fino all’ultimo ha creduto nella bontà degli uomini, non vede altra via d’uscita se non inghiottire un’overdose di valium e morire, solo, in una stazione della metropolitana deserta. Quando alcuni amici omosessuali di un tempo lo vedono in punto di morte, spariscono in tutta fretta per evitare di trovarsi coinvolti in spiacevoli seccature. Infine, il cadavere di Franz viene derubato da due ragazzini che gli sfilano gli ultimi soldi dalle tasche.
Anche in questo film Fassbinder si concentra sul tema cardine della sua esistenza: l’impossibilità di un amore corrisposto e di un rapporto paritario tra due persone, con l’aggravante che colui che ama davvero è sempre destinato a soccombere e a essere sfruttato brutalmente. Il diritto del più forte ha un cast eccezionale. Tenendo molto a interpretare il ruolo del protagonista, Fassbinder si era sottoposto a una dieta severissima per poter recitare la parte dell’avvenente giovane omosessuale Franz Walsch. Con quella sua incredibile trasformazione fisica da cineasta trascurato e sovrappeso a ragazzo carino, di cui era oltremodo orgoglioso, aveva lasciato di stucco molte persone del suo ambiente. A un meravigliato Harry Baer annunciò: «Hai poco da guardare! In forma come sono potrei ancora tirar su qualche marco!».72 Per la parte dell’abbiente antiquario omosessuale aveva nuovamente ingaggiato Karlheinz Böhm, in controtendenza con la sua immagine, mentre aveva affidato a Peter Chatel, il cui vero nome era Peter Schlätel, il personaggio di Eugen. Terminati gli studi di recitazione nel 1967, Chatel si era dato al teatro e aveva conosciuto Fassbinder nel 1969, quando con Ulli Lommel erano stati scritturati per il musical televisivo di Paul Vasil Tonys Freunde. Chatel, che era stato festeggiato come il giovane Alain Delon tedesco, non si trovò molto bene con Fassbinder e decise di starne alla larga, cercandosi altri lavori. Dopo aver partecipato a una serie di produzioni televisive tedesche, che alla lunga tuttavia lo lasciarono insoddisfatto, aveva seguito il compagno del momento, il regista e amico di Fassbinder Daniel Schmid, a Roma. Condannato a dieci mesi di carcere e poi espulso dall’Italia per aver consumato Lsd,73 era tornato in Germania nel 1972, imbattendosi a Monaco nella troupe di Fassbinder. Nel Mercante delle quattro stagioni e in Martha, come pure nelle due serie televisive Acht Stunden sind kein Tag e Il mondo sul filo, Chatel aveva avuto ruoli minori. Il rampollo Eugen era dunque il personaggio più importante che avesse mai interpretato in un film di Fassbinder. Altri attori della cricca del regista come Kurt Raab e Peter Kern, Karl Scheydt, Harry Baer e Walter Sedlmayr avevano ottenuto nel Diritto del più forte parti più piccole. Il caustico ritratto del mondo omosessuale costituito di nuovi ricchi e boriosi parvenu suscitò reazioni molto discordi. La Filmbewertungsstelle assegnò alla pellicola il giudizio «di grande valore»,74 ma la visione nelle sale fu consentita solo ai maggiori di diciotto anni per via del tema scabroso. Negli ambienti omosessuali il film fu oggetto di accese discussioni, in cui prevalsero le critiche. Alcune associazioni gay distribuirono volantini che tuonavano contro l’ultima opera del regista, mentre diversi locali di Monaco vietarono con stizza l’ingresso a Fassbinder. Il maggior rimprovero che gli veniva rivolto era di aver mostrato troppo poca solidarietà, al contrario di Rosa von Praunheim. I gruppi di attivisti si davano all’epoca molta pena per rappresentare la vita degli omosessuali come moderna, rivoluzionaria, alternativa. Fassbinder invece, nel Diritto del più forte, svelava senza alcun riguardo che negli ambienti omosessuali regnano in fondo le stesse leggi che dominano altri settori della società più riconosciuti, e che tra gli omosessuali i sentimenti sono oggetto di sfruttamento come fra gli eterosessuali. Per gli attivisti un messaggio del genere doveva risultare senza dubbio sgradevole, ma l’intenzione di Fassbinder era proprio quella di dimostrare che anche le relazioni gay alla fine sfociano nella routine e nella prigionia della vita a due, e che le dinamiche oppressive all’interno di queste coppie sono esattamente identiche a quelle eterosessuali: «Gli omosessuali se la sono presa molto con me per questo, perché pensano di essere speciali. […] E se qualcuno dice che non è vero niente, che le relazioni sono uguali a quelle di qualsiasi coppia normale, si arrabbiano. Vogliono essere anormali. È completamente idiota».75 Il cineasta si rifiutava però di idealizzare gli omosessuali in quanto minoranza. Proprio come in Katzelmacher aveva evitato di attribuire al lavoratore greco Jorgos solo tratti positivi, rappresentandolo con spirito critico, non ebbe alcuna esitazione nel mostrare le derive dell’ambiente omosessuale. Abbellire o tacere gli aspetti negativi di quel mondo sarebbe sembrata a Fassbinder un’altra forma di discriminazione. Se con Il diritto del più forte aveva urtato gli omosessuali, con il film successivo, Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel, gli riuscì di farsi nuovi nemici. Nonostante l’establishment della Germania occidentale lo considerasse un cineasta di sinistra, questo film è una dura resa dei conti proprio con la sinistra, sia con la Dkp (Partito comunista tedesco), sia con i gruppuscoli di estremisti che si andavano formando. Fu fatto notare a Fassbinder in via preliminare che un film incentrato su un tema del genere non avrebbe incontrato molta simpatia, come ricorda Karlheinz Böhm, che interpretava la parte di un funzionario comunista: «All’inizio il film era finanziato dalla Bundesfilmförderung di Bonn, ma quando seppero che aveva a che fare con i comunisti, si tirarono indietro. In seguito Fassbinder si rivolse al Partito comunista e presentò alla direzione una sceneggiatura che dava l’impressione di essere a favore dei comunisti. Così ottenne un finanziamento dalla Dkp».76 Il fatto che la Dkp desse per scontato che il film di Fassbinder avrebbe
offerto un ritratto positivo della sinistra, dipendeva non da ultimo dal titolo della pellicola, per il quale il regista si era ispirato a uno dei più noti classici cinematografici di critica sociale orientati in quel senso: Mutter Krausens Fahrt ins Glück (Il viaggio di mamma Krausen verso la felicità) di Piel Jutzi. Uscito nel 1929, il film racconta di una operaia indotta a cercare la morte perché oppressa dalla povertà e dalla freddezza dell’ambiente circostante. Tuttavia, mentre quel classico del cinema proletario termina con un messaggio positivo, indicando la nascita del movimento operaio come una grande speranza per il futuro, la pellicola di Fassbinder sarebbe diventata un attacco indiscriminato contro la sinistra tedesca in tutte le sue sfumature. La storia comincia con un evento drammatico: Hermann Küsters, da lungo tempo operaio in una fabbrica di pneumatici di Francoforte in cui si minacciano licenziamenti di massa, prima spara al capo del personale della ditta e poi si uccide. La moglie – interpretata da Brigitte Mira –, che tutti chiamano Mamma Küsters, resta completamente disorientata di fronte a quella morte inattesa, di cui viene a conoscenza attraverso la radio e i resoconti a tinte fosche della stampa scandalistica, che dipingono il marito come un «mostro sanguinario». Il figlio e la nuora la abbandonano, perché non vogliono avere niente a che fare con quel crimine. La figlia, che si esibisce in un nightclub e sogna di fare carriera come cantante, tenta di sfruttare l’improvvisa pubblicità a proprio vantaggio, facendosi annunciare come «la figlia dell’assassino della fabbrica». Gli unici a offrire un po’ di conforto e a prendersi cura di Mamma Küsters sono Karl Tillmann e sua moglie Marianne, i quali cercano anche di spiegarle che l’atto compiuto dal marito è senza dubbio sbagliato, ma dettato da ragioni più che comprensibili. I due appartengono alla Dkp e, nell’ottica della lotta di classe, considerano l’azione di Hermann Küsters un gesto rivoluzionario. L’errore di Küsters è stato di ricorrere ai mezzi sbagliati perché non era in contatto con persone che combattessero politicamente per i suoi stessi obiettivi. La vedova, che non ha nessun altro cui appoggiarsi, ha la sensazione che i suoi problemi vengano presi sul serio, aderisce alla Dkp e spera che il Partito comunista la assista per riabilitare pubblicamente il marito. Il partito, però, non mantiene la promessa ed Emma Küsters, delusa, si rivolge a un giovane che in precedenza le ha offerto il suo aiuto, sostenendo che i membri della Dkp sono soltanto dei parolai. Il ragazzo ha in mente un’«azione» capace di colpire l’opinione pubblica e convince Mamma Küsters a occupare insieme a lui e ad alcuni simpatizzanti la redazione del giornale che ha calunniato il marito, definito dal giovane un «combattente solitario della rivoluzione». Senza sospettare nulla, la donna partecipa all’azione, che tuttavia degenera quando i terroristi all’improvviso estraggono le pistole e prendono alcune persone in ostaggio. Spaventando a morte l’anziana donna, minacciano di uccidere un giornalista ogni ora se la loro richiesta di liberare tutti i prigionieri politici detenuti nella Germania Federale non verrà accolta. Durante la fuga dalla sede del giornale Mamma Küsters viene uccisa. Fassbinder racconta Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel come la storia di una donna buona, vergognosamente sfruttata dalla stampa, dalla Dkp e dai terroristi rossi per i propri interessi. Tutte le persone che incontra sostengono di volerla aiutare ma in realtà tentano di trarre profitto dal suo dolore. Mentre l’unica cosa che le sta a cuore è che il marito venga riabilitato e sui giornali si scriva la verità sul suo conto, la povera donna si trova all’improvviso e contro la propria volontà al centro di una battaglia politica irrimediabilmente al di sopra delle sue forze. Tuttavia Fassbinder nel film non racconta la vicenda come se si trattasse del dramma personale di una donna della classe operaia abbandonata e in gravi difficoltà, ma la usa per regolare i conti con la sinistra. Dipinge gli attivisti della Dkp, solo in apparenza solleciti nei riguardi di Mamma Küsters, come comunisti da salotto pieni di soldi. Fanno la voce grossa pontificando sui problemi della classe operaia ma vivono in case lussuose e indossano abiti tagliati su misura; e solo quando predicano contro il capitale ai raduni di partito infilano le giacche di pelle. Nel film la Dkp è diventata un partito borghese, per niente progressista, un partito che da tempo si è allontanato dai problemi dei lavoratori, a favore dei quali continua a sostenere di combattere. Il regista critica però anche le nascenti cellule di sinistra che considerano la violenza una soluzione, mostrando come le loro azioni dissennate non portino a niente. Nella conclusione originaria del film, in seguito bocciata, era stato ancora più drastico, facendo degli attivisti delle vere e proprie macchiette ridicole: quando vogliono occupare la redazione del giornale nessuno li prende sul serio, al punto che passa loro la voglia di compiere l’azione e si ritirano senza aver concluso niente.77 Non può dunque sorprendere che gli ambienti comunisti e della sinistra estrema si sentissero smascherati ed esposti al pubblico ludibrio e attraverso i propri organi di stampa reagissero screditando il film, che Fassbinder pretendeva venisse considerato una commedia.78 Quando, nel 1975, la pellicola fu proiettata per la prima volta alla Berlinale, scoppiarono dei disordini. Com’era accaduto in occasione di L’amore è più freddo della morte, il pubblico, che negli
anni precedenti era sempre stato ben disposto nei suoi confronti, lo attaccò con rabbia. L’acceso dibattito fu interrotto dopo la dichiarazione del regista: «Tutti quelli di sinistra sono degli idioti».79 Come premio per il suo odiatissimo «pastrocchio» gli venne consegnato un rotolo di carta igienica.80 L’opera, fino a oggi la più controversa tra quelle di Fassbinder, gli alienò «anche coloro che all’inizio avevano cercato di accaparrarselo».81 Dopo appena qualche giorno il film era già sparito dai cinema. Anche la critica non mostrò grande interesse per Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel, liquidato come ultravelleitario, «irritante, prepotente»82 o come «il film politico, almeno nelle intenzioni, di un regista apolitico».83 Dopo Il diritto del più forte e Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel, che avevano sollevato un gran polverone ed erano stati bocciati dal pubblico, il cineasta realizzò un altro film al femminile, Angst vor der Angst (t.l. Paura della paura), nonostante qualche mese prima avesse dichiarato conclusa quella serie.84 In Angst vor der Angst Margot Staudte, una donna dall’esistenza ordinata e protetta – interpretata da Margit Carstensen –, viene assalita, durante la seconda gravidanza, da una paura indescrivibile, difficile da comprendere sia per lei sia per coloro che la circondano; da quel momento tuttavia essa dominerà la sua vita. Anche dopo la nascita del secondo figlio, le sensazioni angosciose non cessano, e Margot non riesce a trovare nessuno in grado di aiutarla. La cerchia di persone a lei più prossima, di cui ha deluso le aspettative, comincia a considerarla un’estranea, e il marito, pur essendo premuroso nei suoi confronti, non le è di alcun sostegno. Un farmacista, che a un certo punto inizia una relazione con lei, le procura del valium senza ricetta, con cui la donna, da quel momento in poi, cerca, come con l’alcol, di allentare la morsa delle sue paure, isolandosi ulteriormente dal mondo circostante. L’unica persona con la quale Margot avrebbe forse potuto parlare delle cause delle sue angosce è un vicino di casa considerato pazzo che alla fine si impicca. Quando la sua salma viene portata via, Margot assiste alla scena senza tradire alcun turbamento, ma poi l’immagine sfuma davanti ai suoi occhi, ed è il segno che sta per avere un nuovo attacco di panico. Il finale è sospeso: non si sa se Margot riuscirà mai a dominare le proprie inquietudini o soffrirà di depressione per il resto della vita. Angst vor der Angst è il ritratto partecipe e particolarmente intenso di una donna sola e depressa, abbandonata ai propri problemi da chi la circonda. Poiché il regista si concentra solo sul punto di vista di Margot, che è l’unico personaggio del film in cui ci si possa identificare, lo spettatore è obbligato a confrontarsi continuamente con la sua situazione e soprattutto a riflettere sul modo in cui la società reagisce di fronte a individui che non «funzionano» come ci si aspetterebbe. Degno di nota è il fatto che nel film Fassbinder non abbia alcun interesse a nominare le cause che hanno scatenato le paure di Margot e il suo disturbo depressivo di personalità, sebbene fosse un tema che lo interessava molto: «In quasi tutti i miei film c’è un personaggio che ha qualcosa di psicosomatico».85 Se nel Mercante delle quattro stagioni al fruttivendolo viene un infarto per via dei suoi assilli e in La paura mangia l’anima il lavoratore straniero Alì si ammala di ulcera gastrica, in Angst vor der Angst Fassbinder rinuncia a spiegare in modo preciso l’origine delle paure di Margot, anche se si capisce che la protagonista, come Effi Briest, non mette in discussione il mondo in cui vive e dunque non è in pace con se stessa. Fassbinder pensava infatti: «Solo chi ha raggiunto la totale identità con se stesso non deve più avere paura della paura. E solo chi non ha paura può amare in modo disinvolto; è il traguardo estremo di ogni fatica umana: vivere la propria vita».86 Venendo dopo i più controversi Il diritto del più forte e Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel anche Angst vor der Angst non ebbe un grande successo di pubblico, ma Fassbinder non si lasciò abbattere. Gli insuccessi e le critiche negative non riuscirono a scoraggiare il regista, che aveva altri criteri per valutare la riuscita di un film: «Si tratta davvero solo di me e dei miei amici. La sola cosa che conta è se siamo soddisfatti, se stiamo bene, se abbiamo fatto un film e ne siamo convinti».87 Un’affermazione confermata da Thea Eymèsz, sua montatrice per molti anni: «Fassbinder lavorava davvero senza curarsi delle sconfitte. Cominciava un nuovo film, conservando il suo stile, senza badare al fatto che l’ultimo non aveva avuto successo. Rimaneva sempre fedele a se stesso, e questo io lo trovavo fantastico».88
Mi fraintendono nel modo più indegno 1974-1977
Nel dicembre del 1973, nel corso di una conferenza stampa, fu reso noto che Fassbinder avrebbe assunto, per la stagione 1974-75, la direzione del Theater am Turm di Francoforte. Anche se alla fine esercitò la carica solo per breve tempo, quell’esperienza doveva lasciare un segno profondo nella sua vita. Per annunciare questa novità considerata sensazionale, il regista, con alcuni degli attori che pensava di portare con sé a Francoforte, era andato fin sulle rive del Meno e si era sottoposto alle domande dei giornalisti. La stampa riferì euforica la grande notizia: Fassbinder prendeva le redini del Theater am Turm, un tempo rinomato, ma da parecchio ormai in declino. Alla domanda sul perché avesse accettato l’incarico, Fassbinder rispose: «Per la possibilità che mi si offre di lavorare in una struttura prendendo autonomamente le decisioni necessarie e perché Francoforte è una delle città più vivaci della Germania».1 Si confidava nella capacità del cineasta di risollevare con la sua creatività – e con la sua fama – le sorti di quel palcoscenico decaduto. Anche Fassbinder si mostrò fiducioso e annunciò che da quel momento in poi, per potersi concentrare di più sul teatro, avrebbe fatto solo due film all’anno: «Uno per la televisione e l’altro per il cinema, sarebbe il mio sogno».2 Al Theater am Turm vigeva da anni il principio – considerato allora progressista – della cogestione, secondo il quale le decisioni non venivano prese dal direttore in autonomia ma congiuntamente, attraverso assemblee plenarie, cui partecipavano tutti coloro che erano alle dipendenze del teatro. Anche se Fassbinder aveva accettato questa condizione durante le trattative per il contratto, che per suo desiderio si erano tenute in un locale gay di Berlino,3 ignorò poi completamente quel principio quando, preparandosi al trasferimento, si immerse nella stesura del programma, come ricorda Kurt Raab: «Già parecchio tempo prima dell’inizio della sua direzione, attesa con impazienza, era stato deciso tutto quello che sarebbe dovuto accadere in teatro, fin nei minimi dettagli».4 Fassbinder non aveva accettato la proposta dello zelante responsabile della cultura Hilmar Hoffmann solo per avere, oltre ai film, una seconda entrata per sé e per i suoi attori; gli piaceva soprattutto l’idea di poter riprendere l’esperienza dell’ActionTheater e dell’antiteater, ipotesi confermata anche dal fatto che tra gli attori che dovevano seguirlo a Francoforte c’era Ursula Strätz, fondatrice dell’Action-Theater. Ma non tutti i collaboratori di un tempo erano entusiasti di dover lavorare sotto la direzione di Fassbinder. Hans Hirschmüller, anche lui dall’inizio nell’Action-Theater, aveva previsto in anticipo le rogne che sarebbero emerse e aveva declinato l’invito: «Rainer, intendente? Sapevo che non poteva andar bene, e in effetti è successo quel che è successo. Il genere di tensioni che ci si doveva aspettare in una situazione come quella, non volevo infliggermele, così non sono andato a Francoforte. Lui se l’è presa parecchio, soprattutto perché invece della sua offerta ho accettato quella di Zadek e sono andato a Bochum. A quel punto c’è stata la rottura definitiva tra noi».5 Altri capirono soltanto a Francoforte che non era stata una buona idea seguirlo; così accadde per esempio a Irm Hermann, la quale, durante la collaborazione al Theater am Turm, dove conobbe il futuro marito, si staccò definitivamente dal gruppo-Fassbinder: «Preferivo non lavorare affatto, preferivo star sola. Non ne potevo più di Rainer».6 Fassbinder non riusciva a capire le riserve del suo entourage, per lui non era che un inizio nuovo e molto promettente. Voleva trasformare il Theater am Turm nella sua palestra di sperimentazione, era pieno di progetti e di voglia di fare. Con Peter Zadek discuteva la sua idea di mettere in scena film famosi trasformandoli in pièce teatrali: «Per esempio, coltivò per anni l’idea di mettere in scena Bringing up Baby (Susanna!).7 Abbiamo discusso un sacco di volte di come si potesse portare sulla scena il leopardo. Era il nostro problema principale. Ma non l’abbiamo risolto».8 Nell’aprile del 1974 Fassbinder si trasferì a Francoforte per preparare la sua prima stagione da direttore, il cui inizio era previsto in autunno. Al Turm erano tutti convinti che sarebbe rimasto per almeno tre anni. In realtà, fu presto chiaro che il nuovo compito richiedeva a Fassbinder un
impegno eccessivo perché, contrariamente alle esperienze teatrali avute in precedenza, questa volta non si sarebbe dovuto occupare soltanto degli aspetti puramente artistici, ma anche di rimediare al dissesto del teatro, nonché di questioni amministrative e di innumerevoli contrasti interni. Mentre a Brema e a Bochum aveva lavorato per istituzioni efficienti e aveva avuto mano libera nei suoi allestimenti, a Francoforte doveva presiedere le assemblee di attori e maestranze, e tenere ben salde le redini della illustre impresa teatrale cittadina. Come c’era da aspettarsi, l’idea di una gestione democratica gli era del tutto estranea. Poiché prendeva per conto proprio tutte le decisioni fondamentali, sotto la sua direzione le assemblee furono un mero pro forma, venivano semplicemente convocate per presentare le sue proposte agli altri, i quali – essendo alle sue dipendenze – non potevano far altro che approvarle; una situazione che in breve tempo portò a un malcontento generale. «La cogestione è sempre stata per lui un’appendice fastidiosa che cercava di trascinarsi dietro, ma poi, non appena ne aveva la possibilità, la calpestava rendendola ininfluente.»9 Avrebbe anche avuto il compito di appianare i dissapori all’interno del gruppo, ma con il suo gusto per la provocazione e per l’escalation, non faceva che seminare altra zizzania. Come ai tempi dell’antiteater, inaspriva le tensioni che già covavano, ma in un teatro sovvenzionato con fondi pubblici un tale atteggiamento doveva portare inevitabilmente al caos. Il collettivo del Theater am Turm reagì con scarso entusiasmo alla scelta di Fassbinder di portare con sé molti suoi attori, tra i quali: Margit Carstensen e Irm Hermann, Ingrid Caven e Brigitte Mira, Karlheinz Böhm, Gottfried John e Peter Chatel, Peter Kern, Volker Spengler e Kurt Raab. Come se non bastasse, quest’ultimo era stato nominato direttore del collettivo e chiamato a sostenere Fassbinder nel suo lavoro. Così quella troupe eterogenea e raffazzonata divenne ben presto «un vero pandemonio, in cui ognuno diffidava dell’altro».10 Non giovava al clima generale il fatto che il regista suddividesse gli attori in un gruppo di serie A e uno di serie B – «dilettanti» e «attori di stato» – e che a ciascuno venissero assegnate parti più o meno importanti a seconda della sua benevolenza. Se in occasione dell’allestimento di Katzelmacher – sua seconda opera in veste di regista teatrale – si era preoccupato che tutti gli attori ricoprissero ruoli di pari livello e potessero essere soddisfatti del loro coinvolgimento nella pièce,11 ora l’attribuzione delle parti, essendo anche legata a compensi diversi, divenne occasione di veri e propri giochi di potere. Per di più Fassbinder decideva quali attori potessero recitare, oltre che a teatro, anche nei suoi film, cosa che fu motivo di ulteriori contrasti. Il regista adottò questo principio già al suo debutto a Francoforte, con il primo allestimento di Germinal, come ricorda Yaak Karsunke, al quale Fassbinder aveva affidato il compito di scrivere un adattamento del romanzo di Émile Zola: «Venne da me e mi pregò di ricavarne una pièce con molti ruoli. Queste erano le sue direttive, così avrebbe dato lavoro a tutto l’ensemble. Ricevetti la precisa indicazione di creare ruoli principali, secondari e minori in modo tale da poterli distribuire tra gli attori secondo quel principio».12 Nel settembre del 1974, a Francoforte, dopo i primi spettacoli sotto la sua direzione, gli umori della stampa, che aveva visto con molto favore l’arrivo di Fassbinder, cambiarono improvvisamente. La sua trasposizione di Germinal aveva deluso i francofortesi; il pubblico del debutto reagì con scetticismo, le pagine culturali dei giornali parlarono molto dell’allestimento ma accolsero la regia di Fassbinder con una certa titubanza. Anche la seconda rappresentazione, la Signorina Julie di Strindberg, fu un modesto successo. Così non ci fu l’auspicato rullo di tamburi con cui Fassbinder e il Theater am Turm si sarebbero dovuti mettere alla testa dell’avanguardia del teatro tedesco, né ci fu l’atteso afflusso di spettatori: alla fine del 1974 il tetto minimo di incassi previsto di 100mila marchi non era infatti stato raggiunto. Per i responsabili della municipalità fu dunque chiaro che Fassbinder non avrebbe salvato il teatro dalla crisi in cui si trovava. Inoltre non era più un mistero per nessuno che il collettivo era incontrovertibilmente lacerato dai dissidi interni e anche il regista aveva perso ogni entusiasmo per quel nuovo incarico. Per paura che le lotte intestine da lui stesso attizzate nonché i gravosi incarichi amministrativi potessero soffocare la sua creatività, Fassbinder si assentava improvvisamente – e con sempre maggior frequenza – per lunghi viaggi, abbandonando l’ensemble a se stesso. Come se non bastasse, spediva a Francoforte sarcastiche cartoline: «Non datevi troppo da fare, non servirà comunque».13 Nemmeno il colloquio che ebbe luogo nel febbraio del 1975 tra Fassbinder e Hilmar Hoffmann – il quale aveva sperato che, grazie al regista, il Theater am Turm sarebbe tornato a essere uno dei principali teatri sperimentali tedeschi – portò a un miglioramento della situazione. Il problema di fondo, fra tutte quelle difficoltà, non era soltanto che Fassbinder non fosse l’uomo giusto per coordinare e dirigere la complessa impresa teatrale, ma piuttosto che a Francoforte erano venute alla luce in modo sempre più evidente le sue lacune come regista di teatro. Il suo stile di lavoro, che nell’epoca anarchica dell’antiteatro, con un collettivo di attori molto affiatato,
aveva dato buoni frutti, al Theater am Turm non funzionava. Abituato al ritmo veloce delle sue produzioni cinematografiche, perdeva facilmente la pazienza dovendosi occupare a lungo di un’unica pièce, e questo fu un grande ostacolo, come conferma Ingrid Caven: «Non era cosa per lui».14 Ovviamente gli attori percepivano la sua insofferenza. «Convocava le prove e poi alle prove si annoiava»,15 sostiene Gottfried John, che lo riteneva un bravo cineasta ma non pensava fosse portato per il teatro. Anche Karlheinz Böhm, il quale aveva avuto una parte nell’allestimento dello Zio Vanja di Čechov, conferma questa impressione: «A me pareva che Fassbinder avesse gravi carenze come regista di teatro, era troppo impaziente e voleva lavorare in fretta, come quando filmava, ma al tempo stesso pretendeva la precisione assoluta. Ma la pazienza in teatro è una delle premesse fondamentali».16 Per ragioni analoghe Eva Mattes aveva rifiutato, all’ultimo minuto, l’offerta di seguire Fassbinder a Francoforte. La disturbava che lui affrontasse gli allestimenti con progetti già fatti e finiti, e che sulla scena si aspettasse dagli attori la mera esecuzione delle sue idee invece di elaborare con loro i ruoli. «Trovavo insopportabile il suo comportamento, lo consideravo frustrante e noioso, non avevo nessuna voglia di fare teatro in quel modo.»17 Altra frustrazione era dovuta al fatto che sempre più spesso, durante le prove, Fassbinder tendeva a fare delle scenate che avvelenavano ulteriormente il clima già teso. Durante la messinscena della Signorina Julie di Strindberg, in cui interpretava il ruolo del servitore Jean, se la prendeva per esempio con la regista Ulla Stöckl e la insultava davanti a tutti, finché lei non gettò la spugna. Anche John, ingaggiato poi come sostituto, non gli andò bene e fu cacciato. Poiché la stampa locale cominciò a riferire con regolarità delle liti e del caos che regnavano al Theater am Turm, il pubblico fu messo al corrente degli scontri ripetuti e persino violenti tra i membri dell’ensemble, cosicché non fu più un segreto per nessuno che la direzione di Fassbinder rischiava di finire in un fiasco, mentre il teatro somigliava sempre più a un cumulo di macerie. Anche lo stile di vita del regista divenne un tema di discussione ricorrente, ricorda Hilmar Hoffmann: «A Francoforte Fassbinder abitava in una comune di artisti nel quartiere di Nordend e si stava impegolando in situazioni difficili, situazioni che tutti sapevano incompatibili con i regolamenti comunali».18 Sempre più scontento, provocava di continuo nuovi scandali, come quando rispose a una giornalista: «Lei forse se ne intende di scopate, ma certo non capisce niente di teatro».19 Uscite di questo genere sollevavano ondate di indignazione e furono ben presto all’ordine del giorno. Per il critico Peter Iden, che aveva partecipato a una conferenza stampa del teatro finita tra terribili insulti e lanci di bottiglie, nell’aprile del 1975 non rimaneva che «una sola possibilità di risolvere la faccenda: chiudere tutto. Con o senza dignità, è indifferente – l’importante è chiudere, mettere fine alla questione».20 La fine della breve epoca Fassbinder era ormai effettivamente vicina. Solo un mese dopo la profezia di Peter Iden esplose un’accanita disputa a proposito dell’ultimo allestimento del regista, una controversia che ebbe subito una vasta eco sui giornali di tutta la Germania. Fin da quando aveva accettato la direzione del teatro, il regista aveva dichiarato di voler mettere in scena un’opera su Francoforte. In un primo momento si era deciso che la pièce venisse elaborata e discussa all’interno del collettivo ed era stato creato un gruppo di lavoro apposito che raccoglieva idee e materiali e si occupava soprattutto della speculazione edilizia che aveva ormai quasi distrutto Westend, un tempo quartiere residenziale e signorile. Elaborata sulla base dei materiali assemblati dal collettivo, la pièce, intitolata Bahnhofsrevue (t.l. Il varietà della stazione), fu però respinta da Fassbinder, che la giudicò malriuscita, e dopo poche rappresentazioni venne tolta dal cartellone. Il regista decise quindi di scrivere un proprio testo su quel tema. Ispirandosi al romanzo del francofortese Gerhard Zwerenz Die Erde ist unbewohnbar wie der Mond (t.l. La Terra è inabitabile come la Luna), e riprendendone alcuni spunti e personaggi, Fassbinder scrisse in un battibaleno I rifiuti, la città e la morte (Der Müll, die Stadt und der Tod) con cui doveva aprirsi la stagione 1975. Vi si racconta in modo frammentario di una serie di personaggi che sembrano ripresi dal repertorio dei primi film gangster del regista. Al centro della trama c’è una prostituta di nome Roma, figlia dell’ex sorvegliante di un campo di concentramento, che viene mandata a battere dal piccolo gangster nonché protettore Franz. Un ricco speculatore immobiliare ebreo – persona vendicativa e senza scrupoli –, che nella pièce viene chiamato soltanto «il ricco ebreo», le offre la possibilità di diventare una call girl della buona società. I suoi intrighi vengono coperti dall’amministrazione cittadina, e per via dei profitti lavorano tutti volentieri con lui, anche se non lo amano o addirittura lo disprezzano. Costretta a prendere atto di come funzionano i meccanismi del potere in città, Roma è sempre più depressa e amareggiata. Alla fine prega il ricco ebreo di ammazzarla, cosa che costui effettivamente fa, senza nemmeno dover subire un processo, perché il capo della polizia, pur sapendo come sono andate le cose, attribuisce l’omicidio a Franz.
Nella pièce Fassbinder mette in scena alcuni stereotipi; ogni personaggio che vi compare è lo specchio di un pregiudizio sociale e tutti vengono ridotti a cliché – Roma e Franz al pari dello speculatore ebreo o dei suoi antagonisti antisemiti. Il regista doveva essere consapevole di quanto fosse esplosiva la sua opera; in fondo non solo aveva scelto, con il tema della speculazione edilizia nel quartiere di Westend, uno dei punti più dolenti della storia recente di Francoforte, ma aveva anche infranto un tabù, mettendo in scena degli antisemiti e un imprenditore edile ebreo provvisto di tutti i cliché. La rottura di questo tabù era particolarmente attuale; in città infatti correva voce che il Consiglio regionale a maggioranza socialdemocratica «in combutta con degli speculatori ebrei, fosse intenzionato a “radere al suolo” i quartieri residenziali borghesi».21 Come scrive Harry Baer, Fassbinder, con la sua decisione di dedicarsi proprio a quella situazione confusa e spinosa, «affrontando il tema in modo incurante e giustizialista come faceva sempre»,22 mise proprio il dito nella piaga, al fine di portare alla luce le irregolarità che le autorità cittadine, ovviamente, volevano coprire. Quando la municipalità fu informata da alcuni membri adirati dell’ensemble sui contenuti scottanti della pièce, di cui si erano cominciate le prove a maggio, suonarono tutti i campanelli d’allarme. Bisognava assolutamente impedire che l’opera fosse rappresentata, così fu deciso di provocare intenzionalmente una lite con Fassbinder, che a quel punto era già comunque molto malvisto a Francoforte. Nel momento in cui gli rifiutarono il compenso per un nano che avrebbe voluto ingaggiare per I rifiuti, la città e la morte, Fassbinder lasciò dunque, dopo un solo anno, la direzione del Theater am Turm. La municipalità accolse subito e con evidente sollievo le dimissioni. Fassbinder credeva però di poter ancora mettere in scena la sua ultima pièce al Theater am Turm, da regista indipendente, ma la città di Francoforte, che era il soggetto titolare del teatro, dispose l’immediata interruzione delle prove. Indignato e convinto del fatto suo, a quel punto Fassbinder annunciò direttamente allo Spiegel il suo definitivo commiato: «A partire dal mese di agosto l’industria culturale tedesca dovrà fare a meno di me»,23 e lasciò la città alla volta di Parigi. Il progetto di ripiego, che prevedeva di debuttare altrove con una produzione autonoma,24 si dimostrò irrealizzabile. I rifiuti, la città e la morte fu rappresentato per la prima volta solo nel 2009. Lo scandalo esploso sui giornali per l’inglorioso finale dell’intendenza di Fassbinder al Theater am Turm fece sì che intorno alla pièce, di cui allora in pochi sapevano, nascessero le voci e le leggende più disparate. Per dare a un più vasto pubblico la possibilità di capire di cosa si trattasse, l’editore Suhrkamp di Francoforte pubblicò nel marzo del 1976 un’edizione in volume di I rifiuti, la città e la morte, e visto il vivo interesse spedì, già qualche settimana prima, diverse copie alla stampa. Il biografo di Hitler, Joachim Fest, in una recensione, definì la pièce una «diffamazione gratuita ispirata a cliché dozzinali» accusando Fassbinder di essere l’esponente di un nuovo «fascismo di sinistra»,25 una presa di posizione con cui il condirettore della Frankfurter Allgemeine Zeitung scatenò una polemica dai toni esasperati. Molti critici seguirono le orme di Fest e diedero giudizi analoghi. La Stuttgarter Zeitung, per esempio, sosteneva di riconoscere in Fassbinder i segni di un nuovo antisemitismo. In particolare si criticava il fatto che il concetto di ebreo, nella sua pièce, avesse una valenza esclusivamente negativa e che «il ricco ebreo» fosse inoltre l’unico personaggio che non portasse un nome al di là di quella generica definizione. Marcel ReichRanicki, che svilì l’opera di Fassbinder definendola «priva di valore letterario» e «un lavoro raffazzonato, odioso», riteneva però che quel testo così controverso fosse un importante documento dell’epoca: «Per quanto goffa e brutale essa sia, la pièce segnala un preciso problema della Germania Federale: il rapporto con gli ebrei. Fu coniata allora l’espressione “fine della tregua”».26 Di lì in poi la discussione sulla pièce si sviluppò autonomamente. Ben presto la questione fu se nella Repubblica Federale Tedesca fosse o meno consentito criticare pubblicamente il comportamento di un ebreo, una domanda che coinvolgeva anche il rapporto tra Israele e i paesi arabi confinanti. Senza averne l’intenzione Fassbinder aveva scatenato un dibattito sui massimi principi politici e sociali. Preoccupato per il buon nome della casa editrice Suhrkamp, Siegfried Unseld, a fronte di una controversia che andava facendosi sempre più aspra, dispose personalmente di mandare al macero tutte le copie di I rifiuti, la città e la morte e motivò questa sua scelta, unica nella storia della casa editrice, il 9 aprile 1976 sulla Zeit, sostenendo che la pièce di Fassbinder poteva «suscitare malintesi».27 Solo nel 1984 l’opera, diventata un documento politico, fu ripresa dal Verlag der Autoren. In quello stesso anno vi fu un primo vano tentativo di metterla in scena alla Alte Oper di Francoforte, ma l’iniziativa fallì per l’intervento della municipalità, anche se importanti personalità del teatro come Peter Zadek e Heiner Müller l’avevano sostenuta con forza. Nel 1985, dieci anni dopo essere stata scritta e tre dopo la morte di Fassbinder, la pièce fu infine allestita a
Francoforte, e suscitò uno scandalo ancora più grande di quello originario. I membri della comunità ebraica, che rimproveravano alla città di «sovvenzionare l’antisemitismo», con il loro presidente Ignatz Bubis, uno speculatore immobiliare coinvolto nelle vicende del quartiere di Westend – probabilmente servito da modello per il personaggio del «ricco ebreo» –, occuparono il palcoscenico impedendo così il debutto. «Questa pièce non deve andare in scena» dichiarò categoricamente Bubis.28 Dopo che anche il Parlamento israeliano si fu occupato a fondo del caso chiedendo poi ufficialmente alla Repubblica Federale di cancellare tutte le rappresentazioni, I rifiuti, la città e la morte fu di nuovo tolto dal cartellone.29 Fassbinder, che con film come Katzelmacher e La paura mangia l’anima aveva già largamente dimostrato quanto la mentalità razzista gli fosse assolutamente estranea, sosteneva la sua opera, ritenendo evidente che i pregiudizi antisemiti manifestati da alcuni personaggi nella pièce non davano voce alla sua opinione ma volevano semplicemente rispecchiare un problema reale. A un giornalista dichiarò che I rifiuti, la città e la morte tralasciava «di proposito determinate precauzioni. […] E questo lo trovo del tutto corretto».30 Il regista, che pretendeva di esercitare la propria libertà di artista, era profondamente convinto che in un contesto democratico dovesse essere consentito, per qualunque tematica, anche un approccio radicale e non convenzionale. Vi fu anche una presa di posizione pubblica: «La mia pièce I rifiuti, la città e la morte viene accusata di antisemitismo. Con tale pretesto mi vengono attribuite tesi e interpretazioni che non hanno niente a che vedere con me e con la mia pièce. […] Bisognerebbe chiedersi quali siano le ragioni di coloro che si oppongono al fatto che si parli di certe cose».31 Fassbinder insisteva con forza che dovesse essere possibile dare una connotazione negativa anche a un personaggio ebreo. «Trovo al contrario che sia antisemita parlare degli ebrei e di altre minoranze esclusivamente in termini positivi, solo perché si tratta di minoranze.»32 Così nel testo non solo c’è il ricco ebreo che si vanta del fatto che la città lo protegge nei suoi loschi affari soltanto perché è ebreo,33 l’autore fa dire anche a personaggi dichiaratamente antisemiti: «Tutto ci sta succhiando, l’ebreo. Beve il nostro sangue e ci fa passare dalla parte del torto, perché lui è ebreo e noi siamo colpevoli».34 Con frasi del genere Fassbinder cercava di mostrare come funziona l’antisemitismo, trovava perciò assurdo che lo si accusasse di esprimere in questo modo la propria opinione. Ma non era nello stile di Fassbinder farsi mettere a tacere. Quando ancora imperversava la discussione, da I rifiuti, la città e la morte fu tratto un film. Subito dopo essersene andato da Francoforte, a Parigi, il regista rielaborò la pièce trasformandola in una sceneggiatura per un film che lo svizzero Daniel Schmid, amico di vecchia data, realizzò a Vienna nel 1975. La pellicola, che si attiene fedelmente al testo teatrale, fu intitolata Schatten der Engel (Ombra degli angeli), e vede Fassbinder nel ruolo del protettore, Ingrid Caven in quello della prostituta e infine Klaus Löwitsch nel personaggio del ricco ebreo. Dopo la prima alle Giornate cinematografiche di Soletta nel gennaio del 1976, il film passò quasi inosservato in alcune sale cinematografiche tedesche per poi scomparire rapidamente dai cartelloni. Lo scandalo esplose solo quando, nell’estate del 1976, Schatten der Engel approdò in concorso a Cannes, come contributo della Svizzera, e la delegazione israeliana, senza nemmeno aver visto il film, abbandonò il festival per protesta. Nella spietata campagna diffamatoria su I rifiuti, la città e la morte Fassbinder, diventando il capro espiatorio dell’industria culturale tedesca, non fu solo ingiuriato e accusato di essere un «fascista di sinistra», ma furono messe in dubbio anche le sue qualità di regista. Sulla Zeit del 15 ottobre 1976 Hans-Christoph Blumenberg constatava per esempio che da Effi Briest in poi i film di Fassbinder non erano altro che «piagnistei senza fine sulle brutture del mondo».35 In seguito alle stroncature e soprattutto alle numerose accuse di antisemitismo, il regista non poté realizzare molti dei progetti già avviati, una situazione in cui non si trovava più da molto tempo. Quand’era ancora a Francoforte, Fassbinder aveva scritto per esempio una sceneggiatura tratta dal romanzo di Gerhard Zwerenz Die Erde ist unbewohnbar wie der Mond. Per la produzione, programmata originariamente nel 1977, era previsto un budget di 1,5 milioni di marchi: «Sarebbe il primo film per il quale ho veramente dei soldi. La più costosa tra tutte le mie produzioni».36 Il sostegno promesso dalla Filmförderungsanstalt per l’ammontare di 600mila marchi però non fu assegnato, perché la commissione giudicatrice mise improvvisamente in dubbio la redditività del progetto e inoltre cominciò a temere che il film corresse il pericolo «di confermare pregiudizi antisemiti o addirittura di suscitarne altri della stessa natura», provocando così «danni incalcolabili dentro e fuori della Germania», come si può leggere nella lettera di rifiuto. «Il protagonista del film, l’ebreo Abraham, corrisponde esattamente in tutte le sue caratteristiche a quel cliché del nemico che Hitler ha descritto nell’undicesimo capitolo del Mein Kampf, “Popolo e razza”.»37 Il ricorso di Fassbinder contro questa decisione non portò a niente, ma lui non si diede per vinto: «Il film lo faccio comunque! Se non posso farlo qui, lo faccio all’estero! Dovessi aspettare dieci anni!».38 Tre
anni dopo dichiarò in un’intervista che sperava di disporre prima o poi di una quantità di denaro sufficiente per poter realizzare con le proprie forze anche un progetto di quelle dimensioni: «Un giorno riuscirò a fare questo film senza nessun aiuto esterno e al livello che dico io».39 Poiché però il film che aveva in mente non si poteva fare con un budget ridotto, e lo stato continuava a negargli il sostegno, la pellicola non vide mai la luce. A causa di quel generico sospetto di antisemitismo che ormai lo marchiava, il progetto fallì, così come doveva naufragare l’idea di un adattamento televisivo – in serbo da tempo – del romanzo di Gustav Freytag Soll und Haben (Dare e avere), che Fassbinder aveva concepito come un’opera sulla nascita e lo sviluppo dell’odio antisemita in Germania. Il regista non voleva però far terminare la storia di Freytag all’epoca di Bismarck, ma proseguirla nella Repubblica di Weimar e nel Terzo Reich, fino alla Repubblica Federale, per mostrare con quale facilità i valori borghesi, cui andava ascritto anche un latente antisemitismo, fossero stati ripresi dall’ideologia nazionalsocialista e continuassero ad agire nella società repubblicana. Il suo progetto di accompagnare lungo più generazioni la storia di una famiglia ebrea era estremamente visionario: qualche anno dopo, la serie americana Holocaust seguì proprio quella stessa traccia ed ebbe un grande successo, soprattutto in Germania. Dopo la ferrea opposizione della Frankfurter Allgemeine Zeitung al fatto che il regista, in un film sull’antisemitismo, ritraesse degli antisemiti, il direttore del Wdr fermò immediatamente il progetto appena commissionato. Persino anni dopo Fassbinder si dichiarava indignato per quella decisione: «Quel film fu vietato dal direttore del Westdeutscher Rundfunk che non aveva nemmeno preso in considerazione il trattamento. Si rifiutò addirittura di esaminare il dossier».40 Anche se Fassbinder nelle interviste negò sempre di essere stato ferito dalle accuse di antisemitismo, l’esperienza di Francoforte e le sue conseguenze rappresentarono per lui un grave trauma. All’aggressività che di colpo gli era stata riversata addosso reagì poi con spaventose provocazioni. Così, per esempio, in preda ai fumi dell’alcol dichiarò di essere la reincarnazione di Adolf Hitler; parlò vaneggiando di «congiura ebraica»;41 a una sua festa di compleanno fece intonare canzoni naziste;42 infine una volta a Parigi, mentre era in giro in automobile con amici, tirò giù il finestrino e a ogni semaforo salutò i passanti con il braccio alzato e un «Heil Hitler».43 Lo scrittore Gerhard Zwerenz conferma che la faccenda di Francoforte tracciò un solco profondo nella vita di Fassbinder: «Dopo quella polemica Rainer non fu più lo stesso. Quella campagna diffamatoria lo portò, sia nel privato che sul piano artistico, su un’altra strada».44 In seguito alle esperienze deludenti e umilianti al Theater am Turm, Fassbinder dichiarò di non voler mai più fare regie teatrali.45 E in effetti, da quel momento in poi, accettò una sola regia,46 ma non scrisse mai più una pièce. Rivide radicalmente anche il rapporto con il suo paese. Nell’estate del 1977 dichiarò allo Spiegel: «Se la situazione continua a peggiorare, preferisco fare lo spazzino per le strade del Messico piuttosto che il cineasta in Germania».47
The Most Original Talent since Godard Mentre in Germania, a metà degli anni settanta, Fassbinder doveva lottare con le cattive recensioni e le sgradevoli turbolenze della sua avventura francofortese, tra i cineasti stranieri, e in particolare in America, stava diventando una star. Già a partire dal 1971 veniva regolarmente invitato al New York Film Festival per presentare i suoi film48 e dopo il successo a Cannes nel 1974 di La paura mangia l’anima era sempre più al centro dell’attenzione. Quando, un anno più tardi, Il diritto del più forte, distribuito negli Stati Uniti con il titolo Fox and His Friends, fu presentato alla rassegna newyorkese, Vincent Canby, critico americano del New York Times tra i più importanti e influenti, dichiarò che Fassbinder era una delle più grandi scoperte del New York Film Festival. Il regista tedesco, allora, non si era fatto sfuggire l’occasione ed era partito con il suo seguito per gli Stati Uniti, e pare abbia pianto nel vedersi sul grande schermo.49 Vincent Canby spalancò a Fassbinder le porte del successo in America. Ai suoi lettori lo presentò come «il maggior talento dopo Godard» e come il «più affascinante, dotato, produttivo, originale giovane regista della Repubblica Federale Tedesca».50 Questo accrebbe ulteriormente la curiosità nei confronti dei suoi film e fece sì che a New York nella primavera-estate del 1977, con un forte investimento commerciale, gli venisse dedicata una retrospettiva di sedici film che lo rese ancora più noto oltreoceano. La rassegna si apriva proprio con Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel, stroncato brutalmente in Germania da critica e pubblico. Al New York Film Festival invece la pellicola fu accolta con grande entusiasmo e incassò nell’arco di una sola settimana ben 20mila dollari.51 Molti anni dopo Vincent Canby si mostrava ancora estasiato da quel suo primo
incontro con i film di Fassbinder: «È stato come cozzare improvvisamente contro la tomba di un Tutankhamon ancora vivo e vegeto. Vedemmo uno spettacolo mozzafiato, un dispiegamento di ricchezze il cui valore era senza dubbio aumentato dal fatto che i film venivano mostrati in un’unica proiezione non stop, cosicché si intuiva lo stretto rapporto di ogni singola pellicola con tutte le altre. Di occasioni come questa non ce ne sono molte nella vita per un critico cinematografico. Né si trova spesso un talento così fuori del comune, divertente e irritante».52 L’International Film Guide condivideva l’entusiasmo dell’illustre critico e nominò Fassbinder – primo regista tedesco a ottenere questo titolo – «Director of the Year». All’estero Fassbinder rappresentava ormai l’identità della Germania occidentale e il New York Times lo elesse addirittura a «Messia del nuovo cinema tedesco».53 Questa ascesa a regista-star di chiara fama internazionale dovette essere un balsamo per la sua anima – strapazzato com’era in Germania. Il fatto poi di essere riuscito a trovare un distributore per i suoi film negli Stati Uniti, cosa tutt’altro che automatica, sottolineava ulteriormente la sua posizione privilegiata nel panorama del cinema internazionale. Fino a quel momento il pubblico americano si era mostrato piuttosto scettico nei confronti dei film stranieri, in particolar modo di quelli tedeschi, come avevano potuto sperimentare loro malgrado sia cineasti del rango di Volker Schlöndorff, Alexander Kluge o Werner Herzog, ai cui film gli americani avevano reagito con un rifiuto, sia gli attori in cerca di fortuna negli Stati Uniti. Mario Adorf, che già negli anni sessanta aveva girato film oltreoceano – dove era stato definito «attore degli unni» –, lo conferma: «La guerra era finita da più di vent’anni e io continuavo a incontrare americani che in ogni tedesco intravedevano un nazista».54 Fassbinder invece, portavoce di un cinema capace di confrontarsi criticamente con il passato e il presente della nazione tedesca, veniva accettato in tutto e per tutto. Per merito suo la Germania divenne all’improvviso il paese più interessante del mondo in fatto di cinema. Poiché in patria si sentiva sempre più incompreso come artista e aveva pure l’impressione di essere boicottato – tanto che aveva perso la voglia di lottare con le istituzioni, gli enti per la promozione cinematografica e i responsabili dei programmi –, nessuno si stupì quando cominciò a parlare di emigrazione né quando, nell’estate del 1977, annunciò che avrebbe lasciato la Repubblica Federale per andare a lavorare a Hollywood: «Non ho voglia di continuare a vivere in Germania. Forse dipende solo da me, ma ho la sensazione che qui il clima sia molto provinciale. […] È sempre più difficile riuscire a fare i film che si vorrebbe fare».55 Il regista aveva cominciato presto a guardare all’altra sponda dell’Atlantico, ricorda Michael Ballhaus: «Da molto tempo aveva un agente negli Stati Uniti; parlavamo spesso di come avremmo potuto girare un film in America».56 Già nel 1975 Fassbinder, alla domanda se gli sarebbe piaciuto fare un film negli Usa, aveva risposto: «Sì, ma devo poterci vivere, fare delle esperienze, prima di riuscire a girare un film. Non posso fare un film semplicemente così. Deve venirmi da dentro, deve fluire».57 Dopo il fallimento di Die Erde ist unbewohnbar wie der Mond e Soll und Haben – due progetti a cui teneva molto – e nel timore di dover subire una «castrazione della fantasia»,58 nel caso in cui fosse rimasto in Germania, decise che non aveva più tempo da perdere né voglia di continuare a buttare le sue energie nella lotta contro quei tedeschi pieni di dubbi che gli mettevano i bastoni tra le ruote: «Penso che a Hollywood avrò più libertà, perché il loro interesse è principalmente commerciale. Da quattro anni mi ronza nelle orecchie quello che mi ha detto Douglas Sirk: “Vai in America!”. Sostiene che mi daranno una possibilità, visto che al momento si sono messi in testa che posso farli guadagnare».59 Sebbene la stampa tedesca nell’estate del 1977 avesse ripetutamente parlato dei progetti di emigrazione di Fassbinder, a settembre giunse la svolta inattesa. Il regista annunciò che avrebbe realizzato con il Wdr una serie in più puntate tratta dal romanzo di Alfred Döblin Berlin Alexanderplatz. Nonostante l’arrabbiatura per il rifiuto del progetto Soll und Haben, Fassbinder aveva subito accettato l’offerta perché da tempo covava il desiderio di trarre un film dal suo libro preferito. Così, i piani per trasferirsi in America furono momentaneamente congelati. Il regista continuò comunque ad accarezzare l’idea di girare, prima o poi, un film a Hollywood e di vivere a New York. I suoi propositi si fecero un po’ più concreti quando al Festival di Cannes conobbe Richard Gere. Agli esordi nell’industria cinematografica, l’attore aveva appena realizzato i suoi primi film ma veniva già ritenuto un nuovo James Dean. A Gere, un fan del Nuovo cinema tedesco, interessava collaborare con un regista europeo, e tra tutti aveva scelto Fassbinder, che sembrava esercitare su di lui «un fascino incredibile»: «Ovunque si andasse Richard era già lì, da qualche parte, in un angolo».60 Gere corteggiava il famoso regista tedesco, il quale, lusingato, a sua volta reputava che il giovanotto fosse una promessa della recitazione. Pare che l’attore gli interessasse anche come uomo, o almeno questo è ciò che racconta il paparazzo Michael Graeter, il quale dice
di aver visto al Château Marmont di Hollywood, un «tempio del pernottamento in cui vigeva il massimo sprezzo delle regole morali, […] Rainer Werner Fassbinder e l’allora ancora quasi sconosciuto Richard Gere aggirarsi per i corridoi con le lenzuola sotto il braccio e una gioiosa impazienza negli occhi».61 L’attore americano aveva acquisito i diritti cinematografici di Bent – musical di successo in cui Gere furoreggiava a Broadway – e sperava che Fassbinder ne facesse un film affidandogli il ruolo principale. Il cineasta si dichiarò d’accordo e si spinse addirittura a progettare una seconda collaborazione con Gere. Ma nel momento in cui l’attore rifiutò un ruolo in uno dei suoi film,62 Fassbinder si offese e prese immediatamente le distanze. Dopo quell’episodio l’America fu archiviata. Quando, solo poche ore prima di morire, gli fu chiesto in un’intervista dei suoi progetti di emigrazione, lui rispose: «Non ho interesse ad andare a Hollywood a girare dei film».63
Tutto ciò che mi fa male mi fa bene Verso la metà degli anni settanta, il consumo di alcol, medicinali e droghe da parte di Fassbinder, ma anche la sua vera e propria dipendenza da incontri sessuali veloci e sempre più estremi, cominciarono ad assumere dimensioni preoccupanti. Proprio a quell’epoca di forte avvilimento a seguito dell’esperienza di Francoforte, risale il suo primo contatto con la cocaina. Lo «champagne delle droghe», come veniva chiamata negli anni venti, era ormai diventato di moda nel bel mondo, e in particolare a Monaco, città che fu ben presto definita la metropoli della cocaina della Germania occidentale. Negli ambienti frequentati da artisti, musicisti, attori, lo stupefacente aveva fama di mettere le ali alla creatività e di favorire le massime prestazioni grazie al suo effetto eccitante. Questa sembra essere stata anche per Fassbinder una ragione sufficiente per sperimentarla, seppure in precedenza si era opposto strenuamente a tutte le droghe e aveva demonizzato persino la marijuana.64 «Bisognava fumarla di nascosto da lui»65 ricorda Hanna Schygulla. Solo nel 1976 tutto questo cambiò di colpo. Ingrid Caven ritiene che Fassbinder si diede alle droghe pesanti, «perché la vita cominciava ad annoiarlo».66 Se all’inizio il regista aveva più o meno sotto controllo la sua dipendenza dalla cocaina, dopo un anno era già abituato a prenderne tre grammi al giorno. Visto che l’effetto eccitante della sostanza si attenua quando il consumo è costante, l’aumento delle dosi non è una rarità. Il cineasta era entrato in contatto con la cocaina tramite un uomo che nella cerchia di Fassbinder era conosciuto come «Blumen-Peter»,67 il quale, a metà degli anni settanta, cominciò a giocare un ruolo centrale nella vita del regista. Peter, un personaggio molto noto nell’ambiente omosessuale di Francoforte, gestiva il Come-Back, uno dei più importanti locali gay cittadini del genere leather, e divenne ben presto l’amante di Rainer. Nel periodo del Theater am Turm, Fassbinder abitava in un appartamento spazioso proprio sopra il locale di Peter.68 A partire dal 1974, l’uomo condusse per molti anni una sorta di «vita coniugale del fine settimana»69 con Fassbinder, alla quale il regista non rinunciò nemmeno dopo l’inizio della sua relazione con Armin Meier. Quasi tutti i weekend Peter andava a trovare Rainer a Monaco, e lo accompagnava spesso anche nei viaggi a Cannes e New York. Divenne perciò il più importante fornitore di droga di Fassbinder, ed era pure colui che lo trascinava con sé nelle avventure sessuali più estreme, negli abissi dell’ambiente gay, perché entrambi condividevano un debole per i giochi sadomaso. Il regista non ne faceva mistero, mentre Peter nel suo ambiente veniva apertamente definito l’«aguzzino».70 Fassbinder trovava che fosse «macabro ed eccitante» prendere la droga davanti a tutti. «Soprattutto ci teneva molto a essere lui quello che la reggeva meglio di chiunque altro.»71 Gli piaceva scommettere di poter consumare più cocaina di tutti quanti. Mentre in passato era stato ben attento che le persone della sua cerchia non scivolassero nella dipendenza – e nel caso di Ursula Strätz aveva cercato, ripetutamente anche se invano, di contenere il suo consumo esagerato di alcol, convincendola addirittura a sottoporsi a una cura di disintossicazione72 – ora rinunciava a quelle premure. Desideroso di trasmettere anche agli altri la sensazione di gioia che inducevano le droghe, li spingeva ad assumere cocaina o sostanze analoghe. Così molte persone della sua cerchia divennero dipendenti da droghe e psicofarmaci, tra questi Kurt Raab, Harry Baer73 e Armin Meier, che preferiva invece l’hashish e l’Lsd.74 Da lì in poi gli stupefacenti non mancarono mai nell’appartamento di Fassbinder e venivano presi con grande naturalezza. Fintanto che in casa ce n’era abbastanza, il regista condivideva generosamente la cocaina con chi lo andava a trovare, tutti avevano libero accesso alla «grande ciotola piena di coca che c’era in bagno su un tavolino».75 Fassbinder incoraggiava Kurt Raab al consumo di cocaina,
