117 49
Italian Pages 320 [334] Year 2019
Il libro
«S
ONO
N ATA
A
ROMA,
IN
UNA
V I L L E T TA
ROSA,
dietro piazza Cola di Rienzo, a circa trecento metri dalla casa dove vivo tuttora. Mentre nascevo, nella camera
volava insistentemente un moscone. Mio padre, Federico Wertmüller, nonostante fosse uno spirito laico, non portato alla parapsicologia, pensò che un oggetto di dubbia consistenza e di dubbia provenienza come l’anima di un defunto si fosse materializzato in quell’insetto, e che si trattasse di suo suocero, il cavalier Arcangelo Santamaria Maurizio, morto lo stesso mese, in attesa di trasmigrare nella nuova Arcangelina (cioè la sottoscritta), non appena fosse stata deposta nella culla con un dito in bocca e un ciuffetto di capelli arruffati.» ¶ Non poteva che cominciare così, all’insegna di un ricordo bizzarro quanto surreale, la vita di Arcangela Felice Assunta Job Wertmüller von Elgg Esapañol von Brauchich, per tutti Lina Wertmüller. Esagitata e rompiscatole fin da bambina, ma già con una grande carica di simpatia, scopre giovanissima la passione per il teatro e in poco tempo, dopo essersi iscritta all’Accademia di Pietro Scharoff e aver collaborato con i migliori registi teatrali, da Giorgio De Lullo alla mitica coppia Garinei&Giovannini, diventa un vero e proprio «topolino da palcoscenico», allestendo scenografie, scrivendo copioni, pièce, commedie musicali. ¶ Sarà però il cinema a conquistarla e a renderla famosa in tutto il mondo: se con il film d’esordio, I basilischi, attira l’attenzione di pubblico e critica, è con Mimì metallurgico ferito nell’onore, Film d’amore e d’anarchia, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto e tante altre pellicole che viene consacrata regina del «grottesco» (e non «della commedia all’italiana», come si ostina a precisare la diretta interessata). Senza dimenticare, nel 1976, Pasqualino
Settebellezze,
di
cui
Hollywood
si
innamorò
perdutamemte: grazie a quel film, diventerà la prima donna nella
storia del cinema a ricevere una nomination all’Oscar come miglior regista. ¶ Dietro i suoi inconfondibili occhialetti bianchi (se ne è fatte fabbricare cinquemila paia dello stesso modello), Lina Wertmüller ha saputo tratteggiare, con sguardo tagliente e acuto, un’Italia sempre in lotta con la propria identità: gaudente eppur cattolica, scugnizza ma anche insopportabilmente borghese, metallurgica e padronale. ¶ In pagine ricche di humor e piene di energia, vengono raccontate le mille avventure professionali e umane, la fitta e gioiosa trama di incontri e amicizie (da Fellini a Zeffirelli, da Flora Mastroianni a Suso Cecchi D’Amico), ma soprattutto, illuminati dai colori vermigli e mediterranei della sua Roma accarezzata da ponentini e scirocchi, scorrono i fotogrammi di una vita intera trascorsa insieme al marito Enrico Job, lo studente di Praga («l’uomo più importante che mi sia capitato di incontrare»), scenografo e costumista, a fianco del quale ha condiviso davvero tutto, a cominciare dall’amatissima figlia Zulima, detta Maucì. ¶ Spiritosa e profonda, questa autobiografia conquista il lettore come un film avvincente e pieno di colpi di scena, anche perché Lina Wertmüller, donna caparbia, creativa, straordinariamente vitale, oltre ad aver galoppato felicemente il suo tempo dimostra di aver sempre cercato di camminare dal sunny side of the street, dal lato assolato della strada e… «onestamente» lei dice «mi è andata bene».
L’autore
Lina Wertmüller, romana, ma discendente da una nobile famiglia svizzera (il suo nome completo è Arcangela Felice Assunta Job Wertmüller von Elgg Esapañol von Brauchich), oltre che a occuparsi di teatro e di tv, ha vinto i più prestigiosi premi cinematografici internazionali.
Lina Wertmüller
TUTTO A POSTO E NIENTE IN ORDINE Vita di una regista di buonumore
L’Editore ha ricercato con ogni mezzo i titolari dei diritti iconografici senza riuscire a reperirli: è ovviamente a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorra nei loro confronti.
Tutto a posto e niente in ordine di Lina Wertmüller Collezione Ingrandimenti
© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione ottobre 2012
Tutto a posto e niente in ordine
La mia vita è una festa, viviamola assieme. FEDERICO FELLINI, 8½
Prologo
In principio era Werdmüller
L’aveva vista danzare sulle punte, in tutù di candido tulle, una sera d’inverno del 1827, tra i velluti e gli ori del Teatro dell’Opera di Zurigo. Un brivido era serpeggiato, sotto il raffinato vestiario – camicia di seta e trine di Bruxelles, jabot inamidato, frac di velluto – e lungo i peli bruni che, leggeri, gli coprivano il torace. Sì! Peli bruni e forti come avevano avuto molti della famiglia fin dal Trecento – peli da pirati mediterranei – presagio di Sud. Lungo i peli del torace, dicevo, corse quel brivido, su fino al collo forte ma aristocratico, serrato nel complicato colletto da sera fiorito di pizzi. Poi il brivido era sceso lungo la linea centrale dei peli, giù verso l’ombelico e di lì verso il centro basso del suo piacere. Sotto l’impulso di quel brivido che lo solleticava, chiese notizie della dea che volteggiava sul palcoscenico, carezzando graziosamente l’aria con due braccia stupende e due manine eleganti e maliziose. Ma solo dopo aver saputo che lei, la danseuse étoile, era l’amante di… – il nome si tace perché è una storia di corna – un principe di sangue tedesco, solo allora il desiderio fisico era risalito al cervello trasformandosi in bisogno di conquista e rapina. Cioè in amore folle. Così il barone Johann Heinrich Werdmüller von Elgg Español von Brauchich riempì il camerino di Maria Catharina di rose bianche e rosse che fecero impallidire le scarpette rosa e arrossire le guance bianche della fanciulla. Maria Catharina abbassò gli occhi a terra, velando con le lunghe ciglia nere lo sguardo azzurro, quando il giovane e ardente barone entrò nel camerino. Ma la fanciulla, nel suo rossore, aveva già le idee chiarissime – non per niente si diventa danseuse étoile – vuoi perché modestamente Johann Werdmüller era quel che si dice un bel bocconcino: alto, bruno, ardente con gli occhi bovini lucidi e vogliosi da ladrone
mediterraneo, vuoi perché in mezzo a quel mare di rose era comparso, birichino e ruffiano, un bel pendente di zaffiri e diamanti. «Oh, barone… non dovevate.» «Dovevo assolutamente.» «Io sono confusa, ma…» «Mai quanto me, divina.» «Non posso accettare. Mi fate troppo onore, il vostro invito…» «A cena, signora, è orrendamente materialistico, ma si deve pur mangiare… O vi nutrite solo di petali di rose e di palpiti di cigni morenti?» «Barone, ve ne prego, non posso. Davvero, non posso. Veramente, non posso…» Maria Catharina seguitò ancora a ripetere il suo «no» e il suo «non posso» durante la cena, durante i brindisi, al primo contatto trepido di mani, ai primi baci dietro l’orecchio, al primo bacio tenero, al primo bacio ardito con morso sensuale, alla prima esplorazione ardimentosa nella scollatura fiorita, al rovesciamento tra i cuscini del séparé – sia ben chiaro, solo dopo la terza cena e il quinto omaggio prezioso – e ancora singhiozzava i suoi «no!» alla lacerazione infuocata delle mutandine, «no!» all’espugnazione finale, «no!» alle reiterazioni fantasiose ed erotiche del giovane barone… Ancora adesso stremata, abbandonata al dolce sonno riparatore, si poteva leggere sulla boccuccia rosa il sussurro di un «no», sospirato nel sonno. Le prime rosaviolacee luci dell’alba schiarivano il cielo, quando la quiete dell’alcova fu rotta da un colpo fortissimo, che fece spalancare la porta. La faccia del principe di sangue tedesco, l’avente diritto, l’amante ufficiale della bella Catharina, apparve terribile agli occhi attoniti dei due amanti. Il barone Johann Heinrich Werdmüller von Elgg – cui il sangue blu permetteva di mantenere integra la dignità anche
nel momento in cui veniva scoperto in mutande a letto con la danseuse étoile – fece solo un piccolo cenno del capo. L’occhio iniettato di sangue del principe lo fissava fino a fulminarlo. E d’altra parte Maria Catharina, con un gorgheggio grazioso e un adeguato svenimento, si era tolta dall’imbarazzo. Il dialogo fu breve: «Quando e dove?». «Quando e dove vorrete.» «Anche subito?» «Anche subito.» «D’accordo. Vi aspetto dietro il cimitero dei Cappuccini, fra mezz’ora.» «Fra mezz’ora, dietro il cimitero dei Cappuccini» disse il barone Heinrich, che trovava chic rispondere con la reiterazione della domanda. E non sapeva, il barone, che, accettando la sfida, avrebbe messo in movimento il bizzarro ingranaggio del destino grazie al quale – e al volenteroso aiuto dei fratelli Lumière – io mi ritrovo adesso a raccontarvi questa antica storia. Il sole cominciava a far brillare, obliquo e rossastro, le austere vetrate gotiche di Zurigo e a incendiare della sua luce i grandi tetti a guglie coperti di neve, le massaie, mattiniere, cominciavano a uscire con le loro sporte, a ritirare il buon latte cremoso, e i mille camini della città a fumare, quando il principe di sangue tedesco e il barone Werdmüller incrociarono le spade, comme il faut nella corrispondente letteratura libertina. Dopo un breve e accanito duello, il barone Heinrich con un terribile fendente fece stramazzare il principe di sangue tedesco a terra, gli occhi sorpresi, incazzato e deluso d’essere morto in giovane età a causa di una ballerina di coscia allegra. Fu così che il barone Johann Heinrich Werdmüller von Elgg, avvertito da un amico fidato delle gravi conseguenze che sarebbero ricadute sul suo capo per aver fatto fuori il principe di sangue tedesco contro l’editto che vietava i duelli, si dovette affrettare a fare fagotto – nella fattispecie il fagotto
corrispondeva a quattro carrozze di effetti personali con otto servitori, armi e bagagli – e a lasciare nottetempo l’amata patria zurighese riparando al Sud, nel caotico stivale rigurgitante di stati e staterelli, foreste e ducati, regni e principati, chiese e giacobini, preti e briganti che, per varie ragioni di ordine storico e strutturale, ha sempre, nei secoli, offerto ampio rifugio ai fuggitivi, politici e non. Sei settimane dopo, impolverato, stanco, ma stupefatto di tante bellezze viste durante viaggio, il barone poteva contemplare, con i suoi occhi azzurri, l’azzurro del mare e l’azzurro del cielo di Napoli, dove per volontà di Dio, alla faccia dei sogni di Napoleone, regnavano i re Borbone, alla cui corte Heinrich aveva qualche amicizia… La corte di Napoli, con le sue dolcezze, fu l’humus perfetto per il trisavolo Heinrich. Nuove avventure, nuovi duelli… Ma tutto passa e si trasforma, la ruota del destino girò e il brillante trisavolo convolò a nozze. Pare con una tale Maddalena Ruffo Castelnuovo di nobilissima famiglia – così nobile che, a quanto sembra, risulta forse anche imparentata con Baldovino del Belgio per via di cognate e trisavoli. Non si può mai stare tranquilli. Ma dopo tanta nobiltà, giunse rapida la decadenza. Pur continuando a portarsi dietro l’assurda coda di tutti quegli appellativi: von Elgg Español von Brauchich, non si sa perché durante questo periodo napoletano la «d» si trasformò in «t», Werdmüller in Wertmüller. Per farla breve, la famiglia si imborghesì velocemente. Lo stile si deteriorò. Da un romanzo di cappa e spada di sapore libertino, si era passati a un realismo sociale di provincia del Sud. Uno dei figli maschi di Heinrich, il primogenito Federico, appassionato di scienze, laureatosi in farmacia, rilevò una bottega da farmacista in un piccolo paese al confine tra Puglia e Basilicata, nel più profondo e interno Mezzogiorno. Fu così che, alla morte del vecchio barone spadaccino, ogni alone romantico svanì e Federico, divenuto capo di casa, chiamò a sé la famiglia, strappandola alla gaia vita napoletana, e la chiuse
nella spagnolesca segregazione di un paesino, che rispondeva al nome di Palazzo San Gervasio. Il nome non tragga in inganno: Palazzo San Gervasio non è un palazzo ma un piccolo paese, situato appunto al confine tra le due regioni, Puglia e Basilicata. Oltretutto, in quegli anni lontani, nel pieno sviluppo della società industriale, il cinematografo stava muovendo i suoi primi passi. Nessuno, in quel piccolo mondo che è Palazzo San Gervasio, poteva mai sospettare che, parecchi decenni dopo, sarebbe arrivato il giorno in cui una regista con gli occhiali bianchi avrebbe girato il suo primo film proprio tra le case e le stradine di quel paese. Sta di fatto che, dolce e amaro, nobile e povero, bello e duro, non si sa perché quel Federico Wertmüller lo elesse a dimora della famiglia. Qualche storia tenuta segreta: matrimoni, guai… chi può saperlo? Le notizie, nel seguente scorcio di secolo, intorno a quel trasferimento sono incerte. Quel che è sicuro, tuttavia, è che durante un afoso giorno dell’ultima estate ottocentesca, il 29 agosto 1899, Felicetta Wertmüller, moglie di Enrico, figlio di Federico, figlio di Heinrich, mise al mondo mio papà. Addio barone Heinrich Werdmüller von Elgg. E grazie per aver scelto il sole dell’Italia.
Bella Sulamita
Sono nata a Roma, in una villetta rosa, dietro piazza Cola di Rienzo, a circa trecento metri dalla casa dove vivo tuttora. Mentre nascevo, nella camera volava insistentemente un moscone. Mio padre, Federico Wertmüller, nonostante fosse uno spirito laico, non portato alla parapsicologia, pensò che un oggetto di dubbia consistenza e di dubbia provenienza come l’anima di un defunto si fosse materializzato in quell’insetto, e che si trattasse di suo suocero, il cavalier Arcangelo Santamaria Maurizio, morto lo stesso mese, in attesa di trasmigrare nella nuova Arcangelina, cioè la sottoscritta, non appena fosse stata deposta nella culla con un dito in bocca e un ciuffetto di capelli arruffati. Io, pur essendo molto più laica di mio padre e portata ancora meno di lui alla parapsicologia, non lo escludo: quel mio nonno Arcangelo, purtroppo mai conosciuto, mi ha suscitato sempre una grande simpatia. A differenza di mio fratello Enrico, biondo con gli occhi azzurri, io ero una brunetta con gli occhi neri, e con quell’eccesso di vitalità che, a quanto mi riferiscono testimoni attendibili, spinse subito mia nonna paterna a dire di me: «Questa è speciale». Nel senso che ero una rompiscatole fin da piccolissima. Non stavo ferma un momento, scalciavo piangevo strillavo e, soprattutto la notte, non dormivo, un aspetto, quest’ultimo, che si è trasformato in una consuetudine per tutta la vita. Tenendo conto che io, per quasi tutti i miei ormai parecchi anni, ho dormito in media tre o al massimo quattro ore per notte, posso ritenere di aver vissuto quasi il doppio del tempo di una persona «normale». A chi, come si dice nella maleducatissima Roma, «non je po’ fregà de meno», consiglio di saltare i due seguenti episodi.
Puppù Siamo alla scuola Umberto I di Roma. I ritratti del re, della regina e del duce campeggiano impassibili sotto il crocefisso. Grandi tende all’imperiale e noi bambine col grembiulino bianco e il fiocco turchino. Io avrò avuto sei o sette anni e dovevo fare la puppù. Avevo alzato le mia manina e con una vocina imbarazzata chiesi alla maestra: «Signora maestra, posso uscire? Devo fare la puppù!». La maestra, con una voce spaventosa subito sparò: «No! Trattieniti! Non si può uscire. Sta per arrivare la signora vigilatrice. Non si esce. Nessun permesso e state buone, ferme e zitte sennò peggio per voi. Mi raccomando!». Io ero rimasta al mio posto, ma con la manina sempre alzata. Non sapevo chi fosse la «vigilatrice». Figuriamoci! A giudicare dalla violenza con la quale la maestra mi aveva sgridato, doveva trattarsi di una funzionaria del Fascio. Ma io dovevo proprio fare la puppù, e quando la maestra mi vietò di uscire, mi considerai vittima di un sopruso e di una grave ingiustizia. Tornai alla carica: «Ma io devo fare la puppù…». «Zitti! Fermi! Chi fiata va in castigo. In piedi! Un dueeee!» La maestra scattò nel saluto romano all’entrata della vigilatrice. Era una donna magra, indossava una specie di divisa, tipo ufficialessa, e aveva un’aria seria e autoritaria. Era tutta presa dall’importanza della sua funzione. Ma io dovevo fare la puppù, e la cosa era impellente, per cui mi dimenavo nel banco. La vigilatrice aveva preso posto alla cattedra con accanto la maestra in piedi, preoccupata solo di fare bella figura. «Vediamo un po’ queste figlie della Lupa.» Era così che si veniva inquadrati dal regime fin dalla più tenera età. Da piccolissimi: figli e figlie della Lupa. Da piccoli: Piccole italiane e Balilla. Quando si era più grandi:
giovani italiane e avanguardisti. Dopodiché si entrava nei ranghi degli adulti. Io mi dimenavo nel banco… «Chi è quella bambina cosi vivace?» «Wertmüller. Una birichina… Stai ferma!» Ferma? Io dovevo fare la puppù, la maestra me lo impediva e per di più pretendeva che stessi ferma. La cosa era beffarda, oltre che ingiusta e pericolosa. «Ma io…» Lessi negli occhi della maestra il terrore. La prevaricatrice, cattiva e severa, intuiva il mio argomento fisso della puppù. Con voce da serpente mi zittì. «Silenzio! Rispondi solo se sei interrogata…» E la vigilatrice, donna di potere e di disciplina, se ne uscì soavemente autoritaria: «Visto che sei così vivace, vieni qui… Così ti interrogo». La cosa assunse toni drammatici. Era già difficile resistere seduta, in piedi poi… Ma se il destino aveva deciso di accanirsi contro di me, io decisi di affrontarlo. Uscii dal banco stringendo come potevo le chiappette martoriate, con un dolorino…. in fondo, che non lasciava presagire niente di buono. «Sentiamo qualcosa, per esempio una bella poesia.» Io e le mie compagne ne conoscevamo una sola. Era una tra le prime che si studiavano. Me la ricordo ancora. Faceva pressappoco così: Lenta la neve fiocca fiocca fiocca Senti una zana dondola pian piano. Un bimbo piange il piccol dito in bocca Canta una vecchia, il mento sulla mano La vecchia canta: intorno al tuo lettino C’è rose e gigli, tutto un bel giardino.
Nel bel giardino il bimbo s’addormenta La neve fiocca lenta lenta lenta.
Io, la poesia, la sapevo, ma ero fuori di me e lampi gialli brillavano in fondo alle mie pupille. Che cosa aveva nella testa quella scema della maestra? Conosceva i miei problemi, e invece si era messa lì a suggerirmi, con la boccuccia protesa a cuore, preoccupata di non fare lei, la scema, brutta figura. «Lenta la neve… fio… fio…» Quel suggerimento fece scemare in me l’ultima remora. Di fronte a quella boccuccia, tirai su la faccia, guardai la vigilatrice negli occhi e dissi: «Devo fare la puppù!». Tirai giù le mutandine, mi accoccolai e, con una velocità degna di una pubblicità per confetti lassativi, depositai con grazia la mia bella puppù! Marrone, corposa e rivoluzionaria si acciambellò come un serpente sotto le mie chiappette che avevano riconquistato la libertà. Non potrò mai dimenticare le facce della maestra e della vigilatrice: si rivelarono qualcosa di fondamentale nella mia vita. Sopracciglia all’insù, bocche aperte – scandalizzate – per alcuni attimi veramente sublimi. Così stupefatte e offese erano tanto ridicole che avvampai dalla felicità! Felicità subito appoggiata dall’«oooooh» dell’intera classe alle mie spalle. Dopo provarono di tutto per farmi piangere. La maestra con la boccuccia a cuore stretta come il didietro di una gallina stitica. La bidella, che arrivò con la segatura e i giornali a pulire. La vigilatrice, che provava inutilmente a ricostruire il clima di terrore in una classe che, in realtà, continuava a sghignazzare di gusto. Perfino la mia mamma mi sgridò, benché, divertita dall’episodio, se la ridesse anche lei sotto i baffi. La mia vivacità, nonostante gli sforzi che faceva sempre per nasconderlo, le piaceva molto. Ma più di tutto mi divertii io nello scoprire il gusto di sbeffeggiare l’autorità. Sì, quella piccola, infantile puppù finì per sempre sulla mia bandiera! Occhio per occhio, dente per dente
Un’altra delle mie avventure infantili è quella detta «occhio per occhio, dente per dente». È bella questa arcaica dichiarazione di guerra e di vendetta, chissà se significava davvero che, se tu cavi un occhio io te ne cavo un altro, per fare conto pari. Insomma, in quegli anni io con la mia famiglia andavo in villeggiatura a Francavilla al Mare. L’estate è sensuale. La natura rotola come un animale in calore, grufolando sotto la sapiente e matura zampata del sole. Quale incantevole contenitore di umori era Francavilla al Mare, prima che la guerra la radesse al suolo. Viale Nettuno era aggraziato di pini, oleandri e villette liberty come la testina di una bella signora appena uscita dal parrucchiere: torrette, bifore, pinnacoli, terrazzini con archi, galletti di ferro in cima ai tetti, giardinetti adorni di fiori colorati, spampanati, dannunziani, rossi accesi, blu elettrici, lilla. Grandi, ombrosi capannoni, depositi di barche sotto la pineta, ai bordi della spiaggia. In fondo al viale c’era il mercatino del pesce, con le paranze a vele chiuse, tirate a secco. Era come un accampamento d’indiani. Su quelle vele, grandi soli neri e cromi, marroni, gialli e rossi arabescati, con greche, fregi e ornamenti antichi. Erano davvero altri tempi. Sulla spiaggia le donne ancora camminavano nel loro costume paesano, con i figli in braccio, scalze come zingare sotto le grandi gonne colorate e svolazzanti, stinte dal sole. Aiutavano i mariti pescatori, nodosi come gomene, con le facce tagliate dal vento, a tirare su le barche. «Ooooh! Ooooh! Jamm’nziem! Ooooh!» Fin da piccolissima, per me, Francavilla al Mare era il luogo favoloso delle vacanze. Ho ancora nella memoria le immagini di noi bambini che giochiamo sul piazzale della Sirena. Il cielo trascolorava e la luna usciva pallida, sottile e turca, sull’azzurro chiaro che, a mano a mano, si scuriva nel lilla, nel ciclamino, nel pervinca, via via sempre più scuro con mille sfumature, fino al blu. Gli uccelli volavano pazzi di
allegria come tutti noi bambini, che, con il nostro chiasso, davamo fastidio all’«Orchestra di dame». Indimenticabile l’«Orchestra di dame», vicino ai tavoli del caffè, con i paralumi che si ergevano deliziosamente curvi con le loro silhouette di bambù coperti da scialli di seta rosa. La violinista faceva da direttore. Batteva il piedino calzato da un sandaletto Chanel oro e argento, e le dame sul palchetto attaccavano aggraziate. Boccucce a cuore, sopracciglia disegnate con una fatale matita nera e nei incipriati. Suonavano appassionate, signorili e romantiche. Pianoforte, violino, sax e chitarra, si producevano in arpeggiate ed eleganti selezioni di operette. La mattina, al momento del risveglio, Marcel Proust non avrebbe avuto dubbi sul luogo dove si trovava. Il motore delle barche da pesca, il vocio leggero della spiaggia rotto dall’urlo del tellinaro, la luce fortissima filtrata dalle persiane, l’odore del caffè mescolato a quello del mare, significavano la vacanza, la festa e richiamavano il mare e la felicità pure le tracce di sabbia che, nonostante i bagni e le docce, noi bambini riuscivamo a portarci a letto. Il Circolo della Sirena era un luogo molto elegante dove si radunavano i villeggianti romani, napoletani e abruzzesi, a giocare, a prendere l’aperitivo e a dare feste da ballo che noi piccoli, trattenuti dalle nonne, sbirciavamo dal piazzale, ammirando i vestiti da sera di voile e di chiffon delle nostre mamme, che volteggiavano al suono di dolcissime melodie: Lover, Goodbye Summer, Stardust. Giochi, ricchi premi e cotillons. Quando passava il transatlantico Rex, gli ufficiali venivano invitati a un gran ballo in loro onore al Circolo, poi, fra tutti gli altri festeggiamenti dell’estate, c’era anche la Kermesse, la manifestazione che si svolgeva sempre sul piazzale della Sirena. Un’altra festa indimenticabile era quella della cosiddetta «Battaglia dei pomodori». Si partiva con una flottiglia di pattini, carichi di ceste di pomodori, e appena tutti erano in mare, a un segnale, si scatenava una terribile battaglia a suon di pomodorate. Naturalmente, si trattava di pomodori
molto maturi, così maturi che, alla fine, i combattenti tornavano alla spiaggia tutti rossi dalla testa ai piedi. Nel concorso detto dei «Castelli di sabbia», invece, il mio fratellino maggiore, Enrico, era bravissimo. Io, per fortuna, non ho mai sofferto di complessi di inferiorità, altrimenti con quel fratello, biondo, con gli occhi azzurri, con un fisico di un’eleganza british, artista fin da piccolo, e anche simpatico, bravissimo cavalleggero allievo di D’Inzeo, c’era da farsi venire il mal di fegato. Forse era il più artista di tutti noi, ma la vita, anche per mano di mio padre, tentò di incastrarlo, in qualità di primogenito della famiglia, nello studio dell’avvocato Wertmüller. Enrico, tuttavia, aveva molto humor e riuscì a conservare il suo talento straordinario per la pittura. Non preoccupatevi: questo lungo preambolo non mi ha fatto dimenticare la seconda delle mie avventure infantili, quella dell’«occhio per occhio, dente per dente». Un certo giorno, infatti, vidi Enrico, ancora piccolo, rientrare nel giardino della nostra villetta piangendo come una fontana. Io avrò avuto sì e no quattro anni, ma mi resi subito conto che si trattava di quel maledetto casco o copricapo. Mi spiego: la mamma, prima di partire per il mare, faceva le spese per il nostro guardaroba estivo e quell’anno aveva comprato, per il maschietto della famiglia, un copricapo o casco, che dir si voglia, da esploratore. Al posto di quei cappellini di cotone bianco che si mettevano ai bambini per ripararli dal sole, si era divertita all’idea di mettergli in testa quell’«ornamento» un po’ improbabile, a essere onesti. E difatti, appena Enrico aveva fatto la sua apparizione tra gli amichetti della spiaggia, quel copricapo si era rivelato un disastro e aveva sortito lazzi e sberleffi. Una tragedia per un ragazzino. Tra i tanti sberleffi e soprannomi coniati sul momento dai perfidi compagni di giochi, la spuntò «Tipo Tapo l’esploratore»… e tutti avevano cominciato a prenderlo in giro con quel misterioso soprannome. A me sembrava bello, mi sarebbe piaciuto essere Tipo Tapo l’esploratore. Ma Enrico, invece, l’aveva presa storta. Quel soprannome lo faceva impazzire di rabbia. Gli tremava il labbruzzo e gli salivano le
lacrime agli occhi. E più lui ci si arrabbiava, più gli amici lo deridevano. La cosa finì male. Si erano presi a botte e mio fratello aveva avuto la peggio. Ma cavarglielo di bocca non fu un’impresa facile per la mamma. Enrico, beato lui, era sulle sue ginocchia. «Enricuccio, che è tanto buono, dillo a mammà…» Io, dietro la poltrona, me ne stavo tesa, vibrante di pietà e di sdegno. Volevo un bene appassionato a quel mio fratellino con gli occhi azzurri. Nel vederlo piangere tanto, cominciai a sentirmi in bocca il sapore eccitante dell’antico contrappasso: occhio per occhio, dente per dente… Un sopruso a Enrico non lo potevo sopportare. Lui riuscì appena a balbettare tra le lacrime un nome, quello dell’amichetto, appena un po’ più grande, colpevole di aver dato inizio al coro di sfottò. In un baleno, mi sentivo già Robin Hood, l’Uomo mascherato, Gordon e la Piccola vedetta lombarda. Sgattaiolai in giardino, aprii il cancello e per la prima volta uscii da sola. Nel mio cuore c’era un’unica idea: la vendetta. Basta con le finzioni, tutti sanno che i bambini non sono bambini, ma grandi ancora piccoli, capaci di passioni terribili e di sentimenti violenti, degni di un samurai. Traballando sulle mie gambette, in preda a un’ira funesta, raggiunsi il piazzale della Sirena. Nessuno fece caso a me. La nostra villetta era lì vicinissima. Il piazzale era uno spazio sacro, luogo di incontri per tutti. Lì, in mezzo a quella spianata, che a me, piccolissima, sembrava enorme, mi guardai intorno. Vidi un gruppo di bambini che parlavano vicino alla ringhiera. Mi avvicinai e riconobbi subito l’amichetto più grandicello, il responsabile dell’affronto a mio fratello Enrico. Stava lì, seduto sulle sbarre metalliche della balaustra. Con i piedi appesi a ciondolare verso la spiaggia, parlava e rideva con gli altri. Il suo sederino era proteso all’indietro, verso il piazzale. Senza che nessuno mi avesse vista, ero arrivata furtiva alle loro spalle. Lui, il carognone, indossava un cappellino bianco alla marinara e un costumino a righe rosse e blu. L’odiato sederino era proprio all’altezza giusta. La mia ira mi dette una forza fantastica. Lo azzannai con una tale
violenza da penetrargli nella carne. I miei incisivi affondarono nella carne tenera. «Aiaiaiaiaia… Aiaiaiaiaia…» Sbraitava e gridava peggio di Amalia Rodrigues in un fado disperato. Sembrava un innamorato andaluso colpito da tradimento che, in concorrenza con lupi urlanti alla luna, ululi al vento il suo dolore gitano. «Aiaiaiaiaiaia…» gridava disperato. E la mia gioia di Robin Hood, Uomo mascherato, Gordon e di Piccola vedetta lombarda era a un apice altrettanto alto. «Aiaiaiaiaiaia…» «Che si fattu? Che è successo?» «Che è stato? Che è stato? Mammà, che è stato?» Il ragazzino, spinto dal dolore fortissimo, si era staccato dalla balaustra e saltellava con me «attaccata» dietro. Nella confusione di urla e strilli io non mollavo quella bella carne tenerella. I miei incisivi erano proprio penetrati dentro, incastrandosi nel morso implacabile del vendicatore. Ma lì per lì nessuno aveva realizzato che quell’esserino che saltellava dietro alla giovane vittima fosse la causa della tragedia. Dopo mi scoprirono. «Pe’ la maiella! È la citola! L’ha muccicato… la citola l’ha muccicato peggio ca nu cane… Lassa… lassa…» Ma io non mollavo. Confusione, strattoni, strilli, ma io non mollavo. Mandibola incastrata, incisivi laceranti, il tutto con una forza che non sospettavo di possedere. Se avessi tirato, avrei strappato via la carne, ogni movimento provocava urli di dolore lancinante. Tentarono di farmi aprire la bocca. «Pozz’ezz’accisa… E lassa!» Intorno a me tutti tiravano, scuotevano, ma io non mollavo. «Aiaiaiaiaiaia…» Il massimo sarebbe stato riuscire a staccare, con il morso che non perdona, quel pezzetto di sederino nemico e portarlo
in omaggio a Enrico. Ma uno schiaffone riuscì finalmente a farmi aprire la mandibola. Ricordo poi un gran numero di facce sorprese e incuriosite stipate dentro la farmacia, quella che c’era sul piazzale della Sirena e dove i ragazzi finivano sempre a curarsi le sbucciature. La madre della vittima, disperata, la mia che non sapeva come scusarsi, il ragazzo che, piangente, mi guardava con due occhi strani e spaventati. Gli misero due punti. Tutti mi fissavano stupefatti. Io ero orgogliosa e sprezzante! Poi arrivò mio fratello Enrico. L’omaggio era per lui, era lui che avevo vendicato! «Ma che sei andata a fare? Mi hai fatto fare la figura di quello che va a piangere da mamma e poi manda una piccola come te. Mi hai fatto fare la figura del cretino! Vattene via! E pure alla vigliacca, alle spalle! Va’ via, tanto si sa, le femmine…» Tornati a casa, mi lasciò sola, nel giardinetto, con i miei eroismi, le mie bandiere e i miei Robin Hood. In giardino avevamo una fontana rotonda di pietra rosa, con lo zampillo e i pesci rossi. Mi sedetti sul bordo e mi venne da piangere. Mi sentivo cretina. Il mondo era ingiusto e non mi andava più di giocare. Ma poi mi vidi con la faccia contratta riflessa nell’acqua. Ero così brutta e ridicola con quel broncio, che mi venne da ridere. Per un po’ rimasi lì, incerta tra il riso e il pianto, poi alzai le spalle e mi dedicai alla caccia di un pesce rosso. Dopo di allora, a casa, cominciai a essere famosa per le mie stranezze. Erano vere e proprie stupidaggini, ma passarono alla storia di famiglia. Come quella volta che, in un pomeriggio di mezz’estate, mentre tutti schiacciavano la pennichella, io, che avevo trovato un paio di forbici, mi misi davanti allo specchio e mi tagliai tutti i capelli. Ricordo ancora l’urlo di mamma quando mi vide: «Madonna! Sembri un carabiniere!». O quell’altra volta che riuscii a impossessarmi di una bottiglietta di acqua ossigenata e mi venne subito l’idea di
versarmela in testa. Mi vennero i capelli chiazzati biondi e qualcuno disse: «Ma guarda! Una pulcetta ossigenata!». E questo «Pulcetta ossigenata» mi restò attaccato per un bel po’ come soprannome. Tra Bonaventura e Topolino Piazza Adriana fu il magnifico giardino della mia infanzia perché noi, famiglia Wertmüller, vivevamo lì accanto, in via Crescenzio 42, 2˚ piano, interno 3, e nello stesso appartamento c’era lo studio legale di papà. Via Crescenzio era una bella strada umbertina, «pratarola», tra il Palazzo di Giustizia e il Vaticano, i cui edifici erano stati in parte costruiti dal cavalier Arcangelo Santamaria Maurizio, mio nonno. Non era un appartamento di proprietà. Dopo la scomparsa del nonno, la catastrofe finanziaria aveva trasformato la famiglia Wertmüller da proprietaria in affittuaria. Infatti, la padrona del palazzo era la marchesa Pallavicini. Di lei mi rimangono solo vaghe visioni. Cappellini, ombrellini, velette viola e mauve. Una signora che passa, lontana lungo una strada, e qualcuno, forse la mamma, che me la indica. Al piano di sopra di quel palazzo c’erano Nilla e Chicco Mantovani, due bambini con i quali io e mio fratello Enrico facemmo subito amicizia. Nilla diventò la mia amica del cuore. La prima. Nella casa di Nilla e Chicco c’era un’ampia terrazza, dove giocavamo agli indiani e ai gangster e, qualche volta, anche alle «signore», per quanto né Nilla né io fossimo troppo portate a gentili fantasie femminili. Eravamo due maschiacci. Nilla, simpatica, bella, con due grandi occhi verdi, era agilissima quando ci si pigliava a botte. M’insegnò gli infidi, dolorosissimi, calci agli stinchi. Chicco non era meno feroce. Gli mancavano i due denti davanti e da quella finestrella vomitava sghignazzi e minacce. Con loro scoprimmo il mondo dei cartoon. Il signor Bonaventura, eroe dei fumetti di Sergio Tofano. Bizzarro ed elegante: pantaloni larghi, fracchettello azzeccato, bombetta schiacciata e bassotto lunghissimo.
«Qui comincia l’avventura del signor Bonaventura…» Tofano, con la moglie Rosetta, eseguiva disegni d’un gusto raffinato, déco. Le avventure sulle pagine del «Corriere dei Piccoli» finivano immancabilmente col provvidenziale arrivo di un bel bigliettone da un milione, ma in realtà il povero Bonaventura era un vero e proprio passaguai, e questi guai, essendo lui un simpatico ed elegante cretino, privo d’intraprendenza e di furberie, doveva risolverglieli la fortuna. L’elegante pessimismo di Tofano non poteva certo far immaginare un eroe positivo… Per questo motivo, forse, non era lui il mio preferito, e neppure i simpaticissimi newyorchesi Arcibaldo e Petronilla. L’amico mio era Topolino. La sua Minnie aveva un caratteraccio permaloso, indipendente e conformista ma, al momento dell’azione, era pronta a correre tutti i rischi al suo fianco e preparargli poi, come premio, torte fumanti e appetitose che metteva a raffreddare sul davanzale di simpatiche finestre scorrevoli. A volte andavo in cucina da mia nonna e, mostrando il fumetto, le chiedevo di dare la forma di quelle torte al gâteau di patate o al sartù di riso. «Che sciocchezze! Quei giornaletti vi riempiono la testa di americanate!» Nonna Angelina aveva ragione! Io sognavo una casetta col giardinetto come quella di Topolino, in una grande città fatta di villette con i viali alberati, cassette della posta, staccionate da dipingere di bianco la domenica mattina dopo aver tagliato il prato con una paffuta falciatrice rossa. La radio da cui ascoltavano le notizie, Topolino nella sua villetta e Minnie nella sua – mi colpiva l’indipendenza di Minnie che viveva da sola – era una bellissima scatola a tre bottoni dalla quale la musica usciva disegnando note nell’aria, su un accenno di pentagramma, di solito sotto una bella lampada con la catenella per l’accensione. Topolino portava pantaloncini corti, infantili; Minnie sfoggiava una gonna godè a pois, il cappellino con il fiocco a forma di margherita, e soprattutto enormi scarpe col tacco,
nelle quali i suoi piedini navigavano sciabordando proprio come i miei quando, di nascosto, davanti allo specchio, m’infilavo le scarpe della mamma col tacchetto alto. Fu in quelle immagini che vedemmo per la prima volta i bluejeans e li portava Pippo! L’amico cretino e svanito che con Orazio e Clarabella completava il gruppo. L’unica cosa che non mi andava giù era Pluto. Continuavo a rompere le scatole alla mamma e a Enrico, mio fratello: «Perché Pluto è un cane e fa il cane, mentre Pippo, che è pure un cane, fa l’uomo?». «Uffa, non rompere le scatole con queste domande sceme.» E mi cacciavano. Ma il perché non lo sapevano neanche loro. E quel bel cattivone di Pietro Gambadilegno? Pirata, ubriacone, vigliacco, feroce, bieco e stupido, sleale e lussurioso. Per tutti quegli anni e per centinaia di avventure, Gambadilegno ha sempre cercato di sedurre, sposare, circuire e conquistare Minnie. Un vero, grande amore. Minnie, per salvare Topolino, si lasciava rapire, baciare, magari prometteva la sua mano a quel cattivone per poi ingannarlo, speculando sull’ingordigia sentimentalona del vecchio brigante. Ma chi mi faceva scalpitare, ansiosa, verso il chiosco dei giornali, bottega delle meraviglie, era Gordon. Alex Raymond, fantasioso creatore di mondi, autore, scenografo, costumista, fantastico regista, aveva proiettato in una precoce guerra di mondi un terzetto di americani. Forse sbaglio. Non erano tutti e tre americani i terrestri? Non ricordo. Ecco, ho mollato il computer e sono andata a controllare. Ho ancora gli originali rilegati in album, Casa Editrice Nerbini, Firenze. Il razzo celeste del dottor Zarro «Edizione straordinaria. La fine del mondo! Uno strano pianeta precipita verso la terra. Solo un miracolo può salvarci.» In Africa il tam tam risuona incessantemente! In Arabia si prega Allah che salvi il mondo dal disastro! A New York la
popolazione, in preda al panico, segue con orrore i bollettini. Uno scienziato, il dottor Zarro, lavora giorno e notte a perfezionare il mezzo di salvezza. A bordo d’un velivolo transoceanico, viaggiano un ufficiale di polizia, Gordon Flash, e una passeggera, Dale Arden. L’aereo cade, Gordon e Dale precipitano nel laboratorio di Zarro. Che li costringe, armi alla mano, a salire sul suo razzo e tutti e tre partono verso il pianeta che minaccia la terra… Così comincia l’avventura di Gordon, Dale e Zarro nel pianeta Mongo. Roba da leccarsi i baffi. L’imperatore Ming, che regnava sul pianeta Mongo, era un bellissimo cinese con baffetti di un metro e mezzo, costumi superlussuosi e una figlia stupenda, Aura, gialla come un limone, ballerina e viziosa, un po’ puttana e parecchio somigliante alla figlia di un magnate d’industria americano. La mia cotta fu furibonda e ancora, in realtà, non mi è passata. Regni fantastici, tornei da far impallidire d’invidia gli spettacoloni delle antiche arene romane ai tempi dell’Impero. Regni sostenuti da colonne di luci, con popolazioni bellissime e alate, harem con stupende ragazze di tutti i colori. Regine maghe e cattive, capaci di rendersi invisibili. Gnomi e Ondine, giganti e uomini-leone, foreste e mari. Mescolanza di tecnologia fantascientifica con miti e avventure di sempre. La passione non era tanto per lui, Gordon. Confesso, non ho mai amato il genere attor giovane, bello, romantico e atletico. Sono sempre stata per l’ironia. Tra uno bello e uno simpatico, preferisco immancabilmente il secondo. Quello che mi affascinava di «Gordon» era il mondo proposto. Esagerato, fuori dalla realtà. Le uniche presenze borghesi erano proprio quelle di Gordon, Dale e dello scienziato Zarro. Buoni e bravi, moralisti e sentimentali. Invece Vultano, re degli uomini-falco era quel che si direbbe oggi un «assatanato di femmine». Come dargli torto, guardando il suo incredibile harem pieno di meravigliose ragazze di tutti i colori, dal bianco latte al cioccolatino, passando per un simpatico cappuccino? Poi Aura la principessa, Uraza la regina cattiva, Barin il principe… tanti e tanti eroi che mi conquistarono. E non conquistarono solo
me, ma tutta la mia generazione. Erano i preferiti, fra gli altri eroi de «L’avventuroso»: l’Uomo mascherato, Mandrake e Lothar, Cino e Franco. Il giorno in cui usciva il giornalino era un giorno di festa. Si comprava, ancora odoroso di stampa. Tra me ed Enrico cominciava subito la lotta per strapparcelo e leggere la prima puntata. Ero la più piccola e vinceva lui, ma io, applicando il principio «se non puoi fare altro perlomeno rompi le scatole», lo tormentavo mentre leggeva. Mio fratello, biondo, gentile, bravo a scuola, artista precocissimo, era certamente il grande favorito di famiglia. Dolce ma anche figlio di puttana, salvando mamma che è sempre stata una santa donna. Quando gli si diceva: «Da’ il bacetto alla signora», lui, subito carino, senza farsi pregare, sporgeva le labbra e dava un bacio di muso, battendo col naso sulla guancia incipriata dell’amica di mamma capitata in casa per una visita. I suoi grandi occhi azzurri, appena malinconici per via di un’affascinante miopia, intenerivano plotoni di amiche di famiglia. Era primogenito e maschio. Ovviamente anche nonna e mamma subivano il suo fascino. Infatti, in casa, ricorreva una canzoncina che veniva ripetuta dalla nonna ogni volta che ne combinavo una delle mie: A Enricuccio che è tanto buono tutti i popò, tutti i popò. A Linuccia che è tanto cattiva niente popò, niente popò.
Per «popò», nel lessico familiare, s’intendevano giocattoli, dolci e regali. Grazie al cielo, io non ho mai sofferto di complessi. Ero più piccola e riconoscevo d’essere realmente «inferiore». Considero una fortuna il mio buon carattere. Totalmente estroversa, aperta a guardare gli altri, che trovavo quasi sempre interessanti, ridicoli e intriganti. La mia vita è sempre stata piena di avventure misteriose e affascinanti: non avevo tempo da perdere per occuparmi di me. Dopotutto, in
compagnia di me stessa, ci stavo tutto il giorno. Erano gli altri il giardino da scoprire. Allora, a piazza Adriana, abitava anche Filippo Tommaso Marinetti, il padre del futurismo. Ne avevo sentito parlare da papà in casa. Per lui, come per molti borghesi, il futurismo era oggetto di scherno. Si rideva di quegli spettacoli avanguardistici e provocatori. Io e mio fratello Enrico diventammo subito amici delle figlie di Marinetti. Erano tre bambine bellissime e dai nomi insoliti e affascinanti: Ala, Vittoria e Luce. Intravidi una volta il loro padre sulla porta di un grande studio. Ci venne a guardare sorridente: eravamo una nidiata chiassosa. Ero piccolissima e forse per la prima volta sfioravo la casa di un artista. Lui mi fece un certo effetto, tant’è vero che la notte, a letto, ripensavo a quel signore elegante con i baffetti e il monocolo. Un’altra cosa mi aveva colpito: un quadro del salotto, che rappresentava una tromba delle scale, come se il pittore si fosse sporto da sopra a guardare giù, fino all’ingresso. «Entrez, Mademoiselle…» Dunque, le scuole. Senza precisare il numero, sono stata cacciata da un sacco di istituti. Le ragioni sono molteplici ma non mi pare il caso di star lì a elencare tutte le mie varie mascalzonate che hanno illuminato quel noioso periodo, basti dire che ero un’alunna pestifera. Le ragioni, poi, si rivelavano spesso abbastanza squallidine. Niente di eroico come nelle memorie del mio amico Gian Burrasca. Per fare un esempio del basso livello: io ereditavo i libri di scuola da mio fratello, ovviamente pieni di disegni osceni, ben fatti perché mio fratello era molto bravo a disegnare. Le malpensanti monache «cap’ e ’pezz» attribuirono tutte quelle oscenità da caserma alla sottoscritta, ignara e incolpevole. Ai loro occhi, dovevo apparire una specie di sporcacciona che diffondeva schifezze. Inutile cercare di spiegare. Non c’è peggior sordo… Alla fine, proclamai a gran voce di aver disegnato io tutte quelle porcherie e buonanotte. Un giorno (ero già stata spostata in un’altra scuola…), con la dolce lingua francese usata in maniera bassa e minacciosa,
la superiora mi invitò a entrare nel suo studio. C’era qualcosa, nel luogo e nella scena, che mi irritava profondamente. Avanzai sulle mie gambette. Potevo avere una decina di anni. Non ero più la graziosa Cerasella. Assomigliavo a Jean Gabin quando lo fotografavano male. Solo che io ero molto più bruttina. Il corpo era bombolotto, tracagnotto, informe e forte. Il nasone alla Erich von Stroheim era piazzato pesantemente in mezzo a una faccetta piccola. Gli occhi grandi e miopi erano sempre strizzati per mancanza di occhiali, insomma un macello. «Venez, Mademoiselle Wertmüller…» Era una specie di principessa, bella, angelica, perfida, gelida di santità e di snobismo francese. La bellezza delle monache scatena la fantasia e fa immaginare storie di amori infelici, passioni mistiche struggenti, rinunce drammatiche, giovani fidanzati morti. Erotismo delle vergini misteriose di Cristo tra i tenebrosi, abbondanti veli. Lei era lì, seduta dietro la scrivania. Un raggio di luce penetrava da una finestra con le persiane semichiuse, giusto a disegnare nell’ombra il purissimo profilo. Estrema sapienza o casualità nell’uso di quella luce? Chissà. Forse anche la mia miopia esaltava il potere terroristico di quell’immagine. Allarmante bellezza tagliata dalla linea nera e dritta del velo, contro il pulviscolo luminoso. Lina-Jean Gabin, il terrore della terza B, era miopissima. E le immagini sfocate tendono subito a sublimarsi. Certo, io mi sentii tremare le gambe. Lentamente lei mi guardò, con due occhi pieni di dolore. Occhi azzurri, celeste-chiaro, ciel de Paris, anche la pelle era chiara, d’alabastro, trasparente come di porcellana. Come mai me la ricordo così bene? Accidenti. È stato il primo vero processo che ho subìto. E che il grande inquisitore fosse così affascinante non toglieva niente al tetro, terroristico copione. Lei era la superiora. Fra le collegiali si favoleggiava che fosse aristocratica. Poverina, chissà come era finita a compiere quella scelta mistica. Scelta
dura, impegnativa. Orgoglio che prende i panni della modestia. O forse mi sbaglio ed era autentica, felice, piena espressione di vita. Non so. A me, però, non ha mai dato un’impressione positiva. Io ero entrata in quella scuola, il collegio Maria Ausiliatrice, dopo essere stata cacciata, per l’ennesima volta, da un altro istituto, precisamente dal liceo ginnasio Dante Alighieri, ed ero stata chiusa a semiconvitto. La nuova scuola, peraltro, era molto signorile. Venivano a prenderci con l’autobus la mattina alle otto, e ci riportavano a casa alle sei. La mia amichetta di casa, Nilla Mantovani, frequentava quel collegio e ciò convinse mia madre a mandarmici. Anche se non eravamo in classe insieme, la presenza di Nilla, amatissima compagna di avventure e battaglie, mi rendeva il Maria Ausiliatrice un allettante territorio di caccia. Mi ci trovai bene, nonostante la lingua ufficiale fosse il francese e le classi, composte da non più di sette, otto allieve, fossero sorvegliate con una cura insopportabile. C’era anche una compagnuccia, con un visino molto carino e un’aria vagamente cino-giapponese. Per cognome faceva Capucci. Solo anni dopo diventai amica di suo fratello Roberto, il geniale costruttore di moda, che ha illuminato tutto il settore col suo talento da architetto del bello. Ma torniamo in collegio. Lei, la superiora, si chiamava, non so, Marie Brizard o Marie Thérèse de Lisieux, insomma Marie qualcosa, e insegnava religione. Il giorno prima del processo, avevo avuto una polemica con lei. Testarda e arrabbiata mi ero opposta, nel bel mezzo di una lezione, al concetto di libero arbitrio con un discorsone che recitava pressappoco così: «Se Dio, oltre che onnipresente e onnipotente, è onniscente, quindi sa tutto, prima ancora di crearci sapeva come saremmo andati a finire e cioè, magari, all’inferno… Be’, secondo me, basta il dolore anche di una sola anima finita nell’inferno a non ripagare tutta la gioia perfetta dei beati del Paradiso… Se Dio non avesse creato il mondo… voglio dire se non ci avesse messo nessuno, nessuno avrebbe sofferto. Perché ha creato l’uomo? Per cantare le sue lodi? E allora perché non farli tutti buoni e bravi
gli uomini? Quale libero arbitrio Dio lascia all’uomo se lui, onnisciente, sa fin da prima come va a finire? Nonostante tutte le meraviglie del mondo, con l’uomo si è comportato perlomeno da leggerone». La cosa, naturalmente, era stata considerata sacrilega. Nell’ambito della lezione di religione, la Mère aveva anche cercato di rispondere, di inquadrarmi. Così ignorante e ostinata com’ero, dovevo sembrare parecchio volgare a quell’aristocratica signora dai molti veli. Quanto alla mia domanda, è ancora rimasta senza risposta. In principio, l’avventura del collegio mi aveva divertito, per vari motivi. Anzitutto l’autobus, poi il secondo piatto che ci portavamo da casa nel canestrino, come si faceva all’asilo. Perché le Mères concedevano solo il primo piatto. Io odiavo la minestrina e l’odore di quella delle monache che riempiva tutto lo scalone quando salivamo al refettorio. Per fortuna, nel mio bel canestrino, dentro il gran thermos inglese, i cuori straziati di mamma Mariuccia e di nonna Angelina mi mettevano le leccornie più prelibate che piacevano a me: cotolette alla milanese col purè e funghi al sughetto, pizzaiole con spinaci e carciofi fritti, e in un altro thermos mi ci infilavano pure il dolce. A volte ce ne trovavo perfino due, come se la mamma e la nonna ci mettessero ciascuna il proprio, l’una all’insaputa dell’altra. A poco a poco, però, quel gioco mi venne a noia e cominciai a scoprirne i lati negativi. Si trattava pur sempre di un collegio, anche se tornavo a casa alle sei. E poi, persino durante l’ora di ricreazione, nel bel giardino pieno di mimose, si doveva parlare solo in francese e il mio faceva proprio ridere i polli. Inoltre, ero in polemica per l’eccesso di disciplina. E, come non bastasse, mi trovavo poco anche con le compagne. In realtà, ero io una peste. Tuttavia, nella mia vivacità non c’era niente di morboso e la cosa non piaceva, non legava molto con l’atmosfera generale, perché lì, nel collegio, le allieve, soprattutto le più grandi, vivevano già in un mondo segreto, pieno di racconti e di
avventure, basate su una cosa ancora estranea a un «ragazzaccio» come me: l’amore. Non c’era posto per le sdolcinatezze nel mio mondo scugnizzo ed ero indifferente ai loro racconti. Una delle «grandi», per esempio, si vedeva attraverso non so quale cancello con un accademista della Farnesina… E questo era considerato molto peccaminoso. Bisogna ricordare che la scuola della Farnesina, a quel tempo, era considerata la fucina della gioventù fascista. Preparava i ginnasti, e gli accademisti erano tutti alti e bellissimi. Quindi eccitavano i sogni delle ragazze. Un poco incuriosita, di quando in quando occhieggiavo in quei segreti e inaccessibili mondi femminili. Ma c’era tanto da giocare, da correre, da vivere avventure là fuori, che non riuscivo a capire perché le ragazze si interessassero a quelle stupidaggini sdolcinate. Chiaramente, si trattava solo di un problema d’età. «Entrez, Mademoiselle.» Ero chiamata a rispondere di un grave delitto. La principessa-inquisitrice me lo sussurrò non appena mi sedetti, e con uno sguardo che penetrò gelido nella mia testa. Due pezzetti di cielo «alla Magritte» taglienti come lame Gillette. «Siamo al sachrilesssgggiò… Vous Mademoiselle, vous vous rendez compte?» Sachrilesssgggiò? Aveva una «g» scivolata e dolce alla francese. Suono molto più adatto a un can-can, a storie parigine e piccanti con calze nere e busti pieni di trine, piuttosto che all’Inquisizione. Avevo introdotto in collegio e fatto commercio di un libro che avevo rubato dalla biblioteca di mio zio Corrado, attratta da una fascetta con la scritta PROCESSATO PER OLTRAGGIO AL PUDORE . S’intitolava Quelle signore. Io non l’avevo neanche letto… Il mio interesse non era per la vita delle povere malafemmine. A spingermi alla vendita era stato il bisogno di denaro per comprarmi tre Bella Sulamita che avrei poi scambiato con un Feroce Saladino.
Già, si trattava dell’album Perugina-Buitoni con le omonime figurine. Non so se avete mai sentito parlare della mania collettiva che si scatenò in Italia con le figurine Perugina. Impazzirono tutti. Angelo Nizza e Riccardo Morbelli avevano scritto negli anni Trenta una parodia divertente dei Tre moschettieri intitolata I quattro moschettieri. Era stata trasmessa alla radio, poi, visto il grande successo, se ne era fatto un libro, un album di figurine e infine era diventato una mania nazionale. Le figurine erano bellissime, disegnate da Angelo Bioletto con personaggi indimenticabili. Pirati, divi hollywoodiani, gangster e abati Faria… di tutto. Piacquero pazzamente e divennero occasione di maniacale collezionismo, una fissazione di tutti, un vizio comune. Così la notte, a casa, come un topo d’albergo, scivolavo nelle tenebre per sottrarre libri proibiti alla biblioteca di mio zio. Mi serviva denaro, per cui commerciavo libri cochons. Li avrei venduti a caro prezzo alle «interne» del collegio per comprarmi le adorate figurine Perugina. Il vizio è vizio, cara Marie, ci vuole pazienza.
Scetateve guagliun’ e malavita
«Dandaradadadadanda, darararà… darada’n… darada’n… darada’n… Zum… Parapapapapa… Zum, paraparappappappà… Scetateve guagliùuuun ’e malavita…» La voce di mio padre veniva dal bagno. Non aveva ancora finito di farsi la barba. Papà aveva la «toilette lunga». E la cosa era un problema perché, naturalmente, come in tutte le case della media borghesia, oltre quello della domestica, il bagno per la famiglia era uno solo, anche se le persone che ne usufruivano, come nel nostro caso, erano cinque. L’avvocato Federico, in effetti, faceva parte di quei meridionali abituati alla «toilette lunga». Si alzava coraggiosamente all’alba, verso le cinque e mezzo, proprio per avere il diritto di chiudersi nel bagno con comodo e di eseguire la lunga e complessa cerimonia dei lavacri mattutini, aiutato e assistito dalla sua bella voce tenorile, che fungeva per tutti noi da chicchirichì. Molte, molte mattine nella mia infanzia, fui svegliata da quel «Dandaradadadadanda, darararà… darada’n… darada’n… darada’n… Zum… Prapapapapapa… Zum paraparappa ppa paà…» di Scetateve guagliun’ e malavita!, la famosa canzone napoletana. Nonna Angelina, invece, non aveva certo bisogno di quella sveglia. Era la prima ad alzarsi. Lei non derogava mai dai suoi riti. Si svegliava, si buttava giù dal letto, diceva la sua preghierina ed era l’unica che riuscisse a infilarsi nel bagno prima di mio padre e a non essere bloccata dalla «toilette lunga». Ero sempre affascinata dal contro spogliarello di mia nonna, che era fatto di tutte le antiche camicie del suo corredo. Non le ho mai visto indossare altro. Erano bellissime camicie. Quelle da notte, ricamate da lei stessa, sul balconcino ad
Ariano Irpino, con le maniche lunghe e con le trine, o con le maniche corte per l’estate, di cotone, di lino, di percalle o di pelle d’uovo, con graziosissimi ricami, e «Angiolina» scritto sul petto con tutti gli svolazzi. A quei tempi dormivo con lei. Era magnifica e io ero piena di odio-amore. Intanto perché somigliava moltissimo a un capopellerossa. Aveva una settantina d’anni e avrebbe potuto benissimo interpretare la parte di Alce di Luna, capo dei Sioux. Io ed Enrico la chiamavamo Toro Seduto, Cavallo Pazzo e anche Piedi Neri. Ne eravamo orgogliosi. Era una donna straordinaria. Credo di dovere a mia nonna, alla vicinanza del suo grande inflessibile cuore, alla dignità, alla chiarezza limpidissima della sua scala di valori se oggi posso immaginare cosa deve essere stato l’Ottocento: baffuto, borghese, terrorizzante. Un aspetto particolare del suo carattere che ricordo con particolare affetto era la metodicità con la quale trascorreva la giornata. L’organizzazione di cui era capo assoluto. La sua autorità era totale, la sua grazia severa, le sue coccole sempre molto misurate, tanto che bisognava… meritarsele. Pur avendo un cuore pieno e straziato d’amore per noi, la regola era «mazza e panelle fanno ’e figlie belle». Anche se non ci ha mai dato uno schiaffo in tutta la vita. Il suo era il ruolo d’educatrice e basta. Ricevere un buffetto, un bacino da lei, starle sulle ginocchia per essere consolati, costituiva un grande privilegio. Anche perché, seduta, ci stava pochissimo. La mattina, dopo aver provveduto, con la domestica, alla colazione, dopo averci lavati, puliti e stirati, ci faceva accompagnare da lei a scuola. Nonna Angelina si occupava della casa, controllava il lavoro di Antonietta, una bella moretta ricciolona alta uno e quaranta, con aspirazione ad altri e più allegri lavori – se non ricordo male, la poverina dovette assecondare le avance di mio padre e poi perfino di mio fratello… –, e di Genoveffa che veniva anche lei ad aiutare in casa, per un paio d’ore, ma nel pomeriggio. Eppure ricordo che lavoravano a tempo pieno
anche lei e la mamma. Solo dopo la colazione di mezzogiorno, donna Angelina faceva una siesta di due ore sulla poltrona. Poi, il pomeriggio cominciava il lavoro di cucito. Si rammendavano calze e si aggiustavano le lenzuola. Attorno a questa occupazione, si manifestava il grande punto di contrasto delle sue idee rispetto a quelle della mamma. Perché mamma lavorava moltissimo, era capace di fare miracoli, ma solo nelle imprese impossibili, il ripetitivo monotono tran tran la metteva in crisi. Un po’ come me. Insomma, io e lei eravamo per gli sforzi titanici, per lo stralavoro, per le grandi battaglie seguite, però, poi, dal riposo e dal divertimento. Mamma cucinava divinamente e inoltre, per anni e anni, si è divertita a fare i vestiti a Enrico, a me e anche per sé, con grazia ed eleganza. Ma la metodicità di quell’ordine militare ottocentesco, il «tutto completo» del tempo della nonna erano inaccettabili per la mamma. Posto per il divertimento non ce n’era nell’arco della giornata per l’austera Angelina, mentre Mariuccia, mammarella mia giovane, quando il lavoro era finito, voleva vivere, uscire, andare dalle amiche, giocare, possibilmente a poker, ma di questo parleremo più tardi. Tutto il divertimento della nonna si riduceva alla lettura del giornale dopo cena, e ad accompagnarci al cinema la domenica pomeriggio. Ma ecco, appunto, il chicchirichì, il risveglio brusco delle mie mattine di infanzia: «Scetateve guagliùuun’ e malavita!». Papà, chiuso in bagno, cantava come al solito. La nonna si infilava le sue mille sottovesti sopra il busto. Io, nel calduccio del letto, aspettavo paziente il mio turno… quando un temperino doloroso si fece sentire in modo acuto nella mia pancetta. Avevo nove anni. «Benissimo!» pensai «ho mal di pancia, non vado a scuola…» e poi forte: «Nonna… mi fa male la pancia…». «Ah sì? Chissà che ti sei mangiata… Fa’ vede’ la lingua… Mmm… non mi pare bianca. Guardami negli occhi, non sarà una bugia eh?»
«No, ce l’ho davvero…» Ero abbastanza orgogliosa d’avere mal di pancia sul serio. Ma la nonna non mi credeva. «Eh, tu, figlia mia, andiamo… non facciamo capricci, giù dal letto, che papà, lo senti, ha finito.» Infatti, dal bagno arrivava il finale dell’ultima cantata, «eeeee malavita… paparapararàa, zum…», che corrispondeva alla fine della toilette e alla liberazione del bagno. Io mi alzai. Con grande disappunto, dovetti ammettere che quel mal di pancia era scomparso. Dissolto come la nebbia al sole. Neanche un dolorino. Ciò nonostante, c’era stato davvero. «Guarda nonnì che adesso è un po’ meno… però il mal di pancia io ce l’avevo fortissimo prima. Sì, proprio forte. Te lo giuro: sugli occhi tuoi.» «Eh… pe’ l’ammore ’e la Maronna, giura! Ma te pare a giurà, non si giura. Ma che me vuo’ fa’ diventa’ cieca? Io già porto gli occhiali… Andiamo, niente giuramenti, su, a lavarsi, che fai tardi.» «Ma era un dolore forte… insomma io… guarda che era forte, e a scuola non ci devo andare. Sto male.» «A lavarsi, a lavarsi…» E mi trascinò nel bagno. Il bagno aveva una paretona di vetro, fredda gelata, una sofferenza quel gelo, per anni e anni. Non l’ho mai dimenticata. Mi fece lavare. Mamma, avvertita della cosa, mi chiamò. Era a letto perché aspettava il suo turno, che veniva dopo che io ed Enrico eravamo usciti per andare a scuola. «Linù, che c’hai? Vieni qua… ’sto mal di pancia è vero o non è vero? Di’ la verità a mamma.» Già cominciavo a innervosirmi, anche perché ero seccatissima di sentirmi bene.
«Uffa! Senti mamma, mi ha fatto malissimo. Ma non importa. Se non mi credete mandatemi a scuola. Così, se poi muoio, peggio per voi.» Nonna mi venne a strappare dal lettone materno. «Ma senti questa ragazzina… Ha parlato ’st’angioletto. Sei un diavolo che Dio solo lo sa, e adesso ti metti a fa’ l’incompresa? Andiamo!» Fortuna volle che, inaspettatamente, una lama di temperino, di nuovo e inequivocabilmente, mi si conficcasse nella panciotta. «Ahi… Ahi…» E inoltre sudori, giramenti di testa. Fu un trionfo. «Visto? Non mi credevate…» E giù a vomitare con dei rumori strazianti per dilaniare meglio di rimorso i cuori tenerissimi della mamma e della nonna. «Sto male…» Per colmo di fortuna, avevo anche quaranta di febbre. Effettivamente, mi sentivo malissimo, ma la cosa principale, per me, era che loro avessero fatto una figuraccia. «Non mi credevate, adesso voglio andarci a scuola, così muoio e non se ne parla più…» Mamma e nonna erano disperate, perfino papà evitò di andare al lavoro, al tribunale, per correre invece a chiamare il dottore. Enrico, che stava per essere accompagnato a scuola, mi salutò con la cartella sotto il braccio e uno sguardo carico d’invidia e io rimasi lì, trionfante, malatissima, con un bel febbrone da cavallo, soddisfatta e coccolata. Qualcuno, non mi ricordo chi, disse: «Ci vorrebbe una bella purghetta». Fortunatamente, mamma decise di no: «Aspettiamo il dottore. Non si sa mai». Gli bastò mettermi le mani sulla pancia. Era il dottore di famiglia vecchio vecchio, di quelli dell’Ottocento, praticone, e
che di solito risolveva con l’olio di ricino tre quarti di tutti i mali. Nel mio caso, però, corse subito al telefono. Quella corsa, di un uomo così in età, fece nascere in me, ma solo per un attimo, un’ombra di paura vera. Tesi le orecchie. Sussurrava parole che non riuscivo a capire, parole che finivano in «ento» o «ente». Poi tornò in camera e si mise a parlare fitto fitto con i miei genitori. Cominciai a spaventarmi sul serio. Accanto alla paura, però, c’era anche la soddisfazione di ritrovarsi al centro dell’attenzione generale. Di avere prove così vistose d’amore. Tutti erano pallidi, tremanti. Tutti agitatissimi. La cosa era grossa. «Mamma, ma che è successo? Che c’ho?» Mamma era pallida pallida: «Niente tesoro… Adesso andiamo all’ospedale…». In quello stesso momento, mentre la cosa prendeva aspetti tanto drammatici, suonarono alla porta e… meraviglia! Arrivarono gli infermieri, proprio in divisa da infermieri, come al cinematografo, con una barella come quella delle guerre. Insomma, era una cosa di grande soddisfazione. La casa in subbuglio, tutti gli inquilini per le scale con le facce curiose e spaventate sulle quali scorgevo pure, insieme alla pietà, una bella dose di compiacenza egoistica: insomma, non era toccato a loro. A casa, tutti disperati. Mamma e nonna che facevano fatica a reggere le lacrime. E io che scesi trionfalmente le scale portata a braccio distesa sulla barella come Cleopatra. Evidentemente, non dovevo sentirmi così male, se ho ricordi tanto cretini. Il clou di questa esperienza fu l’uscita in strada… Allora abitavamo in via Vittoria Colonna. Era mattina presto… Avvocati, signore, vicini, passanti, una vera folla radunata davanti al portone per via dell’ambulanza, e io al centro di tutti quegli sguardi. Infine, la corsa con la sirena, be’… roba da leccarsi i baffi, perché io non la vedevo affatto per quello che era, grazie a Santa Pupa protettrice degli incoscienti. Soprattutto, ero soddisfatta perché mia nonna aveva fatto una figuraccia e io non ero andata a scuola. Cose altamente positive.
Correvamo senza fermarci davanti a niente e a sirene spiegate arrivammo alla clinica a Santa Maria Maggiore, in pochi minuti. Finalmente là, sentii per la prima volta le parole chiave. «Intervento urgente, professor Paolucci. Appendicite con perforazione sospetta del peritoneo…» Sì, era finita la fase divertente! Vidi mio padre davanti alla finestra che muoveva le spalle in modo strano. «Ma che ha, la tosse?» pensavo. Invece, più tristemente, il poverino piangeva. Tutto fu velocissimo e prima di essermi resa conto di qualcosa mi risvegliai. Un dolore micidiale. Non importava più niente della scuola e di mamma e nonna e di altre scemenze, la scala dei valori primari aveva ripreso con violenza il sopravvento. Mi sentivo terribilmente male. «Amore mio…» la faccia della mamma era preoccupata, amorosissima, con gli occhi pieni di lacrime «sei stata tanto male, sai? Ma adesso è passato…» Prima forse stavo male ma non sentivo niente. Adesso mi assicuravano che stavo bene e mi sentivo malissimo. Volevo solo che quel male finisse. Il dolore fisico è spaventoso. Non voglio metterlo in competizione con quello morale, pure capace di disastri tremendi, ma quello fisico è proprio atroce. Mio fratello Enrico mi guardava con i suoi occhi azzurri, in fondo ai quali leggevo un velo di struggente desiderio d’essere al mio posto. Certo! Scherziamo? Ero piena di promesse meravigliose, di cioccolato, dolci, vacanze, balocchi, riguardi e attenzioni. Circondata dagli album di Topolino e Gordon, finalmente tutti per me, con gli amichetti che venivano a farmi visita. La prospettiva di una vacanza di almeno due mesetti, il tutto in cambio d’un taglietto sulla pancia. Naturalmente né Enrico né io valutavamo che il professor Paolucci mi avesse davvero strappato alla morte in una specie di miracolo di tempestività.
