Un etnosemiologo nel museo 8893852497, 9788893852494

Il 12 dicembre 2019 si è svolta la giornata di studi su semiotica e museologia presso il Dipartimento delle arti dell’Un

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Quaderni di Etnosemiotica
UN ETNOSEMIOLOGO NEL MUSEO
Indice
L’etnosemiotica al museo. Un’introduzione
Prima Parte Il Museo di Palazzo Poggi Le analisi
Oltre la soglia: il caso del museo di Palazzo Poggi
Osservazioni preliminari
Soglie e percorsi
La visita al Museo
Conclusioni
Bibliografia
Palazzo Poggi: il corpo al museo
Introduzione. Il corpo come Soggetto della narrazione artistica
Il caso di Palazzo Poggi: arte e scienza
Il percorso anatomico. I step: La Sala di Camilla
Il percorso anatomico. II step: La Sala delle cere anatomiche
Contesto didattico e informativo scavalcato da meraviglia e spettacolo
Il percorso anatomico. III step: La Sala dei coniugi Morandi-Manzolini
Il problema della poca riconoscibilità: attrazione verso l’ultimo step
Il percorso anatomico. IV step: La Sala della Venerina
Considerazioni finali
Bigliografia
Il museo di Ulisse Aldrovandi e la biblioteca: due esposizioni del sapere a confronto
Introduzione alle stanze
Una diversa fruizione dello spazio
La moltitudine in scala del museo di Ulisse Aldrovandi
La biblioteca museale di palazzo poggi
Il museo secondo Foucault
Bibliografia
L’illuminazione all’interno dell’allestimento museale
Introduzione: il contratto fiduciario
Il giusto compromesso tra visibilità e conservazione
La sfida di Palazzo Poggi
Il valore deittico della luce: luce puntuale e luce generale
I dipinti murali
La prensione impressiva del senso
Conclusioni
Bibliografia
Palazzo Poggi - Spazialità tra immagine e discorso
Introduzione - La spazialità come sistema linguistico
Spazialità museale - Illustrare con le stanze e valorizzare la fruizione
Palazzo Poggi - Tra ricostruzione filologica ed effetti di senso
Sala dei Feti - Quando la stanza si fa immagine e discorso
Sala delle Cere Anatomiche - La visita come trasformazione di valori
Sguardi e percorsi - Aperture, chiusure e tendenze valorizzate
Conclusioni - Gli spazi museali come forme del sapere
Bibliografia
Seconda parte Etnosemiotica e musei
La teca e l’evento: percorsi etnosemiotici ai limiti del museo
Al limite: introduzione
Ai limiti della polis: Blu e la polemica infinita
Bibliografia
Il digitale e i musei: la fruizione dei beni culturali in realtà aumentata e realtà virtuale
Introduzione
Realtà aumentata e realtà virtuale
Realtà aumentata
Il museo di Palazzo Poggi
Realtà virtuale
Thresholds di Mat Collishaw
Conclusioni
Bibliografia
Modelli semiotici per lo studio del museo
Per una tipologia semiotica del museo di Belle Arti
Una gerarchia di livelli semiotici
Il visitatore misterioso
Bibliografia
Musei e mediazione: La scienza (naturale) ad arte
Bibliografia
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Un etnosemiologo nel museo
 8893852497, 9788893852494

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ETNOSEMIOTICA

Testi di M. Abruzzese, M.C. Addis, G. Dal Forno, M. Mancosu, O. Mosca, I. Pezzini, A. Puggioni, C. Tartarini, N. Villani. Introduzione di F. Marsciani.

ISSN 2420-9015

ISBN 978-88-9385-249-4

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QE

a cura di: Francesco Marsciani - UN ETNOSEMIOLOGO NEL MUSEO

Il 12 dicembre 2019 si è svolta la giornata di studi su etnosemiotica e museologia presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna. In questo volume i contributi degli intervenuti. L’iniziativa si è collocata a conclusione di un percorso di ricerca condotto durante i corsi di Etnosemiotica dei due anni precedenti, svolto con gli studenti e arricchito da contributi esterni sollecitati a esperti del tema. Particolarmente evidente, nel corpo stesso di questa pubblicazione, risulta il lavoro svolto sul Museo di Palazzo Poggi, presso l’Università di Bologna, durante il quale molti sguardi si sono esercitati e confrontati e che qui rilanciano la sfida: come fare etnosemiotica nel museo? Cosa può dire l’etnosemiotica dell’esperienza di visita e cosa può scoprire delle strutture di produzione di senso che i musei, in generale e nelle loro specificità, mettono in atto attraverso il loro allestimento, le loro scelte espositive, le loro strategie di promozione e di divulgazione, la loro costruzione dell’interesse? Intorno a queste domande la giornata di studi ha organizzato due momenti tra loro distinti ma convergenti: una prima parte dedicata alla presentazione dei risultati della ricerca sul Museo di Palazzo Poggi, presentazione che è stata accompagnata da una tavola rotonda con esperti di gestione della realtà museale, e una seconda parte alla quale sono state invitate quattro ricercatrici che sul museo, sui musei e sulla musealità hanno abbondantemente riflettuto nel corso degli ultimi anni. Ne risulta un campo articolato di osservazioni, domande e approfondimenti, soprattutto un confronto a più voci, che è l’occasione per restituire alla realtà dei musei, oggi, tutta la ricchezza che questi spazi manifestano, sia nelle loro versioni più tradizionali che nelle realizzazioni contemporanee più innovative.

QE

QUADERNI DI ETNOSEMIOTICA Collana diretta da Francesco Marsciani

a cura di:

Francesco Marsciani

UN ETNOSEMIOLOGO NEL MUSEO

Euro 19,00

www.editrice-esculapio.it

MARSCIANI_Etno_museo_copertina.indd 1

27/05/2021 09:49:57

Collana

Quaderni di Etnosemiotica Direttore: Francesco Marsciani Comitato Scientifico • • • • •

Paolo Fabbri† (Università LUISS – Roma) Tarcisio Lancioni (Università di Siena) Eric Landowski (CNRS – Parigi) Jorge Lozano† (Università Complutense – Madrid) Ana Claudia Mei de Oliveira (Pontificia Universidad Catolica – San Paolo)

Comitato Editoriale • Paola Donatiello • Francesco Galofaro • Giuseppe Mazzarino ISSN 2420-9015 editrice-esculapio.com/etnosemiotica VIA MASCARELLA Declinazioni di uno spazio denso L. Accardo, P. Donatiello, E. Liborio, M. Palestrini IL POTERE DELL’IPNOSI Proposte teoriche per un’etnosemiotica Giuseppe Mazzarino DOPO GERICO I nuovi spazi della psichiatria Francesco Galofaro CORPO, LINGUAGGIO E SENSO tra Semiotica e Filosofia P. Amoroso, G. De Fazio, R. Giannini, E. Lucatti AUTORAPPRESENTAZIONE E NEGOZIAZIONE DELL’IDENTITÀ CULTURALE Il caso degli indigeni Mbya-Guarani Jaqueline Crestani

L’ISOLA CHE NON C’È. SULLA COSTA SMERALDA, O DI UN’U-TOPIA CAPITALISTA Volume 1. Ai bordi del globo: il mito Maria Cristina Addis TRA “ETNO” E “SEMIOTICA” Vol. I Affinità e divergenze ai margini di due discipline Paola Donatiello, Giuseppe Mazzarino TRA “ETNO” E “SEMIOTICA” Vol. II Affinità e divergenze ai margini di due discipline Paola Donatiello, Giuseppe Mazzarino A LEZIONE DI CANTO BAROCCO Lì dove nasce un cantante Francesca Scanu VIALE TOGLIATTI A ROMA: UNA STRADA IN CERCA D’AUTORE Un’inchiesta semiotica tra paesaggio, pratiche, rappresentazioni Isabella Pezzini e Riccardo Bertolotti SUL TIFARE IL TARANTO Ricerca etnosemiotica intorno ad una disaffezione Michele Dentico UN ETNOSEMIOLOGO NEL MUSEO a cura di Francesco Marsciani LA PRATICA RELIGIOSA CATTOLICA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS Tra lo spazio sacro e lo spazio virtuale Chiara Petrini Quaderni di Etnosemiotica è una collana scientifica. Affida la valutazione della qualità dei lavori pubblicati alla discussione pubblica e alle recensioni. Non si affida ad altre forme di giudizio preliminare (in particolare anonime), che non siano le decisioni editoriali sotto la responsabilità esplicita del direttore. Bologna, Esculapio Editore

QUADERNI DI ETNOSEMIOTICA

a cura di: Francesco Marsciani

UN ETNOSEMIOLOGO NEL MUSEO

ISBN 978-88-9385-249-4 © Copyright 2021 Società Editrice Esculapio s.r.l. Via Terracini, 30 - 40131 Bologna www.editrice-esculapio.com - [email protected] Impaginazione: Laura Tondelli Layout Copertina: Laura Tondelli Stampato da: LegoDigit - Lavis (TN) Printed in Italy Le fotocopie per uso personale (cioè privato e individuale, con esclusione quindi di strumenti di uso collettivo) possono essere effettuate, nei limiti del 15% di ciascun volume, dietro pagamento alla S.I.A.E del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Tali fotocopie possono essere effettuate negli esercizi commerciali convenzionati S.I.A.E. o con altre modalità indicate da S.I.A.E. Per le riproduzioni ad uso non personale (ad esempio: professionale, economico o commerciale, strumenti di studio collettivi, come dispense e simili) l’editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre un numero di pagine non superiore al 15% delle pagine del volume. CLEARedi - Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali Corso di Porta Romana, n. 108 - 20122 Milano. e-mail: [email protected] - sito: http://www.clearedi.org.

Indice Francesco Marsciani L’etnosemiotica al museo. Un’introduzione................VII Prima parte: IL MUSEO DI PALAZZO POGGI LE ANALISI.......... 1 Annalaura Puggioni Oltre la soglia: il caso del museo di Palazzo Poggi......... 3 Osservazioni preliminari................................................ 3 Soglie e percorsi............................................................ 6 La visita al Museo ......................................................... 9 Conclusioni................................................................. 13 Bibliografia.................................................................. 14 Sitografia..................................................................... 15 Marta Mancosu Palazzo Poggi: il corpo al museo.................................. 17 Introduzione. Il corpo come Soggetto della narrazione artistica...................................................... 17 Il caso di Palazzo Poggi: arte e scienza......................... 17 Il percorso anatomico. I step: La Sala di Camilla......... 18 Il percorso anatomico. II step: La Sala delle cere anatomiche.......................................................... 21 Il percorso anatomico. III step: La Sala dei coniugi Morandi-Manzolini..................................................... 24 Il percorso anatomico. IV step: La Sala della Venerina....26 Considerazioni finali................................................... 27

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Bigliografia.................................................................. 28 Sitografia..................................................................... 28 Giorgio Dal Forno Il museo di Ulisse Aldrovandi e la biblioteca: due esposizioni del sapere a confronto......................... 29 Introduzione alle stanze............................................... 29 Una diversa fruizione dello spazio............................... 30 La moltitudine in scala del museo di Ulisse Aldrovandi... 32 La biblioteca museale di palazzo poggi........................ 34 Il museo secondo Foucault.......................................... 37 Bibliografia.................................................................. 40 Marianna Abruzzese L’illuminazione all’interno dell’allestimento museale... 41 Introduzione: il contratto fiduciario............................ 41 Il giusto compromesso tra visibilità e conservazione.... 42 La sfida di Palazzo Poggi.............................................. 43 Il valore deittico della luce: luce puntuale e luce generale....................................................................... 43 I dipinti murali............................................................ 48 La prensione impressiva del senso............................... 49 Conclusioni................................................................. 50 Bibliografia.................................................................. 50 Nicolò Villani Palazzo Poggi - Spazialità tra immagine e discorso....... 53 Introduzione - La spazialità come sistema linguistico... 53 Spazialità museale - Illustrare con le stanze e valorizzare la fruizione................................................ 54 Palazzo Poggi - Tra ricostruzione filologica ed effetti di senso............................................................. 55

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Sala dei Feti - Quando la stanza si fa immagine e discorso....................................................................... 56 Sala delle Cere Anatomiche - La visita come trasformazione di valori..................................... 58 Sguardi e percorsi - Aperture, chiusure e tendenze valorizzate.................................................... 59 Conclusioni. Gli spazi museali come forme del sapere... 61 Bibliografia.................................................................. 62 Seconda parte: ETNOSEMIOTICA E MUSEI.................................... 65 Maria Cristina Addis La teca e l’evento: percorsi etnosemiotici ai limiti del museo.................................................................... 67 Al limite: introduzione ............................................... 67 Conosci i tuoi limiti: Marina Abramovic e l’arte della verità.................................................................. 73 Ai limiti della polis: Blu e la polemica infinita.............. 81 Bibliografia.................................................................. 85 Sitografia..................................................................... 86 Ottavia Mosca Il digitale e i musei: la fruizione dei beni culturali in realtà aumentata e realtà virtuale............................ 89 Introduzione............................................................... 89 Realtà aumentata e realtà virtuale................................ 90 Realtà aumentata......................................................... 91 Realtà virtuale........................................................... 101 Conclusioni............................................................... 109 Bibliografia................................................................ 111 Sitografia................................................................... 114

Isabella Pezzini Modelli semiotici per lo studio del museo................. 115 Per una tipologia semiotica del museo di Belle Arti.... 117 Una gerarchia di livelli semiotici................................ 123 Il visitatore misterioso............................................... 125 Bibliografia................................................................ 131 Chiara Tartarini Musei e mediazione: La scienza (naturale) ad arte..... 135 Bibliografia................................................................ 158 Sitografia................................................................... 160

L’etnosemiotica al museo. Un’introduzione Francesco Marsciani Quando l’etnosemiologo va al museo, dovrebbe andarci di diritto con tutta l’ingenuità di cui è capace, dopo aver sospeso un buon numero di luoghi comuni che lo accompagnano abitualmente e che, come capita ai più, ne condizionano lo sguardo e gli fanno pre-interpretare oggetti, spazi e suoi simili, proprio quei simili che caracollano nelle gallerie insieme a lui di fronte a pareti, teche, gabbie e altri strani stalli occupati dalle “cose da vedere”. Tanto per cominciare l’etnosemiologo dovrebbe porsi una domanda preliminare, anzi due: cosa si intende per etnosemiotica (che è come dire: chi sono io in questo momento) e cosa si intende per museo. Belle domande per un titolo di volume che raccoglie gli Atti di una giornata di studi a sua volta intitolata appunto. Un etnosemiologo nel museo! La giornata ha avuto luogo nell’Aula Magna del Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, nel complesso di Santa Cristina il 12 dicembre 2019 e si è svolta in maniera del tutto profittevole, ma almeno una delle domande appena proposte, la prima, è rimasta vagamente nell’ombra. Non così per l’altra, ovvero cosa si intende per museo, poiché, quando esplicitamente quando in modo più inscritto nelle modalità di esposizione e nelle analisi, il museo come tale è stato davvero messo in discussione, quantomeno per il fatto che di esso sono apparse versioni multiple e variegate, prese tutte nella rete

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delle varietà di realizzazione e nel flusso delle trasformazioni cui il museo come spazio-istituzione è sottoposto soprattutto in questi ultimi anni. Eppure le due domande si rispecchiano. Se infatti è naturale accogliere come inevitabile e giusta la questione che porta sulla natura del museo come oggetto d’analisi dell’etnosemiotica (e, in fondo, delle semiotiche che a questo compito hanno già dedicato non poche pagine), meno scontata è la domanda a proposito della natura dell’etnosemiotica, perché ci si può chiedere, e giustificatamente, che c’entra col museo la questione di una definizione, o almeno di una messa a punto, dell’etnosemiotica come pratica descrittiva e disciplina a vocazione scientifica, cosa che comunque essa è. Partiamo allora da qui. I musei – in qualche modo tutti i musei – ci mettono a disposizione immani raccolte di oggetti, e quando dico oggetti non intendo “cose”, le cose che vi si trovano, bensì oggetti in senso proprio, epistemico, ovvero poli di uno sguardo che ad essi si volge e che ne fa obiettivi di conoscenza, apprezzamento, attenzione, e poi tutta la gamma delle emozioni connesse, curiosità, meraviglia, stupore, godimento, interesse, ecc. I musei sembrano costituire la realizzazione storica di una funzione per la quale parrebbero essere stati inventati: prelevare dal continuo spazio-temporale di un mondo in perenne cambiamento ciò che di volta in volta sembra valere, o meritare di valere, e quindi meritare di essere raccolto, protetto, fissato e messo a disposizione di un intento che non saprei definire altrimenti e più precisamente che presa, cattura, assimilazione, una sorta di congiunzione – cognitiva o estetica poco importa – alla quale quell’altra cosa un po’ strana e vaga che chiamiamo civiltà sembra dedicarsi in

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una porzione del suo tempo. Il museo, allora, sembra fare quel che fanno le scienze quando preparano i loro oggetti di conoscenza e di studio sistemandoli per bene sul tavolo del laboratorio; ma non solo, partecipa anche alla mossa preliminare che consiste nel vaglio e soprattutto nella valorizzazione di ciò che merita, dicevamo, di essere disposto su quel tavolo, su quelle tavole, entro quelle vetrine o su quelle pareti. Il museo, in quanto istituzione naturalmente (non necessariamente il singolo museo che andiamo a visitare), per quel tanto che costituisce la raccolta di ciò che conta, opera alla costituzione di un deposito di valori incorporati, valorizza, promuove e fa circolare a suo modo tali valori e per questo crea, elabora e trasforma le categorie che articolano un senso diffuso e condiviso. Naturalmente è possibile considerare il museo nient’altro che lo strumento di una tale funzione, lo strumento di una cultura che, dati i valori di cui vive ed è intrisa, ne fissa gli esemplari nelle sue raccolte museali. Ma sarebbe non cogliere la natura già musealizzata dell’idea stessa della raccolta di esemplari, sarebbe non dare il giusto peso alla mediazione costitutiva che il museo in quanto tale istituisce e permette, la mediazione tra il momento della selezione e quello della messa a disposizione, tra la scelta e l’esposizione. Il museo offre così all’etnosemiotica una sorta di modo esemplare di costituzione di mondo, una sorta di grande montaggio che comincia con la selezione di ciò che vale – e in questo modo si dota di oggetti che abitano quel mondo destinato a diventare mondo-proprio – e prosegue con l’ordinamento di tali oggetti, la loro classificazione, le coerenze da concatenare, le sequenze da costruire, e infine l’allestimento della

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loro messa a disposizione, della loro visibilità e più in generale della loro accessibilità. Non è altro che ciò di cui l’etnosemiotica va alla ricerca in ogni pratica di senso che decide di prendere in esame, poiché se c’è qualcosa che l’etnosemiotica rivendica come posizionamento proprio, come tratto che vorrebbe distintivo del proprio modo di operare secondo una vocazione scientifica, è precisamente il rilevamento di tutti i luoghi e i momenti in cui una categorizzazione si innesca, in cui una forma di mondo prende vita, in cui una relazione di valore tra soggetti ed oggetti si stabilisce e in cui, attraverso le pratiche della loro frequentazione, l’insieme ordinato degli oggetti che così emergono, ordinato secondo le molteplici possibilità delle combinazioni e delle connessioni, prende a costruire immagini di mondo, intorni stabilizzati, configurazioni accettabili. Si tratta quindi di una situazione diffusa e capillare, quella stessa che l’etnosemiotica scova, o prende di mira, nelle pieghe di ogni pratica di cui si interessa, ma nel caso del museo è come se la pratica museale, diciamo la “grande pratica” museale, quella che coinvolge il museo come, abbiamo detto, istituzione culturale della taglia di una cosiddetta civiltà, si facesse campo privilegiato, sia nelle sue produzioni esplicite di strategie espositive, sia in tutte le scelte implicite e meno consapute, comprese le grandi trasformazioni storiche e sociali, quelle che fanno epoca, delle valorizzazioni e delle categorizzazioni di cui le diverse forme museali sono la testimonianza. E non si tratta semplicemente del fatto in sé, per così dire, del fenomeno della categorizzazione in quanto tale, del meccanismo articolato di selezione e esposizione che svela i grandi movimenti della valorizzazione, bensì dei dettagli

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del processo, dettagli che il museo sembra rendere oltremodo evidenti nella loro relativa necessità: selezione, certo, ma allo stesso tempo produzione di distanza, apertura di uno spazio di osservazione che accompagna sia l’identificazione del “pezzo” che la sua inquadratura dentro al frame dell’apprezzamento, che alla fine si determina come buone pratiche di visita, di volta in volta costruite e dettate come adeguate al tipo di oggetti, al tipo di visioni, al tipo di prese. Nell’analizzare le singole realizzazioni, i singoli musei, o anche nel comparare tra loro i diversi tipi di museo, appaiono evidenti le differenti strategie di messa in valore, oltre che le differenti scelte dei materiali esposti e dello stile di presentazione. Si tratta di organizzazione della luce, di maggiore o minore accessibilità sensibile agli oggetti, di decisioni relative agli orari di visita, di concessione di spazi a mostre temporanee, di predeterminazione più o meno stretta e vincolante dei percorsi dei visitatori, e di tutto questo avremo ampi esempi nei testi che seguono in questo volume, ma ciò che preme qui mettere a fuoco è il fatto che l’insieme di questi aspetti costituisce il campo generale di articolazione di quel fenomeno, che è per intero etnosemiotico, che consiste nell’elaborazione di una sorta di pacchetto identitario che ogni cultura si predispone e che finisce per rappresentare una specie di memoria collettiva che attesta di ciò che, dicevamo, vale, ha valore e richiede una sensibile messa in valore. Valgono i dipinti degli impressionisti, valgono le apparecchiature elettriche di Edison, valgono le specie ornitologiche del passato, valgono i monumenti romani, valgono le carte dei trattati politici, valgono gli incunaboli, valgono gli strumenti musicali delle melodie popolari marocchine, le

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frecce avvelenate degli indios, i mobiles di Calder, i primi velivoli a motore insieme ai progetti leonardeschi di eliche volanti … tutta roba da museo. Quale incredibile e possente macchina di valorizzazione può macinare tutti questi processi di selezione, di accostamento, di accorpamento e raccolta, che da subito si distaccano dalla bulimia collezionistica e la affinano elaborando temi, poetiche e campi di valore, grandi generi di raccolta e presentazione, dalle realizzazioni più sobrie e discoste (piccoli gioielli di provincia) fino alle più spettacolari, ipermediali e fantasmagoriche? Quale cultura, quale “civiltà” nasconde nelle proprie viscere questa produzione potente e questo bisogno di preservare, conservare, salvare, custodire quel qualcosa che sarà sempre solo un qualcosa, il qualcosa, il rappresentante, l’esemplare, il reperto, il segno di ciò che è stato, ma anche che è o che sarà come mondo possibile? È come costruirsi la casa, o la tana, in ogni caso l’abitazione, che decide del punto di vista come di un punto collocato nel mondo, in uno degli infiniti centri dell’orizzonte, per l’esercizio di una sensibilità totale. Ogni museo istituisce così un punto di vista con una sua nicchia dall’interno della quale esercitare questa passione che definire scopica sarebbe riduttivo, perché è vero che la vista gioca un ruolo dominante in questo tipo di metabolismo dell’oggettività, ma non senza intrattenere strettissimi rapporti con le altre forme della sensibilità, a partire dalla tattile, ovviamente, ma con estensioni del tutto prevedibili all’olfatto, l’udito e il gusto, e non solo a causa del tipo di oggetti esposti che possono appartenere a campi diversi della sensibilità, ma anche, e forse in modo più fondamentale, a causa della natura della sensibilità stessa che è sempre sincretica e sinestesica e che

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non prevede la presa senza l’insieme delle componenti di una soggettività intenzionale e incorporata, dove anche la cognizione fa necessariamente la sua parte. L’importante tuttavia è comprendere come il museo rappresenti il costituirsi di uno spazio speciale, uno spazio che prende un proprio posto nel mondo, distinto dagli spazi dei percorsi quotidiani, e che valorizza, entro le coordinate di senso che quel posto garantisce, uno sguardo orientato, uno sguardo che procede da quel punto che è il punto di vista verso la totalità di quel mondo che nel museo trova sede, qualunque mondo sia e che è sempre, ovviamente, una porzione di mondo, ma che si fa mondo intero per lo sguardo che il museo stesso configura ogni volta. Ritagliare dunque lo spazio della visione (chiamiamola così per comodità) nel mentre si ritagliano i pezzi da esporre. Li si ritagliano dal continuum di un divenire sazio-temporale per esporli in quell’altro ritaglio che è lo spazio dell’esposizione. Due ritagli, dunque, due selezioni, due valorizzazioni che producono enti (soggetti da una parte e oggetti dall’altra) a partire dalla differenza saliente, una differenza per la presa (il suo luogo) e una differenza per il mondo (i suoi insiemi). Ogni museo separa il soggetto dall’oggetto, o viceversa; strappa, per così dire, il soggetto dal mondo cui appartiene e così fa con la selezione degli oggetti, a loro volta, l’abbiamo detto, strappati dal divenire e mette gli uni di fronte agli altri in uno spazio appositamente allestito, uno spazio che il museo stesso apre tra i due poli e che mette in tensione programmata secondo diversi modi e diverse intensità. E la gamma dei possibili è ovviamente ampia: si passa dai reperti naturali delle collezioni scientifiche che instaurano un campo di oggettività per uno sguardo minuziosamente costruito

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attraverso lo studio e l’acquisizione di una competenza controllata (sguardo da lontano), alle gallerie dei prodotti dell’ingegno umano, artistico o tecnico che sia, per uno sguardo stupito, commosso e orgoglioso di un soggetto conspecifico (sguardo a fianco), ai musées de l’homme che mettono in scena le testimonianze di una nostra naturalità e producono così uno stralunato rispecchiamento del soggetto nel suo oggetto (sguardo riflesso), alle riproduzioni di mondi, dagli orti botanici ai futuribili scenari di un avvenire da immaginare alle ricostruzioni storiche d’ambiente (sguardo itinerante). Tutte queste procedure sono quanto di più testimoniale l’etnosemiotica possa sperare di mettere a fuoco relativamente ad alcuni fondamenti di ogni determinazione: la creazione di un soggetto e la corrispettiva creazione di un oggetto, le messa in forma dello sguardo, la sua declinazione e la sua attivazione, da un lato, e la messa in scena di un mondo, incorniciato e rallentato – se non fissato in teca come si fa coi lepidotteri – predisposto per l’esposizione, illuminato, sacralizzato ed esaltato nel suo discreto fulgore, oggetto che è diventato qualcosa, ha superato la prova, può essere mostrato, degno, meritevole, venerabile. Il museo per l’etnosemiotica, dunque, quasi dovessimo dimostrarlo, eppure un’opportunità vera e un campo non solo popolato da oggetti di studio ma anche da promesse di crescita e da sfide per la comprensione di sé, per la messa a punto dello sguardo etnosemiotico come il proprio di un soggetto epistemologico autoriflessivo. Dall’altro lato – quello dell’etnosemiotica per i musei – le cose sono più chiare e già più collaudate. Non solo vi sono abbondanti possibili riferimenti a lavori semiotici

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che hanno preso in conto la realtà museale e che quindi hanno già disboscato più che un poco il terreno su cui esercitarsi, ma i suggerimenti sembrano affiorare numerosi già in questo volume che si vuole inaugurale per la prospettiva che proponiamo. Vi si leggeranno bibliografie che rinviano ad altre ricerche, ma soprattutto vi si leggeranno spunti e approfondimenti di cui fare tesoro. Dal punto di vista etnosemiotico l’analisi delle realtà museali gode della libertà di adozione di svariate messe a fuoco possibili. Ogni singolo museo può essere trattato dal punto di vista della sua organizzazione spaziale, da quello dell’organizzazione delle visite, da quello della comunicazione, da quello della sua identità in svariati ordini di contesti, da quello della sua fruibilità, da quello delle tipologie di oggetti che raccoglie, combina ed espone, e così via. Proprio a questo proposito gli interventi qui raccolti hanno il grande pregio di prendere in considerazione la varietà delle situazioni facendo attenzione ai casi-limite, ai conflitti, alle trasformazioni, alle aperture sulla socialità viva e alle strategie di definizione e ridefinizione costante dei tratti che identificano il/i museo/i, aiutandoci da un lato a seguire le avventure di questa entità complessa e un po’ camaleontica, dall’altro a comprendere le varie realizzazioni come declinazioni specifiche di un sostrato che soltanto una definizione astratta di museo, della sua funzione di senso, può permetterci di comprendere. Vi è quindi, tracciato da tutti i lavori qui raccolti, un piano che può essere deciso, per così dire, dallo sguardo etnosemiotico e che dipende meno dal tipo di oggetto esaminato che dalle condizioni cui ogni museo realizzato deve soggiacere e anche qui dunque, come nei confronti di ogni testualità empirica, di ogni manifesta-

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zione di un oggetto significante, è possibile riconoscere ed elaborare un piano di immanenza sul quale percorrere gli svariati possibili flussi di significazione, le selezioni e le combinazioni, come si direbbe in linguistica, che rendono ogni museo un oggetto specifico, una realizzazione particolare e un’esecuzione singolare di quella che nelle righe più sopra abbiamo già indicato come la funzione generale, fondativa e costitutiva di questa cosa, questa configurazione strutturale che è la musealità. Si tratta del terreno delle scene discorsive, di quelle organizzazioni di senso che configurano scene come mondi enunciati e che decidono dell’immagine totale di cui una manifestazione specifica ci fa fare esperienza. Se, come si dice, ogni museo configura un’esperienza specifica, se ci fa vivere una realtà sui generis e ci fa entrare in un mondo che esso si ritaglia rispetto al mondo “esterno”, questo è perché ogni volta vi è un ingresso e un’uscita, un ingresso e un’uscita dallo spazio concreto che il museo rappresenta, certo e banalmente, una biglietteria spesso e anche uno shop corner, ma è chiaro che non è questo il punto. Nel museo si entra e dal museo si esce anche quando si tratta di un pacchetto turistico che vi fa fare una visita in autobus alla città d’arte o alle popolazioni andine che vi attendono nei loro villaggi. Si entra e si esce dal museo anche quando si asporta un murales da un muro di un quartiere popolare (v. infra il contributo di Addis) e si entra e si esce anche quando non si fa altro che indossare un caschetto per la realtà virtuale (v. infra Mosca). Così l’entrata e l’uscita non sempre sono entrate e uscite da spazi da riempire e già popolati di opere e cose, ma sono sempre più spesso entrate e uscite da spazi che si offrono essi stessi come monumenti da visitare, da

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osservare e apprezzare come architetture, opere che raccolgono opere, stratificazioni di soglie su cui si giocano i livelli di accesso e su cui il senso di ogni visita di addensa e si intensifica (v. infra Pezzini), o altrimenti si mescolano le visite secondo forme e valori non sempre decidibili nella loro purezza tipologica, in quel gioco sempre più complesso che vede gli sconfinamenti tra musei d’arte e musei scientifico-tecnologici e storici e esperienziali, dove le fasce di età, i livelli di competenze richieste e le adeguatezze dei comportamenti sembrano ogni volta da rinegoziare (v. infra Tartarini). Per ognuna di queste forme ibride o in trasformazione e che sembrano riempire la medialità museale contemporanea è necessario mettersi nelle condizioni di comprendere la parafrasi, per così dire, che essa costituisce rispetto ad un’idea di museo assunta come punto di riferimento e di partenza. Ogni museo ridice il museo, lo ridice a suo modo e ogni volta fornisce di ciò che una cultura sa e pensa del museo una versione modificata, una nuova coloritura, un nuovo accento: al museo si va seriosamente a studiare e a prendere appunti, come una classe di scuola elementare dovrebbe fare e non fa andando a vedere un museo di zoologia, o al contrario ci si va per farsi sbalordire dalla realtà aumentata e soprattutto bere un aperitivo di commento subito dopo l’uscita, al bar del museo stesso? Ci si va con foglio e matita per provarsi nella copia dei capolavori di pittura dei secoli scorsi o ci si va per avere la rapida impressione di cogliere meglio la sensibilità del luogo di vacanza dove hanno allestito un museo di storia locale? Ogni museo è museo a giusto titolo, ma lo è sempre molto diversamente. Quel che una tale varietà di possibili ci mostra è l’articolazione aperta e straordina-

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riamente produttiva di una stessa grande pratica sociale che pare più difficile da delineare di quanto si vorrebbe o di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Rispetto a questa necessità di trovare un modo di delimitare, tendenzialmente almeno, il campo di quella che continuiamo a chiamare “musealità” si potrebbe procedere come si fa tradizionalmente nella pratica semiotica (o etnosemiotica), vale a dire, da un lato, precisamente ciò che questo libro fa, analisi e analisi, leggendo i casi di studio come occasioni per riconoscere le ricorrenze e le varianti e soprattutto lasciandosi suggerire i problemi su cui promettere e promettersi approfondimenti – problemi che spesso derivano semplicemente dal lavoro di costruzione del corpus, quando occorre trovare gli aspetti costitutivi della coerenza di campo (e per l’etnosemiotica è fondamentale in questa fase tenere conto, analizzandole, le ragioni categoriali che la comunità si dà per riconoscere un museo quando ha a che fare con un museo). Dall’altro lato, tuttavia, si può procedere in maniera deduttiva, dopo avere fatto ipotesi interpretative dei dati – cioè quelle che le analisi hanno richiesto per arrivare a dire qualcosa di pertinente e perspicace – e fare diventare tali ipotesi i punti di partenza per catene di derivazione deduttiva, provando a produrre i possibili sulla base di alcuni principi semiotici profondi (l’avere senso, fondamentalmente). Scene discorsive, derivazioni deduttive, articolazione dei possibili … . Qual è l’importanza delle soglie spaziali per l’identificazione del museo come spazio speciale, come spazio proprio? L’abbiamo già anticipato menzionando la rilevanza dell’ingresso e dell’uscita, ma si entra e si esce, dicevamo, in molti modi, soprattutto in e da qualcosa che non necessariamente è uno spazio chiuso delimi-

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tato da pareti costruite, poiché l’entrata e l’uscita valgono anche rispetto a contesti dell’ordine delle situazioni, delle occasioni, degli ambienti. Ma nel e dal museo si entra e si esce come si entra e si esce da una sceneggiatura, da un set che in qualunque modo sia realizzato rende concreta la possibilità di localizzare una relazione caratteristica e un modo di avere a disposizione “cose interessanti” in una certa forma di necessaria e intrinseca frontalità. Allo stesso modo le scene discorsive prevedono deduzioni possibili anche relativamente alle relazioni temporali. Il tempo del museo è un tema che sembra ricco di sviluppi possibili. Quando prevedere l’apertura degli spazi museali? Quanto valorizzare le visite lunghe, o al contrario il consumo rapido ma puntuale, le panoramiche che prevedono il tempo di una giornata, come quando il turista si appresta a quell’avventura che è entrare al mattino di buonora al British Museum, o invece la visita di approfondimento, o di affetto, eventualmente reiterata, a quell’affresco di Giotto conservato agli Scrovegni? Non solo, ma diventa di estremo interesse anche la considerazione del tempo della visita al museo rispetto al tempo della giornata, o della vita, per tentare di render conto della rilevanza, dell’importanza e della maggiore o minore centralità che la frequentazione del museo, dei musei, riveste per lo svolgersi del tempo del quotidiano, e come quel fatto di entrare a guardare cose messe in rilievo ed esposte come valori può essere vissuto come assunto in proprio o come un’usanza, una cosa che si fa o piuttosto un’infrazione o un lusso, o una concessione ad un piacere contemplativo, alla soddisfazione di una curiosità, alla regolazione di un debito con se stessi. Vi sono strategie di visita, ma al tempo stesso vi sono strategie di offerta,

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vi sono i tours, le visite coordinate, i pacchetti turistici, gli abbonamenti, tutte forme che organizzano il tempo del museo secondo modelli che al loro modo declinano il consumo di ciò che è esposto e che lo fanno essere tante cose possibili e diverse. E nella scena discorsiva vi sono gli attori che popolano questo universo museale: inservienti, guardiani, guide, e il popolo dietro le quinte, gli impiegati e i conservatori, gli studiosi e i collezionisti, e poi di qua dalla barricata i visitatori, e costoro sono quanti e sono chi? Quanti tipi e quali? Su questo piano si possono giocare le deduzioni dei gradi di competenza previsti, di quanto si supponga che il visitatore sia sufficientemente attrezzato o di quanto invece vada dotato di istruzioni, preliminari spesso ma soprattutto in loco, con pannelli e flyers, con mappe e/o didascalie, con ogni sorta di indicazioni e spiegazioni. Quale comportamento, quanto libero, quanto eterodiretto, quanto condizionato, e rispetto a quale norma, a quale modello … toccare o non toccare? Calpestare o non calpestare? Neppure la regola aurea che consiste nel non alterare l’integrità di ciò che viene esposto vale in ogni situazione, ché anzi sembra essere uno dei tabù che alcune forme d’arte contemporanea hanno più pervicacemente messo in discussione. A tutti questi aspetti, che per l’etnosemiotica sono ragioni di estremo interesse e vere opportunità di riflessione, si combinano elementi di rilevanza sociale e politica, economica e più generalmente culturale, mostrando come quella del museo sia una realtà che occupa un posto davvero rilevante all’interno delle nostre società, capace di mostrare in filigrana aspetti fondamentali di articolazione della convivenza comunitaria.

