The Matrix 8857502333, 9788857502335

Il cyberspazio contiene una dimensione gnostica. Vale a dire una sorta di materialismo spiritualizzato. Non una realtà s

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Italian Pages 48 [28] Year 2011

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Table of contents :
Frontespizio
Colophon
The Matrix o i due volti della perversione. Riflessioni sulla virtualità cinematografica
1. In prossimità della fine del mondo
2. Il grande Altro “realmente esistente”
3. “Il grande Altro non esiste”
4. Schermare il reale
5. Il tocco freudiano
6. Malebranche ad Hollywood
7. Inscenare la Fantasia Fondamentale
Collana
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The Matrix
 8857502333, 9788857502335

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SLAVOIJ ŽIŽEK

THE MATRIX

Traduzione dell’inglese di Sara Criscuolo Minima Volti N. 7 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio

© 2011 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it / www.mimesisbookshop.com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 0224861657 / 0224416383 fax: +39 02 89403935 Via Chiamparis, 94 – 33013 Gemona del Friuli (UD) E-mail: [email protected]

THE MATRIX O I DUE VOLTI DELLA PERVERSIONE. RIFLESSIONI SULLA VIRTUALITÀ CINEMATOGRAFICA Quando vidi The Matrix in un teatro locale in Slovenia, ebbi la rara opportunità di sedere accanto allo spettatore ideale di un film – vale a dire, un idiota. Un uomo di vent’anni e più alla mia destra era così immerso nel film che per tutto il tempo continuò a disturbare gli altri spettatori con fragorose esclamazioni, come “Mio Dio, così quella non è realtà!”… Io preferisco senza dubbio una ingenua immersione come questa a letture intellettualistiche e pseudosofisticate che proiettano nel film ricercate articolazioni filosofiche o psicoanalitiche distinzioni concettuali[1]. Ciò nondimeno è facile capire l’attrazione intellettuale che genera The Matrix: non sta tutto forse nel fatto che The Matrix è uno di quei film che funzionano come una specie di test di Rorschach, che mettono in moto universali processi di riconoscimento, come il proverbiale dipinto di Dio che sembra fissarti sempre direttamente, da qualunque parte tu lo guardi – dove praticamente ogni orientamento può riconoscere se stesso? I miei amici lacaniani mi dicono che gli autori devono avere letto Lacan; i seguaci della scuola di Francoforte vedono in The Matrix la personificazione estrapolata della Kulturindustrie, la Sostanza sociale alienata e reificata (del Capitale) che prende il sopravvento, colonizzando la nostra stessa interiorità, usandoci come fonte d’energia; i sostenitori della New Age ci vedono l’origine delle congetture secondo cui il mondo è solo un miraggio generato da una Mente globale incarnata nel World Wide Web. Una successione come questa ci riporta alla Repubblica di Platone: The Matrix non ripete forse esattamente il dispositivo della caverna di Platone (gli uomini comuni come prigionieri, legati fermamente ai loro posti e costretti a guardare la rappresentazione delle ombre di ciò che falsamente considerano la realtà)? La differenza principale, naturalmente, è che quando alcuni individui sfuggono alla condizione della caverna ed escono sulla superficie terrestre, ciò che essi trovano non è più la luminosa superficie illuminata dai raggi del sole, il Dio supremo, ma il desolato “deserto del reale”. L’opposizione di fondo qui è quella tra la Scuola di Francoforte e Lacan: dobbiamo storicizzare la Matrix nella metafora del Capitale che ha colonizzato cultura e soggettività, o la Matrix è piuttosto la reificazione dell’ordine simbolico come tale? E se,

tuttavia, questa stessa alternativa fosse falsa? E se il carattere virtuale dell’ordine simbolico “come tale” fosse la condizione stessa della storicità? 1. In prossimità della fine del mondo Naturalmente, l’idea dell’eroe che vive in un universo artificiale completamente manipolato e controllato non è per niente originale. The Matrix non fa che radicalizzarla, trasformandola in realtà virtuale. Il punto qui è la radicale ambiguità della realtà virtuale rispetto alla problematica dell’iconoclastia. Da una parte, la realtà virtuale segna la radicale riduzione della ricchezza della nostra esperienza sensoriale – neanche a delle lettere, ma alla minimale serie digitale di 0 e 1, al passare o meno del segnale elettrico. D’altra parte, questa perfetta macchina digitale genera l’esperienza “simulata” della realtà che tende a diventare indistinguibile dalla “reale” realtà, con la conseguenza di incrinare la nozione effettiva di realtà “reale”. La realtà virtuale è così allo stesso tempo l’asserzione più radicale della seduttiva potenza delle immagini. Non è forse l’estrema paranoica fantasia americana quella di un individuo che vive in una piccola idilliaca città californiana, un paradiso del consumismo, che inizia all’improvviso a sospettare che il mondo nel quale vive è finzione, uno spettacolo allestito per convincerlo del fatto di vivere in un mondo reale, mentre tutti quelli che ha intorno sono in effetti attori e comparse in un enorme spettacolo? L’esempio più recente di tale fantasia è The Truman Show (1998), con Jim Carrey nella parte di un impiegato di una piccola città, che scopre a poco a poco la verità di essere l’eroe di uno spettacolo televisivo permanente: la sua città natale è costruita in un gigantesco studio, con videocamere che lo seguono continuamente. La “sfera” di Sloterdijk è letteralmente realizzata, come l’enorme sfera di metallo che avviluppa e isola l’intera città. Questa scena finale di The Truman Show può sembrare la rappresentazione dell’esperienza liberatoria del venir fuori dalla sutura ideologica di un universo confinato, nel quale la realtà esterna appare invisibile. Comunque, in che cosa consiste precisamente questo “felice” epilogo del film (non dimentichiamolo: applaudito da milioni di persone in tutto il mondo mentre guardano gli ultimi minuti dello spettacolo), con l’eroe che si libera e, come noi siamo indotti a credere, va a raggiungere presto il suo vero amore (così abbiamo di nuovo la formula del concetto di coppia), se non di un’ideologia allo stato puro? Ideologia che risiede nel profondo convincimento che all’esterno di un universo finito esiste una qualche “vera realtà” nella quale entrare?[2] Tra i predecessori di questa nozione, vale la pena ricordare Time Out of

Joint (1959) di Philip Dick, in cui un eroe che vive una tranquilla vita quotidiana in una piccola idillica cittadina californiana degli anni ‘50, gradualmente scopre che l’intera città è un inganno inscenato per renderlo appagato… l’esperienza sottostante di Time Out of Joint e di The Truman Show è che il paradiso californiano consumistico e tardocapitalistico è irreale nella sua iperrealtà, privo di sostanza, privato di inerzia materiale. Così non si tratta solo del fatto che Hollywood inscena un’apparenza di vita reale privata del peso e dell’inerzia della materialità – nella società consumistica tardo-capitalistica, la “reale vita sociale” stessa acquisisce in qualche modo le fattezze di un inganno inscenato, con i nostri vicini che si comportano nella vita “reale” come attori e comparse in scena… L’ultima verità dell’universo capitalistico utilitaristico e despiritualizzato è la dematerializzazione della stessa “vita reale”, il suo rovesciamento in uno spettrale spettacolo. Nel mondo della fantascienza, si dovrebbe menzionare anche Starship di Brian Aldriss, in cui i membri di una tribù vivono nel mondo chiuso di un tunnel in un’enorme astronave, isolati dal resto della nave da una folta vegetazione, inconsapevoli del fatto che c’è un universo oltre di essa; finalmente alcuni bambini penetrano nei cespugli e raggiungono il mondo oltre, popolato da altre tribù. Tra i vecchi precursori più “ingenui” si dovrebbe menzionare 36 Ore di George Seaton, il film dei primi anni ‘60 su di un ufficiale americano (James Garner) che conosce i piani per l’invasione della Normandia e che viene accidentalmente preso prigioniero dai tedeschi poco prima dell’invasione. Quando viene fatto prigioniero, inconsapevole, i tedeschi velocemente costruiscono per lui una replica di un piccolo ospedale militare americano, cercando di convincerlo che ora vive nel 1950, che l’America ha vinto la guerra e che egli ha perso la memoria degli ultimi sei anni – l’idea era che egli avrebbe raccontato tutto sui piani dell’invasione ai tedeschi, i quali si sarebbero potuti così premunire; naturalmente, delle crepe presto appaiono in questo edificio accuratamente costruito… (non è forse vero che lo stesso Lenin, negli ultimi anni della sua vita, è vissuto in un ambiente controllato in modo piuttosto simile, in cui, come ci è dato di sapere, Stalin aveva fatto stampare per lui una copia appositamente manipolata della Pravda, priva di tutte quelle notizie che avrebbero informato Lenin sull’andamento delle lotte politiche, con la giustificazione che il compagno Lenin avrebbe dovuto riposarsi e non essere scosso da choc superflui?). Ciò che rimane nascosto sullo sfondo è, naturalmente, la nozione premoderna di “arrivare alla fine dell’universo”: in scenari ben conosciuti,