«Dovete ringraziare non me,» disse il professore «ma la tempestività del dottor Piattelli e la fortuna di aver trovato l’autoambulanza libera e il comune di Roma che regola bene il traffico. È stata proprio una questione di attimi.» Capito? Un semaforo, ed ero andata! Finita a nove anni, ancora prima di cominciare! Figuriamoci se fosse successo col traffico di oggi. Ma di tutto questo, Enrico, giustamente, non teneva conto. Per lui l’evento non poteva che avere risvolti invidiabili. Mi guardava con occhio cupido, e appena poté venirmi vicino mi sussurrò: «Beata te!». La baronessa e l’abbacchio Francavilla era la villeggiatura, dolcezza di giorni dorati. Viale Nettuno, il caffè, «Oh, baronessa… Donna Maria… Permettete? Il conte…», il gelatino, il pokerino, il pattìno, il bicchierino: tutto era una coccola di diminutivi, e aveva un sapore piccolo, forse cretino, eppure affettuoso. Poi, con la guerra, la fame e la paura tutto cambiò. Quel vento di morte e d’orrore, assieme a tante vite portò via per sempre parecchie cose incantevoli: i cappellini con la veletta, il brivido alla vista del tricolore, le visite, il salotto buono e tutto l’apparato che faceva della mamma… la baronessa donna Maria. Con le tessere annonarie non c’era niente di mangiabile da portare in tavola. Così mia madre, via il cappellino, si mise il foulard e andò in vicolo Del Cinque a fare la spesa alla borsa nera. Un giorno, doveva tornare a casa con un gran pezzo d’abbacchio malamente avvolto in poca carta da pane e molta di giornale, pioveva e, con quel brutto pacco sotto il braccio, dovette aspettare un bel po’ alla fermata dell’autobus che, come Dio volle, arrivò pieno di gente, e poté finalmente salirvi. Con gli abiti umidi, in quella sua occasionale versione lavorativo-proletaria, se ne stava in piedi, sovrappensiero, il prezioso involucro sotto il braccio, quando una voce sopratono si levò vicino a lei: «Donna Maria carissima…». E un gentiluomo azzimato, un po’ spelacchiato ma tenuto molto su dalla immarcescibile fede nelle forme, si chinò a
baciarle la mano, con una grazia degna delle feste al Circolo della Sirena di Francavilla. «Permette, donna Maria… le presento il grand’ufficiale de Mauriziis.» E rivolto al grand’ufficiale: «Gaetano, la baronessa Wertmüller von Elgg». Il gentiluomo azzimato era di quelli che parlano con voce acuta, nasale e con, in più, un’imperdonabile erre moscia. Un vecchio caro amico. Per carità, effettivamente nobile, effettivamente felice dell’incontro, tutto giusto, solo che non si rendeva conto dell’autobus stipato di persone, della guerra, della fame, del cattivo umore della gente, della miseria, della paura, della pioggia e della «borsa nera» di mamma incartata nel giornale… La folla circostante guardava sorpresa quell’incredibile scena da salotto. Il grand’ufficiale si chinò per il baciamano e la mamma, nonostante gli impedimenti della borsa, dell’ombrello e della preziosa cartata d’abbacchio sottobraccio, gli porse con grazia la mano. La pioggia aveva inumidito la carta e mentre l’uomo, gentilissimo, il grand’ufficiale e donna Maria si facevano i loro aristocratici saluti, dalla carta ormai disfatta usciva, mostrandosi agli occhi di tutti, una piccola coda sanguinolenta e miserella. Il beffardo spirito romanesco dei passeggeri esplose. «’A barò, state attento, che la baronessa se perde l’abbacchio!» Tutto l’autobus scoppiò in una risata, compresa la mamma, che era romana e spiritosa. «Be’, cavaliere, il signore ha ragione: mi chiami Maria che non sono tempi di baroni.» Avrei voluto uno zio esibizionista Voglio tornare a quella bella mammina mia. Un certo giorno, alla veneranda età di oltre settant’anni, Mariuccia prese la sua borsetta e disse a mio padre: «Adesso
mi hai proprio rotto le scatole. Basta! Non ti voglio più vedere finché vivo». E così fece. Divorziò, a quell’età. Papà Federico, quasi ottantenne, non se ne capacitava. Iroso e minaccioso più del solito, lui, fumantino, celebre per aver affrontato cause difficilissime anche contro il Vaticano, per aver aggredito a pugni, solo come un matto, campioni di rugby giovani e con il collo a panettone, urlava e tuonava contro quella follia, contro quella mossa imprevista che l’aveva totalmente spiazzato. Non erano ancora tempi di femminismo militante e agguerrito, e lui proprio non se l’aspettava. «È una pazza!» gridava. «È una pazza! Vuole infangare il nostro nome in giro per i tribunali… Dove mi conoscono tutti, dopo una carriera onorata. Ma io la mando al manicomio.» Era struggente. Poi mi guardava con i suoi occhi von Elgg, verdi rotondi. «E poi, perché? Perché? Il nostro era un matrimonio d’amore!» «Dai, papà… Sei stato un gran rompiscatole con lei… credimi, sono un’imparziale testimone oculare » ribattevo io. Ma inutilmente. Era come un re, convinto di essere amato dal suo popolo, e che invece se lo ritrova in piazza a fare la rivoluzione, a chiedere proprio la sua testa. Faceva tenerezza. Mamma, che era stata la vera vittima paziente di tanti anni, mi faceva anche lei una simpatia incredibile. Certo, non so se, ancora oggi, gli uomini riescono a capire in che galera possa trasformarsi il matrimonio per una donna. Comincia quasi sempre come un atto d’amore. Prima col marito, poi con i piccoli teneri adorabili massacranti figli, il matrimonio diventa immancabilmente una trappola d’amore. Meravigliosa da una parte, ma tremenda per chi, per esempio, come me o come Mariuccia, mammarella mia, abbia temperamento vitale, allegro, voglia sociale di stare fra la gente, di cercare la parte assolata della strada.
«Vorrei fare il giornalaio a piazza Colonna,» diceva sempre mia madre «gente che va e viene, vita, movimento.» Questa era la sua natura, anche lei radice del cavalier Arcangelo come me. Chiudere fra quattro mura, reali o psicologiche, una tale creatura è un delitto. Sì, fatemela dire con la più scontata delle figure poetiche: è come infilzare con uno spillo una farfalla in volo mettendola poi sotto vetro. Soltanto io, vivace quanto lei, con le tante galoppate della mia vita, su e giù, a dormire tre ore per notte, lavorare, a navigare in acque belle e fortunate, con un’ipervitalità che ha perfino una formula fisica – credo dipenda da bassa pressione e ipertiroidismo –, solo io, che ho la stessa natura, so quanto deve avere sofferto lei. Senza una vera colpa, sia ben chiaro, da parte di Federico: basilisco e maschilista. Questione di caratteri, questione di cultura. Angelina, nonna montanara dell’Ottocento irpino, era diventata con l’età paziente e critica. «Zitta, zitta…» diceva sottovoce, mettendosi la mano alla bocca, per placare le battaglie di casa. Per politica di suocera, mentalità e concetto sacro della famiglia, costringeva la figlia a subire. Ricordo che, a tavola, lei serviva a mio padre il cuore tenerello dell’insalata. Nell’ottocentesca tradizione del Sud, il boccone migliore andava riservato al padrone di casa. Da noi la cosa è finita malissimo. Con mamma che giocava a poker e io che tornavo a casa la mattina alle sei, e mia madre e mia nonna che mi aspettavano alla finestra terrorizzate. «Dove sei stata, incosciente?» «A parlare di Dio…» La cosa bella era che, effettivamente, restavo a parlare di Dio con i miei carissimi amici: Giulio e Sergio. Papà pensava che tenere redini corte fosse il dovere d’un capo di casa. Accettava i propri privilegi come i naturali esiti della sua indiscussa autorità di capofamiglia. Bella maschera di egoismi e ingiustizie! Insomma, aveva cancellato tutto e al
momento del redde rationem si sentì una vittima, mentre proprio non lo era. Mariuccia nemmeno si voltò verso di lui al dibattito che alla fine, inevitabilmente, si svolse in tribunale. Levandosi gli occhiali mi sussurrò: «Non lo voglio più vedere!». Erano struggenti per me, così anziani, fragili, temperamentosi, ormai due caratteracci. Ho sempre amato i vecchi, le loro insofferenti cocciutaggini, le loro impazienze, le loro debolezze. Loro due, poi, quei due pazzi mascalzoni che erano mio padre e mia madre, diventati ormai due miei figli, mi facevano struggere di tenerezza. Federico all’arrivo degli ottant’anni fu avvolto da una nube di arteriosclerosi. Una svanitezza irresistibile. Negli ultimi tempi ci rincorreva per le scale se portavamo un suo vestito in lavanderia. Gridava che ci avrebbe denunciato per furto alla polizia. Ricordo la sua voce ancora potente lungo le scale di casa che, con foga oratoria, minacciava a tutti la galera. Mariuccia diventò la piccola signora della villa di Fregene, dove finalmente, negli ultimi anni di vita, insieme a Enrico, e alla moglie di lui, Letizia, subito divenuta una «figlia» adorata, e a Massimino, nipotino che occupò la parte centrale del suo grandissimo cuore di mamma, tenne banco in compagnia di amici affettuosi, brillanti e aprì la casa alle allegre brigate di giocatori, cucinando prelibati, indimenticabili pranzi e tirando fino a tarda notte in accanitissime partite di poche lire. Il vero vuoto, in realtà, l’aveva lasciato zio Corrado, il mio preferito. Mamma Mariuccia non si riprese mai del tutto dopo la morte di suo fratello. Era stato lui, con le sue ultime forze, a costruirle la villa di Fregene, luogo d’amore, appunto, e di vacanza. Fu un vuoto catastrofico anche per me. Un treno d’amore che se n’era andato insieme a lui, a perdersi nel buio. Ma non è bene scivolare nella malinconia, così, con una strizzatina d’occhio a contrastare questo dolce tunnel di ritratti amati, e prima di raccontare le tante avventure della mia vita, vorrei provare a immaginarmi un altro tipo di antenato. Uno di quelli che farebbero un’ottima figura in un album di famiglia
che si rispetti, fra un trisavolo contadino e un nonno pirata. Sì, lasciatemi sognare. Avrei voluto uno zio… esibizionista! Chissà che buona figura farei sul lettino dello psicanalista con un tale zio, e poi potrei raccontare anche a voi le sue avventure straordinarie ed emozionanti. Un uomo medio, allampanato nel suo impermeabile grigio. Nascosto nella fresca penombra di un portone, in agguato, per sorprendere una zitella atterrita alla vista inverosimile di quell’improvvisa apertura, di lui così nudo e ridicolo, sotto l’impermeabile, con la camicia corta e i mezzi pantaloni.
Un topolino da palcoscenico
Negli anni dell’adolescenza, bella proprio non ero, ma avevo un corpicino mica male, un bel sorriso e una grande carica di simpatia. Le mie amiche erano fantastiche e la più fantastica di tutte era Flora Carabella. Con lei ho condiviso una fase cruciale della mia vita, quella che coincise con gli anni peggiori della guerra. Durante i nove mesi dell’occupazione tedesca di Roma, noi ragazzi ci eravamo organizzati bene. C’era il coprifuoco, così prendemmo l’abitudine di rimanere a dormire tutti insieme nelle case una volta dell’una, una volta dell’altra amichetta. Il fatto che mio padre e perfino mio fratello fossero sotto le armi ci semplificava i compiti. Si mettevano dei materassi per terra, per far dormire in un salotto tutte le ragazze e in un’altra stanza i ragazzi, sempre sotto la sorveglianza delle mamme. L’escamotage ci permise di organizzare delle grandi feste fino a tarda notte. Quindi, per noi, fu una bellezza. Un periodo indimenticabile. Mentre tutto il mondo era precipitato dentro l’orrore della guerra, dei lager e dei bombardamenti, noi ballavamo al suono dei vecchi dischi di Armstrong o sul motivo di Nuages, capolavoro dell’Hot Club de France, con il tocco sopraffino di Django Reinhardt. Che bella l’incoscienza della giovinezza! Torniamo a Flora. Capelli nero lacca, occhi cinesi obliqui, corpo formoso, camminata da gatta romana, curiosa, pigra, allegra, aggressiva, irresistibile e dalla risata comunicativa. Con gli anni si trasformò in una signora dai modi eleganti e raffinati. La sua simpatia e intelligenza erano contagiose. Il suo temperamento romano, sempre pronto alla battuta, la
faceva essere amatissima e contornata di amici. Il primo sedotto totalmente fu proprio Marcello, e lei, da Carabella, diventò Mastroianni. Anche Federico Fellini e Luchino Visconti ebbero un debole per lei. Per quel suo viso vagamente esotico, diceva di se stessa: «Nasco romana e morirò azteca». Sua madre Lola, bionda e con gli occhi verdi, forse aveva qualche antenato circasso. Flora ebbe fin da giovanissima un’automobile. Amava viaggiare e io, insieme a lei, ho sperimentato i miei primi viaggi. Suo padre, il maestro Ezio Carabella, ottimo musicista e autore di celebri balletti, era famoso per le sue battute fulminanti. Ricordo un giorno d’estate, a Castiglioncello. Seduto comodamente in giardino, osservava il muro di cinta della villa. Appena un metro oltre, avrebbe potuto godere di una magnifica vista sul mare. Mi venne in mente domandargli: «Maestro, perché non si mette seduto un po’ più in là, a vedere il mare?». La sua risposta fu implacabile e un tantino raggelante: «L’ho già visto». Conobbi Flora in una delle tante scuole della mia infanzia. Ero appena arrivata nella sua classe, al liceo Cicerone. Avevamo un preside soprannominato, non so perché, «Giorgetto Lattuga» e una serie di monache che ci facevano da insegnanti. Una della nostra classe si chiamava Madre Renata. Aveva una bella facciaccia da guerriero. Poi morì sotto un bombardamento a Corfù. Comunque, con i suoi modi spicci, il primo giorno, appena arrivata, le sentii dire: «So che in questa classe c’è qualcuna che fuma. Sappiate che se vi acchiappo, vi caccio da scuola». Per me fu come un campanello d’allarme. Mi guardai intorno. Quel giorno, alle due e mezzo, nel gabinetto del liceo, insieme a Flora fumai la mia prima sigaretta. Battezzai così il mio ingresso ufficiale nel mondo dei grandi. Flora, ai miei occhi, era straordinaria. Anzitutto, era figlia di un musicista. E fin qui ci siamo, anche perché l’ho già scritto. Ma poi, casa Carabella, molto diversa da casa mia, che
era una casa borghese, rotta solo dai pokerini di mamma, era proprio un altro mondo. Ricordo soprattutto il suono della musica, che si diffondeva in ogni stanza. Al piano della terrazza, su in alto, il maestro aveva il suo studio e componeva. Così, mentre noi giocavamo, arrivavano dall’alto fiumi di note. Insieme a lui c’erano sempre personaggi affascinanti, tutti artisti. Pianisti, violinisti, un direttore d’orchestra molto famoso: Franco Ferrara. Non solo era bravissimo, ma aveva una singolare caratteristica. Ogni tanto, mentre dirigeva un concerto, inarcava le reni e crollava svenuto sul podio. Una volta, sulla soglia di casa, incrociammo il maestro Alfredo Casella con una bellissima, efebica biondina, che poi scoprii essere Valentina Cortese, attrice che rivedemmo al cinema ne La cena delle beffe. Una casa di artisti nella quale dominava Lola, la madre di Flora, una perenne sigaretta in bocca. Aveva un incredibile cagnotto cinogiapponese, sempre sdraiato ai suoi piedi, che aveva la caratteristica, nel caso qualcuno gli pestasse la coda, di mordere, senza spostarsi, chiunque gli fosse davanti a tiro. Si chiamava Piuppi. Io, da subito, fui affascinata da Flora, dalla sua bella casa e dall’atmosfera che vi si respirava. Era un mondo di artisti e sentii che era lì che volevo stare. A lei debbo tutta la strada che ha preso la mia vita. Dalle prime volte che il maestro ci portava alla Fono Roma a far parte dei cori, a quando Flora lasciò la scuola per iscriversi all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. Fino ad allora, al massimo, recitavamo ad alta voce sulla terrazza, nelle notti d’estate, cose come «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai…», insomma, l’incipit del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Fu però da allora che diventai un topolino da palcoscenico, andando dietro a Flora e a tutti i ragazzi dell’accademia. Subito i miei sogni si indirizzarono verso la pratica della regia. Però ero troppo piccola per iscrivermi a quella scuola, ci volevano almeno diciotto anni, e io ne avevo sì e no sedici. Per cui voltai sdegnosamente le spalle alla Francia e
all’Accademia Silvio D’Amico, dove Orazio Costa insegnava seguendo il metodo Copeau, e mi rivolsi alla Russia e alla Libera accademia di teatro, dove il metodo Stanislavskij era insegnato da un allievo del grande regista russo: Pietro Scharoff. La Libera accademia di teatro era effettivamente «libera», nel senso che chiunque poteva iscriversi e seguire i corsi. Molti insegnanti, per quanto riguardava la storia del teatro, la dizione, la danza, erano gli stessi dell’Accademia D’Amico. Quello speciale era proprio Scharoff. Vecchio attore e regista, Pietro Scharoff era stato allievo di Stanislavskij e di Nemirovič-Dančenko. Si racconta che i due artisti si fossero incontrati una sera in un teatro, e fossero rimasti tutta la notte a parlare, trovando una profonda intesa. Stanislavskij era attore e regista e Dančenko critico teatrale. Dalla loro profonda intesa artistica nacque il «Metodo», i cui principi erano di natura quasi psicoanalitica. Per lo studio dei personaggi si doveva fare una ricerca molto approfondita. Il personaggio diventava tutto un mondo da scoprire e da costruire: i suoi studi, i suoi genitori, le sue relazioni. Bisognava ipotizzare un’intera vita, un percorso di esperienze, per avvicinarsi al suo mondo, conoscerlo e farlo proprio. Immaginarne la vita, fino al momento raccontato nella scena da rappresentare. Tutto seguiva un’analisi precisa e ben costruita. Dovevamo partire dal «seme», che doveva essere l’essenza del testo. Per fare un esempio concreto, prendiamo la più classica delle storie teatrali: Romeo e Giuletta. La prima cosa che vi viene in mente, cercando un «seme» per Giulietta e Romeo, è naturalmente la parola «amore». E invece, provate a sostituire la parola «amore» con la parola «pace» e potrete constatare che tutta la lettura del testo cambia radicalmente. Andando oltre, da questo «seme» fioriscono i «verbi di volontà». Il concetto è che non ci si può ordinare un sentimento. Si può però costruire un’impalcatura di «verbi di volontà» che favoriscano la nascita del «sentimento». E questa ricerca va condotta nella memoria di ognuno di noi. Per farvi ancora un esempio, questa volta tenero e quasi ridicolo,
dell’applicazione di questo metodo, c’è un piccolo aneddoto che riguarda il grande Rod Steiger. Mentre girava Waterloo, film nel quale interpretava nientepopodimeno che Napoleone, in una scena molto toccante, lui, Rod, doveva dare l’addio alla sua armata di fedelissimi, cioè la vecchia guardia. Si avvicinava alla truppa schierata, si dirigeva vicino alla gloriosa bandiera, ne toccava un lembo e lo baciava. I più vicini giuravano che, a questo punto, sussurrasse: «Mami morta». Ora, considerato che la sua lingua era l’inglese e casomai, quella di Napoleone, lasciando perdere il dialetto còrso, sarebbe stata il francese, e che in tale situazione al massimo una decina di comparse avrebbero potuto sentire cosa mormorava Rod Steiger, è interessante chiedersi quella «mami morta» a chi intendeva farla sentire. Era un mormorio suo, privato, escogitato, appunto, per evocare un sentimento? E allora perché lo sussurrava in quella lingua che gli era straniera, lontano da qualunque pubblico potesse udirla? Sorge il dubbio che con quel metodo stanislavskijano, al grande attore fosse rimasta in testa una gran marmellata di confusione. Comunque, siccome la scena venne benissimo e il suo Napoleone indimenticabile, come si dice, in amore e in arte tutti i metodi sono buoni. Probabilmente, Stanislavskij si starà rivoltando nella tomba per l’imperdonabile leggerezza con la quale ho affrontato il racconto del suo famoso metodo, ma a consolarlo c’è sempre l’America, dove quel metodo, grazie a Lee Strasberg, si è incrociato alla psicoanalisi in un pericolosissimo abbraccio che ha conquistato però tutti gli aspiranti attori americani, arricchito i «maestri» di recitazione del periodo e, temo, fatto uscire di testa delle nobili e fragili artiste come Marilyn Monroe. Una delle più grandi attrici che ci abbia mai dato Hollywood. Naturalmente, anche noi ragazzi ci innamorammo di questo metodo Stanislavskij e ci dedicammo anima e corpo alla ricerca. Rimanevamo ore e ore a lavorare su un semplice
«buonasera». Devo riconoscere che era un ottimo esercizio, sviluppava la fantasia ed effettivamente ti portava a un’analisi che arricchiva moltissimo la costruzione del personaggio. Così, mentre l’allieva Wert lavorava su Dostoevskij, Lina la farfallona si divertiva. A questo punto, però, è doveroso fare un passo indietro e accennare alla mia vita… per così dire sentimentale. Io sono stata fortunata, perché sono sempre stata amata. Il mio primo ragazzo si chiamava Franco, detto Franky, era davvero attraente, aveva gli occhi azzurri e alcuni tratti del volto, e certe espressioni, alla Gregory Peck. Era un ragazzo dolcissimo e si prese per me una bella sbandata. Tutto rimaneva su un piano assolutamente castissimo, anche perché allora non si usava, fra noi ragazzi, occuparsi di sesso. Quella era una cosa in cui i ragazzi si cimentavano a un’altra età; con noi «amichette» ci si limitava alla manina nella manina, al cinema. Il che non impediva, però, che scoppiassero cotte furibonde. Ricordo con molta tenerezza quelle passeggiate per il Lungo Tevere, e quando ci fermavamo fra gli alberi, con la luna che ci illuminava con la sua luce d’argento, Franky guardava il mio viso e mi sussurrava che ero bella. La cosa cominciò a mettersi male quando, dopo un paio di anni, quel bell’amore adolescenziale entrò in concorrenza con l’accademia e con il teatro. Povero Franchino, lui sospettò subito che quella passione avrebbe finito per travolgere il suo piccolo sogno di ragazzo. Finché un giorno, vicino all’uscita degli artisti del Teatro delle Arti, lui mi mise con le spalle al muro: «Devi scegliere, o me o il teatro!». Povero amore… un errore imperdonabile, il suo, di farmi quella domanda, e anche il mio di rispondere sinceramente. «Il teatro…» Mi guardò con quei due grandi occhi azzurri disperati, mi mollò uno schiaffone terribile che mi fece sbattere la testa contro il muro e sparì dalla mia vita. Ho un ricordo carissimo di lui, e in qualche modo ho sempre avuto un poco di rimorso
nei suoi riguardi. Poi lui si mise a fare le corse in motocicletta e qualche anno dopo uscì di strada in un brutto incidente, e se ne andò che non aveva ancora vent’anni. Io avevo già cominciato, con gli allievi dell’accademia, ad andare per i palcoscenici. Ero pronta a fare qualsiasi lavoro, suggeritore, trovarobe, attrezzista, macchinista, elettricista. Del teatro mi piaceva tutto. Una sera, si recitava un lavoro ironico di Dostoevskij, Nozze a Stepančikovo, e io facevo parte di un gruppo di ragazzi che realizzavano un balletto. Be’, per dirvi della magia del teatro, ballando, a piedi nudi sul palcoscenico, mi si conficcò un chiodo in un tallone, e io continuai a ballare come niente fosse. Solo alla fine mi resi conto di quel… corpo estraneo. Ecco che cosa è il teatro. All’Accademia di Scharoff venivano quelli che oggi chiameremmo «la qualunque», allievi di ogni provenienza, insomma. Aspiranti attori e aspiranti registi si nascondono dovunque, insospettabili impiegati al catasto oppure commesse da grande magazzino. Coloro che conservano in un angolo del loro cuore l’aspirazione per il teatro sono davvero tanti. Ma uno dei casi più singolari fu quando arrivò, nella nostra «classe di regia», un eroe. Era un ufficiale dei bersaglieri, con un occhio solo e una rombante motocicletta. La messinscena dei caroselli motociclistici, per intenderci, quelli che facevano mille acrobazie, compresi i salti nei cerchi di fuoco: era quella l’occupazione registica del «bersagliere». Poco a che fare con il metodo Stanislavskij. Ma il capitano dei bersaglieri, Leone Mancini, voleva proprio fare il regista. Per me la cosa più affascinante fu subito la sua motocicletta rossa. Era una Guzzi 500, con un motore sospetto, un po’ truccato, che quando andava a tutto gas superava i 150. Dunque ho già detto che Leone era un eroe, e già di per sé la parola eroe nasconde quasi sempre una dose di incoscienza. Quella di Leone era notevole, tanto che, poco dopo esserci conosciuti, fece guidare quel bolide rosso a me, che non avevo mai guidato niente. Che brivido!
Ricordo benissimo la sensazione di quando spingevo la manopola del gas lungo le strade deserte della pineta di Ostia. Cominciò in questo modo la nostra amicizia, che diventò man mano sempre più intima. Così, alla fine, nascosta nel portabagagli della sua scassata Cinquecento, Leone mi faceva entrare furtivamente nella caserma dei bersaglieri, fino a raggiungere i suoi alloggiamenti: una stanza con bagno, nel reparto degli ufficiali. Lui si era organizzato una cucinetta perché amava cucinare e mi offriva delle belle cenette. A me, quel profumo di mistero piaceva moltissimo. La nostra storia tra accademia, motocicletta, caserma e cenette andò avanti qualche anno. Se non che, io avevo una seconda vita. Quando lui mi riaccompagnava a casa verso mezzanotte, lo salutavo, aspettavo che il rombo della motocicletta si allontanasse e poi uscivo di nuovo per raggiungere i miei amici del teatro. La ragazzina con la coda di cavallo Una bella mattina, con una notevole faccia tosta, andai a bussare alla casa di Guido Salvini, un famoso regista teatrale che, come tutti gli uomini di teatro, la notte lavorava e la mattina dormiva. Per cui, quando dopo lunghissime scampanellate finalmente Salvini venne ad aprirmi in pigiama e con gli occhi appiccicati di sonno, ci volle appunto tutta la mia faccia di bronzo per dirgli: «Mi chiamo Lina Wertmüller e voglio fare l’aiuto regista». Ricordo ancora lo sguardo dei suoi occhi assonnati, poi accadde il miracolo, invece di mandarmi al diavolo, Salvini, divertito da quella ragazzina occhialuta e con la coda di cavallo, mi fece un gesto da grande gentiluomo, come per dire «accomodati». Fu così che entrai nel mondo del teatro. Salvini era un gran signore che amava le macchine sportive. Qualche giorno dopo, al suo fianco, a bordo di un’Alfa Romeo scoperta, a duecento all’ora, andavo con lui a Trieste. La compagnia era quella prodotta da Torraca dell’Eliseo, la ditta era Andreina Pagnani, con Carlo Ninchi, Olga Villi e Aroldo Tieri. Il lavoro, L’ora della fantasia di Anna Bonacci.
Io mi trovavo benissimo con loro, anche perché, durante le prove, Salvini spesso si addormentava e io seguivo il testo col copione alla mano. Quando poi si svegliava alla fine della prova, era solito dire: «Benissimo, una bella stretta di mano e andiamo in scena». Fu però in occasione del secondo allestimento dello spettacolo che nacque un problema, quello del «divano». Come al solito non c’erano soldi e invece, nella ricca scenografia, era contemplato un grande divano a forma di fagiolo, a cinque posti. Il tappezziere che forniva i mobili della messa in scena ci aveva fatto un preventivo carissimo. Mentre si discuteva del prezzo spropositato – mi pare duecentomila lire – Salvini disse: «Sono sicuro che ce lo può fabbricare Lina per centomila». Il tappezziere sghignazzò e Salvini mi disse: «Allora Lina, lo fai tu». Da dove gli uscì quella frase non l’ho mai capito. Certo che io, provocata, risposi: «Senz’altro maestro». Così, nelle soffitte del Teatro Eliseo, io, che non mi ero mai occupata di tappezzeria fino a quel momento, mi organizzai per fabbricare quel divano. Mi feci costruire lo scheletro in legno da un falegname e chiamai in aiuto due miei vecchi amici. Cominciai così, da quella pazza che ero, a fabbricarlo nel vero senso della parola. Sia ben chiaro, «a fagiolo», il che vuol dire che aveva una curva che rendeva particolarmente difficile montare l’apparato delle molle e dei tiranti. È pur vero che circolava un’aria di follia. Prima di tutto in Salvini, e anche in noi. Lavoravamo nelle soffitte del teatro e tutte le sere la compagnia veniva a «sfotterci». Non era un lavoro facile, anche perché il divano doveva essere ricoperto di raso e dunque avere una superficie liscia, morbida, gonfia e sostenuta. Mettere in tiro le molle, dandogli la diversa pressione, per seguire le linee curve, era complicato. Ma chi la dura la vince. E noi vincemmo. L’avventura del divano è rimasta indimenticabile nella storia dell’Eliseo. Scoprii solo dopo che Salvini aveva
scommesso proprio centomila lire sulla mia riuscita in quell’impresa. Da allora, mi hanno considerata la ragazza capace di risolvere tutti i problemi. La mia grande protettrice diventò la divina Andreina Pagnani, la più grande attrice del nostro teatro, di gran lunga la più brava, e poi Sarah Ferrati, Rina Morelli e tutte le altre primedonne di quei tempi. In realtà, io avevo conquistato la simpatia di Andreina con «i giochetti», le scenette che facevamo di sera, di casa in casa, dopo lo spettacolo. Era molto bella, con i suoi straordinari occhi azzurri e con quella voce che ha incantato tutti gli italiani. Non solo a teatro, ma anche con i suoi indimenticabili doppiaggi. Tutte le prime donne dei film di Hollywood le doppiava lei. Era spiritosa e amava i giovani. Lelio Luttazzi, come tanti altri ragazzi italiani, era innamorato della voce di Andreina. Lo aveva fatto sognare dietro i volti di tutte le grandi star americane. Lei aveva avuto un grande amore giovanile. Come accadeva per la trama dei romanzi di Liala, si trattava di un pilota, era caduto con l’aereo, ma Andreina gli era rimasta fedele. Poi era cominciato il teatro, e lei era diventata una delle più importanti attrici e primedonne. Andreina era stata una prediletta di Visconti, finché una certa sera, mentre preparavano Il candeliere di Alfred de Musset, ci fu un incidente. In scena c’era un velario dietro al quale si intravedevano delle ombre. Durante le prove, Visconti aveva sempre immaginato che lì dietro, attraverso quel gioco di chiaroscuri, si assistesse a una specie di spogliarello. A un certo punto, mentre Andreina saliva la scaletta che la portava dietro al velario, Visconti le disse: «Quando arrivi lassù, dietro al velario, Andreina, tu ti spogli». E lei rispose: «No». Luchino, facendo finta di non aver sentito, insistette: «Quando arrivi lì, ti spogli…». E lei, imperiale: «No!».
«Tu adesso vai lì e ti spogli!» «No!» Luchino, che non accettava i capricci di un’attrice, fosse pure la grande Pagnani, ripeté: «Andreina, tu vai là e ti spogli!». «No!» Quel piccolo «no» era molto più che un «no». Luchino era il regista e quindi aveva il potere di dare ordini, ma Andreina era un’attrice di prim’ordine, amata e apprezzata da tutti. Quindi era una lotta di poteri. Non si poteva deflettere, ne andava di mezzo la dignità dei due ruoli. Fu la fine. Il sodalizio più importante del teatro italiano si infranse su quel no. Da allora cambiò tutto. Luchino abbandonò il teatro dicendo: «Chi mi ama mi segua». Il primo attore, Tonino Pierfederici, di fatto lo seguì, e Andreina telefonò a Silvio D’Amico, chiedendo se fra gli allievi dell’accademia ci fosse qualche giovane di talento. Arrivò Giorgio De Lullo a sostituire Pierfederici ma Luchino, dispettoso come una scimmia, decise di insidiare il trono di Andreina primadonna, facendo diventare protagonista dei suoi successivi spettacoli Rina Morelli, che fino a quel momento aveva recitato solo le parti di carattere. Fu una rottura definitiva che spezzò per sempre un grande sodalizio artistico. Io rimasi sempre molto legata ad Andreina. Fu lei che, anni dopo, mise in scena la mia prima commedia, 2 + 2 non fa più 4 con Giancarlo Giannini e Anna Maria Guarnieri, scritta in seguito alle contestazioni giovanili del maggio francese, nel 1968. Ma all’epoca dei miei primi passi nel mondo del teatro e dei palcoscenici, c’è anche da dire che, mentre con Salvini lavoravo come aiuto regista, nella compagnia di Andreina svolgevo contemporaneamente anche altre attività, per esempio con i burattini di Maria Signorelli. Era una piccola compagnia che la Signorelli aveva chiesto a Scharoff di mettere in piedi per il suo teatrino. Il gruppo era composto da
quattro allievi dell’accademia: Paolo Tommasi, che in seguito è diventato un importante scenografo, Scilla Brini, Matteo Spinola, che, in società con Enrico Lucherini, diede vita al più famoso ufficio stampa dello spettacolo, e infine, c’ero io. Fu un periodo molto divertente perché con quel teatrino di burattini girammo tutta l’Europa. A Londra, per esempio, avemmo la fortuna di assistere agli spettacoli di Laurence Olivier e Vivien Leigh, che alternavano una sera Antonio e Cleopatra di William Shakespeare, e l’altra Cesare e Cleopatra di George Bernard Shaw. Quando noi quattro ragazzini ci presentammo nei loro camerini, furono gentilissimi. Un altro episodio indimenticabile del nostro soggiorno londinese fu quando, dalle risate, io caddi nella Serpentine, a Hyde Park. A Parigi, invece, mentre facevamo il nostro spettacolino alla Rose Rouge, trionfavano «I Gobbi» dell’indimenticabile trio formato da Franca Valeri, Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli, diretti da Luciano Mondolfo. Ricordo le bellissime passeggiate notturne a piedi dal Quartiere Latino all’Arco di Trionfo. Eravamo grandi camminatori, eccitatissimi dall’idea di essere nel cuore della Ville Lumière. In tutto questo, va detto, ho avuto la fortuna di poter contare su una famiglia molto comprensiva. Soprattutto mia madre, che aveva anche lei una natura artistica ed era felice della strada che avevo intrapreso. Mio padre, che aveva ingenuamente sognato per i suoi due figli, un maschio e una femmina, un futuro nella professione forense, visse dolorosamente i nostri temperamenti artistici, sia il mio – mi vedeva come una pazza – sia quello di mio fratello Enrico, che faceva il pittore. Mentre Salvini preparava Uomo e superuomo di Shaw, si presentò un problema, che questa volta non aveva a che fare con nessun divano. Giulio Coltellacci, che doveva realizzare le scenografie, in quel periodo lavorava sia per Salvini che per la coppia di autori Garinei e Giovannini. A causa di questo doppio lavoro, capitava che Coltellacci non si facesse trovare,
perché perennemente in ritardo con entrambe le compagnie nella consegna delle scene. Così, un giorno, Salvini, innervosito da quei ritardi, mi mandò in missione. Avrei dovuto a tutti i costi beccare Giulio e costringerlo a lavorare per noi. In quel periodo lui aveva uno studio sopra Villa Borghese: mi ci recai una mattina presto e provai a suonare ripetutamente. Nessuno venne ad aprirmi, allora incastrai un fiammifero nel campanello e mi sedetti tranquillamente sul gradino con un bel libro di Dostoevskij in mano, aspettando che quel suono interminabile finisse con lo svegliare il padrone di casa. Ci volle circa un’oretta, ma alla fine la porta si aprì quando Giulio, in pigiama e pieno di sonno, si affacciò finalmente alla porta per capire chi era lo scocciatore. Io, rapida come una faina, infilai un piede nella porta e gli sparai in faccia: «Mi manda Salvini, con l’ordine di non mollarla più senza aver prima avuto i bozzetti». Coltellacci si arrabbiò come un pazzo. Fece di tutto per costringermi a levare quel piede, ma io, fedele alla consegna, non mi diedi per vinta e lui finì col mollare. Il suo studio era bellissimo e offriva una prospettiva insolita del panorama circostante Villa Borghese. Fui colpita dalle cupole, che da quel punto di vista erano speciali, e facevano quasi sembrare Roma una città orientale. Mentre gli preparavo il caffè e Giulio sacramentava vestendosi, studiavo con occhi curiosi i bozzetti e i disegni sparsi ovunque. Era molto simpatico Giulio. Aveva i capelli rossi e sembrava uno scozzese. Fu l’inizio di una grandissima amicizia. Aveva una macchina americana enorme, cabriolet, azzurra, che avevamo ribattezzato la «Andrea Doria», e sulla quale, insieme, viaggiammo per tutta l’Europa. Subito dopo la tournée parigina dei Gobbi, Alberto Bonucci creò una propria compagnia per uno spettacolo che si chiamava Sans filet (Senza rete). Coltellacci ne era lo scenografo e Alberto mi chiese di fargli da aiuto regista. Secondo la moda di allora, gli attori erano solo quattro, fra i quali c’era Monica Vitti, uscita da poco anche lei dall’Accademia di Silvio D’Amico.
Quella compagnia aveva la caratteristica di aver eliminato i costumi, per recitare in tuta. Dovevamo debuttare a Parigi con Sans filet al Teatro Marigny, proprietà di un’elegantissima marchesa che fumava con un lungo, indimenticabile bocchino, grazie al quale assumeva pose molto sofisticate. Era una bella signora la marchesa, un po’ pomposa. Ricordava Elvire Popescu, una famosa attrice rumena, che in Francia faceva teatro e cinema. Era un tipo di donna molto formosa, allora considerata charmant, nonostante la carrozzeria particolarmente possente. La Popescu sembrava una pera col picciolo all’ingiù: biondissima, occhi neri molto truccati, molto sexy, una «Mae West della Mitteleuropa». La sera della prima, scoprii che, di nascosto, era arrivato nei camerini un pacco misterioso che conteneva un abito da sera di voile azzurro. Conoscendo il caratterino della Vitti, sospettai subito che ci fosse sotto qualche cosa. Il segno distintivo della compagnia era, appunto, che tutti gli attori recitassero in tuta, proprio per garantire quel timbro moderno e sperimentale di molti spettacoli che andavano in scena all’epoca. A pensar male si fa peccato ma ci si azzecca quasi sempre. Infatti, scoprii che Monica aveva fatto tagliuzzare la tuta per potersi poi presentare in scena, a differenza degli altri, con l’abito da sera e un’aria da soubrette. Voleva fare la prima donna, ma c’ero io in agguato. Arrivai nel suo camerino con una determinazione da SS, tagliuzzai a mia volta l’abito azzurro e ordinai alla sarta di rammendare la sua tuta e poi gliela lanciai minacciosa: «Ora mettiti questa, Ceciarelli, sennò ti spacco la faccia». Per chi non lo sapesse, Ceciarelli era il vero cognome di Monica Vitti, cognome che lei odiava, considerandolo volgaruccio. Ne seguì una lite furibonda. Ma io ero arrabbiata e ben decisa a far rispettare lo «stile della tuta». Richiamati dagli strilli, tutti si affacciarono alla porta del nostro camerino. Monica era pazza di rabbia. «Ma chi è questa? Cosa vuole? Come si permette?» Alberto Bonucci, preoccupatissimo per la prima che doveva inziare, cercava di fare abbassare i toni e mi tirava per la
camicia. «Lascia perdere Lina…» Io mi sentivo il guardiano della purezza dello spettacolo e me la presi anche con Bonucci. «Alberto, ma tu che vuoi da me? Sei il regista! Fatti rispettare, non puoi permettere a un’attricetta appena uscita dall’accademia di fare i capricci da primadonna.» Dietro di me c’era il resto della compagnia che mi sosteneva. Fu una scenata indimenticabile, ma alla fine la signora Ceciarelli-Vitti, che poi in seguito diventò davvero quella star che fin da allora voleva essere, andò in scena con il suo maillot rammendato, simile a tutti gli altri. L’episodio si rivelò importante perché fece capire a tutti che io difendevo lo stile dello spettacolo anche più del regista. Ciò non toglie che fu un flop: non a caso, la compagnia fu fatta rientrare in Italia. Rimanemmo a Parigi, come ostaggi, io e Bonucci. L’elegante marchesa, col suo lungo bocchino, era chic ma aveva due «balle da Gattamelata» e avvertì il produttore Remigio Paone che ci avrebbe trattenuto finché non fossero arrivati tutti i soldi che quell’impresario le doveva. Noi restammo quindi a Parigi. Bonucci doveva anche lavorare in un film e io me la godetti, vivendo quell’atmosfera indimenticabile della città e dei suoi attori. C’erano Edith Piaf, Yves Montand, la Comédie Française, e tutti i cabaret che animavano le notti parigine. Certo, fu un periodo di sciaguratezza e io andavo avanti a fragole con la panna, cosa che mi cagionò alcuni problemi fisici di cui vi risparmio i particolari. Pare brutto che una signora parli di emorroidi, ma quello fu il castigo celeste per la mia ingordigia. Al mio ritorno a Roma, Andreina Pagnani mi fece conoscere Giorgio De Lullo. Era ricoverato in una clinica per un’operazione di appendicite e al suo capezzale si avvicendava tutto il teatro italiano. Non mi ricordo bene come accadde esattamente, certo è che da aiuto regista di Salvini diventai
aiuto regista di De Lullo. Alla base del nostro rapporto, oltre alla mia stima e ammirazione per lui, c’era anche una grandissima simpatia reciproca. Bisogna dire, inoltre, che io ero un bravo aiuto: risolvevo i problemi, correvo a destra e sinistra, e avevo l’abilità di intuire i pensieri di Giorgio, le necessità dello spettacolo. Sotto la sua guida, Romolo Valli, Rossella Falk, Anna Maria Guarnieri formarono la Compagnia dei Giovani, che ebbe un grande successo in quegli anni. Giorgio De Lullo, un uomo elegantissimo e molto bello, era nato a San Giovanni, uno dei grandi quartieri popolari di Roma da dove provengono gli uomini più affascinanti del nostro spettacolo. Mastroianni, tanto per citarne un altro. Oltre al rapporto professionale con Giorgio, c’era anche il piacere segreto di andarcene noi due in giro per le varie città in cui si fermava la compagnia, a guardare gli «antiquarietti». Stratford on Avon è una citta inglese sulle rive dell’Avon. Ebbene, oltre alla gloria di aver dato i natali a Shakespeare, era diventata famosa per le deliziose statuine di porcellana bianca, con piccoli tocchi di colore nelle sciarpe, cappelli e gonnelline delle figure, che erano diventate la passione di De Lullo. Ne fece una bellissima collezione che chissà dove sarà finita. De Lullo, che era stato portato al successo come attore dai migliori registi italiani, recitò in quasi tutte le opere che un attore giovane può sognare di interpretare: Antigone e Euridice di Jean Anouilh, Zoo di vetro e Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams, Troilo e Cressida di Shakespeare, Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, La locandiera di Carlo Goldoni, Tre sorelle di Anton Cechov. Sempre al fianco e sotto la direzione di grandissimi registi. Ma Giorgio, oltre che attore, cominciò appunto a realizzare anche regie in proprio. La prima fu Gigi di Colette, che ebbe un enorme successo, poi arrivò l’indimenticabile Diario di Anna Frank di Frances Goodrich e Albert Hackett. Quella volta io facevo l’aiuto regista. Pur avendo una bellissima faccia da cinema, Giorgio ha sempre preferito il teatro. Di lui si racconta avesse avuto avventure con tutte le primedonne del
teatro italiano e che la sua paziente fidanzata portasse, con grazia, un canestro di corna. Fu durante una tournée in America Latina, che Giorgio De Lullo e Romolo Valli, fidanzato con Adriana Asti, strinsero un rapporto particolare, nutrito da una grande tessitura di interessi culturali e che si trasformò poi in un’intima amicizia durata tutta la vita e in un grande sodalizio artistico. Secondo me questo rapporto irritava Visconti, che non aveva simpatia per Romolo, mentre ne aveva molta per Giorgio: non appare casuale insomma che talvolta, nei film di Luchino, Romolo avesse delle parti sgradevoli, come per esempio quella del prete sudaticcio e maleodorante del Gattopardo. Romolo morì tornando a casa, una villa sull’Appia Antica, una notte di febbraio del 1980. Giorgio ne soffrì moltissimo e si ritirò per alcuni mesi in un convento. Per attenuare la sua disperazione, si «aiutò» con l’alcol. L’ultima volta lo incontrai al Caffè Rosati, in piazza del Popolo. Erano le dieci di mattina e lui aveva ordinato un whisky. Io lo guardai con due occhi supplichevoli. Non c’era bisogno di parole fra di noi. Lui mi diede un’occhiatina con un mezzo sorriso triste, mi strizzò l’occhio e mandò giù il whisky. Finì col morire di cirrosi epatica un anno dopo. Sulle tracce di Anna Frank Ricordo sempre con molto piacere il mio periodo di lavoro con De Lullo. Giorgio era un ottimo regista che dedicava grande attenzione all’aspetto della recitazione. Le sue prove a tavolino erano delle vere e proprie lezioni di regia. Frattanto, la Compagnia dei Giovani riscuoteva grandi consensi con i suoi spettacoli. Ricordo, in particolare, un’edizione de Il successo, brillante commedia di Alfredo Testoni. Una sera, a Genova, io e Nicola Tufari, marito di Rossella Falk, decidemmo di emulare un famoso scherzo che qualche anno prima aveva fatto Alberto Sordi, allora compagno di Andreina Pagnani, durante la rappresentazione di una commedia che si apriva in un appartamento da affittare e con l’incontro-scontro dei due eventuali affittuari (Cervi e la Pagnani). Sordi, all’apertura di un armadio, che doveva essere vuoto, era
balzato fuori gridando: «Grazie! Sono dieci giorni che stavo chiuso qua dentro!». Allo stesso modo, io e Tufari saltammo fuori da un armadio durante lo spettacolo e ricordo perfettamente tutta la compagnia, di spalle al pubblico, che cercava di trattenere le risate. All’epoca era abitudine fare degli scherzi, soprattutto durante le ultime repliche di uno spettacolo. Famoso quello pensato da Odoardo Spadaro, celebre chansonnier fiorentino, che adorava dipingersi due grandi occhi sulle chiappe per poi infilarsi nella buca del suggeritore ed esporle, così che gli attori se le trovassero davanti nel momento clou dello spettacolo. Sicuramente lo spettacolo più importante che ho fatto con la Compagnia dei Giovani è stato Il diario di Anna Frank. Gli attori erano Anna Maria Guarnieri, Romolo Valli, Elsa Albani e, nella prima edizione, a impersonare Peter, il ragazzo innamorato di Anna, era Luca Ronconi. Se non mi sbaglio, quella fu l’ultima volta che Luca recitò: in seguito venne sostituito da Umberto Orsini. In quel periodo, io e De Lullo un giorno lasciammo la compagnia a Torino per andare a trovare l’unico sopravvissuto di quella tragedia, Otto Frank. Era un mondo pieno di neve il paesaggio che il treno percorreva mentre andavamo a Basilea, dove incontrammo i superstiti dei vari rami della famiglia Frank. Otto era il padre di quella tenera cantatrice della tragedia ebraica che fu Anna, autrice di uno straziante diario. Era un uomo minuto, piegato fisicamente dalla sofferenza, e ci osservava con uno sguardo molto remissivo. Con occhi intensi e pieni di malinconia, sembrava testimoniarci una sorta di sottile angoscia nel considerarsi ancora in vita. Ho continuato a lungo, anche in seguito, a percepire dentro di me quello sguardo timoroso e inafferrabile, conseguenza di un dolore insormontabile. E quando mi domandano che ricordi conservi degli anni di guerra, immediatamente riaffiorano alla mia mente gli occhi di Otto Frank. Rammento una cena a Basilea e i volti dei familiari intorno a lui. Guardando quel piccolo uomo, non potevo non pensare a
Romolo Valli che, nello stesso momento, lo stava impersonando in un teatro di Torino. Quando poi ripartimmo, vennero tutti a salutarci in fila sulla banchina della stazione, e mentre il treno si avviava, quelle figurine nere, stagliate sul bianco accecante della neve, diventavano sempre più piccole, fino a scomparire. Era stato un incontro di poche parole ma di grandi sguardi. Un rapporto particolare, tra noi, gente di spettacolo, e i superstiti di un dramma della vita vera. Ed è nel ricordo straziante della drammatica vicenda di Anna Frank che vorrei tentare di affrontare un tema per me molto difficile e disturbante: l’orrore. Le prime immagini di un lager nazista diffuse in bianco e nero dai settimanali e dai notiziari dell’Istituto Luce risultarono per noi ragazzini davvero devastanti. Beninteso, non venivamo certo da anni allegri e spensierati. Avevamo comunque vissuto il trauma dei bombardamenti, conosciuto la fame, la paura, il freddo. E, nonostante fossimo ancora bambini, sapevamo anche troppo della guerra. Noi, tuttavia, con i padri richiamati, i fratelli vicini alla leva o già arruolati, ma senza disgrazie in famiglia, in fondo, la guerra l’avevamo vissuta con la bella incoscienza di quell’età, come spesso capita a chi non ha forse gli strumenti per comprendere davvero e appieno cosa sta accadendo attorno a sé. La notte mi capitava di sognare, al pari di un paradiso perduto, le «bombe con la crema» della mia infanzia a Francavilla al Mare, mentre le bombe vere, autentiche, sembravano far parte degli scomodi e brutti giochi degli adulti. Poi, il conflitto si fece più prossimo alla nostra realtà di tutti i giorni, e la paura divenne tangibile, soprattutto da quel giorno in cui, seduta con mamma e papà al Caffè Esperia, vidi passare truppe dell’esercito tedesco. Una lunghissima sfilata di carri pieni di refurtiva di guerra, con inequivocabili residui di abitazioni e chiese violate, insieme a un mucchio di altri oggetti confusamente accatastati: macchine da cucire o radiogrammofoni. L’esercito era composto da ragazzini stremati dalla fatica, e incattiviti. Colli
bianchi ed esili che sapevano d’infanzia mai vissuta. Biondissime teste rasate. Rammento con nitidezza mani di adolescenti, sporche e nodose. Poi, ci fu il giorno in cui arrivarono i liberatori, gli americani. Sul ponte Margherita, c’era il cadavere di un soldato tedesco. Una mano mossa da pietà aveva tuttavia fatto in tempo a coprirne il volto con un panno sporco. In più, adagiato lì accanto, vidi un fiore, forse in segno di misericordia. Terminato l’orrore della guerra, ci furono i ritorni dei fratelli maggiori, e il mancato ritorno di altri. Eppure, nonostante i gravi danni inferti alle città, con palazzi esplosi e crollati sotto le bombe, nonostante le tante vittime e i numerosi feriti, quando appunto avemmo la possibilità di scoprire il vero orrore dei lager, la nostra percezione del conflitto mondiale appena concluso subì come una metamorfosi, uno scarto drammatico: devo ammetterlo, il genere umano, ai miei occhi di ragazzina, divenne un’altra cosa. L’impossibilità di capire in che modo i nazisti avessero potuto rendersi autori di crimini così abominevoli, su ordine della mente malata del Führer, cambiò il mio rapporto con la realtà, con quello che mi circondava. Ridurre un essere umano a poco più che una larva, dopo aver messo in piedi, a quel preciso scopo disumano e inconcepibile, una gigantesca macchina di uomini e mezzi, non era qualcosa che si poteva inquadrare nel pur drammatico e luttuoso contesto della guerra. Stupida, sciocca, crudele e ignobile quanto si voglia, la guerra poteva perlomeno ammantarsi di una specie di giustificazione: nella storia è spesso stato così, che certi ideali, insomma, oppure eroiche ancorché utopiche ambizioni giovanili abbiano condotto gli uomini a uccidersi l’un l’altro su un campo di battaglia. No, in questo caso no. Ci trovavamo dinnanzi a un vero e proprio abisso di dolore. E le immagini che cominciammo a vedere ce lo ricordavano con insopportabile precisione e chiarezza. Che quei teschi avessero ancora occhi e che, da quegli occhi, giungesse un messaggio terribile, era un incubo dentro un incubo. Dal quale sembrava impossibile uscire, svegliarsi.
Ecco perché ci tengo a sottolineare che proprio perché capitata nell’adolescenza, una stagione della vita fatta per antonomasia di speranze e di illusioni, quella dura presa di coscienza fu uno choc tale che poi, per tutta la vita, l’ho percepito come un eterno debito che appartiene a tutti, anche a chi allora non era ancora nato. Mi riferisco, infatti, anche alle indubbie e gravi responsabilità delle nazioni che in quegli anni così decisivi respinsero le navi su cui viaggiavano gli ebrei in cerca di salvezza. Inqualificabile è stato il silenzio degli Alleati che, dal 19411942, già sapevano, questa è la verità, dei lager e delle camere a gas, dei forni e del progetto della cosiddetta «soluzione finale» portata avanti dal nazismo. Nonostante questo, si rinunciò a bombardare le linee ferroviarie su cui transitavano i treni della morte, diretti ai vari campi di concentramento, soprattutto polacchi. Fu allora che pensai di convertirmi e di diventare ebrea. Cercai e lessi tutto quanto era possibile leggere sull’orrore dell’Olocausto – diari, memorie, documenti, ricostruzioni storiche –, e tentai anche di avvicinare i sopravvissuti, chiunque avesse subito sulla propria pelle quelle terribili atrocità.
G&G
Fu Giulio Coltellacci a introdurmi a Garinei e Giovannini, la grande coppia del teatro leggero che ha dominato i palcoscenici della rivista e della commedia musicale per tanti anni. Così accadde che la mia vita teatrale si dividesse in due parti: il teatro drammatico l’inverno e quello musicale l’estate, dal momento che era d’estate che si scrivevano i copioni dei musical. Questa doppia natura si adattava perfettamente ai miei interessi. Amavo tutti e due i generi, ed ero felicissima di occuparmi di entrambi. Inoltre, gli attori e gli amici sia dell’uno che dell’altro furono un grande arricchimento del mio orizzonte professionale e umano. Ho infatti avuto l’opportunità di conoscere attori eccellenti: Renato Rascel, Carlo Dapporto, Walter Chiari, Delia Scala, e tanti altri. Qualche volta, convinsi proprio Garinei e Giovannini a usare grandi attori di prosa nel mondo della rivista. Per esempio convincemmo Andreina Pagnani a sperimentarsi nel musical: fu così che per La padrona del raggio di luna, a recitare insieme a lei nella parte del protagonista, fu chiamato Robert Alda, una star italoamericana. Mentre preparavamo quel copione, a Torino, in teatro, si rappresentava un’altra commedia scritta da G&G – così si firmavano Garinei e Giovannini –, con Wanda Osiris e «Billi e Riva», anch’essi una coppia consumata e celebre del teatro di rivista di quei tempi, composta da Riccardo Billi e Mario Riva. Successe una cosa indimenticabile. La passerella della «Wandissima» era un rito quasi sacro. Lei si spruzzava, nelle tante sottovesti dei suoi costumi, intere boccette di profumo. Quando poi percorreva la sua famosa passerella, su tutti i gay che la adoravano e si affollavano sotto il palcoscenico giungevano ondate travolgenti di Patchouly. Fu lì che una sera, Wanda – che sotto le sue tante gonne aveva tacchi altissimi e
quattro dita di suola per aumentare la sua altezza –, nell’affrontare la prima curva della passerella prese una storta e cadde di testa, nell’orchestra. Esattamente finì dentro la grancassa. Vederla così rivoltata come una specie di carciofo di pizzi e trine profumate, dalle quali emergevano le sue gambotte e le indimenticabili scarpe, fu un evento indimenticabile, che, malgrado tutti i rischi che aveva corso quella poveretta, mi fece ridere tanto da sentirmi male. Un’altra risata così travolgente, me la ricordo durante la commedia musicale Un paio d’ali, con Renato Rascel. Alla fine di un suo numero, durante il quale cantava proprio la canzone che dava il titolo al musical, Rascel doveva alzarsi in aria e uscire di scena volando. Durante le prove aveva sempre detto: «A questo punto, io volo…». E arrivò la sera nella quale l’uomo incaricato di realizzare gli effetti speciali mise a punto l’argano per farlo uscire di scena nel modo stabilito. L’effetto era collegato a uno speciale corpetto di cuoio che Rascel doveva indossare sotto al costume, e al quale, a un certo punto, si assicurava un gancio, che poi lo avrebbe condotto in aria a realizzare la mirabolante uscita di scena. Durante le prove si era sempre parlato di questo giubbetto per realizzare il volo. Finalmente arrivò il momento e Rascel si mise l’imbracatura, tutt’altro che comoda. Bisogna sempre valutare che si trattava più che di un corpetto, di vere e proprie mutande di cuoio, molto, molto fastidiose, e Rascel era nervosissimo mentre cercava di «sistemare», in quella rigidissima braga, tutti i suoi ammennicoli intimi. Devo dire che noi della compagnia eravamo curiosi dell’esperimento. D’altra parte, il volo era stata una sua idea, quindi noi non avevamo responsabilità. Imbracato nel giubbetto e cominciata la prova, quando si arrivò al fatidico verso finale «… e così domani, con le mie mani, scapiglierò gli ippocastani e volerò su un grattacieeeeel…», venne dato il segnale e partì l’argano su «grattacieeeel». Rascel si levò in cielo e volò verso la quinta. Devo premettere che c’erano varie quinte che avevano il compito di raffigurare dei palazzi.
Be’, volando durante l’acuto, invece di uscire di scena, Rascel incrociò proprio una quinta, per cui l’acuto «grattacieeeel» si trasformò in un urlo di dolore e in una serie di bestemmie. Fu una tragedia, ma era impossibile non ridere. Io mi ricordo che ero in barcaccia e mi buttai per terra, cercando di contenere le risate mentre si compiva la catastrofe. Sì, credo che queste siano le due più grandi risate che io, da mascalzona, feci durante le prove dei musical. Col passare dei mesi, stimolati da me, Garinei e Giovannini ebbero l’opportunità di scrivere copioni sempre più strutturati sui testi del teatro di prosa. Nel frattempo, intorno a noi, la vita faceva nascere nuove stelle. Soprattutto aveva cominciato a brillare, nel cielo italiano dello spettacolo, Domenico Modugno. Il fenomeno, poi diventato mondiale, di «Mister Volare». Garinei e Giovannini non se lo lasciarono scappare. Tra l’altro, Sandro Giovannini era fissato con la storia del Risorgimento, di cui sapeva tutto. Ne nacque l’idea di un brigante patriota, ispirato a una celebre maschera del teatro siciliano dei Pupi. Il teatro dei Pupi è sempre stato vivissimo nella cultura popolare siciliana. Fu una piacevole sorpresa anche per noi, durante un sopralluogo a Catania, scoprire quanti ne esistessero in quella città e quanto pubblico li frequentasse. Si trattava di un pubblico adulto, perché non erano spettacoli per bambini, tutt’altro. Le gesta della cavalleria erano rimaste vivissime nella tradizione della città e continuavano e continuano ancora oggi ad affascinare. Era il 1961. Fu in quel clima di entusiasmo che nacque Rinaldo in campo, testo nel quale si incrociano le imprese del nobile brigante con i principali avvenimenti storici dell’Unità d’Italia. Per la prima volta rinunciammo a Gorni Kramer, che aveva sempre realizzato le musiche per G&G, per lasciare spazio alla fantasia di Modugno che fece delle musiche bellissime. Inoltre, convinsi i due santoni del nostro teatro leggero a immergersi in quell’incredibile universo che è la Sicilia, terra alla quale io sono legata da profondi sentimenti. Arrivammo a
Taormina in un hotel celebre in tutto il mondo per la sua bellezza, il San Domenico. Era stato un antico convento, con meravigliosi giardini che scendono fino a quell’incantato mare viola pieno di leggende e sirene. Fiori dai colori meravigliosi e dai profumi più sensuali d’Oriente. Gli arabi, in quelle robe lì, bisogna lasciarli stare… Del resto, sono loro che, invece che sulle nuvolette, hanno sempre immaginato il loro paradiso in un profumato giardino pieni di hurì – non mi ricordo mai dove si mette l’acca, se prima, durante o dopo, pazienza! Fiori dalla bellezza sbalorditiva, un incantevole chioccolio di fontanelle che facevano correre l’acqua in piccoli ruscelli freschi lungo i vialetti, al fianco delle coloratissime aiuole. E una fragranza tangibile, che ti solleticava la pelle, veramente da paradiso di Maometto. Il coreografo americano, Herbert Ross – diventato poi un ottimo regista di cinema –, si appassionò a quella incredibile e antica tradizione teatrale siciliana, a quei colori, a quei giardini e preparò dei bellissimi balletti. A questo proposito, c’è un piccolo aneddoto da raccontare riguardante la moglie, venuta a trovarlo in quei giorni a Taormina. Era una delle prime ballerine di Martha Graham, bellissima ed esile come lo stelo di un fiore. Quando andammo a colazione insieme, dato che il cuoco dell’albergo era siciliano e cucinava benissimo, mentre lei insisteva per mangiare la sua foglia di lattuga, io l’aggredii: «Ma sei matta, baby, sei in Sicilia… qui c’è un cuoco formidabile… Devi assolutamente assaggiare…». E lei assaggiò. Qualche anno dopo, a Hollywood, mentre io giravo per gli Studios insieme al figlio di Alan Ladd, mi sentii chiamare: «Laina… Laina…». Era una di quelle americane grasse grasse, che stava correndo a braccia aperte verso di me. Stentai a riconoscerla. Era lei. La ballerina filiforme si era trasformata in un’incredibile cicciona. Mi abbracciò e mi disse che era stata
tutta colpa mia. Da quel giorno a Taormina, aveva cominciato a mangiare. Aveva chiuso col ballo, era ingrassata e la sua vita era cambiata. Però era felice. Adesso produceva i film del marito e non aveva nessun rimpianto per il passato. Tornando ai profumi dei giardini arabi, il nostro soggiorno in Sicilia fu bello e proficuo. Rinaldo in campo diventò una famosa commedia musicale che ancora si replica, interpretata, dopo Modugno, da molti altri bravi attori, e che non ha mai perso quel bel profumo di Sicilia che ha avuto fin dalla sua nascita. Ho collaborato con Garinei e Giovannini per sette anni, facendo il bellissimo mestiere del «negro». Un gran bel mestiere, durante il quale si imparano un sacco di cose. Naturalmente, i denigratori della famosa coppia sostenevano che scrivessi tutto io. Ma non è assolutamente vero. Io buttavo giù dei brogliacci sui quali poi lavoravamo insieme. Gli spettacoli che abbiamo scritto sono tantissimi, basti pensare che ne facevamo due all’anno. Per citarne qualcuno: Carlo, non farlo!, Un mandarino per Teo, Un trapezio per Lisistrata, Enrico ’61. Andavamo, io e Sandro Giovannini, a Fregene, a casa di Pietro, verso le sette e mezzo di mattina e lavoravamo in giardino fino al tramonto. Era solamente dopo le otto che io cominciavo a «vivere». Ero giovanissima, carica di energie e di curiosità. I miei amici si svegliavano tardi, quindi, con loro, il gioco e il divertimento avvenivano di notte. La lunga notte di Roma. Si andava a cena, al cinema, a via Veneto e spesso, dopo, «a puttane». Queste signorine della notte erano ragazze simpaticissime, con le quali, dopo i primi insulti, facemmo molta amicizia. La nostre scorribande notturne duravano fino alle quattro, cinque del mattino. Calcolando che in media, una persona normale dorme otto ore, io credo di aver vissuto per lo meno un terzo in più degli altri. Io dormivo sì e no tre ore per notte e stavo benissimo. Scherzi al telefono Un’altra delle cose che non dimentico di quel periodo sono gli scherzi telefonici. Eravamo un gruppetto di amici mascalzoni e una domenica scoprimmo il gioco degli scherzi
al telefono. Studiavamo sul giornale l’elenco degli annunci economici e ci lanciavamo all’avventura. Uno di noi – per discrezione non posso rivelarne il nome in quanto persona nota e importante – era straordinario nel fare le voci. In particolare quelle voci di signore romane dette «pinchere», cioè borghesi e un po’ ridicole, che erano le protagoniste ideali delle nostre telefonate. Per fare un esempio, qualcuno aveva messo un annuncio tramite il quale intendeva vendere una scala a chiocciola, di quelle di ferro. La «signora Pinchera» telefonava per comprarla. E allora, nell’informarsi sul tipo di modello e sulla misura dei gradini, infilava nelle domande delle stravaganti porcherie, tipo: «No, sa, devo capire bene la misura… per mio marito… lui, pover’uomo, ha dei problemi… Ha i coglioni lenti… quindi la misura dei gradini è importante… Se m’inciampa sui coglioni… è un problema…». L’abilità era tutta nel non far capire, scivolare sulle frasi rivelatrici, tirarla lunga fin quando, a un certo punto, l’interlocutore capiva e ci mandava all’inferno. Tutto questo veniva inciso e poi lo risentivamo ridendo a crepapelle. Lo so che vi sembrerà un gioco cretino. Ma noi siamo morti dal ridere per quasi un anno. Ce ne furono alcuni geniali. Ricordo una telefonata alle tre di notte a una famosa maestra di ballo, Ja Ruskaia: qualcuno di noi finse di essere la madre di un’allieva, incolpandola di aver fatto perdere, con un arabesque o un détiré, la verginità a sua figlia. Cominciavamo così sul leggero e poi, mano mano, diventava tutto sempre più pesante e sconcio. Insomma dei mascalzoni. Però quante risate! Berlino Perché decisi di farmi la plastica al naso non me lo ricordo, però così successe. Andai a Berlino dove operava un famoso chirurgo, se non mi sbaglio si chiamava Rode, e mi feci fare la plastica al naso. Gli raccomandai, soprattutto, di non cambiarne la forma, ma di renderlo solo un po’ più piccolo.
Quello di Berlino lo rammento come un periodo bellissimo. Tanto per cominciare, la piccola clinica era molto interessante. C’era, per esempio, una ragazza ebrea che si stava rifacendo anche lei il naso. Il suo era un classico naso di quelli all’ingiù, e lei lo voleva all’insù. Venivano a trovarla due fratelli che, invece, avevano tenuto i loro nasi originali, decisamente… ebraici. Avevano due fisionomie talmente caratteristiche che mi meravigliai, una volta saputo che avevano riaperto i loro negozi proprio in una via del centro di Berlino. Allora la città era piena di reduci di guerra, e non era raro veder passare chi senza una gamba, chi senza un braccio, ciechi, paralitici in carrozzina, insomma i segni feroci di una guerra terribile per quel povero popolo. E a me fece molta impressione pensare a quegli incontri inevitabili: gli ebrei, con tutto ciò che la loro gente aveva passato, e gli avanzi di quegli eserciti nazisti che di tanti orrori si erano resi colpevoli e responsabili. Al posto loro io, non sarei certo tornata a Berlino. Via, via… Africa, America, Australia, il più lontano possibile dai tedeschi. E invece, con le loro fin troppo tipiche fisionomie, stavano proprio lì, come a sfidare un passato che, all’epoca, era piuttosto ravvicinato e credo anche doloroso. Gente tosta, insomma. Se si pensa quante ne hanno subite nei secoli, persecuzioni, deportazioni e stermini. Eppure bisogna dare loro atto di avere avuto tempra forte e grande coraggio. In quella piccola clinica, dove operava il dottor Rode, c’era una camera che non si apriva mai. Dentro, chiusa e incazzata nera, c’era Dorian Gray, una bellissima e famosa soubrette del teatro di rivista. Si era sottoposta anche lei a una plastica al naso. Bisogna considerare che, dopo questo tipo di operazione, il viso si deforma e ci vogliono mesi perché il gonfiore si possa riassorbire. Nel frattempo, ti ritrovi con una faccia inguardabile. La Gray, vedendosi così deformata, era entrata nel panico. Non voleva più aprire la porta e gettava tutti i piatti della colazione contro chiunque osasse varcare la soglia della sua stanza.
Io, al contrario, mi divertivo moltissimo. Soprattutto perché, sopra al naso appena operato, mi avevano piazzato un naso di metallo. Adoravo quel naso: sembravo un disegno di George Grosz. E, accompagnata da un’infermiera alta uno e novanta, andavo in giro nella notte a visitare tutti i night club di Berlino. Poi mi venne a trovare Matteo Spinola, amico carissimo. E con lui facemmo tutte le notti le nostre esplorazioni. Una delle serate più indimenticabili fu quando andammo in un quartiere operaio della città, oltre la Porta di Brandeburgo. Ci fermammo in una specie di birreria piena di operai tedeschi, naturalmente tutti gonfi di birra. Ma la cosa straordinaria era la «padrona di casa»: si trattava di un travestì. Magro, scheletrico e con un labbro leporino operato male, era travestito non da più consueta e popolare puttana, ma da «padrona di casa borghese». Un vestitino nero accollato con un collettino bianco di pizzo. In mano un fazzoletto di voile, che accompagnava, volteggiando leggero, i suoi movimenti, soprattutto durante la danza. Era cortesissima e trattava quegli operaioni col collo a panettone con un’enorme gentilezza borghese. Un galateo di buone maniere. Era una sorta di gioco correttissimo che quegli uomini un po’ grossolani mostravano di gradire molto. Di quando in quando la «padrona di casa» ne faceva ballare uno in delicati valzerini. Non lo dimenticherò mai. Cos’era, il loro? Un desiderio di borghesia? Io e Matteo li guardavamo ballare stupefatti e anche, in qualche modo, affascinati da tanta stranezza. Roba che avrebbe sicuramente interessato Sigmund Freud. Il travestito era incredibile in quel suo sogno di essere una signora, col rossetto e il foularino di chiffon che effondeva tutt’intorno profumi di Guerlain, se non mi sbaglio proprio Shalimar. Con quell’arrovesciare il collo all’indietro, mostrava un incredibile pomo d’Adamo, in una seduttiva ma appunto piuttosto borghese e tradizionale civetteria. Ancora più incredibili erano gli operai: alla fine del balletto, riaccompagnavano la «signora» al tavolino e le baciavano pure la mano. Indimenticabile!
Non so dirvi perché, ma la storia della mia plastica al naso aveva interessato molto i miei amici e conoscenti, tant’è vero che quando arrivammo a Ciampino con l’aereo trovammo una piccola folla ad aspettarci. Tutta via Veneto si era divertita alla storia del mio nuovo naso e venirci a prendere all’aeroporto era diventato un gioco per quegli sciagurati nottambuli. Finalmente, scendemmo dall’aereo, e, per civetteria, io mi coprii il naso nuovo con un giornale. Finimmo tutti come al solito a via Veneto, dove ci aspettava perfino Fellini, incuriosito. L’unico scontento fu il bersagliere, quello con la Guzzi 500. Mi dette un’occhiataccia e borbottò: «Preferivo il naso di prima».
Federico
Come conobbi Federico Fellini non me lo ricordo. Probabilmente fu per via della mia amica Flora e di Mastroianni. Fellini era molto simpatico e aveva un suo sistema di finta cordialità che usava spesso per potersi liberare rapidamente dei molti che lo importunavano. Bisogna infatti dire che, alla fine degli anni Cinquanta, dopo i primi successi internazionali ottenuti con i suoi film, La strada aveva vinto addirittura l’Oscar, la quantità di persone che si recava da Fellini era davvero impressionante: attrici, attori, ammiratori, scrittori, la qualunque. Io diventai subito la sua complice segreta e pronta a tutto. L’accompagnai a Londra per la prima della Dolce vita. Di quella bella città mi vengono in testa alcuni ricordi. Il mio arrivo all’aeroporto, dove Angelo Rizzoli, convinto che Federico arrivasse con Giulietta, aveva predisposto un’accoglienza esagerata per fare omaggio alla signora Masina. Giunse insieme a quattro suoi assistenti con le braccia ricolme di enormi mazzi di fiori. Siccome non sapeva bene in che modo trattarmi e «calcolarmi» – non essendo io la moglie, e nel dubbio che un artista come Federico avesse gusti bizzarri e quindi per amante una piccoletta sportiva completa di occhiali –, per non sbagliare, mi riempì di tutti quei fiori destinati a Giulietta. Mentre stavamo sulla porta del nostro albergo, si fermò una lussuosa limousine, dalla quale scese un elegante gentiluomo agé e molto british. Appena mi vide, spalancò le braccia e mi strinse in un abbraccio affettuosissimo, rovesciandomi addosso un fiume di parole di cui io, naturalmente, non capii niente. Federico, da una parte, si divertiva come un pazzo. Chissà come mai? Per chi mi aveva preso quell’uomo? Era un’improvvisa botta di Alzheimer? Rimase un mistero.