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Questo volume, come abbiamo detto, raccoglie dunque gli interventi svolti durante la giornata di studi dedicata a “l’etnosemiotica e i musei” nel dicembre 2019 presso il Dipartimento delle Arti. Si divide in due parti, che corrispondono ai due diversi momenti che hanno articolato i lavori: una prima parte, che si è svolta durante la mattinata, dedicata allo studio, da parte di un gruppo di giovani studiosi/studenti coordinati a partire dal Corso di Etnosemiotica, del Museo di Palazzo Poggi, appartenente al sistema museale dell’Ateneo di Bologna, e una seconda parte, svoltasi durante il pomeriggio, con gli interventi sulla lettura semiotica e culturologica della realtà museale da parte di studiose invitate per l’occasione. Così il volume ha una organizzazione del materiale che speriamo riesca, anche per il lettore, a rinverdire lo spirito fortemente collaborativo e partecipato che ha contrassegnato il piccolo convegno. Occorre ricordare che alla fine della mattinata si è svolta una conversazione, sotto forma di tavola rotonda coordinata da Lucia Corrain, sul tema Gestione dei musei e costruzione del pubblico, alla quale hanno partecipato il prof. Roberto Balzani, Direttore del Sistema Museale di Ateneo di Bologna, il prof. Roberto Grandi, Presidente dell’istituzione Bologna Musei, e la dott.ssa Annalisa Managlia, Direttrice dei Musei di Palazzo Poggi. Di tale conversazione questo volume non riporta i materiali, non essendo stati pensati e preparati per la pubblicazione, ma l’insieme dei lavori non ha potuto che profittare enormemente dei contributi emersi.

Prima parte

Il Museo di Palazzo Poggi Le analisi

Oltre la soglia: il caso del museo di Palazzo Poggi1 Annalaura Puggioni Osservazioni preliminari Il Museo di Palazzo Poggi è ospitato nell’edificio acquistato alla fine del XV secolo dalla omonima famiglia bolognese2. È caratterizzato da un atrio e una loggia porticata, dall’imponente facciata su via Zamboni, da un piano nobile arricchito da dipinti murali3 e da ambienti, agConsiderando il Museo di Palazzo Poggi e la sua cornice si delinea il caso particolare di un visitatore novizio che incontra spazi, allestimenti e oggetti. A partire dall’osservazione partecipante, presupposto dell’analisi etnosemiotica, si tenterà di ricostruire la promenade del visitatore in quel “luogo denso di articolazioni di senso, dove agiscono diversi attori tra loro e in relazione al contesto” (Pezzini 2011, p. 60). Pertanto, non è possibile scindere l’analisi da alcuni accadimenti storici, i quali sono profondamente legati alla vita del museo e consentono di comprenderne le trasformazioni significanti.

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L’individuazione di Palazzo Poggi quale sede ospitante è motivata dall’unica possibilità per il generale Luigi Ferdinando Marsili di far costruire sulla precedente struttura la torre della Specola, costruita a partire dal 1712. Anche la posizione periferica dell’edificio, lungo la strada di S. Donato, rispondeva alle esigenze imposte dall’osservazione astronomica (cfr. Ceccarelli, Cervellati 1987).

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Niccolò dell’Abate, Pellegrino Tibaldi, Prospero Fontana, il Nosadella ed Ercole Procaccini dipinsero su commissione del cardinal Poggi tra il 1552-56. cfr. V. Fortunati; V. Musumeci, 2001, L’immaginario di un ecclesiastico, I dipinti murali di Palazzo Poggi, II edizione, Editrice Compositori.

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giunti nelle epoche successive, resi necessari dalla nuova destinazione d’uso, a cominciare dal 1711 quando si è insidiato l’Istituto delle Scienze e delle Arti (Tega 2005). Il progetto del generale Luigi Ferdinando Marsili (16581730) prevede un istituto diverso dalle accademie di Parigi e di Londra – come si dichiara nelle Costituzioni dell’Istituto delle Scienze (1711)4 – orientato alla discussione teorica e alla “dimostrazione”, mantenendo una struttura complementare a quella dello Studium5. Le discipline di storia naturale, archeologia, astronomia, chimica e fisica, anatomia, “applicazioni delle matematiche e della meccanica razionale”6, sono accolte in laboratori scientifici che godono di una varietà di strumenti e di ingenti donazioni dello stesso Marsili e di Papa Benedetto XIV (al secolo Prospero Lambertini 1675-1758). Dal 1742 e 1743 si aggiungono parte della collezione di Ferdinando Cospi (1606-1686) e di Ulisse Aldrovandi (1522-1605). L’istituto marsiliano rimane attivo fino al 1799 poiché, in seguito alla riforma napoleonica, allo scadere del XVIII secolo, l’antico Studio dell’Archigin-

Cfr. Corrain (2016), p. 209, Rievocare le conquiste della scienza: il museo di Palazzo Poggi a Bologna in Costa, S., Poulot, D., Volait, M., (a cura di), The Period Rooms. Allestimenti storici tra arte, collezionismo e museologia. Bologna, Bononia University Press.

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Le intenzioni di Marsili sono riportate nelle Costituzioni dell’Istituto delle Scienze divulgate nel 1711. “In Italia l’Istituto delle Scienze rappresenta la prima istituzione scientifica pubblica dedicata alla ricerca e alla formazione secondo i criteri metodologici dell’osservazione diretta e dell’esperimento.” Le citazioni sono tratte da Corrain, L. (2016), pp. 208-209.

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Cfr. Corrain (2016), pp. 210.

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nasio si trasferisce nelle sale di Palazzo Poggi; i laboratori dell’Istituto diventano luogo di sperimentazione di un’università moderna e il patrimonio viene diviso tra le neo-facoltà nei primi anni dell’Ottocento (Ceccarelli, Cervellati 1987). A partire dal XXI secolo si decide di recuperare il patrimonio e di dare forma al museo con l’intento – afferma il direttore – “di ricomporre la sequenza dei laboratori […] che si ritenevano ormai definitivamente perduti (Tega 2005, p. 14).” Oggi hanno sede a Palazzo lo SMA-Sistema Museale d’Ateneo7, il MEUS-Museo Europeo degli Studenti, il Museo della Specola, la Biblioteca Universitaria e il Rettorato: esempi concreti di risemantizzazioni avvenute nel corso del tempo, capaci di mantenere aperto il dialogo con il passato e di confermare il ruolo “di luogo eccellente del sapere” (Tega 2005). Non stupisce perciò il fatto che un visitatore, ignaro del percorso che lo attende, si perda facilmente una volta giunto al civico 33 di via Zamboni.

Sistema Museale d’Ateneo (SMA), “nell’esercitare funzioni di pubblico interesse, provvede alla tutela dei beni, alla didattica, alla valorizzazione e alla fruizione del ricco patrimonio dei suoi musei (quattordici le sedi museali). Costituisce una grande enciclopedia a disposizione della comunità universitaria e del territorio, in cui andare a ritrovare la storia delle scienze passando di museo in museo come sfogliando un libro, pagina dopo pagina. L’Università, consapevole del valore dei suoi musei, li ha dotati di autonomia organizzativa per lasciare ampio raggio d’azione ad una istituzione che da decenni preserva la storia del suo sapere”. Si veda il link: https://sma.unibo.it/it/chi-siamo.

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Soglie e percorsi La presenza del museo nel Palazzo è indicata da uno stendardo nel portico antistante il portone principale8 e, una volta varcato, dal totem informativo posto nell’androne del palazzo (Fig. 1).

Figura 1.

In questa prima soglia lo sguardo dei visitatori raramente si sofferma sul pannello rosso, in quanto zona di passaggio per studenti, docenti e il personale che entra ed esce dalla struttura. Superato il secondo ingresso, un porQuanto descritto si riferisce al periodo di visite e osservazioni svolte nell’arco di tempo dicembre-gennaio 2018/2019; le modifiche successive non sono state prese in considerazione.

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tone in legno, il visitatore accede al lungo corridoio che attraversa tutta un’ala del pianterreno, costeggia l’Aula Carducci a sinistra e la Sala di Ulisse a destra, un cortile interno chiuso da ampie vetrate sulla sinistra e prosegue nella sua passeggiata spingendosi fino allo snodo che introduce la Biblioteca e le aule universitarie (Fig. 2). Lo sguardo è attirato dal punto di fuga dettato dal corridoio il quale – assumendo la funzione di deittico – induce a seguirne l’andamento.

Figura 2.

Anche l’illuminazione gioca a favore del procedere lineare: si articolano delle zone d’ombra e di luce, a partire dalla soglia fino al trivio e ciò fa sì che gli altri totem, a ridosso delle pareti dell’ingresso, vengano facilmente persi di vista giacché si trovano nella zona più buia. Sono gli stessi pannelli a ostacolare la visione della scala che

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consente di accedere al piano nobile, la quale, data la sua imponenza, non potrebbe essere evitata. Si può pensare il visitatore come un soggetto modalizzato secondo un poter-fare (visitare il museo) e un voler-fare (accedere alla conoscenza) ma non di un saper-fare: da un lato per un surplus di punti di informazione9, dall’altro per la conformazione spaziale che altera la destinazione. Tornato indietro dal fondo del corridoio, il visitatore ritenta, magari dopo aver Figura 3. chiesto indicazioni ai passanti o agli operatori presenti nell’aula Carducci, quando è aperta, e sale le scale. In cima alla rampa, due stendardi appesi lungo la finestra indicano il museo, accompagnati da altri totem di colore diverso rispetto ai precedenti (questi sono grigi), dove si riportano le informazioni sul Palazzo e sui dipinti murali (Fig. 3). Il soggetto non è ancora giunto a destinazione e non è pienamente definibile “visitatore”. Deve salire una seconda rampa di scale per ritrovarsi davanti a un bivio. Tra le due soglie e di fronte a lui, un pannello più grande dei precedenti segnala con la scritta bianca “Museo di Palazzo

Si riportano le informazioni sulle destinazioni, alternati a due pannelli pubblicitari delle mostre temporanee di arte orientale.

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Poggi”; altro elemento destabilizzante è un tavolo con teca che espone souvenir e gadget dell’Alma Mater. Per trovare la biglietteria il visitatore deve guardarsi intorno e il più delle volte le sue deduzioni sono errate poiché, attirato dalla presenza di un operatore dietro un piccolo banchetto sulla destra, entra da dove si dovrebbe uscire una volta completata la visita alla seconda ala del museo. Così, fermato sulla soglia, viene accompagnato verso la biglietteria. La visita al Museo Dopo aver pagato un biglietto il “novizio” viene informato su percorsi e modalità di visita guidata e sulla doppia partizione del piano nobile: la prima ala, l’ala sinistra, ospita dieci stanze. Seguendo l’ordine suggerito dagli operatori e segnalato nelle mappe del museo (Fig. 4) incontra il blocco di stanze dedicate alla Storia Naturale: la sala di Aldrovandi; di Davide10 o delle Collezioni Marsili; di Mosè o del Museum Diluvianum e la Figura 4. Mappa del museo da Tega, W. 2005, Guida al Museo di Palazzo Poggi, Scienza e sala di Susanna Arte, II edizione, Bologna, Editrice compo(adibita alle mo- sitori. La doppia denominazione delle sale è dettata dalla presenza dei fregi dipinti (corsivi miei).

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stre temporanee). Procedendo nella stessa ala, dopo aver riattraversato la sala Aldrovandi, accede alla stanza della Fisica. Da qui il percorso presenta due variazioni: proseguendo nell’asse del corridoio si ritrova nelle sale dell’Ottica e della Luce; scegliendo il percorso consigliato dalle guide incontra la sezione anatomica. Si succedono così la sala di Camilla o scuola d’Ostetricia; dei Paesaggi o delle Cere anatomiche; dei Concerti e delle fatiche d’Ercole o delle cere di Morandi-Manzolini, infine, il Camerino dei putti vendemmiatori dove riposa “la Venerina”. La sala della Luce (con il Camerino delle Sfingi) permette di accedere, tramite porta, alla sala dell’Ottica e a quella della Fisica. Una volta completato il percorso, il visitatore passa dalla biglietteria per giungere nel corridoio ed entrare nella seconda parte del museo. Qui prosegue la visita per la Biblioteca, le sale dedicate all’Architettura Militare, alla Geografia e alla Nautica e la Galleria delle Navi. Esistono anche la sala di Arte Orientale11 e quella della Magna Charta. Per uscire dal museo una volta terminato il secondo percorso, il visitatore deve tornare indietro, passare dalla galleria delle navi, della geografia e dell’architettura militare. Emerge una costante: in entrambe le parti del museo si deve ripercorrere un medesimo tratto nel verso oppoSala d’arte Orientale raccoglie opere provenienti dalla collezione della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e del Centro Studi d’Arte Estremo-Orientale, affidate in comodato d’uso all’Università di Bologna. Per questa sala è possibile richiedere uno specifico biglietto ma per visitarla il visitatore dovrà comunque passare per la seconda ala del museo, attraversare le sale di Architettura militare, Nautica e Geografia.

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sto. È la disposizione delle stanze12, dei corridoi e il tipo di esposizione a suggerire le variazioni nella promenade del visitatore; variazioni che permettono di paragonare il museo a un labirinto. Questo ritorno è consentito da alcuni oggetti ed espositori che veicolano “l’inversione di marcia”, ad esempio: nel caso della Biblioteca è il Globo terrestre di Vincenzo Coronelli (1650-1718) e, per tornare al blocco di Storia Naturale, un espositore cilindrico al centro della sala di Mosè. Nel caso della sezione Anatomia-Ottica-Fisica è la stessa stanza della Luce a fare le veci di una “rotonda”, mentre nella sala dell’Architettura Militare è il modello della Fortezza Urbana di Castelfranco (XVIII secolo). Se si dovessero registrare i movimenti del visitatore sulla mappa, apparirebbe un percorso lineare, quando egli attraversa i corridoi, circolare attorno agli espositori nelle stanze. Guardando la messa in forma di oggetti e spazi si nota che: se nella prima parte (Scienze Naturali, Anatomia e Fisica) – attraverso un’esposizione che ricostruisce gli ambienti come si pensava venissero fruiti al tempo dell’Istituto – tutto si inscrive in una coerenza tematica e spaziale, dove l’attenzione è rivolta alla totalità; nella seconda parte (Geografia, Architettura militare, Nautica) risulta l’effetto opposto, per l’esposizione di singoli oggetti emergenti in quanto modelli particolari. Si potrebbe dire quindi che il Museo di Palazzo Poggi si compone di due aree, le quali si differenziano non solo per l’opposizione fisica ma anche per la diversa rappresentazione degli oggetti che mettono in atto, tale per cui si potrebbe supporre di trovarsi in due complessi differenti, segnalati da soglie uguali e speculari. Si vedano gli approfondimenti dei successivi interventi in merito alle sale di Aldrovandi, della scuola d’Ostetricia e di Anatomia, la sala della Luce e la Biblioteca.

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Non è detto che il percorso consigliato dal museo venga sempre rispettato, poiché tra i visitatori – scuole, turisti, studenti universitari, docenti o studiosi – è possibile che alcuni intraprendano una visita mirata, settoriale, dettata da interessi personali o da studi nei propri ambiti disciplinari13. Il percorso labirintico che il visitatore compie interamente potrebbe essere paragonato a una passeggiata nella storia dell’università14, capace di illustrare l’intensa attività culturale dell’Istituto dalla sala di Ulisse Aldrovandi a quella della Magna Charta15. Proprio in quest’ultima, attraverso il documento originale, si sanciscono l’autonomia e la libertà dell’istituzione universitaria e si sostengono “i valori che ne rappresentano lo spirito più autentico”, Per un approfondimento sulla tipologia dei visitatori delle mostre e dei musei: Falletti, V., Maggi, M. (2012), I musei, Bologna, il Mulino; si descrivono quattro tipologie di visitatori: “formica”, “pesce”, “cavalletta” e “farfalla”, in base alla modalità di fruizione dello spazio espositivo, già nel corso di uno studio etnologico degli anni Ottanta. (Falletti, Maggi 2012, p. 135).

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L’intero museo di Palazzo Poggi viene considerato “alla stregua di una serie di period rooms, dove strumenti, reperti e stanze appaiono come immobilizzate in una “istantanea” del XVIII secolo” (Corrain 2016, p. 214).

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La sala è accessibile dalla Galleria delle Navi e dalla sala della Geografia. Alti dispositivi cilindrici, posti a semicerchio, permettono di creare un ambiente più raccolto rispetto alla zona museale propriamente intesa. La stanza si presenta come sala conferenze\sala espositiva, poiché accoglie sedie, cattedra e un pannello tecnico per audio e microfoni; ma anche la Magna Charta, firmata nel 1988 da trecento rettori delle università del mondo. Una serie di schermi, incasellati in quei dispositivi cilindrici, presentano “la passeggiata” dei rettori in via Indipendenza, accompagnata da un climax ascendente dato dalla musica trionfale in sottofondo.

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sostenendo “l’attività didattica e la ricerca quali esempi in grado di contribuire alla produzione di risultati significativi per la crescita culturale dei popoli”16. Conclusioni Considerando la quantità di sale e di oggetti esposti, si comprende come il percorso non sia di immediata deduzione per il visitatore-novizio. Benché nessuna guida possa aiutare a stabilire una sintonia con il museo – essa dipende dall’efficacia della comunicazione del messaggio trasmesso dallo stesso museo17 – è necessario aggiungere quanto sia fondamentale la sua mediazione. In altre parole, la guida rappresenta un aiutante per il soggetto-visitatore in quanto gli consente di raggiungere il suo programma narrativo di base, ovvero, arrivare alla conoscenza. Il patrimonio universitario disposto nelle due parti del museo costituisce una vetrina più ampia per l’Università: è il modo in cui essa si auto-rappresenta. Emerge una logica dello scambio volta a un programma narrativo ben preciso: fornire la conoscenza ai visitatori attraverso l’oggetto di valore, l’immagine stessa dell’Università bolognese. Si potrebbe dunque affermare che il Museo di Palazzo Poggi “metta in scena” la storia della conoscenza dell’uomo, del suo approccio alle diverse discipline; la storia delle scoperte scientifiche e dei metodi di indagine che rappresentano la sua, e la nostra, eredità. https://sma.unibo.it/it/il-sistema-museale/museo-di-palazzo-poggi/magna-charta (ultima consultazione: 15/12/19).

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intorno alle riflessioni sulla mediazione museale e il pubblico Falletti, Maggi (2012); Balboni Brizza, M.T. (2007).

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Bibliografia Balboni Brizza, M.T. 2007 Immaginare il museo, Jaka Book, Milano. Ceccarelli, F.; Cervellati, P.L. 1987 Da un palazzo a una città, La vera storia della moderna Università di Bologna, il Mulino, Bologna. Corrain, L. 2016 Rievocare le conquiste della scienza: il museo di Palazzo Poggi a Bologna, in The Period Rooms. Allestimenti storici tra arte, collezionismo e museologia, Bononia University Press, Bologna, pp. 207-214. Falletti, V.; Maggi, M. 2012 I musei, il Mulino, Bologna. Fortunati, V.; Musumeci, V. 2001 L’immaginario di un ecclesiastico, I dipinti murali di Palazzo Poggi, II edizione, Editrice Compositori, Bologna. Hammad, M. 2006 Il Museo della Centrale di Montemartini a Roma. Un’analisi semiotica in Pezzini, I., Cervelli, P. (a cura di), Scene del consumo: dallo shopping al museo, Booklet Milano, Milano. Marsciani, F. 2007 Tracciati di Etnosemiotica, Franco Angeli, Milano. Pezzini, I. 2011 Semiotica dei nuovi musei, Laterza, Bari. Tega, W. (a cura di) 2005 Guida al Museo di Palazzo Poggi-Scienza e Arte, II edizione, Editrice Compositori, Bologna.

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Sitografia https://sma.unibo.it/it/chi-siamo (ultima consultazione 31/01/20). https://sma.unibo.it/it/il-sistema-museale/museo-di-palazzo-poggi/collezioni/collezione-d2019arte-orientale (ultima consultazione 20/01/20). https://sma.unibo.it/it/il-sistema-museale/museo-di-palazzo-poggi/magna-charta (ultima consultazione 15/12/19).

Palazzo Poggi: il corpo al museo Marta Mancosu

Introduzione. Il corpo come Soggetto della narrazione artistica Il corpo nella storia dell’arte è il Soggetto più antico: sin dalle prime forme di rappresentazione, e per molti versi ancor oggi, il corpo umano è sia il Soggetto principe delle diverse pratiche artistiche, sia Soggetto tendenzialmente primario esposto nei musei. In passato, la figura umana è stata l’imprescindibile strumento per comunicare storie e per conferire forma visibile a sentimenti, credenze e concetti. Non a caso, il corpo è costantemente chiamato dall’arte a prendere vita come simbolo e come tale si inserisce nel testo museo attraverso modalità differenti di rappresentazione. Il caso di Palazzo Poggi: arte e scienza Il museo di Palazzo Poggi, offre al Soggetto visitatore che vi fa il suo ingresso, un ciclo anatomico che si dirama su quattro sale. Ciò a cui andrà incontro una volta pagato il biglietto e raggiunta la sezione espositiva del corpo umano, è qualcosa di unico e originale. Infatti, il corpo rappresentato nelle quattro sale, è immagine espositiva di una bellezza lontana dai canoni ideali e perfetti in stile

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Neoclassico18, sebbene il realismo delle rappresentazioni consenta al Soggetto visitatore di dimenticarsi, almeno per un po’, della morte aleggiante, grande Isotopia di tutte le stanze. Considerando il museo in quanto testo, si riconosce come in esso vivano e convivano una serie di elementi che sprigionano significati ed effetti di senso specifici. Al suo interno, infatti, l’interazione tra gli oggetti esposti e i soggetti che vi circolano davanti è fondamentale; in quanto parte di uno spazio sincretico, gli oggetti esistono e sono esposti come tali, ma si comunicano e interagiscono con i visitatori che scorrono le sale. In particolar modo, è stato utile ed efficace raccogliere le reazioni spontanee dei visitatori, per osservare sia come quei corpi-oggetto riescano a raccontarsi al pubblico, sia per capire che cosa, effettivamente, accada ai Soggetti una volta che si scontrano con tali rappresentazioni. Il percorso anatomico. I step: La Sala di Camilla

Dicotomia Vita/Morte La Sala di Camilla apre il percorso umano a Palazzo Poggi. Qui, i protagonisti della narrazione sono dei feti in argilla colorati che circoscrivono quasi l’intero periL’età classica greca, il Rinascimento italiano e il Neoclassicismo, vedono lo studio dei corpi reali per giungere alla rappresentazione di figure umane idealizzate grazie all’aiuto di canoni basati su rapporti proporzionali armonici. Tali figure, se da una parte sono caratterizzate dal naturalismo che deriva dall’osservazione diretta della realtà, dall’altra sono ricondotte a forme ideali, regolari, ottenute geometrizzando e perfezionando le forme presenti in natura.

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metro della stanza (le prime metà di entrambe le pareti). La connotazione è totalmente femminile, a partire dalla tematica di fondo in cui risiede il parto e il suo avanzamento. Lo spazio abbraccia la tematica e la rispecchia a livello sia eidetico sia topologico, per una struttura metaforicamente “uterina”. Il Soggetto visitatore che si trova sulla soglia della sala di Camilla (chiamata anche La scuola di ostetricia19), si affaccia in un’ambientazione insolita, originale, sicuramente di impatto emotivo e sensoriale. Egli, da Soggetto e Attore della narrazione fruita dentro il museo, è un Soggetto Osservatore (Pozzato 2011) e come tale getta lo sguardo sugli oggetti che trova intorno, sentendosi coinvolto nella storia raccontata proprio da quei piccoli corpi statici. Guardandoli bene, ci si rende conto che per quanto siano artificiali e immobili, appaiono però così reali da trasmettere il dolore associato alla morte di un bambino e dunque alle complicanze di un parto. Il corpo umano, in questo senso, vuole colpire il Soggetto visitatore, lo vuole stupire, angosciare e meravigliare. Il rigore della scienza e dello studio anatomico sono superati ora dalla spettacolarità della manifattura di questi piccoli corpi, dove la dicotomia Vita/Morte si inserisce in un contesto topologico completamente femminile. Resta curiosa, a proposito di tale dicotomia, la forma di rappresentazione del parto: solitamente pensato e vissuto come momento dal valore euforico, nella Sala di Si ricorda, a tal proposito, l’intervento di Giovanni Antonio Galli (1708-1782), sia per quanto riguarda il ciclo di lezioni di ostetricia alle levatrici e ai chirurghi ostetricanti, sia per le esercitazioni pratiche attraverso la “macchina da parto”.

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Camilla, al contrario, il parto si espone in senso disforico, facendosi vedere al pubblico nelle vesti che, obiettivamente, nessuno vorrebbe né vedere né tantomeno vivere. Le reazioni raccolte sono state differenti: se qualcuno è rimasto stupito o quantomeno interessato, qualche visitatore si è lasciato impressionare disforicamente20, tanto da scorrere rapidamente la stanza o, addirittura, bypassare completamente i feti per raggiungere la pedana centrale, perno dell’intera stanza21. Questa reattività fa riflettere effettivamente su quanto tali rappresentazioni si avvicinino al reale, sembrando veri e propri feti, più che rappresentazioni di argilla. Rimane comunque assai curiosa l’opposizione tra la modalità di esposizione e i valori interni al corpo: i feti, infatti, sono allineati uno dopo l’altro in modo ordinato ed equilibrato, resi “oggetti qualsiasi da collezione” intrappolati dietro lastre di vetro adeguatamente illuminate. In realtà l’esposizione-oggetto, nasconde dentro e fuori di sé valori ben più profondi che vanno oltre l’”essere semplicemente esposti”, per raggiungere e toccare i moti intimi di chi li guarda. In questo senso, dunque, il corpo Ci si riferisce a espressioni molto istintive e commenti poco positivi, legati per lo più all’impatto estetico ed emotivo della stanza e – soprattutto – alla vista dei feti.

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La pedana centrale ospita a periodi alterni (a seconda della presenza o meno di altre opere contemporanee), una riproduzione in terracotta dipinta a olio, dove si rappresenta l’atto della creazione. Si può vedere, infatti, il professore Galli insegnare alle levatrici le tecniche per eseguire un parto corretto. Inoltre, la pedana, posta al centro della stanza è considerata il perno di questa, oltre che vera e propria “stanza utero”, grazie alla sua conformazione plastica e topologica.

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è considerato in parte oggetto e in parte propagatore di sensazioni, in cui il feto è assiologizzato disforicamente a causa sia dell’impatto, sia del messaggio comunicativo che arriva al visitatore. La Sala di Camilla è valorizzata così tutta al femminile dove, evidentemente, non si sminuisce mai l’apparato riproduttivo della donna, ma si eleva a centralità assoluta sebbene, in questo caso, il fulcro del corpo rappresentato sia orientato alla disforia totalizzante. Il percorso anatomico. II step: La Sala delle cere anatomiche

Dicotomia Maschile/Femminile e corpo sessualmente neutro Il secondo esempio riguarda la sala immediatamente successiva quella appena descritta, ossia la Sala delle cere anatomiche di Ercole Lelli o Sala dei paesaggi. Il corpo, in questa stanza, è rappresentato da otto statue a grandezza naturale: di queste, sei sono disposte nella parete di sinistra, mentre le restanti due si trovano ai vertici della parete di destra, venendo dalla Sala di Camilla. In questa stanza, oltre alla categoria Vita/Morte, Non-vita/Non-morte e neutralità22, si aggiunge la valorizzazione Maschile/Femminile, applicabile alle figure di Adamo ed Eva (peccato originale quale causa del decadimento fisico e della malattia). La valorizzazione della neutralità è forse il punto fondamentale della Sala delle cere anatomiche. Il corpo passa dall’essere maschio o femmina, all’essere neutro, non più riconoscibile.

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Il passaggio dal corpo ancora “vivo” e “intero” (Adamo ed Eva) al corpo scorticato, è molto breve. Si nota una progressiva smaterializzazione del corpo mano a mano che si cambia teca di vetro, per un climax che può definirsi ascendente o discendente, a seconda della modalità di lettura della stanza. Le statue cominciano – livello dopo livello – a perdere ogni connotazione esteriore della loro sessualità, per risultare così né maschili né femminili e di conseguenza oggetti sessualmente neutri. Un’altra caratteristica fondamentale, presa dalla semiotica plastica, è l’altissima densità figurativa dei corpi che li rende assai realistici, grazie soprattutto alle posizioni che assumono: quasi teatrali, simulano proprio un corpo ancora vivo e in movimento. Sono queste le ragioni che ci hanno consentito di far continuare coerentemente la dicotomia Vita/Morte e Non-vita/Non-morte: i corpi smembrati e slegati dal loro involucro più esteso quale la pelle, appaiono come non vivi proprio perché privi degli elementi che li renderebbero tali (pelle, capelli, unghie, occhi etc.), ma anche come non morti, poiché le loro fattezze e soprattutto la componente eidetica sono tali per cui riescono a trasmettere una certa vitalità e un certo respiro in chi si sofferma a guardarle. L’obiettivo della parete anatomica risiede in un voler mostrare la valorizzazione della neutralità, dove la funzione primaria si colloca in una visione oggettivizzante del corpo umano, in cui si tende a eliminare ogni caratteristica che possa mostrarne la sessualità ma, soprattutto, l’umanità, la concreta e intima vitalità. A enfatizzare la valorizzazione oggettivante del corpo umano è il tavolo anatomico posto al centro della stanza: in esso l’asse di vita e di morte e l’asse di maschile e

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di femminile si incontrano come rappresentazione della neutralizzazione del corpo umano.