promettendogli «che avrebbe raggiunto grandi vette nella recitazione. Non era assolutamente pericoloso, diceva. […] Bastava tirarne un po’, mi diceva, e già sentivi lo spirito che si liberava».76 Anche il regista Walter «Wally» Bockmayer giunse a far uso di cocaina tramite Fassbinder. Nato nei pressi di Pirmasens, in Renania, era stato a lungo guardarobiere all’opera di Colonia, cominciando in parallelo a lavorare nel cinema e nel teatro. Fassbinder s’era interessato al collega più giovane di lui di tre anni dopo il grande successo, al Festival di Locarno, di Jane bleibt Jane (t.l. Jane sarà sempre Jane), una pellicola che racconta la storia di un’anziana signora convinta di essere la sposa di Tarzan. Aveva invitato Bockmayer a casa sua a Monaco e gli aveva fatto proiettare il film. Entrambi omosessuali, si capirono al primo sguardo e da quel momento in poi si chiamarono reciprocamente con i loro nomi femminili, «Wally» e «Mary». Fassbinder fu molto colpito dal bel film di Bockmayer sulla vecchiaia e per la rabbia che non fosse stato invitato alla Berlinale scrisse sulla Zeit una recensione entusiastica dal titolo Il cinema tedesco si arricchisce.77 Spesso Bockmayer passava il fine settimana a Monaco, ospite nell’appartamento di Fassbinder. Di tanto in tanto anche Rainer andava a trovare l’amico a Colonia, dove Bockmayer viveva già da molti anni con il compagno Rolf e dove gestiva uno dei locali e piccoli teatri più stravaganti della città, il famoso Filmdose. A casa di Fassbinder, un giorno per lui si aprì «la porta dell’inferno». Dopo aver visto il modo estremamente disinvolto con cui l’amico e il suo compagno Peter facevano uso della cocaina sotto i suoi occhi, anche Bockmayer cominciò a consumarla e ne divenne presto dipendente.78 Come se non bastasse, Fassbinder gli fece provare anche l’Lsd: senza chiedergli il permesso, gli mise una dose nella Coca-Cola e si divertì a guardare l’effetto che aveva sull’amico, il quale poi prese a sperimentarla, insieme alla cocaina, alla marijuana e all’alcol. Fassbinder sviluppò rapidamente una assoluta dipendenza dalle droghe, tanto che si resero necessarie forniture quotidiane.79 Se rimaneva per qualche ora senza cocaina, aveva delle crisi di astinenza e diventava insopportabile per coloro che gli stavano accanto, finché qualcuno non gliene procurava dell’altra. Di solito era il suo amante Peter a occuparsene. Se però Peter si trovava a Francoforte e non poteva rientrare, Fassbinder gli mandava un corriere in aereo, che si assumeva il rischio di trasportare per lui la tanto desiderata sostanza,80 oppure faceva ricorso ad altri fornitori. Uno di questi era Raoul, l’amante di Daniel Schmid, che gli procurava la droga abbastanza regolarmente.81 Anche altre persone del clan Fassbinder ricevevano lo stesso tipo di incarico. Harry Baer, per esempio, veniva spesso spedito in piena notte, con mazzette di banconote, a prendere la cocaina in un famoso albergo di Monaco.82 Se la fornitura si faceva aspettare, magari perché lo spacciatore era scappato, Fassbinder finiva nel panico, come ricorda Walter Bockmayer, che ancora oggi continua a riferirsi al regista chiamandolo esclusivamente Mary. «Con un oggetto duro pestava enormi quantità di pasticche di Captagon e poi le tirava su per il naso sanguinante. […] Le emorragie peggiorarono sempre più; se fino a un certo punto erano bastati i fazzoletti per fermare il sangue, dovette poi passare agli asciugamani. Telefonava a destra e a manca per cercare di procurarsi velocemente la droga.»83 Quando finalmente aveva tra le mani un nuovo sacchetto con venti grammi di cocaina, tutto andava a posto: «Sentivi due volte il suono familiare delle sniffate, ed eccola lì tutta sorridente davanti a me, che mi abbracciava e mi baciava. Come se non fosse mai stata male».84 Il vero problema, rivelatosi poi fatale, era che sempre più spesso Fassbinder assumeva le droghe con quantità enormi di psicofarmaci, ugualmente recuperati per vie illegali. Se aveva consumato troppa cocaina – accadeva ormai con una certa frequenza –, cercava di spegnere l’eccitazione con alcune pastiglie di Valium o di Mandrax, uno dei sonniferi più forti sul mercato, per avere se non altro qualche ora di pace. Questo gli causava uno stato semicomatoso al quale riusciva a sottrarsi solo prendendo il Captagon, uno stimolante che provoca dipendenza e i cui possibili effetti collaterali sono allucinazioni, confusione e psicosi.85 Se si trovava in quelle condizioni e non aveva a disposizione il Captagon, Fassbinder non poteva far altro che disdire tutti gli appuntamenti e mettersi a letto.86 Così s’instaurò un circolo vizioso: per ottenere un qualche effetto stimolante o sedativo doveva prendere i medicinali in dosi sempre più massicce, cosa che, unita al crescente consumo di droghe, hashish, alcol, finì per avere fatali conseguenze sul suo stato psicofisico. Che il corpo di Fassbinder abbia tollerato questo cocktail distruttivo per sei anni e mezzo è quasi un miracolo. Sotto l’effetto della cocaina il bisogno di Fassbinder di incontri sessuali fugaci e occasionali divenne sempre più estremo. Per una celebrità del mondo omosessuale come lui era molto facile vivere sempre nuove avventure. Il sesso, prima dell’arrivo dell’Aids – che pose temporaneamente fine a una certa spregiudicatezza –, era diventato un articolo disponibile ovunque negli ambienti gay di Colonia, Berlino, Francoforte e Monaco, ma anche a Parigi, dove il regista si recava
regolarmente. Tutte le notti, nella sua «avidità di fare e conoscere ogni cosa»,87 Fassbinder partiva alla ricerca di nuovi incontri, racconta Ingrid Caven. Lo affascinava l’opportunità di conoscere persone che vivessero la sessualità completamente al di fuori dei vincoli sociali. Quando un attore da lui ingaggiato al Theater am Turm gli raccontò che ogni sera, in un parco di Francoforte, si faceva penetrare da qualunque uomo lo desiderasse, Fassbinder reagì entusiasta: questo significava per lui «vivere la propria omosessualità».88 Il fatto che il sesso, dall’attenuazione del paragrafo 175 in poi, si potesse avere con tanta facilità e senza impegno, portò durante gli anni settanta alla ricerca spasmodica di modalità di sballo e di gioco inedite, un percorso intrapreso anche da Fassbinder, il quale divenne un frequentatore abituale dell’ambiente leather e sadomaso, in cui si poteva praticare il sesso più estremo. Secondo Raab il suo ideale era «il cosiddetto uomo duro, massiccio, tarchiato e muscoloso, gli piacevano i bodybuilder palestrati. […] Ragazzi rudi, spacconi forzuti, che mascheravano le loro insicurezze e il loro squilibrio con smancerie grossolane e ostentazioni di forza, e armati di cuoio e di chiodi ingabbiavano la loro infelicità».89 La sua mecca divenne New York, che in fatto di sesso era, con San Francisco, la metropoli più tollerante d’America, dove in epoca pre-Aids si potevano realizzare senza problemi anche le fantasie più spinte. Nei club più estremi di New York, dove il sesso veniva celebrato come l’unica cosa per cui valesse la pena vivere, Fassbinder fu accolto ben presto come una vecchia conoscenza. Pur frequentando i bar, i locali e i club della Christopher Street, in cui la sessualità veniva vissuta quasi sempre timidamente nei retrobottega e nelle darkroom, preferiva di gran lunga la zona lungo l’Hudson, dove ogni notte, nei vecchi depositi in disuso, si incontravano centinaia di omosessuali per darsi reciproca soddisfazione in modo semplice e veloce, e lo facevano sotto gli occhi di tutti. Qualunque fantasia sessuale trovava qui la sua realizzazione. Droghe e poppers giocavano naturalmente un ruolo altrettanto importante. La caccia forsennata al sesso era la sola cosa che contasse in quel mondo estatico. Nel frattempo, naturalmente, Fassbinder era diventato famoso anche in America e spesso durante le sue scorribande nella scena gay di New York veniva riconosciuto. Se qualcuno però gli chiedeva se fosse il noto regista tedesco, lui negava, dicendo che quello là era troppo conosciuto per farsi vedere in giro in posti come quelli: «He is much too famous. He wouldn’t walk down this street».90 Walter Bockmayer, il quale ebbe l’opportunità di accompagnare Fassbinder in alcune delle sue folli notti a New York, rimase inizialmente senza parole per il mondo che Fassbinder gli mostrava e per la disinvoltura con cui il regista si muoveva al suo interno, per esempio all’Hellfire. Situato in un magazzino frigorifero sotterraneo ormai in disuso, il club era frequentato da uomini e donne eterosessuali come pure da gay e lesbiche. Tutto girava intorno a sesso e droghe; molti degli ospiti, dopo aver consumato al bancone cocaina e poppers sotto gli occhi degli altri, si buttavano nella mischia poco illuminata: «Era come Sodoma e Gomorra» ricorda Bockmayer «risuonavano da ogni parte grida di piacere e gemiti animaleschi. All’inizio pensai di aver preso una dose eccessiva di cocaina e che fossero tutte allucinazioni. Invece no, era tutto vero».91 Durante un altro soggiorno a New York, Fassbinder portò con sé Walter Bockmayer nel club gay Mineshaft, un posto spregiudicato come l’Hellfire, in cui lui era «conosciutissimo». Anche qui, dove le forme di sesso più spinto venivano praticate sotto gli occhi di tutti, il regista sembrava essere nel suo elemento e certo non si accontentava del ruolo del voyeur ma prendeva parte con la massima spontaneità ai giochi più estremi: «Ero senza parole. Non avevo mai visto Mary in quel modo, il suo volto era raggiante».92 Il sesso sadomasochista assunse nella vita di Fassbinder un ruolo sempre più centrale. Era affascinato dai giochi di potere, gli piaceva quando gli altri, facendo sesso, erano disposti ad abbandonarsi senza condizioni, vivendo le loro ossessioni più segrete con disinvoltura. Parlava molto apertamente di questa sua attrazione, anche se non entrava mai nei dettagli: «Con il sesso non ho problemi. È l’unica cosa in cui non ho complessi né inibizioni».93 Una volta invitò ufficialmente il redattore dello Spiegel Wolfgang Limmer, che non riusciva a immaginare l’esistenza di un mondo come quello descritto da Fassbinder, ad accompagnarlo al Mineshaft.94 Persino con il reporter scandalistico Michael Graeter non fece mistero delle sue predilezioni e una volta, avendolo incontrato a New York, lo portò con sé nei «nightclub più estremi».95 Sempre alla ricerca di nuovi sballi, Fassbinder bevve fino in fondo l’amaro calice. Così, ricorda Ingrid Caven, «al culmine della notorietà, fu ritrovato un paio di volte davanti alla porta di casa, pieno di alcol, droga e sonniferi, che dormiva nudo nei suoi escrementi».96 Sotto l’effetto delle droghe spesso faceva cose di cui poi si pentiva. Un giorno, in un accesso di follia, tentò per esempio di violentare il suo amico Walter Bockmayer, cosa di cui più tardi si scusò con un gigantesco mazzo di rose.97 Gli amici di Fassbinder e i suoi amanti, ma pure altri compagni di
strada che gli erano meno vicini, notavano quanto gli eccitanti lo stessero cambiando. Anche Peter Märthesheimer, il redattore del Wdr che aveva curato la maggior parte dei suoi lavori televisivi, avvertì profonde alterazioni nel comportamento del regista, che appariva sempre più «imprevedibile e sprigionava contrarietà».98 Evidentemente Fassbinder aveva deciso di assaporare la vita fino all’ultimo, rifiutando di accettare i limiti che valgono per i comuni mortali. A quanto pare procedeva senza rimorsi lungo quella sua discesa agli inferi. Con lo stesso estremismo che, sotto l’influenza della cocaina, mostrava sul lavoro quando sviluppava nuovi progetti e girava nuovi film, si dedicava alle proprie ossessioni private. Non c’è stato un solo «vero amico […] che in quell’epoca lo abbia scosso e gli abbia detto che non poteva andare avanti così», racconta con rammarico Rudolf Waldemar Brem, compagno di strada – poi ripudiato da Fassbinder – ai tempi della loro esperienza teatrale a Monaco: «A quell’epoca era ormai attorniato soltanto da persone che lo assecondavano e che dipendevano da lui da un punto di vista economico e in parte anche emotivo. Non c’era nessuno che gli tenesse testa, che lo mettesse in guardia e gli dicesse che così si stava rovinando. È stato questo il grande dramma di Rainer Werner Fassbinder».99
La sola cosa che accetto è la disperazione Considerato dal regista un’immediata reazione alle esperienze vissute al Theater am Turm – le riprese cominciarono nell’ottobre del 1975100 –, Nessuna festa per la morte del cane di Satana (Satansbraten) fu il primo film realizzato dopo la crisi di Francoforte. Con franchezza Fassbinder ammise che la pellicola, al centro della quale è posto un artista in piena crisi professionale ed esistenziale, mostrava «una parte di me portata grottescamente all’eccesso».101 Ciò che fece scattare l’idea del film, che in un primo tempo doveva intitolarsi «Nessuna festa per il cane del Führer» oppure «Un viaggio all’interno della sofferenza», furono tuttavia le accuse di plagio che gli erano state mosse dopo la messa in onda del film Martha. Anche in Nessuna festa per la morte del cane di Satana si parla di un artista tacciato di plagio, ma secondo Fassbinder tutto quanto un artista ha letto, visto o ascoltato confluisce in ciò che «sta facendo in un dato momento».102 Kurt Raab, diventato nel frattempo un caratterista di tutto rispetto, nel film interpreta Walter Kranz, uno scrittore. Celebrato all’epoca del movimento sessantottino come «poeta della rivoluzione», quando poi l’attesa rivoluzione non si verifica, l’artista cade in un profondo silenzio, indebitandosi fino al collo. Kranz vive con la moglie, una donna che strilla in continuazione, e con Ernst, il fratello demente, interpretati da Helen Vita e da Volker Spengler. Trovandosi in un momento di crisi creativa, e non volendo adattarsi a svolgere un altro lavoro, cerca continuamente nuove possibilità per procurarsi dei soldi. Quando la sua casa editrice si rifiuta di dargli ulteriori anticipi per libri che comunque non scriverà mai, uccide la sua ricca benefattrice e amante dopo averle fatto firmare l’ultimo assegno a suo favore. L’assassinio scioglie però il blocco dello scrittore e Kranz ricomincia a comporre poesie, ma il frutto della sua creatività, annunciato con tanto orgoglio, si rivela un plagio di una poesia di Stefan George. Quando la sua famiglia lo rimprovera di aver compiuto un furto intellettuale, Kranz s’indigna e successivamente matura la folle convinzione di essere Stefan George. Si comporta sempre più come un genio incompreso, al di fuori della società, e annulla il proprio io dietro il personaggio dell’artista. Una sua ammiratrice – una masochista interpretata da Margit Carstensen, che gli è totalmente asservita e che esegue ogni suo ordine, anche se assurdo, senza porre condizioni – lo sostiene in quello che fa e gli dà la sensazione di essere davvero un genio. Alla fine è così prigioniero di quel suo mondo di fantasia e così occupato da se stesso che si rende conto della grave malattia della moglie solo quando la donna muore. Riprende tuttavia a scrivere e pubblica Il fascismo vincerà, ovvero Nessuna festa per la morte del cane, un vero bestseller. Anche in questo film così astruso, messo in scena come uno spettacolo selvaggio e incalzante – e in molti punti troppo caricato –, Fassbinder impone allo spettatore il suo credo, ovvero la convinzione che tutti i rapporti umani siano segnati dallo sfruttamento reciproco. La pellicola, dagli evidenti tratti autobiografici, fu girata da Fassbinder come una sorta di masochistica resa dei conti con se stesso. Al contempo però il film è un’attenta riflessione sull’industria culturale nonché una satira sulla sensibilità culturale dei tedeschi. Il pubblico della prima alla Mannheimer Filmwoche, dove Nessuna festa per la morte del cane di Satana debuttò nell’ottobre del 1976, reagì con un silenzio glaciale all’ultima opera di Fassbinder. Durante il dibattito seguito alla proiezione «il pubblico inferocito assalì il regista, non ci vedeva più dalla rabbia»,103 come si poté leggere poi sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. La stampa si divise. Mentre alcuni critici sostenevano che
Fassbinder si fosse finalmente liberato dalla sua «letargia fatalista»,104 gli altri erano perlopiù d’accordo sul fatto che il regista fosse artisticamente finito e consideravano la pellicola una nuova rozza provocazione. Un critico la definì addirittura «volgare ed esibizionista, brutta e piena d’odio, irriguardosa, scatenata ed eruttiva. Il tono è estremamente arrabbiato, sfrenato, stridente, falso, isterico e affettato, il testo è sopra le righe, ampolloso e rigido, e la trama assurda, perversa e non credibile».105 L’accusa principale mossa contro il film – molto soggettivo e spietato – era che Fassbinder rendesse pubblica, in modo disinibito e irriducibile, attraverso un mezzo di comunicazione di massa, la propria sofferenza privata, come si leggeva per esempio sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung: «È evidente che qui il regista racconta senza usare il minimo riguardo, senza nemmeno pensare a chi ha di fronte, come se qualcuno piangesse o gridasse per la disperazione e non gli importasse di organizzare le parole in un discorso o di renderle anche solo acusticamente comprensibili».106 Con Nessuna festa per la morte del cane di Satana Fassbinder si libera, da un punto di vista stilistico, dell’influenza di Douglas Sirk, cui invece sono debitori tutti i film precedenti. La radicale svolta compiuta gli fece perdere via via il favore del grande pubblico, conquistato con pellicole come Il mercante delle quattro stagioni e La paura mangia l’anima. Da quel momento in poi, e dopo il grande successo di Effi Briest, nei film successivi proseguì sulla strada intrapresa con Il diritto del più forte e Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel, tanto da inimicarsi a poco a poco anche i fassbinderiani più convinti. La profonda crisi personale in cui si dibatteva non contribuì certo a migliorare la situazione. Film così radicali e soggettivi, che gridavano al mondo la sua rabbia, la sua disperazione, e in cui si autocommiserava dipingendosi come una vittima dell’industria culturale – si pensi per esempio a Nessuna festa per la morte del cane di Satana –, indussero molti critici a definirlo un piagnone.107 Persino i cinefili persero la curiosità di vedere i suoi nuovi lavori. Wolfgang Limmer, critico dello Spiegel fino ad allora ben disposto nei confronti di Fassbinder, tracciò questo bilancio: «Insomma, non possiamo non fare i conti con lui ma indubbiamente ci sta complicando le cose».108 A questo insuccesso seguì Roulette cinese, film altrettanto bizzarro e ben lontano dall’essere concepito per un vasto pubblico. Fassbinder si concentra nuovamente su un’ossessione tutta personale: la roulette cinese, ossia un «gioco della verità» in cui vengono scandagliate e messe a nudo le predilezioni e le debolezze dei partecipanti. Vero maestro nello svelare le vulnerabilità degli altri, Fassbinder usava ciò di cui veniva a conoscenza durante quel gioco da lui tanto amato per poi ordire complotti, mettere le persone all’angolo, turbarle, o semplicemente per tirar fuori dai suoi attori qualcosa di speciale in determinate scene. Karlheinz Böhm, al quale capitò di dover partecipare a una di quelle sessioni, ricorda: «Eravamo lì seduti tutti insieme e ognuno doveva dire quello che pensava o sentiva nei confronti di qualcun altro; bisognava farlo apertamente, anche se poteva essere molto doloroso. Queste confessioni obbligate dei propri sentimenti scatenavano in molti casi disperazione, odio, rabbia, impotenza. Fassbinder da parte sua troneggiava sulla sedia e ridacchiava, perlomeno interiormente, come un fauno, quando i suoi amici si sbranavano a vicenda».109 Anche Walter Bockmayer prendeva parte a quei giochi della verità che a volte duravano parecchi giorni: «A un certo punto veniva fuori una vittima, sulla quale poi si buttavano tutti. Perlopiù il tema era il sesso, o qualche intrigo, e alla fine c’era sempre qualcuno che lasciava il gruppo e la stanza in lacrime. Spesso toccava a una donna, e Fassbinder ne usciva vincitore».110 Il film Roulette cinese, nel quale naturalmente il gioco appare in una versione attenuata, fu realizzato grazie a una coproduzione franco-tedesca che permise a Fassbinder di avere, oltre ai suoi soliti attori – Margit Carstensen, Ulli Lommel, Volker Spengler e Brigitte Mira –, anche alcune star francesi, come le attrici Macha Méril e Anna Karina. Ex moglie di Jean-Luc Godard, la Karina conviveva da un po’ di tempo con Ulli Lommel ed era considerata da Fassbinder «la donna più formidabile del mondo».111 Il film fu girato in un castello in Franconia di proprietà di Michael Ballhaus. Al centro della trama c’è una coppia di coniugi benestanti in procinto di trascorrere il fine settimana ognuno per conto proprio. La moglie dice di voler andare a Milano, il marito a Oslo. Poche ore dopo tuttavia si ritrovano nel loro castello di campagna, entrambi con i rispettivi amanti. La coppia cerca di superare quella situazione imbarazzante senza fare scenate, ma le cose si complicano non appena li raggiunge al castello la figlia disabile, Angela, con la sua istitutrice. I genitori capiscono subito che si tratta di una perfida messinscena. Avendo in odio la loro ipocrisia, Angela ha deliberatamente organizzato quell’incontro forzato, con l’intenzione di svelare il loro doppio gioco. Il proposito di non lasciarsi tiranneggiare dalla figlia cade nel momento in cui la ragazzina insiste perché tutti insieme giochino alla «roulette cinese» dove ognuno deve dire, in forma criptata, cosa pensa dell’altro dando sfogo così a tutto il disprezzo reciproco. Angela fa in
modo che la madre, da lei detestata, diventi la figura centrale del gioco. La donna alla fine si sente talmente umiliata che finisce col puntare una pistola contro la figlia. All’ultimo minuto però ha un’incertezza e spara all’istitutrice. Diversamente dal Mercante delle quattro stagioni o dalla Paura mangia l’anima, in cui il regista si concede una forte immedesimazione con i suoi personaggi, qui lo sguardo è gelido e analitico, tutt’altro che compassionevole. Così, se già la descrizione dei protagonisti, delle cui vicende pregresse si viene a sapere ben poco, non facilita allo spettatore l’accesso al film, ancor meno ci si sente partecipi del destino delle singole figure. In confronto a Nessuna festa per la morte del cane di Satana, Roulette cinese è un film pacato e scaltro ma risulta decisamente più artefatto. In effetti sia per Fassbinder che per il suo direttore della fotografia, Michael Ballhaus, il film doveva essere un esperimento. L’obiettivo era di non raccontare la storia attraverso i personaggi, ma di rendere la cinepresa misura di tutte le cose: «In Roulette cinese ho cercato di capire se la cinepresa potesse davvero diventare protagonista di un film. Ed è un esperimento che non rifarei».112 Le scene sono state girate come se seguissero una severa coreografia: «Sono certo che in tutta la storia del cinema non ci sia un altro film con altrettanti movimenti di macchina, carrellate, e relativi movimenti degli attori».113 Michael Ballhaus conferma: «In fondo si tratta di un film per la cinepresa. […] Abbiamo pensato tutto in quell’ottica. Prima spostavamo i binari, poi sistemavamo i mobili e come ultima cosa inserivamo gli attori. Sostanzialmente abbiamo lavorato al contrario. E questa è la principale debolezza del film: è di altissimo livello artistico ma ha una storia debole».114 Molti critici e spettatori non riuscirono a seguire quell’esercizio di stile. Un recensore parlò addirittura di un «marchingegno brillante e vuoto».115 Con Roulette cinese, una nuova collaboratrice si era aggiunta al team di Fassbinder, dopo che la montatrice Thea Eymèsz, terminato Nessuna festa per la morte del cane di Satana, aveva deciso di tentare altre strade professionali. La nuova montatrice, Ila von Hasperg, da sempre molto interessata alla figura di Fassbinder, aveva già lavorato con Werner Schroeter, Walter Bockmayer e Daniel Schmid. Questa nuova collaborazione durò tuttavia solo per breve tempo, perché la von Hasperg si sarebbe presto trasferita a Hollywood. Le succedette Juliane Lorenz, assistente di Ila von Hasperg in Roulette cinese. La Lorenz si è occupata del montaggio dei film di Fassbinder dal 1977 fino alla morte del regista, e si dice tutt’oggi «estremamente orgogliosa di aver fatto parte di quel team».116 Se all’inizio la giovane donna s’era avvicinata «timidamente e in silenziosa, cauta ammirazione» al già leggendario regista, la collaborazione intensificò rapidamente il rapporto tra i due, e la principiante imparò in fretta ad apprezzare il modo di lavorare di Fassbinder: «Già durante le riprese pensava al montaggio. Per lui un film partiva tutto dalla testa, non solo la storia, anche la sequenza delle immagini. Aveva sempre idee ben precise. Dal modo in cui preparava le scene si capiva il suo amore per il montaggio».117 Dopo quei due film molto personali, alla fine del 1976 Fassbinder ricevette dal Zdf l’incarico di adattare un romanzo di Oskar Maria Graf uscito nel 1931, Bolwieser – storia della decadenza di un piccolo borghese. Il regista aveva a disposizione per il progetto 1,8 milioni di marchi con i quali doveva girare uno sceneggiato in due episodi – della durata complessiva di tre ore – per la tv e una versione più breve per il cinema. Mentre la versione televisiva segue in modo pedissequo il romanzo di Graf, nel film, girato parallelamente, Fassbinder intendeva porre accenti più personali e concentrarsi sulle vicende matrimoniali del protagonista, aspetto che a lui pareva più interessante. La moglie del capostazione (Bolwieser) si svolge in una piccola città dell’alta Baviera alla fine degli anni venti. Kurt Raab è il capostazione Xaver Bolwieser, marito di Hanni, figlia del proprietario di un birrificio locale interpretata da Elisabeth Trissenaar. Bolwieser è sessualmente succube della moglie, si sottomette a tutti i suoi desideri senza condizioni. Anche quando Hanni va con altri uomini, Xaver chiude gli occhi di fronte alla realtà e si aggrappa, nella sua totale dipendenza dalla compagna, a un’apparente armonia. Benché tradito, continua a difenderla, persino dalle maldicenze, e per amor suo presta un falso giuramento, che costerà al pover’uomo, nato perdente, quattro anni di galera. Così termina il film, incentrato sulla lenta distruzione e autodistruzione di un piccolo borghese, che «a causa della sua mentalità sottomessa, della moglie, dell’ipocrisia e dell’invidia degli abitanti della cittadina» finisce col soccombere.118 Le riprese, realizzate in una cascina bavarese, non nascevano sotto una buona stella. Fassbinder era imbronciato e litigioso e trovava da ridire su tutto. Erano in pochi a conoscere le ragioni della sua irritazione: «Il posto in cui si girava era troppo lontano da tutti i centri di spaccio e i corrieri della cocaina facevano molta fatica a raggiungerlo. Voleva tornare al più presto dai suoi fornitori e cercava con i peggiori trucchi possibili di far sì che la produzione, per logoramento, trasferisse le riprese a Monaco».119 Tuttavia, anche dopo essere riuscito nel suo
proposito, gli risultò comunque difficile concentrarsi sul film, per via del crescente consumo di droga. Il regista era così stordito dal Mandrax che spesso la mattina non si svegliava e compariva sul set con molto ritardo. In un primo tempo la sua squadra tentò di nascondere questi episodi alla casa di produzione. Anche Michael Ballhaus, sempre più preoccupato, cercò di parlargli: «Ce la fai ancora col lavoro?».120 Ormai perso, Fassbinder non era però in grado di uscire da quel circolo vizioso in cui era sprofondato. Ci furono presto giornate in cui non riusciva nemmeno ad alzarsi dal letto e dunque non si presentava alle riprese. «La sua mancanza di puntualità e di affidabilità crescevano a vista d’occhio.»121 A un certo punto non fu più possibile tenere nascoste le sue assenze. Quando i produttori stavano già pensando a un probabile sostituto, Fassbinder d’un tratto si riprese e portò a termine La moglie del capostazione. Nonostante le circostanze avverse il risultato fu un capolavoro. Mentre tutti i suoi film dopo Effi Briest erano stati recensiti malissimo, ecco che per la prima volta si poteva parlare di nuovo di un grande successo di critica. La moglie del capostazione pose fine alla collaborazione con Kurt Raab, che durava da più di otto anni; Raab non ricopriva solo il ruolo di attore nei film di Fassbinder, ma si occupava anche delle scenografie. Per La moglie del capostazione aveva però chiesto un cachet così spropositato – 100mila marchi – che la Bavaria Film, produttore della pellicola per conto del Zdf, imputò a Fassbinder la responsabilità di aver voluto Raab come scenografo. Questo comportamento irritò il regista al punto da fargli espellere immediatamente dalla propria corte – affinché la punizione fosse esemplare – «la sua migliore amica», come amava definire Raab, uno dei suoi più stretti collaboratori. Fu per tutti uno shock, secondo quanto ricorda Harry Baer: «Rainer era sempre stato estremamente generoso, ma quella volta si era passato il segno».122 Raab si vendicò di quel brusco abbandono accettando di raccontare alla rivista Lui la sua esperienza con l’autore. Il periodico pubblicò un’intervista dal titolo «Ritratto intimo: Rainer Werner Fassbinder il tenero distruttore», in cui Raab faceva i conti con il suo amico e mentore, rivelando molti fatti privati e alimentando l’immagine di un Fassbinder «mostro geniale».123 Solo dopo due anni e mezzo di silenzio si arrivò a un cauto riavvicinamento tra i due uomini, che però non lavorarono mai più insieme. La separazione da Fassbinder costò parecchio a Raab, che non ne fece mistero. Così si espresse poco prima di morire: «È stato il periodo più bello, turbolento, caotico e felice della mia vita».124
Viaggio al centro della tristezza Il progetto di farsi un nome anche come scrittore e di cimentarsi con un romanzo, che avrebbe dovuto intitolarsi Viaggio al centro della tristezza, arriva in un momento di crisi personale e artistica. All’indomani delle dimissioni dalla direzione del Theater am Turm, all’inizio di giugno del 1975, Fassbinder annuncia per la prima volta l’intenzione di ritirarsi a Parigi per dedicarsi con tutta tranquillità al suo progetto di scrittura.125 Lui stesso considerava quel proposito una reazione alle turbolenze che avevano connotato il periodo trascorso in veste di intendente al Turm: «La convivenza costante, quasi sempre al limite dell’isteria, con altre persone, che ha caratterizzato l’esperienza di Francoforte, ha fatto nascere in me il desiderio di lavorare per una volta da solo».126 Scrivere un romanzo, per lui che, oltre alle numerose opere teatrali e alle sceneggiature, aveva all’attivo anche diversi saggi sul cinema, era sempre stato un obiettivo concreto. Già nel 1966, quando in occasione dell’esame di ammissione alla Deutsche Film- und Fernseheakademie di Berlino gli fu chiesto quale fosse l’arte che sentiva più vicina oltre al cinema, il regista rispose: «La letteratura, perché mi interessa il rapporto con la lingua, in ogni sua forma».127 In effetti, a partire dai titoli dei suoi film e dei suoi progetti, che spesso sembrano versi di una poesia, Fassbinder ha dimostrato una particolare sensibilità per la lingua, riscontrabile anche nei dialoghi scritti per il cinema e per il teatro, contraddistinti da un’evidente qualità poetica. Non appena le ambizioni letterarie di Fassbinder divennero pubbliche, diverse case editrici si fecero avanti. Alla fine il regista prese accordi con l’editore Hanser, di Monaco, il quale annunciò subito il libro nel programma dell’autunno 1976. Di fronte ai giornalisti Fassbinder rivelò che nel suo romanzo avrebbe raccontato la storia di un uomo nato nel maggio del 1945 affetto da una malattia psicosomatica molto debilitante. L’unica possibilità di ritrovare la salute consisteva per il giovane nel riattivare le fantasie rimosse e ripercorrere le strade dell’infanzia alla ricerca di quell’amore e quell’affetto di cui era stato privato da bambino. Fassbinder non negò la presenza di forti tratti autobiografici nel romanzo, che gli avrebbe permesso di confrontarsi con la propria esistenza: «I genitori del ragazzo sono presi soltanto da se stessi, così lui è costretto ad
appoggiarsi ad altre persone. E prima ancora di capire chi siano davvero i suoi genitori, s’è già ammalato. In fondo questa è la storia della mia famiglia».128 In parallelo al progetto per il romanzo, Fassbinder ne aveva sviluppato un altro per un film, ugualmente all’insegna dell’autobiografia, dal titolo In fondo voglio soltanto che mi amiate (Ich will doch nur, dass ihr mich liebt). Tema della pellicola sono le ferite e le offese dell’infanzia, e la misura in cui queste possono condizionare un’intera vita e decidere il destino di una persona. Il film racconta la storia di un giovane che non ha mai sentito l’affetto dei genitori e tuttavia ambisce disperatamente al loro amore. Il giovane cerca di comprarsi quell’amore portando continuamente fiori alla madre, o lavorando senza risparmiarsi nel ristorante di famiglia, giungendo persino, nel suo tempo libero, a costruire una casa per i suoi. Questo sforzo, perlopiù vano, di ottenere a ogni costo le attenzioni e l’affetto dei genitori, si ripropone anche nel matrimonio del giovane, che regala di continuo alla moglie mobili e oggetti preziosi finché non si ritrova sommerso da una montagna di debiti e non riesce più a pagare le rate. Un bel giorno perde anche il posto di lavoro e a quel punto si sente mancare la terra sotto i piedi, così, in un momento di smarrimento, uccide un ristoratore nel quale gli sembra di vedere la reincarnazione di suo padre. Viene condannato a dieci anni di reclusione, durante i quali la psicologa del carcere cerca di carpirgli qualche informazione sulla sua vita e di trovare le possibili ragioni del suo gesto. Anche se originariamente il progetto di questo film si basava su un autentico fatto di cronaca,129 Fassbinder, secondo il quale Hans «non è responsabile del proprio gesto, che va imputato invece alla sua educazione e all’ambiente in cui è vissuto»,130 ne fa una delle sue opere più personali, dando alla trama una connotazione molto individuale. Così insiste molto affinché l’attore protagonista, Vitus Zeplichal, che aveva una somiglianza innegabile con il regista, si comporti davanti alla cinepresa come se al suo posto ci fosse lo stesso Fassbinder: «Naturalmente ho cercato di fare in modo che Vitus recitasse come avrei recitato io, perché quella è comunque la mia storia».131 Nel film si ritrovano molti temi dell’infanzia del regista: la figura del padre stranamente assente, la madre gelida, la spaventosa freddezza dei genitori nei confronti del figlio, nonché il tentativo di sostituire con i regali la mancanza di affetto. Anche Fassbinder cercava di conquistarsi le attenzioni della madre ricoprendola di regali «cari ma anonimi, privi di amore, perché impersonali»: «Una volta le faceva recapitare una pelliccia per il compleanno, un’altra volta, per Natale, un televisore a colori».132 In In fondo voglio soltanto che mi amiate, più che in ogni altro suo film, Fassbinder ha tentato di elaborare la sua infanzia, pur affrontando il tema, come sempre, in modo indiretto. Il regista, infatti, non ha mai messo apertamente al centro di un suo film un bambino che soffre per mancanza di affetto e di amore, fatta eccezione per Roulette cinese.133 Evidentemente gli risultava troppo doloroso portare sullo schermo le sofferenze che lui stesso aveva dovuto patire, così preferiva una rappresentazione mediata: «Anche se […] nei miei film non ci sono mai bambini, questo non vuol dire che non ci siano le esperienze che ho fatto da piccolo».134 Nell’agosto del 1975 Fassbinder aveva annunciato a gran voce di aver iniziato la stesura del romanzo. Per sei mesi si sarebbe dedicato esclusivamente a questo, come stabilito anche dal contratto con la casa editrice Hanser. Invece si buttò in nuovi progetti cinematografici e rimandò più volte la consegna del manoscritto prevista per la primavera del 1976. Ma non erano soltanto i nuovi film a ostacolare la scrittura. Presto al regista era toccato constatare che scrivere un romanzo è qualcosa di completamente diverso dalla redazione di un progetto cinematografico o di una sceneggiatura: «Quegli inquietanti fogli bianchi hanno davvero qualcosa di spaventoso, di paralizzante, quando mi dico che devo riempirli con la mia scrittura. […] Trovo che scrivere sia faticoso, perché bisogna trovare una forma verbale per cose che nella testa sono accadute molto tempo prima».135 Fassbinder non era tipo da tollerare i tempi lunghi, la tranquillità e la solitudine necessarie a scrivere un romanzo. Al contrario, era abituato a lavorare «in un turbinio, in un vortice di rumori […], in una insopportabile esplosione di musica» ricorda Dirk Bogarde. «Maria Callas a tutto volume in Tosca e Norma, e a volte, per rilassarsi un po’, l’intera partitura di Evita. In altre occasioni Il cavaliere della rosa una volta, due, tre».136 Anche quando era ormai sempre più improbabile che Fassbinder riuscisse a portare a termine il suo progetto letterario, continuava a rassicurare i giornalisti: «Prima o poi lo scrivo, non vi preoccupate, faccio tutto quello che dico».137 Non l’avrebbe invece mai scritto. Il romanzo, che Fassbinder considerava un esperimento per capire se sarebbe riuscito a «combinare qualcosa anche in solitudine»,138 non andò mai oltre un abbozzo e qualche pagina manoscritta. Nel suo lascito se ne trova un solo capitolo.139 Tuttavia
quel proposito rimase «un suo sogno, fino alla fine», conferma Ingrid Caven: «Era una cosa a cui teneva molto, e rimase tale. Dopo aver dimostrato di essere un regista geniale voleva dimostrare di essere uno scrittore altrettanto geniale. Di tanto in tanto mi leggeva un paio di pagine, ma credo che in tutto non ne abbia scritte più di otto. Naturalmente io mi mettevo lì buona, ad ascoltarlo, perché sapevo quant’era importante per lui, e poi gli dicevo che se davvero voleva che il libro uscisse doveva concentrarsi, che non si poteva scrivere un libro così, a tempo perso. Gli ho anche detto che ce l’avrebbe fatta soltanto se avesse consumato meno cocaina. Era d’accordo anche su questo, ma poi naturalmente sgarrava, e non è mai riuscito ad arrivare alla fine. Un film lo poteva girare anche con la cocaina, perché bastava che mettesse per iscritto le sue idee e gli altri lo avrebbero aiutato a portarle sulla scena, a farne un film. Ma il romanzo lo costringeva a stare solo con se stesso, e questo lui non poteva sopportarlo».140
Un viaggio nella luce 1977-1980
Nell’estate del 1977 Rainer Werner Fassbinder girò Despair (Despair – Eine Reise ins Licht), il suo primo lungometraggio destinato al mercato internazionale. Per questa coproduzione francotedesca ricevette un finanziamento di sei milioni di marchi, un budget decisamente cospicuo, che gli permise di non lesinare su nulla. Mentre nei film precedenti era stato quasi sempre Kurt Raab a occuparsi degli allestimenti, per Despair il regista ingaggiò il noto scenografo Rolf Zehetbauer, insignito nel 1973 dell’Oscar per Cabaret di Bob Fosse. Non rinunciò ad alcuni dei suoi fidati collaboratori: Peer Raben compose le musiche, Harry Baer fece da assistente alla regia e Michael Ballhaus operò, come sempre, alla macchina da presa. Per la prima volta, tuttavia, Fassbinder non firmò la sceneggiatura, che fu scritta, sulla base dell’omonimo romanzo di Vladimir Nabokov,1 da Tom Stoppard, uno dei più acclamati drammaturghi inglesi. Sia il libro che il film raccontano la storia cupa e morbosa di un uomo che è alla ricerca di un sosia per poter fuggire dalla vita che sta conducendo. Nella Berlino dei primi anni trenta Hermann Hermann, un emigrato russo di estrazione borghese originario del Baltico, possiede una piccola fabbrica di cioccolato. È sposato con Lydia, una donna un po’ stupida che mangia ininterrottamente cioccolatini e lo tradisce con il cugino Ardalion. Il matrimonio, ormai atrofizzato nella sua routine, è per Hermann – sensibile esteta – fonte di malessere non meno della sua insulsa esistenza borghese e degli effetti della crisi economica mondiale che hanno messo in ginocchio la sua azienda. Rifiutandosi di «essere morto mentre ancora vive», il piccolo imprenditore cerca il più possibile di evadere in mondi paralleli. Sempre più estraniato, crede di poter cominciare una nuova vita assumendo l’identità di un’altra persona. Durante un viaggio s’imbatte in un vagabondo, nel quale è convinto di riconoscere il suo presunto alter ego. Sebbene l’uomo non gli somigli affatto, Hermann lo persuade a essere la sua controfigura. Quando i due si rivedono per scambiarsi gli abiti, d’improvviso il protagonista uccide il suo doppio perché, ai propri occhi, solo così può compiersi in modo perfetto l’auspicato cambio d’identità. Con il passaporto della sua vittima ripara in Svizzera per iniziare lì la sua nuova esistenza. Quando la polizia andrà ad arrestarlo in uno sperduto villaggio di montagna, sarà così posseduto dal suo delirio da scambiare i fatti reali per un film in cui lui è il personaggio principale. Per la sua prima coproduzione Fassbinder si avvalse di attori di fama mondiale quali l’inglese Dirk Bogarde e la francese Andréa Ferréol che, quattro anni prima, aveva fatto scalpore con la sua interpretazione nel film La grande abbuffata. Il regista affidò loro i ruoli dei due protagonisti mentre, come d’abitudine, assegnò le parti minori a componenti del suo team, tra cui Peter Kern, Volker Spengler e Gottfried John. Per il regista le nuove star straniere erano semplicemente del «materiale»; fuori dal set, non gli interessavano affatto. Prima dell’inizio delle riprese Fassbinder trascorse a Nizza un’intera serata con Dirk Bogarde. «In quell’occasione il regista non riuscì a parlare d’altro se non del tempo» racconta Peter Kern. «A servirli c’era il compagno dell’attore inglese, più vecchio di Bogarde di vent’anni. Mangiarono senza scambiare una parola sul film che si apprestavano a girare o su quelli che avevano realizzato fino ad allora.»2 Anche Andréa Ferréol ricorda che a una cena a Parigi – un’occasione per rompere il ghiaccio – il cineasta non le aveva rivolto parola.3 Tuttavia entrambi gli interpreti apprezzarono di poter collaborare con Fassbinder. Bogarde gli fu profondamente riconoscente per averlo scelto per un personaggio affascinante come Hermann. In seguito l’attore inglese avrebbe giudicato la sua interpretazione in Despair la migliore della sua vita. Il lungometraggio fu prodotto per conto di una consociata della Bavaria Film che operava in tutto il mondo. Destinata al mercato estero, la pellicola fu girata in inglese, una novità per Fassbinder che, per la prima volta, dovette confrontarsi con una serie di difficoltà generate dalla sua scarsa conoscenza della lingua. Il fatto che questa volta i soldi non costituissero un problema,
e quindi «si potesse girare come a Hollywood», era a detta di Ballhaus «un’emozione per tutti».4 Malgrado o proprio in seguito alle grandi aspettative riposte nel regista, dal quale ci si attendeva un’opera di stampo hollywoodiano, durante i quaranta giorni di riprese – un periodo insolitamente lungo – Fassbinder lavorò con particolare maestria e straordinaria concentrazione. Limitò persino il consumo di droghe – dopotutto con Despair contava di sfondare a livello internazionale. Perlopiù appariva tranquillo ed equilibrato. Solo quando la professionalità degli altri veniva meno e «i preparativi della produzione si rivelavano scadenti», rallentando «i lavori», Fassbinder «s’irritava terribilmente e diventava caustico. O schiumava come un toro»5 racconta Ferréol. Quando invece qualcosa lo soddisfaceva appieno, rideva forte come un ragazzino, si divertiva e strepitava. «Era buffo, certe volte dovevamo fermarci dal chiasso che faceva. “Mi spiace ma mi sto divertendo troppo” diceva. Dirk Bogarde e io pensavamo: sembra un bambino che gira il suo film.»6 Nel maggio del 1978 Despair fu proiettato in prima mondiale al Festival di Cannes. Il lungometraggio costituiva il contributo ufficiale della Germania ai film in concorso. Per volere del distributore, il regista aveva dovuto accorciare la versione originale da tre a due ore – cosa che in seguito avrebbe considerato un grave errore.7 «Quando vidi la nuova versione avrei voluto piangere» commentò Michael Ballhaus. «Il film non aveva più un’anima! Despair aveva perso quella calma che era fondamentale per la storia.»8 Tuttavia Fassbinder riponeva grosse speranze in Cannes. Opera perfetta dal punto di vista estetico – rigorosa nella messinscena e con un cast stellare –, malgrado il costoso allestimento art déco di Rolf Zehetbauer, la fotografia di Michael Ballhaus e il prestigio internazionale del progetto, la pellicola non fu ben accolta dal pubblico – deluso e irritato – e mancò di destare l’atteso clamore. Gran parte dei critici e degli spettatori stroncò il film a causa della storia contorta e cupamente morbosa e di una certa sterilità dell’impeccabile allestimento scenografico. Senza dubbio Despair rimane un film molto affascinante sotto il profilo artistico ma la freddezza analitica dell’impianto narrativo non permette di identificarsi nei personaggi. Inoltre, se non si conosce già il romanzo di Nabokov, è difficile seguire l’azione, complessa e involuta, avere una visione d’insieme degli accadimenti, scindendo ciò che è reale da ciò che è frutto dei deliri del protagonista. In Germania la pellicola ebbe un’accoglienza decisamente migliore rispetto a Cannes. Nel 1978, al conferimento del Bundesfilmpreis, sia Fassbinder che Ballhaus e Zehetbauer, rispettivamente per la regia, la fotografia e la scenografia, ottennero il prestigioso Nastro d’oro. La critica, entusiasta, definì Despair un capolavoro del cinema d’arte europeo e concluse all’unanimità che Fassbinder aveva raggiunto, con il suo ultimo film, il livello di Luchino Visconti e Ingmar Bergman. Le lodi della stampa non riuscirono tuttavia ad attirare le masse nelle sale cinematografiche. Gli incassi rimasero ben al di sotto delle aspettative, e Fassbinder – fermamente convinto che quel film sarebbe stato il suo biglietto da visita per Hollywood – rimase molto deluso dall’insuccesso che segnò il suo esordio nella grande produzione internazionale. Nessun insuccesso, però, poteva scalfire la fiducia in se stesso del regista né interrompere la sua futura carriera oltre confine. Non erano ancora terminate le riprese di Despair quando, con fermezza, dichiarò a un giornalista: «Vorrei essere per il cinema quello che Shakespeare fu per il teatro, Marx per la politica e Freud per la psicoanalisi: uno dopo il quale nulla è più come prima».9
Io sparo in ogni direzione Nell’autunno del 1977 la Raf, il gruppo eversivo di estrema sinistra fondato sette anni prima, terrorizzava la Repubblica Federale Tedesca. Mentre nella prigione di massima sicurezza di Stuttgart-Stammheim era in corso il processo alla «prima generazione» di terroristi, la «seconda generazione» capeggiata da Brigitte Mohnhaupt cercava di ottenere con la lotta armata la liberazione dei detenuti Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Ulrike Meinhof, Jan-Carl Raspe e Irmgard Möller. Sebbene nel 1975, sotto la pressione del sequestro di Peter Lorenz, candidato della Cdu a sindaco di Berlino, fossero stati scarcerati alcuni importanti terroristi, il Governo federale tedesco del cancelliere Helmut Schmidt aveva deciso di non piegarsi più a nessun ricatto. I terroristi, però, non si diedero per vinti. Dopo aver ucciso il procuratore generale Siegfried Buback, i membri della Raf freddarono in un tentato rapimento Jürgen Ponto, direttore della Dresdner Bank, personaggio di spicco del mondo economico e finanziario tedesco. Quindi ai primi di settembre del 1977 riuscirono a sequestrare a Colonia il presidente degli industriali Hanns Martin Schleyer, un caso che ebbe un’enorme eco mediatica. La situazione precipitò drammaticamente quando, a metà ottobre, un commando terroristico palestinese,
fiancheggiatore della Raf, dirottò su Mogadiscio un Boeing 737 della Lufthansa decollato da Palma di Maiorca e diretto a Francoforte, prendendo in ostaggio ottantadue passeggeri e cinque membri dell’equipaggio, per i quali in un primo momento si temette il peggio. Nella notte del 18 ottobre del 1977 una speciale task-force chiamata Gsg-9, neonata unità antiterrorismo della polizia federale tedesca, riuscì a penetrare nell’aereo, sparando a tre dei quattro terroristi palestinesi e liberando tutti gli ostaggi, tranne un pilota, Jurgen Schumann, ucciso dagli attentatori. La stessa notte i terroristi Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe, rinchiusi nel carcere di Stammheim, si suicidarono. Poco dopo fu rinvenuto il corpo di Hanns Martin Schleyer a Muhlhouse, in Alsazia. Dagli intellettuali della Germania Federale ci si aspettava ovviamente una riflessione sui tragici fatti dell’«autunno tedesco» ma anche, al di là dei giudizi ufficiali, una presa di posizione rispetto a quanto era accaduto. Su proposta del Filmverlag der Autoren tredici registi del Nuovo cinema tedesco, tra cui vi erano, oltre Fassbinder, Alexander Kluge, Volker Schlöndorff e Edgar Reitz, decisero di riunirsi e misurarsi con le azioni della Raf in un progetto corale. I singoli episodi di questo film collettivo, che alla fine uscì con il titolo Germania in autunno (Deutschland im Herbst), dovevano raccontare a caldo quei terribili eventi riproducendo l’atmosfera del momento. Per potersi dedicare al tema nel modo più imparziale, gli autori decisero di autofinanziarsi e di rinunciare a qualsiasi forma di sovvenzione statale, sussidio o contributo di emittenti televisive. Fassbinder, che aveva potuto assistere da vicino al processo di radicalizzazione dell’opposizione extraparlamentare, riteneva scontata la sua partecipazione al progetto. Dopotutto aveva conosciuto Andreas Baader già nel marzo del 1968, pochi giorni prima dell’attentato incendiario al grande magazzino di Francoforte. All’epoca Baader e i suoi due complici, Gudrun Ensslin e Thorwald Proll, andavano e venivano dall’Action-Theater come se fosse casa loro.10 A quel primo incontro ne erano seguiti altri. Nell’ottobre del 1969 – alcuni mesi prima della fondazione della Raf – Fassbinder aveva rivisto Baader alla Mannheimer Filmwoche, in occasione della prima proiezione di Katzelmacher. Baader era arrivato con la Ensslin al festival cinematografico per raccogliere fondi a favore della Heimkampagne, un’azione promossa dai gruppi extraparlamentari per denunciare le misure repressive che perduravano negli istituti di rieducazione per bambini e adolescenti della Germania occidentale. Tuttavia «cercare di convincere Fassbinder a dare un contributo era stato inutile […] in quanto non voleva saperne di partecipare alla colletta di Baader»,11 ricorda Alfred von Meysenburg, che aveva accompagnato Baader e la Ensslin a Mannheim. Pur auspicando un cambiamento in seno alla società, il regista non condivideva per niente le illusioni e i toni altisonanti del movimento studentesco di rivolta né il romanticismo rivoluzionario che negli anni sessanta imperava nei circoli della sinistra. A differenza di questi gruppi, si era ormai convinto «che le cose stavano così e sarebbe stato molto difficile cambiarle».12 La radicalizzazione di tutta l’area della sinistra spinse Fassbinder a tenersi lontano dai movimenti estremisti: non intendeva in alcun modo essere bollato come simpatizzante della Raf. Quando gli fecero sapere che Ulrike Meinhof, allora in clandestinità, voleva parlargli, «rimase molto turbato e non reagì», ricorda Harry Baer.13 Secondo Ingrid Caven era evidente che «Fassbinder non aveva intenzione di incontrarla. Temeva un sequestro».14 In ogni caso, poiché nel dibattito nazionale era considerato un autore di sinistra – per via dei suoi film di critica sociale –, il suo coinvolgimento nel progetto Germania in autunno non sorprese. Ma, come aveva già dimostrato in modo molto toccante con il lungometraggio Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel, Fassbinder ci teneva molto a non essere etichettato politicamente o associato a qualche concezione ideologica, anche se di sinistra. Una volta Karlheinz Böhm gli chiese con chi o contro chi fosse schierato, ovvero chi sostenesse politicamente, al che lui rispose: «Senti, io mi limito a prendere nota quando c’è qualcosa che cova sotto la cenere, va storto o mi puzza. E non mi importa se è a destra o a sinistra, in alto o in basso – io poi sparo in ogni direzione».15 Dopo il prologo, in cui scorrono le immagini dei funerali di Hanns Martin Schleyer, il film Germania in autunno si apre con l’episodio di Fassbinder, che dura trenta minuti. Il regista lo realizzò con la consueta velocità, in soli tre giorni, mentre gli altri autori stavano ancora pensando a come elaborare le rispettive sezioni. Fassbinder, che già nel film Nessuna festa per la morte del cane di Satana aveva posto come fondamento la radicale soggettività e la messa a nudo di se stesso, dà voce qui, in modo assolutamente personale, alla propria impotenza e disperazione di fronte ai terribili eventi dell’«autunno tedesco». L’episodio, senza dubbio il più brutale, coraggioso e sincero di tutta l’opera, è stato interamente girato nel suo appartamento di Monaco poco dopo la liberazione degli ostaggi del Boeing e il suicidio dei tre esponenti della Raf nel
carcere di Stammheim. Nel film il regista, apprese le novità, telefona sconvolto all’amica Ingrid Caven a Parigi, vaga nudo per le stanze, sniffa cocaina, maltratta e umilia il suo compagno Armin Meier fino a cacciarlo di casa. Nelle sequenze prevalgono tuttavia gli inserti documentari di una conversazione tra l’autore e la madre Lilo. Poco prima di girare, Fassbinder le aveva chiesto cosa ne pensasse dei fatti dell’«autunno tedesco» e come, a suo parere, ci si dovesse comportare con i terroristi.16 Davanti alla macchina da presa volle poi discutere con lei dell’attualità, spingendola però a confrontarsi anche sui principi fondamentali della democrazia e sul passato nazionalsocialista. Da un lato c’è il regista che sostiene accoratamente la necessità di rispettare lo stato di diritto e le sue leggi – leggi valide anche per i terroristi –, dall’altro c’è Liselotte Eder, secondo la quale, per ogni ostaggio sequestrato, lo stato dovrebbe uccidere un terrorista. Provocata dal figlio che l’accusa di voler trattare la questione del terrorismo con metodi nazisti, la madre, pur avendo vissuto in prima persona le conseguenze del regime autoritario, arriva a sostenere – nella sua impotenza argomentativa – che forse una dittatura potrebbe essere meglio di una democrazia. Benché a tratti Fassbinder la contraddica duramente, esibendola in modo impietoso nella sua ingenuità politica, chiude poi il suo contributo con le parole di lei: «Quello che ci serve ora… quello che ci serve davvero, è un leader autoritario buono, caro e onesto». Senza dubbio l’episodio di Fassbinder domina l’intero film e per questo offre anche più spunti di discussione. Mentre gli altri registi si rapportano in modo astratto al terrorismo della Raf e i suoi effetti, senza minimamente esporsi sul piano personale, Fassbinder racconta a caldo la propria rabbia e il proprio disorientamento. Il suo proposito era mettere in scena, oltre all’isteria dilagante nel paese, il risvolto privato delle vicende attorno al rapimento Schleyer. Porta così sullo schermo le paure e le angosce vissute da milioni di tedeschi durante quei terribili eventi. Anche a decenni di distanza il suo contributo risulta in assoluto il più autentico e il più sincero dell’intera produzione. Oltretutto l’episodio riflette al massimo grado la realtà, in quanto Fassbinder rinuncia – come sempre – a una visione in bianco e nero delle cose. Lascia quindi inequivocabilmente intendere non solo di deplorare l’uso della violenza perseguito dalla Raf ma anche di appoggiare un energico intervento da parte dello stato. Al tempo stesso vuole però misurarsi con le ragioni profonde che hanno portato i terroristi ad attaccare pesantemente il fascismo latente nella Germania occidentale – il fatto che il fascismo persista e che in momenti di crisi possa riaffiorare viene confermato dal cineasta attraverso le parole della madre, che ribadisce la sua cieca fiducia nell’autorità. Fassbinder dimostra così di comprendere la sostanziale disperazione di quelli che si sono convertiti all’eversione contro lo stato, ma dimostra anche di condannare il cammino da loro intrapreso. Il suo modo di confrontarsi con le disfunzioni della società era e sarebbe rimasto il mezzo cinematografico. Lanciato sul mercato dal Filmverlag der Autoren come «un film che si rivolge alla democrazia del paese», Germania in autunno ebbe ampia risonanza a livello internazionale, anche grazie al clamore suscitato nel mondo intero dai fatti dell’«autunno tedesco». Eppure in Germania, dove la pellicola debuttò nel marzo del 1978 – nemmeno sei mesi dopo i drammatici avvenimenti –, ricevette un’accoglienza piuttosto fredda «perché sia l’idea di lavorare sul ricordo e sul lutto, sia il montaggio sperimentale contrastavano con le aspettative del pubblico nei confronti di un film destinato alle sale».17 Da parte sua, lo stato avanzò comunque la proposta di assegnare a un’opera d’impegno civile come quella il Bundesfilmpreis. Tuttavia quasi tutti gli autori reputarono sconveniente accettare un riconoscimento pubblico per un film che aveva un intento critico anche verso l’operato dello stato. «Per motivi etici» lo stesso Fassbinder rifiutò preventivamente «di accogliere il premio federale».18 Con Germania in autunno il regista non chiudeva però il suo capitolo cinematografico dedicato al tema del terrorismo. Solo un anno dopo, nel nuovo lungometraggio intitolato La terza generazione (Die dritte Generation), Fassbinder si misurava con quanto accadeva nei circoli della sinistra all’indomani dei suicidi di Baader, della Ensslin e di Raspe. Nell’ambiente persisteva la convinzione che non si fosse trattato di un suicidio collettivo ma di un omicidio di stato. I membri della seconda generazione della Raf vicini a Brigitte Mohnhaupt e a Peter-Jürgen Boock, ai quali era ben nota la verità sulla suicide action pianificata nei minimi dettagli da Andreas Baader,19 diffondevano questa voce avendo deciso già da tempo di non abbandonare la lotta armata contro lo stato.20 Tenendo segreto quanto sapevano, potevano continuare ad accusare la Germania Federale di essere uno stato di polizia, cosa che portò a un’enorme mobilitazione proprio in un momento in cui nei movimenti della sinistra cresceva vertiginosamente il sostegno alla Raf in nome dello slogan: «La lotta è appena cominciata!». Il Governo federale riteneva allora che fossero più di mille i militanti in clandestinità disposti a compiere attentati contro lo stato.