Avevamo una suite con due camere da letto e un salotto in mezzo, e fu lì che ci organizzammo. Perché Federico, sempre cacciatore in fuga, mi aveva spiegato che nel caso qualche sua conquista gli piombasse in camera, io dovevo tenermi pronta, alla richiesta di un suo aiuto, a intervenire, bussando alla porta, liberandolo da una situazione che poteva anche diventare imbarazzante. Federico era così. Era molto affascinato dalle donne, però non sapeva mai se questa attrazione lo coinvolgeva jusq’au bout, ovvero fino alla celebrazione della «chiattella». Sta di fatto che, in caso di bisogno, mi avrebbe fatto un segnale. Io mi ero messa tranquilla a leggere nel salotto, vicino alla porta della sua camera, stando ben attenta a captare l’eventuale SOS . In effetti, una lady era arrivata a fargli visita. Bella, bionda, l’avevo intravista dallo spiraglio di una porta mentre erano transitati nel corridoio. A un certo punto il segnale arrivò, e io, come un bravo soldatino, andai a bussare alla sua stanza. Poco dopo la porta si aprì, Federico si affacciò strizzandomi l’occhio e dicendomi: «Se è urgente va bene, digli che arrivo…». Dopodiché, scusandosi nel suo inglese approssimativo, aiutò la bionda lady a rimettersi la mantella sulle spalle e, dopo averle baciato la mano, l’accompagnò alla porta. E fu lì, sulla porta, durante un ultimo baciamano, che le cose cambiarono. Si voltò verso di me: «No, io non posso venire. Digli che ho da fare…». E facendomi cenno di togliermi dalle scatole, rientrò nella stanza insieme alla bella lady, richiuse la porta e buonanotte. Quello era il bello di Federico, l’imprevedibilità. Io me ne tornai in camera e mi feci portare una bella porzione, tanto per cambiare, di fragole con la panna. I fantasmi di Mussolini e Rodolfo Valentino In quel periodo, in casa Fellini, venne la moda delle sedute spiritiche. Era nata per scherzo, poi Giulietta s’intignò e le sedute diventarono un appuntamento settimanale. Dopo un po’, Federico, pur appassionatissimo di esoterismo, si ruppe le scatole e ci mollò. Si divertiva molto di più ad andare a
chiacchierare con le puttane, che naturalmente lo adoravano. In compenso, le sedute spiritiche gli tenevano occupata Giulietta, che insieme a Salvato Cappelli, importante giornalista che era diventato una sorta di suo cavalier servente, e ad altri amici, s’era innamorata del tavolino a tre gambe. Federico mi sussurrava prima di squagliarsela: «Non la deludete…». E difatti, con quel tavolino ci siamo fatti delle belle chiacchierate, prima con un po’ di parenti defunti, e poi, quando ci siamo lanciati, da Rodolfo Valentino a Mussolini, gli abbiamo dato giù. Per tornare a Giulietta, noi non la deludemmo, ma lui, Federico, sì: aveva cominciato a non farne più la protagonista dei suoi film. Bisogna ricordare che Giulietta era una giovane attrice che lavorava al Cut, Centro universitario teatrale e fu lì che conobbe Federico. Oltre a essere moglie e ispiratrice, era stata protagonista dei suoi due grandi successi Le notti di Cabiria e La strada. Lei non gli perdonava di averla esclusa, con La dolce vita e 8½, dai suoi set. Alla fine Federico cedette. Nacque Giulietta degli spiriti. Lui mi confessò, sussurrandomelo in un orecchio: «Non lo dire a nessuno, ma questo è un film sulla menopausa». Federico, in realtà, aveva bisogno della sua Giulietta. Lo divertiva quell’arietta da clown che veniva da La strada, insieme a tutte le incredibili qualità di lei, da maestrina: era colta, brava, buffa, e univa due patrie ideali, la Romagna e Roma. Inoltre, Federico aveva bisogno di farla a qualcuno, altrimenti non si divertiva a rubare la marmellata. Giulietta era proprio l’ideale, era talmente perbene che era come farla in barba alla borghesia. In fondo, i due protagonisti di Ginger e Fred, tratteggiati con un po’ di melanconia, non sono che Federico e Giulietta. Fellini aveva, come Marcello, la mania delle telefonate. Avevano dei giri stranissimi. Allora non esistevano i cellulari, ed era tutto un appendersi ai telefoni a gettone. Così, quando il set era pronto, e i macchinisti aspettavano il ciak, bisognava sempre andarli a chiamare. Loro, infognatissimi, attaccavano incredibili bottoni erotici. La loro vitellonaggine si scaricava
soprattutto nelle conversazioni telefoniche, anche perché la fantasia galoppava. Poi, c’erano le altre avventure… Tanto per fare un esempio, un giorno Federico aveva adocchiato, lungo corso Trieste, una signora che si era fermata davanti a una bancarella dove vendevano costumi da bagno. La cosa che lo aveva affascinato erano le proporzioni, anzi, per essere esatti le sproporzioni, dato che la signora aveva un didietro molto potente e formoso e che si era fermata a considerare la vestibilità di minuscole mutandine di un bikini. Federico si era incantato a confrontare quel sederone con quel costumino e si era lanciato subito ad attaccare discorso. Numero di telefono e poi ore di corteggiamenti telefonici che, secondo me, finivano quasi sempre in niente di fatto: lui si divertiva soprattutto a corteggiare. Nel suo ufficio c’erano, attaccate al muro, centinaia di fotografie. Quasi tutte di donne bellissime e altrettante donne bellissime erano lì in attesa, nell’anticamera del suo studio. A Federico piacevano molto le donne, ma, ci tengo a ribadirlo, le festeggiava con entusiasmo, baci, abbracci e poi, via! Era libero e cacciatore. Venivano da tutto il mondo sperando in un incontro fulminante. Io, in quanto suo aiuto, rimanevo in pasto alle abbandonate, per facilitare la sua fuga. Un episodio che merita la citazione fu quando, sempre in cerca delle sue femmine ispiratrici, mi fece pubblicare un curioso avviso sul «Corriere della Sera». Diceva pressappoco così: «Siete una bellezza rinascimentale? Potreste fare da modella a Tiziano? Avete forme da ricordare le grandi veneri della pittura seicentesca? Se sì, venite all’ora tale al posto tale… Fellini vi vuole conoscere…». Il posto indicato era la sede della 22 Dicembre Cinematografica, a Milano, la casa di produzione di Tullio Kezich, Ermanno Olmi e Alberto Soffiantini. Erano stati loro che, gentilmente, l’avevano prestata a Federico. Quel curioso avviso scatenò la follia. La sede della società si trovava in una grande piazza. Quando la macchina si avvicinò allo stabile, quella marea di donne terrorizzò
Federico. Mi scaricò sul portone dicendomi: «Te ne occupi tu». E se la squagliò, facendo ripartire la macchina a tutto gas. Fu un inferno. C’erano donne di tutte le specie, altro che Tiziano. Gobbe, zoppe, vecchie… insomma, «la qualunque». Non so quante fossero, ma a me sembrarono cinquemila. Erano assatanate e quando poi, invece di Federico, trovarono me, apriti cielo! Nel frattempo, Federico si era innamorato di una bambina: l’avete ascoltata tutti perché era quella che in Boccaccio ’70 in un episodio impersonava la voce narrante di Eros. Sì, lui si era innamorato, ma anche lei. Infatti, per un certo periodo la bambina, che avrà avuto due anni, completa di mamma, venne a fare i sopralluoghi con noi. Erano proprio una coppia di innamorati. Si tenevano la manina, si guardavano negli occhi sorridendo, e noi stavamo lì con la sensazione di reggere il moccolo. A casa aveva Giulietta, classica mogliettina italica. Sapeva perfettamente cosa piaceva a Fefè, e aveva fatto sempre parte del suo mondo femminile. Già, perché fin da quando scriveva sul «Marc’Aurelio», il più famoso giornale umoristico di Roma, nei suoi articoli figuravano due diversi simboli della donna. Giulietta era la fidanzatina, e faceva parte di una coppietta chiamata Cico e Pallina, evidentemente ispirata a loro due. Mentre l’altro aspetto della femminilità era «la mondana con i fianchi a pagoda e le ciglia a ragnatela», e si trattava di donnone con tette e fianchi stratosferici, che peraltro si possono ancora ammirare nei tanti libri che riproducono le illustrazioni di Federico. Lui si divertiva molto a disegnare, e nel suo ufficio c’erano sempre acquerelli e pennelli con i quali spesso scarabocchiava le sue fantasie. Stare con Federico era una festa per me. Intanto, ricordo che appena arrivata in studio, a Cinecittà, fui subito salutata dalla frase di un suo macchinista: «Ao’, c’avemo l’aiuto col visone». Si trattava di un modesto giacchino di visone, che però non era sfuggito a quell’occhio attento.
Eh già, dei gran personaggi i macchinisti del cinema nell’Italia di Cinecittà. Categoria particolare di uomini bellissimi e con grandi corpi muscolosi – attaccatissimi alla famiglia ma pur sempre disposti a vivere anche altre «esperienze» –, si raccontano numerose leggende sul loro fascino e sulle tante avventure che dive, soprattutto straniere, hanno avuto con gli interessati. Noi li chiamavamo «i fratelli mo’ t’acchiappo». Nei secondi cinquant’anni del secolo scorso, poi, si erano molto raffinati. Intanto, erano tutti elegantissimi, molto simpatici, e abituati, per l’appunto, a convivere con registi e attori. Discendenti da famiglie artigiane di Roma e dintorni, divennero vere e proprie dinastie, che si passavano il lavoro di padre in figlio. Avevano tutti nomi tipicamente romani: Duilio, Marco, Cesare, Anneo… In quegli anni, di cinema a Roma se ne faceva molto, quindi guadagnavano tutti bene, e spesso si permettevano macchine di lusso. Ricordo che una sera, a San Francisco, una famiglia molto sofisticata mi invitò a cena e io accettai volentieri precisando però che mi sarei presentata insieme ad altre… ventidue persone! Cioè con tutta la troupe. Feci un figurone, con quel gruppo di eleganti gladiatori, che si erano tutti tirati a lucido e si lanciarono in tanghi figurati, con magnifici «casquet», seducendo le signore. Tornando a Fellini, mi ricordo che una volta, andando in macchina verso Cinecittà, in una via di Roma incrociammo un’auto che procedeva in senso inverso. Durante lo stop di un semaforo, appena Federico notò il conducente, lanciò un urlo: «Il cardinale!». Stava cercando i volti per 8½ e, in particolare, quello del vecchio cardinale che si trova alle Terme. Ve lo ricordate nel film? Fui subito lanciata fuori dalla macchina all’inseguimento di quel signore che lo aveva tanto colpito. Presi un taxi al volo e lo seguii. A un certo punto, mi resi conto che l’ignaro signore si era accorto di essere inseguito da un taxi che ogni tanto, ai semafori, si fermava accanto alla sua macchina, con una pazza dentro che gli faceva strani cenni. Lo seguii fino a via Tacito e lo bloccai prima che entrasse in un portone.
Normalmente noi avevamo una formula quando trovavamo qualche faccia «da cinema». Non so se vi ricordate quel capolavoro di umorismo che è Miracolo a Milano, dove Zavattini faceva appunto il verso al mondo del cinema: c’era un personaggio «venditore di sogni» che ai suoi clienti diceva: «Che fronte! Che occhi! Che sguardo! Chissà chi era tuo padre. Cento lire…». Incredibile, ma questa formula funzionava sempre. Funzionò anche quella volta in via Tacito. Federico pretendeva di avere intorno tutto il mondo e poter poi scegliere i volti che gli interessavano. Quello che lui voleva evitare era adoperare le classiche comparse di Cinecittà. Fu per questo che nello scegliere i personaggi delle Terme, per 8½ mi chiese tutte facce nuove. Io gli portai un gruppo di signore amiche di mia madre, socie di un club chiamato Liceum, dove andavano a giocare a canasta. Un altro personaggio che gli portai fu Jean Rougel. Jean era il classico intellettuale francese, un critico che io avevo conosciuto quando facevo l’aiuto di Bonucci per l’edizione francese di Senza rete. Uno di quegli intellettuali con l’abitudine di lasciare consumare la sigaretta, e poi, ormai diventata cenere, farla cadere sul risvolto della giacca. Jean Rougel, chissà che fine ha fatto! Nel nominarlo mi viene una grande nostalgia di quella sua facciaccia, solcata da rughe, venature e occhiaie, e con un nasone arcigno da vecchia strega. Anche lui fu completamente estasiato dall’incredibile opportunità di essere scelto da Fellini per interpretare il ruolo dell’intellettuale. Sapete come sono i critici: molto compresi nel loro intellettualismo e nella loro autorevolezza quando si tratta di criticare gli altri… ma una volta spostato il punto di vista, le cose cambiano. Così, quando Jean si ritrovò a fare l’attore, cambiò atteggiamento. Appena ebbe fra le mani il copione, si mise a studiare come uno scolaretto. Arrivò la mattina sul set emozionato e trepidante per la sua prima prova da attore. Si presentò da Federico col suo copione sotto al braccio e con gli occhi piccoli ma scintillanti, voglioso di dimostrargli quanto fosse pronto e preparato. Federico gli
lanciò un’occhiata, poi si fece dare il copione, strappò le pagine che riguardavano la sua parte e mi dettò, lì per lì, tutt’altre battute. Jean Rougel si voleva ammazzare. Fu preso dal terrore e mentre io cercavo di incoraggiarlo e di fargli imparare le nuove battute, che peraltro erano in francese, gli vidi luccicare gli occhi di lacrime. La cosa divertì Federico, che si tolse così la soddisfazione di vedere piangere un critico. Tutto sommato io penso di essere stata una pessima aiuto regista. Anche perché in quel periodo, non so come mai, avevo una piccola macchina da ripresa e ogni tanto mi divertivo a filmare le scene che stavamo girando con Federico e l’intero set. Sotto sotto Federico si divertiva di questa mia mania, facendo finta di ignorarla. In realtà, non era facile da ignorare, perché la piccola Arriflex che tenevo in pugno faceva un rumorino che rivelava subito la mia presenza. Per questo mi rifugiavo spesso in alto dagli elettricisti – che di solito seguono la lavorazione dalle balconate dove piazzano le luci –, a fare le mie riprese. Ma questo escamotage durò poco, perché Federico, appena sentiva in lontananza il brusio della mia macchinetta da presa faceva un segnale combinato alla troupe e tutti si voltavano verso di me, facendo manichetto, ovvero il gesto dell’ombrello. Una volta, mentre stavamo raggiungendo il set, Federico buttò uno sguardo nell’attigua sartoria, dove c’era una signora che stava cucendo. Il giorno dopo mi chiese di ricostruire un’analoga sartoria in una parte della scenografia dove avevamo già girato. Io gli dissi: «Scusa Federico, noi questa scenografia l’abbiamo già usata e questa sartoria non c’era…». E lui mi rispose subito: «Se il pubblico si accorge di questo cambiamento, vuol dire che ho sbagliato tutto il film». Credo intendesse dire che se il pubblico si fosse soffermato su un particolare come quello voleva dire che la storia non lo aveva preso come avrebbe dovuto. La testa di Federico era sempre in ebollizione. Difatti, sul celebre finale di 8½ esistono varie leggende. Ma una è
sicuramente vera. Lui voleva chiudere il film in un treno completamente bianco, dove stavano gli attori, vestiti anche loro di bianco. Tanto è vero che effettivamente la girammo, quella scena, ma poi lui decise di lasciare il finale con il grande girotondo, dove in mezzo alle tante comparse c’erano anche mia madre e le signore del Liceum. Perché abbia girato quella scena e poi non l’abbia montata non so dire. Forse, come alcuni sostengono, era una metafora della morte. Ma la battuta che non potrò mai dimenticare di 8½ fu proprio quella conclusiva: «La vita è una festa, viviamola insieme». Una finestra aperta sul mondo Non bisogna trascurare il fatto che Federico aveva un grande sense of humour. Appena arrivò a Roma dalla sua Rimini si presentò al «Marc’Aurelio», dove lavorava il grande Attalo, indimenticabile vignettista che prendeva in giro la nostra società. Nei primissimi tempi, oltre a questo impegno, per sbarcare il lunario, insieme a Mino Maccari aveva aperto un piccolo ufficietto in via Nazionale, dove eseguivano le caricature per i soldati americani. Così si assicuravano la pagnotta. Mi domando sempre se qualcuno di quei militari si sia mai reso conto di avere nella propria soffitta del Texas o dell’Arizona una caricatura disegnata nel 1944 nientepopodimeno che da Federico Fellini, che mi pare all’epoca si firmasse Fefè. Fra i suoi progetti c’era anche l’idea di girare tre film che raccontassero la sua storia. Aveva cominciato con I vitelloni. Indimenticabile! Il suo alter ego nel film, interpretato da Franco Interlenghi, era nato nella grande, affettuosa pancia di quella provincia riminese che vive le due stagioni dell’anno in maniera così differente. L’estate, che attraverso le villeggiature rende quel tratto di costa un posto mondano, e poi l’autunno, che con il suo arrivo spegne ogni guizzo di vita, mentre Rimini torna a essere oscura provincia. Il secondo film doveva essere Moraldo va in città: il racconto dell’arrivo di Federico, da provinciale, a Roma. Nel terzo, La dolce vita, Fellini narra la storia di un giornalista che ha sognato di fare lo scrittore e che invece si ritrova reporter da strapazzo in giro per Roma, da via
Veneto alle periferie, in cerca di scoop e di gossip. Il secondo film non è mai stato fatto anche se tracce di quella storia, virate al femminile, si ritrovano nello Sceicco bianco. Federico mi faceva partecipe e complice di tante sue avventure. Su di una sola mi aveva tenuto completamente all’oscuro. È una storia di cui si sa pochissimo: credo che avesse una relazione segreta con una signora. Non so perché, ma credo che lei fosse una donna molto particolare, fuori dagli schemi. Aveva l’aria di essere misteriosa e profonda, questa storia, e anche la signora. Quindi rispettiamo il suo desiderio. Quelli che ho appena ricordato non sono che una piccola parte dei tanti ricordi che affollano la mia testa e che sono legati a Fellini. Ce n’è ancora uno che vorrei raccontarvi, per restare ancora un po’ in compagnia di quello che considero uno dei miei numi tutelari. Dopo l’esperienza di 8½, anche con l’aiuto di Federico, riuscii a convincere Gianni Di Venanzo, il grande direttore della fotografia, ad aiutarmi nell’avventura del mio primo film, I basilischi. Con lui venne l’intera troupe di Fellini. Una bella fortuna! Anche perché non c’era una lira, e tutti accettarono di lavorare a quell’impresa solo per la simpatia che nutrivano nei miei confronti. Poco prima di cominciare le riprese, andai a trovare Federico a Fregene, dove aveva una casa, e dove poco più tardi l’avrei avuta anche io, proprio accanto alla sua. Facemmo una passeggiata sulla spiaggia. Il cielo era ricoperto di nuvole barocche e il mare era mosso, pieno di schiumose increspature, e di un colore giallo dovuto al sole che stava per tramontare. Non potrò mai dimenticare cosa mi disse Federico in quell’occasione, quando seppe che ero in procinto di debuttare alla regia: «Guarda, ti verranno tutti addosso con le tecniche cinematografiche, gli sguardi a destra e a sinistra, le panoramiche, i fuochi, i movimenti di macchina. Non ti fare impressionare. Racconta la tua storia come se la raccontassi a un amico al bar o la scrivessi con una macchina da scrivere. Se hai talento da narratore, la racconterai bene, altrimenti tutta la
tecnica del mondo non ti potrà aiutare. Quindi vai tranquilla e racconta!». E così feci. Per me, Federico era una specie di finestra aperta su un mondo che ancora non conoscevo. Stare con lui era come seguire una specie di «stregone» bonario e affettuoso, capace di condurti per mano in mezzo ai balocchi, ai sogni, allo stupore tipici di un mago rimasto ragazzo. Quella che provai, appena lo conobbi, fu la sensazione di aver ritrovato un caro amico d’infanzia, una di quelle persone con cui potrebbero beccarti a mettere le mani nella marmellata. Era come poter contare su un compagno di giochi fedele, su un amico col quale si potevano sperimentare piccole avventure quotidiane. E devo dire che per me, da sempre abituata a interpretare la vita anche come un magnifico gioco per adulti, l’incontro con lui fu bellissimo e indimenticabile. Come scrissi una volta, Federico era unico nel mescolare leggerezza, ironia, charme, e un’umanità tenera e struggente. A proposito di Federico e di quel tempo, bisogna ricordare che verso gli anni Sessanta, a eccitare le fantasie erotiche degli italiani, c’erano le soubrettine della rivista. Una serie di bellissime ragazze che erano il patrimonio prezioso di tutti gli spettacoli dei grandi comici. Fra queste bellezze un posto di primo piano l’aveva Mirella Gagliardi. «Bona pe’ tutte le rote» come si diceva a Roma. Era simile a un disegno di Walter Molino. Non so se vi ricordate le ragazze del grande disegnatore Molino. Erano delle bellissime donne con i fianchetti a pagoda e le tettine rivolte all’insù, come le gemme degli ippocastani. Il massimo per far scattare tutti i sogni erotici del maschio mediterraneo dai quattordici anni in su. Marcello Mastroianni, sempre molto attratto dalle belle donne, pur avendo a disposizione folle di ragazze da ogni parte del mondo, pronte a tutto per lui – che aveva in qualche modo ereditato il trono di Rodolfo Valentino –, si prese una sbandata terribile proprio per Mirella Gagliardi e cominciò a farle una
corte da innamorato pazzo. Un giorno capitò il patatrac: Flora scovò nella tasca di una sua giacca una letterina d’amore dedicata alla soubrettina, scritta peraltro in uno stile appassionato che lui non aveva mai adoperato con lei. Non glielo perdonò mai. Dopo questo episodio il matrimonio si fondò sul concetto di coppia aperta. Lei aveva i suoi corteggiatori e lui le sue ammiratrici. Ma la loro era una unione vera, un amore che li legò per tutta la vita. Una sera Marcello stava girando una scena della Dolce vita sulla via Aurelia. Io e Giancarla Mandelli (moglie di Francesco Rosi) eravamo andate a trovarlo sul set. Quando ci vide, Marcello ci chiamò, ci pregò di andare dalla Gagliardi, e di notificarle che la loro storia era finita. Be’, non era un’impresa facile, ma sapendo quanto quella storia avesse danneggiato il rapporto di Flora e Marcello, alla fine accettammo. Non lo potrò mai dimenticare. Quando suonammo alla porta di Mirella, ci venne ad aprire la madre di lei. Era arrabbiata nera. Una telefonata di Marcello aveva annunciato la nostra visita. Lei era fuori di sé. Urlava: «Mia figlia aveva ai suoi piedi tutti i miliardari di Milano, e ha perso la testa per questo attore, che le ha stroncato la carriera!». Lei, Mirella, era a letto disfatta dalle lacrime ma sempre bellissima. Sul comodino aveva una fotografia di Marcello, insieme a un orologio con i brillantini e due anellini, uno con uno zaffiro e l’altro con uno smeraldo. Malgrado fosse notte alta, lei, piangendo, davanti a noi telefonò a Fellini. Una telefonata lunghissima. Lei pian piano si calmò, e Federico le promise una parte nel suo prossimo film. Naturalmente non successe nulla di questo. Tutto tornò come prima. Lei riebbe Marcello e Fellini non le dette la parte. Flora, a sua volta, si circondò di giovani attori. Storie alle quali Marcello non ha mai creduto. Non era geloso perché pensava che fossero solo ripicche amorose. E in parte, almeno all’inizio, era proprio così. Certo, ricordo quei tempi come molto incandescenti. Litigate, schiaffi, scenate tremende. E c’erano le telefonate. Telefonate lunghissime. Marcello, oltre
che la Gagliardi, chiamava Flora, Barbara, l’avvocatessa Cau, sua agente… erano ore e ore di telefonate.
Ciak, finalmente si gira
Tutto cominciò nel 1961, quando insieme a Tullio Kezich andammo a trovare Francesco Rosi sul set di Salvatore Giuliano. Prima di giungere sul posto dove si girava il film, facemmo un giro in Puglia per visitare alcune cattedrali. Volli passare anche per Palazzo San Gervasio, il paese natale di mio padre. Fu per me la scoperta di un mondo, di quella parte d’Italia tagliata fuori dalle rotte delle tante guerre e dalla Storia. Sì, perché i conquistatori si imbarcavano a Napoli e arrivavano a Palermo via mare, era molto più semplice e veloce che non seguendo la costa calabro-lucana. Quando poi arrivammo sul set, Rosi stava girando la sequenza dell’eccidio di Portella della Ginestra. Il bandito Giuliano con la sua banda, dall’alto delle colline, sparava sui contadini che erano in festa per le celebrazioni del 1° maggio, sventolando bandiere rosse sulla pianura. Tullio era giunto lì per scrivere un diario sulla lavorazione del film e ci mettemmo a osservare Rosi, posizionandoci nella buca della quinta macchina da presa. Quando la scena partì, il set divenne un mezzo inferno: i contadini fuggivano in tutte le direzioni, i cavalli si disperdevano, morti e feriti… In seguito, Kezich mi confidò che fu proprio in quei momenti che capì che ero portata per il cinema. Mentre lui cercava di ripararsi dai cavalli che ci passavano rasente e sopra la testa, io me ne rimanevo attenta a seguire le riprese, dando pure consigli all’operatore di macchina. Intanto, poco prima che si svolgessero i preparativi della sequenza, ebbi il tempo di raccontare, sempre a Tullio, quanto fossi rimasta colpita dalla visita che avevamo fatto al paese natale di mio padre. Mi aveva fatto un grande effetto vedere i miei zii, i miei cugini e lo stile di vita che conducevano in quella terra del profondo Sud, aspra e antica.
Gli descrissi le mie impressioni e la vita di quegli abitanti. Fu allora che mi rispose: «Perché non scrivi questa storia? Se ne potrebbe fare un film insolito sul Sud, che mostri la vita dei paesi fuori dalle normali rotte di chi viaggia in Italia, e questo loro profondo oblomovismo». «La scrivo» replicai convinta. Una volta tornata a Roma, ci impiegai solo una settimana a buttare giù la storia, nero su bianco. Però mi sembrava di aver impiegato troppo poco tempo e avevo paura che non fosse interpretata come una cosa seria. Feci allora trascorrere una seconda settimana prima di portare il copione a Milano, per farlo leggere a Tullio. Già, perché sebbene il cinema si facesse prevalentemente a Roma, a Milano c’era la già menzionata 22 Dicembre, la piccola impresa, nata sotto l’ala della Edison, che aveva prodotto il capolavoro di Olmi Il posto, e in seguito fece debuttare giovani talenti come Giuliano Montaldo ed Eriprando Visconti, con i pochissimi soldi che circolavano nel mondo del cinema per gli esordienti che intendevano portare avanti una certa idea di cinema. Il mio copione piacque molto ma, come al solito, non c’erano fondi. Si unì all’avventura il mio amico produttore Nello Santi che riuscì a far partecipare al progetto anche la sua Galatea e partimmo. I basilischi costava poco. Normalmente, all’epoca, un’opera prima costava circa cento milioni. Noi, fra Galatea e 22 Dicembre, riuscimmo a metterne insieme 34. Erano davvero pochissimi, ma li avrei fatti bastare. Come ho già scritto, la troupe era di primissimo ordine, provenendo direttamente da 8½. Mi seguirono nell’avventura anche due mie care amiche, Franca Invernizzi, moglie di Nello Santi, e Bibì Tagliaferri. Mi fecero da aiuto registe, con l’entusiasmo di chi si imbarca in una nuova avventura. Franca ha poi continuato a seguirmi professionalmente in tutti i miei film, diventando una bravissima segretaria di edizione e partecipando alla realizzazione di molti capolavori del cinema italiano, divenuti di culto anche a Hollywood, come il film di Rosi Le mani sulla città e Divorzio all’italiana di Germi. Il budget messo insieme
era dunque bassissimo e girammo il film in appena due settimane e mezzo. A Palazzo San Gervasio non c’erano alberghi o pensioni, non sapevamo dunque dove far alloggiare la troupe e i collaboratori vari. Così ci facemmo prestare gratuitamente dall’Inps una casa appena costruita per i contadini. Fu lì che organizzammo la nostra pensione-albergo. Al primo piano le camere da letto, al piano terreno una piccola buvette. Devo dire che fu divertente per me e per la troupe vivere quel film con lo spirito di un’avventura, dove tutti, a partire dai macchinisti e gli elettricisti, solitamente abituati a essere alloggiati in ottimi alberghi, si adattarono alla singolare situazione. Con Franca e Bibì eravamo davvero scatenate e facevamo ridere tutti per la simpatia. Il grido di battaglia era: «Magnàte er formaggino!», perché grazie a Franca Invernizzi eravamo sostenuti dai formaggi della Galbani e dalle altre squisitezze prodotte da quella famosa ditta, di cui la famiglia era proprietaria. A proposito di Franca, voglio ricordare un aneddoto… No, non proprio un aneddoto… un’immagine che in qualche modo mi porto dentro. Andavamo con Franca Santi verso la Basilicata, quando superammo uno strano veicolo. Si trattava di una carrozzella da invalido, di quelle col motorino, che poi ci strombazzò dietro per avere strada. Quando ci superò, vedemmo alla guida un allegrissimo conducente, forse paralitico, e un incredibile cartello attaccato alle sue spalle, con su scritto INVITIA CREPA! Fu una scritta che ci accompagnò per tutto il viaggio. A chi poteva mai essere indirizzata quell’invettiva, se non forse a un altro paralitico che non aveva neanche il seggiolino col motorino? La Basilicata è affascinante con quelle grandi e brulle montagne che formano in basso splendide e boscose vallate. Palazzo San Gervasio domina l’altopiano delle Murge. Dai bastioni della medioevale fortezza baronale, si vede tutto il Tavoliere, l’antico granaio del Regno delle due Sicilie. Per me, la sconosciuta Basilicata in cui mi apprestavo a girare il mio primo film era stata fin dall’infanzia la favolosa
«Terra del Re», lontana, come lontani e favolosi erano pure quei nonni dai roboanti nomi di mitici baroni svizzerotedeschi. Ora, però, scoprivo la verità di questa terra dura, ma splendida. Basilicata: terra di Basileus, del re bizantino, dove vivono uomini piccoli e forti come tronchi d’olivo e donne dal volto greco e con gli occhi saraceni, dentro case bianche di calce e grigie di pietra. Una terra ricca di leggende misteriose, dal vino denso e ancora odoroso di mosto, dai piatti saporiti, e l’olio verde, aspro e buonissimo. La città di Matera mi diede un’emozione fortissima. Mi apparve fra le brume del mattino che si andavano dorando con il sorgere del sole. Alta sopra un colle, emergeva da una grande valle, in parte boscosa, in parte coltivata. Il centro antico, scavato nella roccia, con le piazze e le strade «affettuose», ancora risuonanti dei passi notturni di tanti giovani, di adolescenze dai sogni frustrati, dalle fughe immaginate e raramente realizzate. Una notte percorrevo con i collaboratori la strada che conduceva al paesino di Minervino Murge, quando mi capitò di vedere una ragazza camminare in tutta fretta, come se dovesse rientrare a casa per un ritardo improvviso. Mi colpì molto la sua gonnellina che, sdinghete sdanghete, ondeggiava qua e là, in perfetto e sensuale contrappunto al movimento delle anche. Ero rimasta incantata da quel movimento perfetto: «Voglio assolutamente quella gonnellina». Tornammo indietro e cercammo di fermare la ragazza, ma quando arrivammo fu troppo tardi, la giovane donna con la sua gonnellina a piegoline era sparita. Alla fine, nonostante avessimo bussato alle porte delle case vicine, rompendo le scatole alle famiglie che, per giunta, erano anche a tavola per cena, non trovammo nessuna traccia di quella ragazza che si era manifestata a noi, per poi sparire come una visione. Ricostruimmo in sartoria la sua gonnellina, ma non fu facile bilanciarla per ottenere lo stesso movimento danzante durante la camminata. Dovemmo mettere persino delle monete nell’orlo per appesantirla. Racconto quest’aneddoto per far
capire quanto, pur regista esordiente, fossi già una gran rompiscatole. Mentre facevamo i sopralluoghi, eravamo costantemente seguiti da una banda di ragazzini scatenati, fastidiosissimi e terrorizzanti. Erano una cinquantina di scugnizzi selvaggi e urlanti come uno stridulo stormo di uccelli. Ci seguivano ovunque senza lasciarci mai in pace. Alla fine, mi scocciai e presi il capo del branco, lo catturai stringendogli il collo «a cravatta», così si chiama nella lotta libera questo tipo di presa, e me lo trascinai dietro per tutti i sopralluoghi. Il resto degli scugnizzi ci seguì in un silenzio sconcertato. Ero convinta di averli finalmente domati, ma non passò molto tempo che trovai sul sedile della mia macchina – una piccola Triumph cabriolet azzurra – il cadavere di un topo. Mi avevano insomma dichiarato guerra. Giorni dopo avrei dovuto girare sulla piazza deserta di Palazzo San Gervasio la scena del bambino che da solo balla il twist. Tenevo in modo particolare a quella sequenza. Mi accorsi che, mentre preparavamo il set, intorno a noi era piombato un silenzio preoccupante. La banda di ragazzini mi stava sorvegliando come pellerossa intorno al fortino. Decisi di convocarli tutti a raccolta e li organizzai per una scena. Gli dissi che avrebbero dovuto marciare insieme come un piccolo esercito, per poi combattere una battaglia. Dovevano dirigersi lungo le pendici della collina, verso il Tavoliere. Un nostro collaboratore si mise alla testa di quel folto gruppo di scugnizzi e con piglio autoritario cominciò a guidare la marcia. Quando furono a una distanza sufficiente, girai la mia scena in tutta tranquillità. Poi ne girai un’altra subito dopo, e un’altra ancora. Mi scordai completamente di quei poveracci che marciavano verso il Tavoliere. Verso sera, le madri cominciarono a preoccuparsi e a farsi sentire. «Oh madonna… i ragazzi!» Tornarono tutti infuriati, inseguendo il nostro collaboratore che, non ricevendo alcun segnale, aveva continuato a marciare imperterrito per diversi chilometri. La rivolta degli scugnizzi scoppiò feroce, non ne potevano più di camminare.
Naturalmente avevano ragione. Chi pagò le conseguenze della mia sciagurataggine fu però solo quel malcapitato collaboratore che venne preso a sassate. Naturalmente, per I basilischi non avevo potuto prendere nel cast attori celebri. Le finanze non lo permettevano. Di nomi conosciuti c’erano solo Stefano Satta Flores e Flora (Carabella) Mastroianni. Arruolai invece molti amici e parenti che furono ben contenti di venire a giocare con il cinema. Il protagonista lo trovai a Bari: Antonio (Tony) Petruzzi, un ragazzo simpatico e dotato di un grande talento, nonostante non avesse mai pensato di fare l’attore. Diventammo subito amici, e lo siamo ancora. Ecco cosa una volta disse di me Tony: «Lina mi apparve tra Palazzo San Gervasio e Minervino Murge come un novello Robin Hood, arrogante con i potenti e protettiva verso i deboli, vivace come uno scugnizzo, meridionalista più di Giustino Fortunato. Ma la chiave del suo fascino è la carica umana, e a testimoniarlo sono i suoi molti e straordinari amici, tra cui anch’io». Entrò a far parte del cast anche Sergio Ferranino, che era compagno di scuola di mio fratello, e che spesso mi aveva aiutato nei miei sudati studi. Poi, oltre a Flora Mastroianni, chiamai Marisa Omodei, e un’altra amica giornalista, Mimmina Quirico. E naturalmente, coinvolsi tutti gli abitanti del paese. Un piccolo mondo che, plagiato da me, si buttò in quest’avventura cinematografica che a Palazzo San Gervasio è rimasta storica. Ciò che mi colpì di questa esperienza fu lo straordinario talento «da attori» di tutti i partecipanti, nessuno dei quali aveva mai recitato prima. Il che mi fece capire che, quello della recitazione, è davvero un dono naturale, al pari del canto. Chi è intonato è intonato, chi è stonato rimane stonato. A scuola puoi imparare la tecnica, l’uso del diaframma, l’impostazione della voce e quel tanto di ginnastica e di danza che aiuta ad armonizzare i movimenti del corpo, ma il talento è una cosa innata, un dono del cielo che non si insegna. Beninteso, io ho un grandissimo
rispetto delle scuole, tant’è vero che ho diretto a lungo il Centro sperimentale di cinematografia. Nelle mie lezioni insegnavo anche a sviluppare i muscoli della fronte, che sono quelli preposti all’espressione. Fateci caso. Mettetevi davanti allo specchio e alzate le sopracciglia, poi inclinatele a tempio greco per esprimere il dramma, tiratele su per mimare la sorpresa… Insomma, è un gioco che mi divertivo a fare con gli allievi della scuola. Ma poi la vera cosa che conta è il pensiero. Quello che in gergo si chiama «sottotesto». Perché non sempre quello che si dice corrisponde a quello che si pensa. Il problema è quel salto che deve compiere la nostra mente, per immettersi nel pensiero di un’altra persona, per entrare cioè nel personaggio. Ma torniamo alla mia storia. Di curiosi aneddoti relativi alla lavorazione de I basilischi ce ne sono tanti. Ne citerò uno solo, quello riguardante il rumore delle scarpe di Stefano Satta Flores durante l’inseguimento/pedinamento della ragazza. Io andavo cercando un suono molto particolare. Si potrebbe descrivere come una sorta di squapl squapl. All’epoca, il più grande dei rumoristi del cinema italiano era Renato Marinelli. Aveva lavorato con i più importanti registi e quindi era con paterna benevolenza che mi aveva introdotto nel mondo dei «rumori». Nel caso del mio film, tutto era filato liscio, fino a quando non ci si presentò il problema, per l’appunto, dello squapl squapl. Lì ci infilammo in una brutta palude perché io tenevo tantissimo a quel rumore e non mi andava bene niente. Provammo di tutto. Marinelli, dalla sua sicurezza iniziale, era caduto in una crisi profonda che si rifletteva nei suoi occhi colmi di odio quando mi guardava. Alla fine, il miracolo: dopo aver provato una quantità infinita di «procacciatori» di quel suono odoroso di caucciù, senza trovarlo, una poltrona della sala di incisione si rovesciò, portando alla luce un’anima di gommapiuma. Fu quella gomma piuma che, premuta contro il pavimento, ci regalò il suono che andavo cercando.
Quando il film fu terminato, Tullio mi disse che lo avrebbe voluto presentare a Locarno, dove tutt’ora c’è un festival molto attento alla scoperta di nuovi talenti. Il nostro film fu selezionato in concorso. Quello di Locarno è un piccolo festival del cinema, ma molto autorevole, quindi fui molto felice dell’invito per I basilischi. Era il 1963. Ci andammo in gruppo: io, Tony Petruzzi, Flora Mastroianni, Mimmina Quirico, Marisa Omodei e Stefano Satta Flores, capitanati da Tullio Kezich, che ci faceva da chaperon. Insieme a noi c’erano anche mia madre ed Ennio Morricone, che aveva composto la musica del film. Con Ennio eravamo molto amici, e lo siamo ancora, anche se ci vediamo poco. Come me, anche lui era al suo primo film.Il presidente della giuria era lo straordinario attore svizzero Michel Simon, un uomo strano, una specie di grosso «scimmione» dinoccolato di cui si narravano bizzarre storie, una delle quali era che lui fosse l’amante di una piccola scimmietta (questa volta senza virgolette…) che portava spesso sulla spalla. Si trattava sicuramente di balle, ma circolavano sempre più colorite per i corridoi dell’Hotel du Lac di Locarno. Si arrivò all’estremo di sospettarlo di coprofagia. Così Tullio Kezich, che era il primo a divertirsi con questi scherzetti, cercò disperatamente di convincermi che, se volevo vincere il festival, dovevo presentarmi a Simon con una bella tazzina di… merda! Eravamo davvero degli sciagurati! (Poi, quando vinsi il festival e conobbi personalmente Michel, che era persona civilissima e con me fu squisito, mi vergognai di quella botta di stupido goliardismo che ci aveva preso. Inutile dire che Tullio sospettò sempre che io, di nascosto, quella fetida tazzina gliela avessi fatta avere come omaggio e tentativo di corruzione.) Quando ci fu la sera della proiezione, in quella grandissima arena piena di un pubblico internazionale, io cominciai a sudare freddo. Come poteva interessare a tutti quegli inglesi, svizzeri, americani, svedesi, la piccola storia di un paesino della Basilicata? Un microcosmo lontanissimo dai loro mondi.
Me ne stavo lì, rincagnata sulla mia sedia, sognando solo di potermene andare al più presto. Invece… miracolo! Un mare di applausi. Un gran successo. Per di più, quando vennero a congratularsi con me, inglesi, svizzeri, americani e svedesi, tutti mi dicevano che nei loro paesi succedevano le stesse cose. Senza accorgermene e senza saperlo, avevo girato un film dal respiro internazionale, che anche un pubblico non italiano poteva apprezzare. E quando presi il premio del festival, la Vela d’Argento, Tullio Kezich, di nascosto, mi faceva ancora dei gesti per ribadirmi che io, in realtà, quella tazzina, a Simon, gliela dovevo aver proprio portata. «Il giornalino di Gian Burrasca» E poi, come succede, un premio tira l’altro, e così I basilischi vinse altri quattordici premi, in altri festival, e io mi ritrovai di colpo nella categoria «registi impegnati». La cosa non mi fece affatto piacere. Innanzitutto, io odio le categorie. Poi mi sentivo come ingabbiata in quella definizione. Quindi avevo bisogno di dare un colpo di coda, deludere i critici e navigare in un mare libero. Conseguenza: andai alla Rai e proposi alla direzione di fare «Il giornalino di Gian Burrasca». I direttori di viale Mazzini mi guardarono sorpresi: in televisione non si erano mai fatte commedie musicali. Poi quel libretto era per ragazzi. «Benissimo…» feci io «facciamolo il pomeriggio per i ragazzi.» Credo che a convincerli fu la mia idea di far fare Gian Burrasca a Rita Pavone, diventata famosa proprio quell’anno, insieme a Gianni Morandi, altro fenomeno canoro di grandissimo successo. Rita, detta allora anche «Pel di carota», era un esserino speciale, ma veramente speciale. Piccolina e minutina com’era, aveva, oltre a una bellissima voce, una carica di energia, di simpatia e di aggressività veramente unica. Quando Garinei e Giovannini vennero a sapere della mia idea, mi guardarono con gli occhi di fuori: «Ma parla come un registratore alla rovescia…».
Tutto sommato era vero: Rita, in effetti, parlava proprio come un registratore che va all’indietro. Per di più, quelle poche parole che riuscivi a percepire erano in un’incredibile cadenza piemontese. Il padre era un operaio siciliano, la madre era un’impiegata al comune di Torino. Insomma, ancora una prova che le mescolanze spesso danno frutti straordinari. Bisogna riconoscere che a captarne per primo il talento fu proprio Teddy Reno, ovvero Ferruccio Ricordi. Chanteur de charme, Ferruccio aveva organizzato in quegli anni il Festival di Ariccia, un palcoscenico per le voci nuove e fu lì che approdò questa ragazzina straordinaria di cui diventò subito l’agente. «Il giornalino di Gian Burrasca» – che, fra parentesi, io avevo trovato in casa, perché era il libro preferito di mia madre da bambina – fu un successo grandissimo: tant’è vero che la Rai decise di non mandarlo in onda, come doveva essere, il giovedì pomeriggio, destinato come era prevedibile al pubblico dei ragazzi, ma il sabato sera, nella serata di punta della televisione. Una follia! Al posto delle ballerine e delle grandi orchestre, dei comici e di tutto l’ambaradan del sabato sera. Era una storia per bambini! C’era una cast straordinario. Oltre a Rita Pavone, erano coinvolti tutti i grandi attori del teatro e del cinema: il padre era Ivo Garrani; la madre, Valeria Valeri; zia Bettina, Elsa Merlini; zio Venanzio, Odoardo Spadaro; l’avvocato Maralli, Arnoldo Foà; una delle tre sorelle, Milena Vukotic; gli indimenticabili direttori del collegio Pierpaolo Pierpaoli erano Sergio Tofano e Bice Valori, che fece tutta la parte camminando sulle ginocchia. Io ero comunque terrorizzata. Invece fu un successo straordinario, grazie al cielo. La mia vita risultò inevitabilmente legata al mio lavoro. Sempre a proposito di «Gian Burrasca», c’è un altro episodio che vale la pena di raccontare. Fra gli interpreti c’era anche Alfredo Bianchini, ottimo attore ma anche straordinario cantante. Così pensai che era una stupidaggine non farlo cantare, e un giorno, durante l’ora di pausa, scrissi, insieme a
Nino Rota, una piccola romanza, con un tono molto inizio secolo, Era la figlia di un minator... Scrivere musica e parole e far cantare Bianchini in quel breve tempo della pausa era veramente un miracolo. E noi lo stavamo compiendo. Io sorvegliavo che non venisse nessuno a romperci le uova nel paniere. Invece, malgrado i miei gesti disperati, un macchinista aprì la porta in piena fase di incisione. E io gli detti un pugno sul naso! Apriti cielo! Fui chiamata in direzione. Ma io non mollai per niente. «Se uno lavora dove si fa dell’arte, perché questo noi facciamo, deve avere prima di tutto rispetto per l’arte… Non importa se io sono una donna… può ridarmelo anche adesso quel pugno sul naso, ma lui se lo meritava e io glielo ridarei…» Insomma, alla fine anche i sindacati dovettero ammettere che la mia reazione, seppur esagerata, era stata scatenata da un comportamento grave del macchinista. D’altra parte non era facile riuscire a fare un prodotto di qualità con tempi così stretti. Un’altra grana accadde quando io chiusi a chiave tutte le mamme dei bambini che partecipavano al film in uno studiolo, per insegnare a una trentina di loro a ballare il «tango della scuola» in una mezz’oretta. Ma di cose insolite in «Gian Burrasca» ne successero tante. Anche il fatto di andare a incidere le musiche alla Rca, invece che alla Rai, fu una specie di miracolo. E riuscii anche ad avere gli arrangiamenti di Luis Bacalov. Luisillo aveva un talento straordinario, due occhi grigi da gatto pigro e una passione per le donne. Per cui mogli, figli… Aveva un tocco magico come pianista, ma pigrizie e famiglie, almeno in quel periodo, lo avevano portato a fare orchestrazioni per la Rca. Decidemmo con lui di usare Anton Karas, un famoso suonatore di cetra che era giunto alla notorietà con un indimenticabile commento musicale per il capolavoro di Carol Reed, Il terzo uomo. Quindi chiamammo lui per eseguire le
musiche di «Gian Burrasca», fra le quali l’indimenticabile Viva la pappa col pomodoro. E a proposito delle musiche di «Gian Burrasca», come non parlare di Nino Rota, Ninetto. Lo rivedo mentre viene avanti per il Corso al fianco di Fellini, con le sue due borse sempre sovraccariche e piene di carte da musica che rischiava di perdere per strada. Questa è l’immagine che per prima mi viene alla memoria, pensando a lui. Ninetto era speciale. Secondo Fellini aveva nascoste vicino alle scapole due piccole ali da angelo, perché questo era Ninetto: un angelo. Con i suoi occhi color del cielo e il suo perenne sorriso, era una presenza che emanava bontà e armonia. Un uomo, anzi un artista, particolare. È difficile parlare di lui riuscendo a trasmettere quell’aura che aveva intorno. Me lo ricordo nel suo studio di Roma, col piano che troneggiava nella grande stanza, o nel suo piccolissimo studio nel Conservatorio di Bari. Erano sempre luoghi e atmosfere pieni di armonia. A Bari, le sue finestre davano su un piccolo giardino di limoni dal quale venivano profumi dolcissimi, e intorno si diffondevano gli echi della musica. Esercizi di pianoforte, scale di clarinetti, cori. Musica. Lontana ma presente. Era il suo mondo. Un mondo nel quale io ho fatto dei bei viaggi, insieme a lui. Ci mettemmo una ventina di giorni a scrivere le settanta canzoni di «Gian Burrasca». Nino era straordinario. Come creava? Rimane l’unico musicista al mondo che ho visto comporre… dormendo. È incredibile? Anche allora mi pareva impossibile ma era così. Veniva a lavorare da me e facevamo musica su un vecchissimo pianoforte scordato che avevo in casa e che avrebbe fatto schifo a qualunque altro musicista. Mia madre, che lo adorava, gli preparava dei pranzetti speciali. Per questo, spesso, Ninetto dopo il pranzo si addormentava al pianoforte pur continuando a suonare. Portava, talvolta, i vecchi spartiti delle sue opere e dei suoi film. Un mare di musica. Ogni tanto andava a spulciarli, per riascoltare, come hanno fatto sempre tutti i compositori, una frase, un tema, un’atmosfera già fatti, a cui si ispirava per trasformarli… Fu il primo ad apprezzare la mia
velocità nello scrivere le parole delle canzoni. Musiche e testi nascevano insieme. Una delle canzoni che mi è più cara, è quella dedicata alla mia mamma: Sei la mamma, la mia mamma Sei la mamma il mio angelo Tu sai capirmi sai perdonarmi Sai farmi dolcemente addormentar. Qualche volta sei un po’ noiosa Ma sei sempre meravigliosa. Sei la mamma, la mia mamma E nessuno mi vuol bene come te
Chiedo scusa, ma avevo voglia di riportare tra queste pagine l’amoroso omaggio a mia madre, alla quale, quando lo sentì, luccicarono gli occhi dalla commozione. Nino Rota e Federico Fellini sostenevano che la più bella canzone mai scritta per il cinema fosse Io cerco la Titina. Quella sulla cui aria, Chaplin-Charlot, in Tempi moderni, canta in un francese inventato. In qualche modo, La pappa col pomodoro è parente stretta di quella Titina. Ha la stessa allegria. Ninetto era proprio speciale. Grazia, simpatia, candore unico; veniva dal mondo pieno di angeli di Federico. E come lui era interessato all’esoterico. Il suo esoterismo ha sempre fatto parte di quei misteri che devono rimanere tali. In Italia, in quegli anni, c’era una rete di attività occulte che coinvolgeva diversi personaggi famosi. In qualche maniera, questo mondo di arcani faceva capo al mago Gustavo Rol, che, da Torino, era diventato una specie di padre esoterico di tanti artisti. Non so se in totale buona fede ma tutti, prima o poi, finivano per andare a consultarlo, cosa che lo rendeva molto importante. Un giorno, mentre giravo a Torino, mi telefonò e con una voce seduttiva, affettuosa, mi disse che dovevo andare da lui perché aveva un messaggio per me. Io accettai l’appuntamento e poi non ci andai. Ho sicuramente fatto male anche perché avevo avuto qualche piccolo avvertimento. Una
notte di parecchi anni prima, mentre giocavamo a fare le sedute spiritiche, ebbi l’impressione di cadere in trance. Una sensazione molto sgradevole, come se qualcuno si impadronisse della mia testa. Da quel momento rifiutai totalmente questo tipo di pratiche e non ho mai più voluto aver niente a che fare con l’esoterismo. La mia natura mi tiene sempre con i piedi per terra. Mi piace definirmi materialista storica e lasciare agli altri questi giochetti. Tornando a Ninetto, sembrava un abatino del Settecento, svagato e matto. Amatissimo dalla famiglia Cecchi-D’Amico, protetto da Fedele, detto Lele, eminentissimo critico musicale, e da Suso, quercia e grande madre del nostro cinema. Stimatissimo da tutti i grandi registi, Ninetto ha contribuito a mettere in musica, con enorme successo, trent’anni di cinema. Ma il mondo lo ha scoperto dopo la sua collaborazione con Fellini. Era rimasto bambino, anche lui, come me e Federico. Ma mentre noi diventavamo ragazzacci o scugnizzi, lui è sempre stato e rimaneva angelico. Ci siamo amati molto. Con lui realizzai uno dei film che mi è più caro, Film d’amore e d’anarchia. Nino creò della musica bellissima, rievocando con struggente nostalgia le atmosfere degli anni Trenta. Quando lo riprendemmo qualche anno fa in teatro, le sue musiche erano rimaste fascinose come allora. Il problema di Nino era che neanche lui si ricordava le sue numerosissime composizioni. Aveva un armadietto a casa strabordante di partiture musicali. Era così aggraziato quando tirava fuori quel mucchio di spartiti e se lo riguardava, accennando a bocca chiusa quei motivi. Erano momenti pieni di fascino. Lui era proprio un personaggio singolare. Ricordo quando, dall’America, Francis Ford Coppola lo chiamò chiedendogli di comporre la musica per Il padrino. Ninetto non ne aveva voglia e voleva rispondere di no. Fummo Suso Cecchi D’Amico e io a convincerlo: con lui andammo davanti a quel famoso armadietto, e da lì trovò poi ispirazione per il tema diventato un classico del cinema mondiale.
Tuttavia, ci fu poi un vero e proprio «incidente» con Dino De Laurentiis, poiché quella musica era già stata usata in un suo film. In seguito al grande successo della colonna sonora, De Laurentiis voleva fare causa a Rota, ma poi, non so come, trovarono un accordo. Credo che fosse questo il motivo per cui non vinse l’Oscar per Il padrino – Parte I, ma solo per il secondo capitolo della trilogia. Ninetto pensava che io me la cavassi bene nel ruolo di autrice dei testi per le sue canzoni. Difatti, per Amarcord, mi chiese di scrivere le parole per quel tema, diventato poi così famoso, che accompagna tutto il film. Da quando Ninetto ci ha lasciati, la sua assenza è stata incolmabile. Solo le sue musiche possono, struggendoci di nostalgia, farcelo ancora sentire vicino. Di «Gian Burrasca» ho parlato già anche troppo, anche perché non è un’opera mia, ma solo l’adattamento del famoso Giornalino, scritto da Vamba. Su I basilischi abbiamo già dato. Quindi, dobbiamo passare al mio secondo film.
A proposito di uomini
Soggetto e sceneggiatura mia. Bianco e nero. Formato da quattro episodi. Chiaramente si trattava di fare un ritrattino pepato degli uomini. Attore protagonista: Nino Manfredi. L’episodio che fa da guida e prologo a Questa volta parliamo di uomini si intitola L’uomo nudo: Manfredi, rimasto per caso chiuso fuori dell’appartamento vuoto che lo ospita, è l’uomo nudo che si nasconde in vari pianerottoli, nei dintorni dei quali scoprirà la vicenda di alcune coppie, introducendo i relativi episodi. Nel primo episodio, intitolato Un uomo d’onore, recita Manfredi con Luciana Paluzzi – tanto per ricordarvela, Luciana Paluzzi bella, brava ed elegante, è stata una delle affascinanti donne di James Bond, quello vero, e cioè Sean Connery. Federico, un uomo d’affari, scopre un giorno che sua moglie Manuela (Paluzzi) ha rubato un bel po’ di gioielli perché cleptomane. Federico è disperato, ma mentre sta cercando una soluzione per restituire il maltolto, gli giunge la comunicazione del suo crollo economico. Rischia la rovina. Allora, guardando quei gioielli, improvvisamente capisce che quella «malattia» della moglie può essere la sua salvezza, e organizza una grande festa con tutti i suoi amici ricchi, a cui parteciperanno anche le rispettive mogli cariche di gioielli. E la moglie provvederà. Nel secondo episodio, Il lanciatore di coltelli, Manfredi è in coppia con Milena Vukotic: Pedro, detto anche «l’infallibile Morgan», è un vecchio artista circense mal ridotto e quasi cieco, che durante le rappresentazioni del suo numero ha già ferito molte volte la sua innamoratissima compagna Saturnia, tanto che la poveretta, sotto i colpi di lui, ha già perso un occhio, e ha una gamba di legno. La verità è che Morgan non vuole assolutamente ammettere che non ci vede più bene: nella
speranza di essere scritturato da un circo, vuole fare le prove per ripassare il suo numero. Saturnia lo supplica almeno di mettersi degli occhiali. Ma Morgan la insulta, l’accusa di essere diventata una fifona, e continua a insultarla lanciando coltelli, senza accorgersi che, frattanto, l’ha colpita a morte. Nel terzo episodio, Un uomo superiore, gli interpreti sono Nino Manfredi e Margaret Lee. Raffaele, uno scienziato con strani gusti sessuali, scopre che sua moglie, che considera deficiente, ha deciso di ucciderlo. Nel rivelarle che ha capito le sue intenzioni, la incolpa di aver preparato un piano da vera cretina per eliminarlo, e si offre di aiutarla a compiere un «delitto intelligente». La porta in cantina, le mette in mano una pistola e si finge morto dopo lo sparo di lei. Ma ha caricato a salve la pistola e così «agguanta» e trascina la moglie, che nel frattempo si è avvicinata per appurare se Raffaele sia davvero morto, a fare l’amore nella fossa che lui aveva già scavato per lei. Nel quarto e ultimo episodio, Un brav’uomo, recitano Manfredi e Patrizia De Clara. Un contadino in sciopero è seduto all’osteria a bere e a giocare a carte con gli amici; la moglie, invece, dopo essersi occupata dei bambini, va a zappare nei campi, e poi, tornata a casa, si mette a preparare il pane. Quando lui, dopo aver ammirato le gambe di Sophia Loren sulla locandina del film Ieri oggi domani, arriva a casa ubriaco, pretende i suoi diritti coniugali da quella povera donna distrutta dalla fatica. All’epoca di questo film, per via del mio successo e per il fatto di essere una delle pochissime donne a fare il mestiere della regista, fui subito contattata dai circoli femministi, che vedevano in me una paladina del movimento. Mi offrirono il ministero della Condizione Femminile. Io non ho mai avuto questo tipo di ambizioni politiche e non me ne poteva «frega’ de meno». Sta di fatto che, durante un congresso al quale ero stata invitata, mi alzai in piedi e chiesi al pubblico femminile presente: «Ma voi avete visto il mio film che si intitola Questa volta parliamo di uomini?».
Non l’aveva visto nessuna di loro. Io me ne andai. Ma come? Una donna fa un film sugli uomini e le femministe non vanno neppure a vederlo? Quel film a episodi mi divertì, perché in qualche modo era un esercizio di stile. Si passava da un neorealismo borghese a uno campagnolo, dal noir alle atmosfere felliniane del circo. Devo confessare che il mio preferito, tra i vari episodi, era proprio quest’ultimo. Fra tutte le bravissime attrici che erano state partner di Nino Manfredi nel film, mi piace ricordare Margaret Lee, che somigliava incredibilmente a Marilyn Monroe. Su di lei, se non ricordo male, correva una strana leggenda. Si diceva che, da bambina, in Inghilterra, avesse subito gli abusi sessuali del patrigno e, scoprendo che anche la sua sorellina stava per cadere vittima della perversione di quella carogna, lo avesse ucciso. La notizia aveva riempito le pagine dei giornali per molto tempo ma, fortunatamente, il processo si risolse abbastanza bene per lei. Le riconobbero le attenuanti e, dopo una pena lieve, fu scarcerata. Era una creatura dolcissima, sensibile e appassionata. Come non comprendere la rabbia di una vittima? Dovunque tu sia, Margaret, ti abbraccio. Quando decisi di «non fare il militare» Un piccolo pezzo della mia vita fu legato a Gino di Grandi: italoamericano, alto, elegante, ricco, non ricordo dove l’ho conosciuto. Ricordo, però, che lui prese una sbandata. Si incapricciò di me e cominciò a farmi una di quelle corti che da noi non si usavano più, con quintali di rose. Tutti gli amici assistettero a questo corteggiamento, un po’ stupiti, un po’ prendendomi in giro, ma non posso negare che la cosa, per me, era seducente. Mi regalò una Lancia Flaminia marrone e un enorme diamante di Bulgari che prendeva tutta la falange dell’anulare. La vista del brillocco fece perdere la testa a tutti i miei amici molto più che a me. Poi, la cosa, piano piano, cominciò a mostrare i suoi lati oscuri. Venne fuori una confessione appassionata: lui aveva una doppia natura, in realtà era bisessuale. Dichiarandomi un amore sconfinato, mi chiese di capirlo e di salvarlo, di non allontanarlo. Dopodiché arrivò «l’ora del lupo», cioè a un
certo punto della serata, o della nottata, Gino usciva, cercando le sue avventure maschili. L’aspetto di questa vicenda che a me pare ancora incredibile è che io lo accettassi. Probabilmente per via del suo grande e dichiarato amore per me. Fu un’esperienza struggente. Non che io fossi innamorata di lui, ma ne ero comunque presa. Adesso mi domando quante donne abbiano vissuto una simile esperienza. È una brutta cosa, mi fece stare male. Lui mi supplicava di non lasciarlo. Non accettava la sua sessualità. In qualche modo, io rappresentavo una difesa. Questa storia riporta alla memoria ricordi fra i più brutti della mia vita. Quando, per esempio, Gino mi invitò in America e mi venne a prendere all’aeroporto con una grande macchina cabriolet e i sedili posteriori pieni di un mare di rose rosse. Poi mi portò a conoscere sua madre. Era un’arpia italoamericana, di origine siciliana, che concepì per me un odio totale non appena mi vide. Ebbi paura che volesse uccidermi. Avevo tanta voglia di scappare da quella sgradevolissima situazione, che rammentai un trucco usato dai ragazzi per non fare il militare: masticare il tabacco e mettere le sigarette sotto le ascelle per farsi venire la febbre. Certo è che la febbre mi venne, e io tagliai rapidamente la corda e me ne tornai a Roma. Fu una visita utilissima che mi fece troncare la storia con Gino.
Lo studente di Praga
Fu invece proprio dopo Questa volta parliamo di uomini che incontrai Enrico Job. L’incontro più importante della mia vita. Eravamo nella famosa casa di costumi Safas e mi capitò fra le mani un bellissimo disegno. Era con me il grande Pierino Tosi. Lui vide che ero rimasta affascinata da quel disegno, e mi disse: «È Job, un vero talento…». E io, come una cretina: «Dai, se non lo conosco io, non è nessuno». «Oh, ne sentirai parlare, sta’ sicura.» L’incontro avvenne per caso. Dovevo andare a cena da un carissimo amico, l’antiquario Claudio Cremonesi. Giunta a casa, si aspettava questo Enrico Job, che era in ritardo. A un certo punto, io, seccata per la lunga attesa, convinsi tutti gli altri ospiti a cambiare programma e a cenare al ristorante. Uscendo dall’ascensore, davanti al cancelletto, eccoti Enrico. «Era lei che aspettavamo da un’ora? Lo sa che è uno stronzo?» Lui rise e si presentò: «Chiedo scusa, sono Enrico Job». Che quello fosse l’incontro più importante della mia vita, e anche della sua, non lo avevamo certo capito né io né lui. Andammo a cena, e dopo, come si usava allora, a ballare all’84, un night club a quei tempi di moda. Mentre ballavamo insieme, Enrico sussurrò, quasi parlasse solo a se stesso: «Sì… si stringe bene». I francesi lo chiamano coup de foudre. Il famoso, mitico colpo di fulmine. Io prima non ci credevo, e invece successe proprio così. Una specie di miracoloso incontro fatale, meraviglioso, imprevisto e magico. Io, quella stessa sera, mi
scoprii a dire: «È fatta… amore, è fatta…». Con una strana, ma ferrea certezza che fosse per sempre. E così è stato. Enrico era un bellissimo ragazzo. Biondo, con gli occhi azzurri. Chissà perché lo battezzai subito «lo studente di Praga». Ma io non ho mai subito il fascino della bellezza. Certo che non si poteva resistere alla meraviglia del sorriso di Gary Cooper, ma io gli preferivo Humphrey Bogart e Spencer Tracy. Di Enrico non è stata la bellezza a conquistarmi, ma la sua personalità artistica: il suo enorme talento, la fantasia, la straordinaria cultura, e anche i suoi groppi antichi di dolore che, in maniera un po’ stregonesca, sentivo che avrei potuto sciogliere. Enrico è stato uno degli artisti più dotati che abbia mai conosciuto. Pittore straordinario, coltissimo, raffinato e schivo. Come dichiarò nel titolo di una sua mostra, era «ancora un ragazzo quando smise di dipingere». L’ambiente corrotto e intorbidito dai traffici e dagli intrighi delle gallerie d’arte lo aveva subito disgustato. Ragioni drammatiche e profonde lo allontanarono da quegli ambienti. Poi ha scritto un bel romanzo, Il pittore felice, in cui spiega la sua crisi. Lontano da quella palude di interessi intorno all’arte moderna, ha però continuato a produrre arte con il suo lavoro di scenografo e costumista. È passato come un vento rivoluzionario nel mondo del teatro. Era un bravissimo regista lui stesso, ma mi confessò che non aveva voglia e pazienza nei confronti degli attori. Tutti i grandi registi del tempo lo hanno ammirato e hanno collaborato con lui. Strehler, Ronconi, Missiroli, De Filippo hanno avuto bellissime esperienze con Enrico. Durante un famoso Riccardo III, Vittorio Gassman, pur ingabbiato in un favoloso costume che era un vero cilicio, dichiarò, mostrando le cicatrici, che era il più bello che avesse mai indossato. Ancora adesso, quell’abito è esposto al museo del Teatro Stabile di Torino. Enrico era un artista a tutto tondo. L’unico aggettivo che mi viene in mente riferendomi a lui è «rinascimentale». Fra le tante, mi piace citare questa critica di Gillo Dorfles, la più vicina alla sua arte:
Le lunghe tappe del suo cammino portano alla ricerca dell’uomo dei nostri giorni: quell’uomo che vive tra realtà e fantasia, tra arte e artificio, tra assurdità e verosimiglianza, ma proprio per questo più attendibile e commovente. Commovente, parola molto pericolosa, che ben di rado viene usata dalla stolida critica dei giorni nostri. Un’arte che si compiace dell’orrore, dell’escremento, del trash, ma che raramente riesce a commuovere o empaticamente a comunicare … In lui ritroviamo anticipazioni di tanto concettualismo poi sviluppatesi in anni successivi … Non è mai caduto nel tranello «poetico» di un’arte basata esclusivamente sul compromesso cerebrale, intellettualistico, sul capriccio, ma ha accettato per contro di esercitare un’arte della commozione, del «pathos». Non quindi solo pittura, scultura, ma anche teatro.
Enrico è autore anche di tre romanzi. Sciascia ne scoprì per caso il primo, La palazzina di villeggiatura. Glielo feci avere all’insaputa di Enrico. Lui aveva scritto quel romanzo senza mai aver avuto l’intenzione di pubblicarlo. Voleva farne delle copie da tenere alla Palazzina, la villa di famiglia, per regalarne in lettura a qualche ospite che avesse avuto voglia di sapere qualcosa in più sulla casa. Quando Sciascia lo lesse, chiese di conoscerlo. Sia Enrico che Leonardo erano timidissimi. Fu un incontro molto imbarazzato e tenero, dal quale nacque una grande amicizia. Sciascia mandò il manoscritto a Elvira Sellerio e siccome il libro fu subito apprezzato per la sua sincerità e autenticità, Sellerio lo pubblicò. La nostra storia ha qualcosa di miracoloso. Quando ci siamo incontrati era il 1965. Ci siamo sposati due anni dopo e ci siamo amati sempre. Non ci siamo mai lasciati per tutti questi anni. Fino a quando quella brutta megera invidiosa è venuta a strapparmelo dalle braccia, il mio amore. Come si fa a raccontare un grande amore? La mia vita è cambiata grazie a lui. E anche la sua. Io ho sempre avuto il sospetto, e in fondo anche il rimorso, di averlo allontanato dalle sue tante arti per trascinarlo con me nel mondo del cinema. Però sono sicura che si sia divertito nei nostri quarant’anni: insieme abbiamo fatto
tanto lavoro e abbiamo avuto tante ore belle di serenità e di allegria. Quando dovevo andare in giro in Europa o in America per festival, Enrico non veniva mai. Se ne andava alla sua Palazzina, in Franciacorta, un’antica e bellissima casa che appartiene alla sua famiglia dalla fine del Settecento. È un luogo speciale dove abbiamo passato spesso le vacanze di Natale e di Pasqua, sempre in compagnia di molti amici. Enrico aveva un vero culto del Natale e costruiva dei bellissimi presepi. Ogni anno ne inventava uno diverso. Era straordinario anche l’albero che addobbava. Lo sistemava in galleria, la grande stanza con il pianoforte a coda, dove la notte di Natale faceva allestire dei piccoli concerti di musica da camera. Io, invece, prima di incontrare Enrico, rifuggivo il Natale: quando sopraggiungeva, evitavo di partecipare alla tavolata di parenti per andare a cena da un’amica, quasi sempre da Flora. Nella mansarda, Enrico aveva il suo grande studio, dove lavorava circondato dal bel silenzio e dal profumo che veniva dalla campagna. Anche a Roma aveva uno studio, sotto Villa Borghese, pieno delle sue opere, ma il suo cuore è stato sempre legato alla Palazzina. Le cene di Natale, le colazioni pasquali, quelle belle ore trascorse insieme a lui, sono state un grande regalo della mia vita, e anche tutti gli amici ne hanno un indimenticabile ricordo. Anche la festa per il battesimo di nostra figlia Maria Zulima fu bellissima. Enrico! Che regalo mi ha fatto la vita, ma che mascalzonata togliermelo così presto: vivere vicino a lui mi ha fatto capire più profondamente che cos’è un artista. Un artista è un essere speciale. Quando ci raccontano della creazione, di quei sette giorni nei quali Dio creò il cielo, la terra e via via tutto il resto, non si parla mai dell’attimo in cui l’onnipotente lasciò cadere un poco della sua polvere divina per dare vita agli artisti. Enrico era un grande artista. Molto più di me. Più profondo e astratto. Noi autori di cinema dobbiamo confrontarci con tante cose che richiedono senso pratico: denaro, invenzioni, imbrogli, insomma, c’è sempre un elemento di baracconeria
nel nostro mestiere. Il mondo di Enrico, invece, era proprio di un’altra natura. E la scoperta di quel mondo ha cambiato in maniera radicale la mia vita. Prima di tutto, debbo a lui tutta la componente visiva dei miei film. Lo ripeto, spesso ho avuto il rimorso di averlo travolto con il cinema, allontanandolo dalle altre forme di arte. Lui era di una totale integrità professionale. Quando Stanley Kubrick lo chiamò per collaborare con Ken Adam, Roy Walker e Vernon Dixon per le scene di Barry Lyndon, rifiutò perché stava preparando l’Orestea con Luca Ronconi. Con Enrico ho vissuto tante prime teatrali, con l’emozione del momento magico dell’alzata del sipario, quando, nel brillare delle luci, appariva ai nostri occhi la scenografia. Fece pure una bellissima mostra personale all’Accademia di Brera, dalla quale ho tratto un documentario intitolato L’Arte di Job. Adesso, con Virginia Vianello, bravissima scenografa, nipote di Raimondo Vianello, che ha lavorato con Enrico per tanti anni, stiamo cercando di riproporre la mostra a Roma, speriamo di realizzarla al più presto. L’anno in cui conobbi Enrico lavoravo come autrice a «Studio Uno», il famoso programma televisivo di Antonello Falqui e Guido Sacerdoti. Scrissi una canzone che era dedicata a lui. Si intitola Mi sei scoppiato dentro al cuore all’improvviso e la cantò Mina. In realtà era una dichiarazione d’amore: Era / Solamente ieri sera Io scherzavo con gli amici Ridevamo fra di noi / E tu e tu e tu Tu sei arrivato / Mi hai guardato E tutto / tutto è cambiato per me Mi sei scoppiato dentro al cuore All’improvviso /All’improvviso Non so perché / Non lo so perché
All’improvviso /All’improvviso Sarà / perché mi hai guardato Come nessuno mi ha guardato mai Mi sento viva / All’improvviso per te.
