Teologia dei quattro elementi. Manifesto per un politeismo politico
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ETEROTOPIE N. 162 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna

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COMITATO SCIENTIFICO

Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina) Antonio Caronia (NABA) Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria” Varese) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Maurizio Guerri (Università degli Studi di Milano) José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid) Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo) Bernardo Nante (Universidad del Salvador, Buenos Aires, Argentina) I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review

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AUGUSTO ILLUMINATI

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TEOLOGIA DEI QUATTRO ELEMENTI Manifesto per un politeismo politico

MIMESIS Eterotopie

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© 2012 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Collana Eterotopie n. 162 Isbn 9788857513089 www.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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INDICE

PROLOGO IN TERRA 1. Da dove scriviamo? 3. Retoriche dell’eccezione 4. Intermezzo catto-dadaista 5. Dalla rappresentazione sovrana al debito sovrano 7. Lo spinoso caso Rautavaara 8. Streghe e Sabei

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ACQUA 2. Lezioni di nuoto 3. Il nomos in bilico 4. Pesci e spiriti 5. Intermezzo: acque sognanti 6. Call me Ishmael... 7. Arcipelago

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41 48 50 52 54 55 59

TERRA 1. L’antro delle ninfe 2. Nékuia 3. Dove volteggia l’uccello Ziz 4. Il politico e la Terra 5. Recinti 6. Intermezzo 1: leggerezza della terra, danza di Arianna 7. Intermezzo 2: Saturno e la profondità della terra 8. Rondò géranos 9. Enclosures post-sovrane 10. Amazzoni, ancora

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67 68 73 75 80 83 88 91 94 97 108

ARIA 1. Clouds 2. Up in the Air 3. Passaggi di stato 4. La nuvola e il fulmine

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FUOCO 1. Zuppa e arrosto 2. Les mains de Jeanne-Marie 3. Coriandoli di luce 4. Roghi e candele 5. Fuochi del conforto 6. Fuochi del disordine

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CONCLUSIONI 1. Dirupi 2. Politeismo dei valori 3. Allegoria qualunque 4. Tradurre l’Uno in molti

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153 153 155 159 162

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A Tania, segno d’aria

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Teologia dei quattro elementi

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Questo lavoro prende le mosse dalla discussione collettiva che si è svolta negli ultimi due anni della Libera Università Metropolitana presso Esc atelier autogestito di Roma e approfondisce il filone aperto con A. Illuminati-T. Rispoli, Tumulti. Scene dal nuovo disordine planetario, DeriveApprodi, Roma 2011. Oltre a tutti i compagni che hanno preso parte ai seminari fornendo idee preziose, voglio ringraziare in particolare, per il contributo critico apportato al testo, Claudia Bernardi, Francesco Brancaccio, Fabio Frosini, Vittorio Morfino, Francesco Raparelli e Michele Surdi. Nicoletta Latini ha con grande cura rivisto le bozze.

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PROLOGO IN TERRA

Come può saltare in mente di occuparsi di teologia o di teologia politica, con questi chiari di luna? Ebbene, proprio la crisi e l’avvento dei governi tecnici, con annessi sproloqui su trascendenza e necessità del fenomeno, ferree leggi dell’economia, occulta personalizzazione di mercati e spread, misteriosissima consistenza e tossicità di prodotti finanziari e derivati di ogni sorta, cosa c’è di più teologico, nel senso speculativo e in quello più basso di seduta spiritica ed esorcismi taglia-deficit? In cosa si distinguono i moderni economisti da astrologi, angelologi e demonologi professionali o dilettanti, maghi e stregoni? Se non che costoro, a volte, ci azzeccavano e i maestri del pensiero teologico argomentavano con rigore da premesse solo probabili, sfornando avvincenti prestazioni logiche. Lo stesso non si può dire di economisti e manager sul piano esplicativo e peggio ancora previsionale. Le streghe conoscevano empiricamente un bel po’ di rimedi curativi a paragone dei promotori finanziari del terzo millennio e degli esperti di spending review. Di politici e giornalisti specializzati è più bello tacere. Eppure, mai come in questa decadenza di teologia e teurgia è stata viva la tentazione di ricavare da quelle categorie divine indicazioni umane, di mettere in vigore le fantasie metafisiche in articoli di legge e massime costituzionali, conferendo una sanzione soprannaturale alle più arruffate pratiche di uso pretestuoso della crisi e di governo dello sfruttamento biopolitico e moltitudinario. La procedura del maxi-emendamento e del voto di fiducia, almeno in Italia, ha sostituito il dogma ex cathedra e il commento autorizzato, anche se purtroppo la qualità dei dibattiti e dell’articolato non raggiunge neppur lontanamente la potenza dialettica delle Sententiae e delle più dimesse Quaestiones. Con l’austerità indotta dalla crisi, il carnevale populista tette e culi ha ceduto il passo a un’etica quaresimale e a una teologia del potere sottratto e occultato fra le nebbie di istituzioni extra-politiche e sovranazionali. Soffrire e rimettersi (senza troppo concedere neppure alla speranza) – beh, non è proprio una novità, piuttosto il riemergere di un rimosso mai davvero cancellato. Il complesso del debito e della colpa,

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Teologia dei quattro elementi

che oggi governa corpi e anime, avallando un’anima per responsabile del corpo, una nazione per garante dei passivi bancari. La finanziarizzazione ha diffuso nel quotidiano la natura mistica e i capricci teologici della merce, di cui già parlava il precursore Marx. I tavolini si mettono a ballare, ma si possono pure rovesciare, secondo la battuta di Tracy Chapman: Finally the tables are starting to turn Talkin’ bout a revolution...

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1. Da dove scriviamo? Niente lacrime sulla dittatura del pensiero unico, il new realism fa giustizia delle interpretazioni vagabonde, l’iPad è risoluzionario non rivoluzionario e viviamo in un mondo dove si auspica la ‘manutenzione’ dell’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, esattamente come il dottor Quesnay, nelle Observations sur le droit naturel des hommes réunis en société del 1765, § 5, intimava che le leggi positive non debbono essere altro che «leggi di manutenzione relative all’ordine naturale, che evidentemente è il più vantaggioso al genere umano».1 Essendo le leggi di natura, istituite dall’Essere Supremo, immutabili e irrefutabili, sono del pari vantaggiose per governanti e governati e non esigono rappresentanze di interessi per elaborarle. Basta conoscerle e promulgarle, alla lettera «dichiararle», così che solo un pazzo potrebbe infrangerle votandosi alla repressione. Il «Con1

«Journal de l’agriculture, du commerce & des finances», t. II, 1ère partie (septembre 1765), pp. 32, 31, 33, 35. Nell’Essai physique sur l’économie animale, risalente al 1736 e rielaborato nel 1747 (Œuvres Économiques et Philosophiques de F. Quesnay, ed. A. Oncken, J. Peelman et Cie, Francfort/Paris 1888, reissued Bart Francklin, New York 1970, pp. 737-738; l’edizione più recente è Œuvres économiques complètes et autres textes, éd. par C. Théré, L. Charles et J.-C. Perrot, Ined, Paris 2005, 2 vol.) aveva naturalizzato la diseguaglianza attribuendola alla provvidenziale imperscrutabilità di Dio e collegandola, a differenza da Locke, al concetto romanistico di proprietà. Alla voce Évidence del VI vol. dell’Encyclopédie (1756), la pone come congiunzione fra estensione e intelligibilità, mondo materiale e morale: essa è comunicazione con la divinità, conferma della fede, conferendo al sensismo una dimensione trascendentale. Seguire l’evidenza delle leggi naturali del mercato è la regola di condotta generale da cui dipende la felicità degli uomini. Il Despotisme de la Chine, articolo su «Ephémérides du citoyen», 1767, contiene l’elogio «confuciano» del dispotismo illuminato; in parallelo cfr. le Maximes générales du gouvernement agricole le plus avantageux au genre humain, del 1768. Al 1758-1759 risale la redazione del suo capolavoro pionieristico, il Tableau économique.

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Prologo in terra

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fucio francese» – inquietante indicatore di attualità! – e fondatore della scuola fisiocratica non trovava incoerenze fra le lettres de cachet di un re assoluto purché illuminato in materia economica e l’immutabile ordine della Natura voluto da Dio, avendo mischiato in anticipo un certo grado di intervento sovrano arbitrario e il liberalismo economico di matrice deista, diciamo ash‘arismo e mu‘tazilismo per gli esperti del kalâm islamico2. «Dispotismo legale»3 sarà il complemento politico del geniale Tableau economico: un potere assoluto che si attiene all’evidenza trascritta in legislazione positiva, garantendo la piena proprietà e la libera circolazione delle merci. Se è vero che possiamo considerare la fisiocrazia un travestimento feudale della prima percezione continentale del capitalismo e mettere in parallelo il ruolo esclusivo della terra quale fattore produttivo e la miopia riguardo a rappresentanza e forma del potere, lo è altrettanto prender sul serio il tono profetico dell’utopia tecnocratica e perfino ritornare sul ruolo della terra – base materiale e metafora del bios – nella finanziarizzazione

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Il primo è una teologia della potenza assoluta di Dio che interviene determinando gli incontri dei singoli atomi e dunque ogni evento, sotto la parvenza di regolarità causali che sono solo «abitudini»; nel secondo Allah ha creato con il mondo le leggi naturali scientificamente decifrabili cui di massima si attiene. La teologia ash‘arita richiama, per un verso, l’occasionalismo teologico svalutante le cause seconde (da Guelincx a Malebranche), per l’altro Hume. L’idea germinale, già presente nella Maximes di Quesnay, è resa esplicita nel 1767 dal suo allievo Mercier de la Rivière (L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques), che distingue il dispotismo legale, fondato sull’evidenza economica, dall’arbitrio individuale e identifica trasgressione della legge e peccato. Entrambi attacchi contro il volere di Dio, tanto che l’osservanza della legge positiva è affidata, oltre che alla coercizione esterna, alla religion du for intérieur. Mentre il grande Turgot, in coerenza alla sua sfortunata opera politica e all’evoluzione del pensiero economico, si allontana dal dispotismo legale e propugna forme di rappresentanza e una teoria del progresso, Dupont de Nemours, futuro protagonista di destra della Rivoluzione, scampato al Terrore, emigrato negli Stati Uniti e colà fondatore di una delle più importanti e tuttora operanti corporations, in De l’origine et des progrès d’une science nouvelle (1768) scoperchia il sottofondo deista del dispotismo affermando che l’autorità sovrana è istituita per verbalizzare le leggi che sono state già fatte da Dio, le seul producteur del diritto come dei prodotti agricoli: «il potere legislativo non crea, ma dichiara». Anche se i Fisiocrati si rispecchiavano nei mandarini cinesi, sostegno letterario e amministrativo del mandato celeste dell’Imperatore, viene alla mente la fondazione sharaitica del governo islamico, in cui il potere legislativo è prerogativa di Dio, tradotta in legislazione positiva da quello che in alcune recenti teorizzazioni è il vicariato del giureconsulto, il velayat-e-faqib khomeiniano, o da altre soggettività costituenti sunnite; cfr. M. Campanini, L’alternativa islamica, Bruno Mondadori, Milano 2012, cap. II e pp. 122 sgg.

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Teologia dei quattro elementi

globale che si accaparra le risorse del comune e le taglieggia con la rendita. Natura e decretazione, secondo ideologia e pratica da governance tecnocratica, per autolegittimazione del comando. Tanto per non meravigliarci se oggi il provvedimento amministrativo si arroga di mettere in vigore le leggi oggettive del mercato – TINA, there is no alternative – e costringe i cittadini a ottemperare ai dettami della finanza, secondo una divisione del lavoro fra economisti interpreti esecutivi della necessità e burocrati addetti agli orpelli dottrinali. Così gira il mondo e la teologia politica suona il piffero, mentre noi ci arrabattiamo a risolvere problemi entro una cornice presunta immutabile. Risuona la vecchia solfa, con una variante di peso. Mentre Genesi 3 recitava Donna, partorirai con dolore, uomo lavorerai con il sudore della fronte, oggi tecnici ingessati annunciano Donna partorirai e abortirai pure con dolore, uomo lavorerai e soprattutto non lavorerai con il sudore della fronte. È il post-fordismo, bellezza! Il passaggio dal Welfare al Workfare immette nella coscienza la servitù sacrificale a una partecipazione ristretta alla ricchezza virtuale, laddove semmai esiste il problema di contenere la devastazione degli elementi naturali, minacciati dall’esaurimento e inquinamento delle risorse di aria, acqua, terra, e dagli effetti del riscaldamento globale. Ha un senso ridurre, secondo criteri di classe, l’accesso a consumi di basso impatto ambientale e scarso dispendio energetico, quali la somministrazione di medicine salvavita o la trasmissione di insegnamenti superiori, come accade con la brevettazione dei farmaci anti-Aids o le restrizioni agli accessi universitari? Non predomina forse l’idea di una selezione qualsiasi per accrescere le diseguaglianze e la flagellazione della colpa, a vantaggio degli introiti finanziari? In ciò consiste l’essenza del pensiero unico, la cui cifra linguistica è il menagramo inglese globish, che invariabilmente annunzia fregature: ticket, sprawl, spending review, credit crunch, hedge fund, subprime, default... Il luogo da cui scriviamo è la sperimentazione di un governo tecnico con l’aureola di un’oggettività che ha spinto all’assurdo la consueta trascendenza teologica e ha coagulato il divino nell’economico, naturalizzando la storia e nel contempo mancando tutti i conclamati obbiettivi pratici di controllo del mercato. Si è usata la crisi per modificare i rapporti di classe a favore dei già ricchi, ma fallendo bilanci, previsioni e scommesse. Una redistribuzione della ricchezza senza sviluppo nsei paesi capitalistici maturi, un loro arretramento nella competizione con i paesi capitalistici emergenti dissolve la tenuta della società nel primo caso, spinge verso guerra nel secondo, come vedremo nella sezione conclusiva, in cui ci auguriamo l’avvento di Venere ma paventiamo il clangore di Marte.

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Prologo in terra

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2. Spettri dell’Uno Con tenacia quegli spettri analogici presidiano cielo e terra, si rimandano a specchio immagini di potere e potere-di-non, di voluntas e noluntas. Il sigillo del trascendente si imprime su condotte che sperimentiamo nella vita quotidiana e forse meriterebbero una quotazione più dimessa e stringente, una valutazione di classe azzardiamo. Il trascendente ha il gran vantaggio di additare l’imperscrutabile e naturalizzare le diseguaglianze e le procedure che le consolidano. Deus vult, oppure si disattiva e predica l’astensione. L’autorità si regge salda sia evocando un superiore mandante che sfoggiando autoreferenzialità. Perfino, con l’astuzia del diavolo, persuadendoci che non esiste. I mercati, lo spread, l’Europa. Sempre gli altri. Nell’alto dei cieli. Se per il sapiente Eraclito gli dèi abitavano anche in un focolare, oggi chiunque si precipita a evocare a briglia sciolta schemi teologici per condotte spiegabili in concetti terreni. Il problema non sta nella teologia, che è, sì, piccola e brutta,4 tuttavia è degna e performativa, quanto nella pretesa di elevare in cielo i conflitti, facendoli sparire fra le nuvole. Teologia e metafisica, prese sul serio, lasciano intravedere le radici del conflitto, sublimarlo a usa e getta lo dissolve. Vorremmo farla finita con la lettura unilaterale della teologia (positiva o negativa che sia, della potenza o della debolezza, del pieno o del vuoto, della vittoria o della catastrofe) in chiave monoteista. Chiaro che la teologia in senso forte nasce con il monoteismo, ma non è detto che debba continuare a far corpo con esso, che non sia cioè possibile una specie di teologia politeista al prender atto dell’agonia, se non dell’avvenuto decesso, del Dio unico e dei suoi supplenti terreni. I tentativi di allegorizzare gli dèi olimpici sbiadirono perché abbagliati dall’Uno dei neoplatonici o dall’anticipante prónoia provvidenziale degli stoici e infine furono messi fuori mercato dalla concorrenza scritturale, mosaica con Filone e cristiana con Agostino.5 Il theológos antico sfornava racconti intorno alle divinità, la te4

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Klein und hässlich la definisce W. Benjamin nella prima delle tesi Sul concetto di storia (1940), ed. it. con testo a fronte a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, pp. 20-21. Allora «non doveva lasciarsi vedere», oggi invece è fin troppo spaparazzata a fini edificanti. Vi è dedicato l’intero libro XII delle Confessiones, con una più sistematica giustificazione dottrinale in De Trinitate, I 1 e 12, II 18, VI 19, VII 6, VIII 10, IX 2, X 12, l’intero XI e il riepilogativo XV, dove il creato e l’uomo (interiore ed esteriore) sono «tracce» dell’economia divina trinitaria. L’allegoria si fonda sull’analogia ontologica, che presuppone l’inferiorità del contingente fisico rispetto all’e-

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Teologia dei quattro elementi

ogonia, la natura del cosmo. Il teologo cristiano strologa intorno al Dio uno e trino, la creazione, il peccato originale e altre cose che non si possono toccare né dimostrare matematicamente. I mutakallimûn islamici (loquentes, nella smagliante versione latina) discettano su attributi e potenza del Dio senza associati. Sempre di narrazioni ipotetiche trattasi e non intendiamo discostarci da quell’umile accezione ogni qual volta svetta il nome impegnativo di filosofia prima. Il pù antico programma di sistema dell'idealismo tedesco o Systemprogramm del 1800 recitava: «monoteismo della ragione e del cuore e politeismo dell’immaginazione e dell’arte – di questo abbiamo bisogno!», dobbiamo costruire «una nuova mitologia al servizio delle idee, una mitologia della ragione», per cui la mitologia deve diventare filosofica e il popolo razionale, e la filosofia deve diventare mitologica per rendere sensibili [comprensibili] i filosofi».6 Un Cristo dialettico (una dialettica cristologica) controbilancia le risorgenti potenze dell’Olimpo, mentre incalza il problema del rischiaramento degli ignoranti e in nuce della mancanza di base popolare alla rivoluzione filosofica. Hölderlin, che di quel frammento è uno degli autori, farà dire a Ottmar (Alla madre terra): «Io canto al posto di un’aperta comunità (Statt offner Gemeine sing’ ich Gesang)...» – un vuoto politico che il mito cerca di colmare. Siamo in piena età delle rivoluzioni borghesi e delle radicalizzazioni che alludono a ulteriori dinamiche di classe, anzi proprio quell’ambivalenza, tanto più viva nell’arretratezza tedesca, ispira il ricorso al mito educativo e mobilitativo. Ok, il mito e i suoi succedanei anoressici, il simbolico, la narrazione, sono spesso l’ultimo rifugio dell’impotenza operativa. Non è una buona ragione per non riprovarci, noi eredi di Epicuro e Lucrezio, di Spinoza, Nietzsche e Marx.

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semplare divino: naturae mutabilis, aut incommutabilis veritatis (IX 7). Si tratta quasi di una memoria imperfetta del divino, adombramento figurale della gloria eterna che perverrà all’oggetto soltanto nella contemplativa sapientia della visione facciale di Dio (XIV 14 e 18-19, XV 11). Monotheismus der Vernunft und des Herzens, Polytheismus der Einbildungskraft und der Kunst, dies ist’s, was wir bedürfen!... wir müssen eine neue Mythologie haben, diese Mythologie aber muß im Dienste der Ideen stehen, sie muß eine Mythologie der Vernunft werden... die Mythologie muß philosophisch werden und das Volk vernünftig, und die Philosophie muß mythologisch werden, um die Philosophen sinnlich zu machen.

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3. Retoriche dell’eccezione Chi non conosce l’atto di nascita della teologia politica del Novecento nelle pagine di Carl Schmitt?

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Tutti i concetti pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati […] Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo a quello del miracolo per la teologia. Solo con la consapevolezza di questa posizione analoga si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli.7

L’innovazione schmittiana consiste nel mettere in moto la veneranda equipollenza fra Dio e il Sovrano,8 concentrandosi sulle funzioni operative nell’esercizio della potestas, secondo l’antinomia fra legalismo e decisionismo. Tralasciamo il carattere tutto sommato episodico che lo stato d’eccezione (Ausnahmezustand) ha rivestito nella carriera intellettuale del giurista di Plettenberg – ruolo limitato al periodo weimariano e svanito

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C. Schmitt (1922), Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre der Souvranität, Duncker & Humblot, Berlin 2004, p. 43, tr. it. in Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna 1998, p. 61. Basti citare Descartes, lettere a Mersenne del 15 aprile 1630, in cui associava imperscrutabilità e potenza di Dio a quelle di un re, e a Elisabetta di Boemia, del gennaio 1643. Ancor più pesante l’analogia nell’agnostico Hobbes, la cui clausola that Jesus is the Christ è spregiudicatamente considerata da Schmitt equivalente a un qualsiasi Allâhu akbar. All’opposto, contro ogni teologia monoteista e personalista si schiera Spinoza, Ethica II pr. 3 schol., beffando (in anticipo su Benjamin) l’impotenza che è il risvolto della presunta onnipotenza sovrana. Se il volgo infatti riduce la potenza divina a libera volontà, capriccio più regale spinto sino all’annichilimento del mondo, il saggio la considererà piuttosto come eterna e dispiegata necessità, actuosa essentia, ragion per cui risulta impossibile concepire che Dio non agisca quanto che non sia. La potenza intesa quale arbitrarietà riduce Dio all’uomo e implica impotenza, abbassandolo al rango di un re, mentre bisogna guardarsi ne Dei potentiam cum humana Regum potentia, vel jure confundat. L’equiparazione del peccato contro Dio alla violazione della legge civile e dell’incredulità alla lesa maestà è un topos del pensiero religioso e giuridico, che comincia almeno dalla denuncia nel XIII secolo dei perniciosi effetti dell’averroismo sull’obbedienza e culmina nella condanna della Facoltà teologica di Parigi, a sostegno del rogo parlamentare dell’Émile russoiano deliberato il 9 giugno 1762: Qui foule aux pieds les droits de la divine Majesté, ne connoît plus les droits de la Majesté royale ?, o in più aulico latino: An divina jura stabunt inconcussa, si divina proculcentur? Patetica, se si pensa all’intensificato hobbisme dell’autore censurato, non anacronistica se si considerano gli anatemi fisiocratici di quegli stessi anni contro i trasgressori delle leggi divino-naturali dell’economia.

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durante la fase nazista che in apparenza avrebbe dovuto convalidarlo9 – e vediamo la sua recente ripresa e messa in voga da parte di Giorgio Agamben, che assembla una teologia negativa e il carattere liminare dell’esercizio sovrano: [L’eccezione] è, nel diritto, un elemento che trascende il diritto positivo, nella forma della sua sospensione. Essa sta al diritto positivo, come la teologia negativa sta a quella positiva. Mentre questa, infatti, predica e afferma di Dio determinate qualità, la teologia negativa (o mistica), col suo né…, né…, nega e sospende l’attribuzione di qualsiasi predicazione. Essa non è, tuttavia, al di fuori della teologia, ma funziona, a ben guardare, come il principio che fonda la possibilità in generale di qualcosa come una teologia. Solo perché la divinità è stata presupposta negativamente come ciò che sussiste al di fuori di ogni possibile predicato, essa può diventare soggetto di una predicazione. In modo analogo, solo perché la validità del diritto positivo è sospesa nello stato di eccezione, esso può definire il caso normale come l’ambito della propria validità.10

Un dispositivo che rimanda a posture abituali del pensiero mitico – il tempo delle origini, l’eroe civilizzatore, ecc., figure di un al di qua del tempo profano che lo fondano collocandosi sulla soglia – e tuttavia le concentra e sterilizza nel monoteismo sovrano. Si tratta – lo spiega Schmitt a proposito del decisionismo in cui si manifesta la sovranità11 – di un caso-limite al margine del campo giuridico, non di una qualsiasi proclamazione di stato d’assedio. Se l’analogia fra mito e realtà, teologia e diritto, poggia sul fatto che qualcuno, nel primo settore, crea dal nulla gli equivalenti del secondo, quel qualcuno è trascendente e personale, mentre il secondo settore riposa sulla contingenza e si tiene assieme sotto e grazie al comando altrui. Dio e il Sovrano decidono in modo unitario sullo stato d’eccezione e per farlo devono essere persone in carne e ossa. Questa versione della teologia, all’opposto del tomismo,12 veicola un virtuale nichilismo dell’indifferenza e infondatezza. Già per l’agnostico Hobbes la legge 9

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M. Guareschi -F. Rahola, Chi decide? Critica della ragione eccezionalista, Ombre Corte, Verona, 2011, che mostra molto bene il carattere riequilibrante e non permanente del decisionismo schmittiano, riferibile specificamente ai conflitti anteriori alla salita al cancellierato di Hitler; il successo del regime totalitario lo rende anzi superfluo. Cfr. la puntuale recensione di F. Brancaccio, in «Nomos. Le attualità nel diritto», 1/2012. Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino 1995, p. 21. Nel primo capitolo della citata Politische Theologie, cfr. tr. it. pp. 33 sgg. Più incline a tradursi in un costituzionalismo teologico, in cui Dio è coessenziale al logos, la sovranità alla legge (da Leibniz a Kelsen). Per un’esposizione dettagliata delle matrici teologiche e delle analogie giuridiche, cfr. E. Castrucci, Studi

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Prologo in terra

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di natura era inconsistente, perché il mondo è distruggibile in ogni momento dalla volontà imperscrutabile di Dio. Il cattolico Schmitt testimonia adesso sul terreno politico l’intercambiabilità apicale di sostanzialismo teologico e nichilismo. Come Maurras affermò di essere cattolico ma ateo (Schmitt avrebbe potuto asserire lo stesso, fosse stato meno cauto), di Hobbes potrebbe dirsi: calvinista ma ateo. Argomento appena attenuato, se il presupposto (come in Agamben) è un Uno emanativo impersonale, disgiunto da volontà e operatività. L’evacuazione del divino, che lascia essere il mondo – lo Tsimtsum della Kabbalah luriana –, è inversione simmetrica del processo biblico di creazione fuso con l’emanazione gnostica, la potenza-di-non è il supplemento della potenza-di e, in un paradigma monoteista, ne mantiene l’essenza.13 Ragion per cui la pretesa di oltrepassare definitivamente Heidegger aggiungendo al diagramma dello stato d’eccezione Foucault e l’economia trinitaria, urta contro aporie insormontabili, innestando un cortocircuito astorico tra ontologia e formalismo giuridico.14

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sull’idea di potenza. Le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell’Occidente, Adriatica, Bari 1996. Sulla scia dello Pseudo-Dionigi, Scoto Eriugena, nel Periphyseon o De divisione naturae, aveva distinto la natura non creata che crea (producendo l’exitus del mondo dal nulla) e la natura che non è creata e non crea, approdo del processo mistico di reditus. Eckhart scevera del pari Dio (Gott) e Divinità (Gottheit): il primo è Dio che opera, la seconda Dio che non opera, ben divisi dall’opposizione agire-non agire, Gott und Gottheit sind unterschieden durch Wirken und Nichtwirken (Nolite timere, predica 109, Deutsche Werke, Bd. 4/2, Predigten. Hrsg. G. Steer, Kohlhammer, Stuttgart 2003, pp. 772 sgg., tr. it. in Sermoni tedeschi, Adelphi, Milano 1985, p. 80). Vi corrispondono l’uomo esteriore e l’uomo interiore. La fonte, al solito, è la differenza dionisiana fra l’oscurità della Tearchia, il principio deificante supersostanziale (huperoúsios) e superdivino (hupértheos), e gli stessi nomi della Trinità. Tale distinzione susciterà l’entusiasmo di Ph. K. Dick nella trilogia gnostica di Valis, dove risuscita anche la società degli Amici di Dio (Gottesfreunde) che si era costituita intorno a Tauler, il discepolo quietista di Eckhart. Per la sequenza dei nomi designanti l’indicibilità e inessenzialità dell’Uno, cfr. De divinis nominibus I (Migne, PG III, 585b sgg., tr. it. Dionigi Areopagita, Tutte le opere, a cura di E. Bellini, Rusconi, Milano 1981 e 1999, pp. 252 sgg.). L’oggi perduto commento porfiriano al Parmenide consentiva di attribuire i nomi divini alla moné e al próodos, all’emanante e all’emanato. Superfluo menzionare che alla radice del tutto è il passo platonico (Fedro, 247c 10 sgg.) sul Bene, essenza incolore, irraffigurabile, intangibile, cui solo si può attribuire esistenza, visibile dalla sola mente e guida dell’anima (he gar achrómatós te kai aschemátistos kai anafès ousía ontos oûsa, psuchês kubernetei monoi theaté nôi). G. Agamben, Opus Dei. Archeologia dell’ufficio. Homo sacer II, 5, Bollati Boringhieri e Seuil, Torino-Paris 2012.

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Punto cieco del ragionamento è proprio lo stato d’eccezione, la miracolosa sospensione che ha luogo nella dottrina e viene riproposta a modello di politica dall’alto o dal basso, dittatoriale o rivoluzionaria, mentre la realtà post-sovrana è un coacervo di eccezioni, emergenze amministrative, fonti giuridiche e impulsi operativi multi-livello, sedi plurime di decisione e implementazione, cui contrastano modi striscianti di resistenza e controcondotte. L’urto fra egemonie non va in scena nel vuoto dell’Ausnahmezustand, ma passa per cicli di lotte dove si mischiano toni destituenti e costituenti, locali e convergenti, eccesso di claims e riduzione di complessità. Lo scarto fra egemonia e dittatura non si riferisce al presunto volto più mite della prima, piuttosto alla secondarietà, nella prima, del momento eccezionale, che invece inerisce vistosamente alla seconda, commissaria o sovrana che sia. L’eccezione – intesa nella pienezza celeste, di cui il lager è riverbero infernale – vive più nella declamazione che nella prassi, sia pure al limite o Idealtypus. Fa scena, enfatizzando quel nesso fra rappresentazione e sovranità, nel cui cerchio magico si aggiusta con ritocchi plurali l’identità delle parti in causa. Nella pratica giuridico-istituzionale ed economica pesa assai meno. Nella matrice originaria di Schmitt, già nel 1923, la complexio oppositorum romano-cattolica, presa in prestito dall’incolpevole Cusano, consisteva in una specifica superiorità formale nei confronti della materia della vita umana, quale fino allora nessun impero aveva conosciuto, sì che una compagine insieme sostanziale e formale (giuridica) poté permanere dentro l’esistenza concreta con il massimo di razionalità, essere piena di vita e nondimeno razionale nel grado più alto. Questa peculiarità si basa sulla «rigorosa attuazione del principio di rappresentazione», in cui decisione e mediazione (le azioni ‘formative’) se ne stanno appaiate. La Chiesa fu rappresentazione personale di una personalità concreta, il Pontefice erede di Cristo, e depositaria, in grande stile, dello spirito giuridico e della giurisprudenza romana. La forza di attuare questa forma la Chiesa la possiede in quanto ha il legato dell’incarnazione e del sacrificio in croce di Cristo, il Dio che si è fatto uomo nella realtà storica. Capisaldi di tale assetto. 1) Il tenere insieme sostanzialità ed effettualità, fede e diritto canonico. 2) Il separare, invece, atto e attore, carisma e ufficio, distinguendo la superiore validità del rappresentato-amministrato (ex opere operato) dall’eventuale indegnità del rappresentante-amministratore che ne è tramite (ex opere operantis).15 3) L’essere il Pontefice e a cascata gli altri gra15

Il rifiuto della validità dei sacramenti amministrati da sacerdoti indegni contrassegna ogni eresia radicale – dai Donatisti nei confronti dei vescovi che avevano

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di il tramite vicario del mandato di Cristo, non un funzionario impersonale come nello schema weberiano, e neppure l’«esponente» (non «rappresentante») anonimo della società civile liberale. Il personalismo del Dio monoteista si trasfonde nel titolare dell’ufficio, con tutti i crismi sacramentali, il character indelebilis del sacardote, marchio o sigillo incancellabile e irreplicabile. I contenuti dell’economico, la produzione e il consumo, non sono rappresentabili come le figure teologico-politiche – Dio, Popolo, Libertà ed Eguaglianza – e non sono compatibili con persone rappresentative dotate di autorità. Al più, dànno luogo a un vertreten, a uno stare-in-luogo-di, vuoi mettere! I borghesi non sanno che chiacchierare (la clase discutidora di Donoso Cortés) e gli operai fanno casino per riempirsi la pancia. Nel rappresentare dall’alto una presenza reale della cosa, secondo un ethos della convinzione, sta la superiorità della Chiesa sul modo di pensare e di nutrirsi tecnico-economico e in genere poggia la legittimazione dell’obbedienza forzosa dei cittadini e dell’irresistibilità giuridica del potere.16

4. Intermezzo catto-dadaista Hugo Ball,17 performer e animatore del Cabaret Voltaire, la quintessenza della scena pacifista e dadaista a Zurigo negli anni della prima Guerra Mondiale, ha chiuso con quella turbolenta stagione anarchica, ha studiato la religiosità bizantina ma ormai l’include in un’ottica cattolica e papista e adesso vi annette genialmente Schmitt. Non era ovvio per il giovane giurista? No, vedremo che Ball capisce Schmitt meglio di lui stesso, lo interpre-

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abiurato per paura delle persecuzioni ai Patari in polemica con il clero feudale corrotto. Ogni volta la Chiesa (da Agostino in poi) si è opposta in nome dell’ordine stabilito e della propria tenuta autoreferenziale. L’efficacia performativa della rappresentazione deve affrancarsi dalla prestazione degli attori, altrimenti va a rischio l’obbedienza. Römischer Katholizismus und politische Form, 1923, Klett-Cotta, Stuttgart 1984, tr. it. Cattolicesimo romano e forma politica, a cura di C. Galli, Giuffrè, Milano, 1986 e Il Mulino, Bologna 2010, pp. 18, 29-30, 35, 38 e 41-43. In apparenza la teologia politica qui implicita è tutta positiva, trionfante, rispetto ai connotati nichilisti delle formulazioni successive; propenderei a credere che essi siano piuttosto spinti sotto il tappeto che assenti. Carl Schmitts Politische Theologie, «Hochland», giugno 1924, pp. 263-286, disponibile on line sul sito http://carl-schmitt-studien.blogspot.it/2006/11/hugoball-carl-schmitts-politische.html. Tr. it. in appendice a C. Schmitt, Aurora boreale. Tre studi sugli elementi, lo spirito e l’attualità dell’opera di Theodor Däubler, ESI, Napoli 1995.

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ta con tale coerenza che appunto Schmitt finisce per scappargli, non vi si riconoscerà più e per tutta la vita rimpiangerà quel lettore e un’amicizia che avrebbe potuto essere stellare... salvo a riscoprirla nel secondo dopoguerra, insieme al giovane e ondivago rabbino Taubes, quando abbisogna di referenze, per esempio la mai corrisposta lettera di W. Benjamin del dicembre 1930. Oppure la tagliente recensione di Leo Strauss. Ball si è appassionato a processioni neoplatoniche e angeli dionisiani, ma ha ben chiaro che il mistico si converte e prende forma nel giuridico grazie a gerarchia e rappresentazione. Oltre a cogliere al volo la connessione fra i quattro scritti giovanili di Schmitt (Politische Romantik, Die Diktatur, Politische Theologie, Römischer Katholizismus), individua nell’autore non solo la volontà di indagare e fissare con inquisitorische Intelligenz l’idea di diritto, ma di incarnarla, secondo il dispositivo per cui le astrazioni (Dio, forma, autorità) e il fondo irrazionale del mondo devono prendere corpo in una persona, che come il Papa le rappresenti in modo non transitorio. Il giuridico è la presentazione razionale dell’Idea, dopo che la vecchia legalità è stata scompaginata dallo scetticismo illuminista e dall’anarchismo di Proudhon e Bakunin. Non bastano i vagheggiamenti sentimentali dei romantici, il loro corteggiamento degli istinti vitali illegali, il recupero di una filosofia lirico-estatica dello Stato, il puntilismo dell’attimo, del genio e della persuasione individuale. Schmitt, replicando il gesto di Hegel, si smarca dall’occasionalismo dell’entusiasmo e della chiacchiera (das ewige Gespräch) occupando il terreno anti-romantico della decisione, sullo stampo concreto della Chiesa romana. Dal diagramma neoplatonico procliano e dionisiano Ball estrae due segmenti. Primo (§ 8), l’opposizione di ragione (Vernunft) e non-ragione (Unvernunft) come bene e male, Creatore e Demiurgo, legittimando la crociata anti-anarchica e la condanna inquisitoriale del Gesù di Dostoevskij.18 Secondo e più rilevante (§ 9), la ripartizione del lemma das Irrationale in 18

A. Motschenbacher, Katechon oder Grossinquisitor?: Eine Studie zu Inhalt und Struktur der Politischen Theologie Carl Schmitts, Tectum, Marburg 2000, pp. 314 sgg., 360 sgg. e 391-392. Schmitt approva quella figura e vi si identifica dal 1922 al Glossarium e fino agli ultimi giorni, secondo la testimonianza di Taubes. Il Grande Inquisitore è l’essenza della rappresentazione sui tre pilastri del miracolo, del segreto e dell’autorità, a misericordiosa compensazione del troppo umano degli uomini, incapaci di fare buon uso della loro libertà. Il vero katechon che tiene a bada il Cristo-Anticristo anarchico! Cfr. ivi, pp. 79 sgg., per il confronto con la teologia politica libertaria di Bakunin, fondata sul presupposto di una bontà naturale dell’uomo, non inquinata dal peccato originario. Donde l’affinità di Schmitt non solo con il classico pensiero reazionario di de Maistre, ma con il contemporaneo agnosticismo filo-cattolico francese di Ch. Maurras, pp. 90 sgg.

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due significati: irrazionale (unvernünftig) e super-razionale (übervernünftig). Il secondo significato (il numinoso, il miracolo) è rivendicato nel produttivo cortocircuito con la ratio gerarchica della Chiesa e dello Stato, con l’ordine cattolico-romano e la forma del diritto. Lo Pseudo-Dionigi, o Damascio che sia, è tutt’altro che alieno alla dimensione giuridica, come dimostra fattivamente la singolare opera dell’affine alto dignitario bizantino Menas.19 Gnosi e neoplatonismo hanno mediato per molteplici gradini dell’Essere la luce originaria del sole, della divina Ur-sonne, gli angeli attingono verità dal primo super-razionale fondamento, der Ur-grund, e la trasmettono alle istituzioni canonizzandole nell’interpretazione. L’infrazione delle leggi di natura mediante la persona sovrana e il ‘miracolo’ politico segnano l’irruzione del sovrannaturale nel quotidiano, che Schmitt legge inizialmente (Die Diktatur, 1921) in esempi generici e immaturi, affidandosi all’homo a deo excitatus dei monarcomachi protestanti, protagonista della dittatura commissaria e perfino di quella costituente – il ribelle eretico Cromwell. L’anno successivo, con la Politische Theologie, egli approderà a una ratio organica e scoprirà che solo all’interno della Chiesa può fondar19

C.M. Mazzucchi, Damascio, autore del Corpus Dionysiacum, e il dialogo Perì politikês epistemes, «Aevum», Rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche a cura della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università cattolica del Sacro Cuore, a. LIII, maggio-agosto 2006, pp. 299-334, oltre a identificare lo PseudoDionigi con l’ultimo diadoco o scolarca dell’Accademia di Atene, ricostruisce la sua posizione politica dalla chiusura della Scuola nel 529 all’emigrazione presso la corte sassanide, alla riammissione come privato nei confini imperiali dopo il trattato fra Giustiniano e Cosroe del 533. Mazzucchi opina che l’imperatore potrebbe aver apprezzato, addirittura nel sospettato falso dionisiano, il ruolo della gerarchia e dell’arcano avvolgente l’autorità suprema. Coetaneo e condiscepolo ad Alessandria di Damascio, il prefetto costantinopolitano Menas fu primario collaboratore di Triboniano nella redazione del Digesto (533). Il peso determinante nella massima e ricapitolativa impresa giuridica della tarda antichità e alla corte di Giustiniano non gli impedì tuttavia l’audace tentativo di delineare, nel dialogo Perì politikês epistemes, un assetto costituzionale ispirato alle gerarchie damasciano-dionisiane, ma a rovescio. Infatti traduce politicamente lo schema nel rapporto triadico Imperatore-ottimati-popolo (con ulteriori distinzioni interne), affermando che il bene consiste nello stare al proprio posto (idiotes) e il male nell’allontanarsene, e ribadisce che, come Dio è a contatto immediato con la più alta schiera angelica, così l’imperatore dovrà trattare direttamente soltanto con la decina di ministri principali e le corporazioni, in cui è ordinato il popolo, esprimeranno i loro bisogni e desideri agli ottimati, che li fanno propri e li comunicano al monarca. Poi, però, affida l’elezione dell’Imperatore alla designazione degli ottimati e successivo sorteggio, combinando insieme monarchia, oligarchia e democrazia. Neoplatonico ma più avanzato di Schmitt...

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si la dittatura sovrana (costituente), sul modello della superiorità del Papa sul Concilio (§ X), associando per analogia strutturale teologia e giurisprudenza e illuminando grazie ad essa le relazioni razionali (Vernunftbeziehungen) con il super-razionale come principio formale (§ XI). Viene così a cadere la possibilità di agganciare la giurisprudenza all’arbitrio di un’usurpazione (Cromwell) e in genere di giustificare una pratica occasionalista e lo scivolamento in una religione del privato, mentre nel cattolicesimo romano mistero-miracolo e diritto canonico si armonizzano nella logica della rappresentazione e della grande forma politica. In altre parole: «la Chiesa romana custodisce (hütet) l’irrazionalità e perviene, grazie alla comprensione e normazione della condizione materiale, al conio delle forme razionali» (§ XII). Il vocabolo latino ratio indica infatti non solo ragione, ma anche calcolo, misura, legge, implica la rappresentazione presente e tangibile dell’immateriale e dell’irrazionale (super-razionale). La ratio «è il ponte fra il Dio concreto e il popolo concreto», non, al modo romantico, fra una filosofia astratta e una realtà demonica. Essa è diritto, istituzione, non estasi privata. Nella presentificazione della fede e nel razionalismo pubblicistico della Chiesa, il Papa rappresenta nel contempo la persona estatica assente del Cristo e la comunità dei fedeli, giuridicizza l’assoluto. Il Grande Inquisitore vs Gesù, appunto. Riscontriamo altresì un uso forzoso della dialettica intra-ecclesiale, come dimostra il rapporto prima richiamato fra Papa e Concilio. Al Concilio di Basilea nel 1431-1438, Nicola Cusano tentò di mettere d'accordo fautori dell'egemonia papale e conciliare ispirandosi alle teorie del Corpus Areopagiticum, modulato in senso rappresentativo-gerarchico, criticando la supremazia autocratica del Papa e cercando di attenuarne il divario rispetto alla gerarchia sottostante. Un progetto democratizzante, che introduceva nella scala del neoplatonismo cristiano le dottrine del consenso e della rappresentanza tipiche della teoria della corporazione (e non ignote, come dimostra il caso Menas, neppure nell'ambiente giustinianeo), così da contemperare la forza veritativa dei gradi superiori con l'ampiezza e l'intensità di consenso degli inferiori. Efficace ripresa rovesciata della gerarchia pseudo-dionisiana, cui si oppose con accenti ortodossi il Defensor Fidei della fazione papale, Juan de Torquemada – guarda guarda, lo zio del Grande Inquisitore! – contrastando il pensiero politico dei conciliaristi aristotelici e dei mediatori dionisiano-cusaniani con un forte richiamo alla gerarchia organica dall'alto. Ball si allinea (concorde con Schmitt) alla seconda opinione, scartando letture alternative e accettando la versione prevalente a favore della regalità divina e dell’autorità imperial-papale centralizzata per riflesso, nei modi del cesaropapismo o del variabile contrasto fra i due poteri per la supremazia.