Contesto didattico e informativo scavalcato da meraviglia e spettacolo La reazione istantanea del visitatore è quella di precipitarsi verso le statue, mostrando volontariamente le spalle all’elemento “informativo e didattico” (monitor – a volte spento – e pannelli). Questo fattore conferma quanto la natura informativa con la quale nasce l’esposizione dei corpi sia superata dalla curiosità e dal fascino di questi. Il visitatore, infatti, si lascia trasportare dalla narrazione, si lascia guardare dall’alto delle statue, tant’è che si fotografa accanto a esse23; ci si gode, dunque, la meraviglia e la completa verità del corpo umano. Una verità che è oggettiva, è reale, è un aspetto della vita a cui l’uomo prima o poi arriverà ed è proprio lì, di fronte ai suoi occhi che lo guarda e nonostante questo, ne è affascinato, si avvicina, lo fotografa e si fotografa accanto alla morte esposta, al corpo che prima o poi toccherà a lui. La morte oggettivata risulta innocua, non fa paura, è estetizzata talmente ad alti livelli da risultare teatralmente estetica e artistica. L’evento rimane affascinante e sicuro, non violento, non doloroso e per questo, il visitatore, ha come reazione primaria quella di avvicinarsi. Il fascino del “bello e naturale” della stanza delle cere anatomiche di Ercole Lelli è predominante: “La bella rappresentazione del corpo umano si coniugava alla precisa raffigurazione del dettaglio anatomico” (Tega 2010, p. 75). 23

Ci sono stati casi di selfie accanto allo “spellato”.

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Il percorso anatomico. III step: La Sala dei coniugi Morandi-Manzolini Superata la sala delle cere anatomiche di Ercole Lelli, si approda alla Sala dei coniugi Morandi-Manzolini. Grazie al loro contributo si arricchì, a partire dal 1776, la “Camera della Notomia” di Palazzo Poggi. A differenza delle produzioni del Lelli, circoscritte all’osteologia e alla miologia, quelle dei coniugi si volsero di preferenza allo studio e alla produzione degli organi di senso, dell’apparato uro-genitale e cardio-vascolare. Le cere, in questo senso, sono il perfetto esempio del riuscire a “plasmare con una medesima arte (cera) anche le parti del corpo più inconsistenti, le più sottili, le più diafane, quelle che sfuggirebbero anche alla vista” (Tega 2010, p.87). L’elemento caratterizzante, infatti, è la perfetta congiunzione tra la ricerca di rappresentazione efficace ed elegante, con i risultati più aggiornati della ricerca anatomo-fisiologica. Si tratta di una stanza alquanto particolare poiché, nonostante l’importanza storico-artistica che le cere contenute hanno in sé, non rimane impressa come dovrebbe nella mente dei visitatori. Le teche di vetro raccolgono parti del corpo (piedi, mani, orecchio, vari muscoli, occhi etc.) spezzato dal suo “tutto”. In questo caso, sono i singoli arti a rendersi Attori e Soggetti metonimici, in quanto staccati dalla totalità del corpo per posarsi, nella loro caratterizzazione, su drappi blu scuro per farsi notare, con più attenzione, dal pubblico passante. C’è di più: è la prima volta in cui gli autori delle cere diventano essi stessi cera e si espongono insieme alle loro opere. All’estrema destra della sala, infatti, si notano i due mezzi busti di Anna Morandi e Giovanni Manzolini, l’una intenta a operare un cervel-

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lo, l’altro un cuore. Anche le loro fattezze paiono reali, soprattutto a livello figurativo: gli abiti sono preziosi e i dettagli vicini alla realtà. I due mezzi busti dei coniugi non sono altro che simulacri dei corpi veri, ora immobili e scaltri osservatori.

Il problema della poca riconoscibilità: attrazione verso l’ultimo step Accade però qualcosa di particolare, dentro questa stanza: raccoglitrice dei sensi, di arte, di preziosità assoluta, essa non riesce a “farsi notare” come dovrebbe. La vista del Soggetto visitatore non è attivata e non è reattiva rispetto a ciò che è esposto e, grazie alle osservazioni partecipanti, se ne è avuta la conferma. Perché? Forse molti elementi non si fanno notare, il modo in cui le parti del corpo sono esposte non sono veri e propri punti attrattori della stanza, così come i busti dei coniugi situati all’estrema destra si nascondono a primo impatto. La vista non è colpita e con lei, di conseguenza, la memoria non è attivata e non riesce a registrare molti degli elementi presenti. Non a caso, durante la prima visita al museo, la riproduzione dell’orecchio (che presenta dimensioni anche molto grandi), è sfuggita a diverse persone, tra cui chi scrive. Il motivo di un tale lapsus, è forse connesso alla maggiore attrazione verso ciò che succede nella stanza successiva a quella delle cere anatomiche dei coniugi. Immediatamente dopo tale sala, infatti, l’Isotopia anatomica e umana volge al termine con una figura femminile e con un rimbalzo incredibile alla dicotomia Vita-Morte cominciata nella Sala di Camilla.

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Il percorso anatomico. IV step: La Sala della Venerina L’ultimo esempio ricade sulla Sala della Venerina, realizzata dal ceroplasta Clemente Susini all’incirca nel 1782. L’unica protagonista della sala è proprio lei, quasi come in segno di rispetto per la sua morte e per consentire al visitatore di sostarle accanto, senza essere attratto da altri elementi. La connotazione torna a essere femminile e la donna rappresentata non è altro che una rivisitazione della Venere anatomica24: è stesa, morta, su un materasso di velluto all’interno di una teca dal gusto barocco. Interessante notare come la giovane donna appaia morta, ma allo stesso tempo sia talmente bella che pare solo stia dormendo e, dunque, sia non-morta. Non a caso il Soggetto visitatore è colpito dall’estetica con cui è rappresentato il corpo, che la rende più viva di un corpo vivente: i capelli sciolti e dolcemente adagiati sulle spalle, la collana di perle, lo sguardo dolce e anche fortemente sensuale, la posizione rilassata e in posa, il colore della pelle. Il vero dettaglio che ci riporta alla morte e al corpo oggettivizzato come materiale di studio, è l’addome dissezionato. Da una parte si nota una bellezza estetica totalizzante ma, dall’altra, l’essere smembrata e il poter vedere al suo interno riporta in superficie lo scopo per la quale è nata: una questione puramente accademica. Osservando attentamente l’interno dell’addome, il Soggetto visitatore vive come un rimbalzo verso l’inizio del percorso anatomico, nella Sala di Camilla: perché? È proprio nell’utero della Venerina che si nota un pic-

Si pensi alla Venere anatomica esposta al Museo della Specola a Firenze.

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colo feto, riallacciandosi evidentemente alla prima sala. Questo elemento non ha mai fermato il visitatore che, al contrario, incuriosito, si è sempre avvicinato a lei, scorrendo tutto il perimetro della teca di vetro, fotografando e rimanendo colpito da ciò che stava effettivamente osservando. Ancora una volta, l’idea di bellezza è stata capace di superare il senso del dolore: la visione esula dal significato. Eterea e decadente, bella e spaventosa, sofferente e immortale; con la Venerina l’Eros e il Thanatos sono catturati in simultanea: la donna conclude il viaggio attraverso vita e morte, neutralità e corpo e il cerchio si chiude. Considerazioni finali Con la Venerina il corpo umano volge al termine. Il visitatore è rimasto attento e vigile poiché gli oggetti e i corpi esposti sono riusciti a stimolarlo. La spettacolarizzazione dei corpi è tale per cui si rendono attraenti, sebbene si stia facendo riferimento a Isotopie disforiche quali la morte e il macabro25. La Natura del corpo riesce a trasporsi a Cultura e a meraviglia; l’informazione scientifica diventa artistica, si rende piacevole scoperta per chi intraprende il percorso museale. Le composizioni esposte offrono il loro personale concetto di bellezza della vita e anche, soprattutto, della morte.

Ci si riferisce all’effetto di senso che i corpi esposti evocano ai visitatori del museo, oggi. Rimane assodato che la funzione con la quale essi nascono è prettamente informativa e scientifica.

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Bigliografia Greimas, A.J.; Courtés, J. 1979 Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Parigi, (tr. it., Semiotica, dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Bruno Mondadori, Milano, 2007). Marsciani, F. 2007 Tracciati di etnosemiotica, FrancoAngeli, Milano. Polidoro, P. 2008 Che cos’è la semiotica visiva, Carocci, Roma. Pozzato, M.P. 2011 Semiotica del testo, Carocci, Roma. Ruggeri, A. et al. 2017 “Il Museo delle Cere Anatomiche Luigi Cattaneo di Bologna”, Nuova Museologia, 37, pp.26-31. Tega, W. (a cura di) 2010 Guida al Museo di Palazzo Poggi. Scienza e Arte, Compositori, Bologna. Sitografia InItalia, http://initalia.virgilio.it Mani in mente, http://maninmente.com Sapere scienza, http://saperescienza.it

Il museo di Ulisse Aldrovandi e la biblioteca: due esposizioni del sapere a confronto Giorgio Dal Forno Introduzione alle stanze Il seguente capitolo ha l’obiettivo di presentare e, al contempo, analizzare le due grandi sale espositive di una e dell’altra ala di Palazzo Poggi: il museo di Ulisse Aldrovandi e la Biblioteca. Il museo di Ulisse Aldrovandi, ospitato nella prima stanza del Museo di Palazzo Poggi la quale risulta una tra le più grandi e spaziose, accoglie reperti dei tre regni della natura: vegetali, animali e minerali collezionati dallo scienziato bolognese. Gli oggetti mostrati sono una parte di quel «microcosmo di natura» (Tega 2005, p. 23) formato dalle più svariate specie che compongono la biosfera del tempo del passato catalogate nei suoi tredici volumi a stampa di storia naturale. Oltre a presentare reperti la sala espone alcune raffigurazioni di animali, piante e mostri realizzate grazie a tavolette in legno di pero intagliato, le quali fungevano da matrici xilografiche, usate per le illustrazioni dei volumi a stampa. La disposizione dei reperti nella sala ricorda la wunderkammer, o camera delle meraviglie. Ovunque il visitatore posi l’occhio egli viene catturato da oggetti preziosi i quali invitano l’osservatore ad avvicinarsi per carpirne i particolari. La Biblioteca di Palazzo Poggi costituisce «il centro dell’attività dell’Istituto delle Scienze e il punto di ri-

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ferimento delle ricerche degli accademici» (Tega 2005, p. 140), voluta da Luigi Ferdinando Marsili attorno al 1715. Alla morte del generale l’ampliamento del catalogo bibliotecario è stato preso in cura da papa Benedetto XIV che lo completò nel 1744. La stanza facente parte del percorso museale è solo una parte dell’immensa biblioteca dell’Istituto delle Scienze, in funzione dal 1724. La biblioteca si trova nella seconda ala del Museo, alla quale si accede attraversando il lungo corridoio perpendicolare alla biglietteria, dove trovano collocazione i reperti dell’architettura militare, le carte geografiche e i modelli di navi. Sicuramente è tra le stanze più grandi dell’intero museo ed è, inoltre, l’unica che sfrutta appieno lo spazio concesso sviluppando la propria esposizione in larghezza e in altezza. Una diversa fruizione dello spazio Si potrebbero individuare due piani distinti di fruizione all’interno della Sala Aldrovandi: il primo è caratterizzato dalla pedana centrale, la quale attira subito l’attenzione di qualsiasi visitatore facendolo avvicinare inevitabilmente alle vetrine; il secondo è rappresentato dal corridoio ricavato dal perimetro della pedana stessa (Fig. 5). Quest’ultimo consente al visitatore di avvicinarsi alle teche posizionate ai lati della stanza; allo stesso tempo consente di raggiungere le sale a questa vicine: le Collezioni di Luigi Ferdinando Marsili (Sala di Davide) e la sala della Fisica Elettrica (Sala dei telamoni) che a loro volta si diramano in altre stanze. Questa particolare articolazione dello spazio rende la fruizione dell’esposizione caotica. Dato il grande risalto della pedana centrale, il visitatore, come si è detto, è por-

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Figura 5.

tato a salire su questa compiendo dei movimenti circolari o a zig-zag tra le teche poiché l’occhio continua a incappare in oggetti interessanti; d’altra parte, i movimenti che il corridoio impone sono invitati, come gli sguardi, a seguire la linearità. Con questi dati è possibile individuare una prima categoria semantica costituita dai termini Alto/ Basso, dove “alto” sta per il piano rialzato mentre “basso” sta per il corridoio-perimetro. Questa categoria attiva la valorizzazione Caotico/Lineare la quale euforizza la componente “caotica” (dettata da movimenti più attivi) e disforizza la componente “lineare” (caratterizzata da una serie di azioni passive)26. Con “movimenti attivi” si intendono le azioni che il visitatore compie nello spazio espositivo visionando a 360° la stanza, mentre per “azioni passive” si intendono quelle azioni limitate dello spettatore dettate dallo spazio.

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Il contesto di fruizione della Biblioteca è completamente diverso da quello del museo di Ulisse Aldrovandi: in questa sala non è più possibile una fruizione totalmente libera ma è imposta una “guida al percorso” dettata dalla disposizione delle vetrine. Nell’intera area museale, nella quale si trova la Biblioteca, la spazialità riformula, di stanza in stanza, il percorso di fruizione del visitatore, imponendosi a suo piacimento. Nel caso specifico della Biblioteca le teche al centro fungono da vettori d’indicazione del senso di marcia fino a raggiungere il mappamondo, vero e proprio perno di svolta, che invita a girarci attorno per tornare al punto di partenza. Un ulteriore suggerimento del senso di marcia è dettato dalle etichette poste all’interno delle teche, difficili da leggere dal lato opposto. È dunque esplicitata una vettorialità indotta, la quale consente una fruizione migliore dello spazio concessa anche grazie alla conformazione della sala stessa. In questo caso non vi è alcuna categoria rilevante ai fini dell’analisi topologica della stanza, come invece vi saranno in fase di analisi espositiva degli oggetti. La moltitudine in scala del museo di Ulisse Aldrovandi Nel museo di Ulisse Aldrovandi l’esposizione degli oggetti-reperto premia la quantità espositiva a discapito della specificità: spesso il materiale esposto risulta accatastato in spazi non sufficientemente capienti, facendo passare inosservati altri oggetti che meriterebbero pari visibilità27. Anche l’illuminazione non consente di dare risalto agli oggetti. Si veda l’approfondimento “L’illuminazione all’interno dello spazio museale”.

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Gli oggetti sono accompagnati da didascalie eterogenee tra loro, le une secondo la maniera aristotelica (indicando genere-specie) in latino, le altre in lingua italiana talvolta con traduzione in inglese. L’eterogeneità delle didascalie rispecchia, quindi, la varietà dei reperti. Questa modalità crea un certo disagio nel visitatore medio che dovrebbe essere competente nella modalità del sapere rispetto alla lingua latina; disagio che a lungo andare si potrebbe tramutare in frustrazione portando l’utente a velocizzare le operazioni di visita e limitandosi alla contemplazione del solo oggetto esposto. Allo stesso modo per il turista straniero medio che si baserà solo sulla traduzione anglosassone. Qualora il visitatore riuscisse a capire anche le etichette in latino, il linguaggio verbale (didascalie e totem) non completerebbe appieno quello non-verbale (riconoscimento dei reperti). La minuscola didascalia non fornisce tutte le informazioni riguardanti i reperti, per questo sono presenti dei totem informativi che hanno lo scopo di enunciare al visitatore ciò che troverà all’interno della sala. In realtà questi pannelli si limitano a riassumere, in maniera sommaria, ciò che si sta osservando senza restituire informazioni più specifiche attorno a ciascun oggetto. Tutto questo fa sì che l’impressione che se ne ricava sia quella di una rappresentazione espositiva che ha lo scopo di rendere verosimile il materiale nelle teche. Sotto questo punto di vista il museo di Ulisse Aldrovandi, tramite l’esaltazione dell’aspetto collezionistico e delle modalità espositive, è un luogo che manipola il Soggetto/Visitatore circa l’attivazione di un Programma Narrativo d’uso “Capire l’esposizione” funzionale al progre-

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dire del Programma Narrativo principale “arrivare alla conoscenza”28. In conclusione, si potrebbe dire che il museo di Ulisse Aldrovandi, in riferimento agli oggetti, metta in evidenza la /collettività/ rispetto al /singolo/ benché «un insieme di oggetti non costituisce un museo» (Hammad 2007, p. 204) come spiega Manar Hammad. Inoltre nel caso di Palazzo Poggi il museo euforizza la componente /storica/ degli oggetti, a discapito di quella /didattica/, facendoli diventare portatori di un senso altro, ovvero rappresentanti della Storia Naturale moderna. La biblioteca museale di palazzo poggi Cambiando ala del museo ci si imbatte nella maestosa Biblioteca di Palazzo Poggi. Questa stanza dona al visitatore una sensazione diversa dalle altre perché questi si ritrova in un mondo che, tralasciando qualche piccolo particolare, esiste fuori dal tempo e rappresenta appieno la volontà di Palazzo Poggi di ambire a Museo nel Museo. Mentre nella sala Aldrovandi si rievoca l’assetto delle Kunst und Wunderkammern, oggi non più visibili, quello della biblioteca potrebbe esistere anche al di fuori del contesto museale. Le alte scaffalature, il legno antico, le vecchie grate poste a protezione dei tomi, non hanno nulla a che vedere con le caratteristiche ricorrenti dell’esposizione museale di Palazzo Poggi; sono propedeutiche a una ricostruzione storica che riconfigura il carattere della /rievocazione/ nel carattere della /conservazione/ non solo del reperto ma dell’intero spazio. Si veda il precedente capitolo “Oltre la soglia: il caso del Museo di Palazzo Poggi”.

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In comune con la Sala Aldrovandi resta l’elemento del /collettivo/ che si afferma sul /singolo/: i libri, pur riposti negli scaffali con il dorso verso l’esterno, sono difficilmente distinguibili l’uno dall’altro. In contrapposizione a questa modalità espositiva vi è quella delle teche moderne posizionate al centro della stanza: all’interno di queste è possibile visionare, attraverso il vetro, antiche stampe e i “Commentarii” dell’antico Istituto delle Scienze (Fig. 6 e 7)29.

Figura 6.

Figura 7.

Durante la visita di Palazzo Poggi è possibile notare la riproposizione di un curioso effetto di senso che, in alcuni casi, risulta più che mai esplicito: la ricostruzione storica attraverso gli oggetti delle sale che componevano l’antico Istituto delle Scienze. Nella Biblioteca questo è

La situazione qui descritta è quella che si presenta di norma al visitatore ma capita sovente che il materiale venga sostituito in occasione di mostre temporanee.

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riscontrabile grazie alle tre stampe presenti nelle teche30 e ai tomi che riportano lezioni di storia naturale, chimica, anatomia, medicina, fisica, meccanica, scienze matematiche, astronomia e scienza militare31. Inoltre le stesse materie che ritroviamo al centro della sala sono a loro volta rappresentate dai libri posizionati sugli scaffali alle pareti. Si ripresenta il rimando all’Istituto delle Scienze. L’esposizione instaura una relazione tra reperti “uno a molti”: dove l’uno è rappresentato dalle esposizioni contenute nelle teche, mentre molti dall’insieme di libri che tappezzano l’intera stanza. Questo tipo di relazione dovrebbe tendere a privilegiare l’esposizione singola a discapito di quella collettiva ma così non è, dato che il visitatore sarà più propenso ad alzare lo sguardo per vedere fino a dove arrivano gli scaffali, anziché correre alle teche per osservarne il contenuto. Si nota che questo tipo di disposizione attiva due categorie semantiche: 1) Generico vs. Specifico – data dalla genericità dei libri a parete, che si confondono l’uno con l’altro, vs. specificità degli oggetti all’interno delle teche; Le stampe riportate sono: “Inaugurazione dell’Istituto delle Scienze” (Insignia degli anziani, VOL. XII Marzo – Aprile 1714, CC 45b-46a); “Prima lezione pubblica di Laura Bassi” (Insignia degli anziani, VOL. XIII, Novembre – Dicembre 1732, C. 98a); “Visita del principe Federico Cristiano di Polonia all’Istituto delle Scienze” (Insignia degli anziani, VOL. XIII, Novembre – Dicembre 1739, C. 140a).

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Didascalia “De Bononiensi Scientiarium et Artium Instituti atque Academiae Commentarii, Bononiae, Ex Typographia Laelli a Vulpe, 1731, Tomo I. Frontespizio”.

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2) Antico vs. Nuovo – data dall’opposizione delle modalità di esposizione degli oggetti, dove i libri alle pareti sono all’interno di scaffalature antiche, mentre al centro della stanza si trovano teche alquanto moderne (sia per il materiale sia per il cromatismo, verde-acqua). Un’altra particolarità della Biblioteca è dettata dal carattere della /sicurezza/. I libri antichi, come già detto, sono protetti da grate chiuse a chiave in modo da evitare la fruizione diretta dei testi da parte dei visitatori. Durante una delle visite, è stata portata alla nostra attenzione la presenza di una porta tagliafuoco posizionata sul lato più corto della stanza, la quale impedisce di accedere alla parte non visibile della Biblioteca accessibile dal numero civico 35 di Via Zamboni. Questo continuo /non-raggiungimento/ dell’oggetto esposto fa sì che si attui un’idealizzazione del libro in quanto opera da esposizione che attiva, inevitabilmente, una modalità euforica del poter-vedere e una modalità disforica del poter-toccare. Si conferma il detto “guardare ma non toccare” a differenza dello stesso modus operandi dell’Istituto delle Scienze il quale prevedeva l’affiancamento dell’osservazione a quello della “dimostrazione” pratica. Il museo secondo Foucault Un punto di vista molto interessante, non troppo distante dagli studi di etnosemiotica, per avviare un’ulteriore analisi sulla configurazione spaziale di queste due stanze, è dato dall’ introduzione di due concetti: “eterotopia” ed “eterocronia”. Il primo termine è stato coniato da Michel Foucault nel corso dei suoi studi sugli spazi e le relazioni sociali che

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essi creano. Il filosofo si è concentrato anche sulle modalità di sicurezza che vengono messe in atto nella cultura moderna. Il termine eterotopia viene usato per distinguere quegli spazi che «hanno la curiosa proprietà di essere in relazione con tutti gli altri luoghi, ma con una modalità che consente loro di sospendere, neutralizzare e invertire l’insieme dei rapporti che sono da essi stessi delineati, riflessi e rispecchiati» (Foucault 1967-2010). La definizione che Tanca ne dà nel suo libro “Geografia e filosofia” è la seguente: Le eterotopie sono luoghi reali che risultano connaturati all’istituzione stessa della società, ma che al tempo stesso fungono da contro-spazi, cioè da “utopie effettivamente realizzate” nelle quali, come in uno specchio, si attua una sorta di rovesciamento di tutti gli altri spazi reali caratteristici di una data cultura. (Tanca 2012, p. 220). Questi spazi sono presenti in tutte le società moderne e hanno una stretta relazione con le eterocronie cioè quei luoghi in cui vi è un uso eccezionale del tempo che tende ad accumularsi e sovrapporsi su sé stesso. La biblioteca pubblica ne è un esempio lampante in quanto si assiste al fenomeno dell’accumulazione di libri vecchi e nuovi che, nel momento in cui entrano in questi luoghi, sospendono in qualche modo la connotazione temporale diventando libri fruibili in quel momento. Traslando questa caratteristica alla Biblioteca di Palazzo Poggi, la quale non è più pubblica ma privata, cosa accade? Ci si accorge che essa rappresenta uno spazio eterotopico prima che etrocronico, poiché vi è una sospensione del

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tempo in quanto i libri vi vengono preservati; ma è vero anche che la caratteristica principale di questa sala, data la sua presenza all’interno di un museo, sia quella di esporre ciò che vi è all’interno piuttosto che di fruizione diretta del contenuto stesso. La fruizione non è possibile se si considera l’irraggiungibilità di qualsivoglia tomo o stampa. In conclusione si può dire che all’interno dello spazio della Biblioteca di Palazzo Poggi si trovano contemporaneamente la valorizzazione della biblioteca come tempio del sapere (eterocronia) e la forte valorizzazione della componente espositiva, rappresentata dalla messa in scena degli oggetti e dalle modalità di sicurezza presenti all’interno della sala (eterotopia). Si potrebbe rileggere attraverso Foucault anche la sala di Ulisse Aldrovandi. È chiaro come questo particolare spazio espositivo sia l’esempio perfetto di uno spazio eterocronico in toto giacché ogni reperto esposto risulta sospeso nel tempo (poiché sottoposto a un processo di conservazione) e la modalità espositiva riscontrata rimanda a quella cinquecentesca. L’accumularsi del tempo, presupposto delle eterocronie fortemente esplicitato, ci permette di definire la stanza uno spazio “eterocronico puro”. In conclusione, dal confronto tra le due sale del museo risulta che la Biblioteca, possa essere uno spazio visitabile anche al di fuori dell’ambiente museale propriamente inteso; mentre il museo di Ulisse Aldrovandi, essendo uno spazio al quale si attribuisce un valore espositivo/didattico, risulta significante solo se posto in un contesto come quello in cui si trova. Perciò non è definibile spazio eterotopico.

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Bibliografia Foucault, M. 1967 Des espaces autres, Hétérotopies. Conferenza al Cercle d’études architectuales. Tunisi, 14 marzo, (tr. It. Eterotopia, Mimesis, Milano, 2010, Kindle edition). Galofaro, F. 2015 Dopo Gerico. I nuovi spazi della psichiatria, Esculapio, Bologna. Hammad, M. 2007 Il Museo della Centrale Montemartini a Roma. Un’analisi semiotica, in Cervelli P., Pezzini, I. (a cura di), Scene del consumo: dallo shopping al museo, Meltemi, Milano, pp. 203-279. Marsciani, F. 2007, Tracciati di etnosemiotica, Franco Angeli, Milano. Pozzato, M.P. 2003 Semiotica del testo. Metodi, autori, esempi, Carocci, Roma. Tanca, M. 2012 Geografia e filosofia, Franco Angeli, Milano. Tega, W. (a cura di) 2005 Guida al Museo di Palazzo Poggi-Scienza e Arte. II edizione, Compositori, Bologna.

L’illuminazione all’interno dell’allestimento museale Marianna Abruzzese Introduzione: il contratto fiduciario L’illuminazione è sicuramente uno degli elementi cruciali all’interno dell’allestimento museale in quanto è l’elemento che permette la visione e dunque, considerato che il museo inscena un discorso per dei visitatori, è importante che esso rispetti un certo contratto fiduciario (Pezzini 2011, p. 20) che viene a crearsi nel momento in cui il visitatore paga un biglietto e inizia il suo percorso. Il contratto fiduciario tra visitatore ed ente museo si basa sul vedere, questo perché nella nostra cultura il vedere è in stretta relazione con il sapere, vedere è sapere (Pezzini 2011), non a caso spesso si usa lo stesso termine per entrambe le azioni. Il visitatore entrato nel museo si aspetta di poter vedere determinati oggetti per acquisire un certo sapere a riguardo. Prima di entrare in questioni specifiche, vorrei sottolineare come l’illuminazione in un museo non sia riferita solo alla visione di ciò che si mostra, ma riguarda anche tutti gli altri spazi in cui il visitatore si muove. A partire dall’esterno dell’edificio che ospita un museo ogni scelta che riguarda l’illuminazione dei punti d’interesse dovrebbe essere effettuata in base all’effetto che si spera di ottenere. Ad esempio la targa esterna che ne indica il nome dovrebbe essere adeguatamente illuminata perché in questo modo si rende manifesta una certa rilevanza

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del luogo stesso, ma anche perché così facendo si può sperare di attrarre l’attenzione del pubblico. Anche quelle zone all’interno del museo utili per ricevere il visitatore, come la biglietteria, dovrebbero essere opportunamente illuminate al fine di dare un senso di accoglienza ai visitatori alimentando una certa predisposizione positiva nei confronti dell’ente-museo nel suo complesso. Inoltre è opportuno evitare cambi repentini di luce tra le sale perché questi potrebbero infastidire l’occhio del visitatore o comunque, nel caso in cui questi cambi fossero indispensabili, sarebbe opportuno spiegarlo mediante appositi pannelli onde evitare inutili lamentele. Il giusto compromesso tra visibilità e conservazione Ma la questione dell’illuminazione museale è più spinosa di quanto possa sembrare a primo impatto e il motivo di ciò è legato al fatto che essa deve far fronte a due necessità a volte in antitesi tra loro: 1) Da una parte deve garantire al visitatore le condizioni ottimali per una corretta visione delle opere. 2) Dall’altra deve rispettare i criteri di conservazione delle stesse tenendo presente che l’esposizione alla radiazione luminosa potrebbe essere dannosa per queste ultime. Dunque, criteri estetici e criteri conservativi devono trovare un compromesso al fine di permettere sia la visibilità e la fruizione da parte del visitatore, quindi la valorizzazione del patrimonio artistico,sia la conservazione, ossia la salvaguardia del patrimonio custodito nel museo.

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La sfida di Palazzo Poggi All’interno del Museo di Palazzo Poggi trovare un compromesso simile diventa una vera e propria sfida se si pensa che al suo interno sono custodite particolari collezioni sensibili alla luce e al calore e se si considera che questo museo è collocato in un palazzo storico risemantizzato come contenitore museale. Queste due premesse hanno fatto sì che si optasse per l’utilizzo della sola luce artificiale in modo da poter gestire al meglio le sale che ospitano quelle opere maggiormente problematiche dal punto di vista conservativo, una su tutte la Sala Aldrovandi all’interno della quale vi sono due finestre oscurate da tende rosse. Considerato che questa sala ospita reperti particolarmente delicati e sensibili al calore, si è optato per un’illuminazione che ne garantisse la conservazione, infatti all’interno delle teche la temperatura rimane stabile grazie all’utilizzo della fibra ottica che evita la trasmissione di calore sugli animali conservati mediante un processo di essiccazione. Si tratta di una luce affievolita che non illumina in modo diretto gli oggetti ma si diffonde in coni di luce direzionabili a piacimento. L’impressione che si ha nella Sala Aldrovandi per via di questo tipo di illuminazione e dei colori delle teche è quella di sentirsi “immersi” nel mondo marino. L’uso della fibra ottica permette quindi un’illuminazione puntuale di oggetti anche di piccole dimensioni e rappresenta una scelta oculata proprio perché priva di raggi ultravioletti o infrarossi, entrambi dannosi per gli oggetti esposti. Il valore deittico della luce: luce puntuale e luce generale All’interno di questa sala possiamo notare un aspetto fondamentale che riguarda l’illuminazione, ossia il valore

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deittico della luce. Le luci all’interno delle teche così posizionate guidano e obbligano lo sguardo del visitatore che tende a considerare solo ciò che è illuminato trascurando ciò che è in ombra. In questo modo viene a crearsi una gerarchia tra le opere stabilita proprio dalla luce in quanto operatore deittico che stimola e dirige il visitatore tra le opere da guardare e nei percorsi da compiere. Per quanto riguarda l’illuminazione generale delle sale e dell’oggettistica non particolarmente sensibile alla luce e al surriscaldamento sono state adottate principalmente due soluzioni: lampade a ioduri, collocate in alto con lo scopo di diffondere una luce soffusa e morbida e lampade a led per illuminare internamente le teche. L’effetto di una luce generale calda è sicuramente quello di amplificare l’attenzione del visitatore. I suoi movimenti all’interno delle sale si fanno lenti e controllati, egli si avvicina alle teche e le pause diventano frequenti al fine di osservare da vicino gli oggetti in esse contenuti. È evidente allora come il visitatore colga informazioni non solo dalla luce puntuale che evidenzia l’opera da guardare, ma anche dalla luce generale che lo guida nello spazio da percorrere. Ad esempio, all’interno della Sala di Camilla (o di ostetricia) i feti posizionati nelle vetrine ai lati della stanza sono ben illuminati a differenza del centro stanza che invece è in penombra per via di una luce puntuale troppo fioca o assente. A causa di ciò il visitatore è obbligato ad avvicinarsi; la luce generale bassa invita a una prossimità, mentre l’illuminazione nelle vetrine laterali invita a seguire la successione degli oggetti al loro interno che si danno nel loro continuum garantito proprio da questa omogeneità della luce. L’interesse del visitatore dipende allora sia dall’oggetto in sé sia dal modo in cui questo appare davanti ai suoi occhi.

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Nel caso della Sala delle cere anatomiche di Ercole Lelli, le teche sono illuminate dalla fibra ottica proprio per conservare al meglio gli oggetti sensibili al calore come nel caso della Sala Aldrovandi. In questa sala il visitatore è invitato dall’illuminazione interna alle teche a rivolgere lo sguardo, e quindi la sua attenzione, verso la parte sinistra della sala, ovvero quella contenente le cere anatomiche ben illuminate. Così facendo il visitatore è costretto a dare le spalle al lato opposto della stanza avvolto nella penombra, un lato meno visibile che per questo viene percepito come meno rilevante. Il tavolo anatomico posizionato al centro della sala, che gode della luce diffusa dalle lampade poste in alto, funge quasi da divisorio di un lato maggiormente illuminato (e di conseguenza più fruibile) rispetto all’altro lato che passa in secondo piano. Il tavolo in questione non viene considerato dai visitatori come oggetto esposto proprio perché non gode di un’illuminazione particolare né è segnalato da una targa o da una didascalia. Volendo ipotizzare una categoria circa la sua visibilità “Esposto/Nascosto” possiamo affermare che il tavolo anatomico è un tavolo Non-esposto e a ribadire ciò vi è il fatto che l’ente museo lo utilizza in caso di mostre temporanee come espositore o piedistallo per le opere. Continuando a considerare l’opposizione tra luce puntuale e luce generale possiamo notare come la luce puntuale della fibra ottica all’interno delle teche è sì un espediente adeguato in quanto evita uno sprigionamento continuo di calore e quindi raggiunge l’obiettivo di illuminare gli oggetti senza deteriorarli, ma è anche vero che conferendo a determinati oggetti un effetto scenografico finisce per monopolizzare l’attenzione del visitatore.