La canzone è più lunga ma non c’è bisogno di riportarla tutta. Come vi ho detto, era una dichiarazione d’amore. Siamo stati insieme un paio d’anni prima di sposarci. Il nostro matrimonio lo celebrammo a mezzanotte, a Fregene, nella chiesetta nascosta nella pineta, con dei testimoni eccezionali: Federico Fellini e Francesco Rosi, Antonello Trombadori e Paolo Radaelli. Finita la cerimonia, andammo a cena a casa mia, sempre a Fregene, e la mattina, all’alba, partimmo per Venezia, dove Enrico era responsabile di scene e costumi per un lavoro di Ronconi in cartellone. Una sera giunse in camerino una vecchia amica di Enrico. Era una ragazza molto bella, con magnifici occhi verdi, tanto che alla nascita della televisione era stata scelta come una delle prime annunciatrici. Lei ed Enrico avevano frequentato insieme l’Accademia di Brera. Enrico, seppure molto preso di lei, aveva annusato in quella ragazza una specie di demone che tendeva a trascinare lei stessa e gli altri alla rovina, e se ne era allontanato. La sera della prima, a Venezia, in camerino alla presenza di Enrico scoppiò in un pianto dirotto perché le era morto il padre. In realtà, Enrico era il suo unico amico. Si era sposata con un avvocato e aveva avuto un figlio che, durante la separazione, era stato assegnato al padre. Era disperata e qualche giorno dopo salì sul tetto di casa di sua a Milano e si buttò di sotto. Povera creatura, era bella e dannata. Enrico lo sapeva bene, tant’è vero che si era allontanato da lei, leggendo in quei bellissimi occhi verdi un bagliore che metteva paura. Grazie a Dio, il nostro amore, poi, lo aveva sempre protetto. Il divano di Suso e le chiappe del cinema italiano Eravamo in pieno ’68 e io mi sentii in qualche modo obbligata a testimoniare quel periodo. Scrissi una commedia, il cui titolo era uno degli slogan della contestazione del maggio
francese: 2 + 2 non fa più 4. Era una pièce borghese ma anticonformista, classica come un dramma greco ma anche divertente come una commedia sofisticata e allarmante come una profezia. Franco Zeffirelli ebbe più fiducia nel mio testo di Giorgio De Lullo e Romolo Valli, i quali poi rimasero male che io l’avessi passato alla «concorrenza». Nel testo erano messi a confronto due fratelli, uno dei quali, Gianni, perfettamente integrato, rappresentava la borghesia ed era preda di una folle gelosia per l’altro, Bibò, libero e contro il sistema, che rappresentava, in qualche modo, la contestazione giovanile. Gelosia che gli cagionava un prurito irresistibile e alla fine lo copriva di croste. Infatti, il titolo originario della commedia era La rogna. Recitava una compagnia fantastica: la grande Andreina Pagnani, Giancarlo Giannini, Anna Maria Guarnieri e Giulio Brogi. Enrico aveva avuto un’idea geniale per la scenografia: grandi schermi di diverse dimensioni a differenti distanze sul palcoscenico, sui quali venivano proiettati i primi piani degli attori. L’effetto creato era fantasmagorico. Una sorta di disordine ordinato che sembrava rivoluzionare tutte le regole preesistenti in teatro, fingendo di cambiare tutto per non cambiare niente. Proprio così è stato il ’68: ha finto di cambiare tutto ma non ha cambiato niente. Non vi meravigliate delle mie ripetizioni. Io, del resto, ho sempre avuto una passione sfrenata per George Bernard. Come chi è George Bernard? Andiamo, via! È Shaw! Lui, che è un grandissimo autore di teatro, ha sempre sostenuto che le cose bisogna ripeterle tre volte: la prima volta per lo spettatore distratto, la seconda per uno spettatore che in quel momento abbia starnutito e la terza per i critici che, notoriamente, sono i più testoni. Per la parte musicale dello spettacolo, avevo chiamato Luis Bacalov e per cantare le canzoni Lucio Dalla. Erano tutti miei cari amici. Lucio, in particolare, aveva una bella aria di avventura che gli circolava intorno. Quando se n’è andato, mi è piaciuto immaginarlo su una barca a navigare tra le nuvole,
in piedi sulla prua che cavalca quelle onde bianche, sferzando il vento con un piglio da Capitano Achab. Lucio era un bolognese doc, innamorato del mare, al quale ha dedicato una delle sue più belle canzoni, Come è profondo il mare. Allora non lo conosceva nessuno, neppure Franco Zeffirelli, che diffidava un po’ di quell’orsacchiottone brutto e peloso. Poi però lo sentì cantare. Io sono molto grata a Franco che per primo ha avuto fiducia in un mio testo. Zeffirelli è un «ragazzo» straordinario anche adesso che è vicino alla novantina. Era di una bellezza incredibile, avrebbe potuto fare la carriera d’attore e invece scelse la scenografia e la regia. Con il suo primo Shakespeare, Romeo e Giulietta, conquistò nientepopodimeno, che Londra e l’Old Vic. In parte deve questo a quelle famose sue zie anglo-becere che a Firenze gli fecero studiare l’inglese sin da piccolo. Lui era stato, insieme a Francesco Rosi, l’aiuto regista di Visconti in tre suoi importantissimi film, La terra trema, Bellissima e Senso. Eppure, malgrado ciò, in Italia per parecchi anni i critici lo guardarono con diffidenza. Questa fu la sua fortuna, perché lui aprì le sue ali e volò in Inghilterra, dove subito venne riconosciuto il valore di quel giovane fiorentino. Lavorai per lui, insieme a Suso Cecchi D’Amico, alla sceneggiatura del famoso film su San Francesco che prese il titolo dai primi versi del Cantico dei cantici, Fratello Sole, sorella Luna. Io gli avevo proposto di cominciare il film con i quattro Beatles, che allora erano al massimo della loro notorietà mondiale. La mia idea era che quei quattro ragazzi di Liverpool si trovassero sulla cima dell’Empire State Building e decidessero di buttarsi di sotto. A metà del volo, dalle nuvole doveva apparire San Francesco che li fermava per raccontargli la sua storia. Inizio fin troppo originale, che difatti non convinse nessuno. Anche Enrico ha lavorato con Franco per Un ballo in maschera alla Scala. Insomma, Franchino, ti voglio molto bene. A lui, poi, debbo l’incontro con Suso Cecchi D’Amico,
la quercia che ha fatto fiorire tra i suoi rami tanto cinema italiano. Il padre era Emilio Cecchi, grande critico letterario toscano, e il marito Lele, famosissimo musicologo che non ha mai permesso che in casa sua entrasse una televisione, era figlio di Silvio D’Amico, il celebre critico teatrale romano, fondatore dell’Accademia d’Arte drammatica che da lui ha preso il nome. Suso ha collaborato con tutti i registi italiani. Una volta si diceva «i poeti vanno a risciacquare i panni in Arno», noi potremmo dire che «gli scrittori andavano a risciacquare le loro sceneggiature da Suso Cecchi D’Amico». Dopo il film con Zeffirelli, la nostra collaborazione proseguì con un progetto legato a Jorge Amado che si doveva realizzare con Sophia Loren, Tieta do Agreste. Jorge Amado era uno scrittore che, in quel momento, andava molto di moda. Io mi recai in Sudamerica per conoscerlo e collaborare con lui. La cosa carina fu che lui mi disse che la nostra sceneggiatura era più bella del suo romanzo. Amado era un uomo davvero simpatico e gaudente, molto brasiliano in questo. Sia lui che la moglie, autrice di un libro intitolato Anarchica grazie a Dio, erano molto ospitali. Vivevano a San Salvador de Bahia, dove anche le strade ballano la samba e le case di piacere sorridono dalle porte sulle strade. Al suo ingresso c’è il cartello «Sorridi, sei a Salvador de Bahia!». A questa città, Jorge Amado dedicò l’indimenticabile Teresa Batista stanca di guerra, con il più celebre sciopero di puttane dopo quello di Lisistrata. Suso, nei cui divani sono sprofondate le più nobili chiappe del nostro cinema, era una donna straordinaria. Arrivava con la sua piccola macchina da scrivere, se la metteva sulle ginocchia e, con un sorriso cordiale e un occhio attentissimo, era pronta a prendere appunti su tutto ciò che veniva detto durante le riunioni di sceneggiatura. Cara e insostituibile, era lei che riordinava i confusi mondi degli autori e li organizzava in soggetti, in sceneggiature. Ed è stata lei che ha dato vita a tutto il miglior cinema italiano, facendo da levatrice a tanti registi. Il padre Emilio aveva ricevuto nel suo studio tutti i giovani scrittori che andavano lì in cerca della sua benedizione. E
attraverso Suso, i loro scritti si trasformavano in cinema. Grandissima amica. Tutte le domeniche Enrico e io andavamo a cena da lei. C’era quella bella aria di famiglia toscana con tanti amici come Mario Monicelli e Tullio Kezich, e quasi sempre i suoi tre figli: Silvia, produttrice, sceneggiatrice e ottima cuoca; Masolino, critico, erede della tradizione familiare; Caterina, grande organizzatrice e direttrice di scuole di cinema, prima fra tutte il Centro sperimentale, e che in seguito ha guidato Rai Cinema. Certo, Suso e Lele riunirono le due grandi firme nel cielo della critica letteraria, i Cecchi e i D’Amico. Matrimonio spirituale tra Roma e Firenze. Credo che tutto cominciò quando Emilio Cecchi fu messo a capo della Cines, la produzione cinematografica voluta dal fascismo. Si può essere insieme fieri e simpatici? Suso lo era, così come era una specie di grande porto dove tutte le correnti marine trovavano accoglienza e rifugio e dove fiorivano i più bei racconti del nostro grande cinema. L’unico che non andò mai da lei fu Fellini. Non era uomo da sceneggiature lui: saliva in taxi, passava a prendere Flaiano e girava per la città immaginando i suoi film. Mentre Visconti era habitué della casa di Suso, anche se le ha dato per tutta la vita del lei. Persino le grandi coppie di sceneggiatori, come Benvenuti e De Bernardi o Age e Scarpelli, avevano scritto insieme a Suso. Quanto a sceneggiature, il mio caso è particolare. Sia ben chiaro, io amo molto lavorare in compagnia, ma non c’erano mai i soldi per pagare la collaborazione degli sceneggiatori. Quindi io, i miei film, me li sono quasi sempre scritti da sola, salvo qualche eccezione, peraltro piacevolissima. Prima di tutto Suso, poi Raffaele La Capria per Sabato, domenica e lunedì e Ferdinando e Carolina, Benvenuti e De Bernardi per Io speriamo che me la cavo e Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica, Elvio Porta per Francesca e Nunziata e Peperoni ripieni e pesci in faccia. I miei film più importanti, tuttavia, credo che siano quelli che ho scritto da sola.
Un tempo succedeva anche che i produttori, non so bene per quale ragione, radunassero gruppi di sceneggiatori. In quel caso, le loro riunioni, dato che si trattava sempre di persone divertenti e simpatiche, si trasformavano in allegre brigate di buontemponi. Ci si incontrava la mattina presto. Poi c’erano i riti: il caffè, i fatti del giorno, le chiacchiere sui pettegolezzi e, negli ultimi dieci minuti, sì e no, si accennava la sceneggiatura, e il produttore pagava. C’è poco da fare gli spiritosi: in questo modo è nato il grande cinema italiano Un western con Elsa Martinelli Nella seconda metà degli anni Settanta, cedetti alle lusinghe di Goffredo Lombardo e accettai di fare due «musicarelli»: Rita la zanzara e poi una specie di seguito, dal titolaccio Non stuzzicate la zanzara. Quando Goffredo mi chiamò, andai all’appuntamento con una certa protervia. Nel suo studio aveva un grande tavolo che sembrava fatto apposta per tenere a distanza l’interlocutore. La cosa mi innervosì. Di conseguenza, presi la rincorsa e mi lanciai al volo, sul piano lucido di quel tavolo, fino a scivolare quasi faccia a faccia con lui che mi guardava terrorizzato. «Che mi volevi dire?» Credo che questa sua fissazione su di me nascesse da varie ragioni. Prima di tutto lui aveva prodotto dei film che lo avevano portato sulla soglia del fallimento: Sodoma e Gomorra di Robert Aldrich e Il Gattopardo di Luchino Visconti. In più, credeva di guadagnarsi il mio personale pubblico del «Giornalino di Gian Burrasca» e di Questa volta parliamo di uomini, per rimettersi un po’ a posto. La cosa non gli sarebbe riuscita se non fosse stato anche per me un periodo di vacche magre. Non che io non fossi interessata ai film musicali. Certo, dopo «Gian Burrasca», ero considerata un’esperta del ramo. Poi c’era Rita Pavone, fenomeno eccezionale per l’Italia. Ma, insomma, io venivo da successi internazionali, e dunque non era proprio il massimo dei miei desideri sperimentarmi in un genere che allora prendeva per l’appunto il nome di «musicarello». Alla fine
però accettai, con la clausola di non firmare con il mio nome, ma con uno pseudonimo. Goffredo Lombardo affidò la realizzazione a Gilberto Carbone, un personaggio particolare, che gli era molto legato. Era un omone alto e grosso. Ricordo che nell’anticamera dell’ufficio di Goffredo, c’era un busto di suo padre, Gustavo, fondatore della Titanus. Carbone, prima di entrare nell’ufficio, diede delle toccatine scaramantiche al naso di quel busto, come omaggio al suo protettore. Circolavano racconti leggendari su Carbone. Nell’ultimo anno di guerra, dal porto di Napoli sparì una nave americana che, non so come né perché, non si trovò mai più. Opera probabilmente della camorra, si diceva che fosse coinvolto nella vicenda anche Carbone. Credo che fu salvato dalla galera proprio da Gustavo Lombardo, il padre di Goffredo, che lo mise a lavorare nel cinema. Non so se sia del tutto vera questa storia, ma è comunque affascinante come tante leggende napoletane. Un giorno, a casa mia, mentre facevamo le prove per Rita la zanzara, scoppiò una lite furibonda tra Rita e Ferruccio. Ma una di quelle liti stratosferiche. Lei si attaccò alla cravatta di lui, e tenendola ben stretta, cominciò a prenderlo a calci mirando proprio alla patta dei pantaloni. La scena era veramente incredibile: mentre cercavamo di fermarla, Carbone mi sussurrò: «Chist’è ammore!». Io lo guardai come fosse un matto. Possibile? Una bambina, come mi sembrava Rita, che allora avrà avuto poco più di vent’anni, e Ferruccio, adulto con una bellissima moglie! E, invece, anni dopo mi resi conto che il vecchio Carbone aveva capito prima di tutti il mistero di quel rapporto. Infatti Rita e Ferruccio si sono sposati, hanno dei figli e sono ancora una coppia amorosissima, malgrado la differenza di età. I due musicarelli li realizzai con ottimi attori: oltre alla Pavone, c’erano Giancarlo Giannini, Bice Valori, Turi Ferro, Peppino De Filippo, Milena Vukotic, Giulietta Masina e Romolo Valli.
Si tratta di due commediole graziose, di cui non vale la pena ricordare nei dettagli i soggetti. Piccole storie, nate giusto per farne due musical. Ebbero però un enorme successo e consolidarono la fortuna di un genere popolarissimo del nostro cinema che era esploso soprattutto nella metà degli anni Cinquanta. Firmai tuttavia le mie regie con nomi di fantasia, devo dire non proprio memorabili, tipo George H. Brown, o Nathan Witch. Insomma, sono un autore, e quelle erano opere che non consideravo mie, come anche il film che feci in seguito: The Belle Starr Story. Film passato poi alla storia con un titolo cretinissimo: Il mio corpo per un poker. Accadde che la mia amica carissima Elsa Martinelli si trovasse a girare questo film in Iugoslavia, e mi avvertì che la situazione stava precipitando, non mi ricordo per quali intoppi organizzativi. Il regista, anche di lui non rammento il nome, era stato contestato dalla troupe ed Elsa mi chiedeva di andare a salvare in qualche modo la produzione. Fu allora che adottai quel mio pseudonimo che era tutto un programma: Nathan Witch. Suonava: «Nataniele la strega». Quando arrivai sul set chiesi di vedere il girato. Per farvi capire: si trattava di un western al femminile e una scena doveva mostrare un inseguimento, a cavallo, di Belle Starr, la protagonista, e della sua banda. Mi fu detto che la scena era stata girata quasi tutta, ma poi ciò che era stato realizzato, a dire il vero, si riduceva a un primo piano di Elsa che si affacciava da una rupe. La situazione non era certo rincuorante. Il produttore, un certo Righini, milanese, di cinema non capiva assolutamente niente. L’organizzatore era un altro sciagurato che mi si presentò vestito da cowboy, perché desiderava fare la comparsa in una scena. Io, per tutta risposta, gli ammollai un cazzotto che gli fece uscire il sangue dal naso. Il resto della troupe, in quei giorni di attesa, si era messa a fare sci d’acqua e a giocare in un casinò nelle vicinanze. Insomma, una tragedia. Chiamai Righini, l’improvvisato produttore, e gli chiesi quanti soldi fossero rimasti per girare il film. Erano pochissimi. Ma siccome le imprese impossibili mi attraggono,
io misi le carte in chiaro subito: se volete che io faccia un tentativo di salvataggio in extremis, devo avere potere assoluto e i cordoni della borsa nelle mie mani. Lo sciagurato accettò. Ero appena arrivata ma cominciai a impartire ordini severissimi. Partenza l’indomani mattina alle quattro, verso una zona della Iugoslavia con una serie di laghi e cascate che ricordavano vagamente l’America. Lungo una pista di atterraggio abbandonata girammo all’alba tre ore di cavalcate e inseguimenti. Poi, tutti pronti sul set. Lo confesso. Temevo che mi avrebbero fatta fuori, ma invece obbedirono, anche perché si rendevano conto che sapevo il fatto mio: le troupe non le freghi. Protagonista di quell’impresa era un attore americano che si chiamava John Robert Wood. Un giorno, quel cretino chiese di parlarmi e lo ricevetti in camera mia. Facendosi aiutare da un traduttore, mi chiese di non fare a Elsa più primi piani che a lui. Io lo ascoltai con pazienza, poi gli spiegai molto chiaramente che avrei fatto finta di non averle sentite, le sue assurde richieste: «Tu non mi conosci, ma lasciami fare il mio lavoro, sono già abbastanza disperata vista la situazione. Tu fai il tuo, e non ti permettere più di venirmi a fare questi discorsi». La mattina seguente, dopo aver lavato con acqua e sapone la faccetta di una indiana che, essendo la fidanzata di Righini, si era fatta un bel trucco completo di ciglia finte, alle prime luci dell’alba cominciammo a girare vicino a un lago. Faceva un freddo boia, ma Elsa, brava e disciplinata, si gettò in quell’acqua gelata perché così prevedeva il copione. A un certo punto, arrivò qualcuno a dirmi che Wood stava lasciando il set. Aveva notato che io mi occupavo «troppo» di Elsa e, in una botta di stupida gelosia, stava tagliando la corda. Lo vidi che si arrampicava su, verso la montagna, per tornare in albergo. Mandai qualcuno a farsi consegnare il costume, lo feci poi indossare a una comparsa e, di spalle, escogitai di farlo pugnalare alla schiena, in una scena che avevo creato sul momento. Certo! Avevo deciso di «uccidere» il protagonista.
Continuai a girare con Elsa, e a una certa ora rientrammo in albergo. In serata, mister Wood venne a bussare alla mia porta. «Spiacente» gli feci comunicare «mister Wood per me è morto.» Tornando a Roma, in aereo, riscrissi tutto il copione apportando alcune correzioni e ambientando il film durante una lunghissima partita di poker, la location meno cara, pensai, data la situazione finanziaria in cui eravamo. Dopodiché cercai anche un nuovo protagonista. Ebbi un colpo di fortuna. Trovai un ragazzo molto giovane che aveva già fatto qualcosa in un western. Alto, bruno, bellissimo e molto bravo. Ribattezzato George Eastman, in realtà si chiamava Luigi Montefiori. Anche lui arrivò sul set pieno di diffidenza, ma in pochi giorni diventammo molto amici. E così, miracolosamente, quella storia trovò una buona fine.
Da Mimì a Tunin
Io ho fatto studiare il siciliano a parecchi attori. I dialetti sono una grande ricchezza dell’Italia. Quando dirigevo il Centro sperimentale, ogni anno gli attori dovevano studiare un dialetto del Nord e uno del Sud. Ho scritto nel copione la parte di Mimì in un siciliano accennato da me. Di solito io leggo sempre il copione agli attori, per indicare loro il tono dell’interpretazione, ma in questo caso pregai Turi Ferro, il più grande attore siciliano dopo Angelo Musco, di fare anche lui una lettura, e chiesi lo stesso favore anche a Tuccio Musumeci. Quindi con le tre incisioni – la mia, quella di Turi e quella di Tuccio – Giannini cominciò a studiare. Grazie a dio Giancarlo è serio, pignolo e appassionato, e passò una ventina di giorni in Sicilia, incidendo molto materiale. Dei vari dialetti siciliani, il più bello, il più nobile, è il catanese. Per Mariangela Melato non c’erano, invece, problemi: lei, spiritosa e bravissima attrice, è milanese. Mimì è stato il primo film che facevamo insieme. Durante i provini, il direttore della fotografia si lamentava della faccia di Mariangela. Diceva: «Non ha zigomi, la luce scivola via dalla sua faccia, non è fotogenica». Alla fine del film ne era innamorato pazzo. Mariangela e Giancarlo sono stati una coppia indimenticabile. Bisogna tener conto che si misero alla prova in un cinema che vantava coppie del calibro di MastroianniLoren, quindi era dura. Peraltro ci volle il coraggio di Marina Cicogna, grande produttrice della Euro International Film, per scommettere su di loro.
Vale la pena a questo punto di citare un piccolo aneddoto che si colloca all’inizio della mia conoscenza con la Melato. Mariangela era prima attrice nella compagnia di Luca Ronconi, col quale lavorava spesso Enrico. Stavano mettendo in scena l’Orestea di Eschilo, che doveva essere rappresentata in un cinema di Roma trasformato in teatro. Lo spazio era rettangolare, quindi il pubblico doveva essere disposto su tre lati e lo spettacolo aveva luogo sulla platea e sul palcoscenico. Per via di un festival, la rappresentazione, invece di debuttare a Roma, fu presentata a Belgrado dove, volenterosamente, era stato ricostruito l’impianto rettangolare che Enrico aveva progettato per il cinema. A Roma, la struttura si sarebbe appoggiata alle pareti della sala. A Belgrado, lo spettacolo era all’aperto e non c’erano pareti alle quali appoggiarsi. Il giorno della prima, mentre ci accomodavamo ai nostri posti, io e Enrico ci guardavamo preoccupati. Avrebbe retto quella costruzione, che peraltro era di tre piani? Anche perché l’organizzatrice del festival, una simpatica cicciona iugoslava, fregandosene del numero limitato degli spettatori che quel particolare teatro poteva contenere, aveva aperto i cancelli facendo entrare chiunque. All’improvviso ci apparve una folla immensa che, incosciente, accorreva a sedersi su quella scricchiolante costruzione teatrale. Mi ricordo che la paura di un eventuale crollo era tale che io sentivo sudare la mano di Enrico anche sul dorso. Scricchiolando, tuttavia quel teatro improvvisato resse e lo spettacolo cominciò. Mariangela doveva fare Cassandra. L’idea di Enrico era che Cassandra fosse una specie di mummia, completamente avvolta nelle bianche bende mortuarie. Era come se la voce della profetessa uscisse dalla remota profondità di questa mummia. Quando Mariangela fu portata in scena: sorpresa! Si era tolta la benda dalla testa, così che dal corpo mummificato uscisse la sua graziosa testolina bionda. Enrico, a quel punto, non ci vide più. Mentre Mariangela attaccava la sua profezia con una voce di oltretomba – mi pare che la battuta fosse: «Tempo verrà…» – Enrico le gridò: «Puttanaaa!».
La voce della profetessa si incrinò. Ma, come spesso accade, il pubblico non si accorse di nulla. Questa fu la mia conoscenza con Mariangela, che poi è diventata una delle mie più grandi amiche e una delle mie attrici preferite. Torniamo a Mimì metallurgico. Giravamo a Catania, città che mi è rimasta nel cuore, nata ai piedi dell’Etna che dall’alto, con la sua aria poco tranquillizzante, ne chiude l’orizzonte. Città con grandi tradizioni teatrali e piena di fascino: i mercati della notte, la via Etnea con lo «struscio», le chiese e i conventi barocchi, il profumo di quel mare che è ancora Magna Grecia, dei gelsomini e dei limoni. Terra di gente dotata di grande ironia, la Sicilia ha dato vita ad artisti da me molto amati: Luigi Pirandello, Vitaliano Brancati, Leonardo Sciascia e l’indimenticabile Angelo Musco, che mi faceva ridere fin da quando ero piccola. Una popolazione pronta all’ironia. A proposito del temperamento siciliano, non potrò mai dimenticare un vecchio poeta che la notte andava a leggere poesie dedicate alla madre morta, davanti ai cancelli del cimitero: appassionato, ma pronto, per la paura, a scappare al minimo fruscio. Ma che signora, io sono una regista! «Ho bisogno di un po’ di puttane» confessai un giorno a un siciliano, mafioso di quartiere, che era stato assoldato dalla produzione di Mimì metallurgico, completo di baffi, sigaro e pancetta. «Bottane?» mi rispose lui. «Non si preoccupasse, ci penso io.» «E no, grazie, ci devo pensare io… Mi pagano per questo.» «Scusasse, ma io non ce lo consiglio, non è cosa da signora.» «Ma che signora, io sono una regista!» «Signora, mi dia retta… se ce lo dico, è da avere paura.» «Io non ho paura di nessuno.»
«Questo non lo deve dire.» A quel tempo, nei vicoli di Catania non c’erano trans, ma, sotto i lampioni, solo le ragazze dei quartieri malfamati. Io, forse per omaggio a Fellini, scelsi tra loro una particolarmente formosa. Era una femminona-guerriero, con una grande massa di capelli neri e un corpo degno di Botero. Ci vuole coraggio e disperazione, e spesso anche ironia e prontezza, per farlo, quel mestiere. E come in un ricordo d’infanzia, ognuna di loro aveva una bambola al centro del letto. Ho sempre avuto una particolare tenerezza e simpatia per quelle «ragazze». Mentre giravamo in Sicilia, Turi Ferro era impegnato in un altro film, un giallo sulla mafia, a Palermo. Noi eravamo a Catania. Quindi, per far conciliare le due lavorazioni dovemmo sottoporre il poveretto a un’incredibile faticata. Nel nostro film interpretava varie facce della mafia. Avevo chiamato i suoi diversi personaggi tutti con lo stesso nome: Tricarico. Ma si trattava di persone diverse. Uno era un capomafia che truccava le elezioni, un altro un imprenditore siciliano a Torino, un altro ancora era sindacalista e, infine, c’era un monsignore. Turi arrivava distrutto dal set palermitano, e io lo portavo al trucco. Mentre dormiva, lo truccavamo e, quando si svegliava, vedeva allo specchio quella faccia che non riconosceva: «Ma io cu sono? Cu è quello?». «Tricarico.» «Non ho capito…» «Tu sei la malafede del potere… Ha la faccia e i vestiti diversi, ma è sempre lo stesso.» L’appartenenza mafiosa era simboleggiata dai tre nei sulla sua faccia. La cosa gli appariva strana ma affascinante. Turi era un grande, grandissimo attore. Io gli suggerivo le battute nascosta sotto la sedia. Durante una prova, gli era venuta una risatella trattenuta che gli faceva ballare la pancia. Il che mi era piaciuto moltissimo, ma questo tremolio non riuscimmo a ritrovarlo mai più.
Quella di Mimì metallurgico è stata una bellissima esperienza. Un episodio divertente riguarda il «sederone» della moglie del finanziere, che Mimì deve sedurre per restituire le corna. Mi serviva qualcosa di davvero speciale: una donna sformata, tenera, una popolana. A Napoli, che è da sempre un vivaio di straordinari caratteristi, iniziai la mia ricerca. Attrici di teatro, poi generici, e infine, non trovando niente di mio gusto, mi rivolsi al mondo dei cantanti popolari. E lì incontrai una forza della natura, Elena Fiore. Una presenza straordinaria: una faccia, un naso… una personalità popolare indimenticabile. Aveva solo qualche problemino. Prima di tutto niente sederone, in quanto era alta, prosperosa, ma aveva la forma un poco a pera… Pazienza. Trovai una controfigura romana nell’«acquario» di Fellini. Un culone che era un monumento. Ovviamente quando la Fiore girava a figura intera andava imbottita, cosa che la offendeva non poco: «Ma comm’… Io sopra songo un poco forte, ma sotto song’ nu figurino e vuio me struppiat’ accussì!». Però, poi, accettò la situazione. Altro problema era il suo analfabetismo. Adesso sembra quasi impossibile da credere, ma Elena era proprio analfabeta. Era intelligente, sveglia, simpaticissima, ma non aveva mai imparato né a leggere né a scrivere. Solo lavorando con lei ho realizzato che dramma terribile sia l’analfabetismo. Noi non siamo più abituati, ma quando scopri che cosa significa veramente, è traumatico. Durante il doppiaggio, Elena doveva guardare solo me, dando allo schermo le spalle. Io, per il sincrono, dovevo anticipare di qualche attimo il movimento labiale, così che lei, ripetendo i miei tempi e le mie parole, potesse riuscire a doppiarsi. Dal più profondo Sud, passammo poi a girare al Nord, a Torino. Ricordo che ai cancelli della Fiat, dove era prevista una scena, a un tavolino, c’era un giovane Giuliano Ferrara che si occupava di politica giovanile. Suo padre era stato direttore dell’«Unità». «E tu che ci fai qui?» «Giro un film. E tu?»
«Lavoro: politica.» Non è bella l’Italia? Non posso dimenticare la prima del film al cinema Ideal di Torino, con una sala rigurgitante di metalmeccanici, in maggioranza meridionali. Enrico e io eravamo terrorizzati, ma alle prime risate ci tranquillizzammo. Interessare e piacere è la migliore gratifica per un artista, e quindi anche per me, che l’ho provata molte volte, sia al cinema che al teatro. A partire da Mimì metallurgico ferito nell’onore ho quasi sempre messo nei miei film un brano di opera lirica. La musica operistica è sempre stata una grande bandiera della cultura italiana nel mondo. Mi sembrava quindi una testimonianza doverosa. In Mimì, oltre ad aver utilizzato l’ouverture della Traviata, avevo previsto per l’arrivo di Mimì a Torino un pezzo del Trovatore. Siam giunti / Ecco la Torre, ove di stato gemono i prigionieri /Ahi l’infelice, ivi fu tratto.
Siccome i diritti di utilizzo costavano troppo e non me li potevo permettere, feci un furto: presi l’incisione di un’orchestra di Praga, che a quei tempi non era soggetta a diritti, e ci montai sopra la bellissima voce di Placido Domingo. Molti anni dopo, andai a trovare per un fine settimana Enrico che girava la Carmen in Spagna. Su una terrazza dell’Andalusia, mentre mi avvicinavo alla troupe durante la pausa, sbucò proprio Domingo, che mi vide, allargò le braccia e attaccò, con la sua voce divina: «Ecco siam giunti…». Una figura di merda! Mi avvicinai, vergognandomi come quella ladra che ero stata, ma Placido fu divino. Mi abbracciò, mi baciò, e mi disse: «Hai fatto bene. So anch’io quanto sono esosi i proprietari dei diritti musicali, e io sono orgoglioso di essere comunque in quel tuo film». Come si può non innamorarsi di Placido? Bellissimo, bravissimo, grande artista,
grande signore e in più molto spiritoso. Gli sarò grata tutta la vita. Film d’amore e d’anarchia ovvero… Dopo il successo di Mimì, Goffredo Lombardo mi rimproverò di non aver portato a lui, invece che alla Euro International Film, il progetto. Io, allora, mi presi una bella soddisfazione: chiamai la sua storica segretaria, la famosa Cesarina, e la pregai di andare nel loro archivio e tirare fuori una sceneggiatura dal titolo «Il dolce e l’amaro». Quello era stato il primo titolo di Mimì. «Vedi, amore, quanto sei distratto… Io lo portai proprio a te. E tu, o non l’hai neanche letto, o non l’avevi proprio capito… I’m sorry darling.» Lombardo fece due occhi rotondi, nei quali io potevo leggere il sottotesto: «Ma che cretino sono stato». Con la Euro International era nato un bellissimo rapporto, tant’è vero che, subito dopo Mimì, demmo vita a un altro progetto che mi era molto caro. In quel periodo i giornali erano pieni delle storie di ragazzi e ragazze che pagavano, spesso anche con la vita, le loro rivoluzionarie idee politiche. La stampa ne parlava come di idee criminali, ma a me venne voglia di approfondire la natura di questo fenomeno, e cominciai a studiare la storia dell’anarchia per capire che cosa spingesse quei pazzi a compiere imprese molto spesso suicide. Noi italiani, insieme agli spagnoli, abbiamo una lunga tradizione anarchica. Uno dei più famosi anarchici dell’Ottocento era stato Giovanni Passannante, un cuoco napoletano. Nel 1878 saltò sulla carrozza del re Umberto I, tentando di pugnalarlo senza riuscirci. Poi ci fu Gaetano Bresci che, fin da quindicenne, frequentava il circolo anarchico di Prato. Emigrato negli Stati Uniti, viveva a Paterson, nel New Jersey. Nel 1898, quando il popolo affamato prese d’assalto i forni di Milano, il generale Bava-Beccaris represse nel sangue la rivolta e Umberto I gli conferì una medaglia, notizia che indignò profondamente Bresci. Il suo antico spirito anarchico lo spinse a mettere in atto un regicidio.
A Monza, nel 1900, durante una cerimonia, riuscì a uccidere Umberto I. Finì la sua vita in una cella, venti metri sotto il livello del mare. Impazzito, si narra che si spaccò la testa contro i muri della prigione. O forse, chissà, fu fatto fuori con il classico «santantonio», l’eliminazione violenta di un carcerato da parte della polizia, cosa che io ricreai fedelmente nel finale del mio film. L’altro famoso anarchico è stato Michele Schirru. Anche lui emigrato negli Stati Uniti, fece ritorno in Italia nel 1932 per ammazzare Mussolini. Questi ultimi due giovani anarchici decisero, forse per reagire al nervosismo di quelle ore di attesa prima di compiere l’attentato, di rifugiarsi il primo fra le puttane di un casino, l’altro nel letto di una ballerina. Questo bisogno del calore di una donna prima dell’appuntamento con la morte ha forse radici antiche, eros e thanatos. Un bisogno arcaico di ritrovarsi nel caldo ventre dell’amore materno. O magari solo la ricerca dello stordimento nell’erotismo di un amplesso. Da queste loro storie, nacque in me l’idea del personaggio di Antonio Soffiantini detto Tunin (Giannini), contadino lombardo-veneto, e del vecchio amico anarchico che, fin da bambino, gli ripeterà davanti al focolare: «Gli uomini sono tutti uguali e liberi come Dio li ha creati». Un giorno l’amico gli rivela: «Son turna’ ammassa’ Mussolini… marameo!». Quando poi Tunin lo vede ucciso dai carabinieri con quattro scoppiettate, ecco che decide di prenderne il posto. A Roma, in un casino, Salomè, interpretata da Mariangela Melato, fa la puttana. Ha visto ammazzare il suo fidanzato Anteo Zamboni, linciato dalla polizia per aver tentato di uccidere Mussolini, e ha giurato di vendicarlo. Sarà lei, Salomè, la «compagna» anarchica che ospiterà Tunin nella casa di piacere, prima dell’attentato. Fra l’altro, proprio il casino è il luogo migliore per sapere dai gerarchi gli spostamenti del Duce. Il povero Tunin non è mai stato in un bordello. In quei giorni conosce Tripolina, una ragazzina napoletana finita nella maison. Tra loro scoppia, improvviso, un amore disperato. Anche Salomè si è affezionata a Tunin.
Così, temendo che quell’attentato sarebbe stato un suicidio, le due donne decidono insieme di non svegliarlo la fatale mattina. Quando il giovane si risveglia, si sente tradito e traditore. Tenta un ultimo gesto di disperata follia, ma finirà ammazzato in galera. All’inizio avevo scritto la parte di Salomè pensando a Simone Signoret, mentre Tripolina doveva essere per la Melato. Mariangela, però, si innamorò della parte di Salomè, così cambiai idea e per Tripolina scelsi Lina Polito. In un’isoletta del Golfo di Napoli era nata questa giovane ragazza, poco più che una bambina. Fu il padre che me la portò, durante i provini. Sapete com’è il recitare: è un dono naturale e misterioso. Si apre una porta, entra una persona e dice «buonasera». Il punto è tutto lì: o ci credi o non ci credi. L’attore ti fa credere. La piccola Polito era un’attrice nata. Persino Giannini rimase impressionato dalla interpretazione trepidante di quella ragazzina. Quanto a Giancarlo, una notte, mentre pensavo al suo personaggio, sognai un gatto rosso. Quell’immagine mi ispirò il trucco per Tunin. Volevo allargare la faccia stretta di Giannini, per dargli una fisionomia che in qualche maniera ricordasse il gatto. Avevo in mente quei tipi rossi pieni di lentiggini. Feci realizzare quattro identiche maschere di lattice costellate di buchi. Così, alternandole, ogni mattina si potevano disegnare le lentiggini sul suo viso, rispettando le stesse dimensioni e gli stessi colori. La faccia di Giannini, con quei suoi bellissimi occhi verdi, insieme a tutto il rosso della barba, dei capelli e delle efelidi, diventò ancora più affascinante. Per la scenografia del casino, Enrico fece un miracolo. Aveva trovato un palazzetto settecentesco, con i pavimenti di ceramica dipinta e i soffitti a travi di legno. Era stato un orfanotrofio, come le Zitelle di Venezia, e il proprietario era un principe romano della nobiltà nera. Grazie a una buona mancia data al custode, Enrico riuscì a visitarlo: era perfetto. «Ma il principe non lo darà mai al cinema,» disse il custode «soprattutto per un film sull’anarchia ambientato in un
casino… Non pensateci nemmeno.» Andai personalmente a incontrare il principe, da sola. «Che cosa dovrebbe girarci?» mi chiese lui. «Un casino.» Gli raccontai il film e, per una specie di miracolo, il principe, alla fine, ci dette il permesso, apprezzando la mia sincerità. In quegli spazi settecenteschi, Enrico ricreò un ambiente anni Trenta, che fu perfetto per quella storia di innocenze oltraggiate e di passioni traditrici. Peppino Rotunno curò una straordinaria fotografia, e Nino Rota compose musiche che evocavano nostalgicamente gli anni della sua giovinezza. Riempii quel casino di ottime attrici. C’era Isa Danieli, che era stata attrice e anche aiuto regista di Eduardo De Filippo; Anna Bonaiuto ed Enrica Bonaccorti, che ebbero poi tanto successo in teatro e in televisione; come maitresse c’era Pina Cei e la mia amata Elena Fiore, famosa «culona» di Mimì. Elena si metteva alle mie spalle e con voce da gattona sexy mi sussurrava, in preda alla gelosia per la parte secondo lei troppo piccola, i versi di una bellissima canzone napoletana: «E damme stu veleno… Non aspetta’ dimane… Indifferentemente se tu m’accidi io non ti dico niente…». Era tutto un mondo di ragazze odoroso di cipria e di maialate. Esisteva un’altra scena per il finale del film. Mentre Tunin veniva ucciso di botte in galera, le sue due donne, Salomè e Tripolina, lo chiamavano disperate fuori della prigione. Ma scelsi di non montarla quella scena, perché mi sembrava più definitivo quel triangolo di galera dove moriva Tunin, sotto i colpi di un «santantonio». Di questo film io ne parlo con tutto l’amore che si può avere per un figlio. Vincemmo il Festival di Cannes, dove Giancarlo Giannini ottenne la Palma d’oro per la migliore interpretazione maschile, e tra il pubblico ci furono due americani, un industriale e una psicanalista, che si innamorarono del film tanto da diventarne distributori, loro
che non si erano mai occupati di cinema. Si misero in società con la New Line e la pellicola uscì in America. Un bel giorno, a casa mia, si presentò John Simon. Io non sapevo chi fosse e fui molto brusca con lui, e solo dopo mi spiegarono che era il più feroce critico cinematografico degli Usa. Un pomeriggio di pioggia era andato a vedere il film in un cinema d’essai di New York, incuriosito da quell’insolito titolo. Quando Simon era rientrato in redazione e aveva detto di aver visto un capolavoro, il direttore di «Newsweek» era caduto dalla sedia. Simon non aveva mai manifestato tanto entusiasmo, così il suo direttore, impressionato, lo spedì a Roma per intervistarmi. L’aspetto divertente di questa vicenda fu che quel critico così temuto, al quale tutti, nello show business americano, leccavano i piedi, rimase così colpito dal fatto di essere stato poco considerato che provò subito simpatia per me e diventò poi amico mio e di Enrico. Mi piace riportare qui qualche frase della prefazione di John Simon al libro del 1977 che raccoglie le sceneggiature di alcuni miei film: … l’ambivalenza è ciò che rende i suoi film tanto ricchi: il sapere che non c’è niente di semplice nella vita, niente che sia bianco o nero, questo o quello. In questi film c’è sempre una precaria felicità, in parte insostenibile, incapace di perdurare. Si trova sempre di fronte a una scelta, rimandabile ma inevitabile, tra diverse alternative di cui nessuna è completamente
giusta,
completamente
felice,
ma
nemmeno
completamente sbagliata. … ciò a cui Lina si è strenuamente opposta, sono gli schematismi: la limitativa angustia di un ordine o di una tradizione o di una disciplina. I film della Wertmüller sono pieni di immagini, ritmi, contrasti, scambi che denotano il maestro. Prendete, per esempio, il bianco sporco delle case vicine a Catania dove troviamo Mimì all’inizio e alla fine del film. … Un veicolo fatale sta arrivando nelle prime immagini, portando la disastrosa politica nella sua vita; nelle ultime riprese, un altro veicolo, altrettanto fatale, sta partendo, portando l’amore fuori dalla sua vita e lasciandolo una piccola figura prostrata, un misero granello nero in un paesaggio biancastro e granuloso. … Come i più grandi registi, la
Wertmüller scrive le sue storie da sé, sfornando delle trame stupende e dei dialoghi che sanno essere estremamente commoventi o divertenti, o tutti e due insieme. … Sono colpito da alcuni suoi monologhi dove, in un paio di frasi succinte, composte da qualche scarna parola, si coglie l’essenziale in tutta la sua terribile, luminosa semplicità.
Piazza del Popolo e dintorni
Io ed Enrico abitavamo in un piccolo attico in via Ennio Quirino Visconti. Non mi ricordo chi fu a parlarmi di un attico che dava su piazza del Popolo. Enrico, in quel periodo, stava lavorando con Luca Ronconi. Io andai sola a visitare la casa e me ne innamorai, così mi recai subito dal proprietario e gli lasciai un assegno di tre milioni, senza farmi rilasciare neppure un foglietto per ricevuta. Era tutto quello che avevo. Per mia fortuna, quel signore era un vero gentiluomo. Quando Enrico lo venne a sapere mi dette della pazza. Mi disse anche che non voleva finire in galera per la mia incoscienza. Ma l’incoscienza è una buona consigliera. Infatti, quando poi vide la casa, mi dette ragione e insieme, in un felice periodo di lavoro, riuscimmo a pagarla. Piazza del Popolo è una piazza speciale. Era la più importante entrata a Roma dalla Via Flaminia. Nuvole barocche arricciolate come la barba del vecchio Michelagnolo spazzano col vento caldo un cielo antico; e gli ultimi raggi del sole, oro e rosa, si divertono a trasformare quei riccioli bianchi in paffuti sederini di puttini che si rincorrono nell’azzurro. In quel fondale fronzuto, ondeggiante di palme, scintillante di fontane e biancheggiante delle statue degli dei del Pincio, per me c’è sempre, lontana, un’eco della mia infanzia: l’antico gazebo liberty e, la domenica mattina, la banda dei carabinieri col pennacchio, che suona la Gazza ladra. Talvolta, i miei ospiti americani, guardando dalla terrazza la bella scenografia della piazza, mi domandano, per fare gli spiritosi: «It’s maestro Job’s decor?». «Job, with Michelangelo and Valadier for assistants…»
Verrà colta l’ironia? Confido nella stessa lunghezza d’onda del «sense of humour». Gli americani perdono stelline dagli occhi, scintillano stupore, lacrimano invidiosa ammirazione. Si cerca di consolarli: anche il Central Park è carino. Dio benedica tutti i principi e i signorotti, i papi e i condottieri che, per megalomania, scelsero l’arte per celebrare la propria gloria. Piazza del Popolo: popolo viene da populus, pioppo, e non popolo, plebe. C’erano i pioppi, anticamente, qui, prima che la piazza diventasse l’ingresso nord di Roma, con le sue tre strade puntate su obelischi e basiliche, e la quarta verso San Pietro, di fronte al colle del Pincio. Davanti a Santa Maria del Popolo, Mastro Titta, il boia della capitale, tagliava le teste ad assassini e patrioti. I papi erano duri, quasi come quelli che oggi chiedono la pena di morte. Dalla nostra terrazza il punto di vista è speciale, privilegiato. È il controcampo della terrazza del Pincio. Eh… Roma, Roma, Roma: conosce le proprie grazie e se ne sta sensuale e pigra, adagiata lungo il fangoso fiume, che civettosamente chiamano biondo Tevere, a sventolarsi mollemente ponentini e scirocchi, sicura del suo charme millenario. Questa entrata in Roma è iniziatica. Ci inizia al viaggio con un rituale magico. Le due cupole delle chiese gemelle sono grandi tette e Fellini, che ci abitava sotto, lo sapeva bene. L’obelisco è chiaramente un simbolo fallico, eretto a sfidare tempo e vecchiaia, di certo stuzzicava i sogni del «grande vitellone», e la porta michelangiolesca è la più ambita e discussa: le femministe la pretendono di natura vulvare, ma i gay sono sicuri che si tratti di altro pertugio, quello di Eliogabalo, per intenderci. Una porta magica e piena di vita, completa di tette, falli e orifizi perché, forse, Roma è la città più erotica del mondo. Questa è una zona popolata di artisti. C’era il ristorante Augustea, dove il padrone aveva un settore riparato per gli artisti. Noi ci andavamo dopo il doppiaggio, che si svolgeva
nello stabilimento della Fono Roma, lì vicino. Ci incontravo spesso Fellini, Moravia e Pasolini. Se non mi ricordo male, Pier Paolo venne a cena in quel ristorante anche l’ultima sera in cui lo uccisero. Era strano Pasolini, non ho capito se si trattava solo di masochismo, sadomasochismo, non so bene neanche la differenza, o se quelle che giravano intorno a lui erano tutte leggende. Certo è che quella notte rimane ancora avvolta nel mistero, così come la sua personalità di poeta e intellettuale alle prese con un conflitto interiore costante. Ricordo delle sue fotografie con foulard e cane lupo, molto borghesi, contrapposte alle immagini che spesso apparivano sui giornali, di risse sulle sponde del Tevere con la peggiore feccia del sottobosco romano. Non si può parlare di lui senza ricordare Laura Betti, che aveva scelto come professione quella di «compagna» di Pasolini: moglie, segretaria, sorella, cugina e cucinatrice di pasta e fagioli. La pasta e fagioli era la sua specialità, con la quale attirava in casa sua scrittori e poeti. Quando arrivò a Roma, Laura era una biondina bolognese curiosa e sciagurata. Verso la fine della sua vita è diventata un’autorevole grassona, molto simpatica, colta e viperina, ma è rimasta famosa anche grazie a quella sua pasta e fagioli. Era una buona attrice e cantava benissimo. Si era specializzata in un repertorio particolare che andava da Kurt Weill ai canti della Resistenza. E riusciva a farsi scrivere i testi delle canzoni da tutti i letterati italiani, tra cui, oltre Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia e Fabio Mauri. A via della Penna abitava Elsa Morante, la più grande scrittrice del secolo appena trascorso. Bellissimi romanzi, indimenticabile personalità. Elsa era stata una ragazza molto affascinante. Moravia l’aveva molto amata, ma lei era un po’ come una cavallina selvaggia. Per un periodo fu affascinata da Visconti, il quale, essendo in realtà un civettone, ci teneva molto ad avere puntato sul révère della giacca, come fiore all’occhiello, quella grande scrittrice. Una volta Visconti e Zeffirelli le fecero uno scherzo atroce, abbandonandola in una
stazione di servizio tra Roma e Napoli. Questo me lo raccontò proprio Franchino, riconoscendo che era stata una carognata. Con Moravia vissero sempre divisi. Lui ebbe vicino la Maraini, ed Elsa andava per randagi. Aveva il debole per le creature della notte. Cani, gatti e ragazzi vagabondi. Spesso se li portava a casa, li nutriva e talvolta li ritrovava accoccolati per terra, sullo soglia del suo appartamento. Ricordo quel ragazzo americano, uno dei suoi randagi, forse l’ultimo, se non mi sbaglio, che si suicidò. Un giorno arrivò da me con un canestrino che conteneva quattro cucciolotti: incurante delle mie proteste, me li lasciò e scappò via. Uno lo tenemmo io ed Enrico, per gli altri toccò poi a me trovargli famiglia. L’ultima volta che ho incontrato Elsa, stavo facendo una passeggiata in bicicletta a Villa Borghese. Lei era insieme a un paio delle sue fedelissime amiche. Attraversava un periodo molto nero e io cercavo di aiutarla con la mia gioia di vivere. Lei mi disse: «Non ne posso più… Voglio morire». E io le risposi subito: «Ok, allora domani mattina ti regalo una pistola…». Non so perché ma non ne colse l’ironia, si offese a morte e non mi volle mai più rivolgere la parola. Leggendo i suoi romanzi sento sempre una radice sofferente, antica, oscura, ma anche molta pietas per il dolore da cui è toccato il percorso umano. Elsa, Elsina. Bella, cattiva e disperata. Così appariva da ragazza agli occhi di Alberto. Era evidente quanto la stimasse. Durante le serate del premio Strega, per esempio, lei aveva il gusto di trattarlo male e lui la accettava come fa un genitore compiacente con una bambina viziata. Negli ultimi giorni della sua vita, invece, ricordo Alberto che ci raccontava, triste, di quella tremenda malattia che le stava «annacquando il cervello». Proprio quel cervello che era stato così scintillante di intelligenza. Franciacorta Wertmüller «Tutto a posto, niente in ordine» è un proverbio veneto che ho adoperato come titolo per la storia che realizzai dopo Film
d’amore e d’anarchia ovvero: stamattina alle 10, in via dei Fiori, nella nota casa di tolleranza… Avevo deciso, insomma, di fare un film senza Mariangela e Giancarlo, anche perché loro, in quel periodo, erano pieni di proposte di lavoro. Esattamente, mi incuriosiva un tipo di immigrazione interna all’Italia. Non quella che veniva dal Sud verso il Nord, ma quella che dalle campagne del Nord si urbanizzava nelle grandi città. Si trattava di contadini in cerca di fortuna, che nelle metropoli accettavano qualunque tipo di lavoro: meccanico, operaio, cameriere, pizzaiolo e prostituta. Il film raccontava tante piccole storie intrecciate. Mi ricordo, in particolare, un episodio a cui assistetti che mi divertì: quello dei due vecchietti con i volti emaciati da barboni, che si piazzavano davanti alle vetrine strabordanti di ogni tipo di ghiottoneria di Peck, la salumeria più elegante e lussuosa di Milano, e ripetevano insistentemente la stessa parola: «Fame… fame… fame». La gente li guardava stupita, non capendo se si trattasse di finzione o di realtà. Dall’elegante salumeria uscì poi un commesso pregandoli di allontanarsi: «Per cortesia, spostatevi, perché qui disturbate…». I vecchietti, con gli occhi di fuori, reagirono violentemente: «Ah, disturbiamo? Noi disturbiamo voi? Ma siete voi che disturbate noi, con tutta quella grazia di Dio!». Andai a cercare chi potesse interpretare quei simpatici poveretti in un ospizio di Milano, ed è incredibile quanto i prescelti si divertirono a fare quella scena del film. Tornarono all’ospizio carichi di formaggi e salamini che sicuramente divisero con tutti i loro compagni. Un’altra scena divertente del film è quella delle ragazze che vivevano insieme in un appartamentino di una «casa di ringhiera» e che si erano comprate un bel televisore. Un certo Carletto è innamorato di una di loro, Adelina, la quale, vergine, pur considerando antieconomico il matrimonio, non vuole far l’amore, per arrivare casta fino a eventuali nozze. Il giovane però decide di costringerla a cedergli e, nella lotta che ne segue, i due urtano con violenza il televisore. Così Adelina si trova di fronte al
dilemma: salvare il televisore o perdere la sua purezza? Alla fine deciderà di non far cadere il televisore. In questo stesso film, aveva una parte il fratello di Gian Maria Volonté, Claudio. Era un ragazzo molto dolce, in qualche modo schiacciato dal successo del fratello. Nella scena di una rissa in un ristorante, in cui lui interpretava uno dei camerieri, gridava in un momento molto drammatico: «La pietà è morta». Temo che per lui lo fosse davvero, poiché quel ragazzo, qualche tempo dopo, finì in galera e lì si suicidò. Tra un film e l’altro, a Enrico e me venne un’idea. Per raccontarvela devo parlarvi brevemente dell’abate piemontese Giovanni Confortini da Virle e della storia della Palazzina di villeggiatura. Abatino settecentesco di coscia allegra, doveva essere un bel lavoro, nel Settecento, quello di abatino, perché la cronaca ce li riporta tutti molto vicini ai piacere della carne. Confortini era attirato dalle delizie della tavola, e dunque dal buon vino. Io ho sempre avuto un debole per Bacco, e credo ce l’avesse anche Confortini, che si innamorò di questa piccola regione detta curiosamente Franciacorta, pur senza avere nessuna parentela con la grande France. Indicava solo una «corte franca», cioè un posto dove non c’era bisogno di pagare il dazio, grazie a una concessione istituita addirittura da Barbarossa. All’epoca, quelle terre erano sotto la Repubblica Veneziana e nel 1790 Confortini costruì la Palazzina proprio su quel terreno, particolarmente adatto alla coltivazione dei vigneti. Dioniso, fra tutti gli dei, è sicuramente il più sgangherato e sensuale, ed è anche dispettoso, perché nella sua ebbrezza adora scardinare l’ordine apollineo tanto caro a quell’abatino, dentro il cui petto si battevano vivacità dionisiache e armonie apollinee. Le ghigliottine francesi sibilavano mozzando teste di aristocratici e schizzando il loro sangue blu sugli ingordi ghigni delle tricoteuses, quando Confortini cominciò a piantare le sue vigne in Franciacorta. Dunque, passeggiavamo nella bellissima campagna intorno alla Palazzina, mentre Enrico mi raccontava di Confortini e dei suoi sogni. Fu in quella passeggiata che nacque l’idea di
ripiantare le vigne per produrre lo champagne. Enrico lo volle poi chiamare col nome Franciacorta Wertmüller, in mio omaggio. Grazie a un nostro amico, Francesco Jacono, enologo napoletano, quello champagne venne buonissimo. Era cominciato come un gioco, una voglia di Parigi e di can can. Insomma, è stato per allegria che è risorto l’antico vigneto di Confortini, e cosa festeggia meglio l’allegria di un buono champagne? A proposito, non si può più usare la parola «champagne». I francesi, dice Paolo Conte nella sua canzone, come sempre si incazzano. Però è abominevole chiamarlo «bollicine». Ai francesi non è mai andata giù l’Italia. Certo, è stato il più grande degli imperi, quello romano, ma molti secoli e secoli fa. Poi nelle ultime centinaia d’anni è successo un fatto strano: la Francia cresceva, diventava imperiale, potente, faceva rivoluzioni e fondava imperi e proclamava imperatori – il più grande dei quali, Napoleone, veniva comunque dall’Italia – mentre il Belpaese, in tutti quei secoli, con i suoi staterelli, sotto sotto dava spazio alla creatività e all’arte. Se devo dirla tutta, sospetto però che i veri geni siano stati i mercanti francesi. Cinquemila occhiali bianchi Parliamo un momento di occhiali. Per anni, gli occhiali sono stati considerati un elemento negativo sulla faccia di una ragazza. Le più, non li portavano. Ricordo mia mamma che aveva le lorgnette e se le poggiava sul naso solo quando era indispensabile vedere qualcosa. Quindi aveva passato tutta la sua vita circondata da un mondo vagamente nebuloso, del quale non leggeva bene i contorni. Ero ancora adolescente quando si scoprì che dovevo portare gli occhiali, e mamma ne fu dispiaciutissima. Al contrario, io, curiosa com’ero, fui molto contenta di poter vedere nitidamente il mondo. Da quel momento considerai gli occhiali un arredamento privilegiato del mio viso. Ne comprai d’ogni tipo, perché
facevano «personaggio». Quelli rossi da diavola, quelli leopardati da esploratrice, quelli neri e quadrati per fare la giornalista americana e tanti altri. Questo andò avanti fin quando, per caso, non feci l’incontro con i miei occhiali bianchi. Prima di allora, anche se non li avevo mai indossati, la mia passione erano gli occhiali alla Anton Cechov. Ricordate? D’oro, ovali, con una catenella che si attaccava alla giacca, e che inquadravano con un’aria molto romantica i begli occhi azzurri del grande drammaturgo russo. Quando poi avvenne, l’incontro con gli occhialetti bianchi fu folgorante. Per prima cosa non erano mai noiosi, professorali o tristi, come spesso erano gli occhiali, cosa che succedeva prima che Marilyn Monroe li usasse in Gli uomini preferiscono le bionde. Quindi, dicevo, non erano niente di noioso, anzi, un’aria di allegria estiva circondava quegli occhialetti candidi. Insomma, è inutile negarlo, si trattò di amore totale. Quando quel primo paio cominciò a sgangherarsi, dato che non ne trovavo nei negozi, andai in una fabbrica per farmene realizzare delle copie, ma mi comunicarono che l’ordine minimo era di cinquemila pezzi. Accettai lo stesso e li pagai a piccole rate. Da quel momento non li ho mai più abbandonati, salvo una volta, quando vennero di moda le lenti a contatto. Adesso le lenti a contatto sono una sfoglia leggerissima che non dà nessun fastidio, ma allora erano di vetro e facevano un male cane. L’unico vantaggio era che, volendo, si poteva cambiare il colore degli occhi. Naturalmente io me le comprai celesti, verdi, persino rosa. Ci volle del tempo per abituarsi, però, caparbiamente, insistetti e alla fine, piangendo e lacrimando, mi abituai. Una sera, uscendo a cena con dei produttori americani che volevano fare un film con me, mi presentai con dei folgoranti occhi azzurri. Andammo in un ristorante di Trastevere. Io ordinai una pasta e fagioli. Durante una risata successe la tragedia. Una lente mi scivolò fuori dall’occhio e finì nel piatto insieme alla pasta e fagioli. Di conseguenza avevo un occhio nero e un occhio azzurro, ma, con un’aria molto mondana, feci allegramente finta di niente. Mentre continuavo
a chiacchierare con i produttori americani che mi guardavano esterrefatti, mi misi alla ricerca di quella vigliacca traditrice, sparita in mezzo ai fagioli. Quando dico «alla ricerca», intendo proprio dire che, mentre continuavo la conversazione mondana nel mio disgusting english, infilavo con un’aria disinvolta il mio mignolo dentro i ditalini della pasta e fagioli, sperando di ritrovare la fedifraga. Quando finalmente la ritrovai, la tirai fuori, le detti una bella leccata per ripulirla, spalancai l’occhio con due dita e me la infilai di forza, davanti agli sguardi sempre più esterrefatti dei due produttori americani. Poi quel film non si fece più e io giurai fedeltà eterna ai miei occhialetti bianchi. Tant’è vero che, pur avendo fatto tanti anni dopo una piccola operazione per cui non avevo più bisogno delle lenti, continuai a portarli, anche perché, nel frattempo, il mio viso si era proprio attaccato a quegli allegri occhiali estivi, ed erano ormai diventati la mia caratteristica. Voglio raccontare un’ultima cosa riguardo agli occhiali bianchi. Woody Allen mi chiamò per recitare la parte di me stessa nel suo film Io e Annie. La scena doveva essere pressappoco così: lui, in una fila davanti a un cinematografo insieme alla sua compagna (Diane Keaton), sente parlare di me alle sue spalle da un petulante spettatore anch’egli in attesa. A un certo punto si volta e scopre che io ero proprio dietro di lui. In quel periodo non avevo tempo perché impegnata a girare un mio film. Però, siccome l’idea era carina, gli mandai un paio di occhiali bianchi, dicendogli che qualsiasi ragazza li avesse messi, l’avrebbero presa per me. Non so se abbia colto l’ironia. Mi pare di no. Certo è che io non andai a fare quell’apparizione nel suo film e, se non ricordo male, la sequenza fu leggermente modificata e io venni sostituita dal famoso sociologo Marshall McLuhan, che accorre in soccorso di Woody Allen per zittire il bla bla di quell’insopportabile «intellettuale».
Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto
L’ispirazione per scrivere la storia di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto mi venne in vacanza, quando Enrico e io, insieme a un gruppo di amici, andavamo in barca lungo le coste della Sardegna. Avevamo preso l’abitudine di viaggiare per mare da diversi anni, per goderci in compagnia il sole e la bellezza di quel mare chiaro, fresco e cristallino delle isole del Mediterraneo. Il gruppo era composto da Francesco Rosi e la moglie Giancarla, che è stata una delle mie più care amiche di sempre, Tonino Guerra, Sergio Corbucci e Antonello Trombadori. Fu proprio in barca che pensai alla storia del marinaio Gennarino Carunchio, proletario siciliano, comunista incazzato nero, e della ricca Raffaella Pavoni Lanzetti, industriale milanese, terribilmente snob, rappresentante della società capitalista. Il destino li mette sullo stesso gommone. Per un guasto al motore, si perdono in mare, naufraghi e scottati dal sole accecante, dopodiché finiscono su un’isoletta deserta. I loro mondi così diversi e distanti si urtano e, inevitabilmente, i ruoli che la vita ha affidato loro finiscono per ribaltarsi. Lui, marinaio della barca a vela di proprietà dei Lanzetti, conosce tutte le regole della sopravvivenza e diventa il padrone della bionda Raffaella, che, in qualche modo, ne diventerà la schiava. Scoppia un conflitto aspro, nel quale vengono a galla tutte le rivendicazioni reciproche. Conflitto che alla fine diventa amore travolgente. Portare avanti un film con due soli personaggi non è certo una impresa facile. Per la terza volta avevo come protagonista la coppia Giannini-Melato. Formidabili i «miei» attori. In seguito al successo ottenuto con Travolti da un insolito… sono diventati due veri e propri sex symbol a livello mondiale,
secondi solo all’altra coppia, quella messa insieme da De Sica, Mastroianni-Loren. Dal momento in cui approdano sull’isola deserta, il marinaio Carunchio e l’industriale Pavoni Lanzetti rimangono sempre soli e portano avanti la storia senza far mai calare il ritmo e l’intensità. Bisogna tuttavia ammettere che insieme a loro c’era anche un terzo «personaggio»: la natura incontrastata dell’isola, le spiagge bianche incontaminate, il mare azzurro e bellissimo della Sardegna. Quegli scenari da favola li scoprii grazie a Enrico, in una splendida mattina di maggio. Lui, da uomo di cultura superiore, mi portò a vedere una spiaggia di cui aveva letto in un antico Baedeker tedesco dell’Ottocento. Mi disse che i viaggiatori la descrivevano come un paradiso terrestre. Avevano ragione. Era un luogo raggiungibile solo via mare, per questo era rimasto selvaggio e puro. Probabilmente, ne avemmo la stessa impressione di quei tedeschi. Un paradiso terrestre. Cala Luna, una striscia di sabbia candida a forma di spicchio di luna, inserito nell’ampio golfo di Orosei, un laghetto di acqua limpidissima dietro al quale si trova una foresta di oleandri in fiore. Il luogo ideale, dunque, per ambientare la storia dei nostri naufraghi. Quanto alle necessità logistiche relative alle riprese del film, be’, il discorso diventava assai meno poetico. Anzitutto, non era un posto facile da raggiungere. Sveglia alle quattro, ci si imbarcava con tutta l’attrezzatura per girare. Sbarco sulle rocce circostanti con un’attenzione maniacale a non lasciare tracce su quella stupenda e intonsa sabbia candida, pettinata solo dal vento della natura. Ovviamente, non era facile. Perciò costruimmo una specie di piccolo sentiero fatto di cespuglietti. Bisognava saltare da un cespuglio all’altro, così da non toccare mai quella meravigliosa spiaggia. In una di queste sveglie all’alba, Mariangela, nello scendere dal letto inciampò su una bottiglia d’acqua minerale, che si ruppe. Mise un piede su uno dei cocci di vetro e si ferì gravemente il tallone, dal quale aveva rischiato di staccarsi un lembo di carne. Conclusione: ospedale, punti di sutura…
insomma, una tragedia. Dovemmo rivedere tutto il piano di produzione e ricorrere a sei controfigure. Per aiutare Mariangela dovemmo, per esempio, anticipare le scene sullo yacht. All’inizio erano previste per settembre ma le spostammo ad agosto. La cosa più difficile fu trovare yacht e barca a vela proprio in quel mese, durante il quale tutti sono in vacanza a godersi i propri panfili. Partirono in missione Enrico e Giancarla, alla caccia di un’imbarcazione «libera». A Oristano, miracolosamente, trovarono un signore che aveva appena comprato Il Quadrifoglio, un bellissimo veliero che aveva partecipato addirittura alla regata atlantica del 1933. Solamente… per aprire le vele serviva una ciurma di sei marinai e un capitano. Ne trovammo uno in riposo e fu affascinante vedere come questo ometto incazzoso riuscisse a mettere insieme quei sei uomini e a trasformarli in una squadra di marinai. Aveva il piglio da comandante e ci riuscì. Le ragazze prese come controfigure della Melato furono più numerose del previsto perché anche a loro, durante le varie scene, capitò di farsi male. Bisogna calcolare che era tutto girato in piena natura. Alla fine, fingemmo che la nostra protagonista si fosse fatta male a un piede, per giustificare una specie di fasciatura e lo zoppicare della signora Pavoni Lanzetti. Le controfigure la sostituivano soltanto nei campi lunghi mentre Mariangela veniva portata a braccio nei vari luoghi del set per i primi piani. L’unica vera camminata che girammo fu quella della parte conclusiva del film, quando lei, al porto di Arbatax, deve raggiungere il telefono, dopodiché i due amanti si danno l’ultimo, disperato e doloroso saluto che sancisce la fine della loro bella favola. L’idea originale del film era che insieme al ritorno allo stato, per così dire, di natura c’era, appunto, il capovolgimento delle posizioni sociali dei due protagonisti. Ma non solo. I due sperimentano una grande e inattesa felicità nel ritrovarsi liberi e soli, lontani da tutte le convenzioni sociali. Anche se la donna lo nega, l’uomo si rende conto che, ritornando nel mondo civile, difficilmente ci sarà posto per quel tipo di amore.
«Se ci incontrassimo in via Monte Napoleone, tu saresti sempre la ricca signora e io una specie di sottospecie di cameriere» le dice senza mezzi termini il ruvido Carunchio. Quando all’orizzonte appare uno yacht, lui vuole accendere un fuoco per segnalare la loro presenza sull’isola sperduta e farsi dunque «salvare». Raffaella lo supplica di lasciar perdere: quella specie di incantesimo realizzatosi nel paradiso terrestre incontaminato dove sono capitati svanirebbe una volta rientrati nei ranghi della società civilizzata, pronta a imporre nuovamente ruoli, gerarchie e conflitti di classe; non dimentichiamo che il film fu girato nella prima metà dei complicati e politicamente accesi anni Settanta. Proprio per questo Gennarino prepara il falò: vuole mettere il loro amore alla prova della società e delle sue «trappole». Il pubblico? Un mostro senza testa Bisognava pensare a come far distribuire il film negli Stati Uniti. Mario De Vecchi, che aiutava anche Fellini nei rapporti con le distribuzioni americane, mi portò a parlare con Francis Ford Coppola. A lui il film piacque e mi consigliò di andare da Don Rugoff, un distributore indipendente che aveva aperto una piccola catena di sale (il circuito Cinema V), dove proiettava soltanto film europei. Il mio incontro con Rugoff fu divertente. Lui mi chiese quanto volevo per il film e io gli sparai una grossa cifra. De Vecchi, che era lì con me, impallidì. Rugoff, imperturbabile, citofonò alla sua segretaria e le chiese di portargli gli incassi di Film d’amore e d’anarchia, che erano stati abbastanza contenuti, a dire il vero. Rugoff me li mostrò e mi chiese: «Da dove ti viene l’idea della cifra che mi stai chiedendo?». E io, indicandomi la testa, con una faccia tosta incredibile, gli risposi: «Da qui, dalla mia testa». Ancora una volta, fu la mia sfacciataggine e anche la mia sicurezza a convincerlo a rischiare. Raggiungemmo un accordo e diventammo grandi amici. Don era un uomo di cinema, conosceva benissimo i gusti del pubblico americano e i rischi che si potevano correre, sebbene, come sosteneva
Chaplin, il pubblico è un mostro senza testa che non si sa mai da che parte si volterà. Don mi disse: «È New York che ti deve dire sì. Se piaci a lei, è fatta. Le altre città, la seguiranno». L’adattamento dei dialoghi per la versione doppiata del film era una questione importante da affrontare, poteva rivelarsi un’insidia non da poco. Ricordo una serie di telefonate con l’America che spesso finivano a insulti. Andai a New York per la prima di Swept Away, così era stato tradotto Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto. Don era un produttore indipendente che doveva farsi largo tra le potenti major, ma era piuttosto abile e quando credeva in un film riusciva a compiere dei veri e propri miracoli. In quel caso, ci riuscì eccome. Travolti da un insolito destino... è stato un film che mi ha regalato grandi soddisfazioni e ha camminato sulle proprie gambe per tutto il mondo. Me ne resi conto quando nei taxi a Tokyo, oppure a San Francisco, gli autisti, riconoscendomi, mi salutavano con la battuta «Bottana industriale!». E quando Mariangela arrivò negli Stati Uniti, scoprì l’enorme successo di Swept Away, trovando nei negozi addirittura bambole e cuscini ispirati alla sua immagine nel film. Una cosa che per me ha avuto valore più di un Oscar è stata la lettera che Henry Miller, forse il più grande scrittore erotico del secolo, scrisse alla sua ultima amante, Brenda Venus: Cara Brenda … hai visto qualche film di Lina Wertmüller? Travolti da un insolito destino, per esempio? Quella è una donna che ammiro, come Germaine Greer. Sono entrambe più schiette, più ardite e più coraggiose della maggior parte degli uomini. E sono anche estremamente capaci. Lina, a mio parere, è preferibile come regista a qualsiasi maschio. Vedendo Travolti da un insolito destino mi sono tornati in mente Tropico del Cancro e Sexus. Umorismo e scopate – a mucchi… una scorpacciata! Hollywood con tutti i suoi divi, non sa darci questo. Henry Miller
Mi piace infine riportare alcuni stralci di critiche positive, apparse sui giornali americani dopo la prima del film a New York: La regia, il dialogo, la recitazione ci hanno divertiti completamente. Ma è dovuto più al fatto che la Wertmüller ci ha fatto capire, con un film divertente e intelligente, qualcosa della base del potere nella società e del rapporto tra uomo e donna… Joy Gould Boyum sul «Wall Street Journal» Lina Wertmüller, la regista italiana che ci ha colpiti l’anno scorso con Film d’amore e d’anarchia e ci ha fatti morire dalle risate con Mimì metallurgico ferito nell’onore fa tutte e due le cose nel suo film più recente Travolti da un insolito destino … c’è di nuovo la miracolosa coppia Giancarlo Giannini, Mariangela Melato. Ma l’intero film è un miracolo … l’arrogante donna ricca e il suo marinaio, abbandonati su un’isola dove la bassa posizione sociale di lui gli dà la forza per sopravvivere nella natura … così lo schiavo diventa padrone e la padrona diventa schiava, con il ritorno alla società le posizioni cambiano e tutto ritorna come era all’inizio… Bernard Drew su «Entertainment» La commedia più turbinosa della Wertmüller, una storia d’amore nella quale le esperienze precedenti dei due amanti decidono il loro destino. Ma i film della Wertmüller non sono fatalistici. Sono film sugli uomini, sulla società e sulle scelte che la fanno progredire. Vincent Canby sul «New York Times»
Anche se sono molto grata ai giornalisti per i loro giudizi così lusinghieri, tuttavia devo fare una precisazione: non ho mai realizzato una commedia in vita mia. I miei film sono dei «grotteschi». La parola grottesco deriva il suo primo significato da quelle bizzarre sculture che si formavano nelle grotte, con lo sgocciolio che levigava pian piano la roccia, creando stalattiti, stalagmiti e dando vita a immagini deformate e strambe. Il termine si è poi esteso a tutto ciò che viene deformato nella realtà. Per questo, nei miei film adopero la chiave grottesca che mi permette di accentuare certi caratteri, di disegnarli con una linea più marcata e ironica. Il
che non ha niente a che vedere con il comico o con la commedia. Per carità, la commedia all’italiana è stata elemento fondamentale del nostro cinema e io stessa ho amato moltissimo Monicelli, Risi e gli altri autori che si sono cimentati con questo genere, quasi sempre con notevole successo. Giancarla e Mariuccia Tornando a Travolti, accorcio i miei titoli, almeno in questo libro, altrimenti…, il personaggio di Raffaella Pavoni Lanzetti era ispirato a Giancarla Rosi, mia grande amica e compagna di crociera durante le nostre avventure nel Mediterraneo, al suo irresistibile talento e alle interminabili e accese discussioni politiche intrattenute con Antonello Trombadori, che spesso finivano con lanci di scarpe. Giancarla era bergamasca. Una sera, a teatro, durante le prove che facevamo al Palazzo Brancaccio per una commedia musicale scritta da Garinei e Giovannini, arrivò una ragazza molto carina, che sotto un’elegante cloche, sprizzava un’aria spiritosa e somigliava a Barbara Stanwyck. Intelligentissima, divertente, aggressiva. Tutti quelli che aggrediva, alla fine si innamoravano di lei. Aveva fondato con Lelio Luttazzi una casa di edizioni musicali, poi aveva cominciato a occuparsi di moda. Ma non erano i soldi a interessarla. Ne ha fatti quel tanto che serviva, ma non di più. Divorava giornali e s’interessava di politica. Casa sua era frequentata dal meglio del mondo intellettuale e politico. Era sempre invitata nei migliori salotti, ma evitava di andarci. Tutti sognavano di averla, inutilmente. Odiava l’apparire. Dopo essere stata insieme a Luttazzi, incontrò Francesco Rosi, il grande regista. Lui era da anni compagno di Nora Ricci – figlia di Renzo, grande attore, e nipote del grande Ruggeri – che aveva lasciato Vittorio Gassman per Rosi. Ma al cuore non si comanda, e tra lui e Giancarla era scoppiato un amore vero. Io le fui molto vicina durante quel periodo. Era la fine degli anni Cinquanta e Franco stava girando I magliari, quando Giancarla lo raggiunse in
Germania. Io l’accompagnai. In aereo, incurante dei vuoti d’aria e degli occhi attoniti che la osservavano tra i passeggeri di prima classe, si fece tutta una «messa in piega», con tanto di rolli e bigodini, per presentarsi al meglio al suo convegno d’amore con Franco. Al ritorno, Nora ci aspettava all’aeroporto di Roma, e voleva sparare a Franco e a Giancarla… e magari, trovandocisi, perché no, anche a me. Fu Pietro Notarianni, amico e produttore di Rosi, a scongiurare il massacro, avvertendoci e facendoci cambiare aereo. Quando Giancarla se ne è andata, mi ha lasciato un grande vuoto. È difficile raccontare il suo particolare fascino. Di certo, una serata insieme a lei non era mai noiosa. Adesso vado un paio di volte alla settimana a cena da Franco. Alle volte viene anche Alessandra (Lalla) Kezich, la vedova di Tullio, e sedendoci a tavola ci prendiamo spesso in giro, chiamandoci «il club dei vedovi». Tutta la casa è ancora pervasa dallo spirito e dall’atmosfera di Giancarla. È una casa speciale, affacciata su una bellissima vista di Roma e tenuta da una adorabile fata, che è Maria, una di quelle donne che si identificano completamente con una casa, con la famiglia, e che ne diventano veramente i numi tutelari. Come è per me Tania, la mia amata biondina che rallegra e, con il suo affetto, riempie la casa di fiori e di grazia. Altra carissima amica è la sorella di Giancarla, Mariuccia, conosciuta in tutto il mondo come Krizia, una delle stiliste italiane di maggior successo. Una donna piena di talento. Le sue creazioni, oltre alla moda, il suo teatro, gli alberghi e le tante altre cose a cui ha dato vita, sono sempre state di gran classe, grazie anche ad Aldo Pinto, suo marito, industriale egiziano e straordinario collaboratore. Mariuccia, due occhi infantili color del cielo, sorriso dolcissimo e pugno di ferro. Per me è un grande piacere, ogni estate, trascorrere in loro compagnia un paio di settimane nella splendida villa che hanno in Sardegna. Carolina, la figlia di Giancarla e Franco Rosi, insieme a Flora, Giancarla e Mariuccia, fa parte delle mie grandi amiche. Porca miseria, io l’ho vista appena nata. Mi ricordo ancora
che, tornando verso Roma da Cascapera – eravamo andati nella villa di Caprioli a giocare a poker –, a Giancarla si ruppero le acque, e dovemmo correre in clinica. Eravamo rimasti tutti affascinati davanti a quell’esserino rosso e sgambettante che somigliava incredibilmente a Francesco Rosi, suo padre. Carolina oggi è una bella e brava attrice, compagna e collaboratrice di Luca De Filippo. Con lui porta avanti la grande tradizione del teatro di Eduardo.