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Ultimo, decisivo e tutto profano punto della strabiliante sintesi balliana è la contrapposizione della rappresentazione cattolico-romana e delle sue ricadute politiche sovrane alla teoria di Sorel sul mito, di cui coglieva benissimo la sotterranea e insidiosa influenza su Schmitt (§ XII). E lo fa con una mossa laterale, che scavalca le tentazioni anti-parlamentari e le affinità sul tema amiconemico che delineavano i tratti comuni fra i due autori. «La rappresentazione istituzionale è la presentificazione (Vergegenwärtigung) dell’immortalità, della durata», che conferisce il pathos dell’autorità così distintivo del cattolicesimo romano, superiore alla casualità nichilista degli interessi politici e sociali, cui si richiamano le dottrine industrial-capitalistiche e socialiste, degli ideologi simmetrici del moderno consumo meccanizzato. Di qui Schmitt trae il pathos della decisione e della dittatura sovrana, scartando l’anodino parlamentarismo liberale, chiacchierone ma incapace di darsi una lingua propria. Ball forza invero il discorso: per un verso disconosce la laicità intrinseca dell’argomentare schmittiano e taglia corto sui legami forti con Hobbes, più tenui ma non insussistenti con Machiavelli, Nietzsche, Sorel (e la ventura ammirazione per Lenin e Mao), per l’altro intuisce che il decisionismo schmittiano andrà a parare sull’istituzionalismo – dell’impresa corporata però, non della tradizione cattolica! Soprattutto, Ball sottovaluta l’occasionalismo di Schmitt, l’inossidabile opportunismo che lo spingerà di volta in volta a sposare soluzioni cattoliche, protestanti, naziste, seguendo le circostanze politiche, le filiere accademiche e perfino le vicissitudini matrimoniali. Basti pensare alla disinvoltura con cui Schmitt nel 1932, nel discorso alla Langnam Verein, si inventa una distinzione fra due tipi di totalità, quantitativa e pervasiva romana e qualitativa tedesca, che lasciava libere le attività economiche – ovvio che il giurista patrocinava la seconda! La morte precoce di Ball nel 1927 gli risparmierà ulteriori delusioni dopo la doccia scozzese di entusiasmo e distacco con cui la recensione fu accolta dal destinatario. Restano quelle folgoranti pagine del 1924, estremiste, manchevoli, presaghe. Nel 1979 i Talking Heads musicarono (album Fear of Music) con il titolo I Zimbra il suo poema Gadji beri bimba.

5. Dalla rappresentazione sovrana al debito sovrano Schmitt riprende, cinque anni dopo, il giovanile apparato concettuale nella Verfassungslehre, enfatizzando accanto alla Repräsentation il principio di identità, l’immediata (ideale, non effettiva) presenza del popolo che oscilla fra la democrazia diretta e l’istituto monarchico personale, fra Rousseau e Hegel. La rappresentanza – come aveva visto H. Ball – è ricon-

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dotta al «rendere visibile (sichtbarmachen) e illustrare un essere invisibile per mezzo di un essere che è presente pubblicamente».20 Nuovo uso degli agálmata porfiriani (Sui simulacri), «con i quali uomini, mediante immagini congeneri ai sensi, raffigurano realtà invisibili in forme visibili, rivelando il dio e le potenze del dio». Rap-presentanza e non-presenza reale del rappresentato, che renderebbe superflua la prima. Già in Hobbes la perfetta autorizzazione implica l’autore assente per delega all’attore sovrano. Il mistero sacro, la presenza dell’assenza che cita la transustanziazione liturgica cattolica, capita molto comoda per far dileguare i soggetti materiali della politica e agire in nome degli stessi. Cattolici e protestanti si gestiscono la rappresentanza mistica (spettacolare e occultante) a modo loro, con una preferenza dei primi per regimi assoluti, dei secondi per regimi liberali. Nel contesto weimariano di crisi del parlamentarismo, l’enfasi neo-cattolica di Schmitt piega tale concetto ontologico in senso polemico verso l’idea liberale di rappresentanza come specchio della pluralità degli interessi sociali e di conseguenza favorisce soluzioni autoritarie. Si può asserire in genere che, contro il frazionamento degli interessi, la rappresentazione trascendentale, con eventuale ricaduta plebiscitaria, tende a formare e produrre un popolo, conferendogli identità mediante proiezione di un archetipo sull’immagine derivata.21 Meno si può giustificare la sovranità con riferimento a Dio, più la si deve ormeggiare a un sostituto, il popolo. Non si tratta soltanto di sostituire un nuovo feticcio al Dio morto, ma di utilizzarne la trascendenza per legittimare la superiorità dei rappresentanti sui rappresentati. La messa in forma del popolo è una delle tecniche predilette nel secolo scorso, non l’unica. La rappresentazione per delega è altrettanto fragile e artificiosa quanto un’effettiva presenza assembleare del popolo, che perfino in Rousseau appare quale volonté générale dei citoyens e non somma del20 21

C. Schmitt, (1928) Verfassungslehre, Duncker & Humblot, Berlin 1993, p. 209, tr. it. Dottrina della Costituzione, Giuffrè, Milano 1984, p. 235. F. Brancaccio, Il problema del parlamentarismo e la critica allo Stato dei partiti tra Weimar e l’Italia, negli atti del convegno “Weimar e il problema politico-costituzionale italiano”, Camera dei Deputati, Sala del Refettorio, 19 ottobre 2009, collana Quaderni di «Nomos. Le attualità nel diritto», Giuffrè, 2012, che contiene essenziali riferimenti agli scritti di H. Triepel, G. Leibholz e H. Hoffmann e alla distinzione tra Vertretung e Repräsentation. Decisivi, al proposito, G. Duso, La rappresentanza, un problema di filosofia politica, F. Angeli, Milano 1988, Id. Carl Schmitt, teologia politica e logica dei concetti politici moderni, «Daimon, Revista de filosofía», n. 13, Julio-Diciembre 1996, pp. 77-98, dove si mostrano le aporie fra trascendenza e immanenza che segnano la dottrina moderna dello Stato e l’irrimediabile discontinuità fra Chiesa e Stato perfino nell’apologia del cattolicesimo romano.

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le volontà-interessi particolari degli hommes ovvero volonté de tous.22 In pratica, un’assemblea immaginaria, realizzabile in circostanze sperimentali di isolamento geografico e commerciale. L’agire rappresentativo non dipende dalla forma e dai rappresentati, ma produce forma nell’unità politica. «Credo che Hobbes non sia altro che Rousseau in uno specchio oscuro», per dirla con il delirante monologo che apre Infinite Jest di D.F. Wallace, e alla metafora dello specchio e del riflesso enigmatico siamo condannati ogni volta che di teologia, politica o meno, si tratti. Il popolo non domanda ma risponde, una volta che la sua volontà è messa in forma. E lo sventurato, in genere, annuisce. Già qui cogliamo l’ambigua correlazione fra autoritarismo democratico e plebiscitario, fra Législateur russoiano e Hüter der Verfassung schmittiano. Non abbiamo del resto assistito a una parodia ipnotica del mandato imperativo nella designazione diretta berlusconiana del leader? Leo Strauss aveva già nel 1932 ironizzato sul liberalismo ribaltato di Schmitt,23 sbrigandosi peraltro ad acchiappare, grazie a lui, una borsa di studio e scappando dalla Germania giusto in tempo. I liberali a loro insaputa e in camicia bruna non erano troppo affidabili. Il tratto comune non sta nello scarto simmetrico dal pluralismo liberale, ma in ciò che entrambi gli estremi condividono con il ‘centro’ liberale, cioè l’identità del popolo fondata sull’identità del mercato. In ultima analisi sulla sottintesa teologia politica della Repräsentation. Venissimo a capi’ che so’ misteri – sempiterna sentenza. Torniamo alle pagine del Römischer Katholizismus in cui Schmitt smarca la rappresentazione teologico-sovrana dall’alto dalla Vertretung e dal 22

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Sulla scissione della volontà in Rousseau, che è anche bipartizione fra un tempo dell’eternità, del nunc stans estatico e dell’immutabilità del popolo deliberante, e il tempo instabile del volere-disvolere dell’individuo e della somma amorfa e clientelare degli individui, vedi, di chi scrive, Il tempo della volonté, in Aa.Vv., Il governo del tempo, a cura di V. Morfino, Mimesis, Milano 2012. Anmerkungen zu Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen, «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», Bd. 67, H. 6 (August-September 1932), pp. 732 sgg., tr. it. in L. Strauss, Gerusalemme e Atene, Einaudi, Torino 1998, pp. 379 sgg. Sugli effetti neutralizzanti della definizione del politico come discrimine fra amico e nemico, simmetrici a quelli della spoliticizzazione liberale, vedi (riprendendo la critica di Löwith) G. Marramao, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 137-140, che segnala la complementarità di un rischio di sostanzializzazione decisionista e di formalismo giuridico, di enfasi sulla legittimazione e retorica della legalità.

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mandato imperativo dal basso. Infatti, se il dispositivo conserva una qualche complexio conserva una qualche complexio oppositorum, accroccando il rifiuto del vincolo di mandato e la rappresentanza dal basso del popolo (non dei singoli elettori), «il sistema proletario dei “consigli” cerca di eliminare proprio questo residuo di un tempo che pensa in forma non economica, sottolineando che i delegati sono semplici agenti e commissari dei produttori, mandatari sempre revocabili, sottomessi a mandat impératif».24 Squillante riferimento negativo alla presentazione marxiana della Comune parigina del 1871,25 diretta antitesi all’Impero bonapartista, cioè del grado storico più evoluto di sovranità, rifiuto di impossessarsi della macchina statale e di usarla a fini proletari, piuttosto inveramento della «repubblica sociale», forma illimitatamente espansiva (eine durch und durch ausdehnungsfähige politische Form) e alfine scoperta della democrazia sotto cui può realizzarsi la liberazione economica del lavoro. La Comune era costituita da delegati (Vertreter) delle circoscrizioni parigine, eletti a suffragio universale, responsabili davanti agli elettori e in ogni momento revocabili, organo di lavoro, non parlamentare, legislativo ed esecutivo al contempo. Rappresentanza vincolata (gebundene), in termini weberiani, dove l'eletto è Diener (servo) e non Herr (padrone) dei suoi elettori! In una botta di conservatorismo cattolico, Schmitt raggruppa rappresentanze di tipo autoritario e liberale su un unico fronte contrapposto alla democrazia diretta comunarda, soviettista e consiliare (chissà perché depoliticizzata e ridotta all’economico), in palese simmetria all’analisi marxiana sui successivi perfezionamenti assolutistici e borghesi della macchina burocratica dello Stato, che la Comune interrompe. Gli spettri diciannovisti della Räterepublik di Monaco (in quei mesi il Nostro prestava servizio alla Stadtkommandatur locale e di spaventi se ne prese un bel po’) e dello spartachismo aleggiano ancora. Il futuro Kronjurist des dritten Reiches non solo si sdegna per l’atteggiamento anti-spirituale dei bolscevichi, rivendicando la trascendenza di un’autorità che cala dall’alto per organizzare la datità effettuale della materia, ma annota, per fatto personale, l’inimicizia specifica del movimento rivoluzionario per i giuristi, i «teologi dell’ordine costituito».26 Strano che se la prenda tanto, la scoperta in positivo dell’omologia fra giurisprudenza e teologia era un suo cavallo di battaglia! Il fondale teologico della rappresentanza è qui ben affrescato, con enfasi smodata sulla superiorità della sacralità verace della Chiesa – quella del 24 25 26

Cattolicesimo, cit., pp. 52 sgg. MEW, B. 17, Dietz Verlag, Berlin DDR 1973, pp. 338-339 e 343. Cattolicesimo, cit., p. 59.

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Grande Inquisitore dostoevskiano che de-anarchizza il messaggio cristiano, non di Gesù, beninteso – rispetto alla giurisprudenza laica. Ernst Kantorowicz, che aveva combattuto da giovane nei Freikorps contro spartachisti e Räte monacensi (ma con il maccartismo imparerà a dissociarsi dai persecutori), va con maggiore precisione storica nella stessa direzione, conferendo un ruolo preminente alla finzione mistica del doppio corpo del re a bivalente fondazione dei regimi tanto personali quanto impersonali della sovranità e della rappresentazione, passando da un taglio liturgico e cristocentrico a uno romanistico e giuricentrico, infine politicocentrico. La continuità delle tecnologie del potere (espressione di Foucault, che a Kantorowicz si richiama) riattizza di continuo la dimensione teologico-simbolica sulla solita matrice monoteista. L’opposizione fra cattolicesimo e liberalismo è, al momento, un dato saliente per Schmitt, ma non è destinata a durare a lungo. Il regime paganeggiante di Hitler gli andrà benissimo e, sotto sotto, la rappresentanza liberale non è poi il diavolo: è la democrazia non-rappresentativa ad avere corna e coda! C’è un sostrato comune fra sovranità e governamentalità ed è la legittimazione trascendentale del comando secondo le fasi del modo di produzione e la strutturazione interna della classe dominante e delle subalterne. Meno egemonia c’è, più il comando va concentrato, santificato e da ultimo occultato nella dispersione post-sovrana. Il decisionismo personalizzato è uno struggente episodio secondario nella routine della rappresentazione sovrana che della teologia politica è il cuore, come la secolarizzazione ne è la pelle, più o meno tatuata. Ancor più rilevanti ne sono le viscere, la coppia debito-colpa che la nutre: prima verso il creditore materiale, poi verso il creditore celeste, con cui abbiamo contratto un debito irrisarcibile,27 infine verso la sua proiezione sovrana terrena con cui ci obblighiamo all’assenso. Dissolti per incredulità i riti dell’ossequio legittimo, si ritornerà alla materialità del debito e il ruolo sovrano passerà al mercato globale: l’identità mistica del popolo si trasferisce all’economia finanziaria, le rappresentanze liberali di interessi e i dispositivi imprenditoriali di profitto si subordinano alla dinamica della rendita e dell’indebitamento individuale, di classe e sovrano. All’homo oeconomicus e juridicus, all’imprenditore di se stesso e alle relative mitologie creative e cognitive subentra ovunque l’uomo indebitato e col27

Quadam iustitia Dei in potestatem diaboli traditum est genus humanum, peccato primi hominis in omnes utriusque sexus commixtione nascentes originaliter transeunte, et parentum primorum debito universos posteros obligante (Agostino, De Trinitate, XIII 12), tanto per fare un esempio dell’eredità debitoria del peccato per chi si azzardasse a non ripagare quella monetaria contratta dai genitori.

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pevole, alle tecnologie del sociale e al Welfare l’ideologia punitiva del Workfare e la gestione autoritaria dell’austerità.28 Perfino ottenere un lavoro salariato precario, cioè farsi sfruttare, sembra una concessione che ti pone in debito e che devi ripagare con sobrietà rivendicativa e disagio ambientale. Inediti registri de-soggettivanti di dominazione e neutralizzazione del desiderio sono attribuiti alle sventurate vittime della finanziarizzazione. L’indebitamento delle banche a causa di crediti inesigibili e cartolarizzati e della proliferazione di derivati si trasforma, con un colpo di bacchetta magica, in debiti sovrani, disavanzi statali da ripianare con sacrifici dei sudditi e smantellamento delle garanzie e del Welfare. Alla fine, la solita vecchia merda del debito-colpa verso il Dio mercato surroga il Padre dell’Agnello. Non crediamo a tali fole velenose, gloria al Gloria versione Patti Smith: Jesus died for somebody’s sins, but not mine. A questo stadio l’identità non richiede più un sostrato etnico o tellurico, lo Stato-Nazione. Dio non è più cattolico-romano né ancorato alla terra, come credeva Schmitt nel 1923, tanto meno si schiera mit uns come nel 1933-1945, mentre il suo contraltare, la potestas ordinata deistico-liberale, non si basa più su una pluralità di interessi indipendenti riunificati dal mercato.29 Entrambe le ipostasi dipendono ormai dalla logica senza alternative del meccanismo finanziario, dal debito quale relazione fondamentale di potere e modellazione delle soggettività: è indifferente che il Dio sia raffigurabile o irraffigurabile, nestoriano e pelagiano ovvero monofisita, aniconico e iconoclasta, cattolico o marcionita, trinitario e barocco o Allah senza associati. Le ombre del Dio morto si addensano intorno al there is no alternative del mercato, più esattamente delle strategie concorrenti che nel mercato si misurano a colpi di titoli tossici. Questa è la nuova complexio oppositorum atea e sacrale – unità trascendente senza Impero, terreno friabile, che l’ossessione debitoria non riesce a compattare. Le faglie che vi si aprono preavvisano di catastrofi sismiche. 28

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M. Lazzarato (2011), La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberale, DeriveApprodi, Roma 2012 e F. Raparelli, Rivolta o barbarie. La democrazia del 99% contro i signori della moneta, Ponte alla Grazie, Milano 2012, cap. 2. Neppure nelle forme del compromesso socialdemocratico weimariano. risuscitato nell’economia sociale di mercato post-bellica, in cui il Parlamento «non è più il luogo esclusivo all’interno del quale si svolge il processo di negoziazione e mediazione politica, ma diviene la cassa di risonanza di accordi e dinamiche che avvengono altrove», Brancaccio, cit. Resta tuttavia necessario, per il neo-feudalesimo finanziario che saccheggia il comune, il ricorso alle istituzioni sovrane nazionali, ai partiti, al sistema costituzionale e legale per portare a termine e rendere permanente il programma di privatizzazione dell’economia produttiva e del Welfare, cfr. Chr. Marazzi, Bce, euro, scenari: appunti, Uninomade, 8.6.2012.

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6. Ma insomma, che ce ne facciamo della teologia politica? Il Dio unico, personale e creatore intrattiene buoni rapporti con custodi e rappresentanti, liberali nichilisti e guardiani dei costumi, pastori del popolo e demagoghi populisti, partiti di massa ed euro-commissari tecnici. Intrattiene altresì rapporti asimmetrici con i subalterni in debito colpevole. Progetta di riformare la mente quanto il mercato del lavoro, cura e sorveglia omnes et singulatim ma non disdegna la repressione disciplinare, converte i diritti in doveri ineseguibili. Garantisce la propria presenza reale nella liturgia sacra e nella gestione economica secolare. Relazionalità e unità, in circolo funzionale, si garantiscono a vicenda nell’eccelsa metafora agostiniana (De Trinitate, V 16) della moneta a spiegazione dell’unità sostanziale della Trinità nella mutevolezza degli accidentia relativa: Ma una moneta (nummus) esprime relazione quando la si chiama prezzo; questa moneta però non è cambiata diventando prezzo; nemmeno muta quando viene chiamata pegno o qualche altra cosa di simile. Ebbene se una moneta senza mutare in alcun modo può assumere tante volte una denominazione relativa, senza che, ricevendola o perdendola, il suo essere o la sua forma di moneta sia modificata, con quanta maggiore facilità dobbiamo ammettere, nei riguardi della immutabile sostanza di Dio (de illa incommutabili Dei substantia), che essa possa ricevere una denominazione relativa alla creazione senza con questo intendere che vi sia stata qualche mutazione nella sostanza di Dio, ma invece nella creatura che è il termine di questa relazione?

Cui per impulso irresistibile associamo un passo tratto da un’intervista a Chr. Marazzi, «Multitudes», febbraio 2007: L’equivalente generale è solo ‘una’ funzione del denaro all’interno della forma del valore universale, alla stessa stregua di altre funzioni del denaro (mezzo di scambio, misura del valore, mezzo di pagamento, ecc.). Il denaro è un insieme di funzioni che, nel loro insieme, concorrono a determinare la vera essenza del denaro, il suo essere forma del valore.

E la scarna considerazione di C. von Clausewitz (Della guerra, libro I, 2): La decisione delle armi, in tutte le piccole e grandi operazioni di guerra, rappresenta ciò che nel commercio rappresenta il denaro contante. Per quanto remote e rare possano essere le liquidazioni dei conti, esse non potranno mai mancare.

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Dove il contante realizza il valore conseguito interrompendo la circolazione e attestando l’unità imprenditoriale o militare (nonché l’essenza comune della Trinità) su una temporanea posizione di potere. In God we trust, davvero. Nella valuta di riferimento, il biglietto da 1 $, e ricadute politico-strategiche. L’antropomorfismo è la più semplice piattaforma girevole fra potenza e volontà, ma il principio risiede nella trascendenza dell’Uno, che sa epurare il personalismo dai tratti più rozzi, come la moneta elettronica elimina le banconote stropicciate e lo sterco del demonio. L’analogia dell’Essere, alla fine, si rifugia in codici e algoritmi. Decostruire la teologia politica a base monoteista30 fa trasparire, sotto le varianti ostentate, la continuità sostanziale del progetto di legittimazione. 30

La controversia fra Schmitt, che difende la legittimità permanente della teologia politica (Politische Theologie II. Die Legende von der Erledigung jeder Politischen Theologie, Duncker & Humblot, Berlin 1970, tr. it. Teologia politica vol. 2. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, Giuffrè, Milano 1992), ed E. Peterson non occulta il comune monoteismo teologico, tanto lo si stacchi da ogni legittimazione sovradeterminata della civitas terrena e della sua theologia civilis, quanto lo si riconduca a un’impostazione onto-teologica. Agostino, che tiene separati i due aspetti, ha in vita combattuto (chiedendo l’ausilio imperiale) il millenarismo agrario dei Donatisti e fornito armi postume a tutti i fautori dello Stato repressivo della radicale malvagità umana. La teologia metapolitica, che lascia sussistere un irrappresentabile, non fa che modulare diversamente un plesso monoteista che si organizza, con molte contraddizioni e sfumature: dal neoplatonismo al cristianesimo, dalla Gnosi alla Kabbalah, con non irrilevanti contributi del provvidenzialismo stoico. L’apologia imperiale di Eusebio di Cesarea e di Orosio, la teologia negativa e le più sofisticate economie trinitarie pongono una centralità di grazia e volontà che è alla radice di ogni macchina rappresentativa. Anarchia escatologica e ordine onto-teologico, essere dell’Uno e dover-essere finiscono sempre per darsi la mano. Gli esiti nichilisti dell’eccezionalismo schmittiano lo confermano. L’antinomismo di Paolo e soprattutto di Marcione diventa operativo solo se trascritto in una tonalità mondana metaforica – come è accaduto episodicamente in certi movimenti ereticali e nelle tendenze più radicali della Rivoluzione inglese, per non parlare di Taubes e Badiou che declinano il ’68 in termini di evento messianico. Al di là della capziosa polemica con Peterson (cfr. A. Motschenbacher, Katechon oder Grossinquisitor, cit., pp. 177 sgg.), Schmitt mostra due autentiche preoccupazioni politiche: 1) che la critica della teologia politica conservatrice apra la strada, passando per la messa in discussione delle tesi schmittiane, a una teologia della liberazione alla Metz, 2) che venga ripresa in termini ‘laici’ da un rifiuto della nozione stessa di secolarizzazione, da un nuovo liberalismo plurale e immanente quale emerge in H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp, Frankfurt a/M 1966, 3° 1997 (tr. it. La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova, 1992), cui è dedicato per intero l’Epilogo di Politische Theologie II. Cfr. la documentazione dettagliata del dibattito in H. Blumenberg-C. Schmitt, Briefwechsel

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Non tragga in inganno il genus civile di M.T. Varrone e Q.M. Scevola, dentro una tripartizione della teologia ispirata da Crisippo e Panezio e consistente nello stabilire quali dèi adorare nelle città e quali sacrifici loro offrire, le pratiche religiose civiche facilitanti la convivenza (civiles rationes). Pur se Agostino31 lo bollava di idolatria pagana, esso adattava il politeismo al provvidenzialismo stoico, dunque già a un principio unificante cosmico e politico. Posizione ripresa, sulla scorta di ben diverse pulsioni repubblicane di Machiavelli e Spinoza, da Vico e poi da Rousseau (Du contrat social, IV 8), quale professione di fede puramente civile, con pochi dogmi positivi miranti alla santificazione del contratto sociale e delle leggi, anzi non dogmi ma sentimenti di socievolezza, senza i quali è impossibile essere buon cittadino o suddito fedele e il cui rifiuto comporta l’espulsione dalla comunità in quanto insocievole, non per empietà. La prónoia stoica è diventata direttamente sovranità, la theologia civilis devozione obbediente all’Uno del Popolo e della Legge. La religione razionale del citoyen a questo punto supera quella angusta e irrazionale delle città-stato pagane e l’impoliticità del cristianesimo evangelico, religion de l’homme, di cui pure raccoglie l’intima platonizzante ispirazione. L’eredità contemporanea – il patriottismo costituzionale di Habermas e le sfibranti prediche dell’etica laica – insiste ad associare afflato deistico e ideologia sovrano-rappresentativa. Il vecchio Schmitt concluderà, in Politische Theologie II (II, 1 e 5), che la teologia politica è un ambito polimorfo in entrambi i lemmi e che ci sono molte teologie politiche perché ci sono molte religioni e politiche. Gli stiliti siriaci fanno politica e ubiquo è il sovrannaturale. Proporre una teologia politeista – o riaprire il capitolo mitologia, mitologia della potenza e dell’insolvenza – è allora un tentativo di narrazione alternativa che stringe insieme grammatica dei tumulti32 e cultura delle singolarità moltitudinarie. Estirpare l’Uno è compito politico non di contorno. Ha a che fare con il nietzschiano recupero di una ‘seconda innocenza’, con la liberazione dal debito divino e terrestre, con la comprensione dell’Essere qua-

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1971-1978 und weitere Materialien, hrsg. A. Schmitz e M. Lepper, Suhrkamp, Frankfurt a/M 2007, tr. it. L’enigma della modernità. Epistolario 1971-1978 e altri scritti, Laterza, Roma-Bari 2012. L’autolegittimazione (autodivinizzazione) della Neuzeit si iscrive nel compimento tecnico-industriale e democratico del dualismo gnostico. De Civitate Dei VI, 5, fonte primaria (libri V e VI) delle perdute Antiquitates rerum humanarum et divinarum varroniane. Per cui si rinvia ad A. Illuminati-T. Rispoli, Tumulti. Scene dal nuovo disordine planetario, DeriveApprodi, Roma 2011.

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le campo di forze e variazioni modali continue di un’unica potenza-sostanza intransitiva.33 Politeismo e nuova mitologia stanno affiancati nel primo programma sistematico dell’idealismo tedesco, riaffiorano (in un mix di anti-giacobinismo, Nietzsche e sindacalismo rivoluzionario) nel vitalismo sorelliano, osteggiato e in parte incorporato34 dalla teologia schmittiana. Sono alternative fortemente mistificate, per non dire inquinate, ma ne va colto il potenziale operativo, come in qualsiasi Traumgeschichte35, il cui aspetto onirico

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Il vero pilastro della nostra argomentazione è infatti Spinoza che, seguendo Machiavelli, destituisce in radice ogni secolarizzazione dell’onnipotenza divina in ragion di Stato. Il suo modello – scrive Castrucci, op. cit., cap. 4 § 4 – «costituisce un tertium genus rispetto al dilemma essenzialismo/convenzionalismo», non avendo la substantia o natura naturans nulla dell’essenza platonica trasmigrata nel Dio-persona cristiano e leibniziano e neppure dissolvendosi in convenzione posta da qualche volontà potente o insita nel tessuto impersonale dei linguaggi. «Nessuno spazio vi è, di conseguenza, per gli schemi di una teologia politica, se con questo termine indichiamo l’analogia di potenza tra un Dio personale e la fonte del potere politico», nessuno spazio se non immaginario, ideologico, e dunque produttivo di effetti politici e giuridici con cui è necessario misurarsi. Il nesso fra decisionismo e sindacalismo rivoluzionario è già intuito e sopravalutato da F. Neumann, Behemot. The Strucure and Practice of National Socialism, Oxford Un. Press, New York 1942, tr. it. Behemot. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Feltrinelli, Milano 1977, p. 62, in rapporto alla contrapposizione fra parlamentarismo e democrazia, condotta in termini russoiani di critica dei partiti. Il termine si ritrova nell’Introduzione alla Critica del diritto statuale hegeliano, pubblicata nei «Deutsch-Französische Jahrbücher», Paris 1844, MEW I, pp. 383384, tr. it. in Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, Einaudi, Roma 1950, pp. 401 sgg. Al passato rivissuto dai popoli antichi nell’immaginazione mitologica corrisponde il vivere tedesco la storia futura nella filosofia. I tedeschi sono contemporanei filosofici invece che storici del presente, hanno rotto con il passato solo sul piano del riflesso filosofico delle condizioni moderne dello Stato che, invece, i popoli progrediti hanno contestato praticamente. Di qui il carattere di storia onirica (Traumgeschichte) della filosofia tedesca del diritto e dello Stato (cioè di Hegel) e l’impossibilità, per i suoi seguaci di destra e di sinistra, di restare sul terreno della filosofia per realizzarla o eliminarla, laddove la soluzione si trova sul terreno della prassi. Passo problematico, se inteso come l’ultima parola di Marx, che qui registra il caso tedesco come ‘anacronismo’ rispetto al tempo unico della storia universale, mentre in scritti successivi svilupperà ben altrimenti il rapporto di contemporaneità asincrona fra Inghilterra, Francia e Germania e la conseguente necessità di una traduzione fra i tre linguaggi dell’economia, della politica e della filosofia; cfr. F. Frosini, Da Gramsci a Marx. Ideologia, verità, politica, DeriveApprodi, Roma 2009, capitoli 2 e 5. Ciò implica l’adozione di una nozione pratica e non teoretica di Diesseitigkeit piuttosto che di Immanenz e mette forse in discussione un facile ricorso al pur suggestivo piano d’immanenza deleuziano.

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fa parte ideologica di un effetto pratico, riassume e consolida movimenti sovversivi reali in gestione del potere o in frattura fra due epoche, come nel primo idealismo tedesco, influenzato dai giacobini e ancora non spento in hegeliana rivoluzione passiva. In generale, potremmo ipotizzare che la teologia monoteista tende a chiudere l’incompletezza dell’universale, mentre quella politeista (o nuova mitologia) la lascia sussistere sul piano dell’immaginazione simbolica, dell’ideologia e dunque della politica, cercando un altro tipo di unificazione fra teoria e prassi. Come la teologia si scinda e operi – chi ce lo può dire meglio di Ph. K. Dick, il più vicino all’essenza anfetaminica di tali diavolerie mistiche, il più autorizzato a esporre una Traumgeschichte contemporanea, cioè psichedelica?

7. Lo spinoso caso Rautavaara La fantascienza dovrà prima o poi affrontare senza preconcetti una società futura neo-mistica nella quale la teologia costituirà una forza fondamentale, come nel periodo medievale. L’ultima parola sul conto di Dio è stata già detta da Scoto Eriugena: «non sappiamo cosa sia Dio. Dio stesso non sa cosa sia, perché non è nulla. Dio letteralmente non è, poiché trascende l’essere». [...] Con le droghe psichedeliche ho avuto un’illuminazione ben misera, a paragone di quella di Eriugena. Ph. K. Dick, 1966 Feed your head, feed your head. Jefferson Airplane, White Rabbit, 1967

Gli abitanti di una remota galassia, Proxima Centauri, composti di plasma senza corpo, soccorrono in base alle leggi intergalattiche un gruppo di astronauti terrestri periti in un incidente. Inviano un robot che procede a rilevare automaticamente le onde cerebrali delle vittime e decide di rianimare artificialmente la donna del gruppo, Rautavaara, l’unica che dimostri Torneremo sull’argomento nel capitolo conclusivo, in connessione con l’egemonia, non senza rilevare che i limiti di questo primo approccio marxiano si rivelano anche nella riduzione della mitologia a immaginazione del passato, restando al di sotto del Systemfragment del 1800.

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una residua attività neuronale. Gli alieni decidono di riossigenarne il cervello, utilizzando sangue e carni del suo stesso corpo, stante la contaminazione dell’ambiente circostante e la riluttanza a utilizzare i cadaveri dei compagni. Rautavaara viene tenuta in vita come nel classico esperimento del cervello nella vasca di Putnam, venendo ad assomigliare agli alieni fatti di solo plasma. Il tempo inizia a scorrere all’incontrario per la rianimata, che risale fino a Cristo (la Figura) e ovviamente al ritorno in vita dei compagni, lieti della promessa resurrezione dei corpi. Per i terrestri è un’allucinazione, una proiezione dei loro pregiudizi mentali. Gli alieni sono d’accordo, tanto più che il loro Salvatore si comporta in modo capovolto rispetto a Cristo, tuttavia ritengono che sia una finestra sperimentale interessante sull’aldilà e provano a sostituire la loro Figura messianica a quella evocata nel cervello danneggiato della terrestre. Quando uno dei morti retrocessi a vivi nel tempo invertito si accosta alla Figura, questa lo divora, sentenziando che beve il suo sangue, il sangue che dona vita eterna. Il Salvatore di Proxima mangia sacramentalmente la carne e il sangue dei fedeli per eternarsi, all’inverso dei cristiani che mangiano il sangue e la carne di Cristo nell’eucaristia allo stesso scopo, in omologia alla dissimile composizione fra mente e corpo delle due civiltà, l’una somatica, l’altra plasmatica. La regola di Proxima è che il superiore si ciba dell’inferiore, la gerarchia lavora dall’alto al basso nella scala dionisiana. Quando uno degli ex-vivi si ribella e gli spara con il laser, il Salvatore alieno si sfascia lamentandosi: Eli, Eli, lama sabachthani... L’esperimento è allora sospeso e la donna lasciata morire, d’intesa fra le due parti. Due teologie monoteiste speculari, ma quella di Proxima presenta davvero l’essenza della teologia, che determina il rapporto fra aldiqua (Diesseitigkeit) e aldilà (Jenseitigkeit) e poi vampirizza il primo a favore del secondo. La Figura di Proxima agisce come il Dio di Feuerbach. Nella trilogia gnostica di Valis, Dick immagina che il Dio buono o Logos razionale invada il nostro universo irrazionale e cominci a divorarlo con un processo simile e inverso alla transustanziazione eucaristica. Nel suo schema dualista – accozzato mediante prestiti dall’Enciclopedia Britannica per tutte le possibili voci gnostiche, paoline, marcionite, apocalittiche, valentiniane, taoiste, cabalistiche, Adamo Kadmon, la doppia elica di Crick e Watson, i papiri di Nag Hammadi e di Qumran, Pistis Sofia, il Libro dei morti tibetano, Jung, il Parsifal, il Graal (e ti pareva), Eliade, ecc. – c’è un Dio trascendente e plasmatico e un Dio cieco malvagio, Samael, folle e creatore della materia. Il Dio inferiore cattivo, cui va imputato il male dell’universo, è presente in veste di Impero: da quello romano all’an-

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ticristo Nixon, in più la Chiesa cattolica e il Partito Comunista, che dopo la fine della Guerra fredda si sono fusi in un unico mega-apparato a doppia testa. Per rompere le sbarre della Nera Prigione di Ferro o evadere dal Labirinto, governato da Samael-Minotauro, si battono gli spirituali (chissà perché gli pneumatici diventano plasmatici), primi cristiani, eretici, ecc., restati in contatto con il Logos-informazione vivente mediante i segnali del potentissimo sistema satellitare VALIS. La realtà fenomenica, il velo di Maya, come nell’epigonale Matrix, è un ologramma, un’ipostasi delle informazioni elaborate della Mente e della contesa cosmica che vi si svolge fra i due princìpi sottostanti. Tutto è cominciato con la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. (variante: caduta di Masada, 73 d.C.), quando il tempo si è fermato e l’Impero ha preso il sopravvento, mutando superficialmente le sue sembianze, e si conclude nell’agosto 1974, dimissioni di Nixon per sottrarsi all’impeachment dopo l’affare Watergate, quando inizia la nuova rivelazione e dilagano le allucinazioni teofaniche del protagonista del romanzo, Horselover Fat, doppio instabile del narratore, registrate in un’«Esegesi». Nel secondo romanzo della trilogia, Invasione divina, prevale un riferimento klezmer alla Kabbalah luriana e a una parodia della Sacra Famiglia. Il Signore del Male adesso è il biblico Belial, il cui Impero è affidato al condominio fra Chiesa cristiano-islamica e Partito Comunista, mentre Yah (Hayah, Hallelu-yah, Yahweh) spedisce dallo spazio una specie di Figlio, fatto concepire in una colonia planetaria da una lagnosissima Rybis, Madonna malata terminale di cancro, con padre putativo Herb in veste di Giuseppe e l’assistenza di un profeta Elia reincarnato. Dopo svariati incidenti, Gesù-Emmanuel-Manny, con lieve menomazione cerebrale e vuoti mnemonici, cresce sulla Terra assistito da zio Elijah (i genitori sono morti o ibernati) e incontra a scuola Zina, che comunica con VALIS mediante un terminale a tavoletta – l’unica anticipazione tecnologica decente (un iPad) in una fantascienza penosamente datata all’èra dei fax, registratori a nastro e armadi Ibm. Zina significa ‘fata’ in romeno, è l’ennesimo avatar di Pistis Sofia e Hagia Sofia, della Torah in generale e in specifico della Shekhinah, «la Presenza immanente che non ha mai lasciato il mondo, il lato femminile di Dio». Nello Zohar rivisto da Isaac Luria, interlocutore immaginario con il profeta Elia secondo la leggenda, lei è l’ultima delle Sefirot, la scintilla divina in esilio, complementare all’essenza del Dio, En Sof, che si è ritratto nel vuoto trascendente. La Shekhinah, invece, è una controparte accessibile agli umani che realizzerà il tiqqun, redenzione dal peccato e dal male, reintegrazione finale dei vasi infranti ovvero dell’unità che si ristabilirà dopo la crisi originaria della divinità e della caduta. Nell’immediato,

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Zina – a volte sventata (libera per errore il capretto Belial dalla gabbia dove l’aveva rinchiuso), ma in complesso riabilitativa del genere femminile – si preoccupa di correggere il rigore devastante di Manny, introducendo un principio buddhista di compassione per salvare il pur immeritevole mondo, a costo di prolungare indefinitamente la crociata contro Belial e dilazionare Armageddon36. Nel terzo romanzo della trilogia, Sapienza e Shekhinah si incarnano in un fungo allucinogeno, l’anokhi, corpo eucaristico di Cristo, convertendosi definitivamente in compassione e soccorso al prossimo. Anche nelle Tre Stimmate di Palmer Eldritch un dio malvagio protoplasmatico venuto dallo spazio (dalla stessa galassia Proxima di Rautavaaras’ Case) usa un fungo allucinogeno, il Chew-Z, come droga per potenti traslazioni degli affezionati utenti (chooser) in un mondo privato iper-reale, in realtà per moltiplicarsi colonizzando i fedeli nella consustanziazione eucaristico-lisergica. Dio prometteva la vita eterna, lui la consegna a domicilio. Una teologia sballata non più di altre, in compenso il racconto su piani sfalsati di realtà e allucinazione fila abbastanza bene, come il rock psichedelico, senza raggiungere il rigore dei grandi manichei della letteratura noir Usa: Stephen King, James Ellroy, Corman McCarthy... L’eterogeneità genetica e l’approssimazione nell’uso delle fonti non discosta poi tanto la frenetica scrittura dickiana dalle ardite speculazioni di Simone Weil, quando opponeva Grecia e Roma, Occitania e Francia, mettendo insieme l’Antico Testamento ebraico, la bellicosa civiltà giuridica romana, la repressione cattolica degli Albigesi e il sistema dei partiti politici. La sua de-creazione è un disporsi affettivo a fianco dei portatori vittimari del dolore, oggetto di sopraffazione e angherie. Il suo Dio, opposto gnosticamente a quello di Chiese e Imperi (il grosso animale della platonica Repubblica 6, 493a-d), rinuncia a esercitare la sovranità sul creato, è raffigurato nel suo ritrarsi sacrificale come atto creativo, cui gli uomini dovrebbero rispondere con il sacrificio dell’individualità e l'esercizio del dovere (più che con la rivendicazione di diritti), con l'abbandono che apra la strada al ritorno fusionale a Dio in questa vita e all’accettazione della morte e del lavoro. Donde l’identificazione con la spiritualità e il martirio cataro, in cui si ripresentano fuga gnostica dal mondo malvagio e ricomposizione del pleroma. La rinuncia all’esercizio del libero arbitrio è la vera salvezza, l’epistrofé unitiva all’Uno, che sul piano politico-sociale si manifesta 36

In Galactic Pot-Healer Dick mette in scena un reale restauratore di vasi per l’impresa negentropica di recupero della cattedrale sommersa di Heldscalla, solennemente introdotta dalla macchina prognostica spinoziana SSA (sub specie aeternitatis), paragonata alla bonifica del secondo Faust e realizzata grazie alla paolina Caritas, superiore a ogni intelligenza discorsiva.

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come rifiuto della giustizia del più forte, solidarietà con le lotte degli oppressi senza il miraggio di un’autoredenzione rivoluzionaria, che finisce per ricalcare le logiche del potere. Kénosis de-creazionista, nella grande filiera della teologia negativa. Certo, non si fa di anfetaminici come Dick e va a militare come cuoca nella brigata Durruti nel 1936, arrivando al misticismo attraverso il duplice fallimento dell’esperienza di fabbrica e dell’insurrezione sul fronte aragonese. Testimonianze di discordi periodi. In parallelo a entrambi quegli approcci sincretici, la leggenda dostoevskiana del Grande Inquisitore oppone l’impotenza e l’amore di Gesù alla volontà di potenza cattolico-romana (la Chiesa erede del diritto romano e del cesaropapismo bizantino). Schmitt, nel suo latente gnosticismo, accoglie questo schema e si butta dalla parte del governo mondano, costruisce una teologia politica dell’Impero. La sua, contrariamente alla generosa coerentizzazione operata da H. Ball, è una scelta occasionale a favore del potere comunque griffato (Hitler o Disraeli,37 Hindenburg o Lenin, mica solo il Papa!), con la segreta fascinazione per il nemico di turno e per l’elemento dissolvente. Un classico del pensiero teologico, monoteista o dualista che sia (il dualismo è opzione divisoria dentro un sistema monista), di cui Dick ci offre una fiammeggiante versione psicotica, oscillante fra heavy metal e rimembranze del Summer of Love californiano. Secondo i consigli di Bianconiglio: One pill...

8. Streghe e Sabei Arriver à la formule magique que nous cherchons tous PLURALISME = MONISME, en passant par tous les dualismes qui sont l’ennemi, mais l’ennemi tout à fait nécessaire, le meuble que nous ne cessons pas de déplacer. G. Deleuze-F. Guattari, Introduction a Mille Plateaux

Nella pagina più sorprendente del Cattolicesimo, Schmitt mostra che l’unica vera sfida alla Chiesa cattolica sul suo terreno è stato l’umanitarismo massonico del Settecento, una contro-Chiesa altrettanto aristocratica 37

Nel suo delirio gnostico, Schmitt era ossessionato dal grande complotto di Disraeli e, allo stesso tempo, durante gli anni di guerra ne teneva il ritratto al posto d’onore nella sua villa di Dahlem, in luogo di quello di Hitler.

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Teologia dei quattro elementi

che sviluppò uno stile associativo esoterico predicando il dispotismo illuminato e la dittatura della ragione. La rappresentazione corrispondente non può che esserne il teatro musicale, dove la tragedia si traveste da farsa: il Singspiel, la Zauberflöte di Schikaneder e Mozart. Sotto cadenze operettistiche o da spettacolo di marionette, è in realtà il canto dell’Aufklärung, della lotta del sole contro le tenebre, della luce contro la notte. La sensibilità dell’epoca democratica lo accetta, malgrado le perplessità derivanti dal cattivo trattamento della Regina della Notte (figura lunare per Adorno, della Madre per Schmitt, che assai amò Bachofen): un personaggio ambiguo, prima positivo poi negativo e stregonesco, cui peraltro Mozart affida le due arie più ardue e straordinarie di tutto il suo repertorio – pensate forse per l'amata e inafferrabile cognata Aloysia Weber, cantate nella prima viennese da Josepha, l’altra sorella di Constanze. Nel culto astrologico dei Sabei, l’ultima religione pagana sopravvissuta ad Harran, il rifugio dei neoplatonici a cavallo fra impero bizantino e sassanide, fino all’inizio dell’XI secolo, la divinità preminente era quella lunare Sin, di origine accadica. Protettore di talismani, di oroscopi, di streghe, del mondo subalterno che il monoteismo islamico e cristiano oscura e demonizza. Nel Picatrix, caro a Pico e Marsilio Ficino, il frutto più popolare della cultura ermetico-sabea, la città magica di Adocentyn, ricalca il cerchio zodiacale dei santuari di Harran e ispirerà la Città del sole campanelliana. La Regina della Notte è l’erede alta e detronizzata di codesta tradizione, la strega curatrice e sabbatica di quella bassa, moltitudinaria. A buon rendere. Tornando al solare Sarastro e ai suoi accoliti, ci disturba il loro autoritarismo patriarcale, il culto elitario e iniziatico del segreto, la frettolosa emarginazione del folletto Papageno al ruolo di buon padre di famiglia. Per non parlare dell’indegna bastonatura che Sarastro infligge al suo libidinoso sgherro negro Monostatos, quando non gli serve più per rapire Pamina e magari passa alla sua rivale Regina. Sarastro è l’erede di Prospero della shakespeariana Tempesta quanto Papageno e Monostatos del domato selvaggio Calibano. L’illuminismo, massonico e fisiocratico, ha lo sprezzante coraggio di tutelare l’autorità sovrana, limitandosi a esibirla fra i lazzi a una platea di Papageni: «anche l’idea di umanità, non appena si realizza, soggiace alla dialettica di ogni realizzazione e, disumanamente, deve cessare di essere soltanto umana».38 Raccogliere, cioè, l’aureola sacrale della sovranità trascendente contro cui si era levata. Il fuoco del nichilismo lavora nel profondo, Leo Strauss aveva visto lungo. 38

Cattolicesimo, cit., pp. 66-69.