degli attoniti vagabondi si avvicinano allo schermo/tenda del cielo, una piatta superficie con delle stelle dipinte sopra, lo attraversano e giungono a ciò che sta dietro di essa — è esattamente questo che accade alla fine di The Truman Show. Non sorprende che l’ultima scena del film, quando Truman sale i gradini attaccati al muro su cui è dipinto l’orizzonte del “cielo azzurro” e apre la porta, abbia un tocco magrittiano: non è questa stessa sensibilità che oggigiorno sta tornando come una sorta di vendetta? Opere come il Parsifal di Syberberg, in cui l’orizzonte infinito è anche bloccato da post-proiezioni ovviamente “artificiali”, non segnalano che il tempo dell’infinita prospettiva cartesiana si sta esaurendo, e che noi stiamo ritornando ad una sorta di rinnovato universo aprospettico medievale? Fred Jameson ha focalizzato con chiarezza l’attenzione sullo stesso fenomeno in alcuni racconti di Raymond Chandler e in alcuni film di Alfred Hitchcock: la spiaggia dell’oceano Pacifico in Farewell, My Lovely funziona come una sorta di “fine/limite del mondo”, oltre il quale si trova un abisso sconosciuto; in questo esso è simile alla vasta valle che si distende di fronte alle teste del monte Rushmore quando, in fuga dai loro inseguitori, Èva-Marie Saint e Cary Grant giungono alla sommità del monumento, e in cui Èva-Marie Saint rischia quasi di cadere prima di essere sollevata da Cary Grant; si è tentati di aggiungere a questa serie la famosa scena di battaglia sul ponte alla frontiera vietnamitacambogiana in Apocalipse now, dove lo spazio oltre il ponte viene percepito come “l’al di là del nostro universo conosciuto”. E come non ricordare che l’idea che la Terra non sia un pianeta che fluttua nello spazio infinito, ma un’apertura circolare, un buco, entro l’infinita massa compatta del ghiaccio eterno, con il sole al suo centro, era una delle fantasie pseudoscientifiche preferite dai nazisti (dando credito a delle voci, avevano anche pensato di porre alcuni telescopi sulle isole Sylt per osservare l’America)? 2. Il grande Altro “realmente esistente” Cos’è dunque la Matrix? Semplicemente il lacaniano “grande Altro”, l’ordine simbolico virtuale, la rete che struttura la realtà per noi. La dimensione del “grande Altro” è quella dell’alienazione essenziale del soggetto nell’ordine simbolico: il grande Altro tira i fili, il soggetto non si esprime, egli è espresso dalla struttura simbolica. In breve, questo “grande Altro” è il nome per la Sostanza sociale, per tutto quanto fa sì che il soggetto non domini mai gli effetti dei propri atti, ovvero per ciò che fa sì che il risultato finale della propria attività sia sempre qualcosa di diverso rispetto a quanto si voleva fare o prevedere. Ad ogni modo è qui essenziale notare che, nei capitoli chiave del Seminario XI, Lacan si sforza di delineare

l’operazione che segue l’alienazione essendone, in un certo senso, il contrappunto, vale a dire quella della separazione: l’alienazione NEL grande Altro è seguita dalla separazione DAL grande Altro. La separazione si verifica quando il soggetto avverte come il grande Altro è in se stesso inconsistente, puramente virtuale, “rinchiuso”, privato della Cosa – e l’immaginazione è un tentativo di riempire la mancanza dell’Altro (non del soggetto), cioè di (ri)costituire la consistenza del grande Altro. Per questa ragione immaginazione e paranoia sono strettamente legate: la paranoia è sostanzialmente una credenza in un “Altro dell’Altro”, in un altro Altro che, nascosto dietro l’Altro dell’esplicita tessitura sociale, programma (per come ci appare) gli effetti imprevisti della vita sociale e così garantisce la propria consistenza: al di là del caos del mercato, della degradazione della morale ecc.. c’è la predeterminata strategia del popolo ebraico… Questa posizione paranoica ha acquistato ulteriore impulso con l’attuale digitalizzazione della nostra vita quotidiana: quando la nostra intera esistenza (sociale) è progressivamente estrinsecata-materializzata nel grande Altro della rete informatica, è facile immaginare un malvagio programmatore che cancella la nostra identità digitale, spogliandoci in questo modo della nostra esistenza sociale, trasformandoci in non-persone. Seguendo lo stesso filo paranoico, la tesi di The Matrix è che questo grande Altro è incarnato in un Mega-Computer realmente esistente. C’è – ci deve essere – una Matrix perché “le cose non sono giuste, le opportunità sono perdute, qualcosa va sempre storto”, ovvero l’idea del film è che le cose stanno così perché c’è la Matrix che offusca la “vera” realtà che sta dietro a tutto. Di conseguenza, il problema di questo film è quello semmai di non essere abbastanza “folle”, perché presuppone un’altra “reale” realtà dietro la nostra realtà quotidiana sostenuta dalla Matrix. E comunque, per evitare un fatale fraintendimento: la nozione inversa che “lì tutto è generato dalla Matrix”, che non c’è una realtà ultima, solo infinite serie di realtà virtuali che si specchiano l’una con l’altra, non è meno ideologica. (Nel seguito di The Matrix, impareremo probabilmente che lo stesso “deserto del reale” è generato da un’altra Matrix.) Molto più sovversivo di questa moltiplicazione di universi virtuali sarebbe la moltiplicazione delle realtà stesse – qualcosa che riprodurrebbe il pericolo paradossale che alcuni fisici scorgono nei recenti esperimenti cogli acceleratori. Come è risaputo, gli scienziati ora stanno cercando di costruire un acceleratore capace di far collidere i nuclei di atomi pesanti quasi alla velocità della luce. L’idea è che una tale collisione non solo frantumerebbe i nuclei dell’atomo nei loro protoni e neutroni costitutivi, ma polverizzerebbe anche gli stessi protoni ed elettroni, lasciando soltanto del “plasma”, una sorta di zuppa energetica consistente di particelle

sciolte di quark e di gluone, i mattoni costitutivi della materia che non era mai stata studiata prima in un tale stato, dal momento che un tale stato esisteva solamente poco dopo il Big Bang. Comunque, questo prospetto ha dato origine ad uno scenario da incubo: cosa accadrebbe se il successo di questo esperimento creasse una macchina da giorno del giudizio, una sorta di mostro in grado di divorare il mondo, che con inesorabile necessità distruggesse la materia intorno a sé abolendo così il mondo come lo conosciamo? L’ironia di tutto ciò è che questa fine del mondo, la disintegrazione dell’universo, sarebbe l’ultima inconfutabile prova che la teoria testata è vera, dal momento che essa avrebbe inghiottito tutta la materia in un buco nero e poi determinato un nuovo universo, cioè avrebbe ricreato perfettamente lo scenario del Big Bang. Il paradosso è che così entrambe le versioni – un soggetto che fluttua liberamente da una realtà virtuale all’altra, un puro fantasma consapevole del fatto che ogni realtà è un inganno; la supposizione paranoica della reale realtà dietro la Matrix – risultano false: nessuna afferra il Reale. Il film non sbaglia nell’insistere sul fatto che ESISTE il Reale oltre la simulazione della realtà virtuale – come Morpheus espone a Neo quando gli mostra il paesaggio in rovina di Chicago: “Benvenuto nel deserto del reale”. Tuttavia, il Reale non è la “vera realtà” dietro la simulazione, ma il vuoto che rende la realtà incompleta/inconsistente, e la funzione di ogni simbolica Matrix è di nascondere questa inconsistenza – un modo per effettuare questo occultamento è precisamente affermare che, dietro quell’incompleta/inconsistente realtà che conosciamo, c’è un’altra realtà senza il punto morto costituito dall’impossibilità di strutturarla. 3. “Il grande Altro non esiste” II “grande Altro” rimane quindi per il campo del senso comune ciò a cui si può arrivare dopo una libera decisione; filosoficamente, si tratta dell’ultima grande versione della comunità comunicativa di Habermas con il suo ideale di consenso. Ed è questo “grande Altro” che progressivamente si sta oggi disintegrando. Quello che oggi noi abbiamo è il dato di una sicura e radicale disintegrazione: da un lato, il linguaggio oggettivato degli esperti e degli scienziati che non può più essere tradotto nel linguaggio comune accessibile a tutti, ma è presente in esso sotto forma di formule idolatrate che nessuno realmente capisce, ma che modellano il nostro immaginario artistico e popolare (buchi neri, Big Bang, oscillazione quantica…). Non solo nelle scienze naturali, ma anche in economia e nelle altre scienze sociali, il gergo professionale è presentato come una capacità oggettiva che non può essere