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Un’attenzione focalizzata sul fronte delle opere in quanto è proprio la faccia degli oggetti ad essere illuminata, a differenza del retro che è lasciato nell’ombra. La luce allora è quell’elemento cruciale che determina di sala in sala ciò che è /Visibile/ da ciò che è /Non-visibile/ (Pezzini 2011, p. 114). Sull’opposizione Visibile/Non-visibile si basa una stanza particolare del Museo di Palazzo Poggi, completamente diversa dalle altre: la Stanza della Luce. Si tratta di uno spazio all’interno del quale il buio generale è una condizione necessaria affinché il visitatore possa vedere il realizzarsi dell’esperimento che mostra la Teoria dei colori di Newton. Se la stanza in questione si propone di dimostrare la Teoria di Newton secondo la quale la luce solare è costituita da raggi colorati dotati di angoli di rifrazione differenti, allora, all’interno della stanza, il visitatore dovrebbe poter vedere un raggio di luce solare mentre questo viene riflesso da uno specchio e poi rifratto da un prisma che ne evidenzia lo spettro dei colori dei quali esso è composto su una superficie finale. Ma in realtà, all’interno della stanza, il visitatore può apprezzare solo l’ultimo stadio di questo percorso, ossia solo i colori che vede sull’ultima superficie, ma non può vedere il raggio di luce nel mentre esso compie il suo percorso. Purtroppo la luce artificiale di alcune lampade posizionate sulle porte della stanza impediscono questa visione, sono degli opponenti di questo programma narrativo di base. L’esperimento è riprodotto e contemporaneamente annullato dalla stanza che invece dovrebbe proporlo al pubblico. Questa può essere definita una vittoria della luce artificiale sulla luce naturale proprio perché la luce artificiale compromette la visibilità del raggio di luce na-

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turale, vero protagonista di questo spazio. Dalla nostra esperienza diretta abbiamo notato come il visitatore non riuscendo a ricomporre il percorso che il raggio di luce compie dal foro posto in alto alla superficie sulla quale si mostrano i colori di cui è composto non riesce a spiegare a se stesso l’esperimento, non subito almeno. Spesso infatti inizia a giocare agitando la mano con quei colori che vede sulla superficie finale e continua a muoversi con fare interrogativo fino a quando, nel migliore dei casi, giunge davanti al totem esplicativo posto dietro una delle due porte d’ingresso e lo legge per chiarirsi le idee. Date le condizioni di luce artificiale presenti nella stanza, il visitatore vede solo l’arrivo della luce sulla superficie che la aspetta, vede il raggio di luce ormai trasformato dal percorso che ha compiuto e dagli oggetti che ha incontrato. Vede i colori di cui si compone la luce, ma non il raggio di luce in sé, non quel particolare e tortuoso tragitto svolto fin lì. Deve immaginarlo, deve pensare sia così e la difficoltà nel capire l’esperimento in quella stanza è proprio in questo passaggio che il visitatore deve compiere cognitivamente per poter cogliere il senso di quella stanza. Una period room, luogo “natale” dell’esperimento che oggi ripropone lo stesso allestimento dell’epoca e che vuole essere una verifica, una dimostrazione della Teoria dei colori di Newton, ma non realizza appieno questo suo intento a causa della luce artificiale che posta in quel modo annulla l’effetto del raggio di luce lasciandolo confondere con il resto dell’ambiente, lasciando che si mimetizzi con lo sfondo. Questa stanza, dunque, possiede una dimensione narrativa tale da poter coinvolgere totalmente il visitatore in un’esperienza immersiva che si realizza sotto i suoi occhi.

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Non solo il sapere che scaturisce dal vedere, ma anche quella dimensione che riguarda più da vicino la percezione, l’estesia che è data anche dalle luci, in quanto l’esperienza del visitatore è prima di tutto corporea essendo egli un corpo che si muove nello spazio e che elabora senso già a questo stadio. L’uso della luce (o meglio non-luce) così articolato rende questo spazio più “intimo”, più raccolto, all’interno del quale il visitatore si muove lentamente, pondera i passi, osserva per capire, quasi come se subisse una certa soggezione dettata dalla stanza avvolta nella semi-oscurità e nel mistero da svelare. Egli può raggiungere uno stato euforico quando riesce a cogliere il senso di ciò che gli viene mostrato, ma potrebbe raggiungere anche uno stato disforico se dopo aver vagato invano in quella stanza non è riuscito a capire cosa questa volesse dimostrargli. Non a caso la Stanza della Luce, così diversa dalle altre, è quella che causa maggiori reazioni da parte di chi la osserva con interesse e cerca di capirla. I dipinti murali All’interno di questa piccola stanza vi è un ulteriore spazio particolare: il Camerino delle Sfingi. Il vano di accesso è dietro la grande scenografia che occupa gran parte della Stanza della Luce. Tornando all’idea secondo la quale la luce sia una guida per il visitatore, abbiamo notato come quando la luce generale di questo camerino è accesa il visitatore, attratto da questa, è spinto ad entrare per scrutarne il contenuto. Viceversa, quando la luce è spenta spesso nemmeno si accorge di un ulteriore spazio percorribile posto proprio lì, dietro la scenografia, perdendo così l’occasione di poter ammirare i dipinti

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murali di Prospero Fontana. Il Museo di Palazzo Poggi, infatti, come anticipato all’inizio, si trova in un palazzo storico all’interno del quale vi sono anche dipinti murali commissionati da Giovanni Poggi. Questi sono illuminati da lampade a ioduri che a volte, in base all’orientamento che assumono, obbligano l’osservatore a tenere una certa distanza per non rimanere accecato dall’intensità della luce prodotta, come nel caso della Sala di Mosè dove la direzione delle lampade puntate verso il centro induce a continuare il percorso verso la stanza successiva senza soffermarsi a osservare i dipinti. Così facendo questi ultimi vengono relegati a semplici elementi decorativi spesso completamente ignorati dallo sguardo pigro di molti visitatori. Nel caso invece della Sala dei paesaggi o delle cere di Ercole Lelli la direzione delle luci poste in alto e la disposizione cromatica dell’intera stanza permettono ai putti e ai paesaggi di Niccolò dell’Abate di essere osservati dal visitatore, suggerendogli una rotazione a 360° per poter apprezzare tutte e quattro le pareti. La prensione impressiva del senso Dalle varie osservazioni svolte all’interno di Palazzo Poggi abbiamo avuto modo di capire come l’illuminazione in un museo generi un percorso per il visitatore che vive questa esperienza in prima persona. Un’esperienza che provoca in lui trasformazioni profonde dal punto di vista cognitivo e pragmatico, ma anche timico-percettivo e patemico. Il senso che egli trae dalla visita del museo è una forma di semiosi in atto (Pezzini 2011, p. 81), si tratta dunque di una prensione impressiva del senso che

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mette in corrispondenza certe manifestazioni esterne con gli stati interni del soggetto. La disposizione timica varia a seconda delle condizioni dell’ambiente in cui il soggetto è immerso. In questo senso l’articolazione di Luce-Buio gioca un ruolo fondamentale perché può influire sul comportamento del soggetto e sulla dimensione timica facendolo sentire sicuro o insicuro, attento o meno attento, a seconda dei casi. Conclusioni In definitiva, l’illuminazione dello spazio museale è sicuramente un elemento cruciale che permette la conoscenza e quindi l’emergere del senso, a maggior ragione, pensando nello specifico al Museo di Palazzo Poggi, la questione dell’illuminazione diventa fondamentale per essere in linea con le intenzioni del suo fondatore, ossia insegnare sperimentando e dunque mostrando e dimostrando. Bibliografia AA.VV. 2014 Conservation of Cultural Heritage – Guidelines and procedures for choosing appropriate lighting for indoor exhibitions. Corrain, L. 2016 Rievocare le conquiste della scienza: il museo di Palazzo Poggi a Bologna, in The Period Rooms – Allestimenti storici tra arte, collezionismo e museologia, Bologna. Marsciani F. 2007 Tracciati di Etnosemiotica, Franco Angeli, Milano.

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Pozzato, M.P. 2001 Semiotica del testo, metodi, autori, esempi, Carocci, Roma. Pezzini, I. 2011 Semiotica dei nuovi musei, Laterza, Bari. Tega, W. (a cura di) 2001 Guida ai musei di Palazzo Poggi. Scienza e arte, Compositori, Bologna.

Palazzo Poggi - Spazialità tra immagine e discorso Nicolò Villani Introduzione - La spazialità come sistema linguistico Nell’affrontare l’analisi etnosemiotica di un luogo inteso come valorizzato e valorizzante, parte fondamentale dell’osservazione e della ricostruzione dell’oggetto analizzato consiste nel considerare la spazialità come elemento cruciale del suo darsi in quanto testualità; l’Etnosemiotica riconosce come una diversa conformazione di un luogo, insieme alla varia e possibile organizzazione del suo interno – l’arredamento inteso in senso lato – porti a diverse possibili articolazioni delle modalità intese come vere e proprie valorizzazioni del fare di una soggettività posta al suo interno. Basti un semplice esempio preso dalla quotidianità del mondo scolastico: chiunque si sia trovato una volta dietro una cattedra sa bene quanto la successione dei posti a sedere all’interno dell’aula incida fortemente sulla percezione del Poter-fare32 di chi vi si trova seduto; in particolare, gli alunni seduti ai primi banchi, tradizionalmente, tendono a Non-poter-non seguire con più attenzione la lezione, mentre quelli seduti più in fondo tendono a sentirsi liberi di Poter-non prestare attenzione; allo stesso tempo, tendenzialmente la stessa articolazione porta ad incontrare il Voler-fare degli alunni stessi, coi volenterosi ai primi posti e i meno interessati in fondo. E di conseguenza del Non-poter-fare, del Poter-non-fare e del Non-poter-non-fare.

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Per spiegare simili effetti di senso, l’Etnosemiotica fornisce gli strumenti adatti per trasformare queste semplici osservazioni – più etnografiche che linguistiche – in vere e proprie strutture sintagmatiche e paradigmatiche, facenti capo a condizioni di significazione comuni a un qualsiasi tipo di testualità (Hjelmslev 1961-1968) tanto da permettere di applicare lo sguardo familiare alla Semiotica generativa e strutturale. In particolare, l’articolazione degli spazi, la sistemazione degli elementi al loro interno, il modo in cui le persone vi interagiscono e i percorsi preferenziali individuabili diventano unità semiche il cui potenziale di significazione si dà come descrivibile. Spazialità museale - Illustrare con le stanze e valorizzare la fruizione Nel contesto museale, il potenziale di significazione attivato dalla spazialità diventa cruciale nel momento in cui si trova ad incidere sulla fruizione di quanto vi è illustrato ed esposto all’interno. La disposizione delle stanze, in primis, attiva, attraverso la sua articolazione, dei percorsi preferenziali per lo sguardo e per la visita, a prescindere da eventuali indicazioni dettate da guide o piantine: esserne consapevoli può aiutare nell’organizzare una visita che sia coerente e agevolata, lasciando l’attenzione del visitatore a disposizione di quanto è esposto e arricchendone il percorso con un effetto di naturale avvicendamento in successione delle eventuali aree tematiche. Ogni singola stanza, poi, con la propria singolare organizzazione interna può o meno rimare con quanto vi è esposto: planimetria, arredamento, illuminazione, entrate, uscite, ecc. pervadono l’esperienza immersiva del visitatore museale, incidendo fortemente sul senso complessivo di ciò che gli

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viene mostrato; allo stesso tempo, il modo in cui il visitatore può muoversi attraverso gli elementi dell’esposizione fa sì che di questa si abbia una lettura diversa33. La successione delle stanze espositive, inoltre, porta a considerare la loro successione come un vero e proprio discorso, in cui ogni stanza (col suo contenuto) vede la propria fruizione fortemente influenzata da quanto visto prima e da quanto si sta per vedere dopo, in una logica tradizionalmente discorsiva (Marsciani, Zinna 1991, pp. 35 sgg.). In definitiva, la struttura museale diventa una vera e propria struttura linguistica sulla quale poggia una parte sostanziale della significazione complessiva di ciò che il museo vuole illustrare, a prescindere che gli effetti di senso da essa derivanti siano intenzionali, consapevoli o meno; uno sguardo etnosemiotico, in questo contesto, può efficacemente mettere in luce potenzialità e criticità di questa particolare struttura. Palazzo Poggi - Tra ricostruzione filologica ed effetti di senso Il caso di Palazzo Poggi è emblematico di come stanze, planimetria e modi di esposizione incidano fortemente sul senso complessivo sia di ogni singola ala espositiva,34 Si propone, in proposito, di considerare la differenza sostanziale che si è creata nella modalità di visita de I Sette Palazzi Celesti di Kiefer all’Hangar Bicocca di Milano, fino al 2015 visitabile solo tramite un percorso perimetrale e successivamente liberamente fruibile attraverso l’intera stanza.

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Va sottolineato come, tra i vari modi in cui è conosciuto il museo, uno di questi sia “Museo dei musei di Palazzo Poggi”, a sottolineare l’eterogeneità tra le diverse aree espositive.

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sia del museo nel suo complesso. Ad un primo sguardo, appare evidente un iniziale intento filologico, atto a restituire l’esperienza originale di fruizione di alcune stanze in un dialogo tra descrizione e immersione35; in questo, i modi di esposizione vanno spesso ad accentuare gli effetti di senso di ciò che è esposto36 o a fare da supporto all’efficacia dell’organizzazione del percorso espositivo37. Palazzo Poggi si presta, dunque, a farsi oggetto di studio per indagare l’efficacia dello sguardo etnosemiotico applicato al museo, dato che al suo interno convivono anime e “tensioni di significazione” diverse, facendone una testualità complessa ed eterogenea, dotata tanto di potenzialità quanto di criticità da far emergere attraverso l’analisi. Sala dei Feti - Quando la stanza si fa immagine e discorso Un efficace esempio di come uno spazio espositivo possa farsi discorso plastico di ciò che è esposto al suo interno è la Sala dei Feti, posta all’inizio dell’ala del museo dedicata allo studio del corpo umano. Entrando nella sala, ci si trova in uno spazio le cui pareti laterali, fortemente illuminate, fanno da esposizione a riproduzioni in terracotta di uteri con all’interno presenti dei feti sul punto di nascere, tutti in posizioni difficoltose o scorrette per il parto. Al centro della stanza è posto un palco basso, circondato da alcune pareti in legno, in cui l’illuminazione si affievolisce notevolmente e al cui centro è posta Si vedano in proposito, la Sala Aldrovandi e la Sala delle Cere Anatomiche Ercole Lelli, di cui si parlerà di seguito.

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Si vedano, la Sala dei Feti, di cui si parlerà in seguito, e la Sala della Luce.

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Si veda l’ala dedicata alle scoperte geografiche.

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una riproduzione scultorea di una lezione di ostetricia; la sala del museo è, difatti, dedicata all’illustrazione di come le infermiere ostetriche venissero addestrate a risolvere i problemi che potevano presentarsi durante il parto. Osservando attentamente il palco al centro della stanza, si può notare come questo sembri restituire al visitatore l’immagine stessa di un utero: le pareti che lo circondano hanno un’apertura centrale – che si affaccia su una forte fonte di luce – e due laterali38, la luce al suo interno è fioca e, sulla parete di fondo, è posto il finto utero di vetro con cui le ostetriche si esercitavano. Il fatto che all’interno di quest’area sia posto il modellino rappresentante la lezione, inoltre, porta a interrogarsi sui vari livelli di discorso proposti dalla sala: si osserva la scena dall’interno di un utero, mentre nella scultura la stessa cavità uterina è celata da un panno che copre i movimenti dell’ostetrica; ben visibile, invece, è l’utero di vetro trasparente, da cui l’insegnante spiegava i movimenti da compiere. In definitiva, questa sala restituisce un effetto di senso complessivo che sottolinea con forza l’intento di quanto vi è esposto: da un lato, il discorso sul parto e sulla centralità dell’utero è plasticamente restituito da una sua immagine architettonica pressoché esplicita; inoltre, la disposizione degli elementi, la loro illuminazione e le condizioni della loro osservazione restituiscono una tensione tra il Poter-vedere e il Non-poter-vedere, tale da ricordare la difficoltà intrinseca delle operazioni di correzione dei problemi del parto.

Di cui una, quella a destra, senza alcun’ulteriore funzione per la visita, quindi puramente riconducibile all’immagine della tuba di Falloppio.

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Sala delle Cere Anatomiche - La visita come trasformazione di valori Proseguendo lungo l’ala dedicata all’anatomia umana, dopo la Sala dei Feti si raggiunge la Sala delle Cere Anatomiche di Ettore Lelli, che permette facilmente di mostrare come la disposizione degli elementi interni di una stanza possa incidere sulle valorizzazioni in gioco al momento della visita; qui, infatti, sono esposte sei statue di cera rappresentanti corpi umani attraverso varie stratificazioni delle fasce muscolari e due scheletri completi e totalmente spogliati. Questa prima differenziazione divide subito la sala in due: entrando, sulla sinistra, si trovano le sei statue stratificate, mentre sulla destra i due scheletri umani, un monitor (non sempre acceso) che racconta la produzione dei modelli e altre teche contenenti particolari del corpo e una piccola scultura; a dividere la stanza è presente un autentico tavolo anatomico. Partendo da questa divisione, si può notare come il lato sinistro della stanza, almeno per quanto riguarda le due statue dell’uomo e della donna non sezionati, contrasti con quello destro, che presenta i due scheletri, maschile e femminile, in corrispondenza dei rispettivi corpi “vivi” ai margini delle due porte, creando un’iniziale valorizzazione Vita/Morte sull’asse orizzontale39. Una seconda simmetria, per quanto riguarda le quattro statue prese ora in considerazione – scheletri e corpi completi – si può individuare sull’asse verticale: dalla porta Curiosamente, la stessa differenza si può riscontrare nei modi di fruizione della stanza: i visitatori che osservano alla sinistra del tavolo anatomico sono spesso in movimento, dinamici, attivi, mentre quelli che osservano alla destra lo fanno da fermi, appoggiati al tavolo. La categoria Vita/Morte rima qui con una fruizione Dinamica/Statica.

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d’ingresso sono presenti le due statue maschili, mentre dalla porta d’uscita quelle femminili. Nella stanza, quindi, dal punto di vista della suddivisione della planimetria e della disposizione degli oggetti esposti si possono individuare due prime categorie valoriali: Vita/Morte e Maschile/Femminile. Queste opposizioni possono facilmente essere articolate in vere e proprie categorie semiotiche nel momento in cui siano riconoscibili nella stanza dei “luoghi della neutralità” (Marsciani 2012: 159 sgg.), che veicolino quindi le opposizioni Non-Vita/ Non-Morte e Non-Maschile/Non-Femminile. Tornando ad osservare il lato delle cere si può notare come queste rappresentino diverse fasi della stratificazione muscolare del corpo umano; per mostrare la muscolatura interna del corpo, le statue perdono ogni connotazione esteriore della propria sessualità: le quattro statue via via “spellate” non sono né maschili né femminili, mostrando il corpo come un oggetto sessualmente neutro; allo stesso modo, queste quattro statue appaiono al contempo come non vive, in quanto “scuoiate”, e come non morte, perché messe in posizioni che simulano un corpo vivo: la parete delle cere stratificate si ritrova ad essere, quindi, il luogo della neutralità delle due valorizzazioni articolate, restituendo una visione del corpo umano come oggettivato, privato della sessualità e dell’umanità effettiva; quest’oggettivazione è confermata dalla centralità del tavolo anatomico, dove il corpo si fa necessariamente oggetto per l’osservazione scientifica. Sguardi e percorsi - Aperture, chiusure e tendenze valorizzate Come si è detto, la disposizione delle stanze in una struttura museale può essere letta come un discorso che, se coerente con la tematica dell’ala in cui si articola, può

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incidere sull’efficacia del suo darsi. A Palazzo Poggi questo è facilmente riconoscibile proprio nell’ala dedicata all’anatomia umana, dove la successione delle sale, la disposizione e l’immagine delle loro soglie e gli elementi d’attrazione dello sguardo concorrono nel restituire al visitatore una costante tensione al “Femminile” come valore dominante del percorso di fruizione: innanzitutto, la prima sala è esplicitamente denotata come femminile, essendo dedicata al parto e all’utero; successivamente, trovandosi alla soglia della Sala delle Cere Anatomiche, la prima cosa che si vede sono le due statue femminili del corpo intero e dello scheletro; infine, proprio al centro di queste due statue, la porta fa da cornice al corpo della Venerina, vero attrattore dello sguardo e conclusione ideale di un discorso sul corpo che si tinge via via di femminilità; a confermare tutto questo, si segnala come molto spesso i visitatori tendano a trascurare la sala posta tra le Cere Anatomiche e la Venerina, cioè la Sala delle Cere Morandi e Manzolini; da un punto di vista testuale, ciò può essere dovuto al suo non porsi adeguatamente all’interno del discorso portato avanti dalle altre sale, presentando elementi che non concordano con la valorizzazione fino a quel punto avviata, portando il visitatore ad ignorare il potenziale “controsenso” e a focalizzare la propria attenzione sulla Venerina40. Curiosamente, questo effetto di “rottura del senso” complessivo del percorso è dato anche dalla denominazione della sala: se le altre sale dedicate all’anatomia portano nella loro denominazione gli elementi del corpo umano lì rappresentati, quella di Morandi e Manzolini pone l’attenzione sulle due statue di cera dedicate alla scultrice, Anna Morandi, e al marito, poste in una sala altrimenti riempita di riproduzioni di organi sensoriali.

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La valorizzazione dello sguardo come effetto di senso può essere individuata altre volte all’interno di Palazzo Poggi: appena entrati nella Sala Aldrovandi, guardando a sinistra, lo sguardo va a interrompersi contro la porta chiusa che cela la Sala della Luce, creando un effetto di chiusura che porta ad ostacolare la fruizione dell’ala dedicata alla Fisica. Al contrario, invece, la disposizione dei velieri nell’ala dedicata alle scoperte geografiche crea delle vere e proprie direttrici deittiche dello sguardo che guidano il visitatore lungo tutta l’area tematica, portandolo poi a soffermarsi sul contenuto delle stanze lungo il percorso inverso, poiché la loro direzione – ora contraria – incoraggia la sosta. Conclusioni - Gli spazi museali come forme del sapere Applicando quindi uno sguardo etnosemiotico agli spazi museali, è possibile mettere in luce e descrivere in che termini e in quali misura gli effetti di senso derivanti dai modi di fruizione degli spazi e della loro organizzazione interna possano o meno essere in accordo con quanto in essi è esposto, andando ad incidere sull’incisività di una stanza rispetto ad un’altra, sottolineando più o meno i diversi percorsi espositivi e il senso complessivo di differenti aree tematiche. Con questo, non si vuole qui prescrivere un modo particolare di gestire la progettazione di spazi espositivi, bensì suggerire di non trascurare quanto la spazialità e l’organizzazione di planimetrie e percorsi di fruizione siano elementi significativi a prescindere che tale significazione sia o meno cercata. La prospettiva strutturale, nell’analisi degli spazi museali, si pone quindi come sistema di misura delle forme

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del sapere veicolate dalla spazialità stessa, esplicitando quali valorizzazioni siano messe in gioco al momento della visita e dove questa appaia nel suo complesso “ostacolata” da elementi che ne interrompono la coerenza di significazione. In questa sede ci si è limitati a una descrizione valoriale profonda che non ha toccato gli aspetti semio-narrativi rintracciabili andando a raffinare ulteriormente le articolazioni delle categorie messe in gioco dalla fruizione; ci si limita qui a segnalarne la possibilità e a suggerire la strada per un’analisi più estesa. Bibliografia Amoroso, P.; De Fazio, G.; Giannini, R.; Lucatti, E. 2016 Corpo, Linguaggio e Senso. Tra Semiotica e Filosofia, Esculapio, Bologna. Del Ninno, M. 2007 Etnosemiotica, Meltemi, Roma. Eugeni, R. 2010 Semiotica dei Media, Carrocci, Roma. Fabbri, P.; Marrone, G. 2002 Semiotica in nuce, Meltemi, Roma. Foucault, M. 1969 L’archéologie du savoir, Parigi, Éditions Gallimard, (tr. it., L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 2013). Galofaro, F. 2015 Dopo Gerico. I nuovi spazi della psichiatria, Esculapio, Bologna.

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Greimas, A.J. 1987 De l’imperfection, Fanlac, Montignac, (tr. It., Dell’imperfezione, Sellerio, Palermo, 2004). Greimas, A.J.; Courtés, J. 1979 Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris, (tr. it., Semiotica, dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Bruno Mondadori, Milano, 2007). Hjelmslev, L. 1961 Prolegomena to a Theory of Language, University of Wisconsin Press, Madison, (tr. it. I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino, 1968). Landowski, E. 2005 Les interactions risquées, Pulim, Limonges, (tr. it. Rischiare nelle interazioni, Franco Angeli, Milano, 2010). Marsciani, F. 2007 Tracciati di Etnosemiotica, Franco Angeli, Milano. 2012 Minima Semiotica, Mimesis, Milano-Udine. Marsciani, F.; Zinna, A. 1991 Elementi di Semiotica Generativa, Esculapio, Bologna.

Seconda parte

Etnosemiotica e musei

La teca e l’evento: percorsi etnosemiotici ai limiti del museo Maria Cristina Addis Al limite: introduzione Il nostro contributo verte sul museo d’arte da una posizione a più livelli liminare. In primo luogo, rispetto all’oggetto, laddove intercetta solo indirettamente le articolazioni di un qualche museo specifico, le esperienze di visita che allestisce o quelle che i visitatori stessi costruiscono tramite le loro pratiche. Esso si sofferma invece sulla sua natura di luogo proprio dell’istituzione, nel quadro di un’analisi topologica del “luogo deputato alla conservazione e fruizione d’arte”, nel senso inaugurato da Algirdas J. Greimas nel saggio seminale “Per una semiotica topologica”: «Ogni studio topologico è obbligato a scegliere, come dato preliminare, il proprio punto di osservazione, distinguendo il luogo dell’enunciazione dal luogo dell’enunciato e precisando le modalità del loro sincretismo. Il luogo topico è il luogo di cui si parla e allo stesso tempo l’interno da cui si parla» (Greimas 1976-1991, p. 127). In secondo luogo, il museo stesso occupa un duplice limite e si istituisce in virtù di un duplice limite: in quanto eterotopia del tempo e in quanto spazio di presentazione dell’arte. Sul primo versante, seguendo il suggerimento di Michel Foucault possiamo leggere l’istituzione museale

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come tensione fra luogo “del tempo” - che emerge e assume il suo senso specifico all’interno di società storicamente situate - e luogo “fuori dal tempo”, che tende a emanciparsi dalla propria storicità. A prescindere dalle forme e dai criteri con cui persegue il proprio progetto di «accumulo perpetuo e indefinito del tempo in un luogo che non si sposta», il museo «si mette a funzionare a pieno quando gli uomini si trovano in una sorta di rottura assoluta con il loro tempo tradizionale» (Foucault 2001, p. 28). Trasversalmente alle trasformazioni subite dal sistema dell’arte e dei suoi rapporti con la società dalla “nascita del quadro” in poi41, il museo è il luogo in cui una cultura guarda ad alcuni dei propri artefatti “da fuori il tempo”, in termini riflessivi e di secondo grado. In tal senso il museo è il luogo di “interruzione della storia”: perché sottrae l’artefatto ai processi di obsolescenza e deperimento destino della materia e li assegna a rapporti sempre sincroni, contemporanei, istruiti dallo spazio che li contiene e li esibisce; perché il soggetto cui è destinato, o meglio che esso stesso istituisce, è anch’esso sottratto ai ruoli, i programmi e le azioni che lo collocano di volta in volta nel flusso dell’esistenza quotidiana e lo assegnano a un’attività acronica e non trasformativa. Tale tensione è “doppiata” dal museo stesso, in quanto a un tempo corpo edile come tutti gli altri, destinato a contenere, proteggere e distribuire i corpi di cosa e di persona, e spazio idealmente senza spessore, che Ci riferiamo in particolare all’archeologia della dimensione riflessiva e propriamente teorica della rappresentazione operata da Victor Stoichita ne L’invenzione del quadro (1998).

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presenta allo sguardo un’indefinita quantità di mondi e soggetti altri42. Terzo e principale punto, il contributo avvicina il duplice statuto liminare del museo a partire da due operazioni estetiche che si situano in tale interstizio, che sondano, evidenziano e sospendono a loro volta gli iati fra “esistenza storica” e “esistenza estetica”. Elaborate rispettivamente in seno alla performance art e alla street art, tali operazioni possono a buon titolo dirsi oggetti teorici, in quanto producono una teoria di tali limiti, impongono al loro osservatore/spettatore di prenderne atto e all’analista di renderne conto: la performance Rhythm 0 di Marina Abramovic (Studio Morra di Napoli, 1974) e le colate di grigio tramite cui Blu ha cancellato i propri murales bolognesi (Bologna, 2016). Rhythm 0 conclude una serie di interventi performativi realizzati dall’artista serba fra il 1973 e il 1974 in diversi musei e gallerie di alcune città italiane e (ex) jugoslave, e consiste in un evento di 6 ore durante il quale il pubblico è libero di utilizzare sul suo corpo nudo 72 oggetti, fra i quali una pistola. Quarantadue anni dopo, a Bologna, il writer Blu decide di cancellare tutti i propri murales diffusi nella città, a seguito della scelta, da parte dell’associazione Genius Bononiae, di ritagliare i dipinti dell’artista presenti su mura Tale sintetica ricognizione capitalizza diversi contributi semiotici al museo, alle sue funzioni storico-teoriche che esprime e alle esperienze e pratiche di cui è terreno e strumento. Sul museo come spazio di presentazione cfr. in particolare Corrain (2016); sul museo come tecnologia di costruzione dello sguardo riflessivo cfr. in particolare Zunzunegui (2011); sul museo come eterotopia cfr. in particolare Pezzini (2019).

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di edifici fatiscenti e inserirli senza il suo consenso nella mostra Street Art. Bansky&Co., retrospettiva dedicata alla storia della street art allestita presso Palazzo Pepoli da marzo a giugno dello stesso anno. Le due operazioni, al netto delle loro evidenti differenze, condividono alcuni tratti comuni: - si tratta in entrambi i casi di un gesto riflessivo, di una condotta con valore di auto-affermazione di sé e una forma di presa di parola attraverso il comportamento; - la condotta consiste in un atto di distruzione, di un’azione fisica del pubblico sul corpo dell’artista su cui aleggia l’eventualità ultima della morte e di un’azione fisica di cancellazione della propria opera da ciò che lo spazio storico ha in assoluto di più pubblico: le mura, o meglio la pellicola ideale fra il limite più esterno del corpo edile e l’ultima soglia dell’orizzonte del visibile; - la presa di parola assume anch’essa la forma di un dialogo polemico, che intacca l’immagine di sé e del mondo del proprio osservatore/interlocutore e ne stimola la reazione violenta, anche se aleatoria e subito riassorbita dal termine della performance o dallo scemare della polemica; - la stessa polemica, infine, persegue una qualche forma di verità, o meglio di svelamento, di de-naturalizzazione delle norme che regolano l’interazione fra corpi sociali e quelle cristallizzate nell’istituzione museale. L’analisi comparata che ne proponiamo si impernia sul concetto di neutro, che attraverso le messe a fuoco incrociate dell’etnosemiotica e della semiotica e teoria dell’arte possiamo riformulare in termini di rapporti attanziali e enunciazionali che trovano diagramma comune nell’aporia topologica del limite.

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È Louis Marin a suggerire un simile raccordo dello sguardo etnosemiotico e estetico all’interno di una più generale analisi del discorso, nelle riflessioni dedicate a Disneyland e più in generale all’utopia, ai dispositivi della rappresentazione moderna e alla logica di Port-Royal43. Louis Marin attinge alla definizione strutturale del termine, quale posizione e operazione di contraddizione della categoria semantica o assiologica che articola un dato micro-universo di senso: Né sì né no, né vero né falso, né l’uno né l’altro: il neutro. (…) neutro come scarto dei contraddittori, la contraddizione stessa mantenuta fra vero e falso, che apre nel discorso uno spazio che il discorso non può accogliere; terzo termine, ma supplementare, e non sintetico, con qualche parentela con la finzione e l’interrogazione, ma non con l’immaginario, il dubbio o il possibile44. “Nell’uno nell’altro, né sì né no, né vero né falso”: il neutro non contraddice qualcosa a favore del suo opposto, ma la pertinenza stessa di opporre l’uno all’altro, il sì al no. Come osserva Francesco Marsciani in termini simili a quelli del filosofo francese, il neutro intrattiene con il campo di significazione determinato di volta in volta dagli investimenti di senso «una relazione anomala di estraneità, estraneità che tuttavia renderebbe impossibile la sua stessa pensabilità semiotica se non fosse a sua volCfr. in particolare, rispettivamente, Utopiques: jeux d’espaces (1973), La Critique du discours. Sur la Logique de Port-Royal et les Pensées de Pascal, Editions de Minuit, Parigi 1975, De la représentation (1994-20142).

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Louis Marin, Utopiques. Cit., pp. 20-21, tr. nostra, corsivi nostri.