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Schmitt si schiera per l’equivalenza rappresentativa di assolutismo e liberalismo, forme intercambiabili del potere. Noi stiamo con la Regina della Notte e con Papageno. Con l’irrappresentabile. Per la prima volta nella storia la proclamazione di una teologia coincide con l’anticipato fallimento della medesima. La mistica tecnocratica fa tutt’uno con la crisi fuori controllo e la stagnazione dell’economia in Occidente. Alla festosa manutenzione fisiocratica delle leggi naturali subentra la montiana «manutenzione psicologica e politica» del malessere diffuso. Una buona ipotesi è che il vecchio dispositivo abbia alfine fatto cilecca e con esso il monoteismo stesso abbia dichiarato forfait. L’entropia sta avendo ragione dell’Uno e molti dèi, anche malvagi, cominciano ad affrontarsi sulla scena. Seguiamoli nelle loro mutevoli incarnazioni, elemento per elemento.

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ACQUA So gib unschuldig Wasser.

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F. Hölderlin, Patmos

Acqua e mare non piacevano troppo a Platone, malgrado l’enfasi sulla seconda navigazione, un deúteros ploûs tutto mentale. Purtroppo della sterminata terra – si lagna in Fedone, 109b-111c – occupiamo una ben picciola parte, anzi ci affolliamo intorno al Mediterraneo come formiche o rane in una palude, ma questa mefitica porzione di terra, intrisa di nebbia e corrosa dalla salsedine, non è neppure vera terra: quella è pura e immersa nel cielo, volta verso gli astri, tutt’altra cosa dai sedimenti del puro cielo che si raccolgono nelle cavità della terra. Occorre alzare la testa, come chi sott’acqua vedesse il sole e le stelle e giurasse che la superficie del mare è il cielo. Insomma, è la solita fuoriuscita dalla caverna e il provvedersi di ali per solcare le zone dell’aria fino alla fascia estrema. Perché trattenersi nel pantano e in quel po’ di terra emersa, quando potremmo pervenire lassù, agli archetipi delle cose e avere contatti visibili e rapporti concreti con le divinità (sumbaínein metaxú)? Prósopon pròs prósopon, ripeterà personalizzando Paolo, Cor. I 13,13, facie ad faciem tradurrà Agostino, De Trinitate, XV 11. La visio facialis dei mistici medievali, l’esperienza che induce Dante, Par. XXXIII 94, a un «letargo» quale avvolse l’impresa degli Argonauti, quando l’ombra della nave fé ammirar Nettuno sul fondo del mare – ricordiamo il Fedone! Spiritus enim tuus bonus superferebatur super aquas, non ferebatur ab eis, tamquam in eis requiesceret (Agostino, Confessiones, XIII 4), il tuo buono spirito (di cui più tardi vedremo la natura ignea) aleggiava sopra le acque, non era trascinato da esse, anzi in Lui le acque e il loro contenuto trovano riposo e luce, non accontentandosi di un semplice fluttuare nell’oscurità, bensì intendendo beate vivere presso la fonte della vita e ad essa abbeverarsi perché l’anima non resti terra non irrigata e si rispecchi nella sua luce (ivi 16). L’acqua non è sostanza o luogo in cui siamo immersi e da cui emergiamo, ma è il flusso degli affetti e dell’immunditia spiritus nostri che la concupiscenza trascina verso il basso e da cui usciremo volgendoci a una superiore quiete (ivi 7). Acque ingombre di viventi: i rettili simbolo dei sacramenti, i cetacei dei miracoli, gli uccelli marini degli evangelizzatori. Le acque sono le genti, prima ignare poi illuminate dal messaggio.

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Teologia dei quattro elementi

Pullulano di «corporali operazioni molte e varie», che si moltiplicano, ma solo nella parola divina si placa il loro amarus languor, trova un senso il genere umano, immerso in acquatica, turbolenta e capricciosa irrequietezza (ivi 20). La macchina allegorica montata con ingranaggi platonici, stoici, filoniani e neoplatonici1 nei libri XII-XIII, pur distinguendo ontologicamente la sfera del teologico da quella politica,2 pone in radice l’analogia fra esse e perciò la rappresentazione, smistata fra Chiesa e Stato: assetto trinitario e tripartizione delle facoltà umane. In Confessiones X e XI e De Trinitate,3 sintetizzata in Confessiones, XIII 11, memoria, intelligenza e volontà stanno in imperfetta corrispondenza alle tre funzioni trinitarie. La memoria è il Padre, nel cui grembo tutte le cose riposano e vengono elaborate dalla conoscenza-Figlio e vivificate dall’amore-volontà ovvero Spirito Santo. Determinante nell’umana triade esse, nosse, velle, seguendo Paolo, è il ruolo della volontà, la cui proiezione trinitaria è lo Spirito vagante sopra le acque. In De Trinitate il gioco infinito delle omologie o vestigia trinitarie – ipnotico infinite jest – si replica ricorsivo: amans, quod amatur, amor (VIII 10 e IX 2), mens, notitia, amor (IX 3-5 e 12), intelligere, esse et vivere (X 10), corpus quod videtur, forma, intentio voluntatis o altrimenti imaginatio

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Vedi, per gli Stoici, I. Ramelli-G. Lucchetta, Allegoria vol. I - L’età classica, Vita e pensiero, Milano 2004, e, per i neoplatonici, P. Hadot, Le voile d’Isis. Essai sur l’histoire de l’idée de nature, Gallimard, Paris 2004, tr. it. Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura, Einaudi, Torino 2006. Significativo è lo spostamento che reinterpreta le triadi plotiniane, poi di Proclo e dello Pseudo-Dionigi, Essere-Vita-Sapienza (Sofia o Intelligenza, Noûs) in senso volontaristico. Le triadi cristiane sono, beninteso, orizzontali e consustanziali, non discendenti ed emanative per riflessione. E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem. Ein Beitrag zur Geschichte der politischen Theologie im Imperium Romanum, Hegner, Leipzig 1935 (rist. in Ausgewählte Schriften, B. 1, hrsg. B. Nichtweiß, Echter-Verlag, Würzburg, 1994), tr. it. Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia 1983. Per l’autore si dà teologia autentica in rapporto esclusivo all’incarnazione nel Figlio (gli ebrei hanno solo esegesi, i pagani mitologia e metafisica) e si srotola fra prima e seconda venuta di Cristo – perfino gli Apostoli sono solo ‘testimoni’. Condanna peraltro le commistioni di teologia e politica che si identificano con la concezione di una monarchia divina a immagine e giustificazione di quella imperiale: una tendenza che inizia con Filone e si afferma appieno con l’arianesimo ed Eusebio di Cesarea, il panegirista di Costantino, cui si contrappone la teologia trinitaria dei Padri cappadoci e poi la distinzione agostiniana delle due città incommensurabili che sostituisce un’escatologia alla Pax Augusta e costantiniana e libera la Chiesa dalla soggezione all’Impero. X 11, XI 6, XII 19, XIV, XII 15, XV, XX 38 e passim.

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corporis quae in memoria est, informatio, intentio voluntatis, che unifica la triade (XI 2 e 4, XIV 3 e 6-8. XV 7) con il collante della sollecitudine, curae glutino (X 5).4 Le creaturali memoria, intelligentia, voluntas sui del libro X riflettono con enigmatica imperfezione le eterne memoria, intelligentia, voluntas Dei di XIV-XV: per speculum in aenigmate, cioè in obscura similitudine, presentimento di un altro vedere e di un’altra lingua (XV 9-10).5 Decisiva, dicevamo, la volontà, di cui è ipostasi la caritas dello Spirito, comune ed eguale di e per Padre e Figlio, dono sommo e indispensabile alla salvezza (XV 17-18), che procede intemporalmente dal Padre appunto come tale e non come figlio carnale (V 14, cfr. XV 27), dilectio e communio consubstantialis et coaeterna (VI 5), amorosa fruizione dell’informazione memorizzata e della conoscenza in cui si acquieta la volontà (X 10), essendo la stessa compiacenza una volontà in riposo (XI 5). La volontà di Dio è «causa prima e suprema di tutte le forme e i movimenti sensibili. Niente infatti di visibile e sensibile accade senza che dal profondo del suo palazzo invisibile e intelligibile il supremo Sovrano (Imperator) l’abbia comandato o permesso, in conformità all’ineffabile ripartizione dei premi e delle pene, delle grazie e delle ricompense in questo vastissimo e immenso Stato, che è l’intera creazione» (III 4). È perfino ridondante dedurre da siffatta economia un decaduto vestigio politico, un diritto pubblico che si crogiola nella contingenza e sbandiera a piacere il miracolo dell’eccezione. Qui sta il discrimine del teologico: l’Uno è necessario secondo volontà personale e trascendente. La relazione è sovradeterminata e il reale umbratile e cangiante, annunciabile per segni miracolosi: semeîa o évènements... La dúnamis si è fatta vis, l’enérgeia actus o actualitas e lo scambio bi-univoco fra Dio-persona e Sovrano viene da sé. Nel suo kratos assoluto si contorce il verme del nichilismo.

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Significativo della misoginia paolino-agostiniana è invece che tutto il libro XII si invischi in aporie e distinguo dovendosi applicare il principio trinitario e il dispositivo allegorico alla triade uomo-donna-figlio e al rapporto fra spirito e carne. Il giovane Hegel se la caverà molto meglio con la dialettica dell’amore. L’altro misogino precursore della Trinità, Platone (Timeo, 50d), aveva ammesso il mondo visibile come generato, chora (madre, ricettacolo) in cui si genera e il paradigma intelligibile come padre. Prima consistente formulazione di quella particolare allegoria anticipante che Auerbach e Singleton hanno chiamato «figurale» e che si iscrive in un corso orientato della storia, adempiente le ‘premesse’ vetero-testamentarie e pagane nella salvezza cristiana.

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1. Nei gorghi del possibile Tuffiamoci a capofitto nell’alternativa politeista: dip in to the sea, to the sea of possibilities (Patti Smith, Horses, 1975), il gioco delle onde quale icona spinoziana per la fluttuazione modale dell’Essere, le pagine di Deleuze su nuoto e surf, i partigiani non tellurici, le Naiadi porfiriane, i nomadi di Melville.6 Eh già, ognun sa che meditazione e acqua sono sposate per sempre e la seconda è immagine dell’inafferrabile fantasma della vita, la chiave di tutto... Ben lo sa l’Ismaele moderno, l’orfano di Manhattan che così inizia a resocontare le sue sventure curiosando per la Battery. La pagina più kafkiana di Melville dopo la predica di padre Mapple su Giona. E loomings – incubi, miraggi, presagi – si intitola quel primo capitolo di un libro dove centrale sarà l’immagine del loom, il telaio del tempo e del destino. Prendiamola alla lontana, risalendo al padre della teologia politica, Carl Schmitt, che distingue drasticamente fra difensori del nomos della terra e popoli senza terra, senza Stato, senza Chiesa, «che esistono solo nella “Legge” e per cui il pensiero normativistico è l’unico approccio giuridico ragionevole, mentre tutti gli altri appaiono loro inafferrabili, mistici, fantastici o ridicoli».7 Chiaro che se la prende con Spinoza e Kelsen, gli archetipi ebraici del liberalismo. Il normativismo «giudaico» si oppone al principio decisionista di sovranità quanto alla tipica dottrina germanica di un ordine concreto basato sulla terra. Gli ebrei si tengono a distanza e stanno a guardare come si ammazzano fra loro i popoli della terra. Sgozzamenti kasher, perciò essi banchettano avidi con le carni degli uccisi. Più smorzato, nel dialogo con Nicolaus Sombart, che ne relaziona nel dopoguerra,8 6

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Il discorso riprende temi già presenti in precedenti testi di chi scrive: Spinoza atlantico, Mimesis, Milano 2008, e Théologie de l’eau, in Aa.Vv., Spinoza transalpin, Les interprétations actuelles en Italie, sous la dir. de Ch, Jacquet e P.-F. Moreau, Publications de la Sorbonne, Paris 2012, pp. 79-92. C. Schmitt, Über die drei Arten rechtswissenschaftlichen Denkens, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1934, e Berlin, Duncker & Humblot, 1993, p. 9, tr. it. I tre tipi di scienza giuridica, a cura di G. Stella, Torino, Giappichelli, 2002; l’argomentazione completa occupa le pp. 3-39. Nel giovanile Cattolicesimo, cit., pp. 21-22, l’amore per il suolo, per la Madre Terra, era attributo dei popoli cattolici, contadini, mentre nomadismo e sfruttamento industriale della terra (dunque il rifiuto della Repräsentation e il pregiudizio dialettico) si addicevano a ugonotti e puritani. L’etnicizzazione del liberalismo fluttua secondo le circostanze; più tardi Schmitt, deluso dal Concilio Vaticano II, convergerà con schemi decisamente più protestanti sottolineando un legato weberiano. Jugend in Berlin, München, Hanser-Verlag, 1983. Nella coeva prima edizione di Land und Meer, Leipzig, Reclam, 1942 e 1954, tr. it. Terra e mare, con un saggio

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Schmitt definisce il proprio libro su Hobbes un malinconico canto d’addio allo Stato sovrano, accompagnato dalla constatazione dell’acutezza degli ebrei al riguardo. Il loro Dio gioca ogni giorno con il Leviatano (Salmi 103, 27), mentre gli ebrei lo fanno a pezzettini per gustarlo in una perenne festa dei Tabernacoli. Lo sradicamento dalla terra diventa localizzazione sul mare: lì essi danno la caccia allo Stato-Leviatano, il grosso cetaceo miracoloso di Agostino. Non è forse il miracolo la secolarizzazione dello stato d’eccezione, l’occasione in cui si manifesta e si fa valere la sovranità? Più prudente, Schmitt nel Glossarium post-bellico (1947-1951) richiama in causa Spinoza che, per primo, si è insinuato (sich subintroduzierte) fra noi approfittando della disunione, deplora la sua passione per lo spettacolo delle lotte fra ragni e mosche e tuttavia registra con acutezza l’opposizione fra Hobbes «barocco» e Spinoza «non barocco» e «acritico», cioè riluttante, nel suo realismo machiavelliano, a concepire la politica quale decisione teatrale, creaturale sospensione sopra il nulla della morte.9 Non essere barocco vuol dire mancare di senso dello Stato e di pathos del nichilismo. Eccellente! L’autore del Tractatus politicus svaluta lo stato d’eccezione, il miracolo secolare, e disprezza il profeta Daniele che vi crede e i sovrani assoluti che dovrebbero gestire l’eccezione-miracolo. Più in profondità – nesso non casuale – il Nostro si oppone a una teologia apocalittica della debolezza, di cui il libro di Daniele è la più autorevole anticipazione vetero-testamentaria. Non per questo – correggiamo Schmitt – dobbiamo collocare Spinoza fra i precursori del normativismo, dato che egli ne prende anticipato congedo nella misura in cui non riconosce allo jus altra fonte che la potenza della moltitudine, fonte di ogni forma di governo: hoc jus, quod multitudinis potentia definitur, Imperium appellari solet, TP 1.17. Una multitudo che sfugge al nomos della terra e alla disciplina della sovranità, che non accetta le enclosures dei campi destinati all’allevamento di pecore che soppiantano i contadini. Anzi, Spinoza disprezza le terre dove gli uomini sono ri-

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di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2002, sono contenute espressioni assai simili, espunte nella ristampa post-bellica: «Gli ebrei si sono aggiustati la lotta fra terra e mare a loro modo [...] si tengono in disparte e guardano la lotta. Mangiano la carne degli animali che si uccidono a vicenda [Leviathan e Behemot], li scuoiano e con la loro pelle costruiscono belle tende e celebrano un solenne, millenario banchetto. Così gli ebrei interpretano la storia del mondo», ecc.; cfr. l’appendice testuale alla traduzione italiana, p. 146. Schmitt si ispira alla sontuosa descrizione della disputa di Toledo intonata da H. Heine (Hebräische Melodien). Glossarium, Berlin, Duncker & Humblot, 1991, annotazioni del 12.1. 1950 e del 15.11. 1947, tr. it. Glossario, Giuffrè, Milano 2001, pp. 404 e 64.

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dotti al rango di docili pecorelle destinate a servire, qui scilicet veluti pecora ducuntur, TP 6.4 – là dove non c’è pace e cittadinanza, ma trionfa la solitudo, il deserto dei rapporti sociali, il contrario di quel libero popolo su libera terra, che il morente Faust sognava nel sottofinale del capolavoro dello spinoziano Goethe. L’ebreo di Amsterdam sognava quel Mare liberum di Grozio in cui si sosteneva che esso, a differenza della terra, è libero per natura e non deve essere assoggettato a nessun vincolo di proprietà o sovranità. Sradicato e sradicatore, Spinoza è sfavorevole alle rappresentazioni sostanzialiste dello Stato che simboleggiano nella terra appartenenza e identità e infatti sboccano nel patto: altro che normativismo! Il vocabolo stesso ‘patto’ echeggia il latino pango, paciscor e al greco pégnumi, puntellare, conficcare pali nel terreno per stabilizzare qualcosa, rapprendersi, coagularsi, pertanto pattuire accordi e ad essi prestare ottusa fedeltà. Anche villaggio, pagus, viene dal medesimo ceppo. Tutte cose rigide, codificate. All’inverso, Spinoza traccia una teologia dell’acqua, solidale con la prassi degli olandesi che, secondo l’abate Raynal, avevano fondato la monarchie universelle du commerce, una monarchia fluttuante sull’acqua. Quanto è attirato dalla dinamica dei fluidi! L’onda che si frange ogni volta dissimile e pur sempre identica – liquida metafora del rapporto fra Sostanza infinita, espressa da un Attributo del pari infinito, e i modi finiti di esso, come in Ethica I 15, schol.: «concepiamo che l’acqua, in quanto è acqua, è divisibile e le sue parti sono separate le une dalle altre, ma non in quanto è sostanza corporea; in tanto, infatti, non si separa né si divide. Inoltre, l’acqua in quanto acqua si genera e si corrompe, ma in quanto sostanza non si genera né si corrompe». Distinzione modale e non reale.10 Ed eccolo rilanciare nell’Epistola 64 a Schuller, definendo il modo infinito mediato dell’Estensione foggiato da Quies e Motus, bonaccia e tempesta, la facies totius Universi, quae quamvis infinitis modis variet, manet tamen semper eadem. Superficie oceanica sempre increspata e sempre a sé eguale, secondo i meccanismi di Ethica II, lem. 7 schol., del trattatello di fisica, dove il movimento che si comunica più o meno velocemente da una parte all’altra di un composto di individui esemplifica il fatto che tutta la natura (non più le gentes agostiniane!) è un unico Individuo le cui parti, 10

Unde ejus [sc. materiae] modaliter tantum distinguitur, non autem realiter. Ex. gr. aquam, quatenus aqua est, dividi concipimus, ejusque partes ab invicem separari; at non, quatenus substantia est corporea; eatenus enim neque separatur, neque dividitur. Porro aqua, quatenus aqua, generatur et corrumpitur; at quatenus substantia, nec generatur, nec corrumpitur. Tutti i passi in italiano dell’Ethica si rifanno all’edizione di Emilia Giancotti, Roma, Editori Riuniti, 1988, rist. 2002.

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cioè tutti i corpi, variano lucrezianamente in infiniti modi senza alcun mutamento dell’insieme.11 Il motivo circola incessante sul terreno ontologico ed etico con l’uso dei vocaboli imparentati fluere e fluctuare. Nel primo caso si tratta dell’apparato immanente e non emanativo per cui i modi finiti seguono (fluunt o effluxisse) dall’infinita natura o somma potenza di Dio (Eth. I, 11 schol., e 17 schol.), in lessicale corrispondenza al sequitur, sequuntur e sequi delle successive proposizioni 21, 22 e 23, coinvolgenti anche i modi infiniti immediati e mediati, nonché ad altre voci quali produci, inesse, determinari, exprimere, ecc. In quel fluire si mostra l’indistinguibilità, intransitività e inerenza di causa ed effetto, che la Sostanza, alias Dio o Natura, è di tutte le cose causa immanens, non transitiva (non vero transiens, I, 18). Nel secondo caso (prefazione alla Parte Terza) il tranquillo scaturire degli affetti dalle variazioni di potenza è coinvolto dalla motilità passionale sino a tramutarsi in violenti e turbinanti flutti, tanto che corpo, mente e immaginazione sono immersi in una perenne fluctuatio, che da ogni lato ci sbatacchia e fa sì che noi siamo agitati in molti modi dalle cause esterne, quasi da cavalloni e venti contrari, ignari degli eventi e del destino.12 Un movimentato circuito idraulico, in presaga concordanza con Freud, quanto il gioco ontologico delle onde precorreva le più moderne teorie fisiche sull’indole processuale e ondulatoria delle componenti ultime della materia, delle attività neuronali e dello stesso spazio. Onde fluttuanti, ondeggiare del telaio: metafore che ritroveremo in Melville. La tessitura, lucreziana textura, fa il suo ingresso con il diritto di natura. Nell’Ep. 60 del 2 giugno 1674 a Jarig Jellesz, ci si oppone al depennamento hobbesiano del diritto naturale, che anzi è conservato semper sartum tectum e fiorisce con l’unione delle forze nella società civile, dato che la potenza dello Stato è quella della moltitudine, che esprime e si fa carico dell’autoconservazione dell’essenza attuale della sostanza. Lo jus naturae autorizza il pieno svolgimento di sé senza implicazioni teleologiche; è un diritto soggettivo legato alla dimensione individuale e riferito a tutti i viventi, non solo agli uomini, razionali e irrazionali, particelle dell’intera natura (TTP XVI), e non è normativo, pur prescrivendo una selezione fra i possibili comportamenti umani. Lo jus commune vive negli jura communia e quanto più sono numerosi gli associati, TP 2.15. Non passa per un con11 12

Totam naturam unum esse Individuum, cujus partes, hoc est, omnia corpora infinitis modis variant, absque ulla totius Individui mutatione. Nos a causis externis multis modis agitari, nosque perinde ut maris undae e contrariis ventis agitatae, fluctuari nos eventus atque fati inscios, III, 49 schol.

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tratto sulle rovine della legge naturale, non si fabbrica un Leviatano, un sovrano assoluto o una macchina impersonale della Legge. Non gli si deve servile soggezione, anzi si elogia la produttività della resistenza e, al limite, dell’indignatio che lo destituisce per diritto di guerra. Quel diritto di natura resta in gioco e favorisce la socializzazione, a condizione di sottoporlo a un assiduo lavoro di adattamento e rappezzo. Nell’espressione latina sartum (et) tectum, la prima parola deriva dal rammendo (sarcio) del sarto – testimoni Cicerone e Ulpiano –, la seconda dalla riparazione minuta giorno per giorno dell’edificio più che da grandi e intervallati restauri o peggio da speculative demolizioni. Un tessere esteso, figura politica dell’impiego di materiali misti che conservano l’integrità della trama, onde carezzevoli o impetuose nella permanenza dell’oceano.

2. Lezioni di nuoto Con audace balzo Gilles Deleuze schizza dall’ontologia all’epistemologia, imputando il passaggio dal primo al secondo genere di conoscenza a due diverse tipologie di uomini. Scrive, nelle lezioni di Vincennes introduttiva e nona dedicate a Spinoza,13 che grazie alle nozioni comuni, che consentono di superare la collezione confusa e casuale delle idee inadeguate, usciamo fuori dalle passioni, dall’intrico degli affetti di cui non siamo causa adeguata e stringiamo in mano la nostra capacità di agire: tali nozioni non sono mere categorie conoscitive, bensì regole di vita, forme di esistenza singolare. Cognizione della norma secondo cui si compongono e decompongono i rapporti specifici di ciascun corpo. Non per schemi matematici, ma secondo un’immagine dinamica: il nuoto. Non saper nuotare significa essere in balìa di ogni incontro con l’onda... In quest’immagine del primo genere di conoscenza subiamo le onde, andiamo sotto. Le molecole d’acqua che le compongono si combinano con infinita variazione e l’inesperto rimane in balia dei flutti, cerca di stare a galla, ma la corrente lo trascina, la cresta dell’onda lo sommerge, beve, si strozza. Niente di grave, ma si è sottomessi alla gioia passiva di riuscire per un po’ a giocare con le onde in acqua bassa, alla tristezza se il mare ti tira giù e ti spaventa. «Ah maman! la vague m’a battu!». Non si controlla l’ambiente e se ne devono subire meccanicamente gli effetti. Saper nuotare – il 13

Cfr. G. Deleuze, Cosa può un corpo?, tr. it. di A. Pardi, Verona, Ombre Corte, 2007, pp. 61 e 164-167. Le lezioni sono scaricabili in rete, www. webdeleuze. com.

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passo successivo – allude invece a un’intima familiarità con i flussi, non a una scienza ma a un saperci fare, una specie di senso del ritmo. Occorre sentire il metro dell’acqua, comporsi con essa, combinare le parti solide del corpo con quelle liquide dell’acqua, integrarle appunto nel gesto del nuoto, nello stile, nell’assetto, nel respiro, nell’abile divertimento. Schivare l’onda che si avvicina o sfruttarne la forza. Nel surf, nel windsurf, nel deltaplano il corpo si protende nella dimensione dell’aria e la furia stessa del mare e dell’aria è un potente aiuto alla danza. Inserendosi su una dinamica preesistente, facendosi accettare nel movimento di una grande onda o di una colonna d’aria ascensionale, si va in orbita, ci si infila dentro uno sforzo in atto invece di esserne origine – scrive Deleuze su «L’autre journal» n. 8, ottobre 1985.14 Stare nelle pieghe, dans un pli vibrant. Tutto è variazione delle attitudini e delle posture del corpo. E poi, la sapienza dei corpi nell’amore, che è come il mare, un nuotarci dentro, un farsi segreto senza pretendere di decifrarlo... Le cose non vanno però così piane. Cinque anni dopo («L’autre journal», n. 1, maggio 1990) Deleuze ritorna sull’amata immagine con un profilo più sfuggente: La vecchia talpa monetaria è l’animale degli ambienti di reclusione, mentre il serpente è quello delle società del controllo. Siamo passati da un animale all’altro, dalla talpa al serpente, nel regime in cui viviamo, ma anche nel nostro modo di vivere e nei nostri rapporti con l’altro. L’uomo delle discipline era un produttore discontinuo di energia, mentre l’uomo del controllo è piuttosto ondulatorio, messo in orbita su un fascio continuo. Perciò il surf ha già rimpiazzato i vecchi sport. È facile far corrispondere a ciascuna società dei tipi di macchine, non perché le macchine siano determinanti, ma perché esprimono le forme sociali in grado di dar loro vita e di servirsene. Le vecchie società di sovranità maneggiavano delle macchine semplici, leve, pulegge, orologi, mentre le più recenti società disciplinari avevano per equipaggiamento delle macchine energetiche, con il rischio passivo dell’entropia e il pericolo attivo del sabotaggio. Le società del controllo operano per macchine di terzo tipo, macchine informatiche e computer, il cui pericolo passivo è l’annebbiamento e quello attivo il pirataggio e l’introduzione di virus. 14

Questo e il successivo articolo sono raccolti in Pourparlers (1972-1990), Paris, éd. de Minuit, 1990, tr. it. Pourparler, a cura di S. Verdicchio, Macerata, Quodlibet, 2000. Poco prima (1982) Louis Althusser aveva usato un’immagine simile, scrivendo che «la filosofia non comincia con un cominciamento che sia la sua origine, al contrario essa prende il treno in corsa e, a forza di braccia, monta sulla carrozza che corre dall’eternità, come scorre l’acqua di Eraclito», La corrente sotterranea del materialismo dell’incontro, in Sul materialismo aleatorio, tr. it. di V. Morfino e L. Pinzolo, Milano, Unicopli, 2000, p. 93.

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Meno epica vitalistica, meno Big Wednesday e Point Break: la fluidità è attributo anche della globalizzazione, del passaggio postfordista dalla società disciplinare alla società di controllo, nonché della vorace incorporazione del virtuale nel Grossraum planetario, nella cybergovernance del mercato mondiale. È campo di contesa, non ornamento della liberazione. L’Atlantico è l’oceano dell’Impero quanto il luogo della sovversione ribelle della many-headed Hydra, il black Atlantic della tratta e della pirateria.15 Ambivalenza di un potere in rete e di un fluido opporsi ad esso, con le opportune varianti tecnologiche. Surfare è ora navigare in rete, netsurfing, hackeraggio, diffusione virale dell’inserimento, mutazione genetica nella replica, craccare, scaricare gratis, defacing, infettare i siti del nemico. Procedere per linee di fuga, sparire, divenir minore, clandestinizzarsi... Eppure i movimenti hanno, nei momenti alti, acquisito l’astuzia del serpente, praticato il surf. Non si sono forse chiamati nel dicembre 2010 l’esercito del surf? Il tumulto-serpente guizza, dispiega contro-condotte che destabilizzano il controllo, deve però risolvere problemi decisivi di continuità e di organizzazione per farsi appieno costituente, per disporre regole e istituzioni che ne esprimano il carattere virtualmente maggioritario, per praticare la democrazia contro la dittatura finanziaria e tecnocratica. Nella chiusa di Arcipelago Hölderlin aveva invocato il dio del mare, che sopra le acque addestrasse lo spirito quasi nuotatore a impadronirsi della lingua degli dèi, l’Alternarsi e il Divenire, das Wechseln und das Werden, lo spinoziano trascorrere dei modi sulla superficie dell’intero universo. Raccogliamo l’appello.

3. Il nomos in bilico Volgiamo di nuovo lo sguardo a Schmitt: perfino nel momento di massima infatuazione per il ribellismo del partigiano, egli ne ribadisce l’indole tellurica, di «ultima sentinella della terra, questo elemento della storia universale ancora non completamente distrutto».16 Avremo da parlarne in seguito. Resta l’intrinseca diffidenza verso il mare senza padroni e partizioni, illocalizzabile, senza Ordnung e Ortung, verso il pirata che mette, sì, 15

16

Cfr. P. Gilroy (1993), The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, a cura di M. Mellino e L. Barberi, Roma, Meltemi, 2003, e P. Linebaugh-M. Rediker (2000), I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, a cura di B. Amato, Milano, Feltrinelli, 2004. Theorie des Partisanen, Berlin, Duncker & Humblot, 1963 e 1975, tr. it. Teoria del partigiano, Milano, Il Saggiatore, 1981, pp. 54-56.

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a rischio la vita (dal greco peirân, è colui che osa), ma da privato, da irregolare della guerra commerciale. Non essendo territorio statale – il territorium che nella consuetudine giuridica e filosofica latina è l’area su cui magistrati hanno il diritto di terrere per comandare e fuori del quale non si ha obbligo di obbedire –,17 il mare è libero, spazio di preda, commercio e avventura, luogo riluttante alla localizzazione, giuridicamente ben distinto dalla terraferma malgrado ogni tentativo di regolamentazione.18 È altresì uno spazio liscio su cui può applicarsi il pensiero per linee globali del razionalismo occidentale e che diverrà centrale per l’egemonia statunitense. Atlantico finisce per identificarsi con emisfero occidentale, in tutte le valenze geopolitiche e morali – il nuovo regno del diritto e della libertà opposto alla vecchia Europa –, per non dire che in esso si sperimentano per la prima volta una guerra di sterminio, esente da scrupoli di conduzione del territorio e dei popoli conquistati secondo una dialettica di protezione-obbedienza, e la criminalizzazione del nemico ormai non più justus hostis.19 La guerra sul mare è figura che anticipa il controllo aereo dei territori e la contesa per i satelliti e per il cyberspazio. Alle agili imbarcazioni corsare succederanno i droni. Ma anche privati e ribelli, cioè a stretto titolo ‘pirati’, possono utilizzare tale tecnologia a fini di spionaggio ed eversione. Mini-droni a guida Gps per filmare dall’alto si acquistano sul web da 299 € in su. Il nomos schmittiano, su cui ritorneremo nella sezione Terra, vede nell’Acqua un’insidia dissolvente, l’antagonista imperiale dello jus publicum Europaeum e della coppia modernità-sovranità. L’occasionalismo politico e giuridico (ma non teologico) di Spinoza è il suo incubo. Il fascino oceanico e repubblicano si sprigiona da una serie di aporie ancora interne alla sovranità, cioè al monoteismo. Ciascun elemento – Acqua, Terra, Aria, Fuoco – le contiene, implica ed esplica tutte. Assai l’Atlantico ha significato per un crew anonimo di ribelli, fuggiaschi, eretici e corsari, ma le sue 17

18 19

L’etimologia di territorium non dall’ovvio terra ma da terrere è escogitata da un giurista del II sec. d.C., Sesto Pomponio, e ripresa dal Corpus Juris Civilis giustinianeo, Dig. L XVI, 293.8 (De significatione verborum). Vi fanno riferimento sia Grozio, De jure belli ac pacis, che G.B. Vico, De constantia philologiae. F. Farinelli ha messo in evidenza come il termine territorium, nel Glossarium mediae et infimae latinitatis del Du Cange, indichi addirittura lo spaventapasseri. Viceversa – ed proprio il caso dell’alto mare – extra territorium jus dicenti impune non paretur, per difetto di giurisdizione. Ivi, pp. 14 e sgg. e anche Land und Meer, passim, Der Nomos der Erde, Berlin, Duncker & Humblot, 1950 e 1974, tr. it. Il nomos della terra, Milano, Adelphi, 1991, pp. 20- 29 e 210-223. Il nomos, cit., pp. 371-387 e 411 sgg.

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onde hanno plasmato i grandi poteri nel cui crepuscolo oggi viviamo e facciamo resistenza. Gli imperi costruiti sull’Acqua hanno altre frontiere e cambiano la natura delle frontiere sulla Terra.

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4. Pesci e spiriti Conosce e cita lo Spirito che vaga sopra le acque, ma si oppone al riduzionismo cristiano, frena per tropi naturali la potente spinta verso l’Uno del suo maestro Plotino. Parliamo di Porfirio, interprete di alcuni versi di Omero nell’Antro delle ninfe.20 Se l’antro rimanda alla terra, alla materia amorfa – altrove ne tratteremo – l’acqua che vi scorre allude alla materia congiunta alla forma intelligibile e vi presiedono non ninfe generiche, ma le Naiadi, che traggono nome dalle fonti e curano lo stillare dei liquidi e il fluttuare delle anime che seguono l’acqua sulla quale aleggia lo spirito divino, come Numenio cita dalla Genesi. Il venire a generazione è avvolto dall’umido e le anime se ne dilettano, perché l’umido dello sperma e del sangue è segno del divenire e, secondo il detto di Eraclito (DK 22 B 77), «alle anime sembra diletto, non morte, il divenire umide: la caduta nel divenire è per loro diletto (térpsin dè eînai autaîs tèn eis génesin ptôsin)». Umidi, díugroi, sono quanti stanno immersi nel divenire e vi prendono corpo, quasi nubi che assumono forma per condensazione. Le Naiadi sono in figura le anime pneumatiche che vanno verso la generazione e di conseguenza entrano in un ciclo di morte. Nel libro vetero-testamentario apocrifo di Enoch etiope (LX, 7) due belve marine femmine, di nome Leviatan (guarda un po’!), custodiscono le sorgenti dell’acqua, una sorta di Regno delle Madri – commenta in un frammento H. Blumenberg –, Leviatan si chiama il saggio serpente, datore di conoscenza, che avvolge i dieci cieli nel diagramma degli gnostici Ofiti osservato da Celso. Faranno eco a Porfirio, secoli più tardi, i refrattari al monoteismo confessionale, i cantori dell’Hen kai Pân, del panteismo plurale, Spinoza, Goethe, Lessing e Hölderlin. Del primo abbiamo già fatto cenno, del secondo rileggiamo (nelle orecchie l’assorta trasposizione corale di Schubert, D. 714) il Gesang der Geister über den Wassern, il Canto degli spiriti sopra 20

Per Hadot, Il velo, cit., pp. 66 sgg., Porfirio vuole giustificare il politeismo contro il dilagante cristianesimo, pur stimando parte inferiore della teologia l’ordine della Natura, regno dell’immaginazione, di dèi e demoni. Il testo porfiriano è edito, greco a fronte, presso Adelphi, Milano 2006. Nelle stesse edizioni è apparsa nel 2012 la traduzione di Sui simulacri.

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Acqua

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le acque, l’antitesi della grande allegoria creazionista e spiritualista edificata da Agostino sulla Genesi e con cui abbiamo aperto la sezione. Somiglia all’acqua l’anima dell’uomo... Scende dal cielo, al cielo risale, passando per la terra in eterna vicenda, ewig wechselnd. Il vento è amoroso ganzo dell’onda e la stravolge in flutti schiumanti: anima dell’uomo, come somigli all’acqua! Destino dell’uomo, come somigli al vento!

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Seele des Menschen, Wie gleichst du dem Wasser! Schicksal des Menschen, Wie gleichst du dem Wind!

Spinoziana fluctuatio animi che interiorizza all’uomo in metonimia la concatenazione dei modi dell’intera natura. Non imperium in imperio, ma sua frazione risonante. E mobile. Contro l’invernale dottrina che tutto stia fermo esplode Zarathustra: fratelli miei, non è oggi tutto nel flusso della corrente? L’acqua non è solo immagine del cosmo o dell’anima, cangiante facies totius Universi, immanente ordo et connexio rerum, ma anche contenitore e teatro degli urti modali, dell’incessante sopraffarsi e combinarsi in cui si esplica il circuito della potenza che è allo stesso tempo diritto di natura: i pesci sono determinati per natura a nuotare, i grandi a mangiare i piccoli, e tutti per sommo diritto naturale usufruiscono dell’acqua e i più grandi mangiano i più piccoli.21 The universal cannibalism of the sea – riassumerà Hermann Melville nel cap. 58 di Moby-Dick. Nuotano in deleuziana composizione con l’acqua, si divorano a vicenda in regime marxiano di lotte di classi, formano branchi per meglio difendersi e crescere in gioiosa potenza. Il conflitto politico e sociale dispiega il supremo diritto di natura, lo fa valere nell’indignatio contro l’oppressione: indìgnati, occupa, sovverti... Un capopopolo un po’ camorrista, Masaniello, diventa simbolo della rivoluzione per tutto il Seicento e nell’immaginario iconografico in cui si abbiglia Spinoza stesso in un curioso autoritratto: un pescivendolo napoletano verace, non l’austero filosofo effigiato da Rembrandt con luci corrusche sotto una scala a chiocciola.

21

Pisces a natura determinati sunt ad natandum, magni ad minores comedendum, adeoque pisces summu naturali jure aqua potiuntur, et magni minores comedunt, TTP XVI.

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5. Intermezzo: acque sognanti G. Bachelard22 non ama il mare e neppure l’immaginazione muscolare del nuoto e delle tempeste. Si diffonde, nel sur-razionalismo del soggetto rêveur, sulle immagini materiali delle acque interne, su una fisiologia dell’acqua onirica e sonora molto hexagonal: ruscelli, stagni, canali, ninfee di Monet, acque verdi, chiare e specchianti, solcate dal cigno e frequentate da nude bagnanti più Renoir che Cézanne. Cigno e bagnante si rinviano a vicenda nel mito di Leda, il primo è freudiano Ersatz della seconda. Mondo (complesso) di Nausicaa. Sezioni di un narcisismo cosmico, dove il mondo-Narciso non ama se stesso qual è ma è tale quale si ama nel riflesso tremolante. Poi, l’acqua e la morte – un passaggio implicito nella vertiginosa sintassi transitoria dell’elemento. L’uomo ha il destino dell’acqua che scorre... La morte quotidiana è la morte dell’acqua. Acque fonde, assopite, stagnanti, pesanti e solitarie. Suoni smorzati. In E.A. Poe l’acqua è oggetto di desiderio e di paura, materia viva e irrazionale, incubo di riflessi, attrattore suicida. Il lago in cui sprofondano le macerie di casa Usher. Paludi della pena. Discesa nel maelström. Vogliamo accludervi la morte per acqua di Fleba il Fenicio nella Terra desolata di T.S. Eliot? L’elemento liquido è mediazione plastica fra vita e morte, l’Acheronte del traghettatore Caronte, passeur di anime, primo/ultimo navigante, lo stagno dove galleggia Ofelia. I due miti o complessi in cui si esprime questa seconda dimensione acquatica. Battelli egiziani, cinesi e bretoni dei morti, vascelli fantasma wagneriani. Malefici adescamenti di ondine, rusalki e sirene dai lunghi capelli fluttuanti. Pierrot lunaire. Mare delle Tenebre. Ofelizzazione cosmica di una luna velenosa riflessa nell’acqua notturna, quando essa comunica con le potenze della notte e della morte. Stige, che attira pianto, lutto, disperazione, che disperde la vita. Super flumina Babyonis sedimus et flevimus. Non dimentichiamo che l’acqua dello Stige, nei frammenti di Porfirio che Bachelard trascura, è fonte di vita e di morte e provvede, in un sincretismo fra Timeo e tradizioni indù, all’ordalia dell’innocenza. Una terza dimensione scaturisce dall’impasto di acqua e terra – le sostanze elementari si mischiano solo a coppie, mélange-mariage. La docile, plasmabile argilla, che introduce alla ‘femminilità’ dell’acqua, alla sua maternale e purificante purezza. La vittoria dell’acqua sul secco, sul fuoco. Il sogno si fa vischioso, si agglutina. La mano fa presa sulla materia, la foggia. Conosce a 22

L’eau et les rêves, J. Corti, Paris 1943, tr. it. Psicanalisi delle acque, Red, Como 1978.

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tasto, laboriosamente. Replica la creazione di Adamo dal limo primordiale. L’acqua è ora latte nutriente per l’intera natura, notte tiepida e cullante. Barche dondolanti – da Rousseau a Lamartine, da Balzac a Michelet –, immersione nel seno della natura: il turgido del seno è definito dal montare del latte. Anche la Notte ti porta in modo materno (Novalis). Ci sono fontane che restituiscono la giovinezza o la salute. Idroterapia morale che estirpa il male. La supremazia delle acque dolci sulla «perversione» delle salate si ribalta nell’ultima figura, violenta e maschile: il nuoto che sfida le onde, la furia della cascata, l’uragano, la collera della tempesta consonante con quelle del cuore. Immaginazione dinamica che in Swinburne deborda nel sado-masochismo, ma è sulla voce del ruscello che si chiude il libro, sul mormorio onomatopeico che scandisce le sillabe sui ciottoli e insegna a parlare. Teologia di fluenti visioni che non eccedono l’unità della natura, ne estraggono i sogni sfiorando appena la profezia.

6. Call me Ishmael... Saltiamo all’epica dell'oceano aperto, al Moby-Dick.23 Ishmael, diseredato e nomade di deserti nella Torah e nel Corano, nomade di mare e narratore nel romanzo melvilliano, inganna l’attesa fabbricando stuoie sulla baleniera Pequod. In un tragitto marittimo alterato dall’ossessivo inseguimento di un’inafferrabile balena, dove lo spazio liscio si converte incessantemente in spazio striato, la textura degli eventi si fa ordinario artigianato. Passando le mani sui fili dell’ordito Ishmael dipana, con l’aiuto del cannibale Queequeg, l’ordo et connexio idearum, che idem est ac ordo et connexio rerum, lo sguardo sognante perso sull’acqua, quasi fosse the Loom of Time, il telaio del tempo (metafora goethiana, Webstuhl der Zeit cui attende lo Spirito della Terra), e lui stesso la spola che li intesse e intesse meccanicamente i destini.24 La costante vibrazione dà l’idea della necessità del

23 24

Melville aveva letto di Spinoza nel Dizionario di Bayle a partire dal 1849. Più tardi lo filtra attraverso Goethe, Balzac, Schopenhauer e suggestioni gnostiche. Un motivo supplementare di interesse è il riversamento della metafora tessile nell’ambito maschile della comunità-nave e nella tonalità omoerotica di cui spesso Melville è intriso. Transfert all’universale o sublimazione che sia, l’arte del tessere, da Platone a Freud associata alle capacità o addirittura all’anatomia femminile (cfr. L. Irigaray, Speculum, éd. de Minuit, Paris 1974, tr. it. a cura di L. Muraro, Feltrinelli, Milano 1975 e 2010, pp. 109 sgg.), riafferra e ricapitola il suo valore ontologico-modale.

