Traduzione di Èva Omodeo Zona. Introduzione di Ettore Lepore La vita quotidiana a Roma all'apogeo dell'Impero [7 ed.] 8842041947, 9788842041948

Dalla toletta mattutina alla cena serale, le occupazioni e il tempo libero di Roma antica in un vivacissimo affresco sto

117 104 10MB

Italian Pages 380 [397] Year 1996

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

Traduzione di Èva Omodeo Zona. Introduzione di Ettore Lepore 
La vita quotidiana a Roma all'apogeo dell'Impero [7 ed.]
 8842041947, 9788842041948

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

EL 3

Jérôme Carcopino

Soa vita ({/uoMmna af/tomo/ aiïapogee delljmpew

¿ d îiv ù S S a ie v z a

Titolo dell'edizione originale La vie quotidienne à Rome à Lapogée de l'Empire © 1939, Librairie Hachette - Paris Traduzione di Èva Omodeo Zona Nella «Economica Laterza» Prima edizione 1993 Settima edizione 1996 Edizioni precedenti: «Biblioteca di Cultura Moderna» 1941 «Universale Laterza» 1967 «Biblioteca Universale Laterza» 1982 «Grandi Opere» (edizione con illustrazioni) 1984

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l'autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comun­ que favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 1996 Poligrafico Dehoniano - Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-4194-4 ISBN 88-420-4194-7

INTRODUZIONE d i Ettore Lepore

Ogni società antica attira oggi la curiosità del lettore in maniera insieme più viva e più positiva: non si tratta più di aver superato semplicemente una tradizionale concezione della storia che non andava al di là degli « avvenimenti » militari e diplomatici, o delle istituzioni politiche e amministrative. Né si tratta soltanto — almeno ci sembra di poterlo affermare — di una specie di evasione nel tempo, o di «e so tism o ». Il desiderio di vedersi restituire per ogni civiltà la sua « vita quotidiana », corrisponde oggi non tanto a una moda, quanto a un gusto e a un bisogno più profondi: quello di poter scor­ gere i dettagli della vita antica al di fuori di una superficiale « modernizzazione » che s’illuda di renderla, se così si può dire, più vivente e più vissuta. Cogliere i suoi aspetti minuti, propri e differenti, pur nella permanenza di certi atteggiamenti di fondo, permette di penetrare nella dimensione veramente storica dell’uomo, individuato in un tempo e in un ambiente; di quell’uomo che una definizione convenzionale vuole animale d ’abitudini. L ’analisi delle realtà economiche e sociali, che è ormai avvertita, dopo le esperienze più recenti, come la chiave per la comprensione anche del mondo classico — fuor di ogni cristallizzazione formale e tradizionale — ; l’indagine di « strut­ ture » funzionali e mentali che va diventando la nuova moda; infine quella degli elementi più vari e contraddittori di una civiltà che si vuole acquisire « totalmente » sono, forse senza saperlo, manifestazioni del gusto e del bisogno di avvicinarsi alla « vita quotidiana ». Avviene per i suoi rapporti con la storia quel che di re­ cente è stato detto (Cantoni) per quelli con la filosofia: non V

deve esistere tra esse frattura, divergenza e neppure malintesa compenetrazione. La storia tende ad essere sempre meno for­ malistica, evasiva, tecnicistica, la vita quotidiana che ne sia l’oggetto non può avere per modulo « il registro della propria banalità e incoerenza ». Ogni lettore può meglio accedere al­ l’universo storico degli « esperti » e questi possono evitare le trappole della volgarizzazione e non tradire con se stessi i pro­ blemi affrontati con la mediazione di quello che tutta una tra­ dizione di studi consolidata ama appropriatamente definire « vie quotidienne ». Quando la storia, in tutta la sua comples­ sità e dignità, riesce a calarsi — e talvolta sia pure a celarsi — nella sua materia stessa, nel passato concreto, quale potrebbe anche apparire questa realtà « quotidiana », essa si lascia tanto più facilmente penetrare, e avviene così di potervisi aggirare con piena libertà sensoria, senza pregiudizi e senza schemi. È perciò che ci sembra valga la pena di rileggere e ripresentaré al pubblico italiano che ancora non l ’avesse avuto tra le mani questo libro di Jerome Carcopino, che inaugurò nel 1939 un’intera collezione dell’editore Hachette cui è toccata molta fortuna, e che è stato per il mondo classico uno dei più brillanti e rappresentativi realizzatori del genere. La tradu­ zione italiana comparve in momenti cruciali per il nostro paese (1941) e non produsse quella discussione che pur avrebbe meritata. È difficile, in verità, far la storia di questo libro, che pur molto interesserebbe: per sua espressa dichiarazione l’autore teme « il grave pericolo cui si espongono di solito gli storici dell’antichità..., cioè di lasciarsi distrarre dalla realtà dalle in­ terpretazioni che essa ha ricevuto. Troppo spesso, l ’erudizione li allontana dalla scienza, e la sovrabbondanza delle let­ ture finisce per nascondere loro l’autentica lezione dei fatti » (« Mei. Bidez », p. 35). Perciò noi cercheremo invano — anche negli scritti autobiografici — un accenno un po’ più generoso alla genesi dell’opera, alle letture, impressioni ed esperienze che l ’hanno ispirata e preparata. Se noi leggiamo le prime parole della prefazione quella « lezione dei fatti », e di fatti ben determinati nel tempo e nello spazio, fa subito capolino contro l’organizzazione siste­ matica che un tema come questo aveva suggerito al secolo xix: VI

« Se si vuole evitare che la “ vita del romano ” si perda negli anacronismi o si irrigidisca nell’astrazione, bisogna cominciare a studiarla nei limiti concreti di un periodo rigorosamente de­ finito. Nulla cambia così rapidamente come le abitudini degli uomini » (p. 3). L ’esigenza storica, individualizzante, distingue subito il li­ bro dai manuali o storie « de la vie privée » cui pure è stato commisurato e ai quali esso riconosce il suo debito, come alla « miniera documentaria incomparabile » degli articoli antiquari del Dictionnaire del Daremberg, Saglio e Pottier (1878-1916). E lo distingue anche da un’altra opera cui l’autore stesso si richiama còme a « vero tesoro d ’informazioni e di fatti »: le Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms in der Zeit von August bis zum Ausgang der Antonine di L. Friedländer, che presentano d ’altra parte molte consonanze con le motivazioni del Carcopino, sulla scelta del periodo, sull’esigenza quantita­ tiva di documentazione per la « figurazione più precisa », sul­ l ’importanza caratterizzante di testimonianze come Giovenale, Marziale e Petronio. È stato notato come in Francia il Fried­ länder non fosse familiare che agli specialisti, pur essendo di­ venuto per essi un classico ed avendo potuto presto circolare in una traduzione francese (di C. Vogel, 1865-1874); e di recente è sembrato che il libro di Carcopino renda meno ne­ cessario ricorrere a quella grande opera. Il discorso qui si fa­ rebbe troppo lungo. Non si nega tra le due esperienze una certa congenialità nella predilezione per soggetti di per se stessi attraenti e vivi, anche perché spesso non consueti ai manuali tradizionali, e l’uso del confronto con tempi e situa­ zioni storiche più recenti che rinnova giudizi tradizionali, for­ mulati astrattamente e senza termini concreti di paragone. Una volta bisognerà, tuttavia, definire più esattamente con il va­ lore storico le radici della Sittengeschichte, tenendo conto die anche il suo autore non seppe staccarsi immediatamente — co­ me ha sottolineato il Momigliano — dalla tradizione delle Privataltertümer. La ripugnanza per gli « anacronismi » e 1’« astrazione », se stacca il Carcopino dai possibili antecedenti antiquari, lo appa­ renta tuttavia, nel rischio di riaprire « quel dissidio tra la evo­ cazione del fatto singolo e la ricostruzione del corso storico » VII

che vanta origini dal grande Gibbon, con un altro « dotto sto­ rico » ch’egli menziona: Michele Rostovtzefï. E non solo in questo rischio: ché essi hanno in comune — pur nella diver­ sità di convinzioni e temperamenti — la capacità di proiettare e tradurre una vasta massa di documenti in immediata rappre­ sentazione di un momento storico, anzi di tutta un’età, e la predilezione per la « città » di contro a « la monotonia del­ l’esistenza in campagna », per dirla con il Carcopino, e alla villa, e anche alla « piccola città ». Ché l’interesse ad Ostia quale il Carcopino ha manifestato fin dalla sua tesi di dottorato {Virgile et les origines d’Ostie, 1919) e dai suoi primi sog­ giorni (1904-7, 1922) alla « École Française » di Roma (v. an­ che Ostie, Paris 1929) non è tanto quello per la sua indivi­ dualità municipale, ma quello per il suo carattere di vestibolo e specchio di Roma, con il suo Foro e i suoi porti, di centro di gravitazione delle esigenze dell’Urbe, dei beni e delle ener­ gie consacrate alla sua felicità (pp. 202-6). Egli spazialmente limita dunque « la vita del romano », « esclusivamente in città, o piuttosto nella città per eccel­ lenza », sicuro che altrimenti « mancherebbe di consistenza e di base »; temporalmente guarda « alla generazione che, nata alla fine del principato di Claudio o all’inizio del regno di Ne­ rone, verso la metà del primo secolo dopo Cristo, potè rag­ giungere gli anni di Traiano (98-117) e di Adriano (117-138) ». Nell’una come nell’altra scelta il criterio è quello di poter con­ centrarsi su « una misura comune », in questo caso « l ’apogeo della potenza e della prosperità romana » (p. 4), « questa Roma dei primi Antonini, enorme, cosmopolitica e disparata, in cui i contrasti sono nello stesso tempo così numerosi e così vio­ lenti », ma dove « è tuttavia possibile rappresentarsi con suffi­ ciente chiarezza quale fosse di solito la giornata del “ romano mèdio ” » (p. 167). Della triade che ha influito sullo studio della vita quoti­ diana nell’antichità e che il Momigliano identificava nel 1955 in Max Weber, Rostovtzefï e Marc Bloch, il primo e il terzo si sentono dunque assai poco o niente affatto nel quadro degli interessi del Carcopino. La cifra distintiva resta anche in lui, invece, come nello storico russo, il gusto per la vita cittadina « specialmente nei suoi aspetti borghesi »: che si nascondono V ili

in fondo nella pagina finale del libro (p. 314), « nella con­ dotta comune degli uomini migliori, nella vita quotidiana dei piccoli borghesi e della plebe, nella modestia della corte di Traiano, nella frugalità dei pasti cui Plinio il Giovane ed i poeti convitavano i loro intimi, nelle cenae bonarie nelle quali i fedeli di Diana e di Antinoo stavano fraternamente fianco a fianco; infine e soprattutto in quelle agapi serene » dei cristiani di Roma. Un suo vecchio allievo, che il Carcopino trovò a Roma nei primi mesi del 1937, quando vi si recò a dirigere 1’« École », lo storico e archeologo Pierre Grimal, implicita­ mente riconosce questo gusto caratteristico, quando scrive del mondo storico che affiorava nelle lezioni del maestro alla Sor­ bona (« Biblio », 1964, p. 9): « Dov’era, in questa umanità che guidavano degli istinti molto semplici e che dominava so­ prattutto la p r e o c c u p a z i o n e d i u n a r i s p e t t a b i ­ l i t à b o r g h e s e — dov’era questa impressionante deprava­ zione morale che noi pensavamo, ingenuamente, essere la ca­ ratteristica essenziale del mondo romano? Il Carcopino non avanzava mai alcun giudizio morale e, come lui, noi impara­ vamo ad astenercene ». Il quadro dell’umanità romana che il professore della Sor­ bona del 1932 faceva apparire agli occhi dei suoi allievi inse­ gnando epigrafìa latina e commentando le iscrizioni dei muni­ cipi dell’Africa romana, non era come si vede molto diverso, sempre che egli s ’imbattesse nella « vie de ces communes » e nella folla che circondava questa « borghesia ». Solo che poi, nel 1937, il Carcopino aveva da fare ormai con ben altri pro­ tagonisti e con i grandi problemi, non più solo locali, ma eco­ nomici, giuridici, sociali e morali del « centro e culmine del­ l ’Universo » (p. 5), della capitale dell’impero romano. E oltre che a lavorare su materiale epigrafico e archeologico ora lo scrit­ tore e lo studioso era tornato a leggere anche storici e mora­ listi e poeti, proprio il Tacito, il Giovenale, il Marziale che erano sembrati ai suoi giovani allievi fornire un’immagine tanto diversa da quell’umanità. E scriveva a Roma, reimmergendosi in un’atmosfera e nel paesaggio stesso, sì che ora non sapeva fare a meno di un giudizio morale e gli riusciva difficile tenersi fermo al proponimento di « rinunciare a mescolare colori così diversi » (p. 5), se non quelli degli scenari e paesaggi antagoIX

nistici della città e della campagna, quelli degli ambienti di­ versi in cui l’esistenza antica si era svolta. Nacquero così, ci sembra, pur nello stesso tempo e spazio, le due parti del libro: « l ’impiego del tempo » e « l’ambiente della vita romana », due livelli e due ritmi in rapporto, se così si può dire, che l’edi­ zione inglese ha forse reso in maniera più pregnante: la routine giornaliera e il sostrato fisico e morale. Da una parte l ’unifor­ mità precaria, in fondo banale e un tantino filistea, della «vita quotidiana », che faceva esclamare a un recensore acuto: « que la vie devait être ‘ quotidienne’ ! ». D all’altra la tensione dei problemi di fondo, quello urbanistico « dell’immenso agglo­ merato », quello sociale delle strutture gerarchiche, del cosmo­ politismo, della cosiddetta « confusione di valori », quello mo­ rale del fermento religioso e dei « sintomi di decomposizione ». Il senso morale qui si fa esplicito fin nei titoli di certi para­ grafi, quando il giudizio non diventa addirittura moralistico, di un solenne e nobile moralismo, anche se un po’ troppo se­ vero a volte, e di colorito conservatore. Il presente perfino fa capolino in alcuni di questi giudizi, nonostante l’autore; il conforto materiale di Palazzo Farnese che circondò, dal luglio 1937 al dicembre 1938, la stesura di La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero — come l’autore sottolinea nei suoi Souvenirs de sept ans, 1937-1944 (Paris 1953, p. 34) — non potette soffocare il disagio morale, le ansie, l’amarezza, la costernazione dello storico francese che, nella lunga agonia delle relazioni franco-italiane e della pace europea, tra giorni alterni d’illusione e di disincantata previ­ sione, fino all’aggressione fascista, credette sempre sincera­ mente si potesse, da uomo della vecchia classe dirigente e in­ namorato del nostro paese, « ne songer qu’à l’Italie » (Souve­ nirs, p. 24). Il suo libro, comparso poco prima della conclu­ sione del « patto d’acciaio », senza che egli lo sapesse e senza che la sua coscienza scendesse fino alla radice del male e alla diagnosi profonda — nel timore di lasciarsi « hypnotiser par le fascisme » — partecipava a suo modo del clima angoscioso, alla vigilia della immane tragedia, che in ben altra forma e lucidità si manifestava per esempio con l’apparizione di The Roman Revolution di Ronald Syme, nello stesso 1939. Il libro di Carcopino era — pur tenendo conto delle grandi diffe­ rì

renze — come il rovescio del quadro di tacitiano rilievo dello storico inglese. Egli intendeva in fondo cogliere « nella sua realtà» l’esistenza di uomini che vivevano gli sviluppi centrali del processo storico iniziatosi con Augusto, voleva formarsi « prima e al di fuori delle convenzioni, che troppo spesso la al­ terano una concezione sommaria ma adeguata» (p. 5) dei suoi fenomeni principali. La Vita quotidiana ne diveniva la verifica minuta, non con i chiaroscuri e i taglienti squarci di Tacito, ma con la virtuosità maieutica e il talento espositivo che han fatto evocare il Taine e richiamano i suoi «tout petits faits significatifs ». Il libro si legge ancora — specie dal lettore non specializ­ zato — con interesse e saporoso divertimento, benché non manchino luoghi dove si avverte malinconica tristezza. Natu­ ralmente dopo quasi trent’anni e in atmosfera culturale mu­ tata si può dissentire da certe ricostruzioni e interpretazioni, si possono non condividere giudizi o tipi d’approccio. Il tono iniziale promana dall’ambiente fisico: è quello della « bellezza delle rovine » e quasi sembra ritornare, motivo ispi­ ratore, dalla celebre pagina dell’autobiografia del Gibbon, ma è anche, naturalmente, un paesaggio del tutto diverso e « ag­ giornato », come diverso e mai sottratto alla realtà italiana con­ temporanea è lo stato d’animo che vi si riflette o vi si rifugia. Paesaggio e monumenti nella città si compenetrano ed è forse anche per questo che la « campagna », dove la traccia della civiltà antica è a volte meno evidente, non riesce a parlare all’autore che il linguaggio quasi incontaminato della sua na­ tura. Le pagine iniziali dei Souvenirs sembrano documentare ampiamente questa condizione spirituale che fa da sfondo (pp. 8-9): Ben presto io mi sentii avvolto nella pesante atmosfera dove si condensa l’elettricità di imminenti temporali; e questa minaccia diffusa, ma costante, questo clima d’ostilità volta a volta aggressiva o recriminante non tardarono ad avvelenare la gioia che io avevo provata dal mio ritorno..., nella Città, unica al mondo, la cui gran­ dezza e bellezza attirano per sempre nel loro incantesimo colui che una volta ne è stato penetrato. XI

Sembra che la maestà di Roma sfidi ogni attentato. Prima d’es­ sere quasi totalmente rispettata dalle distruzioni della guerra, aveva assimilato, senza soffrirne, l’aspetto urbanistico alquanto chiassoso del nuovo regime italiano; e il volto deH’Urèr mi parve aver non solo conservato, ma consolidato l’essenziale dei suoi tratti incan­ cellabili; e benché la canicola incrudelisse nelle settimane della mia istallazione, io non mi stancavo di far rivivere, ad ogni scap­ pata fuori, le impressioni che, trent’anni prima, avevano riempito d’incanto le mie prime visite e il cui fascino rinasceva spontaneo sotto i miei passi. Per esser divenuto un po’ più intelligibile, il Palatino non aveva perduto nulla della poesia che esalano i suoi muri abbattuti, sotto il fogliame immobile dei lecci e nello splendore profumato delle rose. Il Foro che, su venti metri di percorso, dalla pretesa tomba di Romolo... fino alla colonna di Phocas... racchiude un passato millena­ rio quasi ininterrotto, e i cui scavi ancora incompiuti promettevano di arricchire, alla Curia, alla Basilica Emilia, il tesoro monumentale, conservava, accresciuta, la sua forza di evocazione storica incredibile... Se da queste immagini particolari io tentavo di elevarmi a una visione d’insieme, io avevo la fortuna di constatare che nessuna delle linee essenziali della sua incomparabile bellezza si era alterata. Sulle piazze familiari, dove si affollava lo stesso popolo di cui io avevo imparato ad amare la gentilezza, cantavano le stesse fontane barocche. Il mattino, dalla vasca della Villa Medici, immortalata dal pennello di Corot, o la sera, dal terrapieno di S. Pietro in Montorio, potevo sempre, e con la stessa dolcezza, contemplare, in un pulviscolo di luce dorata, che, solo, il vivente disordine delle vie segnava del reticolo delle loro ombre, Roma intera che spiegava di­ nanzi ai miei occhi abbagliati le sue colline con i loro giardini, le sue torri feudali e i suoi palazzi principeschi, e, al di là dei cam­ panili e delle volte delle sue innumerevoli chiese, la cupola di Michelangelo, in cui volume e profilo ineguagliati sembrano riflettere sulla terra l’infinita perfezione della volta d ’azzurro alla quale essa aspira. Infine, appena superata una delle porte della muraglia aureliana, la « campagna », malgrado la lottizzazione delle cooperative agricole e i drenaggi d’una « bonifica » spettacolare, rimaneva tale quale ai tempi in cui Chateaubriand si inebriava della grandiosa melanconia dei suoi orizzonti; e continuava ad offrire agli sguardi, per l’acquetamento dell’animo, la fantasmagoria dei crepuscoli, dove, d’un sol colpo, tra le ombrose pinete di cui è disseminata e il Te­ vere che la solca, il tappeto dei suoi liberi pascoli s’illumina del riverbero di qualche rovina solitaria con i suoi festoni d’acanto incendiati dai fuochi del tramonto.

XII

Assai spesso negli anni che seguirono, mi è bastata una pas­ seggiata poco lontano o una breve escursione fuori le mura per attenuare le mie inquietudini e le mie agitazioni. Ma riconosco che, nel primo momento, dimenticai tutte le mie preoccupazioni: m’ab­ bandonavo, senza riflettere oltre, al rapimento di ritrovare intatti, i sortilegi della Città Eterna; e nell’allegrezza di questa seconda scoperta, attingevo d ’un tratto, con fede ottimista nell’avvenire, che questo doveva crudelmente smentire, un accresciuto ardore...

Ottimismo e risentita censura, equilibrio realistico e giu­ dizio pessimistico o melanconica constatazione restano, al di là del tono generale e dello stato d ’animo cui il libro si è nu­ trito, le due facce della coscienza storiografica che presiede, nel Carcopino, all’esame dei vari problemi e momenti, quasi a specchio dei « fatti » e delle « tranches de vie » della Roma di Traiano eh’essa vuole rivivere ed evocare. Queste due facce, nel rischio di isolamento del periodo studiato e d ’irrigidimento della sua individuazione fuori dello svolgimento storico, creano una tensione benefica e non permettono a questa ricostruzione di vivere, come talvolta avviene per la « vita quotidiana », in pura superficie. La ricchezza d’informazione e di fatti, la capacità di enu­ cleare lo « spirito delle cose » e di suggerire con la sua felice esposizione certe antinomie, e il movimento della vita e della storia che da esse sembra attingere senso, fanno del libro di Carcopino un libro che dura ancora. Se si devono additare al lettore dubbi o dissensi o divari di valutazione questi concer­ nono qualche punto ben preciso. Noi saremmo più cauti, per esempio, nell’accertamento e nel calcolo della popolazione totale di Roma nell’età di Augusto, che il Carcopino è indotto a valutare « ad una cifra assai pros­ sima, e forse persino superiore, al milione » (p. 27), per salire ad 1200000 abitanti circa nella Roma degii Antonini (p. 30). Le osservazioni di qualche studioso che vuol tornare ai 700000 abitanti di Giulio Beloch come massimo (cfr. W . E. Westermann, in « Amer. Hist. Rev. », 46, 1941, pp. 700-1) e più la rinnovata discussione terminologica e metodologica venuta dopo il libro (cfr. p. es. F. Lot, Rome et sa population, in « Annales d ’Hist. so c .», 1945: Hommages à Marc Bloch, ri, pp'. 29-38) che risente dell’atteggiamento critico verso i dati

rradizionali, vivo fin da Hume, e della nuova ricerca demo­ grafica, invitano a una revisione e riduzione delle cifre. Del resto il « gigantismo » e il paragone con le metropoli ameri­ cane appare piuttosto di maniera, e si preferisce il non con­ venzionale confronto del quadro delle case e vie romane con quello di ambienti medievali, o musulmani, antichi e mo­ derni, quali l’autore, da conoscitore, istituisce ripetutamente (pp. 18, 42, 45, 63-4, 66), anche se egli sente il bisogno di riscattarlo poi nel « segno di quella disciplina sociale » che gli sembra eredità di Roma nell’Occidente di oggi. Anche certi riferimenti della moneta antica a moderna valuta lasciano sconcertati e si desidererebbe piuttosto quello studio dei prezzi e del costo della vita, di cui già il Piganiol (« Rev. Hist. », 1939, p. 286), all’apparizione del volume, la­ mentò la mancanza; esso sarebbe tanto più importante a dar conto preciso di quegli « standards » di vita e delle grandi for­ tune, analizzati in un paragrafo molto utile (pp. 80-9). Pagine molto interessanti come quelle sulla schiavitù, sulla famiglia, sull’educazione stimolano anche lo studioso specia­ lizzato a nuove osservazioni; qui qualche venatura moralistica non manca e così, se tra i fattori di « demoralizzazione » che sono analizzati quali alterazioni della vita sociale si può con­ sentire con l’accento posto sui gravi problemi che derivavano dall’istituto della schiavitù e da certe « strutture » d ’origine servile (che investono del resto il carattere dell’intera società antica), non altrettanto capita ormai per il sottolineato « co­ smopolitismo » e la già citata « confusione di valori sociali ». Gli studi venuti dopo il libro del Carcopino sulla circolazione delle élites provinciali (Syme, Badian), certi altri su aspetti par­ ticolari della miscela etnica a Roma e in Italia (dopo M. L. Gor­ don, in « JR S », 1924, pp. 93-111, spec. F. M. Snowden jr., in « AJPh », 1947, pp. 266-92; «c The Class. Outlook », 1948, pp. 71-2); e in genere tutta l’indagine su problemi etnologici e sociologici nei domìni coloniali, sull’acculturazione e su strut­ ture « coloniali » particolari (D. Ayalon, C. R. Boxer, H . J. Nieboer, E. Williams, A. Dupront, G . Freyre, e cfr. V. Lanternari, Désintégration culturelle et processus d’acculturation, in « Cahiers int. de Sociologie », x l i , 1966, pp. 117-32) — non estranea del resto alla più recente ricerca sulla schiavitù (M.

XIV

Finley, e sempre M. Bloch) — suggerirebbero ormai tutt’altra prospettiva nell’affrontare siffatti temi; è naturale tuttavia che i risultati del Carcopino vanno giudicati in relazione ai metodi dominanti quando il libro fu scritto e tenendo conto della generazione, formazione e ambiente cui l’autore appar­ tiene. Parimenti una diversa sensibilità potrebbe giungere a considerazioni nuove sul « fetnminismo » e su « i divorzi e l ’instabilità della famiglia ». Il capitolo sull’educazione, la cultura e la scuola resta in­ vece un buono scorcio, anche dopo la pubblicazione dell’opera del Marrou. Pagine come quelle sulla « retorica irreale » (pp. 134-42) contengono spunti importanti per la storia dei rapporti tra letteratura e società. Piuttosto il giudizio sulle letture pubbliche o sugli spettacoli, anche se tien conto di moderne esperienze sociologiche (v. p. es. p. 228) insiste forse troppo sulla « necessità che regge i governi di mas­ sa ». Una più sottile distinzione dei «g o v e rn i», un mag­ gior peso dato alle istituzioni politiche, avrebbe forse portato più a fondo la diagnosi della « decadenza »; e allora l ’accento sarebbe più esattamente caduto — come è stato notato (Piganiol, loc. cit.) — sulla « tirannia » e sul « terrore ». La sottolineata differenza nell’elargizione di spettacoli del circo o del teatro (benché l’interpretazione del Carcopino di un’iscriziofie di Ostia a p. 253 e nota sia stata messa in dubbio dallo stesso Piganiol) indurrebbe a riflettere, e tutto il paragrafo sul teatro poteva guadagnare da un apprezzamento di certi elementi di rinnovamento, quale pure affiora per il mimo (p. 262), ma che avrebbe avuto bisogno forse di allargare certe esperienze di gusto che sono invece naturalmente quelle, storicamente con­ dizionate, dell’autore. Il giudizio morale sulla temperie spirituale dell’età Anto­ nina (p. 121 s.), riscatta — si è detto — la ricostruzione da Ogni pericolo di sistematica descrizione, come di isolamento astratto da un contesto in movimento. Esso, tuttavia, non sempre si mantiene equanime: quello sul mondo dei lavoratori e sul loro « tempo libero » è eccessivamente severo (pp. 208-13); non tien conto delle modeste condizioni dello sviluppo tecnico dell’artigianato e sembra dimenticare la pur fine constatazione (pp. 173, 213) che « la vita romana è sempre rimasta campa­ XV

gnola nella sua sagoma e nel suo andamento », dunque nelle abitudini e nell’uso del tempo. In questi rari casi il Carcopino sembra esser rimasto estra­ neo al suo stesso monito che sugli ideali dell’epoca, e quindi sulla vita» stessa di quegli uomini passavano oscure le « nuvole del reale » (p. 90); e vien voglia di richiamarlo a più umano realismo e alla considerazione del Taine, cui egli rimane così spesso accosto, dinanzi alle Terme di Caracalla: « Il faut venir ici pour comprendre ce mot: une civilisation autre que la nôtre, autre et différente, mais, dans son genre, aussi complète et aussi fine... ». Questo studio della « vita quotidiana », entro i limiti che abbiamo visto e che sono quelli storici dell’autore e del suo tempo, resta proprio nel complesso una viva e profonda ana­ lisi delle basi stesse materiali e spirituali della civiltà imperiale romana, un contributo notevole alla sua moderna interpreta­ zione. La sua rilettura conferma che questo è uno dei libri più sensati e duraturi di Jérôme Carcopino. Se è anche vero — come ha affermato il Momigliano (Terzo contributo, Roma 1966, il, p. 778) — che col tempo « la scala dei valori e di preferenze creata dal Carcopino per la storia romana... si è ormai rivelata erronea. Ricostruzioni molto incerte di culti e di ideologie politiche si sono sostituite alla sobria valutazione dei fatti giuridici, economici e politici... », questa Vita quoti­ diana invece è ancora al di qua di tali errori di valutazione e false scelte. Essa appunto non « trascura ciò che l ’archeologia può rivelare con più sicurezza, i fatti economici e sociali » e senza andare alla ricerca di « misteri » si ripiega sulle opere e i giorni degli uomini nella Roma imperiale; al di là del mate­ riale archeologico, anzi, fa parlare i suoi autori, fonti dalla corpulenta e pittoresca visione, in cui non è assente, come in altra letteratura, la vita. Se immaginazione e sentimento so­ stengono qui la rigorosa e chiara esposizione, essi non ne di­ minuiscono la solidità; servono ad acuire semmai, l’evidenza del reale. Lo storico qui non ha neppur bisogno di leggere tra le righe e il lettore può afiìdarglisi, proprio come in « une flânerie toute proche », distensiva e intelligente, di quelle che anche il Carcopino amerebbe certo ripetere a Roma.

XVI

LA V ITA QUOTIDIANA A ROMA A L L ’APO G EO D E L L ’ IM PERO

PREFAZIONE

Se si vuole evitare che « la vita del romano » si perda negli anacronismi o si irrigidisca nell’astrazione, bisogna cominciare a studiarla nei limiti concreti di un periodo rigorosamente defi­ nito. Nulla cambia così rapidamente come le abitudini degli uomini. Senza parlare di quella rivoluzione, le cui recenti sco­ perte scientifiche (il vapore, l’elettricità, le strade ferrate, l’au­ tomobile e l’aviazione) hanno sconvolto il mondo presente, è certo che anche in epoche di tecnica meno perfezionata e di maggiore stabilità, le forme elementari dell’esistenza quotidiana variano rapidamente e senza tregua. Il caffè, il tabacco, lo cham­ pagne sono entrati nell’uso solo nel secolo xv n ; il consumo della patata si è diffuso solo alla fine del secolo x v iii ; la banana ha incominciato a comparire comunemente sulla nostra tavola solo al principio del xx secolo. L ’antichità romana ha subito anch’essa questa legge del mutamento; ed era già un luogo comune della sua retorica l’opporre al lusso e alle raffinatezze dei secoli imperiali la rozza semplicità della repubblica, quando un Curio Dentato « coglieva e sul modesto Suo focolare i cavoli cuoceva » l. Fra epoche così differenti non ci può essere una misura comune, né per il cibo, né per la casa, né per la suppellettile: Tales ergo cibi qualis domus atque supellex2;

1 giovenale, xi, 78-79. [Nel volume i versi di Giovenale sono sempre citati nella trad. di Guido Vitali, Bologna, Zanichelli, 19654. (N.d.E.)] 2 GIOVENALE, XI, 99. 3

e poiché una scelta si impone, io mi limiterò deliberatamente alla generazione che, nata alla fine del principato di Claudio, o all’inizio del regno di Nerone, verso la metà del primo secolo dopo Cristo, potè raggiungere gli anni di Traiano (98-117) e di Adriano (117-138). Questa generazione vide l’apogeo della potenza e della prosperità romana; assistette alle ul­ time conquiste che i Cesari abbiano portato a termine: quella della Dacia (106) che riversò sull’impero il Pattolo delle mi­ niere d ’oro transilvane; quella dell’Arabia (106), che, comple­ tata dai successi della campagna partica (115), fece affluire, sotto la protezione dei legionari di Siria e dei loro alleati del deserto, le ricchezze dell’India e dell’Estremo Oriente. Sicché, dal punto di vista materiale essa si elevò al grado superiore delle civiltà antiche. E nello stesso tempo — per ima coinci­ denza tanto più fortunata in quanto la letteratura latina si sarebbe inaridita qualche anno dopo — , questa è la genera­ zione di cui i documenti concorrono ad offrirci il ritratto più preciso. Immenso materiale archeologico ci viene dal Foro Traiano, nella stessa Roma; dalle rovine di Pompei ed Ercolano, le due città di piacere seppellite vive sotto l’eruzione del 79, e cosi purè dalle rovine di Ostia, che ci sono state resti­ tuite dà scavi recenti e che in complesso risalgono al tempo dell’a'ttuazione — in questo grosso centro mercantile — dei piani urbanistici dell’imperatore Adriano. A tutto ciò si aggiun­ gono, a nostra maggiore informazione, le testimonianze vivide e pittoresche, precise e gustose offerte in abbondanza dal ro­ manzo di Petronio, dalle Selve di Stazio, dagli Epigrammi di Marziale, dalle Lettere di Plinio il Giovane, dalle Satire di Giovenale. Qui veramente la sorte ha favorito il pittore, per­ ché gli ha fornito il diritto e il rovescio del quadro. Quest’ultimo, però, sarà veridico e fedele soltanto se sarà solidamente congiunto alla cornice che non solo lo circonda, ma lo determina. Anche se fissata a un punto fermo della storia, la vita del romano mancherebbe di consistenza e di base se fossimo inca­ paci di delimitarla nello spazio, in campagna o in città. Oggi — nonostante la molteplicità delle comunicazioni, la diffusione dei giornali, l’elettrificazione nei più piccoli villaggi, la presenza di apparecchi radio in umili capanne, portino fin nelle solitarie 4.

fattorie un po’ del rumore, del pensiero e dei piaceri della capi­ tale — sussiste ancora una differenza enorme tra la monotonia dell’esistenza nelle campagne e l’eccitazione febbrile dei centri urbani. N ell’antichità, tale differenza separava gli abitanti delle città da quelli delle campagne in maniera assai più brutale, e creava fra loro una disuguaglianza così esasperante che — se dobbiamo credere al dottò storico Rostovtzeff — li scagliò gli uni contro gli altri in una lotta sorda ed accanita, in cui si spezzò, con la complicità dei paria, la diga elevata dai pri­ vilegiati contro la marea dei barbari. Agli ùni, in realtà, erano riservati tutti i beni dejla terra e ogni agio; agli altri un duro lavoro, senza scopo né utile alcuno e la costante privazione delle gioie che nelle città riscaldavano il cuore dei miserabili: l’alacrità delle palestre, il tepore delle terme, il tripudio dei banchetti delle corporazioni, la dovizia delle sportulae, lo splen­ dore degli spettacoli. Bisogna rinunciare a mescolare colori così diversi, e, ancora una volta, scegliere: le giornate del romano, suddito dei primi Antonini, che noi ci proponiamo di seguire nei successivi mo­ menti, trascorreranno esclusivamente in città, o piuttosto nella città per eccellenza — VUrbs — , a Roma, centro e culmine dell’universo, regina orgogliosa e sazia di un mondo che pro­ prio in questo periodo essa sembra aver definitivamente pa­ cificato. Ma tale esistenza, non riusciremmo a coglierla nella sua realtà se non tentassimo di formarci prima e al di fuori delle convenzioni che troppo spesso l’alterano, una concezione som­ maria ma adeguata degli ambienti in cui essa si è svolta, e di cui per necessità ha assunto i colori; l’ambiente sociale delle diverse classi che la dominano con la loro gerarchia; l’ambiente morale dei sentimenti e delle idee che ne spiegano volta per volta i meriti e le debolezze. Ci occuperemo dell’uso del tempo di questo romano del­ l ’antica Roma soltanto dopo aver ricostruito a grandi linee l ’ambiente in cui visse e fuori del quale la sua vita quotidiana ci riuscirebbe quasi inintelligibile. La Ferté-sur-Aube, Io settembre 1938.

5

Parle Prima L 'A M B IE N T E D E L L A V IT A R O M A N A

Sezione Prima L ’AM BIENTE FISICO : LA CITTÀ, L E CASE, L ’AM M INISTRAZIONE

I tratti caratteristici della fisionomia materiale della Roma imperiale si urtano in contrasti tali, che sarebbero irriducibili senza le « armoniche » della storia e della vita. Da una parte la cifra elevata della sua popolazione, così come la grandiosità architettonica e la bellezza marmorea dei suoi edifici pubblici, l’accomunano alle grandi metropoli del­ l ’Occidente contemporaneo; dall’altra, l’ammassamento, a cui essa condannava le moltitudini, su di un terreno ineguale e su di un’area ristretta dalla natura e dagli uomini; lo strozza­ mento delle stradine aggrovigliate; la scarsità dei servizi;, i pericolosi ingombri della circolazione, l’avvicinano a quelle città medievali descritte dai cronisti, di cui certe città musul­ mane hanno conservato, fino ai nostri giorni, il pittoresco a volta seducente a volta sordido, le irregolarità imprevedibili e il brulicame anarchico. È proprio questo contrasto essenziale che bisogna innan­ zitutto mettere in luce.

Capitolo Primo SPLENDORE, ESTENSIONE. POPOLAZIONE D E LL’URBE

1. SPLENDORE DELL’URBE: IL FORO DI TRAIANO Mi si consentirà di non soffermarmi sullo splendore che irradiava dall’Urbe al principio del il secolo dell’èra cri­ stiana. La bellezza dei ruderi, che ne sono il riflesso, è in­ comparabile; ma enumerarli, e a maggior ragione descriverli ad uno ad uno, sarebbe fastidioso. Basterà che mi soffermi un poco su quel gruppo cui è legato il nome di Traiano e nei quali culmina il genio del suo secolo L Infatti, se dovunque le rovine serbano, nella calda luce che le avvolge, l’armoniosa possanza dei monumenti, di cui pur non offrono tante volte che la nuda armatura, in nessun altro luogo forse come al Foro Traiano — che, al centro dell’Urbe, univa il Foro di Cesare a quello di Augusto — esse ci ispirano un’idea così nobile e nello stesso tempo così esauriente per noi, della civiltà di cui sfoggiano le ricchezze, della società di cui evocano la disciplina, degli uomini — nostri antenati e nostri simili — , di cui esprimono il valore intellettuale e la maestria artistica. Qui, veramente, tra il 109 e il 113, Traiano seppe portare a termine un’opera che non solo suscita la nostra ammirazione, ma risponde al nostro gusto. Per l’ampiezza della concezio­ ne, per l’agile complessità e la vigorosa utilizzazione delle sue parti, per la sontuosità dei materiali, per l’ardimento e la gra­ zia delle linee, per la disposizione e il movimento delle deco­ razioni, l’insieme del Foro — che noi possiamo risuscitare nella primitiva perfezione grazie agli scavi di Corrado Ricci — potrebbe benissimo competere con le più ambiziose creazioni degli architetti moderni, e continua, pur nell’attuale stato di 10

disfacimento, a fornire a questi ultimi lezioni e modelli. Espres­ sione splendida e fedele del tempo suo, si direbbe che oltre a ciò riavvicini, sotto i nostri stessi occhi, quel tempo al nostro. Pur tra le difficoltà che gli accidenti del suolo e gli impedimenti costituiti dai circostanti monumenti anteriori avevano opposto al suo sviluppo, l’insieme del Foro Traiano raggruppava in un complesso quanto mai coerente e armonico: una pubblica piaz­ za o Forum , una basilica giudiziaria, due biblioteche, la famosa colonna che sorgeva tra questi due edifici e un immenso mer­ cato coperto. Non sappiamo in quale epoca quest’ultimo sia stato terminato; ma certamente fu costruito prima della co­ lonna, la cui altezza, come vedremo in seguito, è regolata su quella del mercato. Il Foro e la basilica furono inaugurati da Traiano il 1° gennaio 112, la colonna il 13 maggio 113. L ’insieme si risolve in una serie di soluzioni ardite e magni­ fiche. In primo luogo, cominciando da sud, la maestosa sempli­ cità del Forum propriamente detto: una vasta spianata lastri­ cata, lunga 116 metri e larga 95, circondata da un portico sostenuto, dal lato dell’entrata, a mezzogiorno, da un solo or­ dine di colonne e da un colonnato doppio agli altri tre lati. Ad est il muro di fondo, in peperino rivestito di marmo, sì in­ curvava nel centro a formare un emiciclo di 45 metri di pro­ fondità. Nel centro della piazza sorgeva la statua equestre, in bronzo dorato, dell’imperatore: a questa facevano corteggio, tra gli intercolumni del circuito, statue più modeste di uomini illustri che con la spada o con la parola avevano reso servigi all’impero. Tre scalini di marmo giallo conducevano dalla sta­ tua all’entrata della basilica Ulpia, così chiamata dal nome gen­ tilizio di Traiano. Questa, che misurava 159 metri da est a ovest e 55 da nord a sud, soprelevata di un metro sul Forum, lo superava anche in opulenza. Era un’immensa sala ipostila, di stile orientale, alla quale si accedeva da su d 2, da uno dei suoi lati lunghi; suddivisa da quattro colonnati interni, con un totale di novantasei colonne, in cinque navate della lunghezza di 130 metri — di cui la centrale raggiungeva i 25 metri di larghezza — , pavimentata in tutta la sua estensione da marmi di Luni, e coperta da tegole di bronzo, questa sala era contornata da un portico, i cui vuoti erano occupati da sculture; Tattico era adornato da bassorilievi 11

notevoli sia per la dolcezza della modellazione, sia per la viva­ cità dell’animazione; infine, la trabeazione superiore ripeteva parecchie volte, su ogni facciata, la breve e fiera iscrizione, e manubiis: « eretta col bottino » (il bottino tolto ai daci di Decebalo). Oltre la basilica, e soprelevati rispetto al suo livello inferiore di tanto quanto questa superava il piano del Forum, si estendevano, parallelamente ad essa, i rettangoli delle due biblioteche chiamate anch’esse Ulpie dal nome gentilizio del loro comune fondatore: una destinata ai volumi greci, l’altra ai volumi latini e agli archivi imperiali, entrambe decorate al di sopra dei plutei, o armadi, contenenti i manoscritti, con una serie di busti raffiguranti gli scrittori che avevano acquistato maggior fama nelle due lingue dell’impero. Le biblioteche erano separate l’una dall’altra da uno stretto quadrilatero, di 24 metri per 16, in mezzo al quale si elevava, e tuttora si eleva quasi intatta, la meraviglia delle meraviglie: la colonna traiana. Il piedistallo è formato da un cubo di pietra quasi perfetto, di cinque metri e mezzo d ’altezza. Nel lato sud si apriva una porta di bronzo, al di sopra della quale si leggeva l’iscrizione dedicatoria; le altre tre facce erano adorne di trofei d’armi e tutte e quattro erano bordate di tori in cui s’intrecciavano allori. Il fusto, tutto di marmo, misura metri 3,70 di diametro e 100 piedi (metri 29,77) di altezza. Esso racchiude una scala a chiocciola che parte dalla camera del piedistallo, di 185 gra­ dini di marmo bianco, e reca in alto un capitello dorico e mo­ numentale sul quale poggiava in origine un’aquila di bronzo ad ali spiegate, poi, dopo la morte di Traiano, una statua, egual­ mente di bronzo, dell’imperatore, probabilmente divelta e fusa nella tormenta delle invasioni, e sostituita nel 1588 dalla sta­ tua di San Pietro che oggi vediamo. L ’altezza complessiva era, e tale rimane pressappoco, di 38 metri, che corrispondono ai 128 piedi e mezzo indicati dai documenti antichi. Ma per grandiose che siano in se stesse le proporzioni della colonna traiana, l’effetto finale risulta ingigantito dalla dispo­ sizione dei blocchi da cui è composta. Su diciassette colossali tamburi di marmo si svolgono i 23 pannelli di una spirale (che, riportata su una linea retta, misurerebbe 200 metri circa), lungo la quale si succedono, dalla base al capitello, le 12

scene principali delle guerre daciche così come si erano susse­ guite nella storia dall’inizio della prima campagna alla fine della seconda. Questi bassorilievi sono stati inoltre eseguiti con molta abilità per dissimulare alla vista le 43 aperture che vi sono state praticate per illuminare la scala interna. Sui bassorilievi sono state contate 2 500 figure. Ricondotte ora dalle intemperie ai toni caldi ma uniformi del marmo parió nel quale furono cesellate, esse, che un tempo brillavano dei vividi colori con cui erano state dipinte, proclamano il trionfo degli scultori Tomani in questo genere di bassorilievo storico, in cui eccellevano. È noto che le ceneri di Traiano, morto improvvisamente nei primi giorni del mese di agosto 117, allorché, affidato ad Adriano il comando dell’esercito che aveva mobilitato contro i parti, egli era già sulla via del ritorno in Italia, furono ri­ portate dall’Asia in Roma, chiuse in un’urna d ’oro e deposte nella camera che si apre nel piedistallo della colonna. Nel destinare a Traiano una sepoltura all’interno della linea pomeriale — entro la quale la legge proibiva di seppellire dei sem­ plici mortali — il suo successore Adriano e il Senato avevano dichiarato unanimemente che il defunto imperatore sfuggiva alla condizione comune. L ’iniziativa, però, non era stata né voluta né prevista da Traiano. Solo ad opera compiuta la colonna traiana divenne la tomba del suo autore; egli ne aveva decretato l’erezione per due scopi commemorativi: eternare nei bassorilievi di cui è ricoperta le vittorie ch’egli aveva riportate sui nemici esterni; immortalare nelle dimensioni inu­ sitate che le venivan date lo sforzo sovrumano col quale aveva vinto la natura per abbellire Roma e darle prosperità. A que­ sto riguardo, le due ultime righe dell’iscrizione, di cui oggi non rimane che qualche lettera — ma che nel vii secolo, il visitatore sconosciuto che noi chiamiamo « l’Anonimo d’Einsiedeln » poté copiare integralmente * — enunciavano la sua intenzione con una frase il cui senso è ora chiarissimo: Ad declarandum quantae altitudinis mons et locus tantis operibus sii egestus. Poiché in latino il verbo egerere ha le due accezioni contraddittorie di vuotare ed elevare, è chiaro che, secondo un’interpretazione letterale di questa frase orgogliosa, la colonna era destinata a dimostrare col suo stesso slancio per 13

quanta altezza e a prezzo di quali fatiche lo sperone (mons) che dalla collina del Quirinale si protendeva verso la collina del Campidoglio, era stato livellato e via via arricchito sul posto (locus) delle costruzioni gigantesche che a levante completa­ vano il complesso di cui la fede scientifica di Corrado Ricci riuscì, nel 1932, a sgombrare la vista e l’accesso. Si tratta evidentemente del maestoso emiciclo in mattoni che circonda, dalla parte del Quirinale e della Suburra, il Foro Traiano propriamente detto e sostiene con suprema leggerezza i cinque piani tra i quali erano distribuite le centocinquanta bot­ teghe o tabernae di un «mercato». A pianterreno si aprono le camere poco profonde, dove, allo stesso livello del Foro, si ven­ devano probabilmente frutta e fiori. Al primo piano si susse­ guono, fiancheggiate da una loggia a vaste arcate, le lunghe sale a volta dove venivan depositati il vino e l’olio. Al secondo e al terzo piano si smerciavano prodotti più rari, e specialmente il pepe e le spezie venute dal lontano Oriente — piperà. E il ricordo si tramandò, nel Medioevo, nel nome della via ripida e tortuosa, che, prima di essere usata dai sudditi del papa, era appunto servita ai mercanti di spezie: la via Biberatica. Al quarto piano si apre l’ampia sala di rappresentanza dove si facevano le distribuzioni di congiaria3, e nella quale si stabilirono in permanenza, a partire dalla fine del n secolo, gli uffici dell’assistenza imperiale: stationes arcariorum Caesarianorum. Al quinto e ultimo piano erano stati disposti i vivai del mercato del pesce, alcuni collegati a mezzo di un sistema di canali con gli acquedotti che portavano l’acqua dolce, altri destinati a ricevere l’acqua di mare, portata da Ostia. Da qui si abbraccia l’immensità delle opere di Traiano, e ci si accorge di essere precisamente al livello dell’aureola della statua di san Pietro posta in cima alla Colonna Traiana; e mentre si capisce il significato dell’iscrizione che ormai non sarà più discussa, si scopre l’impareggiabile grandiosità dei lavori compiuti dall’architetto Apollodoro di Damasco per or­ dine del migliore degli imperatori. Il complesso delle costru­ zioni s’inerpica, mascherando i pendìi del Quirinale cui fu addossato e che a tal fine erano stati spianati senza l’aiuto degli esplosivi di cui dispongono i nostri ingegneri. Le pro­ porzioni della massa di edifici sono state calcolate in maniera 14

così felice, che noi ne dimentichiamo il peso per apprezzarne soltanto l’equilibrio: è un autentico capolavoro che ha sempre commosso tutte le epoche. Già i romani ,si rendevano conto che la loro città e il mondo non offrivano nulla di più bello all’ammirazione degli uomini. Ammiano Marcellino racconta che quando, nel 356, l’imperatore Costanzo, accompagnato dall’ambasciatore persiano Hormisdas, fece la sua entrata so­ lenne in Roma, calpestando per la prima volta il pavimento lastricato del Foro Traiano, non potè trattenere un grido di ammirazione e un acuto rammarico al pensiero che mai avrebbe avuto una statua equestre simile a quella del suo predecessore. « A che serve lamentarsi, rispose il delegato del Re dei Re, dato che tu non saresti capace di dare al tuo cavallo una scu­ deria come quella? » Gli uomini del Basso impero avvertivano un senso di impotenza davanti alla grande fioritura di monu­ menti in cui brillava il genio dei loro antenati al culmine del loro destino. E noi pure, che siamo pieni dell’orgoglio delle nostre opere, pensiamo che non c’è nulla nell’antica Roma che ci sia più caro. Di fronte al Colosseo, quale che sia la perfezione rag­ giunta dalla prodigiosa ellissi, siamo presi da un invincibile malessere al ricordo delle carneficine di cui fu teatro. Le Terme di Caracalla hanno qualcosa di eccessivo e vertiginoso che preannuncia la decadenza. Invece alla vista del Foro e del Mer­ cato di Traiano, nulla turba la nobiltà delle nostre impressio­ ni: questi edifici ci si impongono senza opprimerci; la loro mole è alleggerita dalla pura flessione delle curve; essi segnano una di quelle vette dell’arte in cui si incontrano i costruttori delle epoche migliori e alle quali si sono avvicinati come discepoli ferventi o docili ammiratori tanto Michelangelo, che trasmise qualcosa di quella disposizione sobria e vigorosa alla facciata del Palazzo Farnese, quando gli architetti di Napoleone i, che fusero nel bronzo dei cannoni di Austerlitz la Colonna Vendóme. Essi sono lo specchio sublime in cui si riflette il volto della più grande Roma, che in esso ci appare come una città mondiale, sorella delle nostre, che, sopperendo a bisogni ana­ loghi ai nostri, provava già quei sentimenti che onorano le élites contemporanee. E, invero, colpisce il fatto che Traiano abbia visibilmente 15

cercato non solo di ricordare la vittoria che aveva d ’un colpo impinguato le finanze dei Cesari e reso possibili quelle stesse magnificenze, ma anche di giustificarla con la superiorità di quella cultura che i suoi soldati apportavano ai vinti. Nelle statue dei portici venivano costantemente affiancate le glorie deirintelligenza e quelle delle armi. Ai piedi del mercato donde il popolo prendeva quanto era necessario per vivere; a fianco al Foro dove i consoli prestavano udienza e gli imperatori pro­ nunciavano le loro arringhe — a volte per annunciare il con­ dono di imposte, come Adriano, a volte per versare nel tesoro pubblico i propri beni personali, come Marco Aurelio — si incurvava l’emiciclo dove, come ha dimostrato il Marrou, i maestri di letteratura continuavano ancora nel iv secolo a riu­ nire gli studenti e a impartire il loro insegnamento. La stessa basilica, con tutta la sua sontuosità, giaceva tre gradini più in basso delle vicine biblioteche; e la colonna isto­ riata che sorgeva fra queste ultime deve essere senza dubbio considerata, secondo l’interpretazione recentemente rimessa in onore dal Paribeni, come una brillante realizzazione, ad opera dell’architetto Apollodoro di Damasco, di una concezione ori­ ginale di Traiano. Di essa, infatti, si possono enumerare le imitazioni posteriori — la Colonna di Marco Aurelio, sempre in Roma; le Colonne di Teodoro e di Arcadio a Costantino­ poli, per citare soltanto gli esempi dell’antichità — , ma nes­ suno ha potuto indicarne il modello. Innalzandola nel centro della città dei libri, Traiano inten­ deva svolgere nelle spirali che la rivestono i due vclumina che narravano sul marmo le sue gesta guerriere ed esaltavano la sua forza e la sua clemenza. Inoltre, un bassorilievo tre volte più grande degli altri separa le due serie di raffigurazioni e ce ne svela il significato. Esso rappresenta una vittoria nell’atto di scrivere sul suo scudo: ense et stylo, che si potrebbe tradurre: con la spada e la penna. £ il chiaro simbolo del fine di pace e civiltà che Traiano attribuiva sinceramente alle sue conquiste. Esso illumina il pensiero che diresse i suoi piani e in cui l’impeiialismo romano, sforzandosi di liberarsi da ogni ingiu­ stizia e violenza, ricercò ad ogni costo una legittimazione spi­ rituale. Ma anche là dove noi vediamo risplendere l ’ideale del 16

nuovo impero sentiamo battere il cuore della capitale che s’era ingrandita di pari passo con gli immensi ampliamenti dell’im­ pero e che finì per uguagliare, nella cifra della popolazione, le più grandi capitali moderne. G in l’inaugurazione del Foro, Traiano portò a termine quel rinnovamento dell’Urbe, che egli aveva intrapreso allo scopo di renderla degna della sua ege­ monia e per dare un sollievo alla popolazione oppressa dalla sua stessa continua crescita. Nell’ambito di questo stesso pro­ getto egli aveva già allargato il grande circo, scavato una nau­ machia, incanalato il Tevere, derivato nuovi acquedotti, creato le più vaste terme pubbliche che Roma avesse fino allora ve­ duto, imposto ima regolamentazione previdente e rigorosa alle iniziative private in fatto di edilizia. Con il Foro coronò l ’opera sua: sventrando il Quirinale, aprì nuove vie al transito; ag­ giungendo una vasta piazza pubblica a quelle con le quali i suoi predecessori, Cesare, Augusto, i Flavi e Nerva, avevano uno dopo l’altro cercato di rimediare all’intasamento del Foro propriamente detto, decongestionò il centro della metropoli; disponendo attorno alla piazza le esedre, la basilica e le biblio­ teche, nobilitò gli ozi delle moltitudini che vi affluivano tutti i giorni; prolungando questo complesso di edifici con le « aule » del mercato — veramente paragonabili per la vastità delle dimensioni e per l’ingegnosità della loro sistemazione a quelle di cui Parigi è stata dotata solo nel secolo xix — faci­ litò il vettovagliamento delle masse. Questi lavori, in verità, rimarrebbero incomprensibili se non tenessimo conto dell’enorme agglomerazione di uomini di cui migliorarono la sorte e la cui antica presenza indovinia­ mo fra le rovine deserte. Queste ultime ne presuppongono l ’esistenza e basterebbero a dimostrarla, se prove irrefutabili non l ’avessero già da tempo accertata.