Pasqualino Settebellezze
In una delle ultime scene di Mimì, che si svolgeva in una prigione, chiesi se fra le comparse c’era stato qualcuno che avesse avuto esperienze carcerarie. Si fece avanti uno strano tipo – aiutatemi a dire «cesso» –, insomma un tipo di una bruttezza rara. Raccontandomi l’esperienza della sua vita, mi accennò una storia singolare e terribile. In poche parole, lui, che era ebreo, si era salvato da un campo di concentramento tedesco diventando l’amante di una SS. Questa vicenda abbastanza incredibile fece nascere nella mia testa l’idea di Pasqualino Settebellezze. Il mio Pasqualino, che doveva essere interpretato da Giancarlo Giannini, era un uomo pieno di donne e pieno di sé. Durante la guerra finiva prigioniero in Germania e, segregato in un campo di concentramento, decideva di sedurre una tedesca. Quando scrissi la sceneggiatura avevo pensato a un ordine cronologico. La storia cominciava in una Napoli coloratissima e finiva in un lager cupo e macabro. Tuttavia, durante il montaggio, riflettendo sul fatto che il racconto cronologico avrebbe diviso il film in due parti totalmente opposte, una colorata e una grigia, pensai di stravolgere la sequenza degli avvenimenti: Pasqualino, durante il periodo atroce nel lager, avrebbe avuto dei flashback tramite i quali riviveva i momenti più significativi della sua esistenza napoletana. C’è una parte del film in cui il mio senso del grottesco raggiunge toni veramente al limite. Quando Pasqualino deve disfarsi del cadavere del vecchio «magnaccia» – che aveva portato la sorella al meretricio –, si trova a combattere con un corpo morto che è una specie di pallone puzzolente e «scorreggione». Credo che nella storia del cinema sia la
sequenza dove si ascoltino più «strombazzate di culo». Anche questo è un primato. Come ho già avuto modo di sottolineare, debbo a Enrico Job tutta la componente visiva dei miei film. Quando preparavamo Pasqualino Settebellezze, insieme a Gino Millozza, uno dei più bravi organizzatori del nostro cinema, perlustrammo mezza Europa allo scopo di realizzare il campo di concentramento: Germania, Iugoslavia, Svizzera, ovviamente passando per Auschwitz e Dachau. Invece niente, era tutto cambiato. In quelle zone vi erano cresciuti alberi, erano stati organizzati musei, insomma, ci colse la disperazione, anche perché, come al solito, non avevamo tanti soldi a disposizione. Eravamo ormai rientrati in Italia quando, un bel giorno, improvvisamente, si presentò Enrico sorridente. Aveva trovato la location, e per di più, dietro casa. A Tivoli. Un’antica cartiera dismessa che risultò perfetta per realizzare il lager. «Ho trovato… il tempio di Poseidone» esclamò. Intanto, più che Poseidone era Nettuno e poi c’entrava pochissimo con le colline di Tivoli. Ma soprattutto: in che senso un tempio? Le parole di Enrico apparivano misteriose. Poco dopo tutto fu chiaro. Era vero. Si trattava di una fabbrica che era stata costruita sulle rovine di un antico tempio. Un vero colpo di fortuna. Persino la divisione del cortile risultò simile a quella dei veri lager. Girammo subito le scene dell’appello ai prigionieri in colonna. Dopotutto, i lager nazisti erano spesso ricavati da antiche fabbriche abbandonate. Inoltre, quella di Tivoli aveva la straordinaria qualità di sorgere in un luogo sacro. Il fatto di ambientare (e ricreare) l’orrore di un lager in quel luogo nato su un colle, dove si erano alternati, nei secoli, celebrazioni religiose, riti e lavori, assumeva, di per sé, una forte carica simbolica. Quando girammo l’ultima scena del film, durante la quale tutti i deportati dovevano assistere a una esecuzione, in quel silenzio mi assalì la sensazione della sacralità della terra su cui stavamo camminando: in quel tempio si stava celebrando un
rito di morte. In fondo, le SS – nate nella mente contorta del dittatore pazzo, che non era neanche tedesco, ma nato, chissà come, nella terra che aveva dato vita ai più bei valzer del mondo, l’Austria – erano state, nelle loro divise nere, i sacerdoti di quell’orrore. In una bizzarria della sorte, il caso ha voluto che da qualche anno lavori con me Valerio Ruiz, pronipote del proprietario di quella cartiera. Pasqualino Settebellezze è nato sotto una buona stella. Per caso, una sera, andando al cinema, vedemmo un piccolo film americano, I killers della luna di miele, molto interessante. Non era stato girato a Hollywood e vi recitava una strana attrice. Enorme, mai vista prima, un incrocio fra un Buddha e Winston Churchill, ma molto interessante. Si chiamava Shirley Stoler. Balzammo sulle sedie: era quello che ci voleva per la SS di Pasqualino. Ma dove trovarla, come cercarla? I distributori non ne sapevano niente. Allora noi, coraggiosi, partimmo per New York alla ricerca della nostra enorme Cenerentola. Miracolosamente, girando per i teatrini di off Broadway trovammo chi la conosceva. Shirley era un’attrice che non aveva mai avuto grande fortuna salvo, appunto, che per I killers della luna di miele. Quando andammo a bussare al suo camerino, ebbe quasi un malore. Non riusciva a credere alle sue orecchie. Una parte da protagonista in un film italiano! E così fu. Shirley si rivelò un’ottima attrice. Grande, bianca, americana di origine russa, e con una faccia da antica regina circassa. Crudele e sensuale. Tanto per mettere un pizzico di realismo in questi miei ricordi, devo testimoniare che la troupe – parlo sempre dei macchinisti ed elettricisti che, come ho già precisato, sono abituati alle fascinose stelle del cinema – fece una corte spietata alla grande Shirley. Non so se Buddha o Churchill, o il mistero che in qualche modo aleggiava intorno a lei, certo è che quella femminona ebbe una grande attrattiva su tutti coloro che, come ho già avuto modo di dire, erano dei bei Marcantoni: per fortuna non mi hanno mai fatto fare brutta figura.
Giravamo a Tivoli, dove, oltre all’ex cartiera, c’era anche un meraviglioso ristorante. Mi pare si chiamasse Le tre Marie. Si mangiavano le migliori fettuccine fatte in casa dell’intera costa occidentale. Piccola parentesi. Lo so, quest’ultima definizione suona un po’ alla Chandler, giallo Los Angeles, 1930, con quei bei detective con tanto di cappelli e stupende miliardarie che hanno alle spalle, insieme alla volpe argentée, stupri, delitti e chi più ne ha più ne metta. La costa occidentale da noi sarebbe Ostia, Fregene… tutta robetta da «Famiglia Passaguai» o al massimo da Pier Paolo Pasolini. No, per carità, viva Chandler, facci sognare vecchio mio, in quel tuo ufficio pieno di puzzo di sigaro e di piedi sul tavolo, in attesa che arrivi la fatalona, miliardaria, sguardo assassino, profumata di avventura e pronta a cadere nelle braccia del detective. Certo però che i «Trenta», prima di averci gettato in una guerra orribile, ci avevano portato un bel po’ di regalini. Una moda tra le più aggraziate del secolo, anzitutto, e poi film bellissimi, poco visti da noi fino ai tardi anni Quaranta per via delle inique sanzioni che ci avevano proibito la visione delle pellicole targate Usa fino alla caduta del fascismo. Fine della parentesi. Per tornare alla Stoler, ci trovammo molto bene insieme. Lei oltre a essere bianca ed enorme, aveva, come credo si noti anche nel film, un notevole quoziente erotico. Ma l’ho già detto. Il suo sangue era russo. Non ho più notizie di lei. Ma è anche vero che non la cerco. Però, ovunque tu sia, Shirley, sappi che mi piacerebbe rivederti. Assaggi di razzismo newyorchese Per il film, com’era inevitabile visto l’argomento, ci serviva nientepopodimeno che «la Germania». Cioè un’altra donna che la simboleggiasse. Come ve la immaginate voi la Germania? Alta, bionda, possente di fianchi, giunonica e perché no, vichinga. Cominciai una lunga setacciata tra cantanti liriche, domatrici di circo, ginnaste. Niente. Poi
Enrico, deus ex machina, mi telefona da un aeroporto in Iugoslavia: «È qui, ce l’ho, è lei!». «E allora bloccala, fermala, non te la far scappare…» replicai subito. Fortunatamente, la ragazza faceva l’interprete e parlava bene anche l’italiano. Stava lavorando su un altro set, in Iugoslavia, come traduttrice. Ma chi la dura la vince e alla fine riuscimmo a farcela cedere da quella produzione per il tempo necessario alle riprese. Non un minuto di più. Si trattava di una sola scena. Quando la vidi seduta davanti al pianoforte, in un suo deshabillé germanico che le lasciava scoperte le belle spalle, la bianca schiena e i fianchi opimi, ebbi la certezza che la Germania non poteva essere che così. Il povero Pasqualino la guardava solo dalla finestra, ma la sua «fame» era tale che credo gli apparisse come una specie di bignè alla crema, piuttosto che come sventolona tedesca. Nel film c’era un ottimo cast: un bravissimo Piero Di Iorio, l’amico di Pasqualino; Elena Fiore, una delle sette sorelle del protagonista, la prima a fare la puttana; Francesca Marciano, la ragazza della pianola; Roberto Herlitzka, bravissimo e da me molto amato; e poi, naturalmente, Fernando Rey, nel personaggio dell’anarchico. In un primo tempo, avrei voluto per quella parte Eduardo De Filippo, il quale lesse il copione, che gli piacque moltissimo, ma mi dovette dire di no per questioni di date. Lo spagnolo Fernando Rey è un attore che io ho sempre ammirato. Ha fatto 238 film, ma di sicuro, la prima scintilla d’amore che schioccò per lui fu per l’interpretazione ne Il fascino discreto della borghesia del grande Buñuel. (Certo anche la Spagna ci ha regalato attori indimenticabili e di grande fascino come Antonio Banderas e Javier Bardem. Non c’è dubbio che quanto a latin lover, l’Italia e la Spagna siano state spesso in concorrenza.) L’anarchico ha un ruolo molto importante nel film. Prevede la fine del mondo a causa della sovrappopolazione e si suicida gettandosi nella latrina del lager, in un mare di merda, urlando
la stessa frase che aveva già colpito Pasqualino e tutti gli altri suoi compagni di prigionia durante un bel monologo che avevo fatto recitare a Fernando Rey in un’altra parte del film: «L’uomo nel disordine». A proposito di quell’espressione, c’è da dire che l’Unesco mi offrì addirittura la medaglia di donna dell’anno. Mi chiesero un motto da far incidere sulla medaglia, io proposi proprio «l’uomo nel disordine». Non mi dettero più la medaglia… La sovrappopolazione era appunto il vero tema del film. È una mia fissazione. Ricordo una sera in cui venne a cena da me, a Roma, Roberto Rossellini e ci infilammo proprio in quella polemica. Io che sostenevo la sovrappopolazione come malattia del mondo, e Roberto che, invece, credeva nel grande equilibrio della natura, secondo cui tutto si sarebbe armonizzato. Ne nacque una discussione furibonda. Conclusione: dopo tanti strilli, Roberto, la mattina dopo, fece un gesto elegantissimo, degno del suo grande charme. Riempì tutta la nostra casa di rose rosse. Certo, Roberto era un uomo eccezionale. Lui e Federico Fellini forse sono le personalità più affascinanti che io abbia conosciuto nella mia vita. Sempre dopo Enrico Job. Non posso mai dimenticare Roberto. Una mattina che, non ricordo perché, andai a trovarlo in una sua villa sull’Appia Antica, dove stava con Sonali Das Gupta, la sua ultima moglie indiana, e i suoi tanti figli e nipoti, mi ricevette sul letto tutto pieno di libri e bambini. Grande patriarca, incantatore di serpenti e grande regista. Nella sua vita ha lasciato, a seguito di pericolose avventure cinematografiche, scie di lacrime e sangue in tanti paesi come l’India e l’Egitto. Quanto a Pasqualino Settebellezze, un gruppo di distributori americani era interessato al film e mi fece una buona proposta per la distribuzione. Imprevisto come un fulmine a ciel sereno, piombò alla Fono Roma Don Rugoff. «Hai già firmato?» mi chiese. Non avevo ancora firmato. Volle vedere il film in una piccola sala di proiezione. La copia era in italiano e
un’interprete doveva fargli la traduzione simultanea dei dialoghi. Al suo fianco, sorvegliavo che non cadesse addormentato, perché dopo il jet lag della tratta AmericaLondra-Roma, per lui dovevano essere le cinque di una lunga notte insonne. Mi veniva sempre in testa quell’immagine degli occhi tenuti aperti con due stecchini. Non si addormentò. Alla fine si alzò e disse: «Lo compro io». Mi offrì un po’ meno degli altri americani, però io scelsi lui. Lo conoscevo Don Rugoff e mi disse la cifra alta che avrebbe speso in pubblicità. Mi fidai e feci bene. Il momento magico della mia storia d’amore con New York fu la sera della prima di Pasqualino Settebellezze. Il sindaco organizzò per noi una cena con la crème de la crème della città. Dopo, tutti al Lincoln Center per assistere alla proiezione ufficiale del film. In sala c’erano più di millecinquecento persone. Com’era consuetudine, all’inizio della serata dovevo essere presentata al pubblico insieme a tutto il cast. La cerimonia era impegnativa, ma grazie a dio, la presi con la solita ironia. Scoprii che la Stoler non era nelle liste delle attrici da presentare sul palcoscenico. Era troppo ingiusto. La feci chiamare con la solita minaccia: «O con lei, o niente». Mentre salivamo sul palco e Giancarlo si preparava il suo discorsetto di circostanza, tipo «I’m very proud to be here…», io guardavo la cintura che mi ero messa. Si trattava di un accessorio abbastanza bizzarro. In realtà, era un calamaio floreale, insomma stile liberty. Una mia amica ne aveva fatto la fibbia esagerata di una cintura che risultava essere molto appariscente, una volta «approdata» sul mio vestito nero. Secondo i greci, il dio dell’armonia era Apollo, contrapposto al dio dell’eccesso, cioè Dioniso. Io credo di essere dionisiaca, sono dalla parte dell’eccesso, come quella cinta che era proprio un’esagerazione. Chiesi come si dicesse cintura in inglese. «Belt» mi dissero. In quel momento, il presentatore stava annunciando il mio ingresso: «And now, ladies and gentlemen… Lina Wertmüller!».
Seguendo i miei occhiali bianchi, avanzai su quell’enorme palcoscenico. Come dire, era proprio il mio momento. L’immagine di quella piccoletta con gli occhiali era capace di scatenare l’entusiasmo del pubblico più temuto del mondo: gli americani di New York. Portando la mia incredibile faccia tosta come una volpe intorno al collo, aspettai «umile in tanta gloria» che tornasse il silenzio. Tornò. Era un silenzio fatto di tensione e di attesa, molto particolare. Chi non ha vissuto quell’incontro con un buio salone pieno di pubblico che aspetta tutto da te non sa di che cosa stia parlando. Dopo quel momento indicibile, come sospeso nel vuoto, il teatro scoppiò in un enorme applauso. Devo fare una digressione. Avete mai fatto attenzione alle facce delle persone che ricevono un applauso caloroso? Sono delle facce particolarmente rivelatrici della natura di quell’essere umano. Facce che si legano, non so perché, alla loro infanzia. C’è sempre, dentro quegli sguardi, un bambino che è stato bravo a scuola, che non ha rubato la marmellata, che non ha fatto pipì a letto. Sono momenti molto speciali. Aspettai che quell’applauso scemasse e che tornasse quel silenzio cristallino. Dopodiché, con una enorme faccia di bronzo che neanche mi riconoscevo, accennai una mossetta facendo ondeggiare i miei fianchi e toccandomi vezzosamente i capelli con una mano, e, indicando con l’altra quel mio calamaio splendente sotto la mia panciotta, sussurrai con una voce roca alla maniera di Marlene che non escludo fosse in platea: «Do you like my belt?». Un attimo ancora di quel silenzio magico, poi esplose un applauso fragoroso. Fortunatamente, i newyorkesi erano spiritosi e credo fosse la prima volta che un regista di cinema si presentasse con la sfacciata civetteria di una ballerina del coro. Una lunghissima risata. Era fatta. Sorrisi al pubblico e, toccandomi la fronte con due dita nel classico gesto di saluto, me ne andrai. Con quella cintura conquistai New York! Vedemmo poi il film in sala, che nel suo «grottesco», pur suscitando qualche risata, condusse gli spettatori nel pozzo più profondo e oscuro dell’abiezione umana. La storia di
Pasqualino, segnato dalla più atroce delle tragedie, appassionò il pubblico. Alla fine della proiezione erano tutti commossi, in qualche maniera turbati, ma reagirono con un entusiasmo indescrivibile. Gli applausi sembravano non smettere mai. Anche Rugoff, teso ed emozionato dal successo di quella prima, aveva gli occhi lucidi. Mentre la platea cominciava a uscire, Don si avvicinò a me, per avvisarmi che di lì a poco sarebbe accaduta una cosa mai vista prima: tutto quel pubblico di New York voleva stringermi la mano. La hall del teatro era stata già preparata per quello straordinario omaggio che la città voleva tributarmi. «Va bene, io e Giannini siamo qui, ma dov’è Shirley Stoler?» Noi eravamo ancora sopra un palco. Seccata dalle risposte vaghe che mi davano tutti, mi innervosii di nuovo per la strana e immotivata esclusione di Shirley. Don seguitava a dirmi che la Stoler era comunque in platea, e che non potevo far aspettare ancora tutta quella folla di New York che non chiedeva altro che conoscermi e congratularsi con me. Io però non mi arresi: «O con Shirley, o non scendo…». Alla fine, la mia ostinazione li convinse e anche la mia adorata Shirley fu chiamata a godersi quell’eccezionale successo, insieme a noi. Era così potente e intensa nel personaggio della SS e in quel suo monologo che era inaccettabile tagliarla fuori. Sotto certi aspetti, avevo scoperto il razzismo newyorchese, mettiamola così. Peggio che contro i neri, il razzismo sociale era terribile. Millecinquecento persone. Avete mai stretto millecinquecento mani? Ancora ricordo il mal di testa lancinante che mi venne per quell’incredibile celebrazione. Enrico, affettuosamente, mi sosteneva. Aveva capito che non mi reggevo più in piedi, mentre davanti ai miei occhi sfilavano i volti delle star preferite della mia adolescenza: Mirna Loy, Lauren Bacall, Bob Fosse… Mi riempivano di complimenti, frasi affettuose e piene di ammirazione. Peccato che, non sapendo l’inglese, capivo meno della metà di quanto mi
dicevano. Era davvero il momento sognato da ogni autore di cinema, un vero sogno che tuttavia la stanchezza rendeva spaventoso come un incubo. La settimana che seguì fu magica. A New York, sette cinematografi proiettarono tutti i miei film, dalla mattina alla sera, con code interminabili. Una sorta di festival che la città mi dedicava. Roba da perdere la testa, se non fosse per il mio carattere, pronto a sdrammatizzare e a non credere né al successo, né all’insuccesso. Mi chiedevano di rilasciare continuamente interviste. Una mia amica che si trovava in quel momento a Los Angeles, scherzando, mi diceva che non se ne poteva più di vedermi sempre in televisione. La mia faccia finì su tutti i giornali. Insomma, era esploso il fenomeno Wertmüller, ma io, grazie a Dio, non mi sono mai lasciata sedurre da quel tipo di notorietà che raramente, credo, altri registi italiani hanno ottenuto nella propria carriera. I produttori delle principali major venivano da me per offrirmi contratti mirabolanti. Una vera ubriacatura. Non volevo crederci troppo. Sentivo un vago senso di pericolo, come di chi pattina incoscientemente sul bordo di un precipizio. Ve la ricordate quella scena di Tempi moderni, in cui Charlot, in un grande magazzino, pattina sull’orlo di un abisso, sfiorandolo sempre senza vederlo e non ci cade mai? Più o meno mi sentivo così. Questa sensazione vagamente allarmante non toglieva tuttavia nulla al piacere di quell’esperienza straordinaria. Senza accorgermene, io con Pasqualino avevo raccontato una specie di Odissea. Dopo che Pasqualino, malgrado fosse ridotto a uno scheletro, riesce a fare l’amore con la kapò, il discorso della SS è cinico e conclusivo: «Tu fai schifo a me… Tua voglia di vivere fa schifo a me… Tuo amore fa schifo a me. In Parigi un greco faceva l’amore con un’oca. Faceva questo lavoro per mangiare, per vivere. E tu larva subumana mediterranea riesci a trovare la forza per tua erezione di maschio. Per questo rimarrete voi… vincerete voi… piccoli vermi vitali senza ideali, né idee… E noi… i nostri sogni di un’umanità eletta… troppo difficile…».
Come Ulisse, tra guerre, camorra, morti, manicomi e lager, il nostro eroe torna a casa. L’uomo che è tornato, però, non è più lo stesso Pasqualino che voleva vivere a qualunque costo. Ritrova la sua fidanzatina che lo ama ancora ma che, come le sette sorelle di lui, è diventata una puttana. A lei, Pasqualino ripete le parole che gli aveva detto l’anarchico: «Dobbiamo fare tanti figli, ci dobbiamo difendere, perché verrà un momento in cui ci ammazzeremo tutti per un pezzo di pane». Sua madre gli consiglia di dimenticare tutto l’orrore che ha passato. L’importante è essere rimasti vivi. Pasqualino si guarda allo specchio. Come uomo ormai è morto, ma dice a se stesso: «Sì, io sono vivo». Pasqualino Settebellezze ha girato il mondo, ottenendo l’attenzione e l’apprezzamento di un grande pubblico internazionale. Per pura civetteria voglio concludere questo capitolo riportando la recensione di Vincent Canby, uno dei più autorevoli critici del «New York Times»: I film della Wertmüller sono così pieni di idee e di sensazioni contraddittorie, che uno tende a non accorgersi dei rischi che lei prende e della magia del suo talento. Lei non guarda il mondo con gli occhi di un neorealista, ma con quelli di un poeta. Un elemento essenziale del suo stile è Giannini … Giannini ha il viso striato come quello del Grand Canyon … non sembra essere plasmato tutto in una volta, ma sembra essersi rifinito attraverso millenni di esperienze. È la faccia di un sopravvissuto che sa, per istinto, che l’idealismo è battuto in partenza e che quel tipo di disfatta può essere trasformato in un trionfo soltanto nei necrologi scritti dagli storici, se la moda lo consente…
Vacanze a Hollywood
C’è stato un periodo in cui l’America ha avuto una vera passione per i miei film. Tutti volevano conoscermi. Il mio vero problema era che parlavo malissimo l’inglese e non capivo praticamente quasi nulla. Per fortuna, in quei viaggi negli Stati Uniti, mi accompagnava spesso il mio amico Arrigo Colombo, produttore italoamericano. Durante il mio soggiorno a Hollywood, ho avuto occasione di conoscere molti divi celebri, con i quali, oltre a divertenti colazioni e cene, ho anche parlato di progetti cinematografici da fare insieme. Ricordo una di queste cene, in una lussuosa villa nel cuore di Beverly Hills, con giardino ricco e fiorito, campo da tennis in erba come a Wimbledon, e una piscina circondata da palme alte e slanciate. L’ospite era il più potente azionista della Universal Pictures, di cui non ricordo il nome. Aveva invitato un vero parterre de rois: attori, sceneggiatori e molti dei più grandi registi dell’epoca d’oro di Hollywood. Non potrò mai scordare quando, tra quella folla di invitati, venne avanti per salutarmi il leggendario William Wyler. Aveva un’aria simpaticissima e allegra. Parlammo a lungo di Roma. Lui la conosceva per averci girato quella delizia di Vacanze romane, con Audrey Hepburn e Gregory Peck, e aveva una profonda nostalgia per la «mia» città, così diceva. Wyler ricordava benissimo le strade, i ristorantini del centro, i vicoletti di Trastevere… Quando mi chiese dove abitavo e gli risposi «a piazza del Popolo», quasi svenne. Era rimasto innamorato della città eterna e mi disse che ci sarebbe voluto tornare. Purtroppo, due anni dopo morì e non credo abbia fatto in tempo a realizzare quel suo sogno.
Il proprietario di quella reggia hollywoodiana, per quanto avesse fatto molti soldi con il business del cinema, aveva la passione per l’oculistica. Adorava gli occhiali. Credo che debbo quell’invito proprio ai miei occhialetti bianchi. Enrico, come al solito, non era voluto venire. Si annoiava a morte con le mondanità e, ancora di più, se di natura cinematografica. Io fui fatta sedere alla destra del grande produttore. Ricordo che per «aprire» la cena arrivò una patata. Ma non era una patata qualsiasi, si trattava di una patata hollywoodiana, racchiusa in carta argentata, con il cuore di caviale o forse di funghi, non ricordo. Era una di quelle cene con dodici forchette, e altrettanti coltelli. Un popò di tavolo rutilante di argenterie e cristalli scintillanti. Il padrone di casa mi parlava in continuazione. Naturalmente io capivo pochissimo. Con un sorrisetto che voleva simulare comprensione, presi una forchettina e un coltello di tutto quell’apparato e cominciai a scartare la regale patata. Lo scherzo che un destino dispettoso mi riservò fu che, nell’attaccare la patata, unta di burro, il coltellino scivolò sulla buccia traditrice e la patata partì a gran velocità verso la mia sinistra, dove sedeva il nostro anfitrione. E dove andò a finire quella fatale patata? Ovviamente sui suoi occhialini d’oro. Vi potete immaginare le facce dell’intera tavolata, soprattutto ricordando che lui era «la Universal» e i suoi ospiti erano quasi tutti registi e attori, e molti lavoravano per lui. Feci una delle mie indimenticabili figure di merda, ma non riuscii a trattenermi e, tanto per migliorare la situazione, iniziai a ridere con una di quelle risate fino alle lacrime. Non riuscii neppure a scusarmi tanto ero in preda al fou rire. Ridevo e pensavo che per colpa di quella patata imbottita di caviale mi sarei potuta giocare la carriera in America. Dopo un attimo, quel simpatico signore si asciugò il burro con un tovagliolo e, strizzandomi un occhio, mi disse: «Ottima mira, baby». Questo me lo rese subito adorabile. Però non feci mai nessun film con lui. Finita la cena, com’è d’abitudine, c’era la proiezione di un film. In quel caso era un bel film: Sherlock Holmes: soluzione
sette per cento. Il regista, che non era fra gli invitati, era proprio Herbert Ross, un caro amico fin dai tempi in cui era venuto a Roma per lavorare a Rinaldo in campo di Garinei e Giovannini. Il film mi piacque molto ma durante la proiezione ogni tanto lanciavo uno sguardo al grande vecchio che, non dico si addormentasse, però aveva l’aria di non apprezzare. Quello era il primo film di Herbert, quindi io mi preoccupai del poco interesse che mostrava il produttore. Un regista dedica anima e corpo, fatica e passione alla realizzazione di un film. Lo scrive, lo dirige, lo monta e poi, quando è finalmente terminato, un potente signore lo guarda con l’occhio a mezz’asta e, tra uno sbadiglio e l’altro, rischia pure di addormentarsi. Appena si riaccese la luce, cominciai a parlare nel mio inglese approssimativo dei particolari occhiali di Sherlock Holmes. Il vecchio tycoon si appassionò subito all’argomento e così risolvemmo bene la serata. I ricordi legati alle mie vacanze negli Usa mi fanno tornare in mente anche il mio «debole» per Shirley MacLaine. Era troppo simpatica, per me era come se fosse una vecchia amica. Mi misi in testa di conoscerla. Quando seppe di questo mio desiderio, mi invitò subito a casa sua. Una di quelle classiche villette americane, con un bel giardino e la staccionata bianca. Venne Shirley in persona ad aprirmi. Era sudata in un maillot da danza, con un asciugamano al collo, ma era lo stesso adorabile e bellissima. Le sarebbe molto piaciuto fare un film con me. Se non che, i produttori americani risposero a questa mia richiesta con una frase che non dimenticherò mai: «BoxOffice Poison», come dire, veleno per il botteghino. Io ci rimasi molto male. Grazie a dio, Shirley in seguito si è ripresa benissimo da quel periodo di crisi e continua tuttora a fare dell’ottimo cinema. Barbra Streisand, invece, venne una sera da me a Roma e io le feci preparare degli spaghetti speciali con la ricotta. Qualche anno dopo la andai a trovare a Beverly Hills, dove aveva tre ville. Le aveva arredate personalmente. Una era in stile old west, una era supermoderna, la terza in stile italiano. Lei pensò
di farmi una bella sorpresa preparandomi per cena lo stesso tipo di pasta alla ricotta. Il pensiero era carino ma la pasta era pessima. C’era il progetto di girare un film insieme che però non ebbe seguito. Tra gli altri incontri americani, ricordo Dustin Hoffman, con il quale diventammo amici. Lui amava molto l’Italia, aveva interpretato un film di Pietro Germi, Alfredo Alfredo, e gli sarebbe piaciuto tornare a lavorare da noi. Quando fui invitata alla premiazione dei Golden Globe, nel famoso ristorante Sardi’s di New York, mi accadde un episodio tra i più imbarazzanti della mia vita, ma anche molto divertente. Durante la consegna dei premi, Robert Altman – grandissimo regista di Nashville, I protagonisti, Gosford Park e tanti altri capolavori – si alzò dal suo tavolo e, con un cenno che fece tacere tutti, si inginocchiò davanti a me e addirittura mi baciò i piedi. Lui aveva gli occhi lucidi, doveva aver bevuto un po’ troppo whisky. Io mi vergognai come una ladra, sarei voluta sprofondare sotto terra e infatti, per fuggire da quel terribile imbarazzo, mi inginocchiai a mia volta, davanti agli occhi divertiti delle personalità del cinema americano presenti. Gli americani sono un popolo che ama l’allegria e anche le piccole sceneggiate che nascono nei vapori dell’alcol. Bacco, che dalle nostre parti è il dio del vino, a Los Angeles è passato direttamente al whisky. Devo ammettere che vivevo il sogno più ambizioso di un regista europeo. In fondo, era un affettuoso omaggio di tutta Hollywood ai miei film. In quegli anni, ricevevo in continuazione proposte di contratti con le major e gli agenti delle società di New York arrivavano a Los Angeles apposta per incontrarmi. Io in quel momento volevo fare Caligola, un film sull’imperatore romano a cui tenevo moltissimo. Nella speranza di realizzarlo firmai un contratto con la Warner Bros., ma non sapevo nulla sul funzionamento e sulla mentalità di questi colossi dell’industria cinematografica americana. Il produttore Franco Rossellini, nipote del grande Roberto, mi portò a colazione al Four Seasons per un incontro
importante con il proprietario del famoso magazine «Penthouse». Voleva offrirmi la regia di Caligola. Io ci andai volentieri perché immaginavo che si fosse interessato al «mio» Caligola. Purtroppo, mi disse subito che non pensava al mio, ma a quello scritto da Gore Vidal, famoso scrittore americano, che però con il potere e il sesso aveva un rapporto molto diverso dal mio. Si trattava di un momento particolarmente buono della mia carriera e intendevo realizzare a tutti i costi il mio progetto di film su quel bizzarro imperatore romano. A quel tavolo, il signor «Penthouse» mi offrì un milione di dollari per girare il film scritto da Vidal. Per me, che non ero mai stata ricca, né lo ero diventata nonostante il successo dei miei primi film, quella cifra significava mettersi a posto per tutta la vita. Rifiutai. Rossellini mi guardava con gli occhi di fuori e cominciava ad avere i sudori freddi. Si sarà domandato se non fossi improvvisamente impazzita. «Penthouse», dopo il mio rifiuto per Caligola, mi fece allora una seconda proposta: dopo quel film, mi avrebbe poi fatto dirigere Caterina di tutte le Russie. E, piccolo dettaglio che avrebbe fatto cascare dalla sedia chiunque, la cifra era raddoppiata: due milioni di dollari! Franco, a quel punto, cominciava davvero a darmi i calci sotto il tavolo e a dirmi a denti stretti e con gli occhi sempre più di fuori dalle orbite: «Accetta… tanto il regista sei tu e fai quello che ti pare…». Ma io, imperterrita, rifiutai: «No». Uscita dal ristorante, salimmo sulla limousine che ci portava in albergo. Ricordo che mi vennero le lacrime agli occhi. Mi sentivo eroica, però mi rendevo conto di essere stata anche un’imbecille. Che cosa avevo combinato? Avevo rifiutato un fiume di dollari in nome della mia integrità artistica. In fondo a quella limousine, Franco continuava a rimproverarmi di aver commesso una grande cazzata e, onestamente, non potevo che dargli ragione. Ripensando a
quella colazione, a distanza di tanto tempo, mi domando: «Ho fatto bene a rifiutare? Lo farei ancora oggi?». Forse no. Quel Caligola di Vidal, lo fece poi Tinto Brass. Andai insieme a Enrico a vederlo in un cinema a luci rosse. La sala era deserta, c’era solo un nero ubriaco in fondo e noi in settima fila. Trovammo il film pessimo, volgarotto e, come Enrico diceva ironicamente, «troppo affogato in roba di culo». San Francisco: burro, Coca Cola e femminismo Erano passati un paio di anni dall’incontro con Mr Penthouse quando, nuovamente a New York, mi trovai a cena al Four Seasons con Goldwyn junior, figlio del padrone della Metro-Goldwyn-Mayer, che era il distributore di un mio film. Il maître, che era italiano, venne al nostro tavolo e molto galantemente mi baciò la mano. Ricordava quell’indimenticabile no ai due milioni di dollari. Mi chiese sorridendo: «Scusi l’impertinenza, lei è ricca?». «No, sono solo una povera pazza.» Insomma, se ripenso a quella «stagione americana» fatta di colazioni, cene e incontri mondani con i big del cinema, posso concludere che la passione dei grandi produttori delle major per il mio lavoro è stata un po’ come un soufflé: in partenza si è gonfiato tanto, e poi pian piano si è ammosciato. Si tratta infatti quasi sempre di passioni che rischiano di diventare pericolose. Con la Warner ci furono lunghe discussioni, ma alla fine non ci trovammo d’accordo su nulla e buonanotte. Tornai quindi in Italia, che nel frattempo stava vivendo il complicato periodo degli anni di piombo, e cominciai a pensare a un’altra storia da raccontare. Fu proprio quel momento cupo a spingermi a realizzare La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia. Giancarlo Giannini interpretava il ruolo di un giornalista comunista; mentre come co-protagonista femminile scelsi la bellissima Candice Bergen, bionda californiana, nutrita di burro, Coca Cola e femminismo.
Intendevo raccontare il cambiamento di un mondo evocato dalla notte (che portava con sé l’idea della fine), e dalla pioggia (che alludeva al diluvio universale). Il letto diventava lo spazio intimo dove aveva luogo l’incontro-scontro della coppia, che si sentiva schiacciata dal declino delle rispettive ideologie. In quella stessa stanza appariva una sorta di coro di amici, non proprio come nelle tragedie greche, ma insomma eravamo da quelle parti. Un coro che i due protagonisti non vedono mai, ma che è sempre presente. Oltre ai fantasmi dei loro amici, avevo inserito i flashback sull’inizio della loro storia d’amore, che adesso, sul ring di quel letto, stava finendo ko. La fine del mondo si differenziava molto dagli altri miei film perché mancava, totalmente, il mio segno caratteristico: il grottesco. Non so perché. Ma in questa storia mi veniva poco da ridere. Insomma, quella di Giannini e della Bergen era una coppia di rompiscatole e alla fine anche il film diventò, a sua volta, rompiscatole. Credo sia uno dei miei meno riusciti. Stavo girando quel film a San Francisco quando arrivò una notizia sensazionale. Pasqualino Settebellezze era candidato a quattro premi Oscar: miglior film straniero, miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior attore protagonista. Stavo entrando nel Guinness dei primati. Un film straniero con quattro nomination, per di più diretto da una donna, non si era infatti mai visto fino ad allora nella ormai già lunga e gloriosa tradizione dell’Academy di Hollywood. Con il charter organizzato dalla Warner, volai a Los Angeles con alcuni amici. Enrico, naturalmente, non venne. Gli americani, quando esagerano, esagerano veramente. E poi per loro l’Oscar è una specie di cerimonia nazionale nella quale si riconosce tutto il paese. Ci sono i bookmaker, le scommesse sui vincitori e tutto un indotto di interessi. La cerimonia ufficiale – un’organizzazione megagalattica – cominciano a prepararla con mesi e mesi di anticipo, anche se a essere celebrata, in realtà, è l’unica divinità che l’America conosca: il successo.
Cominciamo col dire che tutta la città si paralizza. Agli invitati si distribuiscono le cartine che indicano i percorsi da fare per raggiungere l’agognata meta, il famoso Kodak Theatre. La folla inneggiante è trattenuta da cordoni di poliziotti. Noi eravamo un gruppetto mica male. Oltre a me e Giancarlo, c’erano Tullio Kezich e sua moglie Lalla, i produttori Poccioni e Colajacono, il costumista Gino Persico e Arrigo Colombo. Dovevamo camminare lungo una passerella circondata da una marea di gente, televisioni e fotografi, per trasmettere al mondo televisivo e ai posteri l’evento. Anche in quel caso, io preferii cavarmela con una battutaccia. In mezzo ai flash e alle urla dei fan, cominciai a gridare: «Mamma mia. Mamma mia». Effettivamente, il fatto di essere arrivata fin a lì costituiva un evento da Guinness. In quel momento ero la regista più famosa del mondo, con tutto il rispetto per Elvira Notari e Leni Riefenstahl. La macchina di quella organizzazione era talmente perfetta che la mia natura scugnizza mi fece subito venire voglia di creare un po’ di movimento, mettendoci una «zeppa». Nella poltrona assegnata a me, sulla quale erano puntati gli obiettivi di tutti i network televisivi, feci sedere Lalla Kezich. Nel magico momento in cui venivo inquadrata in qualità di concorrente per le quattro nomination, il mondo vedeva la moglie di Kezich. Devo confessare che, come beffa alle istituzioni e alle glorificazioni americane, fu ben riuscita. Ci fu chi sostenne che proprio a causa di quello scherzo «irriverente» non mi assegnarono l’Oscar. Io non ci credo, però potrebbe anche essere. Dimostrerebbe che l’Oscar è un premio alla disciplina e alla buona educazione, anziché all’arte. È pur vero che tutto il nostro gruppetto, Colombo, Colajacono e Poccioni, compreso anche Don Rugoff, non conosceva le strategie politiche legate all’Academy Award. Tenendo conto che la gara per quel premio di importanza mondiale coinvolge una quantità di persone e di interessi, avremmo dovuto informarci bene e spedire un enorme numero di videocassette alle
migliaia di giurati, per essere sicuri che tutti avessero visto il film al momento del verdetto. Bisognava anche organizzare centinaia di proiezioni nelle sale cinematografiche. Un’operazione che prevedeva un finanziamento importante che per le major non era così impegnativo, mentre per noi poteva rivelarsi catastrofico. La «campagna per l’Oscar» è un vero investimento che, in caso di vittoria, per gli americani può diventare un affare d’oro. Noi eravamo un piccolo gruppo avventuroso e ignaro di queste dinamiche e forse anche per questo motivo il film, nonostante credo che meritasse i premi, fu fatto fuori da un esperto produttore ebreo, che promosse il suo film senza badare a spese, arrivando così a vincere la tanto ambita statuetta. Comunque, come avrete capito, a me di queste celebrazioni non me ne poteva «frega’ de meno». Fra l’altro, trovavo di una noia mortale quel susseguirsi infinito dei vincitori di una statuetta che, sul palco, con gli occhi lucidi, tiravano fuori la stessa tiritera: «Ringrazio i miei produttori, mia madre, mio padre, mia sorella, le mie figlie, i miei cani, i miei gatti, il mio estetista, il mio parrucchiere…». E chi più ne ha più ne metta. Le quattro nomination si dispersero nella magica notte hollywoodiana, mentre noi, col nostro charter notturno, tornammo a San Francisco dove dovevamo girare la mattina successiva. Invece del party organizzato dalla rivista «Vanity Fair», con caviale e champagne, ci ritrovammo nella nostra suite di fronte al Golden Gate, al sorgere del sole, a mangiare fra di noi un salamino regalato dall’albergo. Non avevamo neanche un coltellino e dovemmo mangiarlo a «mozzichi». Chissà se il vecchio e dorato zio Oscar ci avrà mai perdonato quello spirito scugnizzo e irrispettoso. Quanto al periodo trascorso a San Francisco, posso dire che mi venne spesso da pensare alla storia dei nostri emigranti. Quelle degli italiani che hanno tentato fortuna in America sono state emigrazioni dalle caratteristiche molteplici. Senza dubbio, quella giunta a New York era una folla di poveri disperati, spesso anche analfabeti. A San Francisco, invece, erano arrivati marinai toscani, anarchici arrabbiati e socialisti
in cerca di libertà. La loro presenza, insieme a tanti altri fattori, trasformò San Francisco nella città più libera e alternativa della California e di tutti gli Stati Uniti. Ci vivevano hippie, gay e liberal, e si respirava una bell’aria di trasgressione. Perfino troppo. Tant’è vero che una sera che io volevo entrare in un locale gay ci mancò poco che mi prendessero a calci. Bella città San Francisco, con tutte le sue colline, salite e discese, i suoi tram a cremagliera, la Lombard Street piena di fiori… Quando giravamo per strada, la gente era molto cordiale e partecipava volentieri al nostro film. Mazzetto di ricordi su San Francisco: mi rifiutai di salire sull’ascensore del Golden Gate, dal quale dovevo fare un’inquadratura per il film. Soffro di vertigini e lasciai che ci andasse da solo il grande Peppino Rotunno, direttore della fotografia; resi omaggio a Giannini, non Giancarlo ma Amedeo, il famoso banchiere che dopo il terremoto del 1906 che devastò la città concesse prestiti alla popolazione, toccando il palmo delle mani dei cittadini per stabilire dai calli quanto fossero «lavoratori»; la razzia di tazzine cinesi che ho trovato a Chinatown e che uso ancora adesso.
Le sopracciglia di Sophia
Il titolo del film che realizzai dopo La fine del mondo… è entrato insieme a Film d’amore e d’anarchia, nel Guinness dei primati come il più lungo della storia del cinema: Fatto di sangue tra due uomini per causa di una vedova… (si sospettano moventi politici), con Sophia Loren. È una frase che richiama il modo di titolare gli articoli di cronaca nera sui giornali. Bisogna tener conto che i produttori e i distributori preferiscono sempre i titoli corti perché si possono scrivere più grossi sui manifesti: l’ideale, per loro, sono titoli come Senso oppure 8½. I miei, lunghissimi, erano certamente i meno graditi ma volevano essere un po’ un gioco con il pubblico. Mi divertiva che gli spettatori non se li ricordassero, anzi che li storpiassero un po’. Una specie di scherzo. Per esempio, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, se chiedevi in giro, ascoltavi le versioni più fantasiose: «Travolti dal mare», «Travolti nell’azzurro», insomma erano tutti curiosi e simpatici. Il fatto di non ricordarsi l’intero titolo diventò una caratteristica inconfondibile dei miei film. Fatto di sangue era interamente ambientato in Sicilia, una terra che mi sta nel cuore. Come in ogni mio film, anche in questo caso Enrico era riuscito a ricreare un’atmosfera da anni Venti, pastorale e selvaggia, che nascondeva nei suoi aranceti i contrasti e le tante piaghe di quella terra. Come il lavoro minorile nelle zolfatare e i raffinati circoli dei gentiluomini. Nell’isola sono passati conquistatori di culture diverse: dai greci, via via a romani, arabi, normanni, spagnoli, fino ai Borbone. Le culture degli invasori si sono stratificate in quella bellissima isola, lasciando tracce profonde non solo
nell’architettura, ma anche nella natura del popolo. Vedere i suoi templi che ancora giganteggiano nelle vallate, la potenza delle colonne e la bellezza dei fregi, ti rimanda inevitabilmente alla Magna Grecia. Uno dei più grandi scienziati della storia dell’umanità, Archimede, era nato proprio a Siracusa. Si occupava di matematica, aritmetica, geometria piana e solida, meccanica, ottica, idrostatica e astronomia. Famose le macchine da guerra inventate per difendere la città dalle invasioni delle flotte romane. Durante la seconda guerra punica, per esempio, realizzò gli specchi ustori, concavi, che, catturando i raggi del sole e concentrandoli sulle navi, le incendiava. Ho una particolare simpatia per lui, era così brillante e fantasioso che io non me lo immagino in una di quelle rappresentazioni statuarie e classiche che ci arrivano dall’antica Grecia. Preferisco pensarlo con quell’arguzia e quella simpatia che hanno caratterizzato il genio di Einstein. Quanto al cast del film, fu molto bello il mio incontro con Sophia. Questa star acclamata nel mondo nasconde un’attrice di talento e piena di autentica passione per il suo lavoro. Quando crede in un regista, gli si affida completamente. Per fortuna si fidò di me, quasi come quando lavorava col suo grande maestro e protettore, Vittorio De Sica. Sophia ha navigato nel mare affascinante del cinema, difendendo sempre la serietà e il livello qualitativo della sua professione. E non si è fatta mai sedurre dai corteggiamenti dei tanti e importantissimi divi che hanno lavorato con lei, da Frank Sinatra a Clark Gable, fino al mitico Cary Grant. È rimasta legatissima alla famiglia, ai figli e a Carlo Ponti, fin quando è vissuto. Il loro è stato un amore vero e molto autentico. Con la grazia, la modestia e la passione degna di una debuttante, si era affidata completamente a me, attenta a capire come volevo costruire il suo personaggio. In realtà, il mio problema era proprio Sophia. Un’icona mondiale nell’immaginario di tutto il pubblico. Sarà per via di quei templi, ma io sognavo di «farle» una faccia greca. Avevo scritto il soggetto in aereo, tornando dall’America diretta a
Parigi, dove dovevo incontrare Sophia. Quando ci siamo trovate insieme davanti a uno specchio, ho tirato fuori una matita nera e mi sono avvicinata al suo bellissimo viso. «Permetti?» «Prego.» Ho cominciato a disegnare con la matita nera il mio adorato «tempio greco» attorno suoi magnifici occhi. Intendo dire che le sopracciglia, invece che in su, dovevano, contro ogni moda, andare in giù, come per ricordare il frontone di un tempio. Lei, incuriosita, mi lasciava fare. Quando finii con la mia matita, lei si guardò e si fece una gran risata. «Guarda, Lina… che io con le mie sopracciglia c’ho fatto tutta una carriera…» «Ti va di correre un’altra avventura?» Lei acconsentì. Aveva due partner in quel film: Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini. Marcello era un socialista in crisi. Siamo nel 1922, la scissione socialista di Livorno l’ha dilaniato ed è seriamente preoccupato che l’attivismo di sinistra finisca con il provocare una reazione della destra, come poi, infatti, è avvenuto con il fascismo. Tanto per rendere scomoda la vita a Marcello, gli avevo messo in faccia una barba lunghissima, una vera esagerazione. Giannini, invece, interpretava un siciliano che in America aveva fatto fortuna diventando un gangster. Poi c’era anche un terzo uomo: Turi Ferro, assassino mafioso diventato fascista. Sophia era una «vedova di vendetta». Il marito era stato ucciso in una faida da un mafioso. Lei era incinta e, la notte dell’omicidio, per il terrore, aveva perso il bambino. Così viveva odiando la vita tanto che, per affermare questo suo odio, procurava aborti gratuitamente. La storia porta la donna a incontrare questi due uomini così diversi e, con loro, conosce all’improvviso l’amore. Li ama entrambi e quando si trova ad aspettare un bambino, non sa a quale dei due uomini appartenga. A ispirarmi questa storia fu una statua dell’antica
Grecia, esposta in un museo del Sud. È la «grande madre» che allatta due neonati, ognuno a un seno. In qualche modo, nel finale tragico del film, questo simbolo si incarna in Sophia. In principio pensavo a una commedia, ma la storia – forse fu la Sicilia, forse la partitura di Vincenzo Bellini – mi prese un po’ la mano e venne fuori un melodramma. Io non ne avevo mai fatti prima. Succede così: le storie hanno una loro personalità e a un certo punto ti portano dove vogliono loro, non dove le vuoi portare tu. Di quell’esperienza siciliana l’immagine di Sophia Loren che, vedova nera, corre per i templi della Magna Grecia, con la voce della divina Callas che canta Casta Diva, non la posso certo dimenticare. Una volta, mentre in Brasile stavo facendo i sopralluoghi per Tieta do Agreste, in una spiaggia remota dopo grandi foreste disabitate, incontrammo un bambino piccolissimo che ci venne a salutare festoso. E quando noi dicemmo: «Italiani… Italia…» lui ci fece un gran sorriso e disse: «Sophia Loren!». Era quella l’Italia, per lui. Il quoziente erotico di Cary Grant Sophia è riuscita a trascorrere una vita da grande diva internazionale senza perdere mai la sua solarità, la sua semplicità, la sua disponibilità, e quel fondo di scugnizza che traspare dai suoi sorrisi. Ha lavorato con tutti i più grandi attori e i più grandi registi del cinema. Molti se ne sono innamorati. Brava, bravissima. Una cosa sola non riesco a perdonarle. Cary Grant: dico Cary Grant! Nel 1956, durante la lavorazione del film Orgoglio e passione di Stanley Kramer, Cary perse proprio la testa. Lui era famoso per i tanti matrimoni e voleva sposarla. Sophia gli disse di no. Sophia, Sophia… Ma come si fa a dire di no a quello strafigo di Cary Grant!? L’attore che più di tutti aveva saputo coniugare la classe dello stile inglese con l’aria hollywoodiana? Si era sposato già tre volte, una delle quali con Barbara Hutton, una stramiliardaria che aveva pensato di comprarsi il più affascinante divo di Hollywood. Cary ci fece appena un «giro». In realtà, doveva averlo incuriosito quella potentissima
femmina americana che si era incapricciata di lui. Ovviamente, Cary non aveva bisogno né di lei, né della sua notorietà, né del suo denaro. Aveva Hollywood ai suoi piedi. Ad averlo conquistato, oltre alla bellezza, sono state la freschezza e la simpatia di Sophia. Nelle profumate notti in Andalusia, Sophia si ritrovò lo sguardo bruno e appassionato di Cary che, sussurrandole «I love you», le chiese di sposarlo. Dico, vabbè che tu sei Sophia Loren e da Pozzuoli hai spiccato un gran bel volo per i cieli di tutto il mondo, ma Cary, moro, con i capelli tendenti quasi al blu, elegantissimo, per cinquant’anni ha fatto battere i nostri cuori, cimentandosi con l’intera gamma possibile delle interpretazioni che si possono affidare a un attore! Giovane playboy, arrivato a Hollywood fu subito intercettato dall’esuberante Mae West, che ha fatto una carriera scandalizzando il perbenismo degli Stati Uniti. Era sublime, Mae, nella sua interpretazione del puttanone. Una mano sul fianco, una banda di boys intorno a farle da cornice e uno sguardo provocatorio in mezzo a un quintale di ciglia finte: provocava con battute sporcaccione i puritani, fino a indicare, ancheggiando e ruggendo, i pantaloni del suo giovane accompagnatore e chiedergli: «Che hai lì, una pistola o sei contento di vedermi?». Quella di Cary è stata una carriera folgorante. Passando dalla commedia al dramma, sempre da grandissimo interprete. Da Arsenico e vecchi merletti a Susanna, dai magnifici film di Hitchcock come Il sospetto, fino ad arrivare all’indimenticabile bacio di Notorius (ancora Hitchcock…) tra lui e Ingrid Bergman, che lo rese per un bel po’ di tempo l’attore più sexy del mondo. Sempre credibile, sempre elegantissimo. Coniugando con leggerezza tutte le differenti nature dei tanti personaggi che interpretava. Il grande Hitchcock aveva un così forte quoziente erotico da capire la sensualità che si nascondeva dietro gli avvelenamenti, gli omicidi e i delitti. Aveva individuato, in quell’incredibile giardino di eros che era l’Inghilterra, i due massimi strafighi:
oltre al già nominato Cary Grant, il nuovo folgorante Sean Connery. Ecco com’è: quando si parla di Cary Grant io mi lascio sempre trascinare, anche se questa volta invece è di Sophia che intendevo parlare. Carlo Ponti era un uomo adorabile e un amico simpatico ma, con tutto il rispetto, cara Sophia, come hai potuto farti scappare Cary! Imperdonabile! Naturalmente scherzo… De Sica è stato il suo più caro amico e maestro. Fu forse il primo a riconoscere in lei l’enorme talento di attrice, dietro la sua prorompente bellezza. Prima di chiudere questo pensierino su Sophia, voglio fare un omaggio ai suoi seni. Come sua madre, Romilda Villani, anche lei bellissima, che vinse persino un concorso indetto da Hollywood per trovare una sostituta di Greta Garbo – la famiglia di Pozzuoli le proibì di partire – Sophia ha dei seni epocali. Sophia… Sophia… me la ricordo seduta accanto a me, a studiare un monologo, attenta e appassionata come una bambina che si prepari agli esami di ammissione per l’accademia. Tra Scilla e Cariddi Spesso l’estate seguivo gli spettacoli di Enrico, nei vari festival dove lavorava. Alcuni bellissimi, come quello di Siracusa. Ancora una volta la Sicilia che tornava a essere Magna Grecia e riempiva i suoi teatri antichi, con la tradizione dei grandi classici. Non posso mai dimenticare la mia forte impressione, salendo sul palcoscenico del grande Teatro Greco di Taormina, nel ritrovarmi di fronte il pubblico seduto sull’arco delle gradinate. Per la prima volta ebbi una straordinaria sensazione, mai provata prima in nessun altro teatro. Da lì, potevo vedere le facce di ciascuno spettatore del pubblico, come se si trovassero a due metri da me. Mi apparivano una sopra all’altra e vicinissime, cosa che normalmente, a teatro, non accade. Era una vicinanza quasi imbarazzante. Non so perché, ma è certo che quell’impressione me la sono poi portata nel cuore per tutta la vita.
Ci sono cose della civiltà greca che si possono capire bene solo in teatro. Per esempio, quando Enrico e io andammo in visita a Epidauro, dove c’è il più bello, il più antico, il più grande e famoso di tutti i teatri greci, lasciammo al centro del palcoscenico un amico e noi ci arrampicammo su su, fino alle ultime gradinate. Ebbene, l’amico al centro del palcoscenico sussurrò una lunga poesia del grande lirico greco Archiloco, che mi piace ricordare perché non la si conosce abbastanza: Lungamente travolto dai marosi Tu sia sbattuto contro salmi d’esso Nudo, di notte, mentre in noi fa quiete. E spossato, con ansia della riva Tu rimanga a ciglio del frangente Nel freddo, stridendo i denti, Come un cane, riverso sulla bocca E il flusso continuo dell’acque Ti copra fitto d’alghe. Così ti prendano i traci, che in alto Annodate portano le chiome, E con loro tu nutra molti mali Mangiando il pane dello schiavo. Questo vorrei vedere che tu soffra, Tu che m’eri amico un tempo E poi mi camminasti sopra il cuore.
Questo sussurro ci arrivò chiarissimo fin lassù, in alto, dove stavamo, dandoci la prova straordinaria della raffinatezza di quella civiltà, anche in fatto di acustica. Quegli spettacoli estivi di Enrico erano bellissimi. Gli antichi versi risuonavano per le cavee, facendo rivivere dopo tanti secoli i poeti greci. Riflettendoci, loro facevano uscire, dalle maschere che gli attori portavano sul volto, una voce che veniva esaltata come da un altoparlante. Indimenticabile il finale di una Medea di
Enrico, nel quale un enorme sole di metallo d’oro, sedici metri di diametro, sovrastava in alto la scena. Era come un enorme obiettivo fotografico che si apriva per fare uscire il carro d’oro che avrebbe portato in cielo Medea, ritornata divina, dopo l’incidente dell’amore. È strano che, quasi sempre, nel teatro che rappresenta inevitabilmente storie umane, torni ricorrente il tema delle corna, come movente principale del dramma. In fondo anche le lotte di potere nascono spesso dalla gelosia. E la stessa ambizione, non è forse una forma di gelosia? C’è un antico proverbio romano, che dice: «Io so’ io e voi non siete un cazzo». Non è molto chic, ma è una buona rappresentazione dell’ambizione, nel senso di considerarsi e di voler essere considerato più degli altri. D’altra parte, nella storia delle comunità umane, lungo tutti i millenni c’è sempre stato un capo. E come ha fatto quel capo a diventare capo? Perché è più forte, perché è più ricco, più intelligente, perché è più carogna… non si sa, ma si sospetta che soprattutto quest’ultima cosa abbia generato il concetto di capo, ovvero di Principe, con buona pace di Machiavelli. C’era una teoria interessante che riguardava le antiche società patriarcali che nascevano sulla cosiddetta «uccisione del padre». È singolare come nelle società primitive, per esempio le tribù dell’Amazzonia, o di certe parti dell’Africa, una delle spiegazioni che si dà al fatto che le comunità siano rimaste sempre le stesse col passare dei secoli, abbia a che fare con la presenza e persistenza dello stregone. Il potere, quindi, non era solo del padre re, ma anche dello stregone. Evitando la distruzione del mondo paterno, le società si replicavano rimanendo sempre le stesse. Le nostre invece continuavano a mutare, scrivendo poi la storia.
Amore e magia nella cucina di mamma
Leonarda Cianciulli fu un personaggio che ebbe una certa notorietà nel panorama dei gialli italiani. Divenne nota come «la saponificatrice di Correggio». Allora, negli anni Quaranta, esisteva un giornaletto che si chiamava «Crimen», aveva molto successo e si occupava di delitti e crimini vari accaduti in Italia, tra cui quello, appunto, della Cianciulli. Io credo che un tipo di giornale così avrebbe successo anche adesso, anzi, forse lo farò io. Perché non c’è dubbio: la gente è attratta dal giallo e dal nero più che dal rosa. Dunque… il nero. Sono lontani i tempi in cui sugli scaffali delle librerie c’erano soltanto i Gialli Mondadori, collana di grande successo che ha segnato un’epoca. Ora, edicole e librerie traboccano di polizieschi e thriller di ogni tipo. Ma è pur vero che i grandi classici di questo genere dominano sempre. Agatha Christie, con i suoi Hercule Poirot e Miss Marple, dio sa quanto sia stata brava! Quando penso a lei, mi emoziono all’idea di questa elegante donna inglese che ogni mattina infilava un foglio nella sua arcaica Underwood. Da quella macchina da scrivere scendevano allegramente, saltellando sui tasti, i vecchi amici Poirot e Miss Marple. Una vita in cui la Christie, tradita dal primo marito, decide di fabbricare un piccolo giallo su se stessa e scompare per dieci giorni: non si hanno più notizie di lei. In realtà era andata in un paesino nel Nord dell’Inghilterra, in un albergo dove si era registrata col nome della segretaria amante di suo marito. Dopo il divorzio, in Egitto conosce e sposa un archeologo che la accompagnerà per tutta la vita. Conserva il nome Christie, già famoso, per evidenti ragioni commerciali. Dall’avventura della sua sparizione, fu tratto alla fine degli anni Settanta anche un film. Si chiamava, non a caso, Il segreto di Agatha
Christie, ed era interpretato da Vanessa Redgrave e Dustin Hoffman. È carina l’idea che la giallista voglia fare un romanzo giallo contro il marito traditore. Chissà, forse sperava proprio di vederlo finire su una forca. Si può presumere che lei avesse organizzato questa sua scomparsa con il desiderio segreto che l’infedele Mr Christie finisse accusato dell’omicidio della propria moglie. In realtà, dai tempi di Edgar Wallace, nessuno ha avuto tanto successo nell’oscuro mondo del crimine quanto lei. Si batte al suo fianco solo il grande Georges Simenon, scrittore e giornalista belga di grandissima qualità. Non so se sia vero o se sia solo una leggenda, ma quando lui collaborava al «Figaro», lo avevano messo a scrivere in una «gabbietta» di vetro, tipo portiere, all’ingresso del giornale. Anche lui era molto charmant, con la sua pipa e le sue tante avventure che dalle dighe dei Paesi Bassi ci portano per le stradine di Montmartre e nei bureaux affumicati della polizia francese, dove Jules Maigret, spesso, cenava facendosi portare i panini dal ristorante di sotto. Tornando a «Crimen» e a Leonarda Cianciulli, ciò che rese singolare il processo fu non solo che la donna uccise le sue tre più care amiche, ma che fece a pezzi i loro corpi e ne ricavò candele, saponette e persino cioccolata. Nella mente malata della «saponificatrice», questa macabra abitudine rappresentava un rito che avrebbe dovuto salvare la vita a suo figlio, che rischiava, essendo militare, i pericoli della guerra. La Cianciulli, prima di avere questo figlio, ne aveva avuti tredici di bambini, tutti nati morti per una maledizione che, diceva, le aveva fatto sua madre quando era bambina. Ciò che sua madre non le aveva perdonato era il rapporto con un’antica strega dell’Irpinia, Zi’ Tripolina. La Cianciulli era nativa di Portella, una cittadina in provincia di Avellino. Si favoleggiava, a quei tempi, che a suggerirle quel folle rito di morte fosse stata proprio la maga. La storia mi colpì anche perché Franco Zeffirelli e la grande attrice Sarah Ferrati mi chiesero di scriverci sopra una commedia per il teatro. Io credo che pensassero a qualcosa di
simile ad Arsenico e vecchi merletti, la famosa commedia di Joseph Kesselring, dalla quale fu tratto l’adorabile film omonimo con Cary Grant, diretto da Frank Capra. Se non che, non è così facile «tirare» le storie fin dove vuole l’autore. In questo caso non mi fu possibile dare un’impronta di «grottesco», divertente o comunque lieve, alla vicenda da brivido di Leonarda Cianciulli. Ne venne fuori una storia terribile: Amore e magia nella cucina di mamma. Zeffirelli e la Ferrati si spaventarono e, facendo scongiuri, rifiutarono di realizzare quella pièce drammatica e funerea. Così, alla fine, decisi di allestirla io per il Festival dei Due Mondi di Spoleto, con una straordinaria protagonista: Isa Danieli. Le avevo fatto mettere tutti i denti di ferro, perché la vera Leonarda, in ospedale, aspettando il quattordicesimo figlio, aveva avuto un incubo: avrebbe partorito quel bambino ma sarebbe stato un mostro. Nella nebbia della sua follia, dopo essersi tagliata il ventre col rasoio, nell’ospedale dove la ricucivano, mescolando il diavolo e l’acqua santa, Zì Tripolina con la Madonna, al suo risveglio aveva fatto voto di strapparsi tutti i denti, pur di salvare quella creatura. La Cianciulli, in verità, era una povera pazza ossessionata dalla maternità. Quei riti magici li realizzava per amore. Enrico, a proposito di Leonarda, ha scritto: Il bambino nacque e sopravvisse … Ma ogni malattia di quell’unico figlio era per Leonarda una minaccia terrorizzante, insopportabile. In una delle tante notti di paura e di angoscia, in sogno, le venne in aiuto la vecchia zia strega che le aveva fatto la predizione: Leonarda avrebbe evitato la morte del figlio, se avesse fatto del «bene». E il bene era togliere la vita a donne sole, vecchie e infelici, per restituirgliela, tornate giovani e belle, in un altro luogo, in un altro tempo, facendole entrare nel «grande cerchio». Insomma la cerimonia magica avrebbe donato loro, oltre a una nuova vita, la felicità. … Chi conosceva la Cianciulli parlava di lei come di una donna solare, allegra, buonissima, sempre disponibile ad aiutare chiunque. Le donne uccise erano le sue migliori amiche e desiderava sinceramente di renderle felici. Assassinio, smembramento e saponificazione, veniva fatto tutto in una sola notte.
Certo fu un rapporto particolare il nostro, mio e di Enrico, con la Cianciulli. Andammo a trovare le sue compagne in manicomio, poco dopo la morte di Leonarda e la cosa che ci colpì fu proprio che tutte quelle donne la consideravano una specie di mamma. Le volevano bene. Per questo decidemmo di concludere lo spettacolo con lei al centro della scena, indosso il camice bianco da manicomio che, come una chioccia, abbraccia tutte quelle povere matte intorno a sé. In questo spettacolo, sotto molti aspetti dal carattere anch’esso «rituale», l’altare sacrificale era rappresentato dalla cucina. Un piano inclinato di «riggiòle», le antiche mattonelle napoletane, perché, sebbene la storia fosse avvenuta a Correggio, in Emilia, la radice di quel dramma risiedeva in un certo arcaismo culturale e simbolico del Sud. Una cucina dunque, di quelle a carbonella, con i cerchi di ferro nero per le pentole, e sul davanti gli sportelli pure di ferro nero. Il pavimento da cui l’altare emergeva era circondato da una cornice di lastra di lamiera di ferro, e di quelle stesse lastre era fatto anche il soffitto, che dal bordo di un pavimento in forte declivio risaliva verso l’alto del boccascena. Soffitto nel quale era ritagliato un grandissimo arco rotondo, un cerchio magico tangente il piano della cucina, nel quale penetravano le radici di un albero abitato dalla zia strega. Albero che Leonarda vedeva solamente in sogno, mentre il pubblico lo vedeva vero, poderoso, contorto e nero, ergersi verso l’alto in mille ramificazioni, per tutto lo spettacolo. Questo albero era la casa, il simbolo, la raffigurazione della strega Zi’ Tripolina. Nella tradizione popolare le streghe sono brutte. La mia Tripolina, invece, era una seducente e misteriosa dea che faceva dei bellissimi incantesimi con i suoi riti femminili. Avevo dato questa parte a Emma Muzzi Loffredo che realizzò anche le musiche per lo spettacolo. Emmuzza Muzzi e l’incanto della «non musica» La prima volta che la sentii fu nel film di Francesco Rosi, Cristo si è fermato a Eboli. Era proprio come se quella voce prorompesse dalla profondità mitica di un vulcano. Mi colpì
moltissimo il suo timbro misterioso e scuro, ma ancora di più mi colpì lei, Emma Muzzi Loffredo. «Ciccina Circè»: così la chiamò una volta il grande scrittore siciliano Stefano D’Arrigo. Ed è vero, qualcosa di mitico le aleggiava intorno, come la dea siciliana dalla lunga treccia, in fondo alla quale c’era un campanellino. Arrivò a Roma abbracciata a una chitarra e sbalordì tutti quanti. Era bellissima. Nulla faceva intuire, in lei, il suo passato. Non era uscita dall’Etna, in realtà veniva da una nobile famiglia siciliana. Era sposata con un famoso avvocato di Palermo e aveva due figli. Aveva lasciato tutto per correre a Roma, come una gitana, armata solo della sua musica. Fu un incontro non convenzionale data l’insolita personalità di quella creatura. Affascinò prima di tutti quelli della Rca, che pensavano di arricchire il loro repertorio di un elemento caratteristico. Sììì… era come se avessero trovato un bizzarro gattino, poi si resero conto che si trattava di una tigre. Lei ricusò gli strumenti musicali tradizionali. Aveva la sua chitarra e una sua speciale orchestra. Se l’era costruita da sola, con strumenti impropri. Tutti «imparentati» con il mondo femminile: noci, cucchiai, pentolini, e via così. Lei stessa insegnava a suonarli. Rifiutò tutti gli altri strumenti musicali, compresa l’intera orchestra della Rca. Era assolutamente selvaggia, ma aveva ragione. I suoni e la musica che emergevano da quelle sue bizzarre «orchestre» erano singolari. Ricordo quando arrivavamo in sala di incisione, e davanti agli occhi rotondi di stupore dei musicisti, scaricavamo dalla Cinquecento tutta una batteria da cucina, pentole, buatte, coperchi, noci, padelle e chi più ne ha più ne metta. Volò sopra a tutti i dirigenti della famosa Rca, sconvolgendo con le sue musiche selvagge e ferine l’universo ordinatissimo dei discografici. Non accettava nulla da quel mondo che il suo temperamento artistico rifuggiva. Io l’avevo chiamata a comporre le musiche per Amore e magia nella cucina di mamma, spettacolo nel quale impersonava, appunto, la misteriosa e semidivina strega Zi’ Tripolina.