discussa, e che nello stesso tempo è intraducibile nei termini dell’esperienza comune. In breve, lo scarto tra la capacità scientifica e il senso comune è incolmabile, ed è proprio questo scarto che innalza gli scienziati al culto popolare dei “soggetti tenuti a sapere” (il fenomeno Stephen Hawking). L’esatto opposto di questa oggettività è il modo in cui, nelle materie culturali, ci confrontiamo con una moltitudine di stili di vita che non si possono tradurre gli uni negli altri: tutto ciò che possiamo fare è garantire le condizioni per la loro tollerante coesistenza in una società multiculturale. La figura che meglio rappresenta l’uomo odierno è forse il programmatore di computer indiano che, durante il giorno, eccelle nella sua abilità, mentre la sera, tornato a casa, accende la sua candela in onore della divinità indù locale e rispetta la sacralità della mucca. Questa spaccatura è perfettamente rappresentata nel fenomeno del cyberspazio. Si era immaginato che il cyberspazio ci avrebbe immesso tutti quanti in un Villaggio Globale; quello che tuttavia sta accadendo è che siamo bombardati da una serie di messaggi che appartengono ad universi inconsistenti e incompatibili – invece del Villaggio Globale, del grande Altro, abbiamo a nostra scelta la moltitudine dei “piccoli altri”, delle particolari identificazioni tribali. Tanto per evitare un malinteso: Lacan è ben lontano dal relativizzare la scienza in una delle varie narrative arbitrarie, in accordo, in ultima istanza, con i miti del politicamente corretto: la scienza effettivamente “tocca la realtà”, la sua conoscenza è “conoscenza nella realtà” – il punto morto risiede semplicemente nel fatto che la conoscenza scientifica non può fungere da simbolico “grande Altro”. Lo scarto tra la scienza moderna e l’ontologia filosofica del senso comune aristotelico è a questo punto insormontabile: esso emerge già con Galileo, e viene portato all’estremo della fisica quantistica, dove abbiamo a che fare con regole/leggi che funzionano, sebbene non possano essere tradotte nella nostra esperienza di una realtà rappresentabile. La teoria della società a rischio e il suo riflesso globale sono corretti nella enfasi che pongono sul come oggi ci troviamo all’estremità opposta della classica ideologia universalista dell’Illuminismo, la quale presupponeva che, a lungo andare, le questioni fondamentali si potessero risolvere ricorrendo alla “conoscenza oggettiva degli esperti”: quando ci siamo trovati di fronte ad opinioni conflittuali sulle conseguenze ambientali di un qual certo nuovo prodotto (tanto per fare un esempio: i vegetali geneticamente modificati), abbiamo cercato invano l’inappellabile opinione degli esperti. E il punto non è semplicemente che i problemi reali sono stati oscurati perché la scienza è stata corrotta attraverso una dipendenza finanziaria dalle grandi corporazioni

e dalle agenzie di stato – anche se prese nella loro autonomia, le scienze non possono fornire la risposta. Gli ecologisti quindici anni fa avevano previsto la morte delle nostre foreste – il problema ora è un aumento eccessivo del legno… Il luogo in cui la teoria della società a rischio è senz’altro troppo sbrigativa è nell’enfatizzare l’irrazionale situazione in cui tutto ciò pone noi uomini comuni: noi siamo ripetutamente costretti a prendere una decisione, sebbene si sia ben consapevoli del fatto che non siamo nella posizione di decidere, e che le nostre decisioni siano arbitrarie. Ulrich Beck e i suoi seguaci fanno in questo caso ricorso alla discussione democratica di tutte le opzioni e alla creazione del consenso; tuttavia, ciò non risolve il paralizzante dilemma: perché la discussione democratica cui partecipa la maggioranza dovrebbe condurre ad un migliore risultato, quando, dal punto di vista della conoscenza, l’ignoranza della maggioranza permane. La frustrazione politica della maggioranza è perciò comprensibile: si è chiamati a decidere, mentre allo stesso tempo si apprende di non essere in una posizione che consente di decidere, di valutare oggettivamente i pro e i contro. Il ricorso alle “teorie cospirative” è una disperata via d’uscita da questo punto morto, un tentativo di recuperare un frammento di quello che Fred Jameson chiama “mappa cognitiva”. Jodi Dean[3] ha portato l’attenzione su un curioso fenomeno chiaramente osservabile nel “dialogo tra muti” che si verifica tra la scienza ufficiale (quella “seria”, accademicamente istituzionalizzata) e il vasto regno delle cosiddette pseudo-scienze, dall’ufologia a quelle che vogliono decifrare i misteri delle piramidi: non si può non rimanere colpiti dal fatto che sono proprio gli scienziati ufficiali a procedere in modo dogmatico e conclusivo, mentre gli pseudo-scienziati ricorrono a fatti e argomentazioni spogliati dei comuni pregiudizi. Naturalmente, la risposta in questo caso sarebbe che gli scienziati parlano con l’autorità del grande Altro dell’istituzione scientifica; ma il problema è che proprio questo grande Altro si è ripetutamente rivelato come una consensuale finzione simbolica. Così quando ci troviamo di fronte a teorie cospirative, dovremmo procedere in stretta omologia con una corretta lettura di Turn of the Screw di Henry James: non dovremmo né accettare l’esistenza dei fantasmi come parte della realtà (narrativa) né ridurli, in modo pseudo-freudiano, alla “proiezione” delle isteriche frustrazioni sessuali dell’eroina. Le teorie cospirative, naturalmente, non vanno accettate come “fatti” – tuttavia, non dovrebbero neanche essere ridotte al fenomeno della moderna isteria di massa. Una tale nozione fa ancora affidamento sul “grande Altro”, sul modello della “normale” percezione di una realtà socialmente condivisa e, perciò, non prende in considerazione il fatto che è precisamente questa nozione di realtà che oggi

appare non suscettibile di determinazione. Il problema non è che gli ufologi e i teorici della cospirazione regrediscono ad un’attitudine paranoica incapace di accettare la realtà (sociale); il problema è che questa stessa realtà sta diventando paranoica. L’esperienza contemporanea ci mette ripetutamente davanti a situazioni in cui siamo obbligati a prendere atto di come il nostro senso della realtà e la nostra attitudine verso di essa sia fondata su di una finzione simbolica, di come il “grande Altro” che stabilisce ciò che è considerato normale ed è accettato come verità, ciò che costituisce l’orizzonte di significato di una data società, non è in nessun modo fondato direttamente sui “fatti” come vengono rappresentati dalla scientifica “conoscenza nella realtà”. Prendiamo una società tradizionale in cui la scienza moderna non sia ancora stata elevata a discorso-guida: se, in questo spazio simbolico, un individuo difendesse le asserzioni della scienza moderna, verrebbe licenziato come “pazzo” – e il punto chiave è che non è sufficiente dire che egli non è “realmente pazzo”, che è soltanto una società limitata ed ignorante a metterlo in questa posizione – in un certo modo, l’essere trattato come un pazzo, l’essere escluso dal grande Altro sociale, effettivamente EQUIVALE ad essere pazzo. Quella della “pazzia” non è una qualifica che può basarsi sul riferimento diretto ai “fatti” (nel senso che un pazzo non sarebbe in grado di percepire le cose per come sono realmente, dal momento che è preso nelle sue proiezioni allucinatorie), ma solo sul riferimento al modo in cui un individuo si rapporta al “grande Altro”. Lacan di solito sottolinea gli aspetti opposti di questo paradosso: “il pazzo non è solo un pezzente che pensa di essere un re, ma anche un re che pensa di essere un re”, ovvero la pazzia designa il crollo della distanza tra il simbolico e il reale, un’immediata identificazione con l’ordine simbolico; oppure, per considerare un’altra sua condizione esemplare, quando un marito è patologicamente geloso, ossessionato dall’idea che sua moglie dorma con un altro uomo, la sua ossessione rimane una caratteristica patologica anche se viene provato che egli ha ragione e che sua moglie effettivamente dorme con un altro uomo. L’insegnamento di tali paradossi è chiaro: la gelosia patologica non ha a che fare con la falsificazione dei fatti, ma con il modo in cui questi fatti vengono integrati nell’economia libidinale dell’individuo. Comunque, ciò che qui va riaffermato è che questo paradosso andrebbe interpretato in direzione quasi diametralmente opposta: la società (il suo campo socio-simbolico, il grande Altro) è “sana” e “normale” anche quando ciò è stato dimostrato come di fatto errato. (Forse era in questo senso che il Lacan maturo ha designato se stesso “psicotico”: egli era effettivamente psicotico perché non era possibile integrare il suo discorso nel campo del grande Altro.)