2. LE CINTE DI ROMA E LA SUA VERA ESTENSIONE Non v ’è questione più discussa di quella della popolazione della capitale dell’impero romano \ né più urgente da risolvere per lo storico, se è vero, come già sosteneva il sociologo ber­ bero Ibn-Khaldùn, che l’accrescimento delle città, conseguenza 17

necessaria dello sviluppo delle società umane, è in qualche modo la misura del livello della loro civiltà. Ma ahimè! nes­ suna questione ha suscitato più di questa polemiche e opinioni contraddittorie: fin dal Rinascimento gli eruditi che l ’hanno affrontata han continuato a dividersi in due campi avversi. Gli uni, quasi stregati dall’oggetto dei loro studi, attribuiscono senza esitazione all’antichità, che vagheggiano come un ricordo dell’età dell’oro, l’ampio respiro e lo slancio che i progressi delle scienze hanno conferito al mondo moderno e, fra gii altri, Giusto Lipsio valuta tranquillamente a quattro milioni gli abi­ tanti di Roma imperiale. G li altri, inclini invece a sottovalutare le generazioni pas­ sate, negano a priori ad esse quegli sviluppi che credono esclu­ sivi dei loro tempi: e Dureau de la Malie, che si occupò seria­ mente della demografia antica, riduce a circa 261 mila anime la cifra più alta che, secondo lui, si possa concedere con vero­ simiglianza alla città dei Cesari. Ma Dureau de la Malie e Giusto Lipsio avevano idee preconcette; e tra queste estreme esagerazioni è lecito ad una critica spregiudicata arrivare con buona approssimazione alla verità. I campioni di quella che chiamerei la « piccola Roma » sono generalmente studiosi di statistica che sollevano una pre­ giudiziale avversa all’esame delle testimonianze; essi trascu­ rano a priori le indicazioni, tuttavia esplicite, degli autori an­ tichi e fondano le loro conclusioni sulla considerazione del territorio; si limitano ad un’unica base di calcolo: quella che risulta dal rapporto tra la superficie conosciuta e la popola­ zione possibile. In conseguenza di ciò concludono che la Roma imperiale — la cui superficie ritengono esattamente delimitata dalla cinta aureliana e coincidente pressappoco con quella della Roma moderna ch’essi han visitato — non potessse ospitare una popolazione superiore a quella attuale. E a prima vista l ’argomento sembra decisivo. Ma riflettendo, ci si accorge che è fondato su di una illusione — che è quella di credere di conoscere esattamente i dati dell’estensione territoriale del­ l ’antica Roma — e sul postulato erroneo che consiste nel tra­ sferire arbitrariamente a tale superficie il coefficiente demo­ grafico quale risulta dalle ultime statistiche. Questo metodo ha, innanzitutto, il torto di trascurare l’ela­ 18

sticità del territorio, o per meglio dire, la compressibilità del materiale umano. Dureau de la Malie ha ottenuto i suoi dati attribuendo al territorio delimitato dalle mura aureliane la densità di popolazione di Parigi sotto Luigi Filippo, cioè duecentocinquanta abitanti per ettaro. Se avesse scritto sessantacinque anni dopo, quando tale densità salì, come nel 1914, a quattrocento abitanti per ettaro, avrebbe ottenuto un risul­ tato tre volte maggiore. Ferdinand Lot ha commesso lo stesso errore di metodo quando ha attribuito senz’altro alla Roma di Aureliano la densità della Roma del 1901, che contava 538 mila anime; in seguito, con le costruzioni del dopoguerra il territorio di Roma è stato ben lungi dall’essere raddoppiato e tuttavia i censimenti del gennaio 1939 le attribuiscono un nu­ mero di abitanti più che doppio, cioè 1 284 600. In entrambi i casi lo spazio che si vuole attribuire alla Roma antica non viene messo in rapporto, come si crede, con la popolazione ch’esso conteneva effettivamente nell’antichità, ma con la popolazione ch’esso potrebbe ospitare all’epoca in cui si compie la rilevazione, e la cui scelta aritmetica resta puramente arbitraria. Anche su di un suolo che non resta im­ mutato le condizioni di habitat si modificano da un’epoca al­ l’altra e la relazione che si cerca di stabilire tra ima superficie che si crede di conoscere e ima popolazione che non si co­ nosce, non può che essere, a sua volta, un’incognita. E si tratta, aggiungerò, di una incognita la cui soluzione è viziata in partenza da un errore, se è vero, come suppongo, che la Roma antica non è affatto rimasta chiusa nel perimetro entro il quale la si vorrebbe circoscritta. La cinta aureliana, entro la quale si pretende di racchiuderla, non delimitò la Roma imperiale più di quanto il pomerium, o la cinta falsamente at­ tribuita a Servio Tullio, non fossero stati sufficienti a definire la Roma repubblicana. Ma ciò richiede alcune spiegazioni re­ trospettive. La Roma antica, come tutte le città dell’antichità greca e latina, comprendeva, dagli inizi della sua leggenda fino al ter­ mine della sua storia, due elementi inseparabili: un agglome­ rato urbano rigorosamente definito, YUrbs Roma; e il terri­ torio rurale annesso a questa, VAger Romanus. Quest’ultimo si fermava alla frontiera delle città limitrofe, che conserva­ 19

vano la loro individualità municipale nonostante l ’annessione politica: Lavinio, Ostia, Fregene, Veio, Fidene, Ficulea, Gabii, Tivoli, Boville. Se volessimo misurare YAger utilizzando i dati tramandati dal bizantino Zaccaria, esso assumerebbe la figura di una ellisse i cui assi misurano rispettivamente 17,650 e 19,100 km, e generano, entro un perimetro di 57 km circa, una superficie di 26 mila ettari circa. Naturalmente non ab­ biamo nessuna possibilità di precisarne i contorni né di indi­ care una cifra per la popolazione sparsa: i suoi cittadini erano romani di Roma allo stesso titolo dei cives che risiedevano nel centro urbano; però solo questi ultimi formavano la plebe urbana entro la linea che circoscriveva ufficialmente l ’area della città propriamente detta: YUrbs. Quivi risiedevano gli dèi nei loro santuari, il re e, più tardi, i magistrati eredi del suo potere smembrato, nonché il Senato e i Comizi che, col re prima, e poi con i magistrati, go­ vernavano lo Stato formato dalla città. Sicché, originaria­ mente, l’Urbe rappresentava ben altra cosa e ben più che un aggregato più o meno fitto di abitazioni: era un « tempio » consacrato secondo le regole della disciplina augurale e, in quanto tale, strettamente delimitato dal solco che il fondatore latino, docile alle prescrizioni di un rituale venuto dall’Etruria, aveva scavato tutto intorno con un aratro cui erano aggiogati un toro e una vacca candida, sollevando in alto il vomere nei passaggi dove probabilmente si sarebbero innalzate le porte, e avendo cura di gettare verso l’interno le zolle smosse dal­ l’aratro. Da questa orbita consacrata, segno anticipato delle forti­ ficazioni e dei muri avvenire, di cui offriva in piccolo quasi mia prefigurazione, e per questo motivo chiamata pomerium {pone muros), YUrbs ha tratto il suo nome, la sua definizione primitiva e la sua difesa soprannaturale, garantita dagli inter­ detti che allontanavano dal suo suolo e la corruzione dei culti stranieri, e la minaccia delle leve in armi, e la contaminazione delle sepolture. Nell’epoca classica, il pomerium — che d’altra parte si era spostato secondo i successivi sinecismi che dettero origine alla Roma storica — mantenne il suo significato reli­ gioso e, impedendo l’accesso alle legioni, continuò a salvaguar­ dare la libertà politica dei suoi cittadini, ma cessò di delimi­ 20

tare l’Urbe. Relegato tra i simboli, era stato sostituito, nella sua funzione pratica, da una realtà concreta: la muraglia attri­ buita da una falsa tradizione al re Servio Tullio e costruita per ordine del Senato repubblicano tra il 378 ed il 352 a. C., in blocchi di tufo così solidamente connessi, che intere ali di muro emergono ancora nella Roma del xx secolo. E specialmente in Via delle Finanze, nei giardini del Palazzo Colonna, in Piazza dei Cinquecento di fronte alla stazione; vestigia che nella loro abbondanza han permesso una ricostruzione ideale dell’intera muraglia. A cominciare dal in secolo a. C., non è più il pomerium che determina l’area urbana di Roma, ma la muraglia i cui possenti bastioni avevano allontanato l’aggressione di Anni­ baie; e l’uno non coincide con l’altra. La muraglia, come il pomerium, lascia al di fuori del suo perimetro, la grande spia­ nata che, con il nome di Campo Marzio, si estendeva fra il Tevere e le colline ed era destinata agli esercizi militari e ai servizi divini. E tuttavia essa è più estesa e comprende terri­ tori che restavano fuori dal pomerium: la rocca capitolina (arx) e il Campidoglio propriamente detto, l’estremità nord-est dell’Esquilino, il Velabro, e i due poggi dell’Aventino, quello a nord, interno alla muraglia sin dalla sua fondazione, quello a sud, incluso quando i consoli dell’anno 87 la prolungarono fino a comprendervelo per meglio resistere all’attacco di Cinna. In complesso è stato calcolato che contenesse 426 ettari: poco in rapporto ai 7 000 ettari della Parigi dei giorni nostri, ma molto in confronto ai 120 ettari compresi nella cinta dell’antica Capua, ai 117 di Cere e ai 32 cui si limitava allora la città di Preneste. Ma perché tanti confronti? Il calcolo della superfìcie delYUrbs non fornisce indizi sicuri per quello della sua popola­ zione. In realtà, sin da quando i romani, avviati alla conquista dell’universo, non ebbero più a temere dai loro nemici, le mura di cui si erano circondati dopo la grande paura dell’in­ vasione gallica, perdettero la loro utilità bellica e gli abitanti dell’Urbs cominciarono a riversarsi oltre quella cinta, che in passato aveva superato il pomerium. Nell’81 a. C. Siila, in nome del diritto degli imperatores che avevano allargato le frontiere dell’impero, e in realtà per dar sollievo alla plebe 21

urbana, destinò a suolo edificatorio, tra il Campidoglio e il Te­ vere, una parte del Campo Marzio, della quale, purtroppo, non conosciamo le dimensioni. L ’Urbs superò ufficialmente, da que­ sta parte, la sua cinta come l’aveva superata di fatto in altri posti. Quando riportò al primo miglio (1 478 metri) oltre le mura i confini assegnati a Roma dalla legge postuma, conser­ vata fino a noi dalla Tavola di Eraclea, Cesare non fece che legalizzare uno stato di fatto che risale senza dubbio al il se­ colo a. C. Augusto, a sua volta, non fece che riprendere, ampliandola ulteriormente, l ’iniziativa del padre adottivo, quando nell’8 a. C. identificò definitivamente YUrbs con le quattordici regioni nelle quali egli aveva diviso gli antichi e i nuovi quartieri: tredici regioni sulla riva sinistra del Tevere e la quattordice­ sima sulla riva destra al di là del fiume, regio Transtiberina, il cui ricordo sopravvive nel “ Trastevere ” di oggi. Augusto, che si gloriava di aver pacificato il mondo e che aveva chiuso solennemente il tempio di Giano, non aveva ti­ more di smobilitare le antiche fortificazioni repubblicane. L i­ bera grazie alla propria gloria e alle annessioni dall’assillo della sicurezza, Roma superò d ’ogni parte le sue mura. Se cinque delle quattordici regioni d ’Augusto restano all’interno dell’an­ tica cinta, cinque si estendono da ima parte e dall’altra del suo tracciato, quattro ne restano completamente al di fuori: la v (Esquiliae), la v ii (Via Lata), la ix (Circus Flaminius) e la xiv (Transtiberim); e come per meglio sottolineare l’inten­ zione dell’imperatore, l’uso popolare diede ben presto alla prima il nome di Porta Capena, che dopo averne segnato la periferia ne occuperà d’ora in poi il centro5. Le quattordici regioni d’Augusto sono durate quanto l’im­ pero; nel loro quadro dobbiamo collocare la Roma dei primi Antonini i cui confini coincidono con quelli stessi delle regioni. Ma questi ultimi non possono essere misurati esattamente. E sarebbe un errore grossolano farli coincidere con quelli, ancora visibili, segnati dalla muraglia di mattoni costruita da Aure­ liano per proteggere la capitale dell’impero dai barbari e che, dal 274 d. C., ne rappresentò il pomerium e il baluardo. Con le sue cortine in rovina e la successione diseguale delle sue torri, con le sue mura di mattoni che risplendono trionfal22

mente ai fuochi del tramonto, quest’opera imponente offre an­ cor oggi anche al turista meno sensibile la visione immediata della maestà di cui Roma si rivestiva ancora nella sua deca­ denza. Non voglio però richiamare qui un’immagine di Roma mi­ nore di quella che ci offrono i suoi secoli d’oro. Benché estenda i suoi camminamenti per 18,837 km e cir­ coscriva una superficie di 1 386 ettari, 67 are e 50 centiare, la muraglia di Aureliano è stata costruita con gli stessi criteri applicati alle cinte di mura evidentemente contemporanee con cui la Gallia si protesse dalle orde germaniche. Allo stesso modo che queste non difendono mai la città tutta intera, ma soltanto le sue parti vitali, come una corazza il petto del combattente, così anche la cinta delle mura aureliane non proteggeva la Roma delle quattordici regioni nella sua totalità; e piuttosto che seguire passo passo la sua confi­ gurazione, gli ingegneri di Aureliano si preoccuparono di colle­ garne i principali punti strategici e, contemporaneamente, di utilizzarne nel miglior modo le costruzioni anteriori; per esem­ pio gli acquedotti, più o meno facili ad essere integrati nel loro sistema. Nella settima regione, tra il Pincio e la Porta Salaria, sono stati scoperti dei cippi daziari a un centinaio di metri al di là della muraglia. Tra la Porta Prenestina e la Porta Asinaria la quinta regione si estendeva per 300 metri al di là, perché proprio a tale distanza dalle mura si innalzava l’obe­ lisco d ’Antinoo, eretto, secondo l’iscrizione geroglifica, « al limite della città ». E così pure la prima regione la superava di 600 metri in media tra la Porta Metronia e la Porta Ardeatina, giacché in quel settore la cortina corre ad un miglio (1 478 m.) a sud della Porta Capena, e la prima regione com­ prendeva Yaedes Mariis distante un miglio e mezzo, e arrivava fino al fiume Almo (oggi Acquataccio) che scorre 800 metri più lontano. E infine sarebbe facile dimostrare che la quattordicesi­ ma regione, il cui perimetro oltrepassa quello delle mura al di là del Tevere, la sopravanzava di 1800 metri a nord e di 1300 a sud. Date queste condizioni non ci è lecito restringere le quattordici regioni con le quali si identifica la Roma imperiale ai territori compresi nelle mura aureliane; né, d ’altra parte, 23

sarebbe più corretto limitare il loro territorio ai 2 000 ettari circa delimitati dalla loro mobile cinta daziaria. Fin dall’epoca di Augusto, i giuristi avevano posto come principio che la Roma delle quattordici regioni non era vincolata a ima cintura invariabile, ma che di diritto e di fatto essa si rinnovava con­ tinuamente, estendendosi automaticamente a comprendere le nuove costruzioni che prolungavano ininterrottamente, in que­ sta o in quella regione, gli isolati dei vecchi edifici, fino a un miglio dall’ultimo di questi: Roma continentìbus aedificiis finitur, mille passus a continentìbus aedificiis numerandi su n t6. E tale nozione giuridica, essenzialmente realistica, non solo basta a render vano in anticipo ogni tentativo di stabilire la cifra della popolazione romana su di ima base così incerta e mobile come la superficie delle quattordici regioni, ma pre­ suppone in coloro die l’hanno enunciata, la certezza di un accrescersi indefinito della città imperiale.

3. l ’accrescimento della popolazione di ROMA L ’incremento della popolazione di Roma risulta inoltre con forza persuasiva dai documenti di cui disponiamo. Progressivo dal tempo di Siila fino al principato, divenne ancor più rapido sotto il felice governo degli Antonini. Per convincersene, basta confrontare due statistiche, separate da un intervallo di tre secoli e fortunosamente arrivate fino a noi. Esse danno il cen­ simento dei vici di Roma, cioè dei quartieri delimitati dalle vie, che li circoscrivevano all’interno delle quattordici regioni, e dotati tutti, da Augusto in poi, di ima speciale amministra­ zione, sotto l’autorità dei loro « sindaci », i vico-magistri, e sotto la tutela dei Lares compítales. Dà Plinio il Vecchio apprendiamo che nel quinquennio che inizia col 73 d. C., e che ebbe come censori Vespasiano e Tito, Roma era divisa in 265 vici. A loro volta i Regionari — la preziosa collezione del iv secolo — danno un complesso di 307 vici. Il più antico dei Regionari, la Notitia, fu compilato a partire dal 334 d. C , mentre il più tardo, il Curiosum, si spinge fino al 357 d. C. Se prendiamo il 345 come data media fra queste due, abbiamo che dal 73 d. C. al 345 d. C. il numero 24

dei vici è aumentato di 42 unità, il che comporta per Roma un accrescimento territoriale del 15,4% . Contemporaneamente, dall’epoca di Cesare fino a quella di Settimio Severo, si nota un incremento demografico corrispondente, che non è attestato direttamente, ma che si argomenta a colpo sicuro dagli oneri dell’assistenza pubblica alla plebe romana. Al tempo di Cesare e Augusto l’annona aveva a suo carico 150 mila indigenti ai quali distribuiva gratuitamente il grano. Al principio del regno di Settimio Severo, all’epoca del congiarium del 203, di cui Dione Cassio ci ha vantato la generosità, il numero degli assi­ stiti arrivava a 175 mila con un aumento del 16,6%. Il parallelismo di queste percentuali è doppiamente istrut­ tivo: prova anzitutto, come si poteva presumere a priori, che l ’incremento demografico ha seguito passo passo l ’espansione territoriale delle quattordici regioni; in secondo luogo indica, come già si doveva dedurre dal consolidarsi della pax romana nella prima metà del n secolo, che il massimo dell’accresci­ mento — di cui ci offrono testimonianza i Regionari del iv se­ colo, ma che risultava già in epoca precedente dalle elargizioni del 203 — deve risalire fino alla pax romana. Da ciò deriva per noi e per il nostro assunto questa felice conseguenza: bi­ sogna attribuire alla popolazione di Roma sotto i primi Anto­ nini — cioè in un periodo di grande prosperità per il quale i dati statistici sono purtroppo assai carenti — una cifra supe­ riore a quelle che ci sono note per le epoche immediatamente precedenti, e prossima invece a quella che ci viene suggerita dai dati più tardi dei Regionari. Ora, dal principio del primo secolo a. C. fino alla metà del primo secolo d. C., siamo in grado di seguire il movimento irre­ sistibile che continuò a ingrossare la popolazione delVUrbs e che, accentuandosi ulteriormente, la condusse fino al punto oltre il quale la sua coesione sarebbe stata scossa e compro­ messe le sue possibilità di approvvigionamento. Come ho di­ mostrato altrove, lo scoppio della guerra degli Alleati nel 91 a. C., facendo rifluire in Roma, in una confusione torrenziale, tutti gli italiani che si erano rifiutati di far causa comune con gli insorti e che cercavano protezione contro le loro rappresa­ glie, produsse uno scatto nella cifra della popolazione analogo a quello che, nel 1923, promosse Atene, rifugio dei greci d ’Asia 25

Minore, al rango di grande capitale europea. Di fronte a un’Ita­ lia e alle province dilaniate tra il governo democratico di Roma e gli eserciti che l’aristocrazia senatoria aveva armato contro di esso, i censori dell’86 dovettero rinunciare al censimento generale dei cittadini dell’impero; si preoccuparono invece di enumerare tutte le categorie di abitanti che si accalcavano nel­ l’Urbe. San Girolamo ha registrato nel Cbronicon il risul­ tato di questo calcolo, che non tiene conto di alcuna distin­ zione di sesso, di età, di condizione o di nazionalità: in tutto 463 mila teste umane: descriptione Romae facta inventa sunt bominum C C C C LX III milia. Trentanni più tardi, tale cifra si era notevolmente accre­ sciuta, se è vero, come afferma lo scoliaste di Lucano, die Pompeo, il quale aveva assunto nel settembre del 57 a. C. l ’uf­ ficio dell’annona, seppe organizzare gli approvvigionamenti di grano indispensabili per 486 mila abitanti. Dopo il trionfo di Giulio Cesare, nel 45 a. C. si assiste a un nuovo balzo in avanti. Di esso non sapremmo, mancando le cifre, misurare la portata; ma il suo significato non è affatto dubbio, sia perché invece dei 40 o 50 mila cittadini ammessi alle distribuzioni di fru­ mento, ai quali nel 71 a. C. fa allusione Cicerone nelle Ver­ rine, Cesare ne ammise, nel 44, 150 mila alle distribuzioni di grano, sia perché nella sua qualità di prefetto dei costumi egli generalizzò la pratica occasionale dei censori dell’86 a. C., e prescrisse di completare Yalbum tradizionale dei cittadini del­ l ’impero, con una statistica integrale degli abitanti dell’Ur&r, che sarebbe stata per il futuro stabilita via per via, edificio per edificio, su indicazione e sotto la responsabilità dei proprietari. La crescita continuò sotto il principato d ’Augusto, durante il quale indizi concordanti ci inducono a fissare a quasi un milione il numero degli abitanti di Roma. Tali indizi sono: innanzitutto la quantità di grano che, durante quel regno, l ’an­ nona dovette immagazzinare ogni anno per il loro vettovaglia­ mento, e cioè 20 milioni di tnodii ( 1 750 000 ettolitri) forniti dall’Egitto, d dice* Aurelio Vittore, e unìT cifra doppia fornita dall’Africa, d dice Giuseppe; in tutto 60 milioni di modii (5 250 000 ettolitri), cifra che — in ragione di un consumo medio annuo di 60 modii (hi 5,25) a testa — darebbe un mi­ lione di consumatori. 26

C ’è poi la dichiarazione di Augusto, nelle sue Res Gestae, quando, investito per la ventiduesima volta della potestà tri­ bunizia, e per la dodicesima volta del consolato, cioè nel 5 a.C., « diede sessanta denari a ognuno dei 320 mila cittadini » che componevano allora la plebe urbana. Ora, secondo i termini che l ’imperatore ha usati meditatamente, tale distribuzione fu effettuata solo agli adulti maschi: viritim specifica il testo latino; Kcrr’avSpcx traduce l’esemplare greco; sicché ne resta­ vano escluse le donne e i ragazzi al di sotto degli undici anni, che con gli uomini facevano parte della plebe dell’Urbs. Ne deriva — riferendoci alle proporzioni stabilite ai giorni nostri dagli statistici tra gli uomini e le donne e i fanciulli — che la popolazione romana dell’Urbe, nel 5 a. C. toccava i 675 mila cives. A questi bisogna aggiungere la guarnigione di una diecina di migliaia d’uomini, che abitava in Roma, ma che non partecipava al congiarium, la moltitudine dei forestieri domici­ liati, nonché quella, infinitamente più importante, degli schiavi. Di modo che noi siamo portati dallo stesso Augusto a valutare la popolazione totale di Roma sotto il suo governo a una cifra assai prossima, e forse persino superiore, al milione. Infine le statistiche incluse nei Regionari del iv secolo d .C .7 ci spingono ad aumentare ancora questa cifra per il periodo del il secolo nel quale, come abbiamo già notato, la popola­ zione di Roma aveva preso il suo slancio più vigoroso. Mentre, sommando regione per regione le abitazioni dell’U r i censite dal Curiosimi si arriva alle due cifre di 1 782 domus e 46 872 insulae, la ricapitolazione del breviarium con cui inizia la Notitia dà in blocco 1 797 domus e 46 602 insulae. La differenza tra i dati di questi due documenti è da imputare certamente alle distrazioni del copista del Curiosum, il quale alla lunga dovette restare confuso dalle interminabili enumerazioni che doveva trascrivere, e così durante il suo ingrato lavoro finì per storpiare o omettere alcuni dei dati che aveva sotto gli occhi, quando non li ha ripetuti tal quale, come in quei casi in cui ha attribuito senz’altro lo stesso numero di domus alla decima e alla undicesima regione, lo stesso numero di insulae alla terza, alla quarta, alla dodicesima e alla tredicesima regione. A torto si cercherebbe tra il Curiosum e la Notitia una con­ cordanza in fondo superflua. Val meglio scegliere fra i due 27

Regionari, quello il cui enunciato contiene minori probabilità d ’errore. In altri termini, è lecito tener conto soltanto del compendio della Notitia: e dalla cifra, che ci dà, delle abita­ zioni di Roma, si deve dedurre quella, che non ci dà, ma che ne consegue, degli abitanti che popolavano le 1 797 domus e le 46 602 insulae del suo censimento. Evidentemente, il risultato non può essere che approssima­ tivo, e d’altra parte gli scrupoli esagerati della critica contem­ poranea hanno complicato quasi a bella posta le condizioni del calcolo. Specialmente in Francia, Edouard Cuq e Ferdinand Lot hanno inteso nella Notitia il plurale domus come inglo­ bante tutti i caseggiati àeWUrbs e il plurale insulae quale si­ nonimo di cenacula, intendendo con questi gli appartamenti che si trovavano in quei caseggiati. Considerando perciò che i due dati rientrano l’imo nell’altro e fissando una media di cin­ que abitanti per appartamento, l ’applicano d’autorità alle 46 602 insulae della Notitia, per dedurne sbrigativamente ima valutazione globale di 233 010 abitanti. Ma le loro deduzioni sono viziate in partenza per l’evidente errore delle loro inter­ pretazioni letterali. Secondo i latinisti la domus, in cui il vocabolo stesso ri­ chiama l’idea del dominio ereditario, è l’alloggio privato nel quale vive soltanto (senza dividerla con nessuno) la famiglia del proprietario; e Yinsula, costruzione isolata di cui il nome ci dà l’immagine, è l’edificio da affitto, il « blocco » diviso in una pluralità d’appartamenti o cenacula che può accogliere o un locatario o una famiglia di locatari. Potremmo raccogliere un’infinità di esempi: Svetonio, che ricorda la prescrizione di Cesare, che assegnava la redazione dei ruoli del censimento ai proprietari delle insulae: per dominos insularum; Tacito, che arretra davanti alla difficoltà di tenere un conto esatto dei templi, delle domus e delle insulae crollati nell’incendio del 64 d. C.; il biografo della Historta Augusta, il quale racconta che in un sol giorno del regno di Antonino Pio le fiamme distrussero in Roma 340 abitazioni — da affitto o case pri­ vate — : incendium trecentas quadraginta insulas vel domus absumpsit. In tutti questi testi Yinsula figura sempre come un edificio autonomo; è un’unità architettonica, non un’unità locativa. E la prova che con tale accezione essa è designata nel 28

sommario della Notitia è data, per togliere ogni dubbio, dalla menzione che la dettagliata descrizione di questo stesso docu­ mento fa — tra altri edifici degni d’attirare, nella nona re­ gione, la curiosità dei visitatori — dell 'insula F elicles, vale a dire del « blocco » di Felicula, di cui più oltre dovremo sot­ tolineare le dimensioni straordinarie. Per conseguenza, non ci è lecito far rientrare le 46 602 insulae nelle 1 797 domus della statistica. Anzi, vanno aggiunte a queste, e occorre, per valu­ tarne il contenuto umano, moltiplicarne il numero non solo per la cifra media di abitanti per cenaculutn, ma anche per la cifra media dei cenacula, o appartamenti, che ognuna di quelle doveva contenere. Di modo che la somma di 233 010 abitanti, cui giungono coloro che hanno preliminarmente imposto alla nozione di in­ sula tale riduzione deformante, risulta inammissibilmente infe­ riore al totale dei soli cittadini adulti ammessi nell’U r i alle distribuzioni di Augusto; una insufficienza così manifesta che condanna l’equivoco da cui procede. Bisogna dire che si sba­ glierebbe anche se, per reazione contro questo metodo, si supponessero in ogni insula i 25 cenacula che risultereb­ bero, nella Notitia, dal rapporto tra le 1 797 domus definite come altrettante insulae alle 46 602 insulae definite come al­ trettanti cenacula. Significherebbe cadere in un eccesso altret­ tanto riprovevole quanto il difetto che abbiamo denunciato poco più sopra. Nel capitolo seguente studieremo il tipo della casa romana ed allora saremo presto persuasi che Yinsula in media doveva comprendere cinque o sei cenacula, o apparta­ menti, in ognuno dei Squali alloggiavano almeno cinque o sei persone. Sicché fin da ora siamo portati a concludere, basan­ doci sulla testimonianza fornita dai Regionari per il iv secolo, che già nel n secolo quando Roma realizzò compiutamente, o, in ogni caso, accelerò potentemente, la sua espansione, l ’Urbe contava, oltre ai 50 mila abitanti, liberti o schiavi, distribuiti all’incirca in un migliaio di case, una popolazione che doveva oscillare tra 1 165 050 e 1 677 672 abitanti, disseminati negli appartamenti di quei 46 602 caseggiati da affitto. Anche se ci si attiene alla minore di queste due cifre, anche se si limita a 1 2 00 000 circa il numero di abitanti, l’agglomerato ur­ bano di Roma sotto gli Antonini8 si avvicinava assai alle di­ 29

mensioni di quello della Roma d ’oggi, pur non potendo con­ tare sui benefici della tecnica e delle comunicazioni che rendono più agevole la concentrazione e la sussistenza nelle città mo­ derne. Così pure non possiamo nasconderci che la capitale del­ l ’impero dovette allora subire i danni della sovrappopolazione più che non ne patiscano le nostre. Se raggiunse al tempo suo l ’enorme sviluppo — fatte le debite proporzioni — di New York ai nostri giorni; se Roma regina dell’universo antico, Terrarum dea gentiumque, Roma cui par est nihil et nihil secundum9, divenne ai tempi di Traiano la città tentacolare e colossale la cui grandezza stupiva gli stranieri e i provinciali, così come quella delle metropoli americane meraviglia l ’Europa moderna, essa ha pagato ancor più caro, pare, il gigantismo che il suo compito di dominatrice aveva finito per infliggerle.

Capitolo Secondo LE CASE E LE VIE, GRANDEZZE E M ISERIE D ELL’ANTICHITÀ

Anche nell’ipotesi che comprendesse più di 2 000 ettari, l ’area àéUHJrbs imperiale risulterebbe tanto più insufficiente a contenere 1 200 000 abitanti in quanto non tutti i suoi settori erano utilizzati né utilizzabili. Infatti bisogna escludere almeno in parte le numerose zone in cui gli edifici pubblici, i santuari, le basiliche, i magazzini generali, le terme, i circhi, i teatri eran concessi dalle pubbliche autorità solo all’uso di una mino­ ranza di abitanti: custodi, magazzinieri, scribi, messi, schiavi pubblici o membri di certe corporazioni privilegiate; e soprat­ tutto bisogna escluderne completamente l ’area occupata dal letto tortuoso del Tevere e dalla quarantina di parchi e giar­ dini che si estendevano principalmente sull’Esquilino, sul Pincio, sulTuna e l’altra riva del fiume; poi il quartiere del Pala­ tino, riservato esclusivamente all’imperatore, e finalmente il Campo di Marte, i cui templi, portici, palestre, ustrinae1 e tombe coprivano più di 200 ettari, dai quali, per rispetto agli dèi, le abitazioni continuarono ad essere proscritte. Ora, se si considera che gli antichi non disponevano del margine quasi illimitato che il progresso dei mezzi di trasporto di superficie e sotterranei offre allo sviluppo delle metropoli contemporanee quali Londra, Parigi o New York, è evidente che essi erano condannati per la tecnica insufficiente dei trasporti a non oltre­ passare mai certi limiti territoriali, quelli stessi, senza dubbio, che Augusto e i suoi successori avevano fissati all’Urbe e al di là dei quali la sua vita si sarebbe frantumata e spezzata la sua unità. I romani, incapaci di ingrandire il loro territorio se­ condo il ritmo del loro incremento numerico, dovettero rasse­ gnarsi, entro un’area che la stagnazione delle tecniche rendeva 31

più limitata, a riguadagnar spazio con mezzi che erano solo espedienti contraddittori: l’angustia delle strade e l’altezza delle case. Cosi pure, nella Roma imperiale risalta costantemente e dovunque accanto agli splendori monumentali l ’incoerenza di costruzioni insieme scomode e fastose, smisurate e fragili, collegate da vicoli stretti e bui; e quando ci sforziamo di ritrovare i tratti del suo vero volto, siamo disorientati da contrasti che confondono nel nostro spirito elementi di una grandiosità moderna e di un semplicismo medievale e in cui ima lucida anticipazione di soluzioni all’americana lascia il posto bruscamente a una confusa visione da labirinto orientale.

1. ASPETTI MODERNI DELLA CASA ROMANA A tutta prima si rimane colpiti dall’aspetto « attuale » di quello che un tempo fu il tipo corrente dei fabbricati romani. Gli studi, che ho iniziato a pubblicare nel 1910, sul quartiere dei docks a Ostia; gli scavi, ripresi a partire dal 1907, sull’area di questa colonia, sobborgo e, in piccolo, specchio fedele di Roma; le costruzioni riportate alla luce, in Roma, lungo la Via Biberatica, nel Mercato traianeo; la liberazione dei resti che giacevano sotto la scala dell’Ara C o d i, lo studio dei fabbricati a fianco del Palatino, in Via dei Cerchi e sotto la galleria di Piazza Colonna, ci hanno illuminato sulle loro dimensioni, le loro piante, la loro vera struttura2. Certo, quando trent’anni fa si cercava di raffigurarsi queste costruzioni, si trasferivano con rimmaginazione sulle rive del Tevere i diversi modelli che erano stati tratti fuori dalla lava o dai lapilli del Vesuvio e si credeva di poter disegnare l’im­ magine déH’Urbs secondo quella ricavata da Ercolano e Pom­ pei. Oggi invece non c’è archeologo che pensi di applicare tale metodo, come troppo sommario e completamente illusorio. Senza dubbio, la casa detta di Livia sul Palatino, e a Ostia quella dei Gamala, che in seguito passò a un certo Apuleio, richiamano gli edifici campani, e a rigore si può ammettere che le case private dei ricchi, i domimi o domus che sono regi­ strati nei Regionari assunsero il più delle volte l ’impronta di quelli. Ma i Regionari danno per YUrbs solo 1 797 domus 32

contro 46 602 insulae, cioè un rapporto di uno a ventisei tra un’abitazione privata e i fabbricati da affitto. In accordo con le notizie fornite dai testi e con l’interpretazione obiettiva dei frammenti del catasto dell’Ur&r, che Settimio Severo riespose al Foro della Pace, le ultime indagini hanno dimostrato che fra le ittsulae, costituenti l’immensa maggioranza, e le rare dotttus c’era la stessa differenza che corre fra un palazzo romano e un « villino » in riva al mare; o tra una « casa » di Rue de Rivoli e di uno dei grandi boulevards parigini e i cottages della Costa di Smeraldo. In verità, per paradossale che sembri a prima vista tale affermazione, vi è certamente maggiore analogia tra Yinsula della Roma imperiale e le case popolari della Roma contemporanea, che tra quella e la dotttus di tipo pompeiano. Quest’ultima volge alla via solo un muro cieco e pieno, e guarda da tutte le sue aperture sugli spazi interni; l’altra si apre sempre verso l’esterno e qualche volta — quando è dispo­ sta in quadrilatero attorno a una corte centrale — affaccia con­ temporaneamente verso l’interno e verso l’esterno le sue porte, le sue finestre, le sue scale. La dotttus si compone di sale, le cui proporzioni sono state calcolate una volta per tutte, le destinazioni d ’uso fissate in anticipo, e sono disposte le une dopo le altre in ordine inva­ riabile: fauces, atrium, alae, triclinium, tablinum, peristilio. insula comprende, riuniti nei cenacula, — vale a dire in abitazioni separate e distinte come i nostri « appartamenti » — dei locali che non hanno alcuna previa destinazione e che, in­ tercambiabili fra loro su uno stesso piano, si succedono lungo la verticale secondo una sovrapposizione rigorosa. La domus, direttamente derivata dall’architettura ellenistica, si sviluppa in senso orizzontale. Al contrario Yinsula, nata probabilmente durante il iv secolo a. C. dalla necessità di albergare, dietro le mura dette serviane, una popolazione in continuo aumento, si sviluppa in senso verticale. Proprio al contrario della domus di Pompei, Yinsula romana è cresciuta in altezza e ha finito per raggiungere sotto l’impero dimensioni vertiginose. È proprio questo il suo carattere predominante, per cui, dopo aver impressionato gli antichi, essa sorprende oggi anche noi, tanto ci colpisce la sua somiglianza con le abitazioni urbane più recenti e più ardite. G ià nel in secolo a. C. le insulae a tre 33

piani (tabulata, contabulationes, contignationes) erano divenute così numerose che non ci si badava più; e Tito Livio 3, enume­ rando i prodigi che nell’inverno 218-17 a. C. annunziarono l ’offensiva di Annibaie, cita, senza ulteriori commenti, l’inci­ dente di un bue, che, fuggito dal mercato, salì le scale fino al terzo piano di un'insula che fiancheggiava il Forum Boarium e si gettò nel vuoto tra lo spavento e le grida degli astanti. Alla fine della repubblica l’altezza media delle insulae indicata inci­ dentalmente da questo episodio è superata. La Roma di Cice­ rone è come sospesa nell’aria per la sovrapposizione delle sue abitazioni: Romam cenaculis sublatam atque suspensam 4. La Roma di Augusto si leva ancora più in alto. Allora, come scrive Vitruvio, « la maestà dell’Urbe, l’accrescimento considerevole della sua popolazione portarono di necessità un’estensione straordinaria delle sue abitazioni, e la situazione stessa spinse a cercare un rimedio nell’altezza degli edifici » 5. Rimedio d ’al­ tra parte così imprudente che l’imperatore, spaventato dai pe­ ricoli che minacciavano la sicurezza dei cittadini e dai crolli di cui tale sviluppo in altezza era responsabile, impose un regolamento che proibì ai privati di elevare le costruzioni oltre i 70 piedi (21 metri circa)6. Ma in seguito proprietari e im­ prenditori gareggiarono tanto in avarizia quanto in temerità nello sfruttare in qualunque modo i margini di tolleranza fissati dall’interdetto imperiale. Per tutta la durata dell’Alto impero, troviamo abbondanti prove di questo sviluppo in altezza degli edifici, appena credi­ bile per l’epoca; a Tiro, al principio dell’èra cristiana, le case di quel porto famoso dell’Oriente — osserva sorpreso Strabone — sono quasi più alte di quelle della Roma imperiale7. Cento anni dopo, Giovenale deride questa Roma aerea, die poggia solo su travicelli sottili e lunghi come flauti8. Aulo Gellio cinquant’anni più tardi si lagna di queste case dai numerosi ed erti piani: multis arduisque tabulatis9; e il retore Elio Aristide s’indugia a considerare gravemente che se le abi­ tazioni dell’U r i fossero d ’un colpo portate tutte al livello dei loro pianterreni, si estenderebbero fino a Hadria sull’Adria­ tico Superiore10. Invano Traiano aveva rinnovato11 le restri­ zioni di Augusto, aggravandole anzi col fissare a 60 piedi (18 metri) l’altezza degli edifici privati: la necessità fu più forte 34

della legge; e nel iv secolo si mostrava ancora tra le curiosità delFUrbe, a fianco del Pantheon e della Colonna Aurelia, una casa gigantesca le cui dimensioni prodigiose non mancavano mai di attirare l’attenzione del visitatore: Yinsula Felicles. L ’edificio di Felicula era stato fabbricato duecento anni prima, perché all’inizio del principato di Settimio Severo (193-211) la sua fama aveva già attraversato i mari; e quando Tertulliano cercava di convincere i suoi compatrioti africani dell’assurdità delle invenzioni con le quali i Valentiniani cercavano di col­ mare l’infinito che separa la creazione dal creatore, non trovò allora paragone più istruttivo: egli deride senza pietà questi eretici — impacciati da tutti gli intermediari e mediatori gene­ rati dal loro delirio — per avere « trasformato l ’universo in una specie di immenso palazzo mobiliato », al sommo del quale pongono Dio, sotto i tetti — ad summas tegulas — , e che eleva « verso il cielo tanti piani quanti se ne vedono a Roma nell’edificio di Felicula » 12. Certamente, malgrado gli editti di Augusto e di Traiano, i costruttori avevano raddop­ piato la loro audacia e Yinsula Felicles si levò al di sopra della Roma degli Antonini come un grattacielo. Anche se questa è rimasta un’eccezione straordinaria, un caso-limite quasi mo­ struoso, è anche vero che gli edifici di cinque o sei piani non si contavano più attorno ad essa. In quello che abitò Marziale sul Quirinale, in via del Pero, il poeta doveva salire soltanto fino al terzo piano per tornare a casa, e non era certo l’inqui­ lino peggio alloggiato. Tanto nella sua insula quanto nelle insulae vicine, c’erano inquilini molto meno favoriti perché erano appollaiati molto più in alto; e nel quadro crudele, che egli ci ha lasciato, d ’un incendio romano, Giovenale immagina di rivolgersi al disgraziato che abita, come il Dio dei Valenti­ niani, sotto i tetti: « Già — egli dice — il terzo piano brucia e tu non sai nulla. Dal pianterreno in su c’è lo scompiglio, ma chi arrostirà per ultimo è quel miserabile che è protetto dalla pioggia solo dalle tegole, dove le colombe in amore ven­ gono a deporre le loro uova » 13. D ’altra parte, queste costruzioni imponenti che sembravano non finire mai, per le quali il passante era costretto a tirarsi indietro se voleva vederne la cima, si dividevano in due cate­ gorie: le più sontuose, in cui il pianterreno costituiva un’unità 35

messa a disposizione di un locatario unico e acquistava il pre­ stigio e i vantaggi di una casa signorile alla base dèi'insula, donde il nome di domus die gli veniva dato in opposizione agli appartamenti o cenacula dei piani superiori; e quelle più co­ muni in cui il pianterreno era diviso in una infinità di botteghe o magazzini, le tabernae, che i testi menzionano spesso e che tanto più facilmente possiamo immaginare in quanto si è con­ servata fino ai giorni nostri, nella Via Biberatica e a Ostia, l’ossatura di molte di esse. Solo grandi personaggi e di molto credito si potevano permettere il lusso della domus che appar­ teneva alla prima categoria, e sappiamo, per esempio, che già al tempo di Cesare, Celio pagava per la sua un affitto annuo di 30 000 sesterzi pari a 30 000 franchi Poincaré é a seimila franchi anteguerra14r A l contrario, sotto il tetto delle tabernae vegetava un’umile popolazione. Esse si aprivano sulla strada con una vasta porta centinata, che ne occupava quasi tutta la larghezza e i cui battenti di legno venivano abbassati, o tirati, sulla soglia ogni sera, e sbarrati accuratamente con chiavistelli. A prima vista non comprendevano che il deposito d’un mer­ cante, o la botteguccia di un artigiano, la cassa o il banco di un rivendugliolo. Ma quasi sempre, in un angolo, rimaneva spazio per ima rampa di quattro o cinque scalini di mattoni o di pietra, prolungata da una scala di legno, per la quale si accedeva a un soppalco illuminato direttamente da un’unica finestra oblunga, che si apriva al centro in alto sulla porta e serviva da abitazione privata ai padroni della bottega o ai guardiani del magazzino o agli artigiani del laboratorio. In ogni caso, lavoratori liberi o domestici schiavi, gli inquilini d ’una taberna avevano per sé e per i familiari soltanto un ambiente: qui lavoravano, cucinavano, mangiavano, dormivano in una confusione per lo meno uguale a quella di cui soffrivano, come vedremo, i locatari degli ultimi piani; fors’anche erano in genere più poveri; pare che, quanto meno, per gran tempo abbiano avuto serie difficoltà a pagare l ’affitto. Il proprietario, per costringere i cattivi debitori, si limitava, si dice, a togliere la scala che portava alla loro stanzuccia, inducendoli così, ta­ gliando loro i viveri, a venire a un accordo. Ora, l ’espressione percludere inquilinum, « bloccare un locatario » — che rende bene l’immagine — , non sarebbe divenuta presso i giurecon36

suiti sinonimo di « costringere il locatario a pagare » se l’ope­ razione che richiama, e che è comprensibile solo nell’umile taberna, non fosse stata comunemente praticata nella Roma imperiale. C ’erano dunque delle differenze tra i due generi di stabili d’affitto cui conviene il nome d ’insula; ma derivavano quasi esclusivamente dalla disparità tra la domus e le tabernae del pianterreno, né impedivano che le une e le altre insulae sorgessero affiancate e obbedissero alle stesse regole nella di­ sposizione interna e nell’aspetto esterno dei loro piani. Consideriamo la Roma attuale; è vero che durante gli ul­ timi sessantanni, e soprattutto dopo la divisione in lotti della Villa Ludovisi, la città ha conosciuto l’unità separata dei « quartieri aristocratici »; ma prima di allora un soffio eguali­ tario aveva avvicinato le più nobili dimore alle case più vol­ gari; e ancor oggi lo straniero rimane talvolta sorpreso nel veder sorgere improvvisamente allo sbocco di una via bruli­ cante di popolino la maestà di un Palazzo Farnese. In questo aspetto di fraternità la Roma dei tempi moderni ha risusci­ tato la Roma dei Cesari, in cui le classi elevate e il popolo minuto venivano a contatto dovunque senza urtarsi affatto. L ’orgoglioso Pompeo non aveva creduto di scapitare restando fedele alle Carine; Giulio Cesare, il più raffinato dei patrizi, prima di trasferirsi, per ragioni politiche e religiose, nelle dépendances della Regia, abitava alla Suburra. Più tardi Me­ cenate piantò i suoi giardini nella parte più malfamata dell’Esquilino. Pressappoco nella stessa epoca, il ricchissimo Asinio Pollione sceglieva per sua residenza la plebea collina dell’Aventino, che anche Licinio Sura, il vice imperatore del regno di Traiano, eleggerà a suo domicilio. Alla fine del primo secolo d. C., il nipote dell’imperatore Vespasiano e un poeta parassita come Marziale abitavano non lontano l ’uno dall’altro sulle pendici del Quirinale; e alla fine del n secolo, Commodo sarà assassinato in un ritiro che si era allestito in mezzo al democratico Celio. Certo, ad ogni incendio che li devasta, i diversi quartieri della città rinascono dalle loro ceneri più so­ lidi e magnifici; ciò nondimeno il ravvicinamento dei diversi ceti, che si ripete sotto gli occhi nostri, si rinnova appena atte­ nuato dopo ognuna di queste rinascite; e ogni tentativo per differenziare le quattordici regioni àeìl’Urbs è destinato a fal­ 37

lire. Tuttalpiù si ammetterà che i raffinati, desiderosi di evi­ tare la folla, furono costretti ad allontanarsi sempre più e a ri­ fugiarsi al limitare della campagna, tra le pinete del Pincio e del Gianicolo, dove si estendevano i parchi delle loro ville suburbane15, mentre la gente del volgo, allontanata dal centro dalla presenza della corte e dei numerosi edifìci pubblici, ma tuttavia attratta verso di esso dagli affari che vi si trattavano, affluì di preferenza nelle zone intermedie tra il Foro e i sob­ borghi, nelle zone esterne e tangenti alle mura repubblicane, che la riforma d’Augusto aveva d’un colpo integrate all'Urbs. In realtà, se si consultano i Regionari, e si esaminano regione per regione i dati forniti per le insulae, cioè gli stabili da affitto, e per i vici, cioè le arterie che disimpegnano le insulae, e se poi si sommano questi dati in due gruppi distinti formati rispettivamente dalle otto regioni dell’antica Urbe e dalle sei regioni dell’Urbe nuova, la media risultante da tale calcolo è, per le prime regioni di 2 965 insulae e 17 vici e per le seconde di 3 429 insulae e 28 vici. Così, a parità di regioni, il maggior numero di edifici risulta concentrato nell’Urbe nuova, così come risulta che, a parità di vici, gli edifici che raggiunsero maggiori dimensioni furono quelli dell’Urbe nuova, che con­ tava soltanto 123 insulae per vicus, e non quelli dell’Urbe antica dove se ne ebbero fino a 174 per vicus. E appunto i Regionari han localizzato l’insula gigante, il grattacielo di Felicula, nella nona regione, detta del Circo Flaminio, nel bel mezzo dell’Urbe nuova. Sondaggi parziali hanno dato gli stessi risultati delle statistiche complessive: i successi dell’urbanesimo imperiale finirono per ingrandire smisuratamente in tutti i sensi e in forme simili a quelle moderne i vasti fabbricati del­ l ’antica Roma. Dal di fuori tutte quelle insulae monumentali, quei « bloc­ chi », si somigliavano più o meno fra di loro e volgevano verso la strada facciate quasi uniformi. Dovunque i loro piani so­ vrapponevano simmetricamente i cenacula dalle ampie aper­ ture; le scale di pietra conducevano direttamente dal pianter­ reno agli appartamenti superiori, interrompendo con i loro gradini più bassi la linea delle tabernae o dei muri della domus. Nelle sue direttrici essenziali il loro schema d è fami­ liare; si direbbero delle case urbane costruite ieri od oggi e le 38

ricostruzioni ideali disegnate dagli esperti 'più competenti in base alle rovine meglio conservate presentano tali analogie con i nostri edifìci, che a prima vista siamo tentati di diffidare. Tuttavia un esame più attento ce ne garantisce la coscienzio­ sità e la fedeltà. Al Boethius è stato sufficiente, per esempio, confrontare su una stessa tavola fotografica una certa sezione del Mercato traianeo, o un certo edificio di Ostia con una casa odierna della Via dei Cappella« a Roma, o della Via dei Tribunali a Napoli, per dimostrare tra queste forme separate dai secoli dei contatti sorprendenti, che qualche volta rasen­ tano l’identità 16. Senza dubbio, se risuscitassero, i sudditi di Traiano e di Adriano crederebbero di tornare a casa loro, var­ cando le soglie dei « casoni » contemporanei; e avrebbero an­ che il diritto di dolersi, che, almeno quanto ad aspetto este­ riore, le loro abitazioni nel corso delle diverse età abbiano piuttosto perduto che guadagnato. L'insula della Roma imperiale, confrontata superficialmente con la sua erede della terza Italia, ci attesta un gusto più delicato, una più elegante ricercatezza, ed è in verità la casa antica a darci l’impressione più moderna. I suoi rivestimenti, ottenuti qui da combinazioni di legno e stucco, là da mattoni sapientemente accostati, venivano disposti con un’arte di cui abbiamo dimenticato la perfezione dal tempo dei palazzi nor­ manni e dei castelli di Luigi x i i i . Le porte, le finestre erano altrettanto numerose e spesso più grandi; la fila delle botteghe era di solito protetta e dissimulata da un porticato affiancato. Dai diversi piani sporgevan fuori, sulle vie più larghe, delle logge (pergulae) che poggiavano sui portici, o dei balconi {maeniana) di pittoresca varietà: in legno alcuni, di cui sono state trovate le travi di sostegno incastrate nel muro; altri in mat­ toni, ora gettati su arcate le cui linee d’imposta orizzontali sono generatrici dell’estradosso parallelo, ora impostati su di una serie di volte a botte, che erano sostenute da grandi mensole di travertino solidamente incastrate nella muratura sul pro­ lungamento dei muri laterali. Sui pilastri delle logge, sulle balaustrate dei balconi si avvolgevano piante rampicanti; sulla maggior parte delle finestre eran disposti vasi di fiori che for­ mavano a volte quei giardinetti in miniatura di cui d parla Plinio il Vecchio, e che negli angoli più soffocanti della grande 39

città mitigavano un poco, nelle case di umili cittadini discen­ denti di più generazioni di contadini, il loro rimpianto della campagna 17. Sappiamo che ad Ostia, alla fine del iv secolo, delle modeste locande, come quella in cui sant’Agostino ha am­ bientato il suo ultimo, dolce colloquio con santa Monica, erano sempre circondate di piante ombrose. La Casa dei dipinti, sen­ sibilmente più antica, pare che fosse ricoperta da piante e fiori su tutte le facciate e dalla base fino al tetto: e la ricostruzione che Calza e Gismondi ne hanno pubblicata, suggerisce con molta verosimiglianza l’idea di una città giardino, somigliante in tutto e per tutto alle più belle di quelle che le imprese costruttrici più illuminate, o le società filantropiche più gene­ rose costruiscono oggi per gli operai e i piccoli borghesi dei nostri grandi centri. Considerando tale immagine singolare e appena appena abbellita, vien quasi la tentazione di negare il progresso, e di invidiare gli uomini che allora, sotto Traiano, o Adriano e Antonino Pio, conobbero nella realtà le dolcezze che essa ricrea ai nostri occhi. Disgraziatamente, le comodità di quest 'insula, che è la più lussuosa di quante fino ad oggi ne abbia svelate l ’archeologia, non erano affatto proporzionali ai suoi ornamenti: certo, i suoi architetti non avevano trascurato nulla per abbellirla; l ’ave­ vano pavimentata con i mattonati e i mosaici di cui Vitruvio ci ha tramandato le complicate ricette; l’avevano rivestita, se­ condo i processi lunghi e costosi che lo stesso Vitruvio ha analizzati, di quei colori che oggi sono per più di tre quarti cancellati — ma che un tempo erano freschi e vivaci come gli affreschi di Pompei — e ai quali deve il nome con cui l’han designata gli studiosi italiani: Casa dei dipinti. Certo, quest'insula non oserei immaginarmela fornita dei lacunari divisi in placche mobili di tuia o d’avorio lavorato, con cui un arricchito come Trimalcione ricopriva i macchinari del sof­ fitto della sala da pranzo per far discendere sui convitati rapiti e soddisfatti una pioggia di fiori o di profumi o di piccoli, preziosi regali. M a forse le stanze eran coperte da quei soffitti di stucco dorato di cui si compiaceva già il capriccio di tanti contemporanei di Plinio il Vecchio? Ad ogni modo tale son­ tuosità aveva il suo rovescio, e le insulae più doviziose pecca­ vano per la fragilità delle loro murature, per la scarsezza dei 40

mobili, per l’insufficienza di illuminazione, di riscaldamento e di igiene.