Muzzi è un’artista molto particolare. Se non fosse una parola sputtanata, la definirei naïve. Un giorno. Lucifero era il titolo di un suo spettacolo teatrale, ma bisogna ricordare che diresse anche un film, Occhio biondo, occhio nero, occhio felino: se non mi sbaglio, raccontava le fantasie erotiche di una bambina. Fu anche presentato al Festival di Venezia nel 1983. Tutto quello che usciva da lei recava in qualche modo il segno dell’arte, anche se era fuori dagli schemi. Da allora è diventata una delle mie più care amiche, e lo è ancora. I suoi due figli, Vincenzo e Giuseppe, sono due talenti artistici. L’avvocato Amato, che ne è il padre, non ha ritrovato in nessuno di loro due un briciolo di interesse per la sua professione forense. Giuseppetto è innamorato del legno. Ha realizzato il Nautoscopio, un’affascinante casa-scultura di vetro e legno, che si alza di venticinque metri su un palo e gira su se stessa, mostrando il panorama a 360°. Oggi si trova sul lungomare di Palermo. Vincenzo, invece, lavora il ferro a New York. Incontrandosi sul pianerottolo con Emanuele Crialese, suo vicino di casa, il regista lo prese come protagonista del suo primo film Once we were strangers, e poi in altre due sue produzioni importanti: Respiro e Nuovomondo. Ha poi lavorato con altri registi, tra cui Liliana Cavani che gli fece fare nientepopodimeno che Einstein. Film non riuscito che ci fece rimpiangere Walter Matthau nei simpatici panni dello scienziato nel film Genio per amore. Tornando ad Amore e magia, io ed Enrico ne facemmo uno spettacolo speciale, suggestivo e molto particolare. Il testo fu messo in scena da diverse compagnie internazionali, sia in Europa che negli Stati Uniti. Confesso che avrei voglia di rivederlo, ma in Italia, chissà perché, non si riprendono mai i testi italiani contemporanei. È come se nel presentarli, li bruciassimo. Vorrei riportare uno dei suoi monologhi: Bisognava stare con me dal principio… Quelle notti… Raffaele, marito, maschio, potenza generandi… occhi lucidi… mani calde… quanto mi piaceva! Eeeeh!… Subito mi veniva voglia di buttarmi sotto a lui… gallina, cagna, rana spalancata… Quando io cedevo… Lei stava là,
a capo al letto… sempre là a guarda’… a capo al letto, come i santi… Eh già perché le bassezze… I vizi, le cose più carnali, davanti a chi le facciamo? Davanti ai santi, al crocefisso, alla Madonna di Pompei… Pare che ce li mettano apposta a controlla’! Be’, io a forza di vedercela là, mia madre morta, in quei momenti… me ce sò abituata… Quasi piacere mi faceva! Mi provocava? E io mi ci scatenavo… E tutte le schifezze le dedicavo a lei… A mamma mia… Pe’ falla muri’ un’ata vota… D’invidia! Perché lei me l’ha sempre invidiato quel piacere… «Guarda, ma’, guarda… Raffaè mordi e tocca… e stringi… Voglio sentì solo a te!» E lei quel momento aspettava… Quando proprio di due diventavamo uno… «Tiè!… Marcire ti si deve!» A quel momento cominciava a maledire, con la faccia disfatta di morte e vermi… «A da marcire!… A da marcì!… Seme di fiele e sangue di veleno! Segnata fino da mo’! Mentre la concepisci, la creatura… Mo’… Mo’… Adesso! Nell’attimo che t’entra dentro all’uovo!… Mo’ io ti maledico!» … «Aaah»… E io restavo incinta… uno dietro all’altro… E me li sentivo crescere dentro… E mi toccavo la pancia, la pelle tirata… E sapevo che il veleno di quella maledizione marciva dentro quella creaturella… E come la potevo proteggere? E facevo novena, sacrifici, e camminate scalza la notte ai santuari… e cilici, e voti e scongiuri… Chiamavo aiuto da tutte le parti. E soprattutto a te! Te… Oh! Tu mi devi capire a me! Tu sei madre! Tu te lo sei sentito dentro, muovere, la prima volta, quel frullo d’ali… Oh… Oh! E aiuta, no? E aiutami! Ma che maronna ’e maronna sei, se non mi aiuti tu! Eeeeh… e già… io chiamavo la madonna e arrivava Zi’ Tripolina… e sta bene… Benvenuta… Aiuto… Aiutami tu… Sììì… Dodici volte te l’ho chiesto aiuto… e dodici volte me le sono ritrovate in braccio, fredde fredde… bianche bianche… quelle creaturelle… che per quanto me le stringevo a me, le mettevo in petto… non le potevo più scaldà… E tu ridevi! Madre schifosa! Madre puttana! Sangue marcio! Impestata! Iena! Merda! Tu ridevi… e stavi sempre là, a capo al letto… E io ricominciavo e facevo peggio… Na’ sfida!… Io a farli, i figli, e tu a disfarli… Io a farli nascere e tu a farli morire. Per dodici volte – piedacci fetenti di legno. Ti ho visto ballare sulla cassetta bianca… a pesta’… povere cose mie… Poveri pulcini, morticini miei… e nessuno arrivava a chiamarmi mamma… Maledetta te! Maledetta te!…
Brutta bestia l’invidia…
Mi venne voglia di scrivere un romanzo e approfittando dell’invito di Zeffirelli, che stava girando il suo Gesù di Nazareth in Africa, mi ritirai per tre mesi nelle sue ville di Positano. Dico «ville» perché erano tre. Mi lasciò anche il suo ottimo personale di servizio, che mi trattò come una principessa. Il posto era bellissimo. Davanti allo splendore di quel mare, con un giardino che dall’alto scendeva via via attraverso viali di fiori e di frutta, verso gli scogli dove forse Ulisse aveva sentito il canto delle sirene, io mi sentii come in paradiso. La Costiera amalfitana è uno dei più bei posti del mondo, come sanno benissimo tutti viaggiatori del Grand Tour. Francesi, inglesi e tedeschi hanno sempre ricercato in quei luoghi l’eco di tutti i miti del Mediterraneo. Lì, nelle «ville» di Franco, si respirava un’atmosfera arabeggiante, bianchi elegantissimi, scale, terrazze, vialetti, tutto un susseguirsi di angoli deliziosi. Impigliati nei rami di quegli alberi c’erano gli occhi viola di Liz Taylor e quelli azzurri di Richard Burton, le risate gioiose della Magnani e di tanti altri divi internazionali. Tanto per buttare giù una manciata di nomi indimenticabili, andiamo da Claudette Colbert a Gregory Peck, da Laurence Olivier a Joan Plowright, Tennessee Williams e Luchino Visconti, Leonard Bernstein e Carlos Kleiber. Sarebbe interminabile la lista di tutti i famosi amici che passarono per le ville di Franchino. Io sono stata una privilegiata perché ho vissuto quel periodo da sola, per scrivere in tranquillità il mio romanzo: Essere o avere, ma per essere devo avere la testa di Alvise su un piatto d’argento. Titolo che, nella lunghezza, batte il record da Guinness dei primati del mio film Fatto di sangue… La testa di Alvise è una bella storia sull’invidia. Sam, il protagonista, è un uomo che vive a New York, dove ha raggiunto successo e danaro scrivendo libri gialli. Un giorno, rincontra Alvise, un suo vecchio amico d’infanzia con il quale era stato prigioniero nei campi di concentramento in Germania. I due, bambini, erano riusciti a evadere e dopo una serie incredibile di avventure erano giunti in America. Il problema di Sam è la «perfezione» di Alvise. Di fronte alla
straordinaria superiorità dell’amico, Sam, sin da bambino, si era sempre sentito un topo di fogna. Sono passati quarant’anni, e adesso che si sono ritrovati, Sam spera di apparire finalmente agli occhi dell’altro come un uomo di successo. Ma scopre che Alvise ha addirittura vinto il premio Nobel per la letteratura, con un romanzo in cui si era firmato con lo pseudonimo Isacco Smith. Da quel momento inizia un intreccio avventuroso: Sam «realizza» che riuscirà a vivere serenamente solo se eliminerà dal suo orizzonte di vita l’amico Alvise. Decide insomma di ucciderlo. Il finale è bene non svelarlo, se qualcuno ha voglia di conoscerlo deve rivolgersi alla casa editrice Rizzoli che lo pubblicò, perché temo non si trovi più in libreria. L’idea era che da questo libro si potesse farne un film con Woody Allen. Non sarebbe stato male mettere insieme la coppia Woody Allen-Sean Connery. Facemmo due o tre incontri a New York. Andai a trovare Woody nella sua casa davanti a Central Park. Era un’abitazione particolare. Sarà stato per tutti quei mobili che aveva messo insieme negli anni, ma aveva l’aria della casa di una vecchia zia. Non ricordo il perché ma non se ne fece niente del nostro progetto. Credo perché Woody, tutto sommato, ormai si scriveva da sé le sue storie. Il libro comunque fu pubblicato dappertutto nel mondo e tradotto in una dozzina di lingue. Pochi anni fa si fece avanti Alfonso Cuarón, il famoso regista di un Harry Potter e I figli degli uomini, con Clive Owen. Anche in questo caso, non so perché ma il progetto sfumò.
Con Rossellini in mezzo alle piramidi
Percorrendo questo sentiero che è la mia vita, devo riconoscere che una gran parte dei ricordi che ho risultano legati al lavoro. E tutto il resto? Le ore, i giorni, gli anni che ho vissuto insieme a Enrico? Anni bellissimi di cui quasi non ho voglia di parlare, per paura di rovinarli. C’è una frase che ripeto sempre, ormai da parecchio tempo: «Sappiate che, se mi piglia un colpo, me ne vado come un commensale sazio». Già lo dicevo quando ancora mi dovevano succedere tante cose. Il fatto è che io tendo a parlare quasi esclusivamente dei film o delle mie opere. È come se, dovendo traversare un fiume, saltassi di scoglietto in scoglietto per giungere subito all’altra sponda. Ma è in mezzo a questi piccoli scogli che scorre il fiume della vita. Com’era, allora, la giornata mia e di Enrico? Ci alzavamo, ci mettevamo a lavorare, lui nel suo studio sotto Villa Borghese, io in casa, nel mio piccolo angolino pieno di specchi e fotografie. Quello degli specchi è stato un segno caratteristico delle nostre case. Non per il fatto di vedersi riflessi, ma per lo «sfondamento» delle pareti che lo specchio permette di realizzare. Quando trovi due specchi di fronte, in quel ripetersi senza fine della stessa immagine c’è come un senso di infinito. È strano che una vita così bella e piena non sia facile da raccontare. Potrei dire una serie di banalità, ma citerò soltanto una frase di Mark Twain che mi è sempre piaciuta e che condivido. Diceva più o meno così: «La vita sarebbe infinitamente più felice se nascessimo a ottant’anni e gradualmente ci avvicinassimo alla nascita». Insomma, saltabeccando indietro tra scogli e specchi, torniamo alla nostra giornata. Il fatto di non ricordarmi niente è un buon segno. Non c’è dubbio che, con Enrico, abbia vissuto una vita molto felice, non solo perché ci piacevamo a
vicenda, ma anche perché uno era interessato al lavoro dell’altro. E questo semplice fatto, a ben vedere, costituiva di per sé un incontro d’amore. Sarebbe abbastanza assurdo riassumere gli atti di una giornata in una serie di consuetudini ovvie: mi alzo, vado in bagno, mi lavo, mi vesto e via così… Pensate se ognuno dei grandi scrittori del passato avesse scelto di raccontarci la ritualità e le occupazioni spicciole di un giorno qualunque. Che noia! Provate a immaginare Shakespeare che ci descrive le abitudini quotidiane del biondo principe di Danimarca, Amleto: le dormite, la sveglia al mattino, la toilette… Non ci avrebbe permesso di arrivare al fatidico incontro con lo spettro del padre, con le ali leggere di chi è pronto ad affrontare la tragedia. Dei tanti episodi meravigliosi della mia vita vissuta accanto a Enrico, ricordo in particolare l’anno in cui facemmo una crociera sul Nilo. Da allora ci siamo sempre detti che, se uno di noi avesse dovuto scegliere un solo, unico viaggio indimenticabile, avrebbe dovuto indicare proprio quello. L’Egitto, del resto, è una terra magnifica, è un po’ come guardare negli specchi senza fondo, perché le date cominciano a volteggiare dai 3000 ai 1700 anni a.C., insomma, stiamo parlando di civiltà che si perdono davvero nella notte dei tempi… Se gli egizi – ma il discorso vale naturalmente anche per tutti gli altri popoli – non avessero lasciato tracce di sé, forse non avremmo neanche creduto alla loro storia. Mentre guardavamo, a bordo della nave, le lussureggianti coste dell’antico fiume, mi tornò in mente il primo «impatto» che avevo avuto con quel paese pieno di mistero e di storia: era stato all’epoca di un film che avevo visto da bambina e che mi aveva molto impressionato. Si chiamava La mummia, con Boris Karloff. Dovevo essere piccolissima quando lo vidi. Una cosa è sicura: ne rimasi così terrorizzata che non lo dimenticai più. Mi ricordo persino il soggetto: alcuni archeologi ritrovano all’interno di una piramide l’antica tomba del sacerdote Imhotep e, insieme a quella, anche un antico papiro. A quel punto, le parole pronunciate da uno degli scienziati mentre
tenta di tradurre il papiro in una stanza del museo egizio – il documento doveva essere per forza uno scritto sacro dedicato ai morti – fanno tornare in vita la mummia del sacerdote. Il volto di Boris Karloff, attore magnifico, maestro dell’orrore, era rimasto scolpito nella mia testa di bambina. A una fermata di quella crociera, andando a visitare il Tempio di Ramses II, in un caffè orientale nei pressi di quelle tombe, facemmo un incontro sensazionale: nientepopodimeno che Roberto Rossellini. Ci presentò subito un ometto piccolo, basso, grasso, con due baffetti e la testa impomatata: era il ministro della Cultura egiziano. Rossellini fu come al solito simpaticissimo, ci fece scrivere in geroglifico un messaggio di benvenuto dal ministro. Roberto era speciale, si comportava da perfetto padrone di casa. In quel periodo girava il mondo affascinando non più solo le persone, ma i governi dei paesi che di volta in volta gli capitava di visitare. Riusciva a farsi finanziare qualsiasi progetto, nonostante fossero tutti di natura profondamente culturale e quasi didattica. In effetti, era un uomo molto colto. Oltre che pazzo, artista e seduttore, era anche una persona curiosa. Da ognuno di questi viaggi riportava a casa qualcosa, un soggetto per un film, una moglie… Mi piace ricordare una delle tante tappe cruciali e curiose della sua vita avventurosa: durante il viaggio di nozze, per esempio, si «mangiò» allegramente Corso Umberto, oggi via del Corso, i cui palazzi erano in gran parte proprietà della sua famiglia. Anche le sue donne furono indimenticabili. Lasciando su un piccolo altarino a parte la prima moglie Marcellina, penso ad Anna Magnani, che fu sua musa fiammeggiante, tra angelo e tigre. La corsa di Nannarella dietro il camion dei tedeschi rese immortale, in tutto il mondo, non solo Roma città aperta ma anche loro due, Rossellini e la Magnani. Fu lei che intercettò il famoso telegramma di Ingrid Bergman, allora una delle massime dive di Hollywood. Aveva scritto a Roberto la celebre lettera che si concludeva così: «Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla inglese molto bene,
che non ha dimenticato il suo tedesco, non si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo “ti amo”, sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei…». In questo messaggio, Nannarella odorò subito non solo un’offerta cinematografica, ma anche quell’aleggiare di corna che, effettivamente, si materializzarono poco dopo. Ingrid si offrì, e Roberto colse subito al volo la bellissima svedese, già sposata e con un figlia. Ingrid aveva uno dei più bei sorrisi di Hollywood, quarantaquattro di piede e un cuore assetato di romanticismo. Nelle sue vele soffiò il vento caldo e bruciante della passione per quel pazzo di italiano. Sta di fatto che lei mollò marito, figlia, giunse a Roma e fece ancora tre figli con Roberto. Mentre li cresceva, lui frattanto si era fidanzato in India con Sonali Das Gupta, che poi diventò, come vi ho già raccontato, la sua ultima moglie. Roberto, oltretutto, conosceva l’arte sopraffina di fare debiti ed era andato ad aggiungersi alla genia diffusissima nel tempo e nello spazio, soprattutto nel mondo del cinema, dei debitori insolventi. Alcuni nomi di questa lunga lista, tuttavia, costituivano quasi un marchio di nobiltà. Così deve essere stato ai suoi tempi per Casanova e così, in qualche modo, è stato per Rossellini. Una nota che vale la pena di ricordare: di tutti i suoi figli e nipoti, quello che gli era più simpatico era il piccolo indiano, figlio di Sonali, che credo finì con l’adottare. Ma non possiamo dimenticare che il suo ultimo grande amore porta un’altra firma autorevole del nostro firmamento cinematografico: Silvia D’Amico, la maggiore dei figli di Suso e Lele. Colazione da Andy Warhol Un altro Rossellini, legato al cinema e a me, è Renzino, primogenito di Roberto e in qualche modo seguace delle scintillanti orme paterne. Fu messo a capo della Gaumont Italia e divenne anche mio produttore per Scherzo del destino, o meglio, per citare il titolo originale, Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada. Un film a
me molto caro. Non solo per un cast straordinario con a capo Ugo Tognazzi e Piera Degli Esposti, seguiti da attori strepitosi come Gastone Moschin, Roberto Herlitzka, Renzo Montagnani, Enzo Jannacci, Pina Cei, Livia Cerini ma anche per il debutto di due giovani emergenti, Massimo Wertmüller, mio nipote, e Valeria Golino, nipote di Enzo Golino. Quella di Scherzo del destino è una storia molto semplice. Si tratta di uno scherzo tecnologico. Un ministro della Repubblica rimane bloccato nella sua macchina in un viale del Gianicolo. Casualmente, si ferma davanti alla casa di un deputato democristiano, l’onorevole De Andreis. Questi, temendo che l’incidente possa essere interpretato come un colpo di coda delle Brigate Rosse, nasconde la macchina, con dentro il ministro, nel garage del suo giardino. Nel film c’è un tocco di surreale. Tutti i nostri personaggi, ministri, sottosegretari, Digos, carabinieri, padroni di casa, ragazzi e ragazze, finiscono pigiati dentro l’automobile, finché, per un misterioso processo chimico, la macchina, con tutti i passeggeri, si dissolve e scompare. Tutti i grandi attori presenti nel cast vissero quell’avventura con una forte passionalità. In quel film avevo cercato di far circolare, assieme, la politica, la satira e l’amore. In qualche modo era un piccolo ritratto ironico dell’Italia di quegli anni e soprattutto della sua classe dirigente. Per realizzare il salone di una villa dove avevo intenzione di girare alcune scene del nuovo film, ricordo che Enrico aveva utilizzato una grande scenografia già allestita per Tieta do Agreste, l’adattamento del romanzo di Jorge Amado che alla fine era rimasto sulla carta. Si trattava di una scena a due piani, molto ricca ed elegante, perfettamente credibile per una delle ville del Gianicolo. Ripensando all’esperienza vissuta sul set di Scherzo del destino, mi viene quasi da dire «Dio benedica i bravi attori». Lavorare con loro si rivelò un piacere. Tognazzi, per esempio, era uno di quegli attori naturali adatto davvero a tutte le stagioni. Ha pattinato allegramente tra il cabaret e Molière, sempre con grande talento. Io amo particolarmente gli attori
che non si tirano indietro e si dimostrano disponibili a qualunque avventura. Le lunghe scene di dialogo tra Ugo e Piera sono state piacevolissime per me. Piera Degli Esposti, a mio avviso, è la migliore attrice che abbiamo in Europa, con buona pace delle grandi inglesi. Con quella sua faccia da medaglia, è capace in un attimo di passare da un registro ironico a uno tenero e struggente, senza farti sentire la differenza o il salto tra queste diverse emozioni. Solo la miopia dei nostri autori di cinema ha impedito che le sue straordinarie qualità di attrice fossero messe in risalto come lei meritava. Piera Degli Esposti è un’artista che ha fatto il nido nel mio cuore. Attrice molto particolare, appassionata, nessuno come lei legge la poesia. Spiccato talento drammatico, incredibile vena ironica che ne fanno di lei la migliore lettrice del nostro Achille Campanile. Forte personalità, straordinaria versatilità della gamma espressiva, ha dovuto affrontare nella vita prove durissime di malattie e di dolore. Piera ha un sorriso da bambina. Nasce a Bologna da un adorato padre sindacalista. La madre era un personaggio bizzarro. Famiglia interessante, la sua, tanto che Dacia Maraini ci scrisse sopra un romanzo, Storia di Piera, dal quale Marco Ferreri ha tratto anche l’omonimo film. Ogni volta che viene a trovarmi, la casa s’illumina con la sua presenza. Piera, Pierina, Pierotti. Abita sopra i tetti di Roma, a via del Governo Vecchio, in un delizioso attico, con bellissime terrazze. Beati i suoi vicini che se la godono nelle mattinate romane piene di sole. Pur conoscendo e amando tante grandi attrici, devo riconoscerle una marcia in più. Indimenticabile la sua interpretazione di Margherita, nel Faust di Guido Ceronetti che Enrico mise in scena per il Festival di Spoleto. Non solo. La sua interpretazione del monologo di Molly, dall’Ulisse di Joyce, è una delle emozioni più forti da me provate in teatro. Un’ultima cosa devo dire di Piera. Lei ha avuto nella sua vita una passione sconvolgente per l’attore americano Robert Mitchum. Nei suoi sogni di bambina gli aveva anche scritto una lettera appassionata, naturalmente mai spedita, nella quale
inneggiava allo stomacone dell’attore. Ed effettivamente, Robert Mitchum, con l’andar del tempo e del whisky, aveva messo su uno stomaco ragguardevole. Successe, per caso, che un certo giorno, Mitchum venisse a cena da noi. Io non dissi niente a Piera, che stava lavorando in teatro. La invitai a casa alla fine dello spettacolo. Man mano che saliva le scale che portano al soggiorno, Piera mise a fuoco quel signore che era seduto vicino a me. Realizzò che si trattava proprio di LUI . Di gradino in gradino, ridiventava la bambina incantata che gli aveva scritto quella bellissima lettera. Avevamo spiegato a Robert di cosa si trattava e lui ci appariva vagamente divertito. Piera avanzò lentamente verso di lui e poi, senza dire una parola, andò a sedersi sulle sue ginocchia. Era un momento speciale. Quasi la realizzazione di un piccolo sogno infantile. Parlare di Piera – che più che una cara amica è un piccolo, indimenticabile mondo di poesia – mi ha fatto venire in mente le tante serate trascorse a casa mia insieme a lei e a tante star americane. Ma perché ve lo sto dicendo? Per civetteria, o anche per quel senso di famiglia che, in qualche modo, unisce tutti gli attori e i registi del mondo. Nel periodo in cui Andy Warhol venne a fare i suoi due strampalati film in Italia insieme a Paul Morrissey – Blood for Dracula e Flesh for Frankenstein – era spesso a casa nostra. Enrico lavorava con lui ed erano amici. Andy gli regalò anche un piccolo ritratto di Mao. A New York ci invitò a pranzo a casa sua, a Lexington Avenue. Il mio ricordo di quella giornata è associato a un’impressione non gradevole, sia dell’appartamento sia del pranzo, che consisteva in una specie di «stozza», ovvero un paninone infarcito con un’esagerazione di roba: carne, insalate, pomodori, cetrioli, cipolle e chi più ne ha più ne metta. Come dire, una colazione «indimenticabile», un po’ come quella che mi aveva «amorevolmente» cucinato Barbra Streisand. Sotto sotto… L’idea del film che realizzai in seguito, Sotto sotto… strapazzato da anomala passione, la parola «strapazzato»
volle mettercela il vecchio Mario Cecchi Gori e il fatto mi ha dato sempre un enorme fastidio, era piuttosto insolita. Vi girava dentro un sospetto di omosessualità femminile. Enrico Montesano, il protagonista, è Oscar, un falegname romano con un piccolo laboratorio vicino al Teatro di Marcello, appassionato così tanto del suo lavoro da averlo trasformato in un culto della natura e della spiritualità: «Il legno è stato un albero, ha vissuto le stagioni, cresciuto e respirato nella natura… fa parte degli esseri viventi» è solito dire. Sua moglie, Ester, è una deliziosa biondina che, durante una notte d’amore, confessa al marito di sognare spesso un’altra persona. Ester la interpretava un’attrice allora del tutto sconosciuta, oggi molto nota: Veronica Lario. Nel falegname scatta una gelosia peggiore di quella di Otello: da quel momento, cercherà di capire in tutti i modi chi sia l’amore di sua moglie. Peccato che si tratti di una donna… Accanto a Veronica, nel film c’era infatti Luisa De Santis, un’attrice che aveva avuto un notevole successo in televisione cantando in coppia con Gabriella Ferri. La fantasia che nella storia nasce tra le due donne non ha nessun riscontro nella realtà, è del tutto platonica, ma riesce a trasmettere con delicatezza e poesia la tenerezza del loro «innamoramento». Montesano si dimostrò un bravissimo attore. Al pari di quasi tutti quelli che, nella propria carriera, hanno avuto successo come comici. Per la parte di Ester avevo pensato fin da subito a un tipo di biondina burro e miele, che in qualche modo, nella mia testa, rimandasse a una certa nostalgia per Marilyn Monroe, e Veronica si era rivelata perfetta per quel ruolo. Il suo fidanzato, mi disse Cecchi Gori, si interessava a lei, la seguiva e la curava amorosamente. Sto parlando naturalmente di Silvio Berlusconi, che ebbi modo di conoscere bene grazie a questo film. Verso la fine delle riprese venne a farci visita sul set. Giravamo intorno all’anfiteatro di Marcello e la sceneggiatura prevedeva che Veronica corresse tra le rovine. Silvio si avvicinò a me e nell’orecchio mi disse: «Guarda che Veronica aspetta un bambino…».
Io rimasi stupefatta: «Ma come! È incinta e non me lo dite? Sapete che per un attore lavorare con me è come andare in guerra… Ditemi allora che volete perderlo ’sto figlio!». Lei non mi aveva detto nulla. Probabilmente non voleva che avessi dei riguardi particolari nei suoi confronti e devo dire che rimasi molto colpita da questa sua totale disponibilità e professionalità. All’epoca non potevo certo sospettare che un giorno sarebbe diventata la nostra first lady… Veronica Lario era un’attrice bella, intelligente e dotata di talento. Secondo me, se avesse proseguito, avrebbe fatto certamente carriera nel cinema. Durante il film, io ed Enrico la ospitavamo al primo piano della nostra casa. Con lei c’era sua madre, che la accompagnava ovunque andasse. Un po’ come era accaduto per Sophia Loren ai primi tempi della carriera: quando accanto a lei trovavi sempre la madre, Donna Romilda. Un giallo insolito sui tetti di Napoli In quel periodo, parlo della metà degli anni Ottanta, sentivo rabbia e sdegno per le notizie che comparivano sui giornali con preoccupante monotonia: si leggeva di ragazzi e bambini rimasti vittime del peggiore dei veleni mortali, la droga. Le madri di queste povere creature, disperate e affrante, si era riunite per sostenersi a vicenda. Da quei fatti di cronaca decisi di trarre un soggetto per un film: Un complicato intrigo di donne vicoli e delitti. La sceneggiatura la scrissi insieme a Elvio Porta, che nel film interpreta anche il ruolo del commissario investigatore. La produzione era affidata alla IIF – Italian International Film – di Fulvio Lucisano, e a due simpaticissimi produttori israeloamericani, Yoram Globus e Menahem Golan i quali, con la loro società Cannon Films, stavano dimostrando di credere molto nel cinema italiano, tant’è che, oltre al mio film, avevano prodotto l’Otello di Franco Zeffirelli. Un complicato intrigo… era un giallo insolito che, anziché svolgersi nei vicoli di Napoli, era ambientato sulle sue terrazze e sui suoi tetti, mostrando un’immagine della città poco nota.
Le grandi cupole di ceramiche colorate davano al film un’aria vagamente orientaleggiante. Quanto al soggetto, è presto detto: una serie di delitti caratterizzati da una strana «firma» – una siringa infilata nei testicoli delle vittime – sconvolge i vicoli di Napoli. Il mistero di questi omicidi diventa il problema di un commissario di polizia. Una prostituta, una cantante, un ballerino, un capomafia cieco, un camorrista con la casa piena di donne e di passaggi segreti: tutti questi personaggi vengono coinvolti in «un complicato intrigo» che racconta la calata della droga su Napoli e il lavoro sporco delle organizzazioni camorristiche. In un contesto simile, fatto di sopraffazioni, vite bruciate e disperazione, si scatena la reazione delle madri in difesa dei propri figli. Per vendicare i delitti contro l’infanzia, decidono di compiere quella serie di assassini. Il cast era straordinario. Angela Molina era una ex prostituta con un figlio di dieci anni, «Pummarulella», che rischia di finire nella trappola della droga. Daniel Ezralow, il famoso ballerino dei Momix di Moses Pendleton, compariva per la prima volta in un film: un fisico straordinario con una faccia da giovane dio greco. Isa Danieli, una delle grandi madri protagoniste, svelerà in uno struggente monologo il perché di quella rete vendicativa. Francisco Rabal, nel ruolo del cieco che riconosceva la canzone legata al delitto, bravissimo attore spagnolo, aveva lavorato con registi del calibro di Antonioni, Buñuel e Visconti. Paolo Bonacelli interpretava uno dei capi occulti della camorra che viveva chiuso in un nascondiglio segreto pieno di tutte le sue donne. Emma Muzzi Loffredo era un’altra bellissima e misteriosa madre nera. E poi Mario Scarpetta, discendente della più famosa famiglia di teatranti napoletani, insieme ai De Filippo, che interpretava il «femminiello» della casa di appuntamenti dove avviene il primo delitto. Infine l’indimenticabile bambino, «Pummarulella», intelligentissimo e dotatissimo. Scugnizzo che, sapendo parlare appena l’italiano, aveva comunque imparato tutta la parte in inglese. Qualche anno dopo, mentre stavo girando, di
nuovo a Napoli, Sabato, domenica e lunedì, qualcuno della troupe mi fece capire che un ragazzo a bordo di una potente motocicletta si era presentato sul set con il chiaro proposito di volermi incontrare per un saluto. Io non avevo tempo e non avevo realizzato minimamente di chi si trattasse. Lo scoprii qualche giorno dopo quando, sul giornale, lessi della morte di un giovane camorrista. Riconobbi il suo nome. Era lui. Mi sentii in qualche modo in colpa per non aver capito che quel ragazzo che voleva parlarmi era proprio «Pummarulella». Non ho ancora nominato il protagonista maschile di quel bel cast: Harvey Keitel. Credo che sia ebreo di origine romena e polacca, ma oltre a essere un grandissimo attore, ha una di quelle facce che si sposano immediatamente con la cultura che rappresentano. Nel nostro film sembrava proprio un napoletano, così come era stato americano per Scorsese e duellante francese per Ridley Scott, per non parlare di tutti i mafiosi e i poliziotti che ha interpretato nei suoi oltre cento film. Harvey è un uomo delizioso, di grande sensibilità. Mi ricordo che, durante il film, andavamo spesso a cena da Maria, la cognata di Isa Danieli. Lui adorava ascoltare le vecchie canzoni napoletane che cantavamo tutti intorno al tavolo. Una volta mi chiese di accennargli uno di quei classici motivi vicino alla macchina da presa. Era un attore molto attento, studiava la gestualità della gente di Napoli e anche certe tipiche espressioni partenopee. Non aveva mai fatto un film in Italia. Se non mi sbaglio si sposò proprio a Napoli in una chiesa a piazza della Stella e chiamò Stella la sua prima figlia. Anche se non lo vedo da tanto tempo, lo considero mio amico per sempre. Spero che lui abbia lo stesso sentimento nei miei riguardi. Quando giravamo a Cinecittà, spesso arrivavano in molti a salutare me ed Enrico. Rosi, Zeffirelli, Fellini… Tutti cari amici che venivano a trovarci durante le pause. Era bella, allora, Cinecittà. Ci lavoravano ancora tutti i grandi autori e fra noi c’era un’atmosfera di amicizia che percepivo in modo intenso su di me, ultimo vagoncino di quel grande treno del cinema italiano circolato in quegli studi. L’«abominevole» Nanni Moretti
Un complicato intrigo fu presentato in concorso al Festival di Berlino. Sul tappeto rosso, il giorno della prima, chi mi trovo davanti? Nanni Moretti. Devo aprire una breve parentesi sull’«abominevole» Moretti. Tanti anni fa, tornando dagli Stati Uniti, Mario Monicelli mi parlò di un giovane regista debuttante che aveva realizzato una scena durante la quale due aspiranti registi parlavano di me. Il film era Io sono un autarchico. Uno dei due raccontava a Moretti che mi avevano assegnato una cattedra di cinema a Berkeley. A questa notizia, Moretti, ricordando alcuni miei titoli, vomitava roba bianca. La cosa mi sembrò spiritosa. Quando vidi Moretti tra la folla a Berlino, andai sorridente verso di lui porgendogli la mano, per fargli capire che avevo preso quella sua «vomitata» come una reazione ironica. Moretti mi vide, guardò la mia mano offerta con amicizia, voltò la schiena e se ne andò. In quel momento capii, da quella povera scema che sono, che non si trattava affatto di qualcosa di spiritoso, ma realmente di un disprezzo vomitatorio. A quel punto non mi trattenni e in mezzo alla folla del red carpet, fortunatamente tedesca e dunque non troppo avvezza alle colorite espressioni della lingua italiana, gli urlai: «Moretti… Ma vaffa…». Oggi che Moretti è salito agli altari della direzione di Cannes, posso ripetere con maggiore cognizione di causa che è davvero uno stronzo e che per anni, allora, si era roso in un’invidia vergognosa. Devo però ammettere che Habemus Papam è un’idea geniale e un film riuscito.
Un’andalusa ricca di avventura
Io amo molto la musica ma non sono mai stata una patita d’opera lirica. Ho nutrito diversi sentimenti per questa forma di teatro: i primi, quelli che risalgono alla mia infanzia, erano confusi. Mio padre, come ho già raccontato, tutte le mattine, in bagno, facendosi la barba, cantava con una discreta voce tenorile brani famosi. Io e mio fratello Enrico ne ridevamo. Risate di pagliacci e furtive lacrime erano per me legate al profumo del caffè e alla preparazione della cartella per la scuola. Inoltre papà conservava i libretti delle opere che vedeva. Era una pila enorme di librettini di tutti i colori, arancioni, verdini, lilla, gialli, e quando andavamo a curiosare, ci colpivano i versi dall’aria pomposa, pieni di parole insolite. Poi, finalmente una sera, anche noi bambini, infiocchettati e impacchettati di velluto, andammo all’opera. Tutta l’eccitazione della serata di gala si trasformò in un furioso stupore: un grande spettacolo di luci e suoni, intorno alla storia di una vergine vestale enormemente grassa. Mia madre aveva un bel cercare di tenermi buona! Continuavo a tempestarla di domande, disturbando tutti gli occupanti del palco, fissata ormai sul problema della mole. Amori, morti, canti alla luna, erano per me inaccettabili per una signora tanto grassa. Due schiaffi e l’opera fu cancellata per sempre dai nostri programmi infantili. Mio padre decise che eravamo due rape, io e mio fratello, senza sensibilità musicale. È incredibile, e forse anche sciocco, ricordare a distanza di così tanti anni questo episodio apparentemente insignificante, ma penso che fu proprio questa la ragione segreta che mi aveva tenuto lontana dalla lirica, nonostante il mio amore per il teatro. Amavo, sì, le arie del bel canto, ma consideravo un baraccone arcaico tutto lo spettacolo che le conteneva. Come molti della mia generazione, credo si debba alla Callas il merito di aver
cambiato il segno della lirica. Non solo per la sua arte, ma anche per la forza della sua personalità di primadonna. La Callas riuscì a infilarsi nelle teste piene di Brecht e Cechov, come una presenza con la quale si dovevano fare i conti. Così, pian piano, il mio rapporto con il mondo della lirica cambiò fino a diventare appassionato, a tal punto che molti miei film concludono o sottolineano i loro momenti più emotivi proprio con brani d’opera. Nella mia vita non ho affrontato molte regie liriche. Ma certamente la Carmen che realizzai insieme a Enrico al Teatro San Carlo di Napoli è rimasta un’esperienza indimenticabile. Ricordo che ero emozionata al pensiero che, su quello stesso palcoscenico dove lavoravamo, tanti anni prima Verdi, Rossini, Donizetti e altri geni avevano fatto musica e teatro. Mi sono entusiasmata nel sentire quel meraviglioso spazio settecentesco riempirsi delle armonie del coro e delle sublimi voci dei cantanti. Ma, soprattutto, sono rimasta intrigata dal «grande promiscuo» come lo definisco io. L’opera lirica è spettacolo promiscuo, anzi sta proprio lì la sua bellezza. Musica, canto, danza, teatro, tutto messo insieme con un notevole ottimismo, inscatolato in una tradizione che sembra immobile e invece lievita di tempo in tempo, con mode alterne. Mi offrirono la regia della Carmen il sovrintendente Francesco Canessa e il direttore artistico Roberto De Simone. Conoscevo bene Roberto, non solo perché mi ero innamorata di lui con La gatta Cenerentola, ma anche perché, oltretutto, avevamo lavorato insieme per le musiche del film La fine del mondo… La mia Carmen inaugurava una nuova stagione lirica del maestoso teatro napoletano. Ricordo benissimo il mio primo desiderio per la messa in scena. Avrei voluto dare vita a una nuova e insolita versione del capolavoro di Georges Bizet. Tuttavia, come iniziarono le prove, mi ritrovai nelle regole della tradizione. Mi resi conto che la musica e il canto occupano il primo posto nello spettacolo d’opera e che sarebbe stato difficile muoversi in quell’intricato tessuto di prove musicali e regolamenti con una chiave di lettura originale e
innovativa rimanendo tuttavia fedeli alle esigenze musicali e di tradizione. Un eccessivo rispetto avrebbe potuto però significare un sottomesso allestimento, cosa che volevo evitare. Il sospetto che la bellezza di scene, luci e costumi possa essere tutto ciò di cui lo spettacolo ha bisogno per fare da cornice al bel canto e alla bravura musicale, è un rischio che spesso attanaglia, al primo contatto con il teatro d’opera, il cuore palpitante del neofita. Anche io ho avuto seri dubbi che la presenza troppo vitale del regista con desideri innovativi potesse stridere con la partitura e si rivelasse un disturbo per gli appassionati cultori della lirica. Quell’odore del sigaro sulla pelle ambrata Forse sembrerà strano, ma tutti i miei dubbi furono spazzati via come nuvole dal cielo proprio da lei, Carmen, quell’andalusa ricca di avventura. Lei, divina fra tante eroine, scandalosa e scollacciata, provocante e ambigua, col fiore tra i capelli e l’odore del sigaro sulla pelle ambrata di gitana. Lei, ispiratrice dopo più di cento anni di innumerevoli allestimenti, balletti, film, mi strizzò l’occhio bruno di belva amorosa e mi chiamò con lo sventolio delle sue gonne per mostrarmi le segrete vie della sua avventura. Così, dopo aver creduto per tanto tempo di conoscere tutto di questa zingara ammaliatrice, starle vicino mi rivelò un altro aspetto del suo mito. La maggior parte degli intellettuali, filosofi e artisti che se ne sono occupati con tanta passionale acutezza, hanno sempre identificato in lei il simbolo più alto della «libertà». Ma lei, Carmen, con i suoi profumi mediterranei, viene dall’arcaica progenie delle Medee e non le piace avere orizzonti troppo strutturati. Avvenne proprio così: quella gitana ambigua, oscura e solare, con il suo culto dell’amore, stregò anche me. E io, ormai senza alcun dubbio, la seguii. Zingara, gitana, nomade passionale e fatalista, l’aria parigina che le circola attorno la relegherebbe al ruolo di femmina di malaffare. Carmen, tuttavia, appartiene a un’altra famiglia. La sua curiosità femminile diventa libertina all’occhio francese che la guarda. Fascino, la sua anarchia. Simbolo, la sua natura libera e indipendente. Eppure, il libretto
geniale che Meilhac e Halévy dedussero dal romanzo di Mérimée, lascia emergere un dato: proprio la perdita della libertà di Carmen. E lei la perde non perché, da nomade avventurosa, si ritrova imbrogliata nella classe operaia in una fabbrica di tabacco. No, Carmen perde la propria libertà perché le capita un fatto nuovo e inaspettato. Lei, che non ha che avventure passeggere – si sa che i suoi amori durano al massimo pochi mesi – lei, Carmen, si innamora. E proprio di Don José, un soldato casto e borghesuccio che crede a tutto, che è legato al suo paese e alla sua mamma. Insomma, un ragazzo casa, chiesa e caserma. Forse è proprio l’ingenuità, la purezza, la giovinezza che si leggono sul volto di quel soldatino a far scattare dentro di lei, esperta e seducente cavalcatrice di cavalli avventurosi, una passione implacabile. Carmen non intende ascoltare altra regola se non quella che le canta dentro. E gli uomini li sa rigirare attorno al bruno dito nervoso di gitana. Ma quando canta l’amour est enfant de bohème, l’amore è un piccolo zingaro che non conosce legge, a quel soldatino con i capelli da ragazzo e gli occhi di velluto, tutto è già accaduto… Quel ragazzo è entrato nel suo sangue forte di gitana appena lei lo ha visto e glielo ha infiammato. La trappola è scattata. La regale libertà zingaresca di lei è perduta. Carmen è innamorata. Perché? Mistero. Ma subito Carmen prepara la pozione d’amore. Se lei è finita nella prigione della passione, anche Don José deve finire con lei, legato alle stesse ardenti catene. E quell’Habanera, nel suo esotismo, odora di macumba e di zebre, ci ruggiscono lontani i leoni dei deserti e il ritmo ossessivo di uno stregone africano. Per il ragazzo navarrese non c’è scampo. Bruciato da quel fiore avvelenato che porta sul cuore, viene avvolto dai lacci implacabili del suo destino. Cade preda del suo affascinante demonio. Diventano l’uno la galera dell’altro. Nella mia interpretazione dell’opera, avevo individuato come snodo drammatico una scena in particolare. Carmen, la più desiderata delle gitane di Siviglia, nella taverna quando tutti sono andati via, vuole ballare per Don José la sua danza panica d’amore, il suo volo sul tappeto volante. Ma il piccolo ragazzo navarrese, malgrado quel fiore infuocato ormai marchiato per sempre sul cuore, al richiamo
della tromba, voce del dovere, dell’onore, della mamma, chiede scusa e scende dal tappeto magico, dove la regalità della passione di Carmen lo stava facendo volare. Ecco, questo, per me, è lo snodo drammatico che muove tutto, di fronte a un miracolo: come se san Francesco, nel momento di andare in estasi, si recasse invece al comune per pagare le tasse, perché altrimenti scadono i termini… Per Carmen, il miracolo dell’amore viene offeso dal culto piccolo borghese, tradito, immiserito dalle regole meschine della società organizzata. In quel momento, Carmen capisce che Don José è di misura piccola e che il momento unico dell’estasi è stato distrutto da miserabili piccole regole. Questo non lo potrà più perdonare a José, l’eletto che non ha avuto l’ardire, il coraggio, di sceglierla contro tutto. È solo un piccolo uomo. Carmen, però, non gli dà tregua: vuole una prova da lui. Lei lo ama irrimediabilmente e non si placherà finché non avrà ottenuto quella fatale prova. Quella che lei pretende da José è prova di grandezza e di dimensione umana. Carmen vuole che lui la uccida per amore e, come un bravo torero, vuole toreare col suo bel toro navarrese, finché nel momento della verità lei non vada a infilarsi nello stocco che lui le tiene puntato contro. Solo in questo momento Carmen, finalmente, potrà amarlo, in quell’ultimo attimo di raggiunta grandezza. Così, Don José diventa eroe per lei. Adesso è degno dell’amore. Enrico amava l’opera lirica molto più di me. Fu lui a starmi vicino durante la realizzazione. Ricordo bene come gli venne l’idea per la scenografia. Enrico conosceva bene i vincoli ai quali bisognava sottostare al Teatro San Carlo. Il palcoscenico non ha spazi laterali né profondità per poter cambiare le scene durante gli spettacoli. Per fare questo, avrebbe dovuto sacrificare un’ampia parte del palco. Ma Enrico – forse perché aveva fatto la Carmen cinematografica girata da Rosi in Spagna e aveva ancora negli occhi, dunque, i vasti paesaggi dell’Andalusia, ma più ancora perché amava il mistero di Carmen, la sfrenatezza che la consuma, la sua insaziabile sete di verità e d’avventura – non se la sentì di imprigionare la
nostra eroina in un’unica scena o in quattro scene differenti ma anguste. La sua idea fu una scultura scomponibile e ricomponibile in modi diversi ma sempre tutta in scena; qualche elemento aggiunto o tolto a ogni composizione avrebbe connotato i luoghi. Conquistato così all’azione scenica tutto il palcoscenico del San Carlo, senza ricorrere a effetti illusori di pittura, che nemmeno gli parvero adattarsi alla concretezza del personaggio, riuscì a regalare a Carmen l’aria andalusa che le era indispensabile. Sempre di Enrico fu l’idea di ambientare la storia intorno al 1910, ispirato forse da una cartolina raffigurante proprio la gitana di Bizet che aveva trovato da bambino nella sua Palazzina e che tanto gli ricordava l’immagine di una sua nonna, da lui mai conosciuta. Il finale dello spettacolo, con la morte di lei, avveniva in un’automobile, perché era proprio con le automobili che si celebrava l’entrata del toreador nell’arena. Fu straordinario il tenore, Luis Lima, che riuscì a fare il famoso acuto Ma Carmen adorée scivolando per terra, insieme al corpo di Carmen, fuori dalla macchina. Quella Carmen ebbe proprio un destino speciale. Doveva cantarla Valentina Terrani, famosissimo mezzo soprano, al grande rientro dopo un periodo di riposo. La sera della prova generale, la Terrani ebbe però una crisi che le causò un’ipersalivazione che le impediva di cantare. Fortunatamente e prudentemente, avevamo tenuto a disposizione una giovane cantante, Martha Senn, che aveva seguito tutte le fasi di preparazione dello spettacolo. Lei, con un solo giorno di prove riuscì a sostituire benissimo la Terrani ed essendo, oltre che brava, anche molto bella, ci aiutò a portare al successo quell’indimenticabile serata. Altra mossa decisiva, per realizzare i balletti, era stata l’idea di chiamare la più moderna e avanzata delle scuole di danza americane, quella diretta da Trisha Brown. Dall’Oktoberfest ai tori di Pamplona Qualche anno dopo fummo chiamati a realizzare un’altra Carmen al Bayerische Staatsoper, l’Opera di Stato di Monaco, città di cultura e arte, considerata un po’ la Firenze
dell’Impero austroungarico. È piena di birrerie, in alcune delle quali aveva fatto crescere il suo mito il più terribile austriaco della storia, Adolf Hitler. Ma è anche una città deliziosa, piena di grazia e con una tendenza alla festa che sembra napoletana. Io sono convinta che ogni paese, per quanto nordico, abbia il suo Nord ma anche il suo Sud, con le tipiche caratteristiche solari, festose e colorate. L’Oktoberfest è una specie di carnevalata che porta tutta la città in un turbine di allegria e anche… di birra. Mi ricordo un incredibile luna park con una giostra delle montagne russe talmente pirotecnica che non ebbi mai il coraggio di affrontare. Faceva fare tre giri della morte agli ardimentosi visitatori. Quanto all’allestimento dell’opera, bisogna dire che il Bayerische Staats-oper era un teatro di grande tradizione e tuttavia non ci trovammo molto bene. C’era un’aria vagamente «nazista» intorno ai nostri collaboratori. Chissà perché… Forse ce l’avevano con gli italiani o forse, malgrado i miei tanti cognomi tedeschi, c’era quello di Enrico, Job, a resuscitare un rigurgito di razzismo verso gli ebrei. Questo malessere circolava soprattutto in sartoria, dove lavorava un direttore odioso. Arrivammo faticosamente alla prima. Nell’intervallo del primo atto andammo a salutare le autorità sedute nel palco reale e subito dopo, col favore della notte, tornammo in Italia, alla dolce Palazzina. Un ricordo indimenticabile di quel periodo a Monaco fu il mio incontro con Audrey Hepburn. Era già molto magra e smunta. Solo i suoi grandi occhi e il suo bellissimo sorriso sorreggevano ancora quell’esile ma elegante figurina. Intorno a lei circolava come un’aura impalpabile. Non ricordo se ne fui così colpita per l’impressione che mi fece la sua magrezza, o perché in quel visino intravedevo il crollo inesorabile di una star. Lei era col suo ultimo marito, un bellissimo uomo che doveva amarla molto. Si capiva da come la guardava, da come la proteggeva e la sosteneva. C’era in lui una tenerezza che mi fece intuire la sua paura di perderla. Audrey era una personcina proprio speciale, che ha dedicato le sue ultime forze ai bambini poveri dell’Africa. Questo suo decadimento
fisico si accendeva miracolosamente al suo sorriso. Sorriso che è rimasto tra i più belli della storia del cinema. Tornando a Carmen e alla Spagna, quando Enrico lavorava al film di Francesco Rosi tratto dall’opera di Bizet, nel 1983, io e Domenico De Masi decidemmo di andare a fargli una visita, in Andalusia. Mimmo è un sociologo molto importante ma, soprattutto, è un grande amico. Ricordo una mattina quando una macchina ci venne a prendere molto presto per portarci a visitare l’Alhambra, a Granada. In una mattina segnata da una bella alba rosata andalusa, io e Mimmo salimmo in auto e partimmo. Non so perché e per come ma tra una chiacchiera e l’altra, durante il viaggio, cominciammo a discutere di Lenin. La cosa mano a mano si tramutò in una discussione sempre più accesa e sempre più violenta. Finimmo a urlare come due pazzi. L’autista spagnolo non capiva una parola ma si impressionava sempre di più alla vista di questa insolita e litigiosa coppia di viaggiatori. La discussione ci aveva proprio fatto perdere il senso del limite. Urlammo per tutto il tragitto. Giunti a Granada, scendemmo dalla macchina e per fortuna fummo subito affascinati dalla città, dalla bellezza del luogo, da quell’aria encantadora che rende sempre un po’ favolosa l’Andalusia. Olé! Basta questo «olé» per indicare la Spagna! Bella terra nostra cugina, penisola che ci fa da dirimpettaia con una dote straordinaria: il carattere! Anche lei con un Sud africano e un Nord francese. Abitata da donne con denti bianchi e fiori nei capelli, e uomini con occhi di fuoco e coraggio da vendere. A pensarci bene, sono legata alla Spagna per vari motivi, non solo per il cinema e i film. Con Flora e le mie amiche, per esempio, avevamo preso l’abitudine, tanti anni fa, di farvi ogni tanto un viaggetto, soprattuttto in occasione della festa di San Firmino a Pamplona e di San Isidro a Madrid. Fu proprio a Madrid, mentre eravamo in albergo e ci stavamo preparando per andare alla corrida, che, uscendo nel corridoio, vedemmo avanzare verso l’ascensore tutta la cuadrilla. Erano in cinque, vestiti de luz, cioè in costume. E in testa, al centro del gruppo, c’era lui, l’eroe, il torero. Era «El
Miguelín». Man mano che il gruppetto si avvicinava, mettevamo a fuoco quella meraviglia di colori: un manipolo di uomini che si stava preparando alla grande sfida. Senonché, quando ci passarono accanto, ci rendemmo conto che il torero, il celebrato Miguelín, era in realtà un ragazzino, grande poco più di un bambino, magro e verde di paura. Un piccolo andaluso con gli occhi spalancati dal terrore. Io e le mie amiche, mentre lo vedemmo passare, ci scoprimmo animate da un indubbio spirito materno: «Ma dove va quella povera creatura… È un bambino… Hai visto che faccella?». Ci fece una pena terribile. E rimanemmo con quella stretta al cuore fino alla Plaza de Toros, dove avremmo assistito alla corrida. Quella che avviene nella Plaza è una cerimonia molto particolare – forse l’unica rimasta inalterata fin dai tempi antichi – in cui l’uomo si batte contro la bestia, simbolo della natura bruta. Migliaia di persone vengono da tutto il mondo per assistere alla sfida. Allora c’era un torero che andava molto di moda, si chiamava El Cordobes. Era molto carino, un andaluso biondo adorato dalla folla, folla che non aveva alcun imbarazzo, oltretutto, a provocarlo rumorosamente dalle tribune. Ricordo tutta l’arena che gridava in coro: «Seicentomila pesetas al Cordobes», per ricordare al torero tutti i soldi che aveva preso. Insomma, doveva guadagnarseli nell’arena con il coraggio. Durante la stagione delle corride, i toreri fanno proprio la tournée nelle varie città spagnole per conquistarsi la gloria. La vitalità di quella folla e le sue urla sono una prova di quanto sia diretto e intenso il rapporto con il torero. Finalmente arrivò il momento di Miguelín, che entrò con la cuadrilla nell’arena. Noi eravamo in una delle prime file, sempre con la compassione per il ragazzino dall’aria impaurita. Pensavamo a quale tragedia dovesse essere, per lui, quel rito feroce che lo catapultava davanti al toro. Quest’appuntamento con la morte, celebrato nel suo bel vestito verde di lustrini, era in realtà una scelta disperata. Un piccolo contadino andaluso doveva affrontare il combattimento fatale
dal quale, se non fosse intervenuta la morte, avrebbe imboccato la via della gloria. Entrato nell’arena, ai nostri occhi ci apparve piccolo e indifeso, malgrado i suoni delle trombe e gli «olé» del pubblico. Poi tutto si placò in un silenzio terribile. Miguelín rimase solo nell’arena mentre si aprì un cancello dal quale uscì, mugghiante, nero ed enorme, il toro. Ed eccoci al momento topico, quello in cui il toro, dopo essere rimasto al buio, chiuso, si trova di fronte, in questa grande piazza accecata di sole, un piccolo uomo che lo attende, tra lo sventolio delle cappe colorate. Identificato in quella figura il suo nemico, dopo aver battuto sulla sabbia con lo zoccolo, la bestia, eccitata dal richiamo «aca toro!», si lancia verso il torero che, fermo al suo posto, tenta di ingannarlo con la danza della muleta. Fu lì che dopo due o tre «veroniche», il toro incornò Miguelín, tra le grida terrorizzate del pubblico. Il ragazzo volò in aria. Il toro gli aveva scucito con una cornata una parte dei pantaloni, mostrando a tutta la piazza la gamba nuda e le mutande. Gli spettatori erano al contempo feroci e commossi. Era proprio quel brivido che sapeva di sangue il pregio principale della corrida, quello, appunto, che riportava alla memoria i giochi del circo nell’antica Roma. Miguelín si rialzò da terra e lì assistemmo a una straordinaria metamorfosi. L’ira dell’eroe si era impossessata di lui. Quel contadinello andaluso era diventato un re. Cominciò a volteggiare davanti al toro la sua muleta, chiamandolo al rito. Era l’uomo che si opponeva alla natura, per domarla. Assistemmo infatti a una bellissima corrida, fra le urla di tutta l’arena che accompagnava ogni suo gesto, fino al momento finale. Il momento della verità, nel quale il matador deve infilzare la sua spada nel collo del toro, fulminandolo. La bestia cade a terra, la piazza impazzisce, il matador va a tagliare l’orecchio al toro e lo consegna alla persona a cui l’ha dedicato. I cavalli trascinano via il cadavere del povero animale e tutti inneggiano al torero. Fra le tante feste di tori e di vino, una delle più caratteristiche era quella di Pamplona. Anche perché all’alba
c’era la famosa corsa dei tori, conosciuta in tutto il mondo. Capitò che durante una di quelle corse, in mezzo alla strada, ci fossi pure io, unica sportiva del nostro gruppetto di amiche. Ho ricordi confusi ma molto divertenti: al termine di quella corsa folle e anche un po’ rischiosa, si finiva tutti nella grande piazza dell’arena, dove ognuno continuava a toreare un po’ per conto suo, con la mandria dei torelli. In quell’occasione conoscemmo di persona Miguelín e fui io che lo presentai a Francesco Rosi, il quale lo scelse come protagonista del suo bel film Il momento della verità. Non c’è dubbio, io in quel periodo amavo molto la Spagna e non potevo considerarmi certo la sola: insieme a me, i grandi ammiratori erano stati, per esempio, Ernest Hemingway, Ava Gardner e tanti altri… A letto con Sean Connery In Spagna ci sono tornata molte volte. In una di queste con Marta Marzotto. Eravamo ospiti di un simpatico banchiere spagnolo, padre di una figlia appassionata di cinema che voleva fare l’attrice. Il banchiere aveva organizzato una festa speciale a Marbella, con la crème de la crème dei super vip del super jet set internazionale. Basti dire che c’era Sean Connery. Fu lì che conoscemmo, con un piccolo morso d’invidia, la sua ultima moglie campionessa di golf – quindi, ragazze, non sottovalutate l’apporto di una passione sportiva per poter riuscire nella vita. La moglie non era bella, ma aveva la faccia credibile di grande giocatrice di golf. A me fece proprio impressione e ripensai a Sophia che aveva detto di no a Cary Grant. C’è forse un destino nei super belli: quello di sposarsi spesso con persone comuni e non bellissime, il che può essere anche un pregio. Sean è talmente simpatico che non sembra neanche totalmente british. Anche perché gli scozzesi, per gli inglesi, sono come per noi italiani i napoletani, con la sola differenza che stanno a nord invece che a sud e portano il gonnellino invece che braghe di pulcinella. Altro dato interessante degli scozzesi, è che – come avrete notato – hanno una specie di borsa legata alla cintura, che gli ricade proprio lì, sulla
fabbrichetta del piacere. La leggenda racconta che quelle meravigliose gonne a pieghe, in base al disegno del tessuto, rappresentavano ognuna uno dei tanti clan del Nord della Gran Bretagna. Si diceva pure che quelle borse trattenevano le ampie gonne che, alzate dal vento, mostravano le chiappe nude di quegli eserciti. Certo, bisogna riconoscere che ogni tanto, fra quei britanni lì sono fioriti i «meglio fighi» dell’empireo cinematografico. Basta ricordare Cary Grant e, appunto, Sean Connery. In quella festa mi ritrovai seduta alla sua destra. Bello come il sole e spiritoso. Naturalmente, eravamo bombardati dai fotografi, tanto che, siccome c’era molta simpatia tra noi, ci demmo appuntamento nella nostra suite dell’albergo, mia e di Marta, e finimmo a chiacchierare e a ridere, tutti e tre sdraiati sul letto come vecchi amici. Quindi è chiaro: io posso in coscienza dire di essere stata a letto con Sean Connery! Se avessi due o tre vite, invece che una sola, avrei diversi romanzi da scrivere sulle mie amiche o sui miei amici. Uno di questi sarebbe sicuramente su Marta. Una gran bella favolona. Grande matrimonio, cinque figli, creatrice di moda e di gioielli da favola, com’è stata da favola la sua vita. Da mondina, negli anni Quaranta arriva a Milano con la sua valigia di cartone, in cerca di lavoro. Lo trova, come «piccinina» in un atelier di haute couture. Portava i pacchi a casa delle ricche signore. Poi, un giorno manca una mannequin durante una sfilata. Guardano Marta, bella, alta, elegante, la vestono e la buttano in passerella. Su quella passerella lei è subito una principessa. Da crisalide si trasforma in farfalla. Giovane, davvero bellissima, un sorriso irresistibile e una simpatia straordinaria. Ed è anche molto intelligente, cosa che salta agli occhi del vecchio industriale Gaetano Marzotto. Il suo figlio ultimogenito Umberto la tira giù da quella passerella per farne sua moglie. Ma la mondina indossatrice è entrata nelle grazie del suocero che, capitone il talento, la prende vicino a sé e le insegna tutto:
l’arte del ricevere, l’eleganza e la navigazione nel bel mondo, di cui presto lei diventerà regina. Cinque figli, una purtroppo affetta da una malattia rara. Marta si batte con tutte le sue forze. I medici le avevano prognosticato pochissimi anni di vita. Marta riesce a portarla avanti al meglio fino ai trent’anni, determinata a farle vivere tutte le grazie della giovinezza: viaggi, avventure e, soprattutto, l’amore. Quella di Marta è una vita ricca e autentica. Chi non la conosce può avere di lei una falsa immagine di regina dei salotti mondani, invece è una donna autentica in tutto, nel manifestare i suoi talenti, nei suoi amori e nel suo lavoro. Fa moda, realizza gioielli, arredamenti, si occupa di giornalismo, organizza eventi, tutto con leggerezza, aiutando chiunque, a cominciare dai suoi tanti figli e dagli uomini della sua vita. Generosa oltre ogni buonsenso. Dice sempre: «La vita mi ha dato tante belle cose, e io sento il dovere di restituirle». Sarebbe anche quello un bel romanzo da scrivere.
Notte d’estate con profilo greco, occhi a mandorla e odore di basilico
Il bello di questo titolo è che è lungo e che non c’entra niente col film, salvo il riferimento alla notte d’estate. Però, che la notte avesse un profilo greco, occhi a mandorla e un odore di basilico, me la rendeva cara. In un primo tempo, il film si doveva chiamare «Industriali alla riscossa». Nasceva dall’idea di voler raccontare la storia di una ricca industriale, Mariangela Melato, la quale si propone di riunire nella sua villa un gran numero di colleghi che hanno subìto rapimenti e pagato riscatti, e di incitarli alla riscossa. Per lei è inammissibile che tutti questi capitani d’industria si facciano prendere in giro dalla malavita. La signora chiama un ex agente a riposo della Cia, con un braccio solo e una benda all’occhio sinistro, comunque molto abile ed esperto per via delle sue tante avventure professionali. Gli commissiona la sua vendetta: il rapimento di un brigante, interpretato da Michele Placido. Lei spera così di riuscire a farsi ridare tutti i miliardi che il giovane ha accumulato grazie alle sue malefatte. Il piano riesce e il bandito, catturato sulle montagne della Sardegna e addormentato con un proiettile di quelli che si usano per sedare gli elefanti, viene «sequestrato» nella villa della miliardaria, incatenato e bendato. Qui avvengono i suoi incontri con la signora. Michele Placido nel mio film era di una bellezza fiera e selvaggia, con un quoziente erotico elevatissimo, che credo corrisponda molto a quello che sprigiona anche nella sua vita reale. Infatti è pieno di mogli, compagne e figli, due dei quali, Violante e Marco Brenno (da quale anfratto greco-romano gli sia uscito questo nome non si sa), già bravi e affermati attori. Nel film, oltre alla Melato e a Placido, c’erano il mio caro Roberto Herlitzka e Massimo Wertmüller. Lo produsse Gianni
Minervini, un napoletano sempre pieno di entusiasmo che mi seguì volentieri in questa avventura. Simpatico e con gli occhi ridenti e fuggitivi. Ci trovammo molto bene e mi fece davvero piacere che, qualche tempo dopo, fosse riuscito a vincere l’Oscar con un altro bel film, purtroppo non mio, Mediterraneo di Gabriele Salvatores. Notte d’estate con profilo greco lo girammo tra le coste della Sardegna e nella straordinaria Villa Mariele, sul lago di Garda. La proprietaria ci aveva autorizzato a girare gli esterni, mentre gli interni e la grande terrazza furono ricostruiti da Enrico negli studi di Cinecittà. Gli elegantissimi abiti della stravagante miliardaria erano di Valentino, il quale fu felice di collaborare con me ed Enrico. All’inizio, il bandito doveva essere sardo ma, terminato il doppiaggio, questa ipotesi non ci convinse del tutto. Uscendo dalla Fono Roma e parlandone con Enrico, alla fine decidemmo di ridoppiarlo tutto in siciliano. Non posso certo negare di avere una debolezza per il dialetto catanese… Con Michele Placido ci conoscevamo da parecchio tempo per via di una mia regia teatrale ispirata alla pièce La cucina di Arnold Wesker. Lui faceva parte di un gruppo di attori che lavoravano con Luca Ronconi, il quale mi aveva però pregato di mettere su uno spettacolo e di utilizzare la compagnia perché lui era impegnato con le prove di un altro lavoro. Originariamente, la commedia fu rappresentata a Londra. Era ambientata nella cucina di un ristorante e aveva la caratteristica che tutti i camerieri e i cuochi in scena venivano ciascuno da una parte diversa dell’Europa. I personaggi, quindi, parlavano un inglese ciascuno con un accento particolare. Considerato poi che anche l’Italia, in fondo, è un minicontinente, nell’adattare la commedia nella nostra lingua e nell’ambientarla in un ristorante di Milano, decisi che in tutti i lavoranti ci fosse uno strascico di dialetto a rivelare, questa volta, la regione di provenienza. Era stato durante le prove di quello spettacolo, dunque, che avevo conosciuto Michele, arrivato da poco a Roma dalla Puglia. Per campare si era arruolato in polizia ma, contemporaneamente, faceva teatro.