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destino, mentre i colpetti assestati con la spada di quercia dal noncurante Queequeg, una impulsive, indifferent sword, colpendo la trama ora per dritto ora per traverso, ora piano ora forte, così come capitava, produceva un corrispondente divario nell’aspetto finale del tessuto compiuto: ecco, io pensai, la spada di questo selvaggio, che così foggia da ultimo l’ordito e la trama, questa spada facile e indifferente, dev’essere il caso. Sì: il caso, il libero arbitrio e la necessità che – niente affatto incompatibili – intrecciandosi lavorano insieme. L’ordito dritto della necessità, che non si lascia sviare dal suo corso finale, e la cui alterna vibrazione, anzi, non tende che a questo; il libero arbitrio, ancor libero di fare andare la sua spola tra i fili determinati; e il caso, che per quanto costretto, nel suo gioco, tra le linee diritte della necessità, per quanto obliquamente guidato, nei suoi movimenti, dal libero arbitrio, per quanto così preordinato da entrambi, tuttavia, a sua volta, entrambi li comanda, e dà l’ultimo colpo determinante agli eventi (cap. 47).

The last featuring blow at events. Non c’è volontà sovrumana né scontro di civiltà, la fissazione degli antagonisti al Bene e al Male è altamente implausibile. Melville sguazza nell’allegoria, ma sa descriverla allo stesso tempo come vaneggiamento. L’allocuzione di Ahab per incitare l’equipaggio alla vendetta contro la demoniaca Balena Bianca, sentina di ogni malizia e forza oltraggiosa (cap. 34), configura una parodia del motto che conclude il secondo Faust: alles vergängliche ist nur ein Gleichnis, ogni cosa passeggera, contingente, è solo un’immagine, un simbolo. Egli asserisce: «tutti gli oggetti visibili non sono che maschere di cartone». Ma è, appunto, un delirio che trascinerà tutti alla catastrofe finale. Il voler sfondare il muro bianco, l’avvolgersi nel bianco del sudario, il colore del vuoto. La caccia monomaniaca al Leviatano del capitano Ahab – ossessionato dal destino di divenire-balena, di allearsi con l’Uno anomalo, schiavo della volontà che lo trascina su rigidi binari (cap. 38) – affascina Ishmael senza coinvolgerlo; lui è della razza, lo sappiamo, che quella bestiaccia se la mangia a colazione, non se ne fa un feticcio e neppure un nemico mortale che regala identità, oggetto di odio adorante (cap. 41). Al massimo, si concede una distaccata osservazione fisiognomica delle varianti del leviatano, confrontando le teste della balena franca (Right Whale) e del capodoglio (Sperm Whale). Sull’ampia fronte del secondo permane l’espressione con la quale è morto: vi è diffusa una pace come di prateria, scaturita da una filosofica indifferenza verso la morte, mentre la prima serra i denti, piena di enorme determinazione pratica. Un filosofo stoico, insomma, mentre il capodoglio somiglia piuttosto a un platonico che negli ultimi anni si sia dedicato a Spinoza (cap. 75). Un animale filosofico che si è messo nei panni

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dello scrivano Bartleby. L’indeterminabile connessione delle onde e dei loro abitanti si oppone e infine inghiotte Ahab, che si ostina sulla iron way, e lascia sopravvivere solo lo scettico Ishmael. Altrove (cap. 102) Melville evoca il panteismo, richiamando il dio tessitore, attivo, invisibile e insensibile che concatena e intreccia la natura con la spola volante del sole, tracciando figure fluttuanti sul telaio, un tappeto che scorre e vola via per sempre, anche noi traversati e assordati dalle voci che ci parlano attraverso: Oh tessitore assiduo! Tessitore invisibile, fermati! Una parola: dove va questa trama? Quale palazzo può ornare? Perché tutte queste fatiche senza sosta? Parla, tessitore! Ferma la mano: una sola parola! Ma la spola corre, i disegni vengono a galla dal telaio, il tappeto scivola fuori in eterno come un ruscello che scorre. Il dio-tessitore tesse, e da quel tessere è assordato, sicché non sente voce umana, e noi pure che guardiamo il telaio siamo assordati dal ronzio, e solo quando lo fuggiamo possiamo udire le migliaia di voci che parlano attraverso il rumore. È lo stesso in tutte le fabbriche materiali.

Torna in mente la pagana allegoria di Porfirio, da cui riprendiamo l’accenno ai telai di pietra. È infatti nelle ossa e attorno alle ossa che si forma la carne e negli animali queste tengono della pietra, di là l’assimilazione con la pietra. E perciò i telai (histói) sono fatti di pietra e non di altra materia. Le stoffe color porpora sono apertamente la carne intessuta di sangue: difatti le tele assumono il colore purpureo dal sangue, e anche la lana è tinta con quello degli animali, e la formazione della carne si dà per il sangue e dal sangue. Il corpo è la veste dell’anima che lo indossa; cosa meravigliosa a vedersi, sia che tu ne consideri la struttura, sia l’unione dell’anima con questo. Così anche in Orfeo, Kore, che guarda a tutto quanto nasce da seme, è tramandata quale tessitrice (histourgoûsa), giacché gli antichi chiamavano velo il cielo, quasi fosse veste degli dèi celesti.

La premurosa Kore è meno inquietante della sua ripresa moderna, un dio che è meglio non vedere da vicino. Quando il gaio negretto Pip è per la seconda volta sbalzato dalla lancia durante una caccia alla balena, Stubb indugia a ripescarlo e soltanto quando è allo stremo viene recuperato, mezzo annegato. Il corpo finito è salvo, ma il mare ha annegato l’infinito della sua anima, lo ha spinto nella follia degli abissi, dove ha veduto il piede di Dio (un Dio bianco) sul pedale del telaio (he saw God’s foot upon the treadle of the loom), e ne parla vaneggiando, anzi è giunto finalmente a quel pensiero celeste che, per la ragione, è assurdo e delirio e, bene o male, egli si sente ora sicuro (uncompromised), pacificato nell’indifferenza (cap. 93).

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A volte l'oceano è più gentile, come il Pacifico (cap. 111), riversandosi sui pascoli marini e le liquide praterie fino ad abbracciare l’intera terra emersa e a trascinare, nel suo flusso e riflusso, milioni di spiriti e ombre miste, di sogni annegati, sonnambulismi, fantasticherie, quanto chiamiamo vite e anime giace sognando, sognando sempre, rivoltandosi come i dormienti nei loro letti, il mareggiare dell’onda reso eterno dalla loro inquietudine (restlessness). Antica intimità eraclitea, porfiriana e goethiana dell’umido e degli spiriti. Come non riconoscervi il Dio-Tutto, il seductive god, e chinare il capo davanti a Pan? Ma non è che un intervallo nella caccia ossessiva, cui solo la noluntas, la sospensione del volere, darà alfine tregua, quando il grande sudario del mare, the great shroud of the sea, si rinchiuderà sul Pequod nell’epilogo del romanzo. La tessitura della vita coinvolge la morte e le Moire-Parche si dividono i ruoli destinali: filare, ravvolgere sul fuso, recidere. Molte fiabe lo rammentano. Sempre di restlessness trattasi. Nelle poesie di Timoleon (metà anni ’60, edite postume nel 1891), l’esaustione della volontà e l’astinenza gnostica dall’agire – lo sfilarsi dal loom della vita – è esplicito nello scontato espediente del ritrovamento dei Fragments of a Lost Gnostic Poem of the 12th Century: Found a family, build a state, The pledged event is still the same: Matter in end will never abate His ancient brutal claim. Indolence is heaven’s ally here, And energy the child of hell: The Good Man pouring from his pitcher clear But brims the poisoned well.

I profili della volontà non differiscono troppo fra loro e nel fallimento, nella brutale riduzione naturalistica. Se l’energia è figlia degli inferi, l’indolenza è alleata del cielo e ogni benintenzionato contributo di acqua limpida finisce per alimentare un pozzo avvelenato. Le figure dell’astensione traversano altri ambigui personaggi falliti e innocenti di Melville: Billy Bud (un Cristo o Adamo prima della caduta), lo scrivano Bartleby, il vittimizzato Benito Cereno, ultima (1945-1946) e auto-assolutoria maschera di Carl Schmitt.25 25

Secondo alcune dubbie testimonianze raccolte da T.B. Strong, Politics Without Vision: Thinking Without a Banister in the Twentieth Century, University of Chica-

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Acqua

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Da acque più serene a volte Melville contempla con occhio più favorevole la textura del mondo. Il Partenone, malgrado la croce eretta dai cristiani, è trofeo del meglio di Adamo, ha le forme della cortigiana e sacerdotessa corinzia di Afrodite, Lais, e Spinoza si perde a fissare il tempio, colmo di reverenza per l’Archetipo. Spinoza gazes; and in mind Dreams that one architect designed Lais – and you!

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7. Arcipelago Restiamo in quel mare. Kehren die Kraniche wieder zu dir, und suchen zu deinen Ufern wieder die Schiffe den Lauf? umatmen erwünschte Lüfte dir die beruhigte Flut, und Sonnet der Delphin, Aus der Tiefe gelockt, am neuen Lichte den Rücken?

Voli di gru, navi, brezze, flutti e delfini «soleggianti» nel glorioso esordio che Hölderlin dedica al mare della Grecia, che avvolge e unisce i viventi intorno a una ghirlanda di isole, alimentato da fiumi e torrenti, scosso dal fuoco e dai tremori dei vulcani – il vulcanico è regno abissale di Poseidone, rifugio delle potenze ctonie cui spetta il più antico diritto, dionisiaco olocausto del cantore degli elementi aorgici e del popolo indocile, Empedocle. Spazio geografico il Mediterraneo, specchio di bellezza ma in primo luogo essere animato e produttivo di eventi, campo per l’impresa e per l’azione: l’espansione di un impero marittimo, il confronto di Atene con i Persiani, la rovina. Salamina e la rinascita. Ancora vi dimorano i Celesti, all’uomo antichi compagni di gioco, e vi aleggia una promessa: che i tempi remoti e gli dèi della natura possono tornare, vincendo la notte della perdita e della povertà, dell’indigenza del sacro, la dürftige Zeit, rinnovando il grande anno e facen-

go Press, Chicago-London 2012, p. 222 e nn. 11-12, nel suo 50° compleanno (luglio 1938) Schmitt avrebbe già firmato una lettera privata con lo pseudonimo Benito Cereno. La rivendicazione esplicita della situazione (imprigionamento da parte di un crew nazista assatanato e liberazione per opera degli americani) sta però negli interrogatori che portarono alla sua denazificazione, liberamente trascritti in Ex captivitate salus del 1950.

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do sì che in tutto il popolo si diffonda uno spirito comune, und Ein Geist allen gemein sei. Inno più giacobino che heideggeriano. Altre acque. La pioggia,26 grazia del mondo, sovrabbondanza risanante che placa l’arsura e ravviva la terra (Stoccarda, A Diotima, Ritorno in patria), la pioggia che genera e fa scorrere i fiumi, grandi protagonisti del simbolismo epico hölderliniano, i da tutti amati: i familiari Neckar e Meno, la Garonna e il Rodano dei suoi viaggi francesi, i possenti Reno e Danubio (Istro), gli immissari che si gettano nel Mediterraneo, primo l’immenso Nilo, infine il remoto Indo da cui è venuto Dioniso. Acque troppo tumultuose per i gusti di Bachelard, che infatti mai lo cita. Il fiume è soggetto migrante, scaturisce dalle montagne, plasma le valli e i popoli che le abitano, le città che sono suoi figli, riunisce uomini e spazi sino a sfociare nel mare. Simbolo e realtà empirica, traccia che scava rune nella terra, scorrere che si dà una forma sagomando gli ostacoli che ne trattengono la furia. Soprattutto e in primo luogo: veicolo di un andare e tornare, fra Germania e Grecia, fra Europa e Asia, fra cielo e terra, liquido anello fra origine e fine. Irruzione della corrente nel flusso del tempo, come in Heidelberg: in die Fluten der Zeit sich wirft. La via più breve – La voce del popolo – del ritorno nel tutto (ins All zurück die kürzeste Bahn), la brama meravigliosa di inabissare (das wunderbare Sehnen dem Abgrund zu), per risalire al cielo in vapore e di nuovo precipitare in pioggia. Vale per l’acqua dei fiumi e per i popoli, anch’essi affascinati dall’illimitato e dalla morte. Con più dolcezza il Neckar, nell’ode omonima, percorre la valle quasi viandante – romantico e schubertiano Wanderer –, e il poeta, di quella valle nativo, ricorda l’intimità con i luoghi e lo scivolare, sul filo dell’onda, verso la confluenza con il Reno e ben oltre, in greco-germanica alleanza, verso le rive dell’origine, il Mediterraneo con le sponde europea e asiatica, l’arcipelago delle isole. La fedeltà alla patria sveva è tutt’uno con l’origine più profonda (perduta, sommersa) e la destinazione da ritrovare passando per estraniazione e ritorno. Il fiume è via, viandante e l’uomo-migrante che lo segue, ogni anno invertendo il percorso come gru e cicogne. Fra Svevia e Lombardia, nella Migrazione, e oltre, fino alle rive del Mar Nero, dove un tempo si incontrarono le stirpi greche e tedesche, figli del sole e delle foreste che si dettero la mano con amore dopo un diffidente scrutarsi, toccarsi e parlarsi in lingue incomprese. In Alle fonti del Danubio e in Istro la migrazione parte dall’Asia, migrazione di popoli e di dèi (Dioniso e Cri26

Uno dei tratti più suggestivi del primo cerchio acquatico e montano in R. Guardini, Hölderlin. Weltbild und Frommigkeit (1939), Kösel, München 1980. tr. it. Hölderlin. Immagine del mondo e religiosità, Morcelliana, Brescia 1995.

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sto), a ritroso del corso fluviale. Vengono dall’Indo e dall’Alfeo a cercare quanto loro è destinato, con ali che portano da una riva all’altra, come avveniva sopra l’acqua innocente di Patmos. Vogliono dare un limite ‘europeo’ alla sovrabbondanza dionisiaca e non conoscono Schengen e quote nella loro migrazione.27 I fiumi, del resto, non vanno senza ragione nel secco, devono «fare da lingua», unire secco e umido, Sole e Luna, giorno e notte, far sentire al caldo i Celesti fra loro... Lo scorrere riunisce spazi e tempi e miti ed Ercole cerca l’ombra della verde Hertha. Nella chiusa enigmatica la rupe abbisogna di fessure, la terra di solchi per ospitare l’acqua e la vegetazione, ma ciò che fa il fiume nessuno lo sa. Perplesso enigma che si offre, vero bacino d’argento, al trascorrere del pensiero rammemorante heideggeriano, al dimorare dell’uomo nel liquido della lingua, secondo un flusso che va verso il passato e vi ritrova l’a-venire, che risveglia il presagio nel ricordo genuino, definendo il poeta un più-che-futuro (der Zukünftigste), un voyant installato nella tradizione. Non che il mettersi in ascolto dell’origine e il ciclo del riappropriante ritorno a casa via espropriazione nell’estraneo siano marginali nell’io poetante hölderliniano, ma l’operazione di Heidegger recide ogni altra valenza di quel canto fluviale e tende a sostituire con un’interpretazione di successo il pluriverso che vi soggiace. Riducendo a differenze metafisiche, per esempio di heimisch e un-heimisch, il movimento dell’ospitalità che si installa a ritroso sul defluire delle acque. Prezzo al meritorio rifiuto di una rozza lettura nazionalista di Hölderlin è lo svaporamento del contenuto politico e la sua trasvalutazione liricizzante. Vate dell’Essere, non più della Germania, ma pur sempre Vate. Che la suggestione di richiami e appelli emani da un tessuto molto meno semplice, stratificato in cerchie (Guardini), da cui non si può espungere l’elemento storico e dove anzi si riconoscono molti fili rossi di un originario straccio rivoluzionario, appare perfino dalla lirica Ricordo (Andenken), da cui il rettore friburghese assunse la terminologia. Che il pensiero rammemorante, l’An-denken, fluttuando fra origine e destinazione, tolga e dia memoria significa concentrare tutto sull’atto poetico, laddove il testo hölderliniano instaura una complessa dialettica fra la Garonna che sfocia e l'Atlantico che l’accoglie: è il mare che toglie e dà memoria, l’amore affisa assiduo gli occhi, ma ciò che resta fondano i poeti. Il richiamo all’amico assente Bellarmino evoca Iperione e Arcipelago, il Mediterraneo delle 27

M. Heidegger M. (1942), L’inno “Der Ister” di Hölderlin, Mursia, Milano 2003. Cfr. anche La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1999. Testi originali in Gesamtausgabe 12, 1950-1959, Unterwegs zur Sprache, Klett-Cotta, Stuttgart 2007

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lotte greche per l’indipendenza, l’afflato rivoluzionario. Al limite, esso svanisce risolvendosi nella rammemorazione dell’origine e nella sublimazione poetica, ma non dimentica la traccia di fuoco che apriva l’inno all’Istro. Il paesaggio onirico e la volontà di smemorarsi bevendo un bicchiere colmo di oscura luce non cancellano la terribile sorgività pelagica con cui i naviganti osano misurarsi, gli amici ormai tornati all’India dionisiaca. Quel togliere e dare memoria è forse lo smemorare le piccole cose e aver memoria e amore del mondo. Che il poeta conserva, scolorendo la prassi dopo la sconfitta. Allo stesso modo lo zampillante avvio del Reno, dove l’enigma della libertà è pura origine (ein Rätsel ist Reinentsprungenes), si distende poi in un esplicito riferimento al Rousseau estatico e panteista della cullante rêverie sul lago di Bienne, un Eracle a riposo nella mite luce che precede la sera (pur sempre ispiratore dei rivoluzionari e di Bonaparte), concludendosi con la messa in scena dell’amico Sinclair, all’epoca pericoloso ‘terrorista’, cioè filo-giacobino, in uno scenario notturno in cui gli ordinamenti si confondono per generare nuova vita, ma al momento ritorna il groviglio originario, l’uralte Verwirrung (lo gnommero della vita, in lingua gaddiana) che solo un sorridente Sovrano, che Sinclair conosce, potrà forse dipanare. Tanto per inibire o problematizzare una lettura troppo auratica e autenticante. A finale riprova, citiamo l’inno Come il giorno di festa..., che apre il secolo. Che vi si parli in prevalenza del Dichten e del Dichter, come vorrebbe Heidegger, è opinabile. Che i rinfrescanti temporali e i fulmini siano segni degli dèi che il poeta decifra per cenni al popolo, sembra secondario rispetto alla letteralità del loro riferimento alla tempesta rivoluzionaria e alle campagne napoleoniche. La Natura si è destata in clangore di armi dall’alto etere al fondo dell’abisso, seguendo le ferma legge del sacro caos – il «groviglio primordiale» dell’inno al Reno – torna a fremere l’entusiasmo che tutto crea, die allerschaffende Begeisterung. Il fuoco nell’animo del poeta si è acceso davanti ai segni del tempo, alle gesta del secolo e riconosciamo le forze degli dèi in quanti lavoravano i campi in figura di schiavi sorridenti. Oggi i figli della terra bevono senza pericolo fuoco celeste, dionisiaco, e spetta ai poeti, fra le tempeste di Dio, afferrare il fulmine a mani nude (mit eigner Hand) e porgerlo al popolo, avvolto nel canto. Un fulmine puro per un cuore puro. C’è poco da divagare, piuttosto conviene riandare all’innologia fluviale per risalire, contro corrente, al nucleo politico conteso fra politeismo e cristologia, fra empito dionisiaco e mediazione del Crocefisso, fra discordi dispensatori di pane e vino – ormai Cristo, come nella dialettica hegeliana, è stato assunto nel Pantheon.

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Torniamo ora ai fiumi, che sono anche popoli, migrazioni e fusioni di spazi, tempi, modi di vita, moltitudini. Veicoli di soggetti in transito. Leggiamo Erodoto, Storie, IV libro, 110-117. I Greci, dopo la vittoria navale a Termodonte, avevano imprigionato tutte le Amazzoni (Oiorpata – quelle che uccidono i maschi) sopravvissute, che all’improvviso si vendicano dei loro carcerieri, s’impossessano delle navi senza saperle governare (sono nomadi di terra e cavalcatrici, non corsare) e procedono alla deriva finendo per arenarsi sulle coste della palude Meotide, terra dei liberi Sciti. Il primo incontro si svolge nelle modalità della zuffa, perché esse attaccano i locali per catturare dei cavalli. Gli Sciti addirittura non si accorgono di avere a che fare con donne se non quando visionano i cadaveri. Il secondo incontro si verifica quando gli stupiti aggrediti non procedono nello scontro ma inviano un drappello di giovani in pari numero per osservarle ed eventualmente accoppiarsi con esse per averne prole. La storia prende una piega singolare che, per scenario geografico e affinità di comportamenti, anticipa e forse ispira la fusione di stirpi nella hölderliniana Migrazione. L’insinuante tattica (avvicinamento gentile e imitazione dei costumi nomadi, caccia e preda) produce il suo effetto: alcune Amazzoni si allontanano dalla muta per i propri bisogni, si imbattono in singoli Sciti, si intendono a cenni, prendono appuntamenti, portano le amiche e si formano così delle coppie. In seguito – prosegue Erodoto – unirono gli accampamenti e abitarono insieme, ciascuno con la donna a cui si era congiunto la prima volta. Le Amazzoni entrano nella normalità, ma in una normalità anomala. In primo luogo, «i mariti non furono capaci di imparare la lingua delle mogli, ma le mogli compresero il linguaggio dei mariti». Nel linguaggio segreto, generato da un’attitudine e non da scelta settaria, esse istituzionalizzano un’autonoma forma di vita che ripulisce l’antagonismo di ogni traccia cruenta ma tutela la separazione e al contempo la comprensione. Chi conosce le due lingue è più potente, come l’immigrato che si impadronisce del dialetto del distratto ospite, come il Servo hegeliano che scalza il Signore. Le Amazzoni sono in grado di tradurre reciprocamente le due lingue, senza che la loro sia sottoposta all’assimilazione o all’esclusione scita. Che succede poi? Quando riuscirono a capirsi fra loro, in quel modo asimmetrico che si è detto, gli uomini dissero alle Amazzoni: «Noi abbiamo genitori e anche dei beni; smettiamola dunque di condurre questo genere di vita e torniamo a vivere con tutta la gente; come mogli avremo voi e non altre». Ma esse a tale proposta risposero: «Noi non potremmo abitare insieme con le vostre donne: le nostre usanze e le loro sono ben differenti; noi tiriamo con l’arco, scagliamo lance, andiamo a cavallo e non abbiamo

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mai imparato i lavori femminili; invece le vostre donne delle cose che abbiamo detto non ne fanno nessuna: attendono invece ai lavori femminili restando sui carri, a caccia non ci vanno, non si muovono mai. Non potremmo mai andare d’accordo con loro. Perciò se volete tenerci come mogli e mostrarvi giusti, andate dai vostri genitori, prendete la parte dei beni che vi spetta e tornate qui; dopo di ché ce ne vivremo per conto nostro». I giovani si convinsero e agirono così. Quando ebbero ottenuta la parte spettante e furono tornati dalle Amazzoni, le donne dissero ancora: «noi abbiamo paura, anzi terrore, di dover vivere in questo paese, dopo avervi sottratto ai vostri padri e dopo i molti danni arrecati ai vostri territori. Voi ci ritenete degne di esservi mogli, ecco allora come dobbiamo fare, noi e voi insieme: allontaniamoci da questo paese, andiamo ad abitare al di là del Tanai» (il Don). «E anche in questo i giovani obbedirono», constata Erodoto. Si diressero verso nord e si insediarono nella località dove tutt’oggi dimorano. «E da allora le donne dei Sauromati (Sarmati) vivono secondo le antiche abitudini: vanno a caccia a cavallo, assieme ai mariti e anche senza loro, vanno in guerra e sono abbigliate esattamente come i maschi», parlano la stessa lingua degli Sciti, «ma con qualche errore, fin da principio, perché le Amazzoni non l’avevano imparata bene». Permane una traccia del salto di paradigma, una crepa nel linguaggio pubblico che lascia affiorare quello segreto. «Ed ecco cosa è stabilito per le nozze: nessuna fanciulla può sposarsi se non ha prima ucciso un uomo in guerra. Alcune di loro, non riuscendo a soddisfare tale compito, muoiono vecchie senza essersi sposate». Doppia migrazione, dall’Anatolia alle sponde settentrionali del mar Nero, di lì nelle steppe solcate dal Don. Doppia migrazione di due generi diversi, non solo di popoli, che trattengono una distinzione nella fusione, che risalgono il corso del fiume a ritroso, che vanno controcorrente nello stile di vita e di socialità. Il fiume «fa lingua», ma non in senso heideggeriano. Sulla storia singolare delle Amazzoni torneremo, dopo questa parentesi d’acqua, marina e fluviale, quando parleremo della Terra, che esse solcano senza mettere radici, cifra nomadica ed eterolinguale28 refrattaria a ogni nomos. P.S. I Sarmati vivranno altre migrazioni. All’epoca di Marco Aurelio migliaia di cavalieri saranno arruolati nell’esercito romano e trasferiti in Bri28

L’approccio eterolinguale nella traduzione (cfr. «Traces» 4: Translation, Biopolitics, Colonial Difference, a cura di N. Sakai e J. Solomon, 2006, pp. 8-9) è affine al divenire-minore di una lingua in Deleuze.

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tannia, nella VI legione Victrix. Alto-medievali e poi troppo mediatizzate cronache li associano al leggendario re Artù e ai Cavalieri della Tavola Rotonda, insomma a tutto il ciclo bretone. Ultimo retaggio amazzonico sarebbe l’invenzione dell’amor cortese. Vedi che succede a migrare.

L’acqua, immagine del divenire, è luogo diffusivo, del disperdersi di Dio nel mondo, dello scomporsi e ricomporsi dei popoli nelle migrazioni, tessitura infinita e orizzontale di lingue ed eventi. Origine della vita mescolata con la terra, come l’abissale Apsû e Tiamat nel poema mesopotamico Enûma Elis o Oceano e Teti in Omero, prima che una teologia creazionista ci mettesse le mani. Ma anche spazio liscio dove si intersecano supremazia imperiale e pirateria, tratta di schiavi e insorgenza atlantica, caccia predatoria e guerra senza vincoli. Acqua dolce e salata, vivificante e mortifera, lustrale e diluviale, materna e freddo-umida, cullante e tempestosa, secondo una dialettica degli opposti. Spinoza e Melville la pongono al centro di una cosmogonia del moderno, di un gioco allegorico di onde e di pesci. Essa, come scrive Leonardo, codice Arundel, f. 210r, «niente ha da sé, ma tutto move e piglia».

I segni d’acqua o trigono d’acqua (Cancro, Scorpione, Pesci), hanno in comune capacità empatiche, fantasia, senso materno, intensità sentimentale, profondità di pensiero, spirito di sacrificio e altruismo. La loro sessualità è intima, sensuale e romantica. Segni negativi, femminili, yin (per introspezione e insicurezza) e caldi (passionali ed emotivi). Materni e altruisti, molto socievoli, a volte introversi, un filo possessivi.

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TERRA Terra quidem vero caret omni tempore sensu. Lucrezio, De rerum natura, I 652

There is no land but the land.

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Patti Smith, Horses, 1975

A chi appartiene la terra? In usufrutto alla generazione dei viventi! I suppose to be self evident, that the earth belongs in usufruct to the living, that the dead have neither powers no rights over it – scrive Thomas Jefferson a James Madison, in data e luogo epocale: Parigi, 6 settembre 1789. Bel colpo di letteratura, come sarà due secoli dopo l’invito ad amare, because the night belongs to lovers... Seguono ottime proposte, ancor oggi raccomandabili: che nessuna generazione possa contrarre debiti da scaricare sulle successive, dato che ciascuna generazione, per legge di natura, è rispetto alle altre come una nazione indipendente. Che, per le stesse ragioni, nessuna società possa pretendere di darsi una costituzione o una legge perpetua. La terra appartiene sempre alla generazione vivente, che l’amministra a piacere, senza essere vincolata da regole precedenti che non obbligano che i predecessori. Addirittura, ogni costituzione e legge spira naturalmente dopo 19 anni. Se trascinata più a lungo, it is an act of force and not of right. Ritirare gli yogurt scaduti dagli scaffali. Beninteso, l’implementazione di siffatti asserti resta problematica. La villa palladiana di Monticello alla morte del suo ideatore passa ai figli – tiriamo a indovinare se ai bianchi legittimi o ai mulatti nati dalla sua convivente nera –, mentre la cancellazione degli antichi possessi, per di più non regolamentati in base a princìpi di proprietà privata, e il loro trasferimento a una più gagliarda generazione baciata in fronte dal Manifest Destiny tocca inesorabilmente a nativi e latinos. Un’altra frase della lettera compone infatti la legge della Frontiera: if the society has formed no rules for the appropriation of its lands in severalty, it will be taken by the first occupants. Quanto all’intrasmissibilità del debito la cosa non sembra riguardare chi nasce schiavo da schiavi.

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Teologia dei quattro elementi

E nondimeno, fra contraddizioni e bagliori neo-imperiali, abbiamo qui una terra che non ci tira giù a radicarci, a dividere, a normare rigidamente, tanto meno una metafora della materia che imprigiona lo spirito.

1. L’antro delle ninfe

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Commentando Odissea, XIII 103-104 («un antro ameno, tenebroso, sacro alle Ninfe che si chiamano Naiadi»), Porfirio scrive, con schubertiana prolissità: Dunque, gli antichi consacravano convenientemente gli antri e le caverne al mondo, considerato sia nella sua sia nelle sue parti, attribuendo alla terra il simbolo della materia di cui il mondo è composto; perciò taluni ne inferivano pure che la terra fosse materia, e che gli antri significassero che il mondo viene dalla materia. Poiché generalmente gli antri hanno formazione spontanea e sono congeniti alla terra; racchiusi in una roccia uniforme, concavi all’interno, si spingono all’esterno verso l’indefinito spazio della terra. Il mondo generatosi e cresciutosi da sé è affine alla materia, che sasso e pietra chiamavano metaforicamente, perché grezza e resistente all’impronta della forma, e ritenevano (inoltre) per la sua mancanza di forma infinita. Ed essendo fluida e priva in sé della determinazione formale (toû eidous), per la quale si plasma e si manifesta, prendevano come cosa conveniente l’umido stillante degli antri e l’oscuro e, come dice il poeta, tenebroso, a simbolo di ciò che è nel mondo per la materia. Da una parte dunque, il mondo a causa della materia, è tenebroso e oscuro, dall’altra, per il congiungimento della forma (alla materia) e l’ordinamento dal quale trae anche il nome di ornamento, è bello e amabile. Donde con proprietà si poté chiamarlo antro: ameno, per colui che lo consegue rettamente per partecipazione delle forme; tenebroso per colui che cerchi di scrutarne e penetrarne con la mente l’infimo fondamento. Cosicché le cose che si trovano fuori, alla superficie, sono amabili, mentre quelle che sono all’interno, in profondità, tenebrose. [...] Coloro che si occupano delle cose divine (hoi theológoi) non solo facevano dell’antro un simbolo del mondo sensibile, ma lo assumevano anche a simbolo di tutte le invisibili potenze, per il fatto che gli antri sono oscuri: così non appare la sostanzialità delle potenze. [...] In effetti gli antri erano considerati simbolo del mondo sensibile, per il fatto che sono oscuri, petrosi, umidi; e tale è il mondo, resistente (alla determinazione) e fluido (antítupon kaì reustón), a causa della materia di cui è costituito.

Se il soffio pesante e umido delle anime cadute nei corpi tende a ritirarsi nei recessi della terra e solo staccandosi dalla natura diventa fulgore secco (sentenza 37), diversamente va nell’abisso luminoso. Nel frammento 8 dello scritto porfiriano Sui simulacri, compare Afrodite che «si copre i seni e il ses-

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Terra

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so, perché questa forza è causa di procreazione e di nutrimento. Viene dal mare, elemento umido e caldo, che si muove in tutti i sensi provocando schiuma (afrós), con allusione al potere seminale». Nell’inno ad Afrodite la schiuma da cui nasce la dea è lo sperma dell’organo reciso di Urano, quando il figlio Crono-Saturno, su istigazione della madre decise di staccare l’amplesso notturno di cielo e terra (Urano e Gea) e liberare il mondo. Della calda umidità in cui il fuoco si congiunge con l’acqua, aveva scritto Bachelard. L’Antro, comunque, è testo ambiguo, lo constatiamo subito dopo nel richiamo (tramite Numenio) al testo della Genesi, allo Spirito che aleggia sopra le acque. Ambiguo quanto il neoplatonismo nei confronti del concorrente cristianesimo, che Porfirio emula e condanna, cercando di conciliare l’unità del principio sovrasensibile e l’inferiorità della materia con un approccio non creazionistico e non bacchettone. La stessa insistenza sugli specialisti di cose divine, i theológoi, oscilla fra accezioni discordanti del termine. Questo era stato infatti coniato da Platone (Repubblica, II, 379a), precedente per Agostino, e realizzato metafisicamente nella seconda navigazione del Fedone. Gli orientamenti medioplatonici, a partire da Plutarco, e più risolutamente il neoplatonismo di Plotino collocano l’Uno e la scienza ‘teologica’ di esso al di sopra dell’Essere, in contrasto tanto con la filosofia prima aristotelica quanto con il monismo stoico. L’Antro porfiriano non riesce a difendere il politeismo che come allegoria del monoteismo e resta esemplare per osservare la transizione al platonismo cristiano di Agostino pur trattenendo una traccia di alternativa, il bagliore di un più mite approccio al mondo. Lucore ormai crepuscolare, come nella campagna restaurativa di Giuliano. Eppure capace di infettare dottrina e organizzazione cristiana, incuneando virus pagani di teologia negativa, l’informe-inesauribile della materia tenebrosa, al capo opposto l’Uno abbagliante l’al di qua dell’Essere, l’Uno ineffabile, che a rigore non è, essendo causa emanativa dell’essere. Proiettiamo tutto ciò in avanti fino ad Agostino, dove la riluttante ricettività della materia alla forma è letta – lo vedremo fra poco – secondo il paradigma della creazione, in una versione monoteista dell’increata chora platonica su cui si affaccenda il Demiurgo. L’indifferenziato-creato, prodotto ex nihilo dal Dio trascendente, è in quanto tale ordinabile per tropi gerarchici: la subordinazione, nella creatura, della materia allo spirito, della donna all’uomo.1 Un buon compromesso fra trascendenza indicibile e organizzazione dogmatica ed ecclesiale. Complice assistenza fra Civitas 1

Confessiones, XIII 32. Agostino saccheggia e in parte rovescia gli autori pagani di cui qui si discute: Numenio, Porfirio, Plotino nella traduzione e reinterpretazione di Mario Vittorino.

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Dei e Impero, fra invisibile e visibile. Donatisti e Circumcellioni se ne accorsero subito. I secondi erano il braccio armato dell’eresia, berberi quali Agostino, militanti accaniti («agonistici»), con il brutto vizio di aggirarsi intorno alle cellae, ai magazzini di derrate alimentari adiacenti alle chiese ufficiali. Il vescovo di Ippona ricorse alle truppe imperiali per fermare i saccheggi e la negazione della validità dei sacramenti amministrati da sacerdoti indegni. Eccellente coincidenza: salvare allo stesso tempo il principio della rappresentazione dall’alto e la proprietà agraria. Proiettiamoci ora all’indietro, prima ancora che i quattro elementi si differenzino, verso chora (Derrida ci proibisce l’articolo determinativo), l’ápeiron che va formato imponendo un limite, come farà il Demiurgo-padre mediante gli eide e le matrici geometriche triangolari.2 Nel platonico Timeo3 egli produce il kosmos (o meglio, lo organizza per cause formali e usando gli elementi quali cause materiali) passando per specifiche proporzioni fra fuoco: aria e acqua: terra. Dove aria e acqua fanno da medio nella proporzione, il fuoco assicura la visibilità, la terra la tangibilità; tutti e quattro gli elementi sono costituiti da solidi a varia base triangolare. Unico e animato è il mondo, misto di Medesimo (tautón), Diverso (tháteron) ed essenza connettiva (meignùs de metà tês ousías), perché il Demiurgo si ispira nel generarlo all’Uno vivente prototipo. Tempo, movimento e pluralità sono imitazioni eterne ex post dell’eterno, mediate da una sintassi numerica – lo stesso vale per la mescolanza dell’anima e per la gerarchia delle facoltà e dei sessi.4 Divinità olimpiche e specie mortali sono dissolubili da chi le ha composte e legate, ma funzionando bene non saranno disciolte e saranno quasi incorruttibili. Finora abbiamo visto due generi: il paradigma intelligibile e la copia, il misto (meichthén) sensibile che un’entità, indefinibile se non mediante un mito verosimile, ha assemblato, ora ne compare un terzo, chora,5 ricettacolo (dechómenon o hupodoché) materno incorruttibile, luogo informe in quanto illimitato e dunque inaccessibile ai sensi e alla conoscenza in senso proprio – se ne può solo intuire la necessità indiretta, con ragionamento «bastardo» (logismôi tinì nothoi), quasi onirico –, che riceve le immagini (paterne) delle realtà eterne custodendo la realtà filiale in divenire. Spazio 2 3 4 5

Secondo la scuola di Tübingen, Findlay e Reale, chora è il sostrato geometrico strutturale dei corpi fisici generato dalla persuasione demiurgica secondo misura della materia informe. Timeo, 27e sgg., 30a-c, 31b-32c, 37d-38c, 40-42. Il dominante appetito sessuale maschile e il corpo isterico passivo della donna sono descritti ivi, 91b 6 sgg. Ivi, 49-53.

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e materia prima in caotico tumulto. Nello schema alfine trinitario, la molle, amorfa chora unisce in fluida trasmutazione reciproca i quattro elementi, l’instancabile circolazione del «questo» e del «quello», di «impronte» che recepisce e garantisce proprio in quanto priva di forma, lascia muovere in quanto immobile. «Nutrice e balia (tithene) dell’universo»,6 la chiama in una sorprendente ripresa in cui la condizione di chora è estesa al microcosmo-corpo, la cui salute è garantita se esso non resta in riposo ma è sollecitato di continuo da qualche scossa di giusta misura (metríos seion), che riorganizza per affinità le parti, avvicinando quelle amiche e sparigliando le nemiche. Moti che nascano dall’interno, non spintoni bruschi da fuori: in primo luogo, frequentare la palestra, in secondo il dondolio delle navi e dei carri, ginnastica attiva e passiva. In parallelo si consiglia la contemplazione che sincronizza lo spirito al ritmo dell’universo, alle armonie cosmiche cui si è ispirato il Demiurgo per mimesi. Chora rientra in un terzo genere chiasmatico di argomentazione dissimile da quelli filosofico e sensibile-immaginativo, non significativo secondo gli standard usuali in quanto differisce dall’essere e dal divenire: struttura aporetica e anacronizzante soggetto e oggetto, è accoglienza delle immagini ma irriducibile a immagini. Tutto quanto serve a esercitare fascino in ambito decostruttivo sia linguistico che di gender studies, dalla chora semiotica di J. Kristeva alla scena isterico-trascendentale di L. Irigaray. L’eccedenza di chora su logos e sesso può valere in alternativa al fallo-logocentrismo o almeno quale dichiarata refrattarietà a un progetto di sottomissione che spera di servirsi di un ragionamento bastardo per riuscirci. Ma chora invade la corporeità ed entrambe non sono unilateralmente sessuate, costituendosi piuttosto in spazio-matrice esente da definibilità7 a surrogato dell’inammissibile vuoto o della regressione all’infinito. Analogo ruolo svolgerà in Aristotele la materia prima e in Averroè l’intelletto potenziale unico. Agostino cerca di sbarazzarsi dell’ambigua missio demiurgica e dal sospetto di doppia creazione o eternità del mondo: in una teologia creazionista atto creativo e ordinativo coincidono e vanno tenuti distinti da un’economia trinitaria. In tale prospettiva chora è ridotta a materia creata spartita in cielo e terra. La Terra non è più soltanto quella a matrice geometrica cubica, uniforme, salda e plasmabile, luogo naturale cui tendono le masse 6 7

Ivi, 88d 7-8. A meno di non assegnare alla donna il ruolo di non-numerabile, non-formalizzabile, refrattario al principio di identità, come in Irigaray, cit., pp. 211-214, riservando a un genere quanto per Rancière contrassegna l’oppresso fuori-di-conto.

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corporee, ma esprime in allegoria l’invisibile-confuso creato dal nulla, ordinabile e ordinato quanto il cielo rende l’elemento superiore, spirituale, dunque corpo e anima.8 Porfirio, aveva aperto la strada, in termini di emanazione non di creazione, moltiplicando l’appeal allegorico dei simulacri divini, gli agálmata, con la perfida imputazione ai letteralisti di non vedere nel libro che fibre di papiro. Nel ricorso al mito neoplatonici e cristiani confluiscono. I primi (e gli gnostici) difendono il mito e una teologia pagana reinterpretata mistericamente per rendere accessibile l’emanatismo, i secondi usano quel materiale in modo figurale: cioè anticipatorio di una vita superiore, sviluppo di un approccio rozzo per difetto di rivelazione. Entrambi abbozzano una teologia politica adattando i loro schemi alle esigenze della contesa per il primato. L’ateo Giuliano è costretto, a denti stretti, a scindere il suo agnosticismo rispetto all’Olimpo, al Golgota e alla teurgia neoplatonica dalla pretesa di sorreggere il progetto romano imperiale con la fede negli antichi dèi e l’inganno verosimile.9 Il tentativo di resuscitare una theologia civilis politeista fallisce non solo per estrinseci rapporti di forza, ma perché incoerente con la filosofia privata del promotore, per l’insuperabile difficoltà di conferire alle vecchie divinità un contenuto ‘moderno’ e divulgabile al popolo. Hegel e Nietzsche – cui volentieri Kojève lo accostava – sono pensabili soltanto dopo l’esperienza cristiana, dopo Paolo e Agostino, non direttamente contro di loro. Un politeismo moderno ‘cita’ l’Olimpo perché, ormai, ne dista. Giuliano diffidava di Dioniso quanto di Cristo, troppo cari agli schiavi, e perfino

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Confessiones, XII 17. Cielo e terra designano la materia informe e plasmabile che non è tratta dalla sostanza di Dio, ma dal nulla. Questa è la mossa decisiva. L’altra, che la terra invisibile e confusa (incomposita) indichi la materia corporea anteriore alla determinazione formale (materies corporalis ante qualitatem formae), creazione visibile, mentre le tenebre sopra l’abisso, creazione invisibile, allude alla materia spirituale di spropositata fluidità anteriore all’illuminazione da parte della Sapienza, spiritalis materies ante cohibitionem quasi fluentis immoderationis et ante illuminationem Sapientiae. Nel libro XIII chora rispunta obliqua come terzo membro sopravveniente della Trinità, lo spirito-sopra-le-acque. Seguiamo la lettura ‘sintomale’ di A. Kojève, L’imperatore Giuliano e l’arte della scrittura (1964), in Il silenzio della tirannide, Adelphi, Milano 2004, pp. 71-99, secondo cui egli camufferebbe il proprio ateismo e lo scetticismo nei confronti della mistica di Giamblico per meglio contrastare i cristiani e tutelare una religione civile agli occhi delle masse incolte. Ai suoi occhi, la teologia è una sezione della retorica, che trova clausole plausibili per contenuti contraddittori e serve a fini edificanti sul piano etico e del pubblico consenso.

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Nietzsche farà confusione fra Dioniso e il Crocefisso. Un’etologia spinoziana è possibile solo nell’intervallo fra morale cristiana e suo rilancio kantiano, quale alternativa a entrambe. Una prassi moltitudinaria spinoziana prende le distanze dai due interscambiabili simboli del potere laico inalberati sugli stendardi di Giuliano e di Hobbes: il Drago e il Leviatano. Emblemi bestiali dell’Uno.