2. ASPETTI ARCAICI DELLA CASA ROMANA Quelle altere dimore non erano affatto solide; mentre le domus di Pompei si estendevano facilmente su 800 o 900 metri quadrati, già le insulae di Ostia, che tuttavia furono costruite secondo i piani regolatori imposti da Adriano agli architetti, raramente coprono una superficie così estesa; e quanto alle insulae di Roma, le superfici, che risultano dai frammenti del catasto di Settimio Severo, variano generalmente fra i 300 e i 400 metri quadrati. Anche a supporre, cosa poco probabile, che non ce ne siano state di più ristrette tra quelle ormai se­ polte per sempre negli sconvolgimenti del terreno, queste cifre sono deludenti: 300 metri quadrati di estensione orizzontale per uno sviluppo verticale da 18 a 20 metri è molto poco, tanto più se si pensa allo spessore dei pavimenti che separa­ vano i piani; e basta il confronto di questi due dati a dire il pericolo inerente alla loro sproporzione. G li edifici di Roma non avevano una base proporzionata alla loro spinta ascensio­ nale e i crolli erano tanto più da temere in quanto i costruttori, sedotti dall’esca del guadagno, economizzavano sulla resistenza dei muri e sulla qualità dei materiali. « La legge — dice Vitruvio — non autorizzava affatto a dare più di un piede e mezzo [m . 0,45] di spessore ai muri esterni, e gli altri, perché andasse perduto meno spazio, non dovevano essere più spessi »; Vitruvio aggiunge che dopo Augusto si ovviava a questa sotti­ gliezza obbligatoriamente eccessiva con catene di mattoni che reggevano il brecciame, e constata con sorridente filosofia che tale mescolanza di pietre da taglio, di catene di mattoni e di file di sassi teneri ha permesso alle abitazioni di raggiungere senza inconvenienti grandi altezze e al popolo romano di crearsi delle belle abitazioni senza difficoltà: populus romanus egregias habet sine impeditione habitationes,8. Venti anni dopo, Vitruvio avrebbe cambiato opinione: l ’ele­ ganza e la facilità di cui si rallegra erano state raggiunte a tutto detrimento della solidità. Anche quando, nel n secolo, 41

cominciò a prevalere la costruzione con laterizi, cioè quando cominciò l’abitudine di rivestire le facciate esterne di mattoni, i crolli di edifici o le loro demolizioni preventive non cessa­ rono di riempire l’Urbe del loro fracasso, e gli inquilini delVinsula vivevano nel continuo timore die questa crollasse loro sulla testa. Si ricordi la tirata malinconica e incollerita di G io­ venale: « Chi teme o mai temè che gli crollasse La casa nella gelida Preneste O tra i selvosi gioghi di Bolsena [ ...] ? Ma noi in un’urbe viviam che quasi tutta Si sostiene su esili pun­ telli; Questo rimedio gli amministratori Alle mura cadenti oppongono solo, E poi, quando tappato hanno alle vecchie Crepe gli squarci, voglion che si dorma Placidi sotto gli immi­ nenti crolli ». Il poeta non ha esagerato affatto; d ’altra parte, anche i numerosi casi del genere previsti dal Digesto, presuppongono la situazione precaria che provocava il suo sdegno. « Supposto, per esempio, che il proprietario di un ’insula l ’abbia affittata in blocco per 30 000 sesterzi19 a un locatario principale, il quale mediante subaffitto ne tragga ima rendita di 40 000 sesterzi, e che, in seguito, il primo pensi di demolirla con il pretesto di minaccia di crollo, allora il locatario principale potrà inten­ tare un’azione per danni e interessi. Se veramente lo stabile è stato demolito per necessità, il richiedente avrà diritto alla restituzione del proprio affitto, e nulla più. Al contrario, se lo stabile è stato demolito per facilitare al proprietario una ricostruzione migliore e in seguito più remunerativa, il locatore dovrà versare al Attuario, cui la sua iniziativa avrà sottratto il reddito dei subaffitti, oltre l’affitto, la somma di cui tale esodo lo avrà privato. » 20 Questo testo è suggestivo in sé e per i fatti che fa intra­ vedere. Il freddo linguaggio in cui è redatto non lascia alcun dubbio sulla frequenza delle pratiche di cui parla; e queste dimostrano che le case della Roma imperiale, leggere quanto le antiche case americane e anche più, crollavano o venivano demolite come fino ad epoca recente quelle di New York. In compenso, bruciavano con la stessa frequenza delle case di Istanbul sotto i sultani; perché erano inconsistenti; perché la pesante struttura dei loro pavimenti imponeva che si adope­ rassero grosse travi di legno; perché i rischi d’incendio erano 42

frequenti per le stufe portatili, per le candele, le lampade fu­ mose e le torce dell’illuminazione notturna; perché infine, come vedremo, l’acqua era scarsissima negli appartamenti: da ciò il gran numero di incendi e la rapidità con cui si propagavano. Ricordiamo l’espediente che nell’ultimo secolo della repubblica il plutocrate Crasso aveva inventato per sfruttare gli incendi e accrescere coi loro danni la sua immensa fortuna. Alla notizia di un sinistro accorreva sul luogo dove era avvenuto, prodi­ gava la sua simpatia al proprietario disperato per l’improvvisa distruzione dei suoi beni e seduta stante comprava da costui a basso prezzo, molto al di sotto del valore reale, il terreno su cui ormai non restava che un ammasso di macerie. Dopo di che, con una delle sue squadre di muratori già addestrati da lui a tale scopo, ricostruiva sullo stesso posto un ’insula tutta nuova le cui rendite non tardavano a fruttargli un capitale su­ periore a quello investito. Più tardi, sotto l’impero, dopo che Augusto ebbe creato un corpo di pompieri, o vigili, la tattica di Crasso non avrebbe avuto minor successo. Anche sotto Adriano, pur così attento all’amministrazione della città, l’in­ cendio era moneta corrente nell’esistenza dei romani. Il ricco trema per la sua dimora e nella suà angoscia fa vegliare una schiera di schiavi sulla sua ambra gialla, i suoi bronzi, le sue colonne di marmo frigio e i suoi oggetti di tartaruga. Il povero è sorpreso nel sonno dall’invasione delle fiamme nella soffitta e si vede arrostire vivo. L ’ossessione è così forte che Giovenale è pronto per sottrattisi a lasciare Roma. « Vivere è meglio dove non d ’incendii Minaccia v’è né di terror notturni. » 21 Non esagerava: i giuristi fanno eco alle sue satire, e come ci dice Ulpiano, nella Roma imperiale non passava giorno senza parecchi incendi: plurimus uno die incendiis exortisn . Ma per lo meno la penuria dei mobili riduceva le dimen­ sioni di quelle catastrofi. Avvertiti in tempo, i poveri diavoli dei cenacula, come il fanatico Ucalegonte, cui Giovenale ha per derisione prestato il nome epico di un troiano delYEneide, erano presto in grado di portar in salvo i poveri loro cenci23. In tale frangente i ricchi avevano molto più da perdere, e non avrebbero potuto, come lui, salvar tutto il loro avere in un fa­ gotto. Tuttavia anche questi, accanto alle loro statue di marmo e di bronzo, avevano un mobilio molto sparso, la cui fastosità 43

consisteva non tanto nel numero e nella grandezza dei pezzi che 10 componevano, quanto nei materiali preziosi e nelle forme rare care al loro gusto. Nel passo di Giovenale già citato, se il milionario che egli mette in scena prende tante precauzioni contro il fuoco, lo fa per preservare non quelli che noi chiamiamo i mobili, ma so­ lamente gli oggetti d ’arte e i soprammobili. Presso tutti i romani il mobilio consisteva essenzialmente nei letti, sui quali dormivano di notte e durante la siesta, e sui quali mangiavano, ricevevano, leggevano e scrivevano il resto del giorno: la gente più modesta si contentava di un giaciglio di mattoni accostato al muro e ricoperto di un pagliericcio; gli altri usavano tanti più letti e più belli quanto più erano agiati. C ’erano i lettini ad una piazza ed erano i più diffusi {lecitili); c’erano i letti a due piazze per le coppie di sposi (lectus genialis); i letti a tre posti per la stanza da pranzo {triclinio); e fin letti a sei posti in casa di coloro che volevano far pompa della loro fortuna e meravigliare il prossimo. Ce n’erano fusi nel bronzo; altri, i più numerosi, erano in legno scolpito: in quercia, in acero, in terebinto, in tuia o in quei legni esotici, dalle nervature ondulate e dai riflessi cangianti che davano loro mille colori come nelle piume di pavone {led i pavonini). Ce n’erano ancora con combinazioni di legno nella cornice e bronzo nei piedi, o avorio nei piedi e bronzo alla cornice. Altri in cui il legno era incrostato di tartaruga, e altri in cui il bronzo era niellato d’oro e d’argento24. Ce n’erano anche di argento massiccio, come in casa di Trimalcione. Comunque fosse, il letto era 11 mobile per eccellenza della domus signorile come dell’insula proletaria; e quasi direi che nell’una e nell’altra dovette di­ stogliere i romani dal procurarsene altri e utilizzarli. Le loro tavole non avevano niente in comune con le attuali; esse sono divenute le tavole massicce a quattro piedi, di cui ci serviamo, molto tardi e con la mediazione dei riti cristiani. Durante l’Alto impero, le mensae erano, o ripiani di marmo montati su un piede e destinati ad esporre all’ammirazione dei visitatori gli oggetti più preziosi della dimora {cartibula), o tavolini ro­ tondi di legno o di bronzo, provveduti di tre o quattro trapezophores mobili, oppure treppiedi le cui gambe metalliche e pieghevoli terminavano generalmente a zampa di leone. Quanto 44

alle sedie, i loro resti sono anche più rari^ negli scavi, e con ragione: poiché la gente mangiava e lavorava coricata, non sapevano che farsene. Infatti il seggiolone, o thronus, con brac­ catoli e spalliera era riservato alla divinità; la sedia munita di spalliera più o meno inclinata (cathedra) non era quasi usata nella vita privata: solo alcune grandi dame, di cui poi G io­ venale critica la mollezza, avevano ¡ ’abitudine di abbandonar­ c i languidamente. I testi ce le mostrano in funzione solo in due case: nella sala di ricevimento del palazzo di Augusto — la frase: « Prends un siège, Cinna » del vecchio Corneille deriva direttamente dal racconto di Seneca — e nella camera, cubiculum, in cui Plinio il Giovane invitava i suoi amici a conversare con lui. Altrove appaiono solo come attributo del maestro che insegna nella sua schola, o del sacerdote che officia nel suo tempio: i fratelli arvali della religione ufficiale, i capi di certe sètte esoteriche del paganesimo, più tardi il prete cri­ stiano. Ordinariamente i romani si contentavano di banchi (scamna) o di sgabelli (subsellia) o di sellae senza bracciuoli e spalliera, che portavano fuori con sé e che, anche se « curuli » e d ’avorio come quelle dei magistrati o d’oro come quella di Giulio Cesare, non erano altro che sgabelli pieghevoli. Il resto del mobilio, la sua parte essenziale, oltre i letti, consisteva in coperte, tappeti, trapunte, cuscini, che si stendevano o si dispo­ nevano sui letti, ai piedi delle tavole, sugli sgabelli e sulle sellae e anche sotto gli ornamenti e il vasellame. Il vasellame d ’argento era d’uso così comune che Marziale mette in ridicolo i patroni così spilorci da non gratificare ai Saturnali i loro clienti di almeno 5 libbre (un po’ più di un chilogrammo e mezzo) d’argenteria25. Solo nelle case dei poveri il vasellame era d ’argilla. Nelle case dei ricchi era cesellato da maestri, scin­ tillante d ’o ro 26, incastonato di pietre preziose. A leggere certe descrizioni antiche si prova stupore come a un racconto delle Mille e una notte che si svolga in ima cornice simile a quella che fu caratteristica dell’Islam: grandi stanze nude in cui la ricchezza si misura dalla profusione e dalla profondità dei divani, dal colore cangiante delle stoffe damascate, dallo splen­ dore delle oreficerie e del rame damascato, dove però mancano le comodità cui l’Occidente è oggi avvezzo. Nelle migliori case romane l’illuminazione lasciava molto a 45

desiderare; non perché le loro vaste aperture non fossero ca­ paci in certe ore di inondarle dell’aria e della luce di cui noi siamo così avidi, ma perché, in certe altre ore, o non lascia­ vano penetrare né l’una né l’altra o le illuminavano e venti­ lavano in maniera eccessiva. Per esempio né nella via Biberatica al Mercato traianeo, né nella Casa dei dipinti a Ostia, sono stati trovati frammenti di mica o rottami di vetro accanto alle finestre, prova che queste abitazioni non erano state fornite di quelle sottili lastre trasparenti di lapis specularis con le quali sotto l’impero le famiglie agiate solevano chiudere certe volte o l ’alcova di ima camera da letto, o una sala da bagno, o una serra e perfino una portantina. Né erano provviste dei vetri spessi e opachi che si vedono nei lucernari delle terme di Pom­ pei ed Ercolano, in cui tale chiusura ermetica contribuiva a mantenere il calore senza creare l’oscurità completa27. Sicché queste abitazioni erano riparate o molto male, con tele o pelli agitate dal vento e battute dalla pioggia, o fin troppo bene con imposte a uno o due battenti di legno che riuscivano a proteg­ gerle dal freddo, dalla pioggia, dalla canicola, dalla tramon­ tana, ma intercettavano al tempo stesso la luce. Chi occupava un appartamento fornito di questi ripari non trasparenti, fosse pure un ex console e si chiamasse Plinio il Giovane, era condannato o a tremare di freddo se voleva la luce, o a ripararsi dalla tempesta dietro una cortina di tenebre così profonde che neppure la luce dei lampi arrivava a fil­ trare28. Bisogna, dice il proverbio, che ima porta sia aperta o chiusa. Al contrario, nell 'insula romana, sarebbe stato neces­ sario per il benessere dei suoi locatari che le finestre non fos­ sero mai né del tutto aperte né completamente chiuse, ed è certo che malgrado il loro numero e le loro dimensioni esse non riuscivano a procurare né l’agio né il diletto che danno alle nostre case. Anche le condizioni di riscaldamento erano nell’insula molto difettose. Poiché in essa l’atrio era stato abolito e i cenacula poggiavano l’imo sull’altro, era impossibile utilizzare il focolare alla maniera delle contadine che accendevano il fuoco nel centro delle loro capanne, dove le scintille ed il fumo sfuggivano dal buco lasciato aperto appositamente nel tetto. D ’altra parte sarebbe un grave errore credere che l ’insula 46

abbia mai goduto del riscaldamento centrale, che le è stato attribuito per un abuso di parole e per un errore di fatto. Gli impianti caloriferi di cui tante rovine serbano traccia non hanno mai adempiuto tale ufficio. Basta ricordare in che cosa consistono: anzitutto un apparecchio di riscaldamento — l’ipocausi — composto di uno o due fornelli alimentati, se­ condo la durata e l ’intensità desiderata per la fiamma, dalla legna o dal carbone di legna, da fascine o da erbe secche, e d ’un canale d ’emissione attraverso il quale il calore, la fuliggine e il fumo penetravano alla rinfusa nell’ipocausto adiacente; poi la camera del calore — l’ipocausto — caratterizzata da piccole pile di mattoni (suspensurae) tra le quali il calore circo­ lava avviluppandole uniformemente; infine le stanze riscal­ date poste, o piuttosto sospese, al disopra dell’ipocausto. In realtà, fossero o no collegate ad esso dai vuoti delle pareti, le stanze riscaldate ne erano separate da un impiantito for­ mato da uno strato di mattoni, da uno di creta e da una pavi­ mentazione di pietra o di marmo la cui compattezza aveva lo scopo di renderle impermeabili alle esalazioni sgradevoli o dan­ nose e conseguiva l’effetto di graduare il riscaldamento. Si os­ serva che in questo dispositivo la superficie riscaldata delle suspensurae non superava mai la superficie degli ipocausti e che la messa in opera esigeva altrettanti e più ipocausi che ipocausti. Da ciò consegue che il riscaldamento non era un riscaldamento centrale ed era inapplicabile agli edifici a diversi piani. Nell’Italia antica potè servire per un intero edificio solo se questo formava un vano unico e isolato, come la latrina dissotterrata nel 1929 a Roma, tra il Foro Grande e il Foro di Cesare. Altrove occupa sempre soltanto una piccola parte dell’edificio in cui vien messo in opera: nelle ville meglio fornite di Pompei, la sala da bagno, o nelle terme pubbliche il calidariunr. beninteso, nessuna traccia se ne trova in alcuna delle insulae che conosciamo. C ’è di peggio, del resto: l’insula romana se non aveva calo­ riferi non aveva nemmeno camini. A Pompei solo in certi ne­ gozi di fornai il forno è stato completato da un tubo che so­ miglia alle nostre canne fumarie, ma non potremmo dire che corrispondesse a una di queste; perché dei due che si possono citare ad esempio, uno è troncato in tal maniera che ignoriamo 47

dove andasse a sboccare, e l’altro arrivava non al tetto ma a una stufa situata al primo piano. Prese d ’aria di questo ge­ nere non ne sono state scoperte né nelle ville di Pompei, né in quelle di Ercolano, né, a maggior ragione, nelle case di Ostia, che riproducono esattamente Yinsula romana. Dobbiamo quindi necessariamente concludere che negli stabili deìl’Urbs se il pane e i biscotti cuocevano al fuoco speciale del forno, gli altri alimenti cuocevano a fuoco lento su fornelli portatili, e che gli uomini per lottare contro il freddo non avevano che bracieri. Molti di tali utensili erano portatili o montati su ruote. A lam i erano lavorati nel rame o nel bronzo con una abilità e una fantasia che incantano. Ma la nobiltà e la grazia di quest’arte industriale non compensano affatto l ’inferiorità della tecnica da cui dipende né la portata ridotta della sua azione. Le altere dimore dell’Urbe erano prive sia del dolce tepore che diffondono i radiatori delle nostre stanze, sia della gioia che brilla e scintilla nella fiamma del focolare. Inoltre esse erano qualche volta minacciate dall’insidioso attacco dei gas venefici, e spesso dall’invasione del fumo, che non sempre si riusciva a evitare disseccando a lungo i combustibili, o car­ bonizzandoli preventivamente (Ugna eoetilia, acapna); e gli abi­ tanti dell’antica Roma, durante i rigori — per fortuna infre­ quenti — della cattiva stagione, non hanno mai riscaldato le loro dita intirizzite se non sui tizzoni dei bracieri29. Aggiungiamo che Yinsula non era meglio provvista d ’acqua. Generalmente si è convinti del contrario. Si dimentica che la conduzione dell’acqua a spese dello Stato era stata concepita dai romani come un servizio puramente pubblico, da cui l ’in­ teresse privato fu escluso fin dall’origine, e che esso continuò a funzionare sotto l’impero ad usum populi, come dice Fron­ tino, cioè a vantaggio della collettività e senza riguardo all’in­ teresse dei privati. Si pensa ai quattordici acquedotti che span­ devano in Roma la freschezza delle sorgenti dell’Appennino, e che secondo i calcoli del Lanciarli, vi profondevano un miliardo di litri d’acqua al giorno; alle duecentoquarantasette vasche, castella, dove l’acqua decantava; alle fontane che allora come ora riempivano l’Urbe della melodia dei loro zampilli e dello splendore dei loro getti; a quelle grosse canalizzazioni di piombo che derivavano nelle abitazioni private l ’acqua distri­ 48

buita dagli acquedotti. E ci si immagina che le case romane ricevessero come le nostre il beneficio dell’acqua corrente. Niente di tutto ciò. Anzitutto si dovè attendere il principato di Traiano e l’inaugurazione, il 24 giugno 1 0 9 30, dell’acquedotto che porta il nome di quell’imperatore — aqua troiana — perché l ’acqua di sorgente fosse portata nei quartieri sulla riva destra del Tevere, i quali fino allora avevano dovuto attingere dai pozzi. Poi, anche sulla riva sinistra, le derivazioni collegate, col per­ messo dell’imperatore, ai castella dei suoi acquedotti, non erano concesse, dietro canone, che a titolo strettamente personale e ai soli proprietari fondiari; e almeno fino al principio del n se­ colo tali concessioni onerose erano revocabili e venivano im­ mediatamente soppresse dall’amministrazione la sera stessa della morte del concessionario. E poi, soprattutto, pare che tali derivazioni private siano state dovunque limitate ai pianterreni, dove di preferenza eleg­ gevano domicilio i capitalisti che abitavano negli edifici d’af­ fitto. Per esempio, nella colonia di Ostia, che tuttavia, a imi­ tazione della vicina Roma, possedeva un acquedotto, canalizza­ zioni municipali e conduzioni private, nessuna costruzione ci ha ancora rivelato le colonne montanti che avrebbero permesso di portare l’acqua delle sorgenti ai diversi piani; e i testi an­ tichi, in qualunque epoca redatti, testimoniano contro la pos­ sibilità della loro presenza. G ià nelle commedie di Plauto, il padrone di casa vigila a che i suoi domestici riempiano ogni giorno le otto o nove giare {dolio) di bronzo o di creta, ch’egli tiene sempre di riserva31. Durante l’impero, il poeta Marziale resta tributario a malincuore della pompa a manico ricurvo che orna il cortile della sua casa32. Nelle Satirae di Giovenale i portatori d ’acqua (aquarii) sono designati come gli ultimi de­ gli schiavi33. Leggiamo nei giureconsulti della prima metà del ili secolo che questi schiavi diventano così necessari alla vita collettiva d’ogni stabile, che, nella successione, al pari dei por­ tieri {ostiarii) e degli spazzini {zetarii), essi passavano dì pro­ prietà insieme con l’edificio34. Il prefetto del pretorio Paolo, non mancò nelle sue istru­ zioni al prefetto dei vigili, di ricordare al comandante dei pompieri romani l’obbligo di avvertire i locatari di tener sem 49

pre pronta nei loro appartamenti l’acqua necessaria per spe­ gnere un eventuale principio d’incendio: ut aquam unusquisi)tte inquilinm in cemento habeat iubetur admonere35. Evidentemente, se i romani dell’epoca imperiale avessero dovuto, come i nostri contemporanei, soltanto girare il rubi­ netto per veder scendere l’acqua a fiotti sull’acquaio, la racco­ mandazione sarebbe stata superflua. Il solo fatto che Paolo l’abbia formulata ci dimostra che, tranne qualche eccezione, ancora del resto da dimostrare, l’acqua degli acquedotti arri­ vava solo al pianterreno delle insulac. Gli abitanti dei cenacula più alti erano costretti a procurarsi l’acqua alla fontana più vicina; e tale necessità, tanto più penosa quanto più i cenacula erano posti in alto, complicava sempre più, a misura che ci si avvicinava al tetto, le cure per la pulizia e rendeva difficoltosi i lavaggi di cui, più degli altri, avevano bisogno, per i loro tavolati e pavimenti, gli alloggi popolari delle ultime contignationes Sicché bisogna ammettere che, per la mancanza di lavaggi con acqua molto abbondante, parecchi appartamenti delle in sulae romane erano destinati a coprirsi di sudiciume; ed era fatale che finissero per andare incontro a quest’inconveniente, dato che mancava uno scarico in fogna, che è esistito soltanto nelle opinioni preconcette di archeologi troppo ottimisti. Lungi da me l’idea di lesinare la ben meritata ammirazione alla rete di cloache che trasportavano nel Tevere i rifiuti del l’Urbe. Cominciata nel vi secolo a. C., estesa e migliorata co stantemente durante la repubblica e l’impero, era stata conce­ pita, attuata e conservata in una scala così grandiosa che in certi settori vi passavano comodamente due carri di fieno; e Agrippa — che forse più di tutti ha contribuito a migliorarne il rendimento e la salubrità riversando in essa, a mezzo di sette canalizzazioni contemporaneamente, l’eccesso degli acque­ dotti — potè facilmente percorrerla tutta in barca. Inoltre fu così solidamente costruita, che la più spaziosa e anche la più antica delle sue fogne — quella cloaca maxima che dal Foro ai piedi dell’Aventino era divenuta il collettore centrale — sboc­ ca ancor oggi nel fiume all’altezza del Ponte Rotto, e innalza — oggi come ai tempi dei re cui l’opera viene attribuita — l’arco a tutto sesto di 5 metri circa di diametro, i cui conci di 50

tufo, che il tempo ha ricoperto di una patina ma non danneg­ giato, restano ancora saldi dopo duemilacinquecento anni. È un capolavoro possente cui collaborarono, con la lunga esperienza fatta dagli etruschi nel prosciugamento della loro Maremma, l’ardimento e la pazienza del popolo romano; e così come è giunta fino a noi, onora l’antichità. Ma non si può negare! che gli antichi, così coraggiosi nell’intraprenderla, così pazienti nel portarla a termine, non furono abbastanza abili nel trarne tutto l’utile che ne avremmo ricavato noi; non ne hanno sfruttato le possibilità per la pulizia della città, per la salute e la decenza dei suoi abitanti. Se tale opera servì a raccogliere lo scolo dei pianterreni, in­ sieme con quello delle latrine pubbliche direttamente inserite sul suo percorso, è certo però che non si pensò a metterla in comunicazione con le latrine private dei cenacula. A Pompei, in ben poche ville le latrine poste nel piano elevato potevano mandare i loro rifiuti nella fogna, sia per un condotto che le unisse a quelle sottostanti, sia per tubature indipendenti. Nel 1910 avevo creduto di notare in due o tre sale del quartiere dei magazzini generali a Ostia dei tubi di scarico36. Ma è tutt’altro che sicura l’interpretazione che proposi allora riguardo a quei cilindri — d’impasto troppo grossolano per non datare da un’epoca tardiva — che si trovano relegati in un angolo della taberna e sono uniti al suolo da un dado di pietra di molto mediocre fattura. Poiché il sottosuolo non è stato affatto scavato, non si potrebbe affermare che questi tubi vi penetrassero dentro; e poiché le parti superiori delYinsula cui essi appartengono sono crollate, non possiamo esser sicuri nem­ meno che salissero più in alto del soppalco della taberna. E infine, poiché tali tubazioni mancano sia nelle insulae più im­ portanti di Ostia sia nelle rovine finora esplorate di Roma, dobbiamo attenerci al giudizio formulato dall’abate Thédenat, il quale agli inizi del ’900 affermava chiaramente che le cloache dell’U r i non erano mai state in comunicazione con gli appar­ tamenti delle insulae. Lo scarico in fogna della casa romana è solo un mito generato dalla facile immaginazione dei moderni; e tra tutte le soggezioni che pesavano sull’Urbe, sarebbe questa senza dubbio a destare la maggiore ripugnanza nella popola­ zione di oggi. 51

Certo, i più ricchi sfuggivano a questo inconveniente: se vivevano in case private signorili avevano la possibilità di co­ struirvi a piacere loro una latrina. L ’acqua degli acquedotti vi arrivava, e, nel caso disgraziato che l’abitazione fosse troppo lontana da una diramazione della fogna per scaricarvi i rifiuti, questi cadevano in una fossa sottostante, la quale al massimo poteva, come quella esumata nel 1892 presso San Pietro in Vincoli, risultare insufficiente per scarsa profondità e imper­ meabilità. Quanto alla fatica di vuotarla, poi, certamente da Vespasiano in poi, i mercanti di concime acquistarono il diritto di farlo periodicamente. Se i privilegiati abitavano in un’iftsula, certo avevano potuto prenderne in affitto il pian terreno che dava loro gli stessi vantaggi, e per questo appunto si chiamava dornus. Ma i poveri avevano ima strada molto più lunga da percorrere. In ogni caso, erano costretti a uscire fuori di casa. Se la piccola spesa non li preoccupava, entravano, pagando, in una delle latrine comuni che venivano amministrate da appal­ tatori del fisco, i conductores foricarum. La molteplicità stessa di queste latrine, che viene provata dagli inventari dei Regio­ nari, è un indice della rilevanza della loro clientela. Nella Roma di Traiano, come ancora in certi nostri villaggi arre­ trati, l’immensa maggioranza dei privati aveva a sua disposi­ zione solo le latrine pubbliche. Ma la somiglianza non va più in là: le latrine dell’antica Roma, per poco che ci si ricordi degli esempi di Pompei, di Timgad, di Ostia, e, in Roma stessa dell’esempio che ci ha dato la forica posta tra il Foro e il Fo­ rum Julii — di cui ho già parlato e che d’inverno era riscal­ data da un ipocausto — riescono per noi doppiamente scon­ certanti. Sono pubbliche in tutto il significato del termine (come le latrine di frasche per le truppe in campagna): senza vergo­ gna la gente vi si incontrava, chiacchierava, andava in cerca di inviti a pranzo37; nello stesso tempo poi sono provviste di cose superflue di cui noi facciamo a meno, e decorate con una prodigalità cui non siamo usi in questi locali. Intorno a un emiciclo o a un rettangolo disegnato con eleganza, l’acqua scor­ reva in continuazione in canaletti davanti ai quali eran disposti una ventina di sedili in marmo; la tavoletta forata si incastrava tra due mensole scolpite in forma di delfino, che servivano nello stesso tempo da appoggio e separazione. Non era raro il 52

caso che al di sopra dei sedili ci tossero delle nicchie con statue di eroi e divinità o un altare della Fortuna, la dea che dà la salute e porta felicità, come a Ostia 38; ed era anche frequente che la sala fosse rallegrata dal mormorio d’un giuoco d’acqua, come a Timgad. Ammettiamolo: noi restiamo sconcertati dalla stupefacente mescolanza di raffinatezza e grossolanità; sbalor­ diti dalla solennità e dalla grazia della scena, come dalla im­ barazzante familiarità degli attori. Nostro malgrado ci troviamo i pensare ai madrasah 39 del xv secolo che ho visitato a Fez, e le cui latrine, destinate anche quelle a ricevere addirittura una folla tutta assieme, sono rivestite di stucchi di squisita fattura e coperte d’un soffitto a merletto di legno di cedro. E d’un colpo proviamo l’impressione che quella Roma, in cui persino le latrine del palazzo imperiale, ornate e maestose come un santuario sotto la sua cupola, comprendevano tre posti fian­ co a fianco, che quella Roma, dico, insieme mistica e terra-terra, artistica e carnale, se ne va a raggiungere — lontana da noi — senza imbarazzo e senza vergogna, l’epoca dei merinidi, fino al fondo del Maghreb. Ma le latrine pubbliche non erano frequentate né dagli avari, né dai miserabili; costoro non intendevano lasciare nem­ meno un asse ai gestori delle foricae; preferivano piegarsi sugli orci sbreccati a bella posta, che il gualchieraio lì accanto, pa­ gando una tassa evidentemente inodore, aveva comprato il diritto di esporre davanti al suo laboratorio perché quelli li riempissero, gratis, deH’orina necessaria alla sua industria; op­ pure si precipitavano dai loro appartamenti per vuotare i vasi (lasana) e le seggette (sellae pertusae) nel recipiente, doliutn, posto nel vano della scala40. Oppure, se tale possibilità non era stata concessa loro dal padrone dell’insula, se ne andavano in un mondezzaio delle vicinanze. Nella Roma dei Cesari, come in una borgata mal tenuta, più di una stradina era impestata da questi pozzi neri (lacus), che Catone il Vecchio, al tempo della sua censura, aveva ordinato di pavimentare, mentre prov­ vedeva contemporaneamente a far ripulire le cloache e ad estenderle fino all’Aventino. Ancora nel secolo di Cicerone e di Cesare questi pozzi non erano scomparsi: Lucrezio ne parla nel suo De rerum natura; duecento anni dopo, sotto Traiano, erano sempre là, e vi si poteva anche veder giungere 53

le donne di malaffare, decise a sbarazzarsi della loro prole, le quali venivano — protette da una legge barbara — a esporvi i loro neonati; e le matrone afflitte dalla loro sterilità, avvici­ narsi a raccogliere di nascosto i fanciulli esposti, per soddisfare con l’inganno il desiderio di paternità tenace nel cuore dei loro creduli sp o si41. C ’erano, tuttavia, degli sciagurati che ritenevano questi luo­ ghi di scarico troppo lontani e le loro scale troppo ripide, e, per risparmiarsi la fatica di andar fin là, gettavano dalla fine­ stra nella strada il contenuto dei loro vasi da notte. Tanto peggio per i passanti che capitavano a tiro di tali disgustose traiettorie! Ai malcapitati, insudiciati o addirittura storpiati, come nelle satire di Giovenale42, non restava che sporgere denunce contro ignoti. E, come appare da parecchi passi del Digesto, i giureconsulti classici non disdegnavano di conside­ rare tali reati, di istituire dei giudici, di far spiare i delin­ quenti, e di determinare le indennità dovute alle vittime. Ulpiano fa una serie di ipotesi per meglio individuare i colpe­ voli. « Se — egli dice — l’appartamento [ cenaculum] è stato diviso tra parecchi abitanti, si potrà far ricorso solo contro quello che risiede nel punto dell’appartamento dall’alto del quale è stato precipitato il liquido. Se poi il locatario esercita il subaffitto [ cenaculariam exercens], ma tuttavia riserva a se stesso la maggior parte dell’appartamento, egli solo sarà rite­ nuto responsabile. Se, al contrario, il locatario trattiene per sé solo uno spazio modesto, saranno dichiarati responsabili in solido tanto lui che i suoi subaffittuari. E sarà lo stesso se il colpo o il getto sono partiti da un balcone. » Ma altrove Ulpiano non esclude le responsabilità individuali eventualmente accertate dall’inchiesta e invita il pretore a giudicare con equità, calcolando le pene secondo la gravità dei danni. Per esempio, « quando in seguito alla caduta di uno di siffatti proiettili da una casa, il corpo di un uomo libero avrà sof­ ferto una lesione, il giudice dovrà accordare alla vittima, oltre il rimborso degli onorari del medico e delle altre spese sop­ portate fino alla guarigione, l’ammontare dei salari di cui sarà rimasto e rimarrà privo per l’inabilità al lavoro da cui sarà stato colpito » 43. Sagge disposizioni, da cui sembrerebbe ispi­ rata la nostra giurisprudenza sugli infortuni, che però non le 54

ha in realtà seguite fino in fondo; infatti Ulpiano termina con una restrizione, che se fosse ammessa dai nostri tribunali, vuo­ terebbe di colpo della loro clientela le cliniche di chirurgia estetica. In essa egli ha però espresso, con la semplicità del suo linguaggio impassibile, il generoso senso della dignità umana da cui era animato: « Quanto alle cicatrici e allo sfregio che potrebbero derivare da tali ferite, non si farà valutazione al­ cuna, perché il corpo dell’uomo libero non ha prezzo ». . Quest’ultimo tratto, di una rara elevatezza morale, si slan­ cia come un fiore al disopra del pantano; e aggrava lo sgo­ mento in cui ci getta lo spettacolo che intravediamo attraverso le numerose e sottili analisi dei giuristi. Le nostre grandi città sono anch’esse ottenebrate dalla miseria, insudiciate dalla spor­ cizia dei tuguri, disonorate dai vizi che questi nascondono; ma la lebbra che li corrode è per fortuna localizzata e non oltre­ passa, di solito, i loro quartieri maledetti; mentre si ha l’im­ pressione che Babitt e Soho si estendessero a tutti i quartieri della Roma imperiale. Quasi dovunque nell’Urbe, le insulae appartenevano a pro­ prietari che, volendo evitarsi le noie di una gestione diretta, ne affittavano per cinque anni gli appartamenti dei piani ele­ vati a un vero e proprio industriale della gestione dei cenacula, contro un canone per lo meno uguale a quello della dornus del pianterreno. Tale locatario principale non esercitava certo un mestiere molto tranquillo: a lui spettava la manuten­ zione dei locali, scovare e collocare gli inquilini, mantenere la pace, e riscuotere le rate trimestrali dei suoi affitti annuali. Naturalmente, egli si compensava di tanti travagli e di tanti rischi con l’enormità dei suoi guadagni; il rincaro dei canoni d ’affitto è un tema costante di lagnanze nella letteratura ro­ mana. Nel 153 a. C. erano già così esorbitanti che un re in esilio dovette dividere il suo appartamento con un pittore, per non essere cacciato via. Ai tempi di Cesare, il più umile al­ loggio arrivava a duemila sesterzi. Ai tempi di Domiziano e Traiano, con la somma di uno di tali affitti si poteva acqui­ stare una ridente e fresca tenuta a Sora o a Prosinone44. Di modo che i subaffittuari del primo locatario, oppressi dall’in­ tollerabile peso, erano costretti, per trarsi dagli impicci, a subaffittare a loro volta tutte le camere del cenaculum delle 55

quali non avessero bisogno assoluto; e quasi dovunque, più si saliva in alto nel palazzo, più la calca diveniva intollerabile e più ignobile la promiscuità. Se il pianterreno era diviso in parecchie tabernae, queste venivano occupate da artigiani, rivenditori, bettolieri, come il deversitor dz\Vinsula descritta da Petronio 4S. Se era stato affit­ tato come abitazione a un solo possidente privilegiato, allora veniva dignitosamente occupato dai domestici del padrone della domus. Ma ad ogni modo, al disopra c’erano degli appar­ tamenti che a poco a poco venivano invasi da una plebe pul lulante e in cui si stipavano famiglie intere, si ammassavano progressivamente polveri, detriti, sporcizie, e dove infine cor­ revano le cimici, come quelle che, nel Satyricon, il cattivo ser­ vo, nascosto sotto il suo giaciglio, è costretto a leccare sul muro nero di insetti. E quasi dovunque, sia che si trattasse di eleganti domus o di ¿»¿«/¿¿-caravanserragli — la cui popo­ lazione, in spaventosa promiscuità, richiedeva per il manteni­ mento dell’ordine un esercito di schiavi e di portieri sotto il comando di un servo sovrintendente — le abitazioni dell'Urbs, raramente allineate lungo un viale, si affollavano in un dedalo di salite, di strade e stradette più o meno strette, tortuose e oscure, in cui il marmo dei « palazzi » brillava nell’ombra di luoghi malfamati

3 LE STRADE DI ROMA t LA CIRCOLAZIONE Se con un colpo di bacchetta magica si fosse potuto dipa­ narne il groviglio e allinearle l’una dietro l’altra, le vie di R om a46, contate e misurate da Vespasiano e Tito al tempo del loro censimento del 73 d. C., avrebbero coperto una distanza di 60 000 passi pari a circa 85 chilometri. Plinio il Vecchio, fiero di quell’immenso sviluppo, poneva a raffronto l’altezza degli edifici che sorgevano sul percorso di quelle vie per pro­ clamare subito dopo che non c’era nel mondo antico una città la cui grandezza potesse esser paragonata a quella di R om a47. Ma in realtà si tratta solo di una grandezza quantitativa e gli elementi di cui è composta sono tra loro stridenti, dal mo­ mento che invece di ordinarsi secondo la prospettiva imma­ 56

ginaria che Plinio rappresenta con una linea retta sulla sua pergamena, la rete delia viabilità romana si perdeva sul ter­ reno di una matassa inestricabile dove gli inconvenienti erano aggravati dall’enormità stessa degli edifici che abbracciava. Ta­ cito infatti attribuisce all’anarchia delle strade chiuse, sinuose, divaganti come se fossero state tracciate senza regola attra­ verso la massa delle insulae gigantesche, la facilità e la rapi­ dità con le quali si propagò in Roma il terribile incendio del 64 d. C. « Quanto a Nerone, per il quale tale lezione non era andata perduta, se le sue intenzioni furono di ricostruire gli isolati distrutti secondo un piano razionale, con allineamenti più rigorosi e con passaggi più larghi, nei risultati non raggiunse 10 scopo. Nel complesso e fino alla fine dell’impero, le strade di Roma costituirono un insieme per nulla organico piuttosto che un sistema veramente efficiente; esse conservarono sempre qualcosa delle loro lontane origini e delle vecchie distinzioni, che avevano presieduto al loro primitivo assetto di tipo rustico: itinera, le vie accessibili ai soli pedoni; actus, quelle in cui poteva passare un carro alla volta; e infine viae propriamente dette quelle in cui due carri potevano incrociarsi o superarsi. Nel complesso densissimo delle vie di Roma solo due avevano diritto al nome di via entro l’antica muraglia repubblicana, la Via Sacra e la Via Nova, che attraversavano o costeggiavano il Foro e che, con sorpresa, troviamo del tutto irrilevanti. Tra le porte della cinta di mura e la periferia delle quattordici regioni, un’altra ventina meritavano quel nome; le vie che da Roma conducevano in Italia: la via Appia, la via Latina, la via d ’Ostia, la via Labicana, ecc. Esse hanno una larghezza oscil­ lante tra m. 4,80 e 6,50, prova evidente che non avevano guadagnato molto spazio dal tempo in cui le Dodici Tavole avevano stabilito una larghezza massima di 16 piedi, pari a m. 4,80. La maggior parte delle altre, le vere e proprie vie, i vici, raggiungevano a stento tale ampiezza, e tra queste molte vi restavano anche al disotto — semplici passaggi, angiportus, o sentieri, semitae, cui era prescritta ima larghezza di 10 piedi (m. 2,90) perché le case che li fiancheggiavano potessero avere 11 permesso di costruire dei balconi ai piani superiori49. L a 57

strettezza delle vie era tanto più scomoda quanto più esse erano tortuose, e dovevano salire o discendere forti pendìi sulle sette colline, onde il nome, dato a molte, di rampe, clivi: clivus Capitolinus, clivus Argetttarius, ecc. Infine, insudiciate quotidianamente dai rifiuti delle case ^ non erano certo tenute così bene come aveva prescritto Cesare nella sua legge po­ stuma, né erano sempre munite del marciapiede e della pavi­ mentazione che il dittatore aveva preso l’iniziativa di imporre una volta per tutte. Rileggiamo il celebre testo inciso sul bronzo della tavola d ’Eraclea: Cesare intima, con tono minaccioso, ai proprietari di edifici che costeggiano una pubblica via, di pulire davanti alle porte e ai muri, e all’edile da cui dipende il loro quartiere di supplire ad eventuali contravvenzioni, facendo eseguire da un appaltatore, designato con i sistemi in uso nei mercati di Stato, delle corvées obbligatorie, a un prezzo fissato in prece­ denza all’asta, e che i contravventori erano tenuti a versare, accresciuto della metà al minimo ritardo. L ’ordine ha un tono imperativo, la sanzione è senza pietà; ma per quanto il mec­ canismo fosse montato ingegnosamente, tutta la procedura por­ tava con sé dei ritardi — dieci giorni almeno — che devono averla resa inefficace nella maggior parte dei casi; e bisogna convenire che delle robuste squadre di spazzini, direttamente reclutati e impiegati dagli edili, avrebbero risolto l’affare me­ glio e più presto. Non risulta affatto che ne siano esistite, né l’idea che lo Stato avrebbe dovuto, in tale circostanza, sosti­ tuire la propria autorità o la propria responsabilità a quella dei privati, poteva venire in mente a un romano, fosse pure dotato del genio di Giulio Cesare. Così, per mancanza di ser­ vizi adatti, i magistrati non furono mai capaci, malgrado la loro vigilanza e il loro zelo, di assicurare alle strade di Roma imperiale la salubrità delle nostre. E ritengo che non abbiano avuto maggior successo nell’estendere a tutta l’Urbe i marcia­ piedi (margines, crepidines) e neanche il selciato (sternendae viae) di cui Cesare in altri tempi aveva sperato di provvedere le strade. Gli archeologi che sono di opinione contraria chiamano a testimoni, con tutta serietà, le larghe banchine delle strade italiane senza ricordarsi che quelle della via Appia furono 58

messe in opera nel 312 a. C., 65 anni prima di quelle del clivus Publicius, nell’interno della cinta repubblicana51; op­ pure si trincerano una volta di più dietro l’esempio di Pom­ pei, dimenticando quanto tale analogia sia ingannevole. Se le strade della Roma imperiale fossero state largamente provviste della pavimentazione che si attribuisce loro, il pretore dei Flavi, di cui parla Marziale, non sarebbe stato costretto nel percorrerle « a in fa n g a r si» 52, né Giovenale, a sua volta, ci sarebbe sprofondato dentro. Quanto ai marciapiedi, se ve ne fossero stati in abbon­ danza, per evitare che le strade fossero invase dalle merci in mostra non si sarebbe dovuto attendere quell’editto di Domi­ ziano vantato in un epigramma di Marziale: « Non più fiaschi appesi ai pilastri, ... le gargotte Annerite stravaccate sul cam­ mino, Barbiere, bettoliere, friggitore, norcino Nel proprio guscio se ne sta ciascuno. Ora c’è Roma: prima era un ca­ sino » 53. Ma questo editto ebbe un effetto durevole? È lecito dubi­ tarne. Il ritiro delle ceste di merci che forse la dispotica vo­ lontà d ’un imperatore mai riuscì ad ottenere durante il giorno, aveva luogo spontaneamente di notte. Questo è effettivamente uno dei caratteri per i quali la Roma imperiale più si allontana dalle capitali contemporanee: le sue strade, nelle notti senza luna restavano immerse nella più profonda oscurità. Niente fanali a olio o a candela appesi al m uro54 e nemmeno lanterne sospese agli architravi delle porte, salvo luminarie eccezionali, quando Roma s’illuminava improvvisamente, in segno d'allegrezza collettiva, per celebrare una festa imprevista — come quella che ebbe luogo la sera in cui Cicerone l’ebbe liberata dal pericolo di Catilina. In tempi normali, la notte cade sulla città come l’ombra di un pericolo, diffuso, misterioso, terribile. Ognuno se ne torna a casa, ci si serra dentro e ci si barrica. Le botteghe tacciono ovunque, le catene di sicurezza si tendono dietro i battenti delle porte; le imposte degli appartamenti si chiudono a loro volta e i vasi di fiori vengono ritirati dalle finestre che ave­ vano ornate55. I ricchi, se devono uscire, si fanno accompagnare da schiavi che portano fiaccole per illuminare e proteggere la loro marcia.

59

Quanto agli altri, non contano troppo sulle ronde notturne (sebaciaria), eseguite, alla luce delle torce, da pattugliamenti di vigili nel settore (troppo vasto per essere sorvegliato ovunque) delle due regioni, il cui servizio di polizia è affidato a ognuna delle sette coorti. Essi si avventurano fuori con una vaga ap­ prensione e certamente con riluttanza. Giovenale dice sospi­ rando che recarsi ad una cena, senza prima aver fatto testa­ mento, può essere giudicata una negligenza. E se il poeta esa­ gera pretendendo che la Roma dei suoi tempi fosse meno sicura della foresta Gallinaria e delle paludi Pontine56, basta sfogliare il Digesto e notarvi i passaggi che riservano alla giu­ risdizione del prefetto dei vigili gli assassini (sicarii), gli sva­ ligiatori (ejfractores), i grassatori di ogni natura (raptores) che pullulavano in Roma, per convenire che in quei vici tenebrosi (in cui all’epoca di Siila, Roscio Amerino, ritornando da una cena in campagna, aveva trovato la morte) erano da temere « i sùbiti infortuni ». Ma non tutte queste disavventure erano così tragiche, anche se è vero che il nottambulo si esponeva alla morte o, quanto meno, all’infezione ogni volta che s’apriva sul suo capo una finestra insonne. E il meno era quello d ie capitò ai tristi eroi del romanzo di Petronio, i quali, lasdando mezzo brilli, e molto tardi, la tavola di Trimalcione, si per­ dettero senza lanterne in quel labirinto di strade prive di ta­ belle indicative, senza numeri e senza fanali, e rischiarono di non trovare il loro alloggio prima del far del giorno57. La circolazione era dominata da questo contrasto tra il giorno e la notte. Durante la giornata c’era un’animazione, in­ tensa, ima confusione grandissima, un fracasso infernale: le tabernae coi loro banchi in mostra sulla strada sono affollate non appena aperte; qui i barbieri radono i loro clienti in mezzo alla strada, là i venditori ambulanti di Trastevere se ne vanno barattando i loro pacchetti di zolfanelli con oggetti di vetro. Altrove i bettolieri, arrochiti a forza di chiamare una clientela che fa finta di non sentire, esibiscono salsicce fumanti nelle casseruole calde. Maestri di scuola e i loro allievi si sgolano all’aria aperta. Da una parte un cambiavalute fa sonare su di una tavola sudicia la sua raccolta di monete con l ’effigie di Nerone; dall’altra un battiloro raddoppia i colpi della sua mazzetta brillante sulla pietra consunta; al crocicchio, un ca­ 60

pannello di curiosi sta rapito intorno a un incantatore di vi­ pere; dovunque risuonano i martelli dei calderai, tremolano le voci dei mendicanti, che in nome di Bellona o ricordando le loro disgrazie cercano di intenerire i passanti. Questi scorrono via in un fiume ininterrotto al quale gli ostacoli non impedi­ scono di divenire ben presto torrenziale; e per quelle stradette neppure degne di un villaggio, è tutto un mondo, all’ombra o al sole, che va, viene, grida, si accalca, si spinge e si u rta58. E quindici secoli prima che Les embarras de Paris sollecitas­ sero la vena di Boileau, gli intralci dell’antica Roma fecero le spese di quella di Giovenale. La notte si potrebbe credere che i rumori si spengano nel silenzio della paura, in una pace sepolcrale; ma sono semplicemente sostituiti da altri: alla sfilata degli uomini, ora chiusi nelle loro case, succede, per volontà di Cesare, la sfilata delle bestie da soma, dei loro carrettieri e dei loro convogli. Il dit­ tatore aveva in realtà capito che in stradette cosi accidentate, anguste e frequentate come i vici di Roma, la circolazione dei veicoli indispensabile per i bisogni di centinaia di migliaia di abitanti avrebbe immediatamente causato di giorno un imbot­ tigliamento e costituito un pericolo permanente; donde la mi­ sura radicale da lui adottata e che possiamo apprendere dalla sua legge postuma: dal levar del sole fino al primo crepu­ scolo non saranno tollerati carri in movimento dentro l ’Urbe. Quelli che si saranno introdotti durante la notte e che l’alba avrà sorpresi prima che si siano allontanati, avranno solo il diritto di stazionarvi vuoti; e saranno ammesse solo quattro eccezioni a tale regola ormai inderogabile; tre eccezioni tempo­ ranee, rispettivamente consentite: ai carri delle Vestali, del rex sacrorum, dei Flamini, nei giorni delle cerimonie solenni; ai carri indispensabili alla processione della vittoria, nei giorni del trionfo; e ai carri richiesti dalla celebrazione dei giuochi pubblici nei giorni ad essi destinati. Poi un’eccezione valida per tutti i giorni dell’anno, per i carri degli appaltatori che demoliscono una città asfissiante per ricostruirla più sana e più bella. Al di fuori di questi casi nettamente determinati, non circolano nella vecchia Roma durante la giornata che i pedoni, i cavalieri, i padroni di lettighe e di portantine; e quanto ai funerali si tratti di povere esequie sbrigate alla 61

svelta di sera, o di maestosi funerali svolgentisi in pieno giorno, siano preceduti o no da suonatori di flauto o di corno, seguiti o no da una lunga teoria di parenti, di amici o di praeficae — donne che piangono a pagamento — , i morti stessi siano chiusi nella loro bara (capulum) o deposti in una bara d’affitto (sandapila), se ne andranno al rogo destinato alla loro crema2Ìone o alle tombe della loro sepoltura su di una sem­ plice barella portata a braccia dai vespillones59. Viceversa, afl’avvicinarsi della notte, comincerà il legittimo traffico dei carri d’ogni sorta che riempiono la città del loro frastuono. Né è da credere, poi, che la legislazione di Cesare non gli sia sopravvissuta e che i privati siano riusciti presto o tardi a farne saltare le disposizioni draconiane con la pressione dei loro agi e dei loro interessi. La mano di ferro del dittatore ha vinto i secoli, e gli impe­ ratori suoi eredi non hanno mai affrancato i romani dalle sog­ gezioni cui egli li aveva duramente sottoposti nell’interesse vitale della comunità; al contrario, essi le hanno a loro volta consacrate e rafforzate. Claudio le estenderà dall’U r i ai mu­ nicipi italici; Marco Aurelio a tutte le città dell’impero, senza eccezione per i loro statuti municipali; mentre Adriano limi­ terà il tiro e la portata dei carri autorizzati a entrare nel­ l’U rbe60. E tanto alla fine del primo secolo quanto nel se­ condo d. C. gli scrittori ci mostreranno l’immagine di una Roma definitivamente disciplinata da Giulio Cesare. Per esempio, in Marziale è appunto di notte che i veicoli scuotono le insulae al loro passaggio mentre il Tevere echeggia il richiamo dei portatori e dei facchini61. In Giovenale il tran­ sito incessante e il rumoreggiare continuo che l’accompagna condannano senza scampo i romani all’insonnia. « Qual mai casa d’affitto Consente il sonno? ... il via vai dei carri Per le voltate delle anguste vie E lo schiamazzo delle mandre ferme Anche a un Druso toglierebbero il sonno, Anche alle foche. » E nella calca insopportabile del giorno, contro la quale il poe­ ta inveisce subito dopo, al di sopra della folla di pedoni scor­ giamo soltanto la lettiga del riccone, trasportata da robusti libumi. Il gregge nel quale il poeta viene trascinato, procede a piedi in un’incessante e violenta ressa. La folla che lo precede

fa ostacolo alla sua fretta, quella che lo segue lo preme di dietro; uno lo urta col gomito, un altro con una trave, un terzo lo colpisce alla testa con un metreto (barile di trentanove litri di capacità); un grosso scarpone gli schiaccia un piede, un chiodo da soldato gli si caccia nell’alluce, ed ecco andar­ sene in pezzi la sua tunica allora allora rammendata. Poi al­ l’improvviso il panico: è apparso un carrettone sul quale oscilla una lunga trave; poi un altro che trasporta un abete tutto in­ tero e un altro ancora carico di marmi di Liguria. « E se si abbatte Un carro pien di liguri macigni E su la calca fa pre­ cipitare Quel rovinio, che resta più dei corpi? Chi più le mem­ bra, chi più Tossa trova? » 62 Così, sotto i Flavi e sotto Traiano, come un secolo e mezzo prima dopo la pubblicazione dell’ordinanza di Giulio Cesare, i soli veicoli che circolassero in Roma di giorno, erano quelli degli imprenditori edili. La legge del morto imperatore è sem­ pre viva e tale persistenza è la prova di quella originalità che garantì alla Roma imperiale un posto senza pari tra tutte le città della geografia e della storia: VUrbs armonizza senza sforzo gli aspetti più contraddittori; si adatta con naturalezza alle forme più diverse del passato e del presente, e mentre sem­ bra suggerire paragoni contrastanti, resta in fondo incompara­ bile. Abbiamo visto poco fa che le sue case pretenziose e fragili portano a un livello che le nostre superano di ben poco, le raffi­ natezze moderne di un lusso stravagante e le grossolanità me­ dievali di risibili scomodità. E ora, per concludere, sono pro­ prio le sue strade a sconcertarci: hanno l’aria di avere preso a prestito le scene che si svolgono nei souks di qualche bazar, sono frequentate da folle agitate, brulicanti e variopinte, come ne potremmo incontrare sulla piazza Djemaa el-Fna di Marrakech, piene di una confusione che a noi sembra incompatibile con l’idea stessa della civiltà. Ed ecco d’improvviso apparire, per trasformarle in un batter d’occhio, un ordine imperioso e logico, decretato in un momento e mantenuto per intere gene­ razioni, come il segno di quella disciplina sociale che supplì presso i romani alle deficienze della loro tecnica, e che l’Occi­ dente, oggi, oppresso dal moltiplicarsi delle sue scoperte e dalla complessità dei suoi progressi, cerca anch’esso di seguire per la sua propria salvezza. 63

Sezione Seconda

L ’AM BIEN TE M ORALE

Come la città, così la società che la popola nel n secolo è piena di straordinari contrasti. La sua struttura è nel tempo stesso rigorosamente gerarchica e francamente egualitaria, giac­ ché, tra una vistosa aristocrazia di multimilionari e le masse anonime del proletariato inseriva, a guisa di chiaroscuro, una classe media. Le sue famiglie passarono da uno stretto confor­ mismo a un’estrema libertà. La sua coscienza, imbevuta della dignità della cultura, ma senza l’appoggio di ima vera scienza, sballottata tra gli imperativi di dottrine ascetichè e i rilassa­ menti d ’una vergognosa amoralità, oscilla tra le negazioni di uno scetticismo egoista e le effusioni e gli slanci di mistiche entusiastiche; e le sue élites sono insieme esaltate dalla pra­ tica delle più nobili virtù e contaminate dalla degradazione dei vizi più bassi. Così come il dio Giano ci mostra l ’opposizione delle sue due facce, la Roma di Traiano ci offre, dal punto di vista morale, ora l ’aspetto di una sentina di perversioni, in cui l’antichità comincia a corrompersi, ora l’aspetto del rifugio sublime in cui Roma ha finito per salvare e realizzare il puro ideale che doveva rigenerare la civiltà.