Nel suo nuovo lavoro Fassbinder si concentrò sulle strutture e sulle motivazioni profonde di questa terza generazione della Raf. Al film diede fin dall’inizio un taglio ben preciso. Il regista era certo che i terroristi non fossero più guidati da un’ideologia politica: «Sono convinto che loro, i terroristi, non sanno quello che fanno. […] Agire nel pericolo ma senza alcuna prospettiva, vivere l’avventura come scopo a sé, come un’ubriacatura, queste sono le motivazioni della “terza generazione”».21 Mentre in precedenza i militanti avevano agito perché mossi da ideali, ora i membri della Raf, che avevano continuato la lotta armata contro lo stato malgrado l’escalation di violenza dell’«autunno tedesco», erano – a detta di Fassbinder – persone senza utopie, per le quali entrare in clandestinità era solo un gioco avventuroso. Poiché, però, questa «terza generazione», così incline alla violenza, era anche un riflesso della società del suo tempo, Fassbinder ritenne importante nei suoi film sviluppare questo argomento – con cui tra l’altro si era già misurato nella sua trilogia gangster a partire da L’amore è più freddo della morte –, sottolineando il legame tra l’inclinazione violenta e le condizioni e gli obblighi sociali. Per evidenziare in modo inequivocabile le assurde caratteristiche di queste nuove leve della Raf, decise di accostarsi al tema con una commedia aspra e parodistica: «Mi dissi che se avessi girato La terza generazione in forma di farsa sarei riuscito a esprimere al meglio il lato grottesco di questi terroristi assolutamente privi di motivazioni serie».22 Presto, tuttavia, il regista dovette riconoscere che il suo proposito si scontrava con grosse resistenze. Dopo gli avvenimenti dell’autunno del 1977 l’atmosfera nel paese era diventata talmente incandescente che qualsiasi confronto su questioni inerenti l’estremismo di sinistra faceva paura. In particolare Fassbinder, con quel suo modo personale di trattare l’argomento, non riusciva a convincere nessuno e così, sul fronte dei finanziamenti, incassava un rifiuto dopo l’altro. Il Senato di Berlino gli negò l’annunciata sovvenzione di 300mila marchi, mentre la rete televisiva Wdr, in origine propensa a coprodurre l’opera, si ritirò dal progetto – a detta di Fassbinder per «motivi chiaramente politici».23 Poiché le riprese erano già cominciate da tempo, il cineasta non volle gettare la spugna, anche perché non condivideva le argomentazioni addotte per rifiutargli i finanziamenti, secondo le quali il pubblico tedesco non sarebbe stato interessato a una pellicola del genere. Decise quindi di realizzare La terza generazione in modo indipendente, senza preoccuparsi delle eventuali perdite finanziarie. Con questa determinazione, non solo produsse il film ma ne curò anche la sceneggiatura e, per la prima volta nella sua carriera di regista, girò personalmente le riprese. Quanto al cast, ingaggiò molti suoi compagni di squadra, come non faceva più da tempo (Volker Spengler, Harry Baer, Hanna Schygulla, Margit Carstensen, Günther Kaufmann, Udo Kier, Vitus Zeplichal, Hark Bohm e naturalmente la madre Liselotte), e li convinse tutti a lavorare gratuitamente.24 In questo modo riuscì a coprire i costi di lavorazione che si aggiravano sugli 800mila marchi, ricorrendo in parte a capitali personali, in parte a crediti. «Ho sempre cercato di fare i film che dovevo fare, anche quando non erano disponibili i mezzi finanziari necessari.»25 La terza generazione racconta la storia di un gruppo di giovani che vivono a Berlino Ovest, senza obiettivi, accomunati da un senso di disperazione, da un reale desiderio di morte, nonché da una smania di segretezza e da un cieco attivismo. Pur non mostrando alcun interesse per le questioni di attualità politica o le concezioni politiche in generale, contestano fermamente «la società», il grande capitale e i rapporti di potere. Nel loro tedio e bisogno di avventura e di ebbrezza, nel loro desiderio di evadere dalla routine – non avendo nient’altro di più elettrizzante da fare –, accarezzano l’idea dell’eversione e accolgono entusiasti nella loro cellula Paul, un killer professionista, appena rientrato da un campo di addestramento militare nel Nord Africa. Nel momento in cui Paul viene freddato dalla polizia, i membri del gruppo decidono di assumere nuove identità e si danno alla lotta clandestina. Quando però nel gruppo comincia a circolare la voce che qualcuno avrebbe tradito Paul, nessuno immagina quanto quella voce sia vicina alla verità, perché è August, il fondatore, a fare il doppio gioco. Poco alla volta August non solo rivela alla polizia i nomi dei suoi presunti compagni ma funge anche da intermediario con il finanziatore segreto del gruppo, Peter Lurz, rappresentante di una società texana specializzata in computer. Lurz non riesce più a vendere i suoi computer ai servizi investigativi tedeschi da quando i terroristi hanno smesso di fare attentati. Per rilanciare i suoi affari, decide quindi di finanziare di nascosto una nuova cellula di sovversivi. Poiché l’ex segretaria di Lurz fa parte del gruppo dei combattenti entrati in clandestinità, questi non esitano a rapire l’esperto informatico nel mezzo di un corteo di carnevale. L’ultima scena ritrae i sequestratori mentre fanno le prove per un videomessaggio in cui rivendicano la scarcerazione di tutti i prigionieri politici della Repubblica Federale in cambio del loro ostaggio, presentato come «prigioniero del popolo». Da parte loro, i terroristi non sanno che Lurz è l’uomo che li sostiene e finanzia la loro cellula; per contro Lurz,
che considera il terrorismo solo uno strumento per incrementare le vendite, è convinto che il proprio rapimento rientri nel piano da lui stesso ideato. Questa strategia di Fassbinder, che mette in scena i rappresentanti della «terza generazione» della Raf come delle marionette del capitalismo e scredita la cosiddetta lotta rivoluzionaria, in cui vede soltanto una grottesca carnevalata e un attivismo cieco, non incontrò grande simpatia. Tale reazione era dovuta non solo al tema spinoso e all’approccio singolare ma anche al fatto che La terza generazione è uno dei film più radicali del regista. Non avendo come orizzonte il grande pubblico, il cineasta colse l’occasione per operare – sotto il profilo cinematografico – in modo molto più sfrontato e irriverente rispetto a Despair, per esempio, decisamente più orientato verso il cinema di massa e le abitudini visive dello spettatore medio. Nella Terza generazione Fassbinder non ritrae personaggi in cui identificarsi, né dà risposte e interpretazioni. Anche da un punto di vista prettamente tecnico, agì in modo da rendere impossibile la fruizione della pellicola da parte di un pubblico mainstream. Per la colonna sonora scelse un collage molto perturbante di tre diverse tracce: sul primo livello passano quasi ininterrottamente notizie radiofoniche, mentre sul secondo si alternano televisione, musica o letture di testi. I dialoghi veri e propri – registrati sul terzo livello –, in seguito a questa confusione acustica, risultano spesso difficilmente comprensibili, rendendo così la visione del film molto faticosa. In una sequenza una ragazza canta un motivo accompagnandosi alla chitarra – sullo sfondo una tv trasmette un dibattito con Rudi Dutschke – mentre uno dei terroristi legge un brano di Bakunin e contemporaneamente si alternano i dialoghi degli altri attori, che in un tale bombardamento di rumori e suoni si sentono a malapena. Questo effetto è stato definito da alcuni critici «terrorismo sonoro».26 Prescindendo dal fatto che Fassbinder usò La terza generazione per i suoi radicali esperimenti artistici, il film gli diede l’opportunità di dimostrare che, anche dopo un progetto dispendioso come Despair, la sua attività cinematografica non era subordinata a budget milionari, anzi ora come un tempo era in grado di lavorare in condizioni sostanzialmente modeste se l’argomento lo interessava. Aver realizzato la pellicola nonostante tutte le resistenze e con capitali propri lo autorizzava a ribadire con orgoglio la propria indipendenza dalle commissioni di finanziamento e dalle emittenti televisive. In questo senso Fassbinder voleva che la pellicola venisse anche recepita come una dichiarazione di politica cinematografica. Il suo intento era stabilire un esempio e dimostrare che il cinema deve poter reagire in modo tempestivo e spontaneo all’attualità e che ha la forza di intervenire nella realtà del paese e di fare i conti «in maniera assolutamente critica con gli eventi del quotidiano». Fassbinder cercava di definire il cinema come luogo della comunicazione sociopolitica e si batteva affinché si affrontassero «questioni politiche con lo strumento filmico, anche e soprattutto con film girati per il circuito cinematografico».27 Con ciò non intendeva fornire risposte o soluzioni preconfezionate bensì stimolare la riflessione su questioni che toccavano molte persone: «In questo Fassbinder oggi è insuperabile come lo è nel coraggio che ha di litigare con tutti» scriveva la Süddeutsche Zeitung.28 Il regista accettò la critica poiché era assolutamente convinto che «solo così si può fare del buon cinema in Germania: se non ci si preoccupa delle perdite».29 Con La terza generazione Fassbinder diede un importante segnale politico ma dimostrò anche, una volta di più, di non essere disposto a farsi etichettare come «regista di sinistra», per quanto l’establishment della Repubblica Federale cercasse comunque di considerarlo tale. Com’era già accaduto con Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel, il cineasta attirò su di sé l’ira della sinistra perché in fondo aveva ritratto in maniera caricaturale l’ambiente dei terroristi, rappresentandolo come un teatro di marionette difficile da prendere sul serio. Al suo debutto in Germania nel settembre del 1979, quattro mesi dopo la prima al Festival di Cannes, La terza generazione fu accolto con il lancio di fialette puzzolenti da parte dei militanti della sinistra. In molte città si svolsero azioni di protesta contro il film, mentre a Mannheim attivisti mascherati fecero irruzione in un cinema e distrussero i rulli. Per Fassbinder era determinante aver realizzato, in barba alle resistenze di tutti i finanziatori, pubblici e non, un’opera che lui stesso considerava socialmente rilevante e necessaria. Il fatto che la pellicola sollevasse tante contestazioni – accadde ben più di una volta nel corso della sua carriera – non sembrò invece infastidirlo: «Qualunque cosa io faccia, la gente insorge contro di me».30
Solo ora comincia il mio tempo Dopo l’amara delusione di Despair, il regista, con il suo nuovo film, superò tutte le aspettative, persino le proprie. Uscito nel 1978, Il matrimonio di Maria Braun (Die Ehe der Maria Braun) gli assicurò
finalmente il successo internazionale, anche sul piano commerciale. Da un giorno all’altro Fassbinder diventò così il cineasta più pagato della Germania. Con questa pellicola si avvicinava inoltre al suo obiettivo, ovvero realizzare un «film tedesco in stile hollywoodiano», intento che in seguito avrebbe perfezionato con opere come Lili Marleen, Lola e Veronika Voss. Hollywood è sempre stata un parametro importante per Fassbinder, tanto da influenzare il suo modo di fare cinema fin dagli esordi, e questo sebbene il suo rapporto con la grande fabbrica di sogni americana non fosse dei più sereni. Se da un lato – avendo passato l’infanzia a guardare film americani – sentiva infatti una forte affinità con il cinema di Hollywood, i suoi contenuti e le sue forme espressive, dall’altro avvertiva in molte pellicole un pericoloso scollamento dalla realtà, che rischiava di «rimbambirti, toglierti coraggio invece di dartelo, imbrogliare le cose invece di chiarirle».31 Fassbinder puntava invece a «un cinema così meravigliosamente e universalmente comprensibile come quello hollywoodiano ma, al tempo stesso, non così falso».32 Sebbene per Il matrimonio di Maria Braun avesse a disposizione un budget di appena due milioni di marchi, un terzo della somma ricevuta per Despair, riuscì a realizzare un film grandioso che aveva tutte le carte in regola per sbancare il botteghino. Per il ruolo della protagonista aveva pensato subito a Hanna Schygulla, con cui voleva riprendere a collaborare. Dopo quattro anni di assoluto silenzio le telefonò e le disse: «Ho un film per te, credo proprio che tu possa farlo».33 La Schygulla, che nel frattempo non era più riuscita a raggiungere gli importanti successi ottenuti con Fassbinder, si rese immediatamente disponibile. I produttori cercarono tuttavia di convincere il regista ad affidare la parte a Romy Schneider che, nonostante la fama di cui godeva in Francia, desiderava ardentemente, com’era risaputo, tornare trionfante in Germania; la popolarità internazionale della Schneider avrebbe sicuramente richiamato l’attenzione del grande pubblico sul film.34 Dal canto suo, il cineasta respinse categoricamente questa richiesta anche se, all’età di diciassette anni, aveva sognato di poter fare un film con lei;35 in ogni caso, fino a quel momento, non aveva mai neppure pensato di sottoporle una proposta di lavoro. Quanto all’attrice, seguiva da tempo con interesse il percorso del regista. All’inizio degli anni settanta aveva visto il primo film di Fassbinder, L’amore è più freddo della morte, e ne era rimasta colpita al punto da manifestare il suo apprezzamento al vecchio amico Ulli Lommel: «Non male. Il ragazzo ha stoffa. Potrebbe venir fuori qualche proposta interessante». Ma alla luce di tutte le tresche del cineasta, di cui nessuno faceva mistero nell’ambiente del cinema, la Schneider non sembrava gradire molto un’eventuale collaborazione: «Devo pensarci su, non so ancora se ho voglia di lavorare con quel Fassbinder. Su di lui circolano le storie più incredibili».36 Se Fassbinder non volle Romy Schneider nel ruolo della protagonista fu innanzitutto perché, avendo già in testa l’intero film, era impensabile immaginarsi una Maria Braun che non fosse interpretata dalla Schygulla.37 Anche se aveva chiesto lui di riprendere a lavorare con la sua attrice di un tempo, non poté astenersi dal comunicare alla stampa, con una punta di ironia, il suo trionfo nell’essere riuscito a far ritornare la star alla propria corte: «Hanna ha un piccolo problema. Con me ha fatto dei film e la sua bravura era evidente. Poi ha fatto film con altri e lì la sua bravura non è stata altrettanto evidente. E siccome lei non voleva crederci, se n’è andata via da me. Il punto è che gli altri registi non hanno saputo prenderla, o forse non l’hanno apprezzata abbastanza».38 Hanna Schygulla, che in occasione di Effi Briest si era pubblicamente lamentata di essere stata ritratta da Fassbinder come una superdonna passiva, quasi sonnambula, ora non aveva più motivo di protestare perché nel Matrimonio di Maria Braun doveva interpretare una donna di mezza età estremamente indipendente ed energica. Anche gli altri ruoli andarono ad attori di prim’ordine. Il marito di Maria Braun, Hermann, fu Klaus Löwitsch, che ormai collaborava con Fassbinder dagli anni settanta e aveva già lavorato nei film Il mondo sul filo, Nora Helmer e Despair. Ivan Desny, invece, recitò nei panni del capo nonché dell’amante di Maria Braun. Altri ruoli furono affidati a Elisabeth Trissenaar e Gisela Uhlen, Günter Lamprecht e Gottfried John. Come sempre, il regista ingaggiò anche alcuni membri del suo clan ristretto, tra cui Günther Kaufmann, Volker Spengler e sua madre Liselotte Eder, nei panni della segretaria Ehmke. Delle riprese si occupò naturalmente Michael Ballhaus, delle musiche Peer Raben. Helga, la moglie di Ballhaus, curò l’allestimento scenico. La sceneggiatura non fu scritta personalmente da Fassbinder. Dovendo lavorare in parallelo all’imponente testo per lo sceneggiato televisivo a puntate Berlin Alexanderplatz, non ne aveva il tempo. Pertanto si rivolse a Peter Märthesheimer che, in quanto redattore del Wdr, aveva seguito tutti i film per la tv di Fassbinder. Lusingato dalla fiducia del regista, Märthesheimer, che fino ad allora non aveva mai scritto una sceneggiatura, si lasciò coinvolgere nell’impresa e si mise all’opera con Pea Fröhlich, cercando di attenersi al linguaggio visivo del cineasta: «Scrivevamo i
dialoghi avendo nell’orecchio la melodia delle parole che avevamo ascoltato in altri suoi film; costruivamo le scene in modo da terminarle con un’idea stravagante messa in evidenza da un primissimo piano muto così come era solito fare il regista».39 Fassbinder rimase talmente soddisfatto del risultato che in seguito avrebbe affidato loro anche le sceneggiature di Lola e di Veronika Voss. Malgrado ciò – stando alle sue rivelazioni – nei film Fassbinder conservava ben poco di quello che la coppia aveva scritto, ma apprezzava il lavoro dei suoi collaboratori ritenendolo «comunque molto importante».40 I due autori approntavano semplicemente un canovaccio che lui rimaneggiava e perfezionava. Nucleo centrale del film Il matrimonio di Maria Braun – definito in seguito dal cineasta il preludio di una serie di opere che dovevano misurarsi con la storia della Germania Federale – sono gli anni immediatamente dopo il crollo del regime nazionalsocialista, quando tra le macerie delle città prendeva forma l’edificio dei valori morali e sociali su cui si basava la Repubblica Federale nata nel 1949. La pellicola racconta la storia di Maria Braun, una donna che si sposa sotto i bombardamenti in piena Seconda guerra mondiale. L’indomani della prima notte di nozze Hermann, il marito, deve partire per il fronte orientale. Come altri milioni di donne, Maria aspetta invano il ritorno del suo uomo. Convinta che Hermann sia ancora vivo, cerca faticosamente di tenersi a galla dandosi al mercato nero e mangiando alla mensa per i poveri allestita alla stazione. Maria accetta di lavorare come entraîneuse in un bar per soldati americani ma rifiuta le avance degli uomini. Solo quando un vecchio conoscente, appena rientrato dal fronte, le comunica la morte di Hermann, Maria si offre a Bill, un sottoufficiale americano di colore, e si lega a lui sentimentalmente. Grazie a Bill la sua vita nell’inferno del dopoguerra sarà un po’ meno faticosa. Finché un giorno il marito, che non è perito in guerra ma è reduce dalla prigionia in Russia, si presenta improvvisamente alla porta. Alla comparsa di Hermann Maria uccide l’amante americano, dimostrando così al marito di amarlo ancora. Hermann si accusa del delitto e viene condannato a parecchi anni di prigione. Dopo aver perso il bambino che aspettava da Bill, Maria decide di concentrare tutti i suoi sforzi su un unico obiettivo: guadagnare più denaro possibile per poter cominciare, una volta che il marito avrà scontato la pena, una nuova vita insieme in una casa di loro proprietà. A sostenerla nel suo intento sarà un’incrollabile fede nel futuro: «Solo ora comincia il mio tempo» dichiara la protagonista del film. Un giorno, in treno, Maria conosce un facoltoso industriale tessile francese che l’assume nella sua fabbrica tedesca e s’innamora subito di lei. Nonostante sia ancora viva la passione per Hermann, Maria accetta la relazione con il suo capo, Carl Oswald, confessandogli però di amare solo il marito e di non poter essere per lui nulla più che un’amante. Oswald, già gravemente malato, si rassegna, finché un giorno va a trovare Hermann in carcere e stringe un patto con lui: quando uscirà di prigione dovrà sparire permettendo così a Oswald di trascorrere con la sua amante il poco tempo che gli rimane da vivere. Hermann si lascia persuadere e, una volta scarcerato, scappa effettivamente all’estero. A Maria, ignara del piano, racconta di voler guadagnare abbastanza per essere degno di lei. Ogni mese le spedisce una rosa per dimostrarle il suo amore. Morto Oswald, il marito fa ritorno in Germania come concordato. Finalmente, a dieci anni dal loro matrimonio, è arrivato il momento in cui Hermann e Maria potrebbero realizzare l’agognato sogno di vivere assieme. Materialmente non hanno più problemi, posseggono una villa che Maria ha fatto costruire per loro, ed ereditano ciascuno metà del patrimonio di Oswald. Tuttavia, nel giorno in cui si riabbracciano, la casa salta in aria a causa di una disattenzione di Maria, che non aveva chiuso bene il rubinetto del gas. Il film non rivela se si tratti di un gesto deliberato della donna una volta appreso del patto tra il marito e il suo amante, né mostra i corpi privi di vita dei due coniugi. La sequenza che chiude la pellicola si dissolve mentre da una radio fuoricampo provengono le grida concitate del cronista sportivo: «La Germania è campione del mondo!». Era il «miracolo di Berna», la storica vittoria della Germania Ovest sull’Ungheria nell’incontro finale dei mondiali di calcio del 1954. Ai giornalisti, che lo interrogarono su quel finale aperto, Fassbinder replicò: «La signora Schygulla in questo film non voleva morire».41 Con Il matrimonio di Maria Braun Fassbinder non solo realizzò un melodramma convincente ed esteticamente essenziale – con concreti riferimenti al periodo storico trattato – ma dipinse anche la figura di una donna molto forte che in un momento difficile come l’immediato dopoguerra vuole trovare la sua strada e, per non soccombere, deve imparare a imporsi e a cavarsela da sola in una società ancora fortemente patriarcale. La protagonista sviluppa così quasi per necessità una grande consapevolezza di sé, prima nell’amore e poi nel mondo del lavoro. La Maria che vediamo all’inizio del film, passiva e tesa solo al ritorno del marito, si trasforma poco alla volta in una figura estremamente energica e autorevole. In modo coerente ma anche spietato persegue i suoi scopi diventando inevitabilmente e gradualmente un’insensibile donna d’affari che non ha
più tempo per i sentimenti. Come milioni di altre donne che, dopo la guerra, erano state costrette ad arrabattarsi perché i mariti erano morti al fronte o erano stati fatti prigionieri, anche Maria «deve supplire al marito», cosa che le riesce solo riproducendo le vecchie regole del mondo maschile. Fassbinder fa terminare la storia esattamente il 4 luglio 1954, il giorno in cui la nazionale tedesca vinse trionfalmente i campionati mondiali di calcio a Berna. Con questo evento, cui corrisponde la vera data di nascita della Repubblica di Bonn, per molti tedeschi non solo ebbe fine la prima fase del dopoguerra, ma si concluse anche il predominio delle donne, ricacciate nei loro ruoli dal ritorno dei mariti dalla prigionia. Per donne consapevoli come Maria Braun, la cui vita rifletteva come un sismografo il clima dell’immediato dopoguerra, non vi era più spazio. Il film con il suo finale tragico racconta dunque anche la storia di un’emancipazione fallita. Già prima del debutto ufficiale, in occasione di alcune proiezioni organizzate da Fassbinder a margine del Festival di Cannes nel 1978 e poco dopo a Monaco, si profilò un successo travolgente. L’entusiasmo per il film, che in effetti rappresenta uno dei vertici dell’attività artistica del regista, fu debordante. Il fondatore dello Spiegel, Rudolf Augstein, era convinto che Fassbinder con Il matrimonio di Maria Braun avesse girato il «migliore film tedesco dalla fine della guerra».42 Il guru dei produttori, Horst Wendlandt, diventato famoso con le trasposizioni filmiche dei romanzi di Edgar Wallace e di Karl May e da sempre molto critico nei confronti di Fassbinder, gli saltò al collo estasiato dopo aver visto la pellicola. E François Truffaut, che coglieva nella Maria Braun citazioni da Jean-Luc Godard e da Friedrich Murnau, era entusiasta che Rainer Werner Fassbinder «fosse finalmente scappato dalla torre d’avorio dei cinefili».43 La prima ufficiale del film ebbe luogo nel febbraio del 1979 alla Berlinale. Considerato che l’opera riscosse in anticipo il plauso unanime e al festival fu incensata dalla critica, Fassbinder, che aveva puntato sull’Orso d’oro, non nascose la sua delusione al verdetto della giuria. Mentre la pellicola e Hanna Schygulla ottennero l’Orso d’argento, l’autore rimase escluso dai premi per la «migliore regia». All’assegnazione dei Bundesfilmpreise in quello stesso anno Fassbinder rimase altrettanto deluso. Il matrimonio di Maria Braun ottenne solo il Nastro d’argento; Hanna Schygulla e Rainer Werner Fassbinder furono invece insigniti di un Nastro d’oro rispettivamente come miglior attrice protagonista e come miglior regista. La gioia per l’onorificenza fu tuttavia guastata dal fatto che, al conferimento, Douglas Sirk, regista venerato da Fassbinder, non consegnò il premio per il miglior film a lui bensì al suo amico, Walter Bockmayer, per il lungometraggio Flammende Herzen (Cuori ardenti). Rientrato nella camera d’albergo, Fassbinder sfogò la sua rabbia mettendosi a giocare a calcio con il suo premio «finché non l’abbandonò in un angolo, tutto ammaccato».44 Anche dal punto di vista finanziario Il matrimonio di Maria Braun fu un enorme successo internazionale. Solo in Germania, in appena cinque mesi, la pellicola era stata vista da 400mila spettatori. In alcune sale cinematografiche, data la grande affluenza di pubblico, il film rimase in programmazione per venti settimane o anche di più. I diritti di distribuzione furono venduti in ben venticinque paesi: «La lista delle vendite all’estero andava dall’Algeria all’Uruguay, dal Canada al Giappone».45 In Inghilterra, nella stagione cinematografica del 1980, Il matrimonio di Maria Braun risultò il film straniero più visto, e in America, dove la pellicola fu accolta – per la gioia del regista – come un «German Hollywood film»,46 destò grande esaltazione: per la prima volta a New York si registravano code ai botteghini per un film tedesco. Nel giro di soli due anni la pellicola fruttò venti milioni di marchi. E siccome, al di là della cortina di ferro, il lungometraggio era considerato un vero film «antifascista», poté non solo essere venduto in Unione Sovietica, dove fu proiettato al Festival del cinema di Mosca, ma anche circolare liberamente nella Ddr, dove fu l’unico lavoro di Fassbinder e uno dei pochi film della Germania Ovest ad arrivare nelle sale. Il travolgente successo internazionale fece sì che non solo il nome di Fassbinder diventasse celebre ben oltre confine e al di là della cerchia dei cinefili inveterati, ma che pure Hanna Schygulla venisse catapultata sulla scena cinematografica mondiale. L’ultima collaborazione con il suo scopritore e mentore si era rivelata davvero fruttuosa. Lanciata come una star del Nuovo cinema tedesco, l’attrice fu di colpo equiparata alla «più grande diva tedesca al mondo», Marlene Dietrich. Le maggiori riviste internazionali le dedicarono la copertina. Time Magazine la elesse «Europe’s Most Exciting Actress», mentre Vanity Fair la definì «Screen Queen». Secondo la Schygulla, all’inizio delle riprese Fassbinder non pensava a un simile trionfo. Lì per lì fu quasi indispettito che proprio un film da lui non reputato un capolavoro – a differenza di Despair, nel quale il regista aveva riposto fin dal principio grandi speranze –, e anzi realizzato con estrema facilità, diventasse il suo più clamoroso successo internazionale: «Non credo che Fassbinder, con Maria Braun, intendesse erigermi un monumento. Diciamo che è accaduto contro il suo volere» racconta l’attrice.47
Con questa pellicola ebbe fine l’intensa e brillante collaborazione, durata otto anni e coronata da ben quindici produzioni, con il suo operatore, Michael Ballhaus. In realtà i rapporti tra i due uomini si erano già raffreddati in precedenza. Ballhaus aveva cercato ripetutamente, ma con scarso successo, di affrontare con Fassbinder il problema della sua dipendenza dagli stupefacenti, che andava peggiorando e si ripercuoteva sul ritmo di lavoro sempre più caotico. Il regista, per contro, era stupito del fatto che Ballhaus continuasse a millantare pubblicamente e in particolare sui giornali di essere lui l’artefice di certi effetti presenti nei suoi film. Inoltre non sopportava che l’operatore avesse preso il vizio di dare istruzioni agli attori sul set.48 Dentro di sé, Fassbinder aveva già preso le distanze dal suo collaboratore alla fine del 1976 anche se, in virtù degli accordi presi in precedenza, la collaborazione continuò nei successivi quattro film – così riferisce Michael Fengler, il produttore del Matrimonio di Maria Braun: «Sul set dello sceneggiato televisivo La moglie del capostazione il cineasta era in uno stato pietoso: rimase per giorni e giorni sotto l’effetto delle droghe, senza poter girare. Siccome le riprese procedevano molto lentamente, Ballhaus propose alla Bavaria di concludere lui il film, senza Fassbinder. Kurti Raab, che aveva sentito quanto l’operatore aveva detto, corse subito a riferirlo a Rainer Werner, che se la prese a male, e da allora considerò Ballhaus un traditore».49 Nonostante lo strappo tra lui e il regista, Michael Ballhaus profittò ampiamente della notorietà raggiunta con Fassbinder per sfondare a livello internazionale. Indubbiamente fu merito della sua carriera in Germania se poi riuscì a diventare uno dei direttori della fotografia più famosi al mondo e a lavorare al fianco di registi del calibro di Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e Wolfgang Petersen. A modo suo anche Fassbinder trasse vantaggio dalla collaborazione. Così sostiene Ulli Lommel, che li aveva fatti incontrare nel 1970: «Credo che, senza Ballhaus, Fassbinder non sarebbe diventato Fassbinder».50 Anche se con Michael Ballhaus era uscita dalla sua vita una delle poche persone che avevano osato affrontare con lui la questione del suo consumo di droga e delle relative conseguenze, ora era lo stesso Fassbinder a sentire che era giunto il momento di tirare il freno d’emergenza e di fare qualcosa per uscire dalla tossicodipendenza. Il regista aveva un rapporto stranamente ambivalente con la sua salute. Fin da ragazzo aveva vissuto nella convinzione che sarebbe morto presto, al punto da abbandonarsi fatalmente al suo destino e perseguire una condotta di vita del tutto malsana. Al tempo stesso era costantemente preoccupato delle sue condizioni fisiche temendo sempre il peggio: «Le vescichette in bocca significavano cancro, le fitte al fianco erano i primi sintomi di cirrosi epatica, mal di testa era sinonimo di tumore». Sebbene o proprio perché gli era ben chiaro che con uno stile di vita tanto disastroso si rovinava la salute, se ne stava di proposito alla larga dai medici rifiutando di farsi visitare «anche quando aveva dolori. Certe volte respirava così faticosamente che pareva soffocare. Trangugiava medicine per o contro qualcosa a casaccio, senza badare alla quantità».51 Ma nel 1977, quando un fuoco di sant’Antonio rischiò seriamente di mandarlo all’altro mondo,52 il suo corpo gli mostrò per la prima volta i propri limiti. All’inizio del 1978 Fassbinder era arrivato a un consumo tale di cocaina da doversi porre il problema. Se fino ad allora aveva sempre creduto di sapersi dominare e che l’uso della droga gli servisse solo per stimolare la propria creatività, ora sentiva che stava gradualmente perdendo il controllo della situazione e quindi di sé. Anche se per una dipendenza pesante come la sua sarebbe stato necessario un trattamento di disintossicazione di più settimane supportato da una terapia medica, nell’aprile del 1978 Fassbinder decise senza sentire ragioni di disintossicarsi per proprio conto, e precisamente durante la traversata in nave verso New York a bordo della leggendaria Queen Elizabeth II. Ad accompagnarlo e a sostenerlo vi erano Armin Meier e il suo vecchio amico Daniel Schmid con il compagno Raul Giminez. Ingrid Caven racconta: «Fassbinder riuscì a inscenare anche questo episodio della sua vita come un film. Il primo giorno di navigazione buttò a mare tutta la droga per dimostrare la propria determinazione – da quel momento in poi la traversata diventò inevitabilmente un inferno per lui e per l’intera compagnia».53 Fuori di sé perché in piena sindrome di astinenza, prese a rovistare nelle cabine dei suoi amici accusandoli di avergli nascosto la cocaina. Fu su Armin che riversò la furia peggiore, sbattendolo fuori dalla cabina nel cuore della notte e maltrattandolo al punto che Daniel Schmid dovette intervenire e trattenere il disperato dal gettarsi in mare.54 Ancora in nave Fassbinder telegrafò a Walter Bockmayer che si trovava già a New York pregandolo di presentarsi al molo con della cocaina. Appena approdati, il regista fu il primo a scendere a terra, strappò la droga dalle mani di Bockmayer e sparì dietro il primo pilone di cemento.55 Il suo tentativo di disintossicarsi senza una cura di supporto fallì clamorosamente e lui riprese a sniffare esattamente come prima. Daniel Schmid si rivolse allora alla migliore amica del
cineasta, Ingrid Caven, che all’epoca viveva in Francia e aveva avviato una brillante carriera come cantante: «Daniel mi telefonò e mi disse: dobbiamo fare qualcosa per tirarlo fuori da questo incubo, altrimenti finirà per lasciarci le penne. Con il consenso di Rainer, Daniel gli trovò un posto nella clinica svizzera nella quale erano andati a disintossicarsi anche i Rolling Stones. Era già tutto organizzato e predisposto. Rainer, però, era terribilmente spaventato, e io gli proposi: “Ti accompagno. Prendo una stanza in un albergo lì vicino e sto con te finché ce ne sarà bisogno”. Per la prima volta ebbi l’impressione che le mie parole lo incoraggiassero, Rainer infatti mi fu molto riconoscente. Tuttavia, all’ultimo minuto, fece un passo indietro, e non volle più partire. In quel momento capimmo che non ne sarebbe mai venuto fuori. Cosa che sapeva bene anche lui».56 A quanto pare, lo stesso Fassbinder considerò la decisione di non disintossicarsi come una svolta con inevitabili ripercussioni sulla sua vita futura. Per prima cosa il legame con il suo grande amore Armin Meier «arrivò al capolinea», e a quel punto Fassbinder cercò con tutte le sue forze di tirarsene fuori «pur non sapendo come».57 Per scoraggiare Armin, sempre fedele a Rainer, a New York Fassbinder ebbe una storia con un uomo di colore proprio sotto gli occhi del compagno. Il piano sortì l’effetto voluto: geloso e offeso, Armin Meier se ne tornò a Monaco con il primo volo.58 Per Fassbinder questo gesto sancì la fine della loro relazione. In una lunga lettera di addio il regista garantiva al suo ex compagno un appartamento e una rendita mensile. La lettera, tuttavia, doveva essere formulata in modo così confuso e stravagante che Armin Meier vagò parecchi giorni per Monaco con lo scritto in mano chiedendo ad amici e conoscenti interpretazioni del contenuto. Quando, però, capì che Rainer lo voleva definitivamente lasciare, gli cadde il mondo addosso, quel mondo al quale Armin non era mai appartenuto veramente. Nella sua ingenua semplicità era stato fin dall’inizio un outsider nell’universo di Fassbinder, diventando col tempo sempre più remissivo. Anche se all’inizio il cineasta gli aveva affidato delle piccole parti nella speranza di integrarlo nella propria vita e nel proprio lavoro, tra i due amanti non poteva esserci uno scambio intellettuale, in quanto Armin, un macellaio di umile estrazione, non era certo l’interlocutore adatto per Fassbinder e per il suo ambiente. Questa incompatibilità si evidenziò soprattutto quando, venendo meno l’attrazione erotica, il regista, sempre più immerso negli abissi di una sessualità estrema, cominciò ad annoiarsi con il compagno. Nel suo episodio di Germania in autunno Fassbinder mostra addirittura al pubblico se stesso che mortifica e terrorizza il suo amante. Anche se Armin pareva sopportare tutto in silenzio, in realtà era sempre meno all’altezza della situazione e tendeva a comportarsi in modo strano, come ricorda Ingrid Caven: «A un tratto si mise a firmare le lettere con il nome di Fassbinder. Quando poi Rainer troncò la relazione, voleva assolutamente ucciderlo e lui, Rainer, si sentiva davvero minacciato tanto che, prima di partire senza Armin per il Festival di Cannes, gli disse: “A Cannes sarò in compagnia di un negro”. L’intento era quello di spaventarlo e far sì che non lo seguisse».59 Al festival, dove il 19 maggio 1978 ci fu la prima di Despair, Fassbinder aveva effettivamente assoldato un nero muscoloso come guardia del corpo per difendersi da un’eventuale apparizione improvvisa di Armin.60 Nonostante ciò rimase quasi tutto il tempo trincerato nella sua stanza d’albergo. Disertò persino la proiezione del film e si presentò alla conferenza stampa e ai ricevimenti serali sempre con grande ritardo.61 Lasciata Cannes, il regista proseguì per Parigi dove abitualmente incontrava Ingrid Caven. A differenza di quanto faceva di solito, quell’anno aveva deciso di passare il suo compleanno non in compagnia di tanti amici ma solo con Ingrid: «Siamo andati in un piccolo ristorante. Rainer non mi aveva ancora raccontato nulla dei suoi problemi con Armin. Non immaginavo nemmeno che si stesse nascondendo dall’ex compagno né che non volesse essere raggiunto da lui. E proprio mentre noi trascorrevamo una bella serata, a Monaco succedeva il peggio. Ovviamente l’abbiamo saputo più tardi ed è stato davvero terribile, soprattutto per Rainer. Aveva avuto paura di Armin, è vero, ma non pensava che avrebbe potuto farsi del male».62 Il 31 maggio 1978, nel giorno del trentatreesimo compleanno di Fassbinder, Armin Meier si era tolto la vita. Solo sei giorni dopo la madre del regista aveva trovato il suo corpo esanime nell’appartamento della Reichenbachstraße, dove un tempo aveva vissuto con Rainer. Vicino al cadavere la polizia rinvenne diversi flaconcini di pillole vuoti. Invano Liselotte Eder cercò di spargere la voce che Armin era morto per un’ulcera gastrica. Tutti sapevano che Fassbinder l’aveva lasciato da poco, ed era facile immaginare cosa avesse significato quella separazione per l’ex compagno. Non solo le sue speranze in un futuro assicurato erano state tradite, ma si era anche scontrato con la prospettiva di ricadere in un’esistenza mediocre senza il famoso regista al suo fianco. Evidentemente non riusciva a concepire una vita senza Rainer. Le indagini e l’autopsia non riuscirono a chiarire se si trattò di suicidio o di un incidente. Alla fine si stabilì che a causare il decesso era stata una «paralisi centrale» dovuta all’assunzione di pillole. Anche se poi nelle
interviste Fassbinder avrebbe messo pubblicamente in dubbio la tesi del suicidio,63 nell’immediato non ebbe alcun dubbio in merito e soffrì moltissimo per la tragedia, di cui si addossò la colpa. Fu «Wally» Bockmayer a comunicare la notizia della morte di Armin a Rainer, che, di ritorno dal soggiorno parigino, aveva fatto tappa da lui a Colonia. Sul momento Fassbinder cercò di trascorrere la giornata normalmente e, come sempre, si tuffò nell’ambiente omosessuale della città. Poi, però, in un locale leather si ubriacò a tal punto da perdere conoscenza, e dovette essere riportato a casa di peso da Bockmayer e dal suo compagno Rolf. Passò i giorni successivi nell’appartamento dell’amico, del tutto inerte, senza proferire parola, rifiutando persino di mangiare. Al funerale di Armin non si fece vedere. In realtà era volato a Monaco ma, una volta lì, era stato subissato di accuse da parte di tutti – il proprietario della Deutsche Eiche, il suo locale preferito, gli aveva persino vietato di entrare –, e così aveva ripreso l’aereo per Colonia, dove si era trincerato in casa di Bockmayer, il che diede ancora più scandalo. Dopo aver trascorso diverse settimane nella più completa apatia, si mise a lavorare freneticamente a una sceneggiatura che intitolò Un anno con 13 lune (In einem Jahr mit 13 Monden). Il film diventò la sua opera di gran lunga più personale e impegnata. Il suicidio di Armin Meier provocò nel cineasta una crisi profonda che lo costrinse a interrogarsi sul senso di tutta la sua vita. All’interno di questo scenario aveva contemplato tre vie d’uscita: emigrare in Paraguay e fare l’allevatore, smettere di interessarsi di tutto ciò che lo circondava, o rielaborare l’esperienza in un film. «Per me era una necessità esistenziale fare qualcosa.»64 Effettivamente le riprese lo aiutarono a superare poco alla volta quanto era successo, ricorda Walter Bockmayer, che vide «Fassbinder riprendersi giorno dopo giorno e uscire dalla depressione».65 Un anno con 13 lune racconta la storia della transessuale Elvira, uccisa dall’indifferenza di coloro che le stanno attorno. Il film accompagna la protagonista nei suoi ultimi cinque giorni di vita e cerca di capire «se la decisione di non permettere che la sua esistenza proceda oltre quell’ultimo giorno, il quinto per l’appunto, sia da rifiutare o piuttosto da comprendere, se non addirittura da accettare».66 In un saggio67 Fassbinder ricostruisce il passato di Elvira (Erwin Weishaupt). Nato durante la Seconda guerra mondiale, Erwin era stato messo al mondo dalla madre di nascosto, in quanto illegittimo. Abbandonato in un orfanotrofio, cresce con le suore, impara il mestiere del macellaio, si sposa e diventa persino padre. Finché, travolto dal suo amore disperato per Anton Saitz, un individuo bieco del sottobosco di Francoforte, decide di farsi operare e di cambiare sesso. Ma quando Saitz, rivedendolo trasformato in una donna, scoppia in una fragorosa risata, Elvira capisce che il suo amore non si realizzerà mai. Dopo un tentativo di suicidio, Elvira si mette a fare la prostituta e conosce così Christoph, un attore senza successo, che presto tuttavia guadagna talmente bene da permetterle di abbandonare il marciapiede. Col tempo, però, Elvira comprende di non essere mai veramente riuscita a cambiare identità e si dà all’alcol e ai farmaci, il che causa scontri sempre più violenti tra i due amanti. In una lite Christoph, dopo averle gridato che è «un mucchio di carne grassa, schifosa, debordante», se ne va definitivamente di casa. Così comincia il film Un anno con 13 lune. Nell’arco degli ultimi cinque giorni che le rimangono da vivere, Elvira, umiliata e in preda alla disperazione, cerca di capire perché la sua esistenza abbia avuto un simile decorso, e va alla ricerca di quei luoghi che sono stati importanti quando ancora era Erwin. Nel momento in cui rivede Anton, per il quale è diventata donna e dal quale è stata brutalmente abbandonata, può solo prendere atto che, come in passato, non ha niente da dirle e le è ormai del tutto indifferente. Con i capelli corti e un vecchio abito maschile, intraprende un ultimo tentativo – disperato e destinato a fallire – di ricominciare la sua vecchia vita da uomo. Tutti gli incontri degli ultimi cinque giorni le confermano però che è completamente sola nel suo dolore e lo sarà sempre. Poiché in queste circostanze non sembra più valere la pena vivere, decide di farla finita. Nessuno porterà di fatto la colpa della sua morte. Della generale atrofizzazione della capacità d’amare nel film si dice: «Nessuno si rovina la vita da sé. È il sistema che gli uomini hanno creato a rovinarla». Per il cast il regista ricorse ai vecchi e rodati attori del suo clan. Il personaggio di Elvira fu magistralmente interpretato da Volker Spengler, mentre quello dell’ambiguo Anton Saitz fu assegnato a Gottfried John. Altre parti andarono a Ingrid Caven, Elisabeth Trissenaar, Günther Kaufmann e Walter Bockmayer, mentre alla madre Fassbinder affidò il ruolo della suora che racconta a Elvira la terribile storia della sua infanzia. Un anno con 13 lune è un’opera senza speranze, «un film nato dal dolore»,68 come lo definì l’amico di Fassbinder Werner Schroeter. La storia di Elvira viene ripercorsa in interminabili monologhi, spesso recitati in modo monotono e senza emozione. Come già nella Terza generazione, anche in questa pellicola il regista optò per un collage sperimentale di suoni e immagini, girando
una serie continua di scene nelle quali il piano sonoro e quello visivo divergono moltissimo. Nella sequenza del macello, per esempio, è estremamente difficile seguire il lungo monologo nel quale Elvira riesamina la sua vita passata, poiché il cineasta mostra allo stesso tempo, in immagini scioccanti, la macellazione, il dissanguamento e il taglio delle carni dei bovini. Un anno con 13 lune è sotto ogni aspetto «un affronto: Fassbinder non risparmia nulla allo spettatore».69 A differenza di un film come La terza generazione, in questo caso il regista non si era minimamente illuso di poter ottenere delle sovvenzioni pubbliche, e infatti aveva deciso di realizzare una produzione a basso costo finanziata privatamente. Attingendo a contributi non ancora spesi, era così riuscito a mettere assieme un budget di 700mila marchi, al quale poi inaspettatamente si aggiunse un finanziamento del Wdr. Peter Märthesheimer avrebbe riconosciuto che: «In qualche modo glielo dovevamo. Nel 1978 […] Fassbinder stava malissimo, e i pochi soldi che gli stanziammo erano davvero il minimo che un’emittente televisiva potesse fare per qualcuno che le aveva portato tanto prestigio. Meritava un po’ di solidarietà».70 Le riprese, cominciate a Francoforte nel luglio del 1978, un mese dopo il suicidio di Armin, durarono appena venticinque giorni. Fassbinder ci teneva molto che Un anno con 13 lune venisse recepito come un film che, più degli altri, recava la sua cifra stilistica. Non a caso, nei titoli di testa, il cineasta firma «soggetto – sceneggiatura – produzione – scenografia – montaggio – fotografia – regia». Mentre la stampa ebbe le sue difficoltà con questo film-confessione autoflagellante (e come previsto la pellicola non ebbe alcun successo nelle sale), il regista lo considerava una pietra miliare del suo percorso artistico – sempre più radicalmente estetizzante –, alla base del quale aveva posto Le lacrime amare di Petra von Kant per poi continuare la sperimentazione con Nessuna festa per la morte del cane di Satana e Angst vor der Angst. Progetti come La terza generazione e Un anno con 13 lune sono da considerarsi i suoi film più estremi e spregiudicati. Con Un anno con 13 lune Fassbinder dimostrò oltretutto di voler continuare a girare, accanto a lungometraggi costosi e appariscenti, ma convenzionali nel linguaggio – come Il matrimonio di Maria Braun o l’imminente grande progetto di Berlin Alexanderplatz –, anche film d’avanguardia a basso costo, che affrontavano argomenti molto personali e costituivano veri esperimenti estetici. Non si lasciava turbare da chi non approvava questa alternanza tra lavori commerciali e d’avanguardia. Soprattutto, Fassbinder non voleva essere prevedibile, il suo obiettivo era costruire un edificio con i suoi film: «Alcuni sono la cantina, altri i muri, altri ancora le finestre. Spero comunque che alla fine ne venga fuori una casa».71
Ora ho finalmente in mano questo mestiere Il nuovo grande progetto stava particolarmente a cuore a Fassbinder. Gli era stato commissionato dal Wdr per il palinsesto serale dell’emittente Ard ed era la trasposizione televisiva del romanzo Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, un’opera che, fin dall’età di quattordici anni, lo aveva segnato profondamente diventando una delle sue letture di riferimento. Il libro era stato per lui un «aiuto di vita reale, pratico e concreto», la guida che lo aveva accompagnato durante la pubertà così difficile e considerata «assassina» ma anche la bibbia del suo precoce coming out in quanto gay. Sebbene il nucleo del romanzo, ambientato nella Berlino degli anni venti, sia costituito dalla storia di Franz Biberkopf, un ex facchino appena uscito di prigione che, pur essendosi riproposto di diventare una persona migliore, soccombe alle avversità della vita, Fassbinder leggeva il libro in modo assolutamente personale vedendovi innanzitutto la storia di una relazione tra due uomini. Stando al regista, il vero tema del romanzo è l’«amore impossibile» tra Franz Biberkopf e il compagno Reinhold, i quali a causa delle convenzioni morali non possono confessarsi i propri sentimenti e «la cui poca vita sulla terra si frantuma». Fassbinder definì le sue ripetute letture di Berlin Alexanderplatz come «uno dei contatti più emozionanti e avvincenti con un’opera d’arte»; addirittura dichiarò che la sua vita sarebbe andata diversamente se non avesse letto il romanzo.72 Di fatto il cineasta aveva perseguito due soli progetti, secondo Ingrid Caven: «In primo luogo voleva fare il maggior numero possibile di film, in secondo luogo provava a vivere Berlin Alexanderplatz. L’influenza che il libro ha avuto su Rainer è assolutamente centrale».73 Quanto peso abbiano avuto su Fassbinder il romanzo pubblicato nel 1929 e la figura di Franz Biberkopf – il quale, sempre in lotta con il suo destino, crede saldamente che l’uomo sia orientato al bene e pretende dalla vita qualcosa di più del pane quotidiano – e quanto il cineasta si sia rispecchiato in questa storia e nel suo protagonista, lo rivelano chiaramente i suoi film. Numerosi sono infatti i personaggi di nome Franz, in certi casi sono inequivocabilmente alter ego di Fassbinder. Già nel suo primo lungometraggio, L’amore è più freddo della morte, è lo stesso regista a interpretare il piccolo delinquente Franz, una figura che poi ritorna in Götter der Pest e in Der amerikanische Soldat. Nel film Il diritto del più forte il protagonista, sempre impersonato da
Fassbinder, addirittura si chiama Franz Biberkopf. Anche il protettore nella pièce I rifiuti, la città e la morte porta il nome di Franz B., e persino il personaggio interpretato da Günther Kaufmann in La terza generazione si chiama Franz. «In ogni mio lavoro ci sono figure come Franz Biberkopf» dichiarò una volta Fassbinder.74 La trama di molti film mostra più o meno netti parallelismi con Berlin Alexanderplatz: in L’amore è più freddo della morte, per esempio, il regista racconta la storia di due piccoli malviventi che, pur essendo fortemente attratti l’uno dall’altro, riescono a vivere il loro desiderio di intimità solo andando a letto con la stessa donna. Il tema dell’amore impossibile tra due uomini che non possono veramente incontrarsi a causa delle convenzioni sociali ritorna in una lunga serie di lavori, come per esempio Götter der Pest, Rio das Mortes o Whity. Persino nell’ultimo film, Querelle, il regista riprenderà l’argomento. Nei suoi lungometraggi sono molte le figure che potrebbero derivare direttamente da Berlin Alexanderplatz: individui che, come i personaggi del romanzo di Döblin, sono degli emarginati sociali, non hanno mai imparato a esprimere i propri sentimenti e, nella loro incapacità di comunicazione, rifuggono nella fisicità – nel sesso o nella violenza. Come Döblin, Fassbinder ritiene che «la violenza sia solo un’altra forma di amore» – uno dei temi nodali ripresi dal romanzo dello scrittore tedesco – e che «le persone che si abbandonano l’una all’altra si feriscono sempre».75 In questo senso molte delle sue opere sono in un certo qual modo studi preliminari per quel progetto che, film dopo film, il cineasta stava sempre più focalizzando. Se fino ad allora i suoi Franz erano stati uomini giovani, immaturi, ancora alla ricerca di un posto nella vita, Fassbinder riteneva adesso arrivato il momento di mettere in scena il Franz Biberkopf maturo e già vissuto, quel personaggio che nella mente lo accompagnava da quando era giovane. Concepito come un progetto di prestigio e dotato di un budget di ben tredici milioni di marchi, Berlin Alexanderplatz divenne la produzione televisiva tedesca più costosa mai realizzata, ed ebbe pertanto i riflettori puntati prima ancora dell’inizio delle riprese. In tutto erano previsti tredici episodi e un epilogo, per la durata complessiva di quindici ore e mezzo, da trasmettere una volta alla settimana alle 20.15, fascia oraria di maggior audience che avrebbe assicurato a Fassbinder un pubblico di milioni di telespettatori. In un primo momento il regista aveva pensato di girare, contemporaneamente alla lavorazione del serial tv, anche un film per il cinema con un cast internazionale. Quest’opera avrebbe dovuto non solo misurarsi con le tematiche del romanzo di Döblin in modo molto più radicale e sperimentale rispetto all’adattamento televisivo, ma avrebbe anche visto la partecipazione di star come Gérard Depardieu, Jeanne Moreau e Isabelle Huppert – un progetto che tuttavia, come altri in precedenza, fu abbandonato, dando così a Fassbinder la possibilità di concentrarsi solo sullo sceneggiato tv, di per sé già molto impegnativo. Committente di questa grande impresa fu il Wdr, mentre la casa di produzione fu la Bavaria Film, il cui socio di maggioranza era sempre il Wdr. Due importanti collaboratori di Fassbinder si rivelarono in tal senso determinanti: Peter Märthesheimer, passato dal Wdr alla Bavaria in veste di sceneggiatore, e Günther Rohrbach, ex responsabile delle produzioni televisive del Wdr trasferitosi da Colonia a Monaco per ricoprire la carica di direttore responsabile della Bavaria. Nella città bavarese Fassbinder trovò quindi condizioni migliori, che gli garantivano un contesto altamente professionale. Come era già accaduto in Acht Stunden sind kein Tag, il regista cercò di sfruttare e di allargare le potenzialità finora inutilizzate della televisione. Fassbinder era convinto «che il mezzo televisivo – col quale si potevano fare moltissime cose – non venisse usato in maniera costruttiva ma servisse piuttosto a scopo repressivo, per soffocare la fantasia».76 Con la sua versione tv del romanzo di Döblin il regista mirava invece a presentare una forma completamente nuova e spettacolare di trasposizione cinematografica della letteratura che innanzitutto liberasse la fantasia nella testa della gente. Alla scelta degli attori protagonisti il cineasta dedicò ovviamente grande attenzione. Se in un primo momento aveva pensato di affidare il ruolo di Franz Biberkopf a Klaus Löwitsch,77 scelse poi Günter Lamprecht, conosciuto nel 1974 al teatro di Bochum. Già allora Fassbinder lo aveva ingaggiato per una piccola parte nel suo film televisivo in due episodi Il mondo sul filo.78 Malgrado il fare burbero e laconico di Fassbinder, Lamprecht, più anziano di quindici anni, non lo trovò antipatico; quanto al regista, si mostrò subito molto gentile e premuroso nei suoi confronti. Forte della sua esperienza, l’attore di teatro percepì immediatamente che Fassbinder «lo aveva preso in simpatia»: «In questa sua produzione mi riserva se non altro un trattamento privilegiato, un particolare rispetto. Non mi viene mai troppo vicino, e comincio già a sentirmi a mio agio sotto la sua direzione».79 Erano sulla stessa lunghezza d’onda, e sebbene Lamprecht non facesse parte del nucleo storico del gruppo, il regista avrebbe continuato anche in seguito a ingaggiarlo per parti minori: in Martha per esempio, o nel Matrimonio di Maria Braun. Con il ruolo di Franz Biberkopf, Fassbinder gli offrì la sua prima interpretazione da protagonista, e lo fece oltretutto in uno dei
suoi progetti più ambiziosi e personali. Entusiasta, gli diceva: «Tu sei il mio Biberkopf, il mio Franz Biberkpof».80 Effettivamente l’attore non solo aveva l’età giusta ma era anche originario di Berlino ed era cresciuto negli anni trenta proprio in quegli ambienti proletari attorno ad Alexanderplatz, nei quali Döblin aveva collocato il suo romanzo. In un primo momento Lamprecht aveva manifestato un certo scetticismo poiché dubitava che si potesse trarre un film da Berlin Alexanderplatz. Tuttavia, dopo aver letto la sceneggiatura di Fassbinder, fu colto da «una sconfinata ammirazione, che sancì definitivamente il mio rispetto nei confronti del cineasta Fassbinder».81 Günter Lamprecht si lasciò così coinvolgere nell’avventura e interpretò il personaggio della sua vita, un ruolo che non solo ne avrebbe decretato il successo in Germania, ma lo avrebbe reso famoso anche all’estero. Per il ruolo dell’amico di Franz Biberkopf, Reinhold, personaggio cruciale nella lettura di Fassbinder, il regista – anche se pubblicamente aveva già reso noto che sarebbe stato lui a interpretare la parte82 – scelse alla fine Gottfried John, un attore che stimava molto e che, negli anni addietro, aveva già diretto non solo in Acht Stunden sind kein Tag e Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel ma anche in Un anno con 13 lune. Per la figura di Mieze, la compagna di Biberkopf, aveva pensato inizialmente a Eva Mattes,83 ma scritturò poi Barbara Sukowa. Già nota come attrice teatrale, la Sukowa conobbe il successo presso il grande pubblico con Berlin Alexanderplatz, per raggiungere in seguito la fama internazionale con Lola. A volti già noti furono invece affidati altri personaggi importanti: Hanna Schygulla, Brigitte Mira e Barbara Valentin interpretarono rispettivamente una vecchia amica, l’affittacamere e l’ex amante (Ida) di Franz Biberkopf. Molte altre parti minori andarono ad attori del clan storico, come Harry Baer e Udo Kier, Margit Carstensen e Irm Hermann, Werner Schroeter e Günther Kaufmann. Persino nell’assegnazione dei ruoli meno importanti Fassbinder scelse gli attori con grande cura, ingaggiando soprattutto certi vecchi amici a lui particolarmente cari o con i quali si sentiva in debito o aveva sviluppato nel corso del tempo un legame profondo. Tra questi vi era Yaak Karsunke. Ex critico teatrale di Monaco, era stato in passato uno dei primi ad aver recensito favorevolmente i suoi spettacoli: «Mi affidò due incarichi come sceneggiatore molto ben remunerati e mi diede anche un piccolo ruolo di secondino in un carcere. Così si sdebitava dei compensi che non avevo mai ricevuto quando avevo lavorato nei suoi primi film. Non solo, era anche il suo modo di ringraziarmi per la mia disponibilità di allora. Una volta sua madre mi disse tutta orgogliosa: “Vede, Rainer non dimentica mai chi è stato buono con lui”».84 Come tanti altri attori nel cast di Berlin Alexanderplatz, anche Karsunke non vedeva il regista da diversi anni: «Nei miei confronti si comportò in modo affabile come aveva sempre fatto, anche se, ovviamente, era parecchio cambiato rispetto al giovane Fassbinder che avevo conosciuto. Per cominciare, aveva un carico di responsabilità molto diverso. Non era più un piccolo regista sperimentale, anzi, ora comandava abilmente una schiera di attori e di collaboratori. Poi era molto evidente che il consumo di droghe l’aveva trasformato. Senza la coca probabilmente non sarebbe più riuscito a lavorare, il che era già un grosso cambiamento».85 Prima di dare il via alle riprese, andava tuttavia risolta un’altra questione importante. Da quando Michael Ballhaus se n’era andato, il regista non era ancora riuscito a trovare un nuovo operatore. Nei suoi due ultimi lungometraggi, Un anno con 13 lune e La terza generazione, si era occupato personalmente delle inquadrature; nel caso di un progetto monumentale come Berlin Alexanderplatz, questo però non sarebbe stato possibile. La scelta cadde così sull’austriaco Xaver Schwarzenberger, un operatore attivo dal 1970 soprattutto in film per la televisione. Entrambi condividevano la passione per il cinema di Josef von Sternberg, un aspetto che conquistò Fassbinder inducendolo immediatamente a far ingaggiare Schwarzenberger dalla Bavaria. Per il regista era fondamentale che l’operatore si abituasse subito ai suoi ritmi di lavoro, e così volle testare fino a che punto «poteva spingerlo ad accelerare i tempi».86 Schwarzenberger superò la prova, e da quel momento in poi i due formarono una squadra equilibrata e con un’ottima intesa, fondata sulla fiducia e la stima reciproca. Fassbinder apprezzava la coscienziosità e la rapidità del suo collaboratore, e una volta terminate le riprese dichiarò allo Spiegel che avrebbe voluto realizzare tutti i film successivi con lui.87 Da parte sua, Schwarzenberger era molto colpito dal fatto di poter lavorare per la prima volta con un regista che conosceva a fondo il proprio mestiere, e non se la prendeva se era quasi sempre Fassbinder a decidere il punto di vista di una inquadratura. Il cameraman si stupiva inoltre per la capacità del cineasta di suscitare nei suoi collaboratori la sensazione «che si stesse facendo qualcosa di molto importante. Che poi fosse vero o no, poco importava, avevamo tutti quell’impressione. E lui questo sapeva trasmetterlo».88 Schwarzenberger definì in seguito la sua collaborazione con Fassbinder come «l’esperienza lavorativa sicuramente più feconda, più piacevole e più divertente» che «avesse mai vissuto con
un regista». Nei tre anni successivi, fino all’ultimo film, Querelle, Schwarzenberger avrebbe continuato a lavorare al fianco del regista. Quando, dopo due anni di preparazione, ci fu il primo ciak ed ebbe così inizio la trasposizione cinematografica delle tremila pagine di sceneggiatura redatte da Fassbinder, tutti gli attori e i collaboratori percepirono che stavano per prendere parte a qualcosa di molto particolare. Già i tempi previsti per le riprese – duecento giorni – la dicevano lunga sul fatto che si trattava di un progetto assolutamente speciale. Poiché il regista aveva deciso di girare ciascuna delle tremila sequenze preferibilmente un’unica volta, lasciando gli attori – anche in scene lunghe e complesse – liberi di agire come fossero sul palcoscenico, tutta la compagnia doveva lavorare con la massima concentrazione, anche perché nessuno voleva attirare su di sé l’ira del cineasta e rendersi responsabile di eventuali ripetizioni. Ovviamente non sempre era possibile evitarle; di tanto in tanto capitava che certe scene dovessero essere replicate per motivi tecnici, o perché, in casi particolari, qualcosa con le comparse non era andato alla perfezione. Quanto alto fosse il grado di attenzione del team lo dimostra comunque il rapporto tra il materiale girato e quello impiegato – tre a uno –, un risultato decisamente buono e difficile da raggiungere in un progetto così dispendioso e complesso. Dopo aver girato alcune scene esterne nel quartiere berlinese di Kreuzberg, visto che le autorità della Ddr avevano negato il permesso per le riprese nei luoghi originari di Döblin, nella parte orientale della città, la troupe si ritirò negli studios della Bavaria a Monaco-Geiselgasteig, dove fu realizzata gran parte del film. Alcune sequenze furono tra l’altro girate nella cosiddetta «Bergman-Straße», che la Bavaria aveva fatto ricostruire due anni prima per la pellicola di Ingmar Bergman The Serpent’s Egg (L’uovo del serpente). Era stato inoltre necessario mettere a punto costose scenografie perché il film si svolgeva in larga misura in interni. Sebbene all’inizio – considerate le sue condizioni – molti credessero che Fassbinder non avrebbe retto l’imponente carico di lavoro e un periodo così lungo di riprese, il regista, che almeno temporaneamente aveva ridotto il consumo di cocaina,89 affrontò invece il compito con grande padronanza e «senza che si potesse avvertire la minima esitazione sull’esattezza del suo operato»,90 racconta Harry Baer, ingaggiato dal cineasta come consulente artistico. Il regista dirigeva senza alcun problema il suo esercito di circa cento attori, seimila comparse e sessanta collaboratori, ciò nonostante con Berlin Alexanderplatz la smania di portare a termine l’opera fu di gran lunga superiore rispetto ai film precedenti. Le riprese cominciarono nel giugno del 1979, ma già nell’aprile del 1980 – dopo solo 154 giorni di lavoro – Fassbinder riuscì a chiudere quel monumentale progetto, e questo sebbene la giornata lavorativa iniziasse tra le nove e le dieci e finisse già alle quattro senza mai un prolungamento d’orario. L’atmosfera peculiare del film, quasi «un tetro viaggio attraverso l’oscura notte dell’anima», non era stata concepita così fin dal principio. All’inizio delle riprese, ricorda Michael Fengler, «c’era stato un errore nel laboratorio di sviluppo e stampa e i primi campioni di pellicola erano venuti decisamente scuri. Rainer, però, ne era rimasto così entusiasta che aveva deciso di proseguire in quel modo. L’operatore avrebbe continuato a girare le scene come prima, mentre in fase di sviluppo, su richiesta di Rainer, le pellicole dovevano essere trattate in maniera da riprodurre quell’atmosfera cupa, poi effettivamente apparsa in televisione. Doveva essere tutto molto scuro. I responsabili della Bavaria, in primo luogo Günter Rohrbach, rimasero letteralmente inorriditi, e cercarono di persuadere Fassbinder, con parole più dolci del miele, che quel suo proposito era impraticabile. Gli mostrarono persino su un apparecchio televisivo come lo spettatore avrebbe visto il film, ovvero malissimo. Lo sceneggiato, spiegò Rohrbach, così non poteva essere trasmesso. Rainer non si lasciò comunque dissuadere e insistette sulla sua scelta artistica. A quel punto si scatenò una lite colossale. Per nulla spaventato, Fassbinder si limitò a ribadire: “Voglio che sia così e basta”. Non appena minacciò di mandare all’aria il progetto preparato con tanta fatica, la Bavaria, a malincuore, si dichiarò disposta ad accogliere la sua richiesta pur non essendone affatto contenta».91 Quando poi Fassbinder assistette di persona alla messa in onda, provò una gioia matta per aver fatto valere la sua volontà, come hanno ricordato alcuni suoi amici.92 Nella trasposizione il cineasta si attenne rigorosamente all’ordine degli eventi stabilito nel romanzo, dando grande rilievo sia ai fatti principali che a quelli minori ma riducendo in parte la trama: una decisione sensata dal punto di vista drammaturgico, per evitare di perdersi nella vastità della storia. Similmente a quanto aveva già fatto con Effi Briest, Fassbinder cercò di trovare una forma che rendesse giustizia all’originale. Non gli interessava limitarsi a riassumere l’intreccio o abbandonarsi al realismo della critica sociale, com’era accaduto nel primo