La cucina debuttò al Teatro Valle alla fine degli anni Sessanta. Ancora ringrazio il proprietario del ristorante Augustea: fu gentile a passarci una grande quantità di piatti sbeccati, con i quali risolvemmo le scene più importanti dello spettacolo. E non era facile. Quello che si svolge al ristorante, del resto, è un lavoro particolare che va incontro a un ritmo progressivo. Si comincia con una certa lentezza, poi, man mano che arrivano i clienti, il ritmo si fa veloce, sempre più veloce, fino ad arrivare a eesere indiavolato e parossistico all’ora di cena. Era questa la caratteristica interessante dello spettacolo: l’accelerazione che trascinava i personaggi in un vortice frenetico, fino a farli precipitare, estenuati, in un abbandonato riposo. Lo spettacolo ebbe molto successo e registrò ogni sera il tutto esaurito. Grazie a quella esperienza, io e Michele diventammo amici e lo siamo rimasti. Ritrovarci diversi anni dopo a lavorare insieme fra profili greci, occhi a mandorla e notti d’estate, fu perciò molto piacevole. Un’ultima osservazione che riguarda la lunghezza dei miei titoli. Dovete sapere che in questo caso particolare il titolo completo doveva essere «Notte d’estate con profilo greco, occhi a mandorla, odore di basilico, denti bianchi e occhio di velluto». Forse mi ha trattenuto un senso di vergogna, perché stavolta era proprio un’esagerazione e all’ultimo momento ho tagliato i denti bianchi e l’occhio di velluto. Come ciliegina sulla torta, ricordo che dopo le insistenze di Paolo Conte e Lilli Greco che lavoravano con me alla colonna sonora, accettai di cantare una languida Luna di Shangai, all’inizio del film. Chiedo venia al lettore di questa mia autobiografia se ne riporto un piccolo brano: Passa una luna turca No, no è una luna hawaiana Ma no! Questa è una luna di Shangai. Balla amore dai Muoviti con me Luna di Shangai…
«In una notte di chiaro di luna» Certe malattie che segnano le epoche hanno ispirato poeti, pittori, compositori e scrittori. La peste di Boccaccio nella Firenze del Trecento, quella napoletana dipinta da Micco Spadaro nel Seicento, quella dei Promessi sposi di Manzoni, la romantica tisi profumata di camelie e di bohème cantata da Dumas figlio, Verdi e Puccini nell’Ottocento, fino all’Aids che ha segnato l’ultimo Novecento lasciando, nella nuova forma di letteratura contemporanea che è il cinema, film come Philadelphia. Tuttavia, sono stata io a realizzare il primo film su questa malattia che è diventata il male, se non la peste, appunto, del secolo. All’inizio il titolo doveva essere «Sirty Marocco», ma alla fine si chiamò In una notte di chiaro di luna, proprio per ricordare con quale leggerezza seduttiva la malattia che nasce dal piacere può contagiare l’incauto amante. Tutto prese le mosse da un piccolo articolo di cronaca che lessi su un giornale. Un ragazzo e una ragazza si erano tolti la vita, convinti di essersi contagiati. In realtà, dopo l’autopsia, si scoprì che non era vero. Da un fatto simile, all’apparenza non così rilevante, capii che era nata una vera e propria psicosi planetaria attorno al virus dell’Aids. Iniziai il mio film, infatti, con la sequenza di due ragazzi che si suicidano. Offrii la parte del protagonista all’olandese Rutger Hauer, che mi ricordava uno di quegli eroi nibelungici dalle cosce possenti, i capelli biondi pieni di vento che avevano attraversato i mari da veri pirati del Nord. Indimenticabili due sue interpretazioni: l’ossessivo autostoppista di The Hitcher. La lunga strada della paura, con i suoi occhi chiari da assassino e, ancor più terrorizzante e struggente, l’androide di Blade Runner, che rimane forse il più bel film di fantascienza. Piccola parentesi, che faccio volentieri a proposito del film di Ridley Scott, per rendere omaggio a Harrison Ford, uno dei più importanti attori di Hollywood dei nostri tempi. Non si parla mai di lui, ma sempre dei personaggi che ha interpretato. Questo è il massimo della nobiltà per un attore: dare vita
indimenticabile agli uomini che racconta, senza sovrastarli mai con la propria personalità. Chiusa parentesi. Rutger, nel mio film, è John Knot, un giornalista che legge la notizia dei due giovani amanti suicidi. La sensazione del pericolo che c’è in questa psicosi nata attorno alla diffusione di un virus di cui ancora non si sa nulla lo porta a intraprendere un’inchiesta mondiale. Come era capitato a me, che fui spinta da quella notizia di cronaca a scrivere il film, così il mio protagonista parte dall’episodio del suicidio per realizzare il suo reportage sulla malattia. Roma, Venezia, Parigi, Londra e New York. Queste sono le tappe della sua ricerca. A Parigi John ritrova un suo vecchio amore, Joëlle (Nastassja Kinski), dalla quale scopre di aver avuto un bambino. Giornalista coraggioso e pronto a tutto, finge di essere portatore della malattia pur di accedere ad alcune informazioni e di avere contatti con medici e psicologi. Scoprirà poi, con orrore, che lui è realmente contagiato. Fugge così a New York, lasciando, senza dire nulla, colei che ama, e, con un’altra donna, Mrs Colbert (Faye Dunaway), anche lei affetta da Aids, decide di aprire una fabbrica di preservativi. Alla fine, la sua amata lo ritroverà, decisa, malgrado tutto, a vivere con lui. Oltre a Rutger Hauer, Nastassja Kinski e Faye Dunaway, c’erano altri grandi attori come Peter O’Toole, Dominique Sanda, Lorraine Bracco e poi Massimo Wertmüller e Luigi Montefiori. Un ottimo cast che assicurava un respiro internazionale al film. Faye Dunaway è un’attrice straordinaria, professionale e appassionata. Non potrò mai dimenticare quando, durante la scena di un abbraccio troppo violento fra lei e Rutger, lui la urtò col volto, dandole una botta terribile sulla guancia. Appena detti lo stop, la prima cosa che fece Faye fu di chiedere una bistecca cruda per mettersela sul viso: temeva di non riuscire a girare il giorno dopo. La Dunaway aveva avuto una bellissima storia con Marcello Mastroianni. Credo si fosse trattato di una vera storia d’amore. Come tutte le americane, Faye pensava che dovesse sfociare nel matrimonio. Ma non aveva fatto i conti con
l’attaccamento tutto italiano alla famiglia. Marcello non avrebbe mai lasciato Flora, e così fu lei a lasciarlo. Un giorno, sul set del mio film in compagnia di Faye, mi capitò di nominare proprio Marcello. Ricordo la faccia che fece e l’espressione profonda e vagamente ironica dei suoi occhi mentre sospirava: «Eeeh, Marcello… Marcello…». Tornando al film, riuscimmo a girare in un club molto esclusivo di Londra. Di quelli dove era sempre stato rigorosamente vietato l’ingresso alle donne. Io credo di essere stata la prima ad aver rotto la tradizione. Era come entrare in una cattedrale. Nel fumoir c’erano elegantissimi gentiluomini, completi di sigaro e una copia del «Times». In questo ambiente odoroso di sigaro e di lord, avveniva la lunga scena tra Peter O’Toole e Rutger Hauer. Peter interpretava un esperto mondiale di Aids che intuisce subito lo scopo dell’intervista a cui viene sottoposto. A Times Square, su una terrazza di un palazzo che stavano finendo di costruire, Enrico aveva realizzato la scenografia dello studio dove Faye Dunaway e Rutger Hauer avrebbero girato alcune sequenze. Era un posto bellissimo perché da quelle grandi vetrate si vedeva battere il cuore pulsante della città. L’arredamento era di gran classe, con mazzi di fiori luminosi e bellissime lampade Tiffany. Fu proprio in quell’occasione che Enrico mi riportò nella meravigliosa boutique di Lilian Nassau, per regalarmi una Tiffany, decorata con le libellule. Tanto per chiarire, sapete quante ne posseggo? Sedici! Sono una bella collezione. Le scene ambientate nella redazione del giornale le girammo nella vera sede di «Libération», a Parigi. Divertente fu la partecipazione di un francese che viveva a Roma. Non aveva mai fatto cinema. Era un elegante gentiluomo, distinto e odoroso di salotto bourgeois parisien. L’incauto arrivò in ritardo sul set, cosa che mi fece subito girare le scatole, tanto più che manteneva quell’aria beneducata, come se pretendesse la stessa buona educazione da parte mia. Arrivare tardi nel cinema è imperdonabile. «Vaffanculo!» gli gridai appena lo vidi. La mia sortita inaspettata gli gelò in faccia il sorriso
cortese con cui si stava presentando. Fu solo l’inizio. Durante una scena, doveva raggiungere la sua posizione recitando delle battute. Il terrore lo bloccò e non pronunciò una parola. Mi fece perdere un sacco di tempo prima che riuscisse a dire le sue poche sillabe previste dal copione. Mi venne voglia di prenderlo a botte. Nella scena seguente la cosa peggiorò. In un dialogo con Massimo, nella redazione del giornale, gli doveva comunicare che il giornalista, cioè Rutger Hauer, se ne era andato. La paura e l’imbarazzo avevano reso totalmente nevrotico quel povero francesino. Quando prese a dire, balbettando, la battuta, cominciò anche a muovere nervosamente le mani. Io detti lo stop e gli spiegai, cercando di rimanere calma, che quelle mani dovevano restare ferme. Ma l’uomo non controllava più la sua emozione. Quando ripetemmo la scena continuò ad agitare le mani e io, con più violenza di prima, gli spiegai dove doveva mettersele. Nella fattispecie «al culo»… Lo so, è un po’ volgare, ma la volgarità, mentre si gira, è un’ottima compagna di strada. Riprendemmo per la terza volta la scena e di nuovo non riuscì a controllarsi. E neanche io. Mi alzai dalla sedia e praticamente lo menai. Si chiamavano «nocchini» quei colpetti a pugno chiuso che si diceva i preti dessero in testa agli scolari per farli stare attenti. No, fanno male. Difatti io volevo fargli male. Mentre lo colpivo con i miei nocchini, vedevo le sue guanciotte tremare. Conclusi quella scarica con una ditata che gli lasciò un segno rosso in mezzo alla fronte. Si era ricreato, in qualche modo, un rapporto scolastico tra maestra e allievo. Mio nipote Massimo cercava di trattenersi, ma invano. Rintanato sotto un tavolo scoppiò a ridere. Mi chinai anch’io e gli dissi: «Non ridere… Se no mi fai ridere pure a me… ed è la fine». Presentammo il film a Venezia nel 1989, con esiti incerti. Venezia è una città fatta per il cinema. Per quanto Cannes, con la grande abilità dei francesi nel vendersi come operatori culturali e mondani, sia un festival straordinario, bisogna ricordare che è stata l’Italia la prima nazione nella storia a organizzare un festival del cinema e quello di Venezia rimane
dunque il più autorevole. Io, però, ero contraria a presentare In una notte di chiaro di luna e avevo ragione. I giornalisti mi attaccarono sentendosi offesi dal ritratto che avevo fatto del mio protagonista, secondo loro «troppo spregiudicato», e anche perché, sotto sotto, nel film, circolava un’accusa ai mass media di essere in parte responsabili della psicosi creata attorno al tragico fenomeno dell’Aids. Tutto ciò provocò un interessante dibattito sul pericolo che può nascere dall’eccesso di esposizione mediatica, al quale parteciparono anche medici e scienziati. Certo è che oggi, di Aids, non si parla più, ma la malattia, nonostante ricerche e progressi indubitabili, non è stata ancora debellata e continua a contagiare. Il film, probabilmente, era un po’ troppo avanti con i tempi e fu contestato. Qualche anno dopo, nel 1993, il bellissimo Philadelphia avrebbe raccontato in maniera straordinaria il dramma di quella stessa malattia. Sono sempre stata molto legata a Venezia e mi piace ricordare anche un’altra bella esperienza che avevo vissuto al Lido un anno prima che presentassi il film, come membro della giuria, presieduta da Sergio Leone. Per la prima volta Almodóvar partecipava a un festival. Per di più, con una commedia: Donne sull’orlo di una crisi di nervi. Sergio Leone e io ci dovemmo battere per riuscire a premiare il regista spagnolo. Dopo quel riconoscimento, il primo in assoluto della sua carriera, Almodóvar diventò un autore di culto del cinema mondiale. Gagliardo quello spagnoletto, ricciolino e folletto. Appassionato del mondo femminile, lo racconta bene come nessuno. Meriterebbe forse anche lui, come già ebbe George Cukor, il soprannome di «regista delle donne». Il decimo clandestino I fratelli Vanzina, con una loro produzione, avevano deciso di far dirigere a diversi registi gli adattamenti di alcune novelle italiane. Dopo aver riletto tutto Luigi Pirandello, Giovanni Verga, Matteo Bandello e tutti gli altri autori di racconti della nostra letteratura, io decisi, alla fine, di rivolgermi a Giovannino Guareschi.
Guareschi è stato un grande giornalista e scrittore, per certi versi sottovalutato dalla critica. Sciascia, una volta, mi disse che secondo lui Guareschi, con il suo Onorevole Peppone e Don Camillo, aveva fatto il miglior ritratto dell’Italia. La novella che scelsi era Il decimo clandestino. Un raccontino che mi aveva colpito per la tenerezza con cui Guareschi affrontava il tema della perdita di un bambino. Si racconta di una vedova con nove figli che viene dalla campagna romagnola e, dovendo andare a vivere in città, a Bologna, affronta il problema dell’affitto di una casa. La presenza dei nove bambini crea problemi enormi, poiché nessuno vuole affittare il proprio appartamento a una madre vedova con quella marmaglia di bambini a carico. Così, dopo tanti inutili tentativi, la povera donna ricorre a uno stratagemma. Affitta un sottotetto da una signora che ha perso il suo unico figlio, senza rivelarle la presenza della famigliola. Da quel momento, tutti i bambini vanno a scuola e poi fanno i compiti nel retrobottega di un amico salumiere, uscendo dalla soffitta la mattina prestissimo e rientrandoci a notte inoltrata. Quando la signora scopre la presenza di quei bambini, in un primo momento la reazione è di grande risentimento, ma poi, alla fine, vincerà la tenerezza e lei avrà anche l’impressione di vedere l’ombra del suo bambino, il decimo clandestino appunto, insieme al gruppo di quei ragazzini. Girammo il film a Bologna, una città molto ospitale e dove ci trovammo benissimo. Piera Degli Esposti, bolognese, era proprio a casa sua. C’era anche una bravissima Dominique Sanda e un ottimo attore tedesco, Hartmut Becker. Tra le tante avventure che accadono sempre durante la lavorazione di un film, c’è un piccolo, buffo aneddoto che vale la pena di raccontare. Un giorno, sul set, ero insieme a Piera e a tutti e nove i bambini, in attesa di un ascensore che doveva riportarci al pian terreno di un antico palazzo. Tenere buona quella masnada non era così facile. I ragazzi erano tutti coperti con cappottini, sciarpe, berretti, e io li pilotavo manovrando le loro piccole teste. Spostandone una, fui travolta da un vocione: «Guardi signora si sta sbagliando…». Era un nano pieno di
sciarpe e cappelli, capitato non so come in mezzo alla banda dei bambini. Ricordo anche che, durante la lavorazione del film, avevo proibito di regalare caramelle ai bambini. Sapete com’è, la troupe è composta di elettricisti e macchinisti, maestranze dall’aria truce e muscolosa ma quando si trovano davanti ai bambini diventano come mammine. Erano loro, infatti, a riempirli di cioccolatini e di dolcetti. Quando ordinavo ai ragazzi di aprire la bocca, mi ritrovavo inesorabilmente una sfilata di boccucce aperte piene di caramelle dai mille colori. Per Il decimo clandestino mi viene in testa solo un aggettivo: affettuoso. Era stato affettuoso Guareschi nello scrivere la novella, io nello sceglierla e tutti i partecipanti che vissero quell’avventura, con in testa Piera Degli Esposti.
Vedi Napoli, e poi Venezia…
Sul finire del 1990, a me ed Enrico successe una cosa straordinaria: l’arrivo di nostra figlia, che nacque infatti il 17 gennaio del 1991. La chiamammo Maria Zulima. Maria perché sia mia mamma che la mamma di Enrico si chiamavano Maria; Zulima, invece, è uno strano nome arabo molto caro a Enrico: era di una sua lontana prozia che aveva vissuto alla Palazzina, ispirato ad alcuni versi del Notturno Algerino, una piccola sonata di moda a metà dell’Ottocento. La prova silente il mare solcava, La notte d’Arabia l’alcova avvolgeva. Un mar ne mirava negli occhi lucenti, Specchiarsi le stelle d’amore tremanti: Mirava Zulima, la vergine schiava, Dal casto incarnato di luna splendente. Il mare stregato, sognante cullava Le mille carezze d’amore d’oriente.
Per evitare fotografi e stampa decidemmo di partorire a Marsiglia, così la nostra famiglia si arricchì di questo meraviglioso regalo. L’arrivo di una piccola in una famiglia di genitori non più giovanissimi è veramente un evento di quelli che cambiano la vita. Quell’esserino da subito somigliò a Enrico. Gli stessi occhi chiari, i capelli quasi biondi, e un caratterino che sin dai primi anni prometteva bene. Come si fa a parlare in poche righe di un figlio? Su di lei vorrei scrivere interi romanzi, ma chiaramente cadrei in quella pappa di tenerezza, meraviglia e gratitudine che è la maternità. Enrico poi perse completamente la testa.
Maucì, così abbiamo chiamato da subito Maria Zulima. È un nome che le abbiamo dato solo noi. Gli amici la chiamano Maria o Mary. L’unico vago rimorso di quel periodo è che, continuando tutti e due a lavorare e lasciando la piccolina spesso in compagnia delle tate, non abbiamo goduto a pieno la gioia che ci avrebbe dato il poter dedicarle interamente il nostro tempo. «Sabato, domenica e lunedì» Quel periodo era fortunatamente pieno di lavoro per me ed Enrico. Io lavoravo con Raffaele La Capria all’adattamento cinematografico del testo di Eduardo De Filippo Sabato, domenica e lunedì. Sophia Loren e Luca De Filippo erano i protagonisti insieme a Pupella Maggio, Enzo Cannavale, Alessandra Mussolini, Mario Scarpetta, Luca Greco, Pelos La Capria, Anne Marie Philippe e Luciano De Crescenzo. Se facciamo una coroncina di tutti i cognomi famosi coinvolti nel film, vi accorgerete che figurano molte celebri famiglie d’arte. Il ruolo di Peppino, che in teatro aveva interpretato Eduardo, nel film lo faceva suo figlio Luca; il ruolo di Zia Memè, invece, l’aveva recitato Pupella Maggio, che all’epoca era primadonna nella compagnia De Filippo. Credo che per lei vedere la «sua Rosina» interpretata da Sophia Loren sia stato uno strazio dell’anima. Scrissi la sceneggiatura con Raffaele La Capria nella sua bella villa di Capri, vicino alla piscina, come dire, in un posto da sogno, nella parte alta dell’isola. Bisognava infatti salire un centinaio di scalini per arrivarci. Ma una volta giunti a destinazione, il posto e il panorama erano stupendi. Ci mettemmo circa un mese per finirla. Credo che la scrivemmo tutta in piscina. Intendo dire proprio immersi nell’acqua. Dudù e io, nella frescura, dettavamo a un povero malcapitato amico sotto il sole che batteva a macchina. Ovviamente, trasportata in un linguaggio cinematografico, la commedia si arricchiva di esterni, bellissimi paesaggi napoletani e di tutta la vita di Pozzuoli e Napoli negli anni Trenta. C’erano delle panoramiche passeggiate in carrozzella nei luoghi più suggestivi di Napoli e il mare: blu e bellissimo, sul quale si
affacciava la casa di Peppino e Rosina Priore. Poiché certi esterni li avevamo fatti a Napoli e altri invece sull’Adriatico, certi tramonti diventavano albe, e certe albe, tramonti. L’interno della casa, Enrico lo costruì a Cinecittà al Teatro 5. Mi ricordo un bellissimo tono di azzurro con il quale aveva dipinto le pareti della sala da pranzo. Era proprio lo stesso azzurro delle pareti della stanza degli enigmi della sua Palazzina. La grande e ampia cucina splendente di riggiòle era perfettamente funzionante e rappresentava il regno di lei, Rosina, la grande madre, ovvero Sophia. Il legame tra l’antica grande madre mediterranea e l’arte culinaria della protagonista era nella mente del professor Janniello – Luciano De Crescenzo – un omaggio alla femminilità che, in tempi remotissimi, aveva dominato tutto il Mediterraneo, quando c’era un governo matriarcale e tutto il potere era nelle mani delle donne. Se questo sia vero o leggenda non lo so. Ma, onestamente, certi profumi di ragù me lo fanno credere. Già… il ragù, grande protagonista del rito domenicale su cui è imperniato il film. Comincia dalla mattina, quando le donne, andando a fare la spesa nella macelleria, chiedono ciascuna il proprio pezzo di carne. In questa scena iniziale, emerge subito la diversità delle tante ricette, che scatena una lite sull’autenticità della vera formula. È chiaro che, nella cultura napoletana, ogni donna personalizza la ricetta del ragù a modo suo, secondo la tradizione di famiglia. A riprova di questo, ricordo che ogni partecipante al film, tra attori e troupe, deteneva una particolare ricetta di quell’importantissimo sugo domenicale. Erano tutti ottimi cuochi, a partire da Sophia e Luca, arrivando fino ai tecnici, compresi elettricisti e macchinisti. E così accadde che dalle parole si passò ai fatti. Quasi tutto il film si svolge durante il pasto della domenica, nel quale trionfa, appunto, il ragù. Sia ben chiaro che il ragù non è cosa che si possa improvvisare. Richiede parecchie ore di cottura. Tenendo conto che tutti i protagonisti del film, come vi ho detto, erano bravi cuochi ed esperti di quella pietanza, io non potevo non affrontare il problema seriamente.
Il ragù doveva essere buono e la pasta preparata di ora in ora, sempre al dente. Così, con l’aiuto di Pasquale, bravissimo capomacchinista napoletano, montammo una cucina vicino allo studio, dove bolliva in permanenza la preparazione del ragù e anche l’acqua per buttare, di volta in volta, la pasta. Perché non è che, come accade spesso nel cinema, potevamo far mangiare pasta scotta e riscaldata. No, la cucina era sempre in azione e per tutta Cinecittà, lungo i corridoi e nei camerini, circolavano allettanti profumi. In quel periodo sia Al Pacino che Karl Malden stavano girando a Roma, in quegli stessi studi. Furono i primi a cogliere il richiamo di quel profumo e, seguendolo, ad arrivare alla cucina allestita sul set. Conclusione: dovemmo preparare una quantità di spaghetti al ragù anche per tutti i potenziali «avventori». La loro fu una visita inaspettata e molto piacevole, anche perché Malden aveva interpretato in teatro, a Broadway, proprio il personaggio di Peppino. A proposito di Sabato, domenica e lunedì circolano molti aneddoti. Ne ricordo alcuni. Il primo riguarda Enzo Cannavale, bravissimo attore napoletano con quel tanto di sciaguratezza che lo portava a prendere diversi impegni di lavoro contemporaneamente. Mentre giravamo a Cinecittà, lui, senza dirmelo, recitava in teatro a Napoli. Doveva girare con me di mattina presto, come consuetudine nel cinema. Quel giorno fatale, Enzo, mentre tutti noi sul set eravamo pronti, si presentò con un’ora di ritardo, per via dello spettacolo che aveva recitato la sera prima. Non so se vi rendete conto che un’ora di ritardo nel cinema significa pagare una sessantina di persone per niente. Cosa inammissibile nell’economia molto attenta dei miei film. Quando finalmente Enzo arrivò al Teatro 5, io ero una belva. Lo aggredii e lo insultai. Gliene dissi talmente tante che alla fine si mise a piangere. Da allora è nata la leggenda che avessi fatto piangere Cannavale. Tutto vero. Il fratello di Raffaele La Capria, Pelos, per la prima volta in vita sua metteva piede su un set cinematografico. Era un personaggio di una simpatia travolgente, di grande cultura e, malgrado non avesse un fisico da Rodolfo Valentino, aveva
sempre fatto grandi stragi di cuori femminili nella Costiera amalfitana. Quando si accorse di non ricordare la battuta che doveva dire, si buttò in ginocchio davanti a me, supplicandomi: «Sputam’ ’n faccia… sputam’ ’n faccia… nun me ricurd’ che aia ‘a dicere…». Troppo simpatico. Una di quelle persone cui si perdonava qualsiasi cosa. Durante le scene con i personaggi seduti a tavola, a mangiare il famoso ragù, Lucianino De Crescenzo aveva preso la brutta abitudine di sottolineare col dito le proprie battute. Una pessima abitudine che spesso hanno gli attori, come già accadde con il francese di In una notte di chiaro di luna. Io, con pazienza, dissi una prima volta a Luciano di non usare quel dito. Fu inutile. Per lui era irresistibile l’istinto di evidenziare con l’indice le frasi che recitava. Lo ripresi una seconda volta, meno pazientemente, ma lui non riusciva a contenere quel dito. La terza volta, irritata, mi lanciai sul suo indice e gli diedi un bel «mozzico», di quelli che non si dimenticano e che lasciano il segno dei denti. Il mozzico è sempre stata una mia arma d’attacco molto efficace: come ricorderete, da bambina, in vacanza a Francavilla al Mare, lo avevo «sigillato» anche sul sederino di quel bambino colpevole di aver fatto un torto a mio fratello. Luciano, dopo un urlo di dolore, non dimenticò più di tenere fermo quel dito, ma io, per prudenza, gli feci cucire la mano nella tasca dei pantaloni. Come dire: in guerra, in amore e nel cinema tutti i mezzi sono buoni. Quanto a Sophia Loren, devo dire che si dimostrò una straordinaria professionista, visto che accettò un trucco praticamente inesistente sul suo bel volto. Cosa che rese estremamente realistico il personaggio di Rosa Priore. Non è facile far dimenticare la diva Sophia e far emergere solo il personaggio che interpreta. Ma lei in questo è bravissima. Talmente brava che credo avrebbe fatto una grande carriera d’attrice anche senza quella bellezza che la fece diventare un’icona del cinema mondiale. La prima ebbe luogo nel più bel teatro d’Italia, il San Carlo di Napoli. Il film era prodotto da Carlo Ponti, insieme a Silvio
Berlusconi e Riccardo Tozzi. Allora Berlusconi, imprenditore di successo, aveva fra le altre sue società la Silvio Berlusconi Communications, che produceva diversi film. Quando lui, a Milano, aveva comprato il Teatro Manzoni, aveva ospitato Eduardo con uno spettacolo. Lo andava a trovare spesso in camerino e una sera gli chiese quale delle sue opere, secondo lui, sarebbe stata la più adatta per essere trasposta sul grande schermo. Eduardo, senza esitazione, rispose citando proprio Sabato, domenica e lunedì. Io credo avesse ragione, anche se altri bei film erano stati tratti dalle sue opere, primo su tutti l’indimenticabile Matrimonio all’italiana di Vittorio De Sica (da Filumena Marturano), con la coppia Loren-Mastroianni. Il cuore segreto di Sabato, domenica e lunedì è proprio il rapporto dell’amore familiare, ed è questo, credo, che l’ha reso così universale. Mi dispiace molto che Eduardo non abbia potuto vedere il figlio Luca interpretare il ruolo di Peppino Priore, che un tempo fu proprio lui a recitare per la prima volta. Luca, in ogni caso, fu bravissimo. Quello in cui presentammo il film in America fu un anno speciale per Sophia. Hollywood le assegnò il più ambito dei premi cinematografici: l’Oscar alla carriera. Anche a Chicago, dove eravamo andati a presentare Sabato, domenica e lunedì, la piccola, grande epopea familiare di Eduardo ebbe un notevole successo. L’anteprima al Fine Arts Theatre fu una serata elegantissima. Il pubblico si lasciò trasportare in quel dramma familiare e si divertì, rise, si commosse e poi scoppiò in applausi entusiastici. La cena di gala per cinquecento invitati che seguì la proiezione, all’ultimo piano della torre North State di Chicago, prevedeva un menu speciale: il ragù realizzato con la ricetta di Sophia Loren. A me quel sugo non mi parve del tutto riuscito, ma il successo del film fu tale che feci buon viso a cattivo… ragù. «Io speriamo che me la cavo» Fu certamente un genio, il maestro Marcello D’Orta, ad avere l’idea di ricavare il libro Io speriamo che me la cavo dai temi dei suoi allievi della scuola elementare. Geniale ma anche
molto fortunato, perché si ritrovò una classe di bambini estremamente dotati e spiritosi. Quando mi proposero di realizzare il film, andai a Napoli e mi lanciai nell’avventura di selezionare chilometri di bambini. Era la seconda volta che mi trovavo a che fare con una squadra di ragazzi. Come si sa, i bambini sono stupendi ma possono essere anche terribili. Alla fine, e non senza fatica, selezionai una classe di piccoli «attori» a cui feci imparare a memoria tutto il copione. Facemmo quaranta giorni di prove, come si usa quando si mette in scena una commedia in teatro. Il maestro protagonista del film era Paolo Villaggio, in una delle sue prime prove in cui non faceva il comico. Paolo, che spesso nei suoi film era abituato a recitare a soggetto, una volta, mentre stavamo girando, si scordò la battuta. I bambini si bloccarono e si voltarono tutti verso di me, come a chiedermi che cosa dovessero fare, dato l’errore del «maestro». Paolo si vergognò talmente di quella figuraccia che, da allora, arrivò sempre sul set con la parte studiata perfettamente a memoria. Paolo è una persona molto particolare. Basti ricordare che ha un gemello, il quale è diventato un geniale scienziato di fisica e matematica e lui si è sempre sentito un po’ il «fratello cretino». In realtà è molto intelligente e colto. Ha inventato l’ultima maschera del nostro spettacolo: l’indimenticabile ragionier Fantozzi, pronipote, in qualche maniera, di Monsù Travet. Fantozzi è anche lui una vittima nata, creatore di casini e con un’adorabile moglie, Pina, interpretata dalla mia adorata Milena Vukotic, che lo ama malgrado i suoi terribili difetti. Fantozzi, infatti, è uno di quei personaggi che in casa sono dittatori, mentre fuori, al contrario, risultano dei poveretti. Varie volte, nella mia ormai lunga esperienza, ho potuto riscontrare che dentro ogni comico costretto nel suo ruolo e solo in quello, si nasconde, in realtà, un bravissimo attore capace di toccare tante corde espressive. Se non mi sbaglio, la prima volta nel cinema accadde con Renato Rascel. All’epoca era un comico di grande successo, sia in teatro che sul grande schermo, oltre a essere autore di canzoni molto belle e famose
come Arrivederci Roma, cantata ormai in tutto il mondo da cinquant’anni. Lo chiamavano «il piccoletto», anche perché effettivamente Renato non era altissimo. Aveva inventato anche un costume per il suo personaggio, composto da una giacca enorme a doppio petto, dentro la quale si nascondeva fino a sparire. Poi aveva un buffo cappellino bianco e il suo inno di battaglia era la canzoncina: «È arrivata la bufera/è arrivato il temporale/chi sta bene e chi sta male/e chi sta come gli par…». Alberto Lattuada doveva girare il film Il cappotto, tratto dalla novella russa di Nikolaj Gogol’, e pensò di chiamare proprio Renato Rascel a interpretare quel personaggio dalle forti tinte drammatiche. L’esperimento fu un successo e in qualche modo sdoganò i comici dalla loro etichetta. Nel mio film, Paolo, come già aveva dimostrato ne La voce della luna di Fellini in coppia con Roberto Benigni, si confermò un ottimo attore. Alcuni dei bambini di Io speriamo che me la cavo hanno dato prova, poi, di essere dei veri talenti. Qualcuno di loro ha fatto carriera e io stessa li ho adoperati anche da adulti in alcuni dei miei film. Mi fa piacere considerarmi in qualche modo un talent scout, di aver insomma scoperto e lanciato giovani interpreti che ancora oggi lavorano, sia al cinema che in televisione. Una scena del film la girammo alla Reggia di Caserta. Rammento che i bambini del cast rimasero affascinati dalla magnificenza dei suoi giardini e dal maestoso scalone. Credo che quello sia lo scalone più usato al cinema. Il libro di D’Orta era praticamente un’antologia di temi scolastici veri, peraltro molto graziosi, scritti dai suoi giovani allievi. Il lavoro di sceneggiatura doveva quindi creare una storia che legasse e desse un senso a quei raccontini. Con Leo Benvenuti e Piero De Bernardi collaborai con grande piacere, anche se, come ho già detto, i miei film li ho scritti quasi sempre da sola, dato che in molti casi non c’erano mai abbastanza soldi per condividere l’avventura della scrittura cinematografica con altri autori.
Al termine della prima proiezione del film, appena si riaccesero le luci in sala, il produttore Mario Cecchi Gori, normalmente avaro di complimenti, mi disse in un bellissimo toscano: «’Un si poteva fa’ meglio». Uno dei regali che mi fece fu di poter iniziare e chiudere il film con la voce del mio adorato Louis Armstrong che canta What a wonderful world. Spero che adesso si trovi sulla stessa nuvoletta di Mozart a sghignazzare sulla nostra miseria. Lo so che può sembrare stupido citare le nuvolette e i suoi abitanti. Purtroppo, da quella materialista storica che sono, non ci crederei neanche se li vedessi. Però è un peccato. Pensate come sarebbe bello se davvero, alla fine, ci si ritrovasse giovani e allegri, sdraiati su quei morbidi batuffoli bianchi insieme agli amici più cari. Da quando è nata Maucì, io ed Enrico abbiamo sempre voluto una sua apparizione nei nostri film. Quella neonata che gattona in Io speriamo che me la cavo è proprio lei, nostra figlia, alla sua prima immagine nel cinema. Maucì, che oggi ha più di vent’anni, sarebbe molto brava sia a cantare che a recitare, ma la cosa non le interessa affatto. Le piace invece fare il marinaio. Infatti, ora, mentre scrivo, è in Sardegna a lavorare come skipper, su una barca a vela, navigando per quel bellissimo mare. Una passione sfrenata per l’opera Nei primi anni Novanta, Enrico lavorava come un pazzo. Oltre ai film fatti insieme a me, si occupava moltissimo di teatro. Tra la prosa e l’opera lirica, realizzò una quantità di lavori impressionanti. Chiuso nel suo studio, disegnava le scenografie, i costumi e spesso anche gli attrezzi di scena per La Clemenza di Tito di Mozart per il Festival di Salisburgo, Il Trovatore di Verdi e il Don Giovanni, sempre di Mozart, messi in scena sull’enorme palcoscenico dello Sferisterio di Macerata, Elisabetta Regina di Inghilterra di Rossini al Teatro San Carlo di Napoli. Inoltre dava vita a spettacoli di prosa, intensificando la sua collaborazione con il regista Mario Missiroli. Come ho già detto, Enrico non realizzava solo delle scenografie decorative, la sua proposta nasceva sempre da
un’attenta e critica lettura del testo. In qualche maniera costringeva l’azione e l’interpretazione a seguire la sua visione dell’opera. Le sue scenografie erano in realtà la prima, vera regia dello spettacolo. Ho sempre pensato che il suo lungo sodalizio con Ronconi si interruppe il giorno in cui comparve un articolo su quattro colonne che aveva per titolo L’occhio di Job. Mi pare evidente che l’ego ronconiano non visse serenamente l’ampio spazio che la critica aveva riservato al ruolo di Enrico. Credo che da quel momento cominciò a temere la troppa personalità dello scenografo. Alla fine, Ronconi ha deciso di realizzare da solo le scene dei propri spettacoli. Enrico amava molto l’opera lirica e spesso era lui a curarne anche la regia. Uno dei più bei lavori penso sia stato Il Trovatore allo Sferisterio. La caratteristica di quel palco è l’enorme larghezza del boccascena di novanta metri. Tanto per fornire un termine di paragone, l’apertura di un boccascena va, in media, dai dieci ai dodici metri, per arrivare eccezionalmente ai sedici, come nel caso della Scala di Milano. I novanta metri dello Sferisterio sono dunque una prateria, una vallata sconfinata che può costituire anche un problema e certamente un impegno non da poco. Di solito, gli scenografi tendono a limitare con delle quinte questo grande spazio teatrale. Al contrario, Enrico se ne innamorò e lo sfruttò con un’altra lettura. Aveva immaginato altri due palcoscenici laterali, alti cinque metri e lunghi trentacinque, sopra a quello principale. Nella parte centrale si svolgeva l’azione. Lo seguii molto nella lavorazione di quell’opera. Fin da una famosa sera di anni prima, a casa D’Amico, nella quale il padrone di casa Fedele ed Ennio Flaiano litigarono proprio a causa del Trovatore. Ennio sosteneva che i libretti d’opera sono in generale assurdi. Propongono situazioni impossibili e fantasiose che spesso nascono dal bisogno di immettere una romanza o una cavatina, a servizio di uno dei cantanti. Faceva proprio l’esempio del Trovatore. Non l’avesse mai detto. Lele D’Amico, che era uno dei più grandi critici musicali italiani,
subito alterato da quelle affermazioni, lo aggredì dichiarando che, anzi, proprio Il Trovatore è uno degli intrecci più coerenti, precisi e teatralmente efficaci. Molti anni dopo quella litigata, Enrico, studiando il libretto di Salvatore Cammarano tratto dal testo teatrale di Antonio García Gutiérrez, dovette riconoscere che Lele aveva ragione: Il Trovatore è una perfetta macchina teatrale. La grande intuizione di Enrico fu di capire, come lui stesso mi disse, che «Il Trovatore è una storia di ragazzi sotto i vent’anni e l’irruenza di un Verdi splendidamente creativo ne racconta la gioventù». Che i protagonisti del dramma fossero giovani era una scoperta non indifferente, che abbassava molto anche l’età di Azucena, madre putativa del trovatore Manrico, solitamente rappresentata come una vecchia zingara dai capelli dritti e quasi bianchi. Enrico fece anche in modo di non interrompere mai la musica e l’azione durante i cambi di scena. Tutto era già lì, a vista e sotto gli occhi del pubblico. Mentre le azioni si svolgevano al centro del palco, nelle due ali laterali, Enrico aveva costruito due accampamenti gitani, pieni di verità e di realismo, dove la vita continuava il suo corso, facendo da sottofondo all’azione centrale. I gitani, nei loro costumi variopinti, cucinano, mangiano, giocano, ballano, mentre nel castello del conte di Luna, Manrico e Leonora inseguono i travagli del loro amore. Nel secondo atto, ambientato, per l’appunto, nell’accampamento gitano, Enrico aveva escogitato una soluzione di grande effetto. Tutti gli zingari, con donne e bambini, scendevano dai palchi laterali per raggiungere il proscenio, sventolando scialli e mantas che poi stendevano per terra come a formare dei tappeti sui quali si sedevano. Nel mezzo di quella massa, un gruppetto di donne in nero circondava Azucena che, serpeggiando tra i gitani suoi compagni, cantava la sua terribile storia: quella famosa romanza Stride la vampa nella quale racconta di aver buttato nel rogo, per errore, al posto del bambino del conte, suo figlio appena nato.
Certo, la storia del Trovatore è terribile: vendette, roghi, streghe, figli e madri bruciati… Tutti i temi più cupi di un cupo medioevo percorrono questo capolavoro che Verdi e Cammarano trassero dal testo spagnolo di García Gutiérrez. Non c’è dubbio che Verdi si ispirasse moltissimo a questi colori violenti. È come se la sua passione per la patria, per le donne, per la musica, trovasse sfogo proprio nei colori violenti di questa vicenda. Ciò che mi colpì della regia di Enrico fu la trasposizione dell’intreccio dal Quattrocento al Seicento. Mi rivelò che aveva stabilito quell’ambientazione seicentesca anche per aiutare la comprensione e l’attendibilità dell’intera vicenda. In particolare voleva far capire meglio una scena che avviene nel secondo atto: il conte di Luna sta per rapire Leonora dal convento quando Manrico spunta insieme ai suoi. Proprio nel momento in cui dovrebbero sfoderare le spade e scatenarsi gli uni contro gli altri in un furioso corpo a corpo, tutto si ferma in un «assieme» stupendo, per eseguire il quale, però, invece di scontrarsi in feroci duelli come sarebbe logico, cantanti e coro non possono fare altro che rimanere immobili, attenti solo al direttore d’orchestra. Questi erano i momenti più pericolosi dell’opera, perché si rischiava che il pubblico non seguisse bene il complicato intreccio. Ma nel Seicento, sotto il tiro di un’arma da fuoco è naturale che nessuno si muova, così il conte di Luna e i suoi uomini, colti di sorpresa da Manrico con il suo seguito, oltre alla ragione musicale, avevano un motivo più che plausibile per stare fermi durante il pirotecnico «assieme». Quando Manrico è imprigionato nell’enorme gabbia di ferro disegnata da Enrico, che calava dall’alto a chiudere per sempre il destino tragico che lo aspetta, Leonora esprime la sua disperazione. Mentre canta la sublime D’amor sull’ali rosee, Enrico fece passare un’interminabile processione di penitenti mascherati con in testa alti cappucci a punta e in mano delle candele accese. Era un’immagine forte e molto suggestiva. Toglieva il respiro. Per Enrico era la rappresentazione drammatica della Spagna controriformista:
una fila di novanta metri di penitenti che procedeva indifferente e cupa, senza badare a una povera fanciulla innamorata e infelice. Perché parlo tanto di questo spettacolo? Perché la messa in scena era molto bella e fece davvero epoca allo Sferisterio di Macerata. Enrico, come ho voluto già sottolineare, aveva una natura estremamente musicale. Vicino a lui ho imparato ad ascoltare l’opera, a capirla meglio e anche, poi, a dirigerla. Perché il fatto è che nell’opera, la prima regia la fa proprio il compositore. Che altro è, infatti, la musica se non una regia dell’azione che racconta? Il lavoro del regista d’opera deve quindi seguire le indicazioni, spesso chiarissime, scritte nella partitura. Questa struttura musicale, che in qualche modo sembra imprigionare il regista, in realtà lo mette in condizione di trovare nuove strade e nuovi effetti. Un esempio: nella famosa Traviata con Maria Callas alla Scala, Luchino Visconti fece lanciare in aria alla «divina» una pantofola. Pur avendo ambientato la storia negli anni dell’affaire Dreyfus, quel gesto rimase come la firma della regia. Certo, alle volte Luchino era feroce. Come quando riempì di scale una scenografia di non ricordo quale opera, costringendo la povera Maria, che era notoriamente molto miope, a lunghissime prove e misurazione di spazi, prima di riuscire a scendere con una certa sicurezza quelle infide scale. Luchino sapeva essere anche un po’ carogna. Con me era un amore. Quando Marcello Mastroianni stava girando con lui Lo straniero, dal romanzo di Camus, io, Enrico e Flora andammo a trovarli ad Algeri. Passammo insieme un Capodanno insolito ma piacevole. Luchino era molto ospitale e ovviamente, da gran signore, con noi fu di una cortesia unica. Andavamo a fare delle passeggiatine nei mercatini arabi che, confesso, facevano un po’ paura. C’era un tale affollamento di persone che io ed Enrico, una volta tornati a casa, ci rendemmo conto di aver fatto interi percorsi in quei suk senza mettere i piedi per terra, perché le mani ignote della folla spesso ci sollevavano, spingendoci da tutte le parti.
In giro con Luchino c’era sempre anche Helmut Berger. Su di lui allora circolavano diverse leggende. Si diceva che un albergatore austriaco l’avesse portato a Luchino, avvolto in un tappeto, come Cleopatra, in pagamento di non so quale debito insoluto. Helmut era molto carino, anche se il suo viso era quello di un angelo cattivo, bello e diabolico. Luchino spesso lo trattava malissimo, ma mai quanto Helmut trattava male lui. La «giovane marchetta» austriaca non ci andava leggera con gli insulti. Gli uscivano dalla bocca frasi estremamente ingiuriose: «Vecchia checca… brutto frocio…» e altre gentilezze del genere. Luchino ne sorrideva divertito, o per lo meno, così mostrava. Helmut era proprio una specie di piccolo diavolo. Però, innegabilmente, era molto simpatico. Bello, indecente e luciferino. In quel periodo lui passò come una ventata di follia. Si racconta che nella villa di Luchino a Ischia, la famosa Colombaia, si organizzassero feste en travestì in cui Helmut si divertiva a fare Marlene Dietrich. Questi suoi sogni trovarono poi una propria dimensione, ispirando la depravazione delle scene iniziali di un grande film, La caduta degli dei, in cui Luchino raccontò il decadimento morale e di costume nella Berlino nazista degli anni Trenta. Il «prete rosso» e le Zitelle L’Encyclopédie Audiovisuelle era un’iniziativa francese dei primi anni Novanta che intendeva coinvolgere tutto il mondo. Erano stati chiamati gli autori più rappresentativi di ogni paese affinché realizzassero ciascuno un documentario su un compositore della propria cultura. La serie si intitolava Ils ont changé le monde. Inizialmente, gli organizzatori si erano rivolti a Fellini, il quale, preso da troppi impegni, consigliò di proporlo a me. Fui molto orgogliosa che Federico avesse pensato proprio a me. Trovandomi davanti il mare magnum della grande tradizione italiana, che annovera tantissimi grandi musicisti, scelsi, ma non ricordo neppure il perché, Antonio Vivaldi, il «prete rosso». Mi interessava molto la sua vita e c’era un dato che mi aveva parecchio ispirato: la ricchissima pittura veneta del
Settecento, che mi avrebbe permesso di raccontare bene l’epoca in cui era vissuto Vivaldi. È incredibile, in quel secolo i pittori avevano dipinto ogni avvenimento della storia di Venezia. La ragione è che i turisti stranieri che si innamoravano della citta, volevano portare in patria un ricordo. Così nacque l’abitudine dei dipinti cartolina, che in mancanza della fotografia hanno permesso di tramandare preziose testimonianze visive della Venezia settecentesca. Basta pensare al grande Canaletto e all’industria di quadri che aveva messo su con la sua famiglia: si trattava, in realtà, di cartoline ricordo. Vivaldi aveva un elemento caratteriale che mi affascinava: la sua ansia. Mi dava l’impressione che si sentisse sempre inseguito, di dover far presto a realizzare la sua musica, prima che il suo tempo finisse. Un’ansia che si respira in ogni sua composizione e nel virtuosismo sfrenato che lo caratterizzò. Era stato chiamato a insegnare alle «Zitelle», l’orfanotrofio di Venezia. Fu lì che Vivaldi ebbe la possibilità di mettere insieme le sue prime straordinarie orchestre. La testimonianza del grande viaggiatore francese Charles de Brosses ci racconta infatti di questi meravigliosi concerti che venivano ad ascoltare da tutta Europa. La cosa più struggente della sua storia fu che, quando il vescovo suo nemico gli rese impossibile la vita a Venezia, Vivaldi si diresse dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo che lo aveva sempre ammirato e protetto. Solo e disperato, intraprese un viaggio alla volta di Vienna, ma l’imperatore, prima che lui giungesse, morì. Senza denaro e senza protezione, finì in casa di una vedova dove si spense. Strano il destino di questo genio della musica. Come accadde per Mozart, il suo corpo fu gettato in una fossa comune e non si poté mai recuperare. Nel documentario, presentato per la prima volta alla Biennale di Venezia nel 1992, identificai l’immagine di Vivaldi con quella di un gatto rosso che si aggirava irrequieto per le calli di Venezia. Usai un bravissimo attore veneziano che, vestito da prete, proprio in omaggio a Vivaldi, raccontava la storia della sua vita. Avevo anche due importanti
testimonianze di musicologi: Antonio Fanna, direttore dell’istituto Vivaldi di Venezia, e Michael Talbot, professore dell’Università di Liverpool, uno dei maggiori esperti al mondo della musica del nostro «prete rosso».
Rodolfo, Mimì e i fagioli di Puccini
Era un po’ di tempo che non lavoravo in teatro. Avevo fatto la Carmen al San Carlo, ma non mi ero più dedicata a scrivere una commedia dai tempi di Amore e magia nella cucina di mamma, alla fine degli anni Settanta. Il set mi teneva impegnata per la maggior parte del tempo e negli ultimi dieciquindici anni mi ero lasciata travolgere dal cinematografo, trascurando, forse con un leggero senso di colpa, il mio amato teatro. Nel 1995, dopo una serie di film, realizzati uno appresso all’altro, decisi dunque di mettermi a scrivere una nuova commedia: L’esibizionista. L’idea della storia mi girava in testa da qualche tempo e, visto che non avevo un soggetto cinematografico pronto da proporre a un produttore, mi dedicai con gioia alla stesura della pièce. Si trattava di una storia capitata a una mia amica. Entrando nel portone di casa, si era resa conto che qualcuno la stava seguendo, si era voltata per guardare in faccia il suo inseguitore, e quello aveva spalancato l’impermeabile mostrando le «vergogne». Lei, dopo un urlo, era fuggita. Confesso che, di quella vicenda, ciò che mi aveva interessato di più era lui, l’inseguitore. Perché è evidente che, per avere bisogno di questo tipo di eccitazione, che nasce dalla paura suscitata in un’altra persona, l’uomo doveva essere molto disturbato. Il suo strano complesso si scatenava, per l’appunto, all’urlo della vittima. Nello scrivere la commedia, pensai a questo tipo di atmosfere e di situazione: un parco cittadino, è sera, una donna di circa cinquant’anni cammina svelta senza guardarsi intorno. È una zitella, molto severa, ha i capelli tirati sulla fronte e indossa un rigido tailleur di taglio maschile. È di ritorno dalla chiesa vicina. D’un tratto le si para davanti un uomo che
spalanca l’impermeabile in un’esibizione sconvolgente. La donna grida inorridita e scappa. Apparentemente l’esibizione dell’uomo non ha altre conseguenze. Ne ha molte, invece, nella testa della donna, che non può dimenticare quello che ha visto e che vuole a tutti i costi rivedere. Così la donna comincia il suo appostamento alla ricerca del mostro. Finalmente, nello stesso parco del loro incontro, sorprende l’uomo a esibirsi di fronte a una signora molto in carne. Da quel momento non lascia più la preda. In breve tempo riesce a sapere tutto di lui: dove abita, con chi e che lavoro fa. È un modesto impiegato di banca, non è sposato, vive con la madre. Il poveretto, nel parco, si era accorto di essere a sua volta pedinato e, smontato nel suo raptus sessuale, aveva richiuso l’impermeabile andando via deluso. Mai però si sarebbe aspettato che la sua pedinatrice, pochi giorni dopo, gli si presentasse addirittura alla porta di casa. Quando sente suonare il campanello, la vecchia madre, dall’altra stanza, vuole sapere chi sia. «I testimoni di Geova» risponde lui. La madre è la probabile causa involontaria del suo vizio. L’uomo ne ha un vero terrore. Il nostro esibizionista si libera della zitella, anche se, prima di andare via, lei gli sussurra: «Voglio venire con lei quando fa quelle cose». L’uomo corre allora da uno psicanalista, ma anche in quest’occasione si presenta un nuovo problema, quello della propria avarizia: il dottore, per «curarlo», vuole essere pagato. Ma neppure dallo psicanalista l’uomo può stare tranquillo: fra l’altro non fa in tempo a entrare nello studio che la zitella è già lì ad attenderlo per ribadire le proprie intenzioni: vuole assistere alle sue aperture di impermeabile. Lo psicanalista non sarebbe contrario a questa richiesta, mentre lo sciagurato vede invece distrutto per sempre il suo mondo d’amore. Parlai di quest’idea a Luca De Filippo. Il progetto gli piacque molto e allora chiamai accanto a lui Athina Cenci e Mario Scarpetta, nel ruolo dello psicanalista. Nella parte della madre scelsi un’attrice bravissima, Giuliana Calandra. Scrivendo il copione, non mi ero posta i limiti della messinscena teatrale,
lasciandomi andare a una libertà più consona al cinema. Cambi di luoghi e di tempi che nascevano spesso dalla stessa mente del povero esibizionista. Il problema riguardava quindi la scenografia. Enrico aveva risolto tutto in un’unica scena fissa che lui descrisse talmente bene che voglio riportare le sue note: Il centro di tutto è la testa di lui, il suo animo, di cui si avevano notizie più intime quando andava dallo psicanalista a stendersi sul lettino freudiano, che realizzai poi di pelle nera capitonné, proprio come quello di casa Freud a Vienna. A terra, come un fumetto emanato dalla testa, un grande triangolo praticabile di legno chiaro la cui punta indicava il bracciolo o poggiatesta del lettino. Dall’altra parte dove il triangolo si allargava, si ergevano due alte pareti di ferro, a loro volta congiunte a punta, come un gigantesco cuneo, che era un’altra freccia in direzione di quella testa. All’occorrenza, questo cuneo si apriva a libro, come l’impermeabile del protagonista e ne usciva la madre. Era un agglomerato di mobili e oggetti, uno sopra all’altro, armadi, casse, scansie di piatti, ninnoli, water e lavandino che componevano un minuscolo cessetto, librerie, tavolini da lavoro, comò e porta di casa, il tutto montato su un carrello pure a triangolo, sul quale, in alto, sopra tutti quei mobili, come su un basamento monumentale, sedeva su una poltrona la madre in carne e ossa, la dolce condizionatrice, troppo affettuosa, del figlio. Tutt’intorno a questa emanazione plastica dalla testa dell’esibizionista, il nero assoluto, che di quando in quando, però, con le luci, rivelava le cupe sagome scheletriche degli alberi di un parco cittadino. L’esterno era dunque fuori dal praticabile ed era la libertà dell’appostamento, la libertà dell’emozionante attimo dell’apertura dell’impermeabile.
A farmi da aiuto regista venne Carolina Rosi, la figlia di Francesco. Fu lì che lei e Luca si conobbero. Fra loro nacque un sentimento forte. Ricordo un periodo, una volta finito lo spettacolo, in cui sia Luca che Carolina, separatamente, venivano da me a sfogarsi e a piangere perché sembravano non voler cedere a Cupido. Alla fine, dopo inutili tentativi di resistenza – Luca aveva già avuto tre figli da altre due mogli –,
come succede nei casi migliori della vita l’amore trionfò. Luca e Carolina sono da molti anni una coppia felice. Subito dopo L’esibizionista, scrissi un’altra pièce per il teatro: Gianni, Ginetta e gli altri. Un piccolo musical. Una storia di alcuni giovani impiegati nel cinema. Il protagonista, Gianni, di professione aiuto regista, durante le feste di Natale ha fatto un grave sgarbo alla sua ragazza, Ginetta: malgrado l’imminente festività che di solito si trascorre in famiglia, si è infatti lanciato in un’avventura con un’attricetta americana. Il destino furbo e baro ha fatto sì che lei sia però venuta a scoprire il tradimento. Di conseguenza, decide di vendicarsi secondo l’antico proverbio «occhio per occhio…». Durante le feste, Ginetta mette in atto il suo piano con i tre migliori amici del suo innamorato. Conclusione: quando Ginetta scoprirà di essere incinta, il problema diventa gigantesco. Chi è il padre? La verità è che la ragazza si trova molto bene in questa posizione di paternità «aperta». Si rende conto che è molto piacevole avere quattro possibili papà a disposizione, invece di uno. Dall’altra parte, ognuno dei ragazzi, con Gianni in testa, vorrebbe essere il genitore. Il padre di Ginetta, chiamato a risolvere la complicata situazione, si rende conto che è impossibile, poiché la figlia intende mantenere la sua posizione vagamente puttanesca. Adora quei quattro padri e non li vuole perdere. Una deliziosa Amanda Sandrelli, figlia di due grandi artisti, Stefania Sandrelli e Gino Paoli, fu la protagonista della commedia, insieme a mio nipote Massimo, il quale, in verità, cercava di evitare di lavorare con me, proprio per quel sospetto di «nepotismo» che riuniva i nostri due cognomi. Lo spettacolo fece un record d’incassi, si replicò per due anni e vinse il «Biglietto d’oro». In Grecia, con «La Bohème» Nel 1997 l’Opera di Atene mi propose di realizzare La Bohème di Puccini. Io ed Enrico ci dedicammo con piacere alla messinscena. Come ho già avuto modo di dire in questa autobiografia, di noi due era Enrico il vero melomane. Vedere i suoi spettacoli – era spesso il regista oltre che l’ideatore di
scene e costumi –, mi aveva fatto capire quante chiavi interpretative originali si potessero trovare, pur senza tradire l’autore. Per riuscire bene in questo, è però necessario uno studio approfondito del compositore e, naturalmente, dell’opera. Così, tra le varie letture a cui mi dedicai, ci furono le lettere di Puccini alla madre. In quella fine di secolo (l’opera è del 1896), Puccini divideva con Mascagni e altri giovani artisti le meraviglie e gli entusiasmi della giovinezza. Studente al conservatorio, viveva senza una lira in un gelido appartamentino, una soffitta. I suoi amici erano tutti aspiranti pittori, musicisti, poeti, bohémièn appunto. Bohème significa vita zingara, fuori dalle regole, dalle convenzioni borghesi. Credo che La Bohème sia tanto grande proprio perché si percepisce quanto Puccini sentisse come propri i problemi di quella vita disordinata, colorata e, malgrado le sue miserie, allegra. Il freddo, la fame, i soldi per il teatro, il sogno di scrivere poesie. «Maledetta miseria!» scriveva alla madre Albina. Poiché la miseria aguzza l’ingegno, in quella povera vita c’era anche l’allegria delle mille furberie, degli imbrogli per portare a casa un pezzo di legno in modo da accendere la stufa. Fra i tanti aneddoti pucciniani di quel tempo, c’è la storia di un cappotto venduto per un omaggio d’amore a una graziosa ballerina della Scala. E a noi viene subito il sospetto che la «signorina» abbia un certo alone che ricorda Mimì. Puccini era uno studente serio e un bravo figlio, così, malgrado i pochi mezzi, spesso scriveva alla madre dettagli «mangerecci», per rassicurarla che non digiunava: Alle cinque vado al pasto frugale (ma molto frugale!) e mangio un minestrone alla milanese che trovo in verità assai buono. Ne mangio tre scodelle… Accendo un sigaro, vado a fare una passeggiata in Galleria in su e in giù. Fino alle nove, e torno a casa stanco morto. Arrivato a casa faccio un po’ di contrappunto. Non suono perché la notte non si può suonare. Mi infilo a letto e leggo alcune pagine di un buon romanzo. Questa è la mia vita. Avrei bisogno di una cosa, ma ho paura di dirgliela, ma capisco anche io. Lei non può spendere. Ma stia a sentire, è roba da poco. Siccome ho una gran voglia di fagioli (anzi un giorno me li fecero,
ma non li potei mangiare a ragione dell’olio, che qui è di sesamo o di lino!) dunque avrei bisogno di un po’ d’olio, ma di quello nuovo. La pregherei di mandarmene un poco.
Probabilmente quando Puccini lesse Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger, si rese conto che la storia di quegli studenti e di quelle midinettes gli apparteneva profondamente. Forse per questo Mimì, il fiore che sbocciò da quel sentimento, rimane uno dei suoi personaggi più delicati e struggenti. È salita nella gloria teatrale accanto alla focosa Carmen e alla parigina Violetta. Il 1° febbraio 1896 ci fu la prima rappresentazione, diretta da un giovane Arturo Toscanini. Grande successo di pubblico, pessima reazione della critica. Nei corridoi dei teatri si sentiva sussurrare: «Povero Puccini, l’ha fatto grosso lo sbaglio! Quest’opera non durerà a lungo…». È bello rileggere le critiche e i pareri a distanza di più di cento anni. Quest’opera così denigrata è la più rappresentata al mondo, insieme a Carmen, La Traviata e Madama Butterfly. Il segreto di tanto successo nasce probabilmente dalla grande autenticità dell’ispirazione. La piccola fioraia minata dalla tisi fece risuonare nel cuore di Puccini la nostalgia per la sua giovinezza. Perché Mimì è proprio la sintesi della giovinezza. Lei, i suoi sogni, il suo amore per l’amore, la sua fame di vita. In qualche modo, dentro di me, tendevo a rifiutare l’immagine grigia e freddolosa di tante versioni di Bohème che avevo visto. La giovane protagonista appariva fin da subito come una fidanzata della morte. La presentavano così condannata al suo destino da suscitare erotismo solo in un necrofilo. La verità è che io sospettavo nello studente Rodolfo allegria, sensualità, amore per le donne. È sano, forte, allegro e appassionato, affamato di vita. Il suo sangue è ardente, il suo corpo pervaso da una giovanile sensualità, e «dai cieli bigi, vedo fumar dai mille comignoli Parigi». La Parigi che si intravede dalla soffitta di Rodolfo è proprio lei, la Ville Lumière, e Parigi, anche con i mutandoni lunghi e le scollature castigate che le impone un Ottocento borghese,
terroristico, ipocrita e puritano, è pur sempre Parigi. Inoltre, come scriveva Luigi Illica a Giulio Ricordi: «L’essenza del libro di Murger è appunto in quella grande libertà in amore (suprema caratteristica della bohème) con la quale agiscono tutti i personaggi». E gli studenti, gli artisti, le sartine che popolano la città ballano allegramente fra l’apollineo e il dionisiaco. Mimì è vergine? Rodolfo pensa forse che un ragazzo innamorato debba conservare la purezza della sua fidanzata per un matrimonio borghese? No. Non si sta parlando di matrimonio, si parla d’amore. Mimì è giovinezza, amore, voglia di vivere. Ed è il colore dei suoi fiori. La Mimì della tradizione è sempre stata presentata in un’altra chiave, ma quella sua modestia, quella sua timidezza, quel suo mostrare perfino troppo la fragilità, la tristezza, la malinconia, ha sempre tradito il centro vitale del personaggio e i suoi significati. Sono proprio la sua allegria, la sua passione per la vita, i suoi coloratissimi sogni che la rendono così struggente. Perché Mimì, è malata, deve morire. Ma vuole vivere. Questo è il nodo centrale del rapporto poetico di Puccini con la sua giovinezza perduta. Mimì non sa che deve morire finché non lo sente dire dalle amate labbra del disperato Rodolfo. Solo allora comincia a percepire l’ombra della nera signora che vuole portarsela via. E da quel momento, fino alla fine lei cercherà tra le braccia del suo amore di prolungare la sua esistenza, di lasciar scorrere il fiume ardente della sua linfa sensuale ardendo di un fuoco luminoso che la rende viva e felice. Com’era in un verso del quarto quadro (successivamente tagliato), che lasciava trasparire tra le nebbie del perbenismo la carnalità e la sensualità febbricitante di Mimì: «Sono tanto felice, baciami tutta». Lei, fra le braccia di Rodolfo, fino alla fine cercherà questo. Mimì, come i suoi fiori, è quasi sempre l’espressione di un mondo di sogni colorati, d’allegria e d’amore. Non una modesta, grigia, e in qualche modo squallida, malatina. Mimì non vuole pietà, vuole amore. È in quella intuizione quasi necrofila – «che viso da ammalata» – che nel poeta Rodolfo
scatta l’amore per la caducità della bellezza. «Ci lasceremo alla stagion dei fiori» cantano Rodolfo e Mimì, allontanandosi sulla neve. Era proprio bella l’edizione che realizzammo ad Atene. Enrico con le sue scenografie ha contribuito in maniera fondamentale al raggiungimento di quella particolare interpretazione. Mi aveva sempre detto che il forte verismo di quest’opera lo intimoriva. Enrico era abituato a trovare sempre un’idea concettuale per la scenografia e reputava quasi impossibile risolvere in un’unica immagine visiva il capolavoro di Puccini. Invece stupì tutti ancora una volta. Immaginò una scena come se l’avessero realizzata dei ragazzi, con fondali dipinti che si flettono verso l’alto. I personaggi agiscono su queste tele colorate, trasmettendo benissimo l’allegria e la freschezza della gioventù. Riporto una recensione dello spettacolo, apparsa su «Il Giornale»: Lina Wertmüller attingendo alla sua grande vitalità ha impresso all’allestimento una regia giovane, giocando sui contrasti del dramma di Puccini trasformando i cantanti, sapientemente guidati da Olmi, in attori eccellenti. Raramente ci è dato di vedere uno spettacolo così gradevole e fantasioso, intelligente, omogeneo e rispettoso del testo. … Un allestimento postimpressionista con scene molto colorate e fondali dipinti dallo stesso Enrico Job che accarezzano il palcoscenico e si flettono dolcemente verso l’alto. Splendido il suggestivo trompe l’oeil con quadri di nudi femminili, tendaggi e tappeti. Al centro solo una stufa di ghisa, un divano letto di ferro e alcune sedie, con tanti cuscini di tessuti scelti con gusto raffinatissimo nel primo e nell’ultimo atto a descrivere un’atmosfera bohémienne ma giovane, fresca e gioiosa, «che contrasti con il dramma di Mimì, la sublimazione del suo amore e di quello di Rodolfo per lei, che esclude per sempre la felicità della gioventù» ha dichiarato Job.
Miluzza e Rossella
Sin dai tempi lontani di Spaccanapoli, Gesù fate luce e Le formicole rosse ero una lettrice appassionata dei romanzi di Domenico Rea. Dopo molti anni di carriera e dopo essersi imposto nel panorama letterario italiano come uno degli autori più interessanti, Don Mimì, così lo chiamavamo noi amici, vinse il Premio Strega per un’opera che mi affascinò subito, Ninfa plebea. Nelle sue pagine, Mimì restituisce l’odore, gli umori e il sangue della sua terra. Nofi, la cittadina immaginaria protagonista del libro, racchiude tutto l’entroterra sorrentino e salernitano della sua giovinezza. Il mondo che Rea ci racconta è rimasto fermo a quel tempo, prima e dopo la guerra. Così come caldo e antico è il respiro del racconto, intriso di eros e poesia. Ninfa plebea intreccia intorno a Miluzza, bambina curiosa, vitale e sensuale che sta uscendo dall’infanzia, tutte le morbosità terrigne, paesane e sporcaccione di quel mondo pigro che Don Mimì conosceva così bene. Un susseguirsi di figure indimenticabili arricchisce la storia. Nunziata, la madre, facile a innamorarsi, dolce e allegra, e Gioacchino, il padre sarto, struggente, impotente, innamorato, deciso comunque a sostenere la dignità della famiglia. Il mondo militare della caserma, con sottoufficiali e ufficiali e, tutto intorno, il paese. È in questo paesaggio magnificamente descritto da Rea, dove si alternano tragedie e passioni, morti e sogni, peccati e piaceri nascosti, che si trascinano i giorni della piccola ninfa plebea. L’affresco che ne esce fuori è quello degli anni della guerra in uno degli angoli dell’Italia meridionale dove i microcosmi, che sembrano immobili nel tempo, vivono le loro contraddizioni, appena sfiorati da una tragedia bellica della quale capiscono poco. Tra poesia e «purcaria»
Nella luce calda del Meridione, il giallo, l’ocra e il nero della sensualità africana, delle controre sudaticce, delle frescure silenziose e buie, raccontano gli sguardi e le complicità che circolano intorno alla bella adolescenza, candida e sensuale, di Miluzza. La sua purezza, contro la meschina e ipocrita porcheria degli altri, fa del romanzo un omaggio a quelle creature che si aprono alla vita, al calore delle terre del Sud, e che la natura sospinge alla carnalità. Miluzza diviene ingenuamente vittima di questa carnalità e ne è quasi perduta, finché l’ala generosa di Eros, calato nelle vesti di un soldato fuggiasco, la salva dal fango dove stavano facendola affondare. In qualche modo, la storia di Miluzza ha il vento del mito che solleva la polvere del paesano realismo fino a portarla alla statura di una vera eroina, dolorante e trepida. Passai tutta l’estate in giro per l’Italia a cercare la mia protagonista. Feci provini a quasi cinquemila adolescenti tra i tredici e i sedici anni. Alla fine, in una località vicino a Napoli chiamata Monte di Procida, trovai la mia Miluzza. Si chiama Lucia Cara. Non aveva mai fatto cinema in vita sua, per cui non si trattava solo di un debutto sul grande schermo ma di una vera e propria scoperta. Nel romanzo, Miluzza è una bellezza infantile e innocente. Possiede tuttavia una sensualità animale. Bisogna sempre ricordare che il romanzo di Rea si svolge in un paese immaginario del Napoletano, intorno al 1943, quando i bambini più poveri erano soliti girare nudi per le strade. La loro educazione sentimentale e sessuale avveniva con naturalezza, allegria e purezza, senza morbosità. La ragazza che mi serviva doveva quindi possedere, oltre a bellezza e candore, una forte carnalità. Lucia, in qualche maniera, racchiudeva in sé proprio queste caratteristiche. Avevo conosciuto bene Don Mimì. Ricordo le nostre chiacchierate quando parlavamo dell’adattamento che avrei fatto del suo libro. Si fidava di me. Purtroppo ci lasciò prima che il film fosse finito. Alla prima del film, la moglie mi venne incontro con gli occhi umidi e mi disse una frase che porto nel cuore: «A Mimì sarebbe piaciuto».
Io, comunque, ho cercato di raccontare le parti più scabrose del romanzo senza scivolare nella volgarità, né annacquando la storia in nome di una morale borghese e provinciale che avrebbe certamente alterato lo spirito del racconto. Circolava, in questa «storia paesana», un’aria di mito. O, almeno, a me così sembrava. Come se quei paesi bianchi, calcinati di sole, avessero ancora, vivo, un legame profondo con la loro radice antica di Magna Grecia. Don Mimì era uno strano personaggio. Ottimo scrittorepoeta, con un lampo da satiro negli occhi e una paziente moglie a fianco. Innegabilmente, era quello che noi oggi definiremmo uno «sporcaccione». Adorava dire battutacce licenziose, porcherie provocatorie, insomma, scandalizzare. Facemmo subito amicizia, perché lui capì dal primo istante che con me c’era poco da scandalizzare. Mi elesse sua complice, affidandomi – sì, certo, anche per denaro, ma soprattutto per simpatia – il cuore caldo e tenero di quella Miluzza, piccola ninfa plebea. C’era una particolare atmosfera nel connubio, dietro gli occhi ammiccanti di Don Mimì, tra poesia e «purcaria». Era così l’animo di quel poeta. Lucia Cara fu bravissima anche se non aveva mai recitato prima, né più recitò dopo. Era davvero un fiorellino, di quelli che nascono sulle rocce delle mitiche isole del Golfo di Napoli. Fiorellino candido, all’apparenza fragile, ma in realtà fortissimo. Talvolta penso ai singolari destini di quegli attori presi dalla strada che, di colpo, si ritrovano protagonisti di un film. Sotto i riflettori, seguendo un copione, guidati da un regista, accecati dai flash dei giornalisti, vivono questo periodo anomalo fatto di luci e di clamori come un’esperienza che presto si spegne ed esce dalla loro vita, spesso per sempre. Io non so cosa faccia adesso Lucia. Sono però convinta che porti avanti un’esistenza tranquilla. Mi ha sempre dato prova di una grande maturità durante le riprese. Era una persona strutturata, con i piedi saggiamente ancorati a terra. Da quell’avventura credo abbia riportato soprattutto il senso di un’esperienza insolita che, per poco tempo, le ha cambiato la vita.
Insieme a lei avevo un cast di bravissimi attori: Stefania Sandrelli nel ruolo della madre ancora focosa che tradisce il marito impotente, Ennio Coltorti, con un soldato bello e aitante, che feci interpretare a Lorenzo Crespi; Raoul Bova è Pietro, il principe azzurro che viene a «salvare» la protagonista. Girammo il film nella mia amata Puglia, a Spinazzola, dove Enrico trovò un paesaggio simile a quello campano. Con Ninfa plebea tornai con gioia a lavorare con vecchi amici: Ennio Guarnieri, che era stato il magnifico direttore della fotografia in Travolti da un insolito destino, ed Ennio Morricone, che scrisse le musiche. Insieme a Coltorti, il terzetto degli «Ennio» era davvero niente male! Stefania Sandrelli è un’attrice speciale. Oltre a essere da sempre bravissima, non solo bellissima, ha una capacità particolare: direi, usando una parola insolita, che lei è «liliale». Non so bene cosa significa ma per me questa definizione è sempre legata all’idea del giglio, del candore, della purezza. Stefania ha insomma la capacità di volare alto sopra qualunque palude. Lei potrebbe interpretare qualsiasi cosa e ne uscirebbe sempre così aggraziata… Voglio dire che non rischia mai, neppure lontanamente, una vaga nota di volgarità. Da molti anni le è compagno Giovanni Soldati, figlio di Mario, uno dei più bravi registi dell’epoca d’oro del nostro cinema. Come ho già fatto più volte in questo libro, voglio adesso rendere omaggio a Stefania, elencando tutti i registi con cui ha lavorato. Chi non fosse interessato può passare direttamente al paragrafo successivo: Luciano Salce, Mario Sequi, Pietro Germi, Mario Missiroli, Jean-Pierre Mocky, Duccio Tessari, Jean-Pierre Melville, Antonio Pietrangeli, Jean Becker, Bernardo Bertolucci, Carlo Lizzani, Mario Monicelli, Sergio Sollima, Luigi Comencini, Ettore Scola, Alain Corneau, Nadine Trintignant, Claude Chabrol, Mauro Bolognini, Sofia Scandurra, Sergio Corbucci, Carlo Vanzina, Tinto Brass, Luciano Odorisio, Steno, Giovanni Soldati, Giuseppe Bertolucci, Luigi Magni, Giuliano Montaldo, Francesca Archibugi, Roberto Benigni, Franco Brusati, Livia
Giampalmo, Margarethe Von Trotta, Peter Del Monte, Duccio Camerini, Bigas Luna, Giovanni Veronesi, Claudio Fragasso, Cinzia Th Torrini, Pino Quartullo, Cristina Comencini, Lluís Josep Camerón, Daniel Burman, Gabriele Muccino, Stefano Incerti, Manoel de Oliveira, Ferzan Ozpetek, Paolo Virzì, Carlo Mazzacurati, Luca Lucini, Ricky Tognazzi… E non sono che una parte dei registi che l’hanno diretta. Credo che sia in assoluto l’attrice che ha lavorato con più registi al mondo. Giustamente, perché con quel suo sorriso e quella sua grazia è sempre un piacere girare film con lei. Avendo appena parlato di una splendida attrice, voglio fare ora una breve parentesi per parlare dei belli del cinema. Tutti i paesi ne hanno alcuni particolarmente rappresentativi. Tralasciamo l’America i cui Gary Cooper, Tyrone Power e Gregory Peck, per limitarsi solo ad alcuni, avevano fatto impazzire le platee femminili del mondo. Come non citare per la Francia Alain Delon; per l’Italia Rodolfo Valentino e Marcello Mastroianni. In Spagna, tutta l’ondata dei latin lover, dalle cui radici fioriscono Antonio Banderas, Benicio del Toro, Javier Bardem. Probabilmente queste righe saranno tagliate dai miei editor. Che cavolo c’entrano questi affascinanti attori nella mia biografia? Ma scherziamo! Con chi si sogna al cinema? Da chi sono popolati i sogni delle ragazze, e talvolta anche dei ragazzi, se non da quei simboli della bellezza maschile che sono i divi del cinema? Del resto, per quanti secoli i grandi eroi, da Ulisse a Tristano, da Amleto a Bel-Ami, pur senza avere un’immagine precisa che li rappresentasse, hanno riempito le fantasie delle fanciulle. Ognuna poteva dare ai propri eroi le fattezze della persona più amata. Poi, di colpo, esplodono le immagini. Fotografia e cinema riempiono il mondo con i loro eroi, affollando i sogni femminili di bei volti maschili. Richard Wagner e la cassa integrazione Con il film che realizzai nel 1996 dopo Ninfa plebea, tornai ai miei «temi» preferiti: il sesso e la politica. Quelli che il
critico newyorchese John Simon definì il tratto distintivo dei miei film. Questa volta, però, li dichiarai già nel titolo, tanto per essere chiari e non lasciare dubbi: Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica. Si tratta di una satira politica dal tono grottesco, un genere poco frequentato. La «coppia» protagonista è formata da Tullio Solenghi, nei panni di Tunin, meccanico della Ferrari che finisce in cassa integrazione, e Veronica Pivetti, che interpreta Rossella, la parrucchiera leghista tifosa di Umberto Bossi. Tullio, del famoso trio Solenghi-Lopez-Marchesini, è un attore ironico che viene dal Teatro Stabile di Genova. Cresciuto sotto l’ala della grande Lina Volonghi, meriterebbe uno spazio maggiore nel cielo della nostra commedia. Quanto a Veronica, un’attrice di forte personalità e con un suo particolare sex appeal, mi è particolarmente cara. In realtà, io ho un’attrazione fatale per le milanesi. Le trovo sempre molto spiritose, pungenti, ironiche e divertenti. Milano ha dato vita a una grande quantità di attrici brillanti fin da tempi lontanissimi, come le indimenticabili Dina Galli e Franca Valeri, fino, naturalmente, a Mariangela Melato. Nel cast c’erano anche la mia adorata Piera Degli Esposti e Gene Gnocchi, un «carattere» bravissimo. Ho sempre pensato a Gene come al Walter Matthau italiano. Peccato che non faccia molto cinema, visto che ormai si dedica soprattutto alla televisione. Nel film c’è anche un cameo di Domenico De Masi, il mio amico sociologo. I protagonisti, rientrati a casa dopo essere stati messi in cassa integrazione, accendono la televisione e si trovano la bella barba bianca di Mimmo che spiega la sua famosa teoria dell’«ozio creativo». Teoria che in Brasile lo ha reso così famoso. Se si presentasse alle elezioni presidenziali brasiliane lo eleggerebbero, sicuramente. Mimmo ha la capacità di spiegare cose difficilissime con parole semplici, comprensibili a tutti. È anche un grande affabulatore e ama la musica. Non a caso, qualche anno più tardi mi coinvolse nella direzione artistica del Ravello Festival. Prima del suo arrivo si trattava di una manifestazione
estiva nota come Festival Wagneriano. Con lui, invece, il festival si è esteso a tutte le arti. Non solo musica, ma anche danza, cinema, letteratura, pittura, scultura… A proposito di Wagner, gli ho reso omaggio in maniera ironica proprio in Metalmeccanico e parrucchiera. I miei protagonisti vanno a vedere un’opera all’Arena di Verona, il Tannhäuser, e implacabilmente cadono in quella specie di incantesimo letargico, quando le bellissime ma lunghissime pagine musicali di Wagner si trasformano in dolci ninne nanne. Ravello è un piccolo paese sui colli della Costiera amalfitana. È stato sempre molto famoso, perché i gentiluomini che vivevano sul mare, ad Amalfi, Sorrento e nelle repubbliche marinare, con il caldo dell’estate amavano andare in villeggiatura in montagna, al contrario di noi che andiamo al mare. Per questo Ravello si era arricchita di ville con stupendi giardini, le più belle costruite dagli inglesi. Per tutto l’Ottocento e l’inizio del Novecento, il clima dell’Italia meridionale era considerato salubre per i malati di tubercolosi, e questi luoghi, sulla rotta del Grand Tour, erano di grande attrazione. Chi l’avrebbe mai detto che avremmo dovuto ringraziare un tedesco come Goethe per l’incremento turistico che procurò al nostro paese, con il suo famoso Viaggio in Italia? Grazie Wolfgang. Certo doveva essere una delizia, allora, quella piccola Italia dei paesi. Con i caldi sorrisi degli italiani, le chitarre che di notte fanno le serenate. Persino Anna Karenina col suo amato Vronskij venne qui a vivere il suo sogno d’amore. A Ravello, dunque, la lista dei visitatori fu di prim’ordine, e i grandi viaggiatori, tornando in patria, raccontavano di quel piccolo paradiso che sembrava nato per l’amore. Richard Wagner trasse ispirazione dal magnifico parco di Villa Rufolo, traboccante di fiori e profumi, per il giardino di Klingsor nel Parsifal. I grandi intellettuali del circolo londinese di Bloomsbury lo elessero come luogo ideale per incontri di cultura e d’amore. D.H. Lawrence scrisse a Villa Cimbrone la
seconda stesura dell’Amante di Lady Chatterley, e il suo guardiacaccia era sicuramente un abitante del luogo. E fu sempre Villa Cimbrone il paradiso scelto dalla divina Greta Garbo per una fuga sentimentale con il musicista Leopold Stokowsky. Ritornando ai giorni nostri, Mimmo De Masi ha coinvolto tanti artisti e intellettuali, fra i quali anche me, per celebrare la fama e la bellezza di quell’angolo incantevole della Costiera amalfitana. Oltre a scegliere i film per la rassegna, il mio grande divertimento, anche se molto faticoso, era quello di organizzare ogni estate una caccia al tesoro che coinvolgeva l’intero paese.