Capitolo Primo LA SOCIETÀ: LE SUE CASTE CENSITARIE E LA POTENZA DEL DENARO

l. GERARCHIA EGUALITARIA E COSMOPOLITISMO A prima vista la società romana è irta di barriere e di separazioni. Anzitutto, gli uomini nati liberi, ingenui, siano cittadini di Roma o d’altro luogo, sono radicalmente separati, per la superiorità della loro origine, dalla folla degli schiavi, bestie dal volto d’uomini, senza diritti, senza garanzie, senza personalità, abbandonati come un gregge alla discrezione del padrone e come un gregge assimilati piuttosto a una colle­ zione di cose che a un gruppo di esseri viventi: res mancipi. Poi, tra gli uomini liberi, bisogna stabilire una profonda diffe­ renza tra i cittadini romani, che la legge protegge, e gli altri ch’essa assoggetta. Finalmente, gli stessi cittadini romani sono disposti lungo una scala di valori sociali determinati grado per grado dall’importanza del loro censo. Lo strato più basso è costituito dagli humiliores, la plebe della gentuccia senza capitali denunciabili o comunque valu­ tabili, che Plinio il Giovane, amministrando la Bitinia in qua­ lità di legato di Traiano, trova logico escludere dagli onori municipali, e che, in Roma, alla minima contravvenzione sono passibili di verghe, e per il minimo delitto corrono il rischio di essere mandati alle miniere, ad metallo, o in pasto alle belve del circo, o alla crocifissione. Al di sopra di costoro sta la gente perbene, gli honestiores, i « borghesi » del tempo, cui il possesso di almeno 5 000 sesterzi attribuisce onorabilità e assicura, in caso di colpa grave, pene meno gravi e meno infa­ manti: bando, confino, confisca. Questo ceto, del resto, si suddivide in parecchie categorie: la più bassa, che è poi la 66

più numerosa, non può aspirare a servire lo stato, cioè a occu pare ed esercitare la più piccola parte del potere pubblico e, di conseguenza, non merita il bel nome di classe, ordo. La nozione di ordo interviene a un grado più elevato: comincia inizialmente con l’ordine equestre, i cui membri posseggono al minimo 400 000 sesterzi e ricevono dall’imperatore, quando riescono a ottenerne la fiducia, i comandi delle truppe ausiliarie e un certo numero di funzioni civili a loro riservate: la procura del demanio e del fisco, governi di province secon­ darie (come quelli delle Alpi e della Mauritania); le direzioni, da Adriano in poi, di diversi uffici del gabinetto imperiale e, dopo Augusto, di tutte le prefetture, eccetto quella dell’Urbe. Poi, in cima a tutti, sta l’ordine senatoriale, i cui membri, in possesso di almeno un milione di sesterzi, diventano, se l’im­ peratore lo vuole, capi delle sue legioni; i legati e proconsoli delle province più importanti; amministratori dei principali servizi della città di Roma e titolari delle più alte cariche reli­ giose. Tra queste differenti specie di privilegiati, una saggia gerarchia stabilisce gradualmente diversi piani: e perché le divisioni siano più chiaramente distinte, Adriano stabilirà per ognuna di esse un titolo esclusivo di nobiltà: il titolo di uomo distinto (vir egre gius) per i semplici procuratori; quello di uomo perfetto (vir perfectissimus) per i prefetti, eccezion fatta per i prefetti del pretorio, il cui titolo di « eminenza » (vir eminentissimus) sarà restaurato, più tardi, a beneficio dei car­ dinali nella Chiesa romana; quello di uomo molto illustre (vir clarissimus) per i senatori e i loro figli. Questo sistema rigido e preciso, le cui sapienti combina­ zioni preannunziano le complesse gerarchie ideate da Pietro il Grande e le corrispondenze di gradi, nell’esercito e nella Legion d’onore, decretate da Napoleone, innalza in Roma, donde partono e dove ritornano ufficiali e funzionari, una specie di piramide a gradini, dal vertice della quale si stacca, tra cielo e terra, l’incomparabile dignità del principe. In un certo senso, e come indica il suo nome, il principe non è che il primo (princeps) del Senato e del popolo. Ma in un altro senso, tale primato implica tra lui e il resto dell’umanità una differenza non di grado ma di natura; perché l’imperatore, incarnazione della legge e depositario degli auspici, si avvicina 67

agli dèi — da cui si vanta d’essere derivato e verso i quali, proclamato divus a sua volta, se ne ritornerà dopo la morte, in un’apoteosi — che non alla condizione dei semplici mor­ tali, cui lo sottrae, dal giorno del suo avvento al trono, il suo carattere sacro di Augusto. Anche se Traiano respinse sdegno­ samente le pretese accampate da Domiziano d’essere salutato col doppio titolo di padrone e dio (dominus et deus), non potè tuttavia ripudiare il culto di cui il Genius imperiale era l ’og­ getto nella sua stessa persona e che serviva di legame alla eterogenea federazione di città che, in Oriente come in Occi­ dente, costituiva l’impero universale (orbis romanus); e dovette tollerare che le sue decisioni fossero apertamente qualificate come « celesti » da coloro di cui esaudivano i voti. Così, a tutta prima, Roma appare come un mondo irrigi­ dito, sotto un’autocrazia teocratica, negli innumerevoli com­ partimenti d ’una organizzazione inflessibile. Ma a guardare più da vicino, si scorge che i compartimenti che lo dividono non sono affatto impenetrabili e che potenti correnti egualitarie non cessano di attraversarlo per mescolare e rinnovare senza tregua gli elementi di una società che quelle divisioni ordinano senza isolarli. E perfino la casa imperiale dovette aprirsi ai diversi elementi. Da quando con Nerone si estinse la famiglia Giulia, il principato non fu più l ’appannag­ gio di una razza predestinata: al balenare delle spade che si incrociarono nelle guerre civili del 69 gli « arcani » dell’im­ pero, come dice Tacito, furono svelati. L ’impero non è più conferito dal sangue di Cesare o di Augusto, ma dal favore delle legioni. Vespasiano legato in Oriente, Traiano legato in Germania furono portati al supremo potere, il primo dalle acclamazioni delle sue truppe, il secondo dalla paura che ispi­ rava il suo esercito e dalla fiducia che egli medesimo ispirava a quest’ultimo. L ’uno e l’altro si innalzarono alla divinità per­ ché in precedenza s’erano impadroniti del comando che ren­ deva padroni assoluti dell’impero, invece di aspirare all’im­ pero, come Caligola, Claudio o Nerone, in nome della divinità della loro dinastia. I legionari che proclamarono Vespasiano, i senatori che costrinsero Nerva ad adottare in Traiano, il gene­ rale delle frontiere renane, avevano operato una rivoluzione;

68

e dopo di quella —■ allo stesso modo che si dirà che ogni capo­ rale della Grande Armée portava nella sua giberna il bastone di maresciallo — a Roma si presentì che ogni capo d’eserciti avrebbe potuto cingere un giorno la corona come per un’ul­ tima promozione accordata al migliore dei soldati romani. Così non dobbiamo meravigliarci se nello stesso periodo in cui si applica per la prima volta alla sovranità imperiale, tale nozione di merito e di promozione penetra e circola nel corpo intero dell’impero per rianimarlo e ringiovanirlo. In grazia di questo concetto si stabiliscono da tutte le parti comunicazioni tra le nazioni e le classi per rinnovarle, riavvi­ cinarle e fonderle. A misura che lo ius gentium, cioè il diritto delle nazioni straniere, si modella sullo ius civile, cioè sul diritto dei cittadini romani e a misura che, d ’altra parte, lo ius civiley sotto l’azione della filosofia, tende a conformarsi con il diritto naturale, jus naturale, si accorcia la distanza tra il romano e lo straniero, tra il cittadino e il forestiero, e a ogni momento — o per favori individuali, o per affrancamento o per naturalizzazioni in massa che si allargano d’un colpo ora a una classe di ausiliari smobilitati, ora a una collettività mu­ nicipale convertita in colonia onoraria — un nuovo flusso di forestieri entra nella città romana. Mai fino ad ora VUrbs aveva tanto manifestato il suo ca­ rattere cosmopolitico in tutti gli strati sociali; i romani pro­ priamente detti sono sommersi, non solo dal flusso dell’immi­ grazione italica, ma dalla moltitudine dei provinciali accorsi, con i loro idiomi, i loro costumi e le loro consuetudini, da tutte le regioni dell’universo. Giovenale insorge contro questo fango torrenziale versato dall’Oronte nel Tevere; ma i siri ch’egli disprezza, hanno già assunto non appena hanno potuto, la maschera di uno stato civile romano; e quelli stessi che manifestano la loro xeno­ fobia sono più o meno stranieri nell’Urbe eh’essi vorrebbero difendere contro le nuove intrusioni. Giovenale non è altro che un campano o un ernico domiciliato. Nella sua casa di via del Pero, sul Quirinale, Marziale sospira per Bilbilis, la sua piccola patria aragonese. Plinio il Giovane, a Roma come nella sua villa laurentina o nella sua proprietà di Toscana, resta

69

fedele alla sua nativa Cisalpina, a quella Como lontana, sem­ pre presente al suo cuore e che egli abbellisce con le sue prodigalità. La Curia ora è composta di senatori venuti dalla Gallia, dalla Spagna, dall’Africa e dall’Asia; e gli imperatori romani provengono da città e da borgate situate al di là dei monti e dei mari e naturalizzate da tempo più o meno recente. Traiano e Adriano sono originari d’italica nella Betica. Il loro succes­ sore Antonino Pio proviene dalla borghesia di Nîmes nella Narbonense; e alla fine del n secolo si vedrà l’impero diviso tra il Cesare Clodio Albino di Adrumeto (Susa) e l’Augusto Settimio Severo di Leptis Magna in Tripolitania, il quale, se­ condo quanto racconta il suo biografo, anche dopo la sua ascesa al trono non riuscì mai a sbarazzarsi dell’accento semi­ tico che gli veniva dalla sua origine punica. Così la Roma degli Antonini è il luogo d ’incrocio in cui si incontrano con quello romano i popoli inferiori ai quali le sue antiche leggi sembravano opporre solide barriere etniche: o piuttosto è il crogiuolo in cui malgrado le sue leggi, nuove pratiche di assi­ milazione amalgamavano incessantemente quei popoli tra loro. È, se vogliamo, una babele in cui tutti imparano in ogni modo a parlare e a pensare in latino 1

2. LA SCHIAVITÙ E LE EMANCIPAZIONI

Imparano tutti: anche gli schiavi, che, nel li secolo ele­ vano il loro tenore di vita al livello di quello degli ingenui e di cui una legislazione a grado a grado più clemente ha pro­ gressivamente alleggerito le catene e favorito la liberazione. Il senso pratico dei romani, unito a un fondo di umanità na­ turale nel loro animo di contadini, li aveva preservati dalla crudeltà verso i loro schiavi, servi. Essi li avevano sempre trattati con riguardo, come Catone i suoi buoi da lavoro; e per lontano che si guardi nel passato, li vediamo ricompensati, per stimolarne gli sforzi, con premi e salari i cui versamenti accumulati insieme a formare un peculio, costituivano di so­ lito il riscatto dalla servitù. Salvo eccezione dunque, la schia­ vitù in Roma non è stata né intollerabile né eterna, ma bisogna 70

ammettere che mai forse è stata così tollerabile e così facile da rompere come sotto gli Antonini. NelTultimo secolo della repubblica, lo schiavo si era visto riconoscere un’anima, e i liberi cittadini lo avevano ammesso in comune con loro alla pratica dei culti preferiti. Per esempio a Minturno fin dal 70 a. C., il santuario della Spes, la dea della speranza, era officiato da altrettanti magistri servili, quanti magistri liberti e ingenui riuniti insieme. Più tardi con l’arricchi­ mento spirituale della cultura e la crescente influenza delle filosofie filantropiche, il posto degli schiavi si fece sempre più largo presso il focolare degli dèi. Nel primo secolo dell’èra cristiana, gli epitaffi servili cominciano ad onorare apertamente i mani dei defunti; e nel n secolo i collegi funerari e mistici — come quello che si costituì nel 133 d. C. a Lanuvio sotto la doppia invocazione a Diana e ad Antinoo — raggruppano fraternamente associati ingenui, liberti e schiavi, i quali ultimi si impegnano a far dono di un’anfora di vino ai membri della loro confraternita il giorno che verranno liberati. La legge, be­ ninteso, aveva seguito il progresso delle idee: al principio del­ l’impero una lex Peironia aveva proibito al padrone di desti­ nare il proprio schiavo alle belve senza l’autorità di un giudi­ zio. Verso la metà del primo secolo, un editto dell’imperatore Claudio decise l’emancipazione d’ufficio degli schiavi malati o infermi abbandonati dal loro padrone; e poco dopo un editto di Nerone, redatto forse per consiglio di Seneca, che aveva nobilmente rivendicato la qualità d ’uomo per gli schiavi, in­ caricò il prefetto dell’Urbe di accettare e istruire le lagnanze presentate dagli schiavi contro l’ingiustizia del loro padrone. Nell’anno 83 un senato-consulto pronunciato durante il go­ verno di Domiziano proibì la castrazione degli schiavi, e colpì il padrone colpevole di infrazione di tale decreto con la con­ fisca di metà dei suoi beni. Adriano, nel n secolo, doveva rad­ doppiare la penalità di tale delitto, da lui dichiarato « capi­ tale » e dettare al senato due decreti ispirati allo stesso senso di generosità: uno impediva ai padroni di vendere i loro schiavi al leno come al lanista, al prosseneta come all’impre­ sario dei combattimenti di gladiatori; l’altro subordinava l’ese­ cuzione delle condanne pronunciate dai padroni contro i loro schiavi al benestare del prefetto dei vigili. Alla metà del secolo 71

questa evoluzione toccò il suo limite quando Antonino Pio condannò come omicidio ogni esecuzione capitale di schiavi in base al solo ordine del padrone. In quest’epoca del resto, la legislazione riflette, più che non imponga, la mansuetudine che si è introdotta nel costume. Giovenale fustiga colla sferza delle sue satire l’avaro che dà scarsi alimenti ai suoi schiavi, il giocatore che inghiotte una fortuna in un lancio di dadi e lascia tremare di freddo i suoi sotto le loro tuniche sdrucite; la civettina che al minimo ri­ tardo dei suoi portatori, alla più piccola balordaggine delle sue cameriere, si arrabbia e tempesta e maneggia a tutta forza i flagelli e il nerbo. Qui l’indignazione del poeta risponde all’opinione pubblica e questa considera con lo stesso orrore quel Rutilo sulla cui abominevole ferocia egli ha posto il marchio d ’infam ia2. Al tempo suo la maggior parte dei padroni, sebbene ancora non rinuncino a punire gli errori dei loro schiavi con castighi cor­ porali, si contentano di applicare ai rei quelle vergate che Mar­ ziale infligge senza rimorso al suo cuoco per un pasto sbagliato. Ma questo non impedisce di aver cura di loro, di amarli, fino a piangerne le sventure o la m orte3. E nelle grandi case in cui parecchi schiavi sono abili specialisti, in cui alcuni, il peda­ gogo, il medico, il lettore, posseggono un’educazione liberale, essi non sono considerati da meno degli uomini liberi. E con quanto discernimento Plinio il Giovane vuole che suo cugino Paterno scelga per lui gli schiavi al mercato! Con quanta sol­ lecitudine veglia sulla loro salute, fino al punto di addossarsi le spese di lunghi e costosi viaggi che offre loro in Egitto o nella pianura provenzale del Fréjus! Con quale buona grazia si presta ai loro legittimi desideri, obbedendo allora — egli dice — alle loro raccomandazioni come a degli ordini! Con quale fiducia conta più sulla loro devozione che sulla propria severità per accendere il loro zelo, se per caso una parente sopraggiunge in casa sua, persuaso — com’egli scrive — che si sforzeranno d ’essere più graditi al loro padrone, nelle per­ sone dei suoi invitati! Tra i suoi amici del resto osserviamo il medesimo fare cordiale, starei per dire familiare. Quando è costretto a letto per la sua malattia, il vecchio senatore Corellio Rufo ha piacere che i servitori preferiti gli tengano compa­ 72

gnia in camera, e se si rassegna a farli uscire dalla camera per­ ché qualcuno deve fargli una confidenza, sua moglie esce con loro. Plinio il Giovane, anche più benevolo, non disdegna affatto di conversare con i suoi, e quando sta in campagna in­ vita i più colti tra loro alle dotte discussioni, che sono l’ornamento della sua passeggiata, la sera, dopo pranzo. Da parte loro gli schiavi si mostrano pieni di premure per dei padroni così buoni. Lo stupore da cui è colpito Plinio il Giovane alla notizia dell’attentato commesso da alcuni schiavi contro il senatore Larcio M acedone4 è un indice della rarità di questi delitti inauditi, allo stesso modo che le cure, ahimè!, inutili che prodigano alla vittima i servi rimasti fedeli, dimo­ strano che nelle case in cui gli schiavi erano più rudemente trattati, essi si comportavano con il loro padrone come appunto egli si era comportato con loro: umanamente; tanto che un greco che visse a Roma nella metà del n secolo rimase colpito dal ravvicinamento che si era operato tra gli schiavi e gli uomini liberi; che ai suoi occhi sorpresi si traduceva perfino nel vestire simile; perché a Roma — scriveva Appiano, che visse sotto Antonino Pio — lo schiavo non si distingue affatto neppure esteriormente daH’uomo libero, e, tranne il caso in cui il padrone deve rivestire la toga pretesta, insegna della magistratura, egli veste proprio come lui; e Appiano, a com­ pletare subito tale rilievo con un’osservazione che lo sorprende ancor più, dice: il fatto è che una volta liberato, l’antico schiavo ha un tenore di vita uguale a quello dei cittadini5. La verità è che solo Roma nel mondo antico ha l’onore di avere redento questi paria aprendo loro le sue porte. Certo, lo schiavo liberato {libertus) non acquistava d ’un colpo l’accesso agli uffici e alle magistrature. Senza dubbio, restava legato al suo antico padrone, che chiamava patrono — patronus — , da prestazioni di servizi, o da prestazioni pecu­ niarie e sempre dai doveri di un rispetto quasi filiale, Yobsequium. Ma dal momento in cui la sua emancipazione o tnanumissio era stata regolarmente pronunciata, sia davanti al pre­ tore in un processo fittizio di rivendicazione, per vindictam, sia mediante l’iscrizione, dopo cinque anni, sui registri dei censori (censu), sia più comunemente, in virtù d’una clausola 73

testamentaria {testamento), egli otteneva in grazia del suo padrone morto o vivente il nome e la qualità di cittadino ro­ mano. La sua discendenza poteva alla terza generazione eser­ citare i diritti politici nella loro pienezza e non si distingueva più in nulla dalla discendenza degli ingenui. D ’altra parte, col tempo, il formalismo delle liberazioni si era rilassato, e alle antiche procedure per l’emancipazione, l’uso — in mancanza della legge — ne sostituisce altre più spicciative e più semplici: una semplice lettera prodotta dal patrono, o anche una dichia­ razione puramente verbale emessa, per esempio, durante un festino in cui venivano assunti come testimoni i convitati. La cosa aveva finito per diventare di moda, e si sarebbe detto che i padroni si facevano un punto d ’onore di moltiplicare intorno a sé i liberti, al punto che Augusto, allarmato da tali libera­ lità, aveva cercato di frenarne gli abusi; aveva fissato un mi­ nimo di età — diciotto anni — al disotto del quale non si aveva il diritto di emancipare; e un minimo — trentanni — al disotto del quale non si poteva essere emancipati. Aveva sot­ toposto le emancipazioni testamentarie — che erano, e di molto, le più numerose emancipazioni legali — a un prontuario che a seconda dei casi proporzionava il numero delle emancipa­ zioni a quello degli schiavi posseduti dal medesimo padrone, e oltre certe cifre, lo limitava a un massimo di cento. Infine, aveva immaginato una categoria inferiore di semi­ cittadini, che si chiamarono Latini Iuniani, ai quali non era concessa che la parziale naturalizzazione del diritto latino, Yius Latii, e sui quali pesava per di più una incapacità testa­ mentaria attiva e passiva; e in tale categoria cacciava alla rin­ fusa gli schiavi che erano stati liberati dai loro padroni vio­ lando le regole da lui stabilite, e quelli liberati al di fuori delle modalità legali. Ma i costumi, più forti della volontà d ’Augusto, avevano sovvertito la sua legislazione: egli stesso, per frenare i progressi della denatalità, sottrasse i Latini Iuniani padri di famiglia a quello stato d’inferiorità cui li aveva condannati. Poi Tiberio, per incoraggiare l’arruolamento nelle sue corti, consentì un’uguale deroga agli ex vigiles. In seguito, per risollevare o stimolare l’economia, Claudio la estese ai liberti dei due sessi, che avessero impiegato i loro capitali nell’armamento di navi commerciali. Nerone la con­ 74

cesse a coloro che li investissero in costruzioni di edifici; Traiano a quelli che col loro denaro aprissero dei forni. Infine, tutti gli imperatori, per indulgenza verso i loro propri liberti e verso i liberti dei loro amici, si adoperarono — accordando l’ingenuità fittizia della natalium restitutio, o ponendo loro in dito gli anelli d’oro dei cavalieri — a cancellare le ultime tracce della loro condizione servile e promuoverli d’un colpo nel secondo « ordine » dello stato. Così, nell’epoca di cui ci occupiamo, le emancipazioni, più numerose che mai, portano gli ex-schiavi che ne hanno beneficiato su un piede di completa eguaglianza con gli altri cittadini, procurano a gara posti e fortune e permettono loro, come vediamo fare a Trimalcione, di comprare a loro volta schiere di schiavi. Sicché l’impressione che riporta un epigrafista dopo una rapida escursione attraverso le rovine romane, è quella della preponderanza degli schiavi e degli emancipati nella vita del­ l’epoca imperiale, perché, là dove sono ancora leggibili, le iscrizioni di quel tempo tre volte su quattro ricordano sol­ tanto schiavi o liberti. In un articolo notevole per l’abbon­ danza e la precisione delle sue statistiche, Tenney Frank non, ha dovuto faticare a convincerci che, se nella maggioranza dei casi gli schiavi dell’Urbs tradivano allora dalla struttura dei nomi le loro origini greco-orientali, l’ottanta per cento almeno della popolazione di Roma proveniva, per via di emancipa­ zioni più o meno recenti, da uno stato di servitù più o meno antico 6. A prima vista si resta sedotti dalle promesse di forza con­ tenute in questa ascesa costante; promesse per la società ro­ mana che viene alimentata senza tregua da elementi nuovi: promesse per la patria romana di cui allarga illimitatamente il campo delle assimilazioni; e viene la tentazione di attribuire alla Roma degli Antonini i giusti vantaggi e il libero giuoco di una perfetta democrazia.

3. CONFUSIONE DEI VALORI SOCIALI

Purtroppo è impossibile non scorgere anche le ombre che, nella realtà, già oscuravano il quadro. Certo, nell’Urbe — dove

dal tempo del principato di Nerva, non restava che la metà delle famiglie senatoriali censite trentacinque anni prima, nel 65; e dove trent’anni dopo restava una sola delle quarantacinque famiglie patrizie restaurate 165 anni prima da Giulio Cesare — , era importante che un afflusso continuo di sangue fresco potesse salire, come linfa possente, dai più umili strati della popolazione a nutrire e ricostituire le élites. Ma, attin­ gendo quasi esclusivamente al fondo della massa servile, la società romana, la patria romana si esponevano per l’avvenire a grandi pericoli e per il presente a un’inevitabile adultera­ zione. Bisognava infatti che gli schiavi, per essere capaci di riempire incessantemente i vuoti delle classi superiori, fossero essi stessi ad ogni istante rinnovati da nuovi apporti. Ora, le guerre di Traiano, specialmente la sua seconda campagna dacica — da cui, per testimonianza del suo medico Critone, l’imperatore aveva riportato cinquantamila prigio nieri, presto venduti all’incanto7 — , sono le ultime in cui l’impero abbia trionfato senza difficoltà né delusioni. Dopo 1 due principati gloriosamente pacifici dei suoi successoti, Adria­ no e Antonino Pio, sopraggiungeranno con Marco Aurelio, le mezze vittorie pagate a caro prezzo, le resistenze spossanti e finalmente le invasioni e i rovesci, che disseccano la grande sorgente del rifornimento degli schiavi, e si può già prevedere il momento in cui la schiavitù, condannata dalla rarefazione delle prede di guerra a ripiegare su se stessa, si troverà nel­ l’impossibilità di sostenere la colonna montante, sulla quale si reggeva nelle generazioni precedenti l’economia romana. Di conseguenza, Roma sarà costretta, per continuare a governare, a imporre al mondo quella esasperante camicia di forza eh’è stata, nel Basso impero, la fissità ereditaria delle condizioni umane. Certamente, sotto i Flavi e i primi Antonini, questo pe­ ricolo non si delinea ancora, però ce ne sono altri più imme­ diati, la cui minaccia pesa già sull’apparente prosperità dei loro regni. Prima d’essere troppo lenta, la spinta era stata troppo rapida e disordinata; le tappe che i primi Cesari ave­ vano pensato di imporle, furono abbreviate o bruciate; e i di­ fetti congiunti di un regime che era insieme autocratico e cen76

sitano, hanno turbato il corso e viziato la sostanza delle tra sformazioni sociali. Poiché i Cesari detengono ed esercitano, al riparo di fin zioni che non ingannano più nessuno, un’autorità assoluta, i loro schiavi e i loro liberti prendono il sopravvento sul re sto dell’Urbe. In teoria non sono altro che « cose », tutt’al più cittadini incompleti. Nella pratica poi, e per il fatto che stanno vicini tutto il giorno alla persona sacra del padrone, che godono della sua confidenza, ch’egli delega a loro una parte delle sue enormi attribuzioni, finiscono per comandare senza riguardi a nobili e plebei romani. Sotto Claudio, il « ga binetto » dell’imperatore, verso il quale affluivano le suppliche dal mondo intero, da cui emanavano istruzioni ai governatori delle province come ai magistrati dell’Urbe e nel quale veniva elaborata la giurisdizione di tutti i tribunali, compresa l’alta corte senatoriale, tale gabinetto dico, era composto esclusivamente di schiavi. Poi, da Claudio fino a Traiano, fu reclutato tra i liberti; e allo stesso modo che i nobili del secolo xvu roderanno il freno sotto la dominazione della « vile borghesia » dei ministri e dei loro funzionari, i senatori dell’Alto impero hanno dovuto inchinarsi, muti e con la rabbia nel cuore, da­ vanti alla potenza degli ex schiavi. Balzati d ’un colpo sui gra­ dini del trono, colmati di beni e di onori, come Narciso o Pal­ lante, per il loro lavoro occulto e sovrano, essi disponevano in nome del principe delle promozioni, dei beni e della vita dei sudditi. E non è tutto: se l’imperatore sceglieva al di fuori di loro, nei due grandi ordini dello stato, dei confidenti o degli amici, poiché questi possedevano a loro volta schiavi e liberti cui per abitudine abbandonavano la direzione e il peso dei loro affari, l’aristocrazia che pareva regnare alle dipendenze del principe non governava in realtà che con la mediazione dei propri schiavi, come faceva lo stesso imperatore. Così, agli schiavi e ai liberti del principe si aggiungevano, per dominare l’Urbe e il mondo, gli schiavi e i liberti della sua corte. Si vide bene fino a che punto arrivavano i loro intrighi e il loro potere, quando coloro cui il dispotismo ombroso e la cupi­ digia insaziabile di Domiziano aveva concesso di vivere nella Curia, decisero, per salvare la loro pelle, di sbarazzarsi di lui. L ’assassinio del tiranno, auspicato, ispirato dai senatori, fu 77

preparato ‘nelLanticamera della sua casa, consumato dai suoi domestici e dai domestici dei suoi intimi: lo schiavetto, cori­ sta del suo lararium (puer a sacrario), il suo maestro di camera {praepositus a cubiculo), il greco Partenio e un intendente della sorella Domitilla, il greco Stefano. È vero che dopo l’attentato il nome della libertà (Libertas restituía) fu inciso sulle monete e i « padri coscritti » si illusero di resuscitare la repubblica affidando l’impero a uno dei più insignificanti dei loro colleghi, il sessagenario e timido Nerva: ma era chiaro che si trattava di vaniloqui e vane apparenze. La repubblica, che è il bene comune dei cittadini, la libertà, che esige da loro una fiera scuola, non potevano rinascere da una congiura ordita da « peregrini » e da schiavi; e gli imperatori finirono per temere, per la solidità del loro regime, l’emergere degli schiavi nelle alte cariche dello Stato. Adriano prese l’iniziativa — che i suoi successori avrebbero rispettato — di riservare all’ordine equestre la direzione del suo gabinetto; solo che, se avesse voluto una riforma profonda, sarebbe stato necessario appli­ carla fin nelle cariche secondarie. Ora, per essere sicuri di essere obbediti, per non dover temere malversazioni che poi non fossero in grado di reprimere subito, gli imperatori e i grandi preferirono come per il passato provvedere le loro am­ ministrazioni di un personale straniero e servile, procuratores e institores, che credevano di tenere a loro discrezione e che invece — data l’estensione delle frontiere e il progresso della fiscalità — li dominavano sempre più. Senza dubbio, c’era tra quei servi desiderosi di ottenere a forza di zelo la loro manutnissio, tra quei liberti, cui l’emancipazione ispirava tanto maggior gratitudine quanto meno imponeva obblighi, un certo numero di impiegati puntuali, d’intendenti onesti, di agenti docili e devoti; e se nel n secolo la macchina imperiale non ha fatto sentire cigolìi, ciò si dovette non tanto alla vigilanza dei suoi ispettori, quanto alla coscienza e all’abilità professio­ nale dei suoi funzionari. Ma il gregge restava troppo numeroso per non contenere delle pecore scabbiose: villici troppo avidi nelle loro esigenze e nelle loro riscossioni, apparii ores troppo sensibili ai guadagni in senserie e mance, procuratori insolenti, crudeli e prevaricatori; ed era certamente ben funesto il paradosso di quel governo che 78

nella lodevole intenzione di migliorare il rendimento delle sue funzioni, le affidava ad uomini che, nati nelle catene, erano destinati solo a servire. E i romani, invece di assistere a una graduale evoluzione — che sarebbe stato logico attendersi e che avrebbe dimostrato il felice successo delle istituzioni im­ periali — dovevano ogni momento subire la degradazione ci­ vica di questi arbitrari mutamenti di posizione e brusche in­ versioni di classi e di funzioni. A Roma come nelle campagne essi ne restavano avviliti; e il lamento, che leveranno sotto Commodo i liberi cittadini che coltivavano come coloni volon­ tari il dominio africano di Suq al Khmis e che in nome del principe venivano fustigati, senza diritto né misericordia, dall’amministratore servile del suo Saltus Burunitanus8, era stato preceduto, al principio del secolo, dalla collera di Giovenale, furente perché vedeva nella Roma di Traiano figli d’uomini liberi trascinati per interesse e cortigianeria a fare vilmente corteggio agli schiavi dei ricchi: Divitis hic servi Filius 9...

Claudi t latus ingenuorum

Pare in effetti che fin dal tempo di Giovenale fosse più utile, per la felicità personale, esser lo schiavo di un ricco che un li­ bero cittadino povero. Non c’era bisogno d ’altro per rovesciare il bell’ordine imperiale; e d ’altra parte, questo pernicioso squi­ librio sarà d ’ora in poi aggravato perché in una società in cui la gerarchia si basava sulla ricchezza, questa, invece di circolare tra le famiglie laboriose e di fruttificare col lavoro e l’economia, si concentrava, col favore del principe e con la speculazione, in un numero sempre più ristretto di grossi privilegiati. Mentre nelle province e anche in Italia sussiste ancora ro­ busta e numerosa la borghesia che provvede alle cariche mu­ nicipali, le file di questa si vanno diradando nell’Urbe tra i plutocrati che gravitano intorno alla corte e la massa d ’una plebe ormai troppo impoverita per sussistere senza le gratifi­ cazioni dell’imperatore e i regali dei grandi, e troppo disoccu­ pata per non aver bisogno degli spettacoli; divertimento che un giorno su due, sotto Traiano, viene loro offerto.

79

4.

GLI « STANDARDS » DI VITA E LA PLUTOCRAZIA

Certo non possediamo dati precisi, ma alcuni confronti ci permetteranno bene o male di rimediare: abbiamo veduto nel primo capitolo che il numero delle persone soccorse dal go­ verno è cresciuto, nel corso del u secolo, da 150 mila a 175 mila assistiti: possiamo quindi senza esitazione dedurre da queste cifre che circa 130 mila famiglie, rappresentate alle distribuzioni dai loro capi, erano nutrite dallo Stato. Se, con Marziale, calcoliamo cinque bocche in media per fam iglia10, il totale ottenuto oscillerebbe tra 600 e 700 mila persone assistite; se poi calcoliamo tre bocche per famiglia, il totale ci porterebbe a 400 mila assistiti. Direttamente o indirettamente, per lo meno un terzo e fors’anche la metà della popolazione dell’Urbe viveva di pubblica carità. Ma avremmo torto se da ciò concludessimo che due terzi o la metà dei cittadini prov­ vedessero a sé, perché nella cifra della popolazione totale, e al di fuori delle distribuzioni, sono compresi i soldati della guarnigione — diecimila uomini a dir poco — , i forestieri di passaggio a Roma, di cui ci sfugge l ’effettivo, ma che non doveva essere importante data la frequenza delle naturalizza­ zioni che risultavano dalle manumissiones, e finalmente gli schiavi, la cui proporzione in rapporto a quella degli uomini liberi doveva per lo meno raggiungere un terzo, come a Per­ gamo verso la stessa epoca 11. Se dunque attribuiamo alla Roma di Traiano 1 200 000 anime, dobbiamo toglierne quattrocentomila schiavi, e allora il numero dei capi di famiglia romani che per le loro rendite potessero fare a meno di battere agli sportelli dell’annona si riduce a circa centomila. Spiacevole in sé, tale inferiorità numerica dei possidenti in confronto con la moltitudine dei nullatenenti diviene addirit­ tura spaventosa se ci si rende conto della sproporzione di beni in seno alla minoranza: la maggior parte di coloro che apparte­ nevano a quelle che noi chiameremmo classi medie vivacchia­ vano appena di fronte all’inverosimile opulenza che ostenta­ vano alcune migliaia di multimilionari. Perché in Roma, al tempo di Traiano, i 5 000 sesterzi che nei municipi distingue 80

vano gli bonestiores dalla plebe, non dovevano certo rispar miare gli stenti ai loro proprietari. 20 000 sesterzi, non di capitale, ma di rendita: ecco quale era il « minimo vitale » del piccolo borghese romano. È questa la rendita che sogna per i giorni della sua vecchiaia un gaudente rovinato rappresentato da Giovenale in una delle sue satire 12; e in un’altra satira il poeta, parlando per sé, limita a un capitale di 400 mila se­ sterzi i desideri del savio: « E se pur questa corrugar la fronte E stirar ti fa il labbro, e tu raddoppia La somma che possiede un cavaliere, Triplica pure quattrocento mila! Se ancor, così, non t’ho riempiuto il grembo, Se più ancora esso chiede, alla tua brama Neppur basterà mai l ’oro di Creso, Non basteranno della Persia i regni... » 13. È chiaro che, secondo Giovenale, il savio si deve accontentare dell’agiatezza, ma è chiaro anche che l’agiatezza più modesta suppone il capitale, richiesto per l’ordine equestre, di 400 mila sesterzi. E le due testimonianze si confermano e si completano reciprocamente, perché noi sappiamo come dato sicuro dagli studi del Billeter, che al tempo in cui scriveva il poeta l’interesse normale del denaro era del 5% . Sicché a Roma, nel secolo di Traiano, si poteva cominciare a parlare di classi medie solo a partire dal censo equestre, e bisognava essere in grado di spendere per lo meno i 20 mila sesterzi che se ne ritraevano annualmente, per mantenere il più modesto tenore di vita borghese. 41 di sotto di questa cifra era l’indigenza delle masse proletarie, cui i « piccoli borghesi » erano certo molto più vicini che non fos­ sero ai ricchissimi capitalisti, presso ai quali venivano collocati solo da finzioni legali. Giacché poca cosa potevano valere i loro 400 mila sesterzi in confronto ai milioni, alle decine di milioni manipolati dai veri magnati dell’Urbe: cioè i senatori venuti dalle province, ove si estendevano i domini e le imprese che avevan fruttato loro l’ammissione nello « splendido ordine » dei clarissimi, e in seguito, un seggio nella Curia, non solo per compiere i doveri della loro carica e sorvegliare le proprietà terriere che erano stati obbligati a comprare in Italia, ma ancora e soprat­ tutto per dar lustro al loro nome e al loro paese d ’origine con la sontuosità della loro casa romana e con lo splendore del posto che riuscivano a occupare nell’Ur&r; e ancora, dai cava­ 81

lieri arrivati alle più alte cariche della loro classe e ingrassati dai successivi tirocini nelle amministrazioni delle finanze e del vettovagliamento; e finalmente, dai liberti che avevano messo insieme delle fortune amministrando quelle dei prìncipi e dei grandi. Così, Roma, padrona del mondo, ne rastrellava le ricchezze; e io penso che, pur tenendo conto della differenza di epoca e di società, la concentrazione di capitali durante il principato di Traiano non fosse inferiore a quella che, nel nostro secolo, si verifica nelle mani degli uomini d ’affari della City o dei ban­ chieri di Wall Street. Come i Lords a Londra, certi romani posseggono, in quest’epoca, nell’Urbe interi quartieri, come quel Massimo, cui Marziale scaglia questo epigramma: Hai casa all’Esquilino. Hai casa all’Aven tino (Colle di Diana) e nel vico Dei Patrizi un tetto è tuo; Da un lato guardi il santuario Di Cibele, la vedova; dall’altro Quello di Vesta; di qua il nuovo Tempio di Giove, di là il vecchio Dove ti posso trovare? Dove ti debbo cercare? Massimo, chi è dappertutto fi un senzatetto.

Come i finanzieri di New York, certi romani fanno fruttare i loro capitali in grossi e innumerevoli crediti come quell’Afro che in un altro epigramma ricanta golosamente i nomi di co­ loro che han preso a prestito da lui, e le cifre dei loro debiti: « Cento Corano, dugento Mancino, Trecentomila me ne deve Tizio, il doppio Albino, Un milione Sabino, un altro Serra no... ». Forse Afro, come il Massimo di poco prima, sono sol­ tanto personaggi immaginari, tanto più essi rappresentano i tipi della plutocrazia che dettava legge allora a Roma. Nella loro stretta cerchia, che brillava di tutto l’oro della terra, abbondavano certamente quelli che potevano vantare un capitale di 100 milioni di sesterzi M, come l’Afro di cui parla Marziale, e certo non si osava chiamarsi ricchi se non dai 82

20 milioni in si\ Ex console, forse il più grande avvocato del tempo suo, Plinio il Giovane, che pure, a quanto si deduce dal suo testamento, possedeva un capitale non di molto infe­ riore 15, pretende con insospettabile buona fede di non essere ricco: ed eccolo scrivere in tutta serietà a Calvina — alla quale ha regalato i centomila sesterzi che il padre di lei gli doveva — che le sue possibilità sono modeste (modicae facúl­ tales) e che le sue rendite, dato il tipo di coltivazione delle sue poche terre, sono scarse e incerte, e ch’egli deve rime­ diare a tale mediocrità con una vita frugale 16. In realtà un liberto come Trimalcione, di cui Petronio valuta l’asse ereditario a 30 milioni, era più ricco di lu i17; e lo sconosciuto Afro posto da Marziale in caricatura, le cui sole rendite immobiliari arrivavano a 3 600 000 sesterzi, era tre volte più ricco di lui. Tuttavia, il patrimonio di Plinio era almeno dello stesso ordine di grandezza delle ricchezze di costoro, mentre tra quello — che era cinquanta volte il censo equestre medio — e il reddito delle « classi medie » non c’era veramente paragone possibile. I piccoli borghesi erano letteralmente schiacciati dai grossi, e la sola consolazione che restava loro era il constatare come le più enormi fortune fossero a loro volta irrisorie di fronte all’incalcolabile ricchezza del principe. Egli, infatti, non si limitava ad aggiungere agli averi della sua famiglia una buona parte di quelli dei suoi predecessori, a ereditare di qua e di là, specialmente in Asia e in Africa, immensi latifundio, a rastrellare dovunque i beni migliori deri­ vanti dai decreti di confisca totale o parziale pronunziati dai suoi giudici; poteva, per di più, confondere la sua cassa pri­ vata con il fisco, in cui confluivano i proventi delle imposte prelevate per il mantenimento dei suoi soldati, senza che nessuno osàsse reclamare rendiconti; era poi padrone di di­ sporre a suo beneplacito delle rendite d’Egitto, possedimento personale della corona, e di attingere a piene mani ai bottini di guerra, senza dovere a questo proposito rispondere di fronte a nessuno. Specialmente l’imperatore Traiano, che nel 106 18 fece man bassa del tesoro di Decébalo, e che si affrettò a rior­ ganizzare a proprio vantaggio lo sfruttamento del bottino della sua recente conquista 19, divenne un autentico miliardario, 83

la cui autorità da quel momento riposò non tanto sull’obbe­ dienza che gli giuravano i suoi eserciti, quanto sugli illimitati mezzi d’azione che gli procurava ima ricchezza senza pari, senza controlli e senza fine. Fra lui e i plutocrati di Roma passa una distanza quasi uguale a quella che separa costoro dalle « classi medie », e la prova sicura di questa disparità fra i patrimoni è data dalla ripartizione della mano d’opera servile tra i loro titolari. Al principio del u secolo a. C. erano ancor rare nell’Urbe le case che contavano più d’uno schiavo, come prova un’ono­ mastica spessissimo ridotta a un nome composto con la parola puer (servitore) e il genitivo del prenome del padrone: Lucipor, Marcipor, schiavo di Lucio, schiavo di Marco. Viceversa nel li secolo d. C. padroni con un solo schiavo non ce ne sono quasi più: a quest’epoca si contano sulle dita, tant’è vero che venivano appunto segnati a dito, come lo scalcagnato Cotta, messo in burla da M arziale20. O non compravano affatto schiavi perché, come dice Giovenale, costa caro riempir loro la pancia, oppure se ne compravano e se ne mantenevano pa­ recchi nello stesso tempo; ed è proprio per questo che G io­ venale usa la parola « pancia » al plurale nel verso ... magno servorum ventres! 21 Due schiavi erano il meno di cui si poteva contentare, perché lo conducessero al circo, il vecchio scettico di cui già abbiamo ammirato la moderazione. Ma. la media era di quattro o cinque volte superiore; i più modesti proprietari debbono mostrarsi alla testa di otto servi per non correre il rischio di perdere credito. In Marziale, anche lo spilorcio Cimber si dà da fare nei Saturnali per far portare il minuscolo bagaglio dei suoi regali da otto siri22; e in Giovenale i litiganti riterrebbero perduti i loro processi se mai li affidassero a un avvocato che non potesse presentarsi alla sbarra senza una scorta servile altrettanto numerosa 23. La squadra che bastava ordinariamente ai piccoli borghesi era appunto di otto uomini. I grossi bor­ ghesi, al contrario, hanno alle loro dipendenze uno, o più, battaglioni di schiavi. Per raccapezzarsi in mezzo a una tale 84

moltitudine essi dividono il loro personale secondo che lo ado­ perino nell’Urbe o in campagna, e nell’Urbe stessa lo suddi­ vidono, secondo che l’utilizzino in casa {servi atrienses) o che se ne servano fuori (cursores, viatores), e finalmente scom­ pongono questi gruppi compatti in altrettanti elementi che dividono in decine {decurie) numerate. Precauzioni superflue del resto: padroni e schiavi non arrivano a conoscersi tra di loro; Trimalcione nel bel mezzo di un suo banchetto non sa più con precisione a quale dei suoi servitori stia dando ordini: « — Di quale decuria sei tu? — domanda al suo cuoco. — Della quarantesima — risponde l’altro. — Comprato o nato in casa? — Né una cosa né l’altra; ti sono stato legato nel testamento di Pansa. — Guarda di farti onore, altrimenti ti farò andare nella decuria dei corrieri » 24. E nel leggere questo dialogo si capisce che nella folla degli schiavi di Trimalcione solo uno su dieci conosce il suo padrone. Da quanto abbiam riferito si capisce che erano almeno quattrocento, ma poiché nulla ci autorizza ad affermare che la quarantesima decuria, l’unica cui accenna il romanzo di Petronio, sia stata l’ultima, è logico supporre che ce ne fossero delle altre. Comunque sia, del resto, Plinio il Giovane, cui, come abbiam veduto, man­ cavano circa 10 milioni di sesterzi per eguagliare Trimalcione, possedeva per conto suo per lo meno cinquecento schiavi, dato che per testamento ne affrancò cento e che, stando ai termini della legge Fufia Caninia, — presentata secondo ogni verosi­ miglianza nell’8 a. C., e sempre in vigore nel n secolo d. C . 25 — era espressamente permesso ai proprietari che avessero da cento a cinquecento schiavi di liberarne un quinto, e quindi, impli­ citamente, era proibito ai proprietari di più di cinquecento schiavi di liberarne più di cento. Non possiamo non restare sorpresi di fronte a queste cifre esorbitanti; e tuttavia è certo che nel n secolo molto spesso esse venivano superate. La me­ raviglia che prova — un secolo e mezzo dopo la legge Fufia Caninia — il giureconsulto Gaio nel constatare che nel regi­ stro delle manumissiones testamentarie non si era andati oltre le cento manomissioni ogni cinquecento schiavi, è un indizio sicuro che col suo stesso silenzio tale registro aveva cessato d ’essere aderente alla nuova realtà. E se, sotto i Flavi, la d ira di 4 116 schiavi, quanti erano posseduti verso la fine del primo 85

secolo a. C. dal liberto Gaio Celio Isidoro, resta per un pri­ vato un’eccezione notevole, che, a distanza di tempo, Plinio il Vecchio ritiene degna di segnalazione26, non c’è dubbio che le familiae serviles dei grandi capitalisti romani dovevano rag­ giungere il migliaio di teste; e colui che era infinitamente più ricco del più ricco tra loro, l’imperatore, ne dovette contare facilmente nella sua casa circa ventimila. È anche la cifra massima che troviamo in Ateneo 27, e che. in ragione della sua stessa enormità, non può in realtà attri­ buirsi che al principe. Senza dubbio bisogna sottrarre a tale esercito i drappelli di schiavi che la domus divina dei Cesari teneva dispersi nel mondo per la riscossione delle tasse, per la sorveglianza dei suoi appalti, per la gestione dei suoi im­ mensi possedimenti rurali, delle sue miniere di metalli, delle sue cave di marmo e di porfido; a ogni modo, anche a Roma, sul Palatino — dove gli studiosi moderni hanno rile­ vato, nei graffiti del pedagogium, le tracce dei . loro locali di disciplina — gli schiavi imperiali dovevano essere legioni, non fosse che per adempiere l’incredibile varietà di incombenze che spettavano loro e che ci è stata rivelata dall’epigrafia dei loro epitaffi. A leggere tali epitaffi senza alcuna prevenzione, si rimane stupiti della specializzazione assai spinta eh’essi ci testimonia­ no: del lusso insensato, dell’etichetta cavillosa che l’avevano resa necessaria. Per mettere in ordine e curare il suo guarda­ roba, l’imperatore dispone di tante categorie di servitori quante sono le serie di vestiti che possiede: per le tuniche di palazzo gli a veste privata e per le toghe dell’Urbe, gli a veste forensi, per le sue divise militari di servizio gli a veste castrensi e per le divise di gran tenuta per le parate, gli a veste triumphali; per gli abiti che porta a teatro gli a veste scaenica, per gli abiti che indossa per recarsi al circo gli a veste gladiatoria. Il suo vasellame è ripulito da tante squadre quante sono le specie di quello: il vasellame per mangiare, quello per bere; il vasellame d’argento e quello d’oro; il vasellame di cristallo di rocca e quello incrostato di pietre preziose. I suoi gioielli sono affidati a un nugolo di servi o liberti ab ornamentis, fra i quali si distinguono gli addetti alle spille (gli a fibulis) e gli addetti alle perle (gli a margaritis). Alle cure della sua toilette 86

attendono i bagnini {baineatores), i massaggiatori (aliptae), i parrucchieri (ornatores), i barbieri {tonsores). Il cerimoniale dei suoi ricevimenti è regolato per mezzo di parecchie specie di uscieri: i velarti che sollevano i tendaggi all’entrata dei vi­ sitatori; gli ab admissione che li introducono presso di lui, e i nomenclátores che gliene annunciano il nome. Per cuocere i suoi cibi, preparare la tavola e servire, si richiede una schiera variopinta che va dai fuochisti dei suoi forni {fornicarti) e dai semplici cucinieri (coci) fino ai panettieri {pistores), ai pastic­ cieri {libarti), ai confettieri (dulciarii), e che comprendeva ol­ tre ai maggiordomi responsabili dell’ordinazione dei suoi pasti (structores) e ai valletti della sua sala da pranzo (triclinarii), i servitori che portano i piatti (ministratores), i domestici inca­ ricati di riportarli {analectae), i coppieri che gli offrono da bere, e che differiscono in importanza secondo che reggano l’anfora (gli a lagona) o porgano la coppa (gli a cyatbo), final­ mente i degustatori {praegustatores) che debbono — certo meglio di come adempirono l’ufficio loro quelli di Claudio e di Britannico — provare su se stessi la perfetta innocuità delle bevande e dei cibi. Infine, per distrarsi il principe non ha che l’imbarazzo della scelta tra i canti dei coristi (symphoniaci), le musiche della sua orchestra, gli sgambetti delle sue danzatrici {saltatrices), le facezie dei suoi nani {nanni), dei suoi cicaloni (fatui) e dei suoi buffoni (moñones). Anche se l’imperatore era di gusti semplici, come Traiano, anche se evitava l’alterigia e fuggiva la pompa, non poteva agli occhi dei suoi sudditi spogliare l’adempimento della sua fun­ zione sacra degli splendori fastosi dai quali era circondata la sua presenza a Roma. Questi circondavano di una cornice quasi favolosa la sua attività ufficiale, in cui il « re dei re » non si sarebbe trovato male e alla quale — per ricorrere a paragoni chiari se pure un poco zoppicanti — penso che la corte di Valois avrebbe potuto invidiare le raffinatezze; la corte di Versailles, la grandiosità pomposa e il fasto solenne. Il Cesare di Roma avrebbe potuto far suo il motto del Re Sole: nec pluribus impar. Senza dubbio, le case dei magnati romani si sforzavano di imitare la sua, ma non ci riuscivano affatto e, per vaste che fossero e complesse, — come si riesce a indo­ vinare tra le righe degli elogi mortuari dei loro liberti e dei 87

loro schiavi — non ne offrivano mai che un pallido calco, un’immagine lontana e ridotta. Cesare soverchiava anche i più grandi dei suoi sudditi, e il sentimento che subivano tutti della sua ineguagliabile superiorità aiutava i più umili tra loro ad adattarsi a quanto la loro misera condizione implicava di ristretto e inferiore rispetto al lusso delle classi dominanti. Del resto il passaggio dalla plebe alla media borghesia re­ stava ancora relativamente facile: la prosperità che era seguita alle fortunate campagne di Traiano; lo sviluppo di un com­ mercio cui le sue vittorie e la diplomazia di Adriano avevano aperto le vie dell’Estremo Oriente; il liberalismo economico di cui i primi Antonini avevano dato l’esempio, e che impediva i danni della concentrazione della proprietà terriera in poche mani, istituendo — ad esclusione dei proprietari fondiari e, se necessario, loro malgrado — un diritto di usufrutto eredi­ tario a vantaggio di quelli che avevano avuto il coraggio di dissodare i loro campi; tutto ciò secondava bene il progresso degli affari e moltiplicava per gli uomini industriosi ed ener­ gici (appaltatori d ’imposte o coloni a mezzadria der grandi pos­ sedimenti, armatori e banchieri, mercanti all’ingrosso e al mi­ nuto) le occasioni di acquistare onestamente un’onesta agia­ tezza. D ’altra parte, le riforme che principi degni finalmente della loro sovranità avevano imposto a tutti i rami della loro amministrazione, la restaurazione di una semplice e vigorosa disciplina nell’esercito, la cura con la quale erano scelti i capi civili e militari, coincidendo con l’ottimo trattamento e con gli stipendi elevati con i quali venivano retribuiti i loro ser­ vigi e impedito il loro disinteresse, costituivano altrettanti fat­ tori o misure favorevoli al sorgere e svilupparsi di ima media borghesia in nuovi strati sociali. Non c’era procuratore che per­ cepisse allora meno di 60 000 sesterzi all’anno; nessun centu­ rione, nessun primipilo che non riscuotesse per lo meno 20 000 e 40 000 sesterzi28. I primi erano in grado di raddoppiare e triplicare il censo equestre che già possedevano; e gli altri di acquistarlo, come fanno fede tante iscrizioni del n secolo. L ’uomo che incarna meglio, in tale epoca, lo spirito della classe media, il poeta Giovenale, è precisamente uno di quegli ex ufficiali che avevano arrotondato il loro gruzzolo e si erano

88

assicurati un decoroso ritiro in seno alla piccola borghesia romana. È vero che Giovenale rimpiange la vita felice che le sue mediocri possibilità gli avrebbero permesso di condurre in campagna e che a Roma gli era assolutamente vietata. D ’altra parte, in questo, Giovenale è ancora una volta rappresentativo del suo tempo, perché, in realtà, proprio nelle città d’Italia e delle province, la classe cui egli appartiene trova il clima adatto. A Roma già allora questa classe era soverchiata e som­ mersa dalla sovrabbondanza delle ricchezze cui non parteci­ pava affatto, e se una medesima catena sembrava legarla da una parte alla plebe tra cui reclutava la sua clientela, dall’altra ai magnati cui forniva la loro, finiva per sentirne più il peso che il sostegno, e la speranza di liberarsi di quel fardello le sfuggiva insieme con la speranza di salire sino a loro. I grossi patrimoni, posti su di un piano ad essa completamente estra­ neo, aumentavano sia spontaneamente, per l’accrescersi della loro propria sostanza, sia per effetto delle circostanze di cui essi soli potevano approfittare: o assumendo posti di comando di cui accaparravano il monopolio, e di cui alcuni — il pro­ consolato per esempio — rendevano un milione di sesterzi al­ l’anno; o grazie alle predilezioni arbitrarie del principe che poteva delegare indefinitamente i suoi poteri agli stessi favo­ riti; o per gli imprevisti di ima speculazione tanto più sfrenata quanto più a Roma, banca dell’universo, essa costituiva il nerbo di una economia in cui la produzione perdeva terreno giorno per giorno di fronte a un mercantilismo sempre più invadente. Il lavoro che ancora era capace di procurare l ’agiatezza non bastava più a creare le ricchezze che solo il caso degli imperiali favori e dei colpi di borsa distribuiva. I mezzani e gli imbroglioni, queste due piaghe aperte nei fianchi delle moltitudini, erano i soli ad arraffare milioni. Mar­ ziale sfoga il suo rancore nel vedere degli avvocati accettare i loro onorari in natura e i più bei doni dello spirito coltivati in pura perdita: « Quale maestro dare al tuo figliuolo Mi chiedi, Lupo [...] Niente Virgilio, niente Cicerone, [...] Per

89

una professione lucrosa La chitarra è buona O il doppio flauto da coro. Se il ragazzo ha la testa dura come pietra. Fanne un banditore d ’asta, o un geométra » 29. E in un altro luogo escla­ ma: « Due pretori, quattro tribuni, Sette avvocati, dieci poeti Chiesero a un vecchio in sposa La figliuola, non molto tempo fa. Lui senza esitare, Ha dato la donzella A Eulogo, un banditore. Forse che, Severo, dimmi Fu sciocco il geni­ tore? » 30. In verità se la piccola borghesia, fuori dell’Urbe, era ancora pagata abbastanza per poter credere ai benefici del lavoro, in Roma non aveva più alcuna fiducia in esso. Rileggiamo piuttosto il grazioso epigramma in cui il poeta parassita ha cesellato quello che io volentieri chiamerei il « sonetto di Plantin » della letteratura latina, e che certa­ mente ne è stato il m odello31. Le cose da cui la vita è abbellita Ti elenco qui, Giulio Marziale, Mio impareggiabile amico: Fortuna non guadagnata Col sudore della fronte, ma ereditata; Un campo non ingrato, un focolare Mai spento. In tribunale mai liti, Ossequio ai grandi raro, il cuore in pace; Nel fisico, la scioltezza di un dandy, Il corpo sano. La parola libera, Ma non sfrenata; amici uguali, Ospiti simpatici, tavola francescana. Notti orgiastiche no, ma senza impacci; A letto ima compagna non statuaria E tuttavia pudica; un lungo sonno Per far le notti brevi. Il contento di sé, senza aspirare Ad esser altro; il momento supremo Non temere, non desiderare.

Questa poesia non lancia certo un grido di gioia; trae sol­ tanto un sospiro, in cui la rassegnazione si mescola all’appagamento; non esprime alcuna aspirazione verso un migliora­ mento, che si direbbe impossibile; pone la felicità nella nega­ zione del lavoro, di cui sottintende la vanità. Su questo malinconico ideale passano le nuvole del reale 90

e scivola la stanchezza di un mondo che invecchia; le classi sociali, almeno a Roma, cominciano a irrigidirsi, la loro ge­ rarchia, ancora mobile negli scalini intermedi, è ormai fissa nei vertici; gli apporti regolari che dovevano restaurarla di continuo, cedono troppo spesso agli impulsi incoerenti e agli urti imprevisti. Le correnti egualitarie, deviate, rallentate, ec­ cessivamente affrettate, finiscono con l’approdare all’esagera­ zione delle disuguaglianze naturali. L ’ordine democratico si piega, con la classe media che ne è la piattaforma, sotto il doppio peso delle masse, cui una disordinata economia impe­ disce un normale mutamento di stato, e d ’una burocrazia abu­ siva che aggrava l’assolutismo del monarca, di cui manipola i favolosi tesori e di cui traduce in atto l’onnipotente volontà. Cosicché lo splendore che si diffonde nell’Urbs nel il secolo d. C. è già circondato da quelle ombre che il Basso impero stenderà sul resto del mondo e il cui sinistro addensarsi l’Urbe non ha più il coraggio di allontanare da sé. Le collettività hanno bisogno, per lottare con successo contro i loro mali, di credere nel proprio avvenire; ma la società romana, delusa nelle sue speranze di eque e stabili differenziazioni, inquieta volta a volta per il proprio marasma e la propria instabilità, comincia a dubitare di se stessa nel periodo in cui la solidità delle sue famiglie è incrinata e infranta l’unità della sua co­ scienza.