Si è tentati di affermare, alla maniera kantiana, che l’errore della teoria della cospirazione è qualcosa di simile al “paralogismo della pura ragione”, alla confusione tra i due livelli: il dubbio (dell’accettato senso comune scientifico, sociale, etc.) come formale istanza metodologica, e la positivizzazione del dubbio in un’altra globale onnicomprensiva parateoria. 4. Schermare il reale Da un altro punto di vista, la Matrix funziona anche come lo “schermo” che ci separa dal Reale, che rende sopportabile il “deserto del reale”. È a questo punto che faremmo male a dimenticarci della radicale ambiguità del Reale Lacaniano: non è l’ultimo referente ad essere coperto/addomesticato dallo schermo dell’immaginazione – il Reale è anche e primariamente lo schermo/ostacolo che ha già sempre distorto la nostra percezione del referente, della realtà là fuori. In termini filosofici: la differenza tra Kant ed Hegel risiede nel fatto che per Kant il Reale è il noumeno che noi percepiamo “schematizzato” attraverso lo schermo delle categorie trascendentali; per Hegel, al contrario, come egli sostiene esemplarmente nell’introduzione alla sua Fenomenologia, questo scarto kantiano è falso. Hegel introduce qui TRE termini: quando uno schermo interviene tra noi e il Reale, esso genera sempre una nozione di ciò che è in sé, al di là dello schermo, così che lo scarto tra l’apparenza e l’in-sé è sempre e già “per noi”. Di conseguenza, se noi sottraiamo alla Cosa la distorsione dello schermo, noi perdiamo anche la Cosa stessa (in termini religiosi, la morte di Cristo è la morte di Dio stesso, non solo della sua incarnazione umana) – è questo, per Lacan, il motivo per cui, per chi segue Hegel, è la cosa stessa ad essere guardata, non l’oggetto percepito. Così, tornando alla Matrix: la Matrix stessa è il Reale che distorce la nostra percezione della realtà. Un riferimento all’esemplare analisi di Lévi-Strauss, quale appare nella sua Antropologia strutturale, della disposizione spaziale delle costruzioni dei Winnebago, una delle tribù dei Grandi Laghi, può esserci d’aiuto in questo caso. La tribù è divisa in due sottogruppi (due “metà”), “quelli che stanno in alto” e “quelli che stanno in basso”; quando noi chiediamo ad un individuo di disegnare su un pezzo di carta, o sulla sabbia, la mappa del suo villaggio (la disposizione spaziale delle capanne), otteniamo due risposte piuttosto diverse, a seconda della sua appartenenza ad uno o all’altro sottogruppo. Entrambi rappresentano il villaggio come un cerchio; ma per un sottogruppo, all’interno di questo cerchio si trova un altro cerchio di case, così che otteniamo due cerchi concentrici, mentre per l’altro sottogruppo, il cerchio è diviso in due da una chiara linea separatrice. In altre parole, un membro del

primo sottogruppo (chiamiamolo “conservatore-corporatista”) percepisce la mappa del villaggio come un cerchio di case disposte più o meno simmetricamente intorno al tempio centrale, mentre un membro del secondo sottogruppo (“rivoluzionario-antagonista”) percepisce il suo villaggio come due distinti gruppi di case separate da un’invisibile frontiera[4]… L’argomento centrale di Lévi-Strauss è che questo esempio non deve farci cadere in nessun modo in un relativismo culturale secondo cui la percezione dello spazio sociale dipende dell’appartenenza dell’osservatore ad un gruppo: la stessa divisione in due percezioni “relative” implica un riferimento nascosto ad una costante – non l’oggettiva, “reale” disposizione degli edifici, ma un nucleo traumatico, un fondamentale antagonismo degli abitanti del villaggio in grado di simbolizzare, di rendere conto, di “interiorizzare”, di venire a patti con uno squilibrio nelle relazioni sociali che ha impedito alla comunità di stabilizzarsi in un’unità armoniosa. Le due percezioni della mappa sono semplicemente due sforzi reciprocamente escludentisi di far fronte a questo traumatico antagonismo, di sanare questa ferita attraverso l’imposizione di una struttura simbolica equilibrata. è necessario aggiungere che le cose stanno esattamente nello stesso modo per quel che riguarda la differenza sessuale: “maschile” e “femminile” non sono forse come le due configurazioni di case nel villaggio di Lévi-Strauss? E per dissipare l’illusione che il nostro “evoluto” universo non sia dominato dalla stessa logica, basta ricordare la divisione del nostro spazio politico in Destra e Sinistra: un rappresentante della Sinistra e un rappresentante della Destra si comportano esattamente come i membri degli opposti sottogruppi del villaggio di Lévi-Strauss. Non soltanto occupano posti differenti nello spazio politico; ognuno di loro percepisce in modo diverso la stessa disposizione dello spazio politico – un rappresentante di Sinistra come un campo internamente diviso da un fondamentale antagonismo, un rappresentante della Destra come l’unità organica di una comunità disturbata solo da intrusi esterni. Comunque, Lévi-Strauss mette qui in luce un altro punto saliente: dal momento che i due sottogruppi formano, non di meno, una sola ed unica tribù, che vive nello stesso villaggio, questa identità in qualche modo deve essere simbolicamente inscritta – ma come, se l’intera articolazione simbolica, tutte le istituzioni sociali della tribù non sono neutrali, bensì sovradeterminate dalla fondamentale e costitutiva divisione antagonista? Ebbene, ciò che Lévi-Strauss ingegnosamente chiama “istituzione-zero”, una sorta di sostituto istituzionale del famoso mana, il significante vuoto, privo di ogni significato determinato, dal momento ch’esso significa solo la presenza del significato come tale – la sua funzione è quella puramente negativa di

segnalare la presenza e la realtà dell’istituzione sociale in quanto tale, in opposizione alla sua assenza, al caos presociale. È il riferimento a tale istituzione-zero che permette a tutti i membri della tribù di esperirsi come tali, come membri della stessa tribù. Non è forse proprio questa istituzionezero ideologia allo stato puro, ovvero la diretta incarnazione della funzione ideologica, che è quella di fornire uno spazio neutrale, che tutto racchiude, in cui l’antagonismo sociale viene cancellato, in cui tutti i membri della società possono riconoscersi? E la lotta per l’egemonia non è la lotta per come sarà sovradeterminata questa istituzione-zero, colorata di un qualche particolare significato? Per fornire un esempio concreto: non è forse la moderna nozione di nazione una istituzione-zero che emerge con la dissoluzione dei legami sociali basati su matrici simboliche dirette, familiari o tradizionali, ovvero quando, con l’assalto della modernizzazione, le istituzioni sociali erano sempre meno fondate sulla tradizione naturalizzata e sempre più esperite come una questione di “contratto”[5]? Di particolare importanza è qui il fatto che l’identità nazionale viene esperita come “naturale” per lo meno in minima parte, come un’appartenenza basata sul “sangue e suolo”, e come tale opposta all’appartenenza “artificiale” ad istituzioni sociali vere e proprie (lo stato, la professione, …): le istituzioni premoderne funzionavano come entità simboliche “naturalizzate” (come istituzioni fondate su tradizioni incontestabili) e le istituzioni attuali erano concepite come artefatti sociali, il cui bisogno è sorto per una “naturalizzata” istituzione-zero in quanto neutrale terreno comune. Tornando alle differenze di sesso, sono tentato di arrischiare l’ipotesi che, forse, la logica dell’istituzione-zero potrebbe essere applicata non solo all’unità sociale, ma anche alla sua divisione antagonistica: e se la differenza di sesso fosse una sorta di istituzione-zero della divisione sociale del genere umano, la minimale differenza-zero naturalizzata, una divisione che, prima di segnalare una qualsiasi differenza sociale determinata, segnala la differenza in quanto tale? La lotta per l’egemonia è dunque, ancora, la lotta per come questa differenza-zero sarà sovradeterminata da un’altra particolare differenza sociale. È contro questo sfondo che si dovrebbe leggere un importante, sebbene solitamente trascurato, aspetto dello schema del significante in Lacan: Lacan sostituisce lo schema modello di Saussurre (sopra la riga della parola “albero” e sotto la riga del disegno dell’albero) con un altro schema: sopra la riga, due parole una davanti all’altra, “uomo” e “donna”, e, sotto la riga, due disegni identici di una porta. Per sottolineare il carattere differenziale del significante, Lacan prima sostituisce lo schema singolo di Saussurre con una coppia di significanti, con l’opposizione uomo/donna, con la differenza di sesso; ma la vera sorpresa sta nel fatto che,