adattamento di Berlin Alexanderplatz realizzato nel 1931 dal regista Piel Jutzi e interpretato da Heinrich George, protagonista del film. L’obiettivo di Fassbinder era innanzitutto trasporre adeguatamente in un proprio stile cinematografico la complessa tecnica di montaggio sperimentata da Döblin. Il regista diede ai singoli episodi titoli molto poetici, tratti dal romanzo, come per esempio Una manciata di gente nella profondità del silenzio, Come si deve vivere se non si vuole morire, Un mietitore con il potere che viene dal buon Dio, Il sole riscalda la pelle e qualche volta la brucia o L’esterno e l’interno e il mistero della paura di fronte al segreto. In tredici puntate si racconta la storia di Franz Biberkopf. Il primo episodio si apre con l’uscita di prigione di Franz, che ha dovuto scontare una pena di quattro anni per aver ucciso la compagna in un raptus di gelosia. Biberkopf è fermamente deciso: d’ora in poi sarà un uomo onesto e non farà mai più cose che le persone perbene non fanno. All’inizio si arrabatta lavorando come venditore ambulante ma quando si mette a distribuire il Völkischer Beobachter, il giornale ufficiale dei nazisti, si scontra con i suoi ex compagni comunisti. Ingannato da un uomo che riteneva un amico, finisce per perdere la fiducia nel prossimo. Deluso, Franz Biberkopf si ritira dal mondo, non vuole vedere nessuno e fronteggia la malvagità della gente bevendo smodatamente fino a perdere coscienza. Alla fine decide però di riprendere la sua lotta con la vita e ritorna in mezzo agli uomini. Entra in contatto con una banda di piccoli delinquenti, tra i quali vi è il fascinoso Reinhold, da cui Franz è subito fortemente attratto. Per conquistare la sua amicizia, Franz accetta di levargli di torno le donne che questi, inquieto, molla una dopo l’altra non appena si è stancato di loro. Franz rompe, a causa dell’uomo, il giuramento di onestà, e fa il palo alla gang durante un furto. Nella fuga viene d’improvviso scaraventato fuori dall’auto da Reinhold, e perde così un braccio. Soccorso e curato dalla sua vecchia amica Eva che, diventata prostituta d’alto bordo, gode di un certo benessere, Franz getta definitivamente a mare la promessa di condurre una vita retta per entrare in un giro di malavitosi dove spera di guadagnare un po’ di soldi. Qui incontra di nuovo Reinhold, che Franz non sa essere colpevole dell’incidente (e neppure lo vuole sapere). Conosce inoltre la futura compagna, Mieze, che si prostituisce per lui e dei cui clienti Franz è terribilmente geloso. Quando lei gli rivela di amare un altro, Franz per poco non l’ammazza. Reinhold interviene fermandolo all’ultimo momento. Mieze perdona il suo Franz e gli assicura che resterà al suo fianco. Tuttavia, poco dopo, la donna cade in una trappola ideata da Reinhold, che la porta in un bosco solitario dove prima cerca di sedurla e poi la uccide. Franz aspetta invano la sua Mieze, ma lei, l’unica persona in cui ha riposto piena fiducia, non farà mai ritorno a casa. Quando apprende che Mieze è stata ammazzata, Franz scoppia in una folle risata, e si dichiara felice dell’accaduto perché così, se non altro, non è stato lasciato intenzionalmente. Nell’epilogo – dal titolo Il mio sogno da un sogno di Franz Biberkopf di Alfred Döblin –, nel quale Franz si trova in manicomio, Fassbinder cerca di riassumere e rappresentare concretamente il dramma interiore del protagonista. Liberato dalla pressione di doversi misurare con la vita, trova rifugio in sogni e fantasie surreali – accompagnato da due angeli vaga attraverso una Berlino immaginaria, rincontrando una serie di persone che hanno avuto un ruolo importante per lui e che ora gli rinfacciano il suo fallimento e i suoi peccati. Reinhold è condannato a dieci anni di carcere per l’omicidio di Mieze e in prigione ha una relazione omosessuale. Franz pare riacquistare la ragione e, dichiarato nuovamente sano, viene dimesso; torna nel mondo ed è un essere psichicamente distrutto, ma proprio questa condizione fa di lui un membro sfruttabile della società: lavorerà come guardiano notturno in una fabbrica. Nel 1980, a soli cinque mesi dall’ultimo ciak, Berlin Alexanderplatz fu proiettato in prima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, e fu un grande successo. Un mese dopo l’emittente Ard avrebbe mandato in onda la prima puntata, mentre la stampa aveva già potuto assistere a una proiezione dello sceneggiato completo. Tuttavia, ancor prima che l’imponente opera potesse essere trasmessa in tv, aveva già dato scandalo. Il gruppo editoriale Springer aveva infatti avviato una campagna di diffamazione contro lo sceneggiato, accusandolo di essere «un’orgia di violenza, perversione e blasfemia» – con una «snervante atmosfera da orinatoio» – e di mostrare scene di «sesso sporcaccione» e «con un sottofondo sadomaso»; l’editore denunciava inoltre lo sperpero di tredici milioni di marchi affluiti col canone tv. Questi attacchi erano probabilmente dovuti al fatto che Fassbinder era stato uno dei firmatari di una recente campagna di boicottaggio lanciata da una serie di autori tedeschi contro il gruppo Springer. La Bild-Zeitung lo ripagò facendo la parte dell’uccellaccio del malaugurio e annunciando che Berlin Alexanderplatz sarebbe stato «il più dispendioso e disastroso fiasco» della televisione tedesca.93
A sua volta la vigilanza ecclesiastica alimentò il sensazionalismo rivolgendo tempestosi appelli ai responsabili della tv perché – senza nemmeno averlo visto – prevedeva che il film costituisse un’offesa al «buon gusto». Il Wdr, che poco prima aveva lodato Berlin Alexanderplatz definendolo una delle «opere d’arte cinematografica più significative del secolo», ebbe improvvisamente paura delle proprie parole e, alla luce delle cronache scandalistiche uscite sui giornali, decise di spostare la messa in onda dello sceneggiato dalle 20.15 – come programmato in origine – alle 21.30. L’emittente motivò lo slittamento alla fascia oraria successiva col fatto che alcune scene contravvenivano nella loro violenza alla normativa sulla tutela dei minori. Poiché il regista aveva girato il film attenendosi fedelmente alla sceneggiatura, approvata mesi prima dal Wdr e ritenuta adatta a uno sceneggiato da trasmettere in prima serata, recepì il brusco cambiamento nel palinsesto come una beffa. La reazione fu ovviamente di rabbia e di esasperazione, anche perché in questo modo non avrebbe più potuto raggiungere quel pubblico sul quale aveva puntato. La messa in onda della prima puntata avvenne pertanto già sotto una cattiva stella, e a nulla servì che fosse stata preceduta da reazioni entusiastiche, apprezzamenti ed elogi sinceri. I critici che avevano assistito alla proiezione per la stampa sul grande schermo alla Mostra del cinema di Venezia avevano espresso giudizi assolutamente positivi. Die Zeit parlò «dell’opera più grandiosa e più bella di Fassbinder, una delle migliori che la tv tedesca avesse mai trasmesso». Der Spiegel riteneva che Berlin Alexanderplatz mostrasse prematuramente «tutti gli elementi di un’opera della tarda maturità» e, in occasione della prima puntata, dedicò al cineasta addirittura la copertina.94 Tuttavia coloro che videro l’intero sceneggiato sul piccolo schermo stentarono a capire quelle lodi smisurate. La maggior parte degli spettatori, assolutamente impreparati ad assistere a un simile evento televisivo, giudicò il film incomprensibile, non essendo in grado di cogliere le ambizioni artistiche di Fassbinder. Un’opera spregiudicata come Berlin Alexanderplatz, che nella sua eleganza estetica ma anche nella sua forma narrativa era molto lontana dai gusti convenzionali di allora, richiedeva uno sforzo eccessivo da parte del grande pubblico. Inoltre, davanti a immagini così immerse nell’oscurità da essere a malapena distinguibili, gli spettatori avevano spesso l’impressione di stare seduti davanti a uno schermo nero. Chi poi aveva ancora una tv in bianco e nero, non riusciva a vedere praticamente nulla, tanto che – come l’emittente aveva temuto fin dal principio – la redazione ricevette migliaia di telefonate di telespettatori indignati. Tutte le finezze e le sfumature, che erano visibili sul grande schermo ed erano state ampiamente colte dal pubblico della Biennale, affogarono letteralmente «nel brodo scuro della presentazione televisiva».95 In seguito agli attacchi di certa stampa l’atmosfera alla vigilia della messa in onda era dunque talmente surriscaldata che ormai era quasi impossibile discutere con obiettività su Berlin Alexanderplatz. Fassbinder in persona fu oggetto di terribili ingiurie alle quali non reagì. Ricevette persino minacce di morte tanto da dover essere messo sotto scorta dalla polizia.96 Anche i suoi collaboratori dovettero fare i conti con la rabbia della gente fomentata dai mass media. Una vicina della madre di Günter Lamprecht, protagonista dell’opera dello scandalo, pregò questa di riferire al figlio quanto segue: «Gli dica che è un maiale a fare quelle cose. Un film del genere andrebbe vietato».97 Fassbinder era sbalordito dal netto rifiuto che il suo ultimo lavoro aveva suscitato: «Mi aspettavo discussioni, anzi ci speravo. Ma quanto sta accadendo è una vera aggressione. Non è quello che volevo».98 Dopo che il gruppo editoriale Springer ebbe aizzato il grande pubblico contro il cineasta, la maggior parte degli spettatori non era più disposta a farsi veramente coinvolgere dalla trasposizione visionaria del romanzo; in effetti nel corso dei tre mesi di messa in onda l’indice di ascolto crollò drammaticamente di puntata in puntata. Fu presto chiaro che le enormi aspettative nutrite nei confronti del progetto sia da Fassbinder che dal Wdr sarebbero state disattese. L’autore, che considerava la versione tv del suo romanzo preferito il capolavoro della sua vita, non riuscì a godere del successo postumo che in effetti ottenne. Acclamato internazionalmente come un’opera d’arte unica e innovativa, Berlin Alexanderplatz diventò una pietra miliare nella storia della televisione. L’anno dopo la morte del regista, infatti, il film fece furore a New York. Susan Sontag dichiarò che «Fassbinder era riuscito a trasporre in modo sublime e assolutamente fedele un grande romanzo»,99 mentre il critico cinematografico americano Vincent Canby, nel suo encomio sul New York Times, definì Berlin Alexanderplatz la «visione del cinema del futuro».100 Anche se profondamente deluso dal rifiuto così netto e dai giudizi in gran parte negativi incassati in Germania, Fassbinder rimaneva convinto di aver consegnato alla storia il suo capolavoro e, una volta concluso il progetto, riconobbe che la pellicola rappresentava la summa di tutto il suo operato: «Ora ho finalmente in mano questo mestiere, ora so quello che faccio».101
Potrò dormire quando sarò morto 1980-1982
Fassbinder non si concesse soste nemmeno dopo aver portato a termine il gigantesco progetto di Berlin Alexanderplatz. Da tempo infatti lo attendevano altre due grandi produzioni: Lili Marleen, un film sulla vita dell’attrice e cantante tedesca Lale Andersen – diva del Terzo Reich morta nel 1972 –, e Lola, il secondo tentativo di Fassbinder di confrontarsi con il miracolo economico. In seguito al clamoroso successo internazionale del Matrimonio di Maria Braun, ora anche le grandi case di produzione, che fino a quel momento avevano mantenuto una cauta distanza da quel cineasta irregolare, si offrivano di sostenere i suoi progetti. Luggi Waldleitner, uno dei produttori tedeschi più affermati del dopoguerra, si era assicurato i diritti del film sulla vita di Lale Andersen. Fassbinder, conosciuto come regista cocciuto e difficile, non era certo in cima ai suoi pensieri per la trasposizione cinematografica di questo soggetto, ma nel ruolo principale non poteva pensare ad altri che a Hanna Schygulla, la quale, dal canto suo, voleva lavorare solo con Fassbinder. Ciò che alla fine indusse Waldleitner a fidarsi del regista fu indubbiamente il suo valore di mercato, in quel momento molto alto. Certo, però, non poteva dirsi del tutto tranquillo all’idea. Anche il suo caro amico, il presidente della Baviera Franz Josef Strauß, non si mostrò entusiasta: «Deve proprio essere Fassbinder?». Al che Waldleitner pare abbia risposto con sufficienza: «Sì, perché no? Io non mi offendo mica se tu vai a pranzo con Brežnev».1 In seguito, il produttore ammise apertamente di non essere stato molto felice di quella collaborazione, avviata per puro calcolo: «Siamo stati costretti a lavorare con questo regista di sinistra perché nel nostro schieramento conservatore non ce n’è uno che si possa proporre al di fuori della Germania Federale».2 Lili Marleen fu dal principio un progetto prestigioso, per il quale a Rainer fu corrisposto l’onorario record di 250mila marchi – Fassbinder divenne così il regista tedesco più pagato. Con un budget di oltre dieci milioni di marchi Lili Marleen sarebbe stato il suo film più costoso. Evidentemente però, al contrario di quanto era accaduto con un progetto fortemente voluto come Berlin Alexanderplatz, si trattava solo di un lavoro su commissione. Il tema comunque lo interessava molto, perché la vita della leggendaria cantante gli offriva per la prima volta l’occasione di confrontarsi con la storia della Germania nazista, mentre sino ad allora nei suoi film – La moglie del capostazione, Despair, Il matrimonio di Maria Braun – si era occupato solo del periodo immediatamente precedente o immediatamente successivo alla dittatura nazionalsocialista.3 Fassbinder ci tenne a mettere subito il proprio marchio sul progetto, ponendo la condizione di poter modificare a suo piacimento la sceneggiatura esistente, un diktat che Waldleitner dovette accettare suo malgrado. Attenendosi solo in parte a fatti realmente accaduti, Fassbinder racconta la vita dell’artista trasformandola nella storia più o meno inventata di un amore contrastato negli anni caotici della Seconda guerra mondiale. La cantante tedesca di varietà Wilkie (Hanna Schygulla), ancora sconosciuta, s’innamora del talentuoso musicista svizzero Robert Mendelsohn, interpretato da Giancarlo Giannini.4 La guerra separa i due amanti. Mentre Wilkie, in Germania, con la sua canzonetta Lili Marleen fa una carriera vertiginosa – e attraverso Radio Belgrado, emittente dell’esercito, diventa la bandiera delle camicie brune – il suo amico ebreo Robert viaggia di nascosto avanti e indietro dalla Germania per conto di un’organizzazione diretta dal padre, al fine di mettere in salvo gli ebrei perseguitati. La popolarità di Wilkie, frattanto, non conosce confini. Ogni sera, quando gli altoparlanti trasmettono il suo motivetto sentimentale, le armi tacciono dalle due parti del fronte. I gerarchi nazisti le regalano una villa lussuosa, Hitler la ammira. Un giorno Robert mette a rischio la sua vita pur d’incontrare l’amica in segreto, ma viene arrestato dalla Gestapo e rispedito in Svizzera. Wilkie vuole però aiutarlo, e cerca di ottenere informazioni sui campi di concentramento. Finita suo malgrado nell’ingranaggio della politica, reagisce con ingenuità: «Ma io canto semplicemente una canzone». Goebbels le impone il divieto di esibirsi. Solo quando la radio dei soldati inglesi a Calais annuncia il suo arresto e la sua probabile uccisione, il regime torna sui suoi passi. Per volontà dei nazisti Wilkie appare
nuovamente in pubblico, costretta a esibirsi ancora con Lili Marleen. Finita la guerra potrebbe finalmente vivere con Robert a Zurigo, ma deve invece constatare che l’amico nel frattempo ha sposato un’altra donna. Fassbinder cominciò a girare Lili Marleen nel luglio del 1980, appena tre mesi dopo la fine delle complicate riprese di Berlin Alexanderplatz e ancor prima che la pellicola debuttasse alla Mostra del cinema di Venezia. Diversamente dalle altre produzioni, in cui poteva fare e disfare a suo piacimento, questa volta doveva attenersi alle condizioni poste dal produttore e dallo stesso Waldleitner, il quale aveva un’idea molto precisa di come doveva essere il film affinché il riscontro sul mercato fosse ottimale. Nell’ambiente ci si chiedeva come mai Fassbinder, che ci teneva tanto alla propria autonomia e indipendenza, si fosse infilato in una situazione del genere. Secondo Michael Fengler lavorare con un produttore così conosciuto significava, per Fassbinder, oltre alla prospettiva del successo, prendersi anche la soddisfazione «di vedere uomini conservatori e da sempre omofobi come Waldleitner – che non l’avevano mai considerato – fargli di colpo la corte. Già solo questo era per lui un vero godimento».5 Quando nel gennaio del 1981 Lili Marleen fu presentato alla Berlinale, e poco tempo dopo uscì nei cinema tedeschi grazie alla nota casa di distribuzione Tobis, pubblico e critica si divisero, ma le voci negative furono prevalenti: il film veniva liquidato come un polpettone senza grande profondità e pieno di stereotipi. Persino alcuni fan incalliti si mostrarono delusi dall’opera del maestro. Ritenevano Lili Marleen uno dei suoi film peggiori, ed erano convinti che con quel progetto il regista si fosse venduto alla vecchia industria cinematografica limitandosi a fornire quanto gli era stato richiesto dal produttore per ragioni commerciali. Gli si rimproverava soprattutto di aver affrontato in modo più o meno neutrale la storia di Wilkie, senza assumere un atteggiamento critico nei confronti della protagonista in carriera nel Terzo Reich e senza porsi le questioni pressanti della colpa e della responsabilità. In effetti Fassbinder narra le vicende di una donna che, cantando una sola canzone, offre conforto a milioni di coppie separate dalla guerra e rende per qualche istante la loro vita più sopportabile. Il regista reputò questo approccio assolutamente legittimo, perché riteneva fosse presuntuoso, dalla sua posizione, esprimere un giudizio affrettato su coloro i quali avevano fatto carriera nei dodici anni in cui i nazionalsocialisti erano rimasti al potere: «È una cosa che non mi va di rimproverare a priori a una persona».6 In primo luogo Fassbinder veniva criticato per aver ceduto all’estetica nazista. Proprio lui, uno dei massimi esponenti del Nuovo cinema tedesco – dunque di un movimento che un tempo aveva esordito dichiarando di perseguire una rottura radicale con l’estetica cinematografica di Goebbels –, ora veniva accusato di rendere omaggio a quella stessa estetica. Fu inoltre considerata di cattivo gusto la scelta di comparire nei titoli di testa non come Regisseur ma come Spielleiter, espressione in uso nel linguaggio nazionalsocialista. In realtà non si trattava affatto di una concessione ai dettami estetici nazisti. Fassbinder aveva deciso molto consapevolmente di evocare con Lili Marleen i film prodotti tra il 1933 e il 1945, proprio per mostrare «che determinate possibilità formali utilizzate dal nazionalsocialismo per autorappresentarsi potevano anche essere interessanti»7 e rispondevano inoltre al gusto di un largo pubblico – rimasto fondamentalmente immutato e degno di un certo interesse. Peraltro, i film prodotti sotto Goebbels si potevano ancora vedere in televisione, e pellicole come Die Feuerzangenbowle (del 1944) continuavano a essere tra le preferite degli spettatori tedeschi. Lo stesso Fassbinder però non era del tutto convinto di questo approccio, che nelle sue intenzioni voleva essere critico e far comprendere il nazionalsocialismo anche nei suoi aspetti più banali e coinvolgenti. Fin dal principio sapeva di non poter evitare quell’obiezione: «Io, però, ho sempre detto che il tema mi interessava soltanto se potevo realizzare qualcosa di assolutamente inedito: far capire il Terzo Reich attraverso i dettagli affascinanti del suo modo di rappresentarsi».8 Nel complesso Lili Marleen lascia un’impressione di incompiutezza, come se Fassbinder avesse perso interesse al film già durante le riprese. Se da un lato ciò accadde perché si trattava di un lavoro su commissione e non di un progetto personale al quale tenesse particolarmente, dall’altro anche le continue discussioni e gli attriti con il produttore ebbero il loro peso. Quando Waldleitner, per poter sfruttare la pellicola sul piano internazionale, chiese per esempio che la canzone Lili Marleen venisse usata soltanto nella versione inglese, Fassbinder fu irremovibile e pretese la versione tedesca: «Anche gli americani ci propinano sempre le loro canzoni in lingua originale. E poi questa è una canzone che conoscono in tutto il mondo. E comunque gli americani si devono abituare, il cinema europeo non è peggiore del loro, bensì allo stesso livello!».9 Ben presto gli scontri fra produttore e regista si inasprirono, e dopo le prime assenze di Fassbinder dovute alla cocaina, Luggi Waldleitner cominciò addirittura a pensare di interrompere la
collaborazione: «Ma non potevo buttarlo fuori, perché tutti i contratti che avevo firmato all’estero, che a quell’epoca, per il cinema tedesco, erano i più importanti, riportavano il nome di Fassbinder».10 Una volta finito il film, però, il produttore cominciò a prendere le sue decisioni alle spalle del regista. Senza informarlo fece tagliare, dalla versione destinata alle sale, la scena in cui Wilkie canta per la prima volta Lili Marleen, perché gli sembrava prolissa; allo stesso modo, all’insaputa del regista, fece nuovamente registrare il monologo iniziale caldeggiato da Fassbinder, che era stato recitato in un tedesco volutamente scorretto.11 Avendo investito nel film più di dieci milioni di marchi, aveva il massimo interesse ad ammortizzare i costi di produzione al botteghino, e così si sentiva giustificato a intervenire in quel modo, tanto più che, secondo lui, Fassbinder aveva «pasticciato molto verso la fine, nella sincronizzazione e nel montaggio».12 Mentre Waldleitner metteva le mani sul suo film, Fassbinder lavorava già da parecchio tempo a Lola. Questa pellicola, alla quale dedicò molte più attenzioni che non a Lili Marleen, doveva cominciare, da un punto di vista temporale, là dove era finito il suo grande successo, Il matrimonio di Maria Braun, e raccontare la situazione sociale della giovane Repubblica Federale dieci anni dopo la fine della guerra. Poiché anche per questo progetto si era fatto avanti un altro importante produttore della vecchia guardia, Horst Wendlandt – il quale, contrariamente a quanto era accaduto con Luggi Waldleitner, era diventato subito una sorta di figura paterna per Fassbinder –, il regista ebbe di nuovo a disposizione un budget considerevole: tre milioni e mezzo di marchi, un milione e mezzo in più di quanto aveva ottenuto per la prima parte della sua saga sulla Repubblica Federale. La sceneggiatura fu nuovamente commissionata a Peter Märthesheimer e Pea Fröhlich. Si trattava di un adattamento molto libero del romanzo di Heinrich Mann Professor Unrat (L’angelo azzurro), pubblicato nel 1905 e trasformato nel 1930 da Josef von Sternberg in un film dal titolo Der blaue Engel (L’angelo azzurro), con Marlene Dietrich e Emil Jannings. Dopo aver accarezzato per un po’ l’idea di fare un vero e proprio remake del film di Sternberg, Fassbinder decise di ambientare Lola nella Germania Federale della seconda metà degli anni cinquanta, quando ormai le macerie erano state sgomberate ma nelle città erano rimasti ancora molti vuoti da riempire. Lola, che illumina le zone d’ombra del miracolo economico, racconta la storia di von Bohm, un funzionario stabilitosi nel 1957 a Coburg, una cittadina nel nord della Baviera, per assumere l’incarico di assessore all’Edilizia. Sulle prime von Bohm è deciso a far piazza pulita degli intrallazzi locali. Si considera un outsider e, in quanto tale, capisce immediatamente qual è la partita giocata in città, ma è intenzionato a non farsi manipolare da nessuno. Con il suo ingenuo idealismo, si oppone alle mire di Schuckert, un grasso imprenditore senza scrupoli che tiene le fila dell’edilizia cittadina e si accinge a una nuova speculazione. Il gioviale magnate, sempre attento al proprio vantaggio, è il dominatore segreto di Coburg. Quasi tutti sono sul suo libro paga, anche il sindaco, così come altri potenti del luogo. Per di più i notabili sono ospiti abituali del suo bordello, la cui attrazione è la cantante e prostituta Lola. Un giorno l’assessore la incontra al di fuori del suo ambiente di lavoro e se ne innamora come un ragazzino. Lei si presenta col nome di Marie Louise. Quando alla fine von Bohm viene a sapere della sua seconda vita come prostituta, nonché amante di Schuckert, gli crolla il mondo addosso. Per la rabbia, e avendo la sensazione di essere stato ingannato, a quel punto cerca di smascherare il malaffare in città e di accumulare prove della corruzione generalizzata, diventando così un serio problema per Schuckert. «Li distruggerò tutti quanti, e quella puttana con loro.» La situazione cambierà soltanto quando Schuckert gli proporrà di sposare Lola, «la miglior femmina che la città abbia da offrire». Poiché von Bohm continua ad amare la donna, si lascia convincere; d’un colpo tutti i conflitti si appianano. Con il matrimonio anche l’assessore diventa parte di quel sistema in cui tutti approfittano di tutti e una mano lava l’altra. Mentre von Bohm si adagia nel suo nuovo idillio, Schuckert regala a Lola il bordello per il matrimonio, e passa lì con lei la prima notte di nozze. Anche in questo film Fassbinder rappresenta l’amore come il più efficace strumento di repressione sociale, passando inoltre in rassegna l’impressionante serie di clientelismi, intrallazzi e strutture di potere che si sono cristallizzati nel corso degli anni cinquanta sotto il cancellierato Adenauer e che perdurano ancora oggi: cartelli di potenti nella sfera economica e politica in grado di determinare la vita del paese, in particolar modo a livello locale. Con Lola il cineasta disegna così il ritratto di una società in tutto e per tutto acquiescente, in cui il profitto è l’unica misura di ogni azione e il pensiero autonomo e l’intelligenza critica non sono richiesti. La prostituta Lola è assunta a simbolo di una collettività in cui l’economia di mercato trionfa su tutto. Già Maria Braun, lavorando in un bar per soldati americani, aveva dovuto constatare che anche i sentimenti sono una merce; Lola invece ha ormai completamente interiorizzato questo aspetto. Ha capito le leggi del mercato e non si fa nessuna illusione: al contrario, bada esclusivamente al proprio
vantaggio. Lola è anche la dimostrazione che in Germania, all’epoca del miracolo economico, non è cambiato proprio niente per quanto concerne lo sfruttamento della donna. Per il ruolo della protagonista, Fassbinder ingaggiò Barbara Sukowa. Nota come attrice di teatro, aveva lavorato con registi famosi quali Luc Bondy e Giorgio Strehler, ma solo grazie a Fassbinder divenne una star cinematografica. Il grande pubblico aveva già avuto modo di conoscerla nella parte di Mieze in Berlin Alexanderplatz. Anche i due ruoli maschili furono assegnati ad attori straordinari. A interpretare l’assessore all’Edilizia von Bohm fu chiamato Armin MüllerStahl, che aveva lasciato da poco la Ddr. L’essere stato subito ingaggiato da Fassbinder – definito poi dall’attore «di gran lunga il miglior regista con cui io abbia lavorato»13 – lo aiutò moltissimo a ricominciare in Occidente. Inoltre, il suo successivo trasferimento negli Stati Uniti sarebbe stato impensabile senza la partecipazione a Lola. Il nome di Fassbinder, infatti, funzionava ormai da tempo come biglietto da visita a Hollywood. Il secondo ruolo maschile in ordine di importanza è quello dell’astuto imprenditore Schuckert, interpretato da Mario Adorf, un attore che Fassbinder aveva già tentato di scritturare nel 1970 nel film Attenzione alla puttana santa. Questa volta Adorf accettò spontaneamente, anche se all’inizio s’infastidì per non aver ricevuto il ruolo del professor Unrat. Dopo aver letto la sceneggiatura, però, comprese che gli era stata assegnata la parte più adatta a lui. Il film fu girato fra aprile e maggio del 1981 negli studi della Bavaria, a Monaco, nonché ad Aischach, in Bassa Baviera. Avendo già lavorato con registi di fama internazionale, Mario Adorf non nascondeva la propria irritazione per il fatto che le riprese erano pesantemente condizionate dalle lune e dallo stato d’animo di Fassbinder: «L’organizzazione era caotica perché Fassbinder continuava a adattare il piano di lavorazione al suo ritmo di vita. Mentre il team perlopiù arrivava sul posto già alle otto del mattino, il Maestro non compariva prima delle undici». Se in televisione trasmettevano un’importante partita di calcio, Fassbinder, tifoso appassionato, anticipava su due piedi la fine delle riprese: «La cosa sorprendente era che nonostante tutto riusciva a portare a termine quanto si era prefisso per la giornata».14 Come sempre il regista portava avanti le riprese a gran velocità e con la massima concentrazione, e si aspettava dai suoi attori che funzionassero alla perfezione e recitassero anche scene lunghe e complicate senza prove né ripetizioni. Per Adorf, ultimo arrivato nel team di Fassbinder, questo modo di lavorare era inusuale. Anche Barbara Sukowa era disorientata dalle indicazioni tassative e non suscettibili di discussione date da Fassbinder. Invece di spiegarle perché si dovesse muovere in un certo modo, le diceva: «Ti metti lì, poi vai di là perché la cinepresa fa quel giro».15 L’attrice e il collega Mario Adorf non riuscivano a rassegnarsi a quel modo insolito di girare. Avendo però ricevuto il suggerimento di non fare domande a Fassbinder, il quale si irritava se gli venivano chieste indicazioni più precise sui singoli ruoli, decisero di provare le scene in comune a porte chiuse, come racconta Mario Adorf: «Fassbinder non doveva sapere niente dei nostri approfondimenti, però era molto affascinato dall’armonia che regnava tra noi sul lavoro».16 Se un attore funzionava come voleva lui, la collaborazione poteva risultare anche molto gradevole, conferma Barbara Sukowa: «Ti dava sempre la sensazione di divertirsi in quello che faceva. Così poi uno si apriva, si rilassava».17 Sebbene, come Adorf, rivedendosi nel film avesse avuto l’impressione che in determinate scene avrebbe potuto dare di più, se solo Fassbinder si fosse deciso a ripetere l’una o l’altra inquadratura, il risultato le era parso più che soddisfacente. Per Barbara Sukowa Lola divenne il trampolino di lancio verso l’indipendenza artistica – in copertina lo Spiegel festeggiava il talento della «nuova Lola», immortalandola sullo sfondo di un’immagine di Marlene Dietrich. Inoltre, proprio come era accaduto anni prima a Ingrid Caven, durante le riprese la Sukowa scoprì il suo talento di cantante, cosa che più tardi le aprì le porte di un’altra carriera. Con Lola Fassbinder è riuscito a mettere in scena, in forma di commedia noir, un ritratto intrigante, vivace e raffinato degli anni cinquanta. Il fascino particolare del film è dato dalla capacità del regista di dipingere con tanto pessimismo quel mondo corrotto, in cui tutto e tutti si possono comprare, avvolgendolo poi in un involucro terribilmente kitsch dai colori sgargianti, usato in modo consapevolmente caustico. Il cameraman Xaver Schwarzenberger, al quale Fassbinder aveva indicato tre vecchi film hollywoodiani sui quali orientarsi,18 ricorda: «Voleva un tocco di Technicolor, tanti colori forti, accesi: più erano stridenti, selvaggi, variopinti e meglio era».19 Quei chiassosi colori bonbon, che negli anni cinquanta dovevano far dimenticare la tristezza dei tempi, danno al film un affascinante effetto artificiale, irreale, ulteriormente sottolineato dalla recitazione consapevolmente esagerata – a volte persino caricaturale – nonché dalla ampollosa colonna sonora di Peer Raben. Se ancora oggi, guardando Lili Marleen, ci si accorge che si tratta di un lavoro su commissione, al quale Fassbinder non ha dedicato la consueta attenzione, nel caso di Lola si capisce subito quanto la pellicola abbia significato per lui. Il suo
impegno nel portare avanti, con questo film, la sua cronaca della Germania Federale, fu apprezzato sia dal pubblico che dalla critica. Lola fu inoltre il settimo film del regista a essere premiato con il Nastro d’oro dalla giuria del Filmpreis – solo l’Orso d’oro continuava a mancare all’appello.
Che bisogno c’era dell’Orso d’oro Dopo Il matrimonio di Maria Braun e Lola, alla fine del 1981 Fassbinder girò Veronika Voss (Die Sehnsucht der Veronika Voss), un altro grande film di donne con il quale intendeva proseguire il ciclo iniziato tre anni prima sulla «Storia complessiva della Repubblica Federale Tedesca». Essendone poi state ultimate solo tre parti, oggi si parla di «Trilogia della Rft». Anche il personaggio di Veronika Voss cerca di cavarsela nella Germania del miracolo economico. Al contrario di Maria Braun, che va per la sua strada con successo, almeno finché gli uomini non riconquistano le posizioni chiave nel paese, e di Lola, che riesce abilmente ad assicurarsi il benessere materiale vendendosi agli uomini, Veronika Voss è destinata a un tragico fallimento e non riesce nemmeno ad approdare nella buona società della Repubblica Federale. Veronika Voss, realizzato da Fassbinder subito dopo il suo primo e unico documentario, Theater in Trance,20 non si basa, come le altre due parti della «Trilogia della Rft», su un’idea del regista, bensì su una storia vera. La donna che ha ispirato il personaggio di Veronika Voss è l’attrice Sybille Schmitz, interprete di figure femminili quasi sempre androgine e misteriose, che Fassbinder aveva visto e ammirato in alcuni vecchi film della Ufa. Addirittura il regista l’annoverava tra le dieci migliori interpreti della storia del cinema e avrebbe molto desiderato lavorare con lei. Quando nel 1972 era alla ricerca di un’attrice per il ruolo della madre in Le lacrime amare di Petra von Kant, tentò di rintracciarla e venne a sapere che si era suicidata già nel 1955, in circostanze misteriose. Lesse tutto ciò che gli fu possibile trovare sull’argomento e incappò così nei resoconti del processo contro il medico donna che aveva assistito Sybille Schmitz fino alla morte e che, senza che le cose si fossero mai potute chiarire del tutto, era stata accusata di averle somministrato illegalmente l’oppio e di essersi arricchita grazie al suo patrimonio. Da quando si era imbattuto in questa vicenda, il destino di Sybille Schmitz non aveva più abbandonato Fassbinder: «Un caleidoscopio interessante, variegato e drammatico, la storia di un individuo e della società a cui è esposto».21 Era solo una questione di tempo, prima o poi sarebbe riuscito a realizzare il film. Le opportunità che offriva la varietà del racconto, la correlazione tra perdita della notorietà e dipendenza, lo affascinavano: «Uno dei temi è la distruzione e il declino di un essere umano, un evento che, se visto superficialmente, può essere considerato individuale, quasi privato; l’altro è lo sfruttamento criminale degli svariati tipi di disperazione che attanagliano individui probabilmente ipersensibili».22 Alla fine Fassbinder, in questo film in bianco e nero, racconta la storia di una donna la quale, se per un verso ha paura della vita, per l’altro le si aggrappa disperatamente perché ancora più grande è la sua paura della morte. Anche se dovette rinunciare per motivi legali al titolo Sybille Schmitz,23 utilizzato in fase di lavorazione, Veronika Voss segue ampiamente la vicenda originaria. Il soggetto era di Fassbinder, come già per Lola, mentre a elaborare la sceneggiatura furono ancora una volta Peter Märthesheimer e Pea Fröhlich. Il giornalista sportivo Robert Krohn fa per caso la conoscenza dell’ex star della Ufa Veronika Voss. Al loro primo incontro la donna appare molto impaurita e sembra sentirsi perseguitata, anche se da tempo ormai non lavora più e viene ormai riconosciuta soltanto da qualche vecchio fan. Quando invece si rincontrano in un elegante caffè di Monaco, Veronika sembra un’altra persona e si muove sicura di sé come la diva che è stata in passato. Krohn è affascinato dalla donna e ne diventa amico. Per un verso si sente attratto da lei in quanto uomo, per l’altro è mosso da una curiosità di tipo giornalistico a svelare il mistero che sembra avvolgere la diva. Via via si rende conto che Veronika Voss è una morfinomane. La sua dipendenza dalla droga l’ha spinta tra le grinfie di una donna senza scrupoli, un medico: Veronika abita nel suo studio e ne è completamente in balia. Krohn scopre che il medico si sta approfittando di lei e di altri pazienti chiedendo loro di intestarle il proprio patrimonio in cambio della droga. Anche la lussuosa villa acquistata da Veronika quand’era al culmine della carriera – nella quale ha dato numerose feste memorabili – è da tempo nelle mani della dottoressa, alla quale deve persino sottrarre di nascosto la chiave per poter mostrare la casa a Krohn. Comprensibilmente il medico non è per niente entusiasta all’idea che la sua protetta sia diventata amica di un giornalista che comincia a fare domande scomode. La compagna di Krohn, Henriette, che prende parte alle sue ricerche e si introduce nello studio della dottoressa fingendosi una
paziente, viene uccisa per ordine del medico nel tentativo di porre un freno alle indagini di Krohn. Costui chiama la polizia ma non riesce a fornire delle prove e deve andarsene senza aver concluso nulla. Per il medico Veronika è un peso sempre più ingombrante, così decide di sbarazzarsene. Per salvare le apparenze, alla villa viene data una festa di addio, in cui si finge che Veronika Voss sia stata invitata a Hollywood per girare un film. Al termine del ricevimento il medico chiude Veronika nello studio senza darle la morfina di cui ha urgente bisogno, cosicché l’attrice, disperata, si uccide con una dose massiccia di sonniferi. Krohn intuisce come sono andate le cose, però sa anche che senza prove nessuno gli crederà mai. Rassegnato, torna a fare il giornalista sportivo. Mentre Maria Braun e Lola vivono immerse nel qui e ora e cercano con determinazione un modo per affrontare le sfide del loro tempo, Veronika Voss vive nel passato. Ciò che conta per lei è il suo momento di gloria, quand’era un’acclamata diva dell’Ufa. Se a Maria Braun e a Lola non rimane altro che cancellare il passato e guardare avanti, Veronika, invece, per poter continuare a sognare l’epoca del Terzo Reich in cui, favorita del regime, ha vissuto una grande stagione, deve rifugiarsi nella dipendenza dalle droghe. Per contrasto Fassbinder affianca alla sua protagonista due figure che, per ragioni completamente diverse, non essendo riuscite a chiudere con il loro passato, non si sono mai veramente inserite nella Germania del dopoguerra. Si tratta di due reduci da Treblinka, un antiquario e sua moglie. Per riuscire a sopportare quanto hanno vissuto, diventano, come Veronika Voss, dipendenti dalla morfina e sono poi costretti a lasciare tutto il loro patrimonio alla dottoressa. Tema del film è dunque anche il tentativo di sfuggire a un passato al quale non ci si riesce a sottrarre. Scaricata dall’industria cinematografica, senza più nemmeno un ingaggio, dopo il 1945 Veronika Voss vede la sua carriera arrestarsi, ritrovandosi all’improvviso priva di sostegni nella nuova epoca che avanza. La sua incapacità di adattarsi alla situazione del dopoguerra minaccia di distruggerla; non vede così altra possibilità se non quella di stordirsi con le droghe, in modo da poter chiudere gli occhi di fronte alla sua mancanza di prospettive e al suo crescente desiderio di morte. Per il ruolo di Veronika Voss Fassbinder era riuscito ad avere Rosel Zech, la quale, dopo anni trascorsi a recitare nei teatri di provincia, era stata scoperta da Peter Zadek.24 Poiché Fassbinder aveva intenzione di descrivere in modo molto circostanziato la dipendenza di Veronika Voss dalla morfina e i suoi terribili effetti, l’attrice si preparò scrupolosamente al proprio ruolo e si fece descrivere dai medici i sintomi e le conseguenze di quella dipendenza. In effetti Rosel Zech riuscì a portare sullo schermo con virtuosismo i diversi stati d’animo della morfinomane, sia i crolli drammatici che gli stati di euforia. Tra la Zech e Fassbinder c’era stata un’intesa immediata, perfetta. I due decisero subito di realizzare insieme anche altri film,25 purtroppo, però, non ne ebbero il tempo. Rosel Zech avrebbe poi dichiarato: «Lo amavo. È stato forse l’unico genio che abbia mai incontrato».26 Come protagonista maschile, Fassbinder aveva ingaggiato Hilmar Thate, che l’anno precedente aveva abbandonato la Ddr con sua moglie, l’attrice Angelika Domröse, e si era stabilito a Berlino Ovest. Thate era un attore vecchio stampo. Per molti anni aveva lavorato con Helene Weigel al Berliner Ensemble, e dall’inizio degli anni sessanta aveva anche recitato in vari film della Defa (gli studios della Ddr), tra i quali Der Fall Gleiwitz (t.l. Il caso Gleiwitz), del 1961: la storia del primo uomo morto nella Seconda guerra mondiale. Il film era stato realizzato dal noto regista Gerhard Klein, il quale nella Ddr veniva festeggiato come il Fassbinder dell’Est.27 Nella Repubblica Federale Hilmar Thate era ancora piuttosto sconosciuto al grande pubblico. Come già aveva fatto con Armin Müller-Stahl, Fassbinder gli diede un sostegno decisivo per affermarsi all’Ovest. Thate considerava Fassbinder una persona «geniale» e «sul lavoro» lo riteneva «un uomo alla buona e gentile. Uno che nel pensare, nel vivere e in tutto quello che faceva metteva un’intensità elevatissima, e aveva un modo di fare molto gradevole durante le riprese».28 La prima di Veronika Voss alla Berlinale del 1982 fu per Fassbinder un vero e proprio trionfo. Finalmente la giuria gli attribuì il tanto ambito Orso d’oro. Con Veronika Voss, degna risposta al capolavoro di Billy Wilder Sunset Boulevard (Viale del tramonto), Fassbinder non aveva soltanto prodotto un film avvincente, bensì realizzato una pellicola tecnicamente perfetta, quella che probabilmente più si è avvicinata a un obiettivo che Fassbinder si prefiggeva da anni: creare un cinema hollywoodiano in Germania. Non tutti però ne furono entusiasti. Peter Zadek, per esempio, che in Veronika Voss interpretava la piccola parte di un regista, ne lodò la perfezione tecnica ma lo definì un «polpettone» di qualità, cui mancava la forza visionaria di alcuni lavori precedenti: «I primi grandi film di Fassbinder imponevano allo spettatore una visione, gli ultimi riprendevano dei cliché invece di smascherarli».29 Fassbinder, dal canto suo, vedeva le cose in un
altro modo: in fondo, solo tre anni prima aveva dimostrato, con Un anno con 13 lune e La terza generazione, che nonostante i grandi successi di pubblico, come Il matrimonio di Maria Braun, era ancora assolutamente in grado di realizzare progetti sperimentali, di portare sullo schermo grandi visioni cinematografiche e di mettere in discussione le convenzioni del cinema: «Ho sempre detto che voglio continuare a fare questi piccoli film girati in fretta, con un cast ridotto. Non mi sono votato a una forma. Per me tutte le forme del cinema continuano a essere possibili e necessarie».30 Veronika Voss non sarebbe stata l’unica opera di Fassbinder ad affrontare il tema della dipendenza dalla droga, che, comprensibilmente, toccava il regista molto da vicino. Già da due anni aveva in programma una versione cinematografica di Cocaina, un romanzo degli anni venti dello scrittore italiano Pitigrilli.31 I diritti cinematografici del libro, pubblicato in tedesco solo nei primi anni ottanta, dopo essere stato all’indice per decenni,32 erano stati assicurati da Horst Wendlandt. In seguito al successo travolgente del Matrimonio di Maria Braun, e prima ancora di realizzare con lui Lola, lo zelante produttore l’aveva proposto a Fassbinder, subito entusiasta all’idea di mettere in scena quell’opera che aveva già provocato tanti scandali. Il regista intendeva raccontare la vicenda, ambientata nella Parigi degli anni venti, con la tecnica cinematografica dello straniamento, per poter mostrare allo spettatore «gli stati d’animo del cocainomane che, per dirla estremizzando, vanno da un radicale disinteresse verso tutto al più passionale godimento fantastico e all’instancabile attivismo».33 Il cineasta voleva astenersi da qualunque forma di giudizio; il suo film, proprio come il romanzo di Pitigrilli, non doveva prendere posizione: «Non è un film pro o contro la droga, è semplicemente un film per raccontare qualcosa sulla droga, sui suoi effetti, e sulla libertà di una persona di decidere se essere pro o contro, con la lucida consapevolezza che prendendo la droga ci si accorcia la vita ma la si vive più intensamente». Come andasse giudicata quella decisione, era un dilemma che Fassbinder avrebbe lasciato allo spettatore, il film non doveva fornire nessun aiuto da questo punto di vista: «Ciascuno potrà dire per sé se preferisce una vita più breve ma intensa o una più lunga e prevedibile».34 Il film era un progetto prestigioso, con star internazionali e un budget da milioni di marchi. Oltre a Ornella Muti e Brad Davis, che poi avrebbe avuto il ruolo principale nell’ultimo film di Fassbinder, Querelle, Horst Wendlandt aveva previsto Romy Schneider come protagonista femminile. Ancora oggi circola con insistenza la voce secondo cui sarebbe stato Fassbinder a desiderare fortemente Romy in Kokain, e se il progetto non andò in porto fu solo per via della morte precoce dell’attrice. In realtà il regista aveva boicottato subito l’idea di una collaborazione con la Schneider. Quando il produttore Michael Fengler, nel 1978, gli propose Romy Schneider come protagonista del Matrimonio di Maria Braun, Fassbinder reagì con un netto rifiuto, non solo perché aveva già deciso di ingaggiare Hanna Schygulla, ma anche perché la Schneider, che aveva molto da ridire sulla sceneggiatura, gli era sembrata lunatica e pretenziosa. Michael Fengler racconta: «Quel ruolo non glielo voleva dare a nessun costo. Qualunque altro regista si sarebbe leccato i baffi all’idea di poter lavorare con la Schneider, Rainer invece preferiva aspettare e tentare di fare eventualmente qualcosa con lei più avanti. Non aveva comunque un vero interesse nei suoi confronti, questo era evidente».35 Poco dopo le offrì due progetti in alternativa, che però non incontrarono il favore di Romy Schneider. Nel suo diario l’attrice annotò: «Fassbinder mi avrebbe voluto per Immensee, ma non mi andava. Il progetto melo-melo-melodrammatico che mi ha offerto subito dopo non l’ho nemmeno preso in considerazione».36 Dopo queste esperienze negative, l’interesse di Fassbinder per Romy Schneider si ridusse a zero. Quando già erano in corso alcune trattative per averla come protagonista di Kokain,37 lui, come ricorda Michael Fengler, «aveva sparlato così tanto di lei – in un contesto in cui poteva essere certo che sarebbe venuta a saperlo – e l’aveva fatto a un livello così basso, che Romy si era terribilmente offesa. Mi scrisse poi una lettera molto indignata in cui spiegava di non essere disposta a incontrare Fassbinder, mai più. E a quel punto il tema Romy Schneider fu definitivamente chiuso».38 Il regista reagì con estrema tranquillità alle imprecazioni della diva e confessò al suo amico Ulli Lommel che «quella stronza» poteva «andare affanculo».39 Anche se il progetto di Kokain era molto avanzato – Fassbinder aveva già scritto diverse versioni della sceneggiatura e, contrariamente alle sue abitudini, aveva addirittura individuato e visitato i luoghi dove dovevano avvenire le riprese in Europa e in Sudamerica –, alla fine l’iniziativa si arenò, in primo luogo perché Horst Wendlandt si era allarmato ed esitava. Il tema, e il fatto che a fare il film fosse Fassbinder – la cui dipendenza dalla cocaina, nell’ambiente, era un segreto di Pulcinella – gli sembrarono a conti fatti elementi che rendevano l’impresa troppo rischiosa. Inoltre, il libro di Pitigrilli in Germania era di nuovo all’indice, e questo significava ulteriori difficoltà. Una grande produzione internazionale con un budget di sei milioni di dollari,
concepita per il cinemascope, che avrebbe anche potuto non ottenere la liberatoria in Germania e in altri paesi, costituiva semplicemente un rischio finanziario troppo grande. Wendlandt non era disposto a esporsi a un simile azzardo. Ufficialmente tuttavia si stabilì di dire al regista che il progetto era soltanto rimandato. Fassbinder naturalmente notò che Horst Wendlandt aveva perso interesse nel progetto, di cui si era già anche molto parlato sui giornali, però era determinato a realizzare Kokain: «Bisognerà costringere il produttore a farlo». Il regista sapeva già come avrebbe potuto convincere Wendlandt: «Ci sono diversi metodi: per esempio potrei piazzarmi nel suo studio e starmene semplicemente seduto lì per un bel po’».40 Il film poi non si è mai fatto.
La paura della fine «Tutto quello che mi fa male, mi fa bene»: questa frase, tratta dal romanzo di Henry de Montherlant Les jeunes filles (Le ragazze da marito), e citata nel cortometraggio Das kleine Chaos del 1967, potrebbe fungere da epigrafe all’intera esistenza autodistruttiva del regista. Fin da giovane poco attento alla propria salute, Fassbinder beveva e fumava troppo, era sovrappeso, e aveva da tempo cominciato ad assumere ogni genere di droghe e pasticche. A partire dalla metà degli anni settanta virò incontrovertibilmente verso l’abisso. Sapeva di non avere molto da vivere e già a sedici anni parlava di quel «po’ di vita» che ancora gli rimaneva.41 A ventitré anni scrisse la sua prima opera teatrale, Katzelmacher, e disse a sua madre: «Conservala, perché tanto morirò prima di te».42 Su sua richiesta Liselotte Eder l’aveva battuta a macchina ma avrebbe voluto buttarla nel cestino. Esorcizzare la morte precoce divenne per il regista una vera e propria ossessione, come racconta Harry Baer, a lungo suo confidente: «Non c’era nessuno a cui non raccontasse, subito dopo averlo conosciuto, che sarebbe morto giovane: “Non arriverò certo a quarant’anni, al massimo a trentacinque o trentasei”».43 Anche Hanna Schygulla ricorda che già alla scuola di teatro Fassbinder era convinto di non arrivare alla vecchiaia, e continuò a manifestarle questa sua idea anche in seguito: «Era assolutamente certo di morire giovane. Diceva: “Tu e la Caven vi rincontrerete quando sarete anziane e con la voce tremula, ma io non ci sarò già più da anni”».44 Per molto tempo, evidentemente, questo pensiero non gli fece paura. Non si stancava di affermare che preferiva vivere poco «ma nel modo giusto. E avere tutto».45 La convinzione di essere destinato a una vita breve ma intensa lo spinse probabilmente a lavorare in modo così ossessivo e a prodigarsi con impegno addirittura sovrumano. D’altra parte questa consapevolezza lo induceva a pensare che le leggi che valgono per i comuni mortali non lo riguardassero. Non aveva un’assicurazione sanitaria né si preoccupava per la pensione.46 L’estrema conseguenza di quel suo fatalismo era che non si poneva limiti nel consumo di droghe e usava la cocaina «come fosse zucchero a velo».47 Per le sue dipendenze il regista investiva somme enormi. Solo per la cocaina pare abbia speso, negli ultimi sei anni e mezzo di vita, più di tre milioni di marchi,48 cui si aggiungevano i costi allucinanti dei medicinali e degli psicofarmaci, assunti quotidianamente e ottenuti per vie illegali. La necessità di trovare i soldi per tutto questo aveva anche dirette ripercussioni sulla scelta dei progetti lavorativi, come ipotizza Laurens Straub, compagno di Fassbinder per molti anni: «Per potersi pagare la cocaina, di cui aveva sempre urgente bisogno» non poteva che girare «film per il grande pubblico».49 Come accade a tutti i tossicodipendenti, la mente di Fassbinder era sempre più assediata dal pensiero della droga. Per paura di rimanere senza, ne ordinava duecentocinquanta grammi alla volta.50 Nel 1977 aveva reso pubblica la sua dipendenza dalla cocaina con il film Germania in autunno e anche nelle interviste riconosceva che per lui le droghe erano «un’esperienza importante»;51 ne parlò al punto da far finire il suo locale abituale, la Deutsche Eiche, nel mirino dell’antidroga.52 Tuttavia, nella primavera del 1981, quando fu chiamato a testimoniare insieme a Dolly Dollar, Barbara Valentin e Klaus Lemke in un processo contro uno spacciatore di Monaco, riuscì a passare per innocente. Quando il giudice gli chiese quale fosse il suo rapporto con la cocaina, pare abbia risposto con grande disinvoltura di essere molto interessato all’argomento, se il giudice intendeva riferirsi al romanzo dello scrittore italiano Pitigrilli, Cocaina, che a breve avrebbe portato al cinema.53 Per altre persone il mix di alcol, medicinali e droghe, al quale Fassbinder si era assuefatto negli ultimi anni, sarebbe stato senz’altro letale. Per riuscire a dormire almeno un paio d’ore al giorno la sua dose quotidiana era di due Valium 10 e due pasticche di Mandrax.54 A questo si aggiungevano quantità enormi di cocaina: si parla di sei grammi e più al giorno. Per poter lavorare prendeva inoltre il Captagon, un’anfetamina. Droghe e medicinali venivano accompagnati da quantità industriali di whisky, birra e vino. Consumava poi anche l’erba con
grande disinvoltura.55 Kurt Raab ricorda: «Divorava tutto come un mostro insaziabile, beveva fino a non poterne più, ingurgitava anfetamine, di cui poi attenuava l’effetto con i sedativi. Doveva prendere sonniferi molto potenti per riuscire a dormire almeno tre ore per notte, e per coronare il tutto, a intervalli sempre più brevi, riforniva il suo corpo crudelmente torturato – sempre più informe e in affanno – della polvere bianca della dimenticanza e della falsa felicità».56 Raab, a sua volta in balia della cocaina e dell’alcol, dichiarò poi che fin dalla metà degli anni settanta si era aspettato «che Rainer a un certo punto sarebbe stramazzato, che quel circolo vizioso di alcol, droghe, eccitanti e sedativi avrebbe presto o tardi preteso la sua vittima».57 Fassbinder riuscì a reggere quel mix per anni, tanto da indurre i suoi amici stupefatti a pensare per qualche tempo: Rainer «ci seppellisce tutti».58 Il regista in realtà si divertiva a scioccarli, mostrando loro quanto poteva resistere agli eccessi, come un mago che fa credere di essere immortale e di vivere in un mondo in cui valgono soltanto le leggi da lui stesso create. Sotto l’influenza della cocaina Fassbinder cambiò, e presto nell’ambiente tutti lo vennero a sapere. Nel 1978, durante i preparativi per Berlin Alexanderplatz e durante le riprese del Matrimonio di Maria Braun, il consumo di cocaina aveva assunto dimensioni tali che la collaborazione con lui rischiava di diventare impossibile.59 Se la fornitura di droga non arrivava per tempo, lui se ne stava a letto in uno stato comatoso e non si presentava nemmeno sul set, affidando il lavoro al suo assistente alla regia. Michael Fengler, produttore del Matrimonio di Maria Braun, all’epoca molto vicino a Fassbinder, ricorda: «La situazione era davvero estrema. Le droghe avevano conseguenze catastrofiche su di lui. Ricadeva continuamente in comportamenti infantili. Alterato, distruggeva tutto negli alberghi in cui abitava. Una volta mi chiamò il direttore di un hotel e pretese ventimila marchi di risarcimento. Minacciò di rivolgersi alla stampa e di spedire le foto dei danni provocati. Erano talmente spaventose che io le distrussi subito e pagai. In quei mesi per Fassbinder tutto ruotava intorno alla droga. C’erano persino due o tre assistenti che volavano continuamente in giro per l’Europa per procurargli la cocaina. La gran parte dei costi di produzione del film se ne andavano dunque per la coca».60 Alla fine le droghe distrussero il legame di Fassbinder con il suo amico di gioventù Michael Fengler: «Fassbinder divenne per me troppo imprevedibile, non riuscivo più a riconoscere nessuna logica nei suoi cambiamenti d’umore. […] Tra noi s’era rotto qualcosa e l’amicizia è finita».61 Negli ultimi anni di vita si isolò dal suo ambiente e si ritirò sempre più in se stesso. Con molti vecchi amici e persino con sua madre manteneva le distanze: «Non veniva più nemmeno a trovarmi. Non me ne capacitavo e gliene chiesi la ragione. Diceva di voler vedere se riusciva a cavarsela anche senza di me».62 Dopo il suicidio di Armin Meier, per un po’ Fassbinder aveva vissuto a Berlino Ovest perché si rifutava di rientrare nell’appartamento che avevano condiviso. Tornato poi a Monaco, andò ad abitare nella Clemensstraße, in una mansarda di proprietà del produttore Gerhard Wendlandt che sarebbe stata il suo ultimo domicilio. Arredò l’appartamento con pochissimi mobili: aveva un’aria molto spoglia, come se lui non volesse più sentirsi a casa. Poiché non sopportava il silenzio, il «palazzo degli orrori», come Peter Zadek chiamava l’appartamento, era «pieno di televisori e apparecchiature video accesi contemporaneamente. Sempre. Si passava da una stanza all’altra e dappertutto si sentivano gli apparecchi che trasmettevano programmi diversi. Era come stare in un manicomio».63 L’appartamento era il suo ritiro, dove voleva essere lasciato in pace. Solo pochi intimi come Harry Baer e Ingrid Caven avevano il numero del «telefono rosso», l’apparecchio accanto al letto di Fassbinder. Altre persone quasi non riuscivano più ad avvicinarglisi. Si isolava anche all’interno dell’appartamento. Chiunque nella sua cerchia ristretta sapeva che era vietatissimo entrare nella sua camera da letto se la porta era chiusa e ben presto si cominciò a parlare scherzosamente del «bunker del Führer».64 Intorno al regista calò sempre più il silenzio. «Dopo la morte di Armin non ha più avuto una relazione» racconta Ingrid Caven «e si sentiva terribilmente solo, anche se era stato lui a chiudere e a non volere altre storie. Da quel momento in poi si circondò soltanto di persone che gli servivano per il suo lavoro, non aveva però più nessuno con cui ci fosse uno scambio intellettuale o emotivo. Si lamentava sempre di non avere una vita privata, ma era stato lui in fondo a far sì che nessuno gli stesse più vicino. In effetti negli ultimi anni di vita non aveva più relazioni intime, e questo a me è sempre sembrato molto tragico e triste.»65 L’unica cosa che rimanesse ancora a Fassbinder in quella situazione, la sola che lo distraesse dal suo isolamento, era il lavoro. Lui stesso cercava di convincersi: «Con un’illusione nella testa la solitudine si sopporta meglio».66 Il regista e amico di vecchia data Werner Schroeter considerava «quella furia lavorativa senza pari una vera tragedia»: «aveva stretto un patto diabolico con la propria anima, aveva rinunciato all’amore per le persone concrete, pur di ottenere il favore del pubblico».67
Del suo entourage di un tempo, alla fine, gli erano rimaste poche persone: Peer Raben, che continuava a comporre per lui, e Harry Baer, che gli era di grande aiuto, nella vita e nel lavoro. Molti altri li aveva persi per strada. Con Kurt Raab, sua «migliore amica», Fassbinder aveva litigato già nel 1977; Ulli Lommel, una delle sue amicizie maschili più intime, viveva a Los Angeles dal 1977, e Irm Hermann, che nel frattempo si era sposata e si era fatta una famiglia, abitava a Berlino, dove recitava alla Freie Volksbühne: «Non so come abbia vissuto negli ultimi anni, ma penso che fosse molto tormentato e che le cose non gli andassero bene. Per lui la vita era un inferno, nonostante il successo».68 Unica eccezione era Günther Kaufmann. Con il suo grande amore di un tempo, Fassbinder aveva ripreso i contatti nel 1978, dopo otto anni di silenzio, e inaspettatamente gli aveva offerto una piccola parte nel Matrimonio di Maria Braun, che Kaufmann aveva accettato con entusiasmo. Fassbinder lo sorprese con un «rispetto fino ad allora mai dimostrato: mi trattò subito come un attore che va preso sul serio. Mi sentivo fantastico».69 Lo stato di salute di Fassbinder peggiorò sensibilmente quando il suo sonnifero, il Mandrax, fu tolto dal commercio in Germania. Da un amico farmacista riuscì ad avere, in sostituzione, il Vesparax, di cui all’epoca già si sapeva che, se abbinato all’uso di alcol, droghe o allucinogeni, ne potenziava e prolungava gli effetti, spesso con esiti mortali. Anche se nel 1978 sullo Spiegel si era parlato dei pericoli di quell’«effetto stereo»,70 il Vesparax vantava, proprio tra i consumatori di droga, una crescente popolarità. Nel caso di Fassbinder l’uso di quel medicinale combinato all’alcol e alla cocaina provocava una sensazione di torpore in tutto il corpo e dei disturbi motori: «In piena notte, vagava nell’appartamento incespicando e si feriva le braccia a sangue».71 Anche la sua voce si fece strascicata e balbettante, gli occhi erano iniettati di sangue e l’uso prolungato della cocaina faceva sì che ormai soffrisse di problemi di circolazione, come ricorda Günther Kaufmann: «Perdeva di continuo sangue dal naso ed era a terra. Quanto poteva resistere ancora?».72 Spesso si vedeva il celebre cineasta barcollare per le strade di Monaco e non di rado capitava che si addormentasse sul marciapiede, finché qualcuno della sua cerchia non lo andava a prendere con l’automobile.73 Quasi sempre questo compito toccava alla sua montatrice, Juliane Lorenz, che era diventata un importante sostegno ed era colei che gli organizzava la vita, gli faceva la spesa, gli puliva l’appartamento e cucinava per lui. Come sempre, il regista aveva una paura folle di rimanere solo e lo sopportava ancor meno di prima. Una volta assalì un amico: «Come fai a essere così brutale? Non puoi lasciarmi solo, non sai cosa vuol dire stare soli. Nessuno è più solo di me».74 Le persone che non vedevano Fassbinder da tempo, si spaventavano rendendosi conto di quanto il cineasta fosse cambiato; fisicamente era completamente esausto, e la vita piena di eccessi che conduceva da anni aveva lasciato profonde tracce. Nel suo ambiente si mormorava ormai che prima o poi lo si sarebbe trovato morto nel suo appartamento.75 A Wim Wenders, che l’aveva visto a Cannes, poco prima della sua morte, Fassbinder era apparso «pallido, spaventosamente esausto, stanchissimo».76 Günter Lamprecht, che aveva rincontrato il regista a Berlino poche settimane prima della morte, ricorda un «Rainer Werner Fassbinder completamente distrutto e stanco», dall’aria incredibilmente spossata e che nel «salutarlo si reggeva a malapena sulle gambe» e faceva fatica a tenere gli occhi aperti.77 L’attrice Elga Sorbas, conoscente di Fassbinder fin dal 1968, lo incontrò un’ultima volta sei mesi prima che morisse, alla Bavaria di Monaco: «Offriva uno spettacolo davvero triste. Era gonfio, sudava, tremava. Gli si leggeva in faccia che non poteva durare a lungo».78 Anche Ulli Lommel, la star dei suoi primi film, incontrandolo dopo molti anni a Los Angeles, nel 1981, non l’aveva quasi riconosciuto: «Aveva preso più di venti chili e portava ancora la giacca di pelle nera che gli avevo regalato nel 1969. Per la maggior parte del tempo fissò nel vuoto davanti a sé; con quei suoi occhiali da sole spessi e neri sembrava Onassis fatto di Lsd. […] Poi cantò sottovoce una canzone di Vicky Leandros: “Cosa mi potrà mai succedere? Credimi, amo la vita. La giostra ripartirà anche se noi ci separeremo. Lo sai, amo la vita”».79 Peer Raben aveva la sensazione che Fassbinder, in quelle situazioni, cercasse di interpretare una parte con i suoi vecchi amici: «Gli rifilava solo un po’ di teatro. In realtà sapeva da tempo che non gli rimaneva più molto da vivere».80 Chiunque abbia incontrato Fassbinder nei suoi ultimi mesi di vita si rendeva conto che il regista era senza via di scampo, e che non rimaneva molto altro da fare se non assistere in silenzio alla sua autodistruzione. «Avevo paura per lui» ammette Ulli Lommel. «Ma lui non ti lasciava comunque dire niente. Qualunque osservazione avessi fatto l’avrebbe definita mediocre o piccolo borghese.»81 Anche Irm Hermann ne è convinta: «Non c’era modo di fermarlo. Tutti noi lo mettevamo in guardia, di continuo, ma lui non dava ascolto a nessuno».82 Una constatazione condivisa anche dal pittore e attore Jürgen Draeger, molto vicino a Fassbinder prima della sua scomparsa: «L’ho visto in situazioni davvero spaventose in cui, sotto l’effetto della droga,