Capitolo Secondo IL MATRIMONIO, LA DONNA E LA FAM IGLIA: VIZI E VIRTÙ

1.

l ’indebolirsi della patria potestà

Nel il secolo d. C. il diritto gentilÌ2 Ìo delle età antiche cadde in disuso: totum gentilicium ius in desuetudinem a b iit1 e dei princìpi sui quali si basava la famiglia patriarcale della vecchia Roma, la parentela agnatizia e la potenza illimitata del paterfamilias, nulla sussiste se non certe reminiscenze diremo così archeologiche. E mentre un tempo era parentela legittima soltanto quella creata dalla discendenza maschile, o agnatio, ora essa si estende anche alla cognatio, o parentela per parte di donna, e supera i limiti delle nozze legittime (iustae nuptiae). Alla fine della repubblica la madre si era vista riconoscere il diritto formale al rispetto da parte dei figli, al pari del pa­ dre. Le formule del pretore le avevano attribuito il diritto di custodia della propria prole, tanto nel caso di tutela, quanto nel caso di cattiva condotta del marito. Sotto Adriano, un senato-consulto promosso da Tertulliano stabiliva che la madre, quando aveva tre figli, acquistava il di­ ritto alla successione ab intestato di ciascuno di essi, anche se erano nati fuori dal matrimonio, qualora il defunto fosse privo di eredi e di fratelli consanguinei. Infine, sotto Marco Aurelio, il senato-consulto Orfitiano, pubblicato nel 178, chiama espres­ samente alla successione della madre i figli di lei, i quali, qua­ lunque fosse la validità dell’unione da cui erano nati, avevano la precedenza sugli « agnati » del morto. Questo è il punto d’arrivo dell’evoluzione die aveva intaccato l’antico sistema delle successioni dvili, e che in fin e, sovvertendo le concezioni 92

fondamentali della famiglia romana, consacra in essa il diritto del « sangue » nel senso in cui le società moderne gli han dato la prevalenza. A Roma la famiglia è ormai fondata sulla coniunctio sanguinis, perché secondo la bella anticipazione di Cicerone nel De officiis, tale comunità naturale era la più propria a tener legati gli esseri umani con la benevolenza reci­ proca e l’amore {et benevolentia devincit homines et charitate) 2. In questo stesso periodo, i due caratteri essenziali della patria potestas: l’autorità assoluta del padre sui figli e l’auto­ rità assoluta del marito sulla donna data in suo potere {in manu) come se fosse ima delle sue figlie {loco filiae), si erano gradualmente attenuati; e bisogna convenire che nel n secolo d. C. erano già spariti. Nei rapporti con i figli il paterfamilias è ora decaduto dal diritto di vita e di morte che le Dodici Tavole e le leggi sacre attribuite ai re gli avevano accordato; possiede ancora senza dubbio l’orribile facoltà — che gli sarà ritolta soltanto, per la benefica influenza del cristianesimo, nel 374 d. C. — di esporre i neonati nelle pubbliche discariche, dove essi morivano di fame e di freddo 3 a meno che la pietà d’un passante, messaggero e strumento del favore divino, non venga a raccoglierli e sal­ varli in tempo; senza dubbio, quando è povero ricorre facil­ mente, come un tempo a questa forma aleatoria di infanticidio legale, e malgrado le proteste isolate di qualche predicatore stoico, come Musonio Rufo, continua a esporre senza rimorsi soprattutto i propri bastardi e le proprie figlie. Certe iscrizioni del regno di Traiano danno come ammessi all’assistenza alimen­ tare nella prima metà, in una stessa città e in uno stesso anno, solo due illegittimi, o spurii, contro 179 legittimi, e su questo totale solo 34 femmine contro 145 maschi: Tunica spiegazione evidente di tale sproporzione è data dal rapporto inverso delle « esposizioni », di cui erano vittime assai più spesso gli illegitti­ mi e le figlie4. Ma ima volta che aveva risparmiato i figli all’atto della nascita, il paterfamilias non poteva in seguito sbarazzar­ sene più, né con la vendita della mancipatio, che un tempo li votava al servaggio e che non era più tollerata — se non a titolo di finzione legale per fini opposti, di emancipazione o di ado­ zioni — , né con un’esecuzione capitale. Quest’ultima, ammessa 93

ancora nel primo secolo a. C. — come resta dimostrato dalla sorte di un complice di Catilina, Aulo Fulvio — , era divenuta nel frattempo un delitto capitale. Prima che Costantino desse egual valore al parricidio e all’assassinio del figlio da parte del padre, Adriano aveva punito con la deportazione in un’isola un padre che, durante una partita di caccia, aveva ucciso il figlio, che pure era colpevole di aver disonorato le sue seconde nozze5. E l’imperatore Traiano ne aveva costretto un altro, che aveva semplicemente maltrattato il figlio, a emanciparlo subito e a rinunciare per l’avvenire a ogni eventuale eredità da parte di lu i6. Così, dopo la fine della repubblica, l’emancipazione del figlio aveva una portata e un senso del tutto nuovi. Invece d ’essergli comminata come una pena — che, per quanto infe­ riore alla morte o alla schiavitù, restava ancora molto dura, poiché, rompendo i legami fra il ragazzo e i suoi parenti, lo colpiva con un ostracismo dalla famiglia che non poteva non concludersi con la privazione dell’eredità — gli veniva devo­ luta come un vantaggio. Grazie alla giurisprudenza pretoria della bonorum possessio, stabilita all’inizio del principato, la emancipazione lo rendeva capace di acquistare o gestire dei beni senza peraltro privarlo della successione patema. Fino a quando aveva avuto l’aspetto di un castigo, i padri di famiglia l’avevano usata con riluttanza; ma quando divenne per i loro figli un beneficio di cui i padri dovevano sopportare le spese, si misero a praticarla correntemente. Una volta ancora le leggi si erano modellate sui sentimenti e l’opinione pubblica, che ormai riprovava i crudeli rigori del passato, esigeva dalla po­ testà del padre, ai tempi di Traiano e di Adriano, solo quella pia tenerezza con la quale un giureconsulto del in secolo finirà per identificarla: patria potestas in pie tat e debet, non in atrocitate consistere1. Ciò era più che sufficiente per rinnovare l ’atmosfera della famiglia romana e dare ai rapporti fra padre e figli una sfu­ matura di dolcezza affettiva tanto lontana dalla durezza e dal rigorismo disciplinare, di cui Catone il Vecchio aveva dato l’esempio nella sua casa, di quanto è invece vicina all’amicizia sorridente che fiorisce oggi nelle nostre case. Se si scorre la letteratura contemporanea, la si trova piena di questi esempi 94

di padri di famiglia la cui autorità si traduce in indulgenza e di figli che in presenza dei padri vivono a modo loro, padroni di se stessi. Plinio il Giovane, i cui matrimoni restarono sterili, do­ manda per i figli dei suoi amici un’indipendenza di condotta e di maniere che non avrebbe ricusato ai suoi, sia perché era entrata nel costume sia perché tra la gente « a modo » ciò faceva parte della buona educazione: « Un tale rimproverava aspramente suo figlio — egli scrive — perché spendeva troppo nel comprar cavalli e cani. Quando il giovine fu uscito, io dissi al padre: — Ehi, tu non hai mai fatto nulla che potesse esserti rimproverato da tuo padre? » 8. Certo, Plinio il Giovane non aveva torto di predicare una mansuetudine o, se si vuole, un liberalismo che incontra il nostro favore; ma avvenne che i romani non seppero mante­ nere la misura, né si contentarono di attenuare la loro seve­ rità, ma cedettero a moti inconsiderati di eccessiva compia­ cenza. Rinunciando a dirigere i loro figli, si lasciarono dirigere da loro, e ritennero di compiere il loro dovere dissanguandosi per soddisfare le fantasie della loro progenie; e riuscirono solo a creare dopo di sé degli oziosi e scialacquatori, come quel Filomuso di cui Marziale ci racconta le disavventure e che, dopo aver ottenuto d ’un colpo la successione del padre, si trovò subito in condizioni peggiori che non al tempo in cui riceveva giorno per giorno un generoso assegno: « Ti dava duemila sesterzi al mese tuo padre, Filomuso. Un tanto al giorno ne pigliavi. [...] Tuo padre muore e tutto il suo ti gira: Filomuso, non t’ha lasciato una lira » 9. Disgraziatamente non erano soltanto i patrimoni a far le spese dell’individualismo che allora trionfava; fin dal n se­ colo d. C. esso aveva indebolito in Roma la tempra del ca­ rattere; e mentre scompare il duro viso del paterfamilias tra­ dizionale, si fa più frequente la ridicola figura del figlio di famiglia, questo eterno fanciullo viziato dalle società che hanno contratto l’abitudine del lusso e perduta quella della disci­ plina. Peggio ancora, si vede già profilarsi la sinistra figura del padre che per amore del guadagno non teme affatto di calpe­ stare le speranze della sua stirpe e di corrompere sistematica­ 95

mente gli adolescenti che sarebbe stata sua missione educare. Tale fu il caso del grande avvocato Regolo, rivale e avversario di Plinio il Giovane. Regolo aveva soddisfatto tutti i capricci del figlio, gli aveva fatto costruire ima canora uccelliera di merli, usignoli e pappagalli, che cantavano e parlavano; gli aveva comprato cani di tutte le tazze; gli aveva procurato poneys gallici per la biga e l’equitazione. Non appena morì sua moglie, le cui immense ricchezze avevano pagato i suoi regali, si affrettò a emancipare il figlio perché il giovane potesse en­ trare in possesso della fortuna materna, goderne sconsiderata­ mente e lasciarla infine al proprio padre uscendo da una vita che le folli prodigalità avrebbero abbreviato 10. Certamente in questo caso si trattava di ima mostruosità eccezionale di cui Plinio si mostra scandalizzato. Tuttavia è già troppo che si sia verificata, e questo non sarebbe potuto avve­ nire se le donne non fossero state affrancate, quanto i figli e anche più, dalla solidarietà che un tempo l’esercizio della pa­ tria potestas aveva imposto alla famiglia romana, che si dis­ solse insieme con quella.

2. IL FIDANZAMENTO E IL MATRIMONIO Mentre la patria potestas sui figli andava attenuandosi sempre di più, essa cessò anche di garantire il marito nei ri­ guardi della moglie. Un tempo, a Roma, tre diverse forme di matrimonio avevano posto la donna sotto la manus del ma­ rito: la confarreatio, ossia l’offerta solenne da parte degli sposi di ima torta di farro a Giove Capitolino, alla presenza del sommo pontefice e delTofficiante del dio supremo, il Flamett dialis; la coèmptioy vendita fittizia in cui il padre plebeo eman­ cipava la propria figlia al marito, e, finalmente, Yusus che po­ teva — dopo la coabitazione ininterrotta di un anno — pro­ durre tra un plebeo e una patrizia gli stessi effetti legali. Ora, di queste tre forme nessuna certamente si conservò fino al il secolo d. C. L ’usus fu presto abbandonato, ed è probabile che le leggi di Augusto l’abbiano formalmente abolito. La laudatio Turiae, contemporanea delle proscrizioni del secondo triumvirato, è l ’esempio più recente in cui sia nettamente 96

attestata la coèmptio. Quanto alla confarreatio, all’inìzio del principato era talmente caduta in desuetudine che a stento, sotto Tiberio, si poterono scoprire nell’Urbe tre patrizi nati da unioni consacrate secondo questo rito. A tali modalità, di cui Gaio del resto parla soltanto al passato e che ormai erano solo argomento dei commentari retrospettivi dei giureconsulti, si era sostituito un matrimonio che, nel suo aspetto esteriore come nel suo spirito, somiglia singolarmente al nostro: un matrimonio di cui è lecito pensare che il nostro sia diretta derivazione. Era anzitutto preceduto dal fidanzamento, il quale, pur senza imporre dei veri obblighi, veniva celebrato tanto spesso in Roma che Plinio il Giovane lo pone tra quei mille nonnulla di cui erano inutilmente ingombre le giornate dei suoi contem­ poranei u . Consisteva in un impegno reciproco che i fidanzati assumevano, con il consenso dei loro rispettivi padri e davanti ad un certo numero di parenti e d’amici, dei quali gli uni intervenivano come testimoni, e gli altri si contentavano di fe­ steggiare il banchetto cui erano stati invitati tutti e che con­ cludeva la festa; in concreto il fidanzato consegnava alla fidan­ zata dei regali più o meno costosi 12e u n anello simbolico, pro­ babile sopravvivenza dei pegni preliminari13 della primitiva coèmptio. Sia che fosse fatto di un cerchio di ferro rivestito in oro, o da un cerchio d ’oro simile alle nostre fedi, la fidanzata aveva cura di infilarlo, seduta stante, al dito nel quale ancora oggi di solito si porta la fede, cioè « nel dito vicino al mignolo della mano sinistra » 14. Proprio per questo noi, con un nome derivato dalla bassa latinità (anularius), lo chiamiamo ‘ anu­ lare ’, senza per altro ricordarci della ragione per cui lo avevano scelto i romani. Aulo Gellio lo spiega con lungo giro di parole: « Quando si apre il corpo umano, come fanno gli egiziani, e si operan le dissezioni, àvctxopai per parlare come i greci, si trova un nervo molto sottile, che parte dall’anulare e arriva al cuore. Si ritiene opportuno dare l’onore di portare l’anello a questo dito piuttosto che ad altri, per la stretta connessione, per quel certo legame che lo unisce all’organo principale » Con tale diretta relazione stabilita in nome di una scienza im­ maginaria tra il cuore e l’anello di fidanzamento, Aulo Gellio 97

ha certamente voluto sottolineare la serietà cui il fidanzamento era improntato, la solennità dell’impegno che ad esso veniva consacrato, e soprattutto la profondità del reciproco affetto che i suoi contemporanei vi annettevano, e la cui manifestazione volontaria e pubblica formava allora l’essenziale, non solo della cerimonia ma della realtà giuridica del matrimonio romano. Di questo, numerosi allusioni letterarie ci hanno trasmesso i minimi particolari. Nel giorno stabilito per la celebrazione, la fidanzata, Ì cui capelli sono stati raccolti fin dalla sera prima in una reticella rossa, veste l’abito richiesto dall’uso: intorno al corpo una tunica senza orli (tunica recto), fermata da una cin­ tura di lana a doppio nodo, il cingulum herculeum, e sopra un mantello o palla, color zafferano; ai piedi, sandali della stessa tinta; intorno al collo una collana di metallo; sulla testa — la capigliatura protetta da sei cercini posticci, separati da piccole bende {seni crines), che le Vestali portano durante tutto il tempo del loro ministero — , un velo color arancio fiammeg­ giante, onde il suo nome, flammeum, che nasconde pudicamente la parte alta del viso; sul velo è poggiata una corona intrec­ ciata di maggiorana e di verbena al tempo di Cesare e d ’Augusto, e più tardi di mirto e di fior d ’arancio. Quando ha finito di acconciarsi, la fidanzata accoglie in mezzo ai suoi il fidan­ zato, la famiglia, e gli amici di lui. Allora tutti si recano o in un santuario vicino, o nell’atrium della casa per offrire un sa­ crificio agli dèi. Quando il sacrificio della bestia scelta, qualche volta una pecora, raramente un bue, più spesso un maiale, è stato compiuto, interviene Yauspex e Ì testimoni. Questi, pro­ babilmente reclutati in numero di dieci tra il gruppo dei con­ giunti, si limitano, comparse mute, ad apporre il loro sigillo sul contratto di matrimonio, la cui redazione però non è obbli­ gatoria; quello, Yauspex, la cui denominazione intraducibile designa una funzione d'augure familiare e privato, assume — senza investitura sacerdotale, così come senza delega uffi­ ciale — un ruolo indispensabile. Dopo avere esaminato le in­ teriora, offre garanzia del favore degli auspicii, senza di che il matrimonio, disapprovato dagli dèi, non sarebbe valido; e non appena egli ha pronunziato, circondato da un rispettoso silenzio, le parole che proclamano il favore degli dèi, gli sposi si scambiano in sua presenza il consenso reciproco in una forma 98

in cui sembrano confondersi le loro esistenze, come le loro volontà: Ubi tu Gaius, ego Gaia. Allora il rito è compiuto e tutti i presenti prorompono in acclamazioni augurali: Feliciter (« La felicità sia con voi! »). La loro gioia si prolunga in un festino che cessa al finir del giorno, quando è venuto il momento di sottrarre la sposa agli abbracci della madre e trasportarla nella casa dello sposo. Suo­ natori di flauto, seguiti da cinque tedofori, aprono la marcia; cammin facendo il corteggio si effonde in canzoni allegre e li­ cenziose, e quando è prossimo ad arrivare a destinazione, lan­ cia ai ragazzi che sono stati attirati daH’affluire della gente, delle noci; quelle noci con cui la sposa giuocava nella sua in­ fanzia, il cui suono sul selciato presagisce ora gaiamente la feconda felicità che l’avvenire le riserva. Avanti a tutti muo­ vono tre amici dello sposo, uno — il paraninfo per eccellenza, il pronubus, che noi chiameremmo valletto d’onore, — bran­ disce la torcia nuziale fatta di biancospini strettamente intrec­ ciati; dietro a lui gli altri due si impadroniscono della sposa, la sollevano tra le braccia e le fanno superare, senza che i piedi tocchino terra, la soglia della sua nuova casa adornata di paramenti bianchi e di fronde verdeggianti. Tre compagne della nova nupta entrano dopo di lei; due di esse portano, una la sua conocchia, l’altra il fuso, emblemi evidenti delle sue virtù e attività domestiche. Dopo che il marito le ha offerto l’acqua e il fuoco, la terza, che in dignità si trova ad essere la prima, la pronuba, la conduce verso il letto nuziale sul quale il marito la invita a prender posto, le toglie la palla e si appresta a sciogliere il nodus berculeus della sua cintura, men­ tre i presenti si ritirano tutti con la discrezione e la fretta che le convenienze ed il costume imponevano 16. Lasciando da parte il sacrifìcio cruento, e dimenticando lo splendore flammeo del velo della sposa, non si direbbe che questo cerimoniale abbia sopravvissuto all’impero romano e che continui, tranne alcuni cambiamenti, a regolare l’ordine della maggior parte delle nozze contemporanee? Come osser­ vava tempo fa Monsignor Duchesne con una chiaroveggenza che non era meno sorprendente per il fatto che allora era iso­ lata: « Salvo l’aruspicina, tutto il rituale nuziale romano è stato conservato nell’uso cristiano. E sono state mantenute fin 99

le corone... La Chiesa, essenzialmente conservatrice, in questo genere di cose modificava solo ciò che era incompatibile con le sue credenze ». In effetti, il matrimonio cristiano ricondotto alla sua nozione fondamentale, consiste nel libero dono di due anime Tuna all’altra. Indipendente dalle allegrezze che lo se­ guono, e anche dalla cerimonia sacra che abitualmente lo ac­ compagna, il sacramento risulta dall’affermazione d ’intima unione che i coniugi esprimono alla presenza del prete, che è là solo per registrarlo davanti a Dio 17. Ora, il matrimonio ro­ mano dell’epoca classica richiede una definizione simile a que­ sta: infatti, esso si costituiva nel momento in cui, forti del­ l’adesione della divinità, constatata dall’atispex, Gaio e Gaia dichiaravano insieme la loro volontà di unirsi l’uno all’altra; e bisogna aggiungere che proprio con tale dichiarazione si le­ gavano. Il resto era solo un susseguirsi di fioriture casuali e di aggiunte superflue: e già alla fine della repubblica, quando Catone Uticense si rimaritò con Marcia, l’uno e l’altra decisero di rinunciarvi; si fecero reciprocamente dei giuramenti, spo­ gliati di ogni vana pompa; fecero a meno di testimoni, non invitarono i loro parenti. Si contentarono di unirsi in silenzio sotto gli auspici presi da Bruto: Pignora nulla domus; nulli coiere propinqui Junguntur taciti contentique auspice Bruto18. C ’è un’evidente nobiltà in questo accordo dei cuori, che basta a fondare il matrimonio; e non c’è dubbio die il progresso della filosofia, spedalmente nello stoidsmo, che già illuminava le vite di Catone e di Marcia abbia contribuito a imporre al diritto romano questa concezione già moderna, la quale, estra­ nea ai suoi primitivi sviluppi, ha finito per sconvolgerne le strutture. Per gli antichi di cui Gaio parla come di figure scomparse, la donna era stata condannata per la sua naturale irresponsabilità a vivere in imo stato . di perpetua minorità w. Nel matrimonio cum manti ella sfuggiva alla mantis dei suoi ascendenti soltanto per ricadere sotto la potestà del marito. Nel matrimonio sine manti restava sottoposta all’autorità del tutore detto legittim o20, che era obbligatoriamente scelto per 100

lei tra i suoi agnati alla morte dell’ultimo dei suoi ascendenti. Solo nel periodo in cui il matrimonio sine manu soppiantò l’altro, la tutela legittima, da esso inseparabile, perse ogni im­ portanza. G ià alla fine della repubblica bastava che una pupilla si lagnasse di un’assenza, sia pur brevissima, del proprio tutore, per ottenerne un altro dalla compiacente designazione del pre­ tore; e quando, al principio dell’impero, furono proclamate le leggi demografiche cui è legato il nome di Augusto, i tutori legittimi si trovarono sacrificati al desiderio deH’imperatore di facilitare i matrimoni prolifici; queste leggi non solo esenta­ vano dalla tutela le spose che avevano avuto tre figli, ma pre­ scrissero che fosse revocato d ’ufficio il tutore di cui la pupilla avesse denunciato le esitazioni ad approvare i suoi progetti matrimoniali o a versare la sua dote. Al tempo di Adriano, le donne maritate non hanno neppure bisogno del tutore per redigere il loro testamento; e i padri non costringono le loro figlie a maritarsi loro malgrado, così come non pensano a im­ pedire, senza plausibili motivi, il matrimonio cui esse sono destinate, perché, come dichiara il grande giureconsulto del regno, Salvio Giuliano, le nozze si compiono non con la co­ strizione, ma per consenso degli sposi, e il libero consenti­ mento della giovane è indispensabile alla loro conclusione: nuptiae consensu contrahentium fiunt; nuptiis filiam familias consentire oportet2i. 3. EMANCIPAZIONE ED EROISMO DELLA DONNA ROMANA È naturale che questa nuova definizione del matrimonio romano abbia finito per trasformarne la natura. Ci sono certe conseguenze che vengono invariabilmente riprodotte dalle stesse cause. Ai nostri giorni abbiamo veduto in Francia il legisla­ tore appianare, poi toglier di mezzo tutti gli ostacoli davanti alla volontà trionfante degli sposi, e quanto ancora poteva sussistere dell’autorità dei genitori è scomparso nel tempo stesso che spariva il loro diritto di opporsi alle nozze deside­ rate dai loro figli. Lo stesso avvenne nell’impero romano: la matrona, che già era sottratta all’autorità del marito per la 101

predominanza quasi esclusiva dei matrimoni sine manu, fu libe­ rata dalle sue tutele proprio a causa dell’indipendenza della scelta che era richiesta per l’unione nei tempi nuovi; entrata libera nella sua casa, la donna viveva in essa pari al marito. Poiché, contrariamente all’opinione corrente che ricalca le condizioni dell’epoca imperiale sui ricordi ormai tramontati dei primi secoli repubblicani, è certo che la donna romana go­ deva nei tempi di cui ci occupiamo di ima dignità e di un’au­ tonomia equivalenti o superiori a quelle che il femminismo contemporaneo ha rivendicato e che già più di un teorico del femminismo antico, Musonio Rufo per esempio, aveva siste­ maticamente reclamate sotto i Flavi in nome dell’uguaglianza intellettuale e morale dei due se ssi22. La fine del primo secolo e il principio del n abbondano di nobili figure femminili, che rivelano la forza del carattere e impongono senz’altro l ’ammirazione. In questo periodo sul trono si succedono imperatrici veramente degne di portare a fianco dei loro mariti il titolo sacro di Augusta, che Livia aveva ricevuto soltanto alla morte del marito. Plotina è parte­ cipe della gloria come delle responsabilità di Traiano, ch’ella aveva accompagnato nella guerra contro i parti. E d ella seppe così bene — negli ultimi momenti dell’optimus princeps — tradurre, o supplire, le sue ultime volontà, che per merito di lei Adriano raccolse in ordine e in pace la sovrana successione, per la quale l’imperatore defunto aveva segretamente disposto in suo favore. Sabina non viene toccata dai redattori della Historia Augusta, i cui pettegolezzi sono smentiti dalla molti­ tudine di iscrizioni devote che ricordano i suoi benefici, e dalle numerose statue, che, ancora in vita, l’avevano divinizzata. D ’altra parte, Adriano, che si dice sia vissuto in disaccordo con lei, la voleva in realtà circondata di tanti riguardi e di tanta deferenza che Svetonio, segretario ab epistulis, per aver mancato verso di lei incorse da un giorno all’altro nella per­ dita del suo « ministero della penna ». A loro volta, le grandi dame dell’aristocrazia rievocano con fierezza, come modelli im­ perituri, le eroine dei tristi regni passati, che piene di fiducia nei loro mariti, unite ad essi nel comando e nella politica, non vollero separarsene all’awicinarsi del pericolo e preferirono morire piuttosto che abbandonarli soli ai colpi dei tiranni. 102

Sotto Tiberio, né Sestia aveva voluto sopravvivere ad Emi­ lio Scauro, né Paxea a Pomponio Labeone23. Quando Nerone fece giungere a Seneca l’ordine omicida, Paolina, la giovane moglie del filosofo, si aprì le vene nel momento stesso in cui lo faceva il marito: ella non soccombette all’emorragia solo perché Nerone, informato del suo sacrificio, aveva dato or­ dine di impedirlo a tutti i costi, ed essa era stata costretta a lasciarsi bendare le braccia e a far stagnare le ferite. Il rac­ conto che di questa scena patetica ci hanno tramandato gli Annales, il ritratto in essi delineato del viso esangue e doloroso su cui la vedova di Seneca continuò a portare i segni della tra­ gedia durante gli anni che le rimasero da vivere quaggiù24, ci testimoniano l’emozione profonda che ispirava ai romani del tempo di Traiano il ricordo — già vecchio di mezzo secolo — di quel dramma della tenerezza coniugale. Tacito provava per la costanza di Paolina la stessa ammirazione che il suo amico Plinio il Giovane provò per il fiero coraggio dimostrato da Arria Maggiore sotto Claudio e che egli ha celebrato nella lettera più bella del suo epistolario25. Mi si vorrà scusare se una volta di più attingo largamente a quelle pagine celebri. Arria Maggiore, che aveva sposato il senatore Caecina Peto, in una circostanza dolorosa mostrò di quale stoica devozione era capace il suo amore per lui. Peto era malato ed era malato anche suo figlio e tutti e due senza speranza, a quel che si credeva. Il giovane morì: egli era di grande bellezza e di rara purezza morale, e i genitori lo ama­ vano più ancora per i suoi meriti che per il loro legame di sangue. Arria preparò le esequie del figlio e ne guidò il corteo funebre in modo che il marito non si accorgesse di nulla. En­ trando nella camera di Peto faceva finta che il figlio fosse ancor vivo, che stesse meglio, e poiché il padre ne domandava spesso notizie, rispondeva: — Ha dormito bene, ha mangiato con piacere. Dopo di che, sentendo le lacrime per tanto tempo ricacciate indietro prossime a sgorgare, usciva e si abbando­ nava al suo dolore. Quando aveva sfogato il suo pianto, si asciugava gli occhi, si rassettava e rasserenava in viso e rien­ trava, avendo lasciato per così dire il dolore sulla porta. E così con questo sforzo sovrumano Arria potè salvare il marito dalla malattia che le aveva rapito il figlio; ma in seguito non 103

potè sottrarlo alla vendetta imperiale, quando nel 42 d. C. fu implicato nella repressione della rivolta di Scriboniano, e fu arrestato sotto i suoi occhi nell’Illirico, dove ella lo aveva accompagnato. Supplicò i soldati di condurre via anche lei. — Bisogna pure — disse — che a un ex console voi diate degli schiavi per servirlo a tavola, per vestirlo e calzarlo; que­ sto posso farlo io. Poiché le sue preghiere nulla avevano otte­ nuto, prese a nolo ima barca da pesca e su quella fragile im­ barcazione seguì fino in Italia la nave sulla quale era stato imbarcato Peto. Invano: a Roma Claudio si mostrò implaca­ bile; allora Arria disse che sarebbe morta col marito. Dapprima suo genero Trasea si sforzò di dissuaderla: — Come — di­ ceva — , come potresti dare il tuo consenso, se un giorno fosse necessario che io morissi, che con me morisse tua figlia? Ma Arria non si lasciò distogliere dalla sua fiera decisione: — Se — rispose — mia figlia avesse vissuto con te tanto tempo e nella stessa concordia con cui io ho vissuto con Peto, darei il mio consenso — e per tagliar corto alle loro insistenze, d’un balzo si slanciò contro il muro, batté la testa e cadde svenuta. Una volta ritornata in sé: — Vi avevo avvertiti — disse — che se mi aveste impedito la via facile per giungere alla morte, ne avrei trovata un’altra per dura che fosse. E quando giunse per Peto l’ora fatale, trasse dall’abito un pugnale, se lo con­ ficcò nel petto e, tolta l’arma dal seno, l’offerse al marito aggiungendo queste parole immortali e quasi divine: — Peto, non fa male. Insisto su questi episodi famosi perché ci mostrano in un certo tipo di donna dell’epoca imperiale una delle più belle incarnazioni di terrena grandezza. Per merito di queste crea­ ture libere e fiere come Arria Maggiore, l’antica Roma, negli stessi anni in cui doveva ricevere il battesimo sanguinoso dei primi martiri del cristianesimo, ha raggiunto le più alte vette morali dell’umanità; e nel n secolo d. C., non solo la loro me­ moria era oggetto di un vero culto, ma il loro esempio, a di­ stanza, continuava a suscitare imitatrici. Certo, ora la giustizia degli imperatori risparmiava alle matrone i sacrifici che la col­ lera di Claudio o la ferocia di Nerone avevano loro imposto e che i rigori di Vespasiano furono sul punto di procurare ad Arria Minore * ; ma la dura vita giornaliera offriva anche trop­ 104

pe occasioni di sacrifici simili, e, per lo meno neìTélite, le donne romane non avevano certo degenerato. Plinio il Giovane segnala intorno a sé continuamente casi di donne che spingevano il loro affetto per i mariti fino a scomparire con loro. « Navigavo sul nostro Lario — scrive — , e un amico mi mostrò una villa, e anzi ima camera che si sporge fuori su l’acqua. — Di là — mi disse — un giorno una concittadina nostra si gettò insieme col suo marito. Gliene chiesi il motivo. Il marito, malato da gran tempo, incancre­ niva per ulceri intorno agli organi vitali. La sua moglie ottenne ch’egli si lasciasse vedere da lei, che nessuno avrebbe potuto dir più sinceramente se vi fosse guarigione possibile. Vide, e disperò. Lo esortò allora a morire, ed ella stessa volle essergli compagna nella morte ... a lui si legò e con lui si gettò nel lago. » 27 Senza dubbio queste sono eccezioni, o se si preferisce, dei casi limite in cui il coraggio si esaspera furiosamente e la virtù comincia a soffrire di un eccesso di durezza. Ma oltre a questi casi, quante famiglie teneramente unite, quante spose sempli­ cemente nobili e pure. Anche in Marziale si percorre una gal­ leria di donne perfette. Claudia Rufina « sebbene discenda dai bretoni tatuati » ha un’anima veramente latina. Nigrina « più fortunata di Evadne o d’Alcesti ha meritato di non aver biso­ gno di morire per provare il suo amore ». L ’anima limpida di Sulpicia traspariva dalle sue composizioni letterarie; ella non tratta della frenesia della maga della Colchide, né racconta il banchetto atroce di Tieste; insegna solo casti amori. « Mai donna fu più vivace, mai donna fu più pudica; ella non accet­ terebbe di divenire la sposa di Giove, né l ’amante di Apollo, se le fosse rapito il suo Caleno. » 28 Anche la società femminile che gravita intorno a Plinio il Giovane rivela devozione, di­ stinzione, onestà. Così, la moglie del suo vecchio amico Macrino « sarebbe stata singolarmente esemplare anche in tempi antichi. [Macrino] era vissuto con lei trentanove anni senza mai un litigio, senza uno screzio. Quanta devozione ebbe ella al marito, mentre tanta ne meritava ella stessa! » 29. Anche Pli­ nio il Giovane pare abbia goduto di una perfetta felicità nella sua unione con la terza moglie Calpumia. Quanti elogi le pro­ diga, vantando ora il suo garbo, ora la sua modestia, il suo 105

.imore, pegno di fedeltà, e così pure il gusto per le lettere ma­ turato nel suo affetto per lui. « Quanta ansietà in lei quando sa che debbo parlare in tribunale, quanta letizia dopo che ho parlato! ... Ella, se io faccio una lettura pubblica, siede là dietro una tenda, e con avidissime orecchie ascolta le lodi che ricevo. E anche i miei versi canta, e li armonizza su la cetra, instrutta in ciò non da maestro alcuno ma dall’amore, il mi­ gliore dei maestri. » 30 E così Calpurnia, accanto al marito let­ terato, delinea il tipo moderno della compagna che è un’« as­ sociata ». La sua collaborazione, senza la minima pedanteria, si aggiunge alla grazia della sua giovinezza e ravviva, invece di inaridire, la freschezza dei sentimenti che prova per il marito e che il marito contraccambia. Pare che la più breve separa­ zione infligga ad entrambi una vera sofferenza. Quando Plinio è costretto ad allontanarsi, Calpurnia lo cerca nelle sue opere, che accarezza e colloca nei luoghi in cui ella era abituata a vederlo. E Plinio, da parte sua, quando sua moglie è assente, prende e riprende in mano le lettere di Calpurnia come se fossero arrivate da poco; « . . . passo gran parte della notte senza dormire e vagheggiando la tua immagine ... e durante il giorno nelle ore nelle quali solevo venire a vederti, i miei piedi stessi ...m i portano alle tue stanze, e dalla soglia deserta mi ritiro poi mesto e a fatica come uno che sia stato respinto » 31. Nello scorrere queste missive piene di dolcezza viene sulle prime la tentazione di insorgere contro il pessimismo di un La Rochefoucauld e di smentire la massima che vuole impos­ sibili matrimoni pieni di delizie. Poi, riflettendo, si scopre quanto di convenzionale ci sia in queste effusioni un po’ affet­ tate e letterarie. Nel mondo di Plinio i matrimoni si attuavano più secondo le convenienze che per la forza del sentimento. Anche lui certamente aveva dovuto scegliersi una moglie non diversamente da come aveva accettato di scoprirne una per Minucio Aciliano, considerando non solo i meriti fisici e mo­ rali della prescelta ma anche i suoi legami di parentela e le sue condizioni economiche; perché — confessa Plinio — io dico che non bisogna trascurare questo punto: ne quidem praetereundum esse videtur32. Pare che in Calpurnia egli ami soprattutto l’ammirazione da lei tributata ai suoi scritti e subito si prova l’impressione, per 106

quanto egli sostenga il contrario, che egli si sia facilmente con­ solato delle assenze di cui si lagna, col piacere di limare le pagine in cui con tanta grazia se ne duole. Perché, in realtà, anche quando gli sposi vivevano sotto lo stesso tetto, non erano riuniti, ma avevano, come si dice, camere separate. An­ che nella pace della sua villa in Toscana, Plinio cercava soprat­ tutto la solitudine propizia alle sue meditazioni, e lo vediamo all’alba chiamare presso il proprio letto33 il segretario (notarius) non la moglie Calpumia. Il suo amor coniugale, rego­ lamentato dal codice della buona educazione, era per lui in modo speciale un fatto di mondana cortesia, e noi siamo, da parte nostra, indotti a riconoscere che nel complesso man­ cava terribilmente di calore e di intimità. Rileggiamo, per esempio, le lettere impacciate ch’egli scris­ se al nonno e alla zia di Calpurnia per annunziare nel tempo stesso le speranze di paternità con le quali sua moglie avrebbe dovuto rallegrarlo e il triste caso che le aveva brutalmente infrante M. A Calpurnio Fabato scrive: « Quanto più tu brami di aver da noi dei pronipoti, tanto più ti sarà doloroso rap ­ prendere che tua nipote ha avuto un aborto; che giovine qual è, non sapeva di essere incinta, e perciò non ebbe cura di usare le precauzioni che le gestanti debbono avere, e prese li­ bertà che si debbono evitare; ed ella ha espiato la sua colpa con sofferenze ben ammonitrici, ché ha corso grandissimo pe­ ricolo ». Scrivendo a Calpurnia Ispulla, muta la forma ma non la sostanza delle sue strane spiegazioni: « Gran pericolo in­ vero ella ha corso (sia il detto non infausto per noi!), ma non per colpa sua, sì per colpa della sua età. Da ciò fu causato l’aborto e la dolorosa esperienza di una gravidanza ch’ella ignorava... Scusa dunque tu con tuo padre questo evento, ché le donne son più facili a perdonare ». In verità noi non lo comprendiamo, a meno che non com­ prendiamo troppo bene fino a qual punto Plinio, così attento all’educazione intellettuale della giovane donna, trascurasse in­ vece il resto. C ’è in tutto questo la testimonianza di una fred­ dezza che ci turba, di un distacco che sembra contro natura. È la rivincita di una libertà che si trasforma in indifferenza e di una uguaglianza tra gli sposi nel matrimonio, che qualche volta conduce i migliori tra loro, proprio quelli che avrebbe 107

dovuto ravvicinare, a una specie di egoistico torpore, quando non finisce per gettare gli altri nei capricci e nella perversione. 4. FEMMINISMO E DISSOLUTEZZA Di contro alle eroine dell’aristocrazia imperiale, alle donne irreprensibili e alle madri eccellenti che ancora sono tra le sue file, sarebbe facile in verità opporre le spose « emancipate » o piuttosto « sfrenate » di cui le mutate condizioni del matri­ monio romano hanno prodotto diverse specie: quelle che per non perdere nulla dell’agilità della loro figura eludono i doveri della maternità; quelle che pretendono di non cederla al ma­ rito su nessun punto, e gareggiano con lui perfino nelle prove di forza che sembrano vietate al loro sesso; infine quelle che non contente di vivere la vita al loro fianco, si danno da fare, all’occorrenza, per viverla senza di loro, a prezzo di tra­ dimenti e di abbandoni di cui non si danno più neppur la pena di arrossire. Sia per la volontaria restrizione delle nascite, sia per l’im­ poverirsi della razza, le unioni romane alla fine del primo e al principio del u secolo d. C. furono spesso colpite da sterilità. Ma l’esempio viene dall’alto. A Nerva, imperatore celibe e scelto forse proprio per il suo celibato, succedettero prima Traiano poi Adriano, i quali, pur essendo entrambi sposati, non ebbero figli legittimi. Un consolare come Plinio il Giovane, dai suoi successivi tre matrimoni non ebbe affatto eredi, e il suo patrimonio venne diviso, dopo la sua morte, tra le sue fondazioni caritatevoli e i domestici. La piccola borghesia non era poi più prolifica. Infatti ci ha lasciato migliaia di epitaffi in cui il defunto è pianto dai suoi liberti, in mancanza di eredi. Marziale propone seriamente aH’ammirazione dei suoi lettori Claudia Rufina perché ha avuto tre figli e ci ricorda, proprio nel dedicare a lei l’omaggio di un epigramma specialmente scritto in suo onore, che una matrona di sua conoscenza fu onorata ai giuochi secolari del 47 e dell’88 d. C. per aver avuto cinque figli dal proprio marito. Così ima fecondità che oggi in Francia non meriterebbe né menzione né particolare 108

ricompensa, passava nella Roma di allora per straordinaria e degna dei più vistosi onori. Se in quest’epoca le romane riluttano ad adempiere le fun­ zioni di madre, si abbandonano invece con un ardore che sembra una sfida a ogni sorta di occupazioni che ai tempi della repubblica erano gelosamente riservate agli uomini. Giovenale ha potuto, nella satira sesta, disegnare, a divertimento dei suoi lettori, una serie di ritratti che sfiorano la caricatura, in cui le donne, lasciato il ricamo, le letture, il canto, la lira, si sfor­ zano con la stessa vivacità di assomigliare agli uomini, se non addirittura di superarli in tutti i campi. Ce ne sono di quelle che si tuffano con voluttà negli incartamenti dei processi, o si appassionano di politica, curiose delle notizie di tutto il mondo, ghiotte dei pettegolezzi dell’Urbe e degli intrighi di corte, informate di ciò che avviene fra i traci e i seri, mentre valutano la gravità delle minacce che incombono sul re d ’Ar­ menia o sui parti; tanto impudenti da esporre, in presenza dei mariti muti, con rumorosa sfrontatezza le loro teorie e i loro piani a generali avvolti nel paludamentum. E quelle poi che ai calcoli della diplomazia e all’esercizio della strategia prefe­ riscono la conquista della fama letteraria. Eccole, instancabili e volubili, affettare un ridicolo purismo in greco e in latino, con­ fondere anche a tavola i loro interlocutori con l’esattezza delle loro reminiscenze e la perentorietà dei loro giudizi, « giustifi­ care la morte di Didone... Marone sopra un piatto mettere Della bilancia e sopra l’altro Omero », e, con presunzione che non ammette appello, chiudere la bocca ai grammatici più eru­ diti come ai retori più eloquenti35. Plinio deve aver certa­ mente subito la suggestione della loro erudizione, per poco che ci tornino a mente non solo gli elogi che egli tributa a Calpumia, ma l’entusiasmo da cui è preso per la cultura e i gusti della compagna di Pompeo Saturnino e per le sue missive così graziosamente composte, che si potrebbero scambiare « per un Plauto o un Terenzio in prosa » 36. Giovenale, invece, la cui filosofia sarebbe stata adottata dal buon Chrysale di Molière, non può soffrire queste précieuses e paragona il loro cicaleccio al frastuono del calderotto e delle campanelle; egli aborre queste « preziose » che applicano il metodo di Palemone senza mai sbagliare una regola di lingua, e, a loro disdoro, vanta i meriti 109

della donna « che non usa un lambiccato Stile... e non co­ nosca Le istorie tutte: poche cose sole Sappia dai libri, e che neppur capisca » 31. Questo per le intellettuali; le « sportive », poi, hanno il dono di scatenare il poeta delle satire ancor più delle bas bleu. Ai nostri giorni Giovenale avrebbe certamente vituperato le autiste e le aviatrici, egli che non risparmia i suoi sarcasmi né alle sue contemporanee che si uniscono alle partite di caccia degli uomini — e che, come Mevia, lancia in pugno e seno scoperto, « trafiggono i cinghiali d’Etruria » — , né a quelle che in abito mascolino assistono alle corse di bighe, né soprat­ tutto a quelle che si appassionano alla scherma e alla lotta. E sogghignando rievoca il ceroma di cui si spalmano, l’equipag­ giamento di cui si servono: endromidi, bracciali, cosciali, baitei, pennacchi, e gli esercizi violenti in cui si spossano. « Vedi come fremente ella rifaccia Gli appresi colpi... e chi non vide Le ammaccature da lor fatte al palo? Ecco, lo intacca a colpi di bastone, Con lo scudo l’assale... E forse in petto qualcosa di più alto ella vagheggia, E per la vera arena si prepara. » Taluni forse che oggi ammirano tanti valorosi records femmi­ nili alzeranno le spalle e accuseranno Giovenale di filisteismo e di limitatezza di spirito, ma dobbiamo almeno convenire che la cronaca scandalosa del suo tempo giustificava i timori ch’egli manifestava in questo preoccupato interrogativo: « Quale pu­ dore aver potrà la donna Che il suo sesso rinnega e cinge Telmo? ». Il femminismo che trionfa in epoca imperiale non ha recato null’altro che vantaggio e superiorità; ed era fatale che, a copiare gli uomini troppo da vicino, la donna romana finisse per assumerne i vizi più che la natura non concedesse a lei di assumerne la forza38. Già da tre secoli le matrone erano commensali dei loro sposi ai banchetti; quando poi divennero loro concorrenti nelle palestre, si misero naturalmente al loro regime di atleti, e a tavola tennero testa ai loro mariti nello stesso modo che con­ tendevano loro la palma nell’arena. Fu allora che anche le donne che non avevano la scusa dello sport, presero l’abitudine di bere e di mangiare come se ci si dedicassero tutti i giorni. Petronio ci mostra Fortunata, la grassa moglie di Trimalcione, ingozzata di cibo e di vino, la lingua pastosa, la mente anneb110

biata, lo sguardo offuscato dall’ubriachezza. Le grandi dame o quelle reputate tali per via del loro denaro, che vengono sfer­ zate nelle satire di Giovenale, ostentano senza vergogna una ingordigia disgustosa. Una di queste prolunga le sue libagioni fino a tarda notte e « grandi ostriche morde, Quando nel puro vin falerno infusi G li aròmati spumeggiano, e il soffitto Si muove qua e là vertiginoso, E su la mensa doppi paion i lumi ». Un’altra, sprofondata ancora più in basso nell’abie­ zione, « giunge, alfine, Rubicondetta, cupida di bere Tutto il boccale che dall’urna empiuto Le vien posto davanti, ed anzi un altro Sestario, prima di mangiar, ne asciuga Per eccitarsi il rabido appetito, Fin che vomita e con la lavatura Dello sto­ maco insozza il pavimento ... come Lunga serpe caduta in ima botte, Ella beve e poi vomita. E il marito Tutto n’è stoma­ cato e, pur strizzando Gli occhi, si sforza di frenar la bile » 39. Certo queste erano ributtanti eccezioni; ma è già tròppo che il poeta si sia ritenuto autorizzato a farne dei tipi, che i suoi lettori credevano di riconoscere senza sforzo; e, del resto, è evidente che l’indipendenza di cui godevano allora le donne romane ha spesso raggiunto la licenza dei costumi, e, dato il loro libertinaggio, ha prodotto la dissoluzione dei legami fami­ liari. Esse cominciavano col vivere da semplici coinquiline dei loro mariti: Vivit tamquam vicina mariti40

In seguito non tardavano a tradir la fede che avrebbero dovuto prometter loro, e che molte, nello sposarsi, avevano avuto il cinismo di rifiutare. « Vivere vitam » era una formula che nel n secolo d. C. era già divenuta di moda. « S ’era detto — escla­ ma una di loro al marito — Che tu facessi quello che ti piace E potessi anch’io fare a mio talento; Se pur tu gridi e mare e ciel confonda, Io son di carne! »: Ut faceres tu quod velles, nec non ego possem Indulgere mihi; clames licet et mare caelo Confundas, homo sum 41.

Però non si parla di adulterio solo negli Epigrammi di Mar­ ziale e nelle Satire di Giovenale. Nella casta corrispondenza di Il i

Plinio il Giovane, un’intera lettera è dedicata al racconto delle peripezie del processo, che Traiano concluse bruscamente in qualità di capo supremo dell’esercito, contro un centurione colpevole d ’aver sedotto la moglie di un suo superiore, tribuno senatorio della legione nella quale egli stesso militava. E d ò che in questa circostanza sconcerta Plinio, come ima stranezza, non è certamente l’adulterio in se stesso, ma il concorso di cir­ costanze impreviste che lo accompagnarono: il caso di flagrante indisciplina ch’esso costituiva e che aveva subito portato come conseguenza la destituzione del centurione; la titubanza da parte del tribuno a reclamare per il proprio onore la condanna che sua moglie meritava e che l’imperatore dovette in qualche modo prodamare d ’ufficio42. È chiaro che gli infortuni coniugali non si contavano più in una città dove Giovenale scongiura con disinvoltura, come cosa ovvia, l’amico che ha invitato a desinare di dimenticare alla sua tavola gli affanni che lo hanno tormentato tutta la giornata e specialmente quelli che gli provengono dai maneggi di sua moglie abituata ad uscire all’alba per rientrare a casa solo « a notte... con le chiome scompigliate e col volto e le orecchie tutte accese » 43. Invano Augusto, cento anni prima, aveva tentato di infie­ rire contro gli amori colpevoli, creando ima legge che mandava in esilio gli adulteri, li privava della metà dei loro beni e in­ terdiceva per sempre il matrimonio tra loro. Certo con questo — dal punto di vista moderno — egli veniva a segnare un pro­ gresso incontestabile sull’antico diritto. Per- esempio, ai tempi di Catone il Censore i romani consideravano l ’errore di ima donna come un delitto che il marito oltraggiato poteva punire con la morte, ma consideravano trascurabile l’errore del ma­ rito, e questo veniva rinviato senza punizione, come se fosse innocente. La legislazione imperiale era nello stesso tempo più umana perché toglieva al marito il diritto di farsi giustizia da sé con crudeltà, e più giusta perché ripartiva le sanzioni tra i due sessi. Ma il fatto che essa avesse reso oggetto di diritto penale l’adulterio è già un indice della frequenza con cui gli adulterii venivano commessi, e d ’altra parte è poi certo che non riuscì affatto a farli diminuire44. Alla fine del primo se­ colo d. C. la lex lulia de adulteriis era quasi dimenticata, tanto 112

che Domiziano per applicarla fu costretto a rinnovarne solen nemente le disposizioni. Certo, Marziale non sa più che lodi cortigiane inventare per questo « editto sacro del più grande dei capi » cui Roma, a sentir lui, doveva più che ai suoi trionfi, perché ad essa aveva restituito il pudore: Plus debet tibi Roma quod pudica est 4S

Ma pare che, una volta scomparso Domiziano, le sue disposi zioni siano andate a far compagnia alla lex Iulia nella polvere degli archivi e nell’indifferenza dei magistrati. Qualche anno dopo, Giovenale osa dileggiarne l’autore, « quell’adultero mac chiato Di tragici concubiti, che poi Per tutti richiamò leggi severe Che avrebber Marte e Venere atterriti » 46. E due gene­ razioni dopo di Giovenale, era caduta in tale discredito che Settimio Severo dovette rivedere l’opera di Domiziano47, come Domiziano aveva tentato di fare con quella di Augusto. A dire il vero, se il numero degli adultèri è diminuito nel u secolo non è certo per la severità che una legislazione intermittente adoperava contro di essi, ma, al contrario, perché le facilita­ zioni al divorzio, li avevano in qualche modo legittimati in anticipo.

5 l DIVORZI E [/INSTABILITÀ DELLA FAMIGLIA Mai il matrimonio romano è stato indissolubile, neppure nei tempi leggendari, cui la Roma classica amava riportarsi col pensiero per scoprirvi un’immagine di sé più vicina a quel­ l’ideale che s’era venuto formando di se stessa, ma da cui la realtà la portava sempre più lontana. Nel matrimonio cum manti dei primi secoli dell’Urbe, se il ripudio del marito da parte della donna posta sotto la sua autorità era una assoluta impossibilità, al contrario il ripudio della donna da parte del marito era un diritto connesso al potere di cui egli era investito su di lei. Solo che la pratica, senza dubbio nell’interesse della stabilità della famiglia, aveva portato qualche attenuazione al l’applicazione del principio, e fino al in secolo a. C. — come possiamo rilevare dagli esempi concreti che la tradizione ci ha conservati — , il ripudio resta di fatto subordinato a un errore

113

imputabile alla donna e condannato da un consiglio tenuto dalla famiglia del marito. Le Dodici Tavole ci hanno probabil­ mente trasmesso un estratto della formula di questa condanna collettiva, che permetteva al marito di esigere dalla donna le chiavi della casa, eh’essa aveva retto da padrona e di cui stava per essere spossessata senza appello: claves adertiti, exegti45. Nel 307 a. C., i censori spogliarono un senatore della sua di­ gnità, perché aveva scacciato la sua donna, senza aver prima provocato il giudizio del suo tribunale domestico49; e un se­ colo dopo, nel 235 a. C., il senatore Spurio Carvilio Ruga scan­ dalizzava ancora i suoi colleghi ripudiando la moglie, cui non aveva nessun torto da rimproverare, per la semplice ragione che non gli aveva dato figli50. Ma cose di questo genere sfuggirono ben presto al biasimo in cui erano incorse, e nelle generazioni seguenti i romani si diedero, senza che nessuno si sdegnasse o invocasse rigori, a sbarazzarsi delle loro mogli senza l’ombra di un serio motivo: di una perché era uscita col viso scoperto, di un’altra perché si era fermata nella strada a discorrere con una liberta, donna di cattiva fama; di un’altra infine perché si era recata senza permesso ai giuochi pubblici51. Sarebbe stato meglio fare a meno di qualsiasi pretesto anziché ricorrere a pretesti così meschini; e alla fine della repubblica, mentre i mariti avevano usurpato la facoltà di annullare a loro beneplacito le unioni che avevano concluso, avvenne che il matrimonio sine manu accordò simultaneamente tale facoltà alla donna. Se questa era passata a matrimonio sotto l’autorità dei suoi ascendenti o dei suoi più stretti agnati, i mariti non avevano in verità che da dire una sola parola per rompere i legami e ricondurla a casa di costoro: abducere uxorem. Se poi, per aver perduto i genitori, essa non dipendeva che da se stessa e faceva uso del suo diritto (sui juris), era lei che poteva con una parola rom pere il matrimonio52. A tal punto e con tanta facilità che al tempo di Cicerone il divorzio per consenso dei due coniugi o per la volontà d ’uno solo era divenuta la moneta corrente delle relazioni familiari. Siila, già vecchio, aveva sposato in quinte nozze una giovane divorziata, Valeria, sorellastra dell’oratore O rtensio53. Pompeo, due volte vedovo, di Emilia e di Giulia, aveva prima di quella

114

e dopo di questa divorziato due volte: prima da Antistia di cui aveva chiesto la mano per conciliarsi il favore del pretore da cui dipendeva la presa di possesso della immensa eredità paterna, ma le cui relazioni rischiarono in seguito di inceppare la sua carriera politica; poi da Mucia, la cui condotta aveva lasciato a desiderare durante la sua lunga assenza per le cam­ pagne d ’oltrem are54. Vedovo di Cornelia, Cesare ripudiò Pom­ pea, ch’egli aveva sposato dopo la morte della figlia di Cinna, per il semplice motivo che, sebbene innocente, sulla moglie di Cesare non doveva cadere neppure il sospetto55. Il virtuoso Catone Uticense, dopo essersi separato da Marcia, non si vergognò affatto di riprenderla, quando al patrimonio ch’ella possedeva in proprio si aggiunse quello d’Ortensio, ch’essa aveva sposato e perduto nell’intervallo56. E Cicerone, senza tante false vergogne, arrivato all’età di cinquantasette anni, non esitò affatto, per ristabilire le sue finanze con la dote della giovane e ricca Publilia, a mandar via dopo trent’anni di vita in comune la madre dei suoi figli, Terenzia, la quale, d ’altra parte, pare che abbia sopportato allegramente la disgrazia, giacché si rimaritò due volte ancora, prima con Sallustio poi con Messala Corvino, e morì più che centenaria57. A questo punto si assiste, almeno nell’aristocrazia quale emerge dai nostri documenti, a un’epidemia di separazioni coniugali, e, malgrado le leggi di Augusto o piuttosto proprio a causa di queste, il contagio tende a diventare epidemico du­ rante l’impero. Il fatto è che Augusto, con la sua lex de ordìnibus maritandis, non aveva mirato ad altro che a frenare la denatalità nelle classi elevate, e che, se con l’espediente delle incapacità con le quali intendeva colpire i refrattari, aveva fatto pressione sui divorziati per indurli a rimaritarsi, egli non aveva per nulla cercato di impedire Ì divorzi, che potevano quasi subito sostituire unioni meglio assortite e più feconde a quelle malriuscite che essi scioglievano. Aveva vietato la rot­ tura dei fidanzamenti perché si era accorto che una serie di fidanzamenti sciolti a capriccio, uno dopo l’altro, era il mezzo di cui gli scapoli incalliti si servivano per rimandare indefini­ tamente nozze sempre annunziate e mai celebrate, in modo da eludere i suoi ordini nonché le sanzioni minacciate ai recai citranti58. 115

Augusto non aveva potuto, certamente non aveva neppure voluto, impedire i divorzi. Si accontentò di regolarizzarne la procedura. In principio ammise che la volontà di uno dei coniugi fosse sufficiente, come prima, per attuare il divorzio, e volle soltanto che tale volontà fosse espressa in presenza di sette testimoni e notificata da un messaggio di cui era abituale la­ tore un liberto della casa. In seguito ritenne giusto permettere alla donna ripudiata di rivendicare, mediante un’azione civile detta actio rei uxoriae, la propria dote, anche nell’ipotesi in cui essa o i suoi parenti — per leggerezza o per eccesso di fiducia — non avessero preso la precauzione di prevedere nel contratto la restituzione in caso di rottura; e tale restituzione le fu d’allora in poi concessa ad esclusione di quei beni dotali di cui il giudice accordava al marito la « ritenzione », sia a titolo di soccorso per l’allevamento dei figli rimasti a suo carico (propter liberos), sia a titolo d’indennità per i danni ch’essa gli aveva causato per sciupio (propter impensas), per malversazioni (propter res amotas) o per la sua cattiva condotta ( propter m ores)59. Promulgando tali leggi, Augusto aveva ob­ bedito a quel medesimo impulso che lo aveva spinto a sottrarre all’amministrazione del marito le porzioni di doti investite in terre italiche. Nell’un caso e nell’altro quello ch’egli cercava di difendere nelle doti delle donne, perpetua attrazione dei pretendenti, era la possibilità di un nuovo matrimonio. Ma avvenne che questi suoi programmi, esattamente conformi alla sua politica demografica, e d ’altra parte socialmente inattacca bili, affrettarono — conseguenza ch’egli avrebbe dovuto pre vedere — la rovina dello spirito familiare presso i romani. Perché se la paura di perdere una dote doveva spingere il marito a tenersi la moglie che aveva scelto proprio in vista di quella dote, nulla di buono poteva derivare da un senti mento così meschino. Tale avidità a poco a poco prolungava l’asservimento del marito alla sposa ricca, di cui parla Orazio .. dotata regit virum coniunx 60

Ma abbassando continuamente la dignità del matrimonio, l’avi dità riusciva a mantenerne la coesione, solo fino a quando 116

l’uomo stanco della moglie acquistava la certezza di poterne ritrovare in poco tempo un’altra più riccamente dotata. Sicché date tali condizioni — di cui una legislazione troppo vantata deve portare la sua parte di responsabilità — , non è il caso di meravigliarsi se durante i primi due secoli dell’impero, i testi latini non fanno che mostrare matrimoni o provvisoria­ mente cementati dal denaro o disciolti malgrado il denaro e qualche volta proprio a motivo di questo. La matrona — padrona dell’amministrazione dei suoi propri beni in grazia del suo stato di coniugata sine manu, sicura, per le leggi giulie, di ritrovare il capitale se non la dote integra, che il marito non è più libero di gestire in Italia senza il suo consenso, né di ipotecare, sia pure in parte minima e fosse pure con la sua adesione61 — somiglia a quelle americane della Quinta Avenue che impongono ai loro mariti la tirannide dei loro dollari. Guidata a dovere dall’intendente che l’assiste con i suoi consigli e l’assedia con le sue premure — quel procurator ricciutello che si vede sempre, sotto Domiziano, a fianco della moglie di M ariano62 — traffica, agisce, comanda e. come constata Giovenale, il marito « nulla donar potrà s’ella non voglia. Nulla senza di lei vendere, Nulla comperar giam­ mai s’ella s’opponga » 63. E mentre il poeta dice che non c’è nulla al mondo di più insopportabile di una donna ricca: Intolerabilius nihil est quam femina dives64.

Marziale spiega a sua volta che non si adatterebbe mai a una moglie ricca perché non intende essere soffocato sotto il velo nuziale: Uxorem qua re locupletem ducere nolim Quaeritis? Uxori nubere nolo meae65

Ma gli uomini prigionieri di una dote e non della tene­ rezza femminile quando non venivano congedati dalla loro so­ vrana, presto o tardi fuggivano da un matrimonio dorato per rifugiarsi in un altro, e nell’Urbe come a corte gli inconsi­ stenti matrimoni della Roma imperiale continuarono a scom­ binarsi, o se si preferisce, a sciogliersi e a riannodarsi, e così di seguito fino alla vecchiezza e alla morte. 117

Quel liberto che la legge di Augusto aveva incaricato di trasmettere a chi di dovere l’ordine scritto della separazione non aveva mai avuto così poco respiro, e Giovenale nelle sue satire ce ne descrive la figura affaccendata: « Se tre rughe le nascono ... “ Prendi i tuoi cenci ” , le dirà un liberto, “ E vat­ tene ” » 66. Nei casi di questo genere, alla sposa ripudiata non restava altro che obbedire al comando, del quale il poeta ha leggermente modificato la formula, mentre Gaio ce ne ha con­ servato l’espressione giuridica: tuas res tibí agito, « Portati via la tua roba », avendo cioè cura di non portar via nulla di ciò che apparteneva in proprio al marito e di cui ella partendo gli riconosceva la proprietà: « Tienti la roba tua »: tuas res tibí habeto 67. Però non bisogna credere che l’iniziativa del divorzio fosse sempre riservata all’uomo. Le donne a loro volta ripudiavano i mariti e, dopo aver senza misericordia dettato legge, li ab­ bandonavano senza scrupoli, come la volubile sposa che Giove­ nale ci segnala e che aveva raggiunto la cifra di otto mariti nello spazio di cinque autunni68; o la Telesilla citata da Mar­ ziale, la quale trenta giorni dopo che Domiziano ebbe rimesso in vigore le leggi giulie, aveva sposato il suo decimo m arito69. Inutilmente i Cesari ora offrivano ai loro sudditi l’esempio della loro monogamia; questi, piuttosto che imitare Traiano e Plotina, Adriano e Sabina, Antonino e Faustina, legati l’uno all’altra per la vita, preferivano imitare gli imperatori prece­ denti, i quali tutti, e perfino Augusto, avevano divorziato una o più volte. La vicenda era così frequente che spesso — come ci fanno sapere i giureconsulti del tempo — le sorprese di tali divorzi in serie riconduce vano la bella e la sua dote, dopo parecchie stazioni intermediarie, al suo primo le tto 70. Perfino le ragioni che oggi legherebbero una donna di cuore alla sorte del marito, la vecchiezza, la malattia, la partenza per il fronte, erano cinicamente addotte da quelle come motivi per abban­ donare il loro focolare71 e — sintomo più grave di corru­ zione — non venivano condannate dalla pubblica opinione, inumana e indifferente. Così nella Roma degli Antonini — che, a questo riguardo, somiglia a Reno, Nevada — le parole di Seneca restavano crudelmente vere: « Nessuna donna aveva da arrossire per rompere il matrimonio, dato che le dame più 118

illustri avevano preso l’abitudine di contare i loro anni, non dal nome dei consoli, ma da quello dei loro mariti. Esse divor­ ziano per maritarsi; si maritano per divorziare »: exeuttt matrimonii causa, nubunt repudii72. Quanto siamo lontani dal quadro edificante che ci offriva la famiglia romana al tempo eroico della repubblica! Quel blocco senza incrinature si è disgregato in ogni sua parte: la donna era strettamente sottomessa all’autorità del suo signore e pa­ drone; ora lo eguaglia, gli fa concorrenza, quando non lo do­ m ina73. Era posta sotto un regime di comunità di beni e ora vive sotto un regime di separazione quasi completa. Allora an­ dava superba della sua fecondità, ora la teme; era fedele ed ora è volubile e depravata74. I divorzi erano rari e ora si suc­ cedono con un ritmo così rapido che il ricorrervi con tanta disinvoltura equivale, come dice Marziale, a un praticare l’adul­ terio legale: Quae nubit totiens, non nubit: adultera lege e st75.