a livello del referente immaginario, non c’è DIFFERENZA (non abbiamo un indice grafico della differenza di sesso, il disegno semplificato di un uomo e di una donna, come accade solitamente nella maggior parte delle toilettes moderne, ma la STESSA porta riprodotta due volte). E possibile affermare a chiare lettere che la differenza di sesso non designa un’opposizione biologica fondata su proprietà “reali”, ma un’opposizione puramente simbolica cui non corrisponde nulla negli oggetti designati – se non il Reale di qualche definita X che non può essere mai catturato dall’immagine del significato? Torniamo all’esempio di Lévi-Strauss dei due schemi di villaggio: è qui che si può vedere in quale preciso senso il Reale si realizza mediante l’anamorfosi. Abbiamo dapprima la disposizione “effettiva”, “oggettiva” delle case, e quindi le sue due differenti simbolizzazioni che distorcono in modo anamorfico la disposizione effettiva. Ad ogni modo, qui il “Reale” non è la disposizione effettiva, ma il contenuto traumatico dell’antagonismo sociale che distorce la visione dell’antagonismo effettivo nei membri della tribù. Il Reale è dunque proprio quella X che viene misconosciuta ed alla quale noi ascriviamo la distorsione anamorfica della nostra visione. (Detto incidentalmente: questo dispositivo a tre livelli è strettamente omologo al freudiano dispositivo a tre livelli dell’interpretazione dei sogni: il nocciolo reale del sogno non è il pensiero latente del sogno che è spostato/traslato nell’esplicita struttura del sogno, ma il desiderio inconscio che si inscrive mediante la pura distorsione del pensiero latente nella struttura esplicita.) E lo stesso vale per la scena dell’arte di oggi: in essa, il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte “minimalista” a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il “Quadrato nero su superficie bianca” di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte – essendo l’opera d’arte non una questione del “perché”, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In

breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un orinale sarebbe rimasto solo un orinale, anche se esibito nella più rinomata galleria. L’apparizione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttamente esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno Oggetto escrementizio fuori posto, il Reale “stesso”. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinate e accattivante maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è IL Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del Reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispetto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati. 5. Il tocco freudiano La falsità di The Matrix diventa forse più riconoscibile nella stessa designazione di Neo come “l’Eletto”. Chi è l’Eletto? Effettivamente si dà un simile posto nella catena sociale. Si dà, anzitutto, l’Eletto del SignificanteMaestro, l’autorità simbolica. Anche nella vita sociale nella sua forma più terribile, le memorie dei sopravvissuti ai campi di concentramento menzionano invariabilmente l’Eletto, un individuo che non era crollato, che, nel mezzo di condizioni insopportabili che inducevano tutti gli altri a lottare egoisticamente per la mera sopravvivenza, miracolosamente aveva mantenuto e irradiato una “irrazionale” generosità e dignità – in termini lacaniani, abbiamo a che fare con la funzione dello “Y’a de l’Un”: anche in questo caso, c’era l’Eletto che fungeva come la piattaforma minima di solidarietà che definisce il vincolo sociale proprio come opposto alla mera

collaborazione nel contesto della pura strategia di sopravvivenza. Qui ci imbattiamo in due aspetti cruciali: anzitutto l’individuo veniva sempre percepito come unico (non c’era mai una moltitudine di tali individui, come se, seguendo qualche oscura necessità, questa sovrabbondanza dell’inspiegabile miracolo della solidarietà dovesse essere incarnata in uno solo); secondariamente, non era tanto ciò che questo Eletto effettivamente faceva per loro che importava, quanto la sua stessa presenza tra di loro (ciò che permetteva agli altri di sopravvivere era la consapevolezza che, anche se ridotti per la maggiore parte del tempo a macchine per la sopravvivenza, c’era l’Eletto che manteneva la dignità umana). Tenuto conto di quanto accade per la riserva di allegria, noi otteniamo qualcosa di analogo per la riserva di dignità, allorché l’Altro (l’Unico, l’Eletto) conserva la mia dignità per me, al mio posto, o, più precisamente, allorché io mantengo la mia dignità ATTRAVERSO l’Altro: io posso sì essermi ridotto alla crudele lotta per la sopravvivenza, ma la stessa consapevolezza che c’è l’Eletto che conserva la sua dignità, permette a ME di conservare un minimo di legame con l’umanità. Spesso, quando questo Eletto crollava o veniva smascherato come un impostore, gli altri prigionieri perdevano a loro volta la volontà di sopravvivere e si abbandonavano ad un’indifferente morte vivente – paradossalmente, la loro stessa prontezza alla lotta per la mera sopravvivenza era sostenuta da questa eccezione, dal fatto che c’era l’Eletto che NON era ridotto a questo livello, così che, quando questa eccezione scompariva, la stessa lotta per la sopravvivenza perdeva la sua forza. Il significato di tutto questo è, naturalmente, che l’Eletto non risulta definito solo dalle sue “reali” qualità (a questo livello, possono esserci più individui come lui, o poteva anche accadere che egli non fosse realmente invincibile, ma un impostore, che stava soltanto interpretando quel ruolo): l’eccezionalità del suo ruolo era piuttosto la stessa di quello del transfert, vale a dire ch’egli occupava un posto costruito (presupposto) da altri. In The Matrix, al contrario, l’Eletto rappresenta colui che è in grado di vedere che la nostra realtà quotidiana non è reale, ma soltanto un universo virtuale codificato, quindi colui che è in grado di staccarla da esso, di manipolarla e di sospenderne le regole (si libra nell’aria, ferma le pallottole…). Cruciale per la funzione di QUESTO Eletto è la sua virtualizzazione della realtà: la realtà è una costruzione artificiale le cui regole possono essere sospese o perlomeno riscritte – in ciò risiede la nozione del tutto paranoica che l’Eletto possa sospendere la resistenza del Reale (“Potrei camminare attraverso uno spesso muro, se solo decidessi di farlo…”, quanto equivarrebbe al dire che l’impossibilità per la maggior parte di noi di farlo si riduce alla debolezza di volontà dell’individuo). In ogni

modo, è qui che il film, ancora una volta, non si spinge abbastanza lontano: nella memorabile scena nella stanza d’attesa della profetessa che deciderà se Neo è l’eletto, un bambino che viene visto torcere un cucchiaio con il semplice pensiero dice al sorpreso Neo che il punto non è convincersi di poter torcere il cucchiaio, ma convincersi che non c’è un cucchiaio… Ma allora, che ne è di me stesso? L’ulteriore passo non dovrebbe essere quello di accettare l’insegnamento buddista secondo cui io stesso, il soggetto, non esisto? Per dire ancora una volta cosa è falso in The Matrix, si dovrebbe cominciare col distinguere la semplice impossibilità tecnologica dalla falsità fantasmatica: il viaggio nel tempo è (probabilmente) qualcosa d’impossibile, ma i fantasmatici scenari su di esso sono non di meno “veri” nel modo in cui essi ci restituiscono dei libidinali punti morti. Di conseguenza, il problema con Matrix non è l’ingenuità scientifica dei suoi stratagemmi: l’idea di passare dalla realtà alla realtà virtuale attraverso il telefono ha senso, dal momento che abbiamo bisogno di una breccia, di una cavità, attraverso cui si può fuggire. (Forse, una soluzione ancora migliore sarebbe stata la toilette: il regno dove gli escrementi scompaiono dopo aver azionato lo sciacquone non è effettivamente una delle metafore per il terribile/sublime Aldilà del primordiale pre-ontologico caos in cui le cose svaniscono? Sebbene razionalmente si sappia ciò che succede con gli escrementi, l’immaginario mistero non di meno persiste – la merda rimane un’eccedenza che non si addice alla nostra realtà quotidiana, e Lacan era nel giusto quando affermava che noi si diventi da animali degli esseri umani nel momento in cui un animale non sa più cosa fare dei suoi escrementi, allorché essi gli diventano un’eccedenza che lo infastidisce. Il Reale, essenzialmente, non è la sostanza orribilmente disgustosa che riemerge dalla fogna, ma piuttosto la cavità stessa, la breccia che serve come passaggio verso un ordine ontologico differente – la cavità topologica o la torsione che “curva” lo spazio della nostra realtà così che noi percepiamo/immaginiamo che gli e-scrementi scompaiano in un’altra dimensione che non appartiene alla nostra realtà quotidiana.) Il problema è quello di una più radicale inconsistenza fantasmatica, la quale si manifesta esplicitamente quando Morpheus (il capo afro-americano del gruppo di resistenza che crede che Neo sia l’Eletto) prova a spiegare all’ancora perplesso Neo quello che è la Matrix – per ciò stesso egli lo sta mettendo in comunicazione con quella che è una frattura nella struttura dell’universo: MORPHEUS: È quella sensazione che hai avuto per tutta la tua vita. Quella sensazione che qualcosa non va nel mondo. Tu non sai cos’è ma è là, come una scheggia conficcata nella tua mente, che ti rende pazzo. […] La Matrix è ovunque, è tutt’intorno a noi, anche ora in questa