diventava una persona sgradevole e fuori controllo. Non credo che qualcuno potesse aiutarlo in quelle condizioni, o opporgli resistenza. Si poteva chiamare la polizia e farlo portare in una clinica per la disintossicazione con la camicia di forza, sarebbe stata l’unica strada, da solo non ci sarebbe mai andato. Ma chi avrebbe potuto disporre una cosa del genere? Tra le persone della sua cerchia non c’era nessuno che avesse una personalità così forte da poterlo tenere in pugno».83 Nel corso del tempo i pensieri di Fassbinder presero a ruotare con insistenza sempre maggiore intorno al tema della morte. Già all’età di ventisei anni diceva di aver fatto un sogno premonitore che lo aveva messo di fronte alla finitezza della propria esistenza.84 In seguito sviluppò addirittura un’ossessione per la «consapevolezza tremendamente bella di una fine».85 In un’intervista del 1978 ammise: «Direi che la mia utopia consiste nella morte».86 Sempre più cominciò anche a riflettere sull’idea di abbandonare la vita con una libera decisione: «Non riuscirò mai a superare questo disgusto della vita, non so ancora però se arriverà al punto da spingermi al suicidio».87 Parlava apertamente di questo tema con i giornalisti e diceva che per lui il suicidio era un’opzione aperta: «Se un giorno le mie paure saranno più grandi del mio desiderio di raggiungere qualcosa di bello, allora la farò finita. […] Non c’è ragione di esistere se non si ha più uno scopo».88 In un’intervista allo Spiegel, rilasciata solo qualche settimana prima di morire, diceva: «Quella del suicidio è una possibilità reale nella mia mente. So che è una strada aperta e che ha a che fare con me».89 Anche in questo «desiderio di morte»90 non voleva essere solo: propose a Juliane Lorenz di morire insieme,91 e la stessa cosa disse alla sua ex moglie Ingrid Caven: «Quando mi venne a trovare per l’ultima volta a Parigi, voleva che ci suicidassimo insieme. Io naturalmente non l’ho preso sul serio».92 Sembra che Fassbinder fosse affascinato dall’idea di trovare una persona pronta a morire con lui. Perciò prese a modello Heinrich von Kleist, «perché ce l’ha fatta a trovare qualcuno che volesse morire con lui».93 Tuttavia, non trovando nessuno pronto a esaudire questo suo desiderio, continuava a praticare il suicidio a rate: «Non voleva più vivere» racconta Ingrid Caven. «Me lo diceva spesso. Avrebbe potuto fare altri film, ma ormai non gli interessava più».94 Anche l’attore Peter Chatel, che aveva seguito Fassbinder in un viaggio a New York e Cannes poco prima della sua scomparsa, dovette ammettere: «Ormai si annoiava. Si annoiava moltissimo. E da fuori lo si capiva».95 Mentre prima aveva sempre parlato con disinvoltura e leggerezza delle sue premonizioni di morte precoce, nelle ultime settimane ammetteva sempre più spesso di aver paura della morte e del fatto «di non esserci più». Diceva: «Mi viene paura quando scrivo, quando scopo, quando faccio colazione: d’improvviso succede che mi venga quella paura».96
Each Man Kills the Thing He Loves L’ultimo progetto cinematografico portato a termine da Fassbinder fu Querelle, tratto dal romanzo Querelle di Brest – pubblicato nel 1947 – di Jean Genet, autore di culto per gli omosessuali. Solo dopo la morte improvvisa del regista, la casa di distribuzione si decise ad aggiungere il sottotitolo sensazionalistico Der Pakt mit dem Teufel (Il patto con il diavolo). Produttore e promotore del progetto, che in un primo tempo era parso molto difficile da realizzare, era Dieter Schidor. Laureato in giurisprudenza, Schidor si era poi dato al teatro, interpretando anche piccoli ruoli nelle pellicole di Fassbinder Nessuna festa per la morte del cane di Satana e Veronika Voss. Nella «banda» di Fassbinder gli avevano affibbiato i nomignoli di «dottorino» e «Kitty Babuffke». Dal 1977, l’omosessuale Schidor viveva con Paul Michael McLernon, un attore di origini neozelandesi chiamato da tutti «Masha». Schidor aveva intenzione di imporsi come produttore e il suo primo progetto fu la riduzione cinematografica del suo libro preferito, Querelle di Brest.97 In un primo momento non ebbe grandi riscontri da parte dei potenziali finanziatori. In fondo, il libro di Genet era un romanzo dai contenuti esplicitamente omosessuali, che trattava il tema della sessualità in modo così diretto da essere tacciato di pornografia e addirittura temporaneamente vietato.98 Poiché, per la cessione dei diritti cinematografici, la casa editrice di Genet, Gallimard, aveva posto come condizione il fatto che a dirigere il film fosse un regista famoso, Schidor si diede da fare per trovarne uno. La sua prima scelta era Rainer Werner Fassbinder, con il quale però aveva litigato, perché durante le riprese di Nessuna festa per la morte del cane di Satana Schidor si era permesso di piantarlo in asso per andare in vacanza con il suo amante. All’epoca Fassbinder si era talmente arrabbiato, che aveva fatto tagliare tutte le scene in cui c’era Schidor, salvo una, piccolissima, ineliminabile per ragioni drammaturgiche. Da quel
momento in poi il regista non aveva più voluto saperne del «traditore»,99 considerato addirittura un «acerrimo nemico».100 Michael McLernon, ingaggiato da Fassbinder come direttore della fotografia per i film Lola e Veronika Voss, dovette quindi mediare faticosamente tra i due uomini, finché Fassbinder non si dichiarò disponibile e confessò anche di aver divorato Querelle in gioventù e di ritenerlo uno dei romanzi più radicali della letteratura mondiale.101 Tuttavia, a causa di altri impegni non avrebbe potuto dedicarsi alle riprese prima del 1984. Non potendo aspettare così a lungo, perché l’opzione sui diritti cinematografici a quel punto sarebbe scaduta, Schidor si vide costretto a cercare un altro regista di fama. Il produttore si rivolse perciò a Martin Scorsese, John Schlesinger, Bernardo Bertolucci e Roman Polanski, i quali però respinsero subito la proposta. Nonostante i numerosi rifiuti, Schidor continuò ostinatamente a credere nel progetto e gli venne l’idea di proporre l’incarico al cineasta di nicchia Werner Schroeter, un altro vecchio amico e compagno di strada di Fassbinder. Schroeter, che in quel momento stava lavorando alla messinscena di un’opera alla Fenice di Venezia, fu entusiasta dell’idea e disse subito di sì. La scelta di Werner Schroeter – subito divulgata dalla stampa – di girare il film in bianco e nero con attori non professionisti, sulla base di una sceneggiatura scritta da Burkhard Driest,102 un amico di Schidor, procurò al progetto un nuovo pesante contraccolpo. Schroeter era considerato un regista non sufficientemente commerciale e Schidor non riuscì a trovare i finanziamenti: «Rifiuti da ogni parte. Nessuno che volesse collaborare, né le commissioni per gli incentivi federali, né i finanziatori privati o una coproduzione francese».103 Ma Schidor non era disposto a seppellire il suo sogno. Suo malgrado decise di rescindere il contratto con Werner Schroeter – assai deluso all’idea di non poter realizzare il suo «progetto del cuore»104 –, e si rivolse ancora una volta a Fassbinder. Questa volta ebbe maggior fortuna. Poiché un altro progetto era stato rimandato, il cineasta si mise subito al lavoro, e già il giorno dopo furono firmati i contratti. Mentre Fassbinder incominciò a riscrivere la sceneggiatura di Driest, a suo avviso insoddisfacente, Schidor dovette superare altri ostacoli. È vero che il nome di Fassbinder gli apriva porte altrimenti chiuse, ma l’assenso dato dal famoso regista non rendeva automaticamente le cose più facili perché nelle commissioni per il sostegno pubblico alla cinematografia, a quel punto, temevano che il contenuto del romanzo – i cui temi principali erano la sessualità, l’assassinio nonché la messa in discussione dei valori tradizionali e della morale comune –, già di per sé scabroso, potesse diventare nelle mani di Fassbinder una «glorificazione dell’eroe, di un ladro, uno spacciatore d’oppio e un assassino».105 Alla fine però Schidor riuscì a mettere insieme quattro milioni e mezzo di marchi e a realizzare Querelle per il circuito cinematografico senza sovvenzioni statali. Ovviamente Fassbinder intendeva girare il film con attori di richiamo internazionale. Per il bel marinaio Querelle, desiderato da tutti ma in fondo interessato solo a se stesso, il regista ingaggiò lo splendido e muscoloso attore americano Brad Davis, il quale grazie al film divenne poi un attore di culto tra i gay. Per la parte del sottotenente Seblon, il soldato di Marina innamorato di Querelle, scritturò invece l’attore italiano Franco Nero – molto impegnato e noto soprattutto per i suoi ruoli nei film western, da quel momento in poi fu amatissimo dal pubblico gay.106 Inoltre c’era l’attore francese ventiseienne, ancora quasi sconosciuto in Germania, Laurent Malet, che si sentiva onorato di essere stato coinvolto nel progetto: «Fassbinder è l’Eldorado per qualunque attore».107 Ma il colpo grosso fu riuscire ad avere la diva del cinema francese Jeanne Moreau – «la donna per eccellenza» secondo Fassbinder108 – per il ruolo della proprietaria del nightclub, Madame Lysiane. Come sempre, quando Fassbinder aveva a che fare con le grandi star internazionali, anche se le aveva volute a tutti i costi, non mostrava di fatto nei rapporti personali nessun particolare interesse. Se poi i divi volevano istruzioni sul modo di interpretare il proprio ruolo, per lui era soltanto un fastidio. Neanche Jeanne Moreau, che in Querelle doveva cantare la canzone Each Man Kills the Thing He Loves, basata sulla Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde, riuscì a parlargli. Lui le diede un’unica indicazione di regia all’inizio delle riprese: «You just have to be great!». Per l’attrice, già molto navigata, quella modalità di collaborazione, in base alla quale, anche più avanti, Fassbinder non le diede nessun suggerimento, risultò decisamente sconcertante. Tuttavia Jeanne Moreau riuscì a soddisfare pienamente il regista: dopo la conclusione delle sue ultime scene, Fassbinder le regalò duecento rose bianche.109 Accanto alle star internazionali, Fassbinder ingaggiò anche una serie di interpreti di lingua tedesca. All’attore austriaco Hanno Pöschl assegnò due ruoli. Doveva impersonare il fratello di Querelle, Robert, ma anche l’operaio Gil. Per il ruolo del poliziotto Mario, Fassbinder in un primo tempo aveva pensato a Mario Adorf, il quale però aveva rifiutato dopo aver letto la sceneggiatura: «C’erano due scene in cui questo Mario doveva recitare in situazioni di omosessualità spinta. In una delle due Mario viene sodomizzato mentre sta in ginocchio sul bancone di un bar. Questo
andava oltre ciò che io ero disposto a interpretare in un film».110 Il ruolo previsto per Adorf andò a Burkhard Driest. Anche la collaborazione con la star di Visconti Helmut Berger, che Fassbinder desiderava molto, non andò in porto per altre ragioni: «Inaffidabile, sudicio, non rasato, trascurato, vestito di cuoio e catene, così mi si è presentato Fassbinder, e quello non è il mio stile».111 Tra gli interpreti dei marinai gay c’erano anche il produttore Schidor e l’autore della sceneggiatura McLernon; altri ruoli furono interpretati da Robert van Ackeren e Frank Ripploh. Il vecchio amico di Fassbinder Günther Kaufmann, al quale era stata assegnata la parte di Nono, tenutario di un bordello, fu l’unico della cerchia del regista cui fosse stato affidato un ruolo di medie dimensioni, e fu così che Kaufmann, per la prima volta nella sua carriera, si trovò a lavorare con delle star internazionali. Fassbinder aveva deciso di non girare il film in luoghi realistici, preferendo l’artificialità di un set in studio per tradurre in immagini cinematografiche adeguate il mondo straniante che Genet descrive nel suo romanzo. Per la costosa scenografia della città portuale di Brest, che doveva essere costruita nei Ccc-Studios a Berlino, il regista era riuscito ad avere di nuovo Rolf Zehetbauer, già responsabile degli allestimenti di Despair, Lili Marleen, Lola e Veronika Voss. Zehetbauer, che attraverso l’artificiosità del decoro aveva creato un’atmosfera visionaria e teatrale, incontrava perfettamente il gusto di Fassbinder, il quale dall’arredo delle scene all’illuminazione aveva preteso un mondo estremamente stilizzato che doveva fare da sfondo ai personaggi. Di volta in volta le scene vengono inondate, come accadeva in Lola, da una luce giallo-arancione o blu per sottolineare ulteriormente l’artificiosità del tutto. L’apparato scenografico costituiva in effetti la premessa ideale per poter trasferire anche sullo schermo l’utopia letteraria di Genet. Fassbinder, che considerava la vicenda esteriore di Querelle «una scadente storia poliziesca»,112 nella trasposizione cinematografica del romanzo voleva soprattutto concentrarsi sui temi che erano già stati al centro dei suoi primi film: amore e tradimento, assassinio e solitudine, la disperata ricerca di una propria identità nonché di un altro essere umano pronto a starci vicino senza raggirarci e, non da ultimo, tutta la complessa rete di relazioni caratterizzata da violenza e dipendenza. Fassbinder, questa volta, non solo aveva progetti ambiziosi riguardo al film, ma si era occupato con particolare cura anche del contesto in cui sarebbe stato presentato una volta concluso. Avendo intenzione di fare della prima di Querelle un vero e proprio evento, aveva coinvolto nell’impresa anche l’attore e pittore Jürgen Draeger, già interprete occasionale di piccoli ruoli nei suoi film.113 Poiché Draeger riteneva che dal romanzo di Genet non si potesse trarre un film, il regista voleva assolutamente convincerlo del contrario e lo invitò a illustrare sia il romanzo di Genet sia le riprese. Secondo Fassbinder, i disegni di Draeger dovevano anche costituire la terza dimensione del trattamento artistico di quel materiale narrativo ed essere puntualmente esposti a Berlino in occasione della prima del film.114 A questo scopo il regista fece addirittura costruire un atelier per il disegnatore. «Avevo il permesso di assistere a tutte le riprese e di fare foto e schizzi per il mio ciclo di illustrazioni. Anche se aveva minacciato di cacciarmi nel caso lo avessi disturbato, non ci fu poi nessun problema, perché lavoravamo in perfetta armonia.»115 Anche per quanto concerne le foto di scena Fassbinder aveva grandi progetti. A questo scopo il regista, che sentiva sempre di più il gusto della provocazione, si rivolse niente meno che a Leni Riefenstahl, la regista di Hitler, la quale, gravemente ammalata, dovette, con rammarico, rifiutare l’offerta: «Avrei conosciuto molto volentieri quel giovane talento tanto contestato, e mi avrebbe anche fatto piacere lavorare con lui, soprattutto dopo che mi aveva scritto quanto ci tenesse alla mia collaborazione».116 Per le foto di scena, poi comparse in forma di poster «sulle pareti delle case di migliaia di gay come icone decorative»,117 fu ingaggiato, al posto di Leni Riefenstahl, l’attore e fotografo Roger Fritz, un ex assistente del fotografo omosessuale di culto Herbert Tobias. All’inizio di marzo del 1982 ci fu il primo ciak. Durante le riprese lo stato di salute di Fassbinder peggiorò drammaticamente, cosa che non poteva sfuggire a nessuno di coloro che prendevano parte al film. Se fino a quel momento era sempre stato padrone di sé, ora, per la prima volta, il controllo sul suo lavoro, ma anche su se stesso, gli sfuggiva di mano. La situazione subì un ulteriore tracollo quando Fassbinder venne a sapere della morte di Salem. L’ex compagno era deceduto nel carcere di Nîmes, e contrariamente alle voci che circolarono per decenni,118 non si era suicidato, come credeva anche il regista, ma era morto per le conseguenze di un infarto.119 Fassbinder accolse la notizia senza dire una parola e senza mostrare nessuna reazione, ma dedicò poi il film «al mio amico El Hedi ben Salem M’Barek Mohamed Mustafa», anche se dopo la loro separazione non si era mai più interessato al suo destino. Da quel momento in poi le condizioni di Fassbinder, già comunque depresso, peggiorarono sempre di più e spesso, sul set, la tensione si tagliava col coltello. Jürgen Draeger, che vedeva Fassbinder tutti i giorni, a volte restava «profondamente scosso»: «Certi giorni ho pensato davvero che non sarebbe arrivato alla fine
delle riprese. Era in uno stato spaventoso. Lo si nota anche nel film, in cui manca tutto quello che aveva caratterizzato i suoi lavori precedenti. Querelle non è un capolavoro, ma Rainer, allucinato com’era dalle droghe, era convinto che lo sarebbe diventato, che sarebbe stato il suo film migliore». In effetti, Fassbinder contava di prendere la Palma d’oro a Cannes, con il film tratto da Genet, magari addirittura di vincere l’Oscar e di riuscire a ottenere finalmente la copertina del Time Magazine.120 «Ma un film come Querelle» ritiene Jürgen Draeger «lo poteva girare soltanto da lucido e non sul punto di perdere il controllo di se stesso. Si può davvero dire che la droga abbia cancellato e distrutto completamente la qualità di questo talento, di questo genio.»121 La critica, al momento della prima veneziana, giunse effettivamente alla conclusione che Querelle era un «film non riuscito».122 Più si protraevano le riprese e più diventava difficile per Dieter Schidor gestire la collaborazione con Fassbinder. Mentre nelle interviste il produttore faceva buon viso a cattivo gioco e assicurava che tutto andava «per il meglio» e Fassbinder era molto «collaborativo»,123 il regista in realtà si barricava sempre più spesso nell’appartamento preso in affitto nella Bleibtreustraße a Berlino e si rifiutava di presentarsi sul set, mentre tutto il team, comprese star come Brad Davis e Jeanne Moreau, lo aspettavano in studio. Fassbinder sembrava perdere progressivamente interesse per il film, cosicché Schidor dovette letteralmente costringerlo a proseguire le riprese. Un giorno il regista accettò di seguirlo ma a condizione che Schidor esaudisse un suo strano desiderio: «Andando agli studi Fassbinder fece fermare l’automobile sul Kurfürstendamm, accanto al negozio di scarpe Budapester. Lì comprò un paio di scarpe con i tacchi e poi, in un altro negozio, una borsetta. Passeggiò quindi per il Kurfürstendamm sottobraccio a Schidor così combinato mentre sul set di Querelle le grandi star aspettavano che il signor regista finalmente facesse la sua comparsa».124 Fassbinder alla fine si presentò, dopo una lite con il produttore, nel corso della quale aveva minacciato di interrompere il film e tornare subito a Monaco, se Dieter Schidor non gli avesse versato ogni giorno la sua diaria di 11500 marchi.125 Ogni volta che Fassbinder – con l’aria sempre svagata di uno «che non ha dormito abbastanza»126 – disapprovava quanto accadeva sul set, diventava irritabile, e spesso si creavano situazioni critiche. In particolare, il regista si sentiva molto disturbato dai fotografi di scena, i quali nelle pause gli giravano sempre intorno. Una volta fece cacciare dallo studio una reporter venuta da New York risultatagli particolarmente sgradevole, prima ancora che avesse potuto scattare una sola foto. Saltava all’occhio che Fassbinder, noto per il suo modo veloce di lavorare, con Querelle aveva aumentato ulteriormente il ritmo. Quando finalmente arrivava negli studi spesso girava fino a quindici ore di fila. A volte sembrava addirittura aver riconquistato la forma di un tempo. Sceglieva con grande sicurezza la posizione della cinepresa e il taglio dell’inquadratura e dimostrava ancora una volta di avere tutto il film in testa. In sole quattro settimane e mezzo chiuse il film e la stampa disse che aveva lavorato con una «fretta addirittura criminale».127 Anche l’attore Franco Nero, abituato alle produzioni internazionali, riteneva «estremamente veloce» il modo di lavorare di Fassbinder, in grado di realizzare fino a quaranta inquadrature al giorno.128 La stessa Jeanne Moreau non aveva mai visto «nessuno girare così, con quella fretta».129 Dopo la morte di Fassbinder molte delle persone coinvolte nel film espressero la sensazione che Querelle fosse stato per il regista una gara con la morte. Doveva aver sentito che non gli rimaneva molto tempo per completare la pellicola. Dopo aver terminato le riprese, Fassbinder e il suo entourage si recarono a New York, dove Juliane Lorenz doveva lavorare al montaggio in lingua inglese del film. In quell’occasione il regista rincontrò Andy Warhol, il quale poche settimane prima, il 2 marzo del 1982, era stato sul set a Berlino perché Fassbinder era riuscito a convincerlo a creare il manifesto per Querelle. Già al loro primo incontro non c’era stato un vero scambio e nemmeno un serio avvicinamento. Mentre Fassbinder si beveva la vita a grandi sorsate, Warhol, eccentrico e prigioniero del suo successo, aveva rinunciato all’alcol, alle droghe e al sesso per condurre una vita quasi ascetica. Fassbinder si sentiva molto intimidito davanti all’artista di fama internazionale; dal canto suo, Warhol, era un po’ irritato dal regista tedesco. Nel suo diario scrisse di Fassbinder: «Era vestito in modo molto insolito: pantaloni da cavallerizzo leopardati». Warhol non poteva immaginare che si trattasse di un costume di scena indossato da Fassbinder in quanto protagonista del film di Wolf Gremm Kamikaze 1989: «Qualcuno dei presenti disse che Fassbinder si era conciato così apposta per me, e che normalmente portava abiti di pelle nera. A me era sembrato un domatore da circo».130 Il 20 aprile ci fu un secondo e ultimo incontro tra i due, anch’esso piuttosto singolare. Insieme al produttore Dieter Schidor, Fassbinder andò a prendere Warhol nel suo atelier. Schidor aveva
dovuto promettere a Rainer che non sarebbe stato costretto a parlare con «Andreas», come Fassbinder chiamava sempre Warhol, cosa che però alla fine non poté essere evitata. Quando Warhol attraversò la stanza con la sua insegnante di ginnastica al traino e chiese a Fassbinder, decisamente sovrappeso, «Do you do any gymnastics?», il regista tedesco si zittì di colpo e seguì un penoso silenzio: «Che strano tipo, quel Fassbinder. Quando gli ho fatto conoscere i ragazzi dell’ufficio è stato gentile, ma quando gli ho presentato Lidija, l’insegnante di ginnastica, s’è comportato in modo davvero bislacco».131 Warhol salvò la situazione facendogli un complimento per Querelle, di cui gli avevano fatto vedere la prima versione montata. Le parole di Warhol entusiasmarono Fassbinder al punto che pensò di farne uno slogan pubblicitario per il film: «I saw Querelle. It made me hot for the whole day».132 Warhol annotò nel suo diario: «Ho detto loro che il film mi era piaciuto. Poco dopo che se n’erano andati il produttore è tornato indietro e ha detto di aver lasciato Fassbinder in un pornoshop».133 Mentre Schidor portava avanti le necessarie trattative con l’artista per quanto concerneva i manifesti del film, Fassbinder preferiva starsene in un locale della Christopher Street con la rivista gay Advocate «per studiarsi la pagina delle marchette».134 Nel complesso il regista diede a Warhol l’impressione di essere molto strano: quando l’artista organizzò una serata in suo onore con Jacqueline Kennedy Onassis e Bianca Jagger, Fassbinder, per un suo capriccio, non si fece vedere. Il regista in quei giorni era in pessime condizioni, in balia di cambiamenti d’umore improvvisi ed estremi. A volte era esaltato fino all’isteria, altre volte invece lo prendeva una forma di letargia paralizzante, così Dieter Schidor, per sollevargli il morale, prima di lasciare l’albergo ingaggiava delle comparse che dovevano far finta di riconoscerlo: «Oh god, is it really true? Are you the admirable Mr Fassbeinder? For me you are the greatest film maker in the whole world!».135 Tra le ragioni della crescente inquietudine del regista omosessuale potrebbero aver avuto un peso le voci che allora cominciavano a circolare, e che diffusero un vero e proprio panico nel mondo gay, a proposito di un misterioso «cancro dei gay», come veniva chiamata all’inizio l’Aids.136 Poco dopo, l’11 maggio 1982, il New York Times pubblicò il primo articolo in proposito, che fece poi grande scalpore in tutto il mondo. Due settimane più tardi seguì lo Spiegel con un reportage sull’«orrore che viene da oltreoceano».137 Poiché Fassbinder, anche durante quel soggiorno newyorkese, aveva frequentato come al solito l’ambiente gay,138 dove in quei giorni non si parlava d’altro, probabilmente era stato a sua volta assalito dal terrore che quelle notizie inquietanti avevano scatenato tra gli omosessuali. La morte precoce impedì al regista anche solo di affrontare il tema dell’Aids. Molti suoi amici e compagni di strada tuttavia, tra i quali Dieter Schidor e Michael McLernon, Kurt Raab e Peter Chatel, sarebbero morti di Aids nel corso degli anni ottanta.139 Per Fassbinder stesso la malattia sarebbe diventata molto presto una minaccia assai concreta. La possibilità che anche lui avesse contratto il virus era altissima perché proprio Peter, che aveva avuto per anni una relazione con lui e con il quale aveva portato avanti una «vita coniugale del fine settimana», fu, nel luglio del 1982, a distanza di poche settimane dalla morte di Fassbinder, il primo caso documentato di Aids in Germania.140 Prospettive di guarigione, quando la malattia fece la sua comparsa, non ce n’erano ancora, e dunque Peter morì in breve tempo.141 Dopo aver lasciato in fretta e furia New York e dopo una breve tappa al Festival di Cannes, Fassbinder era atteso a Monaco per il suo compleanno. Per il 31 maggio 1982 aveva invitato circa cinquanta persone, amici e compagni di strada, nel suo locale preferito, la Deutsche Eiche, per festeggiare i suoi trentasei anni. Che quel giorno in realtà di anni ne compisse trentasette, lo sapevano in pochi intimi. Anche la stampa continuava a divulgare unanime l’anno di nascita sbagliato, il 1946. Molti degli ospiti, in quell’occasione, avrebbero visto Fassbinder per l’ultima volta. Ingrid Caven era scioccata dallo stato pietoso in cui si trovava il suo amico: «Era diventato orrendamente grasso, troppo grasso: puzzava di alcol e droghe da tutti i pori».142 Pallido e gonfio, Fassbinder appariva irrequieto e stanco, al punto che la festa non poté decollare e gli amici cominciarono a preoccuparsi seriamente per lui. Solo Liselotte Eder chiuse gli occhi di fronte allo stato di suo figlio trovandolo «assolutamente calmo ed equilibrato». «Mi sembrava che stesse bene» dichiarava ancora nel 1992.143 Persino lo stato del suo appartamento era disastroso, come ricorda Ingrid Caven: «La stanza di Rainer era in condizioni terribili. Un porcile rivoltante. E dappertutto c’erano posacenere, cenere e vecchi giornali. C’erano bottiglie di whisky e cose di ogni sorta in giro. La casa puzzava e il letto era così sporco e sudicio che non ho voluto nemmeno sedermici sopra, era terribile».144 La Caven tentò invano di parlare con la madre di Fassbinder per capire come lo si potesse aiutare, poi però fu costretta a ripartire per Parigi senza aver concluso nulla, anche se Fassbinder aveva cercato disperatamente di convincerla a restare. Sembra quasi sovrumano che il regista, persino in quel caos interiore ed esterno, continuasse ad avere la testa piena di progetti cinematografici. All’inizio di giugno si stava già occupando
intensamente del film successivo. Le riprese di Ich bin das Glück dieser Erde (t.l. Sono la felicità di questa Terra) dovevano iniziare il 20 luglio.145 Harry Baer era alla ricerca dei luoghi adatti per girare a Monaco, i ruoli erano già stati assegnati: Hanno Pöschl e Günther Kaufmann dovevano essere i protagonisti. Il film prendeva il titolo da un’omonima canzone di Joachim Witt. Fassbinder l’aveva ascoltata e cantata a squarciagola infinite volte al giorno durante la lavorazione di Querelle, era diventata il suo pezzo preferito. Il film, che avrebbe dovuto parlare del gusto per la vita della generazione New Wave all’inizio degli anni ottanta, sarebbe stato di nuovo un «piccolo film», dopo le ultime grandi produzioni, con un budget di 500mila marchi. Fassbinder voleva girare con un cast ridotto e, com’era accaduto soltanto in Un anno con 13 lune e La terza generazione, voleva essere lui a fare le riprese. Secondo Harry Baer considerava il progetto come «una sorta di rigenerazione e un modo per ritrovare se stesso dopo le grandi produzioni».146 C’erano anche altri film in cantiere. La Bavaria progettava, per la regia di Fassbinder, una riduzione cinematografica del best seller di Johannes Mario Simmel La vita continua (Hurra, wir leben noch), un romanzo sul miracolo economico. La pellicola doveva essere di nuovo una grande produzione internazionale. Fassbinder aveva già scritto la sceneggiatura nel 1981, su incarico della Bavaria. A quel punto però ci furono dei contrasti in merito alla realizzazione del film, in particolare per l’assegnazione del ruolo del protagonista. Fassbinder voleva a tutti i costi Götz George, che all’epoca però non veniva ancora considerato un attore importante. Le tensioni divennero tali che il regista fece saltare il progetto. Su sua proposta, l’adattamento cinematografico del romanzo di Simmel fu assegnato al suo amico Peter Zadek, che curò la regia del film uscito nelle sale nel 1983 con il titolo Die wilden Fünfziger (t.l. I ruggenti anni cinquanta), dopo che Simmel, per protesta contro la riduzione cinematografica del suo libro, aveva revocato il diritto di sfruttarne il titolo.147 Passarono invece alla fase operativa i preliminari per un’altra grande produzione, ovvero Rosa L., sulla vita della rivoluzionaria comunista Rosa Luxemburg, uccisa nel 1919. Come produttrice del film, di cui Fassbinder aveva già scritto la sceneggiatura e che doveva essere girato nella primavera del 1983, era prevista Regina Ziegler. Su insistenza di Fassbinder, la produttrice aveva fatto da intermediaria per una telefonata a Jane Fonda, che era la candidata preferita di Fassbinder per il ruolo di Rosa Luxemburg. La sua fama internazionale come regista era già così grande che Jane Fonda rispose subito di sì.148 Fassbinder quasi non riusciva a crederci tanto era felice. Jane Fonda si era annunciata al telefono come «Jane Fonda herself», cosa che l’aveva molto colpito, così anche lui, negli ultimi giorni della sua vita faceva lo stesso: «This is Fassbinder himself».149 Il 9 giugno il regista concesse, a casa sua, nella Clemensstraße, un’intervista a Dieter Schidor, il produttore di Querelle. L’intervista doveva entrare a far parte di un documentario sulla lavorazione dell’ultimo film di Fassbinder, che fu poi proiettato per la prima volta al Festival di Locarno nell’agosto del 1982, con il titolo Der Bauer von Babylon – Rainer Werner Fassbinder dreht «Querelle» (t.l. Il contadino di Babilonia – Rainer Werner Fassbinder gira «Querelle»). Alla cinepresa c’era questa volta il regista Wolf Gremm, il marito di Regina Ziegler, che poco prima aveva girato il poliziesco Kamikaze 1989, in cui Fassbinder aveva il ruolo del protagonista – la sua ultima prova d’attore. Nell’intervista il cineasta aveva l’aria molto stanca, parlava strascicando le parole e dava l’impressione di un uomo «molto malato e sfinito».150 Nelle riprese, che il produttore e amico di lunga data Peter Berling ebbe modo di vedere allora, Fassbinder era quasi irriconoscibile: «Le labbra non gli obbedivano più, gli occhi vagavano senza una meta, il cervello aveva perso il controllo delle parole e del loro senso, solo la testa vacillava – per misericordia».151 La madre di Fassbinder ne vietò la messa in onda, per paura che quelle immagini potessero «danneggiare irreparabilmente la considerazione artistica, i diritti della personalità e la stessa dignità di Fassbinder»,152 cosa che ottenne con un’ingiunzione. Durante le riprese era presente anche la scultrice Karin Mai, un’allieva di Alfred Hrdlicka, che da anni viveva a Roma e grazie a Peter Berling era arrivata apposta a Monaco per realizzare un busto in bronzo di Rainer Werner Fassbinder. La scultrice trovò il regista esausto, le parve un uomo che odiava se stesso, «profondamente triste» e «disperato»; dava l’impressione «di voler essere lasciato in pace» ma, nonostante tutto, l’accolse con grande cordialità.153 La prima seduta fu fissata per il mattino seguente: Karin Mai avrebbe dovuto presentarsi nella Clemensstraße alle dieci. Ma Fassbinder non sarebbe arrivato al giorno successivo. Dopo l’intervista, in cui aveva dichiarato di non riuscire a immaginarsi nient’altro, per il futuro, se non fare dei film,154 Fassbinder aveva trascorso un po’ di tempo nel Biergarten del Chinesischer Turm all’Englischer Garten, dopodiché si era recato con Harry Baer ed Elisabeth
Volkmann nell’appartamento dell’amica Barbara Valentin.155 La sera il regista tornò nella Clemensstraße. Siccome Juliane Lorenz avrebbe trascorso la serata al banco di montaggio e non c’era nessun altro che potesse preservare Fassbinder dallo stare solo, il regista aveva pregato Wolf Gremm di passare la notte nel suo appartamento. Fassbinder si ritirò nella sua stanza e come sempre lavorò alla sceneggiatura del suo film su Rosa Luxemburg con la televisione accesa. Verso l’una di notte fece una telefonata a Harry Baer per parlare dei siti delle riprese di Ich bin das Glück dieser Erde e sembrava di ottimo umore.156 Mezz’ora più tardi cercò di raggiungerlo Ingrid Caven da Parigi, la quale però, non trovando il numero del telefono rosso che le dava accesso all’apparecchio accanto al letto del regista, chiamò al numero di casa dove rispose Wolf Gremm, il quale le disse erroneamente che Fassbinder non c’era.157 Per mettere le ali alla sua creatività il regista, lavorando, consumò, come al solito, cocaina. Quella volta però ne prese per sbaglio una dose eccessiva: «Poiché si sapeva che Fassbinder assumeva quantità enormi di cocaina, gli veniva sempre fornita della droga molto tagliata. Quel giorno invece gli avevano portato della cocaina pura, cosa che lui, evidentemente, non sapeva. Così ne tirò una striscia lunghissima, com’era abituato a fare, e il suo fisico non resse». Verso le quattro del mattino il cuore di Fassbinder smise di battere. Quando Juliane Lorenz tornò a casa una mezz’ora più tardi, udì il brusio della televisione proveniente dalla sua stanza. Entrò nella camera da letto per spegnere l’apparecchio. Trovò il regista nudo e senza vita sul materasso sistemato per terra, la testa era caduta sul manoscritto sul quale aveva lavorato fino alla fine. Gli era uscito del sangue dal naso. Presa dal panico, Juliane Lorenz svegliò Wolf Gremm, che dormiva nella stanza accanto e non si era accorto di niente. Solo mezz’ora dopo arrivarono nella Clemensstraße le macchine della polizia e l’ambulanza. Nel frattempo Juliane Lorenz aveva buttato nel water i resti di cocaina che si trovavano nella stanza di Fassbinder.158 Già di primo mattino, il 10 giugno del 1982, radio e televisione annunciarono ovunque nel mondo la scomparsa del più noto regista tedesco. A Monaco, in quel torrido mattino d’estate, la notizia circolò in un baleno. Ben presto si fecero strada le prime ipotesi di suicidio, proprio come era accaduto qualche giorno prima con la morte improvvisa di Romy Schneider. Nessuno di coloro che conoscevano bene Fassbinder credette tuttavia anche solo per un attimo che il regista potesse essersi tolto la vita. Per Harry Baer la morte dell’amico era soltanto «un errore, un incidente di percorso».159 Chiunque gli fosse stato vicino, nel privato o sul lavoro, durante i tredici anni della sua folgorante carriera, considerava la sua fine una tragica conseguenza di quella vita senza compromessi che aveva bevuto fino alla feccia. La sua esistenza, negli ultimi anni, era stata senza dubbio un suicidio a rate, non si può però assolutamente dire che in quel preciso momento avesse consapevolmente deciso di farla finita. Il giorno dopo il decesso fu eseguita l’autopsia sul cadavere di Fassbinder. Il medico legale riscontrò resti di pastiglie nello stomaco e nel duodeno nonché una dose di cocaina piuttosto abbondante nella mucosa del naso. Il responso dell’autopsia è che la morte potrebbe essere avvenuta «spontaneamente per l’assunzione combinata di medicinali e droghe».160 Concluso l’esame medico-legale, il cadavere fu trasportato al Südfriedhof di Monaco. Qui la scultrice Karin Mai, che in realtà avrebbe dovuto realizzare un busto in bronzo del regista vivo, prese l’impronta per la maschera mortuaria di Fassbinder sulla quale sarebbe nato in seguito un curioso litigio.161 «Com’era rilassato Fassbinder quando giaceva nella bara» raccontò più tardi in un manoscritto mai pubblicato. «L’acqua se n’era andata dal suo corpo ed erano affiorati quei tratti delicati che nel volto gonfio, da vivo, non si vedevano più. Le mani non erano artificialmente giunte, ma se ne stavano aperte, solo un po’ curve sulla coperta. Era lì, assolutamente libero e naturale.»162 Poi il cadavere di Fassbinder fu cremato. Juliane Lorenz, poco prima, gli aveva sistemato in testa il cappello di panno che portava sempre negli ultimi tempi e gli aveva messo nella bara il necessario per scrivere.163 L’urna fu poi sepolta nel cimitero monumentale di MünchenBogenhausen, anche se all’inizio molti monacensi si mostrarono irritati per il fatto che un omosessuale tossicodipendente trovasse posto nel nobile cimitero cittadino. Il funerale ufficiale si era già svolto, il 16 giugno 1982, nella sala delle benedizioni del Neuer Südfriedhof a MonacoPerlach. Molti amici e compagni di strada provenienti da tutto il mondo avevano preso commiato dal regista in quell’occasione, tra loro Hanna Schygulla e Margit Carstensen, Irm Hermann e Ingrid Caven, Daniel Schmid e Dieter Schidor, Kurt Raab e Hans Hirschmüller. Quando si sparse la voce che il cadavere di Fassbinder non si trovava nella bara perché i medici legali non l’avevano ancora restituito,164 molti dei presenti ritennero che quella cerimonia funebre fosse uno spettacolo alquanto strano, tanto più che a margine si verificarono dei curiosi episodi e qualcuno tentò di vendere al migliore offerente un calco della maschera mortuaria di Fassbinder che si
portava in giro in un sacchetto di plastica. Jürgen Draeger, che era presente alla cerimonia, ricorda: «Si venne a sapere che fuori della sala tre donne stavano litigando per stabilire chi dovesse sedere in prima fila e chi potesse avvicinarsi per prima alla bara. Alla fine ebbe la meglio Ingrid Caven la quale, in quanto ex moglie di Fassbinder, si riteneva la vera vedova. Seguiva poi Hanna Schygulla e infine Juliane Lorenz. Tutte e tre le donne misero in scena un vero dramma: si avvicinarono alla bara e mostrarono in modo melodrammatico il proprio dolore interpretando ognuna la sua Medea. Tutto ciò appariva tanto più strano visto che tutti ormai sapevano che Fassbinder non si trovava dentro la bara. La cerimonia funebre fu davvero un pezzo di teatro grottesco, di quelli che avrebbero potuto mettere in scena Fellini o lo stesso Fassbinder. Rainer si sarebbe davvero divertito come un matto».165
Ringraziamenti
Il mio ringraziamento va a tutti coloro che mi hanno affidato i loro ricordi, anche quelli molto personali, di Rainer Werner Fassbinder: Mario Adorf, Michael Ballhaus, Harry Baer, Barbara Baum, Peter Berling, Walter Bockmayer, Karlheinz, Böhm, Rudolf Waldemar Brem, Margit Carstensen, Jürgen Draeger, Thea Eymèsz, Egmont Fassbinder, Frank Fellermeier, Michael Fengler, Molly von Fürstenberg, Michael Graeter, Irm Hermann, Hans Hirschmüller, Gottfried John, Werner Herzog, Gottfried Hüngsberg, Elfriede Jelinek, il prof. Hellmuth Karasek, Yaak Karsunke, Christine Kaufmann, Günther Kaufmann, Peter Kern, Udo Kier, Alexander Kluge, Günter Lamprecht, Rainer Langhans, Renate Leiffer, Klaus Lemke, Peter Lilienthal, Ulli Lommel, Juliane Lorenz, Karin Mai, Doris Mattes, Eva Mattes, Dieter Minx, Fritz MüllerScherz, Armin Müller-Stahl, Hans Noever, Herbert Paetzold, Enno Patalas, Hans-Günther Pflaum, Hanno Pöschl, Rosa von Praunheim, il prof. Marcel Reich-Ranicki, Günter Rohrbach, Elga Sorbas, Thorwald Proll, Peter Schamoni, Volker Schlöndorff, Werner Schroeter, Thomas Schühly, Hanna Schygulla, Xaver Schwarzenberger, Volker Spengler, Ulla Stöckl, Ursula Strätz, Barbara Sukowa, Hans-Jürgen Syberberg, Hilmar Thate, Elisabeth Trissenaar, Margarethe von Trotta, Wim Wenders, Gunter Witte, Peter Zadek, Rosel Zech, Rolf Zehetbauer, Vitus Zeplichal; un grazie particolare a Ingrid Caven-Fassbinder. Inoltre ringrazio per il sostegno alle mie ricerche:
Babette Angelaeas (Theatermuseum München), Klaus Mabel Aschenneller (High Production, Berlino) Evangelos Bakalis (Bayerische Landesärztekammer, Monaco), Nicole Barras (T & C Edition, Zurigo), Joachim Bartholomae (Männerschwarm-Verlag, Amburgo), Christian Baumgarten (Film +, Colonia), Robert Bierschneider (Staatsarchiv München), Götz Bolten (Westdeutscher Rundfunk, Colonia), Carlos Bonfil (Città del Messico), Dominik Bühler (Film +, Colonia), Heidi Buschhaus (Deutsches Literaturarchiv, Marbach), Kurt Caspari (Staatliches Schulamt Markdorf), Sandra Czuday (Eurovideo, Ismaning), Miriam Edinger (Internationale Filmschule Köln), Yasmin Eskander (Institut für Rechtsmedizin, Universität München), Martina Fiegle (Amt für Schule, Jugend und Sport, Stadt Ravensburg), Rainer Franke (Ärztekammer Nordrhein, Düsseldorf), Stephanie Frommfeld (Kinowelt, Lipsia), Ludwig Graml (Standesamt Bad Wörishofen), il dr. Peter Gruhne (Zweites Deutsches Fernsehen, Magonza), il prof. Matthias Graw (Institut für Rechtsmedizin, Universität München), Claus Grütering (Berlino), Kristin Hartisch (Bundesarchiv Berlin), Andrea Hauer (Deutsches Theatermuseum München), Stephanie Hausmann (Filmmuseum München), il prof. Gebhard Henke (Westdeutscher Rundfunk, Colonia), Claudia Hernández Hurtado (Goethe-Institut Mexiko), Il dr. Freiherr Christoph von Hutten (Kanzlei Beiten & Burckhardt, Monaco), Sandra Kankereit (EuroVideo, Ismaning), Susa Katz (T & C Edition, Zurigo), Janna Kromer (Pressestelle der deutschen Ärzteschaft, Berlino), Isolde Kulzer-Seewald (Staatliches Schulamt der Landeshauptstadt München), Christian Lailach (Schnitt – Das Filmmagazin, Colonia), il prof. Wolfgang G. Locher (Institut für Ethik, Geschichte und Theorie der Medizin, Universität München), Archivamtsrat Anton Löffelmeier (Stadtarchiv München), Holger Möllenberg (Westdeutscher Rundfunk, Colonia), Ursula Mühlbauer (Kreisverwaltungsreferat Landeshauptstadt München), Bernd Mühlig-Versen (Schwabhausen), la dott. Hedwig Müller (Theaterwissenschaftliche Sammlung der Universität zu Köln), il prof. Erich Müller-Gaebele (Schulmuseum Friedrichshafen am Bodensee), Katja Nicodemus (Die Zeit, Amburgo), Bianca Oertel (Rainer Werner Fassbinder
Foundation, Berlino), Franziska Otto (Edition Nautilus, Amburgo), Herbert Peist (Filmmuseum Düsseldorf), Stephan Priddy (Deutsches Theatermuseum München), Christiane Rothärmel (Der Bundesbeauftragte für die Unterlagen des Staatssicherheitsdienstes der ehemaligen Deutschen Demokratischen Republik, Berlino), Trautlind Klara Schärr (Brema), Christian Schenkermayr (Elfriede-JelinekForschungszentrum, Universität Wien), Gabriele von Schlieffen (Hochschule für Fernsehen und Film, Monaco), Sonja Schmidt-Banis (Kanzlei Bossi & Zieger, Monaco), Judith Schmutzer (Freies Museum Berlin), Sabine Schröder (Agentur Jovanovic, Monaco), Sabine Schröder (Der Bundesbeauftragte für die Unterlagen des Staatssicherheitsdienstes der ehemaligen Deutschen Demokratischen Republik, Berlino), Heike Sobisiak (Volksbühne in Rosa-Luxemburg-Platz, Berlino), Klaus Stern (Kassel), Andreas Thein (Filmmuseum Düsseldorf), Susanne Vogel (Agentur Doris Mattes, Monaco), Sandra Vogell (Bayerischer Rundfunk, Monaco), Marianne Wagner-Simon (Freies Museum Berlin), Katharina Weber (Staatsarchiv Würzburg), Jutta Wielpütz (Westdeutscher Rundfunk, Colonia), Michael Wilke (Penzberg), Doris Wittmann (Marieluise-Fleißner-Archiv, Ingolstadt), Kathrin Zeitz (Deutsche Film- und Medienbewertung, Wiesbaden), Maren Zindel (Rowohlt Theater Verlag, Reinbek); un ringraziamento particolare va al prof. Borwin Bandelow (Klinik für Psychiatrie und Psychotherapie, Universität Göttingen). Il ringraziamento più grande va al mio agente Uwe Heldt, al mio editore Christian Seeger, alla mia redattrice Manuela Runge e a tutti i collaboratori della Propyläen per la grande professionalità del loro lavoro. E in ultimo a Robert Bales, che mi ha suggerito l’idea di scrivere la biografia di Rainer Werner Fassbinder e al quale questo libro è dedicato.
APPENDICI
Nota all’edizione italiana
La biografia di Jürgen Trimborn racconta per la prima volta la storia e l’opera di un personaggio cruciale per la cultura europea del Novecento e per la nostra, eppure non è stato semplice trovare un editore italiano disposto a farsene carico. Per l’aiuto in questo compito il curatore ringrazia Simone Albonico e soprattutto Giovanni Agosti, che ha saputo individuare nel Saggiatore un possibile approdo. L’edizione italiana di questa prima biografia di Rainer Werner Fassbinder è frutto di un intenso lavoro di équipe che ha visto dapprima coinvolte, in un costante scambio di informazioni, le tre traduttrici Silvia Albesano, Alessandra Luise e Anna Ruchat (con la consulenza preziosa di Riccardo Bianchi), e in un secondo tempo Davide Melzi e Paola Sala per la redazione del Saggiatore. Fitto di notizie e di dati che intersecano i molteplici piani (sempre interdipendenti) della vita del regista morto nel 1982, il volume ha richiesto un gran numero di verifiche e approfondimenti: storico-politici, più strettamente biografici, correlati con la scena omosessuale (a sua volta politica), e infine per tutto ciò che investe il cinema, il teatro, l’arte, in Germania soprattutto, ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Ciascuno di questi livelli ha preteso, per l’edizione italiana, delle minime integrazioni che si è deciso di dare in forma di nota oppure di inserire nel testo, laddove era possibile senza modificarne senso e struttura. I film di Fassbinder vengono citati in italiano, con il titolo originale tra parentesi tonde alla prima occorrenza, quando
ne esiste il doppiaggio, e in tedesco, con una traduzione di servizio tra parentesi (t.l.) alla prima occorrenza, negli altri casi. Per la citazione dei titoli dei film ci siamo avvalse sia del volume Rainer Werner Fassbinder pubblicato dal Castoro che della monografia Tutti i film di Fassbinder. Filmografia e teatrografia sono a cura di Alessandra Luise. La filmografia è stata redatta sulla base di Tutti i film di Fassbinder, a cura di Enrico Magrelli e Giovanni Spagnoletti, e di Fassbinder über Fassbinder: Die ungekürzten Interviews, a cura di Robert Fischer. Per gli allestimenti teatrali in Italia: il saggio di Teodoro Scamardi su Rainer Werner Fassbinder. Si ringrazia Anna Peyron dell’Archivio documentario dello spettacolo del Centro Studi del Teatro Stabile di Torino per le informazioni fornite. L’edizione italiana presenta infine due testi supplementari rispetto a quella tedesca. Si tratta di una scelta di nove poesie giovanili dalla raccolta Im Land des Apfelbaums che Fassbinder dedicò e regalò alla madre nel Natale del 1962, e dell’intervista del 4 aprile 1978 con la rivista Playboy, posta in apertura a questo volume.
Bibliografia italiana essenziale Rainer Werner Fassbinder, I rifiuti, la città e la morte (Antiteatro I), a cura di Roberto Menin, ubulibri, Milano 1992. —, Antiteatro II, introduzione e cura di Roberto Menin, ubulibri, Milano 2002. —, I film liberano la testa, a cura di Giovanni Spagnoletti, ubulibri, Milano 1989. —, Querelle, a cura di Dieter Schidor e Michael McLernon, fotografie di Roger Fritz, ubulibri, Milano 1982. Rainer Werner Fassbinder, a cura di Davide Ferrario, Il Castoro Cinema, Milano 1993. Tutti i film di Fassbinder, a cura di Enrico Magrelli e Giovanni Spagnoletti, ubulibri, Milano 1983.
Teodoro Scamardi, «Franz Xavier Kroetz, Martin Sperr, Rainer Werner Fassbinder sulle scene italiane», in Il teatro contemporaneo di lingua tedesca in Italia, a cura di L. Secci e H. Dorowin, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2002. Film und Drang. Nuovo cinema tedesco, a cura di Manuela Fontana, Vallecchi, Firenze 1978.
Poesie
Nel paese dell’albero delle mele è il titolo del libriccino rilegato a mano – quarantacinque poesie, quattro racconti brevi e un radiodramma – che Rainer Werner Fassbinder (1945-1982) regala a sua madre per il Natale del 1962. La raccolta è stata pubblicata solo nel 2005 dall’editore SchirmerGraf di Monaco, con una nota introduttiva di Susan Sontag. I testi sono esercizi di ritmo e di narrazione alla ricerca di un registro, di uno strumento che possa dar voce a un affanno espressivo che poi si esprimerà altrove. Ma i temi sono già quelli della sua vita: la solitudine, la morte, il desiderio e soprattutto l’amore, trovato o perduto, che è principio motore di ogni cosa. Proponiamo qui nove poesie rappresentative della vena radical-sentimentale che impronta tutto il cinema di Fassbinder e il suo primo curriculum, scritto a mano all’età di quindici anni. «Bisogna sempre partire dalla situazione in cui si è. Non aver utopie è già un’utopia. Sognare un amore vero è proprio un bel sogno» scrive il regista in I film liberano la testa «ma le stanze hanno sempre quattro pareti, le strade sono quasi tutte asfaltate e per respirare c’è bisogno dell’ossigeno.» Un’utopia, un’aspirazione, una proiezione e dall’altra parte lo squallore della vita reale. A legarli, la passione del racconto, lirico o cinematografico che sia, per raggiungere un pubblico il più possibile vasto, che si combina con la sperimentazione: un linguaggio malinconico venato di aggressività, che Fassbinder svilupperà pochi anni più tardi quando, dopo essere stato escluso dalla scuola superiore di cinema nel 1965, affronterà l’esperienza dell’antiteater e quasi contemporaneamente le prime prove di regia. C’è insomma una linea di continuità stilistica oltre che tematica
tra le poesie giovanili e i primi lungometraggi, tra Den letzen Akt… o Glut e Die Liebe ist kälter als der Tod.
Die Fassade Hoch und vornehm die Fassade – Und innen? Eingestürzt, schade! Ja, so ist es drinnen. Schön die Stirn, Gesicht – Und innen? Weiß man, daß die Wahrheit bricht Dort drinnen? So hoch wie die Fassade aufgebaut So viel verliert man, wenn man fällt. Ihr habt dem Hochmut nur getraut Der das Versprochene nicht hält. Hoch und vornehm die Fassade Und innen? Eingestürzt, schade! Trauer mit verirrten Sinnen.
La facciata Alta e signorile la facciata – E dentro? Il crollo, peccato! Sì, questo è l’interno. Bella la fronte, il volto – E dentro? Sappiamo che la verità va in pezzi Là dentro? Più si costruisce alta la facciata Più si perde quando crolla. Avete confidato soltanto nella boria Che non mantiene le promesse. Alta e signorile la facciata E dentro? Il crollo, peccato! Lutto unito a smarrimento.
Untergang Ein Rauschen, Stille, Donner, Rauschen Ein Meer und Wogen, Zischen, Stille Ein liebend Paar umschlungen eng, sie lauschen So stark Vernunft, labil der Wille. Ich liebe dich. So zart die Brauen, Wangen Ein Schiff das sinkt, vorbei ein Leben. Mein Gott, nur noch nicht bangen Denn einzig fehlt uns noch der Segen. Gott halt mich fest Der Meeresgrund, der wartet. Frieden? Ein bißchen Leben bleibt uns noch, der Rest Und diese kurze Zeit, die wolln wir lieben, lieben.
A picco Fragore, silenzio, tuono, fragore Mare e onde, sibilo, silenzio In ascolto, una coppia avvinghiata nell’amore Com’è forte la ragione, labile la volontà. Ti amo. Quelle delicate sopracciglia, quelle gote Una nave che affonda, la vita che corre. Mio Dio, senza apprensione per favore Perché ci manca soltanto la benedizione. Dio tienimi forte Il fondo del mare aspetta. Pace? Un po’ di vita ci rimane ancora, un resto E questo tempo breve in cui vogliamo amare, amare.
Im Süden dieser Zeit Es war im Süden dieser Zeit Ein kleiner Ort Man blickte herrlich weit Zum See und bis zum Berg. Es zog mich hin Es zog mich fort Ein kleiner Zwerg Ein Mensch Ein Mensch wie viele Die nur leben, lieben Mit zauberhaften Spielen Freude machen Singen, tanzen, lachen. Ich lieb heut die Und morgen jene, Denn alle machen mich verrückt, Daß ich nach jeder mich nun sehne. Ich bin entzückt Vom Morgengraun Wenn Lichter wandern, hin und her Wenn Nebelschleier fallen Dann werde ich eine Welt mir baun In der nur Lieder hallen.
Nel sud di questo tempo C’era nel sud di questo tempo Un piccolo villaggio Di lì si vedeva in lontananza Il lago, la montagna. Mi attirava Mi respingeva Un piccolo nano Un essere umano Un uomo come tanti Capaci soltanto di vivere e amare Con giochi incantevoli Dar gioia Cantare, ballare, ridere. Io oggi amo questo Domani quello, Perché tutti mi fanno impazzire, Tanto che ho nostalgia di ognuno di loro. M’incanta il sopraggiungere Dell’alba E quando le luci si sposteranno qua e là Quando i veli di nebbia cadranno Mi costruirò un mondo In cui risuoneranno solo i canti.
Sommer Heiß war der Sommer Stark die Hoffnung, Lust Und auf dem Meer ein Schimmer Von der Seele in der Brust. Wir sangen Lieder, waren froh Sahen Mädchen lächeln, Liebe Schrie’n zu Gott «Halloh». Wenn es nur so bliebe! Liebe, Lust und Leben. Heiße Hoffnung, unerfüllt Ich will alles geben, Was das Leben stillt.
Estate Calda era l’estate Forte la speranza, piacere E sul mare un bagliore Dell’anima nel petto. Cantammo, eravamo allegri Vedemmo ragazze sorridere, amore Gridammo a Dio «Ehi». Se solo tutto rimanesse così! Amore, piacere e vita. Speranza ardente, irrealizzata Tutto voglio dare Pur di fermare il tempo.
Das Leben ist ein Kampf Der Traum, er zieht dahin So wie ein Lied vergeht Und weil ich traurig bin Weiß ich worum die Stimme fleht: Dreh dich nicht um, geh nie zurück Mein Ich sagt immerzu Vertrau dein Glück, Dann läßt es dich in Ruh. Die Melodie, sie zieht vorbei In mir entsteht dann Haß, ein Kampf Und laut verzerrt die Nacht ein Schrei Das leben ist ein Kampf!
La vita è una lotta Ecco il sogno, passa e va Come un canto svanisce E siccome sono triste So perché la voce implora: Non voltarti, non tornare indietro Il mio Io dice di continuo Confida nella tua fortuna, E ti lascerà in pace. Ecco la melodia, passa e va In me nasce l’odio, una lotta E acuto un grido storce la notte La vita è una lotta!
Glut Ein Traum, ein süßer Mund, und Rot Ein Rot von Rouge, ein Rot von Blut Die Lippen rot, das Mädchen tot Und über allem eine sagenhafte Glut. Des Messers Spitze traf, genau Ein kaltes Lächeln zum Abschied dann Und über allem Himmel, grau in grau Wann kommt der Gnadenstoß, sag wann? Er kam, er kam in Haß und Tränen Und über allem eine große Liebe Am Anfang war es Warten, Sehnen Wenn es doch nur so bliebe. Und über allem Trauer, Stille Ein Bild in Feuer, grau und rot Dies eine war sein letzter Wille Fort muß sie sein, nur tot.
Brace Un sogno, una bocca dolce, e rosso Un rosso di rossetto, un rosso di sangue Rosse le labbra, la ragazza morta E sopra ogni cosa una fiabesca brace. La punta del coltello ha colpito, precisa Poi freddo un sorriso per l’addio E sopra ogni cosa, grigio nel grigio, il cielo Quando il colpo di grazia, dimmi, quando? È arrivato con odio e lacrime, è arrivato E sopra ogni cosa un grande amore All’inizio era l’attesa, il desiderio Purché tutto rimanga così. E sopra ogni cosa lutto, silenzio Un ritratto nel fuoco, grigio e rosso Questa la sua ultima volontà Cancellata dev’essere lei e morta.
Lernen zu verstehen Das Meer Endlos diese Stille. Ruhe, helle Sinne Hart mein Wille Hoch die Wogen Wellen Wogen Und mit schönen Liedern, hellen Geistesleben Suchend. Wandern, Stimmen hören Lernen zu verstehen Bis man reif ist wegzutreten Und dem reinen Untergang ins Aug zu sehen. Ruhe Mehr als Wille Wasser, Meer, Wellen Ende, Stille, Stille.
Imparare a capire Il mare Questo silenzio senza fine. Pace, i sensi vigili Forte la mia volontà Alti i flutti Onde Flutti E con bei canti, vigile La vita dello spirito In cerca. Errare Ascoltare voci Imparare a capire Finché non vien l’ora di uscire di scena E guardare negli occhi il puro tramonto. Quiete Più che volontà Acqua, mare, onde Fine, silenzio, silenzio.
Den letzten Akt… Den letzten Akt, Den schreibe mit Gewalt Wenn dich das Grauen packt Dann wirst du alt. Des Seemanns Weisheit ist das Meer Der Mutter Liebstes ist ihr Kind Des Feldherrn Stolz sein Heer Mein bester Freund der Wind. Geheimnisvolles Brausen, Rauschen Geflüster und Getön Wenn Wind mit Wind sich Küsse tauschen Dann bin ich gut, ist alles schön. Der letzte Akt, Der trauernden Gestalt Wenn dich das Grauen packt Dann schrieb ihn mit Gewalt!
L’ultimo atto… L’ultimo atto, Scrivilo con violenza Quando l’orrore ti prende Non salvi l’apparenza. È il mare la saggezza per il marinaio Per una madre è il figlio il vanto L’esercito è l’orgoglio del condottiero Il mio migliore amico è il vento. Misterioso mugghiare, come un lamento Sussurri e frastuono Quando il vento scambia baci con il vento Io sto bene, la vita è un dono. L’ultimo atto Della figura sgomenta Quando ti prende il raccapriccio Scrivilo allora con violenza!
Sünde Ich habe zur Sünde Wohl mehrere Gründe Hier will ich es ergründen Warum ich muß Sünden Es gibt auf der Erde Eine große Herde Die Bürger sind das Wohlherzogen zum Haß Aus Haß gegen Denker So werden sie Henker Der besseren Liebe Die nicht kommt vom Triebe Und ein bißchen pervers Sich wohl nicht reimt im Vers Den jene sich machen Wenn sie nächtlichs wachen Nur aus diesem Grunde Hab ich meine Wunde Die ich schnell muß heilen Will ich noch verweilen Auf der billigen Welt Die Versprochenes nicht hält
Peccare Di ragioni ne ho Per peccare però Qui voglio mostrare Perché devo peccare C’è sul pianeta Una grande brigata Di borghesi agghindati All’odio educati Per odio ai pensanti Diventan briganti Uccidon l’amore Quello peggiore E un poco perverso Che non rima col verso Che fanno coloro La cui notte non ha oro Per questa ragione Ho la mia escoriazione Che presto dovrà guarire Se non voglio partire Da questo mondo meschino Che le promesse scorda nel vino
Monaco, 31-1-61 Curriculum Vitae Sono nato il 31-5-1945 a Bad Wörishofen, figlio del medico Dr. Hellmut Fassbinder e di sua moglie Liselotte nata Pempeit. In quello stesso anno i miei genitori, che a Wörishofen erano evacuati, tornarono con me a Monaco. All’età di sei anni, nel 1951, ho iniziato la scuola. Per tre anni ho frequentato la Rudolf-Steiner-Schule e per un anno le scuole elementari a Ravensburg. Mi ero trasferito a Ravensburg perché mia madre s’era gravemente ammalata e aveva dovuto trascorrere nove mesi in ospedale. I miei genitori si sono separati nel 1951. Mio padre si è trasferito a Bad Godesberg e io sono rimasto a Monaco con mia madre. Nel 1955 ho superato l’esame di accesso alle scuole superiori. Per un anno sono rimasto al Theresiengymnasium di Monaco. Siccome però mia madre s’era ammalata di nuovo ed era dovuta rimanere in sanatorio per un anno e mezzo, io mi sono trasferito ad Augsburg al St. Anna Colleg e ho frequentato lì il St. Anna Gymnasium e l’istituto tecnico. Dal 1959 sono rientrato a Monaco. Ho abitato finora in un internato per studenti e ho appena frequentato la quarta classe dell’istituto tecnico. Sono di confessione evangelica.
Filmografia
1966 This night, cortometraggio Regia, soggetto e fotografia: RWF (8 mm). Di questo cortometraggio non si è conservata alcuna copia. Der Stadtstreicher, cortometraggio Regia e soggetto: RWF; fotografia (16 mm, b/n): Josef Jung; suono: Michael Fengler; musica: Ludwig van Beethoven, Juventino Rosas, Georg Friedrich Händel; interpreti: Christoph Roser, Susanne Schimkus, Michael Fengler, Thomas Fengler, Irm Hermann, RWF; produzione: Roser Film; durata: 10’. Das kleine Chaos, cortometraggio Regia e soggetto: RWF; fotografia (35 mm, b/n): Michael Fengler; suono: Amin Athanassious; musica: Sidney Bechet, Ludwig van Beethoven, The Troggs; interpreti: Marite Greiselis, Christoph Roser, RWF, Greta Rehfeld, Lilo Pempeit [Liselotte Eder], Susanne Schimkus; produzione: Roser Film; durata: 9’.
1969 Liebe ist kälter als der Tod (L’amore è più freddo della morte) «Per Claude Chabrol, Éric Rohmer, Jean-Marie Straub, Lino e Cuncho»
Regia, soggetto e sceneggiatura: RWF; assistente alla regia: Martin Müller; sceneggiatura: Katrin Lommel [Katrin Schaake]; fotografia (35 mm, b/n): Dietrich Lohmann; assistente alla fotografia: Herbert Paetzold; luci: Peter Wagner; montaggio: Franz Walsch [RWF]; scenografia: Ulli Lommel, RWF; musica: Peer Raben, Holger Münzer, Richard Strauss; interpreti: Ulli Lommel, Hanna Schygulla, RWF, Hans Hirschmüller, Katrin Schaake, Peter Berling, Hannes Gromball, Gisela Otto, Ingrid Caven, Ursula Strätz, Irm Hermann, Les Olvides, Wil Rabenbauer [Peer Raben], Rudolf Waldemar Brem, Yaak Karsunke, Monika Stadler [Monika Nüchtern], Kurt Raab, Thomas Hill, Liz Söllner, Howard Gaines, Franz Maron, Gottfried Hüngsberg, Wolfgang Gmoch; produzione: antiteater-X-Film; direttori di produzione: Christian Hohoff, Wil Rabenbauer; durata: 88’; prima proiezione: 26 giugno 1969 al Festival di Berlino (questa versione era intitolata Liebe – kälter als der Tod e durava 92’). Katzelmacher (Terrone) «Per Marieluise Fleißer» «È meglio compiere nuovi errori che consolidare i vecchi sino alla totale incoscienza» Yaak Karsunke Regia, sceneggiatura e scenografia: RWF; soggetto: dall’omonima pièce teatrale di RWF; assistente alla regia: Michael Fengler; fotografia (35 mm, b/n): Dietrich Lohman; assistente alla fotografia: Herbert Paetzold; montaggio: Franz Walsch; suono: Gottfried Hüngsberg; musica: Peer Raben, Franz Schubert; interpreti: Hanna Schygulla, Lilith Ungerer, Elga Sorbas, Doris Mattes, RWF, Rudolf Waldemar Brem, Hans Hirschmüller, Harry Baer, Peter Moland, Hannes Gromball, Irm Hermann, Katrin Schaake; produzione: antiteater-X-Film; direttore di produzione: Wil Rabenbauer; ispettore di produzione: Christian Hohoff; durata: 88’; prima proiezione: 8 ottobre 1969 alla Mannheimer Filmwoche. Fernes Jamaica
Regia: Peter Moland; soggetto: RWF; fotografia (35 mm, b/n): Herbert Paetzold; interpreti: Katrin Schaake, Ulli Lommel, Hannes Gromball, Ingrid Caven, William Powell; produzione: antiteater (Monaco); durata: 14’. Götter der Pest Regia, soggetto e sceneggiatura: RWF; fotografia (35 mm, b/n): Dietrich Lohmann; assistente alla fotografia: Herbert Paetzold; luci: Ekkehard Heinrich; montaggio: Franz Walsch, Thea Eymèsz; suono: Gottfried Hüngsberg; scenografia e assistente alla regia: Kurt Raab; script: Peter Gauhe; collaborazione artistica: Michael Fengler; musica: Peer Raben, Ray Charles, Marlene Dietrich, Karl Valentin, Johann Sebastian Bach; interpreti: Harry Baer, Hanna Schygulla, Margarethe von Trotta, Günther Kaufmann, Carla Aulaulu, Ingrid Caven, Jan George, Marian Seidowski, Yaak Karsunke, Micha Cochina, Hannes Gromball, Lilit Ungerer, Katrin Schaake, Lilo Pempeit, RWF, David Morgan, Thomas Schieder, Ursula Strätz, Kurt Raab, Irm Hermann, Peter Moland, Doris Mattes; produzione: antiteater (Monaco); produttore: RWF con la collaborazione di Michael Fengler; direttore di produzione: Peer Raben; ispettore di produzione: Christian Hohoff; durata: 91’; prima proiezione: 4 aprile 1970 al Festival di Vienna. Warum läuft Herr R. Amok? (Perché il signor R. è colto da improvvisa follia?) Regia: Michael Fengler, RWF; sceneggiatura: Michael Fengler, RWF da un trattamento improvvisato; assistente alla regia: Harry Baer; fotografia (16 mm gonfiato a 35 mm, colore): Dietrich Lohmann; assistente alla fotografia: Herbert Paetzold; luci: Ekkehard Heinrich; montaggio: Franz Walsch, Michael Fengler; suono: Klaus Eckelt; assistente al suono: Franz Puls; scenografia: Kurt Raab; musica: Peer Raben, Christian Anders; interpreti: Kurt Raab, Lilith Ungerer, Amadeus Fengler, Franz Maron, Harry Baer, Peter Moland, Lilo Pempeit, Hanna Schygulla, Vinzenz Sterr, Maria Sterr, Peer Raben, Carla Aulaulu, Eva Pampuch, Ingrid Caven, Doris Mattes, Irm Hermann,
Hannes Gromball, Peter Hamm, Jochen Pinkert, Eva Madelung, Johannes Fengler, Niels-Peter Rudolph, Volker Schlöndorff, Margarethe von Trotta, Reinhard Hauff, Hanna Axmann-Rezzori, Günther Kaufmann; produzione: antiteater; produzione esecutiva: Maran Film per conto del Sdr; direttore di produzione: Wilhelm Rabenbauer; ispettore di produzione: Christian Hohoff; durata: 88’; prima proiezione: 28 giugno 1970 al Festival di Berlino.