Capitolo Terzo L’EDUCAZIONE, LA CULTURA, LE CREDENZE OMBRE E LUCÍ

1 SINTOMI DI DECOMPOSIZIONE Altre cause, oltre le leggi, hanno fatto precipitare tale de­ cadenza o piuttosto determinato tale capovolgimento dei va­ lori della famiglia. Ci sono i motivi economici, derivati dalla malefica potenza delle ricchezze male acquistate e peggio ripartite, che abbiamo precedentemente denunciati. Ci sono i motivi sociali dovuti ai veleni perniciosi, che il contatto della schiavitù inocula ai po­ poli liberi. E finalmente, e soprattutto, ci sono i motivi morali dovuti al disordine degli spiriti in ima città cosmopolita, in cui a volta a volta l’indifferenza più piatta e le superstizioni più grossolane si opponevano al puro slancio delle nuove mi stiche. Nei primi venticinque anni del n secolo d. C., illustrati dalle vittorie di Traiano, prigionieri e prigioniere, confluendo a migliaia dalla Dacia, dall’Arabia e dalle lontane rive dell’Eufrate e del Tigri, avevano inondato i mercati e le case deli'Urbs. E subito si aggravarono in Roma gli inconvenienti cor­ relativi al dilagare della schiavitù, e la società imperiale esperimentò quella legge di natura per cui la schiavitù in tutti i tempi e in tutti i paesi in cui è largamente praticata, abbassa e contamina il matrimonio quando addirittura non lo sopprime. I ricchi romani che, anche quando non erano corrotti, si sgomentavano di fronte alla prospettiva di una esistenza du­ rante la quale avrebbero dovuto lottare o fare i conti ogni giorno con la volontà di una moglie legittima, preferivano alle giuste nozze il facile concubinato, di cui Augusto aveva fatto

120

un’unione inferiore ma lecita *, che l’opinione pubblica non giudicava affatto sfavorevolmente, ed in cui si doveva ben presto rifugiare, dopo che rimase vedovo, il saggio coronato, l’imperatore Marco Aurelio2. Essi affrancavano a bella posta una schiava prediletta, persuasi che per Yobsequium dovuto dalla liberta al patrono, costei sarebbe rimasta sempre docile e fedele, sapendo che anche se dall’unione fossero nati dei figli, sarebbe stato sufficiente adottarli per cancellare la loro condi zione di bastardi. E tuttavia è probabile che essi rinunciassero spesso a com­ piere una formalità i cui effetti rischiavano di diminuire la loro autorità. La moltitudine di epitaffi in cui un marito e sua moglie, che è nel tempo stesso sua liberta, riservano l’accesso alla loro tomba non ai loro eredi, ma ai loro liberti, ci lascia supporre che in certi casi — in cui non era que­ stione di sterilità — questi sposi di secondo grado, ave­ vano preferito ad una adrogatio in piena regola dei loro di­ scendenti una semplice manumissio successivamente comple­ tata con parti di eredità stabilite nei loro testamenti. Si vide, così, infiltrarsi alla spicciolata nelle migliori famiglie dell’Urbe un vero « meticciato », condizione che — analogamente a quel­ la di cui altri popoli schiavisti hanno subito più recentemente la contaminazione — accentuò inevitabilmente i fenomeni di decomposizione nazionale e sociale che erano derivati, un po’ dappertutto, dal grande numero delle manomissioni romane. Se non altro i cittadini riuscivano all’occorrenza a salvare le apparenze, conservando alla loro condotta un minimo di decenza esteriore. Ma parecchi tra loro, e non dei meno auto­ revoli, ritenevano ancora troppo rigide e pesanti le catene — davvero leggerissime — del concubinato regolare. Unica­ mente preoccupati dei loro agi e dei loro piaceri, altrettanto indifferenti ai doveri della loro condizione e alla dignità ri­ chiesta dagli onori di cui erano coperti, giudicavano più piace­ vole regnare da pascià sugli harem di schiave che potevano mantenere con le loro ricchezze. Quando un collega al senato di Plinio il Giovane, l’ex pretore Larcio Macedone fu as­ sassinato da un gruppo di suoi schiavi malcontenti, la turba delle sue « odalische » fu vista accorrere gridando e urlando di dolore presso il suo cadavere: concubinae cum ululatu et 121

clamore concurrunt3. Infine la presenza degli schiavi non tardò a introdurre gravi elementi di turbamento anche nelle unioni legittime. Quante frecce lanciate da Marziale agli adultèri a domicilio, sia che motteggi il padrone che riscatta la schiava di cui non può fare a meno come amante, sia che designi con sottintesi la grande dama, che, incapricciatasi del suo parruc­ chiere, lo affranca e gli versa l’equivalente del censo equestre; sia ch’egli nomini la Marnila, i cui numerosi figli attribuisce non a Cinna, suo marito, ma al suo cuoco, al suo inten­ dente, al suo pasticciere, al suo flautista e perfino al suo pugilatore e al suo buffone. Senza dubbio questi epigrammi pren­ dono di mira i più vistosi tra gli scandali di Roma, ma il tema sarebbe stato trattato con minor diffusione se i fatti fos­ sero stati più rari, e la lettura dei poeti di questa epoca ci dà l’impressione che in molte dimore allora doveva capitare di sentire scambiare le invettive cui si richiama il distico: Ancillariolum tua te vocat uxor, et ipsa Lecticariola est...

« Tipo da serve, dice che sei Tua moglie. Quanto a lei È da lettigari. » 4 Risulta evidente che gli abusi dovuti alla schiavitù por­ tarono al rilassamento della morale fino nelle famiglie privi­ legiate, dove gli amori ancillari erano banditi. Più che la bassa prostituzione delle « lupe », che, al cader della notte, frequentavano le vie dei sobborghi dietro le tom be5, il con­ tatto con i concubinati che avevano invaso le migliori case, l’atmosfera di rilassatezza e di sfrontatezza che tanti legami servili creavano intorno a loro, avevano degradato il matri­ monio, e gli sposi stessi non lo consideravano più, a loro volta, nient’altro che un’esperienza anodina e passeggera. E cosi, per resistere all’avvilente contagio i romani avrebbero avuto biso­ gno della forza di un ideale che — se si escludono alarne po­ tenti individualità, certe scuole filosofiche e sètte di veri cre­ denti — la loro intelligenza infiacchita da una cultura troppo elementare, superficiale e verbale, non era ormai in grado di concepire più che la loro fede vacillante non fosse capace di attuare.

122

2 . LA SCUOLA PRIMARIA La cura dei figli, vera salvaguardia della donna, sfuggiva alla matrona non appena essi uscivano dalla fanciullezza. .Cor­ nelia, madre dei Gracchi, resta solitaria nella sua gloria. Nei secoli austeri della repubblica Catone il Censore rivendica a sé la formazione del figlio, cui si vantava di avere insegnato a leggere, a scrivere, a combattere e a nuotare; e sotto l’impero si dovette attendere il regno di Antonino Pio perché i giudici, posti dinanzi alle prove di indegnità di un padre, avessero il diritto di affidare alla madre la custodia dei figli, senza tuttavia pronunciare l’interdizione6. D ’altra parte, in tutti i casi, non appena i figli si facevano grandi, la madre si disimpegnava naturalmente dalle cure della loro educazione. La donna ricca li affidava alle mani del pedagogo di fama, che aveva avuto modo di comprare a peso d’oro, e credeva di aver compiuto il suo dovere verso di loro quando aveva circondato tale scelta definitiva di tutte le precauzioni desiderabili e di consigli auto­ rizzati 7. Quanto alle madri povere, si liberavano dei figli man­ dandoli in una di quelle scuole private che certi professionisti avevano aperte nell’Urbe verso la fine del u secolo a. C. e che in quel momento abbondavano in Roma. Queste abitudini erano gravemente dannose per tutti. In primo luogo, l’ozio profondo era divenuto funesto per le donne, come dice Plinio il Giovane. Alcune, le peggiori, tro­ vavano nella loro inoperosità un incitamento e una scusa alla dissolutezza; altre, le più oneste, cercavano di darsi da fare con quegli entusiasmi fittizi nei quali le abbiam viste disperdersi, o ingannavano l’ozio con l’agitazione e le ciarle dei clubs in cui si riunivano8, a meno che non si rassegnassero a sprofondare nel beato torpore del gineceo, come la vecchia Ummidia Quadratilla, che, fino alla morte sopraggiunta intorno agli ottant’anni, aveva passato le giornate in cui non poteva recarsi ai giuochi pubblici a muovere pedine su di una scac­ chiera o a far esibire solo per sé i mimi di cui aveva popolato la sua c a sa9. In secondo luogo, e soprattutto, i figli pativano gravemente 123

di questa specie di abbandono materno. In ogni caso, quelli che avevano rincarico di allevarli erano in realtà loro inferiori, schiavi o, nelTipotesi più favorevole, liberti, e lo scandaloso paradosso portava a conseguenze disastrose. Se l’allievo appar­ teneva a una famiglia ricca aveva tutto l’agio di respingere il sedicente maestro al suo posto di subalterno, che era poi quello di un domestico, anche se precettore. G ià Plauto nelle sue Bacchides aveva messo in iscena un precoce adolescente, Pistoclero, il quale per trascinare il suo pedagogo Lido in casa della sua amante, aveva solo dovuto ricordargli l’umiltà della condizione servile. « Sono io tuo servo — gli diceva — , o tu mio? » 10 La domanda non aveva bisogno di risposta, e più di un magister di Roma dovette, come nota finemente Gaston Boissier, sentirsi ripetere la frase di Pistoclero. Se poi si trattava di fanciulli di origine modesta, questi non avevano considerazione alcuna per l’istitutore di bassa condizione di cui frequentavano la scuola, e che, retribuito con un salario irrisorio di 8 asses a testa al mese, costretto a ricercare un aiuto finanziario nelle infime incombenze di scri­ vano pubblico n, non aveva di fronte a loro altra autorità che quella conferita dallo staffile o dalla ferula che i successori dello staffilatore Orbilio, che aveva terrorizzato Orazio, applicavano con tanto vigore ancora al tempo di Marziale o di Giovenale n . La professione era notoriamente screditata: gli annalisti dell’inizio del primo secolo a. C. avevano inventato — certo per l’antipatia che quella ispirava — per il magister di Faleri, il primo in ordine di tempo dei maestri di scuola della storia romana, un ruolo ingrato di traditore da teatro13. Sotto l ’im­ pero i pedagoghi non godevano di reputazione migliore, e certi ben pensanti non erano lontani dal guardarli come rifiuti della società M. In realtà, si discemono senza fatica le ragioni che concor­ revano ad incanaglirli: l’indifferenza dello stato che non con­ trollava affatto la loro attività e non si degnò di retribuirli direttamente se non nel 425 d. C., e a Bisanzio, quindici anni dopo il sacco di Roma da parte di A larico1S; le condizioni di­ sagiate in cui si erano abituati di prestare il loro insegna­ mento a ragazze e ragazzi ritmiti insieme nello stesso lo­ cale stretto e scomodo, senza distinzione di età o di sesso: 124

le ragazze dai sette ai tredici anni, i ragazzi dai sette ai quin­ dici anni; la brutalità della disciplina cui erano indotti da quella riunione eteroclita, e che per l’abuso dei castighi corpo­ rali provocava sempre l’ipocrisia e la viltà degli allievi, e sve gliava qualche volta il sadismo del maestro. « Il dolore e la paura — testimonia tristemente Quintiliano — fanno fare ai fanciulli cose che non si possono onestamente riferire e che ben presto li coprono di vergogna. Accade di peggio se si è trascurato di indagare sui costumi dei sorveglianti e dei mae­ stri. Non oso dire le infamie cui uomini abominevoli si la­ sciano andare in base al loro diritto di punizione corporale, né gli attentati, di cui la paura dei disgraziati fanciulli suscita qualche volta l’occasione in altri: credo di aver detto anche troppo: nimium est qtiod intellegitur... » 16 Avvenne così che il ludus litterarius, la scuola primaria romana, poteva guastare la giovinezza che avrebbe dovuto istruire, e invece era ben raro che facesse veramente sentire la bellezza dell’apprendere Le lezioni, iniziate all’alba, continuate senza interruzione fino a mezzogiorno, tenute sotto la pensilina di una bottega, sopraffatte dal rumore della strada — dalla quale le classi erano separate solo da teli di tenda, e molto sommariamente mobiliate da una cattedra per il maestro, da banchi o sgabelli per gli allievi, da una lavagna, da tavolette, da qualche ab­ baco — si protraevano, senza altre interruzioni che le nundinae, i Quinquatrus e le vacanze estive, per tutti i giorni dell’anno con una monotonia esasperante. L ’ambizione del mae stro si limitava a insegnare meccanicamente agli allievi a leg­ gere, a scrivere e a far di conto, e poiché per questo disponeva di parecchi anni, non si preoccupava affatto di perfezionare i suoi metodi approssimativi o piuttosto di rinnovare i suoi triti programmi. Così, con un procedimento che Quintiliano condanna, insegnava ai suoi allievi il nome e l’ordine delle lettere prima di mostrarne la forma, e quando i suoi allievi erano penosamente arrivati a distinguere i caratteri dalla forma esteriore, bisognava ancora che con un nuovo sforzo, li riunis­ sero in sillabe e in parole17. Il loro apprendimento era come rallentato a bella posta; e quando passavano alla scrittura, gli allievi si trovavano di fronte agli stessi meccanismi irrazionali e faticosi. Di punto in 125

bianco venivano posti alla presenza di un modello; e poiché nulla li aveva predisposti a riprodurlo, bisognava che le loro dita fossero tenute tra quelle del maestro e guidate dalla mano altrui per tracciare i contorni dell’abbozzo che veniva loro proposto. Innumerevoli sedute si susseguivano perciò prima che possedessero l’abilità voluta per eseguire da soli questo semplice com pito18. Infine, Io studio dell’aritmetica non domandava più riflessione né recava loro maggiore sod­ disfazione. Passavano ore a contare le unità sulle dita, imo e due sulla mano destra, tre e quattro sulla mano sinistra, dopo di che si dedicavano al calcolo delle decine, delle centi­ naia e delle migliaia facendo scorrere dei sassolini o calculi sulle linee corrispondenti degli abbachi19. Risulta come certamente provato — non foss’altro dal­ l’iscrizione di Aljustrel — che i prìncipi del li secolo d. C., e in particolare Adriano, videro di buon occhio la diffusione delle scuole primarie nelle più lontane province del loro im­ pero e che incoraggiavano con immunità fiscali i pedagoghi di buona volontà a stabilirsi in villaggi sperduti in fondo a qual­ che distretto minerario, come quello di Vipasca in Lusitania 20. Senza dubbio, poi, è probabile che le lagnanze di Quinti­ liano siano state progressivamente ascoltate, e che l ’esempio di certi « pedagoghi » di illustri famiglie venisse più o meno imitato, quale in particolar modo quello che Erode Attico aveva procurato al figlio, e che per levare d ’impiccio più pre­ sto il proprio allievo divertendolo, pensò non solo di offrirgli un alfabeto di avorio o di pasta dolce, ma pensò anche di far sfilare e manovrare sotto i suoi occhi degli schiavi ognuno dei quali portava sul dorso, su di un immenso cartello, il segno in proporzioni gigantesche di una delle ventiquattro lettere la­ tin e21. Ma per un maestro che tentava di uscire dai vecchi metodi, quanti invece vi restavano impigliati! E nella molti­ tudine dei ludi litterarii che si moltiplicarono nel u secolo d. C. quanti vennero meno alla missione educatrice che costi­ tuiva un loro preciso dovere verso i figli dei cittadini. In com­ plesso, dobbiam pure riconoscere che, anche nel periodo mi­ gliore dell’impero, le numerose scuole che vi si diffusero non assolsero affatto quei compiti che noi affidiamo alle nostre scuole. 126

Esse indebolivano la moralità invece di accrescerla; morti ficavano i corpi invece di fortificarli; e se pur istruivano le menti, erano incapaci di arricchirle; gli allievi le lasciavano con un bagaglio di nozioni pratiche terra terra acquisite a gran fatica e nel tempo stesso così inconsistenti che Vegezio nel iv secolo sarà desolato per il gran numero di illetterati che entravano nelle legion5, incapaci perfino di tenere la contabi­ lità dei loro reggimentin . E invece di immagini ridenti, di idee serie e feconde, o di una di quelle curiosità intellettuali da cui la vita trae vocazioni, essi portavano con sé il triste ri­ cordo di anni perduti nel noioso ripetere e nel compitare, in­ terrotto da crudeli punizioni. Sicché l’educazione popolare si deve considerare come completamente fallita nell’Urbe, e se ci fu una pedagogia romana, non è certo il caso di andarla a cercare tra i « pedagoghi », ma piuttosto tra i grammatici e i retori, i quali, fatte le debite proporzioni, offrirono all’aristo­ crazia e alla borghesia dell’impero l’equivalente del nostro in­ segnamento secondario e superiore.

3. l ’ i n s e g n a m e n t o f o r m a l i s t a d e l g r a m m a t ic o

A sentire coloro che andavano orgogliosi del loro sapere e della loro facondia, poco mancava che quest’ultima non at­ tuasse l’idea della perfezione, che non portasse dritto dritto al sommo bene. « In un banchetto — scriveva alla fine del n secolo uno di questi abili parlatori, Apuleio di Madaura — la prima coppa è per la sete, la seconda per la gioia, la terza per la voluttà, la quarta per la follia. Al contrario, nel festino delle Muse, più ci si mesce da bere, più l’anima nostra guadagna in saggezza e ragione. La prima coppa ci vien riempita dall’istitutore \litterator], che comincia ad affinare la ruvidezza del nostro spirito. Poi viene il grammatico [ grammaticus], che ci fornisce nozioni varie; finalmente viene il retore [rethor], che ci mette in mano l’arma dell’eloquenza. » 23 Non si potrebbe essere più soddisfatti di sé, ma ohimè! quelle coppe erano ben lontane dalle labbra, e la realtà non giustificava per nulla il lirismo di Apuleio. 127

Anzitutto, grammatici e retori si rivolgevano a un pub­ blico ristretto, e anche nel n secolo d. C. il loro insegnamento conservava il carattere di selezione che gli era stato imposto, sul principio, dalla diffidenza della oligarchia dirigente. Quan do, durante il n secolo a. C., i Padri coscritti, le cui armi e la cui diplomazia erano rivolte verso i greci, avevano sentito la necessità di far sì che i loro figli non restassero al disotto di quei sudditi e vassalli che ormai avrebbero dovuto governare, avevano favorito in Roma la fondazione di scuole di tipo elle­ nistico, derivate da quelle che fiorivano in Oriente, ad Atene, a Pergamo, a Rodi, e loro concorrenti, e avevano desiderato che vi si apprendesse alla maniera dei greci quello che i greci più istruiti sapevano. Ma contemporaneamente si erano resi conto del successo politico ed elettorale di cui questa istru­ zione superiore apriva le porte; e ben decisi a nulla abbando­ nare del loro monopolio, cercarono di riservare alla loro casta i nuovi vantaggi. I primi professori di grammatica e di retorica che si stabi lirono, con il loro permesso, a Roma, furono profughi d’Asia e d’Egitto, vittime di Aristonico e di Tolomeo Fiscone, ai quali l’Urbe offriva asilo: gli uni e gli altri insegnarono in greco. Quando più tardi il loro posto fu occupato da italici, questi si conformarono all’uso loro, ne adoperarono la lingua, e nelle classi di grammatica continuarono a dare le lezioni in greco e latino, mentre nelle classi di retorica insegnarono esclusivamente in greco. Ci fu, certo, qualche tentativo per spezzare tale soggezione, che era un motivo di isolamento. Al tempo della rivoluzione democratica, alla quale è legato il nome di Mario, uno dei suoi clienti, il retore Plozio Gallo, avanzò la pretesa di parlare in latino ai suoi allievi; e qualche anno dopo veniva pubblicata la Retorica ad Erennio, che piena d ’esempi tratti dalla storia più recente, accompagnata da riferimenti ai temi dibattuti nei comizi, evidentemente procedeva dalla stessa corrente liberale, concreta e volgarizzatrice. Ma l’oligarchia vegliava; essa non intendeva lasciarsi pri­ vare del suo governo ereditario; poiché l’eloquenza dominava le assemblee, che ogni anno rinnovavano i suoi poteri, volle che i suoi figli fossero soli a possederne i segreti e perseguitò gli innovatori temerari. La Retorica ad Erennio non ebbe se­ 128

guito e continuiamo a ignorare il nome del suo autore. Quanto a Lucio Plozio Gallo, dovette interrompere le sue lezioni per ordine dei censori, che nel 93 a. C. deliberarono « che biso­ gnava ritornare alla regola degli antichi e che era cosa colpe­ vole adottare una novità contraria alle loro abitudini » 24. Per­ ché in Roma si riaprano scuole di eloquenza latina bisognerà aspettare la dittatura di Cesare — sostenuta dai trattati di Ci­ cerone 25 — e il regime imperiale che sotto i Flavi retribuirà generosamente, nella persona di Quintiliano, il più illustre dei maestri. Ma ormai l’indirizzo era fissato e non sarà più modificato. Anche se ora viene impartito sia in latino che in greco, l’insegnamento della retorica rimane un privilegio di pochi, e per meglio discriminarne l’uditorio, il corso di gram­ matica, che ne costituiva il primo grado, resterà bilingue fino all’Alto impero. In seguito, l’eloquenza, soprattutto quella a cui approda­ vano gli insegnamenti di grammatica e di retorica, si svuotò di ogni contenuto reale. Allontanata dal Foro dall’irrompervi dei pretoriani, la politica abbandonò anche l’eloquenza; e ces­ sarono d’alimentaria anche le controversie giurisprudenziali, dominio ormai esclusivo di una cerchia di specialisti, non ap­ pena il principato, prima con Augusto infine con Adriano, fini con l’assorbire la giurisprudenza nei suoi Consigli. E infine, la filosofia e le scienze matematiche e naturali, che nell’antichità greca erano state con essa congiunte, godevano della generosità di Traiano e Adriano solo nei loro paesi d’origine, specialmente nel Museo di Alessandria e in Atene. A Roma — da cui Vespasiano bandì i filosofi, escludendoli dovunque da quei privilegi di cui gratificava retori e grammatici26 — gli studi filosofici non avevano mai potuto sottrarsi all’interdetto con cui il senato li aveva colpiti nel 161 a. C. e che fu ribadito nel 153 a. C., quando, contemporaneamente, furono scacciati l’accademico Cameade, lo stoico Diogene e il peripatetico Critolao, senza riguardo per l’immunità diplomatica da cui erano protetti27. La filosofia aveva continuato a destare prevenzioni sospettose e ironiche28 e il cittadino che avesse voluto dedi­ carsi ad essa — in maniera diversa dalle conversazioni ami­ chevoli, dalle conferenze episodiche e private o dalle medita­ zioni solitarie e appartate — non aveva scelta che tra due vie:

129

o disporre di un patrimonio sufficiente per mantenere a sue spese un maestro a casa sua, o espatriare in ima di quelle lontane città in cui Ì filosofi potevano esporre liberamente le loro speculazioni. I loro sistemi fisici o metafisici non erano materia di corsi pubblici, più che non lo fossero la politica o la storia; e l’eloquenza, distolta dal pensiero e dalla scienza pura così come era stata tagliata fuori dall’azione, continuava ad aggirarsi in un ripetersi sterile di esercizi letterari e di vir­ tuosità verbali. Così gli studi preparatori di grammatica e di retorica, mal­ grado il favore che incontravano tra la gioventù agiata, mal­ grado la protezione accordata dagli imperatori, malgrado il posto d’onore che occupavano nella città — in cui Cesare aveva destinato loro le tabernae del suo forum e Traiano un emi­ ciclo del su o 29 — rimasero sterili per il formalismo incurabile cui l’eloquenza era stata ridotta. I giovani entravano nella scuola del grammatico in un’età che, pur variando secondo le loro attitudini e le condizioni delle loro famiglie, qualche volta veniva abbassata — come ve­ diamo dalle iscrizioni funerarie dei primi secoli d. C. — dal­ l’inquietante precocità dei fanciulli-prodigio30. Dal gramma­ tico essi venivano iniziati alla letteratura o piuttosto alle due letterature di cui egli era professore: in realtà, presso il grammaticus la letteratura greca marciava di pari passo con la latina o la sopravanzava. In un libro veramente notevole su sant’Agostino e la fine della cultura antica il Marrou ha creduto di scorgere, a partire da Quintiliano, gli indizi di un indeboli­ mento dell’ellenismo nella cultura rom ana31; io sono tuttavia convinto ch’egli si sia lasciato influenzare dal soggetto del suo lavoro e temo che abbia esteso indebitamente all’Italia le con­ clusioni che son vere solo per l’Africa di Agostino, nato a Tagaste, istruito a Madaura e a Cartagine, e morto vescovo di Ippona. In contrasto con la sua opinione, è facile chiamare a testimonianza tutta ima serie di fatti che la smentiscono nella Roma del n secolo d. C. e cioè: l’esagerato entusiasmo affet­ tato per il greco dalle « belle » che Marziale e Giovenale met­ tono in ridicolo32; i successi riportati duran e tutto il n secolo in Gallia e in Italia dai retori greci itineranti, di cui Luciano rappresenta il tipo più originale33; la pubblicazione in greco

no

dei trattati dei « filosofi » da Musonio Rufo a Favorino d’Arles; gli epigrammi greci dell’imperatore Adriano e i pensieri di Marco Aurelio; finalmente, e soprattutto, il persistere del greco nella liturgia e nell’apologetica dei cristiani di Roma — la cui chiesa adottò il latino solo dopo la grande scossa che, verso la metà del in secolo, divise l’impero e fece vacillare le fondamenta della civiltà antica34. Sarebbe strano che il greco si fosse ritirato da Roma proprio quando, per fargli posto in ogni genere letterario, la letteratura in lingua latina in Italia si eclissava: e infatti le iscrizioni stesse attestano la vitalità del greco nell’insegnamento, a cominciare dall’epitaffio del giovane Q. Sulpicio Massimo, morto ad undici anni dopo aver otte­ nuto su 52 concorrenti il premio di poesia greca nei Ludi capi­ tolini del 94 d. C .35, fino a quello del figlio di Delmazio, il quale, essendo morto all’età di sette anni, non aveva avuto ancora il tempo di seguire il corso di greco, e aveva potuto solo imparare il latino36. Pare dunque che i grammatici ro­ mani non abbiano mai smesso di basare l’insegnamento della letteratura latina su quello della letteratura greca, pressappoco allo stesso modo che nei collegi delVAncien Régime, l’insegna­ mento del francese è sempre stato inquadrato su quello del latino. Per conseguenza, quanto le loro lezioni perdevano in attua­ lità viva avrebbero potuto guadagnare in varietà; e infatti, mentre nel ludus litterarius il sapere del magister si limitava a un libro solo — un esemplare delle Dodici Tavole, di cui i marmocchi compitavano le lettere prima di tentare di co­ piarle — , il grammaticus disponeva di una doppia biblioteca. Ma la distribuzione dei testi era ineguale con una spiccata pre­ valenza delle opere straniere e una sensibile preferenza per le opere antiche. Se Omero, i tragici, i comici, soprattutto Menandro, i lirici ed Esopo gli avevano fornito una scelta abbon­ dante di testi greci, il grammatico aveva limitato da sempre la sua scelta di autori latini ai poeti delle prime generazioni, Li­ vio Andronico, Ennio, Terenzio, e aveva la civetteria di spie­ gare in greco questi scrittori, le cui opere erano più o meno riduzioni dal greco37. Solo negli ultimi venticinque anni del primo secolo a. C., un liberto di Attico, Q. Cecilio Epirota, decise di attuare, nella scuola di grammatica che allora diri­ geva, due rivoluzioni in un colpo solo: egli osò parlare latino 131

ammettere all’onore delle sue lezioni autori latini viventi o scomparsi da poco: Virgilio e CiceroneM. Il suo esempio di audacia fu poi timidamente seguito. Nei primi due secoli del­ l’impero, una o due generazioni dopo la scomparsa di uno scrittore illustre, le sue opere cominciavano gradualmente a arricchire i programmi, ai quali andarono successivamente a aggiungersi, per la prosa, i trattati di Seneca, per la poesia le Epistole d’Orazio, i Fasti di Ovidio, la Farsaglia di Lucano e la Tebaide di Stazio. Ma questi tentativi intermittenti di rin­ novamento non bastarono a modificare il carattere fondamen­ tale di un insegnamento che si può tanto più definire come « classico » quanto più era legato alla tradizione di successi già consacrati; ed è anche probabile che il classicismo si consolidò quando, sotto il regno di Adriano, la ripresa di atticismo, che ci è testimoniata da tante statue e bassorilievi di ima fredda eleganza, dovette accompagnarsi a un ritorno del gusto lette rario verso l’arcaismo, che un imperatore letterato — ma più caldo ammiratore di Catone il Censore e di Ennio, che di Vir­ gilio e Cicerone — veniva predicando. La scuola di gramma­ tica di Roma guardò sempre al passato, se pure con maggiore o minore intensità secondo il momento, e il latino che vi si insegnava non fu mai, per essere esatti, una lingua viva, ma — precisamente come il greco da cui era inseparabile — la lingua di cui si erano serviti i « classici » e che si era fissata una volta per tutte nelle forme in cui l’aveva calata il loro genio. Sicché, in tale indirizzo puramente scolastico dell’inse­ gnamento dei grammatici, c’era già quasi il principio di una sclerosi che la vana complicazione dei loro metodi avrebbe ulteriormente aggravato. I grammatici imponevano prima di tutto degli esercizi di lettura ad alta voce e recitazioni a memoria; in vista della formazione, ancora lontana, del futuro oratore, la classe di grammatica si iniziava con un corso di dizione, il quale affi­ nava senza dubbio il gusto degli allievi, aumentava in essi la possibilità di apprendere, ma nel tempo stesso sviluppava, a detrimento della loro sensibilità autentica, la tendenza agli at­ teggiamenti virtuosistici e alle pose teatrali. Poi il professore affrontava con loro l’esegesi propriamente detta; si trattava anzitutto di mettere d’accordo i testi che. avevano a disposi­ e

132

zione e nei quali il capriccio della tradizione manoscritta aveva prodotto oscillazioni di cui non soffrono le nostre edizioni a stampa. Quindi Yemendatio, che oggi chiameremmo critica orale, esigeva riflessione da parte degli allievi; e avrebbe co­ stituito un salutare allenamento per le loro intelligenze se — continuamente mescolata a discussioni sulle qualità e i difetti dei brani da correggere — non fosse stata falsata da quei pregiudizi estetici in base ai quali procedeva, mentre, condotta obiettivamente, avrebbe contribuito a raddrizzarli. E alla fine, mirando ad un giudizio d ’insieme, che di solito con­ cludeva la lezione, si svolgeva, o meglio si trascinava, il com­ mentario propriamente detto; quella enarratio i cui difetti guasteranno più tardi l’opera di un Servio. Il grammatico svolgeva alla svelta l’analisi dell’opera che aveva scelta, poi ne iniziava la spiegazione — explanatio — , frase per frase o verso per verso, ricavando con meticolosa pe­ danteria il senso di ogni parola, definendo a ima a una le figure retoriche cui si prestavano le parole e le diversità dei « tropi » in cui esse entravano: metafora, metonimia, catacresi, litote, sillepsi. Non ne considerava mai la sostanza se non se­ condariamente, in funzione dei vocaboli, che di essa erano espressione, e in certo modo astraeva dall’esperienza delle cose reali, limitandosi alla forma degli enunciati che le lasciavano intravedere vagamente tra le righe. Le discipline che i romani chiamavano arti liberali entra­ vano nell’insegnamento solo di seconda mano. Il loro com­ plesso, ben lungi dall’abbracciare tutte le parti di ciò che costi­ tuisce oggi la scienza, si limitava a legare tra loro i rami fon­ damentali dello scibile, quelli che i greci identificavano con la éyxùKXioc; ttociS eìcc, e cioè con l’educazione enciclopedica, ma l’educazione normale, corrente, e che senza grandi cambia­ menti l’antichità ha trasmessa al Medioevo. Il grammatico ro­ mano si occupava di tutto, senza nulla approfondire e i suoi allievi a loro volta non facevano che sfiorare di sfuggita le conoscenze implicite nella letteratura ch’egli veniva citando: la mitologia, indispensabile a intendere le leggende poetiche; la musica, quando da essa dipendevano i metri delle odi o dei cori; la geografia, quando bisognava seguire Ulisse nelle tri­ bolazioni del ritorno; la storia, senza della quale parecchi pas­ 133

saggi delYEneide sarebbero rimasti inintelligibili; l ’astronomia, quando una stella si levava o tramontava nel ritmo d’un verso; le matematiche, nella misura richiesta dalla musica e dall’astro­ nomia. Resi miopi dal loro eccessivo senso pratico, sempre alla ricerca di un utile immediato, i romani non vedevano l ’utilità a lunga portata della ricerca disinteressata; non ne compren­ devano il valore, non ne sentivano il fascino; collezionavano le formule già acquisite, attingevano la scienza bell’e fatta nei loro libri, senza provare il bisogno di accrescerla e neppure di controllarla. Per esempio, il loro Pico della Mirandola, il re Giuba, che era stato allevato nella casa di Ottavia e i cui stati di Mauri­ tania erano infestati da mandrie di elefanti, anziché guardarli cogli occhi suoi preferì immaginare questi pachidermi basan­ dosi sulle frottole che ingombravano le sue letture e che egli diffuse con i suoi scritti; e cinquantanni prima Sallustio, chia­ mato da Cesare al governo della nuova provincia d ’Africa, si preoccupò così poco di informarsi sulle città che non rientra­ vano sotto la sua giurisdizione, che, dovendo nel De beilo lugurthino indicare la posizione di Cirta, la futura Costantana e antica capitale dei numidi, che stava per essere costituita in colonia autonoma, la collocò tranquillamente... « non lontana dal mare » 39. Se tale era in Roma l’apatia degli spiriti più eminenti, si comprende come l’opinione media non reagisse contro un si­ stema di educazione che rendeva la scienza serva della lettera­ tura, nel senso in cui il Medioevo fece della filosofia l ’umile ausiliaria della teologia; e senza dubbio nulla contribuì tanto a disseccare il vigore dell’insegnamento presso i romani quanto tale subordinazione insensata, se pur non fu la vanità dello scopo che essi assegnavano alla letteratura medesima chie­ dendo ad essa di formare solo degli oratori, in un tempo in cui l’arte oratoria non aveva più ragion d’essere.

4. LA RETORICA IRREALE Perché infine, come ha scritto Tacito, la grande eloquenza — magna eloquentia — , la vera eloquenza, quella che all’occor­ 134

renza si ride dell’eloquenza, « come la fiamma, vuole materia che l’alimenti, moto che la ecciti, e mentre arde, diventa più luminosa » 40, e come la fiamma si estingue quando l’aria viene a mancare, non v ’è più eloquenza quando muore la libertà. Ora, tutta la storia su cui potè meditare Tacito, conferma la sua opi­ nione; e l’eloquenza in Roma non sopravvisse alla dissoluzione delle assemblee, più che non sopravvisse in tempi più lontani, presso Ì greci, all’avvento del dispotismo negli stati dei Diadochi. Il maestro di Alessandro, Aristotele, distinguendo tre ge­ neri di eloquenza — secondo che l’oratore cercava di provocare una decisione avvenire o giustificava una risoluzione già avvenu­ ta, o si limitava a semplici esposizioni ed elogi che non modifi­ cavano né il corso delle cose né la condotta degli uomini — , aveva già riconosciuto la superiorità del primo genere sul secon­ do e del secondo sul terzo. Al contrario già nel 150 a.C. si potè vedere il retore Ermagora rovesciare tale ordine di valori e at­ tribuire il primo posto a quel genere ch’egli chiamava « epiditti­ co », cioè della semplice eloquenza d ’apparato, tanto più merito­ ria agli occhi suoi, in quanto, movendo su di un piano autonomo e irreale, implicava, nella sua boriosa sufficienza, quasi una teoria dell’arte per l’arte in un campo in cui tale dottrina è insostenibile 41. Coscientemente o no, Ermagora aveva tratto le conseguenze della rivoluzione che si era operata nei regni elle­ nistici; e i romani adottarono di buon grado il suo paradosso, quando si furono adattati a un regime politico simile a quello dei Basileis, in cui la sovranità dél'im perator assorbiva tutta la repubblica. Meno di una generazione dopo che Catone il Censore — identificando l’oratore all’uomo virtuoso, abile a far prevalere il bene che pensa: vir bonus et dicendi peritus — aveva subordinato l’eloquenza all’azione, i romani accolsero senza protestare i trattati di retorica greca in cui le due cose erano separate; e quando Cesare li ebbe piegati alla sua mo­ narchia, essi consumarono con semplicità il divorzio che con­ dannava l’eloquenza delle scuole a esercitarsi a vuoto, con un apparato di formule stereotipe e un lusso di sonorità sen­ za eco. I loro professori di retorica schematizzavano a loro volta la composizione di tutti i discorsi in sei parti, dall’esordio alla 135

perorazione; poi analizzavano la varietà delle combinazioni cui potevano eventualmente adattarsi; quindi dirigevano la serie degli esercizi, che si riteneva dovessero procurare la perfezione in ciascuna di esse, per esempio: la narrazione, la sentenza, la cbria, l’espressione dei caratteri o etopea, la tesi, la discus­ sione42. Avevano previsto i minimi particolari e i loro svol­ gimenti si succedevano seguendo progressioni invariabili, con cadenza quasi automatica. Si ha l’impressione che prendessero sul serio la formula secondo la quale un oratore si fabbrica da capo a piedi — fiunt oratores — e ch’essi fossero convinti di potere, addestrando i loro allievi a tali acrobazie, far sì che tutti senza eccezione meritassero questo bel nome. Nulla può caratterizzare il loro metodo soffocante meglio della chria. declinazione non dei vocaboli, ma del pensiero o piuttosto delle proposizioni che l’esprimevano, attinte ad un’alta autorità, come se la massima di un saggio potesse acquistare sfumature e ar ricchirsi nella varietà dei casi e dei numeri attraverso i quali essi la facevano infaticabilmente passare: Marco Porcio Catone ha detto che le radici della scienza sono amare; è di Marco Porcio Catone la massima che...; è sembrato a Marco Porcio Catone che...; è stato detto da Marco Porcio Catone che...; i Marco Porcio Catone han detto che..., ecc. ecc. Così Monsieur Jourdain, nel Bourgeois Gentilhomme, alle sue prime prove nell’arte del ben parlare, sarà invitato a ricamare con intermi­ nabili variazioni il tema della chria, che il suo professore gli ha proposto: « Bella marchesa i vostri occhi mi fanno morire di amore; d’amore, bella marchesa, i vostri occhi mi fanno mo­ rire », ecc. Solo che Molière intendeva mettere in ridicolo Monsieur Jourdain e il suo maestro di belle lettere, mentre nessun retore, nella Roma del primo e n secolo d. C. si so­ gnava di ridere delle chriae di cui Svetonio, prima di Diomede, ci ha solennemente trasmesso i banali enunciati43, e di cui Quintiliano confessa la pratica nel suo Trattato44. E finalmente il professore di retorica, quando gli pareva che i suoi allievi fossero in sufficiente dimestichezza con gli arzi­ gogoli di tale psittacismo, li invitava a provare la loro bravura in arringhe tenute in pubblico. Solo che sotto l’impero, tali saggi perdettero il nome di causae, che ancora avevano al

136

tempo di Cicerone. Ora, si trattasse di suasoriae, in cui si discu­ tevano casi di coscienza più o meno spinosi, o di controversiae che consistevano in difese o in requisitorie fittizie, non erano altro che declamazioni, declamationes, con quella sfumatura di disprezzo, che è rimasta alla parola proprio da allora. Certo, se i maestri avessero saputo liberarsi dalle loro manie, tale ge nere di prove avrebbe potuto ristabilire il contatto tra le loro scuole e la concreta realtà. Ma, al contrario, si sarebbe detto che facevano a gara nello sfuggirla, e più una materia era in­ verosimile, più mostravano inclinazione ad adottarla. Il fatto è che in origine il grammaticus e il rhetor erano una cosa so la45; più tardi le loro scuole si sdoppiarono ma sussistette sempre la traccia della primitiva fusione. Il grammatico prepa­ rava la via alle lezioni del retore e queste a loro volta si inscri­ vevano nel cerchio d ’idee e di immagini che il grammatico aveva già percorso. L ’allievo poteva bene cambiar scuola, non cambiava lo spirito dell’insegnamento, esso restava dovunque tributario di una letteratura artificiale e prigioniero di un gretto classicismo Per esempio, 1 soggetti delle suasoriae che Seneca il Vecchio indicava ai suoi allievi, invece di riguardare le loro preoccu­ pazioni attuali, si applicavano sempre al passato, e spesso, a un passato estraneo e lontano. I meno remoti riguardavano epi­ sodi immaginari delle ultime settimane della vita di Cicerone: in uno Cicerone è incerto se sollecitare o no la grazia di Antonio; in un altro non sa se, per ottenerla, deve accettare di bruciare le sue opere. Dovunque poi le situazioni della storia romana sono abbandonate per quelle della storia greca: Ales­ sandro il Grande si chiede ora se navigherà sull’Oceano India­ no, ora se entrerà in Babilonia a dispetto degli oracoli; gli ateniesi deliberano se sottomettersi all’ultimatum di Serse ed i trecento spartani di Leonida se farsi tagliare a pezzi fino all’ultimo per ritardare il passaggio dei persiani alle Termo­ pili. E accadeva persino che questi vecchi temi singolari sem­ brassero ancora troppo attuali e comuni. Allora il retore, spro­ fondandosi nel passato, di cui gli piace risalire il corso fino alle brume della leggenda, dà a comporre ai suoi allievi i discorsi con cui Agamennone si domanda se, per assicurare alla

137

sua flotta il soccorso dei venti favorevoli, debba obbedire alle ingiunzioni profetiche di Calcante e sacrificare la propria figlia Ifigenia. Quanto ci fosse di artificioso in queste suasoriae è cosa che risulta con evidenza. Quanto alle controversiae, che avrebbero dovuto preparare l’avvocato al suo mestiere, esse si tenevano lontane a bella posta dagli incidenti della vita corrente, e vagavano in un mondo illusorio di ipotesi strane e di casi mostruosi. G ià gli abbozzi di composizione che Svetonio estraeva dagli antichi manuali sono snaturati da questa inclinazione morbosa verso l’eccezionale e il bizzarro. In uno di questi processi da burla, si vedono dei fannulloni — i quali erano venuti in un bel giorno d’estate a respirare la brezza marina sulla spiaggia di Ostia — contrattare con un pescatore l’acquisto del pesce pescato, e, concluso l’affare, rivendicare — per il misero prezzo che si erano impegnati a pagare — la proprietà di un lingotto d ’oro che, per uno stranissimo caso, era stato tratto su con la nassa. Un altro processo presenta i guai di un mercante di schiavi il quale, per evadere il pagamento della dogana per il più pre­ zioso esemplare del suo carico, aveva pensato, sbarcando a Brindisi, di infagottare un bel ragazzo nella toga pretesta — abito dei giovani cittadini romani — , e il ragazzo poi, così travestito, arrivato a Roma non vuol più lasciare il suo trave­ stimento e sostiene mordicas di averlo ricevuto in segno di una liberazione definitiva46. E tuttavia questi due processi immaginari concedono alla verità un piccolo posto, che manca sistematicamente nelle con­ troversiae di cui Seneca il Vecchio ci ha ampiamente esposto la materia. Il retore invece di modellare la prova cui sottopone il suo allievo sulla materia stessa dei processi dell’epoca sua, si va ingegnando di accumulare gli anacronismi e le inverosi­ miglianze, e si guarda bene di inscrivere gli schemi delle sue controversiae nella casistica del diritto civile. E invece fi im­ posta servendosi di fatti qualche volta immaginari, general­ mente deformati, lambiccati e forzati a capriccio, e fi coordina con disprezzo della logica a legislazioni lontane e cadute in

138

prescrizione, oppure confezionate di sana pianta nella sua officina. Ed infatti tra i soggetti che Seneca il Vecchio ci riferisce, io ne ho trovato uno solo, che sia fondato, senza alterazioni sensi­ bili, su una testimonianza autentica degli annali latini: l’accusa di lesa maestà intentata a L. Quinzio Flaminino, colpevole, al tempo del suo comando in Gallia, di avere ordinato durante un banchetto — per soddisfare il desiderio della sua amante — che davanti a lei si tagliasse la testa ad uno dei suoi prigionieri. Tutti gli altri canovacci offendono spudoratamente la verità. Si sa, per esempio, che al tempo delle proscrizioni, nel 43 a. C., Cicerone fu giustiziato per mano di un certo Popilio Lenate, di cui nel passato aveva patrocinato gli interessi in un affare probabilmente civile, e in ogni caso insignificante, dato che nessun autore ha creduto di precisarne la natura. Il retore co­ glie la coincidenza, ma poiché l’esempio di ingratitudine che ne risulta non è abbastanza nero agli occhi suoi, lo aggrava a gusto suo e detta tranquillamente ai suoi uditori questo sog­ getto: « Popilio, accusato di parricidio, viene difeso da Cice­ rone e assolto. In seguito Cicerone, proscritto da Antonio, vie­ ne ucciso da Popilio. Sostenere contro Popilio un’accusa di cattivi costumi ». In questo caso Yactio de moribus sarebbe stata inapplicabile; oltre a ciò è foggiata secondo i bisogni della causa47; e, infine, nessuno ha mai testimoniato che Popilio Lenate abbia commesso altro delitto oltre l’assassinio legale di Cicerone. Poco importa al retore di confondere il diritto e violentare la storia, se arriva con le sue deliberate deformazioni a complicare l’arringa che propone ai suoi discepoli. In questo caso il retore ha acconsentito a porre il suo soggetto in ambiente romano; ma ordinariamente preferisce dargli colori esotici e tra­ scinare lontano il suo uditorio; allora va a raccogliere nella Grecia del passato gli aneddoti che si propone di rendere in­ teressanti. Qui suppone che una legge dell’Elide prescriva di tagliare le mani ai sacrileghi e inventa in maniera assolutamente arbi­ traria questa controversia: le genti dell’Elide chiedono ad Ate­ ne di prestar loro Fidia perché scolpisca la statua da dedicare a Giove Olimpico. Atene manda l’artista a questa condizione,

139

che le rimandino lo scultore o le paghino cento talenti. Quando Fidia ha compiuto l’opera sua, sostengono che ha sottratto a proprio vantaggio una parte dell’oro destinato alla statua di­ vina, e lo rimandano ad Atene dopo avergli tagliato le mani, come a un sacrilego. L ’avvocato di Atene reclama i cento ta­ lenti, quello dell’Elide li rifiuta. Là il retore capovolge nelle sue disinvolte finzioni la bio­ grafia d’Ificrate dopo quella di Cimone, figlio di Milziade, e per meglio suscitare lo spavento e la pietà, combina, senza rispettare la cronologia, un’incredibile requisitoria contro Parrasio, il quale, indebitamente trasformato in un carnefice in­ fame, avrebbe messo alla tortura il suo modello, un vinto d’Olinto ridotto in schiavitù, per rendere con maggiore inten­ sità le sofferenze di Prometeo, in un quadro destinato al tem­ pio di Atena. Altrove, se il maestro di retorica rinuncia a falsare la storia, è solo per comporre piccoli romanzi polizieschi con per sonaggi esagerati e peripezie mirabolanti. Nella sua scuola non si parla che di tirannidi e cospirazioni, rapimenti e riconoscimenti, oscenità e orrori. Qui si può ascoi tarlo mentre patrocina un marito che incolpa la sua donna di adulterio, perché un ricco mercante del vicinato l’ha istituita erede in omaggio alla sua virtù, si patrocina un padre che vuole diseredare il figlio perché quest’ultimo rifiuta di lasciarsi sedurre dalla prospettiva di un matrimonio vantaggioso e in tende tenersi come moglie la figlia del bandito ch’egli aveva sposata dopo avere avuto, per merito di lei, salva la vita e la libertà; un soldato empio e valoroso che per meglio vincere saccheggia una tomba situata in prossimità di un campo di battaglia e la spoglia delle armi che l’adornavano come trofeo; una vergine che i suoi rapitori avevano destinata a forza alla prostituzione, ma che, ribellatasi al vergognoso traffico, aveva ucciso un vecchio soldataccio che ravvicinava, poi era fuggita dal lupanare, e, ridivenuta libera, aveva finalmente ottenuto la dignità di sacerdotessa in un santuario. I maestri di retorica erano fieri di queste belle trovate; ossessionati dalla ricerca dell’effetto, si illudevano di raggiun­ gerlo tanto più agevolmente quanto meno probabili e più in­ garbugliate erano le situazioni e quanto più i loro personaggi 140

uscivano dall’ordinario. Calcolavano il valore di un discorso in base al numero e alla gravità delle difficoltà superate; ave­ vano in pregio soprattutto l’eloquenza che riusciva a svilup­ pare l’inconcepibile — materias inopinabiles — e per dir così a trarre qualche cosa dal nulla, sull’esempio di Favorino d’Arles, che sotto Adriano suscita l’entusiasmo dell’uditorio, un giorno, con l’elogio di Tersite, e un altro con il render grazie alla febbre quartana. Insomma, essi confondevano continua mente l’arte con l’artificio e l’originalità con l’assenza di natu­ ralezza; e a pensarci bene pare proprio che fossero capaci sol tanto di formare degli istrioni o dei pappagalli. Non sono mancati tra noi, e anche di recente, dei critici che hanno preso — entro certi limiti — le loro difese, con la speciosa argomentazione che la loro pedagogia era diversamente orientata della nostra, poiché mirava unicamente a eccitare la facoltà d’invenzione dei loro allievi, ed essi avevano il diritto di pensare, come dice Aulo Gellio, che più un soggetto è as­ surdo, più l’allievo « aveva merito a trattarlo » 48 Ma proprio questa concezione costituisce un’assurdità 49 e tale fu giudicata dagli ultimi grandi scrittori della latinità. Seneca disapprova quell’insegnamento che non prepara uo­ mini per la vita ma allievi per la scuola: non vitae sed scholae discim us50. Petronio nella prima pagina del suo romanzo can­ zona le frasi ampollose che risuonano nelle scuole dell’epoca su a 51. Tacito constata con tristezza che « [...] ogni giorno si discute con parole altisonanti di premi ai tirannicidii, fanciulle sedotte, rimedi contro le pestilenze, madri incestuose e simili argomenti che non si trattano mai o quasi mai nel foro. Quan do poi sono davanti a giudici veri... » 52. Giovenale deride que sti sedicenti oratori ai quali « non batte Nulla a sinistra sotto la mammella », questi asini calzati e vestiti, il « zotico giovane » che « ogni sei giorni toma ad empirsi il capo Con quel suo diro Annibaie», i disgraziati maestri che « questi riscaldati cavoli fan morire » 53. Cerchiamo dunque di non essere più romani dei romani stessi, e non tentiamo di riabilitare un sistema di cui i migliori tra loro hanno vituperato la delirante pedanteria Certo, se ci limitiamo a notare di passaggio alcune di queste stravaganze convenzionali, si fa presto ad alzare le spalle, ma se si è costretti a leggerle di seguito nel trattato di 141

Seneca il Vecchio, ci sentiamo ben presto invadere da un’in vincibile impressione di noia e di disgusto. Se poi si pensa che proprio su questi monotoni procedimenti, su esagerazioni così scontate e penose, su dati così falsi e malsani poggiava in ultima analisi l’educazione superiore a Roma, si ha ragione di preoccuparsi per l’avvenire delle lettere latine, che verso la metà del li secolo sono schiacciate dall’abuso di letteratura; si trema per la sorte di una civiltà le cui arzigogolate eccen­ tricità fanno presagire la decrepitezza; si resta angosciati per l’inedia cui sarà votato il fiore di una gioventù che non aveva altro alimento al suo intelletto se non le frasi lambiccate e vuote che le ammannivano i suoi vaneggianti « mandarini ». Per timore d ’essere tacciati d ’ignoranza, per l’ambizione di stupire e abbagliare sostituivano le reminiscenze alla rifles­ sione, esclamazioni calcolate e urli regolati in precedenza alla voce umana, l’affettazione alla sincerità, alla naturalezza smor­ fie e contorcimenti che non avevano più nemmeno il merito della novità. Per una malsana passione dell’insolito e dello straordinario, il buon senso veniva respinto come una tara, le esperienze della vita come altrettante debolezze e il suo spettacolo quasi come una deformità. Ma già la vita si prendeva l’inevitabile rivincita su coloro che la rinnegavano, e i romani cominciavano a stancarsi delle insulsaggini della scuola. I più positivi tra loro scambiavano la parodia da cui uscivano disgustati con il dramma reale e, disposti a dubitare e a ridere di tutto, come Luciano, o, disinteressati, come il volgo, di ogni forma di cultura, limitavano il loro orizzonte al soddisfacimento imme­ diato dei loro bisógni e dei loro piaceri54. I più inquieti e i più nobili, delusi ma non scoraggiati, andavano a cercare nelle religioni soteriche una risposta agli interrogativi che la misteriosa realtà poneva alle intelligenze, e in esse cercavano di placare le aspirazioni delle anime che né la scienza abortita né la letteratura esangue dei grammatici e dei retori avevano saputo soddisfare.

142

5.