stanza. […] E il mondo è stato posto sopra i tuoi occhi per non farti vedere la verità. NEO: Che cos’è la realtà? MORPHEUS: Che tu sei uno schiavo, Neo. Che tu, come chiunque altro, sei nato in schiavitù… tenuto in una prigione che non puoi annusare, assaporare, o toccare. Una prigione della tua mente.

Qui il film va a sbattere contro la sua ultima contraddizione: viene infatti supposto che l’esperienza di una mancanza/incoerenza/ostacolo rechi testimonianza del fatto che noi sperimentiamo la realtà come inganno – tuttavia, verso la fine del film, Smith, l’agente di Matrix, dà una diversa spiegazione, molto più freudiana: Sapevi che la prima Matrix era stata progettata per essere un perfetto mondo umano? Dove nessuno avrebbe sofferto, dove nessuno sarebbe stato felice? Fu un disastro. Nessuno volle accettare il programma. Interi gruppi di umani che servivano come batterie vennero persi. Qualcuno pensò che a noi mancassero i linguaggi di programmazione per tracciare il vostro mondo perfetto. Ma io credo che, come specie, gli esseri umani definiscano la loro propria realtà attraverso la sofferenza e la miseria. Il mondo perfetto era un sogno che il vostro primitivo cervello custodiva cercando di svegliarsi. Questo è il motivo per cui la Matrix è stata ri-progettata in questo modo: il massimo della vostra civilizzazione.

L’imperfezione del nostro mondo è allo stesso tempo il segno della sua virtualità e il segno della sua realtà. In effetti si potrebbe sostenere che Smith (non dimentichiamo: non un essere umano come gli altri, ma la diretta incarnazione virtuale della stessa Matrix – il grande Altro) è il sostituto della figura dell’analista nell’universo del film: ci insegna che l’esperienza di un ostacolo insormontabile è la condizione positiva per noi, esseri umani, di percepire qualcosa come realtà – la realtà è in definitiva ciò che oppone resistenza. 6. Malebranche ad Hollywood L’ultima contraddizione riguarda la morte: PERCHÉ uno dovrebbe “realmente” morire quando muore solo nella realtà virtuale regolata dalla Matrix? Il film fornisce una risposta oscurantista: “NEO: Se vieni ucciso nella Matrix, muori non solo nella Matrix, ma anche nella vita reale? MORPHEUS: II corpo non può vivere senza la mente.” La logica di questa soluzione è che il tuo corpo “reale” può sopravvivere (funzionare) solo se unito alla mente, all’universo mentale in cui sei immerso: così se ti trovi nella realtà virtuale e vieni ucciso, questa morte intacca anche il corpo reale… L’evidente opposta soluzione (puoi realmente morire solo quando sei ucciso nella realtà) è altrettanto insufficiente. La trappola è: l’individuo è COMPLETAMENTE immerso nella realtà virtuale dominata dalla Matrix oppure sa o almeno SOSPETTA l’attuale stato della situazione? Se la risposta è SI, il semplice ritirarsi in un’ultima prelapsariana adamica condizione di distanza potrebbe renderci immortali nella realtà virtuale e, di conseguenza,

Neo che si è già liberato dalla piena immersione nella realtà virtuale dovrebbe SOPRAVVIVERE alla lotta con l’agente Smith che prende posto ENTRO la realtà virtuale controllata dalla Matrix (allo stesso modo in cui egli è in grado di fermare le pallottole, dovrebbe essere anche in grado di derealizzare le raffiche che colpiscono il suo corpo). Questo ci riporta all’occasionalismo di Malebranche: molto più del Dio di Berkeley che sostiene il mondo nella sua testa, la DEFINITIVA Matrix è il Dio occasionalista di Malebranche. L’“occasionalismo” di Malebranche è senza dubbio la filosofia che ha saputo procurare il miglior apparato concettuale per rendere conto di una realtà virtuale. Malebranche, un discepolo di Descartes, lascia cadere il ridicolo ricorso di Descartes alla ghiandola pineale per spiegare la coordinazione tra materia e spirito, ovvero tra corpo e anima. Dunque, come possiamo spiegare la loro coordinazione, se non c’è nessun contatto tra i due, nessun punto in cui l’anima può agire causalmente sul corpo o viceversa? Dal momento che le due reti causali (quella delle idee nella mia mente e quella dei collegamenti corporei) sono a tal punto indipendenti, l’unica soluzione è che una terza, reale Sostanza (Dio) continuamente coordini e faccia da intermediaria tra le altre due, supportando la parvenza della continuità: quando penso al sollevarsi della mia mano e la mia mano effettivamente si solleva, il mio pensiero determina il sollevarsi della mia mano non direttamente ma solo “occasionalmente” – sapendo che il mio pensiero è diretto al sollevarsi della mia mano, Dio mette in movimento l’altra catena causale, quella materiale, che spinge la mia mano a sollevarsi. Se sostituiamo a “Dio” il grande Altro, l’ordine simbolico, possiamo vedere la vicinanza dell’occasionalismo con la posizione di Lacan: come Lacan argomenta nelle sue polemiche contro Aristotele sulla Televisione[6], la relazione tra anima e corpo non è mai diretta, dal momento che il grande Altro interpone sempre se stesso tra i due. L’occasionalismo, dunque, è essenzialmente un nome per “l’arbitrarietà del significante”, per lo scarto che separa la rete delle idee dalla rete della “reale” causalità corporea, per il fatto che è il grande Altro che spiega il coordinarsi delle due reti, così che, quando il mio corpo morde una mela, la mia anima percepisce una sensazione di piacere. Questo stesso scarto è ciò che viene preso di mira dall’antico prete azteco, il quale allestisce un sacrificio umano per assicurarsi che il sole sorga ancora: il sacrificio umano è qui un richiamo a Dio perché sostenga la coordinazione tra le due serie, la necessità corporea e la concatenazione di eventi simbolici. Questa teoria potrebbe apparire “irrazionale”, esattamente come il sacrificio del prete azteco, ma la premessa implicita è molto più profonda della nostra banale intuizione secondo cui la coordinazione tra