1970 Rio das Mortes, film televisivo «Per Volker Schlöndorff» Regia e sceneggiatura: RWF; soggetto: da un’idea di Volker Schlöndorff; assistenti alla regia: Harry Baer, Kurt Raab; fotografia (35 mm, b/n): Dietrich Lohmann; assistente alla fotografia: Herbert Paetzold; luci: Ekkehard Heinrich; montaggio: Thea Eymèsz; suono: Klaus Eckelt; scenografia: Kurt Raab; collaboratori: Irm Hermann, Günther Rupp, Helmfried Heinrich, Franz Pusl, Klaus Hellwig, Thomas Schieder; musica: Peer Raben, One Nation Underground, Kenny Rogers, Elvis Presley, Tomaso Albinoni; interpreti: Hanna Schygulla, Michael König, Günther Kaufmann, Katrin Schaake, Joachim von Mengershausen, Lilo Pempeit, Franz Maron, Harry Baer, Marius Aicher, Carla Aulaulu, Walter Sedlmayr, Ulli Lommel, Monika Stadler, Hanna Axmann-Rezzori, Ingrid Caven, Kerstin Dobbertin, Magdalena Montezuma, Elga Sorbas, Kurt Raab, Rudolf Waldemar Brem, Carl Amery, Peter Berling, RWF, Eva Pampuch, Hanna Schmidt; produzione: Janus Film und Fernsehen (Francoforte) / antiteater-X-Film (Monaco); direttore di produzione: Michael Fengler; durata: 91’; messa in onda: 15 febbraio 1970 sul primo canale (Ard) della televisione tedesca. Das Kaffeehaus, videoadattamento teatrale Regia: RWF; sceneggiatura: RWF dall’omonima commedia di Carlo Goldoni; adattamento televisivo: RWF utilizzando
gli elementi della messa in scena teatrale a Brema per la regia di RWF e Peer Raben; luci (nastro due pollici, b/n): Dietbert Schmidt, Manfred Forster; scenografia: Wilfried Minks; musica: Peer Raben, Richard Strauss; interpreti: Margit Carstensen, Ingrid Caven, Hanna Schygulla, Kurt Raab, Harry Baer, Hans Hirschmüller, Günther Kaufmann, Rudolf Waldemar Brem, Wil Rabenbauer; produzione: Wdr (Colonia); durata tv: 105’; messa in onda: 18 maggio 1970 sul terzo canale regionale (Wdr III) del NordrheinWestfalen. Whity «Per Peter Berling» Regia, soggetto e sceneggiatura: RWF; assistente alla regia: Harry Baer; fotografia (35 mm, cinemascope, colori): Michael Ballhaus; assistente alla fotografia: Lothar Dreher; luci: Honorat Stangl; montaggio: Franz Walsch, Thea Eymèsz; scenografia: Kurt Raab; script: Ulli Stangl; musica: Peer Raben, RWF; interpreti: Günther Kaufmann, Hanna Schygulla, Ulli Lommel, Harry Baer, Katrin Schaake, Ron Randell, Thomas Blanco, Stefano Capriati, Elaine Baker, Mark Salvage, Helga Ballhaus, Kurt Raab, RWF, Peter Berling; produzione: Atlantis Film / antiteater-X-Film; direttore di produzione: Ulli Lommel; ispettori di produzione: Stefan Abendroth, Martin Köberle; durata: 95’; prima proiezione: 2 luglio 1971 al Festival di Berlino. Titolo di lavorazione: Whity ging nach Osten. Die Niklashauser Fahrt, film televisivo Regia e sceneggiatura: RWF, Michael Fengler; assistente alla regia: Harry Baer; fotografia (16 mm, colore): Dietrich Lohmann; luci: Honorat Stangl; montaggio: Franz Walsch; scenografia: Kurt Raab; pirotecnica: Charly Baumgartner; musica: Peer Raben, Amon Düül II; interpreti: Michael König, Michael Gordon, RWF, Hanna Schygulla, Walter Sedlmayr, Margit Carstensen, Franz Maron, Kurt Raab, Günther Rupp, Karl Scheydt, Günther Kaufmann, Siggi Graue, Michael Fengler, Ingrid Caven, Elga Sorbas, Carla Aulaulu, Peer Raben, Ursula Strätz, Peter Berling,
Magdalena Montezuma, Katrin Schaake, Amon Düül II; produzione: Janus Film und Fernsehen (Francoforte) per conto del Wdr; durata: 86’; messa in onda: 26 ottobre 1970 sul primo canale (Ard) della televisione tedesca. Der amerikanische Soldat Regia, soggetto e sceneggiatura: RWF; assistente alla regia: Kurt Raab; fotografia (35 mm, b/n): Dietrich Lohmann; assistente alla fotografia: Herbert Paetzold; luci: Ekkehard Heinrich; montaggio: Thea Eymèsz; scenografia: Kurt Raab, RWF; trucco: Sybille Danzer; musica: Peer Raben, RWF; interpreti: Karl Scheydt, Elga Sorbas, Jan George, Margarethe von Trotta, Hark Bohm, Ingrid Caven, Eva Ingeborg Scholz, Kurt Raab, Marius Aicher, Gustl Datz, Marquard Bohm, RWF, Katrin Schaake, Ulli Lommel, Irm Hermann; produzione: antiteater; direttore di produzione: Peer Raben; ispettore di produzione: Christian Hohoff; durata 80’; prima proiezione: 9 agosto 1970 alla Mannheimer Filmwoche. Warnung vor einer heiligen Nutte (Attenzione alla puttana santa) «L’orgoglio precede la caduta» Regia, soggetto e sceneggiatura: RWF; assistente alla regia: Harry Baer; fotografia (35 mm, colori): Michael Ballhaus; assistenti alla fotografia: Karl Huber, Aldo Marchiori; luci: Marcello Zucche; montaggio: Franz Walsch, Thea Eymèsz; suono: Gunter Krää; scenografia: Kurt Raab; costumi: Kerstin Dobbertin; trucco: Sybille Danzer, Maria Mastrocinque; segretaria di produzione: Renate Leiffer; script: Katrin Schaake; musica: Peer Raben, Gaetano Donizetti, Elvis Presley, Ray Charles, Leonard Cohen, Spooky Tooth; interpreti: Lou Castel, Eddie Constantine, Hanna Schygulla, Marquard Bohm, RWF, Ulli Lommel, Katrin Schaake, Benjamin Lev, Monika Teuber, Margarethe von Trotta, Gianni Di Luigi, Rudolf Waldemar Brem, Herb Andress, Thomas Schieder, Kurt Raab, Hannes Fuchs, Marcella Michelangeli, Ingrid Caven, Harry Baer, Magdalena Montezuma, Werner Schroeter, Karl Scheydt, Tanja Constantine, Mario Novelli, Enzo Monteduro, Ahmed ben Em Bark, Michael Fengler, Burghard Schlicht,
Dick Randall, Peter Berling, Tony Bianchi, Gianni Javarone, Peter Gauhe, Rossano Brazzi, Renato Dei Laudadio, Marcello Zucche; produzione: antiteater-X-Film (Monaco) / Nova International (Roma); produttore, produttore esecutivo: Peter Berling; direttore di produzione: Michael Fengler; ispettore di produzione: Christian Hohoff; durata: 103’; origine: Rft / Italia; prima proiezione: 28 agosto 1971 alla Mostra del cinema di Venezia. Pioniere in Ingolstadt (Pionieri a Ingolstadt), sceneggiato televisivo Regia e sceneggiatura: RWF; soggetto: dall’omonima pièce teatrale di Marieluise Fleißer; assistente alla regia: Gunter Krää; fotografia (35 mm, colore): Dietrich Lohmann; assistente alla fotografia: Herbert Paetzold; luci: Ekkehard Heinrich; montaggio: Thea Eymèsz; scenografia: Kurt Raab; trucco: Sybille Danzer; collaboratori: Peter Gauhe, Hanna Köhler, Helmfried Heinrich, Bert Wachela, Kerstin Dobbertin, Christian Hohoff, Heinz Pusl; musica: Peer Raben, Ferenc Lehár; interpreti: Hanna Schygulla, Harry Baer, Irm Hermann, Rudolf Waldemar Brem, Walter Sedlmayr, Klaus Löwitsch, Günther Kaufmann, Carla Aulaulu, Elga Sorbas, Burghard Schlicht, Gunter Krää; produzione: Janus Film und Fernsehen (Francoforte) / antiteater (Monaco) per conto del Zdf; produttore: Klaus Hellwig; direttore di produzione: Kurt Raab; ispettore di produzione: Wilhelm Rabenbauer; redazione Zdf: Willi Segler; durata: 83’; messa in onda: 19 maggio 1971 sul secondo canale (Zdf) della televisione tedesca.
1971 Der Händler der vier Jahreszeiten (Il mercante delle quattro stagioni) Regia e sceneggiatura: RWF; assistente alla regia: Harry Baer; fotografia (35 mm, colore): Dietrich Lohmann; assistenti alla fotografia: Herbert Paetzold, Peter Gauhe; musica: Rocco Granata; interpreti: Hans Hirschmüller, Irm
Hermann, Andrea Schober, Gusti Kreissl, Hanna Schygulla, Heide Simon, Kurt Raab, Klaus Löwitsch, Karl Scheydt, Ingrid Caven, Peter Chatel, Lilo Pempeit, Walter Sedlmayr, El Hedi ben Salem, Hark Bohm, Daniel Schmid, Harry Baer, Marian Seidowski, Michael Fengler, RWF, Elga Sorbas, Siggi Graue; produzione: Tango Film (Monaco); produttore: RWF; direttore di produzione: Ingrid Fassbinder [Ingrid Caven]; ispettori di produzione: Christian Hohoff, Karl Scheydt; durata: 89’; prima proiezione: 10 febbraio 1972 alla Cinémathèque française.
1972 Die bitteren Tränen der Petra von Kant (Le lacrime amare di Petra von Kant) «Dedicato a colei che qui divenne Marlene» Regia e sceneggiatura: RWF; soggetto: dall’omonima pièce teatrale di RWF; assistenti alla regia: Harry Baer, Kurt Raab; fotografia (35 mm, colore): Michael Ballhaus; assistente alla fotografia: Klaus Jahnel; luci: Ekkehard Heinrich; montaggio: Thea Eymèsz; suono: Gunther Kortwich, Harry Rausch; scenografia e costumi: Kurt Raab, Maja Lemcke; trucco: Peter Müller, Sybille Danzer; parrucchiera: Margit Ullmann; assistenti alla produzione: Andreas Schimek, El Hedi ben Salem; script: Andorthe Braker; fotografo di scena: Peter Gauhe; musica: The Platters, The Walker Brothers, Giuseppe Verdi; interpreti: Margit Carstensen, Hanna Schygulla, Irm Hermann, Katrin Schaake, Eva Mattes, Gisela Fackeldey; produzione: Tango Film (Monaco); produttore: RWF; direttore di produzione: Michael Fengler; ispettore di produzione: Karl Scheydt; durata: 124’; prima proiezione: 2 giugno 1972 al Festival di Berlino. Wildwechsel (Selvaggina di passo) Regia e sceneggiatura: RWF; soggetto: dall’omonima pièce teatrale di Franz Xaver Kroetz; assistente alla regia: Irm Hermann; fotografia (35 mm, colore): Dietrich Lohmann;
assistente alla fotografia: Herbert Paetzold; montaggio: Thea Eymèsz; suono: Lothar Manke; scenografia e costumi: Kurt Raab; musica: Ludwig van Beethoven, Paul Anka; interpreti: Jörg von Liebenfels, Ruth Drexel, Eva Mattes, Harry Baer, Rudolf Waldemar Brem, Hanna Schygulla, Kurt Raab, Karl Scheydt, Klaus Löwitsch, Irm Hermann, Marquard Bohm, El Hedi ben Salem; produzione: Intertel per conto del Sfb; produttore: Gerhard Freund; direttore di produzione: Manfred Korytowski; durata: 102’; prima proiezione: 30 dicembre 1972 a Monaco. Acht Stunden sind kein Tag, serie televisiva in cinque puntate (Eine Familienserie. 1ª puntata: Jochen und Marion; 2ª puntata: Oma und Gregor; 3ª puntata: Franz und Ernst; 4ª puntata: Monika und Harald; 5ª puntata: Irmgard und Rolf.) Regia e sceneggiatura: RWF; assistenti alla regia: Renate Leiffer, Eberhard Schubert; fotografia (16 mm, colore): Dietrich Lohmann; assistenti alla fotografia: Herbert Paetzold, Thomas Mittelstenscheidt; montaggio: Marie Anne Gerhardt; suono: Gerhard Trampert; scenografia: Kurt Raab, Manfred Lütz, Gisela Röcken; musica: Jean Gepoint, Leonard Cohen, Janis Joplin, Ferenc Lehár, Neil Young, Johann Sebastian Bach, Ennio Morricone, Spooky Tooth, Ben E. King, Elvis Presley, Paul Anka, Little Richard, The Platters, The Rolling Stones, Les Paul & Mary Ford, Freddy Quinn, Rudi Schuricke, Johnny Ray, Velvet Underground, brani d’archivio; interpreti: Gottfried John, Hanna Schygulla, Luise Ullrich, Werner Finck, Anita Bucher, Wolfried Lier, Christine Oesterlein, Renate Roland, Kurt Raab, Andrea Schober, Thorsten Massinger, Irm Hermann, Wolfgang Zerlett, Wolfgang Schenck, Herb Andress, Rudolf Waldemar Brem, Hans Hirschmüller, Peter Gauhe, Grigorios Karipidis, Karl Scheydt, Victor Curland, Rainer Hauer, Margit Carstensen, Christiane Jannessen, Doris Mattes, Gusti Kreissl, Lilo Pempeit, Katrin Schaake, Rudolf Lenz, Jörg von Liebenfels, Ulli Lommel, Ruth Drexel, Walter Sedlmayr, Helga Feddersen, Heinz Meier, Karl-Heinz Vosgerau, Peter Chatel, Valeska Gert, Eva Mattes, Marquard Bohm, Klaus Löwitsch, Hannes
Gromball, Brigitte Mira, Peer Raben, El Hedi ben Salem, Ursula Strätz; produzione: Wdr (Colonia); produttore: Peter Märthesheimer; durata: 101’ (1ª puntata), 100’ (2ª puntata), 92’ (3ª puntata), 89’ (4ª puntata), 89’ (5ª puntata); messa in onda: 29 ottobre 1972 (1ª puntata), 17 dicembre 1972 (2ª puntata), 21 gennaio 1973 (3ª puntata), 18 febbraio 1973 (4ª puntata), 18 marzo 1973 (5ª puntata) sul primo canale (Ard) della televisione tedesca. Bremer Freiheit, videoadattamento teatrale Regia: RWF; soggetto: dall’omonima pièce teatrale di RWF; sceneggiatura: RWF utilizzando la sua messa in scena teatrale al Bremer Schauspielhaus (dicembre 1971); assistente alla regia: Fritz Müller-Scherz; luce (nastro due pollici, colore): Dietrich Lohmann, Hans Schugg, Peter Weyrich; montaggio: Friedrich Niquet, Monika Solzbacher; scenografia: Kurt Raab; musica: brani d’archivio; interpreti: Margit Carstensen, Ulli Lommel, Wolfgang Schenck, Walter Sedlmayr, Wolfgang Kieling, Rudolf Waldemar Brem, Kurt Raab, Fritz Schediwy, Hanna Schygulla, RWF, Lilo Pempeit; produzione: Telefilm Saar (Saarbrücken) per conto del Sr; durata: 87’; messa in onda: 27 dicembre 1972 sul terzo canale regionale (S 3) della Saar.
1973 Welt am Draht (Il mondo sul filo), film televisivo in due puntate Regia: RWF; soggetto: dal romanzo Simulacron 3 di Daniel F. Galouye; sceneggiatura: Fritz Müller-Scherz, RWF; assistenti alla regia: Renate Leiffer, Fritz Müller-Scherz; fotografia (16 mm, colore): Michael Ballhaus; montaggio: Marie Anne Gerhardt; scenografia: Kurt Raab; script: Corinna Brocher; musica: Gottfried Hüngsberg, Richard Wagner, Johann Sebastian Bach, Johann Strauss, Robert Schumann, Domenico Modugno, Elvis Presley, brani d’archivio; interpreti: Klaus Löwitsch, Mascha Rabben, Adrian Hoven, Ivan Desny, Barbara Valentin, Karl-Heinz Vosgerau, Günter Lamprecht, Margit Carstensen,
Wolfgang Schenck, Joachim Hansen, Rudolf Lenz, Kurt Raab, Karl Scheydt, Rainer Hauer, Ulli Lommel, Heinz Meier, Peter Chatel, Ingrid Caven, Eddie Constantine, Gottfried John, Elma Karlowa, Bruce Low, Walter Sedlmayr, El Hedi ben Salem, Liselotte Eder, Christine Kaufmann, Rainer Langhans, Karsten Peters, Katrin Schaake, Christiane Maybach, Rudolf Waldemar Brem, Peter Kern, Ernst Küsters, Peter Moland, Doris Mattes, Solange Pradel, Maryse Dellannoy, Werner Schroeter, Magdalena Montezuma, Corinna Brocher, Peter Gauhe, Dora Karras-Frank; produzione: Wdr (Colonia); direttori di produzione: Peter Märthesheimer, Alexander Wesemann; durata tv: 99’25’’ (1ª puntata), 105’44’’ (2ª puntata); messa in onda: 14 e 16 ottobre 1973 sul primo canale (Ard) della televisione tedesca; prima proiezione (gonfiato a 35 mm): 7 febbraio 1997 al Museum of Modern Art di New York nell’ambito di una retrospettiva di RWF. Il film è stato trasmesso sul secondo canale della Rai il 22 e il 29 settembre 1979. Nora Helmer, videoadattamento teatrale Regia e sceneggiatura: RWF; soggetto: da Casa di bambola di Henrik Ibsen (traduzione di Bernhard Schulze); assistenti alla regia: Fritz Müller-Scherz, Rainer Langhans; luci (nastro due pollici, colore): Willi Raber, Wilfried Mier, Peter Weyrich, Gisela Loew, Hans Schugg; montaggio: Anne-Marie Bornheimer, Friedrich Niquet; scenografia: Friedheim Boehm; costumi: Barbara Baum; musica: Giuseppe Verdi; interpreti: Margit Carstensen, Joachim Hansen, Barbara Valentin, Ulli Lommel, Klaus Löwitsch, Lilo Pempeit, Irm Hermann; produzione: Telefilm Saar (Saarbrücken) per conto del Sr; durata tv: 101’; messa in onda: 3 febbraio 1974 su un canale del Sr. Angst essen Seele auf (La paura mangia l’anima) «La felicità non è sempre piacevole» Jean-Luc Godard, Vivre sa vie Regia e sceneggiatura: RWF; assistente alla regia: Rainer Langhans; fotografia (35 mm, colore): Jürgen Jürges;
assistente alla fotografia: Thomas Schwan; luci: Ekkehard Heinrich; montaggio: Thea Eymèsz; suono: Fritz MüllerScherz; scenografia: RWF; trucco: Helga Kempke; musica: brani d’archivio; interpreti: Brigitte Mira, El Hedi ben Salem, Barbara Valentin, Irm Hermann, RWF, Karl Scheydt, Elma Karlowa, Anita Bucher, Gusti Kreissl, Walter Sedlmayr, Doris Mattes, Liselotte Eder, Marquard Bohm, Hannes Gromball, Katharina Herberg, Rudolf Waldemar Brem, Peter Moland, Kurt Raab, Margit Symo, Peter Gauhe, Helga Ballhaus, Elisabeth Bertram, Hark Bohm; produzione: Tango Film (Monaco); produttore: RWF; direttore di produzione: Michael Fengler; durata 93’; prima proiezione: 5 marzo 1974 a Monaco. Titolo di lavorazione: Alle Türken heissen Alì. Martha, film televisivo Regia e sceneggiatura: RWF; soggetto: dal racconto For the Rest of Her Life di Cornell Woolrich; assistenti alla regia: Fritz Müller-Scherz, Renate Leiffer; fotografia (16 mm, colore): Michael Ballhaus; montaggio: Liesgret SchmittKlink; suono: Manfred Oelschläger; scenografia: Kurt Raab; script: Corinna Brocher; musica: Max Bruch, Gaetano Donizetti, Orlando di Lasso; interpreti: Margit Carstensen, Karlheinz Böhm, Gisela Fackeldey, Adrian Hoven, Barbara Valentin, Ingrid Caven, Ortrud Beginnen, Wolfgang Schenck, Günter Lamprecht, Peter Chatel, El Hedi ben Salem, Kurt Raab, Rudolf Lenz, Rudolf Waldemar Brem, Elma Karlowa, Herbert Steinmetz, Liselotte Eder, Karl Scheydt, Michael Ballhaus; produzione: Wdr (Colonia); produttore: Peter Märthesheimer; durata: 111’33’’; messa in onda: 28 maggio 1974 sul primo canale (Ard) della televisione tedesca.
1972-1974 Fontane Effi Briest (Effi Briest) «Ovvero molti che hanno idea delle loro possibilità e bisogni, e tuttavia accettano il sistema dominante
attraverso le loro azioni e così lo rafforzano e lo confermano» Regia, sceneggiatura e voce narrante: RWF; soggetto: dall’omonimo romanzo di Theodor Fontane; assistenti alla regia: Rainer Langhans, Fritz Müller-Scherz; fotografia (35 mm, b/n): Dietrich Lohmann, Jürgen Jürges; assistenti alla fotografia: Thomas Schwan, Herbert Paetzold; luci: Ernst Küsters, Ekkehard Heinrich; suono: Fritz Müller-Scherz; scenografia: Kurt Raab; costumi: Barbara Baum; trucco: Sybille Danzer; musica: Camille Saint-Saëns, Ludwig van Beethoven, Ludwig Spohr; interpreti: Hanna Schygulla, Wolfgang Schenck, Karlheinz Böhm, Ulli Lommel, Ursukla Strätz, Irm Hermann, Lilo Pempeit, Herbert Steinmetz, Hark Bohm, Rudolf Lenz, Barbara Valentin, Karl Scheydt, Theo Tecklenburg, Barbara Lass, Eva Mattes, Andrea Schober, Anndorthe Braker, Peter Gauhe, RWF; produzione: Tango Film (Monaco); produttore: RWF; direttore di produzione: Christian Hohoff; durata 141’; prima proiezione: 28 giugno 1974 al Festival di Berlino. Il film è doppiato: Ulli Lommel da Wolfgang Hess, Hark Bohm da Kurt Raab, Herbert Steinmetz da Fred Maire, Lilo Pempeit da Rosemarie Fendel, Irm Hermann da Margit Carstensen, mentre Hanna Schygulla,Wolfgang Schenck e Karlheinz Böhm doppiano se stessi.
1974 Wie ein Vogel auf dem Draht, show televisivo Regia: RWF; sceneggiatura: RWF, Christian Hohoff; assistente alla regia: Christian Hohoff; fotografia (nastro due pollici, colore): Eberhard Spandel; montaggio: Helga Egelhofer; suono: Franz-Josef Zimmermann; scenografia: Kurt Raab; musica: Anja Hauptmann (testi delle canzoni), Ingfried Hoffmann (arrangiamento musicale), Leonard Cohen, Edvard Grieg; interpreti: Brigitte Mira, Evelyn Künneke, Ingfried Hoffmann, Kurt Raab; produzione: Wdr (Colonia); produttore esecutivo: Bernd Tillmann; durata:
44’; messa in onda: 5 maggio 1975 sul primo canale (Ard) della televisione tedesca. Faustrecht der Freiheit (Il diritto del più forte) «Per Armin e tutti gli altri» Regia: RWF; sceneggiatura: RWF, Christian Hohoff; assistente alla regia: Irm Hermann; fotografia (35 mm, colore): Michael Ballhaus; assistente alla fotografia: Wolfgang Knigge; luci: Ekkehard Heinrich, Bernd Hübner; montaggio: Thea Eymèsz; suono: Lothar Elsässer; scenografia: Kurt Raab; trucco: Helga Kempke; script: Renate Klett; musica: Peer Raben, Elvis Presley, Leonard Cohen, Zarah Leander, Dmitrij Šostakovič; interpreti: RWF, Peter Chatel, Karlheinz Böhm, Rudolf Lenz, Karl Scheydt, Hans Zander, Ulla Jacobsen, Irm Hermann, Katharina Buchhammer, Ursula Strätz, Christiane Maybach, Elma Karlowa, Brigitte Mira, Harry Baer, Peter Kern, Barbara Valentin, Bruce Low, Walter Sedlmayr, El Hedi ben Salem, Hannes Gromball, Ingrid Caven, Marquard Bohm, Lilo Pempeit, Hark Bohm, Evelyn Künneke, Karl Heinz Staudenmeier, Helmut Petigk; produzione: Tango Film (Monaco) / City Film (Berlino); produttori: RWF, Karlheinz Schnellenbaum; direttore di produzione: Christian Hohoff; durata: 123’; prima proiezione: 30 maggio 1975.
1975 Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel Regia e soggetto: RWF; sceneggiatura: RWF con la collaborazione di Kurt Raab; assistente alla regia: Renate Leiffer; fotografia (35 mm, colore): Michael Ballhaus; assistente alla fotografia: Thomas Schwan; luci: Ekkehard Heinrich; montaggio: Thea Eymèsz; suono: Wolfgang Hoffmann; scenografia: Kurt Raab; set: Rüdiger Schmid; trucco: Jo Braun; musica: Peer Raben, RWF; interpreti: Brigitte Mira, Ingrid Caven, Karlheinz Böhm, Margit Carstensen, Irm Hermann, Gottfried John, Armin Meier,
Kurt Raab, Peter Kern, Helmut Petigk, Gustav Holzapfel, Volker Spengler, Peter Chatel, Vitus Zeplichal, Peter Bollag, Matthias Fuchs, Y Sa Lo, Lilo Pempeit, Adrian Hoven, Hannes Kaetner; produzione: Tango Film (Monaco); produttore: RWF; direttore di produzione: Christian Hohoff; durata: 120’ (RWF girò un secondo finale di 10’ destinato in origine alla versione americana del film); prima proiezione: 2 gennaio 1976 (la proiezione del 7 luglio 1975 al Festival di Berlino venne interrotta in seguito alle proteste del pubblico). Angst vor der Angst, film televisivo Regia e sceneggiatura: RWF; soggetto: da un’idea di Asta Scheib; assistente alla regia: Renate Leiffer; fotografia (16 mm, colore): Jürgen Jürges; assistente alla fotografia: Ulrich Prinz; montaggio: Liesgret Schmitt-Klink, Beate Fischer-Weiskirch; suono: Manfred Oelschläger; scenografia: Kurt Raab; musica: Peer Raben, Richard Strauss, Leonard Cohen, The Rolling Stones; interpreti: Margit Carstensen, Ulrich Faulhaber, Brigitte Mira, Irm Hermann, Armin Meier, Adrian Hoven, Kurt Raab, Ingrid Caven, Lilo Pempeit, Helga Märthesheimer, Herbert Steinmetz, Hark Bohm, Constanze Haas; produzione: Wdr (Colonia); produttore per il Wdr: Peter Märthesheimer; direttore di produzione: Fred Ilgner; durata: 88’; messa in onda: 8 luglio 1975 sul primo canale (Ard) della televisione tedesca. Schatten der Engel (Ombra degli angeli), film televisivo Regia: Daniel Schmid; soggetto: dalla pièce teatrale di RWF Der Müll, die Stadt und der Tod; sceneggiatura: Daniel Schmid e RWF; assistente alla regia: Luc Yersin; fotografia (35 mm, colore): Renato Berta; assistente alla fotografia: Carlo Varini; montaggio: Ila von Hasperg; suono: Gunther Korwich; scenografia: Raúl Gimenez; costumi: Gerda Graf; musica: Peer Raben, Gottfried Hüngsberg; interpreti: Ingrid Caven, RWF, Klaus Löwitsch, Annemarie Düringer, Adrian Hoven, Boy Gobert, Ulli Lommel, Jean-Claude Dreyfuss, Irm Hermann, Debria Kalpataru, Hans Gratzer, Peter Chatel, Ila von Hasberg, Gail Curtis, Christine Jirku,
Raúl Gimenez, Alexander Allerson, Harry Baer; produzione: Albatros Produktion; produttore: Michael Fengler; direttore di produzione: Christian Hohoff; ispettore di produzione: Michael Ehrenzweig; durata: 101’; prima proiezione: 31 gennaio 1976 alle Giornate cinematografiche di Soletta.
1975-76 Ich will doch nur, dass ihr mich liebt, film televisivo Regia: RWF; soggetto: RWF, da una storia del libro Lebenslänglich – Protokolle aus der Haft di Klaus Antes e Christiane Ehrhardt; assistenti alla regia: Renate Leiffer, Christian Hohoff; fotografia (16 mm, colore): Michael Ballhaus; montaggio: Liesgret Schmitt-Klink, Beate Fischer-Weiskirch; suono: Karsten Ullrich; scenografia: Kurt Raab; trucco: Peter Knöpfle, Elke Müller; musica: Peer Raben; interpreti: Vitus Zeplichal, Elke Aberle, Alexander Allerson, Erni Mangold, Johanna Hofer, Katharina Buchhammer, Wolfgang Hess, Armin Meier, Erika Runge, Ulrich Radke, Annemarie Wendl, János Gönczöl, Edith Volkmann, Robert Naegele, Axel Ganz, Inge Schulz, Peer Raben, Helga Bender, Adi Gruber, Sonja Neudorfer, Ingrid Caven, Hannes Kaetner, Lilo Pempeit, Dieter Schidor; produzione: Bavaria Atelier (Monaco) per conto del Wdr; produttore: Peter Märthesheimer; durata: 104’; messa in onda: 23 marzo 1976 sul primo canale (Ard) della televisione tedesca. Satansbraten (Nessuna festa per la morte del cane di Satana) «Ce qui différence les païens de nous, c’est qu’a l’origine de toutes leurs croyances, il y a un terrible effort pour ne pas penser en hommes, pour garder le contact avec la création entière, c’est à dire avec la divinité» Antonin Artaud (titoli di coda) Regia, soggetto e sceneggiatura: RWF; assistenti alla regia: Ila von Hasperg, Christa Reeh, Renate Leiffer; fotografia (35 mm, colore): Jürgen Jürges, Michael Ballhaus;
montaggio: Thea Eymèsz, Gaby Eichel; suono: Paul Schöler, Rolf-Peter Notz, Roland Henschke; scenografia: Kurt Raab, Ulrike Bode; trucco: Evelyn Döhring, Jo Braun; musica: Peer Raben; interpreti: Kurt Raab, Margit Carstensen, Helen Vita, Volker Spengler, Ingrid Caven, Marquard Bohm, Ulli Lommel, Y Sa Lo, Katharina Buchhammer, Armin Meier, Vitus Zeplichal, Dieter Schidor, Peter Chatel, Michael Octave, Katrin Gebelein, Helmut Petigk, Hannes Gromball, Adrian Hoven, Monika Teuber, Brigitte Mira, Hannes Kaetner, Nino Korda, Lilo Pempeit, Christiane Maybach, Heli Finkenzeller, Alexander Allerson, Sonja Neudorfer, Michael Ballhaus; produzione: Albatros Produktion (Monaco) per la Trio Film; produttore: Michael Fengler; direttori di produzione: Harry Baer, Kerstin Dobbertin; durata: 112’; prima proiezione: 7 ottobre 1976 alla Mannheimer Filmwoche.
1976 Chinesisches Roulette (Roulette cinese) Regia, soggetto e sceneggiatura: RWF; assistente alla regia: Horst Knechtel; fotografia (35 mm, colore): Michael Ballhaus; luci: Ekkehard Heinrich; montaggio: Ila von Hasperg, Juliane Lorenz; suono: Roland Henschke; scenografia: Curd Melber; trucco: Jo Braun; organizzazione: Christian Hohoff, Harry Baer, Kerstin Dobbertin; musica: Peer Raben, Gustav Mahler, Kraftwerk; interpreti: Margit Carstensen, Anna Karina, Alexander Allerson, Ulli Lommel, Andrea Schober, Macha Méril, Brigitte Mira, Volker Spengler, Armin Meier, Roland Henschke; produzione: Albatros Produktion (Monaco) / Les Films du Losange (Parigi); produttori: Michael Fengler, Kerstin Dobbertin; durata: 86’; origine: Rft / Francia; prima proiezione: 16 novembre 1976 al Festival di Parigi.
1976-77
Bolwieser (La moglie del capostazione), sceneggiato televisivo in due parti Regia e sceneggiatura: RWF; soggetto: dall’omonimo romanzo di Oskar Maria Graf; assistenti alla regia: Christian Hohoff, Ila von Hasperg, Udo Kier; fotografia (16 mm, colore): Michael Ballhaus; assistente alla fotografia: Horst Knechtel; montaggio: Ila von Hasperg, Juliane Lorenz; suono: Reinhard Glogge; missaggio sonoro: Milan Bor; scenografia: Kurt Raab, Nico Kehrhan; set: Peter Müller; costumi: Monika Altmann-Kriger; musica: Peer Raben, Gustav Mahler, Wolfgang Amadeus Mozart; interpreti: Kurt Raab, Elisabeth Trissenaar, Bernhard Helfrich, Udo Kier, Volker Spengler, Armin Meier, KarlHeinz von Hassel, Gustl Bayrhammer, Maria Singer, Willi Harlander, Hannes Kaetner, Gusti Kreissl, Helmut Alimonta, Peter Kern, Gottfried John, Gerhard Zwerenz, Helmut Petigk, Sonja Neudorfer, Monika Teuber, Nino Korda, Hannes Gromball, Alexander Allerson, Manfred Gunther, Roland Henschke, Adolph Gruber, Doris Mattes, Ulrich Radke, Lilo Pempeit, Reinhard Weiser, Elma Karlowa, Isolde Barth, Margot Mahler, Renate Muhri, Monica Gruber, Katharina Buchhammer, Karl Scheydt; produzione: Bavaria Atelier (Monaco) per conto del Zdf; produttore: Herbert Knopp; direttore di produzione: Henry Sokal; redazione Zdf: Willi Segler; durata: 104’ (1ª puntata), 96’ (2ª puntata); messa in onda: 31 luglio 1977. Per questioni di diritti una versione cinematografica autorizzata da RWF è stata distribuita solo nel 1983; montaggio: Ila von Hasperg, Juliane Lorenz e Franz Walsch; durata: 112’ (35 mm, colore).
1977 Frauen in New York, adattamento televisivo Regia e sceneggiatura: RWF; soggetto: dalla pièce teatrale The Women di Clare Boothe Luce (traduzione di Nora Gray); adattamento televisivo della messa in scena di RWF al Deutsches Schauspielhaus di Amburgo; fotografia (16
mm, colore): Michael Ballhaus; assistente alla fotografia: Horst Knechtel; montaggio: Wolfgang Skerhutt; suono: Horst Faahs; scenografia: Rolf Glittenberg; costumi: Frieda Parmeggiani; musica: Peer Raben, Johann Strauss (figlio); interpreti: Christa Berndl, Margit Carstensen, Anne-Marie Kuster, Eva Mattes, Angela Schmid, Heide Grübl, Doris Schade, Susanne Werth, Carola Schwarz, Irm Hermann, Adelheid Müther, Ilse Bally, Andrea Grosske, Christina Prior, Gisela Uhlen, Barbara Sukowa, Henny Zschoppe, Sabine Wegener; produzione: Ndr (Amburgo); durata: 111’; messa in onda: 21 giugno 1977 sul primo canale (Ard) della televisione tedesca. Despair – Eine Reise ins Licht (Despair) «Per Antonin Artaud, Vincent van Gogh, Unica Zürn» Regia: RWF; soggetto: dal romanzo Despair di Vladimir Nabokov; sceneggiatura: Tom Stoppard; assistente alla regia: Harry Baer; fotografia (35 mm, colore): Michael Ballhaus; assistenti alla fotografia: Horst Knechtel, Otto Kirchhoff; montaggio: Juliane Lorenz, Franz Walsch; montaggio grezzo (3 ore): Reginald Beck; suono: James Willis; missaggio sonoro: Milan Bor; scenografia: Rolf Zehetbauer; set: Herbert Strabel, Jochen Schumacher; costumi: Dagmar Schauberger; trucco: Peter Knöpfle, Anni Nöbauer; script: Elke Vogt; musica: Peer Raben, Johann Strauss (figlio); interpreti: Dirk Bogarde, Andréa Ferréol, Volker Spengler, Klaus Löwitsch, Alexander Allerson, Bernhard Wicki, Peter Kern, Gottfried John, Adrian Hoven, Roger Fritz, Hark Bohm, Y Sa Lo, Liselotte Eder, Armin Meier, Gitty Djamal, Ingrid Caven, Voli Geiler, Isolde Barth, Harry Baer; produzione: Bavaria Atelier (Monaco) per Nf Geria II Film (Monaco) / Sfp (Parigi); produttore: Peter Märthesheimer; direttore di produzione: Dieter Minx; produttore esecutivo: Lutz Hengst; ispettori di produzione: Wulf Gasthaus, Don French, Lutz Winter; durata: 119’; origine: Rft / Francia; prima proiezione: 19 maggio 1978 al Festival di Cannes. La versione originale del film è in inglese.
1977-78 Deutschland im Herbst (Germania in autunno), film collettivo Episodio di RWF Regia, soggetto e sceneggiatura: RWF; fotografia (35 mm, colore e b/n): Michael Ballhaus; montaggio: Juliane Lorenz; suono: Roland Henschke; interpreti: RWF, Liselotte Eder, Armin Meier; durata: 26’30’’. Regia degli altri episodi: Alf Brustellin, Alexander Kluge, Maximiliane Mainka, Edgar Reitz, Katja Rupé-Hans Peter Cloos, Volker Schlöndorff, Bernhard Sinkel; sceneggiatura: Heinrich Böll, Peter F. Steinbach, Alf Brustellin, Alexander Kluge, Miximiliane Mainka, Edgar Reitz, Katja Rupé-Hans Peter Cloos, Volker Schlöndorff, Bernhard Sinkel; fotografia: Jürgen Jürges, Bodo Kessler, Dietrich Lohmann, Colin Mounier, Jörg Schmidt-Reitwein; montaggio: Heidi Genée, Mulle Goetz-Dickopp, Beate Mainka-Jellinghaus, Tanja Schmidbauer, Christina Warnck; suono: Martin Müller, Günter Stadelmann; scenografia: Henning von Gierke, Winfried Hennig, Toni Lüdi; interpreti: Wolfgang Bächler, Heinz Bennent, Wolf Biermann, Joachim Bissmeyer, Caroline Channiolleau, Hans Peter Cloos, Otto Friebel, Hildegard Friese, Michael Gahr, Vadim Glowna, Helmut Griem, Horatius Haeberle, Hannelore Hoger, Petra Kiener, Dieter Laser, Horst Mahler, Lisi Mangold, Eva Meier, Enno Patalas, Werner Possardt, Franz Priegel, Leon Rainer, Katja Rupé, Walter Schmiedinger, Gerhard Schneider, Corinna Spies, Eric Vilgertshofer, Franziska Walser, Angela Winkler, Manfred Zapatka, Kollektiv Rote Rübe; produzione: Pro-ject Filmproduktion im Filmverlag der Autoren / Hallelujah Film / Kairos Film; produttore: Theo Hinz; produttore esecutivo: Eberhard Junkersdorf; direttori di produzione: Heinz Badewitz, Karl Helmer, Herbert Kerz; durata complessiva: 124’; prima proiezione: 3 marzo 1978 al Festival di Berlino.
1978 Die Ehe der Maria Braun (Il matrimonio di Maria Braun) «Per Peter Zadek» Regia: RWF; soggetto: da un’idea di RWF; sceneggiatura: Peter Märthesheimer, Pea Fröhlich; assistente alla regia: Rolf Bührmann; fotografia (35 mm, colore): Michael Ballhaus; assistente alla fotografia: Horst Knechtel; montaggio: Franz Walsch, Juliane Lorenz; suono: Jim Willis; missaggio sonoro: Milan Bor; scenografia: Helga Ballhaus; set: Norbert Scherer; costumi: Barbara Baum; trucco: Anni Nöbauer; collaborazione artistica: Harry Baer; musica: Peer Raben, Ludwig van Beethoven, Richard Strauss, Antonio Vivaldi, Glenn Miller, Rudi Schuricke, Caterina Valente; interpreti: Hanna Schygulla, Klaus Löwitsch, Ivan Desny, Gottfried John, Gisela Uhlen, Günter Lamprecht, George Byrd, Elisabeth Trissenaar, Isolde Barth, Peter Berling, Sonja Neudorfer, Liselotte Eder, Volker Spengler, Karl-Heinz von Hassel, Michael Ballhaus, Christine Hopf de Loup, Hark Bohm, Horst-Dieter Klock, Günther Kaufmann, Bruce Low, RWF, Claus Holm, Anton Schirsner, Hannes Kaetner, Martin Häussler, Norbert Scherer, Rolf Bührmann, Arthur Glogau; produzione: Albatros Produktion (Monaco) / Trio Film (Duisburg) / Wdr (Colonia); produttore e produttore esecutivo: Michael Fengler; direttori di produzione: Martin Häussler, Harry Zöttl [Harry Baer]; durata: 120’; prima proiezione: 20 febbraio 1979 al Festival di Berlino. In einem Jahr mit 13 Monden (Un anno con 13 lune) Regia, soggetto, sceneggiatura, fotografia (35 mm, colore) e montaggio: RWF; assistente alla fotografia: Werner Lüring; suono e luci: Karl Scheydt, Wolfgang Mund; scenografia: RWF, Karl Scheydt; set: Frantisek Vasek; collaboratori: Milan Bor, Walter Bockmayer, Jo Braun, Juliane Lorenz, Volker Spengler, Alexander Witt; musica: Peer Raben, Gustav Mahler, Nino Rota, Georg Friedrich Händel, Roxy Music, Suicide, Ludwig van Beethoven; interpreti: Volker Spengler, Ingrid Caven, Gottfried John,
Elisabeth Trissenaar, Eva Mattes, Günther Kaufmann, Lilo Pempeit, Gerhard Zwerenz, Isolde Barth, Karl Scheydt, Walter Bockmayer, Peter Kollek, Bob Dorsay, Gustav Holzapfel, Ursula Lillig, Janoz Bermez; produzione: Tango Film / Pro-ject Filmproduktion im Filmverlag der Autoren (Monaco); produttore: RWF; ispettore di produzione: Isolde Barth; durata: 124’; prima proiezione: 17 novembre 1978, Francoforte.
1978-79 Die dritte Generation (La terza generazione) «Commedia in sei parti, gioco di società, pieno di tensione, eccitazione e logica, crudeltà e pazzia. Simile a una favola che si racconta ai bambini affinché imparino a sopportare la vita fino alla morte. “Dedicato a chi sa veramente amare e quindi probabilmente a nessuno?” E poi “vorrei ulteriormente ringraziare i giuristi tedeschi per aver esaminato le cose, Azione Mogadiscio e forse anche qualche altra, in modo non conforme alla Costituzione”. Helmut Schmidt, quinto Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca. Citazione presa dallo Spiegel, n. 3, 1979» Regia, soggetto, sceneggiatura e fotografia (35 mm, colore): RWF; assistente alla regia: Juliane Lorenz; assistenti alla fotografia: Hans-Günther Bücking, Alexander Witt; luci: Ekkehard Heinrich; montaggio: Juliane Lorenz; suono: Hartmut Eichgrün; scenografia: Raúl Gimenez, Volker Spengler; trucco: Anni Nöbauer; script: Diana Elephant [Juliane Lorenz]; effetti speciali: Joachim Schulz, Fred Bräutigam, Lothar Tropp; collaboratori: Karin Viesel, Liselotte Eder, Wolfgang Rühl, Mel Kutbay, Volker Spengler, Udo Kier, Vitus Zeplichal, Y Sa Lo, Ilse Plawer, Marita Arras, Francisco Bataller, Elvi Sefke; musica: Peer Raben; interpreti: Volker Spengler, Bulle Ogier, Hanna Schygulla, Harry Baer, Vitus Zeplichal,
Udo Kier, Margit Carstensen, Günther Kaufmann, Eddie Constantine, Raúl Gimenez, Y Sa Lo, Hark Bohm, Claus Holm, Lilo Pempeit, Jürgen Draeger, Juliane Lorenz; produzione: Tango Film (Berlino) / Pro-ject Filmproduktion im Filmverlag der Autoren (Monaco); produttore: RWF; direttore di produzione: Harry Zöttl; durata: 110’; prima proiezione: 13 maggio 1979 al Festival di Cannes.
1979-80 Berlin Alexanderplatz, sceneggiato televisivo in 13 puntate e un epilogo (1ª puntata: Comincia la pena; 2ª puntata: Come si deve vivere se non si vuole morire; 3ª puntata: Una martellata in testa può ferire l’anima; 4ª puntata: Una manciata di gente nella profondità del silenzio; 5ª puntata: Un mietitore con il potere che viene dal buon Dio; 6ª puntata: Un amore costa sempre caro; 7ª puntata: Ricorda, un giuramento si può amputare; 8ª puntata: Il sole riscalda la pelle e qualche volta la brucia; 9ª puntata: Questa eternità spalancata tra i molti e i pochi; 10ª puntata: La solitudine apre anche nei muri fessure di follia; 11ª puntata: Sapere è potere, e il mattino ha l’oro in bocca; 12ª puntata: Il serpente nell’anima del serpente; 13ª puntata: L’esterno e l’interno e il mistero della paura di fronte al segreto; epilogo: Il mio sogno da un sogno di Franz Biberkopf di Alfred Döblin.) Regia: RWF; soggetto: RWF, dall’omonimo romanzo di Alfred Döblin; assistenti alla regia: Renate Leiffer, Thomas Schühly; fotografia (16 mm, colore): Xaver Schwarzenberger; assistente alla fotografia: Josef Vavra; luci: Georg Eck; montaggio: Juliane Lorenz, Franz Walsch; assistente al montaggio: Frieda Lorenz; suono: Karsten Ulrich; missaggio sonoro: Milan Bor; scenografia: Helmut Gassner, Werner Achmann, Jürgen Henze; costumi: Barbara Baum; trucco: Peter Knöpfle, Anni Nöbauer; effetti speciali: Theo Nischwitz; collaborazione artistica: Harry Baer; musica: Peer Raben, Richard Tauber, Georg
Friedrich Händel, Gustav Mahler, Kraftwerk, Richard Strauss, Johann Strauss (figlio), Janis Joplin, Velvet Underground, Giovanni Paisiello, Elvis Presley, Franz Schubert, Donovan, Ferenc Lehár, Domenico Modugno, Leonard Cohen, Gioachino Rossini, Glenn Miller, Dean Martin, brani d’archivio; interpreti: Günter Lamprecht, Hanna Schygulla, Barbara Sukowa, Gottfried John, Franz Buchrieser, Claus Holm, Brigitte Mira, Roger Fritz, Herb Andress, Werner Asam, Karin Baal, Harry Baer, Wolfgang Bathke, Axel Bauer, Hark Bohm, Marquard Bohm, Karlheinz Braun, Margit Carstensen, Ivan Desny, Jürgen Draeger, Annemarie Düringer, Liselotte Eder, Almut Eggert, Matthias Fuchs, Helmut Griem, Dirk Galuba, Jan George, Raúl Gimenez, Mechthild Grossmann, Jan Groth, Elke Haltaufderheide, Karl-Heinz von Hassel, Siegfried Hechler, Irm Hermann, Traute Hoess, Klaus Höhne, Adrian Hoven, Elma Karlowa, Yaak Karsunke, Günther Kaufmann, Udo Kier, Peter Kollek, Peter Kuiper, Horst Laube, Hermann Lause, Georg Lehn, Wolfried Lier, Juliane Lorenz, Christine de Loup, Marie-Luise Marjan, Christiane Maybach, Sonja Neudorfer, Engelbert von Nordhausen, Helmut Petigk, Dieter Prochnow, Peer Raben, Hans Michael Rehberg, Katrin Schaake, Roland Schäfer, Fritz Schediwy, Wolfgang Schenck, Karl Scheydt, Angela Schmid, Volker Spengler, Herbert Steinmetz, Elisabeth Trissenaar, Barbara Valentin, Helen Vita, Rainer Will, Y Sa Lo, Rolf Zacher, Hans Zander, Vitus Zeplichal, Gerhard Zwerenz, Peter Bretz, Kurt Weinzierl, RWF; produzione: Bavaria Atelier / Rai per conto del Wdr; produttori: Peter Märthesheimer, Günter Rohrbach; direttore di produzione: Dieter Minx; redazione Wdr: Gunther Witte; ispettore di produzione: Wulf Gasthaus; durata: 933’; origine: Rft / Italia; prima proiezione: dal 28 agosto all’8 settembre 1980 alla Mostra del cinema di Venezia; messa in onda: dal 12 ottobre 1980 al 29 dicembre 1980 (due puntate a settimana) sul canale Wdr della televisione tedesca. Lo sceneggiato è stato trasmesso sul secondo canale della Rai con cadenza settimanale dal 20 ottobre 1982 al 18 gennaio 1983.
1980 Lili Marleen Regia: RWF; soggetto: dall’autobiografia Der Himmel hat viele Farben di Lale Andersen; sceneggiatura: Manfred Purzer con la collaborazione di RWF e Joshua Sinclair; assistenti alla regia: Renate Leiffer, Karin Viesel; fotografia (35 mm, colore): Xaver Schwarzenberger; assistenti alla fotografia: Josef Vavra, Christian Sebald; montaggio: Juliane Lorenz, Franz Walsch; suono: Karsten Ulrich; missaggio sonoro: Milan Bor; scenografia: Rolf Zehetbauer; set: Herbert Strabel; costumi: Barbara Baum; trucco: Anni Nöbauer; collaborazione artistica: Harry Baer; effetti speciali: Joachim Schulz; coreografia: Dieter Gackstetter; musica: Peer Raben, brani d’archivio; interpreti: Hanna Schygulla, Giancarlo Giannini, Mel Ferrer, Karl-Heinz von Hassel, Christine Kaufmann, Hark Bohm, Karin Baal, Udo Kier, Erik Schumann, Gottfried John, Elisabeth Volkmann, Barbara Valentin, Helen Vita, Adrian Hoven, Willy Harlander, Toni Netzle, Roger Fritz, Franz Buchrieser, Rainer Will, Lilo Pempeit, Raúl Gimenez, Alexander Allerson, Rudolf Lenz, RWF, Jürgen Draeger, Michael McLernon, Brigitte Mira, Traute Hoess, Herb Andress, Daniel Schmid, Herbert Steinmetz, Irm Hermann, Harry Baer, Arthur Albrecht, Werner Asam, Milan Bor, Peter Chatel, Volker Eckstein, Paul Felix, Dirk Galuba, Arno E. Hausch, Peter Kollek, Jörg von Liebenfels, Christine de Loup, Alexander Malachowski, Josef Moosholzer, Sonja Neudorfer, Helmut Petigk, Joachim Schulz, Volker Spengler; produzione: Roxy Film (Monaco) / Rialto Film (Berlino) / Br (Monaco) / Cip (Roma); produttori: Luggi Waldleitner, Horst Wendlandt, Enzo Peri; direttore di produzione: Konstantin Thoeren; durata: 121’; prima proiezione: 15 gennaio 1981 a Berlino. Il film venne girato in inglese e poi doppiato nelle lingue dei paesi coproduttori.
1981
Lola «Per Alexander Kluge» Regia: RWF; sceneggiatura: Peter Märthesheimer, Pea Fröhlich, RWF; assistente alla regia e script: Karin Viesel; fotografia (35 mm, colore): Xaver Schwarzenberger; assistenti alla fotografia: Josef Vavra; luci: Ekkehard Heinrich; montaggio: Juliane Lorenz; suono: Vladimir Vizner; scenografia: Raúl Gimenez, Udo Kier; set: Helmut Gassner; costumi: Barbara Baum, Egon Strasser; trucco: Anni Nöbauer, Gerd Nemetz; collaborazione artistica: Harry Baer; musica: Peer Raben, Freddy Quinn, Rudi Schuricke, Elvis Presley, Ludwig van Beethoven, Antonio Vivaldi; interpreti: Barbara Sukowa, Armin Mueller-Stahl, Mario Adorf, Matthias Fuchs, Helga Feddersen, Karin Baal, Ivan Desny, Karl-Heinz von Hassel, Sonja Neudorfer, Elisabeth Volkmann, Hark Bohm, Rosel Zech, Isolde Barth, Christine Kaufmann, Y Sa Lo, Karsten Peters, Nino Korda, Raúl Gimenez, Udo Kier, Harry Baer, Rainer Will, Andrea Heuer, Ulrike Vigo, Herbert Steinmetz, Günther Kaufmann, Helmut Petigk, Juliane Lorenz, Marita Pleyer, Maxim Oswald; produzione: Rialto Film (Berlino) / Trio Film (Duisburg) / Wdr; produttore: Horst Wendlandt; direttore esecutivo: RWF; direttore di produzione: Thomas Schühly; ispettori di produzione: Stephan Pfleger, Michael McLernon, Michael Bohnstegel; durata: 113’; prima proiezione: 20 agosto 1981. Theater in Trance, documentario «Questo film è dedicato a Ivan Nagel, ideatore di Theater der Welt, 1981» Regia e voce narrante: RWF; testi: da Le Théâtre et son double di Antonin Artaud; assistente alla regia: Raúl Gimenez; fotografia (16 mm, colore): Werner Lüring; montaggio: Juliane Lorenz, Franz Walsch; suono: Vladimir Vizner; musica: Kraftwerk, Billie Holiday; performance: Het Werktheater (Waldeslust), Squat Theater (Mr. Dead and Mrs. Free e Andy Warhol’s Last Love), Winston Tong / Bruce Geduldig (Frankie + Johnnie), Edwina Lee Tyler & A Piece of the World, Sombras Blancas (Vacio con poesie di Sylvia
Plath), Kipper Kids, i Dervisci danzanti (Turchia), Magazzini Criminali (Ebdomero e Crollo nervoso), Pina Bausch und das Wuppertaler Tanztheater (Kontakthof), Jérôme Savary (Les 1100 vierges ou les larmes ne mentent pas), Yoshi Oida (Ricerche sul buddismo zen); produzione: Laura Film (Monaco) per conto del Zdf; produttore: Thomas Schühly; durata: 91’; prima proiezione: 8 ottobre 1981 alla Mannheimer Filmwoche. Die Sehnsucht der Veronika Voss (Veronika Voss) «Per Gerhard Zwerenz» Regia e soggetto: RWF; sceneggiatura: Peter Märthesheimer, Pea Fröhlich, RWF; assistente alla regia: Karin Viesel, Tamara Kafka; fotografia (35 mm, b/n): Xaver Schwarzenberger; assistente alla fotografia: Josef Vavra; luci: Ekkehard Heinrich; montaggio: Juliane Lorenz; suono: Vladimir Vizner; scenografia: Rolf Zehetbauer; costumi: Barbara Baum; trucco: Anni Nöbauer, Gerd Nemetz; collaborazione artistica: Harry Baer; musica: Peer Raben, Bruch, Comedian Harmonists, Sanford Clark, Tennessee Ernie Ford, brani d’archivio; interpreti: Rosel Zech, Hilmar Thate, Cornelia Froboess, Annemarie Düringer, Doris Schade, Armin Mueller-Stahl, Johanna Hofer, Rudolf Platte, Erik Schumann, Peter Berling, Günther Kaufmann, Sonja Neudorfer, Lilo Pempeit, Volker Spengler, Herbert Steinmetz, Elisabeth Volkmann, Hans Wyprächtiger, Peter Zadek, Tamara Kafka, Juliane Lorenz, Dieter Schidor, RWF, Susanne Aernecke; produzione: Laura Film (Monaco) / Tango Film (Monaco) / Rialto Film (Berlino) / Trio Film (Duisburg) / Maran Film (Monaco); produttori: Thomas Schühly, RWF, Horst Wendlandt; ispettori di produzione: Wulf Gasthaus, Michael Bohnstengel, Michael McLernon; durata: 104’; prima proiezione: 18 febbraio 1982 al Festival di Berlino.
1982 Querelle (Querelle di Brest)
«Questo film è dedicato alla mia lunga amicizia con El Hedi ben Salem» Regia e sceneggiatura: RWF; soggetto: dal romanzo Querelle de Brest di Jean Genet; assistenti alla regia: Karin Viesel, Michael McLernon; fotografia (35 mm, colore): Xaver Schwarzenberger; assistente alla fotografia: Josef Vavra; luci: Ekkehard Heinrich; montaggio: Juliane Lorenz, Franz Walsch; suono: Vladimir Vizner; missaggio sonoro: Hartmut Eichgrün; scenografia: Rolf Zehetbauer; costumi: Barbara Baum; coreografia: Dieter Gackstetter; foto: Roger Fritz; collaborazione artistica: Harry Baer; musica: Peer Raben, Jan Jankeje, brani d’archivio; voce narrante della versione tedesca: Hilmar Thate; interpreti: Brad Davis, Franco Nero, Jeanne Moreau, Laurent Malet, Hanno Pöschl, Günther Kaufmann, Burkhard Driest, Dieter Schidor, Roger Fritz, Karl Scheydt, Gilles Gavois, Michael McLernon, Robert van Ackeren, Wolf Gremm, Frank Ripploh, Werner Asam, Axel Bauer, Vitus Zeplichal, KarlHeinz von Hassel, Neil Bell, Helmut Petigk, Harry Baer, Y Sa Lo, Isolde Barth, Rainer Will, Natja Brunckhorst, Volker Spengler; produzione: Planet Film (Monaco) / Albatros Produktion (Monaco) / Gaumont (Parigi); produttore: Dieter Schidor in collaborazione con Sam Waynberg; direttore di produzione: Rüdiger Lange; durata: 106’; origine: Rft / Francia; prima proiezione: 31 agosto 1982 alla Mostra del cinema di Venezia. La versione originale del film è in inglese. Dopo la morte del regista il film uscì in Germania per motivi commerciali con il titolo Querelle – ein Pakt mit dem Teufel.
FILM DI ALTRI REGISTI CON O SU RWF
1966 Hoffnungsgruppe. Regia: Bruno Jori; suono: RWF.
Ein Platz für G. Regia: Max D. Willutzki; assistente alla regia: RWF.
1967 Mit Eichenlaub und Feigenblatt. Regia: Franz-Josef Spieker; interpreti: RWF. Tonys Freunde, musical televisivo. Regia: Paul Vasil; interpreti: RWF.
1968 Der Bräutigam, die Komödiantin und der Zuhälter (Il fidanzato, la commediante e il protettore), cortometraggio. Regia: JeanMarie Straub / Danièle Huillet; interpreti: RWF.
1969 Frei bis zum nächsten Mal, film televisivo. Regia: Korbinian Köberle; interpreti: RWF. Alarm. Regia: Dieter Lemmel; interpreti: RWF. Al Capone im deutschen Wald, film televisivo. Regia: Franz Peter Wirth; interpreti: RWF. Baal. Regia: Volker Schlöndorff; soggetto: dalla pièce teatrale di Bertolt Brecht; interpreti: RWF. Sonja und Kirilow haben sich entschlossen Schauspieler zu werden und die Welt zu verändern. Regia e sceneggiatura: Ursula Strätz; produttore: RWF.
1970 Ende einer Kommune, film documentario sull’antiteater. Regia: Joachim von Mengershausen.
Fassbinder produziert: Film Nr. 8, film documentario sulle riprese del film Il soldato americano. Regia: Michael Ballhaus, Dieter Buchmann. Der plötzliche Reichtum der armen Leute von Kombach. Regia: Volker Schlöndorff; interpreti: RWF. Supergirl. Regia: Rudolf Thome; interpreti: RWF. Mathias Kneissl. Regia: Reinhard Hauff; interpreti: RWF.
1971 Haytabo. Regia: Ulli Lommel; interpreti RWF. Die Ahnfrau, film televisivo. Regia: Peer Raben; interpreti: RWF.
1972-74 Rainer Werner Fassbinder, documentario televisivo. Regia: Christian Braad Thomsen.
1972 Die Wohngenossin, film televisivo. Regia: Nikos Perakis; interpreti: RWF.
1973 Zärtlichkeit der Wölfe (La tenerezza del lupo). Regia: Ulli Lommel; sceneggiatura: Kurt Raab; interpreti: RWF; produttori: RWF, Michael Fengler. Glashaus – Tv Intern, dialogo televisivo su Acht Stunden sind kein Tag. Regia: Martin Wiebel, Ludwig Metzger.
1974 1 Berlin-Harlem. Regia e sceneggiatura: Lothar Lambert; interpreti: RWF.
1976 Je später der Abend, talkshow televisivo Zeitgenossen: Rainer Werner Fassbinder, film documentario. Regia: Gert Ellinghaus. Adolf und Marlene. Regia: Ulli Lommel; interpreti: RWF.
1977 Lebensläufe – Rainer Werner Fassbinder, film documentario televisivo. Regia: Peter W. Jansen. Der kleine Godard an das Kuratorium Junger Deutscher Film. Regia: Hellmuth Costard; interpreti: RWF.
1978 Spiel der Verlierer. Regia e sceneggiatura: Christian Hohoff; montaggio: Juliane Lorenz, Franz Walsch; produttori: RWF, Christian Hohoff. Bourbon Street Blues, cortometraggio. Regia: Douglas Sirk; soggetto: dalla pièce teatrale The Lady of Larkspur Lotion di Tennessee Williams; fotografia: Michael Ballhaus; interpreti: RWF. Filmarbeit mit Douglas Sirk, film documentario sulle riprese di Bourbon Street Blues. Regia: Gustavo Gräf Marino.
1980
Berlin Alexanderplatz – Beobachtungen bei den Dreharbeiten, film documentario sulle riprese di Berlin Alexanderplatz. Regia: Hans-Dieter Hartl. Douglas Sirk: Über Stars, film documentario tv. Regia: Eckhart Schmidt; interpreti: Douglas Sirk, RWF. Stars in der Manege, show televisivo. Fassbinder si esibisce come mago e fa librare Hanna Schygulla.
1981 Cinemania: Rainer Werner Fassbinder, film documentario tv. Regia: Pierre Bertrand Jaume, Madeleine Dupalet. Polnischer Sommer, film televisivo. Regia e sceneggiatura: Jürgen Flimm; interpreti: RWF. Kamikaze 1989. Regia: Wolf Gremm; interpreti: RWF.
1982 Die Erbtöchter, sceneggiato televisivo a puntate. Regia: MarieChristine Questerberg e altri; interpreti: RWF. Gespräche über Rainer Werner Fassbinder, commemorazione televisiva trasmessa il 15 giugno 1982 con la partecipazione di amici e collaboratori di RWF, moderatore: Hans-Christoph Blumenberg. Rainer Werner Fassbinder – Letzte Arbeiten, film documentario sulle riprese di Kamikaze 1989. Regia: Wolf Gremm. Der Bauer von Babylon – Rainer Werner Fassbinder dreht Querelle, film documentario sulle riprese di Querelle. Contiene l’ultima intervista a RWF del 9 giugno 1982. Regia: Dieter Schidor. Chambre 666 (N’importe quand), film documentario. Regia: Wim Wenders; interpreti: RWF. Porträit Rainer Werner Fassbinder, film documentario tv. Regia: Michael Strauven.
Der stille Ozean, lungometraggio dedicato alla memoria di RWF. Regia: Xaver Schwarzenberger.
1983 Ein Mann wie E.V.A. Regia: Radu Gabrea; interpreti: Eva Mattes (E.V.A. ovvero RWF).
1984 The Last Trip to Harrisburg, cortometraggio. Regia: Udo Kier; interpreti: RWF (voce). Titolo di lavorazione: The blue train.
1985 Der Mensch ist ein hässliches Tier, film documentario tv su RWF. Regia: Rosemarie Stenzel-Quast.
1992 Ich will nicht nur, dass ihr mich liebt, film documentario tv su RWF. Regia: Hans Günther Pflaum. Rollenspiele: Frauen über Rainer Werner Fassbinder, film documentario tv. Regia: Thomas Honickel; interviste a: Margit Carstensen, Irm Hermann, Hanna Schygulla e Rosel Zech su RWF.
1995 Es ist nicht gut, in einem Menschenleib zu leben, film documentario tv su RWF. Regia: Peter Buchka.
1997
The Many Women of Fassbinder, film documentario su RWF. Regia: Alessandro Colizzi. Life, Love & Celluloid. A Journey and a Film Retrospective, film documentario. Regia: Juliane Lorenz.
1999 Gouttes d’eau sur pierres brûlantes. Regia: François Ozon; sceneggiatura: François Ozon, dalla pièce teatrale Tropfen auf heisse Steine (Come gocce su pietre roventi) di RWF.
2000 Für mich gab’s nur noch Fassbinder, film documentario tv. Regia: Rosa von Praunheim.
2002 Fassbinder in Hollywood, film documentario. Regia: Robert Fischer.
2005 Deutsche Lebensläufe: Rainer Werner Fassbinder, film documentario tv. Regia: Dagmar Wittmers.
2006 Fassbinders «Berlin Alexanderplatz»: Remastered. Beobachtungen bei der Restauration, film documentario. Regia: Juliane Lorenz.
2007
Fassbinders «Berlin Alexanderplatz»: Ein Mega-Film und seine Geschichte, film documentario. Regia: Juliane Lorenz.
Teatrografia
PIÈCE TEATRALI DI RWF Tropfen auf heiße Steine (1965-66) Regia: Klaus Wiese; Theaterfestival München, Monaco, 1985. Nur eine Scheibe Brot (1966) Regia: Georg Schuchter; Volkstheater Wien; Bregenzer Festspiele, Bregenz, 1995. Axel Cäsar Haarmann Regia: RWF; Action-Theater; Monaco, aprile 1968. Katzelmacher Regia: Peer Raben e RWF; Action-Theater, Monaco, aprile 1968. Chung Regia collettiva; Action-Theater; Straßentheater, Monaco, maggio 1968. Orgie Ubuh di RWF, Peer Raben e antiteater; dalla pièce Ubu roi di Alfred Jarry Regia: RWF; antiteater; Monaco, agosto 1968. Iphigenie auf Tauris von Johann Wolfgang Goethe Adattamento e regia: RWF; antiteater; Monaco, ottobre 1968.
Ajax (Aiace) di Sofocle Adattamento e regia: RWF; antiteater; Monaco, 1968. Der amerikanische Soldat Regia: RWF e Peer Raben; antiteater; Monaco, dicembre 1968. Die Bettleroper (L’opera del mendicante) di John Gay; adattamento di RWF Regia: RWF; antiteater; Monaco, febbraio 1969. Preparadise Sorry Now Regia: Peer Raben; antiteater; Monaco, marzo 1969. Anarchie in Bayern Regia: RWF e Peer Raben; antiteater; Werkraumtheater dei Kammerspiele, Monaco, giugno 1969. Gewidmet Rosa von Praunheim Regia: RWF; antiteater; Monaco, 1969. Das Kaffehaus di Carlo Goldoni; adattamento di RWF e Peer Raben Regia: RWF e Peer Raben; Stadttheater, Brema, giugno 1969. Werwolf di RWF e Harry Baer Regia: RWF; antiteater; Berliner Forum-Theater, Berlino Ovest, dicembre 1969. Das brennende Dorf di Félix Lope de Vega; adattamento di RWF e Peer Raben Regia: RWF e Peer Raben; Stadttheater, Brema, novembre 1970. Blut am Hals der Katze Regia: RWF e Peer Raben; antiteater; Nürnberger Kammerspiele, Norimberga, marzo 1971. Die bitteren Tränen der Petra von Kant
Regia: Peer Raben; Experimenta; Landestheater, Darmstadt, giugno 1971. Bremer Freiheit Regia: RWF; Stadttheater, Brema, dicembre 1971. Bibi di Heinrich Mann, adattamento di RWF Regia: RWF; Schauspielhaus, Bochum, gennaio 1973. Der Müll, die Stadt und der Tod Dal 1975 al 2009 – a eccezione di un allestimento amatoriale nel 1979 a Bochum e una rappresentazione per la stampa il 4 novembre 1985 allo Schauspiel di Francoforte sotto la regia di Dietrich Hilsdorf – la pièce non andò in scena in Germania. Risale solo all’ottobre del 2009 il primo allestimento tedesco a cura dei registi Roberto Ciulli e Helmut Schäfer al Theater an der Ruhr di Mülheim. La prima mondiale fu nel 1987 a New York (regia di Nick Fracaro). Dal 1987 al 2010 l’opera è stata rappresentata in Danimarca, Svezia, Italia, Israele, Olanda, Ungheria, California, Francia, Danimarca, Irlanda.