DECADENZA DELLA RELIGIONE TRADIZIONALE

In realtà, un grande fatto spirituale domina la storia del­ l’impero: l’avvento di una religione personale, successivo alla conquista di Roma da parte del misticismo orientale. Certo, il Pantheon romano sopravvive immutabile in apparenza, e le cerimonie — che da secoli si svolgevano alle date prescritte dai pontefici nel loro sacro calendario — continuano a compiersi secondo il costume degli antenati. Ma lo spirito degli uomini ha già disertato il Pantheon che, se pur serba degli officianti, non ha più fedeli. La religione romana con i suoi pallidi dèi e i suoi miti scialbi, semplici favoleggiamenti suggeriti dai par­ ticolari della topografia latina, o miseri calchi delle avventure capitate agli dèi dell’Olimpo greco; con le sue preghiere for­ mulate nello stesso stile dei contratti, e aride come una pro­ cedura; con la sua indifferenza per la metafisica e per i valori morali; con l’angustia e la banalità del suo campo d ’azione limitato agli interessi dell’Urbe e allo sviluppo di una poli­ tica 55, la religione romana, invero, raggelava gli slanci della fede con la sua compassata freddezza e con il suo prosaico utilitarismo. Atta tutt’al più a rassicurare i soldati contro i rischi della guerra o i contadini contro i danni delle intem perie, la religione aveva — nella versicolore Roma del n se colo d. C. — perduto il dominio delle anime. Certo, il popolino continua a manifestare il più vivo inte­ resse per le feste degli dèi, feste che le pubbliche finanze sus­ sidiano allegramente, ma Gaston Boissier pecca per eccesso d ’ottimismo quando ne attribuisce il merito alla pietà religiosa. Tra le feste cui accorre la povera gente ci sono quelle che piacciono loro di più perché « sono più allegre, più rumo rose e pare siano loro più congeniali » 56. A torto dunque ci faremmo delle illusioni circa i senti­ menti che ispiravano tali celebrazioni; e in particolare se dal loro gusto per le libagioni e le danze che ogni anno accompa­ gnavano sulle rive del Tevere la festa d ’Anna Perenna, dedu­ cessimo l’illuminata sincerità della loro adorazione per quella antica divinità latina; commetteremmo la stessa imprudenza 143

che se ai nostri giorni misurassimo la portata ed il vigore del cattolicesimo a Parigi dall’affluenza dei parigini alla festa della notte di Natale. Certo, ancora in quest’epoca non mancano indizi della costanza con cui la borghesia romana sotto l’im­ pero adempiva sempre i propri doveri verso le divinità rico­ nosciute dallo stato. Per esempio un « conservatore » come Giovenale, che fa professione di esecrare le superstizioni stra­ niere, sembra a tutta prima attaccato con tutte le sue forze alla religione nazionale, e si può ben credere che l’ami sempre profondamente, quando si legge la graziosa introduzione di quella Satira x i i in cui ha rappresentato con deliziosa freschezza i preparativi di uno dei suoi sacrifici alla Triade Capitolina Più del tuo natalizio è per me dolce questo giorno, o Corvino, in cui l’erbosa ara attende le vittime votive. Una candida agnella alla Regina reco e un’altra simile alla Dea che con la maura Gòrgóne combatte, irrequieto, un po’ più lungi, scuote la tesa fune e cozza con la fronte la vittima ch’io serbo pel Tarpèio Giove, un vispo vitello ormai maturo per l’ara e ormai da aspergere col vino, ché ha ormai vergogna di succhiar le poppe della sua madre e già con le nascenti coma assale le ròveri. Se largo fosse il mio censo e al desiderio pari, un giovenco più pingue anche d’Ispulla immolerei... ... Ecco, ritorna l’amico mio, così tremante ancora per l’orribile evento onde è scampato che d’esser salvo ancor si maraviglia S7

Ma rileggiamo con attenzione questi versi squisiti: non agli dèi sale il tenero loro fervore; si rivolge invece al pae­ saggio campestre in cui l’offerta vien preparata, alle bestie familiari che Giovenale sceglie tra il suo gregge per immo­ larle, e di cui egli apprezza la bellezza come proprietario e come poeta; finalmente, e soprattutto, si rivolge all’amico di cui vuole celebrare l’insperato ritorno, e che pregusterà nella 144

limpida e appetitosa descrizione, la fragranza del festino cui è convitato in segno di allegrezza. Quanto alle divinità che occu­ pano lo sfondo oscuro del quadro, si debbono contentare o di una mediocre perifrasi, come Minerva, o, come Giunone Regina, della qualifica rituale, o anche dell’epiteto puramente geografico attribuito a Giove, il cui tempio sul Campidoglio strapiombava, come ognun sa, sulla Rupe Tarpea. Giovenale sarebbe stato molto imbarazzato se avesse dovuto illustrare le loro figure: i loro lineamenti si erano oscurati agli occhi suoi, non erano per lui che delle entità, di cui rifiutava in blocco la mitologia, perché « Che vi sian Mani e sotterranei regni E negre rane entro lo stigio gorgo E di Caronte il remo, e che in un legno Varchin Ramine il fiume a mille a mille, Neppure più lo credono i fanciulli, Tranne quelli che ancora entrano ai bagni Senza pagare » 58. In fondo, poi, lo scetticismo di Giovenale era generale; aveva guadagnato il popolo minuto, di cui i meglio intenzio­ nati manifestano, pur deplorandola, l’indifferenza quasi gene rale per questi dèi romani che ora hanno « Ì piedi nichelati » — pedes lanatos. Era professato senza vergogna dalle grandi dame — stolatae — le quali « non si curano di Giove più che di una ciliegia » 59. Era condiviso dai contemporanei di Giove­ nale, i più in vista e i più conformisti; in effetti, se gran si­ gnori come Tacito e Plinio il Giovane « praticavano » come lui e più di lui, non per questo « credevano » di più. Tacito, pretore sotto Domiziano, console e proconsole d ’Asia sotto Traiano, presenziava per dovere d’ufficio alle ce­ rimonie del politeismo pubblico e la sua avversione per gli ebrei è per lo meno uguale a quella di Giovenale. E ciò ci rassicura circa la sua ortodossia. Ma ci lascia incerti in pro­ posito il fatto che mentre abomina gli ebrei, non teme affatto di lodare indirettamente la credenza in « un dio eterno e su­ premo, la cui immagine non può essere riprodotta e che non può perire ». E nella sua Germania, ha parimenti lasciato tra­ pelare la sua ammirazione per la tribù barbara che non accetta di imprigionare tra muri i suoi dèi, né di rappresentarli sotto forma umana, per timore di fare oltraggio alla loro grandezza; e preferisce consacrare al loro culto le foreste e i boschi del suo territorio, e per essa « quelle misteriose solitudini in cui 145

essa li adora senza vederli, sembrano identificarsi con la stessa divinità ». In tutti e due i casi tale simpatia inconfessata, ma certa, rivela in Tacito un pagano tiepido60. Il suo amico Plinio il Giovane non mostra minore distacco dalle forme religiose. Ad esse, per riguardo all’alta antichità cui rimontano, e per l’autorità dello stato che le ha consacrate, ha sottomesso le sue abitudini e piegato i suoi gesti, ma nel tempo stesso rifiuta loro l’intima adesione della sua coscienza Gaston Boissier cita, come prova della religiosità di Plinio, la lettera in cui questi descrive minutamente all’amico Romano l’incanto che emana, all’ombra dei cipressi, dalla fonte del Clitumno e dall’antico tempio in cui il Giove del luogo dà i suoi oracoli61. Certo, è una bella pagina, ma sgorga da quella stessa vena da cui sgorgano i versi di Giovenale che abbiamo citati or ora. È fresca come quei versi, e come quelli esprime la dolce commozione che ispira agli ammiratori della natura la contemplazione di un bel paesaggio. Ma essa non si cura della devozione, di cui il posto è teatro e oggetto, e si chiude con un dardo scoccato alla chetichella ai devoti che vengono a far atto di devozione: « E potrai infatti anche studiare, e leg­ gerai molte iscrizioni tracciate da molti su tutte le colonne, su tutte le pareti, per celebrare la sorgente e il Dio. Molte loderai, di alcune riderai; tu, però, indulgente qual sei, non riderai di nessuna » a . In un altro passo della sua corrispondenza Plinio si dichiara pronto a riedificare, dopo aver chiesto il responso agli aruspici, un tempietto di Cerere che sorgeva nella sua proprietà d’Etruria. Però la maniera con cui discorre di questo progetto col suo architetto indica assai meno venerazione per la dea che sollecitudine per i fedeli. Plinio prevede l’acquisto di una nuova Cerere perché « alla statua che c’è, in legno e molto antica, mancano diverse parti ». Ma egli s’indugia in conside­ razioni specialmente sulla costruzione di un colonnato prossimo al santuario: « perché fino ad oggi i visitatori non trovano là vicino nessun riparo dal sole e dalla pioggia » 63. Sicché più che il favore di Cerere, Plinio desidera quello dei suoi coloni, e la cura ch’egli pone a facilitare i loro pellegrinaggi, non pre­ giudica le sue convinzioni più che Voltaire non abbia mani­ 146

festate le proprie con l ’assiduita agli uffici religiosi del suo feudo di Ferney. V ’ha di meglio del resto, per dimostrare l’indifferenza pro­ fonda di Plinio il Giovane nei riguardi dei culti di cui adem­ piva gli obblighi formalmente. Rileggiamo la lettera in cui egli annuncia la sua recente cooptazione nel collegio degli àuguri; la gioia che gliene viene è tutta temporale, solo di sfuggita fa allusione al potere sacro che tale dignità gli con­ ferisce — sacerdotium piane sacrum — e non insiste affatto sull’incomparabile privilegio, che gli viene attribuito per sem­ pre, d ’interpretare i segni della volontà celeste, di informare i magistrati e l’imperatore in persona del valore dei loro auspici. Al contrario, ciò che gli sembra invidiabile in quella missione — di cui un devoto avrebbe accolto la carica sovrannaturale con la più viva commozione e allegrezza — , è, prima di tutto, il fat­ to che gli viene concessa a vita — insigne est quod non adimitur viventi — , in secondo luogo che gli è stata devoluta per racco­ mandazione di Traiano e anche perché l’ha ottenuta in sosti­ tuzione di Frontino; e infine, e soprattutto, perché l’oratore per eccellenza, Marco Tullio Cicerone, ne era stato un tempo investito anch’egli 64. Sicché la soddisfazione di cui si pavoneg­ gia Plinio il Giovane non ha nulla di religioso; proviene da un cortigiano, da un mondano, da un letterato, e non da un credente. Plinio si rallegra di essere stato nominato augure pressappoco nello stesso modo con cui uno scrittore ai nostri giorni si rallegra di essere accolto fra gli Itnmortels; e a ben intendere, le cariche sacerdotali dei romani si riducevano per i loro dignitari a delle specie di « accademie ». Anche l’ardore che il culto imperiale aveva suscitato ai suoi inizi si era a sua volta raffreddato, e aveva finito con l’essere il pezzo più nuovo e il meglio montato della grande macchina ufficiale, che andava avanti per la velocità acquistata, ma da cui lo spirito si era ritirato. La caduta di Nerone, col quale si estingueva la famiglia di Augusto, aveva portato a quel culto un colpo irrimediabile privandolo del sostegno dinastico, cui era legata nelle monar­ chie dei diadochi la divinizzazione dei basileis. L'bomo novus, che aveva sperato di fondare una nuova dinastia, Vespasiano, 147

aveva simulato in Egitto un potere di taumaturgo, ma in Roma non si era preoccupato di darlo a credere, ed è nota la facezia ch’egli ebbe il coraggio di pronunciare, entrando in agonia, sulla sua imminente apoteosi: « Sento, diss’egli ridendo, che sono sul punto di divenire un dio » 65. L ’assassinio di suo figlio Domiziano — il quale, dimentico delle sue origini, aveva preteso che lo si chiamasse anche in Italia « Signore » e « dio », dominus et deus — mostrò d ’un colpo fino a che punto fosse giustificato lo scetticismo paterno. La religione imperiale sarebbe forse sopravvissuta ai delitti del « calvo Nerone » se egli avesse indefinitamente maneg­ giato denaro sufficiente ad arricchire i suoi pretoriani e a cor­ rompere la plebaglia dell’Urbe; ma essa andò in rovina quan­ do questi furono puniti e ci si accorse che se le sommosse mi­ litari avevano potuto creare degli imperatori, bastava una co­ spirazione di palazzo per abbattere il padrone, di cui quella religione presupponeva la divinità. Ormai sotto i primi Antonini essa era divenuta solo un pretesta di baldoria, un simbolo di lealismo, una clausola di stile costituzionale. Il giorno dopo il suo avvento al trono, Traiano proclamò divino — divus — il defunto Nerva, suo padre adottivo, ma ebbe cura di ricondurre l’avvenimento a una misura umanamente verisimile. Egli non solo riservava ai morti gli onori dell’apoteosi, ma vi scorgeva la suprema rico­ noscenza dello Stato ai suoi benefattori; e lasciando al suo panegirista la cura di precisare lo spirito laico col quale pro cedeva a questa formalità di buona amministrazione generale permise a Plinio il Giovane di dichiarare ai Paires che la prova più decisiva della divinità di un Cesare morto, consi steva nell’eccellenza del suo successore — certissima divinitatis fides est bonus successor — e inserì nella formula delle pub bliche preghiere rivolte agli dèi per la sua vita e la sua salute la riserva che quelle dovevano essere esaudite solo se egli governava bene la repubblica e nell’interesse di tu»ti- si bene rem publicam et ex utilitate omnium rexerit66. Sarebbe iniquo misconoscere la generosa ispirazione di una tale politica; ma nel tempo stesso sarebbe ingenuità credere che ancora si prestasse agli slanci e alle effusioni; non erano più i tempi in cui ü vincitore di Azio — che aveva posto ter­ 148

mine alle guerre civili e procurato a Roma la pace e l’impero universale — accettando in omaggio il titolo di Augusto, si poneva senz’altro al di fuori e al disopra della condizione degli uomini, si elevava naturalmente tra l’entusiasmo delle masse e il canto dei poeti, al rango degli dèi; non erano più i tempi in cui la credulità popolare immaginava di seguire nel cielo di Roma, sulla traccia di una cometa, la marcia del dio Cesare suo padre, attraverso il firmamento; in tempi in cui dall’ul­ timo cittadino al principe ereditario, ognuno attribuiva agli auspici del figlio di lui, Tiberio, la forza che vivificava i piani dei generali e ne spiegava gli irresistibili successi; pressappoco nella stessa maniera con cui ai nostri giorni un ammiraglio giapponese farà risalire allo spirito del Mikado la sua vittoria di Tsu-Shima. Ora la persona e la storia del principe tornavano a discen­ dere sulla terra. Se pur trasportati dall’abitudine, e dalle esi­ genze del cerimoniale, umili sudditi invocavano sempre la « di­ vina casa » 67 e « le celesti decisioni » di Cesare, la maggior parte si rendeva conto che non c’era più una « casa » imperiale propriamente detta; e i più veridici, nella loro gratitudine, lo­ davano semplicemente in Cesare « l’infaticabile sua sollecitu­ dine per gli interessi dell’umanità » 68. Così pure gli stessi prìncipi, sommi servitori dello Stato, avevano coscienza di arri­ vare all’impero come ad un’ultima promozione. Traiano cercava così poco di circonfondere i suoi atti d’un alone sovrannaturale, che tanto più forte si vantò di avere bat­ tuto i germani prima del suo avvento al trono, in quanto in quell’epoca nessuno lo poteva ancora chiamare figlio di un Dio: necdum dei filius (erat) 69. Si rilegga del resto il suo Panegirico: la monarchia che egli ha inaugurata viene rap­ presentata in ogni pagina come la migliore delle repubbliche. Con essa si tendeva a instaurare, sotto la terminologia dei regni precedenti, un regime nuovo in cui per la prima volta, secondo la frase di Tacito, la libertà sarebbe rimasta in ar­ monia col principato, ma in cui, per una fatale compensazione, la religione imperiale doveva finire, almeno in Roma e presso il senato, per perdere la sua trascendenza e secolarizzarsi. E ad onta del ritorno offensivo del dispotismo illuminato, né la familiarità canzonatoria di Adriano, né la modestia di Anto­

149

nino Pio, né lo stoico abbandono di Marco Aurelio ai disegni della Provvidenza, avrebbero certo potuto ridestare nei cuori l’emozione che il culto di Augusto aveva cessato ormai di su scitare

6. PROGRESSO DELLE MISTICHE ORIENTALI Tuttavia la fede non era scomparsa da Roma, né era affatto diminuita. Tutt’altro. Di fatto, man mano che per difetto di un’educazione che non aveva più nulla di razionale né di reale, le intelligenze restavano impoverite e disarmate, la reli­ giosità aveva esteso i suoi domìni, e la sua intensità s’era accresciuta. Ma la fede romana aveva cambiato direzione e oggetto: s’era staccata dal politeismo ufficiale e si era rifugiata nelle « cappelle » formate in quest’epoca dalle sètte filosofiche, e nelle confraternite in cui si celebravano i misteri degli dèi orientali. Là finalmente i fedeli ricevevano una risposta ai loro interrogativi e trovavano una tregua alle loro inquietudini: trovavano nel tempo stesso una spiegazione del mondo, delle regole di condotta, la liberazione dal male e dalla morte. Al punto che nel il secolo d. C. assistiamo a questo paradosso: che Roma comincia ad avere una vita religiosa, nel senso in cui l’intendiamo noi oggi, nel momento in cui la religione di Stato cessa di vivere nelle coscienze. Questa trasformazione preparata da lunga data e di gran­ dissima portata è opera dell’influenza ellenistica, cui Roma cedeva già da due secoli, senza neppure accorgersene, e per mezzo della quale la rivelazione dei dogmi orientali e l ’inse­ gnamento delle filosofie greche avevano finito per compene­ trarsi fra loro e ricongiungersi. Nell’epoca di cui ci occupiamo, le filosofie, bandite dalle cattedre, assumono in Roma la forma e gli imperativi delle religioni per maestri che sono veri di­ rettori di coscienze e per adepti di cui esse regolano l’atti­ vità e fissano perfino la foggia della barba e degli abiti. Anche se, come l’epicureismo, negano la sopravvivenza nell’al di là, e relegano gli immortali nell’inazione degli intermundia, le filosofie si dicono liberatrici dalla morte e dai suoi terrori e istituiscono per i loro affiliati delle feste religiose di 150

cui i loro « fondatori » sono gli « eroi » e che comportano gli stessi inni e gli stessi sacrifici delle cerimonie divine70. Anche se i loro pastori sono greci d’Atene. o romani che parlano e scrivono in greco, esse non possono dissimulare il sostrato di speculazioni orientali in cui affonda le radici la loro dialettica. Joseph Bidez ha mostrato tutto ciò che lo stoicismo deve, non solo ai semiti che l’hanno diffuso, ma alle credenze del semi­ tism o71; ed è certo che il neopitagorismo professato nell’Urbe da Nigidio Figulo fu profondamente modificato dal pensiero alessandrino72. D ’altra parte le somiglianze che sono state segnalate da Franz Cumont tra culti di origine tanto diversa, come quelli di Cibele e di Attis, di Mithra, dei Baalim e della dea Syria, d’Iside e di Serapide, sono troppo numerose e precise per non svelare l’unità di un fondo comune. Vengano dall’Anatolia o dall’Iran, dalla Siria o dall’Egitto, siano divinità maschili o femminili, adorate secondo riti cruenti o inoffensivi, le divi­ nità « orientali » che troviamo nell’impero romano mostrano caratteri identici, sottintendono concezioni che si ripetono e sembrano potersi trasferire dall’una all’altra. Son dèi che, lungi dall’essere impassibili, soffrono, muoiono e risuscitano; dèi i cui miti abbracciano il Cosmos e di questo chiudono in sé il segreto; dèi, la cui patria astrale domina tutte le patrie terre­ stri, e che assicurano ai soli iniziati, ma senza distinzione di nazionalità e di condizione, una protezione proporzionata alla purezza di ognuno. Vano sarebbe lo sforzo di voler porre a fondamento delle analogie che ravvicinano le diverse religioni non so quale ar­ monia prestabilita tra le mentalità orientali che le crearono. La verità è che nessuna di quelle religioni « orientali » rag­ giunse la terra italica senza un lungo soggiorno preliminare in paese greco o grecizzante; e che introdotte dall’ellenismo su­ bito dopo la conquista di Alessandro, ne superarono le fron­ tiere solo quando, nel passaggio, si furono alleggerite della parte più grossolana del loro bagaglio, e si furono invece cari­ cate della sua filosofia cosmopolita73. A ciò è dovuta la tinta uniforme di cui esse son soffuse, l’aderire — a mezzo di un simbolismo dai segni abbastanza uniformi — dei loro miti particolari all’idea di una divinità universale; questo spiega 151

inoltre la loro subordinazione a un’astrologia che trionfa con eguale evidenza sul diadema raggiato di Attis ad Ostia e nella maggior parte dei nostri mithraea, come pure nel soffitto del santuario di Bel a Paimira, in cui l’aquila di Zeus spiega le sue ali nel cerchio delle costellazioni zodiacali. Finalmente di là deriva soprattutto la facilità con la quale i romani si con­ vertirono agli dèi d’Oriente, non soltanto perché 1’Oriente era ricco e popoloso, ma perché la civiltà ellenistica di cui Roma era imbevuta aveva rielaborato nello stesso modo culti venuti da tutte le parti dell’Oriente a propria immagine e per dir così sotto la pressione delle sue tendenze spirituali. Nel il secolo d. C. tali culti si avviano a sommergere l’Urbe. Quelli d’Anatolia vi erano stati naturalizzati dalla ri­ forma della liturgia di Cibele e di Attis decretata dall’impe­ ratore Claudio. I culti egiziani, banditi sotto Tiberio, furono pubblicamente ammessi in Roma da Caligola; e il tempio d’Isi de, distrutto in un incendio nell’80 d. C., fu ricostruito da Domiziano con un lusso di cui sono segno gli obelischi rimasti in piedi tanto in Piazza della Minerva quanto nei luoghi im­ mediatamente vicini, davanti al Pantheon, e le colossali statue del Nilo e del Tevere, conservate in parte nei Musei vaticani e in parte al Louvre. G ià a metà del primo secolo, Hadad e la sua « paredra » Atargatis, la dea siriaca che era la sola divinità cui Nerone — negatore di tutte le altre — acconsentisse a rendere omag­ gio, vi ebbero un tempio che Paul Gauckler, nel 1907, ha ritrovato, e che era posto sulla riva destra del Tevere sotto il Lucus Furrmae del Gianicolo. E infine è sicuro che nell’epoca dei Flavi, alcuni santuari di Mithra erano stati aperti in Roma come a C apua74. I numerosi collegi che adoravano questi dèi eterogenei, non solo coesistevano senza urti, ma si univano per la conquista dei loro adepti. Ad Ostia pare che i devoti di Attis e quelli di Mithra avessero acquistato, dividendosi la spesa, l’area dove vennero eretti fianco a fianco gli edifici dei rispettivi culti. Nel tempio del Gianicolo, gli idoli siriaci sta­ vano in buona compagnia con le statue delle divinità greche ed egiziane75. Tra queste diverse religioni c’erano più affinità e intese che non rivalità; le une e le altre erano servite da sacerdoti gelosamente segregati dalla folla dei profani; la loro 152

dottrina assumeva l’autorità di una rivelazione, e il loro pre stigio era dovuto alla singolarità del loro abito e del loro genere di vita. Le une e le altre imponevano ai propri seguaci iniziazioni preliminari e un ricorso periodico a regimi più o meno ascetici. Le une e le altre traducevano, ognuna a modo suo, le stesse speculazioni astrali ed enoteistiche, accreditavano gli stessi messaggi di speranza. Coloro che non ne erano rimasti sedotti le accomunavano nel loro sospettoso rancore. Così Giovenale, il quale non si dà pace di vedere l’Oronte versare nel Tevere il fiotto delle sue superstizioni, colpisce a casaccio, senza far distinzione tra loro Poiché Tiberio aveva colto a pretesto un adulterio favorito dagli intrighi di alam i isiaci per scacciarli in blocco, egli sfer­ za indifferentemente tutti quei preti orientali che taccia di ciarlataneria e truffa, caldei, commageni, frigi, isiaci: « Que­ sti che, circondato da seguaci Nei lini avvolti e con le teste rase, Vien nuovo Anfibi, fra le turbe in pianto » 76. Ritorna senza stancarsi sullo spudorato sfruttamento cui si abbando­ nano, sia vendendo per « un’oca grassa e una torta soffice » l’indulgenza dei loro dèi alle credule peccatrici, sia, promet­ tendo, in nome dei loro doni profetici e delle loro facoltà di­ vinatorie, « un giovine amante o la pingue Eredità d’un ricco senza figli » 77. Lancia fulmini contro la loro oscenità: ora con­ tro il sinistro corteggio della Madre degli dèi dal quale emerge « un gigante semiviro, Ceffo onorato da seguaci osceni » 78, ora contro ciò che avviene durante i misteri « della Dea Bona, Quando il flauto stimola le reni, E impazzate dal suono e insiem dal vino, Di Priapo le Menadi son tratte A ululare ed a squassar le chiome » 79. Si sbellica dalle risa alla vista delle penitenze e delle macerazioni cui bigotte e bigotti si sotto­ pongono con cupo trasporto: una « D ’inverno scenderà, rom­ pendo il ghiaccio, Nell’acqua, per tre volte ogni mattina Si tufferà nel Tevere » e « nuda e tremebonda, il campo Tutto percorrerà del re Superbo Strisciandovi i ginocchi insangui­ nati » ; e un’altra « Se la candida Io glielo comandi, Sino ai confini dell’Egitto accorre, dalla torrida Mèroe recando L ’ac­ qua che dovrà spargere nel tempio D ’Iside » 80. Tale inesaurì­ bile severità non deve sorprenderci. Giovenale interpreta con

153

la forza del suo genio la reazione spontanea di quei « vecchi romani » misoneisti e xenofobi che sentivano come degrada­ zione ogni esuberanza, e che avrebbero voluto regolare i mo­ vimenti della fede sul saggio ordinamento di una parata civica o legionaria. Ma, a distanza di tempo, le sue prevenzioni ci ap­ paiono terribilmente ingiuste; prima di tutto perché egli rin­ faccia alle sole religioni orientali superstizioni la cui origine rimonta ben più lontano dell’intrusione dell’Oriente nella sto­ ria di Roma, e che si sono sviluppate spesso al di fuori di quelle; in secondo luogo, e soprattutto, perché, accecato dal suo accanimento contro di esse, non riconosce il progresso mo­ rale che, nonostante i loro eccessi e i loro traviamenti, le reli­ gioni orientali hanno realizzato con il loro fervore. Per esempio, la divinazione, alla quale senza dubbio la loro astrologia portò una nuova vitalità, era stata praticata sempre a Roma. Conseguenza di un politeismo che, fin dal tempo di Omero, aveva incatenato lo stesso Giove alle necessità del Destino, essa era inseparabile dalla pratica degli àuspici e dalle operazioni di extispicina che venivan compiute in nome della città, a tal punto che nel n secolo d. C. spiriti indifferenti se non ostili alle religioni straniere vi ricorrevano senza imba­ razzo né diffidenza, e i pubblici poteri ne dubitavano tanto poco che punivano gli indovini non autorizzati. Quando dunque Giovenale deride i seguaci dei caldei, che tremavano di spavento all’annuncio delle congiunzioni di Sa­ turno, o la stolta donna che stando a letto ammalata « niun’ora le par atta al cibo Meglio di quella che le suggerisce Petosìride » 81, si rifiuta di vedere che in tutti gli strati della società romana i tiepidi e gli empi erano in preda alle stesse credulità e alle fobie che egli biasima tra i devoti. Così, quel liberto arricchito di Trimalcione fa cenare i suoi invitati davanti a un trionfo da tavola che rappresenta lo zodiaco; si vanta con loro di essere nato « sotto la costella­ zione del Cancro », segno straordinariamente favorevole cui deve « il fatto d ’essere ben saldo e di possedere beni per mare e per terra »; poi ascolta a bocca aperta storie di vampiri e di lupi mannari; e finalmente, poiché gli capita di sentire il canto del gallo, nel mezzo delle sue gozzoviglie notturne, si turba e 154

rabbrividisce per il cattivo presagio82. Né gli esempi sono meno significativi andando più su nella scala sociale. Tacito — malgrado alcune riserve discrete e certe lievi ironie — si astiene dal negare formalmente la verità dei « prodigi », che menziona con lo stesso scrupolo dei suoi antecessori, e confessa di non osare affatto omettere e considerare come favole, fatti « stabiliti dalla tradizione » 83. Intorno a lui la maggior parte dei suoi pari sono tormentati dallo stesso genere di preoccu­ pazioni. Svetonio per via di un sogno è sconvolto, e si vede già in procinto di perdere il processo in cui è impegnato. Re­ golo, l’odioso avversario di Plinio il Giovane nel foro, utilizza gli oroscopi e l’aruspicina per confermare la sua fama e acca­ parrare testamenti. Plinio il Giovane, poi, è incline a respin­ gere le puerilità delToniromanzia, e manifesta l’opinione, nel citare Omero, che in ogni contingenza e quali che siano i sogni che ritornano nel suo sonno, egli ritiene per certo che « ottimo auspicio fra tutti è questo: pugnar per la patria ». Ma nello stesso tempo va ad incomodare il vice imperatore, il consolare Licinio Sura — il quale univa alla sua abilità d’uomo di guerra la reputazione di pozzo di scienza — , e gli domanda per iscritto che cosa si debba pensare degli spettri e dei fantasmi, alla cui esistenza l’hanno costretto a credere 84 una serie di esperienze, che narra minutamente. La sua lettera a tal proposito basterebbe a mettere in guar­ dia contro gli attacchi veementi di Giovenale. Leggendo le scempiaggini di cui quella lettera è intessuta, ci si sente subito disposti alla massima indulgenza per una divinazione che gli stoici cercavano per lo meno di legittimare con l’azione imma­ nente della Provvidenza, e per quell’occultismo e quella teur­ gia, che le religioni orientali avevano il merito di usare per l’esaltazione delle anime. Perché sarebbe vano negare la superiorità delle religioni orientali sulla inerte teologia ch’esse hanno soppiantato. Senza alcun dubbio riti come il taurobolio della Grande Madre, o l’esposizione e il corteggio del pino sradicato che evoca la muti­ lazione di Attis hanno qualcosa di barbaro e impudico, e si può ben dire che esalano « quasi un tanfo di mattatoio e di luogo equivoco » 85. Ma ciò nonostante le religioni che li praticavano 155

hanno esercitato sugli individui un’azione tonica e benefica, che li elevava finalmente al di sopra di se stessi. Per convincersene basta riportarsi alla vigorosa analisi di Franz Cum ont66. Le religioni orientali abbagliano il fedele con lo splendore delle loro feste e la pompa delle loro processioni; lo seducono con i loro languidi canti e con la loro musica inebriante; sia per la tensione nervosa, che provocano le prolungate ma­ cerazioni e le ossessionanti contemplazioni, sia per l’eretismo delle danze vertiginose, sia per l’assorbimento di bevande fer­ mentate dopo un’astinenza, tendono sempre ad un’estasi in cui « l’anima sciolta dalla soggezione del corpo e liberata dal dolore si perde nel rapimento ». Franz Cumont osserva giusta­ mente che nel misticismo si può scivolare « dal sublime alla depravazione ». Ma è anche vero che dalle depravazioni ine­ renti ai culti naturistici, e sotto la spinta convergente della speculazione greca e della disciplina romana, i misticismi orien­ tali avevano saputo sprigionare un ideale e salire verso le alte regioni dello spirito in cui il congiungimento di un sapere in­ tero, di una perfetta virtù, e di ima vittoria sul male fisico, sul peccato e sulla morte, appariva in uno splendore glorioso come il compirsi di promesse divine. Per falsa che fosse la scienza incorporata nella « gnosi » di ognuna di esse, questa eccitava e calmava nel tempo stesso la sete di sapere degli iniziati. Alle abluzioni e lustrazioni materiali aggiungevano ora una pacifica­ zione interna per mezzo della rinuncia e dell’ascesi. Infine, in­ segnando che la liturgia rimane priva d ’efficacia senza la pietà, le religioni acquistavano il diritto di profetizzare il futuro accesso dei loro iniziati alla felice immortalità che i loro dèi perpetuamente rinascenti posseggono nelle sfere del cielo. Ben presto esse dettero impulso a un movimento di spiritualità che attirò a sé le coscienze ribelli. I migliori nell’Ur^r, compresi coloro che si credevano più lontani dalla mistica orientale, sentivano confusamente che le grazie divine si dovevano più meritare che ottenere. Prima che Giovenale plachi le sue collere nella serena con­ vinzione che « agli dèi siam cari più che a noi stessi » **, Per­ sio, al principio della seconda metà del primo secolo, non esita a credere che gli dèi — tra i quali non fa alcuna distinzione — 156

esigano da lui un’« anima in cui regnino armoniosamente il di­ ritto sacro e il diritto profano, uno spirito purificato in ogni sua più riposta piega, un cuore pieno di onestà generosa » 88; e Stazio, sotto Domiziano, formula implicitamente questo atto di fede nella forza esclusiva della religione personale: « Povero come io sono, come potrei assolvere il mio debito verso gli dèi? No, io non ci arriverei mai, anche se l’Umbria consumasse per me le ricchezze delle sue vallate e se le praterie del Clitumno mi fornissero i loro tori bianchi come neve; eppure gli dèi hanno molte volte gradito l’offerta che portavo loro di un po’ di sale e di farina, su di ima zolla erbosa » 89. Interpreti dei loro contemporanei, i poeti considerano il favore divino come la ricompensa della virtù degli uomini. D ’altra parte, nella lingua del n secolo, la parola latina saluSy cui fino allora era stato attribuito soltanto un significato terra terra di salute fisica, assume anche un significato morale ed escatologico, in cui sono implicite la liberazione dell’anima quaggiù e la sua beatitudine nell’eternità celeste; e gradual­ mente l’idea trascendente di salvazione si estende dai culti orientali a tutte le istituzioni veramente religiose dell’antichità romana. Essa anima quella che sotto Adriano si è costituita di colpo in onore di Antinoo, il bellissimo schiavo di Bitinia, che in Egitto aveva sacrificato la sua vita per salvare quella del­ l’imperatore 90; riunisce intorno a sé le confraternite in cui si incontravano, specialmente a Boville, sotto Antonino Pio, i dendrofori di Cibele e di A ttis91, e anche i semplici collegi funerari che, fin dal regno di Adriano, riunirono in una sola famiglia e sotto la duplice invocazione della Diana dei morti e del salvatore Antinoo Ì plebei e gli schiavi di Lanuvio92. L ’idea trascendente di salvazione ha acquistato tanto pre­ stigio che i collegi e le confraternite prendono il loro nome dal­ l ’epiteto che esprime la grande speranza: collegium salutare. G li stessi principi non possono sottrarsi alla sua forza. Per quanto le monete e i monumenti ce li mostrino desiderosi — nel il secolo d. C. — di essere assimilati agli Olimpi (l’Au­ gusto a Marte, da cui trassero origine i fondatori delYUrbs, l ’Augusta a Venere, madre comune dei Cesari e del popolo ro­ mano 93), o di ritemprare la loro santità di recente acquisizione 157

nel flusso consacrato delle vecchie leggende latine, essi nondi­ meno non credono più che l’apoteosi, decretata dal senato per protocollo, sia sufficiente a procurare la salute soprannaturale di cui provano il bisogno come tutti gli altri mortali. Dopo che Adriano eresse statue, templi e città ad Antinoo, prima che Commodo entrasse nella congregazione di Mithra Antonino Pio attesta col chiaro linguaggio del rovescio delle monete, che Faustina Maggiore — la moglie perduta al principio del suo regno, e il cui tempio leva ancora alto sul foro il suo fre­ gio simbolico — era salita al cielo sul carro di Cibele solo per la protezione della Madre degli dèi, signora di salvezza: Mater dcurn salutarti 95. In questo periodo, dalla fusione delle mistiche orientali con la saggezza romana, nascono e fioriscono sulle rovine del pan­ theon tradizionale nuove e feconde credenze. Nel seno stesso del paganesimo in rovina, si assiste alla nascita e al primo emer­ gere di una nuova teoria della redenzione umana della quale i meriti personali non meno del soccorso divino costituiscono le condizioni. Così, secondo una coincidenza che gli agnostici interpretano alla luce del determinismo storico, ma in cui i credenti, a cominciare dal Bossuet, riconoscono l’intervento della Provvidenza ch’essi adorano, Roma creò il dim a favo­ revole al cristianesimo, nel tempo in cui la chiesa dei cristiani era già ampia e solida abbastanza per scavare nell’Urbe i suoi primi cimiteri collettivi e per elevare, fino ai gradini del trono, con la voce dei suoi apologeti, l’esempio e le preghiere dei suoi fedeli.

7.

l ’a v v e n t o d e l

c r is t ia n e s im o

Infatti, se è vero che né Stazio, né Marziale, né Giovenale pare sospettino l’esistenza del cristianesimo, se Plinio il G io­ vane — che in Bitinia ebbe tuttavia a trovarsi in dissidio con i cristiani della sua provincia96 — non si lascia sfuggire nelle sue Lettere alcuna allusione ad esso; se Tacito e Svetonio non ne parlano che per sentito dire, il primo con aggettivi ingiu­ riosi che escludono ogni conoscenza obiettiva, il secondo con 158

confusioni che provano le lacune della sua informazione e la sua mancanza di perspicacia97, non per questo è meno sicuro che la comunità cristiana di Roma risale al regno di Claudio98 (41-54), e che sotto il regno di Nerone essa è abbastanza svi­ luppata; tanto che quel principe, facendo ricadere sui suoi membri l’indignazione per l’incendio dell’Urbe, le inflisse nel 64, con atroci, raffinati supplizi, la prima delle persecuzioni che si abbatterono su di essa senza riuscire a distruggerla. Evi­ dentemente il suo sviluppo clandestino progredì con stupefa­ cente rapidità e ciò si spiega non tanto, forse, con l’impor­ tanza dell’U r i nel mondo, quanto con l’importanza nelVUrbs della colonia ebraica. Questa vi si era acclimatata per la bene­ volenza di Giulio Cesare, e fin dal principio dell’impero si mostrò tanto numerosa e turbolenta che Tiberio, costretto a intervenire duramente nel 19 d. C., poté spedire in Sardegna 4 000 ebrei in una sola volta. Fu grazie ad essa che il cristia­ nesimo, nato a Gerusalemme, penetrò in Roma spezzando fin d ’allora la sua unità e facendo levare gli uni contro gli altri i seguaci dell’antica legge e gli adepti della fede nuova. La religione degli ebrei aveva esercitato la sua attrazione su parecchi romani sedotti dalla grandezza del suo monoteismo e dalla bellezza del Decalogo. La religione dei cristiani, che splendeva della stessa luce, ma divulgava inoltre uno splendido messaggio di redenzione e di fraternità, non tardò a sostituirvi il suo proprio proselitismo: viste dal di fuori e da lontano, le due religioni sulle prime si erano lasciate confondere; è pos­ sibile, per esempio, che le invettive lanciate da Giovenale contro gli ebrei ricadessero in parte sui cristiani, che egli an­ cora non distingueva, e che, osservanti anch’essi dei coman­ damenti di Dio, potevano agli occhi di superficiali osservatori passare semplicemente per « seguaci dei costumi ebraici » 99. Ma dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 e sotto i primi Antonini, la chiesa cominciò per forza a di­ stinguersi dalla sinagoga, e la sua propaganda, non limitata da alcuna considerazione etnica, ben presto soppiantò l’altra. Non siamo certamente in grado di dare una cifra delle conversioni che in questo periodo il cristianesimo operò in Roma, ma sa­ rebbe errato limitarle al popolino. Le Lettere di Paolo, salu­ 159

tando quei fratelli che appartengono al seguito di Cesare {in domo Caesaris) dimostrano che fin nei primissimi tempi l'apo­ stolo aveva reclutato discepoli tra la servitù degl’imperatori, tra quegli schiavi e quei liberti, i quali, sotto l ’apparenza di ima speciosa umiltà, erano tra i più potenti servitori del regime 10°. Qualche anno più tardi, numerosi indizi concordi ci fanno pensare che la chiesa cristiana si avviava a spingere le sue conquiste tra le classi dirigenti. Tacito ci fa sapere che Pomponia Grecina, moglie del console Aulo Plauzio, il vincitore dei bretoni, che visse sotto Nerone e morì sotto i Flavi, era stata sospettata di appartenere « ad una religione criminosa­ mente straniera » a causa della sua austerità, della sua tristezza e dei suoi abiti di lutto. Dione Cassio e Svetonio ci riferiscono che Domiziano fece perseguitare successivamente per delitto d’ateismo Manió Acilio Glabrione, console nel 91, che fu messo a morte; poi la coppia dei suoi cugini germani, Flavio G e ­ mente, console nel 95, condannato alla pena capitale, e Flavia Domitilla, relegata nell’isola di Pandataria 101. E finalmente Ta­ cito nelle sue Historiae nota che lo stesso fratello di Vespa­ siano, Flavio Sabino, prefetto dell’Urbe, « allorquando Nerone mutò i cristiani in torce viventi per illuminare i suoi giardini, sembrò, verso la fine della sua vita, ossessionato dall’orrore del sangue versato » ,02. Certo, nessuno di questi testi ha formalmente incluso tra i cristiani qualcuno di questi grandi personaggi. Ma è legittimo chiedersi, con Émile Mâle, se l’ossessione e la moderazione di Flavio Sabino non fossero dovute al fatto che egli era stato acquisito alla nuova religione dal coraggio dei primi martiri rom ani103, ed è più probabile ancora che con quella « religione straniera » rimproverata come illecita a Pomponia Grecina si alludesse al cristianesimo. Lo stesso vale per l’accusa di ateismo contro quei credenti che la fede distoglieva palesemente dal rendere i dovuti onori ai falsi dèi del politeismo ufficiale. Nel caso particolare di Flavio Clemente e di Flavia Domitilla, la verisimiglìanza è ulteriormente accresciuta dal fatto che la loro nipote — che si chiamava Flavia Domitilla come la zia — fu, per testimonianza di Eusebio, internata per reato di cristia­ nesimo nell’isola di Ponza 104. 160

In ogni caso, anche a voler ammettere, insieme con certi critici radicali, che la catacomba di Priscilla, ove sopravvisse il ricordo degli Acilii Glabriones; la cripta di Lucina, in cui fu scoperta un’iscrizione posteriore intestata a un tale Pomponio Grecino, e la tomba di Domitilla, il cui nome evoca irresisti­ bilmente le persecuzioni di Domiziano, non possano farsi risa­ lire a un’epoca anteriore al secondo terzo del n secolo, l’ipotesi delle conversioni clamorose avvenute alla fine del primo secolo, resa plausibile dai numerosi indizi convergenti notati dal De R o ssi105, non può essere scartata. E in ogni caso, resta stabilito al di fuori di ogni contestazione che la corte di molti impor­ tanti personaggi di questo periodo, seguendo il richiamo del Cristo, andò a ingrossare, fin dal tempo di Adriano (117-138), le file della « chiesa » romana. Certo, quest’ultima rimase nel­ l’Urbe null’altro che una debole minoranza, e, come tale, espo­ sta ai pregiudizi della massa e all’ostilità del potere; non sol­ tanto perché i cristiani si astenevano dalle pratiche religiose tradizionali, ma anche perché, presi dalla visione della loro patria celeste e dimentichi della loro città natale, a chi li inter­ rogava sulla loro origine rispondevano soltanto con il loro nome di cristiani, apparendo così come disertori e nemici pub­ blici 106. Il fatto è che i castighi ai quali la loro intransigenza li esponeva erano troppo incoerenti per riuscire a sterminarli e, al tempo stesso, sopportati con tanta fermezza da suscitare l’ammirazione dei loro avversari. E più che le Apologie, di cui Quadrato iniziò la serie, sotto il principato di Adriano, l’eroi­ smo dei loro martiri insieme con la forza del loro credo e con la dolcezza evangelica di cui era materiata la loro vita, non ces­ seranno più d ’ora in poi di accrescere i loro progressi. Perché, infine, anche quegli studiosi che rilevano delle analogie tra il cristianesimo e i misteri pagani finiscono per convenire che a questi il cristianesimo si è conformato solo in quanto li ha superati,07. E di quanto li ha superati! Al politeismo degli dèi greco-romani — anche se ormai ridotti alla condizione di simboli, all’enoteismo diffuso dalle religioni orientali, oppo­ neva la sua dottrina del Dio unico, sovrano e paterno. Alle idolatrie, anche attenuate dalla metafisica dell’etere divino e di pianeti eterni, opponeva un culto secondo lo spirito, libe­ 161

rato dalle loro aberrazioni astrologiche, dai loro sacrifici cruenti e dalle loro torbide iniziazioni, cui sostituiva, per suo conto, un battesimo con acqua pura, delle preghiere, una cena cele­ brata in comune. Come i misteri pagani dava, sulla fede dei suoi libri sacri, una risposta a tutto: sull’origine delle cose e sul destino degli uomini; ma il redentore di cui rivelava la « buona novella », invece di perdersi incomprensibile e ambi­ guo, nel dedalo delle mitologie, appariva nella realtà miraco­ losa della vita terrestre di Gesù, figlio di Dio. Come quelli garantiva la salvezza dopo la morte, ma invece di inabissarla nella voragine silenziosa dell’eternità siderale, la vivificava con la resurrezione individuale di cui la resurrezione di Cristo era la prefigurazione. Come quelli, infine, il cristianesimo dettava una regola ai suoi credenti; ma se pur non escludeva la con­ templazione, l’ascetismo e l’estasi, non ne abusava affatto e con­ densava la sua morale nella carità e nell’amore del prossimo, comandato dai suoi evangeli. Senza dubbio fu questo il punto che costituì il più forte richiamo della nuova religione; i cristiani erano tutti fra­ telli e così si chiamavano tra loro; le loro riunioni spesso pren­ devano il nome di agape, che in greco significa amore; si aiuta­ vano costantemente gli uni con gli altri « senza rumore né superbia ». Di comunità in comunità era un incessante circolare « di consigli, d’informazioni, di soccorsi materiali » e « tutto ciò », come dice il Duchesne, « aveva ben altra vitalità che non le confraternite pagane ». E quanti, certamente, allora avranno esclamato: « che religione semplice e pura! che confidenza hanno nel loro Dio e nelle sue promesse! come si amano tra loro e come sono felici! » l.,ix , 12,1 [tr. di G. Vitali, Bologna 1963]. 9 marziale, h i , 10. 10 plinio il giovane, Ep., IV, 2, 3. 11 ID., Ep., ì, 9, 4. 12 Circa i regali di fidanzamento cfr. ulpiano, in Dig., xvi, 3, 25 pr.

13 A proposito dell’anello e dei pegni, cfr. p l in io , N.H., xxxm, 28. 14 In GIOVENALE, VI, 25 sgg., la sola fidanzata riceve l’anello. Cfr. TERTULLIANO, Apoi., 6. 15 AULO GELLIO, X, 10.

16 Su questi particolari cfr. Ca­ t u l l o , 61; f e s t u s , 63, M.; o vid io , Met., x, 1; p l in io , N. H., vili, 194; xv, 86; x x v i i i , 63; p l u t ., Qu. Rom., xxx e XXXI ; GIOVENALE, vi, 227 e x, 330; CLAUDIANO, XIII, 1; XXXI, 96; xxxv, 328. Sul rito della soglia, cfr. r o s e , The Roman Questions of Plutarch, 1924, pp. 101 sgg. 17 d u c h e s n e , Origines du culle chrétien, p. 455 . 18 lu c a n o , Phars., n, 370-371. 19 Sull’antico stato di « minori­ tà » della donna, cfr. gaio , i , 144: Veteres enim voluerunt foeminas etiamsi perfectae aetatis sint propter animi levitatem in tutela esse. Vedere anche c i ­ c er o n e , Pro Mur., xu, 27: Multeres omnes propter infirmitatem consilio maiores in tutorum potestate esse voluerunt. 20 Sui tutori legittimi, resi amo­ vibili e poi inutili, cfr. gaio , i , 173-174 e 115, 145 e 157. 21 A q u esta citazione di g iu l ia ­ 323

no,

in Dig., xxiii, 1, 11, ravvi­ cinare ulpiano, ap. Dig., l , 17, 30: Nuptias, non concubitus sed consensus facit. 22 Cfr. ch. Favez: 17n féministe romain: C. Musonius Rufus, in « Bull. Soc. Et. de Lettres de Lausanne », ottobre 1933, pp. 1-9. 23 A proposito di Sestia e Paxea, cfr. tacito, Ann., vi, 29. 24 Per Paolina, cfr. tacito, A »»., xv, 62 e j. carcopino, Choses et gens du pays d’Arles, nella « Revue du Lyonnais », 1922; e Points de vue sur l’impéria­ lisme romain, pp. 247-8. 25 Su Arria maggiore, cfr. pli­ nto il giovane, Ep., in , 16. 26 Su Arria minore, cfr. tacito, Ann., xvi, 34. 27 PLINIO IL GIOVANE, Ep., VI, 24. 28 Cfr. MARZIALE, XI, 53 (su Claudia Rufina); iv, 75 (su Nigrina); x, 35 e anche x, 38 (su Sulpicia). 29 Circa la moglie di Macrino, cfr. PLINIO IL GIOVANE, Ep., vin, 5. 30 Elogio di Calpumia in plinto il giovane, Ep., iv, 19. 31 PLINIO IL GIOVANE, Ep., IV, 7 e vii, 5. 32 Sul matrimonio di interesse, cfr. PLINIO IL GIOVANE, Ep., I, 14. 33 Sulla camera di Plinio il Gio­ vane, vedi Ep., ix, 36. 34 SvBïabortus diCalpurnia, cfr. PLINIO IL GIOVANE, Ep., V ili, 10 e 11. 35 Giovenale, vi, 243-247, 398412, 434-456. 36 PLINIO IL GIOVANE, Ep., I, 16,

6.

37 giovenale, vi, 439-441, 448456.

38 GIOVENALE, i, 22-23, 61-62; vi, 246-264. 39 id ., vi, 301-305, 426-433. 433. 40 id ., vi, 509. 41 id ., vi, 282-284. 42 PLINIO IL GIOVANE, Ep., VI, 31. 43 GIOVENALE, XI, 186-189. 44 Catone in a u lo g e l l io , x , 23; cfr. QUINTILIANO, V, 10, 104. Sulla Lex Iulia de adulteriis, cfr. pa o lo , Sent., 26, 4 e 16; m o d e st in o , in Dig., xxiu, 2,26; u l p ia n o , in Dig., xxv, 7, 1, 2; Collatio, iv, 12, 3 e 7; m a r ­ z ia l e , II, 39 e GIOVENALE, II, 70. 45 MARZIALE, VI, 4. 46 GIOVENALE, II, 29, 31. 47 Su Settimio Severo, cfr. dio n e CASSIO, l x x v i , 16, 4. 48 Sul testo delle Dodici Tavole, cfr. cicerone, Pbil., n, 28, 69. 49 Su Antonio radiato dall’albo senatorio dai censori del 307, cfr. VAL. MAX., il, 9, 2. 50 Su Spurio Carvilio Ruga, cfr. VALERIO MASSIMO, II, 1, 4 e AULO GELLIO, X, 15. 51 Vedi il testo di Valerio m a s ­ s im o , vi , 3, 10-12. Dei nomi ch’egli cita uno è assolutamen­ te sconosciuto (Q. Antistio Ve­ to), gli altri due potrebbero de­ signare personaggi della secon­ da metà del in secolo a. C. (tra il 293 e il 218) se è vero che Valerio Massimo ha tratto i suoi esempi dalla seconda Deca di Tito Livio, per noi perduta. 52 Nel matrimonio cum manu la donna aveva raggiunto lo stes­ so scopo: cfr. gaio, i , 137 A. 53 Sul quinto matrimonio di Sii­ la vedi il mio libro Sylla ou la monarchie manquée, p. 217. 54 Sui divorzi di Pompeo, cfr.

324

ivi, pp. 190-1 e PLUTARCO, Pompeo, iv e x. 55 Sul divorzio di Cesare, cfr. il mio César, p. 667. 56 Sul divorzio di Catone Uticense, cfr. p l u t a r c o , Calo Mi­ nor, xxxvi e l i i . 57 Sul divorzio di Cicerone, cfr. i testi riuniti da w e in s t o c k p . w., Va, c . 714-716. 58 Sulla rottura dei fidanzamen­ ti, cfr. sv e t o n io , Aug., 34; sulle leggi di Augusto, cfr. pa o lo , in Dig., xxiv, 29 e so­ prattutto gaio , i i , 62 e 63. In complesso mi avvalgo, per quan­ to riguarda le conseguenze del­ le « leggi giulie », delle acute osservazioni di edouard c u q , Institutions, p. 182. 59 Sulle ritenzioni dotali, che compaiono alla fine della re­ pubblica, cfr. Dig., x x i i i , 3, 73; i, 1, 8; xxiv, 3, 47; xxv, 2, 3; 5, 18; u l p ia n o , Reg., vi, 9-12 e vii, 1 sgg., ecc. Sulla loro applicazione nell’epoca in cui ci occupiamo, cfr. plin t o , N. tì., xrv, 14.

60 orazio, Od., m , 24, 19. 61 Sulle difficoltà della gestione maritale fuori d’Italia (ir. pao­ lo, Sent., ii , 21 b, 2, e Giusti ­ niano, Inst., il, 8 (da confron­ tare col passo di Gaio cit.). 62 Sul procurator, cfr. marzia­ le , v, 61. 63 GIOVENALE, VI, 212-213. 64 id., vi, 460. 65 MARZIALE, Vili, 12, 1-2. 66 GIOVENALE, VI, 144-146. 67 gaio, in Dig., xxiv, 2, 2, 1. 68 GIOVENALE, VI, 225-228. 69 MARZIALE, VI, 7. 70 JAVOLENO, in Dig., XXIV, 3, 64. 71 gaio, in Dig., xxiv, 1, 61. 72 Seneca, De benef., ni, 16, 2. 73 Circa il dominio della donna, cfr. Giovenale, vi, 224: impe­ rai ergo viro. 74 Sulla famiglia romana all’epo­ ca della repubblica cfr. l’eccel­ lente monografia di r. paribeni, La famiglia romana, Roma 1929. 75 MARZIALE, VI, 7, 5.

CAPITOLO TERZO 1 Sul concubinato, cfr. la tesi di diritto del p l a s s a r d , Tolosa 1921. 2 Sul concubinato di Marco Au­ relio, cfr. DIONE CASSIO, LXXI, 29, i; H. Aug. M. Ani. ph., 29, 10. Vespasiano aveva del resto preceduto il « filosofo » prendendo come concubina, do­ po che rimase vedovo, la liber­ ta Caenis; cfr. s v e t o n io , Vesp., 3. 3 PLINIO IL GIOVANE, Ep., Ili, 14, 3.

4 MARZIALE, V ili, 71, 6; VII, 64,

1-2; vi,, 39 e xn, 58. 5 Sulle « lupe », cfr. g io v e n a le , i i i , 6 6 ; m a r z ia l e , i, 35, 8 ecc. 6 Su Catone, cfr. p l u t a r c o , Ca-' to Maior, x x ; Dig,, x l , 30, 3, 5: decretis divi Pii obtìnuit mater ut sine deminutione pa­ triae potestatis apud earn filius moraretur. 7 Sulla scelta di un pedagogo per Corellia, cfr. plinto i l g io ­ v a n e , Ep., m , 3, 3 e sgg. Circa l’educazione servile della pri­

325

ma età, cfr. tacito, Dial. de O r, 29. 8 Sui clubs femminili, di cui si parla a Roma dopo il primo se­ colo ( sv et o n io , Galba, v, i), fino al v ( san giro la m o , Ep., 43, 3), cfr. C.I.L., vr, 997 e xiv, 2, 120. 9 Su Ummidia, cfr. plinio il giovane, Ep., vii , 24. 10 p l a u t o , Bacchides, n , 2 [tr. di G. Vitali, Bologna 1958]; cfr. b o is s i e r , Fin du paganisme, i, p. 149. 11 Sulla retribuzione dei peda­ goghi, cfr. orazio , Sat., i, 6, 75; o vidio , Fasti, ili, 829; C.I.L.. x, 3 969. 12 Sul plagosus Orbilius, cfr. orazio, Ep., li, i, 70. Sui suoi successori, Giovenale, i , 15; marziale, x, 62, 10. 13 Sul maestro di scuola di Faleri, cfr. Livio, v, 27, 1, il cui racconto è evidentemente in­ ventato (cfr. diod., xiv, 95, 6). 14 Sull’educazione romana vedi specialmente a. g w in n , Roman Education from Cicero to Quintilian, Oxford 1926. 15 La prima scuola di Stato fu fondata da Teodosio ir. Codex Theod., vi, 1, 1. 16 QUINTILIANO, I, 3, 1. 17 Sui metodi di lettura, cfr. QUINTILIANO, I, 1, 26. 18 Sui metodi di scrittura, cfr. SENECA, Ep., 94, 51. 19 Sugli abbachi, cfr. la voce di D.A. 28 C.I.L., il, 5, 181, 1, 57; ludi magistros a procuratore] metallorum immunes es[se placet]. L ’importanza del privilegio è d’altra parte diminuita dal fat­ to che è annunciato dopo quel­ lo del pubblico banditore, dei calzolai, del barbiere, ecc.

21 Sugli alfabeti di avorio e di pasticceria, cfr. Qu in t il ia n o , i , 1, 25. Su quello del pedagogo di Erode Attico, cfr. f il o s t r a to , Vii. Soph., il, 1, 10. 22 v e g e z io , De re militari, u , 19. 23 a p u l e io , Florid, 20.