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2. Nékuia Il Timeo si avvia con un riassunto della Repubblica. Oddio, più che riassunto è una rivisitazione che attenua certi tratti di quella visione politica. Per esempio, si ammette il trucco del sorteggio nell’accoppiamento dei matrimoni e nell’allevamento selettivo per classi (18d-19a). Poi Crizia racconta la prima parte della leggenda di Atlantide (che completerà nel dialogo a lui intitolato), infine Socrate esce di scena facendosi ricettacolo al pari di chora. Da 27e in poi si ridefinisce la polarità di essere e divenire, si introduce il Demiurgo come imitatore che si volge alle idee perfette della sfera dell’essere per generarne imperfette copie nel divenire del sensibile, dichiarando al contempo l’impossibilità di individuare razionalmente tale soggetto, dato che, seppure lo si trovasse, sarebbe impossibile manifestarlo: rivincita di Gorgia! Identica difficoltà sorge per chora, inquadrabile solo con quel ragionamento bastardo. Qui si corregge (sempre utilizzando clausole mitico-narrative) il miraggio conoscitivo maieutico della caverna: la possibilità per il filosofo di uscire dal sottosuolo, cogliere per gradi la realtà, alzare gli occhi al Sole-Bene e infine tornare a suo rischio e pericolo dai compagni prigionieri e illuminarli. La caverna, dove sono imprigionati i corpi, era il rovescio della situazione ipotizzata nella nékuia dell’XI libro dell’Odissea, dove le anime si annoiano nell’Ade e rimpiangono i corpi rimasti sulla luminosa terra: meglio servire da vivi e arare la terra che regnare sulle ombre... Nel Timeo le cose si fanno più complesse, almeno per la possibilità di circoscrivere con precisione struttura ontologica e procedure conoscitive nel cosmo sensibile intermedio fra archetipo e chora. Resta l’invito fotologico a volgere lo sguardo all’iperuranio: periagogé, metastrofé, che nel monoteista Agostino suonerà più a noi familiare conversio. I teologi negativi saranno più drastici: è una torsione all’origine ineffabile, un ‘ritorno’, epistrofé, reditus. Un volgersi del pari costrittivo, sia che si fissi incatenati il fondo della caverna, sia che con movimento inverso si venga trascinati a orientare uno sguardo frontale al fuoco, poi alle cose vere fuori della caver-

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na (prima riflesse poi dirette), infine al sole, con le regolazioni diaframmatiche indispensabili per l’eliotropismo. Il capovolgersi del bambino nell’utero prima di uscire alla luce, come segnala Irigaray nella plausibile equivalenza di spélaion e hustéra e della sortita da entrambi per un stretto collo. Il discorso permane aporetico e si riproduce con singolare somiglianza in quel campo della teologia politica che nasce con le religioni creazioniste e monoteiste, non senza agganci con la tradizione platonica e neoplatonica e con il Timeo. Sintomatico è lo sviluppo della materia prima desunta dal Timeo in Plotino, in Enneadi III, 6, 7-12. Egli vi sostiene che essa, in quanto sostrato (hupokeimene) dei corpi, è un non-essere (mè eînai), impassibile (apathés), incorporeo (asómatos), illimitato e neppure dúnamis, dato che non produce spontaneamente, piuttosto è fantasma della massa corporea, riflesso onirico da specchio, acqua, sogno. Incorruttibile, però, in quanto specchio che non patisce alterazione reale, per semplicità e assenza in sé di contrari. Il ricettacolo non trattiene tracce dell’impresso, altrimenti diventerebbe materia qualificata (poià hule) e corruttibile per composizione. Nel Timeo Platone cercava di escogitare un modello di partecipazione impassibile (apathoûs metalépseos) per spiegare la complessa interazione fra Idee, Demiurgo e chora, salvaguardando l’inesauribile ricettività di quest’ultima – è il trucco del già citato ragionamento bastardo o del ricorso retorico all’omonimia, della quasi alterazione di una non-grandezza o altrimenti della commistione del non-essere con l’essere, del divenire di qualcosa anteriore al divenire. Nell’essere luogo informe e immateriale delle forme, la materia prima è simile all’anima (e in specifico all’intelletto potenziale) e infatti vi riscontreremo le stesse antinomie, secondo la noetica aristotelica e degli interpreti posteriori. Balia o madre, senza nulla generare, perché il merito della generazione spetta alla ragione intelligibile (noetòs logos), essendo la materia solo in parte femminile: riceve ma non procrea. Da bravo allievo, Porfirio evocherà una sarabanda di anime negli antri stillanti... L’assunto della trascendenza, l’ipostasi di un dator formarum (per usare le parole che i traduttori latini di Avicenna adottano per wâhib al suwar), produce un’inseparabile aporia nella definizione della ricettività o, per allargarci, in tutto quanto sta al di sotto dell’attività ‘superiore’, il bacino di deflusso della rappresentazione sovrana, la variante costituzionale della Legge del Padre. Infatti in Schmitt, nella cui opera matura il nomos sulla Terra poggia e lavora, ritroviamo le medesime difficoltà nel rapporto idearealtà in materia di rappresentazione, dunque l’inflessione mitopoietica della teologia politica, sebbene il grande giurista a un certo punto la lasci sullo sfondo: è pur sempre piccola e brutta e in aggiunta si è fidanzata con

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il farneticante imbianchino. La presenza dell’assenza nella rappresentazione era il nucleo forte e aporetico del concetto. La trascendenza originaria si mantiene nella (presunta) secolarizzazione, stante che il politico non si risolve mai in semplice dato empirico. La natura ideale e non reale dell’unità politica del popolo, che giustifica la rappresentazione laica, lascia pertanto spazio alla negoziazione dell’agire e vi colloca a puntino la decisione cairologica, che irrompe nell’occasione. L’impossibilità di definirla logicamente (e forse la benjaminiana impossibilità di decidere, il vero stigma del sovrano) indica una difficoltà del piano mondano di restare immanente e che il trascendente vi si insedia da ospite estraneo e a volte sgradito. La decisione cerca di colmare quella distanza, logicamente irriducibile, di fondarsi su un’idea che non riesce a divenire norma.10 Del decidere occorre trattare, al modo di chora nel Timeo, con ragionamento bastardo, sul piano wittgensteiniano del «mostrare» non del «dire». Di una partecipazione impassibile, avrebbero detto i neoplatonici. Si potrebbe del pari asserire che il discorso del mistico (ciò cui si addice il mutismo, il restare segreto, múein) – prima ancora che al «che» e al «come» del mondo – attiene all’enigma dello Stato, di cui i burocrati o classe generale sono per Hegel i servitori e per Marx i teologi e i gesuiti (1843) e infine die bürokratisch-militärische Maschinerie che la Comune parigina ha infranto nel 1871. L’imprinting hegeliano di Terra e mare e del Nomos della terra risulta del resto evidente. Il nesso fra terra e sovranità vi è dicibile e detto, la contraddizione mostrabile.

3. Dove volteggia l’uccello Ziz Ecco, come vi si arriva? Le tappe schmittiane sono note: §§ 247-248 degli hegeliani Lineamenti di filosofia del diritto, citati in Terra e mare del 1942, e poi Il nomos della terra del 1950. Come si dispiega il testodi Hegel? Egli comincia cautamente (§§ 237-242 e aggiunta Gans 148 al § 240) a trattare della povertà, esito inevitabile dell’accidentalità imperante nella società civile per effetto della sfortuna o dell’avversione al lavoro, un male cui la carità del cuore individuale e la pubblica assistenza possono portare parziale soccorso. Si è però venuta formando nella moderna società industriale (Hegel attinge agli economisti inglesi) una plebe (Pöbel) che non è la nuda povertà, Armut, sempre esistita, piuttosto deriva dalla disoccupazione tecnologica, essendo interna allo stesso sviluppo delle forze produt10

G. Duso, Carl Schmitt, teologia politica, cit., § 5.

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tive e della meccanizzazione. La soggettività scaturita dall’Anerkennung si destruttura ai margini, dove la plebe, irrappresentabile nell’ordine degli Stände, è cattiva infinità nel Sistema dei bisogni e il Notrecht (il diritto spettante al bisogno estremo) infrange il principio di proprietà e suscita un atteggiamento sovversivo, determinato dalla congiunzione di povertà e «ribellione interna contro i ricchi» (aggiunta Gans 149 al § 244). Con l’equilibrio della mano invisibile (momento della crisi) salta la mediazione costituzionale e forse l’abituale ricorrenza della sintesi. La plebe fa irrompere nella razionalità cetuale il punto di vista del negativo astratto, una miseria che non è naturale ma un «torto» dissonante. Essa assomiglia, nel mutismo coloniale che accomuna l’indigeno allo sventurato e al subalterno, alla moltitudine inorganica, amorfa (die Menge) che si contrappone con indomabile irrazionalità allo Stato rischiando di mandarlo in rovina, secondo la scissione hobbesiana di populus e multitudo (§§ 302 e 303, con relative glosse Lasson), solo che esplode dall’interno dello Stato etico, non ne è l’alternativa isolata per esorcismo alla sua origine. Più realista di Hobbes, Hegel vede rispuntare le teste dell’idra, che si credeva domata una volta per tutte. Non ci confrontiamo più con i lazzaroni, ma con gli esiti del decadere di una grande massa al di sotto della soglia minima di sussistenza – reddito, dignità e impieghi – a contropartita del lusso e della concentrazione in poche mani della ricchezza. La plebe non può essere soccorsa mediante una redistribuzione fiscale o una politica di piena occupazione, che incepperebbero i meccanismi di mercato avviando un vortice di sovraproduzione e sottoconsumo, così da manifestare che nella sovrabbondanza della ricchezza la società civile non è ricca abbastanza. L’unica soluzione consiste nello spostare tale eccedenza in colonie di popolamento oltremare. In tale dialettica, § 246, la bürgerliche Gesellschaft, la società civile borghese (cada l’accento sul secondo aggettivo) «viene sospinta al di là di sé per cercare fuori di sé dei consumatori e quindi per trovare i mezzi necessari alla propria sussistenza in altri popoli che sono o arretrati nei mezzi di cui essa ha eccedenza oppure, in generale, meno industriosi», sottosviluppati, insomma, ancor più sfigati della plebe. A questo punto, § 247, si innesta un nuovo circolo virtuoso terra-mareterra che tenga dentro la statualità escludendo l’emorragica emigrazione individuale. Come per il principio della vita familiare, è condizione la terra, fondo e terreno stabile (fester Grund und Boden), così per l’industria l’elemento naturale, che la anima dall’esterno, è il mare. Nella brama del guadagno, esponendo al

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pericolo il guadagno stesso, essa gli si eleva al di sopra e soppianta il radicarsi nella zolla e nella cerchia limitata della vita civile, i suoi godimenti e desideri con l’elemento della fluidità, del pericolo e della perdizione.

Grazie a quel superiore mezzo di collegamento che è il mare (che scinde le terre ma unisce gli uomini, secondo la definizione delle Lezioni di filosofia della storia del 1822-1823), l’industria ingloba le terre lontane nel traffico commerciale e nel rapporto giuridico contrattuale, rinvenendovi il più grande mezzo di civilizzazione e attribuendo al commercio una prospettiva welthistorische. La colonizzazione operata dalla società civilizzata di cui sopra procura alla plebe eccedente «il ritorno al principio familiare in un nuovo territorio» e a se stessa «un nuovo bisogno e un [nuovo] campo per la propria intraprendenza laboriosa» (§ 248). Con l’ovvio rischio di scatenare una nuova cattiva infinità nei conflitti fra le nazioni per la supremazia coloniale o, peggio, propagando la ribellione estirpata in patria negli spazi atlantici, quando schiavi fuggitivi, condannati politici e per debiti, esuli settari e pirati diedero vita nel Seicento a indirizzi alternativi allo Stato assoluto e all’accumulazione del capitale. In Hegel terra e mare sono connotati storicamente, all’incrocio fra Restaurazione e rilancio delle colonie di popolamento; non si perde in mitologemi perché sta nella schiera dei vincitori. Fra i vincitori, fra quanti hanno imparato da vinti a convertirsi in vincitori, dai successi napoleonici a riformarsi e a sconfiggere Napoleone, sta Clausewitz, l’allievo devoto di G. von Scharnhorst, che identifica con gesto fulmineo il passaggio dalle guerre dinastiche a quelle rivoluzionarie: Gli eserciti permanenti di un tempo somigliavano alle flotte, le forze di terra erano, nei loro rapporti con il resto dello Stato, simili alle forze marittime: e perciò l’arte militare terrestre aveva un certo sapore di tattica navale, che oggi ha interamente perduto (libro III, 17).

La leva in massa radica nel territorio e abbandona il primato delle manovre alle guerra marittima, per unità discrete.11 L’esercito a base popolare e l’uso dei partigiani creano la dimensione ‘tellurica’, la priorità della difesa attiva, la propensione alla battaglia di annientamento, cioè alla decisione. L’entusiasmo patriottico della flessibile Landwehr e l’entrata in scena del popolo in armi configurano una nuova potenza, del popolo e della guerra (libro VI, 26), che perviene con Bonaparte (ma già in Alessandro) alla sua 11

Il carro armato, già alla fine della I guerra mondiale, reintroduce lo spazio liscio della tattica navale in quello striato della guerra di posizione per trincee.

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forma assoluta (libro VIII, 2), in cui si fondono entusiasmo del governo e dei cittadini, sulla falsariga della mobilitazione rivoluzionaria francese che fa saltare il gioco anemico di stati maggiori e gabinetti (ivi, III b). Un ritorno vittorioso a terra e popolo, che ripropone l’antinomia machiavelliana fra milizie e mercenari, con le flotte nazionali nel ruolo dei secondi, pur se Clausewitz tende a coordinare e subordinare il movimento reticolare, mai troppo concentrato, degli insorgenti a quello dell’esercito professionale di nuovo tipo, privilegiando la fase della ritirata all’interno – Spagna 18081812 e Russia 1812. Un po’ diversamente va con Schmitt, che se ne sta docile e quasi segregato (alla Benito Cereno, sostiene) nella Berlino nazista sotto le prime bombe inglesi nel 1942, scrutando in cielo l’ostile apparizione della terza figura apocalittica, l’uccello Ziz o Bar-Juchne – i Mosquito e i Lancaster di sir Arthur Harris. Non è un vinto, come sarà nel 1950, ma insomma. Sa di venire da quel paragrafo 247 hegeliano e che esso si riannoda ai precedenti 243-246, ma si dedica deliberatamente all’interpretazione gnostico-cabalistica del 247, lasciando al marxismo il compito di occuparsi degli altri. Coglie al volo il rapporto con il colonialismo, ma lo trasfigura nel gioco cosmico dei quattro elementi. La guerra tedesca nell’oceano sta già fallendo e la cosa ha lo stesso effetto che sul più tardo amico suo Heidegger avrà Stalingrado. «L’uomo è un essere terrestre, un essere che calca la terra» – l’esordio di Terra e mare. Un dato naturale, elementare, di determinazione del destino cui la civiltà potamica, talassica e oceanica e più tardi la vocazione aerea si sovrappongono con sfumatura degenerativa. La storia del mondo è guerra fra la possente balena Leviathan e un animale terrestre altrettanto forte, Behemot (l’uccello Ziz arriverà più tardi, malaugurante). Lo dicono i cabalisti, detentori dei segreti cosmici. La potenza marittima è anche una forza frenante e infatti ricompare il katechon. È il momento dell’espansione, dell’avventura (almeno fin quando resta rischio umano, non meccanizzandosi) e qui cadono i grandi capitoli sulla caccia alla balena (intrisi di Melville), sull’elogio dei corsari patentati (non degli anarchici pirati), sul ruolo oceanico dei calvinisti e angustamente terragno dei luterani. Ora, a differenza dallo scritto del 1923, il legame del Dio cattolico con la terra sembra sfumare e riemerge la lezione weberiana sul nesso calvinista fra predestinazione e predisposizione a una rivoluzione spaziale contro l’interramento cattolico-luterano che tarpa le ali all’Europa continentale. L’assai lodata anomalia olandese e baleniera sembra un contorto e melvilliano riconoscimento della vittoria di Spinoza.

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La fascinosa descrizione torna al fondamento giuridico soggiacente e in tensione con l’ebbrezza gnostica secondo un paradigma di ragionamento sghembo, adulterino o bastardo: ogni ordinamento fondamentale è spaziale, un nomos, che spartisce la terra o presiede alla sua conquista, anche se subito alla Landnahme succede la Seenahme, alla conquista della terra si affianca quella del mare, secondo la regola del primo occupante.12 Le scoperte equivalgono a conquiste di nuove terre e ben presto esplode la contesa fra scopritori-occupanti europei per il dominio degli oceani e delle colonie. Mentre la guerra terrestre è rapporto fra Stati, distruzione reciproca che non investe la popolazione civile, sin dall’inizio la guerra marittima mira a colpire commercio ed economia del nemico senza riconoscere neutrali. Se la battaglia campale decisiva qualifica la guerra terrestre, quella marittima conosce, certo, il duello navale, ma predilige il blocco delle coste e il diritto illimitato di preda, cioè investe i non-combattenti, inclina alla guerra totale e al nemico assoluto, soprattutto dal momento in cui, con i battelli a vapore e i sommergibili, «da grande pesce il Leviatano si trasformò in macchina», cambiando il rapporto fra uomo e mare, spostando il centro del mondo verso gli Usa e superando la distinzione stessa fra mare e terra con l’introduzione di una terza dimensione, l’aria, che determina il carattere planetario dello spazio, per cui anzi il mondo non è nello spazio ma, heideggerianamente, è lo spazio a essere nel mondo.13 Chora recupera lo status di luogo caotico rispetto al radicamento terrestre (femminea non è mai, nel Nostro). Dietro la volatile retorica del mitico elementare, c’è uno scarto con la più banale ma profonda asserzione di Clausewitz, secondo cui la guerra terrestre aveva assunto nuova indole per la dinamica politica soggiacente (la Rivoluzione francese, la Nazione, la leva in massa), divenendo guerra totale e non limitata e per manovre, mentre il combattimento marittimo, in senso stretto, conservava l’antica limitatezza. Piuttosto è l’impero marittimo a dettare nuovi comportamenti. La guerra resta in subordine a politica e commercio, non alimenta una teologia specifica. Clausewitz è un vincitore. Certo, Schmitt ha la spregiudicatezza di nominare nel 1942 l’innominabile Heine (a quei tempi perfino la popolarissima Lore-Ley doveva essere 12 13

Terra e mare, cit., pp. 73 sgg. In nota Schmitt si dilunga sui termini greci nomos, nemein, e gli equivalenti tedeschi, ma in realtà questo avviene nella seconda edizione, che presuppone la stesura nel 1950 del Nomos della terra. Ivi, pp. 101 e 107-110.

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attribuita a un cantore anonimo), non di adottare la conclusione della Disputation. Il re Pedro non si pronuncia nel confronto toledano tra il guardiano dei padri francescani José e Rabbi Juda di Navarra. Il primo difende la Trinità e il Dio d’amore crocefisso e risorto, il secondo parla di un Dio della forza e della vendetta, che gioca con il Leviatano per un’ora al giorno: un pescione dalle carni delicate tipo tartaruga, che servirà agli eletti nel giorno della resurrezione, parte in agliata bianca, parte stufato con vino, verdure e uva passa smirniota. Un manicaretto garantito dalla casa, perché was Gott kocht, ist gut gekocht! Alla fine, però, la regina, Donna Blanka, sbotta: Welcher Recht hat, weiß ich nicht – Doch es will mich schier bedünken, Daß der Rabbi und der Mönch, Daß sie alle beide stinken.

Non so chi abbia ragione, ma entrambi, frate e rabbi, puzzano. Il conflitto delle teologie estingue nel lezzo la trascendenza. This is the end.

4. Il politico e la Terra Le territoire est allemand, mais la Terre est grecque G. Deleuze-F. Guattari, Mille Plateaux, p. 418

Politische Theologie II del 1970 (I, 1) e prefazione 1971 all’antologia italiana Categorie del ‘politico’ ridefiniscono con estremo nitore il politico in chiave non-statale, lo strappo dalla terraferma cattolico-sovrana. Nel primo testo, con una disinvolta ricostruzione biografica, da vero «avventuriero intellettuale» (quale si definì negli interrogatori di Norimberga), si vanta di aver scritto negli anni Trenta una teoria della Costituzione e non dello Stato14 e che comunque «oggi non si può definire il politico 14

Ciò che è in parte vero, solo se si schiacciano insieme situazioni storiche diverse pre- e post-belliche: la crisi dello Stato rappresentativo davanti all’irrompere dei movimenti alla fine degli anni Venti e il suo svuotamento governamentale di fine secolo, la prevalenza tutta politica dell’economia con le clausole vessatorie di Versailles e l’offensiva neo-liberista del terzo millennio, ecc. Con la conseguenza

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a partire dallo Stato, piuttosto quello che oggi si può definire “Stato” va determinato e compreso a partire dal politico», che non è sostanza o materia bensì grado di intensità di un’associazione o dissociazione, insomma dalla distinzione amico-nemico. Nel secondo è posta a tema – nell’ambito della detronizzazione dell’Europa su scala mondiale e della dissoluzione dello jus publicum Europaeum – la perdita del monopolio politico statale a favore di nuovi soggetti non più statali o senza contenuto statale (classi, razze, movimenti,15 formazioni partigiane), e di procedure extra-costituzionali ed extra-legali. Tali ‘misure’ (Massnahme) sono emergenziali – aggiungiamo – nel senso della governance più che del classico stato d’eccezione, non definendo più una sovranità classica e neppure il suo contraltare, la rivoluzione. Il momento cruciale, che come molti altri rinvia al Nomos della terra, è il passaggio dalla sconquassata vita agricola a una civiltà scientifico-tecnico-industriale (altrove atlantica o planetaria), passaggio tutt’altro che improntato alla pace, malgrado i vaneggiamenti di uno Stato universale arieggiante lo Stato mondiale omogeneo del suo amico Kojève. Infatti la presunta soppressione del politico-conflittuale equivale a instaurazione di una polizia mondiale, in cui il nemico degrada a criminale, hostis generis humani. Dietro l’autolegittimante legittimità blumenberghiana del nuovo, troppo piena di sé, si affaccia un’ipertrofia del politico peggiore, il progressismo aggressivo, la guerra civile mondiale, il cui risvolto intellettuale è la gioia computazionale, l’ossessione del calcolare (Rechnen) e del valutare (Bewerten). I giuristi medievali sostenevano che il diritto stava alla terra come la nebbia che si alza sulle distese paludose, un’emanazione naturale. Schmitt la fa più complicata, portando in primo piano, nella prefazione al Nomos della terra, il nesso esistenziale che nei capitoli successivi viene ‘oggettivato’ con il catalogo degli elementi dissolutivi dello jus publicum Europaeum. Il rimando alla dimensione mitico-elementare di Terra e mare è

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che la coppia amico-nemico e la deriva del secondo in nemico assoluto non funzionano più allo stesso modo. Sul tema cfr. G. Miglio, in Aa.Vv., La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt (a cura di G. Duso), Arsenale, Venezia, 1981, e G. Marramao, op. cit., pp. 140-141. La formulazione ‘occasionale’ è la tripartizione di Stato, movimento, popolo (in realtà la caotica sovrapposizione dei primi due), con cui Schmitt tenta di costituzionalizzare il sistema nazista, cfr. Staat, Bewegung, Volk. Die Dreigliederung der politischen Einheit, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1933, tr. it. a cura di D. Cantimori in Principi politici del nazionalsocialismo, Sansoni, Firenze,1935, pp. 173-231, che F. Neumann commenta in Behemoth, cit., pp. 78 sgg.

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conclamato, filtrandolo tramite due versi di Goethe in cui si lascia scorrer via ogni meschinità e pesano soltanto due figure: mare e terra. Il diritto si biforca, grazie allo smistamento di quella diade in ordinamento e localizzazione, Ordnung und Ortung. La terra è madre del diritto inteso in quanto misura: la triplice misura del lavoro ricompensato dal raccolto, della striatura del paesaggio agrario, della recinzione proprietaria pubblicamente riconoscibile. Justissima tellus, primo fondamento dello jus publicum, che si instaura al prender in carico il non suddividibile e sterile mare, dove la preda è libera e il pacifico lavoro interseca la pirateria e l’imperialismo marittimo. Sulla base del terragno diritto di occupazione, fondazione e colonizzazione, se ne svolge – con le scoperte geografiche e la disputata conquista del Nuovo Mondo – uno più complesso, che instaura un rapporto determinato e bilanciato fra ordinamento spaziale della terraferma e ordinamento spaziale del mare libero. In termini giuridici il nomos è partizione della terra e dell’essere (in tal caso si oppone a fusis), campo di forze per un ordinamento e per il nutrimento, per la coltivazione e il consumo (némein = pascolare), recinzione sovrana che delimita un esterno selvaggio o un confine reciprocamente riconosciuto. Nehmen, Teilen, Weiden. L’elemento dell’oceano e delle scoperte fa saltare la sfera delimitata del kosmos (la terra circondata dalle acque), peculiare delle civiltà talassiche, e la stessa divisione fra popoli e regni cristiani e non-cristiani: le linee divisorie tracciate per ripartire le sfere d’influenza prescindono ormai da terra e mare, Landnahme e Meernahme, e sono linee globali di un nuovo nomos globale, che abbraccia in Europa la neutralizzazione politica delle guerre civili di religione. Di come matura la crisi di tale compromesso con il distacco e l’autonomizzazione dell’elemento oceanico e tecnico-economico, abbiamo già detto a proposito della sintesi anticipatoria di Terra e mare. Ora si enfatizza il carattere catechontico dell’ordinamento terrestre e si mostra che il suo graduale venir meno apre la strada a una nuova incontrollabile spazialità che finirà per coinvolgere le sfere dell’Aria e del Fuoco. Ci si pone sul piano inclinato dello sradicamento e del nichilismo, che in un’accezione specifica consiste nella separazione utopica fra ordinamento e localizzazione. Questo è l’argomento più noto e ripreso del giurista di Plettenberg, come da manuale. Stringiamo invece sull’elemento mitico elementare che affiora tanto più potente quanto più si cerca di elaborare il lutto per la fine del nomos europeo, della sovranità e infine del ruolo personale dell’autore – che ispira le recriminazioni sulla criminalizzazione del nemico e sul risuscitamento dello justum bellum, scontato rosicamento su Versailles e No-

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rimberga e geniale presagio delle teorie imperiali statunitensi sull’esportazione della democrazia e i rogue states. La terra che non trattiene più la deriva dello spazio tecnico-economico è l’elemento cui Schmitt si rapporta esistenzialmente: nel carteggio con Blumenberg vi ritorna, quasi centenario come Faust, con l’enigmatica citazione dalla seconda parte, scena 1, del capolavoro goethiano: «anche stanotte, Terra, mi hai sorretto»,16 quasi da custode della Costituzione fosse diventato custode della Terra... Il conflitto perimetrato del politico ne era l’ultimo garante, mentre la neutralizzazione liberale, che prometteva pace, si è convertita nella più furiosa distruzione. Eppure... eppure vorremmo mostrare che la Terra di Schmitt è quella della geometria di Stato romana con i suoi segmenti surcodificati nello scacchiere delle città-accampamento, del catasto e della centuriazione, la terra delle enclosures e della pace hobbesiana, non quella pagana di Lucrezio e di Nietzsche, neppure il conforto goethiano che vive il dramma dell’espropriazione contadina e dell’appropriazione capitalistica del suolo. Ancor meno uno spazio vissuto da nomadi e Amazzoni. Troppo carica di senso è, troppo proprietaria e sovrana. Alma Venus non vi presiede.

5. Recinti Non il sotterraneo labirinto cretese cui è amorevole guida Arianna, la purissima (ari-hagne) dea dell’amore terrestre, della danza e dei serpenti, ma gli steccati e in seguito il più efficiente filo spinato che circoscrive le proprietà fecondate dal lavoro e ultimi i campi dove Arbeit macht frei: tale il contesto schmittiano. La sua tarda scoperta del partigiano, creatura tellurica, lascia grevi margini di ambiguità17. Fin quando il partigiano si pone sulla scia della resistenza anti-napoleonica in Spagna e in Prussia, secondo varianti selvagge o civilizzate della guerra difensiva teorizzata da Gneisenau, Scharnhorst e Clausewitz, si integra in modo subalterno a conflitti interstatuali dello jus publicum Europaeum, mentre il suo sviluppo più fascinoso rimuove quei limiti sicuri calcando la scena di due fattispecie irriducibili alla guerra limitata: coloniale e civile. Il carattere politico intensivo, derivante dalla presa sul territorio, dalla difesa del suolo patrio, segna il passaggio irreversibile dalla guerraballetto dei conflitti dinastici settecenteschi alla serietà della guerra nazio16 17

Blumenberg-Schmitt, L’enigma della modernità, cit., p. 94. Teoria del partigiano, cit., pp. 5,7, 10-1114, 2,31-33, 54-55, 58-60. 63-64 e 73-76.

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nale contro un nemico reale, inaugurata da Valmy. L’ascesa, però, del partigiano a combattente internazionalista, a rivoluzionario di professione (con Lenin, e poi con Mao e Guevara) lo strappa dalla terraferma, dalla giungla, dalle montagne, e lo proietta nella dimensione piratesca del sabotatore e del terrorista, dell’inimicizia assoluta della guerra di classe, in cui la controparte è criminale in quanto classe. Figuriamoci cosa avrebbe pensato Schmitt del terrorista sugli aerei e del jihâd... Già nel semplice teatro terrestre, il partigiano, rifiutando per sé la divisa e colpendo inavvertito il nemico in divisa, aggiunge profondità alla superficie prefigurando le insidie sottomarine e attirandosi le rappresaglie confacenti al corsaro. Le due figure tendono a fondersi nel crogiolo del progresso tecnico-industriale, anche se al momento egli resta l’ultima «sentinella della terra», sebbene sostenuto, foraggiato e strumentalizzato dalle grandi potenze e, in principio, capace perfino di servirsi di atomiche tattiche: partigiano planetario dell’età industriale. Il partigiano fa due volte da piattaforma girevole: fra guerra-gioco e guerra reale contro un nemico reale prima, fra inimicizia reale e assoluta poi. Qui la telluricità si slabbra o, meglio, suo referente diventa l’intero pianeta, la sua pratica un’inimicizia potenziata, una nuova forma del ‘politico’, un nomos inedito. Comprendiamo adesso il sottotitolo della Teoria del partigiano: Note complementari al concetto di politico. Quella glossa incidentale sospende non soltanto la definizione del politico, ma l’essenza della terra, che non è più quella della Quadratura heideggeriana, del Geviert, tanto meno di Arianna dalle piccole orecchie in attesa labirintica dell’odiato-amato Dioniso, la terra cui predica fedeltà Zarathustra o il mare che accoglie ogni impurità senza diventare impuro e neppure la cara terra che eternamente torna a verdeggiare a ogni primavera anche quando saremo consegnati alla morte nel mahleriano Lied von der Erde. Schmitt non è sconvolto come Faust dall’apparizione dell’evocato Spirito della Terra, che sciorina tutte le figure della nuova mitologia filosofica: l’Übermensch, la tessitura alternata di vita e morte, il mare eterno del divenire, la trama che muta sul ronzante telaio del tempo (ein wechselnd Weben... am sausenden Webstuhl der Zeit), la veste vivente della divinità, lo spirito attivo contrapposto all’arida conoscenza. Quella schmittiana è una terra strutturata per recinzioni dal diritto e dalla rendita, minata per una guerra distruttiva, sottratta alla temporanea pace dello jus publicum post-westfaliano e aggiudicata all’avvoltoio Ziz della tecnica. Dell’idillio schmittiano 1942 del Blut und Boden rinfrescato dalle brezze atlantiche, dopo due devastanti sconfitte tedesche per terra, mare e aria, residua un campo di macerie, ben poco allietato dalle te-

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orie ordoliberiste e dalle neutralizzazioni di un liberalismo ormai incline all’egemonismo del pensiero unico e della sua esportazione forzosa. A riscontro prendiamo un’altra revanche contro la disfatta tedesca, un altro vinto, un militare vero e anti-nazista di destra quale Ernst Jünger. Credente nel mito vero (non nella paccottiglia templare alla Himmler), dispregiatore della disciplina esteriore, da combattente di razza, critico lucido della tecnica quanto ne era stato esaltatore pionieristico con In Stahlgewittern e Der Arbeiter. La prima analogia che viene in mente per il partigiano schmittiano – membro peraltro di un gruppo collettivo organizzato – è la figura jüngeriana e solitaria del Ribelle e dell’Anarca (Waldgänger, Anarch).18 Il Ribelle si muove sullo sfondo di un regime di socialismo reale o di estenuata democrazia di massa, Germania est o ovest in soldoni, quello che nel 1960 chiamerà Weltstaat, parente allo Stato omogeneo kojèviano e batailliano. Il «darsi alla macchia» (Waldgang) segna per contrasto un’epoca post-storica in cui svaniscono le venerate figure fordiste del Milite del lavoro (der Arbeiter) e del Milite ignoto. Il Waldgang è riacquisto di senso, localizzazione sovratemporale nel bosco e nella sicurezza indistruttibile del sé, quanto la nave esprimeva l’essere temporale, la deriva nichilista nell’anonimo. Affine a Lucrezio, odiatore di navigazione e commercio, più che allo Schmitt atlantico. Con vitreo sguardo entomologico sulla natura. Lo precede la messa al bando, per incompatibilità con i valori di una società massificata, ma non con la Tecnica, intesa alla Heidegger come logorio degli enti. Il bosco, vissuto nella sua naturalezza extra-tecnica, è luogo di bando e proteggente custodia della forza mitica. Sta in ogni lembo del mondo o sobborgo della metropoli. Bosco è il demone socratico, una riserva di senso. Esso è luogo di ritrovata sovranità, che non sta più «nelle grandi risoluzioni, ma esclusivamente nell’uomo singolo che ha abiurato in sé la paura», traversando il deserto del nichilismo e della morte, sfuggendo alle grinfie del Leviatano fino a immergersi nel familiare-segreto (heimlich) di un clandestino-perturbante, un-heimlich. Restituire questo contenuto è un 18

E. Jünger, Der Waldgang (1951), tr. it. Trattato del ribelle, Adelphi, Milano 1990 e 2010l pp. 57, 60-62, 60, 73, 79, 91, 95-95, 105-106 e 136. Il termine Waldgang è tradotto ‘passare al bosco’, mentre preferiamo renderlo con ‘darsi alla macchia’. Jünger simpatizza con i partigiani antisovietici dei paesi baltici nel dopoguerra, i Fratelli della foresta. La figura più quietista dell’Anarca campeggia in Eumeswil (1977), tr. it. Adelphi, Milano 1990. Cfr. infine I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, a cura di A. Gnoli e F. Volpi, Adelphi, Milano 1997.

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compito da teologo, esperto della scienza del superfluo. Scaturigine silenziosa della parola altrove dispersa in chiacchiera è interiorità ripiegata e trascendenza, inviolabile comunanza con l’umano e identità. Vi risuona, neppure a caso,19 una distante vicinanza a Bataille, mentre per altro verso vi si gioca il rapporto, non autoevidente anzi antinomico, fra il suo «partigiano senza partito», riluttante a qualunque disciplina ed estetica militare, e il partigiano tellurico e Parteigänger di Schmitt – che infatti lo cita in nota con rispettoso distacco. L’Anarca è il ribelle singolo, i partigiani sono un collettivo. Il Partigiano si muove all’interno del partitismo sociale o nazionale, l’Anarca se ne tiene fuori. Peraltro, egli non può sottrarsi al partitismo, poiché vive nella società. Il partigiano agisce ai margini: serve le grandi potenze, che lo equipaggiano di armi e di parole d’ordine (Eumeswil).

Per quanto confinato a una stirneriana dimensione individuale e mai di ‘banda’ il Waldgänger testimonia e custodisce l’antica libertà in vesti moderne, libertà sostanziale «che si ridesta ogniqualvolta la tirannide dei partiti o dei conquistatori stranieri opprime il paese», esprimendosi nello scontro, non in querula protesta o emigrazione. Guarigione dal nichilismo, rivolta contro il Leviatano e la temporalità della nave, ritorno dalla vanità del movimento (compresa la totale Mobilmachung dello Jünger anni Trenta) all’essenza indivisa e immodificabile dell’uomo e all’assoluto-solitario del bosco, l’archetipo di cui siamo eredi. Il vivere clandestino, il mascherarsi dietro al paravento di una professione, il praticare resistenza e sabotaggio nelle retrovie e lungo le arterie di comunicazione, l’armamento domestico – tratti che lo fanno assomigliare a un terrorista metropolitano – consentono comunque, passando per la netta distinzione dal trasgressore criminale, il transito verso la figura dell’Anarch di Eumeswil, che si annida non più nella Germania occupata del secondo dopoguerra o nell’Est sovietizzato ma nella più confortevole democrazia di massa, addirittura nell’economia sociale di mercato ordoliberale di Bonn. Egli lucidamente vive nel mondo e se ne ritrae quando gli pare, si colloca negli interstizi della società come gli dèi di Epicuro nei lucreziani intermundia, impolitico in quanto indifferente al potere, in grado perfino di ridiventare occasionalmente Waldgänger, ma di preferenza attento a tenere l’interiore libertà al riparo da combinazioni collettive e da spirito di par19

Pensiamo alla ricezione jüngeriana in Blanchot, che lo recensisce già in Faux Pas (1943), e all’amicizia “stellare” fra Kojève e Schmitt – triangolazioni di cui Bataille è un vertice scontroso.

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tito. Più ‘imboscato’, ormai, che bandito alla macchia. La sua aristocratica radicalità consiste nel non stare da nessuna parte e in questo la rivendicazione di meta-storicità è inclusa nella post-histoire del Weltstaat omogeneo kojèviano. Illuminante è in Eumeswil la distinzione fra Anarca-autarca e anarchista (il militante anarchico): Il fatto suona complicato, è tuttavia semplice, perché ognuno è anarchico: è appunto questo l’aspetto normale in lui. Vero è ch’esso viene condizionato fin dal primo giorno da padre e madre, da Stato e società. Sono potature, spillamenti abusivi di una forza primigenia cui nessuno sfugge. Conviene rassegnarvisi. L’elemento anarchico rimane nel fondo: un segreto, per lo più inconscio al soggetto stesso. Può prorompere fuori come lava, può distruggerlo, liberarlo. L’amore è anarchico, il matrimonio no. Il guerriero è anarchico, il soldato no. Cristo è anarchico, Paolo no. La storia del mondo è mossa dall’anarchia. Insomma: l’uomo libero è anarchico, l’anarchista no.

Il secondo è subordinato alla propria confusa volontà e al potere, antagonista del monarca che mira a destituire per sostituire, mentre l’anarca è semplicemente il suo pendant: sovrano come lui, ma non costretto a regnare. Non vuole dominare nessuno, soltanto se stesso. Non si batte contro l’autorità, ma non crede in essa. Per lui, le bandiere hanno importanza, ma nessun significato. Una versione elitario-cavalleresca del Signore hegeliano che lo allontana tanto da Nietzsche quanto da Bataille, accostandolo invece alla ritualità kojèviana e ai samurai di Mishima. In conclusione, più che allo stoico, io penso all’Unico di Max Stirner, ma con una differenza importante: che io distinguo tra ‘anarchico’ e ’Anarca’. L’anarchico è un rivoluzionario che vuole trasformare il mondo e che per raggiungere il suo scopo non indietreggia nemmeno di fronte al crimine e al terrore. L’Anarca, invece, si nasconde esteriormente nella normalità, può anche essere un ragioniere, un contabile, che esegue tutto ciò che l’ordine e la legge prescrivono, ma nel suo intimo, nella solitudine della notte pensa e fa quel che gli pare. L’Anarca combatte guerre proprie anche quando marcia tra le fila di un esercito. (intervista a Gnoli-Volpi)

Jünger stesso, qua Anarca, riepiloga così la personale rischiosa sfida a Hitler: «Sono stato un suo oppositore, ma non un oppositore politico.Ero semplicemente altrove». Epigrafe tombale di una vita e di un’idea. Di un lieve calcare la terra, fin troppo lieve.

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A destra e a sinistra, Jünger e in parte Bataille vivono nella nostalgia di una sovranità individuale e di una ritualità che li discostano, con sprezzo, dalle correnti rappresentazioni autoritarie o democratiche. Per essi, a diversi gradi di alto e basso, corpo e terra rimangono entità pagane, estremi aristocratico e plebeo dell’immediato non-mediabile.

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6. Intermezzo 1: leggerezza della terra, danza di Arianna Ripassiamo per Bachelard. Nei due volumi sulla terra20 la materia si presenta multiforme: dura e molle, roccia e minerale, ma anche casa, caverna, grotta, labirinto.21 Un gruppo di qualità estroverse nel primo sportello del dittico, introverse nel secondo. Da un lato l’antagonista della forza di volontà dell’uomo, ciò che lo dinamizza nel resistergli, risolvendosi nel lavoro il dualismo energetico fra soggetto e oggetto, dall’altro il luogo del rifugio, del radicamento e del riposo. Materiali refrattari e archetipi junghiani.

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La terre et les rêveries de la volonté. Essai sur l’imagination de la matière, J. Corti, Paris 1948, tr. it. La terra e le forze: immagini della volontà, Red, Como 1989; La terre et les rêveries du repos. Essai sur l’image de l’intimité, J. Corti, Paris 1948, tr. it. La terra e il riposo. Immagini dell’intimità, Red, Como 1994. Come non evocare il labirinto-intestino dell’acefalo disegnato da Masson per l’«Acéphale» di Bataille? Il labirinto è figura-chiave della gnosi ‘bassa’ di Bataille, che capovolge la futura immagine carceraria del secondo libro della trilogia dickiana di Valis. Scrive giustamente F. De Petra, Georges Bataille. Materialismo antropologico e filosofia della dépense, «Il cannocchiale», ESI, 2012: «Se il Minotauro incarna l’immagine dell’uomo che non può fuggire dal labirinto, dal riconoscimento di sé quale essere ibrido, Teseo rappresenta invece l’uomo che uccidendo il mostro spera di affrancarsi da quell’animalità che – nonostante tutto – abita dentro di lui. Il labirinto è un luogo del basso; come lo sono gli slum, i bassi-fondi metropolitani o le periferie pasoliniane in cui si aggira quell’umanità cara a Bataille e che Marx denominava Lumpen-proletariat, in verità “classe senza classe” propria d’appartenenza, umanità di scarto che abita i luoghi al limite dell’umano: prostitute, folli, disoccupati, studenti, intellettuali, artisti, sovversivi; si potrebbero includere oggi in tale ambito anche le infinite forme di lavoro precario figlie della feroce flessibilità post-fordista e le tante figure del proletariato contemporaneo (operai, impiegati, operatori della conoscenza)». La vecchia talpa scava nelle viscere della terra e del proletariato, è l’opposto dell’aquila imperiale. I testi della rivista sono raccolti in Acéphale. Religion. Sociologie. Philosophie 1936-1939, Paris, Jean-Michel Place, 1995, tr. it. G. Bataille, La congiura sacra, a cura di M. Galletti, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.

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Bachelard consacra un lungo passaggio a Nietzsche in L’Air et les songes,22 intitolando il cap. 5 Nietzsche et le psychisme ascensionnel e definendolo (p. 164): «le type même du poète vertical, du poète des sommets, du poète ascensionnel», portatore di un’estetica della leggerezza (musica, danza, riso, poesia) opposta alla lourdeur névrotique di Wagner e all’attonita obesità dei suoi birrosi fedeli di Bayreuth. Messa a valore della verticalizzazione, scarico della memoria e dei pregiudizi incistati nella carne. Anti-elogio dello spirito-cammello, emblema del dovere, che porta paziente nel deserto tutti i carichi. Il rifiuto dello spirito di gravità comporta, però, ascese sui monti e discese a valle ed egli resta fedele giù, vola verso l’alto per involarne i doni e riportarli, per rifidanzarsi con il mondo dopo il divorzio cristiano in nome del ‘mondo vero’ dell’aldilà, di illusori Hinterwelten, mondi dietro al mondo. Zarathustra, infatti, sin da principio scende a valle dalla montagna dove era asceso, quasi fosse uno dei fiumi hölderliniani che riuniscono zone differenziate del paesaggio sposando cielo e terra. Discende e predica: al sole, cui preannuncia il proprio desiderio di tramontare, al vegliardo ridente cha ancora non sa che Dio è morto, infine alla folla che si è riunita sulla piazza del mercato per assistere all’esibizione di un funambolo. Qui egli insegna il superuomo, che insomma l’uomo è qualcosa che deve essere superato. In quale direzione? Il superuomo è, innanzi tutto, il senso della terra: Vi scongiuro, fratelli rimanete fedeli alla terra (bleibt der Erde treu) e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire! Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra! In passato l’anima guardava al corpo con disprezzo e questo disprezzo era allora la cosa più alta: essa voleva il corpo macilento, orrido, affamato. Pensava in tal modo, di poter sfuggire al corpo e alla terra. Ma quest’anima era anch’essa macilenta, orrida e affamata: e crudeltà era la voluttà di quest’anima! Ma anche voi, fratelli, ditemi: che cosa manifesta il vostro corpo dell’anima vostra? Non è forse la vostra anima indigenza e feccia e miserabile benessere?