corpo e anima è immediata, cioè è per me naturale provare una sensazione piacevole quando mordo una mela perché la sensazione è direttamente causata dalla mela: ciò che viene perso è il ruolo intermediario del grande Altro nel garantire la coordinazione tra la realtà e l’esperienza mentale che ne facciamo. E non è lo stesso con la nostra immersione nella Realtà Virtuale? Quando sollevo la mia mano per spingere un oggetto nello spazio virtuale, questo oggetto effettivamente si muove – la mia illusione, naturalmente, è che sia il movimento della mano a determinare direttamente lo spostamento dell’oggetto, ovvero nella mia immersione, trascuro il complicato meccanismo di coordinazione computerizzata, omologo al ruolo di Dio che nell’occasionalismo garantisce la coordinazione tra le due serie[7]. È risaputo il fatto che il bottone di chiusura delle porte nella maggior parte degli ascensori è un placebo del tutto privo di funzione, che è posto là solo per dare agli individui l’impressione che stanno in qualche modo partecipando, contribuendo alla velocità del viaggio dell’ascensore – quando noi premiamo questo bottone, la porta si chiude esattamente nello stesso tempo in cui si chiude quando premiamo solo il bottone del piano senza “accelerare” il processo premendo anche il bottone di chiusura delle porte. Questo estremo e semplice caso di falsa partecipazione è una metafora appropriata della partecipazione degli individui nel contesto del nostro processo politico “postmoderno”. E questo è occasionalismo al suo stato più puro: secondo Malebranche, noi per tutto il tempo premiamo simili bottoni, ed è l’incessante attività di Dio che coordina i bottoni e gli eventi che seguono (la chiusura delle porte), mentre noi pensiamo che gli eventi siano il risultato del nostro premere il bottone… Per questa ragione, è d’importanza cruciale mantenere aperta la radicale ambiguità sul come il cyberspazio influenzi le nostre vite: ciò non dipende dalla tecnologia in quanto tale ma dal modo in cui essa si inscrive nella società. L’immersione nel cyberspazio può intensificare la nostra esperienza corporea (una nuova sensualità, un nuovo corpo con più organi, nuovi sessi…), ma anche aprire la possibilità per chi manipola l’apparato con cui funziona il cyberspazio, di, letteralmente, trafugare i nostri stessi corpi (virtuali), privandoci del controllo su di essi, così che uno non possa più relazionarsi al corpo di chicchessia come al corpo “proprio” di qualcuno. Ciò che qui incontriamo è la costitutiva ambiguità della nozione di mediatizzazione[8]: originariamente questa nozione designava l’atto per mezzo del quale un individuo veniva spogliato del suo diretto, immediato diritto decisionale; il grande maestro della mediatizzazione politica è stato Napoleone, che lasciò ai monarchi conquistati l’apparenza del potere, quando

quelli, in realtà, non avevano più la facoltà di esercitarlo. Ad un livello più generale, si potrebbe dire che una tale “mediatizzazione” del monarca finisce per dar vita ad una monarchia costituzionale: in essa, il monarca è ridotto al puramente formale e simbolico atto del “mettere i puntini sulle i”, del sottoscrivere e conferire potere esecutivo ai proclami il cui contenuto è determinato dal corpo governativo eletto. E, mutatis mutandis, non è forse lo stesso per quel che riguarda la progressiva computerizzazione della nostra vita quotidiana, nel corso della quale il soggetto risulta sempre più “mediatizzato”, impercettibilmente spogliato del suo potere, sotto l’aspetto menzognero della sua crescita? Quando il nostro corpo è mediatizzato (preso nella rete dei mezzi di comunicazione elettronici), è simultaneamente esposto alla minaccia di una radicale “proletarizzazione”: il soggetto è potenzialmente ridotto al puro segno ‘$’, dal momento che anche la mia stessa esperienza personale può essere rubata, manipolata, regolata dal macchinico Altro. Vediamo bene come, oltre a quanto appena detto, la prospettiva di una virtualizzazione radicale conferisce ai computer una posizione che è strettamente imparentata con quella di Dio nell’occasionalismo di Malebranche: dal momento che il computer coordina le relazioni tra la mia mente e (quello che io sperimento come) il movimento dei miei arti (nella realtà virtuale), si può facilmente immaginare un computer che corre qua e là come impazzito e inizia ad agire come un Dio diabolico, che disturba la coordinazione tra la mia mente e la mia personale esperienza corporea – quando il segnale della mia mente per sollevare la mia mano viene sospeso o anche avversato nella realtà (quella virtuale), l’esperienza più essenziale dell’appartenenza del mio corpo appare indeterminata… sembra dunque che il cyberspazio realizzi effettivamente la paranoica fantasia elaborata da Schreber, il giudice tedesco le cui memorie furono analizzate da Freud[9]: il “mondo recintato” è psicotico nella misura in cui sembra materializzare l’allucinazione di Schreber di raggi divini attraverso i quali Dio controlla direttamente le menti umane. In altre parole, la fuoriuscita del grande Altro nel computer non rende dunque conto della dimensione paranoica, ad essa inerente, di un mondo recintato? O, per dirla in un altro modo: che nel cyberspazio la possibilità di scaricare la propria consapevolezza in un computer liberi finalmente le persone dai loro corpi è un luogo comune – ma si tratta al contempo di ciò che libera le macchine dalle “loro” persone… 7. Inscenare la Fantasia Fondamentale La contraddizione finale riguarda lo statuto ambiguo della liberazione

dell’umanità annunciata da Neo nell’ultima scena. Come risultato dell’intervento di Neo, c’è un “guasto nel sistema” nella Matrix; allo stesso tempo, Neo indirizza le persone ancora imprigionate nella Matrix come il Saggio che insegna loro come liberarsi dai vincoli della Matrix – saranno in grado di violare le leggi fisiche, piegare metalli, fluttuare in aria… Comunque, il problema è che tutti questi “miracoli” sono possibili solo se rimaniamo ENTRO la realtà virtuale sostenuta dalla Matrix e semplicemente pieghiamo o cambiamo le sue regole: la nostra condizione “reale” è ancora quella degli schiavi della Matrix, noi stiamo solo guadagnando un potere addizionale per cambiare le regole della nostra prigione mentale – e se invece si uscisse completamente dalla Matrix e si entrasse nella “reale” realtà in cui siamo creature miserabili che vivono sulla superficie di un pianeta distrutto? Sulle orme di Adorno si dovrebbe affermare che proprio queste incongruenze[10] rappresentano i momenti di verità del film: segnalano gli antagonismi della nostra esperienza tardo-capitalistica, antagonismi che riguardano coppie ontologiche basilari come realtà e dolore (la realtà come ciò che disturba il regno del piacere-sovrano), libertà e sistema (la libertà è possibile solo entro il sistema che ne impedisce il completo sviluppo). Tuttavia, il principale punto di forza del film si colloca ad un altro livello. Anni fa, una serie di film di fantascienza come Zardok o Logan’s Run prevedevano la condizione postmoderna di oggi: il gruppo isolato che viveva una vita asettica in un’area appartata desiderava ardentemente l’esperienza del mondo reale che era di rovina materiale. Fino al postmodernismo, l’utopia significava il tentativo di liberarsi del reale del tempo storico per una Alterità senza tempo. Con il postmoderno sovrapporsi della “fine della storia” alla piena disponibilità del passato nella memoria digitalizzata, in questo tempo dove noi VIVIAMO l’utopia atemporale come esperienza ideologica quotidiana, l’utopia diviene il desiderio della Realtà della Storia in se stessa, della memoria, delle tracce del passato reale, lo sforzo di fuggire da un palazzo chiuso per raggiungere il fetore e la rovina della realtà più grezza. La Matrix dà l’ultima svolta a questo rovesciamento, che unisce utopia e distopia: la vera realtà in cui viviamo, l’atemporale utopia programmata dalla Matrix, è operativa al punto che noi possiamo effettivamente essere ridotti allo stato passivo di batterie viventi che forniscono energia alla Matrix. L’impatto singolare del film risiede non tanto nella sua tesi centrale (ciò che sperimentiamo come realtà è una realtà virtuale generata dalla Matrix, il mega-computer direttamente attaccato a tutte le nostre teste), ma nella scena madre dei milioni di esseri umani che conducono una vita claustrofobica in culle piene d’acqua, mantenuti in vita per generare energia (elettricità) per la