24 AULO GELLIO, XV, 11.

25 Vedi il mio César, p. 974, e i trattati di Cicerone. 26 Sulla politica « intellettuale » di Vespasiano, cfr. l’iscrizione di Pergamo pubblicata da h e r tzog , in « Sitzungsber. der Preuss. Akademie », xxxu, 1935, pp. 967-1910, e commen­ tata da ATTILIO LEVI, in « Ro­ mana », 1937, pp. 361-7. 27 s v e t o n io , De Gramm., i, 2, e Rhet., i. 28 Un caratteristico esempio del ridicolo cui comunemente si esponevano i filosofi, ci è offer­ to dalla oscena parodia dell’in­ segnamento del « Sette Sag­ gi » contenuta nei dipinti del­ le terme scavate recentemente a Ostia, di cui abbiamo fatto cenno. 29 Cfr. il mio César, pp. 974-5, e l’articolo del M a r r o u , in « Mélanges de Rome », 1933. 30 Sui fanciulli prodigio di Ro­ ma imperiale, cfr. U Marrou, Moooikòq àviip, Paris 1937, pp. 196-207. 31 M a rro u , Saint-Augustin et la fin de la culture antique, Paris 1937, c. i l 32 Sulle « grecizzanti » del n se­ colo, cfr. m a r z ia l e , x , 6 8 ; GIOVENALE, I, 185-196. 33 Su Luciano ed i suoi viaggi rimuneratori, cfr. la tesi che non è invecchiata di Maurice Croiset. 34 Circa l’introduzione del lati­

326

no nella chiesa di Roma, al po­ sto del greco, cfr. p. mon­ ceaux, Histoire de la littéra­ ture chrétienne, p. 42; puech, Histoire de la littérature grec­ que chrétienne, h , p. 8. Sul Medioevo della metà del in secolo, cfr. le belle pagine iniziali del manuale di Critique verbale di Louis havet. Inve­ ce, sulla vernice superficiale di ellenismo nell’Africa romana, vedi il libro di thieling, Der Hellenismus in Kleinafrika, Lipsia-Berlino 1911. D’altra parte sarebbe facile provare che la liturgia degli ebrei di Roma e quella dei dionisasti di Torre Nova si svolgeva pu­ re in greco (per i primi v. il Recueil, di Frey, e per i se­ condi vogliano e CUMONT, « American Journal of Arch. », 1933, pp. 215 e sgg.). 35 Su Q. Sulpicio Massimo, cfr. I.G., xvi, 2 012. 36 Sul figlio di Delmazio, cfr. C.I.L., vi, 33, 929. Per un al­ tro esempio, cfr. C.I.L., xi, 6, 435. 37 Per i particolari rinvio al mio breve abbozzo del « Bulletin de la Société française de Pé­ dagogie », marzo 1928, pp. 1519; ai libri del gwynn e del MARROU, già citati. 38 Su Cecilio Epirota, cfr. P.W., ni, c. 1201. 39 Sulla « scienza » di Giuba, cfr. gsell , Histoire ancienne de l’Afrique, vili, pp. 262-3. Su Cirta, cfr. sallustio , De bel­ lo lugurthino, xxi, 2. Circa l’attitudine negativa dell’anti­ chità nei riguardi della scien­ za positiva, cfr. infine p . m . schuhl, Machinisme et philo­ sophie, Paris 1938, pp. 1 sgg.

t a c ito , Dial. de Or., x x x v i, 1 [tr. di A. Resta Barrile, Bo­ logna 1964]. 41 Su Ermagora, cfr. P.W., c. 693-695. 42 C’è sempre molto da appren­ dere nel libro di E. j u l l i e n , Les professeurs de littérature dans l’ancienne Rome, Paris 1885, specialmente nei capp. vi­ vili. 43 svetonio, De rhet., u, 11; cfr. diomede, De declinatione exercitationis chriarum. 44 QUINTILIANO, I, 9, 3. 45 sv e t o n io , De Gramm., 5: veteres grammatici et rhetoricam docebant. 46 sv e t o n io , Rhet., i. 47 Su tale pretesa actio de moribus, cfr. m o m m s e n , Droit pénal, i n , p . 88. 48 AULO GELLIO, XVII, 12. 49 Tesi contraria in M arro u , Saint Augustin et la fin de la culture antique, pp. 53-4. In­ vece derat an i (« Revue phil. », 1929, pp. 184-9) ritiene che per trovare del realismo nelle declamazioni bisogna guardarle con la lente d’ingrandimento. 50 SENECA, Ep., 106, 12. 51 PETRONIO, I. 52 t a c it o , Dial. de Or., x x x v , 4-5 [tr. cit.]. 53 GIOVENALE, VII, 154 e Sgg. 54 Circa il basso materialismo, che viene attestato dalle formu­ le di decine di epitaffi, cfr. i rilievi epigrafici del Br e l ic h , Aspetti della morte nelle iscri­ zioni sepolcrali dell’impero ro­ mano, Budapest 1937, pp. 50 e sgg. 55 Su tale analisi della religione ufficiale a Roma, vedi la mira­ bile pagina del c u m o n t : Les religioni orientales dans le pa-

327

40

ganisme romain, Paris 1906, pp. 25-7 [tr. it., Bari, Laterza, 1913]. 56 b o is s i e r , La religion romaine d’Auguste aux Antonins, il, pp. 141-2. 57 GIOVENALE, XII, 1-16. 58 ID., II, 149-152. 59 Vedi Petr o n io , 44. L ’equiva­ lente « piedi nichelati » per pedes lanatos è dello Emout. Io mi sono permesso di cer­ carne un altro per nemo lovem pili facit, nello stesso passo. 60 t a c ito , Hist., v, 5; Germa­ nia, IX. 61 b o is s i e r , La religion romaine, li, p. 171. 62 PLINIO IL GIOVANE, Ep., Vili, 8 63 PLINIO IL GIOVANE, Ep., IX, 39. 64 PLINIO IL GIOVANE, Ep., IV, 8 65 Gli imperatori non hanno più la fede imperiale: cfr. sul det­ to di Vespasiano, sv e t o n io , Vesp., 3, e ravvicina l’orribile frase che ì'H.A., Geta, 2, ri­ porta di Caracalla su suo fra­ tello: Geta sit divus dum non sit vivus. 66 p l in io i l giovane , Pan., XI, 3. 67 La domus divina, menzionata eccezionalmente già all’epoca di Tiberio (C.I.L., x i i i , 4635), for­ se nel 31 ( m . p . Ch a r l e s w o r th , « Harv. Theol. Rev. », xxix, 1936, p. 112, n. 14; cfr. p ip p id i , « Revista Clasica », x i -x i i , 1939-1940, p. 250), ap­ pare con frequenza al tempo di Domiziano, nelle iscrizioni. Ora, con Nerva celibatario, non c’è domus. 68 Vedi per esempio il contrasto tra il formulario dell’iscrizione

.

.

di Rabat che ho pubblicato in «Mélanges de Rome», nel 1931, e quello dell’iscrizione d’Ain el Djemala, che ho pubblicato ibid., nel 1906. 69 plinio, Pan., xiv, 1. 70 Sul carattere di tiaso delle scuole filosofiche greche, vedi il libro del boyancé, su Le culte des Muses, Paris 1937. La confraternita epicurea di Atene fu sovvenzionata sotto Adriano. 71 j. bidez, La cilé du monde et du soleil cbez les stóiciens, Paris 1932. 72 Circa l’alessandrinismo dei neopitagorici di Roma, cfr. il capitolo della mia Basilique, dedicato a Nigidio Figlilo. 73 La prova di questa dogana morale stabilita negli stati dei diadochi risiede in particolare in ciò che ci viene riferito su Timoteo, ierofante d’Eleusi, ri­ formatore del culto di Attis e fondatore del culto di Serapis alla fine del rv secolo a. C. 74 Su questo culto a Capua, cfr. « Notizie degli scavi », 1924, p. 361;'a Roma C.I.L., vi, 732; se Mithra non risuscita, è pur sempre un dio mediatore e sal­ vatore. 75 Sulla « simbiosi » dei culti orientali, cfr. cumont, op. cit., pp. 52 e 291, e, più recente­ mente, alda levi, La patera d’argento di Parabiago, Roma 1936. 76 GIOVENALE, VI, 532. 77 Ivi, 548. 78 Ivi, 511-512. 79 Ivi, 314-317. Si tratta dei Misteri della Dea Bona, il cui ordinamento è in quest’epoca visibilmente influenzato dall’or­ gia orientale. 328

80 81 82 83

Ivi, 522-529. Ivi, 570 e sgg. petronio, 39, 62 e 74. TACITO, Hist., II, 50; cfr. boissier , Tacite, p. 146. 84 PLINIO IL GIOVANE, Ep., I, 18; il. 20; VII, 27. 85 Cfr. R. p. lagrange, « Revue Biblique », 1919, p. 480. 86 v. f . cumont, Religions orientales, pp. 15 e 26 [tr. it. cit.]. 87 GIOVENALE, X, 350. 88 persio, lì, 70-75. 89 stazio, Silvae, i, 4, 128-131. Nel periodo precedente, la pre­ ghiera dello stoico Demetrio ri­ ferita da Seneca in De Providentia, v, 5, è di una così pro­ fonda ispirazione che il Padre Delehaye non ha esitato a rav­ vicinarla al Suscipe, che con­ clude gli esercizi spirituali di sant’Ignazio (Légendes bag., 1905, p. 170, n. 1). 90 Sulla religione soterica di Antinoo, cfr. dietrichson, Antinoos, Oslo 1884, alle cui con­ clusioni aderisco più che alle conclusioni di pirro Marconi, Antinoo, nei « Monumenti dei Lincei », xxix, 1923, pp. 297300. Ho notato nel Museo di Leptis Magna una statua restau­ rata di Antinoo che unisce la corona di edera di Bacco con gli attributi di Apollo. 91 Sul collegium salutare dei dendrofori di Boville, cfr. il mio articolo dei « Rendiconti del­ l’Accademia pontificia di Ar­ cheologia», 1925/1926, pp. 232246. 92 Sul Collegium salutare di Lanuvio, cfr. C./.L., xiv, 2112. 93 Tale politica imperiale si svi­ luppa da Adriano, che eresse il doppio santuario di Venere e di Roma, a Commodo, rappre­ 329

sentato in Marte, con l’impe­ ratrice Crispina rappresentata in Venere; ed è stata molto ben definita dallo Aymard in « Mélanges de l’École de Rome », 1904, pp. 194-8. 94 Sul mithracismo di Commodo, cfr. c u m o n t , Textes et monuments, i, p. 281, e H.A., Comm., 9. 95 Sulle monete di Faustina, cfr. g r a il l o t , Le culle de Cybèle, Paris 1913, p. 151. 96 PLINIO IL GIOVANE, Ep., X, 96. 97 t a c it o , Ann., xv, 44; sv e t o n io , Claud., 25, e Nero, 16. 98 sv e t o n io , Claud., 25; Iudaeos, impulsore Chresto, assidue tu­ multuantes Roma expulit. Su questo testo famoso, vedi d u c h e s n e , Hist. anc. de l’Église, i, p. 55, e ja n n e in « Mélanges Bidez », Bruxelles 1934, i, pp. 531-2. I cristiani non facevano quartiere a parte; cfr. Abbé v ie il l a r d , « Bull. Soc. Antiq. », 1937, p. 104. 99 « Seguaci dei costumi ebrai­ ci », tale è la formula di cui si serve Dione Cassio secondo la sua fonte ( l x v i i , 14), a propo­ sito di Flavio Clemente. 100 sa n paolo , Phil., iv, 22. 101 Su Pomponia Grecina, cfr. t a c it o , Ann., xm , 32. Su M. Acilio Glabrione, cfr. s v e tonio , Dom., 10, e dione c a s s io , l x v i i , 12. Su Clemente e Domitilla, cfr. sv e t o n io , Dom., 15 e DIONE CASSIO, l x v i i , 14. 102 Sul singolare mutamento os­ servato in Flavio Sabino, cfr. t a c it o , Hist., h i , 65 e 75: mitem virum, abhorrere a san­ guine et caedibus...; in fine vitae alii segnem, multi moderalum et civium sanguinis parcum credidere.

103 Cfr. male, « Revue des deux Mondes », 15 gennaio 1938, p. 347. 104 Sulla seconda Flavia Domitilla, cfr. d u c h e s n e , op. cit., p. 217, n. 2 (cit. e u s e b io , Chron. Ad. ann. Air., 2110, e Hist. Eccles., in, 18). 105 In questi ultimi anni la tesi generale e ormai celebre del De Rossi è stata contestata par­

ticolarmente dallo styger, Die römischen Katakomben, Berlin 1933. 106 Sulla illegalità iniziale del cri­ stianesimo, vedi le mie osser­ vazioni in R.E.L., 1936, pp. 230231. 107 LOISY, Les mystères païens et le mystère chrétien, Paris, p. 363. 108 DUCHESNE, O p. dt., p. 198

PARTE SECONDA

CAPITOLO PRIMO 1 Le idi cadevano il 15 in mar­ zo, maggio, luglio, ottobre; il 13 negli altri otto mesi; le no­ ne cadevano il 5 nei mesi in cui le idi cadevano il 13 ed il 7 negli altri quattro mesi. 2 Sulla settimana considerata co­ me specificamente romana, cfr. DIONE CASSIO, XXXVII, 18, 2. 3 Sul giorno civile dei romani, dei greci e dei babilonesi, cfr. varrone ap. Macrobio, Sat., i, 3, 2; AULO GELLIO, III, 2, 2. 4 Cfr. la voce Horologium del D.A. 5 Sulla tardiva introduzione a Roma delle « ore », cfr. cen­ sorino , De die nat., x x m , 8. Sulla primitiva divisione in due parti della giornata, cfr. plinio , N.H., VII, 212; AULO GELLIO, xvii, 2, 10. 6 Sulla graecostasis, cfr. varro­ ne , L.L., v, 135. Al di fuori di un’ambasciata, probabilmen­ te inventata dall’annalistica di Alessandro Magno, i greci non hanno mandato deputazioni a Roma prima delle vittorie di Demetrio Poliorcete ( strabone , v, 2, 5). 7 Sulla divisione della giornata

in q u attro p arti,

vedi c e n so -

De die nat., xxiv, 3. 8 Sul primo quadrante solare, che data non dal 293, ma dal 263 a. C., cfr. p l in io , N.H., vii, 213-214. 9 Cfr. p l in io , ivi, 214: nec congruebat ad horas eius lineae... paruerunt tamen ei annis undecentum. 10 p l in io , ibid. : donec Q. Marcius Pbilippus, qui cum L. Pau­ lo fuit censor, diligentius ordinamentum iuxta posuit, idque munus inter censoria opera gra­ tissima acceptum est. 11 Sul primo orologio ad acqua introdotto a Roma, cfr. p l in io , N. H., v i i , 215. 12 Sul grande solarium posto tra l'Ara pacis e la Colonna Ame­ lia, cfr. C.I.L., vi, 702 e p l i n io , Nat. Hist., xxxvi, 73. 13 v it r u v io , ix, 9, 5. 14 pe t r o n io , 26 e 71 [tr. di U. Déttore, Milano 1953]. 15 S e n e c a , Apokol., li, 3. 16 Circa la differenza fra il gior­ no civile e il giorno naturale romano, cfr. c e n so r in o , De die nat., xxm, 2. 17 MARZIALE, XII, 57.

331

r in o ,

18 GIOVENALE, XIV, 59 e Sgg. Sulle differenti specie di scopae, cfr. plinio, N. H., xvi, 108; xxiii, 166; hor., Sat., n, 4, 81-82; marziale, xiv, 82. Sulle scale (scalae quae ad la­ cunaria admoveantur), cfr. ul piano, in Dig., xxiii, 7, 16. 19 PLINIO IL GIOVANE, Ep., II, 17. 20 PLINIO IL VECCHIO, N. H., Praef., 18. 21 AULO GELLIO, VI, 10, 5. 22 persio, m , 3. 23 hor., Sat., i, 6, 119. 24 MARZIALE, XII, 18, 13. 25 ISIDORO DI SIVIGLIA, XVIII, 20. 26 cicerone, Ad Qu. fr., ih , 2, 1; HOR-, Serm., n, I, 102; FRON­ TONE, Ep., rv, 6, p. 69, Naber. 27 PLINIO IL GIOVANE, Ep., Ili, 5. 28 SVETONIO, Vesp., 21. 29 Sull’ilpoxyów/cwoL di Lisippo e la Sposa novella del Parrasio che decoravano il cubiculum di Tiberio, vedi il mio articolo Galles et archigdles, nei « Mélanges d’Archéologie et d’Histoire» (1923). 30 acrone ad Hor., Sat., i, 6, 109. 31 GIOVENALE, VI, 261. 32 MARZIALE, XIV, 119. 33 marziale, xi, 11, 5; cfr. Dig., xxxiv, 2, 27, 5. 34 Sui letti, cfr. p. 44. 35 Sul torus, cfr. petronio, 32 e 78; Giovenale, vi, 88 e sgg.; marziale, xiv, 90, 92. La fa­ ma delle lane di Fiandra sem­ bra rimonti già all’antichità. 36 Circa gli stragula e gli operimenta (o operitoria), cfr. varrone, L.L., v, 267; Seneca, Ep., 87, 2. 37 Sui tapetia, cfr. marziale, xiv , 147; Dig., xxxiii , 10, 5. Sulle lodices e la polymita, cfr. id., xiv, 148 e 150.

38 Sul tord, cfr. v a rro n e , L.L., v, 167; Dig., x x x i i i , 10, 5. 39 Per il contenuto di tutti que­ sti vocaboli, cfr. le notizie sul D.A. di sa g l io e p o t t ie r . 40 Quando l’abito romano non si componeva che di un licium e della toga, i romani si corica­ vano con la toga ( v arrone ap. Non., 14, p. 540). Più tardi si posò la toga sul letto, secondo il rito della sera delle nozze ( arnobio , Adv. Nat., n, 68). 41 MARZIALE, XII, 18, 17 e Sgg. 42 Così Catone Uticense ( a sc o nio ad Cic., Pro Scauro, p. 20 ed. Stangl) e i Comelii Cethegi cinctuti, cfr. hor ., A. P., 50 e p o r ph y r io ad loc. 43 Vedi c ic e r o n e , De Off., i, 35, 129. Le donne lottatrici si esi­ biscono così conciate (Gio v en a ­ l e , v i , 70; m a r z ia l e , v i i , 67). 44 Eccetto forse i lavoratori dei campi, donde il nome di campestria che portavano correntemente i subligaria degli operai (cfr. p l in io , N. H., xn, 59). 45 QUINTILIANO, XI, 3, 138. 46 La tunica talaris tra gli uo­ mini era oggetto di biasimo come 'segno di costumi effemi­ nati ( c ic e r o n e , Verr., n, iv, 13, 31; 33-86; Cai., n, 10, 22). 47 QUINTILIANO, XI, 3, 139. 48 SVETONIO, Aug., 82. 49 AULO GELLIO, VI, 12, 1, 3; nonio , 536, 15; contro: ago­ s t in o , De doctrina Cbristi, i h , 20 50 PLINIO il ' GIOVANE, Ep., I li, 5, 15. 51 Circa la toga e la maniera di drappeggiarvisi, cfr. v ic to r c h a p o t , Propos sur la toge in « Mém. antiq. de France », 1937, pp. 37-66. 52 lé o n h e u z e y , Histoire du

.

332

costume antique, p. 232. Rifles­ sioni analoghe si trovano nelle pagine finali del libro di marg. bieber , Entwicklungsgeschichte der griechìschen Tracht, Berlin 1934. 53 ATENEO, V, p. 213 B. 54 TITO LIVIO, III, 26. 55 Vedi, per es., gli imperatori che inciampavano nella toga più o meno discinta (Caligola al teatro, Claudio al tribunale, Nerone néW'aedes Vestae, ecc.). 56 Tertulliano, De pali., 5: ita hominem sarcina vestiat. 57 Cfr. GIOVENALE, in, 147 e sgg.; marziale, i, 103, 5; vii, 33, 1; x , 11, 5 e 96; x i i , 14, 4. 58 Augusto era amictus fih dal suo risveglio, per esser pronto a tutte le eventualità ( svetonio, Aug., 73). 59 svetonio, Claud., 15. 60 MARZIALE, XIV, 124. 61 H. A., Comm., 16. 62 MARZIALE, X, 51, 6. 63 La Hist. Aug., Sev., i, segna­ la la reazione verificatasi, a co­ mando, sotto Settimio Severo. 64 GIOVENALE, III, 171 e Sgg. 65 SVETONIO, Vesp., 21. 66 MARZIALE, XI, 103, 3-4. 67 svetonio, Vesp., 21 e Dom., 16. 68 Vedi la parola sapo in D. A. 69 ausonio, Eph., 2. 70 svetonio, Caes., 45. Cfr., in tempi più recenti, In.toilette di Talleyrand che si ripulisce ra­ schiandosi la fronte con un col­ tello d’argento, ma passa ore intere sotto i ferri del suo par­ rucchiere: « Rev. de Paris », 15 giugno 1938, p. 884. 71 Sugli inconvenienti delle tonstrinae all’aria aperta, cfr. supra p. 188; la citazione di Fa­ bio mela in Dig., ix, 2, 11;

sui tonsores della Suburra, cfr. il, 17; delle Carinae, orazio , Ep., i, 7, 45-51. Ce n’erano anche accanto al Circo e al tempio di Flora: Ad Florae templum ad tonso­ res. 72 Seneca, De brev. vitae, x ii , 3. 73 Spesso ci si faceva radere do­ po il bagno, prima della cena. Cfr. h o r ., Sat., i, 7, 45. 74 h o r ., Sat., i, 7, 3. Già nel il secolo a. C., cfr. p o l ib io , h i , 20, 15. 75 Cfr. p l in io , N. H., xxxv, 112 e PROPERZIO, i h , 9, 12. 76 m a r z ia l e , v i i , 64, 1-2; Gio ­ v e n a l e , x, 226. Diocleziano fissò per la seduta dal barbi re la tariffa obbligatoria di due denari. 77 p l u t a r c o , De aud., 8. 78 Su questi termini, cfr. Pla u ­ to , Capt., 2, 16; m a r z ia l e , x i , 39. 79 sv et o n io , Nero, 51. 80 id., Aug., 79. 81 QUINTILIANO, x i i , 10, 47 e MARZIALE, II, 36, 1. 82 h o r ., Serm., i, 1, 94. 83 Hist. Aug., Vita Hadriani, 26, 1. 84 m a r z ia l e , x, 83. 85 Sugli uomini che si tingono, cfr. m a r z ia l e , IH, 43, 1-4, l’e­ pigramma scagliato contro Letino, che in un batter d’occhi, da cigno ch’egli era è divenuto corvo: Tum subito corvus, qui modo cycnus eras. 86 c ic e r o n e , In Pis., II. m a r z ia l e ,

87 MARZIALE, VI, 55.

88 ID., II, 12. 89 Ivi, 29. 90 Su Catone cfr.

hor .,

15, 10. 91 AULO GELLIO, III,

333

4.

Od., n,

92 Su Cesare, oltre le testimo­ nianze delle monete, che abbia­ mo anche per Siila, cfr. sv e t o n io , Caes., 45. 93 plinio, N .H ., vii, 211. 94 sv e t o n io , Caes., 67. 95 p l u t a r c o , Cato Minor, 53. 96 id., Ant., 23. 97 sv e t o n io , Aug., 23. 98 DIONE CASSIO, XLVIII, 39, 3. Cfr. il mio articolo nella « Revue historique », 1929, pp. 228229. 99 crinagora , in Anth., vi, 161, 3-4. ìoo sv e t o n io , Cai., 10 e Nero, 12; cfr. DIONE CASSIO, l x i , 19, 1. 101 « Notizie degli scavi », 1900. p. 578. i°2 svetonio, Nero, 12. 103 PETRONIO, 29. 104 Cfr. la voce barba nel Dictionnaire di l e c l e r q e c a br o l . 105 GIOVENALE, III, 186-188. 106 o vidio , A. A., i, 517. 107 SENECA, Ep., 77. 108 AULO GELLIO, IX, 2 e XII, 8. 109 MARZIALE, VII, 95, 9-13. 110 Cfr. FABIO m e l a in Dìg., IX,

2 , 11.

111 Gli schiavi stessi ricorrono al barbiere (v. la nota 110 e il regolamento di Vipasca). Era anche proibito tagliarsi le un­ ghie da sé (per lo meno ogni nundina; varrone , fr. 186 b, e p l in io , N. H., xxvm, 28), e per la stessa ragione (cfr. Va­ l e r io MASSIMO, III, 2, 15). I rari rasoi trovati a Pompei so­ migliano al « Coltello di Janot » (cfr. il catalogo della Mo­ stra Augustea, p. 631). 112 p l in io , N. H., xxxvi, 164. 113 Ivi, 165. 114 p l u t a r c o , Ani., i, 2. Tra le insegne del tonsor a noi per­

venute sui bassorilievi funerari, nessuna traccia di pennello e di bacinella da barba. Ho cercato invano la soluzione del proble­ ma nella letteratura moderna; i nostri libri, trattino della vita privata dei romani o di quella dei greci, non si occupano della questione. 115 PETRONIO, 94. 116 MARZIALE, VI, 52. 1,7 FABIO MELA in Dìg.. IX,

2,

11.

118 SVETONIO, Aug., 79. MARZIALE, VII, 83. id., vili, 52. id., xi, 84. plinio , N. H., xxix, 114. 123 MARZIALE, III, 74, 1-4.

119 120 m m

124 ID., x, 65, 8. 125 Giovenale, xui, 51 e Schol.. ad loc. 126 plinio, N H., xxvi, 164; cfr. xxiii , 21. 127 plinio, N. H., xxiv, 79; xxvm, 250 e 255; xxx, 132 e 133. Ci si può aggiungere la bava di rana (xxxii, 136) e non so che intruglio da strega (ivi, 135). 128 plinio, N. H., xxxii, 136: in omni autem psilothro evellendi prius sunt pili. 129 svetonio, Caes., 45. 130 MARZIALE, Vili, 47, 1-2. 131 id., xi, 23, 6. 132 ID., x, 38. 133 PLINIO IL GIOVANE, Ep., IX, 36. 134 id., Ep., vii , 5. 135 PETRONIO, 77. 136 id., 47. 137 MARZIALE, xi,

104, 7-8: Fa­ scia te tunicaeque obscuraque pallia celant: At mibi nulla satis nuda puella iacet. 138 Dig., xxxiv, 2, 25. 139 stazio, Silvae, 1, 2, 15.

334

140 GIOVENALE, VI, 502-503. 141 MACROBIO, II, 5, 7. 142 GIOVENALE, VI, 486 Sgg. 143 MARZIALE, II, 66. 144 Circa il sapo, cfr. in partico­ lare plinio , N. H., xxvm, 19Ì e MARZIALE, XIV, 26. 145 Dig., xxxix, 4, 16, 7. 146 MARZIALE, VI, 93, 9-10. 147 ID., II, 41, 11-12; vili, 33, 17. 148 ovidio, A. A., m , 211. 149 Cfr. P. W., vii , c. 196. 150 GIOVENALE, II, 93; MARZIALE, ix, 37, 6. 151 ovidio, A. A., in, 209-210. 152 Non si devono pulire {defri­ care) i denti in pubblico (ovidio, A. A., ni, 216): il denti­ fricio è un ornamentum più che un mundus (cfr. PLINIO, N.H., xxx, 27). Circa la pol­ vere di corno, cfr. plinio, N. H., xxvm, 178-179. Altre ri­ cette, ID., XXXI, 117; DIODORO, v, 33, 5; strabone, ih , 164, e apuleio, Ap.t 6. In questi ul­ timi tre brani viene citata come ingrediente l’orina, e l’ul­ timo mostra che la maggior parte degli uomini e anche del­

le donne si limitavano a sciac­ quarsi la bocca con acqua. Al­ tri, per profumarsi l’alito, suc­ chiavano pasticche odorose (cfr. hor., Sai., i, 2, 27), e le iscrizioni menzionano i pastillarii o mercanti di pastiglie (C.I.L., vi, 9 765 e sgg.). 153 ovidio, A. A., ni, 329. 154 MARZIALE, IX, 37. 155 Sui periscelides, cfr. petronio, 67. 156 Circa il supparum, cfr. nonio. p. 540, 8. 157 ovidio, A. A., ni, 109. 158 apuleio, Mei., xi, 3. 159 Circa il reticulum, cfr. pf.TRONIO, 67. 160 Circa il tutulus, cfr. pesto, p. 355. 161 arnobio, Adv. Nat., ii, 23. 162 MARZIALE, III, 82, 10 e XIV, 67 e 68. 163 Circa gli ombrelli, cfr. Giove­ nale, ix , 50; MARZIALE, xi, 73. 6 e xiv, 28. Dell’ombrello pie­ ghevole che è su di un bassorilievo del museo di Avezzano, è stato esposto il calco nella sala 62 della Mostra Augustea

CAPITOLO SECONDO 1 Cosa che almeno le faceva ar­ rivare fino alla fontana pubbli­ ca più vicina e al mondezzaio (cfr. GIOVENALE, vi, 603). 2 MARZIALE, VI, 88. 3 GIOVENALE, I, 105 e 4 PLINIO IL GIOVANE,

12, 2 .

Sgg. Ep., Ili,

49. x, 11, 73, 96, e passim. Circa i doni dei Sa­ turnali, cfr. id ., v. 19, 84; v i i , 53 .

s MARZIALE, I, 0 id ., ix, 49;

7 8 9 10

GIOVENALE, 1, 95 e Sgg MARZIALE, VI, 88. GIOVENALE, I, 117-126. MICHAEL ROSTOVTZEFF,

Social and Economie History of the Roman Empire, Oxford 1926, pp. 36 e 155 [tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 19674]. " Cfr. supra, p. 81. 12 carcopino, La loi de Hiéron et les Romains, Paris 19141919, pp. 188 e sgg. 13 PETRONIO, 114.

335

14 Cfr. carcopino. Ostie, 1929, p. 18, e l’adesione a me accor­ data dal Wickert, nella sua edi­ zione dell’ultimo Supplementum Ostiense, C.I.L., xiv, p. 844. 15 Riassumo qui quanto ho scrit­ to in Ostie, 1929, pp. 15-8. Sull’altare delle terme, cfr. paribeni, Guida del Museo delle Terme, 2a ed., p. 264. 16 Cfr. dessau, Geschichte des róm. Kaiserzeit, Berlin 1930, il, p. 411. 17 Cfr. PLATNER-ASHBY, Top. Diction., pp. 260-3. 18 Circa il mercato di Traiano, cfr. supra, pp. 14 sg. È eviden­ te che la sua creazione dette un colpo mortale a tutti i mer­ cati speciali (forum olitorium, f. cuppedinis, f. piscatorium), che sono i soli a essere menzio­ nati nei testi del periodo repubblicano. 19 Per particolari, cfr. waltzing, Etude historique sur les corpo­ ration professionnelles chez les Romains, 4 voli., Louvain 1900. 20 Cfr. supra, p. 62, e mar­ ziale, iv , 65 e x ii , 57. 21 Cfr. supra, pp. 37-8. 22 Cfr. supra, pp. 109-11. 28 C.I.L., vi, 9 525. 24 Ibid., 9 545. 25 Ibid., 33 892. 28 Ibid., 9 758-9. 27 Ibid., 9 739-57. 28 Ibid., 9 614-7 (le tre ultime liberte sono forse delle dome­ stiche). 29 Ibid., 9 562-613. Nella casa imperiale si contano due medicae (6 851; 7 581) di fronte a 15 medici (8 895-910). 30 Ibid., 9 875; 9 984; 33 907. 31 Ibid., 9493-941 (di fronte a sei tonsores: 9 937-42).

32 Ibid., 9 726-36 (undici in tutto). 33 Ibid., 9 720-4 (cinque in tutto). 34 Ibid., 9 901. 35 Ibid., 9 801. 36 Ibid., 9 683. 37 Ibid., 9 880. 38 Ibid., 9 961-79(vestifici o vesticarii). 39 Ibid., 9 497-8. 40 Ibid., 9 891-2. 41 Vedi il libro, già vecchio ma sempre degno di ammirazione, di p a u l Gid e , Etude sur la condition privée de la femme, Paris 1885, p. 152. 42 svetonio , Claud., 18-19. 43 gaio , i, 34. 44 II nome pistrix manca anche negli indices del d e ssa u . La legislazione sull’adulterio assi­ milava le rivenditrici alle pro­ stitute (cfr. paolo , Seni., n, 26, 11: quae mercibus vel tabernis exercendis procurant adulterium fieri non placuit). 45 s. reinach , R. R., in , p. 375. 46 helbig , Wandmalereien, 1 502. 47 S. REINACH, Op. cit., Ili, p. 405. 48 HELBIG, Op. cit., 1 496. 49 S. REINACH, Op. cit., Ili, p. 44. 50 HELBIG, op. cit., 1497, 1498, 1503. 51 MARZIALE, x , 80; IX, 59; v ili,

6.

52 HELBIG, 1 051 e S. REINACH, ni, p. 403. 53 helbig , Führer, il, p. 773. 54 h elbig , Wandmalereien, 1500. 55 helbig , op. cit., 1493, 1495. 1495. 56 In Apuleio (Met., i, 24-25) Lucio va in giro a far la spesa. 57 Cfr. supra, pp. 174 sg. 58 PETRONIO, 79. 59 MARZIALE, V ili, 67. 60 id ., ix , 59, 21. 336

61 Cfr. supra, p. 183. Era anche l’ora del cambio della guardia: marziale, x, 48, 12-57. 62 marziale, IV, 8, 3-4, passo che corregge id., xn, 978. Egual conseguenza è da trarre per i minatori di Vipasca, del C.I.L., il, 5 181, 1, 19 e sgg. (vedi p. 407, nota). w Cfr. supra, pp. 178 sg. 64 PLINIO IL GIOVANE, Ep., I li, 1, 3. 63 MARZIALE, V ili, 67, 3. 66 X II Tavole, secondo aulo GELLIO, XII, 2, 10. 67 Vedi la nota seguente, dove, eccezionalmente, sono menzio­ nate sette clessidre. 68 Da quanto risulta con asso­ luta certezza da plinio il gio­ vane (Ep., il, 11, 14): vi si fa menzione, in un processo te­ nuto in gennaio, di 16 clessidre equinoziali: donde l’aggettivo spatiosissima dato a un’arringa di almeno 250 minuti, e forse anche di 300 (5 ore). 70 svetonio, Aug., 29. 71 id., Vesp., 10. 72 Vedi la memoria del mommsen , Ueber die Lage des praetor. Tribunali, in Gesamm. Schriften, in, pp. 319-26. 73 Vedi l’articolo del seston nei « Mélanges de Rome », 1927, pp. 154-83. 74 vigneaux, Essai sur Vhistoire de la Praefectura Urbis, Paris 1896, p. 125. 73 Cfr. H .A., Ant. Phil., 10. 10. 76 Circa i centumviri, vedi la tesi d’Olivier-Martin, Paris 1904. 77 Cfr. HUELSEN-Carcopino, Le Forum romain, pp. 58-66. 78 PLINIO IL GIOVANE, Ep., VI, 33, 3. Cfr. i, 18, 3; iv, 24, 1; ii, 14 e v, 9.

79 QUINTILIANO, XI, 5, 6. 80 PLINIO IL GIOVANE, Ep., II, 14, passim. 81 Cfr. HUEL SEN-CARCOPINO, Le Forum romain, p. 62. 82 Cfr. PLINIO IL GIOVANE, Ep., vi, 33, 1 e 7-8. 83 PLINIO IL GIOVANE, Ep., II, 14, 1 e sgg. 84 id., Ep., vi, 31, passim. 83 id., Ep., vi, 31, 13. 86 GRENFELL e HUNT, Pap. Ox., i, 33. Questo papiro è il più recente degli Atti dei martiri alessandrini. Studiati dal von PREMERSTEIN (« PhilologUS », Supplemento b, xvi, 1923) e dal neppi-modona (« Aegyptus», 1929 e 1932), questi documenti sono processi verbali « fittizi » in cui la finzione J si mescola, come in un racconto agiogra­ fico, a ima realtà tanto meno contestabile in quanto la ve­ dremo emergere dalle iscrizioni di Antiochia ancora inedite, la cui pubblicazione è stata affida­ ta dal Seyrig a Pierre Roussel (aprile 1939). 87 SVETONIO, Aug., 35. 88 lanciani, Ruins and Excavations, p. 268. 89 willems , Sénat romain, i, p. 406, n. 1 e 5 (383 presenti nel 47 d. C.) e il, pp. 168 e sgg. Seneca (De Prov., v, 4) contrappone agli oziosi della strada l’esempio del Senato che per totum diem saepe consulitur. 90 PLINIO IL GIOVANE, Ep., II, 11. 91 ID., Ep., Ili, 9. 92 Vedi il mio César, p. 975 e n. 290. 93 Vedi la classica memoria del cagnat su Les bibliothèques dans l’Empire romain: in se­ guito alla scoperta, ad opera 337

del Donnadieu, di un frammen­ to epigrafico che ne faceva menzione bisogna aggiungere all’elenco del Cagnat la biblio­ teca del Fréjus, e forse — se è esatta la mia identificazione — la biblioteca d’Ostia, descritta dal Guattani e ritrovata dal Calza a sud-ovest del Foro. 94 orazio, E p . , i, 20, 1-2. 95 Seneca, De Ben., vii , 6, 1. 96 marziale, iv, 72 e XIII, 3, 3. 97 ID., i, 1 e 2 e 117. 98 ID., i, 117, 13 e sgg.; XIII, 3, 3. 99 Considero decisiva a questo riguardo l’allusione di Giovena­ le (vii, 86 e sgg.) alle delusioni di Stazio che potè vendere la sua Agave al mimo Paride, non la sua Tebaide a un editore. 100 gaio, il, 73 e 77. 101 MARZIALE, XI, 3. Cfr. ID.. V, 18; xi, 108; xiv, 219. ICC svetonio, Tib., 61. 103 ID., Dom., 10; librariis... crucifixis.

104 Cfr. svetonio, Caes., 56; Ca­ liga 34, e il mio articolo nel « Journal des Savants », 1936, p. 115. 105 Seneca il vecchio, Controv., iv, Praef. i°6 svetonio, Aug., 89. 107 id., Cl., 41. 108 PLINIO IL GIOVANE, E p . , I, 13, 3. 109 svetonio, Dom., 2. 1,0 aurel. victor, De Caes., 14, 3. 111 Non oso parlare dell'audito­

rium Maecenatis sulla cui ubi­ cazione si discute. 1.2 PLINIO IL GIOVANE, Ep., V, 17 e vili, 12. 1.3 Cfr. persio, i, 19; plinio i l giovane, v, 17 e ix, 34. 114 PLINIO IL GIOVANE, Ep., IV, 19, 3. 115 GIOVENALE, VII, 45-47 e PLI­ NIO IL GIOVANE, Ep., I li, 18, 4. 1,6 PLINIO IL GIOVANE, V, 17. 117 GIOVENALE, VII, 39 e Sgg. 118 PLINIO IL GIOVANE, III, 18, 4. 1,9 PETRONIO, 90; HOR., Sat., iv, 75. 120 PLINIO IL GIOVANE, V ili, 21, 2. 121 PETRONIO, 90; PLINIO IL GIO­ VANE, i, 13, 3; vili, 21. 122 PLINIO IL GIOVANE, VI, 17, 3 123 ID., v ili, 21, 4; III, 18, 4 124 ID., i, 13. 125 ID., il, 18, 2. 126 ID., v i, 15. 127 ID., v i, 17. 128 ID., v ii, 17. 129 ID., ili, 18, 4 e v, 5, 2 130 ID., in , 10 e iv, 7. 131 ID., ix , 27. 132 ID., v ili, 21. 133 ID., v, 17. 134 ID., v i, 15. 135 GIOVENALE, VII, 83-86. 136 ID., i, 52-54. 137 PLINIO IL GIOVANE, Ep., VII, 17. 138 ID., VI, 21. 139 id., v, 3 e vu, 17. 140 ORAZIO, Sat., i, 4, 76 e sgg. 141 Vedi a proposito: albertini, La composition dans... Sénèque, Paris 1923, pp. 315 e sgg.

CAPITOLO TERZO 1 Giovenale, x, 77 e sgg. 2 frontone, Princip. hist., v, 11.

3 Per queste enumerazioni bisogna risalire non solo alla voce

338

Calendarium nel D. A., nei ma­ nuali di MARQUARDT e WISsowa, ma alle notizie corri­ spondenti ad ogni festa della enciclopedia di pauly-wissowa e del roscher. Circa il senso controverso di Nundinae, cfr. P. W., xvn, c. 1470. 4 L ’iscrizione di Tebessa (gsell , Inscr. lat. de l’Algérie, n. 3041) era già conosciuta da lungo tempo, ma fu compresa sol­ tanto quando lo Snyder ebbe l’idea di collegarla al papiro di Dura ancora inedito. 5 Qui ho riassunto la bella ana­ lisi fatta da jean gagé nelle sue Recherches sur les jeux sécu­ laires, Paris 1934. 6 Questo aspetto ha descritto il piganiol nelle sue Recherches sur les jeux romains, ParisStrasbourg 1923. 7 Per il significato di questo passo di Festo, p. 238, vedi il mio libro Virgile et les origines d’Ostie, Paris 1919, pp. 119-20. 8 Circa il compito dello Stato nei munera, cfr. il mio César, p. 515. 9 festo , p. 135: munus domum quod officii causa datur-, Ter­ tulliano, De spect., 12: officium mortuorum\ ausonio, De fer., 35: falcigerum plaçant sanguine caeligenam. 10 svetonio, Aug., 40; Claud., 6. 11 Quintiliano, vi, 3, 63, rac­ conta che Augusto cacciò via dal circo un cavaliere romano, che aveva bevuto a garganella, di­ cendogli: — Se mi voglio rifocillare, me ne vado a casa. — SI.certo — aveva risposto il cavaliere non senza spirito —, ma tu Cesare, se ti allontani, sei sicuro di ritrovare il tuo posto. Circa la dislocazione de­

gli spettatori secondo le catego­ rie sociali, cfr. denis van berchem, op. cit., pp. 61-2, che, a ragione, ammette forestieri e schiavi agli spettacoli, ma nei posti peggiori. 12 ovidio, A. A., in, 2, 43 e sgg. 13 A proposito di queste super­ stizioni, cfr. i testi così strani raccolti dal wuilleumier, nel suo articolo (in « Mélanges de l’École de Rome », 1927, pp. 184-209) su Le Cirque et l'Astrologie, e specialmente cassiodoro, Var., in, 51; isidoro di siviglia, xviii, 36; Anthol. lat., i, 197. 14 Cfr. specialmente plinio il giovane, Ep., vi, 5: propitium Caesarem ut in ludicro precabantur; tacito, Ann., xvi, 4: plebs urbana personabat certis modis plerumque plausuque composito. Circa i sudaria, cfr. H. A., Aur., 43. 15 plinio il giovane, Pan., 51. 16 plinio, N.H ., xxxiv, 62. 17 plutarco, Galba, 17. Con un plebiscito di questo genere sa­ rà eletto Otone (plutarco, Otho, 3). 18 Così nel 69 Tito si è sbaraz­ zato dei nemici di Vespasiano ( svetonio, Tit., 6). Sulle ripu­ gnanze di Tiberio, cfr. svetonio, Tib., 47. 19 DIONE CASSIO, LIV, 17. 20 SVETONIO, Aug., 43. 21 MARZIALE, X, 41. 22 Cifre date dai Fasti Antiates per il 51 d. C.

23 DIONE CASSIO, LXVI, 10. 24 tito Livio, vili, 20, 21 e

ennio ap. Cic., De div., i, 108. 25 TITO LIVIO, XXXIX, 7, 8. 26 plinio, N. H., vili, 20-21. 27 svetonio, Caesar, 39. 28 plinio, N.H., xxxvi, 102,

339

dice 250 000. Ma senza dub­ bio si tratta della cifra dell’e­ poca sua, dopo gli ingrandi­ menti neroniani. Sotto Augusto, DIONIGI D’ALICARNASSO, III, 68, parla solo di 150 000 posti. 29 plinio, N.H., xxxvi, 71. 30 Cfr. le R. G., iv, 4, e il com­ mentario di Jean Gagé, col pas­ so di Cassiodoro, Var., ni, 51, 4. 31 SVETONIO, Aug., 43. 32 id., Claud., 21. 33 Tertulliano, De spec., 8; cfr. DIONE CASSIO, LIV, 17 e CALP., Ecl., VII, 49-53. 34 svetonio, Dom., 5 e plinio il giovane, Pan., 51, 5; cfr. edizione Durry, ad. loc. e introd., p. 13; cfr. C.I.L., vi, 955. lugli, Monumenti antichi di Roma, p. 391, è arrivato per altra via allo stesso risultato. 35 La- descrizione che segue è tratta dalla importante voce del Top. Diction. di platner-ashby. 36 Rinvio per i particolari alla voce Circus del saglio in D. A. derivata principalmente dal ma­ gnifico capitolo del friedlander. 37 svetonio, Cai., 18. 38 id., Dom., 4. 39 GIOVENALE, x, 36 e sgg. 40 MARZIALE, Vili, 33. 41 Conclusione verisimile delle indagini fatte dallo Chédanne nel 1886; vedi, in proposito, il primo capitolo del libro del de navenne su Le palais Farnèse et les Farnèse e l’articolo di le blant in « Mélanges de Ro­ me » del 1886. 42 ovidio, A. A., i, 135 e sgg. 43 C.I.L., xv, 6 250. 44 Sul mosaico dei bagni di Pom­ peiano, oggi distrutto, cfr. Ree. de Constantine, 1880, in, e D.

A., fig. 1 535. 45 Vedi l’iscrizione di d io c l e , C.I.L., vi, 10 048; d e s s a u , 5 287. 46 wilmanns, 2 600, 2. 47 Vedi la tesi di a . a u d o l l e n t sulle Tabellae defixionum. 48 Cfr. GIOVENALE, v i i , 113-114, e m a r z ia l e , i v , 67 e x , 74 (cfr. infra n. 51). 49 Vedi YAnhang del f r ie d l a n d er e le iscrizioni raccolte dal d e s s a u , n, pp. 322-45. 50 Vedi tra l ’altro s v e t o n io , Ne­ ro, 16. 51 m a r z ia l e , v, 25. 52 id ., xi, 1. 53 id ., x, 50. 54 Cfr. C.I.L., v i , 33 950, 10 050, 10 049. 55 o vid io , A. A., i, 147. 56 MARZIALE, XI, 1, 3. 57 GIOVENALE, XI, 199 Sgg. 58 Vedi in D. A. l’importante voce Missilia di p . f a b ia . Cir­ ca gli epula di questa epoca, cfr. st a z io , Silvae, i, 6 e s v e * to nio . Dom., 4. 59 m a rco Au r e l io , i, 5; cfr. un d isd egn o

sim ile

in

p l in io

il

Ep., ix, 6. 60 t o u t a in nel D. A., m , p. 372, ha fatto il calcolo di 17 giorni al circo contro 55 a teatro. 61 Vedi le giudiziose osservazio­ ni di o. n ava rre in D. A., v, p. 203. 62 PLINIO IL GIOVANE, Ep., 6, 3. 63 GIOVENALE, IX, 142-144. ** Testo pubblicato dal ca lza nel « Bollettino dell’Associazio­ ne internaz. degli Studi mediterranei », 1932, fase. 4, pp. 2627, da me commentato nel « C. R. Ac. Inscr. » dello stesso an­ no, pp. 363-4. 65 Per i particolari e le pezze d’appoggio è opportuno riferir­ g io v a n e ,

340

si alle voci del Top. Diction. di platner-ashby; al lugli, 1 mo­ numenti antichi di Roma, i, pp. 346 e 391, il quale è d’ac­ cordo con Ashby nel ritenere che ognuno dei loca numerati dai Regionari misura soltanto un piede quadrato, mentre lo spazio minimo richiesto da uno spettatore seduto è di un pie­ de e mezzo quadrato (44x44 cm). 66 GIOVENALE, VI, 67. 67 Circa l’origine ellenistica, pro­ babilmente alessandrina, della pantomima, cfr., da ultimo, Louis robert, Pantomimen in griechischen Orient, in « Her­ mes », 1930, pp. 109-10. 68 svetonio, Caes., 84. 69 eie., Tuscul., in, 19, 44. 70 tacito, Ann., x iii , 15. 71 DIOMEDE, p. 491 Keil. 72 eie., De Or., i, 59, 251; svetonio, Nero, 20. 73 tacito, Ann., i, 77; cfr. svetonio, Tib., 37. 74 tacito, Dial. de Or., 39. Cfr. Ann., xm , 25 e xiv, 21. 75 Seneca, Controv., ni, pr. 76 macrobio, S a t . , il, 7, 16. 77 VALERIO MASSIMO, II, 4, 4; TITO LIVIO, VII, 2. 78 QUINTILIANO, XI, 3, 87. 79 Per questa indicazione e le seguenti, cfr. il De saltatione di Luciano, composto tra il 162 e il 165 (cfr. Louis robert, Pantomimen, p. 120). 80 GIOVENALE, VI, 86-87. 81 macrobio, loc. cit. 82 josephus , Ant., xix, i, 13. 83 svetonio, Nero, 46. 84 GIOVENALE, VI, 63-66.

85 DIONE CASSIO, LXVIII, 10. 86 PLINIO IL giovane, Pan., 54.

87 Roberto paribeni, Il teatro durante l'impero romano, in

« Dioniso », 1938, p. 2Í0. 88 ATENEO, I, p. 20; cfr. SENECA, Controv., In Praef. Sul mimo in generale cfr. le voci, dovute a G. d a lm ey d a e G. b o is s i e r , in D. A. e quella di P. W., xv, c. 1743-60. 89 eie., Ad fam., ix, 26; Ad Att., iv, 15; Pro Piando, 12. 90 Evanzio, citato dal b o is s i e r , D. A., in, 1 093. 91 Anth. Lat., 693 Riese. 92 GIOVENALE, I, 35 e Sgg.; VI, 41 e sgg. 93 VALERIO MASSIMO, II, 10, 8.

Uno dei bassorilievi del teatro di Sabratha (cfr. g u id i , Africa italiana, ili, 1930, pp. 1 e sgg.) rappresenta un mimo, di cui il titolo era certamente: Il giudi­ zio di Paride. A destra Paride viene persuaso da Hermes, che lo invita a decidere fra le tre dee. Nel mezzo, costoro son rappresentate vestite, tranne Venere che fa scivolare all’indietro il suo peplo. A destra c’è evidentemente la scena fi­ nale, con le tre dee nudatae. 94 m a r z ia l e , n i, 86. Eccezional­ mente, certi mimi dovevano sotto l’impero serbare la forma di atellane. È verisimile che uno dei bassorilievi del teatro di Sa­ bratha, che rappresenta tre per­ sonaggi, tra cui il calvo stupidus, si riferisca a uno di que­ sti, e che vi si debba identifi­ care in ciò l’àpxocioXóyo«; di cui Louis Robert ha illu­ strato la funzione (R.E.G., 1936, pp. 235 e sgg.). 95 GIOVENALE, V ili, 185 Sgg.; m a r z ia l e , De spectac., 1. 96 c ic e r o n e In Vatin., xv, 37. 97 id ., Ad Pam., li, 3, 1. 98 Pl in io , N. H., xxxiii, 16;

341

plutarco, Caes., 5/ svetonio, Caes., 10. 99 Lex Julia mun. e Lex col. Juliae Genetivae, capp. lxx e lxxi ; e tacito, Ann., iv, 6263. 100 DIONE CASSIO, LIV, 2, e SVEtonio, Tib., 34. R.G., iv, 31. 102 Gli ultima munera straordi­ nari, dovuti a magistrati, segna­ lati dalle fonti sono quelli of­ ferti nel 70 per il natalis di Vitellio dai consoli in carica (ta­ cito, Hist., il, 95). 103 PLINIO IL VECCHIO, N. H., xxxvi, 26. Sui Curioni, padre e figlio, cfr. il mio César, p. 690. 104 DIONE CASSIO, XLIII, 23. 105 ovidio, Met., xi, 25, si serve ancora della perifrasi: structum utrimque theatrum. 106 Cfr. su questi monumenti le notizie del Dizionario platnerashby, e del D. A., e sul Co­ losseo si aggiungano le eccel­ lenti pagine del lugli (I mo­ numenti antichi di Roma, i, pp. 186-200). SuU.'amphitheatrum castrense, ho accettato l’opinione dello Huelsen oggi confutata (cfr. lugli, op. cit., ih , p. 490). 107 Per i particolari, vedi non solo il libro del friedlander ma le eccellenti voci scritte da g. lafaye in D. A., parti­ colarmente s. v. Gladiator e Venatio. La migliore illustrazione dei munera imperiali è la vo­ luta del bellissimo mosaico di Zliten, attualmente esposto al Castello di Tripoli (cfr. aurigemma, I mosaici di Zliten, Roma-Milano 1926); si noti specialmente l’esposizione dei garamanti alle bestie e l’or­

chestra dove l’organo è suonato da una donna. 108 II punto in cui discordo dai miei predecessori è stabilito specialmente dalla iscrizione di Pompei C.I.L., x, 7 295: venatio et vela erunt. La venatio era l’apice dello spettacolo. 109 SVETONIO, Titus, 7. 110 C.I.L., xiv, 4 546. 111 Cfr. H. A., Prob., xix, 5-8. Sul prezzo raggiunto dalle bel­ ve da anfiteatro alla fine del in secolo, siamo ora informati dal frammento in latino del calmie­ re dioclezianeo. La cifra di 100 000 denari, che vi si trova indicata, doveva essere spesso superata prima che questo cal­ miere diventasse operante. 112 p l u t a r c o , Non poss. suav., XVII, 6; TERTULLIANO, Apoi., 42. 113 SVETONIO, Claud., 21. il* C.I.L., v, 5 933. 115 GIOVENALE, III, 36. U6 ID., VI, 78-113; MARZIALE, V, 24; d e s s a u , Inscr. Sei., 5 142. a7 MARZIALE, Spect., 20. ‘18 C.I.L., x, 7 297. a9 CICERONE, Tusc., II, 20, 46; PLINIO IL g io v a n e , Pan., 33. 12° Di ciò abbiamo testimonian­ za, ancora per il 249 d. C., dal C.I.L., x, 6 012 . 121 SENECA, Ep. Lue., 1. 122 s t r a b o n e , vi, 2, 6. Ci sareb­ be stato un precedente con Sa­ tiro e gli altri schiavi siciliani suppliziati nel munus del 101 a. C. ( diod ., x x x v i , 10-12). 123 Cfr. C. R. Ac. Inscr., 1913, p. 444; c ic e r o n e , Pro Sestio, 64; o v id io , Met., xi, 26; S e ­ n e c a , Ep. Lue., 70, e De benef., li, 19; m a r z ia l e , x i i i , 95 ‘24 s v e t o n io , Claud., 34. 325 Sugli Actiaca cfr. l’articolo di 342

gagé in « Mélanges de l’École de Rome » del 1935. 126 Cfr. Dig., il, 3, 4. 127 Per queste notizie, cfr. dizio­ nario di PLATNER-ASHBY. 128 PLINIO IL GIOVANE, Ep., IV, 22 . 129 Cfr. louis robert, « Revue de Philologie », 1930, p. 37. 130 Seneca, De tranquillitate ani­ mi, il, 13.

131 Fatto che è stato messo in evidenza dalle recenti polemi­ che intorno alPanfìteatro di Lio­ ne e agli scavi di Filippi (cfr. collart in B.C.H., 1928, p. 97). 132 Su tali trasposizioni, comuni sotto Domiziano, cfr supra, p. 263, e marziale, De spect., 5, 7, 21, 25. 133 H. A., Sever. Alex., 44, e cfr. lugli, op. cit., i, p. 346.

jean

CAPITOLO quarto 1 2 3 4

MARZIALE, VII, 61. ID., X, 5. GIOVENALE, XIV, 7-34. MARZIALE, I, 3, 1-10; cfr. GIO­ VENALE, in, 60-72. s MARZIALE, I, 41, 3-11. 6 Qualche volta a cavallo: cfr. m a r z ia le , ix, 22, 14. Sui muli, cfr. id., vili, 61 e xi, 79. 7 Circa le lecticae e le sellae, cfr. Giovenale, in, 240-242, e vi, 350-351, e marziale, ix , 2. 8 PETRONIO, 28. 9 MARZIALE, VI, 80, 1-10. i° Seneca, De Prov., v, 4. 11 Cfr., circa i portici, le notizie del dizionario di platner-ashb y e su l Portico di Ottavia cfr. anche lugli, op. cit., i, 334 e sgg. 12 marziale, li, 13, 3-1; cfr. in, 19. 13 plinio, N .H ., xxxiv, 31; xxxv, 114, 139, ecc. ,4 MARZIALE, III, 19. ,s Cfr. supra, p. 24. Intorno alla dislocazione dei Saepta si continua a discutere: cfr. lu ­ gli, op. cit., in, 99. 16 MARZIALE, IX, 35. 17 GIOVENALE, I, 88-92. 18 MARZIALE, XI, 6.

CICERONE, Phil., II, 23; HOR.. Od., 3, 24. 20 Dig., x i, 5, 2 e 3. 21 V ed i q u este parole in D . A 19

(voce di l a f a y e ). 22 V edi le voci Par impar e Ca­ pita ut navia in D. A. 23 sv e t o n io , Aug., 71. 24 V ed i la voce d el l a f a y e sul­ la micatio, in D. A., u i , 1 890. 25 C.I.L., v i, i, 1 770. 26 V ed i la voce Latrunculi del l a f a y e in D. A. 27 MARZIALE, VII, 72, 7 e 92, 7. 28 C.I.L., x i i i , 444. 29 V ed i la voce nuces del la ­ f a y e in D. A. 30 c ic e r o n e , Phil., il, 23; hor ., Od., 3, 24. 31 Dig., x i, 5, 1. 32 Dig., x x x ii, 2, 43, 9. C fr. varro ne , De re, i, 2 , 23. 33 S o tto un rozzo bassorilievo, rip ro d otto in D. A., s. v. Caupona, il, 974, fig. 1 258, si leg­ ge il seguente dialogo: « O ste s­ sa, il con to — . M ezzo d i vino. P er il pane un asse; per il pulmentarium [p o le n ta ] du e as­ si — . D ’accordo — . P er la ra­ gazza, o tto assi — . D ’accordo

343

anche per questo —. [Puellam

asses odo. Et hoc conventi] ». 34 «Notizie degli Scavi», 1911, pp. 431 e 457. Le piccole « asi­ ne » dello stabilimento — l’asi­ no era famoso nell’antichità per i suoi ardori sessuali — ap­ paiono in testi che non sono stati, credo, capiti bene: cfr. m a lla r d o , in « Rivista di Stu­ di pompeiani », 1934, pp. 121125 e 1935, pp. 224-8. 35 È tanto un elemento stabile dell’apparato imperiale che Ne­ rone, quando si recò ad Ostia, ebbe cura di scaglionare sulla via alcune di queste taverne ospitali ( sv e t o n io , Nero, 27). 36 p e r s io , i, 133, e s c h o l ., ad loc. 37 S en e c a , De Provid., v, 4. La frase ilio tempore è eguale, nel contesto, a ‘ intera giornata ’: totum diem. 38 Vedi in D. A. le voci Gymnasium, Gymnastica ars, Balneum e Thermae. 39 varrone , L. L., ix, 68. Per questo storico cfr. b l u m n e r , Ròm, Privataltertumer, p. 421. 40 Cfr. p l in io , N .H ., xxxvi, i, 21, e la nota del b l u m n e r , cit., p. 421, n. 8. 41 Secondo i Regionari: 858 nel Curiosum, 927 nella versione di Zacharia, 956 nella Nottiia. 42 S e n e c a , Ep. Lue., 86, 9; m a r ­ z ia l e , i i , 52; in, 30, 4; vili, 42, 1, 3; cfr. hor ., Sat., i, 3, 137 e GIOVENALE, vi, 447. 43 Gio v e n a l e , il, 152. Le donne pagavano più degli uomini, g io v en a le , vi, 447. A Vipasca la tariffa era di mezzo asse per gli uomini e d’un asse per le donne. C.I.L., n, 5 181, 19 sgg. 44 SENECA, Ep. Lue., 86, 10. 45 p l in io , N. H., 36, 121; DIO­ NE CASSIO, x l i v , 43, 3. 344

46

dio n e c a s s io , l i v , 29, 4. Vedi le riserve fatte su questo testo in b l u m n e r , p. 422, n. 9, e le testimonianze, citate dal mede­ simo (p. 422, n. 7), di Fronto­ ne, p. 247, Naber: Xouxpà x