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L’air et les songes : essai sur l’imagination du mouvement, J. Corti, Paris 1943, p. 164 sgg., tr. it. Psicanalisi dell’aria. Sognare di volare. L’ascesa e la caduta, Red, Como 2007.

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Davvero, un fiume immondo è l’uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume immondo, senza diventare impuri. Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare, nel quale si può inabissare il vostro grande disprezzo.

Corpo, terra, vita – in nome di codesta trinità alfine politeista si rimpalla il disprezzo sul trascendente, invertendo un millenario abuso cristiano. Lode del tramontare e redenzione del passato: la grande ragione del corpo contiene la contingenza e abbastanza caos per generare una stella danzante. E verranno molti altri discorsi: contro i dispregiatori del corpo, la cui grande ragione non dice ‘io’ ma fa ‘io’ ed esprime la vita e la terra. L’uomo che ancora non sa volare è vittima dello spirito di gravità: pesante per lui è la terra e la vita, perché – come il cammello – si trascina dietro troppe cose estranee. Volo e danza cambiano le cose. L’ascensionalità di Nietzsche è un voler rendere leggera la terra, ripulirla dal greve e dall’opaco che l’ha avvolta, da Platone in poi, per far contrasto con lo splendore ingannevole del cielo. La sua partecipazione all’aria e al fuoco, su cui Bachelard ha insistito a scapito di terra e acqua, l’idéalisme de la force sorretto dall’immaginazione dinamica del volo e dalle fantasie ornitologiche restano subordinati a una redenzione della terra e del corpo, nella retorica prospettica della «grande salute». In fin dei conti, Zarathustra dall’alto delle vette vuole gettare le sue reti o tuffarsi per sedurre, pescare, tirare a sé gli uomini, i pesci più belli. Così nel Sacrificio del miele. Il miele è dono di Dioniso e, al pari del fuoco, si pone sulla soglia fra condizione ferina e primordi di civiltà. Così Ovidio (Fasti III, 753-760) e il saturnino Piero di Cosimo nella Scoperta del miele del museo di Worcester che, secondo Erwin Panofsky, ne dipende. Il miele o l’inebriante idromele è offerto, in una delle più antiche iscrizioni cretesi a lungo commentata da K. Kerényi, alla Signora del Labirinto, Arianna. Lo spiraliforme, infero labirinto è figura danzabile, anzi viene danzata a Delos dai ragazzi e ragazze liberati da Teseo, grazie a lei – géranos, la danza delle gru con la fune effigiata sul vaso François. L’abbandonata, che poi si riunirà a Dioniso, il suo labirinto (nella poesia di Nietzsche il dio conclude: Ich bin dein Labyrinth...), la Signora della morte che può anche restituire e restituirsi alla vita, commuta le due sfere e fa della terra opacità e rifugio, perdita e riacquisto. Arianna-Persefone con il serpentino labirinto, come la vipera cleopatresca che adorna – ancora Piero di Cosimo – la bella Simonetta Vespucci, modello anche della Primavera botticelliana, appartenente alla potente famiglia fiorentina fautrice del lucrezianesimo, morta a 22 anni,

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poco prima del suo altrettanto giovane amante Giuliano de’ Medici, massacrato nella congiura dei Pazzi. «Chi, fuori di me, sa cos’è Arianna?».

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7. Intermezzo 2: Saturno e la profondità della terra Eppure, non sottovalutiamo le ambiguità nietzschiane, l’intreccio nefasto fra conclamato politeismo e sublimazione metafisica – una fascinazione che fa evaporare l’elemento storico, e poco importa che evapori verso il basso delle pulsioni piuttosto che verso l’alto della speculazione, come accadrà in Heidegger. La forza di Nietzsche, nel suo operare schiettamente politeista, si coglie solo quando il soggetto si frantuma e si avvia a tramontare. Altrimenti rischia l’identitarismo in cui si raggruma la volontà di potenza. Quando Dioniso si rivolge ad Arianna chiamandosi labirinto e proclama la propria intuizione simpatetica della di lei natura, stiamo sul crinale dell’Olimpo, ma quanto scivola lungo il pendio nei versi che precedono l’enigmatico finale del Lamento di Arianna! Lì Dioniso è cacciatore e Arianna preda dolente e febbricitante, ansiosa di essere trafitta dal proprio carnefice, sequestrata con un riscatto esorbitante – uno stereotipo del femminile passivo e masochista e in O. Weininger lo diverrà anche dell’omosessuale e dell’ebreo, figure del labirintico serpente che si morde la coda, ouroboros. Stereotipo destinato a gran fortuna nel teatro espressionista, dalla Lulu di Wedekind e Berg all’Assassino, speranza delle donne di Kokoschka e Hindemith. Identificando la donna con la terra arabile e fecondabile, la prima parte di Lulu si intitola Lo spirito della terra, der Erdgeist, trascrizione ipersessuata del Sinn der Erde nietzschiano. Stereotipo invertibile in un identitarismo vittimario di genere che fa uso entropico della differenza: passione triste è infatti sia il vittimizzare che il compiacersi di essere vittima, il ricorso (ancor più se immaginario) al sadismo e alla vendetta. Del resto, lo stesso Nietzsche, quando si crea stereotipi identitari, gioca entrambe le parti: è Dioniso che soggioga la trepida Arianna dalle piccole orecchie e poi nei biglietti della follia, esprime sottomissione alla dominatrix antisemita Cosima Wagner chiamandola Arianna – e stavolta sono le piccole orecchie del filosofo a essere invase dalle sonorità ingombranti dell’ormai odiato marito di Cosima. Raccomanda di prendere la frusta quando si va a trovare una donna e poi si fa fotografare accanto a Paul Rée

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fra le stanghe di un carretto, guidato da una torva Lou Salomé con frustino – il respingimento fa miracoli e ridesta il masochismo. Lo scioglimento della fissazione identitaria fa tutt’uno con la risoluzione storica del presunto naturale. Qui si misura la temperie distintiva di Hölderlin, che miscela con sapienza la pluralità mai rigida degli dèi e la loro immissione nel mondo: «contrariamente all’eterna tendenza, il carattere di Zeus, padre del Tempo e della Terra, è di capovolgere il tendere da questo mondo all’altro in un tendere da un altro mondo a questo», consentendoci di rappresentare il mito «in modo più dimostrabile».23 Le montagne, da cui scaturiscono i monti defluenti verso la pianura o che, in quanto vulcani, si collegano in diretta al cuore della terra, si volgono verso l’Etere, regno di Zeus, la cui potenza corrisponde all’interiorità della Terra come alla luce l’oscura sofferenza del flusso vitale, al senza-destino il carico di destino, al dominio la fecondità. Cielo e Terra si rimandano l’un l’altra in indissolubile vicenda, ma non sempre Zeus ha esercitato il potere. Prima di lui e più grande vi è stato il padre Saturno, bandito dal figlio nell’abisso, innocente dio dell’età dell’oro, esente da cure (schuldlos... mühelos und grösser), che mai espresse un comando né mai fu chiamato per nome da un mortale. Stiamo prima della legge, della parcellizzazione del lavoro e della fissazione di nomi e autorità trascendenti, nella pace da cui è cresciuta ogni potenza e che si riaffaccia ogni qual volta l’instabile tempo si assopisce nella voluttà. Cos’è questa sospensione del tempo? Perché reintroduce un principio di unità indistinta nell’ordine della divisione del lavoro e del comando codificato? I Romani restituivano una temporanea libertà agli schiavi e lasciavano sfrenare le passioni nella cerimonia annuale dei Saturnalia,24 ma qui si parla di un nuovo e definitivo avvento, cui l’ossequio al padre ingiustamente detronizzato allude. Nell’Iperione si annuncia la ricomposizione dell’uo23

24

Anmerkungen zur Antigonä, nel V volume dei Gesämte Werke, Propyläen-Verlag, Berlin 1922-1923, p. 256, tr. it. Scritti di estetica, a cura di R. Ruschi, Adelphi, Milano 2004, p. 144. L’anticipazione di Feuerbach e Marx non sorprende nel sodale di Hegel. Per la ricezione hölderliniana dei motivi giacobini e della Rivoluzione francese, cfr. in generale L.A. Macor, Friedrich Hölderlin. Tra illuminismo e rivoluzione, Edizioni ETS, Pisa 2006. In quel periodo dicembrino l’ordine veniva sospeso o rovesciato. Erano leciti i giochi d’azzardo, si interrompevano attività dei tribunali e riscossione dei debiti, si invitavano a pranzo gli schiavi e addirittura venivano serviti per primi – tutto in onore del dio esule e infero, che indica le condizioni liminari alla civilizzazione e in cui ne vengono poste le premesse: leggi, concimazioni, agricoltura; cfr. A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, ed. dell’Ateneo, Roma 1955, pp. 74 sgg.

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mo e del lavoro alienato e diviso e nella Morte di Empedocle la riconciliazione dell’esistenza: allora torneranno i felici giorni di Saturno, rinnovati e più virili, ovvero un comunismo maturo a dialettica restituzione del comunismo primitivo. Così la giovane sinistra hegeliana e giù fino a Engels e Lukács rilessero il virgiliano redeunt Saturnia regna. Marx, sulla «Rheinische Zeitung», Nr. 300 del 27 ottobre 1842, aveva scritto in perfetta continuità che «il diritto consuetudinario [quello razionale ma casuale dei poveri che chiedono di raccogliere, come un tempo, la legna minuta nei boschi padronali, non quello irrazionale nobiliare, abolito in Francia il 4 agosto 1789], come sfera privilegiata a fianco del diritto legislativo è pertanto razionale solo in quanto esista a fianco e al di fuori della legge, in quanto la consuetudine rappresenti un’anticipazione di un diritto legislativo», concludendo che «i diritti consuetudinari dei poveri (der Armut) sono diritto contro la consuetudine del diritto positivo».25 Saturno è ora rivendicato davvero in una «mitologia della ragione» quale evocata dal Systemfragment, della ragione plebea che difende i beni comuni. Una linea di fuga passionale dal regime dispotico del significante, a fianco e fuori della legge e dell’ordine dominante del discorso. In presa diretta sulla materia, scavo nella terra, messa in opera del mondo sotterraneo e alternativo di Saturno. Se sulla superficie il nomos vuol far valere le sue partizioni, barriere, muri di Gaza e sulla linea Messico-Usa, ispezioni filtranti sui migranti, prelievi reddituali sui traffici ‘illeciti’, divieti di importazione di generi essenziali per strangolare un paese, sotto terra i tunnel sottopassano i confini, lasciando passare nelle due direzioni uomini, denaro, merci, animali, droghe, armi. Sottomarini, piccoli aerei, droni senza pilota eludono i controlli negli altri spazi. Commerci, resistenza e illegalità proliferano negli anfratti della terra e del sociale, pipeline moltitudinario e sballante, criminale e di sopravvivenza. Saturnali del terzo millennio. Tornando in superficie, anzi innalzandosi sulle ali del poesia: l’Etere, principio d’ordine, la Terra, il divino Saturno, anteriore a Zeus, che tornerà in auge. Le figure della conciliazione (Versöhnung) e del flusso vitale, il «trifoglio» Dioniso, Eracle e Cristo, che reintegreranno il Tutto nel Divenire esaltando lo spirito comune, il Gemeingeist. La traccia del giacobinismo sognato e importato, la sua radicalizzazione tedesca nel mancato sbocco politico, la conseguente buona sublimazione del fallimento democratico-rivoluzionario in ideale sociale staccano con nettezza il triplice piano hölder25

K, Marx, Debatten über das Holzdiebstahlsgesetz, MEW, Dietz Verlag, B. 1, Berlin/DDR. 1976, pp. 116-117, cfr. tr. it. Scritti politici giovanili, cit., p. 187.

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liniano (abisso, superficie terrestre, cielo) da qualsiasi mito naturalistico, saltano dalla storia alla poesia, da una prassi battuta alla follia individuale, senza incagliarsi nella grevezza di un vitalismo ideologico. Nietzsche non fu così fortunato.

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8. Rondò géranos (schema A-B, A-C, A-D, A-E, A) A Credeva di conoscerla, Arianna, il filosofo poco esperto di donne. Ma la ragazza era tutt’altro che innocente. B Sia che al telaio tessesse, casalinga, il filo che avrebbe condotto fuori dal labirinto Teseo, l’assassino del fratellastro handicappato e vagamente demoniaco26 (Arianna è figlia di Minosse e Pasifae, il Minotauro frutto dell’accoppiamento zoofilo di Pasifae con un toro inviato da Poseidone), sia che, già sposa a Dioniso, avesse passato all’ateniese l’aureo diadema rilucente, regalo di nozze, per illuminare la strada dell’eccidio. Ben le sta, in entrambi i casi, l’abbandono da parte di Teseo, e ancor meglio le dice in un caso l’arrivo salvifico di Dioniso, nell’altro il suo magnanimo perdono. Bel farabutto quel Teseo, seduttore sfrenato che aveva circuito la neppur dodicenne Elena che si allenava in palestra come un ragazzo, l’aveva rapita all’uscita, in combutta con l’amico Piritoo e poi se l’era inguattata in una grotta per timore dei fratelli Castore e Polluce, sodomizzando l’androgina ragazzina in attesa della pubertà. A Bell’esemplare di fedeltà, a sua volta, Elena, come dimostrerà la futura carriera matrimoniale ed extra. C Non contenti, Teseo e Piritoo, sospetti bisessuali, si erano avventurati nell’Ade, imbrogliando Caronte, per rapire Kore-Persefone e se l’erano cavata a stento. A Non a caso Teseo ci riprova con Arianna, che di Kore è variante, signora del labirinto infero e del pari destinata a pendolare fra i due regni della vita e della morte, della danza primaverile e dello smarrimento ctonio – in questo, sì, ontologicamente e non solo sessualmente infedele e duplice. D In un angolo appartato del Celio, si scende dalla superficie cosmatesca e cristiana della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo ai sotterranei pagani di una casa del II secolo d.C. con un enigmatico affresco. Naturalmente è 26

Il Minotauro, nella trilogia dickiana di Valis, è incarnazione del Demiurgo demente Samael, di cui parlavano i papiri gnostici di Nag Hammadi e che, nell’angelologia talmudica, è figura satanica, cui si attribuisce la seduzione di Eva e il patronato dell’Impero romano.

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un effetto del sollevamento del suolo, ma la doppia temporalità ne balza agli occhi, come nella vicina sovrapposizione a S. Clemente di due chiese cristiane sopra un mitreo e a una sorgente. Del resto, fu l’ultimo proprietario della casa, il neofita Pammachio, due secoli dopo la pittura dell’affresco, a edificare la chiesa sopra l’avita dimora. Una bianca dea seminuda si staglia in un’isola sullo sfondo di onde blu cupo, abbraccia con la sua destra una donna vestita dall’aria seria e con la sinistra porge una coppa un giovane dio di colorito scuro che si arrampica sulla riva provenendo dal mare. Il dio è atteso e la dea si protende a cercare in lui compimento. Le nozze sacre simulano un rapimento: l’astro luminoso inghiottito dall’oscurità per risorgere, come l’anima. Kerényi, che ha magistralmente analizzato la scena,27 collaziona varie ipotesi:28 Arianna e Dioniso, Kore-Persefone e Dioniso, Afrodite e Dioniso. A Se Arianna era doppia figura, l’assai sacra (Ari-hagne) regina degli inferi e l’assai splendente (Ari-dela), esisteva anche un’Ariadne Afrodite venerata in Cipro e a Delos. Arianna sarebbe allora, al pari di Kore, un’Afrodite mortale, bisognosa di compimento per mezzo di Dioniso, e il suo tratto di infedele abbandonata un preludio al fulgido destino ierogamico. La corona d’oro – segno forse di tradimento di Dioniso rispetto a Teseo, certo di complicità con l’assassino del Minotauro – verrà trionfalmente collocata in cielo quale costellazione. L’infedeltà paga, dopo tutto. E Nel suo piccolo, anche l’ingrato Teseo, dopo aver mollato l’infida complice-traditrice a Nasso, torna in patria e ‘dimentica’ di cambiare il colore della vela, così che il re suo padre lo crede morto e si getta da una rupe. Teseo gli succede ‘a sua insaputa’. Niente male, visto che a quel punto fonda Atene. A Più sagaci ed esperti di donne, Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss rileggono il mito nel modo giusto: un continuo rinvio fra teologico e antropologico, dove l’umano evoca una potenza divina e la storia divina si proietta sull’umano. L’uno mostra l’altro, senza misticismo. Siamo a Vienna, fine Settecento, e il padrone del palazzo vuole allestire una grande festa in quattro tempi: cena, opera seria, farsa, fuochi d’artificio. I due spettacoli musicali, con gran disperazione del compositore, non si succederanno, ma 27 28

La dea con la coppa, in Miti e misteri, Einaudi, Torino 1950, pp. 431 sgg., Id., Gli dèi e gli eroi della Grecia (1951), Il saggiatore, Milano 1962, I pp. 220 sgg., II pp. 209 sgg. e 230 sgg. Con considerazione di carattere generale, «l’elemento mitologico si rivela proprio nel fatto che esso mai si lascia interpretare in un unico senso esclusivo, bensì racchiude in sé una vera pienezza di significati e molti aspetti possibili», Miti e misteri, cit., p. 445.

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si svolgeranno in contemporanea. Il ricatto del compenso e la conturbante apparizione in négligé di Zerbinetta, protagonista della commedia dell’arte, convincono il serioso musicista al compromesso. Le maschere dovrebbero consolare con lazzi e canti Arianna abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso in attesa che arrivi Bacco a farle dimenticare l’infame tradimento. Il compositore si premura di spiegare che la sua Arianna è una donna nobilissima, come se ne trova una su un milione, che appartiene a un solo uomo, perso il quale non resta che la morte. La volubile Zerbinetta minimizza la fedeltà fino alla morte e (ripetendo il Don Alfonso di Così fan tutte) sostiene che la donna fedele è come l’araba fenice, dove sia nessun lo sa. No, l’araba fenice è la mia Arianna – replica l’infatuato compositore. Per tagliar corto, Zerbinetta gli fa gli occhi dolci e spiega – gran novità! – di non essere quella che sembra. Sotto i tratti di civetta batte un cuore sincero, che aspira solo all’amore fedele, le basterebbe trovare l’uomo degno... chissà? O dolce e incomprensibile fanciulla! – abbocca il compositore e consente incauto alla messa in scena alternata, salvo a piombare nello sconforto quando si renderà conto di essere stato giocato dall’attrice. Arianna intona, desolata una parodia del monteverdiano Lasciatemi morire, irrompono le maschere: dài, tirati su, la vita è ancora bella. La sventurata non reagisce, allora Zerbinetta le parla da donna a donna. Non è dolce confessarci reciprocamente la debolezza di un cuore inafferrabile? Ahi noi, quanto soffriamo, quante isole deserte ci vedono piangere in mezzo alla folla, quante ne ho frequentate io stessa! La donna-isola attende l’approdo alle sue rive dell’uomo e poi lo vede allontanarsi. Variante: però ci sono tante isole… Ogni volta che ci si innamora, ci si affida totalmente a un uomo, anche se lo sappiamo crudele e incostante, e gli si giura sincera dedizione. Basta una breve notte per cambiare il nostro cuore. Sì, io non sono una Principessa come te, a uno solo fedele, ho cambiato molti amanti perché non riesco a rinunciare alla mia libertà, ma ogni volta essi sono stati per me unici, a me sono venuti come un dio, il loro passo e i loro baci mi ammutolivano e trasfiguravano e, se un altro dio si avvicinerà, cadrò fra le sue braccia… Poco dopo le ninfe annunciano una nave. A bordo è il giovane dio Bacco, appena evaso dalle trappole della maga Circe, nella cui isola era approdato con i suoi compagni in cerca di avventura. Arianna, fino allora rimasta muta, si riscuote e in un primo tempo spera che sia il pentito Teseo a tornare sui suoi passi. Anche Bacco, del resto, teme per un attimo che i venti lo abbiano ricacciato sull’isola dell’odiata Circe di cui rievoca le fatali bevande. I nuovi amori si presentano in prima battuta sotto vecchi travestimenti. La disillusa Arianna cade in un altro equivoco e scambia Bacco per

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il dio della morte, che viene con la sua nave per farle bere una pozione letale e condurla ai sospirati inferi. Ricordiamo la scura figura nel sotterraneo dei SS. Giovanni e Paolo! E l’ovvia parodia del filtro d’amore di Isolde e della morte wagneriana di Tristano. Arianna si dice pronta per l’ultimo viaggio, ma alle profferte d’amore di Bacco, che in perfetta buona fede afferma di essere un dio figlio di dio, sviene sprofondando nell’oblìo che crede morte e invece è interruzione del dolore e ritorno alla vita. Si risveglia nelle sue braccia chiamandolo mago che tutto per incanto trasfigura, luminoso della luce riflessa dalla madre Pasifae (figlia del dio-sole Helios). Ma che dici mai, replica Bacco, tu sei la vera maga che tutto trasfigura, ecc. Allora, conclude Zerbinetta, non è vero che ogni volta il nuovo arrivato è un dio cui ci arrendiamo senza più parole? Non solo l’infedeltà di Arianna è narrativa e simbolica – scissione fra potenza sotterranea e terrena –, ma l’eroina si proietta in una figura tutta umana, frivola e giocosa: lei e Zerbinetta sono un’unica donna scissa in due, come Maria e Mariquita nell’incompiuto romanzo neoplatonizzante di Hofmannsthal Andrea o I ricongiunti, scritto sotto l’influenza di Freud e di resoconti di dissociazione della personalità. Andrea scende da Vienna a Venezia, la città dove tutti vivono in maschera: l’unico modo per distinguere individui, che in realtà non hanno identità unitarie, ma giocano ruoli e non raggiungono la loro essenza che attraverso divisione e ricomposizione: «l’io di tutti i giorni è una costruzione senza valore, uno spaventapasseri». L’inibita Maria gli fa desiderare il solvente universale, la disinibita Mariquita il glutine universale. Zerbinetta-Mariquita è l’eccedenza del cattivo infinito («ti avrò tutta – chiede Andrea – tutta, e un’altra per giunta»), ma completa la libertà spirituale della dolorante Maria. L’identità è andata a farsi fottere, in senso sessuale e figurato. Arianna destruttura, nell’infedeltà, l’integro essenzialismo, sebbene agisca ancora in una logica di sottomissione, astutamente contrattata. La Legge del Padre è salva, ma i padri sono parecchi...

9. Enclosures post-sovrane Torniamo con i piedi sulla terra. Il nomos di Schmitt e il bosco di Jünger rischiano addirittura di suonare rampogna alla gestione neo-liberale di terra e acqua, certo non definiscono più il nesso con la sovranità e l’anarchia ad essa accessoria e speculare. L’aggettivo post-sovrane fissa le enclosures nella loro differenza dalle condotte di sovranità nazionale e coloniale (per quanto alle seconde un poco più somiglino) della seconda metà del trascor-

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so millennio. Parliamo di land grabbing e di gestione dell’acqua e di come ciò si ponga in un ambito che non è più di sovranità nazionale e neppure di sua estensione coloniale, ma dove proprio sono venuti meno i soggetti di quegli ambiti, malgrado residuino alcune procedure statali e operino fondi sovrani cinesi, qatarioti, autorità d’occupazione israeliane, ecc.29 Il land grabbing, accaparramento delle terre (parliamo a fine 2011 di 200 milioni di ettari), scavalca le partizioni imperialistiche invalse, la mappa Nord-Sud del mondo, dal momento che i gruppi transnazionali e i fondi pensione coinvolti fanno base negli Usa, in Europa, in Cile, Messico, Brasile, Russia, India, Libia, Cina, Sud Africa, paesi del Golfo, Thailandia, Malesia, Corea, Indonesia, Giappone, ecc., mentre l’oggetto prediletto è l’Africa sub-sahariana (per le foreste il Borneo, l’Indonesia e l’Amazzonia). Il fondamento tecnico-organizzativo sta nell’agrobusiness, cioè nella concentrazione della proprietà terriera industrialmente gestita, con robusto impiego di fertilizzanti e semi transgenici, stretto legame fra produzione e collocazione in borsa dei futures, utilizzo massiccio per irrigazione dell’acqua sottratta ad altri usi civici: in parole povere, tutti gli eccessi del capitalismo monopolistico associato a inquinamento, deforestazione, depauperamento a medio termine dei terreni, scomparsa della biodiversità, riduzione delle culture alimentari (con conseguenti aumenti di prezzo e carestie artificiali30) e riscaldamento globale. Le terre spacciate per marginali e sequestrate – nelle forme peraltro del ‘regolare’ acquisto o affitto a lunga scadenza o della confisca da parte di compiacenti governi locali (state sponsored land grabbing), non della conquista aperta coloniale – sono situate in aree di sottosviluppo e sottratte ai piccoli coltivatori (in specie donne), alla pastorizia o agli usi comunitari di villaggio o al demanio, per l’aspetto di valore d’uso alla coltivazione di generi alimentari per uso locale e alla foresta pluviale. Si circoscrivono, mediante accordi segreti, enclaves sovranazionali (non colonie) all’interno di Stati nazionali che ne perdono il controllo in cambio di sovvenzioni, mentre una quota considerevole del prezzo d’acquisto scivola nelle tasche di burocrati locali e capi villaggio 29

30

Una serrata rassegna critica del fenomeno è proposta da T. Kachika, Land grabbing in Africa. A review of the Impacts and the Possible Policy Responses, 2010 (www.oxfamblogs.org/eastafrica/.../Land-Grabbing-in-Africa). Cfr. Stefano Liberti, Land grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo, Minimum Fax, Roma 2011. L’Etiopia, per esempio, è l’epicentro del land grabbing per la produzione di alimenti da esportare e allo stesso tempo è devastata da carestie. Il Mozambico, che riserva buona parte delle sue terre a piantagioni per ricavarne bio-carburanti, non se la passa meglio.

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corrotti. Il tutto con la benedizione e l’incoraggiamento del Fmi, della Banca Mondiale, di programmi regionali di sviluppo agricolo quali il Caadp e l’attiva partecipazione di istituzioni universitarie, che brevettano, sperimentano o semplicemente lucrano nel settore mediante hedge funds. Tranne nei casi di sfruttamento forestale (dal teak alla cellulosa), si tratta di coltivazioni intensive che richiedono cospicui quantitativi d’acqua e sono uno dei due fattori (altro è la produzione di elettricità) che spinge all’edificazione di dighe e sistemi selettivi di canalizzazione e irrigazione, con relativa deportazione delle popolazioni escluse. Anche il land grabbing finalizzato a scopi non agricoli (villaggi turistici, parchi tematici, campi da golf) assorbe considerevoli risorse idriche. Il controllo dell’acqua e la riconfigurazione delle zone umide sono stati a lungo sperimentati nella colonizzazione interna (dai prosciugamenti delle paludi nell’Inghilterra di Cromwell alle dighe olandesi), acquisendo crescente importanza in combinazione con la produzione di energia: sbarramenti e centrali idroelettriche nella collettivizzazione sovietica e nella Cina prima maoista e poi ultra-capitalista. Laddove l’acqua scarseggia, essa è un fattore scatenante di conflitto interno (il contrasto fra usi metropolitani e coltivatori di aranci in California, studiato da Mike Davis e spettacolarizzato in Chinatown di Polanski) e geopolitico (la politica di indigamento fra Turchia, Siria e Irak, l’appropriazione israeliana delle acque del Giordano). La costruzione di dighe a fini idroelettrici subito fuori dei confini nazionali è diventato un potente strumento egemonico nel triangolo Brasile-Paraguay-Argentina e nel rapporto Cina-Birmania. Inutile ricordare che, in questi casi, le prime ad andarci di mezzo sono le popolazioni locali espulse in discariche urbane, poco importa se in nome delle ambizioni dei paesi emergenti o delle fabbriche di Tata nel Bengala occidentale o di qualche latifondista nazionale o di Monsanto. Senza andar tanto lontano, hanno un’aria di famiglia gli espropri in Valsusa per la Tav, sempre nel segno della prevalenza dell’interesse generale sul particolarismo locale, dove il generale è di regola appaltato e sub-appaltato all’impresa privata... Saccheggio e confisca della proprietà comune furono, in forma di enclosures, la base della prima accumulazione capitalistica, a misura delle tecnologie allora vigenti per la bonifica e conversione delle terre e delle zone umide dolci e saline. La sua epopea fu scritta negli opuscoli dei Levellers durante la rivoluzione inglese e la sua iscrizione tragica nel registro della modernità sanzionata nel Faust II di Goethe, atto IV, episodio di Bauci e Filemone. Il suo significato generale di accorata riflessione su aporie e prezzi della modernizzazione capitalistica fu analizzato in tesi di riferimento quali Goethe e il suo tempo di G. Lukács e L’esperienza della moderni-

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tà di M. Berman, e ci torniamo solo per mettere in rilievo alcuni tratti precorritori di pratiche post-sovrane, che eccedono il normale intervento pubblico di depredazione dei poveri a favore dei ricchi in nome del progresso civile e dello sviluppo delle forze produttive. Faust è ormai centenario. Non stiamo a rivangarne la storia, se non per rimarcare il suo rapporto ossessivo con l’azione e con la gloria che solo da essa e dalla produzione, non da altre cerimonie e splendori improduttivi, deriva.31 Occorre adesso far funzionare l’azione sul piano collettivo e l’ingegner Faust, ispirato dallo spettacolo dell’inutile sbattere delle onde sulla riva, vuole esiliare il dispotico oceano dalla terra e si lascia convincere di buon grado da Mefistofele a chiedere in feudo all’Imperatore un pezzo di litorale da strappare al mare mediante dighe e canali, al modo degli olandesi, e coltivarlo in modo da allevare un popolo libero su libera terra, un popolo che si formi nel libero agire (tätig-frei), che investa le sue forze nella trasformazione della natura invece che in sterili ribellioni.32 Vera gloria è l’agire, die Tat ist alles, nichts der Ruhm. E i pilastri dell’agire diversamente glorioso – riecheggiando Hegel e anticipando Weber – sono Herrschaft und Eigentum, dominio e signoria. Power follows property, per dirla con Harrington, teorico della costituzione materiale. L’Impero è in disfacimento e l’Imperatore, pur di ricevere un aiuto, favorirà qualsiasi privato delegandogli per procura poteri sovrani, un eminent domain nella terminologia più moderna che fra poco prenderemo in esame. Ecco Faust impegnato in imponenti opere infrastrutturali di bonifica e riconversione privatistica, eseguite con metodi tayloristici e finanziate 31

32

Seguiamo qui la suggestiva impostazione di G. Bataille (1949), La parte maledetta, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 155-166, su cui cfr. A. Illuminati-T. Rispoli, L’uomo sovrano contro la sovranità, sul citato numero monografico del «Cannocchiale». Calvino, limitando le possibilità dell’uomo alle opere utili, gli dava come mezzo per glorificare Dio la negazione della propria gloria, la rinuncia a ogni vita che possedesse un alone di splendore. «La decisione di svincolare la gloria divina dai compromessi in cui la Chiesa l’aveva posta, non poteva avere conseguenza più completa della consacrazione dell’uomo ad attività senza gloria», cioè borghesi. Faust, proprio all’inizio delle sue peripezie, nel soliloquio nello Studierzimmer che precede l’incontro con Mefistofele, si era scervellato sulla miglior traduzione dell’esordio del vangelo giovanneo. «All’inizio era il logos» non gli sta bene nella versione di Lutero (all’inizio era la parola, das Wort): il senso (der Sinn), l’energia (die Kraft), fino a trovare quella giusta, l’azione: in principio era l’azione, im Anfang war die Tat! Sotto altra luce, si può inserire tutta l’episodio della bonifica nella biblioteca della separazione fra Acqua e Terra, a mezza strada fra le teogonie primordiali (Genesi compresa) e l’epica junghiana di Dick (la riemersione della cattedrale di Heldscalla), che infatti cita ossessivamente Faust come antesignano del fallimento.

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(come in Inghilterra) con fruttuose attività piratesche affidate a Mefistofele e ai suoi sgherri. Faust potrebbe ritenersi soddisfatto, ma resta un problema. Ci sono due bravi vecchietti, Bauci e Filemone, che vivono sul litorale e all’occasione salvano i naufraghi. Un giorno arriva qualcuno che con il lavoro incessante di migliaia di operai sbarra il mare con dighe e recupera l’area convertendola in terra coltivata e giardino. L’imprenditore è uno scomodo vicino, ha edificato un immenso palazzo in pianura e ora ha posto gli occhi sulla loro proprietà per erigere una torre da cui abbracciare la sua opera. Certo, ha proposto una permuta, un podere nella zona prosciugata, ma essi ne diffidano: sono affezionati alla loro collina, capanna, chiesetta e boschetto, e non vogliono traslocare in una piana artificiale. Resistono al progresso. Faust è disturbato da quel possesso estraneo incuneato nei suoi territori, vuole omogeneizzarli e quell’altura è vocata all’osservazione panoramica e panoptica della pianura. Egli incarica Mefistofele di forzare Bauci e Filemone alla permuta: dei mezzi non vuol sapere nulla. Quando si accorge che l’ordine è stato eseguito mediante assassinio e incendio, si arrabbia parecchio, ma abbozza. Le cose precipitano dopo l’incidente: la depressione lo assilla e acceca, Faust reagisce intensificando i lavori e scambiando il rumore dei badili che gli scavano la fossa per l’alacre sterro di un canale, sogna il popolo libero e laborioso che doma la natura e in ciò si realizza. Attimo, sei così bello, fermati! A questo punto Mefistofele si convince che siano adempiute le clausole del patto: Faust soddisfatto rinuncia ad agitarsi, muore e la sua anima va al diavolo. Così non accadrà, perché entra in gioco una complessa macchina di salvazione e alla fine l’eterno femminino trainerà su l’anima in paradiso, in complesso miscuglio fra panteismo spinoziano neoplatonizzato, retaggio gnostico-böhmiano e spirito dialettico del tempo: la seconda parte dell’opera, 1831, sta in risonanza con la Fenomenologia hegeliana e le Lezioni sulla filosofia della storia. L’episodio delittuoso, che sfora e sporca il sogno modernizzatore di Goethe, lo mostra apologeta non ottuso della rivoluzione capitalistica, piuttosto – da accanito lettore del «Globe» qual era – fautore della globalizzazione saint-simoniana, di un socialismo industriale e utopico, qualcuno che vive sinceramente le contraddizioni tragiche dello sviluppo e lo descrive come un «cantiere incompiuto» (Berman). Il dispositivo continua a funzionare, spogliato dai problemi di coscienza del prometeico Evolutore, nelle due varianti del racket mafioso (diretto o ‘all’insaputa’ del committente) e della legittimazione giuridica, i due lati benjaminiani della Gewalt: violenza e diritto.

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Il secondo lato è di spiccato interesse perché generalizza un aspetto a prima vista secondario della storia di Faust: l’agire da privato in conformità a una delega imperiale. Goethe la presenta come un relitto del sistema feudale del Sacro Romano Impero, ma nella forma moderna della ri-feudalizzazione post-sovrana, ricompare quale delega federale Usa a una corporation – al corporate greed dell’1% in terminologia #Occupy – nell’assai dibattuta sentenza della Corte Suprema Usa, Kelo v. City of New London (545 US 469/2005) che legittimò il trasferimento alla multinazionale farmaceutica Pfizer dei poteri d’esproprio per pubblico interesse, delegation of eminent domain for economic development to a private entity. C’era una volta in America una pink house che, insieme a tante altre, serviva per installare laboratori e alloggi di un mirabolante e poi abortito progetto di sviluppo locale della Pfizer e Suzette Kelo era l’erede di Bauci e Filemone. Nella dissenting opinion di un giudice di minoranza, quella della Pfizer, avvalorata dalla municipalità e poi dalla suddetta Corte, fu definita una condotta alla Robin Hood inversa: rubare al povero per dare al ricco. Abituale per il finanzcapitalismo, che drena reddito dai lavoratori dipendenti e dai beni comuni a favore di una cosca ristretta di azionisti, banksters e speculatori, senza disdegnare soprusi ‘legali’ e intimidazioni per estorcere taglie su tutte le forme di vita. L’elemento saliente è il dispositivo del sub-appalto del pubblico, già in passato usato per favorire l’accumulazione del privato, direttamente al privato. Privatizzazione del pubblico e confisca pseudo-pubblicistica del piccolo a favore del grande privato, recinzioni e brevetti sul genoma, finte liberalizzazioni e sequestro dei diritti pregressi sono le armi variabili con cui si realizza un gigantesco spossessamento dei beni comuni materiali e immateriali, naturali e artificiali. L’esigenza strategica del dominio – in cui ormai si confondono potere politico e proprietà nonché le figure giuridiche del pubblico e del privato – diviene il tratto emergente del processo capitalistico, rendendo residuali gli imperativi atavici dell’efficienza economica e del mercato concorrenziale. L’accumulazione del capitale non è confinata a un’origine impenetrabile e accantonata con discrezione, ma si rinnova periodicamente ricorrendo alla confisca della ricchezza sociale e a strumenti extra-economici, in sostanza a una violenza legalizzata di cui fa parte organica l’appello esorcistico contro la violenza degli oppressi, contro la malvagità radicale del 99% sempre propenso a devastazione e saccheggio... quella che Luisa Muraro chiama la retorica antiviolenta. Ma qual è la novità del dispositivo giuridico, con tutti i riflessi teologici e politici? Rimettiamo insieme i pezzi. Cominciamo dalla sovranità. La perdita di quella nazionale vale a pieno titolo per gli Stati piccoli e medi e procede

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in due sensi: cessione verso l’alto a organismi imperiali di fatto o sovranazionali per trattato o a potenze finanziarie multinazionali, cessione verso il basso a favore di articolazioni locali o strutture economiche. I grandi Stati – le vecchie superpotenze e i Brics – redistribuiscono la sovranità in orizzontale sul mercato finanziario e in verticale spacchettando (unbundling) gli apparati di controllo per promuovere lo sviluppo, sciogliendo la rigidità della regolamentazione per legge con l’elasticità di misure amministrative, il cui alone emergenziale copre l’occasionalismo concreto. Le condotte legali variano secondo i paesi. Abbiamo visto il ruolo della Corte Suprema americana nella riscrittura dell’eminent domain (e in molte altre restrizioni dei poteri del legislativo e dell’esecutivo in materia di Welfare), ma anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea non scherza, assicurando per esempio la prevalenza della legislazione nazionale più permissiva di un’impresa che delocalizza sulla territorialità dei diritti di lavoro più garantisti del paese d’insediamento e in tal modo abbassando la tutela dei dipendenti del nucleo originario europeo fino al livello infimo dei paesi dell’Europa orientale. Il centro-sinistra italiano ha fatto di peggio per il settore navale rispetto al personale extra-comunitario!33 Il trionfo del liberismo e l’abbassamento complessivo dei salari si realizza con un duplice movimento: delocalizzazione dell’industria da Ovest a Est (dove i costi sono minori) e dei servizi da Est a Ovest (o da Sud a Nord), mantenendo i più bassi salari d’origine. Questa metodologia riduce il ricorso alle migrazioni intra-europee, troppo garantite dal diritto comunitario e dalla facilità di organizzazione e di riflusso a casa degli immigrati, mantenendo soltanto la componente extra-comunitaria, più agevolmente clandestinizzabile ed espellibile. Il dato intrigante è che ciò si realizza grazie a un trasferimento di diritto e di fatto di funzioni sovrane nazionali e comunitarie a un organo arbitrale giuridico, che fa valere princìpi astratti di libera concorrenza senza impegnare organi direttamente o indirettamente elettivi e definendo piuttosto un’area giuridico-mercantile sovrastatuale che rende obsoleta l’esistenza di regioni intrastatuali impermeabili a immissioni esterne. L’Adam-Smith-

33

Il doppio registro marittimo, stabilito dal DL 457 convertito in legge 30/1998, prevede la possibilità per gli armatori di firmare contratti differenziati con i marittimi a seconda dei rispettivi paesi d’origine, favorendo l’imbarco di personale straniero a basso costo e senza alcuna qualificazione professionale, con i conseguenti rischi per la sicurezza clamorosamente emersi nel naufragio della Costa Concordia.

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pensiero o presunto tale diventa coercitivo, in un’impostazione che «esclude dall’ordinamento stesso ogni forma d’economia che non sia omogenea al mercato capitalista e coincide con ogni atto di verifica della garanzia di regolarità».34 Non per niente, l’inserimento, nelle costituzioni nazionali, con il fiscal compact e altri accordi, dell’obbligo di pareggio di bilancio è stato definito una liquidazione per legge del pensiero keynesiano, per non dire di velleità socialiste. Non abbiamo un’astratta Grundnorm kelseniana, ma un processo costituente globale o europeo che a grandi linee si accompagna (nella difesa dei brevetti, del land grabbing, nella crociata contro la pirateria informatica) a dispositivi di autotutela mercantile grazie al comando diretto sul patrimonio genetico, sul software, sull’emissione di moneta e sui prodotti finanziari. Due process of law + due process of code. Inibire una pianta geneticamente modificata a produrre semi appropriabili dal coltivatore e costringerlo a riacquistarli anno per anno è faccenda di codice, non di legge, e lo stesso criptare un programma o una riproduzione musicale venduta rendendoli non copiabili. Il divieto legale arriva in sovrappiù, per chi è capace di craccare e va perseguito. In un altro gioco linguistico, prendiamo le zone economiche speciali cinesi, ad alta deregolamentazione giuridica e fiscale, paradisi dell’unbundling (disassemblaggio della normativa nazionale) e dell’inquinamento, che hanno oliato il trapasso morbido dall’industria di Stato alle imprese private e a corporations ‘rosse’ concorrenziali e/o supplementari agli investimenti pianificati e ai fondi sovrani, co-operanti nell’investimento estero. Esse sono in stretta connessione con il preesistente sistema Hukou, che dosava diritti di cittadinanza e accesso all’educazione e al Welfare, in analogia a quanto in altri paesi e situazioni sono o furono i permessi di soggiorno, i documenti di residenza, al limite l’apartheid. I contadini migranti (nonmingong) nelle zone speciali sono cittadini di seconda classe, senza assistenza sanitaria e senza titolo per i figli a frequentare le scuole. Si creava così un bacino di lavoro a buon mercato e in principio docile; le cose poi sono andate altrimenti, tanto che le imprese delle zone speciali (cinesi, taiwanesi e multinazionali) hanno cominciato a delocalizzare in paesi dove il lavoro è

34

M. Surdi, All’origine della giustizia, in «Giornale di storia costituzionale», n° 7, 2004. La nozione schmittiana di Grossraum, per cui il giurista passò grossi guai a Norimberga, scontava già lucidamente il deperimento della sovranità territoriale, come abbiamo già rilevato a proposito del concetto di ‘politico’. Il nuovo (per Schmitt indesiderabile) nomos planetario si fonda sulla partizione in sistemi economici, secondo la regola (commutabile) cuius regio, eius oeconomia.