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ta estraneità da qualcosa»45. Riferimento comune ai due teorici sono le riflessioni sulla “modifica di neutralità” delle tesi di mondo avanzata da Edmund Husserl (1913), illustrate significativamente da Marin tramite un esempio husserliano tratto dalla rappresentazione visiva, l’incisione di Albrecht Dürer Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo (1513). La percezione dell’oggetto-lastra incisa e quella della figura-cavaliere coesistono ma non possono darsi insieme: né un oggetto del mondo né il suo contrario, la figura “esiste” a costo di una duplice negazione che la situa in un ordine di realtà irriducibile a quello delle cose. I margini, il piano e lo sfondo del quadro, come il sistema di soglie che separa Disneyland (con le sue caverne, palazzi reali, accampamenti indiani, sottomarini e razzi spaziali) dal resto della California assolvono a una medesima funzione di cornice, quale operazione di neutralizzazione che guida il passaggio dalla differenza fra contrari che vige nel mondo fenomenico (in cui non si dà una visione stabilita ma lo sguardo stabilisce di volta in volta relazioni variabili fra ciò che gli è dato esperire) alla differenza rispetto alla differenza di un mondo di secondo grado, che si afferma come totalità priva di un’esteriorità, positività definita esclusivamente in negativo, rispetto a tutto ciò che essa non è. Il comportamento a rischio di morte di Marina Abramovic e il gesto di sparire di Blu sondano un medesimo interstizio discorsivo, ma a partire da posizioni speculari e eteromorfe, rispettivamente dal lato del Cavaliere e della “lastra incisa”.

Francesco Marsciani, Ricerche intorno alla razionalità semiotica (1990), p. 244.

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Conosci i tuoi limiti: Marina Abramovic e l’arte della verità In diverse occasioni, intervistata circa la differenza fra performance e teatro, l’artista ha offerto la medesima risposta: «il teatro è fiction, la performance è vera. A teatro il coltello è finto, il sangue è ketchup. Nella performance la lama è vera, il sangue è vero sangue»46. Se il sangue e il coltello finti sono funzionali a rappresentare un evento cruento, la performance investe un evento cruento del valore di rappresentazione, la sottrae alla continuità dell’esistenza storica e lo erge a “dramma” autonomo e di secondo grado. Come introdotto in precedenza, Rhythm 0 conclude un ciclo di cinque performance. La numerazione accompagna ogni atto non esprime una successione numerica, ma traduce una qualche proprietà dell’oggetto della performance: le dieci dita delle mani al centro di Rhythm 1047, Risposta offerta durante le interviste di Iwona Blazwick presso la Tate Gallery di Londra nel 2010 e di Patricia Cohen per il canale televisivo del New York Times nel 2012, tr. nostra.

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47 “Metto un foglio di carta bianco sul pavimento. Metto 20 coltelli di varie dimensioni e forme sul foglio. Appoggio sul pavimento 2 registratori con microfoni. Accendo il primo registratore. Prendo il primo coltello e lo infilzo tra le dita aperte della mano sinistra, il più velocemente possibile. Ogni volta che mi taglio, cambio coltello. Quando finisco di usare tutti i coltelli (tutti i ritmi), riavvolgo il nastro del registratore. Ascolto la registrazione della prima parte della performance. Mi concentro. Ripeto la prima parte della performance. Dispongo i coltelli allo stesso modo, seguo lo stesso ordine e lo stesso ritmo, e mi taglio negli stessi punti. In questa performance, gli errori del passato e del presente vengono sincronizzati. Riavvolgo il nastro del secondo registratore e ascolto il doppio ritmo dei coltelli. Poi me ne vado”, Performance, durata di 1 ora, Museo d’Arte Contemporanea Villa Borghese, Roma 1973. Cfr. Abramovic 2018: 84.

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le cinque punte della stella che circoscrive il corpo “vitruviano” riverso della perfomer in Rhythm 548, i due stati opposti indotti dagli psicofarmaci assunti in Rhythm 249

48 “Costruisco una stella a cinque punte, riempiendola di trucioli di legno che ho impregnato con 100 litri di benzina. Do fuoco alla stella. Ci cammino intorno. Mi taglio i capelli e li getto dentro ogni punta della stella. Mi taglio le unghie e le getto in ogni punta della stella. Entro nello spazio vuoto della stella e mi distendo. Non mi rendo conto che il fuoco ha consumato tutto l’ossigeno; rimandando sdraiata all’interno, perdo conoscenza. Poiché sono distesa il pubblico non reagisce. Soltanto quando il fuoco comincia a bruciarmi una gamba senza che io reagisca, due persone del pubblico entrano nella stella e mi portano all’esterno. La performance è interrotta”. Performance, durata di 90 minuti, centro culturale studentesco (SKC), Belgrado, 1974. Cfr. ibid.: 90.

“Uso il mio corpo per un esperimento. Prendo i farmaci usati negli ospedali per il trattamento di catatonia acuta e schizofrenia, provocando effetti imprevedibili nel mio corpo. Parte I. Guardando il pubblico, ingerisco il primo farmaco. Il medicinale è somministrato a pazienti che soffrono di catatonia, per costringerli a cambiare posizione del corpo. Poco dopo aver assunto la medicina, i miei muscoli cominciano a contrarsi in modo violento, finché non perdo totalmente il controllo (…), durata di 50 minuti; Pausa. (…) Sintonizzo la radio su una stazione a caso. Durata di 10 minuti; Parte II. Davanti al pubblico, ingerisco la seconda pasticca. Questo farmaco viene somministrato per calmare pazienti schizofrenici con violenti disturbi comportamentali. Poco dopo aver preso il secondo medicinale, sento prima freddo poi perdo conoscenza (…). La performance termina quando il farmaco smette di avere effetto”. Performance, durata di 6 ore, Galerija Suvremene Umjetnosti, Zagabria, 1974. Cfr. ibid: 96.

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e ognuno di essi doppiato dalla mediazione del monitor in Rhythm 450. Rhythm 0 conclude la “ricerca sul corpo conscio e in conscio” avviata da Rhythm 10 e l’esplorazione delle soluzioni di continuità fra corpo in pubblico e corpo in privato, fra il corpo come “immagine di soggetto” e il corpo come “forza agente e materia agita”, fra l’intenzionalità riflessiva che lo guida e i moti e impulsi irriflessi che lo muovono o lo immobilizzano suo malgrado. Le performance costruiscono progressivamente un modello topologico che condivide con l’Io-pelle teorizzato da Didier Anzieu e riletto in chiave semiotica da Jacques Fontanille51 una concezione dell’Io come serie di soglie e limiti concentrici che mediano e regolano il rapporto fra le istanze interne della psiche e fra ego e alter-ego: involucri “Spazio A. Lentamente mi avvicino al ventilatore industriale, cercando di inalare quanta più aria possibile. Mentre mi avvicino al bocchettone del ventilatore, a causa della forte pressione dell’aria perdo conoscenza. La performance non viene comunque interrotta. Cado su un fianco sul pavimento, ma il ventilatore continua a cambiare e muovere il mio viso. Spazio B. La macchina da presa è puntata sul mio viso e non mostra il ventilatore. Il pubblico, guardando il monitore, ha l’impressione che io sia sott’acqua. (…) Nella performance riesco a usare il mio corpo che perde e riacquista conoscenza ininterrottamente”. Performance, durata di 45 minuti, Galleria Diagramma, Milano 1974. Cfr. ibid: 100.

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A partire dall’Io-pelle teorizzato da Didier Anzieu (1985), Jacques Fontanille (1999) individua un modello topologico utile a pensare la soggettività e intersoggettività in termini di involucri progressivi che con l’epidermide condividono la duplice funzione di involucro e interfaccia: contenere e separare - il Sé-corpo proprio dal mondo altro e dall’Io-carne - e mediare fra queste istanze, farle comunicare fra loro.

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scopici, olfattivi, uditivi, termici, epidermici, psichici che costituiscono altrettanti limiti strutturanti del rapporto fra individui e fra individuo e collettività. Rhythm 0 condivide con le precedenti la nudità dell’artista e l’eventualità di offesa più o meno irreversibile del suo corpo. Il corpo nudo, deprivato della “pelle sociale” - gli abiti - che mediano il suo apparire agli altri e interdicono l’accesso allo sguardo altrui e agli agenti esterni, è oggetto di un potere scopico assoluto da parte dell’osservatore, che tramite lo sguardo può sapere, apprezzarne le forme e le fattezze, e toccare, raggiungere la cute, scorrerne i bordi, valutarne le diverse testure e consistenze, sostare a piacimento sulle sue parti intime. D’altro canto, la stessa spettacolizzazione della trasparenza è portatrice di una affermazione polemica: la nudità istituisce il corpo-oggetto di sapere come soggetto di parola, fiero portatore di una verità su di sé che infrange le regole di interazione scopica che mediano e regolano i rapporti fra soggetti in seno alla vita associata e le norme etiche che le sottendono. Il concetto di pubblica decenza elaborato in seno alla giurisdizione occidentale, che annovera la nudità pubblica fra i comportamenti contrari «a quelle norme di riserbo o di convenienza che circondano in un determinato ambiente sociale le questioni di carattere sessuale», e che costituiscono per ciò «una grave sconvenienza o indelicatezza»52, palesa come l’interazione scopica rivesta un ruolo centrale nella regolazione della vita associata. La nudità è in grado di “offendere l’altro” e invaderne lo spazio proprio in quanto infrange 52

Art. 726 del Codice Penale.

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il sistema di soglie e limiti condiviso da un “determinato ambiente sociale”, in cui i rapporti di distanza e prossimità fra il proprio corpo e lo sguardo dell’altro traducono un sistema di distinzioni fondanti del collettivo “civilizzato”: la differenza fra animalità e socialità, fra esistenza materiale e esistenza “simulacrale”, fra il contatto e esercizio di forza sui corpi e fra corpi e lo spettacolo di sé che ognuno rivolge alla coscienza riflessa dell’altro. Da cui il valore di presa di parola soggettiva assunto dalla nudità esibita, quale misconoscimento della morale sociale e del suo potere di conformazione dell’individuo, e in questo senso si tratta di un’affermazione che opera una frattura nel sistema di valori che regolano la vita pubblica del soggetto socializzato. Ognuna delle azioni previste dalle performance comporta un danno possibile o certo al corpo: l’artista si sottopone ad alterazioni percettive e azioni fisiche che ne mettono a rischio l’integrità e in alcuni casi la vita. Laddove la nudità esibisce un soggetto spogliato delle connotazioni identitarie convocate dagli abiti e soprattutto della loro funzione di proteggere lo spazio proprio dell’individuo dallo sguardo altrui e dagli agenti naturali, l’azione offensiva di lame, fiamme, brusche cadute porta all’eccesso il regime di trasparenza del corpo, accedendo - e consentendo allo sguardo di accedere - al suo interno, alla sostanza viva e pulsante non più del tutto contenuta dall’involucro epidermico. Al grado zero del sembrare teatrale e del sembrare sociale, il performer è deprivato anche della pelle individuale, la lama infrange anche l’ultimo involucro che integra e individua la figura umana, introducendo nell’orizzonte del visibile la sua controparte materica.

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Il duplice statuto di oggetto del corpo - di un sapere e di un potere - è nondimeno inscindibile da un parallelo “potere su di sé” che il soggetto esibisce inscrivendo in seno a un medesimo corpo la tensione fra processi di disgregazione della carne e azione di contenimento e controllo della coscienza, fra l’offesa dell’integrità individuale che riduce l’individuo a materia inerte e un “fare ricettivo” che esibisce una volontà disincarnata immune agli effetti destabilizzanti del dolore e della paura. Il corpo aperto che inibisce allo sguardo ogni possibile distanza è solo uno dei poli della tensione fra ethos e pathos, fra coerenza indefessa di una condotta e disgregazione fisica e psichica operata dal dolore. A differenza delle performance precedenti, in Rhythm 0 l’eventualità di morte non dipende dall’azione dell’artista su se stessa o da quella dei farmaci che assume o degli oggetti con cui sceglie di interagire, ma dal modo in cui il pubblico sceglierà di agire su di lei. Lo “0” che conclude il ciclo può a tal proposito essere legittimamente letto come la traduzione plastica dell’Io-pelle allestito da Rhythm così come il punto di arrivo del processo di svelamento di ognuna delle sue membrane, grado 0 della distanza fra soggetto e oggetto dell’esperienza estetica che inscrive l’altro, il pubblico, in un medesimo “esercizio di verità” su di sé. Il potere scopico dell’osservatore si prolunga in un reale potere di morte sul corpo dell’altro, e la sua azione è a sua volta oggetto di visione e giudizio da parte di tutti: Sul tavolo ci sono settantadue oggetti che possono essere usati a piacere su di me. Io sono l’oggetto.

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Durante la performance mi assumo la totale responsabilità. La performance è l’ultima del ciclo dei Rhythm (Rhythm 10, Rhythm 5, Rhythm 2, Rhythm 4, Rhythm 0). Concludo la mia ricerca sul corpo conscio e inconscio. Lista di oggetti sul tavolo: pistola, ago, zucchero, proiettile, spilla da balia, sapone, vernice blu, forcina, torta, pettine, spazzola, tubo di metallo, campana, benda, bisturi, frusta, vernice rossa, lancia di metallo, rossetto, vernice bianca, confezione di lamette, coltellino tascabile, forbici, forchetta, penna, piatto, profumo, libro, calice, cucchiaio, cappello, cerotto, cotone, fazzoletto, alcol, fiori, foglio di carta bianco, medaglia, fiammiferi, coltello da cucina, stola di pelliccia, rosa, martello, paio di scarpe, candela, sega, sedia, acqua, pezzo di legno, lacci in pelle, sciarpa, accetta, gomitolo, specchio, bastone, cavo di metallo, bicchiere, osso di agnello, zolfo, quotidiano, uva, fotografica Polaroid, pane, olio di oliva, piuma, vino, rametto di rosmarino, catene, miele, mela, chiodi, sale53. I 72 oggetti espandono la gamma di “ritmi” a una serie di trasformazioni fisiche e percettive che affettano ognuno degli involucri che separano il corpo proprio dallo spazio altro e dalla carne: lo spettro visivo (specchio), uditivo (campana), olfattivo (profumo, rosmarino), epidermico 53

Cfr. Abramovic (2018), p. 102.

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(piuma, frusta, pelliccia) e infine la pelle, nel suo duplice statuto di contenitore e di superficie. Un’altra gamma di oggetti prevede la possibilità di riempirlo (vino, pane, miele) lacerarlo (forbici, lamette, ago, chiodi), scavarlo (bisturi), alterarne lo stato materico (fiammiferi, zolfo), oppure di ricoprirlo, di addobbarlo (rossetto, scarpe, medaglia), mascherarlo (vernici), farne il supporto di altre immagini (polaroid, quotidiano). Ognuno dei processi virtuali inscritti nel paradigma di utensili prefigura una dinamica tensiva che trova il suo picco nella pistola: l’eventualità della fragranza di proiettile sul corpo inerme orienta le 6 ore di performance, soglia ultima di distruzione dell’altro e evento puntuale di conversione irreversibile dell’animato e inanimato. Le azioni che ognuno degli spettatori è libero di compiere sul corpo della performer marcano una topica somatica e sensibile in cui lo stesso artista assume il duplice valore corpo-oggetto in balia del potere dell’altro («gli oggetti possono essere usati a piacere su di me; io sono l’oggetto») e soggetto garante della legittimità di un simile infierire: “Io mi prendo tutta la responsabilità” solleva ognuno dalla sanzione sociale che regola i contatti fra corpi e l’interazione fra soggetti. La sfera pubblica costitutiva di ogni forma di vita associata è riprodotta in miniatura, ma secondo criteri rovesciati: la “smodalizzazione” sociale e individuale che il performer opera su di sé è parallela a quella dello spettatore libero di esercitare una forza fisica sul corpo dell’altro al di fuori della cornice sociale e giuridica che norma le forme di interazione fra individui. Secondo le ricostruzioni operate dalla cronaca artistica dell’epoca e dalla stessa artista, la performance ha visto un crescendo

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progressivo di coinvolgimento dei presenti: dopo un primo momento in cui l’interazione è stata minima o nulla, e tutti si limitavano a guardare, qualcuno ha timidamente intentato le azioni meno invasive - sfiorare, dare un oggetto da tenere in mano - e progressivamente le azioni sono diventate più numerose e violente, fino a che qualcuno non le mette in mano una pistola e altri presenti intervengono a fermarne l’azione e difendere la donna. La performance si conclude quando il nuovo orizzonte sociale istituito dal “pubblico” - soggetto non più alle regole della società ma a quelle dell’arte, che contemplano la possibilità di infrangere ognuno dei limiti che lo separano dal corpo dell’artista - si spacca e emergono una o più posizioni individuali: il “rischio di morte” della performer provocherà un’azione fisica di soccorso da parte di qualcuno che infrange il limite dell’arte e le regole dettate dall’artista stessa, assumendosi la responsabilità individuale di interrompere la performance. Il valore della vita viene ripristinato come assoluto, e la performance si conclude.

Ai limiti della polis: Blu e la polemica infinita L’esperimento sociale di Marina Abramovic non solo non nega l’operazione di cornice operata dal Museo, la Galleria, il Centro Culturale, ma è un suo effetto, dipende dal ritaglio che tramuta un evento del mondo in oggetto di visione e giudizio e tramite un’esperienza estetica, in cui i “veli” sociali e gli involucri fisici che separano e mediano gli individui gli uni dagli altri trovano nello spazio e nel tempo della performance un luogo di sospensione, di collasso o inefficacia. Arte comportamentale in

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quanto il comportamento è convertito in arte, e l’artista è colui in grado di attivare tale dispositivo, in virtù della trasparenza scopica e cognitiva con cui si mostra (fino al sangue) e dell’agonismo etico con cui accoglie l’azione offensiva (la lama). Se la performance art secondo Abramovic si definisce a partire dalla condotta del corpo-oggetto all’interno del dispositivo museale, la street art espressa da Blu colloca tale condotta, e con altrettanta violenza, nel cuore della storia, sul limite del ciò che la polis ha di più pubblico, il visibile a tutti. Laddove le mura degli edifici circoscrivono i luoghi propri dell’esistenza storica, e gli ambienti del museo definiscono il luogo proprio della sua interruzione, i muri dipinti esprimono tattiche di resistenza che non possono «contare su una base propria»54: il murales si situa nell’interstizio fra il bordo dell’edificio che occupa e lo sfondo della figura che mostra, impone di cogliere È Michel de Certeau, com’è noto, a immaginare una “micro-fisica della resistenza” da affiancare alla micro-fisica del potere inaugurata da Michel Foucault, studiando i modi di fare di coloro che di quel potere sono l’oggetto: «Per “strategia” intendo il calcolo dei rapporti di forza che diviene possibile a partire dal momento in cui un soggetto di volontà e di potere è isolabile in un “ambiente”. Essa presuppone un luogo che può essere circoscritto come proprio e fungere dunque da base a una gestione dei suoi rapporti con un’esteriorità distinta. [...] Intendo al contrario per “tattica” un calcolo che non può contare su una base propria, né dunque su una frontiera che distingue l’altro come una totalità vivibile. La tattica ha come luogo solo quello dell’altro. Si insinua, in modo frammentario, senza coglierlo nella sua interezza, senza poterlo tenere a distanza. Non dispone di una base su cui capitalizzare i suoi vantaggi, prepararsi a espandersi e garantire un’indipendenza in rapporto alle circostanze». (De Certeau 2009, p. 15).

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insieme il gesto di appropriazione di uno spazio di pubblica presa di parola e la condivisione con la comunità di un immaginario. Il grigio di Blu esprime in tal senso a tutti gli effetti un gesto estetico e autoriale: è una firma, marca del soggetto responsabile del gesto di intervenire sul “pubblico visibile”, e un’immagine critica, che sottopone allo sguardo e al giudizio della polis una serie di conflitti e rapporti di forza che la logica museale neutralizza. Di fatto, il vuoto marcato dalle colate di grigio sugli edifici di Bologna, un tempo abitati dai suoi dipinti, ha mobilitato come nessun’altra immagine la cittadinanza attorno a domande che coinvolgono senza soluzione di continuità il sistema dell’arte, la vita della comunità, la gestione del bene comune. Per qualche settimana, un’accesa e a tratti feroce polemica ha coinvolto, oltre agli organizzatori della mostra, storici dell’arte, filosofi, artisti, residenti dei quartieri coinvolti dalla cancellazione e semplici cittadini, che si sono pronunciati pro o contro la sua azione55. Lo scontro legalistico (fior di denunce e

55 Cfr. fra gli altri Wu Ming, Blu, i mostrificatori e le sfumature di grigio, L’Internazionale, 18 marzo 2016, https://www.internazionale.it/opinione/wu-ming/2016/03/18/blu-bologna-murales-mostra; Enrico Gullo, Questo murales vi seppellirà, Prismo, 16 marzo 2016, http://www.prismomag.com/questo-murales-vi-seppellira; Helga Marsala, Blu a Bologna. Iconoclastia come violenza o resistenza? Artribune, 13 marzo 2016, https://www.artribune.com/ attualita/2016/03/blu-a-bologna-liconoclastia-come-violenza-o-resistenza. Un’interpretazione del gesto in termini di neutro è offerta da Paola Donatiello, Tocco Blu, non gioco più, 13 marzo 2016, https://www.doppiozero.com/materiali/commenti/tocco-blu-nongioco-piu.

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soprattutto minacce di denunce sono fioccate sul silente autore del gesto da parte delle istituzioni, dei comitati di quartiere, della stessa Genius Bononiae, così come accalorati sostenitori di Blu si sono pubblicamente ripromessi di partecipare alle eventuali spese legali) e etico (accuse di narcisismo e ipocrisia da parte di colleghi writer ben felici di far parte della mostra o da illustri studiosi d’arte, opposte all’appassionata difesa del suo gesto da parte di altrettanti o più colleghi e critici) che il gesto ha suscitato è la marca più evidente della sua efficacia, almeno quanto la spaccatura del pubblico di Rhythm 0: la comunità locale e nazionale si è trovata proprio malgrado a fare i conti con i limiti fra arte e storia, fra musei e città, fra la natura storica e situata dei primi e il rischio di estetizzazione che grava sulle seconde, fra l’autorialità di un’immagine e quella del gesto che la produce. Al cuore delle più diverse polemiche, l’aporia costitutiva del murales: è il dipinto a decorare il muro o il muro a fungere da supporto del dipinto? L’immagine appartiene al suo autore o al proprietario dell’immobile? Alle istituzioni incaricate di gestire e tutelare il bene comune o ai residenti in diritto di beneficiarne? Tale diritto dell’abitante dipende dalla memoria condivisa di cui il murales è segno, o dal valore aggiunto, commerciale e turistico, dato da un muro “griffato” al quartiere? Il contratto/patto sociale fra artista e residenti verte sul luogo e il senso dell’operazione (come suggerisce la reazione di Blu), o sui contenuti e la “bellezza” dell’opera (come suggerisce la mostra organizzata da Genius Bononiae)? Un murales o una tag sono un oltraggio al decoro o un valore aggiunto del quartiere? Né l’uno né l’altro, né sì né no: il neutro. Nel già citato Utopiques, Louis Marin apporta

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l’esempio del sottointeso per spiegare la dialettica di forze sottesa alla «posizione supplementare non sintetica»: qualcosa che non ha ancora del tutto spazio nel discorso, non abbastanza da essere giudicato, valutato e fatto oggetto di replica, ma a sufficienza per segnalare una posizione ancora impronunciabile, «scarto conservato» fra affermazione e negazione che fa deflagrare «la polemica infinita, (…), l’altro, la contraddizione illimitata»56. Né “Cavaliere”, laddove ogni figura è occultata da una colata uniforme di colore, né “lastra incisa”, in quanto memore dell’immagine che un tempo c’era, il grigio di Blu marca un punto 0 che non smette di produrre critica, di imporre un pubblico ragionamento sul rapporto fra lo spazio da cui parla e l’immagine che mostra, inscrivendo nel visibile e nello scibile pubblico la coscienza di conflitti storici naturalizzati, che sarà la comunità a dover elaborare, negoziare, sanare. Bibliografia Abramovic, M. 2018 The Cleaner, Marsilio, Venezia, Catalogo. Corrain, L. 2016 Il velo dell’arte. Una rete di immagini fra passato e contemporaneità, VoLo Publisher, Firenze-Lucca. De Certeau, M. 2009 L’invenzione del quotidiano, Jaca Book, Milano.

L. Marin, Utopiques, cit., p. 21, tr. nostra. Sulla violenza del sottinteso cfr. anche Critique du discours…, cit., pp. 151-181.

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Foucault, M. 2001 Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis, Milano. Greimas, A.J. 1976 Sémiotique et sciences sociales, Seuil, Paris, (tr. it., Semiotica e scienze sociali, Centro Scientifico Editore, Torino 1991). Marin, L. 1973 Utopiques: jeux d’espaces, Minuit, Parigi. 1975 La Critique du discours. Sur la Logique de PortRoyal et les Pensées de Pascal, Minuit, Parigi. 1994 De la représentation, Seuil, Parigi (tr. it. parz., Della rappresentazione, Mimesis, Milano 2014) Marsciani, F. 1990 Ricerche intorno alla razionalità semiotica, Tesi di Dottorato, Bologna, ora anche online su www.marsciani. net/servizi. Pezzini, I. 20192 Semiotica dei nuovi musei, Bari, Laterza. Stoichita, V. I. 1998 L’invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea, il Saggiatore, Milano. Zunzunegui, S. 2011 Metamorfosi dello sguardo. Museo e semiotica, Nuova Cultura, Roma. Sitografia Donatiello, P., Tocco Blu, non gioco più, https://www.doppiozero.com/ materiali/commenti/tocco-blu-non-gioco-piu.

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Grassano, A., Il grigio dipinto di Blu – Cancellare l’arte per salvarla, in “Vibes”, http://www.art-vibes.com/street-art/nel-grigio-dipinto-blu-cancellare-larte-per-salvarla/. Gullo, E., Questo murales vi seppellirà, in “Prismo”, http://www.prismomag.com/questo-murales-vi-seppellira. Marsala, H., Blu a Bologna. Iconoclastia come violenza o resistenza? in “Artribune”, https://www.artribune.com/attualita/2016/03/blu-a-bologna-liconoclastia-come-violenza-o-resistenza/. Wu Ming, Blu, i mostrificatori e le sfumature di grigio, in “Internazionale”, https://www.internazionale.it/opinione/wuming/2016/03/18/blu-bologna-murales-mostra, e “Giap”, https://www.wumingfoundation.com/giap/2016/03/ blu-i-mostrificatori-e-le-sfumature-di-grigio-una-nostra-riflessione-su-internazionale.

Il digitale e i musei: la fruizione dei beni culturali in realtà aumentata e realtà virtuale Ottavia Mosca Introduzione L’incredibile sviluppo tecnologico degli ultimi decenni ha letteralmente travolto ogni contesto sociale: dal lavoro alle relazioni interpersonali, all’intrattenimento, incluso quello culturale. Se fino a qualche anno fa il dibattito su tecnologia e patrimonio culturale si delineava come un’asprissima guerra tra entusiasti e detrattori, oggi ci si è rassegnati all’idea che anche l’inespugnabile mondo dei beni culturali debba capitolare in favore dell’utilizzo del digitale. Le porte di musei e mostre si sono spalancate a dispositivi touch-screen, tablet, proiezioni, applicazioni, videoguide e non solo. Altre volte, in realtà, le porte si sono solo socchiuse, a causa di una certa persistente reticenza, complici anche i costi di gestione elevati che spesso queste tecnologie richiedono e, talvolta, non proporzionati all’effettivo beneficio che l’istituzione può trarvi. Inoltre, la paura dell’obsolescenza – “spada di Damocle” che incombe persino sul più innovativo dei dispositivi presenti sul mercato – ha spesso frenato la corsa all’innovazione. Il rischio di ritrovarsi con oggetti inutilizzabili, arretrati a livello hardware e software, ha scoraggiato e continua a scoraggiare anche i più inclini al progresso. Ci si è ben presto trovati costretti a riflettere sul ruolo che la tecnologia potrebbe rivestire nella conservazione e

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nella divulgazione del patrimonio culturale e a ponderare i vantaggi e gli svantaggi di operazioni di rivoluzione dei tradizionali sistemi di mediazione. Nella più flagrante attualità, l’estrema pervasività dei dispositivi tecnologici, la crescita esponenziale di questi e la loro ottimizzazione ha convinto la maggioranza delle cosiddette “imprese culturali” ad intraprendere un percorso di modernizzazione, prevedendo la promozione di almeno un progetto relativo alla mediazione tramite nuovi media. A volte con incredibile successo, altre volte con qualche amara nota di pentimento. Le tecnologie precedentemente utilizzate sembrano non essere più sufficienti e si ha l’impressione di dover garantire ai visitatori un’esperienza inclusiva, totalizzante e sorprendente, che non si limiti alla semplice visita al museo o alla mostra, ma che sia coinvolgente nel senso stretto del termine, immersiva e nella quale i visitatori siano opportunamente stimolati57. In questa sede ci si occuperà in particolare di due delle tecnologie che si stanno maggiormente affermando in diversi settori e che ben si prestano all’intrattenimento culturale: realtà aumentata (augmented reality, AR) e realtà virtuale (virtual reality, VR). Realtà aumentata e realtà virtuale Tra la realtà aumenta e la realtà virtuale vi è una sostanziale differenza di base: nella realtà virtuale l’osservatore si trova immerso in un ambiente del tutto generato al computer, mentre nella realtà aumentata il mondo reale

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Cfr. Martini (2016); Viola, Idone Cassone (2017).

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non viene annullato, ma solo ottimizzato con elementi digitali allo scopo di integrare le informazioni disponibili. Naturalmente queste difformità rendono l’una o l’altra tecnologia più o meno idonee a diversi contesti e utilizzi. Nel caso delle collezioni museali, ad esempio, non sarebbe efficace utilizzare tecnologie come la realtà virtuale che, negando la visione del reale, portano l’osservatore in un mondo altro. E dunque, se l’istituzione museale volesse implementare i tradizionali strumenti di mediazione, tra VR e AR la scelta, con un po’ di buonsenso, dovrebbe ricadere sulla seconda. La realtà virtuale si presta invece benissimo come strumento per la ricostruzione di quanto non è più esistente o visibile: che si tratti di un qualcosa di lontano nel tempo o nello spazio, di un qualcosa esistito in passato e oggi andato distrutto o addirittura di un mondo immaginario, non corrispondente a qualcosa di reale. Se per il pubblico di massa realtà aumentata e realtà virtuale potrebbero sembrare tecnologie avanguardistiche dell’ultim’ora, la loro diffusione e il loro utilizzo è già da alcuni decenni ben stabilizzato in un mercato di nicchia e altamente specializzato. Realtà aumentata La prima vera e propria occorrenza del termine augmented reality risale al 1990, tuttavia già tra il 1958 e il 1966 in ambito militare si erano diffusi alcuni dispositivi riconducibili a questa tecnologia58. È in ambito indu-

A tal proposito cfr. Montagna (2018); Montani (2014); Communication Strategies Lab (2012).

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striale che la realtà aumentata trova applicazione nella sua più moderna accezione: si è sviluppata come “libretto di istruzioni” tecnologico per l’assemblaggio e la manutenzione dei Boeing 747. Le indicazioni venivano fornite non su supporto cartaceo ma in versione digitale all’interno di head-mounted display. Questi rivoluzionari dispositivi see-thru permettevano sincronicamente di vedere l’oggetto reale e le informazioni ad esso relative. Questo genere di device si inserisce nell’ambito delle wearable tecnologies, oggi molto note e diffuse anche al pubblico non di settore59. Molti smartglass “occhiali intelligenti” sono riusciti a ritagliarsi una fetta considerevole del mercato. Sono occhiali dalla doppia natura: da una parte la trasparenza delle lenti che consente l’osservazione del mondo circostante, dall’altra l’opacità degli infiniti contenuti digitali che si interpongono tra l’occhio dell’utente e l’oggetto di osservazione. Come illustra Pietro Montani è “il mondo reale, ontologicamente inclusivo, a venirci incontro fornendoci – tramite dispositivi – una serie di informazioni che a vario titolo guidano le nostre azioni. Il mondo reale […] è dunque, almeno in parte, un ambiente processato”60. Gli sviluppatori hanno fatto enormi passi in avanti per favorire la diffusione di queste tecnologie. Grazie all’introduzione di applicazioni ottimizzate per dispositivi portatili, le wearable tecnologies hanno fatto spazio all’utilizzo di dispositivi comunemente utilizzati come smartphone e tablet e la realtà aumentata ha trovato uti-

Basti pensare ai Google Glass, gli occhiali progettati dal grande colosso statunitense, che però non hanno ottenuto i risultati sperati tanto da essere stati ritirati dal commercio.

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Montani (2014), p. 54.

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lizzo in diversi ambiti: social-network (si pensi ai filtri di Instagram o Snapchat), shopping online, pubblicità. Le applicazioni di realtà aumentata sono state al centro di un fortunato sviluppo sia grazie alla loro natura estremamente user-friendly, sia perché consentono un importante risparmio in termini economici: una volta installate sul proprio dispositivo garantiscono un’esperienza ancor più individuale e personalizzabile61. Negli ultimi anni la proliferazione di tali tecnologie è stata esponenziale, in ogni settore: i progetti in realtà aumentata o virtuale realizzati nell’ultimo decennio si sono moltiplicati e diffusi fino a entrare nell’immaginario collettivo. Vengono qui selezionati, per meglio mostrare il loro funzionamento, due casi studio tratti dal mondo dell’arte e dei musei.

Il museo di Palazzo Poggi Un caso di mediazione culturale in realtà aumentata che, per la complessità della struttura e delle collezioni, merita attenzione è il Museo di Palazzo Poggi di Bologna62. L’offerta di servizi al visitatore, fino al mese di dicembre 2019, ha incluso gli occhiali AR forniti dall’azienda italiana ARtGlass® 63. 61

Sulle applicazioni di Realtà aumentata cfr. Bonacini (2014).