Matrix. Così quando alcuni di loro si “svegliano” dalla loro immersione nella realtà virtuale controllata dalla Matrix, questo risveglio non significa l’apertura all’ampio spazio della realtà esterna, ma è innanzitutto l’orribile consapevolezza di questo luogo recintato, dove ognuno di noi è effettivamente solo una sorta di feto, immerso nel fluido prenatale… Questa totale passività è la preclusa fantasia che mantiene attiva la nostra esperienza cosciente, che sostiene il fatto di porsi come soggetti – è l’ultima perversa fantasia, la nozione che noi siamo in definitiva strumenti del godimento dell’Altro (della Matrix), spremuti della nostra sostanza vitale come batterie. In ciò risiede il vero libidinale enigma di questo dispositivo: PERCHÉ la Matrix ha bisogno di energia umana? La soluzione puramente energetica è, naturalmente, priva di significato: la Matrix avrebbe potuto facilmente trovare un’altra fonte di energia, più affidabile, che non avrebbe richiesto la disposizione estremamente complessa di una realtà virtuale coordinata per milioni di unità umane (è qui visibile un’altra incongruenza: perché la Matrix non immerge ogni individuo nel suo solipsistico universo artificiale? perché complicare la questione con la coordinazione dei programmi in modo che l’intera umanità abiti un solo e identico universo virtuale?). L’unica risposta coerente è: la Matrix si nutre del godimento umano – così siamo ritornati alla tesi principale di Lacan secondo la quale lo stesso grande Altro, lungi dall’essere una macchina anonima, ha bisogno di un afflusso costante di godimento. Questo è il modo in cui dovremmo rivoltare lo stato delle cose presentato dal film: ciò che il film presenta come la scena del risveglio nella situazione reale è l’esatto opposto, la vera e propria fantasia che funge da sostrato del nostro essere. L’intima connessione tra perversione e cyberspazio è oggi un luogo comune. Secondo l’opinione corrente, lo scenario perverso mette in scena il “rinnegamento della castrazione”: la perversione può essere vista come una difesa contro il tema di “morte e sessualità”, contro la minaccia della mortalità come anche contro l’accidentale imposizione della differenza sessuale: ciò che il pervertito richiede è un universo in cui, come nei cartoni animati, un essere umano possa sopravvivere ad ogni catastrofe; in cui la sessualità adulta sia ridotta ad un gioco per bambini; in cui non si sia costretti a morire o a scegliere uno dei due sessi. Come tale, l’universo del pervertito è l’universo del puro ordine simbolico, del gioco del significante che segue il suo corso, libero dal Reale della finitezza umana. Ad un primo approccio, può sembrare che la nostra esperienza del cyberspazio si adatti perfettamente a questo universo: non è il cyberspazio un universo libero dall’inerzia del Reale, regolato solo dalle leggi che esso stesso impone? E non vale lo stesso per la Realtà Virtuale nella Matrix? La “realtà” in cui viviamo perde il suo

carattere inesorabile, diviene un dominio di leggi arbitrarie (imposte dalla Matrix) che si possono violare se solo la Volontà è forte abbastanza… Comunque, in accordo con Lacan, ciò che questa nozione convenzionale lascia fuori dalla riflessione è la relazione unica tra l’Altro e il godimento nella perversione. Cosa significa, esattamente, questo? In “Le prix du progres”, uno dei frammenti che conclude La dialettica dell’Illuminismo, Adorno e Horkeimer citano l’argomentazione di Pierre Flourens, fisiologo francese del diciannovesimo secolo, contro l’anestesia con il cloroformio: Flourens afferma che è provato che l’anestetico lavora solo sulla rete neuronale della nostra memoria. In breve, mentre veniamo sventrati vivi sul tavolo operatorio, percepiamo interamente il terribile dolore, ma più tardi, dopo il risveglio, non ce ne ricordiamo… Per Adorno e Horkheimer, questo rappresenta la perfetta metafora del destino della Ragione fondato sulla repressione della natura in sé: il corpo, la parte naturale dell’individuo, sente pienamente il dolore, ma accade che, per via della repressione, l’individuo non ne serbi memoria. In ciò risiede la perfetta vendetta della natura per il nostro dominio su di essa: inconsapevolmente, noi siamo le prime vittime di noi stessi, mentre ci massacriamo ancora vivi… Non è forse possibile leggere ciò come il perfetto e fantastico scenario di una inter-passività, dell’Altra Scena in cui paghiamo il prezzo per il nostro intervento attivo nel mondo? Non c’è un agente attivo libero privo di questo fantasmatico supporto, senza quest’Altra Scena in cui è completamente manipolato dall’Altro[11]. Un sadomasochista assume volontariamente questa sofferenza come accesso all’Essere. Forse è lungo questa linea che si può spiegare l’ossessione dei biografi di Hitler per la sua relazione con sua nipote Geli Raubal che venne trovata morta nell’appartamento di Monaco di Hitler, come se la dichiarata perversione sessuale di Hitler avesse fornito la “variabile nascosta”, l’essenziale anello mancante, il fantasmatico supporto che avrebbe spiegato la sua personalità pubblica – è questo lo scenario riportato da Otto Strasser: “[…] Hitler la svestì [mentre] avrebbe desiderato stendersi sul pavimento. Quindi lei si sarebbe accovacciata sulla sua faccia dove egli avrebbe potuto esaminarla da vicino, e questo lo rese molto eccitato. Quando l’eccitazione raggiunse il suo apice, chiese che lei orinasse su di lui, e che gli desse così piacere”[12]. L’elemento chiave è qui la totale passività del ruolo di Hitler in questa scena come quel supporto fantasmatico che lo sostenne nella sua attività politica pubblica freneticamente distruttiva – nessuna sorpresa che Geli fosse disperata e disgustata per questi rituali. In ciò si riscontra la giusta intuizione di The Matrix: nella sua

giustapposizione dei due aspetti della perversione – da un lato, la riduzione della realtà a regno virtuale regolato da leggi arbitrarie che possono essere sospese; dall’altro, la segreta verità di tale libertà, la riduzione dell’individuo ad una strumentalizzata ed estrema passività. [1] Se si confronta la sceneggiatura originale (disponibile anche su Internet) con il film stesso, si può osservare che i registi (i fratelli Wachowski, che sono anche gli autori della sceneggiatura) sono stati abbastanza intelligenti da liberarsi da troppo diretti riferimenti pseudo-intellettuali, come il seguente scambio di opinioni: “Guardali, gli automi. Non pensano a cosa stanno facendo o al perché. Il computer dice loro cosa fare e loro lo fanno.” “La banalità del male”. Questo pretenzioso riferimento ad Arendt manca totalmente il punto: le persone immerse nella realtà virtuale della Matrix sono in una posizione del tutto diversa, quasi opposta, rispetto ai carnefici dell’olocausto. Un altro procedimento similare era di lasciar cadere tutti i riferimenti troppo ovvi alle tecniche occidentali per svuotare la mente, come modo per sfuggire al controllo della Matrix: “Tu devi imparare a lasciare andare la collera. Devi lasciare andar via tutto. Devi svuotare te stesso per liberare la tua mente”. [2] È cruciale il fatto che ciò che permette all’eroe di The Truman Show di vedere oltre il suo mondo manipolato e di uscire da esso è l’imprevisto intervento di suo padre – ci sono due figure paterne nel film, il vero padre simbolico-biologico e il paranoico padre “reale”, il regista dello spettacolo televisivo che manipola completamente la sua vita e che lo protegge nell’ambiente chiuso, interpretato da Ed Harris. [3] Per questo faccio ampio riferimento a: J. Dean, Aliens in America. Conspiracy Cultures from Outerspace to Cyberspace, Cornell University Press, Ithaca-London 1998. [4]C. Lévi-Strauss, “Do Dual Organizations Exist?”, in Structural Antrophology, Basic Books, New York 1963. pp. 131-163; i disegni sono alle pp. 133-134. [5]Si veda R. Mocnick, “Das ‘Subjekt, dem unterstellt wird zu glauben’ und die Nation als eine NullInstitution”, in: Denk-Prozesse nach Althusser, H. Boke, Argument Verlag, Hamburg 1994. [6]Si veda J. Lacan, Television, in «Octobre» n. 40, 1987. [7] L’opera principale di Malebranche è Recherches de la veritè (1674-75), Vrin, Paris 1975. [8] Per questa ambiguità, si veda P. Virilio, The Art of the Motor, Minnesota University Press, Minneapolis 1995. [9] La nozione di questa connessione tra il cyberspazio e l’universo psicotico di Schreber mi fu suggerita da Wendy Chun, Princeton. [10] Un’altra inconsistenza riguarda la condizione di intersoggettività nell’universo sviluppato dalla Matrix: tutti gli individui condividono la STESSA realtà virtuale? PERCHé? Perché non dare a ciascuno la propria realtà preferita? [11] Ciò che Hegel fa è “attraversare” questa fantasia dimostrando la sua funzione di riempimento nel pre-ontologico abisso di libertà, ovvero ricostituendo la Scena positiva in cui l’individuo è inserito in un ordine noumenico positivo. In altre parole, per Hegel, la visione di Kant è priva di senso e inconsistente, dal momento ch’essa, segretamente, reintroduce una totalità divina del tutto ontologicamente costituita, ovvero un mondo concepito SOLO come sostanza, NON anche come Soggetto. [12]Riportato da R. Rosenbaum, Explaining Hitler, Harper, New York 1999, p. 134.

MINIMA/VOLTI collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Jean Baudrillard, Cyberfilosofia, 2010 Michel Foucault, Eterotopia, 2010 Gilles Deleuze, Immanenza, 2010 Lou Andreas-Salomé, Anal und Sexual, 2010 Cusano, Il dio nascosto, 2010 Mario Perniola, Più che sacro, più che profano, 2010 Slavoij Žižek, The matrix, 2010 Gilles Deleuze, Cinema, 2010 Antonio Caronia, Virtuale, 2010