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ancor più deregolamentato e il tenore di vita più basso, tipo Thailandia e Vietnam.35 Un meccanismo efficiente per il takeoff cinese e forse alla lunga superiore all’instabile complementarità fra bilancio federale e multinazionali Usa, tanto che il paese asiatico ha potuto acquistare buona parte del debito pubblico Usa. Quest’ultimo ha perso l’egemonia imperiale acquisita per breve periodo dopo la fine della guerra fredda ed è costretto a tamponare tale perdita relativa con il controllo sul dollaro e con la mantenuta egemonia militare. Gli stessi investimenti nel settore (keynesismo militare) sono un fattore importante anticiclico. La figura della guerra cambia nel nomos planetario, sotto un profilo che la superiorità Usa consente di leggere con acuta precisione. La potenza bellica americana è garantita infatti dagli investimenti tecnologici – dalla virtuale minaccia nucleare all’uso effettivo di satelliti e droni sul teatro dell’antiterrorismo – ma anche dall’impiego parallelo di strapagati professionisti di Marte, i contractors, eufemismo che mette in rilievo il carattere di sub-appalto produttivo dei successori post-sovrani delle compagnie di ventura pre-sovrane. La privatizzazione manageriale della guerra riduce i costi, valorizzando l’iniziativa autonoma mediante esternalizzazione (una partita Iva del massacro asimmetrico), fino a un accrocco ideale di Predators imperiali senza pilota e mercenari a reclutamento internazionale. L’incubo schmittiano dei partigiani dell’aria si realizza, a parti equivalenti, con i terroristi kamikaze, terrestri e aerei, e le guerre locali appaltate, estensione planetaria della dialettica di guerriglia e controguerriglia. Ai partigiani che si battono per la liberazione del territorio nazionale o di una classe oppressa e agli oppressori territoriali o di classe subentrano, da un lato, insorgenti di qualsivoglia tipologia, dall’altro eserciti professionali integrati da mercenari e ideologicamente equipaggiati con orpelli umanitari che mantengono l'equilibrio geopolitico e del possesso delle risorse giustificando i più efferati arbitri. Di nuovo, il collasso dello jus publicum Europaeum e il ritorno a una postura ex justa causa ripristinano un principio feudale di autotutela contro l’eterotutela terza, almeno in principio, della modernità. Esso trionfa in si35

P. Do, Il tallone del drago. Lavoro cognitivo, capitale globalizzato e conflitti in Cina, DeriveApprodi, Roma 2010. Per una peculiare accezione dell’unbundling come disconnessione dell’unità nazionale in unità subnazionali di origine migratoria integrate transnazionalmente, cfr. S. Sassen, The global city: New York, London, Tokyo (1991), Princeton University Press, Princeton 2001, 2d ed., tr. it. Le città globali, UTET, Torino, 1997. Tali strutture rendono competitivi i bassi salari metropolitani rispetto alle periferie globali.

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tuazioni non belliche, sul limite fra politica-economia e la loro prosecuzione con altri più ruvidi mezzi. In primis (se ne tratterà nella sezione Aria), il governo dello spazio cibernetico con la guerra elettronica e la guida satellitare dei sistemi di puntamento, dove si torna, infatti, a parlare di pirati e caccia ai pirati. Per mostrare all’opera logiche sovranazionali, combacianti con l’appropriazione post-sovrana di terre e risorse esterne ai confini, basta guardare al ruolo della frontiera per l’uso delle altre risorse, quelle umane. Alla mobilitazione totale finanziaria, di cui il land grabbing è parte non secondaria, corrisponde la mobilità transfrontaliera fra sistemi eteromorfi. Per garantire e far fruttare la prima occorre controllare e sfruttare la seconda. Le pratiche di polizia globale, affidate agli eserciti professionali variamente combinati e ai loro contractors, si dispongono in continuità con la persecuzione degli stranieri ospiti nei paesi ricchi, con la conseguenza che la chiacchiera umanitaria dilagante si accompagna a rigurgiti di razzismo dall’alto e dal basso, che in tempi di crisi trova ottima risonanza. In realtà, non c’è alcuna intenzione dei ceti dirigenti (se non a bassi fini di propaganda elettorale) di respingere gli immigrati, li si vuole piuttosto utilizzare come ospiti invisibili, sottopagati e privi di diritti, perché il nuovo colonialismo non separa, include escludendo, filtra sui confini, seleziona le quote tollerabili di lavoro regolare, irregolare e delinquenziale: la modica quantità di spaccio necessario, la manovalanza per le mafie, perfino un po’ di volontari premiati con la cittadinanza. I centri di detenzione nelle aree di frontiera o addirittura al di là (un grabbing sulle persone fisiche), dai Cie ai lager libici, a Malta e alla Slovenia, servono al controllo sociale interno ed esterno dei flussi sul mercato del lavoro in congiunto con la frammentazione di diritto e di fatto del precariato nazionale, alla selezione molecolare che implementa gli shock simbolici della guerra e del contrasto all’invasione ‘barbarica’. Il ‘mostro’ viene usato due volte: la prima per terrorizzare e omologare, la seconda per costringere al lavoro sottosalario. In entrambi i casi, migrante e vittima di guerra ammoniscono il precario sul limite verso cui può precipitare se non si accontenta della sua condizione. Il concetto di cittadinanza è svuotato nel collegamento tanto con il lavoro quanto con il territorio. Quando tutta la vita è messa al lavoro, cadono i confini fra tempo di vita e tempo di lavoro, fra Stati e sistemi di garanzie. Proprio perché non si tratta di nuda vita, ma di lavoro vivo incorporante relazionalità, è l’intera società, da un lato e dall’altro del confine, a mutarsi in lager. Non c’è bando e separazione, il confine è permeabile, filtrante, coronato dalla medesima promessa Arbeit macht frei, scritta sui due lati, visibile da dentro e da fuori il campo...

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Perfino laddove si erigono nuovi muri, fra Messico e Usa o all’interno dei territori occupati da Israele – in un apposito capitolo Guareschi e Rahola l’hanno mostrato con molta efficacia – questi non definiscono sovranità nazionali né, tanto meno, una territorialità chiusa, una coincidenza di ordinamento e localizzazione, Ordnung e Ortung, bensì governano flussi di forza-lavoro e di merci (droga compresa), fungono da valvola aperta o chiusa secondo le esigenze del mercato del lavoro e delle tensioni politiche.36 Israele funziona anzi da paradigma-laboratorio per una cittadinanza differenziale suddivisa in varie fasce: israeliani-ebrei come cittadinisoldati a pieno titolo (pur se paradossalmente pesano di più i fondamentalisti religiosi che non prestano servizio militare ma garantiscono la biblicità della terra), arabi-israeliani come cittadini di seconda classe (con privilegi e servizio militare per i drusi), immigrati di provenienza asiatica come pura forza-lavoro, infine abitanti dei territori, privi di diritti e nemici potenziali, espellibili dalle città ed espropriabili secondo le esigenze della colonizzazione a macchia di leopardo del West Bank. Un esempio di eccezioni plurime che ha una proiezione urbanistica non tanto nelle città e nei muri filtranti quanto negli insediamenti, dove i colonizzatori si annidano sulle colline e i colonizzati restano in pianura, con le case terrazzate agevolmente individuabili dagli elicotteri e dai missili teleguidati, in un mix di tecnologia sofisticata e brutale manualità (pestaggi, frattura dei polsi, taglio degli olivi). L’appropriazione dell’acqua vi gioca un ruolo determinante, per le coltivazioni e per l’ideologia, ribaltando a danno degli arabi lo stereotipo performativo antisemita, secondo cui gli ebrei erano privati d’acqua nei ghetti e nei lager e poi dileggiati come zozzoni. Al solito, la vittima impara e perfeziona le tecniche di vittimizzazione. Il land grabbing s’inserisce in questi schemi di sovranità fratta e sovranazionale, di Ordnung ibrida, con il suo carico di prodotti transgenici, biocarburanti, soia, fiori, traffico di diritti d’emissione e verdurine per sceicchi, con l’esternalizzazione dell’agrobusiness determinata non dal costo della manodopera ma dalla disponibilità fisica di terra, dalla mancanza di vincoli non tanto sul lavoro quanto sull’uso di pesticidi e Ogm. Al tempo delle recinzioni materiali si considerava un reato premeditato la raccolta nei boschi della legna residua e perfino delle fragole e 36

«Se dunque i territori continuano a rappresentare un fattore cruciale, a venir meno è però la possibilità di rapportare la loro problematica centralità a un singolo principio ordinatore, in ultima istanza a un’idea univoca di sovranità», Guareschi-Rahola, op. cit., p. 172.

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del ribes (Marx aveva esordito su quel terreno), oggi, all’apogeo delle recinzioni e produzioni immateriali, lo è l’infrazione di brevetti su costosi farmaci salvavita, la pirateria di musica e codici software, di semi Ogm, di brandelli di patrimonio genetico umano e vegetale anche solo parzialmente modificato, mentre resta sub judice la brevettabilità esclusiva di prodotti già esistenti in natura e sequenziati in laboratorio. Non è fantascientifico ipotizzare che in futuro da qualche parte sia reso illegale o almeno soggetto ad autorizzazione onerosa coltivare piante normali e allevare animali sottoposti a un completo screening genetico, insomma piantare tuberi, seminare riso o grano e – perché no? – riprodursi sessualmente... Del resto, se il land grabbing ha un precedente giuridico nelle concessioni minerarie e nei feudi tropicali dell’United Fruit, l’anticipazione ideologica era offerta dalla fantascienza, nei racconti dedicati alla colonizzazione di remoti pianeti del sistema solare per sopperire alle necessità alimentari ed energetiche della Terra. Fantascienza? Sì, certo: la s-f è la teologia adeguata al nomos planetario.

10. Amazzoni, ancora On écrit l’histoire, mais on l’a toujours écrite du point de vue des sédentaires, et au nom d’un appareil unitaire d’État, au moins possible même quand on parlait de nomades. Ce qui manque, c‘est une Nomadologie, le contraire d’une histoire. Les nomades ont inventé une machine de guerre, contre l’appareil d’État. Jamais l’histoire n’a compris le nomadisme, jamais le livre n’a compris le dehors. Au cours d’une longue histoire, l’État a été le modèle du livre et de la pensée: le logos, le philosophe-roi, la transcendance de l’Idée, l’intériorité du concept, la république des esprits, le tribunal de la raison, les fonctionnaires de la pensée, l’homme législateur et sujet. Prétention de l’Etat à être l’image intériorisée d’un ordre du monde, et à enraciner l’homme. G. Deleuze-F. Guattari, Introduction a Mille Plateaux

Di un diverso modo di muoversi sulla terra, stiamo ragionando. Su una terra non recintata, affittata, appaltata. Dove non si radicano razze, Stati, identità, frontiere escludenti e includenti e neppure filtri depuratori di flussi di lavoro vivo. Immagine davvero suggestiva, sebbene imprecisa, quella

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di Deleuze e Guattari,37 per cui l’Occidente avrebbe un rapporto privilegiato con la foresta, il disboscamento, la coltivazione di piante radicose e arborescenti, l’allevamento per genealogie razziali, mentre l’Oriente sarebbe stepposo, erboso, nomadico e rizomatico. Solcato da fiumi e canali lungo cui si costituisce l’autorità e scorrono linee di fuga. Poi l’America settentrionale, che scivola dall’Est europeizzante alle praterie e giù verso l’Ovest della frontiera, delle allucinazioni psichedeliche, del viaggio... Aree rispettive e contrapposte di trascendenza e immanenza. Più semplice, più complesso raffigurarci i fiumi hölderliniani, che scorrono a ritroso da Oriente a Occidente, gli dèi che passano dall’Indo al Danubio e al Reno, i popoli che ibridano costumi e linguaggi, uniscono cielo e terra, montagne e vallate percorrendo lo spazio in migrazione. Nuovo nomos planetario è che non c’è più nomos, che l’Ortung è delocalizzata e l’Ordnung cade nel disordine, che l’Uno va in crisi sulla terra e in cielo, come sovranità e come monoteismo. Questo è il politeismo, la nuova teologia politica – a chiamarla ancora tale. Con le dovute avvertenze, del genere che il richiamo ai beni comuni non si limita a riproporre e inverare quanto irrealizzato in certi aspetti (popolari, non feudali) del diritto consuetudinario – la tesi marxiana del 1842. La nomadologia deleuziana38 è, per certi versi, un’anti-storia, come rizoma e divenire sono anti-genealogie e anti-memorie riterritorializzanti, se intendiamo – per metonimia – trattarsi di incrocio congiunturale di genealogie, memoria selettiva (incondivisa, di parte), storia non-universale dei vinti o meglio dei ribelli, degli eredi di un futuro anteriore, tradimento deliberato del passato come linea di fuga. Si tratta, a suo modo, di una Mythologie der Vernunft dove la ragione sia pluralizzata e il Volk sia diventato non solo vernünftig ma anche moltitudine, muta nomadica ed esigente, molteplicità appresa istantaneamente, multiplo senza previa unità e gerarchia consolidata, 39 davvero al capo opposto della teologia neoplatonica dionisiana dove «senza l’Uno non c’è moltitudine e l’Uno sarà senza moltitudine»40 e la manenza (moné) del Primo Principio che resta sempre in se stesso, inalterabile e inesauribile, tra37 38 39 40

G. Deleuze-F. Guattari, Capitalisme et schizophrénie. Mille plateaux, éd. de Minuit, Paris 1980 (tr. it. Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 1980), pp. 28-30. Ivi, pp. 34, 32 e 360 sgg. Il divenire non produce filiazioni ma alleanze e simbiosi, è rizomatico e contagioso, non arborescente e classificatorio, p. 291. Ivi, pp. 45-47. La Terra non recintata e non surcodificata è apparato di captazione di energie cosmiche, uno stretto correlato della deterritorializzazione, pp. 635636. De divinis nominibus XIII (Migne, PG III 980a, tr. it. p. 392).

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bocca nella processione (próodos) moltiplicandosi e chiama allo spirituale, unitivo ritorno (epistrofé). I banchi di pesci spinoziani, di cui alla precedente sezione, scorrono nell’acqua come i nomadi sulle praterie, si compongono e scompongono, si alleano e si divorano – immagini animate di una modalità irriducibile. In un vertiginoso plateau fra mille,41 Deleuze e Guattari assemblano nelle Amazzoni divenire-animale e divenire-donna, divenendo animale il guerriero per contagio della fanciulla, che diventa guerriera per contagio dell’animale, per impercettibili transizioni molecolari entro la cornice di una cattura della macchina da guerra nomade da parte di un embrionale apparato di Stato (il reclutamento delle Amazzoni, inserite a guisa di folgore fra Stato greco e troiano, sotto le mura del secondo). In un altro plateau, dal titolo specifico Trattato di nomadologia: la macchina da guerra,42 gli autori delineano un nomos nomadico e guerriero irriducibile alla recinzione della terra, alla fortificazione delle città, alla legge, alla forma-Stato autoriproduttiva nell’identità, alla dittatura invasiva del significante, della visagéité surcodificante sull’archetipo del Cristo. Il corrispettivo epistemologico – la scienza nomade che orla la macchina da guerra nomade – è il ruolo lucreziano del clinamen per orientare e raggruppare i flussi, la differenza fra uno spazio liscio vettoriale e uno spazio metrico striato, fra eventi e sostanze. Entrambe, macchine e scienze, sono riassorbibili nella logica dello Stato, i mercenari possono essere arruolati sul limes, il controllo di fiumi e canali è affare del dispotismo asiatico e idraulico alla Wittfogel, la Pentesilea di Kleist è la tragedia dell’incorporazione di una muta in una strategia sedentaria, della regina a un amore impossibile per eccesso di reciprocità. La noologia statale si rivela nelle metafore dell’impero del vero e della repubblica degli spiriti, il gioco dell’Essere e del Soggetto.43 In termini appena diversi: idealismo della sovranità. 41 42

43

Ivi, pp. 340 sgg. e 439-440. Ivi, pp. 434 sgg, che si completa con il capitolo Apparati di cattura, pp. 528 sgg.; vedi anche pp. 280 sgg. sulle derive cancerose fasciste della macchina da guerra. Lo schema flussi-cattura è però esteso eccessivamente nell’analisi dello Stato e del capitalismo (meglio risulterebbe applicabile a taluni aspetti dell’attuale finanziarizzazione), fagocitando con qualche incontinenza storia e teoria. Assai rilevanti sono alcuni asserti particolari: per esempio, l’oscillazione fra scienze legali e ambulanti viene rintracciata nel Timeo, quantunque Platone, dopo breve dubbio, se ne sbarazzi, pp. 457 sgg. L’illuminismo è il risvolto riformatore e consolidante delle monarchie assolute: Kant n’a pas cessé de critiquer les mauvais usages [della statizzazione del pensiero] que pour mieux bénir la fonction, ivi p. 466. Ne è erede la psicoanalisi, pensie-

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Il nomade aderisce al percorso, non alla sua mèta come l’emigrante, sebbene le due figure possano occasionalmente sovrapporsi, le sue piste distribuiscono gli uomini in uno spazio aperto, intersecano e spezzano recinti, muri e sentieri del sedentario. Il nomade, in rapporto a una destinazione deliberata, se ne resta immobile, calato nel vagare e non in un obbiettivo da raggiungere. Una velocità vorticosa senza movimento, un calpestare il suolo che non è terra ma occasionale supporto, insinuando il proprio spazio liscio fra quelli striati della foresta e del quadrillage coltivativo, che lo premono e condizionano. Ha una geografia, non una storia. All’assoluto locale, senza fissazione, del nomade corrisponde un monoteismo vagabondo, che si condensa solo slittando a migrazione (Islam). Adesso il discorso di Mille plateaux, spesso letterario e metaforico, comincia a fare i salti mortali con la coerenza interna, ricorrendo con troppa insistenza alla riterritorializzazione implicita o imbrogliando le carte con la striatura degli spazi lisci del mare e dell’aria, luoghi tipici del nuovo nomos planetario schmittiano. Il gioco a rimbalzo di liscio e striato si fa più sfuggente quando invade indiscriminatamente geometria, fisica, biologia, arte, religione, economia e geopolitica, mentre convince nello schizzare figure di vita e di pensiero: voyager en lisse ou en strié, penser de même... Sembra che il nomadismo, sganciato dalla migrazione, più che una categoria storica contemporanea (malgrado seducenti digressioni sulle tecniche di lavoro e armamento e brillanti intuizioni geosofiche), sia uno stile dello spirito, una rivolta contro lo spirito di gravità dello Stato declinato come paradigma assoluto, il mostro freddo nietzschiano, in simbiosi con la geometria omogenea cartesiana, la numerabilità attuariale e le metodologie panoptiche di disciplinamento e sorveglianza. Per questo, a lato della sfavillante lettura deleuziana di Pentesilea che altrove abbiamo condiviso,44 conferiamo peso al racconto erodoteo, dove il nomadismo amazzonico, quanto simile ai miti innici hölderliniani di confusione!, ha la tonalità della migrazione e del reinsediamento che mantiene la differenza nella traduzione. Le Amazzoni accoppiate con gli Sciti, riprendono il cammino, dopo la prima deportazione, stavolta insieme ai mariti per nuove terre dove stabilirsi senza i precedenti vincoli loro (la muta di sole sorelle) e dei mariti (la famiglia). Mantengono le identità rispettive nella fusione mediante il doppio stile di vita loro e dei mariti (che rimangono maschi tradizionali, quantunque permissivi dei costumi insoliti delle

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ro della Legge. Nietzsche ne è l’alternativa tribale. E prima Spinoza, e poi Rimbaud, Kleist, Artaud... A. Illuminati-T. Rispoli, Tumulti, cit., pp. 123 sgg.

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partner) e mediante il doppio idioma: le Amazzoni usano entrambe le parlate, con qualche solecismo nella scita, mentre gli sciti conoscono soltanto la loro. Spetta così alle donne il compito di tenere unito il nuovo popolo dei Sarmati con una continua traduzione. Lemma che nell’italiano carcerario e nell’inglese rendition indica un trasferimento forzoso e al contempo una pratica di accoglienza dell’estraneo nel proprio, una relazione dinamica e non l’affiancamento di identità rigide. L’altro termine, translation, è usato da Dick per indicare i trips indotti dalla droga, i trasferimenti in universi immaginari, bizzarro no? La riserva di una lingua segreta eccede la relazione finita di corrispondenza surdeterminandola. L’eterolinguale e il transindividuale incrinano la ‘spontanea’ omolingualità delle nazioni-essenza e di quelle a matrice coloniale, di ogni universale sclerotico territorializzante. La barriera linguistica – il più tenace e selettivo dei confini – è aggirata iniettando il veleno del bilinguismo nelle vene del corpo abbracciato. Più che con-cittadini, i Sarmati sono co-stranieri, conservando e spandendo contagiosamente la differenza – si sa, language is a virus! Nel suo scarto radicale l’esodo materiale, di genere e linguistico, produce una moltitudine refrattaria alla rappresentazione – guardate la cautela di Erodoto! –, tanto che solo Hölderlin, l’anti-rappresentativo, oserà accennarvi con delicata diffidenza in Migrazione: quello scrutarsi, sillabare parole sconosciute, sfiorarsi la mano, generare un nuovo flusso da codici scambiati. Soltanto qui guadagna senso l’abitare hölderliniano pieno di merito però poetico dell’uomo su questa terra, voll verdienst, doch dichterisch, wohnet der Mensch auf dieser Erde (Nell’amabile azzurro) – dove il fuori-genere Mensch è la coppia dell’Amazzone dalla lingua segreta e dello Scita consenziente –, soltanto qui la terra lucreziana, altrimenti carente di senso, ne assume uno in quanto plurimo e ibrido. Nel dialogo radiofonico Sul nuovo spazio del 195445 Schmitt insiste sulla paura mitica che il terricolo nutre di fronte al mare, sull'apocalittica sparizione dell'oceano insieme al male e al peccato, sull'essere la terraferma dimora e casa dell'uomo, ai cui margini si aggirano mostri informi e leviatani. Vero che solo la civiltà marittima genera l'industria, ma sarà poi un bene? È una sfida – e ancor più lo sarà quella dell'aria – che amplia lo spazio-potere ma non cancella il fatto che l'uomo è e rimane figlio di questa terra (poscritto del 1961). La natura dichiaratamente non-scientifica degli elementi si giustifica come metonimia del nomos distributivo e proprietario, di un'attribuzione di senso arcaica, violenta e segregante. L'opposto di Hölderlin!

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In Dialogo sul potere, Adelphi, Milano 2012, pp.49 sgg.

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Terra

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Ricettacolo amorfo della vita, materia prima non formata, chora accogliente e afferrabile solo per logiche bastarde, bersaglio di normalizzazione metafisica in Platone e teologica in Agostino, la terra ha la sua dimensione materiale e sociale nella proprietà e nel diritto, nel racchiudere conservando, nel definire appartenenze, nel radicare comunità e nel dividerle fra amici e nemici, il suo rovescio nel nomadismo espropriante, nella transitabilità migrante. Caverna e prateria, rifugio e campo di battaglia, dimora poetica dell’Essere e immanenza di inquietanti spiriti della Terra. La teologia religiosa inchioda il corpo alla terra ed esalta l’anima in cielo. Il politeismo difende la fedeltà dell’uomo alla terra e schernisce il retromondo platonico-cristiano. La teologia politica radica nel territorio recintato proprietà, diritto e guerra. Il nomos schmittiano stringe nella forma possessiva della legge popolo e terra, ne fa il luogo della decisione, della spartizione, della produzione. Il nomadismo, l’anti-nomos, converte l’erranza in stabile valore e suggerisce la traslazione territoriale e linguistica come modo superiore di abitare la terra. La danza labirintica di Arianna lo suggella.

I segni di terra o trigono di terra (Toro, Vergine, Capricorno), sono associati a stabilità e concretezza, fra tutti i più concreti e razionali, bravi a nascondere le emozioni. Secco, negativo, yin, freddo. Aspetti sfavorevoli: introversione, possessività, materialismo, eccessiva serietà. Intrattengono buone relazioni con i segni d’acqua controbilanciando l’eccesso di pragmaticità, mentre entrambi condividono serietà, onestà e fedeltà.

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ARIA

Per i nostri fini non disambiguiamo l’aria-elemento dal quinto elemento, pempton stoicheîon o quintessenza, sostrato dell’immutabile mondo celeste, o Aithér, figlio esiodeo dell’Erebo e della Notte e orfica anima mundi, infine dall’etere, ipotetico mezzo di propagazione delle onde elettromagnetiche fino all’esperimento cruciale del 1887 di Michelson e Morley. Alla stessa voce annettiamo il vasto regno dell’immaginazione mistica: mundus imaginalis o angelico malakût, dalla teurgia neoplatonica e dalle gerarchie angeliche dionisiane ad Avicenna e all’illuminazionismo di Suhrawardî, ebraico Malkhut o Shekhinah, decima delle Sefirot, estrema scintilla della luce divina. Aereo è il neoplatonico pneûma, materia dei sogni, delle divinazioni e dei demoni, soffio che anima l’universo e scorre nelle arterie e negli organi spermatici, mediazione fra corporeo e incorporeo, razionale e irrazionale.1 Tecnologico retaggio ne è il cyberspazio. L’aria si converte in fuoco, il respiro scandisce (lo vedremo in sufi ed esichiasti) la ricezione della luce. Nella luminosissima caligine abita e si cela il divino che non è, che supera l’Essere. Di quel theîos gnofós dionisiano, come della medievale Cloud of Unknowing così amata in ambito pop, parleremo a proposito dell’elemento Fuoco, che del Dio supersostanziale è immagine prediletta. Più materialista, Lucrezio vi fa circolare i simulacra sottilissimi che si staccano dalle cose e vanno a impressionare i sensi; spettri e apparizioni ne sono residuo incontrollabile e vano. L’aria è supporto della musica, della memoria e del denaro. La prima va da sé (e fa pochi capricci teologici, a meno di considerarla l’unico accettabile trascendente), la seconda è stata spostata di recente dalle cavità della terra alle nuvole, il terzo fu sciolto da Nixon il 15 agosto 1971 dalla prigione dei filoni auriferi e vaporizzato nell’inconvertibilità assoluta. Denaro e uccelli varcano ogni confine terrestre.

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Cfr. G. Agamben, Stanze. Le parole e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977 e 1993, III 3, pp. 106 sgg., e III 5, pp. 140-145.

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Teologia dei quattro elementi

Qualcosa sul regime giuridico dell’aria nel nomos planetario l'abbiamo anticipato. L’uccello Ziz vi scorazza alla grande e ha figliato satelliti-spia e droni assassini. Star Wars ne è la Summa fanta-theologica.

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1. Clouds Le korai nel museo dell’Acropoli sorridono immemori. Liberate dal fardello del destino, il loro mistero è l’assenza di mistero. Per esse non passa un aldilà di cui cogliere il riflesso enigmatico nello specchio. Niente da afferrare di’esoptrou e tanto meno en ainígmati. Se allegoriche, è di un’altra allegoria che parliamo, di un’altra aura teologica. Non che non siano a volte minacciose, ma è minaccia tutta nostra, borbotta dall’interno. Ci guardano da un altrove, non da un fuori. Stanno su una soglia d’indistinzione fra oblio e ricordo, utopia arcaica o futuro già incalzante. D’aria consistono le nuvole. Di memoria consiste il cloud, lucroso inveramento tecnologico dell’infosfera vernadskiana. Un tempo la si faceva cavernosa, conservata in grotte recondite ma accessibili del vasto sottosuolo dell’oblio: et retractanda grandis memoriae recessus et nescio qui secreti atque ineffabiles sinus eius (Agostino, Confessiones, X 8). Laggiù entrano dall’esterno e sono riposte in ordine tutte le cose, o meglio le loro immagini percepite mediante i sensi, da quelle tenebre silenziose le richiamo a piacere e si fanno suono, colore, odori, differenze del tatto, balzandomi incontro con docile prontezza o con sussulto involontario, ravvivando l’esperienza in assenza degli oggetti e delle circostanze originarie. Grazie a questo mi confronto con me stesso e mi progetto per il futuro. I campi, antri, le caverne incalcolabili della memoria sono «incalcolabilmente popolate da specie incalcolabili di cose, talune presenti per immagini, com’è il caso di tutti i corpi, talune proprio in sé, com’è il caso delle scienze, talune attraverso indefinibili nozioni e notazioni, come è il caso dei sentimenti spirituali, che la memoria conserva anche quando lo spirito più non li prova» (ivi 17). Eppure quelle immagini, che con meravigliosa velocità (mira celeritate) erano afferrate e immagazzinate in celle (et miris tamquam cellis reponuntur) e altrettanto rapidamente tirate fuori a comando (ivi 9), oggi sono ‘storate’, salvate e scaricate dal cloud secondo la posizione di cell della nostra unità mobile e con celeritas dipendente dall’ampiezza della banda larga disponibile. Ciò vale sia per la collezione dei fantasmi residui delle sensazioni che per le nozioni prime e acquisite, per le astrazioni razionali, dato che sul cloud risiedono non solo i nostri dati sensibili, appunti, video e foto ma anche il software operativo.

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Aria

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L’intera anámnesis è ora appesa a una fonte esterna, invece di essere recupero individuale di cognizioni residenti nell’iperuranio o nel fondo dell’anima cristiana. Perfino il Dio agostiniano, annidato nell'ultimo recesso della memoria, è restituito, neutralizzato, al suo trono di nuvole. Dobbiamo raccogliere per connettere (l’etimo frequentativo di cogitare, pensare, secondo Confessiones, X 11), ma non più nel nostro interno, bensì ogni volta da volatili e incontrollabili sorgenti esterne cui abbiamo solo un accesso condizionato. Un buon backup su unità esterna ci consente di limitare i ricordi perduti, mentre i falsi ricordi, di cui pure esisteva una procedura reale di memorizzazione individuale (ivi 13), sono resi disponibili da agenzie esterne. Non è più necessario impiantarli con le complicate procedure e i paradossali esiti dei racconti di Dick, basta alterarli sul nebuloso deposito. Perfino l’oblio è programmato dall’alto, la privazione di memoria è parte della memoria come la privazione del bene è parte del bene (ivi 16), ma adesso è soggetto a una manipolazione da parte di chi controlla i server adibiti a gestire il cloud, padroni a loro modo del tempo. L’umana memoria, presente del passato (ivi, XI 20) è imago, figura e riflesso impari del Padre2, come l’elaborazione intellettuale del Figlio e la volontà amorosa, che li mette al lavoro, dello Spirito Santo. Il De Trinitate agostiniano lo scandisce in maniera irrefutabile: nel grembo del Padre tutte le cose riposano e vengono elaborate dalla conoscenza-Figlio e vivificate dall’amore-volontà ovvero Spirito Santo. Il Padre è deposito di tutto quanto sappiamo, delle cose, comprese quelle che il tempo ha fatto rotolare via, dei fantasmi e «del verbo intimo che non appartiene a nessuna lingua, come un sapere che proviene da un sapere, una visione che proviene da una visione, un’intelligenza che si manifesta nel pensiero, intelligenza che proviene da un’intelligenza nascosta già presente nella memoria; ancorché se anche il pensiero stesso non avesse una sua specie di memoria, non ritornerebbe sulla conoscenza che aveva lasciato nella memoria, quando pensava ad altra cosa (XV 21)», ovvero quella parte della memoria che non proviene dall’esperienza sensoriale, comune agli animali, contiene delle realtà (res) intelligibili che non provengono dai sensi del corpo (ivi 23). I palazzi e gli antri della memoria sono stati spostati sulle nuvole. Lo spossessamento della memoria individuale, dirottata passo passo su sup2

Sed anima rationalis deformiter vivit, cum secundum trinitatem exterioris hominis vivit... Atque ita fit illa trinitas ex memoria, et interna visione, et quae utrumque copulat voluntate, De Trinitate, XI 3. L’immagine imperfetta anticipa, per speculum in aenigmate, quanto sarà oggetto di superiore visione, ivi, 23-24.

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Teologia dei quattro elementi

porti papiracei (già Platone lo lamentava), cartacei, vinilici, magnetici e da ultimo sul cloud (domani forse su frammenti di Dna) cambia radicalmente la sua natura e sarebbe davvero orribile sperare di trovarvi in fondo Dio: una pecora elettrica nei sogni degli androidi... La mnemotecnica, procedura codificata per accedere al patrimonio personale di nozioni pubbliche e ricordi privati, si riduce ad annotazione di passwords di accesso. Resiste nell’anamnesi involata la legge del Dio-Padre: il cloud ci sovrasta e gestisce, codice immateriale dei droni che possono colpirci. Dove c’è oppressione, tuttavia, c’è resistenza, dove l’accesso è ristretto per identificazione (solvibile), c’è pirateria. Anche i pirati sfondano i databases esternalizzati e cominciano a utilizzare droni,3 memori del ruolo d’avanguardia che avevano assunto aggredendo le lente flotte imperiali di una volta: vela quadra contro galea, liberi crews contro equipaggi asserviti. Da lungo tempo il sorriso delle korai insegna a destreggiarci fra vita estatica ed eccesso di storia. Lo spazio cyber della memoria si sovrappone allo spazio visionario e sciamanico,4 retto dal principio di oblio (del corpo e della terra) e popolato di figure intermedie animate che trattengono l’antico politeismo dentro un rapporto estatico fra l’uomo e il dio delle tre religioni del Libro. In entrambi i concentrici spazi si viaggia e si naviga ed è

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Pirate Bay, per esempio, cerca di aggirare le proibizioni statali utilizzando, per la condivisione ‘illegale’ di files e programmi, una rete di droni a controllo Gps, cfr. https://torrentfreak.com/worlds-first-flying-file-sharing-drones-in-action-120320. Al malakût si perviene sciogliendosi dall’esperienza sensoriale e annegando nella pura luce, frequentando gli angeli e il proprio sé superiore (un angelo custode, diciamo), percorrendo uno spazio aereo dotato di estensione sul rovescio del mondo finito, ottava fascia climatica e regno del non-dove, dei corpi sottili. Stiamo in versione sufico-illuminazionista (islamica) della gnosi e della teosofia neoplatonica, cui corrisponde e con cui compete – in un filone razionalista di ascendenza aristotelico-averroista – la dottrina dell’unione noetica con l’Intelligenza Agente (distinta da Dio e rappresentata anch’essa come angelo), che però non ha quei caratteri mistico-emozionali, bensì indica un tipo di conoscenza intuitiva preparata da quella discorsiva e che la supera, comportando del pari cancellazione della memoria. La rappresentazione, in entrambe le versioni, dell’esperienza unitiva come viaggio, itinerario ascensionale per tappe, è scontata e ha un corrispettivo antropologico nello sciamanesimo, che del resto fu una delle fonti del mito di Er in Platone. La tentazione teopatica segnala l’irriducibilità agli schemi monoteisti, tanto che la versione ortodossa tomista esclude ogni visio beatifica del divino in vita e la riserva post mortem ai santi. Ne hanno bruciati abbastanza, i custodi del monoteismo, di questi eretici assatanati e beghine insolenti, da al-Hallaj a Margherita Porete... Più tardi se la prenderanno con i filosofi panteisti, come ci ricorda il rogo bruniano di Campo dei Fiori.

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Aria

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saggio guardarsi dai due abissi di perdizione: la memoria paralizzante, la smemoratezza appagante, il peso della storia e del passato, l’euforia lisergica del presente.

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2. Up in the Air Su, per aria si libravano le schiere degli angeli nello Pseudo-Dionigi,5 gerarchie triadiche celesti, ecclesiastiche (neotestamentarie) e legali (veterotestamentarie), le superiori informando le inferiori e queste ultime relazionando in alto e così organizzando una trama centralizzata di annunci angelici, ordini, moltiplicazione dell’unità e organizzazione dei flussi – dove il terrestre simboleggia il celeste ad esso conformandosi e riproducendo la scala gerarchica. La Luce, dono primo e sovrabbondante, occulto e unitivo, ne emana per gradi di perfezione ed è ricevuta e riflessa secondo le capacità dei riceventi. Anche chi appartiene alle gerarchie terrene, per illuminazione e iniziazione sacramentale, partecipa in qualche misura alla natura rivelativa degli angeli, cioè i dignitari ecclesiastici esercitano autorità per derivazione trascendentale e lo stesso, tacitamente, vale per le autorità politiche unte dalla Chiesa. In ciò l’operazione divina (theourgia) ricapitola la parola di Dio (theologia), sul modello unitivo-rappresentativo della comunione – súnaxis, la riunione dei fedeli fra loro e con Dio, che implica sinteticamente koinonia ed eucharistia. Paradigma ripetuto, sostituendo ai fedeli il popolo e a Dio il Sovrano, per il contratto sociale. E neppure ignoriamo quanto la propagazione della ricchezza sia mediata da strutture intermedie che ne assicurano circolazione e connessione.6 Il Cielo anticipa la Terra all’epoca dello Pseudo-Dionigi, che deve limitarsi a consacrare le gerarchie bizantine, ma già Marsilio Ficino potrà scorgere delle applicazioni concrete nella fortuna bancaria dei Medici, suoi protettori. La rappresentazione gerarchica garantisce il radicamento irrazionale della ratio e l’accli5 6

De coelesti hierarchia (Migne PG III 120b e sgg., tr. it. pp. 77 sgg.), De ecclesiastica hierarchia (ivi, 369d e sgg., tr. it. pp. 148 sgg.). Sul ruolo delle gerarchie neoplatoniche e dionisiane nella nascita del capitalismo, come fattori di organizzazione del mercato, F. Borkenau (1934), La transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo, tr. e intr. di G. Marramao, Il Mulino, Bologna 1984, Manifattura, società borghese, ideologia, scritti di F. Borkenau, H. Grossmann, A. Negri (a cura di P. Schiera), Savelli, Roma 1978, A. Negri, L’anomalia selvaggia, Feltrinelli, Milano 1981 (rist. in Spinoza, DeriveApprodi Roma 1998) IX 2, e Descartes o della ragionevole ideologia, Feltrinelli, Milano 1970 (rist. Manifestolibri, Roma 2007), passim.

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matazione razionale del sovrarazionale, la sua fastosa implementazione mondana, come aveva intuito Hugo Ball (§§ 8-9) nella sua lettura iperschmittiana di Schmitt! Il fortunato film di Jason Reid (2009) con George Clooney (titolo della versione italiana: Fra le nuvole) esemplificava invece quel jet-setting lifestyle imputato da Zygmunt Bauman a un’elite cosmopolita, sganciata dal territorio e immersa, da protagonista o da consumatrice, nel flusso globale. Nel nostro caso, erano tagliatori di teste, girovaghi sempre in volo fra le filiali aziendali con il compito di licenziare impiegati eccedenti, inducendoli alla minima resistenza. Un corposo strato di dirigenti sommi e intermedi partecipa della fluidità dei capitali finanziari e della loro crudele indifferenza ai bisogni dei territori: entrambi eccellenti candidati alla successione degli angeli e delle esperienze immaginali del malakût. Fermiamoci per ora a questo registro. Un insieme di pratiche ‘aeree’ che prende il comando sul territorio e sulla società ‘liquida’ (di cui al medesimo Bauman), come un tempo immaginazione e metafisica (iperurania e neoplatonica o ilemorfica e aristotelica, di colore tomista o averroista) ordinavano il pensiero e l’etica. Un campo di estensione del diritto, il supplemento selvaggio del nomos planetario adattato alle tecno-ipostasi della sovranità – sublimazioni che allo stesso tempo ne sono destrutturazioni – e perfettamente iscritte in un’aggiornata teologia monoteista della finanza. La pirateria informatica e le sue ricadute aggressive (defacing, sabotaggio hackeriano, decrittazione e leaking di segreti) sono contro-condotte rispondenti a una logica mista di salvaguardia legale e autotutela delle corporations che cercano di controllare il cyberspazio e i settori della comunicazione, riproduzione fotografica, libraria e musicale che ne dipendono. Per dirla con M. Surdi,7 La rivoluzione spaziale [il Grossraum schmittiano evoluto in Weltraum, ovvero «il mutamento delle rappresentazioni spaziali che si produce su tutta la superficie della terra a seguito dell’innovazione tecnica dei mezzi di comunicazione e di scambio, e che altera i metri e i canoni tradizionali»] è ancora una rivoluzione incompleta. La sussunzione dell’intero spazio planetario nell’origine dell’ordinamento globale, preconizzata da Schmitt, definisce solo parzialmente la natura del grande spazio contemporaneo. Questo si costituisce infatti con l’estensione della garanzia procedurale dallo spazio territoriale a quello 7

All’origine della giustizia. Una nota su Carl Schmitt a Norimberga, «Giornale di storia costituzionale», n° 7, 2004. Il citato Dialogo sul nuovo spazio del 1954 è il miglior materiale schmittiano di riferimento.

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Aria

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virtuale, a uno spazio cioè, non di luoghi, ma di flussi d’informazione, uno spazio costituito e regolato da una serie di codici cibernetici in cui la proprietà intellettuale diventa il tipo di proprietà dominante. In forma estesa: la regione retta dall’economia, per ipotesi assolutamente predominante, di mercato, comprende adesso tanto lo spazio planetario quanto lo spazio virtuale in cui il valore viene prodotto dalla circolazione digitale dei flussi d’informazione. Questo spazio ibrido, geografico quanto cibernetico, assume comunque le caratteristiche del grande spazio che abbiamo indicato, viene cioè reso omogeneo dall’applicazione necessaria (due) della garanzia procedurale. Il compimento della rivoluzione spaziale non dà unicamente luogo a un ordinamento planetario ma a una delocalizzazione geografica dell’Ortung e di conseguenza a un’Ordnung ibrida. È utile osservare peraltro che la delocalizzazione dell’origine che ipotizziamo non equivale ad un esodo onirico, per moderno che esso possa essere, nella realtà virtuale. L’ordinamento globale mantiene la propria origine, geografica e planetaria, quale condizione necessaria della dimensione cibernetica. La produzione dei bit che circolano nello spazio virtuale dipende, in altre parole, dalla sovranità esercitata sulle molecole d’idrocarburi, ovvero sulle risorse energetiche presenti nello spazio territoriale. Ancora la natura ibrida dell’ordinamento si riflette nella tutela prestata alla proprietà intellettuale, vale a dire al tipo di proprietà che nell’ordinamento stesso è, come abbiamo visto, quello in grado di produrre maggior ricchezza. Non è infatti irrilevante che l’insidia alla proprietà privata di codici e di flussi d’informazione prevalente nello spazio virtuale prenda il nome di pirateria. La figura del pirata cibernetico, del nemico criminale della proprietà, che agisce non nello spazio a-statuale degli oceani o in quello cosmico, ma nello spazio poststatuale dei codici cibernetici è il simbolo di un’ostilità all’ordinamento, ovvero alla regola del mercato, non definibile in base ai canoni obsoleti della sovranità territoriale.

L’autotutela costituente, che non disdegna il ricorso a sentenze giudiziarie sovranazionali e alle legislazioni nazionali per difendere il copyright, punta però a far valere effettualmente la potenza criptica degli algoritmi proprietari per escludere l’accesso non pagante e la riproduzione illimitata dei prodotti distribuiti in rete. Sono i due versanti di una lex digitalis cosmopolitica che replica le vicissitudini e la potenza della più rodata lex mercatoria. La pirateria attacca la prima su entrambi i fronti e ovviamente le strategie delle majors mirano sia a reclutare gli hackers per la caccia ai pirati e il miglioramento dei firewalls sia a tollerare il fenomeno a fini promozionali sia addirittura a catturare e sfruttare, con il crowdsourcing, le attitudini cooperative di un pubblico di smanettoni. Bugs o cyber-cimici di Stato per guerre a bassa intensità, cyberwarfare, virus sperimentali e commerciali, trojan horses e phishing per rimpinguare banche dati o per rubare identità bancarie – tutto ciò si annida nell’aria, inedita sequenza di armi

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invisibili e penetranti che si aggiungono alle trappole quotidiane di intercettazione e localizzazione dei cellulari, pagamenti bancomat e altre bande magnetiche, mail e sms, nella normale composizione di mezzi offensivi, informativi e disinformativi. Vengono asservite non solo le condotte individuali ma le frazioni ‘dividuali’ di comportamento tramite ricorrenze macchiniche e feedback, protocolli tecnici e registrazione cibernetica di infime semiotiche del reagire: dove ti trovi e con quale velocità di sposti, cosa compri di solito, quali preferenze esprimi in una mail o su fb, cosa rivelano le ricorrenze lessicali...8 Il sovramondo incombe ed è spazio di conflitto. La proclamazione di una no-fly zone è l’atto preliminare di una dittatura terroristica dall’alto sul territorio condannato. Poi arrivano saccheggi, riparto vessatorio delle risorse, insediamento di fantocci, compromessi. L’azzurrino pianeta Melancholia si avvicina con sordo rombo ogni giorno di più. Nella Star Wars Cantina teologi e pirati si scambiano opinioni, mentre i droidi non sono ammessi. Almeno questo.