Il museo fa parte del Sistema Museale di Ateneo dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna.

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Azienda nata nel novembre 2013 e parte del Gruppo Capitale Cultura, ARtGlass® è leader nella creazione di esperienze di Realtà Aumentata su occhiali multimediali per la cultura e il turismo cfr. https://www.art-glass.it/ consultato il 15 febbraio 2020.

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Il museo di Palazzo Poggi è un organismo molto articolato. Si tratta di un emblematico esempio di risemantizzazione di uno spazio che, nella sua lunga storia, ha visto diversi cambi d’uso. Il palazzo fu acquisito sul tramontare del XIV secolo dalla nobile famiglia bolognese Poggi e nel 1500 fu adibito ad abitazione dell’erede, il cardinale Giovanni Poggi che ne fece decorare le stanze con meravigliosi fregi64. Nel 1711 il Palazzo subisce la prima notevole e significativa trasformazione: il nobile scienziato Luigi Ferdinando Marsili decise di aprirvi l’Istituto delle Scienze, una moderna accademia scientifica dedita alla sperimentazione. Le stanze dell’appartamento cardinalizio divennero veri e propri laboratori per la pratica di discipline eterogenee (fisica, anatomia, ottica solo per citarne alcune)65. Dopo circa due secoli dall’epilogo dell’avventura marsiliana, all’inizio degli anni 2000, il palazzo è stato oggetto di un processo di musealizzazione, che lo ha trasformato nella sede del Museo di Palazzo Poggi, dedicato all’impresa scientifica settcentesca. Nelle antiche sale, raggruppati per “omogeneità semantica”66, sono ospitati ancora gran parte dei materiali usati dagli scienziati dell’epoca e le Sui fregi realizzati presso Palazzo Poggi nel Cinquecento cfr. Fortunati, Musumeci (2000).

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Nel 1711, Luigi Ferdinando Marsili fonda l’Istituto delle scienze, un’accademia di sperimentazione e insegnamento che promuoveva una rigorosa analisi scientifica. L’Istituto, nato nell’abitazione di Marsili, si trasferisce nel 1714 a Palazzo Poggi, indipendente dall’università e modellato sull’esempio delle principali accademie scientifiche europee. Cfr. Tega (1986), pp. 9-43; Cavazza (1990); Tega (2012); Stoye (2012).

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Hammad (2006), p. 15.

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collezioni realizzate e studiate nel XVIII secolo. Una volta oggetti d’uso, adesso testimoni di un tempo passato. Gli ambienti, nati con ben altri scopi, vengono conservati nella loro “purezza” originaria senza interventi strutturali significativi, fatta eccezione per quelli indispensabili all’apertura al pubblico, ma “le nuove pratiche rendono pertinenti altri e diversi tratti espressivi rispetto a quelli precedenti” come scrive Patrizia Violi67. Da questa brevissima descrizione, emerge la complessità del Museo di Palazzo Poggi. Il museo è situato al piano nobile del palazzo ed è composto da due sezioni separate dal pianerottolo d’accesso, non comunicanti tra loro. Il visitatore, dopo essersi procurato il biglietto d’ingresso, può scegliere se visitare prima l’una o l’altra ala. Per accedere poi alla seconda sezione del museo o per abbandonare la struttura al termine della visita, è necessario ripercorrere le sale appena attraversate e tornare alle scale d’accesso. Altro elemento di complessità riguarda il display espositivo all’interno delle sale: non è prevista una consequenzialità cronologica, ogni stanza è un organismo a parte, in dialogo con il resto del museo, ma caratterizzata da uno specifico argomento. Il visitatore, pertanto, non è obbligato a seguire un percorso imposto dall’alto, ma può personalizzare, entro certi limiti, la propria visita. In ultima analisi, non va sottovalutato che le pareti delle sale espositive sono ancora decorate dai fregi fatti realizzare dal cardinal Poggi. Un’ulteriore suddivisione anche sul piano verticale: la parte alta è contrassegnata dalle decorazioni Cinquecentesche che si dispiegano sui quattro lati, la parte bassa è occupata dalle teche e dalle collezioni derivate dai laboratori del XVIII secolo. 67

Violi (2009), p.120.

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Realtà aumentata nel Museo di Palazzo Poggi Presso il museo sono stati attivati diversi percorsi in realtà aumentata68. “House of Frank”, proposto da maggio a dicembre 201969, è quello dall’impostazione più insolita, che non vuole configurarsi come una guida alla totalità delle collezioni, ma come viaggio tematico mirato all’approfondimento del rapporto tra lo scienziato bolognese Giovanni Aldini, docente dell’Istituto delle Scienze e il romanzo Frankenstein di Mary Shelley70. Dagli oggetti presenti in alcune stanze del museo si procede alla ricerca di collegamenti con la storia e la letteratura, che non sarebbero fruibili se non grazie alla protesi tecnologica. Il Museo ha offerto diversi percorsi in realtà aumentata a scelta dell’utente. Dal percorso completo ai percorsi tematici dedicati alle diverse discipline scientifiche che hanno ispirato l’Istituto delle Scienze del Settecento.

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Nel 2018, anniversario dei 200 anni dalla prima edizione del romanzo Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Shelley, la collezione di fisica del Museo di Palazzo Poggi è stata al centro di diverse iniziative. Il percorso in realtà aumentata House of Frank si inserisce in questo contesto.

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Giovanni Aldini (Bologna, 10 aprile 1762 – Milano, 17 gennaio 1834), fisico e accademico italiano, porta avanti gli studi dello zio Luigi Galvani sull’elettricità animale. Nel 1803 pubblica a Londra uno studio sul galvanismo intitolato An account of the late improvements in Galvanism nel quale sostiene la possibilità di riportare in vita un cadavere mediante stimoli elettrici (teoria ispiratrice del Frankenstein di Mary Shelley). Si trasferisce a Londra nel 1803 dove esegue un esperimento pubblico sul condannato a morte George Forster sconvolgendo il pubblico a tal punto da provocare la morte per infarto di un suo assistente. Cfr. Gliozzi, 1960 http:// www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-aldini_%28Dizionario-Biografico%29/ (consultato il 28 gennaio 2020).

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“Indossando gli smartglass” – recita la pagina promozionale del sito ARtGlass® – “sarà possibile vivere il percorso HOUSE OF FRANK accompagnati da guide come Mary Shelley, Percy Shelley, Luigi Galvani e Giovanni Aldini che sembreranno vivi nelle stanze dell’Istituto delle Scienze di Bologna”71. Il percorso guidato dalla realtà aumentata è caratterizzato, a differenza di quello autonomo, da una natura per così dire impositiva: dopo essersi munito di biglietto il visitatore deve necessariamente recarsi nella seconda ala del museo per essere equipaggiato del device72 e da quel momento, per i venticinque minuti successivi (tale la durata), è obbligato a seguire l’itinerario dettato dalle indicazioni visibili sulla lente dell’occhiale (Fig. 8). Tempi, pause, luoghi sono stabiliti esclusivamente dal dispositivo e il visitatore, se vuole portare a termine il tour senza pregiudicarne il risultato, non può agire autonomamente. Vengono mostrate solo cinque stanze (la prima in un’ala, le altre quattro successive nella seconda) e le restanti sono del tutto escluse dal percorso. La fortissima selettività di questo itinerario trova giustificazione nella rilettura che l’istituzione museale intende fornire delle proprie collezioni. Senza agire sul piano dell’espressione (quel che è visibile in museo anche durante una visita “tradizionale”) è il piano del contenuto a mutare73. Solo guidati dagli occhiali si può portare a Cfr. https://www.art-glass.it/frank-is-back-in-realta-aumentata/ (consultato il 13 ottobre 2019).

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Il dispositivo è composto da un device basato su piattaforma android e collegato a un visore binoculare, dotato di lenti trasparenti.

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Su tecnologia e teorie dell’enunciazione cfr. Manetti (2008).

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Figura 8. La mappa, fornita in formato cartaceo a supporto dei visitatori, evidenzia l’articolazione del percorso in realtà aumentata.

compimento la ricerca del “Dottor Frankenstein” tra gli illustri scienziati dell’Istituto delle Scienze. Giunti nella stanza dedicata alla fisica sarà la stessa ricostruzione in 3D di Giovanni Aldini, visibile nell’occhiale, a materializzarsi nello spazio del museo presentandosi al pubblico come l’ispiratore, in virtù dei suoi esperimenti e delle sue dimostrazioni sulla elettricità umana, della creatura descritta da Mary Shelley nel suo famosissimo romanzo. Sul prisma della lente compaiono dei nuovi personaggi, che sembrano occupare davvero uno spazio negli ambienti di Palazzo Poggi (Fig. 9). Grazie a questo artificio il visitatore viene posto di fronte a un fenomeno molto particolare: sincronicamente si trova nel proprio tempo, ma i personaggi in costume agiscono direttamente dalla

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Figura 9. Ricostruzione dell’esperienza in realtà aumentata. Nell’esempio si vede Mary Shelley ‘materializzarsi’ nella biblioteca dell’Istituto delle Scienze (oggi Museo di Palazzo Poggi).

propria epoca d’appartenenza. L’ambiente non subisce trasformazioni fisiche, ma è quasi come se tornasse ad essere, nel device, l’Istituto delle Scienze del Settecento. Se di primo acchito questa operazione sembrerebbe configurarsi come una riuscita integrazione tra patrimoni e tecnologia tuttavia non bisogna dimenticare i “pericoli o le aporie dovute a una frettolosa ed euforica applicazione delle nuove tecnologie in contesti che proprio per la complessità di significati e di storie stratificate richiederebbero certamente una maggiore prudenza e un maggiore sforzo di teoria e di metodo” come segnala Fulvio Irace74. 74

Irace (2019), p. 14.

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Il concetto stesso di dispositivo75 implica l’idea di coercizione e Montani parla a tal proposito di “percezione estetica canalizzata”76. Al termine del tour guidato, almeno in teoria, è lasciata al visitatore la possibilità di estendere il percorso alle altre sale, colmando così i “vuoti” del percorso in realtà aumentata. Tuttavia, proprio in virtù dell’articolazione complessa della struttura e del sistema di noleggio e riconsegna del dispositivo77 spesso ciò non accade. Talvolta, inoltre, la grande quantità di informazioni accumulata lascia i visitatori spossati, che non intendono dunque trattenersi per visitare le altre stanze o vi transitano sovrappensiero. Il visitatore conclude l’esperienza in museo con conoscenze aggiuntive, ma ignora quasi completamente i contenuti esclusi da “House of Frank”. Gli stessi affreschi – un esempio tra tanti – rischiano di essere ignorati da uno sguardo completamente catturato dagli elementi digitali (Fig. 10). “AR sarebbe in realtà diminuita deprivata di quella ricchezza che le proviene dalla contingenza e dall’imprevedibilità” conclude Montani78.

A tal proposito cfr. Foucault (1975); Deleuze (1989); in particolare su Realtà aumentata e virtuale Biggio (2018).

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Montani (2014), p. 56.

Riconsegnato il dispositivo in un punto diverso da quello della distribuzione il visitatore, per completare la visita, dovrebbe ripercorrere sale già visitate e addirittura tornare nell’altra sezione, cosa che spesso, nell’economia dei movimenti, non accade.

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Montani (2014), p. 57.

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Figura 10. L’immagine mostra come tutti i visitatori, durante l’esperienza in AR, rivolgano lo sguardo nella stessa direzione.

Realtà virtuale La realtà virtuale è una realtà che si sostituisce temporaneamente a quella ontologica. Indossando un dispositivo, chiamato visore, viene negato lo sguardo del mondo e si impone la visione di nuovi spazi come fotografie scattate a 360° o ambienti tridimensionali completamente ricostruiti al pc. Nella realtà virtuale generata al computer è garantito un grado elevatissimo di interattività: in questo mondo digitale non solo si possono vedere gli oggetti, ma ci si può muovere tra essi, li si può toccare, spostare, utilizzare. Il primissimo progetto di VR è stato realizzato nel XX secolo da Morton Leonard Heilig, regista e cameraman79. Nel 1957 Heilig ha iniziato a lavorare al “Sensorama”: una cabina con schermi stereoscopici, audio stereo e seduta girevole che può essere considerata la precorritrice dei moderni visori cfr. Lowood https://www.britan nica.com/technology/virtual-reality/ Living-in-virtual-worlds (consultato il 4 febbraio 2020).

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Ma, facendo un significativo salto temporale, solo dal 2012 grazie al ventenne Palmer Luckey, fondatore di Oculus VR e inventore del visore Oculus Rift, l’industria della realtà virtuale ha ottenuto pieno successo e rilancio mondiale con la conseguente proliferazione di modelli diversi di dispositivi, prodotti dalle maggiori aziende mondiali. Tornando all’ambito di competenza dei beni culturali la realtà virtuale si è rivelata, come anticipato in apertura, uno strumento potentissimo per mostre e musei. L’utilizzo più fortunato si riscontra soprattutto nell’ambito archeologico, settore in cui si riescono ad ottenere i migliori risultati e buona risposta da parte pubblico. La VR si presta in modo ottimale alla ricostruzione di edifici antichi a partire dai loro resti. Nicolette Mandarano suggerisce, nella sua recente pubblicazione Musei e media digitali, che “nell’ambito dei beni culturali la VR può essere utilizzata anche per un’interessante operazione legata all’archiviazione delle mostre temporanee”. Caso emblematico cui fa cenno è Thresholds, lavoro del 2017 dell’artista inglese Mat Collishaw80. Nel caso specifico non è un’istituzione culturale ad adottare la realtà virtuale come strumento di mediazione, ma è un artista a realizzare un progetto che si configura allo stesso tempo come opera d’arte e come vera e Matthew “Mat” Collishaw è un artista nato a Nottingham nel 1966. Diplomato presso presso il Goldsmiths’ College di Londra nel 1989, è uno degli esponenti di spicco del movimento degli Young British Artists e può annoverare una brillante carriera artistica con partecipazioni mostre e eventi internazionali come Freeze nel 1988 e Sensation nel 1975. La sua produzione è fortemente segnata dal rapporto tra arte del passato e contemporaneità.

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propria mostra digitale, nella quale vengono riprodotti oggetti delicatissimi del passato che oggi non sarebbero più fruibili proprio a causa della loro fragilità.

Thresholds di Mat Collishaw Thresholds “soglie” è una mostra temporanea tenutasi a partire dal mese di maggio 2017 in diverse sedi81 con la quale Collishaw ha voluto riproporre la prima grande mostra fotografica allestita della storia: l’esposizione di stampe fotografiche dello scienziato britannico William Henry Fox Talbot tenutasi nel 1839 alla King Edward’s School di Birmingham, la cui sede originaria, un palazzo neogotico della prima era vittoriana, è oggi andata distrutta. Al fruitore-visitatore viene offerta l’incredibile occasione di compiere un vero e proprio viaggio nel tempo in quella che, grazie all’accuratezza del lavoro dell’artista inglese, è un’esperienza totalizzante che trasporta completamente il visitatore in un mondo altro. Si tratta di un percorso immersivo in VR, che mescola elementi del mondo reale con elementi digitalmente elaborati82. Collishaw, aiutato da un nutrito team di esperti, ha scelto di ricostruire fisicamente la stanza dell’allestimento originario, monocroma (completamente bianca), nella Di seguito luoghi e date dell’esposizione: Somerset House, London, 17 maggio 2017 – 11 giugno 2017; Birmingham Museum & Art Gallery, 24 giugno 2017 – 6 agosto 2017; Lacock Abbey, Wiltshire, 16 settembre – 29 ottobre 2017; National Science and Media Museum, Bradford, 2 marzo- 7 maggio 2018; Yapi Kredi Kültür Sanat Yayincilik A.S. Istanbul, 15 maggio – 28 luglio 2018.

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Si può parlare a tal proposito di Mixed Reality cfr. Montagna (2018).

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quale ha posizionato “finte” teche e finestre. Questo spazio, una volta indossato l’head mounted display – il visore HTC VIVE – si trasforma per i visitatori nella vera e propria stanza del XIX secolo, con le sue vetrine, le teche in legno scuro, il focolare, i candelabri (Fig. 11). In questa esperienza Collishaw invita gli utenti ad andare contro il paradigma museale del “non toccare” obbligando all’esperienza tattile. Per garantire sensazioni reali sono stati persino riprodotti il calore del focolare (con l’utilizzo di una stufa elettrica) e l’odore del carbone che lo avrebbe alimentato nell’Ottocento. Collishaw ha inoltre realizzato un sottofondo sonoro che accompagna la mostra e aiuta a contestualizzarla in un esatto momento storico: quello delle manifestazioni di protesta dei Cartisti per il diritto al voto che hanno animato le strade di Birmingham al tempo83. Proteste visibili attraverso le finestre simulate in VR.

Figura 11. La riproduzione digitale della mostra di Talbot del 1839. Il Cartismo fu un movimento politico-sociale britannico organizzato da Feargus O’Connor per la rivendicazione di diritti quali il suffragio universale e la partecipazione della working-class alla vita politica del Paese. 83

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Per garantire la completa adesione dello spazio virtuale con quello reale ricostruito sono stati attivati dei sensori infrarossi che tengono traccia dei movimenti dei visitatori. “I visitatori” dichiara Mat Collishaw “si troveranno immersi in una realtà mista, allo stesso tempo concreta e sintetica: vedranno una stanza riprodotta digitalmente attraverso il visore, ma potranno anche toccare i tavoli e gli oggetti con le mani grazie a un meccanismo di ‘sincronizzazione’ della simulazione con la vera sede della mostra. Gli altri visitatori appariranno sotto forma di fantasmi, intenti a godersi questo straniante viaggio nel passato. Nel frattempo, all’esterno del palazzo, i Cartisti protestano contro le nuove tecnologie nascenti, accusate di sottrarre posti di lavoro alla popolazione…84”. Una delle peculiarità di questo progetto è il gioco di sguardi che si instaura tra l’interno e l’esterno della sala (Fig. 12). La camera bianca, oltre alle finte finestre con affaccio sull’esterno cittadino del 1839, è dotata di due finestre vere e proprie che permettono ai visitatori in attesa del proprio turno di guardare all’interno dello spazio dove, grazie alla VR, prende luogo l’esposizione. Guardando nella stanza si possono vedere i sei partecipanti vagare nello spazio bianco. Ciascuno di essi indossa un visore, delle cuffie e uno zaino contenente un computer portatile. I partecipanti – che sono stati proiettati in un contesto parallelo – vengono visti inconsapevolmente;

Traduzione italiana a cura dell’autrice L’intervista realizzata da Michele Baker è disponibile in versione integrale in lingua originale https://medium.com/@msmichelebaker/crossing-the-threshold-an-interview-with-mat-collishaw-vmi-studio -cd5b338599f9 (consultato il 10 febbraio).

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Figura 12. Il “gioco di sguardi” fra sala d’attesa e sede della mostra.

allo stesso modo, i visitatori in attesa non possono vedere ciò che vedono i partecipanti, perché privi della protesi tecnologica. Il ruolo dello sguardo assume in Collishaw una rilevanza notevole, lo spazio da lui creato è uno spazio in cui si può essere visti, ma non vedere. Bisogna accettare un compromesso: per poter rivivere l’esibizione del passato ci si deve rendere vulnerabili, ci si deve offrire passivamente allo sguardo e accettare che invece il proprio sia negato. Negazione evidenziata dal fatto che chi ha il visore non può in alcun modo rendersi conto dell’esistenza di queste due finestre: al loro posto vede due quadri. Queste aperture trasformano l’esperienza in realtà virtuale, un’esperienza spesso solitaria e straniante, in un evento collettivo e permettono di instaurare una relazione forte tra mondo reale e mondo simulato. Viene inoltre offerta l’opportunità di osservare i movimenti nello spazio. Chiunque abbia provato un’esperienza in VR è consapevole che, nella maggior parte dei casi, una volta indossato il visore non è necessario muoversi

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fisicamente nello spazio. La realtà virtuale si può esperire restando seduti o collocandosi pressoché fermi in uno spazio ristretto. Con Thresholds, invece, viene presentato un prodotto ibrido, in cui le due realtà devono necessariamente collaborare. L’esperienza è così immersiva e pervasiva da far perdere la percezione della distinzione tra finzione e realtà. Le azioni non vengono delegate ad un joystick che, opportunamente attivato, permette di spostarsi nello spazio simulato, ma è il visitatore stesso ad agire con il movimento del proprio corpo. La spazialità reale non è stata negata, anzi ricostruita: il visitatore si muove dentro di essa. Grazie ai sensori ambientali, non si deve premere un tasto e innescare una gestualità per toccare gli oggetti come in un videogioco, ma è sufficiente compiere il gesto consueto di avvicinare la mano e raccoglierli. Thresholds è un’autentica attività creativa e collaborativa (Fig. 13).

Figura 13. Gli oggetti virtuali si “toccano” davvero con mano, come fossero veri.

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Genealogie fotografiche Caratteristiche costanti del lavoro di Mat Collishaw sono l’utilizzo di media diversi e la fusione tra elementi del passato e strumenti all’avanguardia. L’artista è stimolato dal medium VR in quanto espediente per dare forma a concetti e idee. Collishaw ha dichiarato di aver scelto proprio la mostra di Talbot, inventore del negativo, in quanto in essa era contenuto l’embrione da cui è nato il medium fotografico, che ha, più di ogni altro, condizionato la vita quotidiana. Oggi il mondo è fortemente connotato dalle immagini. Le fotografie sono diventate facilissime da realizzare con strumenti sempre a portata di mano, come il telefono. Viene prodotta una quantità di immagini davvero impressionante: secondo stime recenti ogni due minuti si realizzano più foto di quante l’umanità ne abbia prodotte nei primi decenni del secolo scorso85. In Thresholds la realtà virtuale consente di ripercorrere una genealogia nella quale antenato ed erede, le foto di Talbot e la VR, cooperano. La sensazione di stupore che ha sicuramente colto i visitatori del XIX secolo non si può di certo replicare. Le stampe di Talbot oggi non possono suscitare quel tipo di reazione: sono, agli occhi dell’uomo del duemila, solo affascinanti testimonianze del passato, reperti e non prodotti avanguardistici. È la realtà virtuale, dispositivo nuovo e rivoluzionario, l’oggetto che più si avvicina, per i contemporanei, ai negativi di Talbot. A conferma di questa ipotesi è significativo sottolineare l’altro aspetto che Collishaw finemente vuole en85

Dati: InfoTrends, 2017.

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fatizzare. Quelle stesse stampe ebbero all’epoca un tale impatto da suscitare non solo sorpresa e reazioni positive. I cartisti cui viene dato un ruolo nell’allestimento erano terrorizzati dalle innovazioni scientifiche in mostra: credevano che la tecnologia avrebbe rubato loro il lavoro. Non è forse la stessa paura che ancora oggi pervade l’uomo contemporaneo, intimorito all’idea che le macchine prendano il sopravvento e lo sostituiscano? E non è forse la stessa paura che provano i musei e i loro visitatori al pensiero dell’interazione beni culturali-tecnologia? Potrebbe mai la tecnologia modificare il rapporto profondo tra l’essere umano e l’esperienza dell’arte? Riflessioni avviate da Benjamin nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica che ancora oggi non trovano risposta e che Collishaw vuole riattualizzare alla luce dei più aggiornati sviluppi della tecnica. Tutto ciò che è nuovo e sconosciuto provoca inevitabilmente sentimenti contrastanti e spesso di avversione. Conclusioni Il mondo della cultura è a tal punto pervaso dall’entusiasmo per realtà aumentata e virtuale da cadere spesso nella tentazione di credere che il loro utilizzo sia sempre positivo e proficuo. Come si è visto non ci si dovrebbe lasciar affascinare delle apparenze. Prima di avviare questi progetti, dai costi spesso elevatissimi, sarebbe opportuno valutare con consapevolezza le finalità, le modalità e il rapporto tra la tecnologia scelta e le struttura ospitante. Si dovrebbero sempre rispettare criteri di coerenza tra il contenitore-museo e la proposta digitale. Non basta fregiarsi del titolo di ‘smart museum’, lo strumento deve

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essere davvero in grado di valorizzare le collezioni, senza prevaricarle, non deve essere inutile o dannoso, ma apportare beneficio e crescita. Bisogna tener conto di tutti i possibili inconvenienti e formare uno staff pronto a rispondere alle esigenze dell’utente che ha poca familiarità con l’ambiente e potrebbe trovarsi spaesato di fronte a una visita non tradizionale. Gli strumenti digitali stessi pongono dei limiti e restrizioni di utenza per vincoli fisici e d’età. “I sistemi scelti dovrebbero […] essere intuitivi e di facile utilizzo per essere accessibili a tutti; soprattutto dovrebbero essere poco invasivi e non venire percepiti come una barriera. […] Non sono le tecnologie a dover fornire l’effetto sorpresa, ma quello che l’opera riesce a raccontare coinvolgendo il visitatore” sottolinea Nicolette Mandarano86. Non è la tecnologia a dover essere il polo attrattivo dell’istituzione. Realtà aumentata e realtà virtuale sono tecnologie molto coinvolgenti, permettono la mediazione di contenuti aggiuntivi, ma spesso si perde di vista quello che dovrebbe essere un punto fermo: il confine tra edutainment e entertainment è molto più sottile di quanto si possa credere e l’accrescimento culturale deve sempre essere l’obiettivo finale87. Il potenziale delle nuove tecnologie è davvero infinito, sono risorse incredibili nelle mani di quanti vogliano occuparsi del rapporto tra pubblico e patrimonio. Tuttavia,

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Mandarano 2019, pp. 113-114.

Su comunicazione museale efficace e uso della tecnologia cfr. Antinucci 2004; Antinucci 2007; Branchesi, Curzi, Mandarano 2016.

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è indispensabile padroneggiarle con grande sicurezza, per avvicinarsi alla perfetta convergenza di reale e virtuale88. Bibliografia Antinucci, F. 2004 Comunicare nel museo, GLF editori Laterza, Roma. 2007 Musei virtuali: come non fare innovazione tecnologica, GLF editori Laterza, Roma. Biggio, F. 2018 La realtà aumentata come dispositivo riflessivo tra istituzioni e self-made users, XXIV International Film Studies Conference – Roma, 22 Novembre 2018. Bonacini, E. 2014 La realtà aumentata e le app culturali in Italia: storie da un matrimonio in mobilità, in Il capitale culturale Studies on the Value of Cultural Heritage, “Journal of the department of cultural heritage”, University of Macerata. Branchesi, L.; Curzi, V.; Mandarano, N. 2016 Comunicare il museo oggi. Dalle scelte museologiche al digitale, Skira, Milano. Cavazza, M. 1990 Settecento inquieto. All’origine dell’Istituto delle Scienze, Il Mulino, Bologna. Communication Strategies Lab 2012 Realtà aumentate. Esperienze, strategie e contenuti per l’Augmented Reality, Apogeo, Milano. 88

Sulla “covergenza” tra vecchi e nuovi media cfr. Jenkins 2006.

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Deleuze, G. 1989 Qu’est-ce qu’un dispositif?, in Michel Foucault. Rencontre inter-nationale, Paris, 9, 10, 11 janvier 1988; Le Seuil, Paris; (tr. it.; Che cos’è un dispositivo?, Cronopio, Napoli, 2002). Fortunati, V.; Musumeci, V. 2000 L’immaginario di un ecclesiastico: i dipinti murali di Palazzo Poggi, Compositori, Bologna. Foucault, M. 1975 Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris; (tr. it., Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976). Hammad, M. 2006 Il Museo della Centrale Montemartini a Roma. Un’analisi semiotica, Meltemi, Roma; (tr. it. in Scene del consumo: dallo shopping al museo, a cura di Isabella Pezzini e Pierluigi Cervelli, Meltemi, Roma, 2006). Irace, F. 2019 Il museo nell’era del web, in “Op. cit.”, vol. 166, pp.13-24. Jenkins, H. 2006 Convergence Culture. Where Old and New Media Collide, New York University Press, New York; (tr. it., Cultura convergente, Apogeo, Milano, 2007). Mandarano, N. 2019 Musei e media digitali, Carocci editore, Roma. Manetti, G. 2008 L’enunciazione. Dalla svolta comunicativa ai nuovi media, Mondadori Università, Milano.

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Martini, B. 2016 Il museo sensibile: le tecnologie ICT al servizio della trasmissione della conoscenza, Angeli, Milano. Montagna, L. 2018 Realtà virtuale e realtà aumentata. Nuovi media per nuovi scenari di business, Hoepli, Milano. Montani, P. 2014 Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Raffaello Cortina Editore, Milano. Stoye, J. 2012 Vita e tempi di Luigi Ferdinando Marsili: soldato, erudito, scienziato: la biografia di un grande italiano protagonista della scena europea tra Sei e Settecento, Pendragon, Bologna. Tega, W. 1986 «Introduzione», in Anatomie Accademiche I. I Commentari dell’Accademia delle Scienze di Bologna, Il Mulino, Bologna, pp. 9-43. 2012 Itinerario scientifico di un grande europeo, Bononia University Press, Bologna. Viola, F.; Idone Cassone, V. 2017 L’arte del coinvolgimento: emozioni e stimoli per cambiare il mondo, Hoepli, Milano. Violi, M.P. 2009 Il senso del luogo. Qualche riflessione di metodo a partire da un caso specifico, in Leone, M. (a cura di), La città come testo. Scritture e riscritture, Aracne editrice, Roma.

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Sitografia ARtGlass®: https://www.art-glass.it/ (consultato il 5 dicembre 2019) ARtGlass® percorso House of Frank: https://www.art-glass.it/frank-is-back-in-realta-aumentata/ (consultato il 13 ottobre 2019). Itervista a Mat Collishaw, a cura di Baker, Michele: https://medium.com/@msmichelebaker/crossing-the-threshold-an-interview-with-mat-collishaw-vmi-studio-cd5b338599f9 (consultato il 10 febbraio 2020). “Giovanni Aldini” in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, a cura di Gliozzi Mario: http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-aldini_%28Dizionario-Biografico%29/ (consultato il 28 gennaio 2020). Encyclopaedia Britannica, a cura di Lowood, Henry E.: https://www.britannica.com/technology/virtual-reality/ Living-in-virtual-worlds (consultato il 4 febbraio 2020).

Modelli semiotici per lo studio del museo Isabella Pezzini Gli studi di semiotica sul museo o sulle esposizioni, dapprima rari o occasionali, si sono moltiplicati via via che lo sguardo semiotico si è appuntato su testi spaziali e oggetti emblematici per la cultura di appartenenza, e a partire da questo momento possono essere riletti in modo più sistematico. Jurij Lotman, il cui contributo appare fondamentale per una semiotica della cultura, non parla molto di musei nella sua opera, ma assume il museo come immagine emblematica della semiosfera, e dunque, indirettamente, ne parla continuamente89. Fra i saggi più organici a cui personalmente ho fatto soprattutto riferimento nei miei lavori sull’argomento vi sono quelli di Santos Zunzunegui (2003) e di Manar Hammad (2006). Il primo è uno studio sull’evoluzione del Museo di Belle Arti, in qualche modo “provocato” dallo choc prodotto dalla costruzione a Bilbao del museo Guggenheim firmato da Franck Gehry, che ha lanciato una sorta di moda globale di nuovi musei architettonicamente iconici. Il secondo è invece un’analisi esaustiva Abbiamo cercato di “filare” la metafora lotmaniana del museo nel nostro libro sui cosiddetti nuovi musei (Pezzini 2011). Nella bibliografia semiotica sul museo segnaliamo Calabrese (2006), Damisch (2000), Eco (Eco-Pezzini 2014), Fabbri (1996), Floch (1990), Violi (2014), Mitropoulou e Novello Paglianti (2018).