REGIE DI RWF Leonce und Lena di Georg Büchner Regia: Peer Raben e RWF; Action-Theater; Monaco, ottobre 1967. Die Verbrecher di Ferdinand Bruckner Regia: RWF; Action-Theater; Monaco, dicembre 1967. Zum Beispiel Ingolstadt di Marieluise Fleißer (titolo originale: Pioniere in Ingolstadt) Regia: Peer Raben e RWF; Action-Theater; BüchnerTheater, Monaco, febbraio 1968. Mockinpott di Peter Weiss Regia: RWF e antiteater; Monaco, luglio 1968. Pioniere in Ingolstadt di Marieluise Fleißer
Regia: RWF; Theater der Freien Hansestadt Bremen, Brema, gennaio 1971. Liliom di Ferenc Molnár Regia: RWF; Theater Bochum, Bochum, dicembre 1972. Hedda Gabler di Henrik Ibsen Regia: RWF; Freie Volksbühne, Berlino, dicembre 1973. Die Unvernünftigen sterben aus di Peter Handke Regia: RWF; Schauspielhaus, Francoforte sul Meno, maggio 1974. Germinal di Yaak Karsunke tratto dall’omonimo romanzo di Émile Zola Regia: RWF; Theater am Turm, Francoforte sul Meno, settembre 1974. Fräulein Julie di August Strindberg Regia: RWF, Ula Stöckl e antiteater; Theater am Turm, Francoforte sul Meno, novembre 1974. Onkel Wanja di Anton Čechov Regia: RWF; Theater am Turm, Francoforte sul Meno, novembre 1974. Frauen in New York di Clare Boothe Luce Regia: RWF; Schauspielhaus, Amburgo, settembre 1976.
PIÈCE DA FILM DI RWF Die Sehnsucht der Veronika Voss di Peter Märthesheimer e Pea Frölich, da un progetto di RWF Goethe-Institut, San Paolo, settembre 1992. In einem Jahr mit dreizehn Monden Regia: J.L. Martinelli; Théatre National de Strasbourg; Festival d’Avignon, Avignone, giugno 1995. Angst essen Seele auf
Regia: Winni Victor; Gruppe Rotwelsch; Theater am Halleschen Ufer, Berlino, gennaio 1995. Händler der vier Jahreszeiten Regia: Erich Sidler; Schauspiel, Hannover, settembre 1997. Lola di Peter Märthesheimer Regia: Armin Petras; Theater Nordhausen, gennaio 1998. Satansbraten Regia: Carsten Werner e Anke Thiessen; Junges Theater, Brema, giugno 2002. Warum läuft Herr R. Amok? di RWF e Michael Fengler Regia: Michael Thalheimer; Schauspiel, Francoforte, maggio 2003. Die Ehe der Maria Braun di Peter Märthesheimer e Pea Fröhlich, da un progetto di RWF Regia: Burkhard C. Kosminski; Düsseldorfer Schauspielhaus, Düsseldorf, ottobre 2003.
ALLESTIMENTI OPERISTICI DA FILM DI RWF Bremer Freiheit – Singspiel auf ein Frauenleben Libretto: Thomas Körner dall’omonima pièce di RWF; musica: Adriana Hölszky; Stadttheater, Stoccarda, giugno 1988. Effi Briest Libretto: RWF e Theodor Fontane; musica: Iris ter Schiphorst e Helmut Oehring; regia: Ulrike Ottinger; Oper Bonn in Forum, Bonn, maggio 2001. The Bitter Tears of Petra von Kant Libretto: dalla pièce Die bitteren Tränen der Petra von Kant di RWF; musica: Gerald Barry; National Symphony Orchestra of Ireland, Dublino, settembre 2002. Katzelmacher
Libretto: Kurt Schwertsik dall’omonima pièce di RWF; musica: Kurt Schwertsik; regia: Gerd Leo Kuck; Opernhaus, Wuppertal, giugno 2003.
RADIODRAMMI Preparadise Sorry Now Regia: RWF dalla sua pièce teatrale; messa in onda: Süddeutscher Rundfunk di Stoccarda (Sdr), 10 aprile 1970. Ganz in Weiß Regia: RWF e Peer Raben da un loro testo originale; messa in onda: Bayerischer Rundfunk di Monaco (Br), 16 ottobre 1970. Iphigenie auf Tauris von Johann Wolfgang Goethe Regia di RWF dal suo adattamento dell’opera di Goethe; messa in onda: Westdeutscher Rundfunk di Colonia (Wdr), 15 maggio 1972. Keiner ist böse und keiner ist gut – Ein Versuch über Science Fiction Regia di RWF da un suo testo originale; messa in onda: Bayerischer Rundfunk di Monaco (Br), 5 maggio 1972.
PRINCIPALI ALLESTIMENTI DI OPERE DI RWF IN ITALIA1 Le lacrime amare di Petra von Kant Traduzione: Umberto Gandini; regia: Mario Ferrero; Piccolo Eliseo, Roma, 23 aprile 1979. Libertà a Brema Traduzione: Umberto Gandini; regia: Maurizio Di Mattia e Anna Brasi; XXIV Festival dei Due Mondi, Teatro Stabile dell’Aquila, Spoleto, 4 luglio 1981. Preparadise Sorry Now
Regia: Paolo Pierazzini; Progetto Arte della Memoria, Livorno, luglio 1983. Sangue sul collo del gatto Traduzione: Umberto Gandini; adattamento e regia: Renato Giordano; Teatro Abaco, Roma, 21 novembre 1983. Kaffeehaus (La bottega del caffè) da Carlo Goldoni Traduzione: Herbert Amplatz; regia: Fabio Sartor; Teatro a l’Avogaria, Venezia, 4 aprile 1986. Lo straniero (Katzelmacher) Traduzione: Umberto Gandini; adattamento e regia: Renato Giordano; Teatro Colosseo, Roma, 11 novembre 1986. Come gocce su pietre roventi Traduzione: Luisa Gazzero Righi; regia: Marco Mattolini; Teatro di Porta Romana, Milano, 9 marzo 1986. Le lacrime amare di Petra von Kant Traduzione: Umberto Gandini; regia: Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani; Teatro dell’Elfo, Milano, 25 novembre 1988. Le lacrime amare di Petra von Kant Traduzione: Umberto Gandini; regia: Richi Ferrero e Valter Malosti; Cooperativa del Granserraglio; Teatro Juvarra, Torino, 15 marzo 1988. Libertà a Brema Traduzione: Umberto Gandini; regia: Elvira Maizzani; La DifférAnce; Teatro Quadrifoglio, Bari, 30 novembre 1988. L’amico americano Traduzione e regia: Renato Giordano; Teatro Tordinona, Roma, 16 marzo 1989. Ifigenia in Tauride da Goethe Regia: Renato Giordano; Teatro Tordinona, Roma, 12 dicembre 1989.
La bottega del caffè da Carlo Goldoni Traduzione: Ferdinando Bruni; regia: Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani; Teatro dell’Elfo, Milano, 22 ottobre 1991. Libertà a Brema Traduzione: Umberto Gandini; regia: Marco Bernardi; produzione: Teatro Stabile di Bolzano; Teatro Comunale, Imola, 22 novembre 1991. Preparadise Sorry Now Progetto e regia: Fabrizio Bertolucci e Marco Florio; Transteatro; Teatro Rossini, Pesaro, 11 febbraio 1992. I rifiuti, la città e la morte Traduzione: Roberto Menin; regia: Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani; Teatro dell’Elfo, Milano, 18 novembre 1998. Katzelmacher Traduzione: Hans Kitzmüller; adattamento e regia: Rita Maffei; Teatro San Giorgio, Udine, 19 aprile 2001. Per un pezzo di pane Traduzione: Roberto Menin; regia: Pierpaolo Sepe; Teatro De Simone, Benevento, 13 settembre 2002. Come gocce su pietre roventi Traduzione: Luisa Gazzero Righi; regia: Ferdinando Bruni; Teatro dell’Elfo, Milano, 12 gennaio 2005. Preparadise Sorry Now. Piccoli episodi di fascismo quotidiano da Preparadise Sorry Now Progetto e regia: Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande; ex Manifattura Tabacchi, Modena, 28 ottobre 2005. Das Kaffeehaus. La bottega del caffè da Carlo Goldoni Traduzione: Ferdinando Bruni; regia: Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani; Teatro dell’Elfo; Tese delle Vergini, Venezia, 27 luglio 2006. Un anno con 13 lune
Regia: Annalisa Bianco e Virgilio Liberti; Egumteatro; Festival delle Colline Torinesi; Cavallerizza Reale, Torino, 7 giugno 2007. La bottega del caffè da Carlo Goldoni Adattamento: Paolo Giorgio e Tiziano Turci; regia: Paolo Giorgio; Tieffe Filodrammatici; produzione: Band à Part e La Biennale di Venezia; Tese delle Vergini, Venezia, 24 luglio 2007. 1 Della scelta degli allestimenti italiani segnaliamo la prima
messinscena.
Note
Un bambino raggelato. 1945-1963 1 Cfr. Peter Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder. Seine Filme, seine Freunde, seine Feinde,
Bestei Lübbe, Bergisch Gladbach 1992, p. 14; cfr. anche Harry Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin. Das atemlose Leben des Rainer Werner Fassbinder, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1990. 2 La maggior parte delle pubblicazioni uscite sia quando RWF era in vita, sia poco dopo la sua morte, riporta come anno di nascita il 1946. Benché la data esatta fosse nota già dal 1980 (cfr. Stern, 1980, n. 45), l’errore fu corretto perlopiù solo dopo la morte del regista.
3 Nel 1909 Katherine Mansfield trascorse sei mesi a Bad Wörishofen; cfr. Katherine Mansfield, Una pensione tedesca, Rizzoli, Milano 2003. Il racconto fu pubblicato per la prima volta nel 1911. 4 Lituani e ucraini sono stati internati nei campi di lavoro del Reich a partire dal 1941; cfr. a questo proposito Mark Spoerer, Zwangsarbeit unter dem Hackenkreuz (t.l. Il lavoro coatto nel segno della svastica), Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart-München 2001, p. 157. 5 Un tempo polacca, la città fu sotto la giurisdizione della provincia della Prussia meridionale dal 1793 al 1807. Nel 1918 tornò a far parte della Polonia ricostituita e indipendente. Nel 1939 venne occupata dall’esercito tedesco e in seguito (la grafia nel frattempo era mutata in Kowall) fu annessa al Reich come parte del neonato circondario di Leslau, a sua volta appartenuto al Wartheland (una circoscrizione amministrativa nella Germania nazista) fino al 1945. 6 È possibile provare come l’affermazione, ampiamente diffusa nella letteratura, secondo cui
Liselotte Pempeit sarebbe nata a Schmiede nei pressi di Danzica sia falsa; cfr. a questo proposito il Bundesarchiv (Archivi federali) di Berlino (ex Berlin Document Center – Bdc), schedario degli iscritti all’Nsdap / schedario distrettuale, Pempeit, Liselotte. Qui viene indicato come luogo di nascita Kuwall (così veniva scritto il nome della cittadina negli anni 1943-45). 7 A partire dal 1920 il villaggio di Schmiede, nella Prussia occidentale, fece parte del distretto amministrativo di Kelpin per poi passare nel 1937 alla nuova circoscrizione di Schüddelkau. Oggi appartiene alla città di Danzica. L’ultimo indirizzo di Liselotte Pempeit registrato nella città sul Baltico risale al 1940, Hangweg 48 a Danzica-Zigankenberg. Cfr. a questo proposito il Bundesarchiv di Berlino (ex Bdc), schedario degli iscritti all’Nsdap / schedario distrettuale, Pempeit, Liselotte. 8 Lo studio di psicoterapia che Helmuth Fassbinder aprì nel 1991 nel quartiere di Schlenk, a Duisburg, cessò l’attività solo nel 2001, quando Helmuth aveva ottantatré anni. Cfr. l’intervista di Helmuth Fassbinder con Andreas Trabusch, «Das kurze Glück des Rainer Werner Fassbinder», in Berliner Zeitung, 8 giugno 2002. Helmuth Fassbinder è morto il 28 aprile 2010. Ringrazio per queste informazioni Rainer Franke, dell’Ordine dei medici della Renania settentrionale, 1° agosto 2011. 9 Helmuth Fassbinder cit. da Liselotte Eder, intervista con André Müller, «Der tote Sohn», in Die
Zeit, 24 aprile 1992.
10 Cfr. Helmuth Fassbinder in Trabusch, «Das kurze Glück des Rainer Werner Fassbinder», cit. 11 La clinica ostetrica si trovava in Lindenallee 5, oggi Adolf Scholz Allee 5. 12 Negli scritti su Fassbinder si sostiene spesso che i genitori abbiano voluto dare al proprio figlio il nome del loro poeta preferito, Rainer Maria Rilke (cfr. per esempio Berling, op. cit., p. 14); la madre di Fassbinder tuttavia smentì pubblicamente questa versione; cfr. Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 13 Cfr. Helmuth Fassbinder, in Trabusch, «Das kurze Glück des Rainer Werner Fassbinder», cit.
La nonna di Liselotte Fassbinder era di origini lituane.
14 Haupstadt der Bewegung, capitale del movimento, è titolo onorario conferito da Adolf Hitler a
Monaco, in riferimento alla fondazione del Partito nazionalsocialista avvenuta nel capoluogo nel 1920. L’appellativo si diffuse a partire dal 1935. [N.d.T.] 15 Klaus Mann, La svolta, il Saggiatore, Milano 1962, p. 421. 16 Anagrafe della città di Monaco, registrato il 10 agosto 1945. 17 Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 18 Dopo aver fatto coming out alla fine degli anni sessanta, Egmont Fassbinder divenne uno dei
principali attivisti dell’ambiente omosessuale e fondò nel 1978 a Berlino la casa editrice Verlag rosa Winkel [Edizioni triangolo rosa, il triangolo rosa era quello che contrassegnava gli omosessuali nei campi di concentramento nazisti; N.d.T.], primo editore di letteratura omosessuale della Germania Federale. 19 Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit.
20 RWF, intervista con Wolfgang Limmer e Fritz Rumler, «Alles Vernünftige interessiert mich
nicht», 1980, in Robert Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, Verlag der Autoren, Frankfurt am Main 2004, p. 495. 21 Ibidem. 22 Bundesarchiv di Berlino (ex Bdc), schedario degli iscritti all’Nsdap / schedario distrettuale,
Pempeit, Liselotte. La madre di Fassbinder fece richiesta di iscrizione al partito il 31 maggio 1940 e divenne membro dell’Nsdap con il numero 7747883 il 1° settembre 1940. 23 Liselotte Eder confermò che dopo il 1945 non aveva potuto lavorare come insegnante, ma non rivelò mai perché questo fosse accaduto; cfr. Christian Braad Thomsen, Rainer Werner Fassbinder. Leben und Werk eines maßlosen Genies, Rogner & Bernhard, Hamburg 1993, p. 17. 24 Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 25 Ibidem. 26 Liselotte Eder, cit., in Braad Thomsen, op. cit., pp. 16 sgg. 27 RWF, intervista con Limmer e Rumler, «Alles Vernünftige interessiert mich nicht», cit., p. 498. 28 RWF, intervista con Florian Hopf, «Meine Motivation, Filme zu machen, hat sich geändert»,
1976, in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 368.
29 RWF in una TV-Feature di Gert Ellinghaus trasmessa per la prima volta dall’emittente
radiotelevisiva HR 3 (Hessischer Rundfunk) il 21 giugno 1976.
30 Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 31 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011; cfr. a questo proposito anche JeanJacques Schuhl, Ingrid Caven, Berlin Verlag, Berlin 2003, p. 135. 32 Cfr. Helmuth Fassbinder, in Trabusch, «Das kurze Glück des Rainer Werner Fassbinder», cit. Con l’infermiera contrasse più tardi a Colonia un terzo matrimonio dal quale nacquero altri due figli. 33 Cfr. Bernd Eckhardt, Rainer Werner Fassbinder. In 17 Jahren 42 Filme-Stationen eines Lebens für den deutschen Film, W. Heyne, München 1982, pp. 59 sgg. 34 Giardino pubblico a sudovest del centro di Monaco dove si tiene l’Oktoberfest. [N.d.T.] 35 Cfr. a questo proposito le dichiarazioni del nipote di Helmuth Fassbinder, Egmont Fassbinder, in Juliane Lorenz (a cura di), Das ganz normale Chaos. Gespräche über Rainer Werner Fassbinder, Henschel, Berlin 1995, p. 416. A partire dal 1951 Helmuth Fassbinder visse in Renania, tuttavia si iscrisse presso l’Ordine dei medici del Land solo nel 1991, quando aprì uno studio di psicoterapia a Duisburg; fino ad allora non aveva più esercitato la professione medica. Sul processo intentato nei suoi confronti all’inizio degli anni cinquanta oggi non esistono documenti, essendo trascorsi i termini di conservazione. 36 Liselotte Eder, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 253. 37 Liselotte Eder, cit. in Braad Thomsen, op. cit., p. 17. 38 Cfr. Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit.
39 RWF, in Limmer e Rumler, «Alles Vernünftige interessiert mich nicht», cit., p. 494. 40 Ivi, p. 495. 41 Eckhardt, op. cit., p. 59. 42 RWF, in Limmer e Rumler, «Alles Vernünftige interessiert mich nicht», cit., p. 497. 43 I principi pedagogici antropologici e antroposofici introdotti da Rudolf Steiner, furono applicati per la prima volta nel 1919 in una scuola steineriana aperta a Stoccarda per i figli degli operai della manifattura tabacchi Waldorf. [N.d.T.] 44 Presentazione della Rudolf-Steiner-Schule Schwabing su www.waldorfschule-schwabing.de. 45 Cfr. Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 46 Ibidem. 47 Cfr. Eckhardt, op. cit., p. 58. 48 RWF, in Limmer e Rumler, «Alles Vernünftige interessiert mich nicht», cit., p. 498. 49 Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 50 RWF, cit. nella videoantologia sul cinema Gegenschuss – Aufbruch der Filmemacher, 2007. 51 RWF, in Schuhl, op. cit., p. 78. 52 RWF, 1977, in Michael Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie. Gespräche und Interviews, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1986, p. 114. 53 Cfr. Limmer e Rumler, «Alles Vernünftige interessiert mich nicht», cit., p. 497. 54 Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 55 Liselotte Eder, cit. in RWF, Im Land des Apfelbaums. Gedichte und Prosa aus den Kölner Jahren 1962/63, a cura di Juliane Lorenz e Daniel Kletke, Schirmer/Mosel, München 2005, p. 10. 56 Cfr. a questo proposito lo scritto di Fassbinder per l’esame di ammissione alla Deutsche Filmund Fernsehakademie Berlin, 1966; in Rainer Werner Fassbinder. Dichter, Schauspieler, Filmemacher. Werkschau 28.5.-19.7.1992, 2 voll., a cura della Rainer Werner Fassbinder Foundation, Berlin 1992, vol. 1, p. 59. 57 RWF, conversazioni con Corinna Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», 1973, in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 18. 58 Pagella di RWF del 1° febbraio 1958, rilasciata dall’Humanistisches Gymnasium presso l’Annakolleg ad Augsburg e pubblicato in Herbert Spaich, Rainer Werner Fassbinder. Leben und Werk, Beltz, Weinheim 1992, p. 21. 59 Lettera di Liselotte Eder a suo figlio, in RWF, Im Land des Apfelbaums, cit., p. 10. 60 Cfr. quanto afferma Liselotte Eder in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 254. 61 Cfr. a questo proposito RWF, Come gocce su pietre roventi, in Antiteatro II, ubulibri, Milano 2002, p. 45. 62 Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 63 Solo a partire dal 1° gennaio 1975 la maggiore età veniva raggiunta già a diciotto anni. 64 Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 65 Cfr. quanto afferma Liselotte Eder in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 256. 66 Bundesarchiv Berlin, schedario degli iscritti all’Nsdap / Eder, Wolff. Il patrigno di Fassbinder
chiese la tessera del partito il 10 dicembre 1937 e divenne membro dell’Nsdap retroattivamente, a partire dal 1° maggio 1937 con il numero 5228989. 67 Cfr. Peter Köpf, Schreiben nach jeder Richtung. Goebbels-Propagandisten in der westdeutschen
Nachkriegspresse, Ch.Links, Berlin 1995, p. 114.
68 Nel 1941 Wolff Eder ha lasciato il quotidiano Münchner Neuesten Nachrichten per diventare
collaboratore della rifondata München-Augsburger Abendzeitung, con la quale collaborò fino al 1945. 69 Cfr. a questo proposito il colophon di Der Spiegel del 9 aprile 1949. 70 Cfr. quanto afferma Liselotte Eder in Lorenz (a cura di), op. cit., pp. 256 sgg.
71 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 72 RWF, cit. in Lorenz, «Die wundersame Selbstbezwingung des frühen Rainer Werner
Fassbinder», in RWF, Im Land des Apfelbaums, cit., p. 12.
73 Cfr. a questo proposito quanto sostiene Irm Hermann in Kurt Raab e Karsten Peters, Die
Sehnsucht des Rainer Werner Fassbinder, Bertelsmann, München 1982, p. 304.
74 Cfr. Lorenz, «Die wundersame Selbstbezwingung des frühen Rainer Werner Fassbinder», in
RWF, Im Land des Apfelbaums, cit., p. 9. 75 Ivi, p. 13.
76 Gisela Fassbinder (1915-2003) sembra aver recitato soltanto in Preußische Liebesgeschichte, un
film drammatico del 1938 di cui il ministro per la Propaganda Goebbels aveva vietato la diffusione, dopo che era stata resa pubblica la sua relazione con l’attrice Lída Baarová, protagonista della pellicola. Il film arrivò nei cinema solo nel 1950 con il titolo Liebeslegenden. 77 Sul mercato antiquario non si trovano libri del Kurfürsten-Verlag. 78 Das Leben ist ein Kampf (La vita è una lotta, 1961-62) è il titolo di una poesia che si trova nel
volume Im Land des Apfelbaums, cit., p. 45.
79 Su Helmuth Fassbinder cfr. la conversazione con Egmont Fassbinder in Lorenz (a cura di), op.
cit., pp. 415 sgg; cfr. anche Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit.
80 Trabusch, «Das kurze Glück des Rainer Werner Fassbinder», cit.; cfr. a questo proposito anche
Die Tageszeitung del 28 novembre 2002.
81 RWF, 1969, cit. in Braad Thomsen, op. cit., p. 19. 82 Liselotte Eder, ivi, p. 18. 83 Trabusch, «Das kurze Glück des Rainer Werner Fassbinder», cit. Nel 1981 Fassbinder sembra aver lavorato a una Fedra che poi rimase incompiuta, in cui si raccontava di un padre e di un figlio che s’innamoravano della stessa donna e che sviluppavano in questo modo un affetto reciproco, che prima non era mai stato possibile tra loro. 84 RWF, 1981, in Wolfgang Limmer, Rainer Werner Fassbinder. Filmemacher, Rowohlt, Reinbek 1981,
p. 76.
85 Holger Kreitling e Britta Stuff, «Unser Mann in Hollywood oder Der berühmteste
Nebendarsteller der Welt», in Welt am Sonntag, 20 febbraio 2011.
86 Cfr. Werner Schroeter, Tage im Dämmer, Nächte im Rausch. Autobiographie, Aufbau, Berlin 2011,
p. 138.
87 Udo Kier nell’intervista con Dietrich Kuhlbrodt, «Das Leben war die Ausbildung», in
www.filmzentrale.com.
88 Cfr. a questo proposito l’intervista di Ingrid Caven con Katja Nicodemus, «Man kann uns nicht
einfach ausradieren», in Die Zeit, 24 maggio 2007. Cfr. anche Raab e Peters, op. cit., pp. 63 sgg., e anche Walter Bockmayer, Flammende Herzen. Mein Leben, Deutscher Taschenbuch Verlag, München 2005, p. 213. 89 RWF, 1981, in Limmer, op. cit., p. 65. 90 RWF, 1981, ivi, p. 66.
91 Montaigne, Essays, III, 10. La citazione, così trasformata, si trova in apertura del film di Godard. 92 RWF, Im Land des Apfelbaums, cit., p. 41. 93 RWF, 1974, in Töteberg (a cura di), op. cit., p. 52. 94 RWF, Im Land des Apfelbaums, cit. 95 RWF, in Limmer e Rumler, «Alles Vernünftige interessiert mich nicht», cit., pp. 498 sgg. 96 Cfr. Helmuth Fassbinder in Trabusch, «Das kurze Glück des Rainer Werner Fassbinder», cit. 97 Cfr. Udo Kier nell’intervista con il settimanale Welt am Sonntag: Holger Kreitling e Britta Stuff,
«Unser Mann in Hollywood oder Der berühmteste Nebendarsteller der Welt», cit.
98 Cfr. Berling, op. cit., p. 20. Cosa che confermò anche l’amico di Fassbinder, Michael Fengler,
nell’intervista con l’autore del 23 luglio 2011. 99 Ivi, p. 19.
100 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 101 RWF, 1981, cit. in Limmer, op. cit., p. 43. 102 Di madri che respingono i figli, nei film di Fassbinder, ce ne sono spesso, per esempio in Der amerikanische Soldat.
Una deviazione, passando per il teatro. 1963-1969 1 RWF, «Hanna Schygulla», in Hanna Schygulla. Bilder aus Filmen von Rainer Werner Fassbinder,
Schirmer/Mosel, München 1981, p. 172.
2 Come conferma lo stesso RWF: «È stato solo un passaggio prima di poter fare i miei film». RWF,
1981, in Limmer, op. cit., p. 64.
3 RWF, «Hanna Schygulla», cit., p. 172. 4 Il contratto tra RWF e Max Krauss del 17 settembre 1963 è riprodotto in Spaich, op. cit., p. 27. 5 Cfr. Eckhardt, op. cit., p. 64. [I Münchner Kammerspiele sono il principale teatro della città di
Monaco (uno dei più importanti della Germania) fondato nel 1912. N.d.T.] 6 RWF, «Hanna Schygulla», cit., p. 171. 7 Ibidem.
8 Hanna Schygulla lo venne a sapere soltanto quando il regista, nel 1981, scrisse la postfazione «Hanna Schygulla» al libro fotografico Hanna Schygulla. Bilder aus Filmen von Rainer Werner Fassbinder pubblicato dalla casa editrice Schirmer/Mosel. 9 L’amico citato era il compagno di allora di Fassbinder, Christoph Rosen. 10 RWF, «Hanna Schygulla», cit., p. 174. 11 Ivi, p. 173. 12 Per la biografia della Schygulla cfr. Hanna Schygulla, «Ein autobiographischer Text», in Hanna Schygulla. Bilder aus Filmen von Rainer Werner Fassbinder, cit., pp. 9 sgg. 13 Ivi, p. 23: «Non mi sopporto. Voglio diventare qualcosa d’altro». 14 Ivi, p. 14. 15 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 16 Ibidem. 17 Rosa von Praunheim, 50 Jahre pervers. Die sentimentalen Erinnerungen, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1993, p. 73. 18 Traduzione libera. [N.d.T.] 19 Irm Hermann nel programma televisivo Alpha-Forum del Bayerischer Rundfunk, 4 dicembre 2009. 20 Ibidem. 21 Irm Hermann nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, 2000. 22 Irm Hermann, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 46. 23 Irm Hermann, cit. in Berling, op. cit., p. 32. 24 Ivi, p. 37. 25 L’espressione è citata da Irm Hermann nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di
Rosa von Praunheim, cit. 26 Ibidem.
27 Ibidem. 28 Irm Hermann, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 47. 29 Irm Hermann nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 30 Ursula Strätz, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 56. 31 Molly von Fürstenberg collaborò più tardi con l’antiteater e per la casa di produzione di Fassbinder Tango Film; in seguito lavorò con il Filmverlag der Autoren. Nel 1974 la produttrice si rese autonoma fondando la ditta Olga Film, che esiste tuttora. 32 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 33 Ibidem. 34 Ibidem. 35 Ibidem. Fengler aveva visto il film di Resnais con Fassbinder. 36 RWF, Per un pezzo di pane, in Antiteatro II, cit., p. 23. 37 Irm Hermann nel programma televisivo Alpha-Forum del Bayerischer Rundfunk, 4 dicembre
2009.
38 Il primo premio non fu attribuito. Il secondo premio andò allo scrittore Gert Heidenreich, il
terzo premio fu dato ex aequo a Rainer Werner Fassbinder e allo scrittore Wolfgang Petzet. 39 Michael Fengler, cit. in Berling, op. cit., p. 27. 40 I giudizi di Erwin Leiser e Peter Lilienthal si trovano in Hans Helmut Prinzler, «Die
Bewerbung», in Rainer Werner Fassbinder. Dichter, Schauspieler, Filmemacher…, cit., vol. 1, p. 58. 41 Ibidem. 42 In questo caso era stato scelto il racconto breve Der Kleine-Mädchen-Fresser (Il divoratore di
fanciulle) di Septimus Dale.
43 Lo conferma anche Michael Ballhaus, che a partire dal 1968 teneva un corso di operatore di
ripresa presso la Berliner Filmhochschule; cfr. Ballhaus, Das fliegende Auge. Im Gespräch mit Tom Tykwer, Berlin 2002, p. 25. 44 RWF, «Hanna Schygulla», cit., p. 174. 45 Daniel Schmid, regista svizzero, figlio di albergatori grigionesi, era cresciuto in un grand
hotel. Incontrò Fassbinder negli anni sessanta a Berlino, dove era andato per studiare cinema, e ne divenne collaboratore e grande amico. [N.d.T.] 46 Daniel Schmid, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 17. 47 Cfr. Werner Herzog nella videoantologia sul cinema Gegenschuss – Aufbruch der Filmemacher,
cit.
48 Irm Hermann nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 49 RWF a colloquio con Frank Ripploh, cit. in Töteberg (a cura di), op. cit., p. 191. 50 Cfr. a questo proposito il curriculum autografo di Fassbinder del 26 luglio 1967 pubblicato in Spaich, op. cit., p. 20. [Bruno Jori (Merano, 1922-1970) iniziò la carriera di regista lavorando come assistente di Fellini, successivamente realizzò diversi documentari premiati in prestigiose rassegne internazionali. A Lipsia vinse il premio dedicato a Flaherty con il suo lungometraggio più apprezzato: Bagnolo in piano. Paese fra il rosso e il nero. La sua ultima opera presentata a un concorso (il documentario a cui Fassbinder collaborò come assistente) risultò addirittura inaccettabile per quei tempi: vi si parlava apertamente di prostituzione in Veneto. Jori anticipò il documentarioverità, che sarebbe poi diventato l’apice della televisione di qualità. N.d.T.] 51 Richard R. Rimmel cit. in Ralf Schenk, «Rainer, die Mädchen und die Nonnen», in Berliner Zeitung, 12 luglio 2007. 52 RWF, «Hanna Schygulla», cit., p. 172. 53 Sempre nel 1966, Fassbinder aveva fatto un altro tentativo di lavorare come assistente alla
regia nel film di Max Willutzki Ein Platz für G. 54 RWF, «Hanna Schygulla», cit., p. 172.
55 Non corrisponde alla realtà l’asserzione che ricorre in tutte le pubblicazioni su Fassbinder,
secondo cui il cortometraggio Der Stadtstreicher sarebbe stato girato in 16 mm, come conferma anche Michael Fengler (presente durante le riprese) nell’intervista con l’autore del 23 luglio 2011. Anche il giudizio della Filmbewertungsstelle di Wiesbaden del 2 maggio 1967 dimostra chiaramente che il film è stato girato in 35 mm. 56 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 57 Commissione oggi nota come Deutsche Film- und Medienbewertung (Fbw); nata per volontà del ministero della Cultura tedesco nel 1951, si incarica di esaminare film di finzione e documentari per poi emettere certificati di qualità. [N.d.T.] 58 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 17. Questo giudizio sul film di Fassbinder fu ripreso acriticamente in molti libri, cfr. per esempio Michael Töteberg, Rainer Werner Fassbinder, Rowohlt, Reinbek 2002, p. 27. 59 Giudizio della Filmbewertungsstelle Wiesbaden, esame numero 11709, del 2 maggio 1967. 60 Cfr. RWF, intervista con Wilfried Wiegand, «Ich weiß über nichts, als über den Menschen Bescheid», 1974, in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, Verlag der Autoren, Frankfurt am Main 2004, p. 278. 61 Herbert Spaich sostiene, senza indicare fonti, che Roser aveva incaricato il noto avvocato Rolf Bossi di procedere contro Fassbinder, cosa che aveva portato a un compromesso, secondo il quale Fassbinder avrebbe ricomprato da Roser i diritti sui suoi due cortometraggi versandogli 20mila marchi (cfr. Spaich, op. cit., p. 29). Kurt Raab e Peer Raben sapevano tuttavia che Roser non aveva mai più rivisto i suoi soldi (cfr. Raab e Peters, op. cit., p. 99); parere che è stato confermato anche da Michael Fengler nell’intervista con l’autore del 23 luglio 2011. 62 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 63 La pièce è stata pubblicata nel volume Anarchie in Bayern und andere Stücke nel 1985 (Verlag
der Autoren, Frankfurt am Main). Nello stesso anno è stata rappresentata per la prima volta all’interno del Münchner Theater Festival. 64 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 65 Michael Graeter, Extrablatt. Autobiographie, Langer Müller, München 2009, p. 94. 66 Cfr. Wim Wenders nella videoantologia Gegenschuss – Aufbruch der Filmemacher, cit.
67 Si tratta della sceneggiatura di Tischtennis e di Das dreißigste Jahr, scritta a quattro mani con l’attrice Susanne Schimkus, anche lei in concorso per l’ammissione alla Filmakademie. 68 Prinzler, «Die Bewerbung», cit., vol. 1, p. 59 e p. 76. 69 Nonostante le voci che sostengono che Fassbinder si sia presentato al concorso dell’Hff di Monaco, negli archivi dell’accademia non si trovano i suoi moduli d’iscrizione. 70 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 71 RWF, 1969, cit. da Daniel Schmid in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 21. 72 Intervista dell’autore con Yaak Karsunke, 20 luglio 2011. 73 Si trattava dello studio Zinner, fondato nel 1957 da Ellen Zinner, diventato più tardi
Münchner Schauspielstudio e dal 2002 noto come Schule für Schauspiel und Acting.
74 Ursula Strätz nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 75 Ursula Strätz, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 51. 76 La prima pièce rappresentata dall’Action-Theater (marzo del 1967) è stata Jacques ovvero la
sottomissione di Eugène Ionesco, che venne replicata più di ottanta volte. La successiva, la commedia di Peter Handke Insulti al pubblico. 77 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 19. 78 Ibidem. 79 Peer Raben, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 64.
80 Ursula Strätz nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 81 Raab e Peters, op. cit., p. 100.
82 Ibidem. 83 Cfr. Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 24. 84 Cfr. Irm Hermann nel programma televisivo Alpha-Forum del Bayerischer Rundfunk, 4
dicembre 2009.
85 Peer Raben, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 65. 86 In merito alla biografia di Heine Schoof cfr. Heine Schoof, Erklärung, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1971, pp. 207 sgg. 87 RWF in seguito offrì a Marite Greiselis una parte in un suo radiodramma ma lei rifiutò. Marite Greiselis non è più apparsa in pubblico. 88 RWF, 1967, cit. da Doris Mattes nell’intervista con l’autore del 18 luglio 2011. 89 Schygulla, «Ein autobiographischer Text», cit., p. 26. 90 Ivi, p. 28. 91 Intervista dell’autore con Rudolf Waldemar Brem, 15 luglio 2011. 92 Tra costoro c’erano per esempio Dieter Aurich, Anatol von Gardner, Peter J. Heinrich e anche Kristin Peterson, che se ne andò però soltanto nel 1968. Fassbinder stesso parla di «sei colleghi», che «sparirono per sempre»; cfr. RWF, «Hanna Schygulla», cit., p. 182. 93 Peer Raben, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., pp. 65 sgg. 94 Raab e Peters, op. cit., p. 101. 95 La regia di questo allestimento in un primo tempo era affidata a Klaus Lemke, ma Ursula
Strätz cambiò parere e fece mettere in scena la pièce a Fassbinder. 96 Süddeutsche Zeitung del 9 ottobre 1967. 97 Peer Raben, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 67. 98 Intervista dell’autore con Yaak Karsunke, 20 luglio 2011.
99 Intervista dell’autore con Rudolf Waldemar Brem, 15 luglio 2011. 100 Irm Hermann nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 101 Ursula Strätz nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 102 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 51. 103 Ursula Strätz nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 104 Cfr. Raab e Peters, op. cit., p. 132. 105 Intervista dell’autore con Doris Mattes, 18 luglio 2011. Anche Kurt Raab metteva in relazione
l’alcolismo di Ursula Strätz con le sue difficoltà nel rapporto con Fassbinder; cfr. Raab e Peters, op. cit., p. 128. Ursula Strätz confermò espressamente la sua pesante dipendenza dall’alcol, durata decenni, nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 106 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 48. 107 Ivi, p. 51. 108 Irm Hermann nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 109 Ibidem. 110 Ursula Strätz, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 57. 111 Intervista dell’autore con Doris Mattes, 18 luglio 2011. 112 La Rote Armee Fraktion (Frazione armata rossa), gruppo armato di estrema sinistra, fu fondata il 14 maggio 1970 da Andreas Baader, Ulrike Meinhof, Gudrun Ensslin e Horst Mahler. Fu attiva fino al 1993 e formalmente disciolta nel 1998. [N.d.T.] 113 Mentre Stefan Aust sostiene che Horst Söhnlein fosse un vecchio amico di Baader (Stefan Aust, Rote Armee Fraktion. Il caso Baader-Meinhof, il Saggiatore, Milano 2009, p. 58), Thorwald Proll lo nega: «Io non lo conoscevo e credo che nemmeno Andreas lo conoscesse»; cfr. Thorwald Proll e Daniel Dubbe, Wir kamen vom anderen Stern. Über 1968, Andreas Baader und ein Kaufhaus, Edition
Nautilus, München 2010, p. 13. Cfr. anche Klaus Stern e Jörg Hermann, Andreas Baader. Das Leben eines Staatsfeindes, Dtv, München 2007, p. 99. 114 Il 15 luglio 2011, in un’intervista con l’autore, Rudolf Waldemar Brem ha confermato: «Posso
giurare che Baader e Horst Söhnlein si conoscevano: frequentavamo sempre tutti la stessa osteria, il Chez Margot». Anche Doris Mattes l’ha ribadito: «Baader e la Ensslin andavano e venivano con disinvoltura dall’Action-Theater fin dall’inizio», intervista con l’autore, 18 luglio 2011. 115 Informazione data da Thorwald Proll all’autore il 18 luglio 2011. 116 Cfr. Raab e Peters, op. cit., p. 108. 117 Cfr. Der Spiegel dell’8 aprile 1968. 118 Cfr. Ursula Strätz nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim,
cit.
119 Aust, op. cit., p. 58. 120 Dopo quattordici mesi di carcere i quattro attentatori furono lasciati a piede libero fino alla
decisione sull’istanza di revisione della sentenza. Contrariamente agli altri tre, immediatamente partiti per la Francia, Horst Söhnlein, dopo che l’istanza di revisione venne respinta, nella primavera del 1970 si presentò spontaneamente alle autorità per scontare la pena. Nell’autunno del 1970 si consegnò anche Proll, mentre Baader e la Ensslin scelsero la clandestinità e diedero vita alla Raf. 121 Raab e Peters, op. cit., p. 108. 122 Süddeutsche Zeitung, cit. in Eckhardt, op. cit., p. 72. 123 Cfr. a questo proposito Ursula Strätz, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 58.
124 Doris Mattes nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 125 Ursula Strätz nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 126 Axel Cäsar Springer, editore, diresse il più importante gruppo editoriale della Germania. Nel 1968 fu duramente attaccato dai movimenti giovanili di sinistra e, in seguito al rapporto di una commissione del ministero degli Interni, che giudicò inopportune le concentrazioni editoriali che controllassero oltre il venti per cento della stampa quotidiana e periodica, Springer cedette (196869) una parte delle proprie azioni ad altre case editrici. Costituitosi nel 1970 in società per azioni, il gruppo Springer è uno dei più grossi produttori di periodici, sia quotidiani (Bild, dal 1952; Die Welt, dal 1953; Berliner Morgenpost, dal 1956), sia settimanali (Welt am Sonntag, dal 1953; Bild am Sonntag, dal 1954; B. Z. am Sonntag, dal 1992), e di riviste specializzate; controlla parzialmente numerose stazioni radio e reti televisive private e partecipa alla produzione e distribuzione cinematografica. Cfr.: Enciclopedia Treccani s.v. Springer, Axel Cäsar. [N.d.T.] 127 Cfr. Hans-Peter Schwarz, Axel Springer. Die Biographie, Propyläen, Berlin 2008, pp. 425 sgg. 128 Cit. da Yaak Karsunke nell’intervista con l’autore del 20 luglio 2011. 129 Le Deutsche Notstandsgesetze, introdotte nel maggio 1968, assicuravano allo stato la possibilità di intervenire in situazioni di crisi. Esse prevedevano interventi in materia economica e sindacale che limitavano in modo drastico alcuni diritti fondamentali del cittadino. 130 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 73. 131 RWF, 1969, cit. in Peter Jansen e Wolfram Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1992, p. 13. 132 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 83. 133 Intervista dell’autore con Doris Mattes, 18 luglio 2011. 134 RWF, intervista con Joachim von Mengershausen, «Unsere Vorstellungen von Anarchie
haben nichts mit Chaos zu tun», 1969, in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 199. 135 La pièce, che si basa sul film poliziesco di Irving Lerner Murder by Contract, non è identica al
successivo film di Fassbinder Der amerikanische Soldat. La sola cosa che le due opere hanno in comune è la figura di un killer professionista. 136 Süddeutsche Zeitung, cit. in Eckhardt, op. cit., p. 71. 137 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 109.
138 Raab e Peters, op. cit., p. 114. 139 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 86. 140 Michael Fengler, cit. in Berling, op. cit., p. 60. 141 Peer Raben, cit. in Raab e Peters, op. cit., pp. 102 sgg. 142 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 45. 143 Raab e Peters, op. cit., p. 105. 144 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 39. 145 Ivi, p. 107. 146 RWF, cit. in Jansen e Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, edizione aggiornata, Carl
Hanser Verlag, München-Wien 1983, p. 10. 9.
147 RWF, cit. in Michael Töteberg (a cura di), Die Kinofilme 1, Schirmer/Mosel, München 1987, p. 148 Heide Simon, «Er hat das Theater verraten, seine erste Liebe, und das Theater hat ihn
verraten. Über Rainer Werner Fassbinder», in Theater heute, 1983, anno XXIV, n. 6, pp. 26 sgg. 149 Intervista dell’autore con Rudolf Waldemar Brem, 15 luglio 2011.
Il ragazzo prodigio del cinema tedesco. 1969-1970 1 Il progetto aveva diversi titoli di lavoro. Quando RWF cominciò a scrivere la sceneggiatura, il film doveva chiamarsi Kalter Stahl, più tardi il titolo divenne Gangster – Nachrichten aus einer neuen Welt, poi Kälter als der Tod. Quando il film giunse nelle sale, nel 1970, il titolo era Liebe ist kälter als der Tod. 2 Intervista dell’autore con Yaak Karsunke, 20 luglio 2011. 3 Fassbinder e Lommel erano andati a vedere il western all’italiana Quien Sabe? di Damiano Damiani. 4 RWF, cit. in Ulli Lommel, Zärtlichkeit der Wölfe. Begegnungen und Geschichten, belleville, München 2009, p. 173. 5 Così veniva chiamato l’aviatore Ernst Udet, ritratto da Carl Zuckmayer in un dramma di grande successo del dopoguerra tedesco. La pièce divenne in seguito un film diretto da Helmut Käutner. [N.d.T.] 6 Ulli Lommel, intervista con Sven Michaelsen, «Ich hätte mir Bianca nie ausgesucht», in Der Spiegel, 22 febbraio 2010. 7 RWF, 1969, cit. da Ulli Lommel nel documentario Du liebst mich sowieso! di Robert Fischer, 2002, con Ulli Lommel e Hanna Schygulla, presente come contenuto speciale nel dvd Liebe ist kälter als der Tod, e-m-s, 2002. 8 Si trattava del film di Franz Peter Wirth Al Capone im deutschen Wald (1969). 9 RWF, in von Mengershausen, «Unsere Vorstellungen von Anarchie haben nichts mit Chaos zu tun», cit., p. 199. In questa intervista precoce cita correttamente Eva Madelung come mecenate del suo primo film, mentre in un’intervista successiva, del 1981, si sbaglia e parla, a questo proposito, di Hanna Axmann-Rezzori. Eva Madelung ebbe un piccolo ruolo nel film Perché il signor R. è colto da improvvisa follia? del 1970. 10 Cfr. Peer Raben, cit. in von Mengershausen, «Unsere Vorstellungen von Anarchie haben
nichts mit Chaos zu tun», cit., p. 201. 11 Ivi, p. 181. 12 Ivi, p. 182. 13 Lommel, op. cit., p. 179. 14 Ivi, p. 11.
15 Hanna Schygulla, in Du liebst mich sowieso!, cit.
16 RWF, in von Mengershausen, «Unsere Vorstellungen von Anarchie haben nichts mit Chaos zu
tun», cit., p. 201.
17 Intervista dell’autore con Rudolf Waldemar Brem, 15 luglio 2011. 18 RWF, «Hanna Schygulla», cit., p. 184. 19 Lommel, op. cit., p. 178. 20 Il nome dell’operatore non si conosce. 21 Hanna Schygulla, in Du liebst mich sowieso!, cit. 22 RWF, cit. da Ulli Lommel in Du liebst mich sowieso!, cit. 23 RWF, 1969, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 31. 24 RWF, 1969, nel documentario Ende einer Kommune? di Joachim von Mengershausen, 1970. 25 Dietrich Lohmann nel documentario Ich will nicht nur, dass ihr mich liebt di Hans Günther Pflaum, 1993. 26 Joachim von Mengershausen sulla Süddeutsche Zeitung, giugno 1969, cit. in Berling, op. cit., p.
70.
27 Der Spiegel, 23 giugno 1969. 28 Cfr. Limmer, op. cit., p. 66. 29 Der Spiegel, 7 luglio 1969. 30 RWF, 1969, intervista con Helmut Färber, Urs Jenny, Wilhelm Roth e Joachim von
Mengershausen, «Revolution im Privaten», in Robert Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 219. 31 RWF, 1969, in von Mengershausen, Ende einer Kommune?, cit. 32 Ulli Lommel in Du liebst mich sowieso!, cit. 33 RWF, in von Mengershausen, «Unsere Vorstellungen von Anarchie haben nichts mit Chaos zu tun», cit., p. 186. 34 RWF, 1969, cit. da Ulli Lommel in Du liebst mich sowieso!, cit. 35 Due superbi esempi di Trümmerfilme (film dedicati al tema della distruzione nella Germania postbellica). Il primo fu diretto nel 1946 da Wolfgang Staudte, il secondo nel 1947 da Harald Braun. Esemplare nell’ambito del cosiddetto «cinema delle macerie» è il film di Roberto Rossellini Germania anno zero, 1948, una coproduzione italo-tedesco-francese. [N.d.T.] 36 Billy Wilder, «Propaganda durch Unterhaltung», in Stiftung Deutsche Kinemathek (a cura di), Das Jahr 1945 und das Kino, Berliner Festspiele, Berlin 1995, p. 86. 37 Will Tremper, Meine wilden Jahre, Ullstein, Berlin 1993, p. 249. 38 Cfr. Jürgen Trimborn, Der deutsche Heimatfilm der fünfziger Jahre. Motive, Symbole und Handlungsmuster, Teiresias, Köln 1999. 39 Primi due lungometraggi di Hans Deppe, il più rappresentativo regista del filone Heimatfilm. [N.d.T.] 40 Hellmuth Karasek, Go west! Eine Biographie der 50er Jahre, Koch, Neff & Oetinger & Co., Hamburg 1996, p. 237. 41 Johannes Heesters, Ich bin gottseidank nicht mehr jung, Edition Ferenczy-Bruckmann, München 1993, p. 170. 42 Dal Manifesto di Oberhausen, cit. in Anton Kaes, «Der Neue Deutsche Film», in Geoffrey Nowell-Smith (a cura di), Geschichte des internationalen Films, Metzler, Stuttgart-Weimar 1998, p. 567. 43 Ibidem. 44 Per la maggior parte degli studiosi di cinema la storia del Nuovo cinema tedesco termina con la morte di Fassbinder, nel maggio del 1982. 45 RWF, «Hanna Schygulla», cit., p. 174.
46 Ivi, p. 175. 47 RWF, cit. in Baer, op. cit., p. 22. 48 Termine spregiativo austro-bavarese affibbiato soprattutto in passato agli immigrati originari
dell’Europa meridionale e in particolar modo agli italiani. [N.d.T.] 49 Intervista dell’autore con Elga Sorbas, 14 luglio 2011.
50 Intervista dell’autore con Rudolf Waldemar Brem, 15 luglio 2011. 51 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 130. 52 Wim Wenders, 1969, in Emotion Pictures. Essays und Filmkritiken, Verlag der Autoren, Frankfurt am Main 1986, p. 48. 53 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 187. 54 RWF, 1966, cit. in Prinzler, «Die Bewerbung», cit., p. 61. 55 Intervista dell’autore con Elga Sorbas, 14 luglio 2011. 56 Intervista dell’autore con Hans Hirschmüller, 23 agosto 2011. 57 David Wilson, «Anti-cinema Rainer Werner Fassbinder», in Sight and Sound, 1972, vol. 41, n. 2,
cit. in Eckhardt, op. cit., p. 87.
58 Si trattava dei 650mila marchi del Bundesfilmpreis, nonché dei 300mila che aveva ottenuto
come incentivo dal ministero.
59 RWF, cit. in Baer, op. cit., p. 24. 60 Ivi, p. 19. 61 Cfr. Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 62 RWF, cit. in Jansen e Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, 1983, cit., p. 64. 63 Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 64 RWF, 1981, cit. in Eckhardt, op. cit., p. 61. 65 RWF, 1981, cit. in Limmer, op. cit., p. 54. 66 Töteberg, Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 25. 67 Baer, op. cit., p. 29. 68 Thea Eymèsz, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 168. 69 Cfr. per esempio Michael Töteberg, «“Der Betrieb braucht einen wie mich”: Rainer Werner Fassbinder und der Neue Deutsche Film», in Uli Jung (a cura di), Der deutsche Film. Aspekte seiner Geschichte von den Anfängen bis zur Gegenwart, Wissenschaftlicher Verlag Trier, Trier 1993, p. 237; Berling, op. cit, p. 107; Hans Günther Pflaum, Rainer Werner Fassbinder. Bilder und Dokumente, Spangenberg, München 1992, p. 21. 70 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 71 RWF, intervista con John Hughes e Brooks Riley, «Ein neuer Realismus», 1975, in Fischer (a
cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 349.
72 Cfr. RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 114 e p. 148. 73 RWF, cit. in Jansen e Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, 1983, cit., p. 132. 74 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 75 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 145 76 RWF, 1971, cit. in Jansen e Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, 1983, p. 133. 77 Cfr. Spaich, op. cit., p. 302: «Ho imparato a fare film, facendoli». 78 RWF, cit. in Pflaum, op. cit., p. 20. 79 RWF, 1974, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit.,
p. 65.
80 Intervista dell’autore con Herbert Paetzold, 19 luglio 2011.
81 Dietrich Lohmann, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 155. 82 Intervista dell’autore con Yaak Karsunke, 20 luglio 2011. 83 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 41. 84 Hilmar Thate, Neulich, als ich noch Kind war. Autobiographie, Bastei Lübbe, Bergisch Gladbach 2006, p. 211. 85 Lommel, op. cit., p. 11. 86 RWF, 1976, cit. in Pflaum, Rainer Werner Fassbinder. Das bißchen Realität, das ich brauche. Wie Filme entstehen, Carl Hanser Verlag, München 1979, p. 46. 87 Intervista dell’autore con Rudolf Waldemar Brem, 15 luglio 2011. 88 Dietrich Lohmann, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 153. 89 Peter Märthesheimer, «Das forschende Kind», in Hans Günther Pflaum (a cura di), Jahrbuch Film 82-83. Berichte, Kritiken, Daten, Carl Hanser Verlag, München 1982, p. 18. 90 Schuhl, op. cit., p. 132.
Ormai mi posso permettere un sacco di cose. 1970-1971 1 Più tardi fu anche responsabile del suono per Il mondo sul filo, un film in due parti girato da Fassbinder per la televisione. 2 Peer Raben, cit. in Raab e Peters, op. cit., p. 115. 3 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 139. 4 Günther Kaufmann e Gabriele Droste, Der weiße Neger vom Hasenbergl, Diana, München 2004, p.
119
5 RWF, in von Mengershausen, «Unsere Vorstellungen von Anarchie haben nichts mit Chaos zu tun», cit., p. 193. 6 Kurt Raab, cit. in Eckhardt, op. cit., p. 26. 7 Irm Hermann parla dei suoi complessi di inferiorità nel documentario Du liebst mich sowieso!,
cit.
8 Irm Hermann, cit. in Raab e Peters, op. cit., p. 298. 9 RWF, 1981, cit. in Limmer, op. cit., p. 83. 10 RWF, cit. in Rainer Langhans, Ich bin’s. Die ersten 68 Jahre, Blumenbar, München 2008, p. 132.
Cfr. a questo proposito anche Raab e Peters, op. cit., pp. 83 sgg. 11 Raab e Peters, op. cit., p. 81. 12 Irm Hermann, cit. in Berling, op. cit., p. 94. 13 RWF, cit. in Baer, op. cit., p. 24.
14 Irm Hermann nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 15 Ibidem. 16 Irm Hermann, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 48. 17 La pièce era l’allestimento di Fassbinder di Bibi a Bochum; la produzione in cui Irm Hermann
non poté lavorare per punizione era il secondo episodio della pellicola per la televisione Il mondo sul filo; cfr. Berling, op. cit., p. 204. 18 Cfr. la dichiarazione di Irm Hermann in Raab e Peters, op. cit., p. 301. 19 Irm Hermann, ivi, p. 299. 20 Thea Eymèsz, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 173. 21 Ballhaus, op. cit., p. 52. 22 Hanna Schygulla, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 35. 23 RWF, «Hanna Schygulla», cit., p. 174.
24 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 29. 25 RWF, «Hanna Schygulla», cit., p. 178. 26 Ivi, p. 186. 27 RWF, 1981, in Limmer, op. cit., pp. 84 sgg. 28 Ballhaus, op. cit., p. 39. 29 Ingrid Caven, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 86. 30 Langhans, op. cit., pp. 130 sgg. 31 Peer Raben, cit. in Raab e Peters, op. cit., p. 116. 32 RWF, cit. in Baer, op. cit., p. 27. 33 Norbert Thomas, «Säufer und Genie», in Stern, 16 agosto 1970, n. 34. 34 Intervista dell’autore con Doris Mattes, 18 luglio 2011. Cfr. a questo proposito Irm Hermann
nel programma televisivo Alpha-Forum del Bayerischer Rundfunk, 4 dicembre 2009. 35 Intervista dell’autore con Herbert Paetzold, 19 luglio 2011. 36 Baer, op. cit., p. 23. 37 Cfr. Eckhardt, op. cit., p. 13. 38 Ibidem.
39 Cfr. un’affermazione di Fabrizio Cereghini sulla Süddeutsche Zeitung dell’8 febbraio 1997. 40 Volker Elis Pilgrim, Muttersöhne, Rowohlt, Reinbek 1989, p. 183. 41 Intervista dell’autore con Herbert Paetzold, 19 luglio 2011. 42 Raab e Peters, op. cit., p. 49. 43 Volker Schlöndorff nel documentario Ich will nicht nur, dass ihr mich liebt di Hans Günther
Pflaum, cit.
44 RWF, 1971, cit. in Eckhardt, op. cit., p. 105. 45 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011. 46 Baer, op. cit., p. 23. 47 Abendzeitung, 16 giugno 1970, cit. in Berling, op. cit., p. 78. 48 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 49 Harry Baer, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 96. 50 RWF, intervista con Bion Steinborn e Rüdiger von Naso, «Ich bin das Glück dieser Erde», 1982,
in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 601.
51 Cfr. Eva Mattes, Wir können nicht alle wie Berta sein. Erinnerungen, Ullstein, Berlin 2011, p. 69. 52 Berling, op. cit., p. 113. 53 Cfr. Raab e Peters, op. cit., p. 155. 54 Peter Berling nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 55 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 56 RWF, in von Mengershausen, «Unsere Vorstellungen von Anarchie haben nichts mit Chaos zu tun», cit., p. 202. 57 Peer Raben, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 73. 58 Harry Baer, ivi, p. 104. 59 Intervista dell’autore con Peter Kern, 15 luglio 2011. 60 Cfr. Jennifer Köllen, «Rudolf Waldemar Brem: Fassbinders Maskottchen», in Abendzeitung, 26
gennaio 2011. Nell’intervista Rudolf Waldemar Brem afferma: «Credo che Rainer si fosse un po’ innamorato di me». 61 Intervista dell’autore con Hans Hirschmüller, 23 agosto 2011.
62 Cfr. Langhans, op. cit., p. 128 63 Leder, in tedesco, «pelle», «cuoio». I Lederlokale erano locali frequentati da omosessuali amanti
dell’abbigliamento in pelle in voga in Germania a partire dai primi anni settanta. Querelle (l’ultimo film di Fassbinder, 1982) diventerà l’icona dell’estetica leather e ne favorirà la diffusione in Italia e in tutta Europa. [N.d.T.] 64 Berling, op. cit., p. 155. 65 Cfr. RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 48. 66 Nelle conversazioni con Corinna Brocher RWF confermò che nel maggio del 1968, dopo la
prima di Axel Cäsar Haarmann, si era assentato da Monaco per cinque settimane e non aveva informato nessuno sulle ragioni del suo allontanamento: «Ero semplicemente altrove […], era una questione privata». Cfr. RWF, ivi, pp. 75 sgg. 67 Cfr. la Süddeutsche Zeitung del 21 maggio 1968. 68 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 69 Kaufmann e Droste, op. cit., p. 116. 70 Ivi, p. 117. 71 Ivi, p. 119. 72 Ivi, p. 121. 73 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011. 74 Cfr. Berling, op. cit., pp. 22 sgg. 75 Peter Berling, Hazard & Lieblos. Kaleidoskop eines Lebens, Hoffmann und Campe, Hamburg 2011, p. 570. 76 RWF, cit. in Lommel, op. cit., p. 185. 77 Ballhaus, op. cit., p. 31. 78 Ivi, p. 32. 79 Ibidem. 80 Ballhaus, op. cit., p. 33. 81 Cfr. Lommel, op. cit., p. 33. 82 Ballhaus, op. cit., p. 38. 83 Cfr. Lothar Schirmer (a cura di), «Du… Augen wie Sterne». Das Hanna Schygulla Album, Schirmer/Mosel, München 2004, p. 12. 84 Kaufmann e Droste, op. cit., p. 124. 85 Raab e Peters, op. cit., p. 152. 86 Cfr. Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 101. A questo proposito vedi anche
Raab e Peters, op. cit., p. 154.
87 Kaufmann e Droste, op. cit., p. 127. 88 Baer, op. cit., p. 38. 89 Cfr. Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., pp. 88 sgg. 90 Ivi, p. 91. 91 Ballhaus, op. cit., p. 38. 92 Cfr. l’intervista di Ulli Lommel con Sven Michaelsen, «Ich hätte mir Bianca nie ausgesucht»,
cit.
93 Baer, op. cit., p. 48. 94 Cit. in. Töteberg, Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 55. 95 Pflaum, Rainer Werner Fassbinder. Bilder und Dokumente, cit., p. 22. 96 Whity passò per la prima volta in televisione solo parecchi anni dopo la morte di Fassbinder.
97 Baer, op. cit., p. 51. 98 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011. 99 Ibidem. 100 Ingrid Caven, cit. in Schuhl, op. cit., p. 52 101 Ursula Strätz, cit. in Raab e Peters, op. cit., p. 137. 102 Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 111. 103 Kaufmann e Droste, op. cit., p. 131. 104 Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 116. 105 Cfr. a questo proposito le interviste con Peter Berling e Irm Hermann nel documentario Für
mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 106 Kaufmann e Droste, op. cit., p. 132. 107 RWF, 1981, cit. in Limmer, op. cit., p. 80. 108 RWF, 1981, ivi, p. 76.
109 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011. 110 Ibidem. 111 Ingrid Caven, cit. in Schuhl, op. cit., p. 289. 112 RWF, cit. in Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., pp. 125 sgg. 113 Ingrid Caven nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 114 RWF, 1981, cit. in Limmer, op. cit., pp. 80 sgg. 115 RWF, cit. nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 116 RWF, cit. in Schuhl, op. cit., p. 232. 117 RWF, 1977, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 114. 118 Baer, op. cit., p. 88. 119 Ivi, p. 89. 120 RWF, 1981, cit. in Limmer, op. cit., p. 74. 121 RWF, 1973, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 241. 122 Limmer, op. cit., p. 26. 123 RWF, in von Mengershausen, «Unsere Vorstellungen von Anarchie haben nichts mit Chaos
zu tun», cit., p. 238.
124 Yaak Karsunke, «anti-theatergeschichte. Die Anfänge», in Jansen e Schütte (a cura di), Rainer
Werner Fassbinder, 1983, cit., p. 16.
125 «Nahezu ausgerottet», in Der Spiegel, 23 giugno 1969, n. 26. 126 RWF, 1969, cit. in Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 73. 127 Frankfurter Allgemeine Zeitung, 2 gennaio 1970. 128 Ibidem. 129 Peter Zadek, My Way. Eine Autobiographie, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1998, p. 374. 130 RWF, in von Mengershausen, «Unsere Vorstellungen von Anarchie haben nichts mit Chaos zu tun», cit., p. 195. 131 Peter Iden, «Rainer Werner Fassbinder und das Theater», in Jansen e Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, 1983, cit., p. 17. 132 Zadek, op. cit., p. 375. 133 Ivi, p. 376.
134 Cfr. a questo proposito quanto dice Ingrid Caven in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 89. 135 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 134. 136 Marieluise-Fleißer-Archiv a Ingolstadt, lettera di Marieluise Fleißer a Rainer Werner
Fassbinder dell’11 dicembre 1970.
137 Jürgen Trittin, cit. in Christine Wahl e Rüdiger Schaper, «Den Hitler im Bunker könnte ich
auch», in Der Tagesspiegel, 5 luglio 2011.
138 Martin Wilkening, «Weiße Pillen schaffen Ordnung», in Berliner Zeitung, 22 novembre 2010. 139 RWF, Theaterstücke, Verlag der Autoren, Frankfurt am Main 2005, p. 661. 140 Peter Zadek, Die heißen Jahre. 1970-1980, Kiepenheuer & Witsch, Köln 2006, p. 73. 141 Günter Lamprecht, Ein höllisch Ding, das Leben, Kiepenheuer & Witsch, Köln 2007, p. 328. 142 Margit Carstensen, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 115. 143 Zadek, My Way, cit., p. 377. 144 Schroeter, op. cit., p. 131. 145 Ulli Lommel, intervista con Sven Michaelsen, «Ich hätte mir Bianca nie ausgesucht», cit. 146 Zadek, Die heißen Jahre, cit., p. 189. 147 Ulli Lommel, intervista con Sven Michaelsen, «Ich hätte mir Bianca nie ausgesucht», cit. 148 Zadek, My Way, cit., p. 377. 149 Süddeutsche Zeitung, cit. in Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 202. 150 Zadek, Die heißen Jahre, cit., p. 197. 151 Zadek, My Way, cit., p. 377. 152 RWF dedicò a Peter Zadek anche il film Il matrimonio di Maria Braun. 153 «Der kleine Rebell hat ausgesorgt… Schnellfilmer Rainer Werner Fassbinder und seine
Erfolge», in Westdeutsche Allgemeine Zeitung, 4 luglio 1970.