Ferdinando e Carolina
Che ricco giardino è la storia europea del Settecento e dell’Ottocento. Regni, imperi, rivoluzioni, guerre, re e regine, principesse si sono alternati sul balcone della Storia, presentando ognuno la propria faccia del potere. Non riflettiamo mai abbastanza su cosa fosse, allora, una guerra. Basta pensare al fatto che gli eserciti si muovevano a piedi. Quando veniva proclamata, per esempio tra Francia e Spagna, si doveva ipotizzare un’immensa marcia di uomini verso i reciproci confini, per giungere al campo di battaglia. Spesso arrivavano stremati, ma la loro stanchezza veniva superata con l’abbondanza di cibo, cosa che in quei tempi non era di poco conto. Inoltre avevano il permesso di razzia. In tutti i territori per cui passavano, avevano licenza di saccheggiare, rubare e depredare. La povera gente non sapeva mai qual era il più pericoloso dei nemici da cui bisognava difendersi, se i propri eserciti predatori o quelli dei nemici conquistatori. Quindi era un gran scavare cantine per nascondere beni, ricchezze e spesso anche fanciulle e fanciulli, aspettando che l’ondata militare si ritraesse. La politica, a quei tempi, era fatta anche e soprattutto dai matrimoni reali. Una brava regina doveva procreare molto anche per realizzare i suoi sogni di potere, piazzando qua e là i propri figli, e soprattutto le proprie figlie, nello scacchiere degli imperi. Maria Teresa d’Austria non fu da meno. Una delle più potenti sovrane in Europa di quei tempi, aveva messo al mondo sedici figli. Dobbiamo quindi presumere che abbia diviso il governo e la firma delle sue leggi e suoi decreti con le nausee e i malori di tante gravidanze. Re, arciduchi, granduchesse e perfino due regine nascono dal fecondo ventre di Maria Teresa: Maria Carolina, divenuta regina di Napoli e del Regno delle due Sicilie, e Maria Antonietta, l’ultima regina
di Francia prima della Rivoluzione francese, finita, povera creatura, sulla ghigliottina. La principessina fu molto chiacchierata come quasi tutte le regine, le voci popolari e quindi già rivoluzionarie l’avevano battezzata di coscia allegra. Certo è un personaggio che ha ispirato molti romanzi e molti film. Il più famoso è stato l’«unforgettable» Marie Antoinette del 1938, con Norma Shearer e Tyrone Power. Per quel film non badarono a spese. Non avendo l’autorizzazione per girare alla reggia di Versailles, i produttori della Mgm ricostruirono tutte le scenografie negli studios, portando il budget della produzione a cifre vertiginose per l’epoca. Per tornare a noi, mi ha sempre affascinato la storia di Napoli e del periodo del regno di Ferdinando di Borbone. Con Raffaele La Capria rileggemmo le pagine di quegli anni che, malgrado le sanguinose repressioni, furono densi di storie appassionanti. Ci ispirarono addirittura dieci soggetti per il cinema. Li presentammo all’attrice Edwige Fenech, diventata da poco produttrice, e lei si innamorò della storia di Ferdinando e Maria Carolina, uniti in matrimonio per ragioni politiche, poco più che bambini. Ci voleva coraggio per produrre un film storico che raccontasse il Settecento napoletano. La grande fortuna che ha reso possibile il film è l’impressionante eredità artistica e architettonica che i Borbone e gli altri monarchi dei tanti staterelli italiani dell’epoca ci hanno lasciato. A differenza del budget plurimilionario dell’hollywoodiano Marie Antoinette, noi riuscimmo a realizzare il film con un costo contenuto, sfruttando al meglio la ricchezza delle tante regge sparse tra il Nord e il Sud dell’Italia. Credo sinceramente che, se non fosse stato per l’abilità di Enrico nel trovare ogni ambiente, questo film non lo avremmo potuto girare. Ricordo benissimo che, quando Enrico lesse la prima volta la sceneggiatura, rimase terrorizzato. Temeva il gran numero di feste e cerimonie nelle regge, oltre ai tanti attori e alle centinaia di comparse da vestire per restare fedeli all’opulenza
della corte dei Borbone di Napoli. In realtà, con Ferdinando e Carolina abbiamo scoperto che in Italia è meno complicato del previsto realizzare film in costume. I problemi ci sono ma meno di quanti se ne possano immaginare. Gli ambienti non mancano, mentre i costumi sì, quelli vanno creati ex novo. E Gino Persico li pensò seguendo le linee semplici ed eleganti impostate da Enrico, e usando delle magnifiche stoffe. Nei dintorni di Napoli esiste un paese molto particolare, San Leucio. La caratteristica di questo luogo è che nacque intorno a una fabbrica. In quegli anni a cavallo tra XVIII e XIX secolo, il filosofo francese Charles Fourier aveva teorizzato una società ideale nella quale il lavoro e la vita si fondessero in una dimensione arcadica. Il «falansterio», parola che indica il luogo ideale di Fourier, dove i lavoratori potevano vivere con le proprie famiglie, dividendo il proprio tempo fra l’attività operaia, il riposo e le festività, fu realizzato da Carlo di Borbone, padre di Ferdinando, a San Leucio, dove fiorì la più raffinata fabbrica di tessuti d’Europa. Le sete e le stoffe provenienti da quei particolari telai ancora adesso si trovano nei saloni principeschi del Vaticano, della reggia di Versailles, nelle corti di tutta Europa e addirittura sulle bandiere svolazzanti di Buckingham Palace. Fu proprio in queste fabbriche, dove esistono ancora alcuni di quegli antichi telai, che Enrico e Gino scovarono le ricchissime stoffe con cui furono creati i costumi. Guardando certe immagini di un film in costume, nessuno spettatore può supporre quanto lavoro di ricerca e di realizzazione ci sia dietro. Prendiamo ad esempio il tavolo imbandito nella camera nuziale, durante la prima notte di Ferdinando e Carolina. Lo so che vi sembreremo tutti pazzi, ma una grande quantità di quei dolci erano proprio realizzati con le antiche ricette di duecento anni prima. Quello fu il primo film in cui Virginia Vianello diventò assistente di Enrico: fu proprio lei che a Napoli trovò un anziano pasticciere che ancora conservava un quaderno di ricette vecchie di due secoli.
Virginia Vianello, come ho già avuto modo di dire, è un’ottima scenografa, con una vera passione per il lavoro di Job, tanto che spesso partiva da Roma per andare a vedere i suoi spettacoli allestiti in qualche teatro del Nord. Il caso aveva voluto che nostra figlia Maucì avesse come compagna di classe, al liceo Chateaubriand, Diana, la figlia di Virginia. Quando la bambina raccontò alla mamma di aver fatto amicizia con una compagnuccia che di cognome faceva Job, Virginia fu felicissima di scoprire che quella nuova amicizia avveniva proprio nel nome di Enrico, che lei aveva sempre ammirato. Da allora diventò una collaboratrice fissa di Enrico. I Borbone e la tintarella da Sharm el-Sheikh Con le sue scenografie, Enrico ha trasmesso la freschezza e l’eleganza di cui aveva bisogno il mio racconto delle nozze regali di quei due giovani. Il suo lavoro di ricerca merita qualche riga di approfondimento. Dal momento che la reggia settecentesca di Caserta e il Palazzo Reale di Napoli avevano subito degli ammodernamenti nel corso del XIX secolo, a causa dei Savoia, avevamo bisogno di trovare altri luoghi per gli interni. A Caserta girammo le scene importanti sul famoso scalone e negli splendidi giardini. Nei palazzi borbonici di Napoli, Gioacchino Murat, che da generale fu proclamato da Napoleone re di Napoli, aveva impresso lo stile neoclassico del suo tempo. Fortunatamente, i Savoia, usurpatori dei Borbone, hanno lasciato altrettante ricchezze nel Nord dell’Italia. I Savoia, prima del Settecento, erano duchi ma le case regnanti europee erano d’accordo nel progetto di farli salire sul trono. Il che non era certamente semplice. Così, già a partire dal Seicento, cominciarono a imparentarsi con principi e principesse di sangue reale, in modo da adeguare la loro genealogia al titolo cui aspiravano. Poiché non potevano certo ricevere le principesse delle più alte casate europee nei palazzi di Torino, cominciarono a costruire dimore ricche e sfarzose, più della reggia di Versailles. E per riuscire nell’impresa si affidarono ai più grandi architetti dell’epoca: Guarini nel Seicento, e Filippo Juvarra, siciliano, nel Settecento. Enrico
sosteneva che Juvarra fosse il Mozart dell’architettura. Aveva un’incredibile capacità di giocare con la luce. Progettò chiese, palazzi, ville e regge, imprimendo un nuovo assetto urbanistico alla città di Torino. La sua arte ha contribuito molto a infondere bellezza visiva al nostro film. Basta pensare quale sublime magnificenza fosse la Palazzina di caccia di Stupinigi: un vero capolavoro di giochi di luce. Enrico mi aveva spiegato che per Juvarra la luce doveva creare un effetto festoso e rasserenante. Il bianco degli stucchi, invece, aveva una funzione quasi scenografica. È probabile che il barocchetto viennese discenda proprio dai capolavori di Juvarra. In fondo non è da escludere che architetti austriaci possano essere venuti in visita a Torino per ammirare il lavoro del loro collega siciliano. Nella Palazzina di caccia a Stupinigi c’era anche un museo. Enrico era diventato amico del proprietario, il quale, innamorato del nostro film e stimando sinceramente Job, ci affittò per una modica cifra i mobili originali custoditi lì. Quella del percorso che fece la mobilia per giungere alla Palazzina di Stupinigi è una storia interessante. Maria Luisa D’Austria, moglie di Napoleone, nel suo viaggio da Vienna a Parma aveva portato con sé una quantità enorme di mobili e quadri, inclusa tutta la collezione di ritratti degli Asburgo, con cui fece tappezzare le pareti della reggia di Colorno, la sua preferita. Amando invece la Palazzina a Stupinigi, Margherita di Savoia, tempo dopo, vi aveva fatto arrivare tutta quella collezione di ritratti e arredi appartenuti a Maria Luisa, compreso il pregiato e ricco mobilio, realizzato da un ebanista e intagliatore al servizio della corte asburgica e di altre ricche corti europee: Pietro Piffetti. E così, grazie a Margherita e a Enrico, nel film abbiamo potuto usare pezzi originali di Piffetti e di Jean-Étienne Liotar. L’inginocchiatoio dove prega Maria Carolina la prima notte di nozze, ad esempio, è di Piffetti. Credo che nessuna attrice prima dell’allora debuttante Gabriella Pession abbia mai poggiato le ginocchia su qualcosa di più prezioso.
Girammo qualche scena anche a Racconigi, dove esiste un’altra testimonianza della ricchezza dei Savoia. Una reggia con museo annesso. Anche in quell’occasione Enrico riuscì a farsi prestare oggetti e arredamenti di valore inestimabile, che non erano mai stati concessi prima. Persino i libri che sfoglia Carolina sono autentici e fanno parte di una enciclopedia del Settecento. Vedendo il film, con le lussuose scenografie e i ricchi costumi, è difficile credere che sia costato solamente poco più di una pellicola in abiti moderni. Invece fu proprio così. Un altro miracolo di Job. Ferdinando e Carolina è l’esordio cinematografico di Gabriella Pession e Sergio Assisi, perfetti per le parti e davvero bravi. Gabriella, sedicenne, recitò tutto il film facendo l’accento della tedesca che parla italiano. Anche loro due sono entrati nell’ormai lunga serie di giovani talenti che ho scoperto nel corso della mia vita. Mi fa piacere che entrambi stiano facendo una brillante carriera e di cuore gli auguro sempre più successo. Aneddoti sul film ce ne sono e anche di belli. Il più divertente accadde a pochi giorni dalle riprese. L’inizio della lavorazione era fissato per settembre. Nel frattempo, con Enrico avevamo fatto i sopralluoghi e scelto gli ambienti, mentre Gino Persico aveva preparato gran parte dei costumi. Quando si presentarono gli attori – ricordo che ci trovavamo vicino alla reggia di Caserta – per le ultime prove di costume e trucco, erano tutti abbronzati, con la pelle scura tipica di chi ha passato agosto al mare a prendere il sole. Non potete immaginare l’incazzatura di Enrico, Gino e mia. Ma come, la storia è ambientata nel Settecento, dove tutti, come testimoniato dai quadri, avevano la pelle lattea e gli attori si presentano invece come se fossero appena usciti da un soggiorno di due settimane a Sharm el-Sheikh! Passammo le nottate a fare impacchi di limone per togliere la tintarella dalle loro facce. Alla fine, fu anche divertente e la prendemmo sul ridere. Ancora oggi, quando incontro i protagonisti dell’avventura di Ferdinando e Carolina, finiamo sempre per
sorridere pensando a quella singolare situazione che, in fondo, è stata una lezione per tutti. Tullio Kezich scrisse una recensione del film che mi fece molto piacere. Certo, era un amico, ma quando si trattava di giudicare un film non c’era amicizia che teneva. Non tutti sono disposti ad ammetterlo, ma nel nostro cinema Lina Wertmüller siede fra i grandi. L’autrice di Ferdinando e Carolina è l’unica regista donna ad aver ottenuto una nomination all’Oscar. Ribadito ciò, a rischio di scandalizzare, affermo che il suo nuovo film contiene la più bella notte di nozze della storia del cinema. Ferdinando diciassettenne e scapestrato sovrano di Napoli e Maria Carolina quindicenne principessa austriaca figlia di Maria Teresa, sposati per ragion di Stato nel 1768, finiscono nell’alcova odiandosi al punto di paventare reciprocamente che l’altro porti jella. Vi prego però di andare a vedere come la Wertmüller si introduce nelle segrete stanze da invisibile burattinaio, manovrando i suoi giovani attori Sergio Assisi (una rivelazione) e Gabriella Pession; e tra un vezzo e una carineria, un bacetto e uno schiaffetto, insomma tra il no e il sì fa terminare in gloria l’imeneo. … Il quadro, impeccabile anche nel ritmico snodarsi della narrazione prima di diventare ellittico e convulso, risulta affascinante nelle magistrali ambientazioni di Enrico Job, nei costumi di Gino Persico e nell’ispirata fotografia di Blasco Giurato. E per elogiare come si deve l’intera compagnia recitante, grandi nomi ed esordienti, ci vorrebbe un articolo a parte.
Al galoppo verso il nuovo millennio
Ed eccoci al nuovo secolo: il Duemila. Anzi, non solo un nuovo secolo, ma un nuovo millennio. Io ho sempre galoppato felicemente insieme al mio tempo, in generale da persona fortunata, dando vita a una quantità di storie. Ho una natura allegra e ho sempre cercato di camminare dal sunny side of the street, dal lato assolato della strada. Onestamente, mi è andata bene. Se dovessi fare un bilancio di tutte le cose positive della mia vita, l’elenco sarebbe lunghissimo. Come ho già scritto, ovviamente con Enrico e Maucì in cima, ma subito dopo gli amici, il lavoro, i film. Quando guardo certe mie fotografie da bambina, con il fioccone in testa, mi viene da riflettere su quanto la vita sia stata generosa con me. Chi l’avrebbe mai detto a quella piccolina con il fiocco e con i grandi occhi miopi, castani e sgranati verso il mondo, che avrebbe avuto amore, cinema, teatro, regia, Oscar, successo, fama… Insomma, come scrive Pascoli, «intorno al mio lettino c’è rose, gigli e tutto un bel giardino», dove le fate ne hanno scaricati di bei doni! Dunque siamo al Duemila. Il mio piccolo studio è un luminoso bugigattolo ricavato da una parte della terrazza, che Enrico ha reso infinito grazie agli specchi. Da lì io posso guardare il centro di Roma dall’alto, e apprezzare quanto sia particolare il panorama di quest’antica città. Non un grattacielo lo deturpa, ma è accarezzato da quei colli che, lungo la sinuosa linea del Tevere, hanno reso Roma famosa nei secoli. Qua e là affiorano fra i tetti bighe con vittorie alate e angeli trionfanti, santi che si ergono su colonne, croci di chiese, campanili svettanti e cupolone. Avevo descritto l’immagine di questa città nel mio romanzo La testa di Alvise: «Tutte quelle nuvole barocche che
nascondono certamente angioloni svolazzanti con trombe d’argento in bocca e guardando tetti rossi, e gente mangiare per le strade, e curve di fiume biondo, e culle di colli, e cupole come sederoni e tettone, e obelischi fallici… E piazze bellissime, e palazzi, e parchi e parcheggi, e traffico intasato e negozi elegantissimi, e sfingi, palme e scalinate e svolazzi di drappi marmorei… Intuisco che questa famosa città, come tutte le vecchie bagasce, non delude mai. È bella, antica e inadatta al traffico». Francesca e Nunziata e la teoria del bacio perfetto Perché una simpatica signora salernitana, cicciottella e con gli occhi ridenti e fuggitivi un giorno sia venuta da me a portarmi il manoscritto del suo primo romanzo, io proprio non lo so. Il testo era arrivato insieme a un bigliettino e a una pastiera. Malgrado questa simpatica presentazione, non detti particolare peso al dolce invito alla lettura. Quando parlai al telefono con lei, per toglierle ogni illusione, precisai: «Questo racconto faccia conto di averlo buttato in un pozzo. Lo dia per perso». La mia scrivania, infatti, era sempre affollata di copioni e manoscritti da leggere ma, fortunatamente, un giorno, mi ricapitò fra le mani proprio quello di Maria Orsini Natale, così si chiamava la signora del bigliettino e della pastiera. L’inizio mi affascinò per la qualità della scrittura: Francesca era nata su una di quelle alture della Costa amalfitana dove la terra precipita e dirupa in un cielo capovolto che, nelle notti serene, le luci delle lampare fanno stellato. Il mare visto da lassù è irraggiungibile, in un pozzo di luce l’azzurra trasparenza, così lontana, sospesa e senza suoni, è irreale e segreta come una favola…
Non riuscii a smettere di leggere la storia narrata in quel manoscritto battuto a macchina, con il solo titolo scritto a penna: «Ottocento vesuviano». Mi piacque tanto che lo spedii a Sophia Loren. Ci vollero però dieci anni per mettere in piedi il progetto cinematografico. Nel frattempo, l’autrice era riuscita a
pubblicare il suo romanzo col titolo Francesca e Nunziata. Ripensandoci, quando Maria Orsini Natale si era affacciata nel mio studio, qualche cosa in lei mi aveva attirato. Forse un ricciolino che le spuntava sulla fronte da una veletta trasparente, o la sua carnalità esuberante. Aveva scritto un meraviglioso romanzo con il respiro e la ricchezza espressiva degni di quella letteratura dell’Ottocento che ci ha regalato le più belle storie del mondo. Si narra la storia di una imprenditrice, Francesca, che, dopo aver appreso dal padre l’arte di fare la pasta, agli inizi del Novecento apre una fabbrichetta, che poi trasforma man mano in una grande industria. Intanto si sposa con un principe decaduto, mette su famiglia e per adempiere a un voto fatto alla Madonna, adotta un’orfanella, Nunziatina. Fra tutti i figli di Francesca, sarà proprio quest’ultima l’unica ad appassionarsi all’attività di famiglia, la lavorazione della pasta, e a prendere in mano le redini dell’azienda. Le figure di queste due donne imprenditrici sono un’iniezione di modernità nei costumi del secolo: Francesca che, ricchissima, si rovinerà per amore del marito, il nobiluomo Giordano, e Nunziatina che, pur amando disperatamente Federico, finirà con lo sposare un altro. Il romanzo attraversa un lungo arco temporale tra la fine dell’Ottocento e i primi trent’anni del Novecento. Come sempre, nelle narrazioni cinematografiche bisogna avere il coraggio del taglio: i tempi del film e i suoi ritmi sono implacabili. Guai a colui che si lascia sedurre dalla bellezza, dalla poesia, dalla lentezza di certe scene. A differenza della letteratura, nel cinema il rapporto tra la bellezza di un’immagine e la velocità di una storia è delicato e importantissimo. È pericoloso innamorarsi troppo di certe inquadrature, di certe atmosfere. Così, mentre scrivevo la sceneggiatura con Elvio Porta, ho dovuto escludere molte parti del romanzo che pure avrei amato inserire. Il cinema, però, richiede sintesi.
La trama del film muove su due coppie di attori indimenticabili: Sophia Loren e Giancarlo Giannini, nei ruoli di Francesca e del principe Giordano Montorsi; Raoul Bova e Claudia Gerini, in quelli di Federico e Nunziata, che vivono un amore impossibile. Con Giancarlo ero al nono film, con Sophia al terzo. C’era quindi una grande intesa ed è stato ancora una volta un piacere vivere insieme a loro una nuova avventura. Il film racconta cinquant’anni della vita di Francesca e Nunziata, dalla giovinezza alla vecchiaia, dal successo alla catastrofe. Il principe, per le sue speculazioni sbagliate, si sente responsabile della rovina della famiglia, tenta il suicidio, ma fallisce anche nell’ultimo gesto estremo. Per un misterioso destino resta paralitico. Così, la parabola della storia tra Francesca e il suo uomo, dopo aver toccato le vette più alte dell’amore, si conclude nell’odio. Credo che nella scena finale del film, Sophia, una Francesca ormai anziana, abbia dato prova straordinaria del suo incredibile talento di attrice: forse uno dei migliori monologhi della sua pur eccezionale carriera. Mi è molto caro quel momento del film. Proprio per questo motivo, voglio ricordarne le bellissime battute: Di dolore non si muore, Nunziatì, ma è brutto assai… Ma per questo dolore qua non c’è consolazione. Tenevo un regno. Tenevo danari, terre e palazzi, ma la perdita del mulino e del pastificio è stata una cosa troppo grossa. Io non ne parlo con nessuno… Ne sto parlando adesso a te, Nunziatì, perché tu la fatica mia la sai e il dolore mio lo puoi capire… Tu sei stata la colonna, il buon augurio della mia casa. Quando te ne sei andata ti sei portata con te la fortuna, la salute e l’abbondanza… E la mia casa si è seccata…
Anche per questo film, il lavoro di Enrico Job ha contribuito enormemente alla qualità generale del racconto. La villa dov’è ambientato il romanzo si trova in quel meraviglioso angolo di paradiso che è la Costiera amalfitana. Enrico aveva inizialmente cercato una location proprio in quel tratto di costa, ma non rimase soddisfatto. Avevamo bisogno di una grande villa elegante, d’architettura borbonica fine Settecento.
Ne trovammo una che aveva però il difetto di essere troppo isolata. Non si può girare un film in un posto che dista due ore di curve dal primo centro abitato. Mettiamo il caso che a una sarta servisse urgentemente una spoletta di filo: avrebbe dovuto impiegare due ore per raggiungere la prima merceria e altre due per tornare sul set. Quella villa, dunque, fu scartata. Enrico ne trovò un’altra ancora che, tuttavia, oltre a non essere sul mare, necessitava di un forte intervento di ristrutturazione. Anche questa non fu presa in considerazione. Poi, un giorno, mi disse che avrebbe verificato la disponibilità di Villa Montorsi in Franciacorta. In fondo, grazie alla magia del cinema è possibile ricreare un ambiente vicino al mare ovunque. E nel XVIII secolo l’architettura napoletana e quella di Franciacorta presentavano sorprendenti analogie. La pietra grigia di Sarnico, paese sul lago di Iseo, è simile alla pietra lavica del Vesuvio utilizzata dagli architetti napoletani. Persino le pavimentazioni stradali e le decorazioni sui palazzi si somigliano. Fu vicino alla nostra Palazzina, insomma, che Enrico trovò la villa che poteva fare al caso nostro. Era maltenuta ma era della fine del Settecento e, con alcuni accorgimenti e interventi, poteva sembrare una villa della penisola sorrentina, anche se dalle sue finestre, invece del mare, si vedeva la pianura lombarda. Lungo la parete del bellissimo scalone d’ingresso, Enrico fece dipingere un affresco con lo stemma della famiglia Montorsi. Tutto l’arredamento fu completato con mobili autentici napoletani e, nella sala da ballo, fu allestito un pavimento di riggiòle riccamente decorato come nei grandi palazzi della nobiltà del Sud. A Procida girammo invece le scene di mare, quelle in orfanotrofio, in chiesa e l’esterno del pastificio di Nunziata. Nell’isola è stato conservato il lungo tratto di bosco che corrispondeva a una delle riserve di caccia di re Ferdinando, che, ovviamente, aveva al suo seguito una piccola corte di nobili, i quali si erano «sistemati» in palazzetti nobiliari lungo il corso del paese. Ognuna delle loro dimore aveva la facciata che dava sulla strada principale e nel retro un giardinetto,
oppure un orticello, nei quali crescevano rigogliose piante di pomodori, melanzane e profumato basilico. Tra quei palazzetti ambientammo la casa di Nunziatina. Nel cortile di Villa Parisi a Frascati, invece, costruimmo una passerella sostenuta da colonnine liberty di ghisa, dove mettemmo «ad asciugare» non so quanti chilometri di spaghetti di plastica. Ed è fra questi spaghetti svolazzanti che è ambientata la scena d’amore e il bacio diventato famoso tra Nunziata e Federico. Come ultimo miracolo, Enrico trovò, in Abruzzo, due antiche macchine per fare la pasta: quelle che si vedono sono autentici pezzi dell’Ottocento. Oltre ai miei adorati Giancarlo e Sophia, grazie a quel film è entrato nel mio cuore anche uno straordinario ragazzo: Raoul Bova. Bellissimo, con i suoi indimenticabili occhi azzurri, è un ottimo attore, una bravissima persona, e io lo reputo anche un mio grande amico. Avevo fatto già con lui Ninfa plebea, quindi era il nostro secondo lavoro insieme. Devo dire in coscienza che, fra gli attori della nuova generazione del nostro cinema, Raoul, insieme a Pierfrancesco Favino e Luca Zingaretti, è uno dei migliori. Anche per lui la bellezza è una specie di piccolo handicap. Com’è accaduto a Sophia, a Mastroianni e a tanti belli del cinema, si potrebbe credere che Raoul lavori per il suo aspetto. E invece lavora perché è bravo. In Francesca e Nunziata tiene testa a Sophia in una scena molto drammatica, è appassionato nelle scene d’amore e inoltre ci regala una bella interpretazione di Era de maggio, di Salvatore di Giacomo. Anche Claudia Gerini è un’attrice deliziosa, una delle più valide del nostro panorama cinematografico. Ha bellezza e personalità. Oltre che come attrice drammatica, è brava anche nei ruoli brillanti e ci ha dato prove molto spiritose e divertenti in coppia con Carlo Verdone. A proposito di Claudia e Raoul, apriamo una parentesi. È invalsa, nel cinema, una cattiva abitudine: quella di baciarsi a bocca spalancata. Ma, così facendo, si perde una delle caratteristiche più interessanti, ossia la «penetrazione»: il bacio a bocche spalancate con sbattuta di denti, insomma, è
quanto di meno erotico si possa vedere sullo schermo. Perché sta proprio qui la delicatezza del gesto: attraverso la «penetrazione» il bacio rimanda al rapporto amoroso, completo, all’atto sessuale. Devo rendere omaggio all’ironia di Giuseppe Tornatore, che in Nuovo cinema paradiso ci ha regalato una deliziosa sequenza di tutti i baci tagliati dalla censura di quei tempi: ho sempre considerato il bacio nel cinema un appuntamento molto importante. Ci sarebbe da scrivere un libro sull’argomento. Provate a chiedervi quali siano i baci cinematografici che ricordate per maggiore intensità. Molti sono famosissimi. Da quelli tra Rodolfo Valentino e Vilma Bánky nel Figlio dello sceicco, a quello tra Clark Gable e Vivien Leigh in Via col vento; da quello famoso sul bagnasciuga tra Burt Lancaster e Deborah Kerr in Da qui all’eternità, al bacio appassionato tra Mastroianni e Loren in Matrimonio all’italiana. Anche se, indubbiamente, il più bel bacio del cinema rimane quello di Notorius tra Cary Grant e Ingrid Bergman. Insomma, forte delle mie idee in materia, quando siamo arrivati alle scene dei baci, sia Raoul che Claudia si sono affidati alla mia competenza e bravura. Ecco allora un avvertimento ai giovani registi che ormai considerano il bacio una cosa di tutti i giorni: al contrario, è un incontro da valorizzare nel suo significato più profondo. In genere si svolge in due tempi: un primo superficiale contatto di labbra e un secondo incontro che deve raccontare un vero contatto carnale. Rostand, in Cyrano de Bergerac, fa volare il bacio sulle ali della poesia: Ma poi che cosa è un bacio? Un giuramento fatto un poco più da presso, un più preciso patto, una confessione che sigillar si vuole, un apostrofo roseo messo tra le parole «t’amo»,
un segreto detto sulla bocca, un istante d’infinito che ha il fruscio di un’ape tra le piante, una comunione che ha gusto di fiore, un mezzo di poter respirare un po’ il cuore e assaporarsi l’anima a fior di labbra…
Il bacio tra Raoul e Claudia riuscì talmente appassionato che quando Claudia lo rivide al doppiaggio si commosse e confessò: «Nessuno mi aveva mai baciato così». Mi dicono che in una recente intervista, ricordando quella scena, mi ringraziava per averle insegnato a baciare. Ancora una volta a fianco di Sophia Fu Sophia Loren a farmi leggere un soggetto, nato da un’idea dello sceneggiatore Umberto Marino, dal titolo romantico La casa dei gerani. Raccontava la storia di Maria, donna napoletana e generosa che ha dedicato tutto la vita alla famiglia. Sposata con un ex giornalista americano che si è ritirato sulla Costiera amalfitana insieme a lei a fare il pescatore, la protagonista vede svanire a poco a poco l’amore di un tempo, fino a diventare sempre più gelosa delle donne del paese, verso le quali il marito non disdegna qualche attenzione. I tre figli, ormai grandi, la raggiungono in occasione del suo compleanno. Sarà proprio questo raduno a far capire a Maria di essere il vero cuore palpitante della famiglia e che tutti hanno ancora bisogno di lei. Misi da parte quel titolo incipriato, La casa dei gerani, e decisi di infondergli un po’ di sangue e vitalità, trasformandolo nel provocatorio Peperoni ripieni e pesci in faccia. Il film ebbe poca fortuna. Mentre eravamo in fase di montaggio, morì il produttore, Adriano Arié, un uomo di grande qualità e sensibilità. Uno di quei produttori autentici che si innamorano delle idee e che hanno il coraggio di rischiare. L’avevo conosciuto quando produsse il mio
Francesca e Nunziata, anche quello un atto di grande coraggio, dati i costi di un film in costume. Quando Adriano uscì di scena ci lasciò tutti un po’ orfani e nessuno seguì davvero la distribuzione del film. Uscì nelle sale dopo due anni dalla fine delle riprese, in agosto e in sole sedici copie. Insomma, fu fatto morire sul nascere. Peccato, perché la commedia, pur nella sua semplicità, aveva freschezza e bravi attori. Insieme a Sophia, recitava F. Murray Abraham, e con loro Elio Pandolfi, Armando Pugliese, Angela Pagano e Carolina Rosi. In una piccola parte recitò anche nostra figlia Maucì. Un piccolo grande uomo: Muhammad Yunus Poi fu la volta di Mannaggia alla miseria!, un film dedicato a un personaggio a me molto caro, Muhammad Yunus, premio Nobel per la Pace 2006. Questo signore del Bangladesh ha fondato la Grameen Bank, la banca dei poveri, un’organizzazione che finanzia prestiti ai poveri che decidono di intraprendere una qualsiasi attività imprenditoriale. Prestiti che poi vengono da loro restituiti in piccole rate. Yunus è un uomo straordinario che ho avuto il piacere di conoscere personalmente. È piccolo piccolo, con una faccia e un sorriso che sarebbero molto piaciuti a san Francesco, perché esprimono amore incondizionato per l’umanità. Con questo mio film ho voluto rendergli omaggio, raccontando la storia di tre giovani studenti universitari che si innamorano delle sue idee e decidono di applicarle ai poveri di Napoli. Per ironia della sorte, mentre giravamo nella zona antica di Taranto, la produzione fu contattata da alcuni malavitosi locali che chiedevano un «pizzo» di cinquantamila euro per lasciarci lavorare tranquilli. Il direttore di produzione fu condotto in un ristorante dal quale tutti i clienti uscirono lasciandolo solo con il boss, che gli fece la sua richiesta con velate minacce. La produzione fu abilissima. Temporeggiò qualche giorno, giusto il tempo di terminare le riprese in quei luoghi. Spostammo solo una scena a Brindisi. La notizia arrivò a giornali e telegiornali. Nichi Vendola mi chiamò più volte per
assicurarmi la sua totale protezione e per scusarsi. Alla fine la malavita ci fece una figuraccia e, dopo qualche mese, vennero arrestati tutti. Protagonisti di Mannaggia alla miseria!, insieme a grandi artisti come Roberto Herlitzka, Luca De Filippo, Piera Degli Esposti, Angela Pagano e Susanna Marcomeni, sono Gabriella Pession e Sergio Assisi, che come sapete hanno cominciato le loro carriere con me. In più, un giovane attore molto bravo, Tommaso Ramenghi. A produrre il film fu un’altra brava attrice che ha diversificato il suo amore per il cinema, Ida Di Benedetto. Ida, che è una cara amica, e anche un po’ civettona, siccome non l’ho mai chiamata a recitare in una mia opera, decise di produrlo per lavorare insieme a me. Vivere sorridendo Qualche piccolo ricordo, ora, per terminare il capitolo con un po’ di buonumore. Ero a Londra con Virginia Vianello, per un evento organizzato dall’ambasciata d’Italia. Tutti gli ospiti alloggiavano in un elegante albergo dove, la sera, era prevista la cena di gala. L’occasione era una retrospettiva dei miei film. Dopo la cena, verso le due di notte, mentre guardavo la televisione in camera, mi accesi una sigaretta. Non l’avessi mai fatto! Scattò l’allarme antincendio. Mi affrettai a buttare la sigaretta nella tazza del gabinetto per non lasciare traccia delle mie colpe. Virginia, che stava nella stanza comunicante, corse da me. Entrò, capì dalla puzza di fumo che la responsabile ero io e mi chiese: «Ma Lina, hai fumato?». E io, con l’aria più innocente del mondo, risposi subito: «No!». Poi scoppiammo a ridere. Nel frattempo sentivamo un gran trambusto fuori dallenostre stanze. Tutti si stavano precipitando fuori dell’albergo e anche noi, in camicia da notte, finimmo per la strada. Era carino vedere tutti gli invitati, prima elegantissimi, ritrovarsi in biancheria intima, all’aperto! Tra la folla c’era anche Peppino Di Capri che, vedendomi, si avvicinò e mi chiese piano, all’orecchio, se ero stata io a scatenare quel
marasma, chissà, magari fumando una sigaretta? Con la mia solita aria innocente negai spudoratamente. Ma da allora non misi mai più piede in quell’albergo. Qualche anno fa, sempre con Virginia Vianello, mi trovavo, al ritorno dal festival di Ischia, quando accadde che, sul motoscafo che ci portava a Napoli, mi misi a prendere il sole, togliendomi i pantaloni e legandoli a una corda della barca. Poco prima di arrivare in porto, un colpo di vento li fece volare in acqua. Facemmo dietro front per recuperarli, ma quei dispettosi pantaloni si erano inabissati, lasciandomi implacabilmente in mutande. In porto mi aspettava Angelo Zemella, l’organizzatore del film Mannaggia alla miseria! che avrei da lì a poco realizzato. Conclusione: feci i sopralluoghi per Napoli in deshabillé. Fortunatamente era estate, e il tutto aveva un’aria balneare. Ma negli Annali della mia vita, questo episodio è riportato con il titolo: «I miei sopralluoghi in mutande».
Shakespeare, Goldoni, Mozart: un’ottima compagnia
Nel 1973, la storia dell’anarchico Tunin e della bella puttana Salomè, l’avevo pensata in realtà per il teatro, invece passò direttamente al cinema. Fu solo dopo la vittoria al Festival di Cannes che alcuni registi teatrali acquistarono i diritti dell’opera e ne ricavarono spettacoli in Germania, Austria e Repubblica Ceca. Non so perché mi venne in testa, a distanza di trent’anni, di riprendere in mano le tragiche avventure di Tunin. Credo che nessuno, prima di me, abbia portato in teatro un proprio film, ripensando il copione e con una nuova regia. Ne feci, dunque, uno spettacolo musicale. Non un musical con balletti e cori, ma una storia raccontata attraverso canzoni vagamente ispirate a Kurt Weill, che scrissi insieme a Italo (Lilli) Greco e Lucio Gregoretti (figlio del regista Ugo), spesso rielaborando alcuni dei brani che Ninetto Rota aveva composto per il mio film. Storia d’amore e d’anarchia mi riportò a lavorare al Teatro Eliseo, che aveva fatto parte della mia vita fin dai tempi dell’Accademia. Avevo vissuto fra le sue mura tante esperienze e visto spettacoli straordinari, indimenticabili, come il leggendario Rosalinda o Come vi piace, con scene e costumi di Salvador Dalí, e la regia di Luchino Visconti. Passando per i corridoi dei camerini mi ricordavo di tante e tante serate, nottate, prove, avventure, emozioni, via vai di gente, artisti e amici che venivano a complimentarsi per gli spettacoli: Eduardo, la Pagnani, De Lullo e tanti altri attori e registi. E quell’indimenticabile divano che Salvini, per scommessa, mi fece realizzare. L’Eliseo era stato sempre un teatro speciale, fin da quando lo dirigeva Vincenzo Torraca, un appassionato di teatro,
d’origine pugliese, con i capelli rossi e con un figlio, Antonello, che diventò subito mio amico. Nell’ultima metà del Novecento, su quel palcoscenico sono passati tutti i grandi. È emblematico che Visconti lo abbia scelto proprio per le sue avventure più impegnative. Mica scherzava Luchino! Quando scendeva in campo, tutta la «lombarda nobiltà viscontea» tirava fuori i suoi stendardi. E a chi affidava le scenografie e i costumi? A personaggi eccezionali come, per fare un nome, appunto Dalí. Con Rosalinda entrò in teatro il surrealismo del grande artista catalano, il suo sincretismo tra uomini, bestie, leggende e incantesimi. Si dice che, per realizzare Come vi piace, Visconti abbia venduto molte delle sue proprietà. Ma d’altra parte, la «lombarda nobiltà viscontea» non poteva stare lì a fare i conti della spesa. Se si scende in campo, si gioca il tutto per tutto. Tornando al mio lavoro, ci voleva, insomma, coraggio per riprendere in mano un’opera diventata cult come Film d’amore e d’anarchia. E forse anche un po’ di incoscienza. Tuttavia, non si trattò di una forzatura, al contrario. Per me ha significato riportare quella storia alla sua dimensione originaria, quella per cui era stata concepita: il teatro. Il cast del film, con la coppia Giannini-Melato, e la bravura della giovanissima debuttante Lina Polito, aveva in qualche maniera fatto epoca ed era rimasto impresso nella memoria degli spettatori. Dopo un simile cast, anche in teatro avevo bisogno di attori importanti, che dovevano sapere cantare. Per la parte di Salomè pensai subito a Giuliana De Sio. Giuliana è un’attrice straordinariamente dotata. È bella, brava e ha carattere. Sua sorella è una famosa cantante e Giuliana, forse per questo, era reticente a dirmi di sì, ma poi in Storia d’amore e d’anarchia si decise a cantare e si trattò della prima volta, per lei. Fu Giuliana che mi consigliò di chiamare Elio, il cantante del gruppo Elio e le storie tese, per la parte dell’anarchico Tunin. Aveva intuito che possedeva talento per la recitazione. Con il «suo» Tunin Elio è riuscito a costruire un personaggio che non ha mai fatto rimpiangere l’interpretazione
storica di Giancarlo Giannini, che gli era valsa la Palma d’oro a Cannes. Scusate se è poco… Completai il terzetto dei protagonisti affidando a Gabriella Pession, la mia giovane regina austriaca di Ferdinando e Carolina, il ruolo delicato e struggente di Tripolina. Era un cast insolito, com’era insolita la scenografia. Credo che chi abbia visto il film avrà impressa nella mente la bellezza visiva che, grazie a Enrico, siamo riusciti a trasmettere a ogni immagine, in quel casino insieme allegro e struggente. Per la scenografia teatrale, Enrico aveva simboleggiato il casino con un grande disegno di una seta stampata a grosse rose rosse su fondo nero, come quelle della vestaglia che avrebbe potuto indossare una puttana. Una scena fissa. Ecco come la descrive Enrico: Un casino per me è la sala d’attesa e d’incontro, dove c’è la scala dove si va alle camere. La scala è il centro immaginario di chi pensa al casino. È da lì che vengono le puttane, è sulla scala che lo sguardo si fissa nell’attesa, è da lì che si salirà per andare a placare il proprio desiderio, ed è da lì che «dopo» si scenderà. La mia scena era un grande praticabile che si innalzava in un vuoto nero, su fino alla soffitta del teatro. Dopo alcuni gradini si accedeva a un primo largo piano di recitazione, la sala di ricevimento, su cui si trovava a sinistra la scultura di un ricco divano angolare rosso con grandi frange d’oro. A destra, ricavata nel praticabile, proseguiva quasi verticale verso l’alto la vera e propria scala da cui le puttane scendevano in una sorta di graduale svelamento, prima i piedi e man mano il resto della figura. Era emozionante l’episodio di Salomè e Tripolina che si contendevano furiosamente il sonno di Tunin il quale, ignaro del loro litigio, dormiva sul letto all’angolo destro della scena. E il suo corpo, coperto da un lenzuolo bianco, era già la spoglia della pura, innocente vittima che un perverso destino ne avrebbe fatto.
I collaboratori, nel nostro lavoro, sono importantissimi. Devono essere anche amici perché il loro apporto affondi le radici nello stesso humus in cui nasce e fiorisce la storia che
vogliamo raccontare. Dopo la scomparsa di Nino Rota, cominciarono a lavorare con me Greco e Gregoretti. Lilli Greco è un personaggio molto speciale. Avventuroso e artista. Dopo una giovinezza passata a girare l’Europa con quella bell’aria incosciente di chi vuole vivere la vita come un’allegra galoppata, si sposò con Hilde, una ragazza tedesca da cui ebbe poi tre figli. Lilli lavorava alla Rca e seguiva con attenzione la nascita e gli esordi dei cantautori, anche se, in realtà, era lui che regalava loro, a piene mani, i suoi grandi doni di musicista. Intendo anche di compositore. Nessuno farà mai il conto di tutte le opere dei nostri cantautori dal 1960 al 1980 la cui musica nasce dalla creatività di Lilli Greco. Io posso testimoniare che era molta. Perché Lilli, generoso cavaliere calabrese, ha sempre profuso il suo talento senza chiedere nulla in cambio. Lilli, Lilli, sciagurato artista del mio cuore. Hai fatto diventare miliardari tanti e tanti cantautori sulle note della tua musica e tu sei rimasto sempre lì a cinguettare sui fili del telefono, regalando i diritti d’autore a loro. Se io fossi uno dei tuoi tre figli ti spaccherei la testa! Come forse avrebbe dovuto fare Hilde, tua moglie. Ma invece tu sei sempre stato molto amato, perché anche i tuoi figli si sono «innamorati» di te, della tua personalità eterea che lascia gonfiare le proprie vele dall’arte, senza occuparsi del danaro. Aaahhh… Lilli, Lilli. Vabbè, diciamo che fra cent’anni, quando volerai su quelle famose nuvolette dove Armstrong e Mozart ti aspetteranno innervositi, saranno loro a darti una bella botta in testa – che tanto fra anime, male non fa – per l’esagerazione della tua generosità. Allora c’era una meravigliosa sgangheratezza nei metodi di lavoro del nostro gruppo, come del resto in tutta la mia vita. Faccio un esempio. Io avevo un pianoforte verticale bellissimo. Era di mio fratello. A un certo punto, non sapendo più dove metterlo chiesi aiuto a Lilli, che me lo fece «alloggiare» da un suo amico. Poi però, io mi sono scordata il nome dell’amico e il suo indirizzo.
Esiste un oggetto, una tastiera che un giorno ci facemmo dare da un negozio ma nessuno la voleva pagare. La soprannominammo «un giorno qualcuno la pagherà». La ordinammo proprio in assenza del piano, per lavorare alle nostre musiche. È su questa tastiera, che poi alla fine ho pagato io, che nascono i «motivetti» delle nostre canzoni. Io spalmata sul divano da una parte, e Lilli spalmato sulla tastiera dall’altro, mettiamo insieme qualche nota di cui prende appunto Lucio Gregoretti. Lucio, che di solito compone opere liriche e che contribuirà a rendere grande la tradizione del nostro teatro musicale, è quindi la vittima delle nostre sciaguratezze. È sempre stato un appuntamento molto piacevole quello con Lilli. Abbiamo lavorato moltissimo insieme, per un sacco di film e di spettacoli. Bisogna però ammettere che i rapporti umani sono una cosa speciale e misteriosa. A pensarci bene, perché una persona ti piace e l’altra no? Una ti è simpatica e l’altra no? Nessuno è in grado di rispondere con esattezza. Sta di fatto che è così. In nota a questo paragrafo, faccio un inciso. Per dirvi la pazzia dei miei cari, sappiate che per tre di loro sono una grande cantante, ovviamente mancata. Per Enrico Job, Lilli Greco e… per Paolo Conte. I quali, peraltro come me, non credono che cantare sia un lanciare acuti verso il cielo. Cantare significa interpretare una canzone per trasmettere al pubblico un’emozione. La vestaglia non restituita di «Lasciami andare, madre» Nel 20003 mettemmo in scena a Roma, all’Eliseo, uno spettacolo molto coraggioso: Lasciami andare, madre tratto da un romanzo autobiografico di Helga Schneider, in cui l’autrice racconta il suo atroce incontro con l’anziana madre che, quando lei era ancora una bambina, aveva abbandonato la famiglia per arruolarsi nelle SS naziste. Ciecamente devota al Führer, la donna aveva assecondato tutti gli orrori che erano stati perpetrati nel campo di concentramento in cui lavorava come guardiana. Il padre, intanto, era sotto le armi. Siamo negli anni Settanta. Helga non sa ancora nulla del passato della madre, non l’ha più rivista, non ne ha più avuto
notizie dal 1943, da quando era stata abbandonata. Un giorno, apprende che si trova in una clinica e che sta per morire, quindi decide di andarla a trovare. Tra le due ha inizio un faccia a faccia sconvolgente, nel quale Helga scopre gli orrori di cui si è resa responsabile quella donna che le appare come un mostro. Non vuole avere per madre una donna come lei. Il loro dialogo è struggente, doloroso e toccante. Da bambina Helga la implorava: «Non mi lasciare, mammina», adesso, invece, la parabola del loro incontro finale la porta a chiedere: «Lasciami andare, madre». Lasciami andare, madre: un titolo che racchiude il senso profondo di quell’ultimo appuntamento. La testimonianza feroce di una figlia, contro le follie del fanatismo e dello sterminio nazisti. La vita mi ha portato molte volte a raccontare quelle pagine terribili della storia umana. Dal famoso Diario di Anna Frank agli inizi della mia carriera, come aiuto regista di De Lullo, che mi condusse addirittura a conoscere il padre di Anna, Otto Frank, al successo internazionale di Pasqualino Settebellezze, ho sentito dentro di me quasi un senso di dovere nel far rivivere quelle storie. Volevo lasciare anche io una testimonianza su un orrore che non si può dimenticare. In fondo, tali atrocità sono contemporanee alla mia adolescenza e credo di sentirle vicine a me, in modo particolare. Ho raccontato la sensazione che provai quando vidi passare i soldati tedeschi davanti ai miei occhi di bambina, mentre sedevo con la mia famiglia ai tavolini dell’allora Caffè Esperia, sul Lungotevere. C’è tuttavia un altro ricordo di quei giorni che ora vorrei raccontare. Una mattina mi svegliai e trovai in casa tre carabinieri. I tedeschi erano a Roma e mia mamma decise che dovevamo nascondere in casa quei poveretti. Erano scappati dalla caserma di via Calamatta, a pochi passi dal nostro palazzo. Capitava spesso che i tedeschi, leggendo sul citofono il nostro cognome, Wertmüller von Elgg, suonassero credendoci loro connazionali, solo per avere da noi qualche informazione.
Naturalmente, nessuno di noi parlava una sola parola di tedesco, figuriamoci. Il nome altisonante della nostra famiglia, che sapeva di nobiltà, baroni e baronesse, ci permise, però, di stare sempre tranquilli. Di conseguenza, casa nostra era un posto sicuro per quei carabinieri in fuga che avevano bussato alla porta. Rimasero da noi per diversi giorni, finché l’ondata nera dei nazisti lasciò Roma. Mangiavano con noi, dormivano nella camera mia e di mio fratello Enrico, e io fui temporaneamente accolta nella camera della nonna. Avevamo un grande armadio che celava un perfetto nascondiglio. Un’incavatura del muro che nessuno avrebbe mai trovato. Ogni volta che i tedeschi citofonavano, eravamo pronti a chiudere i carabinieri in quell’anfratto. Non potrò mai dimenticare quegli attimi di paura. Tutto finì bene per fortuna. Dopo questo piccolo salto in un ricordo d’infanzia, torniamo allo spettacolo. Lavorai all’adattamento teatrale del romanzo Lasciami andare, madre con la stessa Helga Schneider. Riporto, a proposito di questo lavoro, alcune note scritte da Enrico, che lo interpretò con la sua scenografia: Arbitra di atroci umiliazioni e sofferenze, arbitra della vita e della morte dei tanti, troppi non ariani, di milioni e milioni di diversi, questa donna sopravvive al centro del quadrante di un orologio, a segnare un tempo ormai vuoto, proprio lei che sul tempo degli altri aveva una volta un potere assoluto… Alle sue spalle oscilla un pendolo. Il tempo continua il suo corso, ma anche il quadrante del pendolo è privo di lancette, anche lì il tempo non si conta più. … Eccola vecchissima sopravvivere sulla scena, ancora nel lindore austriaco delle origini. Eccola lì sul punto di lasciare al resto dell’umanità, a noi e a sua figlia che aveva crudelmente abbandonato da bambina, il peso di un insostenibile errore e la paura che potrebbe ripetersi.
Era il 1943, la Germania era ormai sulla via della sconfitta. Perché la donna ha lasciato sua figlia proprio sul finire della guerra, quando tutto stava precipitando? Quando se la ritrova davanti ormai novantenne, già quasi morta, Helga scopre la vera ragione di quella fuga: un amore. Un grande amore: una fede fanatica in Adolf Hitler aveva spinto quella donna a
chiedere l’onore di fare parte delle SS. Helga ha bisogno di capire, di accettare quell’abisso di orrore. La bella clinica dove si trova adesso la madre è gestita dall’organizzazione che si occupa degli ex nazisti di tutto il mondo. Un’istituzione che ha alle spalle un’enorme quantità di denaro, probabilmente legata ai capitali confiscati agli ebrei durante le persecuzioni. E a questo proposito, fra le altre odiose eredità, la madre vuole lasciare a Helga anche una cassetta di gioielli maledetti. Sono quelli che le povere ebree depositavano nelle mani delle SS, illudendosi di salvare, in questo modo, le proprie vite. Grande problema era stata la scelta dell’attrice che interpretasse il personaggio della madre. Poi mi era venuto subito in mente Roberto Herlitzka. Certamente uno dei più grandi attori del nostro teatro. Coltissimo, molto intelligente, con una piccolissima percentuale di sangue ebreo, sempre affascinato dalle imprese impossibili. Io ed Enrico ci divertimmo molto a vederlo interpretare una vecchissima signora borghese. Ci facemmo prestare da una nostra amica un’adorabile camicia da notte rosa con vestaglia, tutta di chiffon a fiori. Non gliel’abbiamo più restituita e credo si trovi ancora in qualche cassa di costumi del Teatro Eliseo. Morale: non prestate mai roba a uno spettacolo teatrale, soprattutto se della Wertmüller. Per il personaggio di Helga ho chiamato la mia amatissima Milena Vukotic. Fresca come una fragolina di bosco e antica come le fate della Bella addormentata. Poi ho affidato il tutto alle magiche mani di Enrico Job. Lo so, posso sembrare in adorazione di Job. Ma è vero, lo sono. Non mi stancherò mai di ripeterlo: ho avuto un grande dono dalla vita. Enrico ha progettato alcuni fra i più fantasmagorici spettacoli del nostro teatro. Basti pensare alla storica Orestea di Ronconi e all’indimenticabile Verso Damasco di Missiroli. Senza dimenticare gli spettacoli
meravigliosi tratti dalle più belle commedie di Strindberg, realizzati in spazi e teatri piccolissimi. Uno spettacolo vivo dato a un pubblico vivo Non riesco a fare grandi distinzioni tra cinema e teatro. Lo spettacolo nasce dovunque. La sua bellezza sta nel desiderio di comunicare ad altri un pensiero, una storia da condividere. Cosa c’è di diverso tra un teatro di burattini nel cuore di Villa Borghese e il teatro dell’opera, con le sue orchestre di cinquanta elementi? In realtà, si tratta sempre di raccontare all’umanità le storie dell’umanità. Che riguardino Pulcinella o re Lear. Tuttavia, è vero che in questi ultimi tempi mi sono occupata spesso di teatro, arrivando a recitare io stessa sul palcoscenico. Del resto, e credo proprio che questo libro lo dimostri, ho sempre avuto una grande faccia tosta. Non ho mai subito gli antichi terrori della platea come buco nero, del confronto vivo con il pubblico. A proposito, com’era quella bella definizione del teatro? «Uno spettacolo vivo, dato a un pubblico vivo.» Poco più che un appuntamento a un caffè. Dio benedica la faccia tosta. Chi sarà il dio protettore della faccia tosta? Io credo che sia Mercurio. Perché? Perché protegge i ladri, gli imbroglioni, i bugiardi. Mi pare un dio simpaticissimo. Lo spettacolo in cui ho recitato si chiama Peccati d’allegria, e vi ripercorrevo la storia del cinema attraverso le sue canzoni. Io, sdraiata su una dormeuse, ero affiancata da Ottavia Fusco, alta, magra, bella ed elegante, che cantava. Un’orchestra accompagnava quella nostra bella passeggiata musicale, prodotta, si badi bene, dalla Fondazione Arturo Toscanini. Dall’imperitura, bellissima gamba di Marlene Dietrich nell’Angelo azzurro, fino ai nostri sciagurati giorni in cui vediamo spegnersi il filone del film musicale. Negli ultimi tempi, l’unico vero successo in questo genere cinematografico, l’ha avuto Chicago, perché viene da un
indimenticabile spettacolo teatrale di Bob Fosse ambientato nel 1930, proprio in quella città che, fra revolverate e gangster, fu capitale della malavita. A proposito: Bob Fosse è stato per me un idolo, anche se con me fu un po’ antipatico. Una sera, anni fa, cenammo insieme a New York. Io ero al culmine del successo e gli dissi che avrei amato molto fare un film con lui, qualunque idea avesse. Lui cominciò a guardare dentro le tasche della giacca e della camicia, dicendo: «Idee? Sorry, qui non ne trovo nessuna». E io, in un gagliardo romanesco – non dobbiamo dimenticare che l’impero romano ha preceduto di qualche millennio l’humour britannico – gli risposi: «A’ Fosse… ma che tu vuoi piglià pel culo a me?». I labirinti di Shakespeare La freccia veloce del piccolo dio dell’amore è fatta di una materia che riesce a ferire anche solo con le parole. E cosa c’è di più bello delle parole di un poeta? E che poeta! Questa volta parliamo del grande William. Io, con la mia buona dose di incoscienza, un bel giorno mi sono trovata di fronte al gigante. Però, consigliata dallo stesso titolo del suo capolavoro, Molto rumore per nulla, al quale ho aggiunto l’espressione liberatoria «senza rispetto», mi sono mossa senza problemi. Di che tratta la commedia? Nella città di Messina – che agli inglesi del tempo doveva apparire lontana ed esotica come l’India – una serie di giochi d’amore e di equivoci sentimentali scaturiti dall’arrivo del principe Pedro d’Aragona, coinvolgono, insieme al principe-burattinaio che muove i fili della vicenda, alcuni giovani nobili di ritorno dalla guerra e le figlie e nipoti del governatore locale. Fra l’altro, per gli intrecci d’amore, il grande William trasse ispirazione, come quasi sempre faceva, sia dall’Ariosto che dal Bandello. D’altra parte l’Inghilterra era lontana e all’epoca c’era una certa nonchalance sui problemi del diritto d’autore. Nella nostra realizzazione, invece del principe, a fare la regia dello spettacolo fu una donna, l’attrice Loretta Goggi.
Io avevo pensato, forse per via di quel «senza rispetto» che avevo aggiunto al titolo, a una commedia con musica messa in scena da una troupe di attori di strada, «raccogliticci», amatoriali. Disturbare il più grande poeta del teatro per uno scherzo irrispettoso era una metafora ironica di quello che tutti giorni vediamo accadere intorno a noi. L’unico che ebbe riverenza per Shakespeare e il suo tempo fu Enrico. Aveva immaginato una scenografia molto semplice che tuttavia consentiva rapidissimi cambi di scena, attraverso nove pannelli ruotanti. Interamente realizzata in legno, per richiamare la materia del Globe, la scena alludeva anche a un gazebo da giardino. I giardini tanto cari a Shakespeare, percorsi da labirintici sentieri dove perdersi e ritrovarsi. La compagnia era numerosa, con quattordici attori. Marioletta Bideri, coprotagonista, era anche uno dei produttori dello spettacolo che debuttò con successo al Teatro Romano di Verona. Altri due spettacoli realizzati in quegli anni, tra il 20062007, sono stati La vedova scaltra di Carlo Goldoni e Le nozze di Figaro di W.A. Mozart. Un incontro, questa volta, con due giganti del Settecento. A propormi La vedova fu un’attrice particolare, Raffaella Azim, una ragazza molto determinata che ha sempre avuto il coraggio di andare fuori del seminato, cioè di percorrere, avventurosamente, strade spesso non battute da altri. Ha rifiutato di entrare nelle compagnie regolari, proprio per questo suo desiderio di indipendenza. Brava, arguta, intelligente. Anche il personaggio di Goldoni che abbiamo scelto per lei, in qualche modo, le somiglia. Come per Shakespeare, anche il padre della commedia italiana doveva rendere conto nel proprio lavoro di popolose compagnie di comici. Era quindi necessario scrivere per parecchi personaggi, lasciando a ognuno di loro lo spazio indispensabile per poter emergere. Goldoni aveva una particolare ammirazione per i personaggi femminili. Quindi, soprattutto in questo caso, ci
teneva a fare di Rosaura, la «vedova», una donna diversa dalle altre, artefice del proprio destino, intelligente, che non si fa trasportare dai sentimenti ma compie, piuttosto, scelte razionali. Rosaura era andata in sposa giovanissima a un vecchio, come succedeva allora per i matrimoni combinati. Rimasta vedova e ricca, prende in mano il suo destino e vuole trovare il marito giusto. E Goldoni immagina per lei anche alcuni pretendenti stranieri; oltre a un italiano, uno spagnolo, un francese e un inglese. Questo permetteva agli attori di dare vita a caratteri molto definiti, quasi dei «tipi». È interessante riflettere sul fatto che La vedova scaltra è uno dei primi testi in cui Goldoni, salvo i due servitori Pantalone e Arlecchino, elimina le classiche maschere della commedia dell’arte, che fino a quel momento avevano caratterizzato il teatro europeo. Ancora una volta, la scenografia di Enrico era bellissima, con tutto il palcoscenico invaso da un enorme letto, che alludeva alla solitudine del letto vedovile. Ed è proprio in quel letto che Rosaura doveva trovare il compagno giusto per la sua vita. Debuttammo nel 2007 alla Biennale di Venezia, poi lo spettacolo girò in tournée un paio d’anni. Le nozze di Figaro è la mia quarta regia di un’opera lirica. Come sempre, la messinscena risentiva profondamente della cultura lirica e dell’inventiva di Enrico. Realizzammo lo spettacolo nel 2007, in occasione dell’inaugurazione del Tuscia Operafestival, a Viterbo, che proprio con questa regia di qualità voleva ufficialmente guadagnarsi un posto a fianco dei grandi eventi della stagione estiva nazionale. In questa occasione, io ed Enrico abbiamo cercato di eliminare le sovrastrutture, il rigore e la gravità che spesso appesantiscono le opere liriche. Cercando, al contrario, di trasmettere la freschezza, il dinamismo e l’allegria tipici di quest’opera che trae origine dal capolavoro teatrale di Beaumarchais. Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, fu un personaggio molto singolare. Ebbe una vita avventurosa e dimostrò sempre
una grande capacità di navigare con abilità nei non facili tempi in cui viveva. Suo padre era un orologiaio, ma lui, PierreAugustin, grazie al suo talento di musicista, suonava parecchi strumenti, e diventò addirittura l’insegnante delle figlie di re Luigi XV. Tra i suoi tanti lavori, fuori e dentro la corte, pare ci fosse anche quello di spia. Certo fu una delle personalità più singolari e più rappresentative della Francia dell’epoca. Navigò in tempi difficili, pieni di ghigliottine e di artisti. Morì nel 1799, quando la Francia era stata da non molto travolta dagli eventi rivoluzionari. Forse fu proprio quell’arte giocosa di mettersi davanti ai problemi (le sue opere spesso avevano dei problemi con la censura) che lo fece apprezzare da Mozart, che come lui era rimasto sempre un po’ scugnizzo. Per inciso, fu il primo che si occupò del diritto d’autore e noi dobbiamo a lui perenne gratitudine, per aver difeso la paternità delle nostre opere. Per il nostro allestimento Enrico fece un lavoro magnifico, riuscendo persino ad avere in prestito una parte dei costumi realizzati da Piero Tosi per il Casanova di Fellini. La sua scenografia era il sogno di ogni regista per la possibilità di movimenti che creava sul palcoscenico, a due piani e con due scale che permettevano molte azioni coreografiche. A fare da fondale, una serie di alberi di verdi differenti, realizzati in legno, alti otto metri. Sono passati pochi anni da quell’edizione delle Nozze di Figaro. E, purtroppo, quello è l’ultimo spettacolo che io ed Enrico abbiamo fatto insieme. Non c’è dubbio che la mancanza di Enrico abbia avuto un peso nell’allontanarmi dal teatro lirico. Lui non ha lasciato un segno solo nella storia della pittura e dello spettacolo. Sono contenta che, in occasione di una visita di Papa Giovanni Paolo II a Brescia, abbia avuto l’opportunità di realizzare un monumentale crocifisso che oggi si trova sulle Alpi, alto e teso ad abbracciare l’umanità e il suo dolore. Un segno che rimarrà per sempre a ricordare il genio di Enrico.
So che può sembrare cretino e anche ingiusto, avendo avuto la fortuna di vivere con lui per quasi mezzo secolo, e di ritrovare negli occhi di nostra figlia il suo sorriso, affermare quanto sia difficile per tutti noi accettare la sua assenza. Ma la vita è così: chi diceva che in fondo si tratta di una mezz’oretta? Ah, già, ero io.
Per finire
A questo punto, dovrei trovare un buon argomento per chiudere, per il momento, questa mia autobiografia. Per il momento: perché, quanto al futuro, ho una quantità di progetti che aspettano di essere realizzati. Qualche titolo? Napoli luntanamente, un film di cui ho scritto la sceneggiatura con Raffaele La Capria, e che è dedicato a uno dei più straordinari poeti italiani del Novecento, Salvatore Di Giacomo. Luna di marmellata, che racconta di una «luna» non più di miele (alludendo a un amore più maturo). Poi Ritravolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, che non ha bisogno di spiegazioni, trattandosi ovviamente del seguito dell’ormai celeberrimo Travolti... Il sesso di Hitler, un’ironica commedia che parla della visita del Führer a Roma per incontrare Mussolini e degli erotici piaceri che quest’ultimo vuole riservare al suo amico tedesco. Un’altra mia passione riguarda Livia, moglie di Augusto, sulla quale ho scritto una commedia per il teatro. Una di quelle donne potentissime che lottò forsennatamente per trasformare Roma da repubblica a impero e che spinse suo marito Augusto a diventarne il primo imperatore. Non bisogna meravigliarsi del mio interesse per l’antica Roma e per i tanti personaggi della sua lunga e fascinosa storia. E anche per l’apporto femminile in quel mondo di feroci maschilisti. Per carità, Roma caput mundi, fra l’antico impero e il Vaticano, sarebbe una città molto impegnativa. Ma, sdraiata con tutte le sue curve lungo il biondo Tevere, in realtà tradisce la sua natura di puttana, che prende tutto con leggerezza. Non meravigliatevi, allora, in fondo sono una
ragazza romana che, come avete letto fino adesso, ne ha fatte di tutti i colori. Pim Pum Pam!
Dovrei ringraziare molte persone che mi hanno dato una mano in questa passeggiata di ricordi, ma siccome sono troppe, mi limiterò a ringraziarne solo una, Valerio Ruiz, che mi ha seguito in questo lavoro con divertimento e passione.
INSERTO FOTOGRAFICO
La piccola Lina insieme al fratello Enrico in villeggiatura a Francavilla al Mare.
Nel 1946, a vent’anni.
All’Accademia teatrale di Pietro Scharoff.
«Come poteva interessare a tutti quegli inglesi, svizzeri, americani, svedesi, la piccola storia di un paesino della Basilicata?» Al Festival di Locarno del 1963, I basilischi ottiene invece la Vela d’Argento.
A Locarno con la madre Mariuccia ed Ennio Morricone
Con Toni Petruzzi, Flora Carabella e Stefano Satta Flores.
La prima al Teatro Eliseo dello spettacolo 2+2 non fa più 4, insieme alla compagnia: si riconoscono, da sinistra, Giancarlo Giannini, Lina, ranco Zeffirelli, Andreina Pagnani e, ultimo a destra, Enrico Job.
Con Giulietta Masina, Federico Fellini ed Enrico Job all’aeroporto di Ciampino.
Un’ultima occhiata al copione con Nino Manfredi e Luciana Paluzzi in una pausa di Questa volta parliamo di uomini.
Insieme a Rita Pavone, preparando una scena di Rita la zanzara.
Con Eros Pagni e Roberto Herlitzka sul set di Film d’amore e d’anarchia.
Sul set di Mimì, con la controfigura del famoso «culone».
Con Giancarlo Giannini, tra un ciak e l’altro di Mimì metallurgico ferito nell’onore.
In alto a destra: al trucco insieme a Giannini.
«Portare avanti un film con due soli personaggi non è certo un’impresa facile. Formidabili i miei attori.» Con Mariangela Melato e Giancarlo Giannini in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto.
Preparazione di una scena nel «lager nazista».
«Shirley si rivelò un’ottima attrice. Grande, bianca, americana di origine russa, e con una faccia da antica regina circassa. Crudele e sensuale.» Al trucco insieme a Shirley Stoler per Pasqualino Settebellezze.
La Sophia Loren «vedova di vendetta» in Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova (si sospettano moventi politici), in una pausa sul set con Enrico Job, e nella parte della «grande madre» Rosa Priore in Sabato, domenica e lunedì.
Con Giannini e Candice Bergen sul set di La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia. «Intendevo raccontare il cambiamento di un mondo evocato dalla notte, che portava con sé l’idea della fine, e dalla pioggia, che alludeva al diluvio universale.»
Sul set di Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti con Angela Molina e Harvey Keitel.
Una visita di Franco Zeffirelli durante le riprese a Cinecittà di Un complicato intrigo…
Sotto sotto… strapazzato da anomala passione, con Enrico Montesano e Veronica Lario.
Con Roberto Herlitzka durante una pausa di lavorazione di Notte d’estate con profilo greco, occhi a mandorla e odore di basilico.
Con Faye Dunaway e Nastassja Kinski, protagoniste di Una notte di chiaro di luna.
A colloquio con Luca De Filippo e il resto del cast di Sabato, domenica e lunedì.
Il «maestro» Paolo Villaggio e la classe di Io speriamo che me la cavo.
Con Veronica Pivetti, la Rossella di Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica.
Enrico Job.
Con Enrico e Maucì nel salotto di casa.
«Ero ancora adolescente quando si scoprì che dovevo portare gli occhiali, e mamma ne fu dispiaciutissima. Al contrario, io, curiosa com’ero, fui molto contenta di poter vedere nitidamente il mondo.»
In moviola, durante il montaggio di Questa volta parliamo di uomini. (© Mario Dolcetti)
Nella casa di via Ennio Quirino Visconti. (© Angelo Frontoni)
Alcune performance sul set….
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.librimondadori.it Tutto a posto e niente in ordine di Wertmuller Lina © 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Ebook ISBN 9788852030154 COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHIC DESIGNER: GAIA STELLA DESANGUINE | FOTO © GUIDO HARARI