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di un doppio percorso espositivo realizzato all’interno di un edificio industriale dismesso: una parte delle collezioni romane dei Musei Capitolini allestiti all’interno della ex Centrale termoelettrica della città di Roma, la Montemartini. Sono studi particolarmente apprezzabili per invenzione e esplicitazione metodologica, costruiti a partire dal confronto diretto con temi e oggetti specifici, che offrono un quadro di riferimento e una traccia per ulteriori riflessioni e analisi. Per questo mi sembra utile riproporne qui alcuni aspetti, con il complemento di un altro possibile approccio, certo pertinente per un progetto di tipo etnosemiotico come quello ospitato da queste pagine: si tratta di focalizzarsi sui temi legati alla visita effettiva di questi luoghi, alle pratiche semiotiche che essi promuovono e ospitano. Il Museo si presenta concretamente come uno spazio fisico organizzato, fortemente riconoscibile, che esprime il risultato dell’azione produttrice di un soggetto collettivo implicito. Esso è costituito da una serie di manifestazioni sincretiche (un edificio particolare, una collezione, una collocazione dei pezzi che la compongono fatti di contiguità e distanze fra le opere, epoche, stili, autori; una unità ed un ritmo spaziali, una serie di giochi scenografici…) che lo istituiscono come un oggetto significante, tramite una “competenza strategica” globale espressa nella costruzione di uno o più percorsi di esposizione e di visita pertinenti, che disegnano e iscrivono uno o più simulacri di fruitori. Il museo consta di alcune parti costitutive fondamentali, a loro volta analizzabili in sotto-componenti: l’architettura, il luogo della fondazione, il programma museografico. È uno “spazio della conoscenza”, che manifesta i

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valori profondi che caratterizzano la cultura di una società, illustrati attraverso il suo particolare “discorso”. Secondo la visione critica di Michel Foucault, il museo, così come la biblioteca, nella cultura della modernità rappresenta molto bene l’idea da lui proposta di eterotopia, cioè la realizzazione di uno spazio privilegiato fuori dal tempo, in cui si possa accumulare l’archivio generale di una cultura, dar seguito alla volontà di rinchiudere in un luogo ogni tempo, ogni epoca, ogni forma e ogni gusto, e di questo tipo particolare di rapporto fra lo spazio e il tempo. Per una tipologia semiotica del museo di Belle Arti Lo studio di Santos Zunzunegui, come accennato, si concentra sul museo di Belle Arti: parte dai macro-cambiamenti subiti dal suo spazio dalla fine del XVIII secolo a oggi, quando, nella società dello spettacolo, la sua funzione tradizionale si ibrida con quelle del parco tematico, con l’intrattenimento, con la redditività economica. La conseguenza è l’abbandono delle tipologie museali classiche, e una ridefinizione dei modi di intendere sia la relazione dello spettatore con quei complessi meccanismi che sono le opere sia il tipo di mediazione che può offrire la stessa organizzazione spaziale del museo. Per analizzare questi cambiamenti da un punto di vista semiotico, ci si chiede se sia possibile e pertinente interrogare il museo come se fosse un testo, ottenuto attraverso la messa in opera di diversi strati significanti, risultato di un fare collettivo, da considerare come una delle tante manifestazioni dell’immaginario sociale. Se si accetta l’idea che il museo sia uno spazio in cui si esprime una significazione, si tratta di comprenderne i modi, e dun-

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que come funziona il museo in quanto oggetto prodotto dalla congiunzione almeno di uno spazio architettonico, una collezione di opere e una proposta di visione. Il museo, infatti, è un luogo che include lo spettatore nel suo progetto, regolando al suo interno i suoi comportamenti di fruizione: come si attuano queste manipolazioni? Per comprenderlo è possibile interrogare il discorso del museo in riferimento all’ipotesi per cui il senso si articola in un percorso di generazione e specificazione progressiva di diversi livelli: discorsivo, testuale, semionarrativo, ognuno caratterizzato da una sintassi e una semantica specifiche, come nel modello elaborato da Algirdas Julien Greimas (Greimas, A. J., Courtès, J. 1979-2007). Poiché il museo è a prima vista ed eminentemente, un oggetto spaziale – posto nello spazio e generatore di spazio – per segmentare e sottoporre ad analisi i piani di significazione attraverso i quali fa senso bisogna riferirsi a una semiotica del mondo naturale, a diverse forme di manifestazione del visibile, dalla semiotica planare alla semiotica dello spazio, che prende in considerazione un significante tridimensionale. Per spazio in semiotica si intende un’“estensione organizzata nella quale si muovono persone e cose”: l’originalità di questo approccio consiste nel tentativo di studiare insieme agli spazi i soggetti fruitori, i comportamenti programmati dalle morfologie spaziali in relazione all’uso effettivo ce ne fanno i fruitori empirici. Spesso, infatti, ciò che è pensato e predisposto a livello di progetto è risemantizzato, in parte o totalmente, dall’uso. Nel passaggio dalla pura estensione al divenire sostanza semiotica, lo spazio assume una forma articolata, e diviene oggetto di una semiotica sincretica, che comprende accanto all’architettura gli spazi organizzati, le persone

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che li utilizzano, gli oggetti che vi si dispongono (Hammad 2001). Il “discorso museologico” è così il prodotto di diversi linguaggi di manifestazione resi omogenei a livello di contenuto. Tutti insieme cioè, producono un determinato effetto di senso sul soggetto che di primo acchito ne esperisce il risultato. Riconoscere delle grandi disgiunzioni categoriali sul piano del contenuto permette di ottenere una prima segmentazione del testo in sequenze tematiche o discorsive, che permetta di continuare l’analisi, ad esempio, alla luce di strutture narrative soggiacenti per poi comprendere meglio le regole di distribuzione nei vari linguaggi di manifestazione (Floch 1990). Una particolarità dell’approccio di Zunzunegui consiste nell’estendere al museo il modello di analisi dell’universo spettacolare, che mette in correlazione spazi, sottospazi e bordi che li delimitano, come accade tradizionalmente nel teatro, con una serie di comportamenti stereotipati, corrispondenti ai predicati di “andare, entrare, presenziare allo spettacolo, uscire, tornare a casa”. Nella stessa disposizione spaziale dell’universo spettacolare è dunque possibile riconoscere il duplice esercizio di una sorta di Destinante, che iscrive e delega strategicamente le proprie competenze agli spazi stessi. In questo modo esso progetta e in qualche misura predetermina le performances dei soggetti fruitori, individuali e collettivi, costruiti come destinatari impliciti o modello, pensati in quanto tali per essere coinvolti in una serie di manipolazioni attraverso i mezzi forniti dall’organizzazione dello spazio e dall’allestimento delle opere. Tutto ciò non accade in modo automatico: varcando la soglia di un museo, acquistandone il biglietto ed essendo informati dei comportamenti da adottare nei suoi ambienti, in cambio della possibilità di entrare in relazione con

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quanto esso custodisce o esibisce, i visitatori percepiscono la particolare relazione di tipo comunicativo che è loro proposta, il cosiddetto contratto fiduciario. Esso è descrivibile ad esempio in termini modali, di circolazione di voleri, doveri, saperi e potere tra i soggetti implicati, in relazione a valori condivisi: ad ogni configurazione discorsiva soggiace dunque una struttura contrattuale e una modale. Questo approccio può essere particolarmente utile anche nella progettazione: troppo spesso, infatti, si tende a ridurre la competenza del visitatore unicamente al suo sapere, mentre è soprattutto agendo su dimensioni come quella del desiderio o della curiosità - che in fin dei conti lo hanno portato a varcare la soglia del museo - che si possono ottenere migliori risultati sul piano della sua adesione a quando gli è proposto e offerto. Nella seconda parte del suo studio, dedicato alla costituzione del museo nel corso del tempo e cambiamenti che intervengono nella struttura stessa dell’esporre, Zunzunegui articola l’opposizione fra mostrare (far vedere) e occultare (fare non vedere), utilizzando il quadrato semiotico, illustrando la diversità di posizioni che differenziano il privato, il collezionista e il pubblico: far vedere MOSTRARE (solo al collezionista)

non far non vedere NON OCCULTARE (al gruppo dei pari)

VS

far non vedere OCCULTARE (al resto della società)

non far vedere NON MOSTRARE

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Il mostrare le collezioni e non privatizzarle è il mandato specifico del museo pubblico, la missione che gli è affidata dalla società: “Il Museo appare, in questo senso, come un campo di esercizi sintattici che propone una mediazione tra i valori sociali fondamentali presenti nelle opere d’arte e gli spettatori.” (Zunzunegui 2003, p. 49). Tutto ciò in accordo con quell’ideologia della visibilità che in occidente si pone come il paradigma centrale dell’acquisizione del sapere. Il museo offre ai visitatori una proposta di senso, e dunque una proposta di contratto comunicativo, articolata secondo il triplo parametro del percorso, dell’orientamento e dell’ordine delle opere d’arte, che necessitano di particolari condizioni di visibilità. Parallelamente alla messa in valore delle opere, come abbiamo già accennato, il museo costruisce uno o più modelli di fruitori, di cui ipotizza una competenza di base che si propone di incrementare, distribuendola sulle consuete dimensioni del pragmatico, campo delle azioni, del cognitivo, campo dell’esercizio del sapere, dell’estetico, campo della percezione e dell’apprezzamento di ciò che si dà all’interno di un percorso di ricerca artistica. Nella terza parte del lavoro, vi è una proposta di tipologia operativa dei Musei di Belle Arti, che correli in modo coerente modi distinti di intendere la museologia, considerando ogni modello in relazione agli altri e interdefinendoli. Viene posta un’opposizione di base fra il Museo Tradizionale e il Museo Moderno, che dovrebbe riassumere in sé il vecchio dibattito architettonico fra i cosiddetti partiti della Galleria e della Rotonda. Dal punto di vista dello spettatore iscritto dall’architettura, la galle-

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ria presuppone le idee di sequenzialità, di itinerario e di sguardo puntuale, mentre la Rotonda quelle della continuità, dello sguardo radiale e della visione d’insieme. Da qui si ricavano una serie di opposizioni sematiche: ad esempio linearità vs circolarità; senso della cronologia vs evento; retrospettivo vs prospettico, architettura che si impone vs scenario libero e flessibile. In questo senso il museo tradizionale (ad esempio la National Gallery di Londra) si caratterizza come uno spazio in cui lo sguardo del fruitore è diretto, orientato, il cui scopo è soprattutto conoscitivo, mentre il museo moderno, a pianta aperta (come la Neue Nationalgalerie di Berlino) è lo spazio di uno sguardo fluttuante, libero, che può permettere una relazione non mediata con le opere: “Il Museo Tradizionale concepisce lo spazio architettonico, la disposizione spaziale, come un autentico destinante delegato dell’azione del soggetto performante, mentre il Museo moderno, rinunciando a questo orientamento potenziale, concepisce lo spazio come una configurazione chiamata ad annullarsi nella neutralità” (ivi, p. 84). In modo sintetico, la tipologia proposta caratterizza l’opposizione fra Musei Tradizionali e Moderni come opposizione fra contenitore vs contenuto, mentre l’opposizione dei subcontrari, tra Musei non-Moderni e non-Tradizionali, sovverte questa opposizione, sia facendo del contenente un elemento del contenuto, sia negando la pertinenza di questa distinzione:

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Contenitore vs contenuto MUSEI TRADIZIONALI Percorso Evoluzione lineare dell’arte Estetica del “dettaglio” Modello del “catalogo”

MUSEI MODERNI ×

Assenza di percorso Circolarità dell’arte Estetica del “frammento” Modello del “display”

MUSEI NON MODERNI

MUSEI NON TRADIZIONALI

Contenitore come contenuto

Questa tipologia di base può essere ulteriormente elaborata, ad esempio non opponendo Tradizionale a Moderno ma usando il secondo termine come specificazione del primo, e ottenendo quindi casi misti di Tradizionale/ Moderno vs Tradizionale/Non Moderno e di Non Moderno/Non Tradizionale vs Non Tradizionale/Moderno. Una gerarchia di livelli semiotici Per Manar Hammad nella descrizione del museo come oggetto dotato di senso, il metodo semiotico si deve confrontare con un corpus complesso, iscritto nella semiotica del mondo naturale. Gli oggetti esposti nel museo sono integrati all’architettura attraverso l’allestimento, e inoltre ognuno di essi è identificato da un’etichetta o un piccolo pannello, di modo che il linguaggio verbale completa il livello non-verbale, così come in genere guide illustrate, audioguide o accompagnatori possono fornire ulteriori informazioni per la comprensione dei luoghi e delle opere. In un simile ambiente sincretico, eterogeneo dal punto di vista delle discipline tradizionali, sarebbe vano preten-

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dere di effettuare un’analisi basata sulla separazione delle diverse componenti materiali. Malgrado la loro apparente eterogeneità, del resto, queste espressioni concorrono a formulare un messaggio comune, la cui unità si costituisce a livello di senso. È a questo livello, dunque, che si concentra l’innesco dell’analisi (Hammad 2003, p. 204). Il visitatore di un museo tradizionale si interessa di rado all’edificio che lo ospita. La disposizione dei luoghi gli sfugge, il suo interesse si concentra sugli oggetti esposti. Egli esamina gli oggetti uno dopo l’altro, e in teoria ogni visita segue una sequenza lineare che si snoda fra l’ingresso e l’uscita. Benché ci siano diverse possibilità di organizzare i percorsi che mettono in sequenza gli oggetti, la visita è largamente condizionata dall’ordine interno delle sale, oltre che, beninteso, dalla competenza del visitatore Per questo la descrizione si basa inizialmente sui soli criteri architettonici, comprendenti il corpo dell’edifico, la sua organizzazione in piani, gli accessi e le connessioni fra i vari ambienti. Nel caso dell’analisi che Hammad conduce del Museo della Centrale Montemartini a Roma, che raccoglie una collezione di arte antica nel contesto di una centrale elettrica a sua volta adibita a museo, l’interesse si concentra in particolare sulla comprensione della logica soggiacente la sistemazione degli oggetti nei vari ambienti, che non è del tutto esplicita. Per comprenderla, si tratta di rilevare tutti gli elementi che contribuiscono ad articolare il discorso del museo, dal modo in cui sono stati denominati, sfruttati e riorganizzati i suoi spazi sino ai tipi di materiali usati e i contrasti stabiliti. Solo alla fine dell’analisi, condotta per ipotesi a partire dagli effetti di senso percepiti, sarà chiara la messa in correlazione operata dai curatori

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fra gli spazi del museo, la regia spaziale degli oggetti, i colori e l’illuminazione adottati nell’allestire gli ambienti; con l’epoca storica di appartenenza degli oggetti, la loro rilevanza culturale e l’epoca del loro ritrovamento in seguito a specifici scavi. Nel suo procedere, Hammad insiste molto sulle relazioni che si instaurano tra gli ordini discorsivi che compongono il museo: sul piano dell’espressione gli oggetti sono iscritti nel dispositivo dell’allestimento, che a sua volta è iscritto nell’architettura. Dunque, inversamente, l’architettura presuppone gli oggetti, l’architettura presuppone l’allestimento, l’allestimento presuppone gli oggetti. Sul piano del contenuto, Hammad rileva tre livelli discorsivi legati alle categorie citate, che intrattengono fra loro delle relazioni di reazione o di controllo: il discorso dell’allestimento controlla e regola il discorso degli oggetti; il discorso architettonico controlla e regola il discorso dell’allestimento; il discorso architettonico controlla e regola il discorso degli oggetti. I tre livelli discorsivi coesistono nel museo e contribuiscono ad articolarne il discorso sincretico. In altri termini la relazione fra le categorie degli oggetti, dell’allestimento e dell’architettura del museo è metalinguistica, regolatrice, enunciazionale: i livelli superiori si fanno carico dei livelli inferiori e li sovradeterminano Questo dispositivo discorsivo si incontra a più riprese in semiotica dello spazio, e quindi sembra dotato di un certo grado di generalità. Il visitatore misterioso In entrambi questi studi, in accordo con la tradizione semiotica, il posto del visitatore è definito dalle diverse

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strategie fin qui descritte, o evocate: strategie spaziali e sincretiche che lo prevedono in termini di un simulacro astratto, che, come il lettore modello di un testo (Eco 1979), può visitare il museo in modo più o meno approfondito, in base a competenze più o meno specifiche. Nel corso del tempo e delle evoluzioni conosciute dal dispositivo museale, si osserva una progressiva focalizzazione sul pubblico da parte dei suoi gestori: i musei, sono considerati sempre di più non solo luoghi di conservazione e ricerca ma luoghi di comunicazione ad ampio raggio, orientati alla produzione ma anche e soprattutto alla trasmissione dei saperi a pubblici il più possibile ampi. Alle missioni tradizionali se ne aggiungono di nuove, rinnovate e più esplicite, dietro le quali spesso aleggiano i costanti e importanti problemi di sostenibilità economica, che l’afflusso del pubblico può in una certa misura giustificare, anche al di là dei proventi effettivi generati dai biglietti di ingresso. Molte indagini sono state così promosse in questo senso, guidate da esperti di varie discipline, che a volte quasi prescindono dalla implementazione delle opere. Esemplare in questo senso la citatissima ricerca di Verón e Levasseur, M. (1984) Etnographie de l’exposition. L’espace, le corps, et le sens. Si tratta di una ricerca “sul campo” articolata in varie fasi, a partire da una mostra fotografica realizzata presso il Centre Pompidou a Parigi. La prima fase è consistita nell’analisi dell’esposizione stessa, il suo “discorso” e la sua trasposizione spaziale, la distribuzione degli oggetti negli ambienti e così via, come abbiamo già visto nel modo di procedere di Hammad, utile a definire una sorta di visitatore modello (detto “bon corps visiteur”). La seconda fase ha preso invece in

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considerazione il comportamento effettivo dei visitatori della mostra, grazie a un sistema di registrazione video, i cui filmati sono stati sottoposto ad analisi. Questa ha ricondotto le diverse strategie di visita a una tipologia dei visitatori, ottenuta a partire dalla messa in relazione di diversi fattori: la serie di nodi decisionali relativi al percorso assunti dai visitatori empirici a partire da un punto dato, a seconda che essi dipendessero o meno da elementi e/o indicazioni offerti dall’esposizione e della sua organizzazione; la durata della visita; il numero di soste; i modi di progressione dello spazio, nel loro essere o meno conseguenti rispetto alla progressione cronologica suggerita dalla mostra stessa. La tipologia prende la forma, divertente, di un piccolo bestiario, efficacemente illustrato. Così il visitatore formica segue il percorso proposto, che apprezza, soffermandosi su tutti o quasi gli oggetti esposti, nel corso di una visita che si vuole lunga, e che si snoda in prossimità delle pareti e degli oggetti, evitando gli spazi vuoti. Questo si oppone al visitatore cavalletta, molto selettivo e incurante delle guide, che presta attenzione solo ad alcune delle opere esposte, saltando dall’una all’altra in base ai suoi interessi, in una visita comunque breve. Il visitatore pesce, dal canto suo, si muove al centro della sala di esposizione eseguendo una visita rapida, preferisce una visione d’insieme rispetto all’analisi del singolo testo, pur non trascurandone nessuno. Infine il visitatore farfalla esegue una visita oscillante, cambia spesso direzione, non segue un percorso predeterminato, osserva molte delle opere esposte, che lo attirano per alcuni loro tratti, ma con tempi di osservazione variabili, in una visita nel complesso semi-lunga.

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La conclusione – forse più interessante che sconfortante – è che nessuno di questi tipi di visitatore corrisponde appieno a quello immaginato dagli autori della mostra. La tipologia proposta, fra l’altro, ricorda quelFigura 14. la elaborata da Jean-Marie Floch per caratterizzare i viaggiatori della metropolitana parigina, nel suo studio del 1990, basata sulla diversa valorizzazione manifestata per la categoria semantica di continuità/discontinuità: “percorsi” esploratori

“traiettorie” sonnambuli

(valorizzazione della discontinuità)

(valorizzazione della continuità)

(valorizzazione della non-continuità)

(valorizzazione della non-discontinuità)

bighelloni “passeggiate”

professionisti “sequenze”

Nella visita al museo, è indubbio che la motivazione da un lato, e il fattore tempo dall’altro, abbiano un’im-

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portanza fondamentale. Così, dalle guide per le visite ai musei o alle città, il discorso turistico segmenta e provvede a offerte “tagliate” su diversi profili. Penso per fare un esempio ai depliant forniti dalla National Gallery di Londra, in cui in base al tempo a disposizione (che può essere anche di un’ora!) viene proposto un certo numero di opere da vedere. E, a questo proposito, non si può fare a meno di pensare alla corsa nel Louvre dei protagonisti del film Bande à part di Jean-Luc Godard (1964), uno dei manifesti della nouvelle vague, citata nei Dreamers di Bernardo Bertolucci (2003).

Figura 15.

Il principio dominante nella semiosfera è quello della continua traduzione del reale, che filtrato dai linguaggi si trasforma in “testo”. Siamo dunque davanti ad una “testualità” allargata che finisce per comprendere tutte le forme culturali, e ciò è particolarmente evidente nel museo, per quanto esso, nella scelta di uno specifico genere,

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sia declinato in un senso specifico. Il singolo oggetto, il singolo testo, rispetto all’insieme della semiosfera, può assumere il ruolo del frammento, del “ricordo” a partire dal quale ricostruire il tutto, e la ricostruzione necessaria alla decodifica di un testo porta sempre in realtà alla riformulazione del senso. Se l’organizzazione di quella semiosfera che è il museo è quella di un macrotesto, o una sorta di matrioska testuale, possiamo avvicinarlo con gli strumenti dell’analisi testuale e discorsiva. Poiché si tratta di un testo straordinariamente complesso, nell’impossibilità di darne conto in modo esaustivo, per ogni caso di studio è necessario dichiarare il proprio obiettivo, e di conseguenza procedere alla “costruzione” del proprio oggetto: selezionarne alcuni aspetti, alcuni livelli di pertinenza, alcuni discorsi costitutivi. Si tratta di una duplice sfida: operare delle scelte di inevitabile semplificazione, mantenere presente la complessità di sfondo. Come per tutti i luoghi, nella costruzione del museo come oggetto significante si stratificano ed incrociano molte e diverse narrazioni: Pierre Nora nel suo monumentale studio sui luoghi della memoria in Francia (1984) osserva che ogni edificio è sempre monumento, racchiude in sé una riserva infinita di aneddoti, leggende e racconti di fondazione, incitando alla produzione di fiction così come di Storia. Questa può essere un’indicazione per un approccio narrativo al corso delle nostre analisi. Da un lato si tratta di una scelta di linguaggio: ricostruire le storie che si intrecciano nell’istituzione e nell’offerta di un museo, riportando attori, spazi e tempi coinvolti, è un primo tentativo di costruire intarsi e parziali traduzioni fra i discorsi che si disputano il campo. Parlando dei protagonisti di queste storie, non si tratta di aderire al

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culto dell’autorialità, così diffuso nel nostro tempo, ma di allestire un ambito discorsivo dove ogni elemento ed ogni attore è in realtà riconoscibile in quanto entità semiotica. D’altro lato si tratta di insistere su quel tronco strutturale trasversale ai vari possibili livelli di senso, la narratività, che li accomuna sia nello studio dello spazio, della città, dell’architettura, dell’arte, della letteratura, della luce o della percezione. Il modello adottabile, anche in termini di dimensioni, è quello di una visita strutturata, per costruire la quale gli strumenti analitici fondamentali, oltre all’esperienza personale, sono le immagini, i materiali, le guide, i libri, i siti internet dei musei in oggetto. E ovviamente gli strumenti insostituibili per rielaborare le informazioni, le impressioni, i ricordi saranno quelli contenuti nella cassetta degli attrezzi semiotici, da ampliare e/o adattare secondo le circostanze: poiché il metodo non si applica in modo pedissequo, ma almeno in parte si inventa e si perfeziona mano a mano che si esperimenta sul campo. Bibliografia Calabrese, O. 2006 Come si legge un’opera d’arte, Mondadori Università, Milano. Grosjean, M., Thibaud, J.-P. 2001 (2008) L’espace urbain en méthode, Parenthèses, Marseille. Damisch, H. 2000 L’amour m’expose. Le projet «Moves», Gevaert, Gand.

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Lotman, J.M. 1985 La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Marsilio, Venezia. Marsciani, F. 2007 Tracciati di etnosemiotica, Esculapio, Bologna. Mitroupolou, H. e Novello Paglianti, N. (a cura) 2018 Exposition et Communication, MEI - Mediation et information 42-43, l’Harmattan, Paris. Nora, P. 1984 (1992) Les Lieux de mémoire, Gallimard, Paris. Pezzini, I. 2011 Semiotica dei nuovi musei, Laterza, Bari-Roma. 2017 “Interazioni. Nello spazio del museo fra visitatori e opere”, in Balbiani, L. e D.Kluge (a cura di), Scritture e linguaggi del turismo, Roma, Nuova cultura, pp. 95-104. 2018 “Le rôle de l’espace dans l’Exposition. Ara Paci ser Maxxi à Rome: le musée s’expose”, in Mitroupolou e Novello Paglianti, a cura, 2018, pp.207-220. 2020 Nuovi musei, icone del nostro tempo: dieci temi, Lectio Magistralis 22/02/2019, Macro Asilo Diario, Comune di Roma. Verón, E. - Levasseur, M. 1984 Etnographie de l’exposition. L’espace, le corps, et le sens, Centre George Pompidou, Bibliothèque Publique d’Information, Paris. Violi, P. 2014 Paesaggi della memoria, Bompiani, Milano.

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Zunzunegui, S. 2003 Metamorfosis de la mirada. Museo y semiotica, Catédra, Madrid, (tr. It. Metamorfosi dello sguardo, Roma, Nuova Cultura).

Musei e mediazione: La scienza (naturale) ad arte Chiara Tartarini Da diversi anni la mediazione si è imposta come uno dei principi del funzionamento dei musei, pur definendo ciò che di per sé è così ecumenico da ostacolare una sua autentica definizione: s. f. Con mediazione si indica l’azione che mira a riconciliare o a mettere d’accordo due o più parti e, nel contesto museale, il pubblico con ciò che gli è dato vedere. Possibile sinonimo di intercessione […]. Designa essenzialmente […] una gamma di interventi condotti nel contesto museale al fine di stabilire dei ponti fra ciò che è esposto (il vedere) e i significati che […] oggetti e siti possono assumere (il sapere). (Desvallées, Mairesse 2016, pp. 56-57). Qualcosa però è sufficientemente chiaro: parlare di mediazione significa presupporre una distanza, un divario, uno scarto; significa voler stare a tutti i costi tra qualcosa/qualcuno e qualcos’altro/qualcun altro – tra il museo e lo spettatore, tra lo spettatore e l’opera/l’oggetto – e, appunto, stabilire dei ponti. Con la sua missione intercessoria, dunque, ci immerge nella questione principale dei musei contemporanei, al cui centro è sempre il pubblico, visitatore o utente, sottoposto via via a un processo tassonomico che, con nomenclature generiche e soprassedendo sulle inevitabili varianti individuali, ne definisce abitudini, esigenze, gusti e movenze.

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La specie si è lasciata alle spalle decenni di museum fatigue, celebre titolo di una delle prime ricerche fotografiche sul pubblico che immortalava le disagevoli posture assunte dai visitatori (attori, in realtà) all’interno del Boston Museum of Fine Arts (1916). Ne fu autore Benjamin Ives Gilman, che insegnava Psychology of Pain and Pleasure. Il suo nome è legato alle battaglie per promuovere l’esposizione di opere originali, e non di copie, nei musei americani, e a quelle per convincere gli stessi musei a porre il visitatore nella condizione di fruire correttamente degli oggetti esposti, cioè a farsi davvero “musei di mediazione”. Un anno dopo aver pubblicato lo studio sulla museum fatigue, però, Gilman presentò lo skiascope (Gilman 1918, pp. 238-48; Crary 1999, p. 63), un visore che permetteva allo spettatore di concentrarsi su un solo oggetto, escludendo tutto il resto – altri oggetti e altri visitatori, molesti parassiti dello sguardo – e favorendo una situazione di onirosi estetica, perfetta, secondo Gilman, per contemplare la bellezza. Eppure, doveva sapere che la perdita della visione periferica, soprattutto per noi che abbiamo gli occhi frontali, rappresenta un grosso rischio: ci rende facili vittime, ignare dell’arrivo dei predatori. Per fortuna succedeva tanto tempo fa, quando la specie visitatore era più elusiva e sporadicamente viveva in branco. Gli esemplari vagavano soli e afflitti, con le gambe dolenti; erano capaci solo di qualche passetto rigido, alternato a lunghe stazioni immobili (terribili per la spina dorsale), mitigate da rari oscillamenti, qualche piegamento sulle ginocchia e profondi inchini al cospetto dei capolavori. Ora la questione sembra essersi capovolta. La conservazione della specie è stata così al centro degli interessi dei musei che i visitatori, taxa sociali e cosmopoliti,

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hanno colonizzato i più importanti areali discontinui. La sottospecie visitatore iperdinamico, un tempo esclusiva delle aree urbane e suburbane del Regno Unito, del nord Europa e del nord America, si è dispersa in molte altre parti del mondo come alloctona invasiva. Da diversi anni, fa da guida, remixa le collezioni, dispone i cartellini, si dà appuntamento nei cafè scientifici, partecipa a chiacchierate senza impegno e trasforma i musei in luoghi adatti anche per incontri al buio90. In tempi non sospetti, gli studiosi classificavano la specie senza ipotizzare la presenza di sottospecie autocrati. Lo facevano leggendo i libri visitatori, sottoponendo il pubblico a questionari, interviste in profondità, tracking e indagini osservanti, registrandone i comportamenti di fruizione. Di regola, non c’erano interazioni tra osservante e osservato: il visitatore doveva muoversi liberamente nel proprio habitat senza condizionamento alcuno. Poi si stendevano grafici relativi ai percorsi di visita, si individuavano empiricamente gli elementi con maggior potere attrattivo e quelli con maggior potere repulsivo, si valutavano prossemica e affaticamento (per i segni: vedere sopra) e, metro alla mano, si misuravano le distanze tra utente e utente, tra utente e oggetto, tra oggetto e oggetto. Non si parlava ancora di experience economy, né di eye-trackers, gaze data o rating, e spesso, con buona pace dei puristi, si ibridavano varie metodologie. Ma ora tutto è cambiato. George Hein, chimico di formazione e sostenitore del museo costruttivista, nel suo citatissimo Learning in the museum (1998, p. 102 e sgg.) si sofferma su alcune tassonomie, mostrandone la sempre maggiore esattezza. 90

#museumdate, Mart, 14 febbraio 2014.