154 L’intervista con RWF è del giornalista Joachim von Mengershausen. Alcuni estratti furono
pubblicati nella rivista Film, 1969, n. 8. 155 Braad Thomsen, op. cit., p. 27.
156 Fritz Rumler, «Spass fördert das Bewusstsein», in Der Spiegel, 29 dicembre 1969. 157 Hans-Christoph Blumenberg, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 157. 158 RWF, 1971, cit. in Eckhardt, op. cit., p. 105. 159 «Der kleine Rebell hat ausgesorgt… Schnellfilmer Rainer Werner Fassbinder und seine Erfolge», cit. 160 Ibidem. 161 RWF, «Hanna Schygulla», cit., p. 181. 162 RWF, 1969, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit.,
p. 30.
163 Il giornalista André Müller ammise: «La schiettezza con cui mi rispondeva, anche se noi non
ci eravamo mai conosciuti, mi lasciò di stucco»; ivi, p. 12.
164 RWF, 1973, cit. in André Müller, Entblößungen. Interviews, Goldmann Wilhelm, München 1979,
p. 184.
165 Intervista con Christian Braad Thomsen, «Meine Filme handeln von Abhängigkeit», 1971, in
Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 225.
166 RWF, cit. in Rainer Werner Fassbinder. Dichter, Schauspieler, Filmemacher…, cit., vol. 1, p. 197. 167 RWF, intervista con Christian Braad Thomsen, «Ich will, dass man diesen Film liest», 1974, in
Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 309. 168 RWF, 1980, cit. in Kino, 1980, n. 2, p. 12.
169 La maggior parte delle interviste si può leggere in Fischer (a cura di), Fassbinder über
Fassbinder, cit.
170 «Der kleine Rebell hat ausgesorgt… Schnellfilmer Rainer Werner Fassbinder und seine
Erfolge», cit.
171 «Rainer Werner Fassbinder – der kleine vermaledeite Teufel aus der Hosentasche», in
Kölnische Rundschau, 19 dicembre 1972.
172 Dietrich Lohmann nel documentario Ich will nicht nur, dass ihr mich liebt di Hans Günther
Pflaum, cit.
173 Volker Schlöndorff, Licht, Schatten und Bewegung. Mein Leben und meine Filme, Carl Hanser
Verlag, München 2008, p. 182.
174 Wolf Donner, cit. in Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 140. 175 «Rainer Werner Fassbinder – der kleine vermaledeite Teufel aus der Hosentasche», cit. 176 Spaich, op. cit., p. 9. 177 RWF, intervista con Georges Bensoussan, «Wir sitzen auf einem Vulkan», 1981, cit. in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 557. 178 Robert van Ackeren, cit. in SZ-Magazin, 29 maggio 1992. 179 Die Zeit, cit. in Eckhardt, op. cit., p. 14.
Molte cose feriscono, qualcuna uccide. 1971-1973 1 Nel 1970 RWF scrisse Preparadise Sorry Now per il Süddeutscher Rundfunk e Ganz in Weiß per il
Bayrischer Rundfunk; nel 1971, Iphigenie auf Tauris von Johann Wolfgang von Goethe per il Westdeutscher Rundfunk e, di nuovo per il Bayrischer Rundfunk, Keiner ist böse und keiner ist gut.
2 RWF, cit. in Ernst Burkel, «Reagieren auf das, was man macht», in Süddeutsche Zeitung, 8 marzo
1979.
3 RWF, intervista con Braad Thomsen, «Hollywoods Geschichten sind mir lieber als Kunstfilme»,
1972, in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 233.
4 RWF, cit. in Ellen Oumano, Filmemacher bei der Arbeit, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1989,
p. 28.
5 RWF, in von Mengershausen, «Unsere Vorstellungen von Anarchie haben nichts mit Chaos zu
tun», cit., p. 191.
6 RWF, cit. in Limmer, op. cit., pp. 56 sgg. 7 Ibidem. 8 Ballhaus, op. cit., p. 39. 9 Mario Adorf, Himmel und Erde. Unordentliche Erinnerungen, Kiepenheuer & Witsch, Köln 2004, p. 227. Qui Adorf colloca erroneamente l’incontro con Fassbinder nel 1972, ma Attenzione alla puttana santa è stato girato nel settembre del 1970, quindi devono essersi incontrati già nell’estate del 1970. 10 RWF, cit. in Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 124. 11 Per il pubblico italiano la fama dell’attore è legata soprattutto a Pugni in tasca di Marco Bellocchio (1965), in cui Castel, esordiente, interpreta il personaggio di Sandro. Nella Repubblica Federale Tedesca il film uscì nel 1969. [N.d.T.] 12 RWF, 1981, cit. in Limmer, op. cit., pp. 56 sgg. 13 Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 119. 14 Berling, Hazard & Lieblos, cit., p. 573. 15 RWF, cit. in Braad Thomsen, «Hollywoods Geschichten sind mir lieber als Kunstfilme», cit., p.
234.
16 Cit. in Eckhardt, op. cit., p. 97.
17 La Rainer Werner Fassbinder Foundation ha acquisito solo nel 1992 i diritti di utilizzo per
poter proiettare il film al cinema e pubblicarlo su dvd.
18 RWF, 1974, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit.,
p. 242.
19 Volker Schlöndorff, cit. in Rainer Werner Fassbinder. Dichter, Schauspieler, Filmemacher…, cit., vol.
1, p. 102.
20 Töteberg, Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 51. 21 Peer Raben, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., pp. 70 sgg. 22 Dopo i contrasti con Fassbinder, Peer Raben fu invitato a Bochum come compositore da Peter
Zadek. I due si riavvicinarono in occasione dell’allestimento di uno spettacolo di Fassbinder in città e Raben rimase fino alla fine uno dei sostegni più importanti del regista. 23 RWF, 1970, cit. da Daniel Schmid in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 22. 24 Wim Wenders, «Mensch Rainer», in Rainer Werner Fassbinder. Dichter, Schauspieler,
Filmemacher…, cit., vol. 1, p. 132.
25 RWF, 1979, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit.,
p. 134.
26 La retrospettiva riguardava complessivamente sei film di Douglas Sirk, i melodrammi
realizzati a Hollywood negli anni cinquanta.
27 RWF, «Imitation of Life. Sul cinema di Douglas Sirk», 1971, in I film liberano la testa, ubulibri,
Milano 2005, p. 10 e p. 20. 28 Ivi, p. 9. 29 Ivi, p. 10.
30 RWF, cit. in Ernst Burkel, «Reagieren auf das, was man macht», cit. 31 Fernsehen und Film, 1971, quaderno n. 2, pp. 8 sgg. L’articolo è riportato in RWF, I film liberano la testa, cit. 32 RWF, intervista con Pawel Pawlikowski, «Filme als Antwort auf bestimmte Entwicklungen», 1982, in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 587. 33 RWF, 1981, in Limmer, op. cit., pp. 91 sgg. 34 RWF, 1974, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., pp. 48 sgg. 35 Töteberg, Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 76. 36 RWF, 1972, cit. in Töteberg (a cura di), Fassbinders Filme, 7 voll., Verlag der Autoren, Frankfurt
am Main 1990-1991, vol. 3.
37 Wilfried Wiegand, «Hans ohne Glück», in Frankfurter Allgemeine Zeitung, 31 maggio 1972. 38 Hans Günther Pflaum, in Süddeutsche Zeitung, 10 marzo 1972. 39 RWF, intervista con Corinna Brocher, «Nur wer spielt, lernt Leier spielen», 1972, in Fischer (a
cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 254.
40 RWF, «Come immagino la mia attività professionale futura?», 1966-67, in I film liberano la testa,
cit., p. 109.
41 Cit. in Eckhardt, op. cit., p. 99. 42 RWF, intervista con Tony Rayns, «Das Publikum muss zufrieden sein», 1975, in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 338. 43 RWF, 1976, cit. in Pflaum, Rainer Werner Fassbinder. Das bißchen Realität, cit., p. 19. 44 RWF, «… Molte ombre ma nessuna pietà. Un paio di riflessioni improvvisate sui film di Claude Chabrol», 1975, in I film liberano la testa, cit., p. 24. 45 RWF, 1980, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, p.
154.
46 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 163.
47 RWF, in Brocher, «Nur wer spielt, lernt Leier spielen», cit., p. 253. 48 Günter Rohrbach, «Das Mysterium der Hanna Schygulla», in Schirmer (a cura di), «Du… Augen
wie Sterne». Das Hanna Schygulla Album, Schirmer/Mosel, München 2004, p. 35.
49 RWF, «Michael Fengler», in Fernsehspiele im Westdeutschen Rundfunk, luglio-dicembre 1970, p.
42.
50 RWF, 1981, in Limmer, op. cit., p. 78. 51 Ibidem. 52 Mattes, op. cit., p. 65. 53 Ivi, p. 73. 54 RWF, cit. in Baer, op. cit., p. 93. 55 Franz Xaver Kroetz, cit. in Münchner Abendzeitung, 8 marzo 1973. 56 RWF, «Lettera aperta a Franz Xaver Kroetz», 1973, in I film liberano la testa, cit., p. 109. 57 Rohrbach, «Das Mysterium der Hanna Schygulla», cit., p. 35. 58 RWF, intervista con Christian Braad Thomsen, «Die Ästhetik der Hoffnung», 1973, in Fischer
(a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 259.
59 RWF, cit. in Peter Paul Kubitz, Der Traum vom Sehen. Zeitalter der Televisionen, Verlag der Kunst,
Dresden 1997, p. 106.
60 Peter Märthesheimer, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 129. 61 Märthesheimer, «Das forschende Kind», cit., p. 17. 62 Peter Märthesheimer, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 131. 63 RWF, cit. in Eckhardt, op. cit., p. 30. 64 Gottfried John, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 211. 65 RWF, in Braad Thomsen, «Hollywoods Geschichten sind mir lieber als Kunstfilme», cit., p. 240. 66 Gottfried John, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 213. 67 RWF, cit. in Braad Thomsen, «Die Ästhetik der Hoffnung», cit., p. 261. 68 Frankfurter Allgemeine Zeitung, cit. in Spaich, op. cit., p. 50. 69 Günter Wallraff, «Nur mal drübergegangen», in Der Spiegel, 6 novembre 1972. 70 RWF, 1974, cit. in Jansen e Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, 1983, cit., p. 162. 71 Werner Höfer, cit. in Peter Paul Kubitz, op. cit., p. 106. 72 Thorsten Dörting, «Science-Fiction-Klassiker Welt am Draht: Besser paranoid als tot», in Der Spiegel, 11 febbraio 2010. 73 Il trattamento di Menschenschmuggel (t.l. La tratta degli esseri umani) si trova nel lascito di Laurens Straub nella Deutsche Kinemathek Berlin. 74 Der Spiegel, cit. in Spaich, op. cit., p. 54.
In fondo voglio soltanto che mi amiate. 1973-1974 1 Intervista dell’autore con Herbert Paetzold, 19 luglio 2011. 2 Ursula Strätz, cit. in Raab e Peters, op. cit., p. 136. 3 Intervista dell’autore con Yaak Karsunke, 20 luglio 2011. 4 RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 120. 5 Bockmayer, op. cit., p. 138. 6 Jürgen Draeger nell’intervista con Bernd Lubowski, 1982, cit. in Jürgen Draeger, Querelle-Zyklus.
Zeichnungen von Jürgen Draeger, nach dem Roman «Querelle de Brest» von Jean Genet, Gewidmet Rainer Werner Fassbinder, Braus, Heidelberg 1982.
7 Per la storia del locale si veda Harry Baer, Das Mutterhaus. Erinnerungen an die Deutsche Eiche,
Männerschwarm, Berlin 2001.
8 Cfr. Bockmayer, op. cit., p. 139. 9 Daniel Schmid, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 23. 10 Hamdan, di undici anni, e Abdel, di nove, vivevano in un primo tempo presso la madre di
Fassbinder. Hamdan poi visse per un po’ con la famiglia dell’attore Hans Hirschmüller, Abdel con Kurt Raab. Cfr. a questo proposito Raab e Peters, op. cit., pp. 168 sgg. 11 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011. 12 A questo proposito RWF constatava: «Una volta avrei sicuramente raccontato la storia così
com’è, quindi avrei raccontato la storia di una donna anziana che muore perché la società non permette che una donna anziana e un giovane lavoratore straniero vivano insieme. Adesso invece il problema è mostrare che ci si può ribellare e che ce la si può fare comunque»; Rainer Werner Fassbinder. Dichter, Schauspieler, Filmemacher…, cit., vol. 1, p. 43. 13 Per un po’ Fassbinder aveva progettato di girare un remake del film di Sirk All That Heaven Allows con il titolo Des Menschen Himmelreich, poi però abbandonò l’idea. In vista di questo progetto aveva chiesto a Lana Turner se volesse interpretare il ruolo della protagonista, ma la richiesta di compenso dell’attrice era troppo alta. 14 RWF, «Imitation of Life. Sul cinema di Douglas Sirk», cit., p. 10. 15 RWF, 1974, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 49. 16 Brigitte Mira, Von ganzem Herzen. Erinnerungen, Herbig, München 2002, p. 14. 17 Ivi, p. 15. 18 Ivi, p. 16. 19 Ivi, p. 12. 20 RWF, cit. da Doris Mattes nell’intervista con l’autore del 18 luglio 2011. 21 RWF, 1974, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 51. 22 Qui l’autore è in errore, perché La paura mangia l’anima era in competizione a Cannes nel 1974, come si può verificare dagli archivi del festival. [N.d.T.] 23 Mira, op. cit., pp. 9 sgg. 24 RWF, 1974, cit. nella videoantologia sul cinema Gegenschuss – Aufbruch der Filmemacher, cit. 25 RWF, 1982, cit. in Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 74. 26 Cfr. Stefan Hellmer, «Verweitige Wirklichkeit und verweigertes Theater», in Frankfurter Rundschau, 27 maggio 1974. 27 Cfr. Artjom Demenok, «Mutter Fassbinders Fahrt zum Planeten Solaris», in Rainer Werner Fassbinder. Dichter, Schauspieler, Filmemacher…, cit., vol. 1, p. 55. 28 RWF, cit. nella videoantologia sul cinema Gegenschuss – Aufbruch der Filmemacher, cit. 29 RWF, 1974, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit.,
p. 60.
30 RWF, «Imitation of Life. Sul cinema di Douglas Sirk», cit., p. 11. 31 RWF, 1974, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit.,
p. 53.
32 RWF, «Imitation of Life. Sul cinema di Douglas Sirk», cit., p. 15. 33 RWF, in Fernsehspiele im Westdeutscher Rundfunk, quaderno 1/1974, pp. 77 sgg. 34 Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 112 35 Intervista con Karlheinz Böhm, 2004, contenuti speciali del dvd Martha, Kinowelt Home Entertainment, 2004. 36 Lamprecht, op. cit., p. 337.
37 Karlheinz Böhm, cit. in Günter Krenn, Romy Schneider. Die Biographie, Aufbau, Berlin 2008, p.
324.
38 RWF, 1974, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit.,
p. 52.
39 Karlheinz Böhm, Mein Weg. Erinnerungen, Scherz, Bern-München-Wien 1991, p. 220. 40 RWF, 1974, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit.,
p. 47.
41 Ivi, p. 54. 42 Theodor Fontane, Effi Briest, traduzione e cura di Enrico Ganni, Feltrinelli, Milano 1993, p. 197
e p. 245. [N.d.T.]
43 RWF, intervista con Bion Steinborn e Rüdiger von Noso, «Ich bin das Glück dieser Erde», 1982,
in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 610: «Allora avrei voluto fare il film in bianco e nero, ma nessuno mi voleva dare un soldo». 44 RWF, 1981, in Limmer, op. cit., p. 82.
45 RWF, 1974, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit.,
p. 62.
46 RWF, cit. in Jansen e Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, 1983, cit., p. 84. 47 Cfr. RWF, in Corinna Brocher, «Nur wer spielt, lernt Leier spielen», cit., p. 243. 48 Ivi, p. 244. 49 RWF, in Steinborn e von Noso, «Ich bin das Glück dieser Erde», cit., p. 597. 50 Schygulla, «Ein autobiographischer Text», cit., p. 31. 51 RWF, 1974, in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 59: «C’era una persona che aveva sempre opinioni radicalmente diverse dalle mie ed era Hanna Schygulla». 52 Ivi, p. 50. 53 RWF, 1981, cit. in Limmer, op. cit., p. 84. 54 Hanna Schygulla aveva lavorato per esempio nel 1969 nel film di Volker Schlöndorff, Baal; nel
1970 nel film di Reinhard Hauff, Mathias Kneissl e Franz J. Spieker Kuckucksei im Gangsternest, e ancora nel 1971 nel film di Peter Lilienthal Jacob von Günten. 55 RWF, 1981, cit. in Limmer, op. cit., p. 86.
56 RWF, intervista con André Müller, «Eine andere Art Ehrlichkeit», 1973, in Fischer (a cura di),
Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 260. 57 Raab e Peters, op. cit., p. 209. 58 Cfr. Lommel, op. cit., p. 183.
59 El Hedi ben Salem, cit. in Raab e Peters, op. cit., p. 211. 60 Daniel Schmid, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 23. 61 Cfr. Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 225. 62 Centri per il controllo delle nascite e la purificazione della razza fondati e sovvenzionati dallo stato nazionalsocialista per perpetuare la razza ariana a partire dal 1935. [N.d.T.] 63 Cfr. a questo proposito Baer, Das Mutterhaus, cit., p. 94. 64 Ivi, p. 96. 65 Cfr. Lommel, op. cit., p. 181. 66 RWF, 1973, cit. in Vito Russo, Lo schermo velato. L’omosessualità nel cinema, Dalai Editore, Milano
1999.
67 Cfr. RWF, «Hit-parade del cinema tedesco», in I film liberano la testa, cit., p. 128. 68 Praunheim, op. cit., p. 100.
69 RWF, «Esercizio alla sbarra: verticale, salto mortale, chiusura riuscita. A proposito di Werner
Schroeter», in I film liberano la testa, cit., p. 71.
70 Si veda la nota 18 nota del primo capitolo (Un bambino raggelato. 1945-1963). [N.d.T.] 71 RWF, 1975, cit. nel documentario Ich will nicht nur, dass ihr mich liebt di Hans Günther Pflaum,
1993.
72 RWF cit. in Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 98. 73 Cfr. Bernd-Ulrich Hergemöller, Mann für Mann. Ein biographisches Lexikon, Suhrkamp, Frankfurt
am Main 2001, p. 172.
74 La Filmbewertungsstelle in un primo momento si era rifiutata di conferire un giudizio al film
e alla fine ha attribuito il giudizio «di particolare valore».
75 RWF, 1980, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit.,
p. 173.
76 Böhm, op. cit., p. 226. 77 RWF utilizzò questa conclusione per la versione in inglese del film, Mother Kuester Goes to Heaven. 78 Cfr. RWF, 1981, in Limmer, op. cit., p. 57. 79 RWF, cit. in Braad Thomsen, Rainer Werner Fassbinder, 1993, cit., p. 31. 80 Cfr. Abendzeitung (München), 9 luglio 1975. 81 Limmer, op. cit., p. 29. 82 Fritz Rumler in Der Spiegel, cit. in Spaich, op. cit., p. 161. 83 Jansen e Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, 1983, cit., p. 180. 84 RWF, 1974, in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p.
63.
85 RWF, intervista con Jacques Grant, «Der Sinn der Realität», 1974, in Fischer (a cura di),
Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 321.
86 RWF, «Note preliminari a Querelle de Brest», in I film liberano la testa, cit., p. 104. 87 RWF, in Steinborn e von Noso, «Ich bin das Glück dieser Erde», cit., p. 596. 88 Thea Eymèsz, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 171.
Mi fraintendono nel modo più indegno. 1974-1977 1 RWF, in Grant, «Der Sinn der Realität», cit., p. 317. 2 RWF, 1974, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p.
51.
3 Cfr. Hilmar Hoffmann, «Heftige Begegnungen mit Fassbinder», in Rainer Werner Fassbinder. Dichter, Schauspieler, Filmemacher…, cit., vol. 1, p. 143. 4 Raab e Peters, op. cit., p. 216. 5 Intervista dell’autore con Hans Hirschmüller, 23 agosto 2011. 6 Irm Hermann, cit. in Raab e Peters, op. cit., p. 305. 7 In tedesco il film si intitola Leoparden küsst man nicht (Non si baciano i leopardi). I tre titoli si spiegano con il fatto che il protagonista (Cary Grant), innamorato dell’ereditiera Susan (Katharine Hepburn), finirà all’inseguimento di un leopardo di nome Baby. [N.d.T.] 8 Peter Zadek, Die Wanderjahre. 1980-2009, Kiepenheuer & Witsch, Köln, p. 228. 9 Raab e Peters, op. cit., p. 225. 10 Ursula Strätz, cit. ivi, p. 137. 11 Cfr. RWF, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 65.
12 Intervista dell’autore con Yaak Karsunke, 20 luglio 2011. 13 Cartolina di RWF da Dakar del 4 marzo 1975, cit. in Töteberg, Rainer Werner Fassbinder, cit., p.
91.
14 Ingrid Caven, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 87. 15 Gottfried John, cit. ivi, p. 215. 16 Böhm, op. cit., p. 223. 17 Mattes, op. cit., p. 111. 18 Hilmar Hoffmann, cit. in Bild, 11 giugno 1982. 19 Cfr. a questo proposito Hoffmann, «Heftige Begegnungen mit Fassbinder», cit., p. 144. 20 Peter Iden, in Frankfurter Rundschau, 16 aprile 1975. 21 Micha Brumlik, Entsorgungsversuche im Frankfurter Müll, Berlin 1986, p. 5. 22 Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 114. 23 Cit. in Spaich, op. cit., p. 58. 24 Cfr. Frankfurter Rundschau del 6 giugno 1975. 25 Cfr. Joachim Fest, «Reicher Jude von links», in Frankfurter Allgemeine Zeitung, 19 marzo 1976. 26 Marcel Reich-Ranicki, La mia vita, Sellerio, Palermo 2003, p. 457. 27 Siegfried Unseld, «In dieser Form nie mehr», in Die Zeit, 9 aprile 1976. 28 Ignatz Bubis, cit. in Intendanz Schauspiel Frankfurt (a cura di), Der Fall Fassbinder, Schauspiel Frankfurt, Frankfurt am Main 1987, p. 29. 29 Cfr. Heiner Lichtenstein (a cura di), Die Fassbinder-Kontroverse oder Das Ende der Schonzeit, Äthenaum, Königstein 1986. 30 RWF, 1976, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 84. 31 RWF, «A proposito di Der Müll, die Stadt und der Tod», in I film liberano la testa, cit., pp. 126 sgg. 32 RWF, intervista con Christian Braad Thomsen, «Es ist besser, Schmerzen zu genießen, als sie
nur zu erleiden», 1977, in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, p. 395.
33 Cfr. RWF, I rifiuti, la città e la morte e altri testi (Antiteatro I), ubulibri, Milano 1992, cit., p. 89. 34 Ivi, p. 98. 35 Hans-Christoph Blumenberg, «Schreie und Flüstern», in Die Zeit, 15 ottobre 1976. 36 RWF, 1976, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 68. 37 Lettera di rifiuto della Filmförderungsanstalt, cit. in Pflaum, Rainer Werner Fassbinder. Das bißchen Realität, cit., p. 23. [In Germania, la prima edizione commentata del Mein Kampf, a cura di cinque storici, dovrebbe uscire nel 2015. In italiano: Il «Mein Kampf» di Adolf Hitler. Le radici della barbarie nazista, a cura di Giorgio Galli, Kaos, Milano 2006. N.d.T.] 38 RWF cit. in Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 115. 39 RWF, 1980, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 160. 40 RWF, in Bensoussan, «Wir sitzen auf einem Vulkan», cit., p. 560. 41 Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 283. 42 Cfr. Laurens Straub, Mein Kino, belleville, München 2010, p. 64. 43 Bockmayer, op. cit., p. 232. 44 Gerhard Zwerenz, Der langsame Tod des Rainer Werner Fassbinder. Ein Bericht, Schneekluth, München 1982, p. 70. 45 RWF, 1976, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 76.
46 Nel 1976 RWF mise in scena la pièce di Clare Booth The Women (Frauen in New York) al teatro di
Amburgo. Sulla base di quell’allestimento realizzò poi nel 1977 un film dallo stesso titolo, Frauen in New York. 47 RWF, in «Lieber Straßenkehrer in Mexiko sein als Filmemacher in Deutschland», in Der Spiegel, 11 luglio 1977. 48 Nel 1971 Fassbinder portò al festival Pionieri a Ingolstadt, nel 1972 Il mercante delle quattro stagioni, nel 1973 Le lacrime amare di Petra von Kant e nel 1974 La paura mangia l’anima. 49 Cfr. Daniel Schmid, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 17. 50 Vincent Canby, in The New York Times, 15 ottobre 1976. 51 Nella versione americana del film, Mother Kuester Goes to Heaven, Mamma Küster non viene
uccisa.
52 Vincent Canby, cit. in Janet Maslin, «Rainer Werner Fassbinder, 36, Film Maker, Dead», in The
New York Times, 11 giugno 1982.
53 Cfr. Der Spiegel, 13 ottobre 1980. 54 Mario Adorf, Himmel und Erde. Unordentliche Erinnerungen, Goldmann, Köln 2004, p. 140. 55 RWF, 1977, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 94. 56 Ballhaus, op. cit., p. 74. La rinomata agenzia William Morris aveva preso Fassbinder sotto la sua
ala.
57 RWF, in Hughes e Riley, «Ein neuer Realismus», cit., p. 361. 58 RWF, 1977, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, p.
108.
59 Ivi, p. 96. 60 Intervista con Juliane Lorenz, contenuti speciali del dvd Lili Marleen, Arthaus, 2003. 61 Graeter, op. cit., p. 238. 62 Si trattava del protagonista maschile di Lili Marleen. 63 RWF, intervista con Dieter Schidor, «Ich musste mein Leben gelebt haben, um diesen Film
machen zu können», 1982, in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 622.
64 Sono molte le testimonianze in tal senso, fra queste, per esempio, quelle di Daniel Schmid ed
Elga Sorbas.
65 Hanna Schygulla, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 33. 66 Ingrid Caven, cit. ivi, p. 87. 67 Letteralmente, «Peter dei fiori». [N.d.T.] 68 Praunheim, op. cit., p. 194. 69 Cfr. Bockmayer, op. cit., p. 163. 70 Lommel, op. cit., p. 194. 71 Raab e Peters, op. cit., p. 287. 72 Cfr. la dichiarazione di Ursula Strätz in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 62. 73 Cfr. a questo proposito Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 150. 74 Cfr. Baer, Das Mutterhaus, cit., p. 109. 75 Schuhl, op. cit., p. 242. 76 Raab e Peters, op. cit., p. 291. 77 Die Zeit, 29 aprile 1977. La recensione è pubblicata anche in Fassbinder, I film liberano la testa, cit., pp. 35-37. 78 Cfr. Bockmayer, op. cit., p. 211. 79 Cfr. ibidem.
80 Cfr. ivi, pp. 211 sgg. 81 Cfr. ibidem. 82 Intervista dell’autore con Jürgen Draeger, 17 luglio 2011. Draeger era presente durante uno di
questi episodi, alla fine degli anni settanta. 83 Bockmayer, op. cit., p. 211. 84 Ivi, p. 212.
85 Cfr., tra gli altri, Kurt Langbei, Bittere Pillen. Nutzen und Risiken der Arzneimittel, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1983, p. 110. 86 Cfr. Bockmayer, op. cit., p. 163. 87 Ingrid Caven, cit. in Schuhl, op. cit., p. 127. 88 RWF, cit. in Raab e Peters, op. cit., p. 58. 89 Ivi, p. 59. 90 «È troppo famoso. Non ci verrebbe mai da queste parti»; RWF, 1982, cit. in Dieter Schidor,
Werner Fassbinder dreht «Querelle», W. Heyne, München 1982, p. 166. 91 Bockmayer, op. cit., pp. 193 sgg. 92 Ivi, p. 205. 93 RWF, in Müller, «Eine andere Art Ehrlichkeit», cit., p. 270. 94 Cfr. RWF, 1981, in Limmer, op. cit., p. 133. 95 Graeter, op. cit., p. 277. 96 Ingrid Caven, cit. in Schuhl, op. cit., p. 265. 97 Cfr. Bockmayer, op. cit., pp. 232 sgg.
98 Peter Märthesheimer, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 135 e p. 145. 99 Intervista dell’autore con Rudolf Waldemar Brem, 15 luglio 2011. 100 Dopo due settimane di riprese, nell’ottobre del 1975, Fassbinder dovette interrompere il
lavoro per girare Ich will doch nur, dass ihr mich liebt su incarico del Wdr. Le riprese di Nessuna festa per la morte del cane di Satana terminarono soltanto nel febbraio del 1976. 101 RWF, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p.
104.
102 RWF, in Steinborn e von Noso, «Ich bin das Glück dieser Erde», cit., p. 591. 103 Frankfurter Allgemeine Zeitung, 9 ottobre 1976. 104 Blumenberg, «Schreie und Flüstern», cit. 105 Epd Kirche und Film, quaderno dell’ottobre 1976, p. 19. 106 Frankfurter Allgemeine Zeitung, 17 dicembre 1976. 107 Cfr. Jansen e Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, 1983, cit. p. 199. 108 Cit. in Spaich, op. cit., p. 69. 109 Böhm, op. cit., p. 216. 110 Bockmayer, op. cit., p. 221 111 RWF, cit. in Lommel, op. cit., p. 187. 112 RWF, cit. in Oumano, op. cit., p. 107. 113 RWF, in Rayns, «Das Publikum muss zufrieden sein», cit., p. 397. 114 Ballhaus, op. cit., p. 66. 115 Jansen e Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, 1983, cit., p. 196. 116 Juliane Lorenz, cit. in Baer, Das Mutterhaus, cit., p. 98.
117 Juliane Lorenz nel documentario Ich will nicht nur, dass ihr mich liebt di Hans Günther Pflaum,
cit.
118 Jansen e Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, 1983, cit., p. 199. 119 Raab e Peters, op. cit., p. 290. 120 Michael Ballhaus, cit. in Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 105. 121 Raab e Peters, op. cit., p. 293. 122 Harry Baer, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 107. 123 Lui, 1979, n. 11. 124 Kurt Raab nel documentario Ich will nicht nur, dass ihr mich liebt di Hans Günther Pflaum, cit. 125 Cfr. Frankfurter Rundschau, 6 giugno 1975. 126 RWF, 1978, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit.,
p. 77.
127 RWF, 1966, cit. in Prinzler, «Die Bewerbung», cit., p. 63. 128 RWF, in Abendzeitung, 3 gennaio 1976. 129 Il caso è documentato nel libro Lebensläufe di Klaus Antes e Christian Erhardt. 130 RWF, 1976, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit.,
p. 67.
131 RWF, 1976, cit. in Pflaum, op. cit., p. 11. 132 Raab e Peters, op. cit., p. 145. 133 I bambini nei film di Fassbinder ci sono soltanto quando la loro presenza è irrinunciabile per lo svolgimento della trama, come per esempio la ragazzina nel Mercante delle quattro stagioni, testimone oculare dell’uccisione della madre da parte del padre. 134 RWF, 1978, cit. in Jansen e Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, 1983, cit., p. 95. 135 RWF, 1978, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 112. 136 Dirk Bogarde, cit. in Braad Thomsen, Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 112. 137 RWF, 1980, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 169. 138 RWF, intervista con André Müller, «Man ist doch sowieso nur mit sich selber beschäftigt», in Fischer, Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 365. 139 Spaich, op. cit., p. 118. 140 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011.
Un viaggio nella luce. 1977-1980 1 Vladimir Nabokov, Disperazione, Adelphi, Milano 2006. [N.d.T.] 2 Intervista dell’autore con Peter Kern, 15 luglio 2011. 3 Cfr. quanto afferma Andréa Ferréol nel documentario Das Kino und sein Double. Erinnerungen an
Rainer Werner Fassbinders «Despair» di Robert Fischer, 2011.
4 Michael Ballhaus nel documentario Das Kino und sein Double. Erinnerungen an Rainer Werner
Fassbinders «Despair» di Robert Fischer, cit. 5 Zwerenz, op. cit., p. 29.
6 Andréa Ferréol nel documentario Ich will nicht nur, dass ihr mich liebt di Hans Günther Pflaum,
cit.
7 RWF, 1981, cit. in Limmer, op. cit., p. 88. 8 Ballhaus, op. cit., p. 73.
9 Michael Ballhaus, citato nel documentario Das Kino und sein Double. Erinnerungen an Rainer
Werner Fassbinders «Despair» di Robert Fischer, cit.
10 Cfr. la nota 114 del capitolo «Una deviazione, passando per il teatro. 1963-1969». [N.d.T.] 11 Cfr. Stern e Hermann, op. cit., p. 147. 12 RWF, in Brocher, «Nur wer spielt, lernt Leier spielen», cit., p. 244. 13 Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 119; cfr. anche Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 328. 14 Schuhl, op. cit., p. 78. 15 RWF, 1974, citato da Karlheinz Böhm nel documentario Ich will nicht nur, dass ihr mich liebt di Hans Günther Pflaum, cit. 16 Questo è quanto riferì Liselotte Eder nel 1992 durante una conferenza stampa a Berlino; cfr. i contenuti speciali del dvd Angst essen Seele auf, e-m-s, 2002. 17 Anton Kaes, «Der Neue Deutsche Film», in Nowell-Smith (a cura di), Geschichte des internationalen Films, cit., p. 571. 18 RWF, 1978, cit. in I film liberano la testa, cit., p. 111. 19 Cfr. Agnese Grieco, Anatomia di una rivolta, il Saggiatore, Milano 2010, pp. 333-335; e Stefan Aust, op. cit., pp. 494 sgg. [N.d.T.] 20 Cfr. Stern e Hermann, op. cit., pp. 294 sgg. 21 RWF, «La terza generazione», in I film liberano la testa, cit., p. 66. 22 RWF, in Pawlikowski, «Filme als Antwort auf bestimmte Entwicklungen», cit., p. 580. 23 RWF, 1979, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit.,
p. 135.
24 Cfr. Jürgen Draeger nell’intervista con Bernd Lubowski, 1982, cit. in Jürgen Draeger, Querelle-
Zyklus, cit.
25 RWF, in Bensoussan, «Wir sitzen auf einem Vulkan», cit., p. 559. 26 Gian Luigi Rondi, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der
Phantasie, cit., p. 106.
27 RWF, «La terza generazione», cit., p. 62 e p. 64. 28 Gottfried Knapp, in Süddeutsche Zeitung, 15-16 settembre 1979. 29 RWF, 1979, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 129. 30 RWF, 1980, cit. ivi, p. 167. 31 RWF, «Molte ombre e nessuna pietà. Un paio di riflessioni improvvisate sui film di Claude Chabrol», in I film liberano la testa, cit., p. 26. [Traduzione modificata; N.d.T.] 32 RWF, 1982, cit. in Schidor, op. cit., p. 138. 33 RWF, cit. in Hanna Schygulla, «Ein autobiographischer Text», cit., p. 34. 34 Cfr. Jürgen Trimborn, Romy und ihre Familie, Droemer Knaur, München 2008, p. 446. 35 RWF, 1973, in Brocher, «Die Gruppe, die trotzdem keine war», cit., p. 144. 36 Romy Schneider, cit. in Lommel, op. cit., p. 47. 37 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 38 RWF, cit. in Eckhardt, op. cit., p. 24. 39 Peter Märthesheimer, «Das Drehbuch ist eben keine eigene Kunstform», in Ard-Fernsehspiel, quaderno 1/1985, p. 46. 40 RWF, in Schidor, «Ich musste mein Leben gelebt haben, um diesen Film machen zu können», cit., p. 607.
41 RWF, cit. in Hanna Schygulla, «Ein autobiographischer Text», cit., p. 34. Secondo la
sceneggiatura originale di Märthesheimer e Fröhlich il film doveva finire con Maria Braun che siede in auto con il marito e in piena consapevolezza guida l’automobile contro un albero. Fassbinder però non volle un finale così netto. 42 Cfr. Limmer, op. cit., p. 10. 43 François Truffaut, in Cahiers du cinéma, 1980, cit. in Robert Fischer, «Die Ehe der Maria Braun», in Alfred Holighaus (a cura di), Der Filmkanon: 35 Filme, die Sie kennen müssen, Bertz + Fischer, Berlin 2005, pp. 194 sgg. 44 Bockmayer, op. cit., p. 190. 45 Töteberg, Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 121. 46 Anna K. Kuhn, «The Alienated Vision», in Klaus Philips (a cura di), New German Filmmakers,
Frederick Ungar, New York 1984, p. 112.
47 Hanna Schygulla, cit. in Kino-Magazin, Wdr, 1989, contenuti speciali del dvd Die Ehe der Maria
Braun, Arthaus, 2009.
48 Cfr. Zwerenz, op. cit., p. 27. 49 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 50 Lommel, op. cit., p. 187. 51 Raab e Peters, op. cit., p. 62. 52 Cfr. Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 68. 53 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011. 54 Cfr. Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 348. 55 Cfr. Bockmayer, op. cit., pp. 202 sgg. 56 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011. 57 Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 342. 58 Ivi, p. 348. 59 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011. 60 Cfr. Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 349. 61 Cfr. la dichiarazione di Andréa Ferréol nel documentario Das Kino und sein Double. Erinnerungen an Rainer Werner Fassbinders «Despair» di Robert Fischer, cit. 62 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011. 63 Cfr. Limmer, op. cit., p. 96. 64 RWF, cit. ivi, p. 95. 65 Bockmayer, op. cit., p. 217. 66 RWF, «Un anno con 13 lune», 1978, in I film liberano la testa, cit., p. 42. 67 Ivi, pp. 42-58. 68 Schroeter, op. cit., p. 231. 69 Töteberg, Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 114. 70 Peter Märthesheimer, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 135. 71 RWF, cit. in Filme befreien den Kopf, p. 7 (premessa all’edizione tedesca). 72 RWF, «La città dell’uomo e la sua anima. Alcuni pensieri alla rinfusa sul romanzo di Alfred
Döblin Berlin Alexanderplatz», 1978, cit. in I film liberano la testa, cit., pp. 76-77. 73 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011.
74 RWF, intervista con Christian Braad Thomsen, «Bestimmte Erzählformen sind nicht
ungefährlich», 1980, in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 486. 75 RWF su Günter Lamprecht, cit. in Lamprecht, op. cit., p. 364.
76 RWF, 1981, cit. in Limmer, op. cit., p. 59. 77 Cfr. quanto dice Harry Baer nel documentario Das Kino und sein Double. Erinnerungen an Rainer
Werner Fassbinders «Despair» di Robert Fischer, cit.
78 Cfr. la nota 17 del capitolo «Ormai mi posso permettere un sacco di cose. 1970-1971». [N.d.T.] 79 Lamprecht, op. cit., p. 335. 80 RWF, ibidem. 81 Lamprecht, op. cit., p. 363. 82 Cfr. Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 123. 83 Cfr. Mattes, op. cit., p. 157. 84 Intervista dell’autore con Yaak Karsunke, 20 luglio 2011. 85 Ibidem. 86 Xaver Schwarzenberger, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 385. 87 Cfr. quanto sostiene RWF in Der Spiegel del 13 ottobre 1980. 88 Xaver Schwarzenberger, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 392. 89 Cfr. Raab e Peters, op. cit., p. 325. 90 Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 134. 91 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 92 Intervista dell’autore con Peter Kern, 15 luglio 2011. 93 Tutte le citazioni provengono da «Dunkler Sinn», in Der Spiegel, 3 novembre 1980. 94 Cfr. Die Zeit dell’8 ottobre 1980 e Der Spiegel del 13 ottobre 1980. 95 Jansen e Schütte (a cura di), Rainer Werner Fassbinder, 1983, cit., p. 242. 96 Cfr. «Dunkler Sinn», cit. 97 Lamprecht, op. cit., p. 396. 98 RWF, 1981, cit. in Limmer, op. cit., p. 59. 99 Susan Sontag, «Ein Roman wird Film. Fassbinders Berlin Alexanderplatz», in Klaus Biesenbach (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Berlin Alexanderplatz, Schirmer/Mosel, Berlin-München 2007, p. 49. 100 Vincent Canby, «Is Berlin Alexanderplatz a Vision of the Movies’ Future?», in New York Times, 10 luglio 1983. 101 RWF, in Steinborn e von Naso, «Ich bin das Glück dieser Erde», cit., p. 614.
Potrò dormire quando sarò morto. 1980-1982 1 Franz Josef Strauss e Luggi Waldleitner, cit. in Manfred Barthel, So war es wirklich. Der deutsche Nachkriegsfilm, Herbig, München-Berlin 1986, p. 147. 2 Luggi Waldleitner in un’intervista con l’Ard-Fernsehspiel, 1985, quaderno n. 1, pp. 76 sgg. 3 Nel 1976 Fassbinder aveva temporaneamente coltivato il progetto di girare un film su una personalità fittizia del Terzo Reich, ma l’idea era poi stata respinta; cfr. Raab e Peters, op. cit., pp. 286 sgg. 4 In origine la parte doveva essere interpretata da Michael Douglas. 5 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 6 RWF, 1980, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 163. 7 RWF, 1981, in Limmer, op. cit., p. 89. 8 Ivi, p. 91.
9 RWF, cit. in Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 147. 10 Luggi Waldleitner nell’intervista con l’Ard-Fernsehspiel, cit., p. 77. 11 Nella versione in dvd di Lili Marleen acquistabile oggi gli interventi di Luggi Waldleitner sono
stati eliminati ed è stato ripristinato il materiale originale.
12 Luggi Waldleitner nell’intervista con l’Ard-Fernsehspiel, cit., p. 77. 13 Armin Müller-Stahl, primi anni novanta, cit. in Braad Thomsen, Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 51. 14 Cfr. Adorf, op. cit., pp. 230 sgg. 15 RWF, cit. da Barbara Sukowa, in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 338. 16 Adorf, op. cit., p. 232. 17 Barbara Sukowa, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 338. 18 I film erano The Barefoot Contessa, Johnny Guitar e Written on the Wind; cfr. a questo proposito Xaver Schwarzenberger, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 387. 19 Xaver Schwarzenberger, contenuti speciali del dvd Lola, 2003. 20 Il documentario, incentrato su quello che allora era uno dei gruppi teatrali più importanti al
mondo, è stato presentato al Festival Theater der Welt 1981 a Colonia.
21 RWF, «Sybille Schmitz. Geschichte für einen Spielfilm», in Text und Kritik. Zeitschrift für Literatur,
luglio 1989, vol. 103, p. 11.
22 RWF, cit. in Töteberg, Rainer Werner Fassbinder, 1993, cit., p. 126. 23 Cfr. RWF, «Sybille Schmitz», cit., pp. 11 sgg. 24 Rosel Zech ebbe la sua prima particina nel film La tenerezza del lupo, diretto da Ulli Lommel e
prodotto da Fassbinder; cfr. Raab e Peters, op. cit., p. 191.
25 Così, per esempio, era previsto che Rosel Zech fosse la protagonista di un film di Fassbinder
tratto dal romanzo di George Batailles L’azzurro del cielo.
26 Rosel Zech, cit. nel necrologio del 1º settembre 2011, in Wdr-Resonanzen. 27 Cfr. Thate, op. cit., pp. 216 sgg. A partire dal 1946 Gerhard Klein (1920-1970) lavorò dapprima come sceneggiatore e assistente alla regia presso la Defa, poi fu lui stesso regista di ben dieci film. Furono soprattutto i film berlinesi Alarm im Zirkus, Berlin – Ecke Schönhauser e Der Fall Gleiwitz a renderlo uno dei registi Defa più affermati degli anni cinquanta e sessanta. 28 Ivi, p. 221. 29 Zadek, My Way, cit., p. 376. 30 RWF, 1982, cit. in Schidor, op. cit., p. 137. 31 Pitigrilli è il nome d’arte di Dino Segre, nato a Torino nel 1893. Il suo romanzo fu pubblicato per la prima volta nel 1921 dalla casa editrice Sonzogno di Milano con il titolo Cocaina. 32 Nel 1982 il libro fu nuovamente messo all’indice, la censura fu tolta definitivamente solo nel 1988. 33 RWF, «Premessa al progetto del film Cocaina», in I film liberano la testa, cit., p. 84. 34 RWF, 1981, in Limmer, op. cit., p. 134. 35 Lommel, op. cit., p. 50. 36 Romy Schneider, Ich, Romy. Tagebuch eines Lebens, Langen-Müller, Frankfurt am Main-Berlin
1992, p. 308.
37 Fassbinder stesso, nel 1980, affermò in un’intervista che Romy Schneider avrebbe avuto un
ruolo nel film tratto dal romanzo Cocaina; cfr. RWF, 1980, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, p. 176. 38 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 39 Lommel, op. cit., p. 50.
40 RWF, in Schidor, «Ich musste mein Leben gelebt haben, um diesen Film machen zu können»,
cit., p. 605.
41 RWF, cfr. la poesia Untergang / A picco (1961-62), pubblicata qui in appendice a p. 315. [N.d.T.] 42 RWF, 1968, cit. da Liselotte Eder nell’intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 43 Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 109. 44 Hanna Schygulla nel documentario Ich will nicht nur, dass ihr mich liebt di Hans Günther Pflaum, cit., 1993. 45 Harry Baer, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 113. 46 Cfr. RWF, intervista con Peter W. Jansen, «Phantasie und Geld», 1980, in Fischer (a cura di), Fassbinder über Fassbinder, cit., p. 461. 47 Michael Fengler, cit. in Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 300. 48 I testimoni dell’epoca riferiscono che quando cominciò ad assumere cocaina, negli anni 1976 e 1977, Fassbinder ne consumava tre grammi al giorno; col tempo aumentò la dose fino ad almeno sei grammi. Con i prezzi di allora, che si aggiravano intorno ai 250-300 marchi al grammo, e calcolando che Fassbinder in sei anni e mezzo ha consumato circa dodici chili di cocaina, si presume che abbia speso una somma complessiva che supera i tre milioni di marchi. 49 Cfr. Straub, op. cit., p. 130. 50 Cfr. in proposito Der Spiegel, 18 maggio 1981. 51 Cfr. RWF, 1980, in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 171. 52 Cfr. Baer, Das Mutterhaus, cit., p. 108. 53 Cfr. a questo proposito Adorf, op. cit., pp. 231 sgg. 54 Cfr. a questo proposito quanto afferma Juliane Lorenz in Stefan Elfenbein, «Einspruch einer Ungeliebten», in Die Zeit, 21 febbraio 2002. 55 Cfr. Schidor, Werner Fassbinder dreht «Querelle», cit., pp. 151 sgg. 56 Raab e Peters, op. cit., p. 288. 57 Ivi, p. 13. 58 Ibidem. 59 Cfr. Bockmayer, op. cit., p. 221. 60 Intervista dell’autore con Michael Fengler, 23 luglio 2011. 61 Michael Fengler, cit. in Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., p. 433. 62 Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 63 Zadek, Die heißen Jahre, cit., p. 194. 64 Cfr. a questo proposito la dichiarazione di Harry Baer in Raab e Peters, op. cit., p. 179. 65 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011. 66 RWF, «Imitation of Life. Sul cinema di Douglas Sirk», cit., p. 20. 67 Schroeter, op. cit., p. 232. 68 Irm Hermann nel documentario Für mich gab’s nur noch Fassbinder di Rosa von Praunheim, cit. 69 Kaufmann e Droste, op. cit., p. 168. 70 Cfr. «Schwankender Gang», in Der Spiegel, 23 ottobre 1978. 71 Juliane Lorenz, cit. in Stefan Elfenbein, «Einspruch einer Ungeliebten», cit. 72 Kaufmann e Droste, op. cit., p. 169. 73 Cfr. Eckhardt, op. cit., p. 15. 74 Cfr. le dichiarazioni di Dieter Schidor in Raab e Peters, op. cit., p. 343. 75 Cfr. Eckhardt, op. cit., p. 17.
76 Wim Wenders, «Mensch Rainer», cit., vol. 1, p. 133. 77 Cfr. Lamprecht, op. cit., pp. 401 sgg. 78 Intervista dell’autore con Elga Sorbas, 14 luglio 2011. 79 «Ich hätte mir Bianca nie ausgesucht», intervista di Ulli Lommel con Der Spiegel, 25 febbraio 2010. 80 Peer Raben, cit. in Raab e Peters, op. cit., p. 63. 81 Lommel, op. cit., p. 211. 82 Irm Hermann nel programma televisivo Alpha-Forum del Bayerischer Rundfunk, 4 dicembre 2009. 83 Intervista dell’autore con Jürgen Draeger, 17 luglio 2011. Draeger ha conosciuto Fassbinder nel 1978 a Monaco. 84 Cfr. RWF, «Ende endlos», 1978, in Rainer Werner Fassbinder. Dichter, Schauspieler, Filmemacher…, cit., vol. 1, p. 112. 85 RWF, 1977, cit. in Spaich, op. cit., p. 335. 86 RWF, 1978, nel documentario Das Kino und sein Double. Erinnerungen an Rainer Werner Fassbinders «Despair» di Robert Fischer, cit. 87 RWF, cit. in Spaich, op. cit., p. 74. 88 RWF, 1977, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 116. 89 RWF, 1981, cit. in Limmer, op. cit., p. 72. 90 Cfr. Juliane Lorenz, cit. in Stefan Elfenbein, «Einspruch einer Ungeliebten», cit. 91 Cfr. Juliane Lorenz, contenuti speciali del dvd Die dritte Generation, Kinowelt Home
Entertainment, 2004.
92 Intervista dell’autore con Ingrid Caven, 4 agosto 2011. 93 RWF, 1979-80, citato in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie,
cit., p. 221.
94 Ingrid Caven, cit. in Lorenz (a cura di), op. cit., p. 87. 95 Peter Chatel, cit. in Raab e Peters, op. cit., p. 242. 96 RWF, 1982, cit. in Töteberg (a cura di), Rainer Werner Fassbinder. Die Anarchie der Phantasie, cit., p. 193. 97 Prima di Querelle di Brest Schidor aveva coprodotto un solo film, la pellicola Endstation Freiheit, realizzata dal regista Reinhard Hauff nel 1980. 98 Il romanzo Querelle di Brest di Jean Genet era uscito anonimo nel 1947; cfr. Edmund White, Genet: A Biography, Vintage, New York 1993. 99 Cfr. Berling, Die 13 Jahre des Rainer Werner Fassbinder, cit., pp. 283 sgg. Schidor è fugacemente visibile alla fine di Nessuna festa per la morte del cane di Satana, in una scena che Fassbinder per ragioni drammaturgiche non poteva tagliare. 100 Schidor, op. cit., p. 164. 101 Pare che Fassbinder già all’inizio della sua carriera cinematografica avesse dichiarato: «Questo è un romanzo che prima o poi vorrei trasformare in un film»; cfr. Raab e Peters, op. cit., p. 73. 102 Burkhard Driest aveva già scritto la sceneggiatura per il primo film prodotto da Schidor, Endstation Freiheit. 103 Dieter Schidor, in Michael McLernon (a cura di), Querelle. Ein Filmbuch, Schirmer/Mosel, München-Paris-London 1992, p. 8. 104 Cfr. Schroeter, op. cit., p. 78. 105 Töteberg, Rainer Werner Fassbinder, 1993, cit., p. 237.
106 Cfr. Bockmayer, op. cit., p. 91. 107 Laurent Malet, cit. in Schidor, Werner Fassbinder dreht «Querelle», cit., p. 120. 108 RWF, 1982, cit. ivi, p. 131. 109 Cfr. Jeanne Moreau, «Meine Begegnung mit dem unbekannten Tänzer», in Rainer Werner Fassbinder. Dichter, Schauspieler, Filmemacher…, cit., vol. 1, p. 131. 110 Adorf, op. cit., p. 234. La scena descritta da Adorf con il poliziotto Mario, poi interpretato da Burkhard Driest, non si trova nel film. Non è chiaro se fosse presente in una precedente versione della sceneggiatura o se Adorf si confonda con le scene che doveva interpretare Brad Davis, l’attore che impersonava Querelle. 111 Helmut Berger, Ich. Die Autobiographie, Ullstein, Berlin 1998, p. 265. 112 RWF, «Note preliminari a Querelle di Brest», in I film liberano la testa, cit., p. 103. 113 Jürgen Draeger fu tra gli interpreti di La terza generazione, Berlin Alexanderplatz e Lili Marleen. 114 I disegni di Draeger furono effettivamente esposti alla prima di Querelle a Berlino, seguirono poi il tour del film nelle città tedesche e straniere, riscuotendo enorme successo. 115 Intervista dell’autore con Jürgen Draeger, 17 luglio 2011. 116 Leni Riefenstahl, Memoiren, Albrecht Knaus, München-Hamburg 1987, p. 903. 117 Axel Schock, Die Bibliothek von Sodom. Das Buch der schwulen Bücher, Eichborn, Frankfurt am Main 1997, p. 73. 118 Kurt Raab dice di aver avuto già nel 1982 l’informazione che l’autopsia di El Hedi ben Salem avrebbe confermato la «morte per impiccagione»; cfr. a questo proposito Raab e Peters, op. cit., p. 212. 119 È ciò che rivela, nel 2011, il film Ali im Paradies della regista tedesco-egiziana Viola Schafik. 120 Cfr. Schidor, Werner Fassbinder dreht «Querelle», cit., p. 172. 121 Intervista dell’autore con Jürgen Draeger, 17 luglio 2011. 122 Hellmuth Karasek, «Fassbinder: Der Tote in Venedig. Querelle auf der Berlinale», in Karaseks
Kulturkritik. Literatur, Film, Theater, Rasch & Röhring, Hamburg 1988, p. 142.
123 Dieter Schidor in una conversazione con Wolf Gremm, 24 marzo 1982, cit. in Schidor, Werner
Fassbinder dreht «Querelle», cit., p. 16.
124 Intervista dell’autore con Peter Kern, 15 luglio 2011. 125 Cfr. a questo proposito quanto afferma Dieter Schidor in Raab e Peters, op. cit., p. 341. 126 Christian Enzensberger, Querelle – Antwort auf eine nicht gestellte Frage, cit. in Schidor, Werner Fassbinder dreht «Querelle», cit., p. 82. 127 Guy Hocquenghem, «Auf der Suche nach den Bildern für ein unverfilmbares Buch», articolo per la rivista parigina Gai Pied, 1982, cit. in Schidor, Werner Fassbinder dreht «Querelle», cit., p. 34. 128 Franco Nero, cit. ivi, p. 102. 129 Jeanne Moreau, «Meine Begegnung mit dem unbekannten Tänzer», cit., vol. 1, p. 130. 130 Pat Hackett, I diari di Andy Warhol, a cura di R. Ricci, De Agostini, Novara 1989, p. 438. 131 Ivi, p. 443. 132 Andy Warhol, citato in Schidor, Werner Fassbinder dreht «Querelle», cit., p. 161: «Ho visto Querelle. Sono rimasto eccitato per un giorno intero». 133 Hackett, op. cit., p. 443. 134 Schidor, Werner Fassbinder dreht «Querelle», cit., p. 162. 135 Cit. in Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 74: «Mio Dio! Ma lei è il sorprendente
Fassbinder! Per me lei è il regista migliore al mondo!».
136 Cfr. Schidor, Werner Fassbinder dreht «Querelle», cit., p. 165. 137 «Schreck von drüben», in Der Spiegel, 31 maggio 1982.
138 Cfr. Schidor, Werner Fassbinder dreht «Querelle», cit., p. 165. 139 Anche il protagonista di Querelle di Brest Brad Davis si ammalò di Aids e morì nel 1991, dopo
aver assunto consapevolmente una dose eccessiva di droga.
140 Fonte affidabile, che ha sempre voluto rimanere anonima sia allora che in seguito (cfr. per
esempio l’articolo «Eine Seuche wird alltäglich», in Die Welt, 1° dicembre 2006), perciò anche qui l’autore, pur conoscendone il nome, rispetta l’anonimato. 141 Cfr. Eilke Brigitte Helm, «Aids in Frankfurt», hivandmore.de. 142 Ingrid Caven, cit. in Schuhl, op. cit., p. 254. 143 Liselotte Eder, intervista con Müller, «Der tote Sohn», cit. 144 Ingrid Caven, in Katja Nicodemus, «Man kann uns nicht einfach ausradieren», cit. 145 Subito dopo la morte di Fassbinder si pensò di realizzare il film postumo con un altro regista. Si parlò per esempio di Bernardo Bertolucci e Alexander Kluge. 146 Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., p. 178. 147 Cfr. Zadek, Die Wanderjahre, cit., p. 94. 148 Poiché Fassbinder non poteva più realizzare il film, Margarethe von Trotta riprese il progetto nel 1985. Il ruolo di Rosa Luxemburg andò a Barbara Sukowa, attrice di Fassbinder. 149 Cfr. Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., pp. 75 sgg. Si veda anche, a questo proposito, Schidor e McLernon (a cura di), op. cit., p. 8. 150 Münchner Merkur, 31 luglio 1982. 151 Berling, Hazard & Lieblos, cit., p. 614. 152 Cit. in Münchner Merkur, 31 luglio 1982. 153 Archivio dell’autore: Karin Mai, Statt eines Porträts eine Totenmaske. Begegnung mit R.W.
Fassbinder, manoscritto non datato proveniente dal lascito dell’artista morta nel 2006. 154 RWF, 1982, cit. in Schidor, Werner Fassbinder dreht «Querelle», cit., p. 139. 155 Cfr. Raab e Peters, op. cit., p. 16. 156 Cfr. Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, cit., pp. 178 sgg. 157 Cfr. Schuhl, op. cit., p. 243; si veda anche Raab e Peters, op. cit., p. 17.
158 Per la descrizione del ritrovamento del cadavere di Fassbinder mi sono basato sulla testimonianza di Juliane Lorenz; cfr. a questo proposito Stefan Elfenbein, «Einspruch einer Ungeliebten», cit. 159 Baer, Schlafen kann ich, wenn ich tot bin, p. 110. 160 Cfr. Stefan Elfenbein, «Einspruch einer Ungeliebten», cit. Qui si cita il rapporto dell’autopsia, oggi in possesso di Juliane Lorenz. 161 Una persona della cerchia di Fassbinder aveva progettato di riprodurre in serie la maschera mortuaria e di metterla in circolazione attaccandola con puntine e spilli al ritratto del regista. Per impedirlo, Liselotte Eder, che in un primo tempo aveva acconsentito all’acquisizione della maschera mortuaria da parte di Karin Mai, procedette per vie legali contro questa iniziativa e fece vietare qualsiasi utilizzo e ulteriore divulgazione della maschera mortuaria di suo figlio. 162 Archivio dell’autore: Karin Mai, Statt eines Porträts eine Totenmaske. Begegnung mit R.W. Fassbinder, manoscritto non datato, cit. 163 Cfr. Juliane Lorenz, in Stefan Elfenbein, «Einspruch einer Ungeliebten», cit. 164 Non è chiaro se le cose andarono veramente così. Gli atti dell’ufficio di medicina legale di Monaco riferiscono che «non c’era ragione di procrastinare la consegna del cadavere», che deve quindi essere avvenuta subito dopo l’autopsia. 165 Intervista dell’autore con Jürgen Draeger, 22 luglio 2011.
Rainer Werner Fassbinder durante una conferenza stampa, 1970. © ullstein bild
I membri dell’antiteater di Monaco. Da sinistra: Kerstin Dobbertin, Rainer Werner Fassbinder, Hanna Schygulla, Günther Kaufmann, Ursula Strätz, Rudolf Waldemar Brem, Kurt Raab, Margit Carstensen, Harry Baer, Peer Raben. © Peter Gauhe
Fassbinder (a destra) con Hanna Schygulla e Ulli Lommel nel suo primo film L’amore è più freddo della morte, 1969. © ullstein bild
Con Hanna Schygulla in Katzelmacher, che ottenne ben cinque riconoscimenti del Bundesfilmpreis, 1969. © ullstein bild
Con Mario Adorf alla Berlinale (Festival del cinema di Berlino), 1972. Sullo sfondo il compagno di allora, El Hedi ben Salem. © ullstein bild
Con l’ex moglie, l’attrice e cantante Ingrid Caven, 1973. © ullstein bild
Con l’attrice Brigitte Mira, che per il ruolo di protagonista femminile in La paura mangia l’anima aveva ottenuto il Nastro d’oro nel 1974. © Ludwig Binder
Concorrente nel gioco a premi televisivo di Hans Rosenthal Dalli Dalli, aprile 1974. © ullstein bild
Con il giornalista televisivo Jürgen Kritz in un talkshow, 1976. © ullstein bild
In un talkshow della Lach- und Schießgesellschaft (cabaret politico) di Monaco, 1975. © Bildarchiv Preußischer Kulturbesitz
Durante una festa in costume alla Deutsche Eiche, la sua osteria preferita a Monaco, 1975 circa.
Con il compagno Armin Meier durante una festa in costume alla Deutsche Eiche, 1975 circa.
Con Irm Hermann nel film Il diritto del più forte, 1975. © ullstein bild
La prima produzione internazionale: Despair, 1977. Qui con il protagonista Dirk Bogarde e Andréa Ferréol. © ullstein bild
Con l’attrice Margit Carstensen alla Berlinale, 1979. © ullstein bild
Con Horst Buchholz e Hanna Schygulla alla Berlinale, 1979. © ullstein bild
Davanti al manifesto del suo film Lili Marleen in occasione della proiezione di gala a Monaco, gennaio 1981. © ullstein bild
Con Günter Lamprecht e Hanna Schygulla durante le riprese del film a puntate Berlin Alexanderplatz, 1979. © ullstein bild
Con Elisabeth Trissenaar e Günter Lamprecht durante le riprese di Berlin Alexanderplatz, 1980. © ullstein bild
«Il cineasta Fassbinder»: storia di copertina del settimanale Der Spiegel, ottobre 1980.
Il domatore e la sua vittima: in scena con Hanna Schygulla nella trasmissione televisiva Stars in der Manege (Star nell’arena), dicembre 1980. © ullstein bild
Con Rosel Zech, protagonista del film Veronika Voss, 1982. © ullstein bild
Con Brad Davis e Andy Warhol durante la lavorazione di Querelle, marzo 1982. © Chr. Makos
Durante le riprese del suo ultimo film, Querelle, marzo 1982. © Regina-ZieglerFilmproduktion
Busto in gesso di Rainer Werner Fassbinder, realizzato postumo dalla scultrice Karin Mai, che prese anche il calco per la maschera mortuaria. © Lascito Karin Mai
Sommario Copertina Colophon Frontespizio Dedica Introduzione in forma d’intervista di Hella Schlumberger UN GIORNO È UN ANNO È UNA VITA Esergo Premessa. Life is so precious – even right now Un bambino raggelato. 1945-1963 Colpito da una pubertà quasi assassina Una deviazione, passando per il teatro. 1963-1969 Quel che si chiama amore Sapevo che avrei fatto film E poi naturalmente il Grand-Guignol fassbinderiano Il ragazzo prodigio del cinema tedesco. 1969-1970 Questo giovane cinema tedesco è fottuto L’estrema assurdità della vita vissuta Ormai mi posso permettere un sacco di cose. 1970-1971 Forse l’amore è un’impostura A macchia di leopardo Un po’ di disprezzo per gli esseri umani Molte cose feriscono, qualcuna uccide. 1971-1973 Film di morte e d’amore Dalla televisione il pubblico si aspetta una certa dose di realtà In fondo voglio soltanto che mi amiate. 1973-1974 Non avevo dubbi che un giorno o l’altro sarebbe accaduto È bello veder pensare una donna Faccio film per farvi infuriare Mi fraintendono nel modo più indegno. 1974-1977
The Most Original Talent since Godard Tutto ciò che mi fa male mi fa bene La sola cosa che accetto è la disperazione Viaggio al centro della tristezza Un viaggio nella luce. 1977-1980 Io sparo in ogni direzione Solo ora comincia il mio tempo Ora ho finalmente in mano questo mestiere Potrò dormire quando sarò morto. 1980-1982 Che bisogno c’era dell’Orso d’oro La paura della fine Each Man Kills the Thing He Loves Ringraziamenti APPENDICI Nota all’edizione italiana Poesie Filmografia Teatrografia Note Immagini