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Per esempio, se Henry H. Higgins (1884), botanico, ispettore delle National Schools di Liverpool, nonché cappellano di un ospedale psichiatrico, si limitava a distinguere tra students, observers, loungers e emigrants, centododici anni più tardi, in una ricerca per il Science Museum di Londra, Sandra E. Bicknell e Peter M. Mann (1996) individuarono altre specie, come i buffs (appassionati che conoscono già ogni dettaglio di oggetti ed exhibit), gli it’s for the children (famiglie che si costituiscono come una learning unit) o gli I’m museuming (coppie, turisti, a volte anziani…). Ma il vero passo avanti nello studio dei musei come luoghi di interpretazione dei comportamenti dei viventi è stato compiuto da Eliseo Verón e Martine Levasseur, che distinsero esplicitamente i visitatori in formiche (o la visita prossimale), farfalle (o la visita pendolare), cavallette (o la visita “punctum”) e pesci (o la visita scorrimento) (Verón, Levasseur 1983, pp. 91-92). Non è una selezione naturale, è fatta ad arte, ma onora appieno un passaggio della voce mediazione nel volume dei key concept ICOM, in cui si precisa che nella museologia anglofona il termine mediation è poco utilizzato e, al suo posto, si fa più frequentemente ricorso a un semiomologo, interpretation (anche in questo caso, la parola va presa alla lettera: l’interprete è colui che, in presenza di un divario, si frappone, intercede e, benevolmente, traduce; è il diplomatico, il turcimanno, il sensale). Poi si dice subito che questa parola e l’idea che porta con sé hanno iniziato a fare la loro comparsa nei parchi naturali americani e, solo in un secondo tempo, si sono estese a designare «il carattere ermeneutico delle esperienze di visita nei musei e nei siti» (Desvallées, Mairesse 2016, p. 57). La partecipazione dell’interprete non

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è dunque naturale ma, col tempo, si è accomodata all’ambiente. Non a caso è stata tracciata una sorta di filogenesi della specie mediatore culturale, presentata nell’evoluzione delle sue posture verso stazioni sempre più erette: initiateur, négotiateur, instructeur, éducateur, vulgarisateur, interprète, traducteur, animateur, accoucheur, informateur activateur… (Chaumier, Mairesse 20172, p. 173). C’è un ritornello che si ripete da diverse generazioni: i parchi naturali, musei viventi, e, in genere, i musei scientifici sarebbero luoghi più rassicuranti rispetto ai musei d’arte. «Nessuno è mai stato bocciato in un museo scientifico», si dice allegramente citando Frank Oppenheimer, il creatore dell’Exploratorium, inaugurato nel 1969 e definito come un “community museum dedicated to awarness” (lo si legge sulla targa affissa sulla facciata della sua prima sede, il Palace of Fine Arts di San Francisco). A quei tempi, altri siti avevano già avviato iniziative con exhibits hands on e, soprattutto, c’era il Palais de la Découverte, nato in seguito al successo dell’Exposition universelle di Parigi del 1937. La coppia interspecie Exporatorium + Palais de la Découverte, costantemente presente nell’immaginario di chi studia queste cose, ha avuto moltissimi figli: gli science centers, appunto, nicchie ecologiche adatte alla proliferazione dei comunicatori per la divulgazione, pronti a insegnare pratiche di partecipazione tutt’altro che immediate (cfr. Merzagora, Rodari 2007, p. 52 e sgg). Gli appellativi di moda alcuni anni fa per designare questi luoghi («Experimenta», «Techno-qualcosa», ecc.) sembravano metterne in rilievo la nascita per partenogenesi. In molti, però, li hanno considerati in chiave evoluzionista, come un segno dell’emersione di habitat atti ad accogliere varietà partecipazioniste non più così

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attratte da «repository hand-off di artefatti antichi» (Basso Peressut 1998, pp. 155-156). I palinsesti espositivi di questi siti, eredi delle pubblicazioni sette-ottocentesche di scienza ricreativa, riflettono la loro vocazione educativa e intercessoria: sono pieni di macchine fatte apposta per essere manipolate fino alla tortura (la padronanza della scienza si ottiene solo con la pratica), in cui non solo si mostra ma si dimostra. Non sorprende che per le specie partecipazioniste questi luoghi siano più allettanti dei musei d’arte, di regola così intolleranti da vietare persino sfioramenti e carezze. Tuttavia viene il sospetto che la loro fama possa essere dovuta non solo a una loro maggior accondiscendenza ma anche a una propensione del pubblico a dichiararli habitat eterotopici, pieni di parole e saperi magnificamente oscuri, capaci di generare meraviglie che lasciano a bocca aperta. Maria Teresa Balboni Brizza, avvezza allo studio di artefatti umani, ricordava che «dichiarare la propria ignoranza rispetto al quagga o al sistema periodico degli elementi sembra meno disdicevole che ammettere di non aver idea di chi possano essere il Pontormo o Yves Klein» (Balboni Brizza 2007, p. 90). È vero, possiamo osservarlo empiricamente: ben pochi si imbarazzano di fronte a un mancamento di memoria sulla tavola periodica, e nessuno si strugge se non conosce il quagga – sempre che poi, con qualche scrupolo in più, non si metta sulle orme di questa ippotigre e, giunto a tu per tu con l’animale, scopra che non è poi così tranquillizzante. Fino a qualche decennio fa l’Equus quagga quagga era una zebra estinta, presente solo in diversi musei di zoologia come esemplare impagliato. Poi, però, è stato oggetto di un programma di breeding back che, ad arte, ne ha ricostruito l’aspetto;

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così, pezzo di cavallo di qua, pezzo di zebra di là, la bestia polimorfa è ricomparsa, ripopolando le pianure del Sudafrica. È un curiosum, un mélange tra arte e natura, già pronto, vivo o morto, per una Wunderkammer; è un revenant che, malgrado l’espressione placida, ci disorienta – ragion per cui potrebbe fare da permanent chairman a tutti i convegni sulla relazione tra arti e scienze (naturali). Da decenni si parla delle difficoltà di integrare, o almeno riavvicinare, le due culture – formula tanto gaia da partorire quella, brandizzata da un agente letterario americano, di terza cultura, che in realtà si è rivelata poco più che la (naturale) presa d’atto dell’impatto delle rivoluzioni scientifiche e tecniche sulle nostre pratiche quotidiane, quelle delle humanities comprese. Certo è che la comunicazione interspecifica non è semplice, non è immediata né frequente, tanto meno in chiave mutualistica: le due specie si osservano, si studiano, si annusano, nei casi migliori si provocano o si abbandonano a qualche effusione; se sono varietà dotate di parola, chiacchierano del più e del meno, sulla crescita esponenziale dei saperi scientifici e sulla presunta crisi delle humanities, col sottofondo di solenni lamenti funebri. Poi si riallontanano. Perciò musei d’arte e musei di scienze (naturali) sono ecosistemi diversi. Negli uni troviamo opere, artefatti, oggetti realizzati da primati superiori, sapientes e habiles; negli altri reperti, che possono avere mille simil-repliche ma meritano di stare in un museo in ragione della loro natura residuale, perché sono testimonianze di qualcosa (una cultura scomparsa, un’animale estinto, ecc.) o illustrano in maniera esemplare concetti o fenomeni. Potremmo dire, con Bernard Schiele, che i musei scientifici sono garanti del «vero» e i musei d’arte dell’«autentico»

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(B. Schiele, cit. in Merzagora, Rodari 2007, p. 58), e che forse anche da questo beneficio di verità può derivare la vocazione intrinsecamente educativa dei primi. Alcune cose, però, turbano l’urgenza tassonomica di chi è colpito dalla malattia del paragone. Esempio: esistono oggetti ospitati nei musei scientifici che possiedono già in cuor loro aspirazioni artistiche (esempio immediato, cioè naïf: la macchina di Horn del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano, utilizzata per la produzione di energia meccanica in una fabbrica di malto per birra, con il bilanciere posato su una colonna dorica). Oppure: in un museo qualsiasi, l’astronomo di Vermeer (1668) potrebbe discorrere piacevolmente con un globo celeste Hondius, dato che entrambi sono naturalmente accomunati dall’incanto del passato, facilmente trasmissibile al visitatore. Ma se un artista contemporaneo è chiamato a mediare, cioè a tradurre, un’idea o un concetto scientifici, e gli esempi potrebbero essere numerosi (cfr. Rossi-Linneman, De Martini 2019), l’allegra conversazione potrebbe mostrare i limiti di un dialogo solo apparente. Che effetto farebbe il Condensation cube (1965-2008) di Hans Haacke, elusiva riflessione sul white cube, in un museo scientifico? E lo squalo in formaldeide dell’old star Damien Hirst (che tra l’altro sappiamo non essersi rivolto a un preparatore preparato, visto che il primo pesciolone ha iniziato a decomporsi e ha dovuto essere sostituito)? Debole, probabilmente, col rischio di indifferenza da parte dello spettatore, e di non poche difficoltà per il mediatore. Perché in questo caso la formula si inverte: è arte apud scienza, non scienza ad arte. Svetlana Alpers confessò che il suo primo souvenir di visita a un museo era un enorme granchio - «chele smisu-

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rate, occhi gonfi e sporgenti, antenne, protuberanze della corazza, giunture nodose, la peluria tutt’intorno» – e ricordava che i musei «hanno sempre sollecitato i visitatori a guardare gli oggetti, granchi inclusi, come il prodotto visibile di un’arte» (Alpers 1995, pp. 3-4). La loro autorevolezza trasforma e santifica qualsiasi cosa vi venga esposta: ce lo hanno dimostrato Duchamp e, diversamente, Pomian (2007, pp. 46-51) e Baxandall (1995, pp. 15-26), tutti concordi, a loro modo, nel confermare che il lavoro museale, fatto di selezione e ricombinazione, è sempre un lavoro di mediazione, ab initio non ex post facto. Inoltre, a complicare ulteriormente le ambizioni tassonomiche esistono specie e sottospecie. Per esempio, ci sono evidenti differenze tra musei della scienza e musei di storia della scienza. Di solito i primi, se possiedono oggetti di interesse storico, mettono a disposizione della visita quelli più sacrificabili alla divulgazione o quelli che attestano gli esiti di teorie scientifiche assodate, acquisite: se il passato è utile, se lo sono gli oggetti che al passato appartengono, lo è e lo sono nella misura in cui spiegano, raccontano, affermano i fondamenti della situazione attuale (è questo, semmai, a creare meraviglia). Nei musei di storia della scienza, invece, la relazione con gli oggetti del passato è più complessa: perduta la loro funzione, gli oggetti necessitano di una prospettiva di lettura più autonoma dalle esigenze attuali della disciplina. Devono risuonare, cioè «varcare i propri limiti», «assumere una dimensione più ampia, evocando le forze culturali complesse e dinamiche da cui [sono] emers[i]» (Greenblatt 1995, p. 27 e sgg.), e riescono a farlo meglio in base alle modalità con cui vengono esposti. Si dice spesso che un museo di storia della scienza ci invita a un viaggio nel tempo, ma resta

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da definire di che viaggio si tratti: con che velocità procediamo à rebours? siamo controcorrente o semplicemente andiamo a ritroso?; prendiamo la storia contropelo o ci limitiamo ad accarezzarla? (cfr. Benjamin, 1997, p. 31). E questo viaggio può condurci alla scoperta di quelle che, col senno di poi, sono autentiche aberrazioni? Se il problema di un museo è come far risuonare gli oggetti, la presenza di laboratori o postazioni interattive talvolta si configura come una risposta arrendevole all’obbligo di modernità. Certo, i musei scientifici servono a dimostrare che la scienza può essere oggetto di comprensione e di gratificazione, per tutti, anche nel tempo libero. Ma l’innesto tra la dimensione storica e quella ludica non sempre è naturale: a volte funziona alla soglia minima, altre volte c’è un rigetto; talora, più banalmente, il visitatore la accetta, ci si diverte e, sbigottito, scopre di appartenere a una delle categorie di cui sopra: it’s for children. Un esempio recente. Il 21 settembre 2019 è stato inaugurato Kosmos, il nuovo museo di storia naturale dell’Università di Pavia. Per promuoverlo, due elefanti rossi in plastica rigenerata dell’ubiqua Cracking Art hanno piantonato Piazza della Vittoria fino ai primi di dicembre. L’istituzione, ospitata in Palazzo Botta (XVIII sec.), ha una storia importante: nata nel contesto dei provvedimenti della riforma asburgica del 1771, venne costituita a scopo didattico per volere di Lazzaro Spallanzani, con un primo nucleo di minerali, seguito da quelli di zoologia e di anatomia comparata. Il museo godette di grande fama presso la comunità scientifica dell’epoca; poi, nel secolo seguente, fu frazionato in tanti musei più piccoli, fino a quando, negli anni sessanta del Novecento, venne definitivamente smembrato e parte delle sue collezioni storiche finirono

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nel Castello Visconteo (ultimo piano, dove ora si trova la quadreria ottocentesca). Per Kosmos sono stati selezionati pochi oggetti, duemila sui quattrocentottantaduemila totali, collocati nei milleduecento metri quadri del piano terra del palazzo (11 sale). L’obiettivo dichiarato è quello di accompagnare il visitatore «in un viaggio lungo le parole di un lessico», svelando «la variabilità della natura», unendo «il mondo reale a quello dell’immaginario», moltiplicando «le probabilità di incontro con fenomeni sconosciuti», anche grazie a «postazioni interattive, video e giochi».91 C’è tutto, insomma. La visita inizia con l’anatomia degli animali e con le splendide statue miologiche di cavallo e cervo realizzate da Giambattista Volpi. Poi si passa alle sale dedicate a Spallanzani, ai suoi viaggi e alle sue ricerche (e qui troviamo un wall con un attore che indossa i panni di Spallanzani e recita alcuni passi dei suoi scritti). Attraversato il corridoio, dove è esposto un raro caso di cranio di narvalo con doppia zanna (riferimenti di rito all’unicorno), si incontrano diversi esemplari tassidermizzati, racchiusi in teche antiche, immutate (ci sono ancora i vecchi cartellini) ma protette da nuove teche di cristallo. Il percorso prosegue con i fondamentali della biologia moderna: dalla nascita della tassonomia, con Linneo, alla figura di von Humboldt, che introdusse il concetto di biogeografia, da Cuvier a Darwin, fino alla nascita della genetica moderna e ai grandi temi della conservazione della natura e del futuro del pianeta. Il tutto, appunto, per dar vita a un tuffo nella meraviglia, o per viaggiare nello spettacolo del mondo. 91

https://museokosmos.eu/il-percorso/

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Figura. 16. Kosmos, cartolina promozionale, 2019.

L’allestimento è essenziale, c’è molto bianco; i pannelli, nella tavolozza del verde salvia e del grigio, sono scritti in un linguaggio chiaro e comprensibile. E poi ci sono tanti cassetti, scatole a sorpresa che custodiscono gli attrezzi della cuisine naturalistica, ben ordinati e disposti a lasciarsi afferrare per dar vita a giochi interattivi. D’altra parte, il museo ospita anche feste di compleanno (su richiesta), assieme a esploratoparties, paleoparties, pirataparties, dinoparties da frequentare, se si è in vena di mondanità, magari qualche ora prima delle immarcescibili notti al museo e qualche ora dopo aver onorato gli obblighi educativi («A scuola di squali», «Il carnevale degli animali», «Buon appetito Mr. Darwin», «Esplorandando», «Strani crani, teschi pazzeschi», «Se fossi un dinosauro», «Caccia al fossile», e così via)92 o quelli sociali («Porta il nonno al museo»).  https://www.admaiora.education/it/mostre-ed-eventi/museo-di-storia-naturale-di-pavia/. Al Kosmos i servizi educativi sono curati da Ad Maiora, società di servizi attiva dal 1994, con il nome di Associazione didattica museale, (ADN), soprattutto presso Museo di storia naturale di Milano e più tardi chiamata a estendere i suoi servizi ai musei d’arte.

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In Kosmos i ragazzi si divertono. I più audaci possono perfino fare a meno di mediatori in carne e ossa. Al limite sarebbe bene installare dei miniascensori che consentano loro di raggiungere l’altezza dei visori, o prevedere l’intervento di qualche addestratore (assistente alla fruizione) che, facendo leva sulla loro adultità in potenza, li aiuti a simpatizzare con l’attore che recita Spallanzani o con quello che impersona Darwin. Cioè, con i motivi ricorrenti della narrazione: l’ebbrezza della ricerca, l’opposizione del mondo alle geniali scoperte, la bizzarria e l’infaticabilità dello scienziato, il suo inesauribile entusiasmo; molta inspiration e poca transpiration, tranne quando la passione è così ardente da far evaporare all’istante qualsiasi gocciolina. È davvero un viaggio inebriante. Il problema è che sembra garantito soprattutto un solo livello di mediazione (o uno e mezzo), tanto che se le visite sono “per adulti” occorre specificarlo, promuovendole assieme a eventi aziendali.93 Non è una sorpresa. Già Georg For«Kosmos non è solo per i bambini! Per il pubblico adulto e per le aziende che vogliano organizzare eventi con una valenza culturale, in uno spazio di grande prestigio architettonico e storico, sono state pensate proposte specifiche. Kosmos […] rappresenta un’eccellenza nell’ambito della Museologia Scientifica italiana e un fiore all’occhiello per la città di Pavia. - con sede in un Palazzo storico di grande pregio, nel centro cittadino; - dotato di un allestimento innovativo e tematicamente coinvolgente; - supportato da collezioni ricchissime e da una consolidata attività a cura del personale scientifico». https://www.admaiora.education/it/mostre-ed-eventi/museo-di-storia-naturale-di-pavia/adulti-e-eventi-aziendali.

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ster, nel tardo Settecento, sosteneva che le scienze naturali erano viste come «il giocatolo di donne, di bambini e di quegli uomini la cui memoria contiene sufficiente spazio per i nomi di molti gusci di chiocciole e farfalle» (Forster, Ein Blick in das Ganze der Natur, 1781, cit. in Pinna 2005, p. 130). E questo, nel tempo, ha fatto sì che si radicasse l’idea per cui «i visitatori adulti di queste istituzioni non corrispond[o]no a una categoria culturale, ma a categorie famigliari: siano cioè padri, nonni o zii» (Pinna 2005, pp. 129-130). Seguire il percorso di Kosmos, è stato detto, è come «srotolare un papiro in cui ogni capitolo racchiude un concetto, un’idea», come compiere «un viaggio attraverso la conoscenza, le scoperte e le conquiste della scienza» o, più modestamente, un «divertente excursus, fra bestiole curiose e strane, su improbabili ritrovamenti e incredibili spostamenti»94. C’è tantissimo, insomma – ed è bene sia così, a misura della complessità del mondo e della propensione dei bambini, che sono curiosi per natura. Resta il fatto che le tappe del viaggio forse sono troppo poche e la velocità di crociera decisamente elevata. I ragazzi si divertono e imparano qualcosa, e così gli adulti, ma a loro qualcosa manca. Certo, possono cimentarsi con il gioco su Spallanzani (a me è sembrato difficilissimo…) o con quello su Darwin (molto più alla nostra portata), tuttavia diverse curiosità restano insoddisfatte. Ad esempio, perché Spallanzani, incarnazione dello scienziato folle in Der Sandmann (1815), per Hoffmann diventa Spalanzani, con una l sola? Oppure, sull’ip-

https://www.avvenire.it/agora/pagine/kosmos-pavia-museo-storia-naturale.

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popotamo dei Gonzaga (sala 4): si dice che quando era nel Palazzo Ducale di Mantova accanto a cinque coccodrilli, e veniva scambiato per una foca gigante, cioè per un “vitello marino grande quanto un bue”, reggesse sul dorso la mummia di Rinaldo Bonacolsi, fatto fuori ben prima di lui. È davvero così? E l’elefante di Napoleone? In Kosmos, imponente ma non troppo, sta accanto a Gira e… scopri l’elefante (sala 6), una ruota da far girare per imparare a distinguere la specie asiatica da quella africana in base alla misura delle orecchie. Eppure Shanti (da qualche anno l’elefante di Napoleone si chiama così) ha una storia appassionante, che potrebbe gettare ponti, cioè evocare «forze culturali complesse e dinamiche» (si veda sopra, Greenblatt). È oggetto di risonanza, e meriterebbe una stanza tutta per sé 95. Shanti era una elefantessa e, da viva, fu donata a Luigi XV per la ménagerie di Versailles dall’ultimo governatore francese di Chandannagar (Bengala Occidentale), forse per sollecitare l’attenzione del re sugli stabilimenti commerciali in India, all’epoca oggetto di complicate vicende politiche. Partì dall’Asia assieme al suo cornac, Joumone, il 12 febbraio 1772, arrivò in Bretagna nell’inverno dello stesso anno, dopo dieci mesi di navigazione, e lì restò, a Lorient per la precisione, in attesa di climi più miti. Poi si mise in cammino (a quattro zampe: l’elefante cammina in punta di piedi) e, con il suo cornac, percorse circa cinquecento chilometri, e nell’agosto del 1773 giunse a VersailLe è stata dedicata una mostra tutta per sé dal 30 aprile al 31 ottobre 2015, nel Palazzo Centrale dell’Università di Pavia, attorno a cui ruotavano una serie di eventi: laboratori, incontri a tema, vendita di gadget proboscidati e visite guidate a luoghi pavesi-napoleonici.

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les. Qui, nei mesi a seguire, le resero visita i più grandi naturalisti e anatomisti del tempo, tra cui l’olandese Petrus Camper. Pochi anni dopo, però, Shanti cadde nelle acque di un canale del parco e morì. Il corpo fu portato al Jardin du Roi, a Parigi, dove venne sezionato e studiato, anche da Cuvier in persona. Nel 1804, per volontà di Napoleone, la sua pelle giunse a Pavia e fu montata da un preparatore del museo, Vincenzo Rosa (Razzetti et al. 2017). Per anni, e fino al 2014, Shanti-il-reperto è stata in deposito nel Castello Visconteo (Fig.17), poi è venuto il momento di ripulirla e restaurarla.

Figura 17. L’elefantessa di Napoleone nei depositi del Castello Visconteo, 2011.

Per finanziare le operazioni è stata organizzata anche a una campagna di crowfunding, E Napoleone ci donò un

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elefante, ma forse il titolo non era azzeccatissimo, visto che i sostenitori sono stati pochi (solo trentatré) e, alla fine, la cifra raccolta non ha raggiunto i 1.800 euro contro i 12.000 auspicati 96. Pazienza, il restauro ha avuto luogo ugualmente e il donatore più generoso ha avuto il privilegio di scegliere il nome per il grosso pet: Shanti – ovvero pace, serenità del qui e ora, più o meno quello che l’elefantessa avrebbe desiderato. Quello di Shanti, insomma, è uno dei grandi racconti della museologia naturalistica, a misura di quello che potrebbe essere il terzo più antico esemplare tassidermizzato (e conservato in un museo) di Elephas maximus, specie oggi rara, endangered. Un oggetto così prezioso che, per rendergli omaggio, forse non basta esibirlo davanti a un pannello su cui è raffigurata l’elegante versione blu petrolio di un’immagine d’epoca del serraglio di Versailles. Ora, è possibile che i visitatori adulti, al cospetto di oggetti antichi, siano alla ricerca del loro potere evocativo, cioè della loro risonanza, e, più solitari di leopardi delle nevi, preferiscano muoversi lentamente, guardinghi e silenziosi, come d’abitudine viene loro chiesto di fare nei musei d’arte. Tutt’altro da quanto è richiesto nei musei scientifici, e ancor più negli science centers, dove la visita deve per forza somigliare a un’avventura collettiva, celebrata a suon di slogan come «la scienza è divertente!» o «vietato non toccare!» (cfr. Marzagora, Rodari, p. 125). Ma, così facendo, si consolida il rischio di proporre un tipo di mediazione piuttosto standardizzata, al di sotto della «soglia di identificazione» del singolo museo, cioè non sufficientemente rappresentativa della sua natura, 96

https://universitiamo.eu/campaigns/napoleone-ci-dono-elefante/.

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a

b

Figura 18. a) Anna Morandi, Preparato in cera raffigurante un orecchio, 1755-74, Palazzo Poggi, Bologna (a sn); b) Welt der Sinne – Hören, Kinder-Museum/Deutsches Hygiene-Museum, Dresda, 2017 (a dx).

della sua origine e identità (Pinna 2005, p. 97; cfr. ivi, pp. 109-110). In Kosmos (precisiamolo finalmente: è solo un esempio), se i bambini non hanno bisogno del mediatore, gli adulti forse sì. Alla seconda visita sanno già che un osso fossile pesa di più di un osso non fossile (sala 8), e gli oggetti che sono lì a dimostrarlo, assicurati alla loro postazione di plastica gialla, non risuonano più. È inutile riprenderli in mano e sollevarli di nuovo per saggiarne il peso. Gli adulti, come i ragazzi, possono trovare francamente disgustoso il Celacanto (Latimeria chalumnae) (sala 8), essere turbati dall’espressione attonita di una leonessa (sala 10) o preoccuparsi se un orso non troppo bianco è posizionato sotto due pannelli che riguardano il riscaldamento globale e il buco dell’ozono (sala 11): dagli occhi dell’orso, tra l’altro, sembra essere colato un liquido scuro (epifora?). La narrazione emotiva, infatti, è garantita, così come il ricordo di molti altri musei simili, con animali simili, simili occhi di vetro (o resina plasti-

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ca), e pellicce più o meno impolverate, dove l’avventura si accompagna all’apprensione sulla sopravvivenza della specie, delle specie e del pianeta. Poco dopo gli adulti si ritrovano a sfiorare una grossa scultura spiraliforme, una sorta di scala a chiocciola istoriata che occupa il centro di una sala (la 8) e concretizza i big five, le cinque grandi estinzioni di massa, intervallate da 69, 124, 71 e 115 milioni di anni, su cui sono collocati trilobiti, fossili di molluschi bivalve e modellini in scala uno a cento (come minimo) di dinosauri in plastica, come quelli con cui giocano i bambini. Procedono e, celebrato l’ardire di aver innestato uno sperone di gallo sull’orecchio di una vacca, si ritrovano al cospetto di un’altra spirale, quella doppiamente iconica del DNA (sala 9), emblema di un’estetica dell’invisibile che si muove tra gene e meme. Così, poco prima dell’uscita, nella saletta di passaggio adiacente alle toilettes, provano un certo sollievo osservando alcune fotografie antiche di piccolo formato: vecchi armadi dalle ante in vetro riempiti di animali fino all’inverosimile, sale affollate di struzzi, giraffe, altri elefanti e, all’esterno, carrozze a cavallo. Gli esponenti adulti della nostra specie sono attratti dalla bellezza degli elementi naturali e, se sani, provano uno spontaneo interesse per gli altri viventi. Sono biofili, asimmetricamente empatici. Alcuni di loro possiedono un’intelligenza naturalistica, altri, più modestamente, un’intelligenza ecologica. Così, tornati a casa dopo la visita al museo, gettata la plastica nel cassonetto della differenziata, si perdono a ricercare ancora una volta sul web, scambiandolo per una sorta di skiascope, le variopinte fotografie di Chip Clark, scattate nel backstage del National Museum of Natural History, dello Smithsonian, con

154 Figura 19. Chip Clark, Bird staff, 1992, Smithsonian Institution’s National Museum of Natural History.

cassetti su cassetti, aperti e chiusi, che contengono «infinite forme, bellissime e meravigliose». La foto più bella resta quella con Ladybird, cioè Roxie Laybourne, esperta di identificazione delle piume. Lo sappiamo, perché ce lo ha detto Darwin: «la bellezza è un sentimento istitutivo» (Darwin, Taccuino M, in Bartelesi 2012 p. 45). It’s for children. Postilla (maggio 2020) In epoca di Covid-19 si è parlato molto di salti di specie. Così, mentre si giocava ai piccoli chimici per cercare di produrre amuchina, è capitato di riflettere ancora una volta sulle due culture, paradigma indiscutibile o dilemma dall’«indicibile soluzione» (Lazinger 2017, pp. 140-141). Si è convenuto che la soluzione non può essere quella di fare di Yves Klein (è l’esempio di Balboni Brizza; si veda supra) un oggetto per le scienze naturali: nato a Nizza nel ventotto, morto giovane a Parigi, nel sessantadue, ha disseminato sul terreno molte penne dal blu acceso, motivo della sua sopravvivenza nella nostra memoria. Decisamente no.

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Per onorare il sistema periodico degli elementi, celebrato dall’Unesco nel 2019, a centocinquant’anni dalla pubblicazione della tabella di Dmitrij Mendeleev, nessuno avrebbe dovuto procedere così: Palladio, elemento chimico, omonimo di un celebre architetto nato a Padova nel 1508, da cui il simbolo PD; numero atomico: 46, cioè 23 × 2 = corredo cromosomico umano; nella smorfia: ‘e denare (infatti nel 2020 il prezzo del palladio, utilizzato nella produzione dei motori dei veicoli ibridi, è salito alle stelle). Sarebbe troppo puerile. Semmai - e così è stato fatto per l’anno della tavola periodica degli elementi sono state opportunamente recuperate quelle posizioni nobili che avevano già «messo piede sui ponti che uniscono […] la cultura scientifica con quella letteraria, scavalcando un crepaccio che […] è sempre sembrato assurdo […], quasi che lo scienziato e il letterato appartenessero a due sottospecie reciprocamente alloglotte, destinate a ignorarsi e non interfeconde» (Levi 1985, p. VI). Insomma, nulla sembrava procedere di un passo. Poi dagli Stati Uniti (era un topos, molti anni fa) ci è arrivata una notizia inattesa: i pinguini adorano Caravaggio. La scoperta è avvenuta così: ai primi di maggio 2020 il Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City e il Kansas City Zoo erano in lockdown per l’emergenza sanitaria. Così il direttore del primo, Julián Zugazagoitia, ha telefonato al direttore del secondo, Randy Wisthoff, per parlare di problemi e di progetti di riapertura. A un certo punto Zugazagoitia, scherzando, ha buttato lì: «Hey, why don’t you bring some of your penguins to the museum?»97.

97  https://www.insider.com/penguins-visit-art-museum-for-theday-2020-5

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Detto fatto. Wishtoff e il suo staff hanno pensato che la visita avrebbe potuto essere un diversivo per gli animali, annoiati dall’assenza dei visitatori. Così, il 6 maggio 2020 tre pinguini di Humboldt, specie vulnerabile, diffusa in natura soprattutto sulle coste del Pacifico di Cile e Perù, sono stati invitati al Nelson-Atkins Museum. E a dispetto di una lieve preoccupazione iniziale – e speculare, cioè per l’incolumità dei pinguini e per l’incolumità delle opere - l’iniziativa è stata un successo. Il video della visita, postato dal museo su YouTube, ha raggiunto centinaia di migliaia di visualizzazioni, e la notizia è stata battuta da media nazionali e internazionali. I pinguini sono decisamente antropomorfi, e a ciò devono parte del loro successo in termini di biofilia infantile. Ma, con questi tre, Zugazagoitia si è spinto oltre. Durante la visita ha parlato loro in spagnolo (guided tour; language: spanish) e ha notato che reagivano in modo molto simile ai comuni visitatori, vagando un po’ di qua e un po’ di là, e sostando davanti ad ogni opera una media di dieci secondi, esattamente come, si dice, facciano gli esemplari di visitatore vulgaris. Ma la vera sorpresa ha riguardato i gusti artistici dei pinguini. Zugazagoitia era persuaso che i tre ospiti sarebbero stati attratti da un grande Monet (Ninfee, 200.66 × 426.09 cm), così «calming and soothing», e invece no. Curiosi per natura, i pinguini hanno preferito le sale degli old masters, in particolare il Giovanni Battista di Caravaggio (1602-1604), quello raffigurato su uno sfondo di foglie di quercia in un deserto trasfigurato in macchia lussureggiante. Le due opere, quella di Monet e quella di Caravaggio, sono due star del museo ma, ovviamente, sono molto diverse.

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Figura 20. Pinguini di Humbold in visita al Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City, 6 maggio 2020.

Nel caso specifico, pare aver avuto un peso importante anche la nuance con cui sono state dipinte le pareti delle sale: una tonalità scura e fredda per Monet, un rosso argilla per la sala di Caravaggio, pieno di calore. E questo a riprova del fatto che la bellezza è un sentimento istintivo, che si basa su invarianze percettive, e che la mediazione avviene ex ante. È un grande passo per la zooantropologia dell’arte, ed è pure un piccolo passo per la conservazione della specie visitatore di Kansas City: «as the penguins have proved, you always learn something new during a day at the museum»98. Per cui, mentre il Nelson-Atkins Museum è ancora chiuso, siamo gentilmente invitati a fare una donazione per supportare lo sforzo dei curatori99.

98  https://www.insider.com/penguins-visit-art-museum-for-theday-2020-5. 99

https://www.nelson-atkins.org/museum-recovery-fund/.

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In ogni sistema piuttosto ricco di sostanze quindi anche in questa palude, si possono formulare frasi che all’interno del sistema non sono né dimostrabili né confutabili. Prendile in mano, queste frasi, e tira! (Enzensberger 2004, p. 6) Bibliografia Alpers, S. 1995 Il museo come modo di vedere, in I. Karp I. e S.D. Levine Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Clueb, Bologna, pp. 3-13. Balboni Brizza, M.T. 2007 Immaginare il museo. Riflessioni sulla didattica e sul pubblico, Jaca Book, Milano. Bartelesi, L. 2012 Estetica evoluzionistica. Darwin e l’origine del senso estetico, Carocci, Roma. Basso Peressut, L. 1998 Science centres. Nuove architetture per la comunicazione scientifica, in J. Durant (a cura di) Scienza in pubblico. Musei e divulgazione del sapere, Clueb, Bologna, pp. 149-196. Baxandall, M. 1995 Intento espositivo, in I. Karp e S. D. Levine, Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Bologna, Clueb, pp. 15-26.

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Benjamin, W. 1940 (1997) Sul concetto di storia, Einaudi, Torino. Chaumier, S.; Mairesse, F. 20172 La Médiation culturelle, Armand Colin, Malakoff. Crary, J. 1999 Suspensions of Perception: Attention, Spectacle, and Modern Culture MIT Press, Cambridge, MA. Desvallées, A.; Mairesse, F. 2016 Concetti chiave di museologia [2010], ICOM-ICOFOM-Armand Colin, Malakoff. Enzensberger, H.M. 2004 Gli elisir della scienza. Sguardi trasversali in poesia e in prosa, Einaudi, Torino. Gilman, B.I. 1916 Museum Fatigue, “The Scientific Monthly”, Vol. 2, No. 1, pp. 62-74. 1918 Museum Ideals of Purpose and Method, Museum of Fine Arts, Boston, Cambridge, MA. Greenblatt, S. 1995 Risonanza e meraviglia, in Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Clueb, Bologna, pp. 27-45. Hein, G. 1998 Learning in the Museum, Routledge, LondonNew-York. Lanzinger, M. 2017 Verso un museo 3.0, “Museologia scientifica”, n.s., n. 11, pp. 139-142.

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Levi, P. 1985 L’altrui mestiere, Einaudi, Torino. Merzagora, M.; Rodari, P. 2007 La scienza in mostra. Musei, science centre e comunicazione, Bruno Mondadori, Milano. Pinna, G. 2005 Il museo di storia naturale. Fondamenti teorici (1997), in Tre idee di museo, Jaca Book, Milano, pp. 89-161. Pomian, K. 2007 Collezionisti, amatori, curiosi, Parigi-Venezia, XVI-XVIII secolo (1989), Il Saggiatore, Milano. Razzetti, E. et al. 2017 L’elefantessa di Napoleone: dalla ricostruzione storica alla valorizzazione, “Museologia scientifica” (Memorie), n. 17, pp. 30-33. Rossi-Linnemann, C.; De Martini, G. 2019 Art in Science Museums: Towards a Post-Disciplinary Approach, Routledge, London. Véron, E.; Levasseur, M. 1989 Ethnograhie de l’exposition: L’espace, le corps et le sens, Centre George Pompidou, Paris. Sitografia https://museokosmos.eu https://mymodernmet.com/kansas-city-penguins-visit-art-museum https://time.com/5838033/kansas-city-zoo-humboldt-penguins-nelson-atkins-museum-of-art

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https://universitiamo.eu/campaigns/napoleone-ci-dono-elefante https://www.admaiora.education/it https://www.avvenire.it/agora/pagine/kosmos-pavia-museo-storia-naturale https://www.insider.com/penguins-visit-art-museum-forthe-day-2020-5 https://www.nelson-atkins.org/museum-recovery-fund/

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Testi di M. Abruzzese, M.C. Addis, G. Dal Forno, M. Mancosu, O. Mosca, I. Pezzini, A. Puggioni, C. Tartarini, N. Villani. Introduzione di F. Marsciani.

ISSN 2420-9015

ISBN 978-88-9385-249-4

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a cura di: Francesco Marsciani - UN ETNOSEMIOLOGO NEL MUSEO

Il 12 dicembre 2019 si è svolta la giornata di studi su etnosemiotica e museologia presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna. In questo volume i contributi degli intervenuti. L’iniziativa si è collocata a conclusione di un percorso di ricerca condotto durante i corsi di Etnosemiotica dei due anni precedenti, svolto con gli studenti e arricchito da contributi esterni sollecitati a esperti del tema. Particolarmente evidente, nel corpo stesso di questa pubblicazione, risulta il lavoro svolto sul Museo di Palazzo Poggi, presso l’Università di Bologna, durante il quale molti sguardi si sono esercitati e confrontati e che qui rilanciano la sfida: come fare etnosemiotica nel museo? Cosa può dire l’etnosemiotica dell’esperienza di visita e cosa può scoprire delle strutture di produzione di senso che i musei, in generale e nelle loro specificità, mettono in atto attraverso il loro allestimento, le loro scelte espositive, le loro strategie di promozione e di divulgazione, la loro costruzione dell’interesse? Intorno a queste domande la giornata di studi ha organizzato due momenti tra loro distinti ma convergenti: una prima parte dedicata alla presentazione dei risultati della ricerca sul Museo di Palazzo Poggi, presentazione che è stata accompagnata da una tavola rotonda con esperti di gestione della realtà museale, e una seconda parte alla quale sono state invitate quattro ricercatrici che sul museo, sui musei e sulla musealità hanno abbondantemente riflettuto nel corso degli ultimi anni. Ne risulta un campo articolato di osservazioni, domande e approfondimenti, soprattutto un confronto a più voci, che è l’occasione per restituire alla realtà dei musei, oggi, tutta la ricchezza che questi spazi manifestano, sia nelle loro versioni più tradizionali che nelle realizzazioni contemporanee più innovative.

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