3. Passaggi di stato Alles Ständische und Stehende verdampft... Correttamente le traduzioni italiane correnti di questo passo del primo capitolo del Manifesto dei comunisti di Marx ed Engels, lucidissima apologia di una borghesia che non può esistere senza rivoluzionare tutti i rapporti sociali, suonano: «Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, ecc.». Il testo inglese autorizzato, S. Moore, 1888, All that is solid melts into air... (che diverrà poi il titolo originario dell’Esperienza della modernità di Berman), pur perdendo il riferimento alla struttura corporativa, rende con più immediatezza l’evaporazione istantanea (verdampft), che scientificamente sarebbe poi ‘sublimazione’, passaggio diretto dallo stato solido al gassoso. Ciò che più tipicamente «evapora» o meglio «sublima» è oggi il denaro. Se nel secolo scorso la sua immagine simmeliana, valore delle cose senza le cose stesse, simbolo concreto e operativo della relazionalità e della relativizzazione, autonomizzazione del mezzo e mezzo di distanziamento da ogni finalità limitata, possedeva il ritmo eracliteo del fiume e la natura del liquido, oggi l’aria-cyberspazio è il riferimento topico più conveniente per 8

M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato, cit., pp. 159-160; sull’uso di chips per monitorare uomini e animali, ivi, pp. 148 sgg.

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il cyber-capitalismo il cui spettro trascorre per il mondo, come annuncia Cosmopolis di DeLillo-Cronenberg. Nelle pagine finali della Filosofia del denaro9 esso si presenta, nella sua mancanza di forma definita, in antagonismo a un certo tipo di simmetria rappresentativa sovrana, livellando per oscillazioni tutte le cose ridotte a una medesima misura dei valori e svolgendo un compito arbitrale grazie all’intrinseca indifferenza agli elementi in gioco. È molto significativo che si chiami liquido il denaro in circolazione: infatti, come un liquido, è privo di confini interni e si adatta, senza opporre resistenza, ai confini esterni del recipiente solido che di volta in volta lo contiene. [...] Tuttavia, proprio quest’essenza inconsistente del denaro gli permette di adattarsi alla sistematicità e al ritmo della vita, quando lo stadio evolutivo dei rapporti o le tendenze della personalità spingono in questo senso. [...] Il denaro non rientra nell’ampia categoria cui appartiene l’aria, che le persone più diverse respirano indistintamente, [...] ma il suo essere, per quanto vuoto e astratto, appare come la corrente calda della vita, che si versa nei concetti degli schemi delle cose, che li fa, in un certo senso, fiorire e dispiega la loro essenza. [...] Il denaro si colloca per definizione del tutto al di fuori delle cose ed è perciò del tutto indifferente alle loro differenze, in modo che ogni singola cosa può assorbirlo in sé completamente e sviluppare nel modo più efficace e perfetto proprio la sua essenza specifica.

Sintetizzando: il flusso monetario è fiume e sangue vivificante, connettivo e decisivo per il suo essere mezzo assoluto, dunque fine assoluto nel perpetuum mobile del mondo in perenne trasformazione, elemento permanente nello scorrere che svuota le sostanze evidenziando un ruolo eminente di funzione e di sintesi valutativa, pratica della relatività dell’essere trascritta in relatività degli oggetti economici e di metonimia della vita metropolitana e dell’intelletto calcolante. Certo, Simmel ben conosce gli strumenti che aggirano e dilazionano il piccolo-borghese pagamento in contanti, ma i suoi flussi monetari e la smaterializzazione creditizia (che più si addice a gentlemen) poggiano su un solido zoccolo di riserve auree e valutarie. Muore in tempo per non maneggiare nel 1923 il Rentenmark, il nuovo assignat in teoria coperto dalla ricchezza nazionale, che sostituisce l’affidabile deutsche Mark garantito dall’oro e dagli elmi a chiodo dell’esercito guglielmino. Donde l’immagine del fiume-denaro, della sua circolazione arteriosa e venosa, inquinamento e dialisi. Dopo la fine del gold standard nel 1971, i sistemi monetari fluttuanti si prospettano assai meglio

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(1900 e 1907), tr. it. Utet, Torino 1984, pp. 691 sgg.

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nello spazio aereo dove finiscono i vapori e nel cyberspazio delle transazioni elettroniche. Il denaro contemporaneo – riprendiamo l’analisi, largamente condivisa, di Luciano Gallino10 – è una promessa di valore (oltre che un rapporto sociale, un mezzo di scambio e un linguaggio) e, in tale veste, circola in minima parte sotto forma di contante, esistendo per lo più quale segno elettronico nel computer di una banca, attivato mediante carte di credito o di debito, bancomat, ecc. Una banca privata (lo sono anche Fed e Bce) crea denaro iscrivendolo elettronicamente sul conto dei clienti; i successivi passaggi lo moltiplicano. In teoria le riserve bancarie dovrebbero essere dell’ordine di 8 € (o 10 $) per 100 prestati, ma l’invenzione di innovativi prodotti finanziari permette di alterare tali multipli formali, facendo esplodere una degenerazione peraltro già insita nel sistema. Le promesse di valore, in cui consiste il denaro, superano pertanto di gran lunga la disponibilità di un bene reale. Quelle in circolazione, espresse in dollari, superano di quattro volte e mezzo il Pil mondiale (241 trilioni di dollari contro 54), in altre parole per ogni dollaro di beni e servizi reali circolano quattro dollari di denaro creato dal nulla mediante un debito o altri marchingegni (cartolarizzazione del debito e dei mutui, derivati, titoli tossici, Cdo, Irs, Cds contro-assicurativi, Dsp ecc.), la cui esplosione ha generato la mai risolta crisi del 2007. I soli Cds, certificati di protezione del credito dal rischio d’insolvenza, equivalevano, a livello mondiale, a un intero anno di Pil, come se si spendessero 20.000 € per assicurare un’auto di identico valore! Gli Irs (Interest Rate Swap o contratti sui tassi di interesse) ammontano a 25 volte il debito sovrano europeo, con la conseguenza che una piccola fluttuazione percettiva può far saltare qualunque economia o Paese in tempi rapidissimi. L’enorme quantità di denaro creata dal sistema finanziario totale, secondo tipologie prima inconsuete, vive nel virtuale cyber, al di là della realizzabilità in beni materiali collaterali. La vecchia procedura funzionale d’iscrizione su un deposito di denaro scritturale o elettronico, ha cambiato natura per ipertrofia, così che oggi la creazione di denaro mediante credito non ha un collaterale adeguato se non minimale, ovvero il credito non viene finanziato dai depositi ma all'inverso i depositi hanno origine in ragione del credito: è quest’ultimo che crea denaro dal nulla. A inizio Novecento il contante in circolazione o tenuto in banca costituiva il 30-40% della massa 10

Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011, pp. 19-20, 60 sgg. e 169 sgg.

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Aria

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monetaria, oggi non supera il 2-3%. Le politiche anticicliche degli ultimi 6 anni hanno moltiplicato il volume valutario,11 senza riuscire ad assorbire e neanche a quantificare quello parallelo dei derivati, la cui origine dalle bolle immobiliari e dai mutui subprime lascia immaginare un fosco destino per i possessori. Nel 2008 la massa degli scambi di questi derivati trattati in gran parte fuori Borsa (over the counter, Otc) totalizzava 1.285 trilioni di dollari, 21,4 volte il Pil mondiale che era di 60 trilioni. In tal modo immense quote di reddito sono state trasferite dal lavoro e dagli investimenti produttivi al reddito da capitale monetario e da speculazione, con conseguente accrescimento esponenziale delle diseguaglianze fra retribuzioni, classi e nazioni. Circa il 45% degli attivi finanziari del mondo (240 trilioni di dollari) sono impiegati esclusivamente a fini speculativi e gli effetti si vedono. Le procedure di autotutela delle istituzioni finanziarie e bancarie sono inoltre di ben altro spessore e pregnanza di quelle adibite al copyright e l’incoraggiamento dei clienti a indebitarsi con mutui e carte di credito, per poi cartolarizzare i debiti e convertirli in derivati, è il risvolto del crowdsourcing del pubblico nonché la causa prima delle bolle il cui scoppio ha innestato la crisi del 2007. L’equivalente generale si è vaporizzato e incombe dall’alto nella crisi quasi fosse un uragano tropicale. Il malvagio dio creatore degli gnostici governa l’eone senza speranza in un non-creatore più amichevole. Se prima le sfere concentriche degli Arconti e le triadi di Plotino e Proclo introducevano una gerarchia simbolica nei flussi emanativi disordinati del mercato, oggi sono scatole cinesi che racchiudono derivati a loro volta includenti biechi contratti, transazioni innominabili, debiti inesigibili, futures nebbiosi. Il vorace ratto, come in Cosmopolis, potrebbe a buon titolo candidarsi a nuova unità monetaria mondiale. Quanto lontani dal Padre Etere di Hölderlin: nessuno come te amico e leale, che instilla per primo il sacro respiro prima ancora che la madre mi prendesse tra le braccia e i suoi seni mi allattassero, donatore di nettare celeste a tutte le creature, che a te si rivolgono crescendo, piante, boschi che si scrollano di dosso la neve invernale, pesci guizzanti, animali terrestri e infine i prediletti dell’Etere (des Aethers Lieblinge), gli uccelli felici – tutti a loro 11

Nella sola zona euro la politica monetaria della Bce, tra il 2000 e il 2009, ha raddoppiato la massa monetaria totale. In genere le banche centrali hanno favorito tali processi applicando tassi di sconto bassissimi alle banche commerciali, per non parlare degli onerosi salvataggi dopo il 2007.

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agio nello spazio, grandi e piccoli, senza un sentiero assegnato –, nella lontananza che sfuma, dove con l’onda azzurra tu abbracci le rive straniere... Altro che uccelli, i prediletti dell’etere sono ora derivati e droni, blocchi di memoria e recinti immateriali. I videogiochi attribuiscono punteggi per spazzarli via. Nell’esistenza reale, però, è più complicato che su uno schermo iPad o su una consolle Nintendo...

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4. La nuvola e il fulmine Lo spazio dei viaggi sciamanici e dei fotismi mistici, delle melodie angeliche e della fusionalità estatica, il sostrato delle frequenze radio-televisive e dei bit sta per aria ma tutt’altro che appeso in aria, anzi munge energia fossile da sottoterra, biocarburanti dalla superficie, kilowatt solari, e mira a comandare quanto succede sotto di esso: il suo nomos planetario distribuisce il land grabbing, guida a destinazione missili e droni, intercetta e turba le comunicazioni, mentre un inesauribile gettito di denaro contante e soprattutto virtuale riconfigura la struttura di classe e l’ordine geopolitico, controlla vita e morte, lavoro schiavizzato e disoccupazione di massa, migrazioni gigantesche e, da ultimo, la guerra, che il Grossraum porta in sé come la nuvola, appunto, il fulmine. A meno di non afferrare il fulmine a mani nude – la rivoluzione, l’assalto al cielo. Come accadeva per il noûs poietikós o Intelligenza Agente, ispiratore sovrapersonale della somma conoscenza ed espropriatore trascendentale della medesima, il general intellect, suo successore, condensa la capacità cooperativa del lavoro vivo immateriale (conoscenze, attitudini, disposizioni relazionali) rendendola nel contempo assoggettabile allo sfruttamento. La smaterializzazione della mediazione direttiva non toglie la materialità dell’energia e del lavoro, per non parlare dell’ingombrante logistica che smista le merci in terra e mare: il computer va attaccato alla spina per succhiare corrente, i terminali dei suoi ordini, dopo vari giri, sono una macchina che assorbe altra energia e una prestazione neuro-muscolare di esecuzione o controllo. Anche l’elettronico scarica a terra e la simbiosi è sempre fra macchina e forza-lavoro. L’ambivalenza del dispositivo lavora in questa modalità: l’onnilateralità del bios qualificato per dis-adattamento supporta lo sfruttamento bio-politico, la carenza istintuale e l’eccedenza relazionale dell’animale umano diventano debito, la neotenia prolunga la precarietà generazionale. Gli effetti collettivi e morali della generazione di denaro virtuale, scollegato dall’economia reale ma a che ad essa comanda, sono la sua teologia

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Aria

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politica effettuale, dal luogo dove tutte le precedenti confessioni si erano comodamente assestate con troni divini, di luce, mandala trinitari e schiere gerarchiche di angeli, anime motrici delle sfere e compagnia rotante. Quest’ultima è una schüldige Theologie, una teologia del debito-colpa. Oh, certo, da sempre al Cielo è stato trasferito ogni debito terreno, Cristo si è ricomprato il peccato originario e soffre per i nostri peccatucci facendoceli ripagare con il senso di colpa e il debito inestinguibile verso il Padre e il Figlio sacrificato. Del resto, un capo-settore mafioso acquista sotto costo i debiti individuali e garantisce la riscossione centralizzata con maggior efficienza del singolo usuraio; per i riflessi metafisici, ricordate Dogville di Lars von Trier? Adesso, però, la macchina finanziaria procede impersonalmente a sollecitare l’indebitamento per case e consumi e a cartolarizzarlo – il tutto con operazioni elettroniche nel cyberspazio, addio alla libbra di carne e alle monete sonanti per le calli veneziane. Colpa e debito si dicono in riferimento al Dio dei Mercati, la cui collera traspare negli indici di Borsa e fuma nello spread. Dio punitivo, in linea di massima, a volte clemente se il debito si rinnova a interessi crescenti. Dio che le banche invocano perché ci rimetta i debiti, come esse promettono di fare con i loro debitori, in effetti prendendo in prestito all’1% ed esigendo interessi usurari dei clienti. Se prima il Dio irrisarcibile pretendeva a saldo una sottomissione devota (a sé, ai suoi preti e ai laici governanti), oggi il debito viene materialmente prorogato senza interruzione, impoverendo e frammentando il grosso della società, senza più vincolarla a obbligazioni di sovranità e di etica. Il sacrificio non è più postulato come ideologia religiosa e secolare, bensì performato nel taglio dei servizi e in busta paga, con poche e sobrie chiacchiere di contorno, affidate ai ministri più stupidi e piagnucolosi e, as usual, agli striscianti leader di una rintronata opposizione. Il Padre ha per icona non più il triangolo ma gli assi cartesiani dei grafici e continua a prescrivere, terrorizzare e, in sostanza, a deludere chi crede alle promesse. L’economia trinitaria della salvezza rimette in discussione l’idea che la missio salvifica del Figlio debba redimere proprio tutti; sarà meglio lasciar fallire i più deboli e scaricare un po’ di titoli tossici. L’inferno è la prima bad company per sanare le magagne della creazione e consentire la newco paradisiaca. Il miracolo pentecostale dello Spirito Santo inaugura l’èra della traduzione simultanea e delle video-conferenze su skype. La moneta-debito prende il controllo delle vite individuali e determina una neo-fisiocratica legittimazione dei governi in base all’oggettività dei mercati. Ovverosia la crisi come autolegittimazione. La permeabilità bi-direzionale del cyberspazio ne è il tessuto connettivo ideale. Come invertire la corrente?

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Teologia dei quattro elementi

Aria e cyberspazio non sono luoghi neutrali e accedervi consente di interferire ed essere intercettati: chi entra in un network sociale a guardare si espone a essere guardato, immateriale realizzazione dello stadio panoptico di Boullée in cui ciascun cittadino, deliberando in assemblea, vede e sorveglia tutti gli altri e da loro è visto e sorvegliato, sì da impedire maneggi e far valere l’adamantina volonté générale russoiana contro la malferma volonté de tous. L’onniscienza skippa l’antica obiezione: come Dio operava per causas, senza sporcarsi con i dettagli (né Faust né il Padre gangster di Grace in Dogville stanno troppo a guardare i mezzi), per algoritmi lavora il general intellect versione cyber. Dove scarica, scarica. Se però concepiamo il general intellect in modo meno angelico, se lo tiriamo giù dallo spazio immateriale dei server e da quello materiale del sistema di macchine e gli facciamo far corpo con il lavoro vivo, le cose cambiano. Il passaggio teologico si conclude nella restituzione di corpi e conflitti, di differenze e resistenze: il comando è posta in gioco, non destino. Afferrare il fulmine a mani nude è esattamente convertire la potenza materiale dell’aria-nube – in tal caso coincidente senza residui con la sfera angelica immaginale da sempre affibbiata alla teologia – da ostile trascendenza a padroneggiabile campo di cooperazione e conoscenza. «Il fulmine governerà ogni cosa» (Eraclito, DK 22 B 64). E allora, fuoco cammina con noi!

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Aria

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Volteggiano per l’aria bit e angeli, droni e denaro fasullo, dati mnemonici e programmi, simulacri e tossine finanziarie, mentre bande rivali si battono nel cyberspazio. L’etere – aria, luce, pneûma, mondo superiore e incorporeo di spiriti, intelligenze, demoni e messaggeri – si adatta ai flussi del denaro virtuale e dell’informazione, alla pervasività della finanza e delle tecnologie di devastazione a distanza. Luogo teologico per eccellenza, lo è ora del Dio unico cartolarizzato nel cui nome scoppiano le bolle e i poteri forti corrono alla catastrofe. Verso cui tutti sono in debito, omnes et singulatim si sentono in colpa. Più che mai urge l’assalto al cielo, dissipare la caligine magica dei mercati, afferrare il fulmine a mani nude, far sì che l’oltre-mondo si sacrifichi a questo mondo e non viceversa! Che nello spazio fluisca il lavoro vivo cooperante, al posto della preghiera e della minaccia.

I segni d’aria o trigono d’aria (Gemelli, Bilancia, Aquario) sono positivi, maschili, yang e umidi, caratterizzati da estroversione, dinamismo e raziocinio, a socialità espansiva e idealistica, con voli di fantasia e qualche sfumatura di inconsistenza. Sessualità spensierata, ambigua e disinibita. Curiosi e anticonformisti, socievoli assai.

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FUOCO Jetzt komme, Feuer

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F. Hölderlin, Der Ister

Scaliamo subito le marce. Non il fuoco-logos o la vampa della distruzione, ma gli umili dèi domestici del focolare, la fiamma tremolante della candela, il calore della cottura, che assimila soggetto e oggetto, in partenza dissimili. Entrambi hanno il loro tempo e uso. La bassa genealogia è la nostra forma di teologia materialista e politeista. Già Eraclito ne è un buon esempio, onorando gli dèi sotto il camino1 e, grado dopo grado, facendo del fuoco un simbolo dell’essere come divenire o un suo principio (arché)2 dentro un processo metamorfico: Il fuoco vive della morte della terra e l’aria vive della morte del fuoco; l’acqua vive della morte dell’aria, la terra della morte dell’acqua (DK 22 B 76).

Cosmico e volatile: Dio è giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, fame-sazietà: il suo mutare è come quello del fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome dall’aroma di ciascuno di essi (ivi 67).

Con un connotato sociale già simmeliano, adatto alla base aurea del denaro e ai suoi successivi flussi inflattivi, in cui è uno e multiplo, se stesso e a ogni istante diverso da sé. Magari debordando la giusta misura cui lo ancorava il saggio Efesio: Mutamento scambievole di tutte le cose col fuoco e del fuoco con tutte le cose, allo stesso modo dell’oro con tutte le cose e di tutte le cose con l’oro (ivi 90).

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L’aneddoto è riferito da Aristotele, De part. an. I 5, 645a 16-23. A degli stranieri, che si erano recati a visitarlo e si erano arrestati perplessi avendolo visto scaldarsi al focolare, Eraclito si rivolge esortandoli ad avvicinarsi, perché anche lì c’erano degli dèi. Definizione assente nei frammenti e attribuita invece da Aristotele, Met. I 3, 984a 7-8.

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Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dèi o tra gli uomini, ma sempre era è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura (metra, ivi 30).

Alla fine, il fuoco verrà, giudicherà ogni cosa e la condannerà, o meglio la ricomprenderà in sé (katalépsetai), almeno nella citazione di Ippolito Romano (DK 22 B 66) che inserisce l’autore nella precedente minaccia biblica del Giudizio Finale e nella posteriore dottrina stoica conflagrativa dell’ekpúrosis, integrandolo agli altri frammenti sul fulmine (keraunós) che tutto governa (ivi 64) e alla sapienza cosmico-organizzativa per cui il fuoco è «indigenza e sazietà» (ivi 65). Ora comprendiamo cosa significhi afferrare il fulmine a mani nude: è il giudizio universale dal basso, l’indigente che si sazia e riprende il governo delle cose, la capacità di cuocere cibo, passioni, regole. Come nell’esordio di Mnemosyne III, i frutti maturi sono tuffati nel fuoco, cotti e provati sulla terra, e quando gli elementi prigionieri e le vecchie leggi vanno fuori strada, la brama di cambiamento va contemperata con la fedeltà: und Not die Treue.

1. Zuppa e arrosto Premettiamo che, nella nostra prospettiva teologico-naturale e non fisica, vi sono termini interscambiabili, come in precedenza aria, cloud, e cyberspazio. Un arbitrio assiomatico. Partiamo dal rassicurante fuococalore. Aristotele non credeva che il pensiero fosse una proprietà personale e in genere il rilievo dell’Io era assai scarso nella filosofia antica, nessuno gli attribuiva ineffabili qualia o un posto di central meaner (significante centrale). In quel filone si imputava certo il pensiero a una persona, ma come tramite di un dispositivo oggettivo, per esempio nelle due parallele metafore aristoteliche della visione e della digestione per spiegare il processo di sensazione e intellezione: nella prima occorrenza intervengono – secondo lo schema ilemorfico – un agente (la luce), i colori in potenza e l’organo in potenza, nella seconda un attore soggettivo assorbente il nutrimento (tò trefómenon), ciò con cui si nutre, l’alimento (hôi tréfetai) e ciò che nutre, l’anima nutritiva (tò trefon), grazie a una trasformazione dovuta al calore interno dello stomaco (pepsis, cfr. Meteorologica IV, 379b 18-21) e a quello esterno del fuoco (concausa, sunaítion, insieme all’anima), che trattano e rendono assimilabile il nutrimento per l’appa-

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Fuoco

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rato digerente (De anima II 4, 416a 19-b32, e 5, 417a15-20 e 418a 2-6;3 III 4-5 per la proiezione noetica). Nutrimento (trofé) si dice pertanto, in modo equivoco, sia il materiale somministrato dall’esterno, non ancora digerito, sia quello già elaborato e integrato: contrario nel primo caso, simile nel secondo. Il processo passa per un soggetto e un oggetto e si conclude con una identificazione-assimilazione, che significa crescita fisica, sensoriale o intellettuale, uscita in atto della facoltà interessata, mediante alterazione da parte di un contrario che alla fine è reso simile. L’appercezione o autocoscienza è sottoprodotto della conoscenza della realtà esterna, il benessere di una riuscita digestione, cui segue la sonnolenza indotta dalla concentrazione del calore che fa affluire il sangue nella regione cardiaca (De somno et vigilia, 456a 11-457b). Il parallelismo fra i tre schemi è che nella digestione l’oggetto sensibile penetra fisicamente nel corpo, nella sensazione senza materia (l’impronta dell’anello sulla cera), nell’intellezione in modo ancor più astratto, secondo l’azione causale preminente dell’anima nutritiva, sensitiva, razionale. La genealogia materiale della catena, che arriva sino alla smaterializzazione del noûs in atto, ci interessa invero per la semplicità del punto di partenza e per l’uso culinario del fuoco, svolta che inaugura la civiltà del cot-

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«[Se] il movimento è una specie di atto, benché imperfetto, ogni essere che subisce un’azione ed è mosso, lo è a opera di un agente che è in atto. È pertanto possibile che una cosa subisca l’azione del simile come pure del dissimile. La cosa infatti che subisce è il dissimile, ma quando ha subito è simile. La facoltà sensibile è in potenza ciò che il sensibile è già in atto. Pertanto essa subisce, perché non è simile all’oggetto, mentre quando ha subìto assomiglia e diventa simile a quello». La carne arrostita, masticata e marinata dai succhi gastrici si trasforma in nutrimento. Viene invece scartata una dottrina sulla composizione ignea dell’anima che la renderebbe capace di essere causa diretta della nutrizione. Nei Parva naturalia il processo digestivo è descritto in termini più naturalistici, il fuoco-calore lavora tutte le cose, l’anima s’infiamma e, nel De respiratione 478a16, si arriva addirittura a parlare di un fuoco psichico (psuchikòn pûr). In realtà, come spesso avviene, il discorso aristotelico procede in modo sussultorio e va ricostruito integrando testi diversi e neppur sempre concomitanti, così che per trovare un’esposizione coerente occorre ricorrere a un esegeta di gran classe quale Alessandro di Afrodisia, De anima, 32, 22-40,4 (tr. it. a cura di P. Accattino e P. Donini, Laterza, Bari 1996, pp. 33-40 e 161-177. Cristallina la spiega di Averroè (Commentarium magnum in Aristotelis De Anima libros, ed. F.S. Crawford, The Mediaeval Academy of America, Cambridge Mass. 1953, II 45, pp. 200-201): Nutrimentum enim non digestum, quod est nutrimentum in potentia, potest dici vere contrarium; nutriens enim non agit in ipsum nisi secundum quod est contrarium. Nutrimentum autem digestum potest dici simile; non enim est pars nutribilis nisi secundum quod est simile.

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Teologia dei quattro elementi

to e congiunte implicazioni simboliche. Paradigma potente di sensazione e intellezione quanto la riconduzione del sapere alla piacevole molteplicità di differenze percepibile con la vista, che pollàs deloî diaforás (Metafisica I 1, 980a 26-27) o il parallelo del potere astrattivo intellettuale, forma delle forme, con la versatilità della mano, strumento degli strumenti (De anima III 8, 432a 1-3) – un percorso che parte da Anassagora, passa per Giordano Bruno e culminerà nella scena iniziale della kubrickiana Odissea nello spazio. Un percorso che merita una digressione, non essendo attinente al fuoco ma assai all’impianto teologizzante.

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2. Les mains de Jeanne-Marie Jeanne-Marie a des mains fortes, Mains sombres que l’été tanna, Mains pâles comme des mains mortes. — Sont-ce des mains de Juana? Ont-elles pris les crèmes brunes Sur les mares des voluptés? Ont-elles trempé dans les lunes Aux étangs de sérénités? [...] Elles ont pâli, merveilleuses, Au grand soleil d’amour chargé, Sur le bronze des mitrailleuses À travers Paris insurgé! Arthur Rimbaud, 1871

In quel passo del De anima, III, Aristotele asseriva che la mano è lo strumento degli strumenti (órganon orgánon), l’intelletto la forma delle forme (eîdos eidôn) e il senso la forma dei sensibili (eîdos aisthetôn), ponendo un’analogia fra maneggio delle cose e delle forme. Ripresa di Anassagora o piuttosto rovesciamento? In De partibus animalium IV, 10, 687a 8-b 5, specifica infatti che Anassagora afferma che l’uomo è il più intelligente degli animali grazie all’avere mani; è invece ragionevole dire che ha ottenuto le mani perché è il più intelligente. Le mani sono infatti strumenti e organi e il disegno invariabile della natura nel distribuire gli organi consiste nel dare all’animale quanto sia in grado di usare [...]. Infatti è un piano migliore quello di prendere una persona

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Fuoco

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che sappia già suonare il flauto e poi darle un flauto, piuttosto che prendere uno che possieda un flauto e insegnargli poi a suonare. Considerando quindi che tale è il corso migliore delle cose, e che di ciò che è possibile la natura porta sempre in atto il meglio, dobbiamo concludere che l’uomo non deve la sua intelligenza superiore alle mani, ma le mani alla sua intelligenza superiore. A colui dunque che è in grado di impadronirsi del maggior numero di tecniche la natura ha dato, con la mano, lo strumento in grado di utilizzare il più gran numero di altri strumenti. […] La mano sembra in effetti essere non un solo strumento, ma molti strumenti al tempo stesso, è infatti, per così dire, strumento prima degli strumenti.

Cosa voleva dire: che la manualità produce l’intelligenza? Aristotele lo legge piuttosto nel senso di esaltare la mano spirituale, il noûs, con tanto di riferimento a un’illuminazione trascendente – l’intelletto attivo, noûs poietikós. Anassagora è accolto, ma trasfigurato in un finalismo anatomico che pone la mano onnivalente al servizio del pensiero astratto. Capovolgimento, rafforzato e popolarizzato da Cicerone, De natura deorum II, 60, 150, cui già irride Lucrezio (De rerum natura IV, 823-833), negando che le pupille degli occhi siano state creare per far vedere gli uomini, le lunghe gambe per camminare più svelti e le mani per meglio compiere gli atti utili al vivere, insomma in applicazione di un superiore disegno teleologico. Un argomentare a sproposito, che inverte il rapporto fra organo e funzione. Ancora oltre andrà Galeno nel De usu partium, affermando che l'uomo ha l'uso delle mani perché è intelligente... Nel prevalente idealismo rinascimentale l’aspetto manuale viene subordinato alla progettazione intellettuale, come in un tipico passaggio di Leon Battista Alberti, De re aedificatoria VI 4 (1443-1452, volgarizzato da C. Bartoli nel 1550): Quel che ne le bellissime et ornatissime cose arreca satisfattione quel certo nasce, o da la fantasia et discorso de l’ingegno, o da la mano de l’Artefice, o vero è inserto in esse cose rare da la Natura. A l’Ingegno si apparterà l’elettione, la distributione, et la collocatione, et simili altre cose, che arrecheranno dignità a l’opere. A la Mano lo accozzar insieme, il mettere, il levare, il tor via, il tagliare atorno, il pulimento et l’altre cose simili, che rendono l’opere gratiose.

Ancor più diretta, pochi decenni dopo, la polemica anti-epicurea e antilucreziana di Marsilio Ficino, come risulta da Theologia Platonica XIII 3, risalente agli anni 1469-1474: Non sogni Epicuro che le bestie siano potenti per ragione quanto noi, ma che mancano dell’uso della parola e delle mani grazie ai quali potrebbero esprime-

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re all’esterno la ragione che esiste latente in loro. Infatti la natura non è manchevole nelle necessità, ma certo non abbonda nelle cose superflue. [Agli alberi non diede piedi o braccia, li diede agli animali perché non ovunque il cibo è sufficiente, ma non conferì loro se non pochi e confusi concetti immaginativi e suoni verbali.] La mente dell’uomo, inventrice di cose infinite quanto distinte, è stata invece sorretta dall’uso della parola nella sua ricchezza inesauribile, come se ne fosse il suo degno interprete, e anche munita di mani, come degli strumenti più adatti per modellare le innumerevoli invenzioni della mente. La natura medesima avrebbe dato questi strumenti anche alle bestie, se dentro di loro ci fosse stato lo stesso artigiano (artifex) che ne avrebbe fatto uso.

Le mani sono uno strumento poietico subordinato alle funzioni di tipo intellettivo (fantasia, memoria, raziocinio e parola), esprimendo la superiore unicità del genere umano che solo fra tutti gli esseri la natura ha scelto di fornire di tali possibilità. Nel medesimo clima neoplatonico il De hominis dignitate (1486) di Pico della Mirandola sostiene che il primato dell’uomo non consiste soltanto nell’essere principio di comunicazione fra le creature, interstizio tra la fissità dell’eterno e il flusso del tempo, copula e imeneo del mondo, ma nel fatto che egli non è legato, come le altre cose, a un luogo determinato dell’universo e sceglie da sé la propria collocazione, che sta in lui decidere a quale specie di esistenza appartenere. La medietà si fa libertà. Dio, esauriti tutti gli attributi specifico-istintuali con gli animali creati prima dell’uomo, decide di dare ad Adamo, invece di qualcosa di proprio, quanto di comune ineriva a tutti gli altri esseri e gli annuncia di averlo posto al centro dell’universo, ma senza una dimora o un sembiante certo, affinché possa guardarsi intorno, vedere ciò che esso contiene e decidere liberamente se degenerare nel bruto o rigenerarsi nel divino. Di nuovo la versatilità della mano è piegata a una destinazione spirituale. L’uomo è l’essere naturale generico, membro di una specie imperfetta che fa della mancanza di adeguamento istintivo all’ambiente, della sprovvedutezza biologica, un potente strumento di autopromozione. Egli riceve non un dono superiore (un super-artiglio o una coda elastica), ma la possibilità di utilizzare la sua stessa lacuna come risarcimento omeopatico. In termini non pichiani bensì biologico-evolutivi, la configurazione indeterminata dell’organismo promette semplicemente un buon successo nella competizione all’interno della specifica nicchia ecologica dell’uomo, tendenzialmente estesa all’intero pianeta e oltre. La mancanza di codici contenenti istruzioni per una corretta architettura neuronale la fanno dipendere dall’esplorazione del mondo, dalla velocità reattiva, dalle capacità di categorizzazione e generalizzazione, dalla cooperazione sociale e dall’uso

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del linguaggio (il vero dono), la cui forza risolutiva è direttamente proporzionale all’astrattezza ed equivocità, persino a una certa opacità referenziale, al fatto che lo stesso suono significa cose diverse in lingue diverse e a volte nell’uso di una stessa lingua. Ricordiamoci che già in Aristotele l’uomo condivide con gli altri animali la voce, l’emissione di suono (foné), ma ha il monopolio del discorso proposizionale: logos, calcolo, pensiero, con cui pone le coppie etico-operazionali bello-brutto, giusto-ingiusto, ordinedisordine, ecc. Dedicarsi all’ocio contemplandi o salire con piedi e mani metaforiche la scala di Giacobbe è l’uso supremo del corpo. Il comando sul proprio e sugli altrui corpi. Affatto divergente sarà il trattamento del tema in Giordano Bruno, che torna ad Anassagora e riporta in terra l’allegoria trascendentale dello strumento, avviata da Aristotele e rinforzata da Alberti, Ficino, Pico e più tardi Campanella. Già nel Canto Circeo il frate ribelle ricorda che la mano è la più potente delle armi e la materialità dell’organo-mano e del gesto è rivendicata in altri passaggi. Nel terzo dialogo dello Spaccio della bestia trionfante Bruno, dopo pagine dedicate alla liquidazione dell’Ocio e della molle Età dell’Oro, fa sostenere a Sofia che gli dèi donarono all’uomo intelletto e mani, in tal modo rendendolo capace non solo di poter operare «secondo la natura ed ordinario», ma anche «fuor le leggi di quella […] formando o possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l’ingegno, con quella libertade, sanza la quale non arrebe detta similitudine» e in tal modo «venesse ad serbarsi dio de la terra». Libertà che sarebbe «ociosa, frustratoria e vana, come indarno è l’occhio che non vede, e mano che non apprende». Per questo è nell’ordine della natura che l’uomo «non contemple senza azzione, e non opre senza contemplazione». Lo stimolano a uscir fuori dall’oziosa età dell’oro la «curiosa» Fatica e la «curiosa» Industria. Nel secondo dialogo della Cabala del cavallo pegaseo si argomenta che, se l’uomo fosse doppiamente illuminato dall’intelletto agente ma le mani gli fossero trasformate «in forma de doi piedi», quello splendore non gli servirebbe a nulla, perché ne verrebbe distrutta «la conversazion de gli uomini» e andrebbero in rovina famiglie, unioni, invenzioni e istituzioni che ne fanno il trionfatore sopra le altre specie: «tutto questo, se oculatamente guardi, se referisce non tanto principalmente al dettato de l’ingegno, quanto a quello della mano, organo de gli organi».4 Il ricorso alla terminologia ilemorfica aristotelica e dei suoi interpreti medievali (intelletto agente) non occulta il fatto, reso evidente dal costante riferimento alla «complessione», secondo la 4

G. Bruno, Spaccio della bestia trionfante, in Dialoghi filosofici italiani, Milano 2000, p. 601; Cabala del cavallo pegaseo, ivi, p. 718.

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terminologia alessandrista e pomponazziana, che la materia è di per sé preparata a ricevere l’atto. Il corpo funziona già da solo come lo farebbe funzionare l’intelletto agente. Bruno ripristina così, sotto l’influsso dell’antropologia antifinalistica lucreziana, il vero dettato di Anassagora capovolto da Aristotele. La conformazione corporea, come in Democrito e Leucippo e all’inverso della teologia ficiniana e dell’Oratio pichiana, determina il corso dei pensieri. L’intelletto agente è messo fuori causa nell’infinita vicissitudine onde Dio si scioglie nella natura. Una scottante ragione per finire sul rogo a Campo dei Fiori. La complessione è, ahimé, combustibile. Torniamo al prologo di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, la cui colonna sonora, Also sprach Zarathustra di R. Strauss, era ispirata al testo di Nietzsche, dove si parla dell’evoluzione dall’uomo al superuomo. La scimmia, grazie al quinto dito opponibile e alla posizione eretta (anatomia che consentirebbe la fonazione articolata), afferra un osso e lo usa in una zuffa per uccidere il rivale e diventare capo della tribù e padrone dell’harem. È l’inizio sanguinoso della macchina tecnica-guerra-potere-lavoro, che ben presto si proietta nella scienza e nello spazio, perché l’osso scagliato si trasforma gradualmente nell’astronave di cui poi si narreranno le avventure cibernetiche e psichedeliche. Non aveva appunto affermato Anassagora che l’uomo, poiché ha le mani, è di tutti i viventi il più sapiente? E Protagora che l’uomo, in quanto ‘scimmia nuda’ e indifesa è stato costretto a ingegnarsi inventando le tecniche di sfruttamento della natura e l’arte politica? Il ruolo della mano nell’ominazione della scimmia fu messo in rilievo da Darwin e da Engels (Dialettica della natura). In Kubrick l’idea della scimmia di usare l’osso come clava e via via tutti gli sviluppi spaziali sono surdeterminati dalla misteriosa presenza di un monolito nero (che ricomparirà alla fine del viaggio), grafica riedizione della medievale Intelligenza attiva trascendente, angelo o anima del cielo della Luna. La tentazione teologica e oggi fantascientifica sembra insormontabile: si parte da una descrizione lucreziano-bruniana, ma la stessa evoluzione biologica e tecnologica approda nella sfera del mistero, del congiungersi di inizio e fine. Il Superuomo si ritrova bambino innocente, che gioca ai dadi con il mondo. Le mani sono spirituali e voluttuose oppure temprate dal lavoro e dalla battaglia. A scelta.

3. Coriandoli di luce Il fuoco allora, il cui guizzare verso l’alto evoca la trascendenza, di cui la sorella luce è fulgore simbolico, non scampa l’iscrizione superna. Ago-

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stino (De Trinitate, II 15-16) commenta infatti allegoricamente l’episodio del roveto ardente sul monte Horeb (Sinai), entro cui Mosè accede a una visione indiretta del divino, come epifania dello Spirito Santo, analogamente a quanto era successo per la calata delle lingue di fuoco sugli Apostoli nella Pentecoste. Già Filone si era cimentato con quella narrazione, da cui prende avvio l’impresa dell’Esodo, secondo uno schema di teologia negativa, di impossibilità per l’uomo di penetrare a fondo il Dio-Uno, di cui si possono conoscere solo gli effetti. «Ciò che conta» – affermano le istruzioni ufficiale del sito Chiesa.it per la liturgia pasquale del fuoco o della luce, l’accensione dei ceri con il fuoco nuovo dello Spirito Santo per illuminare il popolo dei fedeli immerso in luttuosa oscurità – «non è tanto il simbolismo naturale quanto piuttosto la verità di salvezza che esso evoca e misticamente realizza». Trionfo dell’igneo Spirito Santo che già vagava sopra le acque agostiniane, volontà e illuminazione nell’economia salvifica trinitaria. La credenza pre-scientifica della diffusione latente del fuoco e del calore in ogni corpo si trasferisce alla pervasività dell’operazione divina e alla fortuna delle immagini relative, secondo un passo sintomatico dello Pseudo-Dionigi.5 La luce trasfigura il fuoco e meglio si attaglia alla trascendenza, sin dal Sole-Bene platonico e dal Bene super-Luce intellettuale dionisiana. Anzi, in parallelo all’illuminazionismo orientale da Avicenna a Sohrawardî e sulle stesse basi neoplatoniche (Plotino, Proclo, il Liber de causis), con l’aggiunta delle fonti arabe ed ebraiche (il De radiis di Al-Kindî, la Fons vitae di Avicebron, oltre Avicenna), si sviluppa nella scolastica medievale un indirizzo a volte etichettato per metafisica della luce, a ripresa di taluni Padri, soprattutto Agostino e lo Pseudo-Dionigi. In Roberto Grossatesta la luce costituisce la componente strutturale essenziale di ogni essere, animato e inanimato. La lux prima forma, nel momento in cui si unisce alla materia, produce la corporeità in corpi determinati e quantificati, stante l’automanifestazione propagativa della sua forma prima, lux, circoscritta di volta in volta dalla materia. La creazione (fiat lux) ha determinato strati di progressiva maggiore densità di materia, cioè le sfere celesti, fino al centro dell’universo e ai quattro elementi, la cui partecipazione al movimento uniforme impresso è inversamente proporzionale alla densità. L’universo ha struttura matematica ed eguale composizione (luce e materia) in tutte le sfere, senza più staccare dai cieli il mondo sub-lunare. Pur mantenendo la trascendenza divina, in Grossatesta come in Bonaventura da Bagnoregio tutto il creato è signum luminoso, ogni ente è ali5

De coelesti hierarchia XV 2 (Migne PG III 328d-329c, tr. it. pp. 127-128).

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quod genus lucis e al sommo ritroviamo il dionisiano fuoco caliginoso, non l’ordinaria illuminazione: caliginem, non claritatem, non lucem sed ignem (Itinerarium mentis in Deum 7, 5-6). Che Dio sia presente nella stessa sostanza delle cose poteva essere una verità sconvolgente: destitutiva delle gerarchie ecclesiali e di contro legittimante svariate procedure mondane. Oggi, per citare ancora Cosmopolis, la luce dei monitor è la luce del cybercapitale, che discende nella limo-caverna uterina dell’avventuroso speculatore. Siffatta estremizzazione dell’agostinismo avicennizzante non piacque affatto alla teologia mainstream. Tommaso vi avvertiva una eco del panteismo stoico che faceva di Dio l’anima del cielo o del mondo, perciò ne abrogava la personalità trascendente sciogliendola nell’aspetto formale e non in quello materiale del mondo, oppure qualcosa di analogo all’idolatria astrale dei Sabei, che vedevano in Dio la forma del cielo6 – come la lux lo era del creato! Di certo panteistica era la luminescente nube teofanica primordiale (’amâ) di Ibn ‘Arabî e della tradizione sufica: emanazione del ritmo del respiro divino (tanaffus) che crea e de-crea a ogni istante, esala e nasconde.7 La soppressione, entro il monismo monoteista, della creazione ex nihilo consentiva (come più tardi in J.-L. Nancy) di scartare il nichilismo e di rendere teopatica l’adorazione. Significativa sarà in ambito cristiano-ortodosso la traduzione della metafisica della luce in pratiche ascetiche di meditazione quali l’esichiasmo, che mostrano impressionanti affinità con il dhikr sufico (entrambi di ascendenza neoplatonica) e lo yoga, di cui il training autogeno e le più palestrate tecniche isometriche, posturali, di stretching e pilates sono eredi secolari. Significativa in quanto riversa l’immateriale della luce nel corpo per trascinarselo dietro verso l’alto, proponendosi così di operare una spiritualizzazione effettuale della materia, con il rischio di una deriva psichedelica new age. La dinamica teologica di trasferimento vi si staglia molto più ni-

6

7

Sic igitur gentilium error evacuatur, qui dicebant Deum esse animam caeli vel etiam totius mundi, et ex hoc errore, idolatriam defendebant, dicentes totum mundum esse Deum… Commentator etiam dicit, in XI Methaphys., quod hic locus fuit lapsus sapientum gentis Zabiorum, idest idolatrarum quia scilicet posuerunt Deum esse formam caeli (Summa contra gentiles I, 27). Il testo arabo del Tafsîr di Averroè alla Metafisica è in realtà più vago della libera citazione tomista, cfr. A. Martin, Averroès. Grand commentaire de la Métaphysique d’Aristote, livre Lambda, Les Belles Lettres, Paris 1984, c. 41, pp. 252-253. Cfr. H. Corbin, L’imagination créatrice dans le sufisme d’Ibn ‘Arabî, Flammarion, Paris 1958, Aubier, Paris 1993, II ch. 1, tr. it. L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Laterza, Bari 2005, pp. 161 sgg.

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tida che nella speculazione cosmo-ontologica e vi balena perfino la possibilità di contro-condotte utilizzabili nel quotidiano, una volta rimosso l’afflato trascendentale. In primo piano viene l’economia del corpo ascetico e orante e possiamo ricostruirne l’ontologia sottesa e il dispositivo di delega teologica. Il «Metodo»,8 più protocollo di esercizi che regola monastica, consiste nel conseguire l’attenzione – prima condizione della preghiera autentica – concentrando la mente nel cuore, trattenendo il respiro e recitando mentalmente la breve preghiera: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me» o semplicemente Kyrie eleison. La posizione del corpo piegato risucchiando e fissando l’ombelico, il rallentamento controllato dell’inspirazione nasale e l’espirazione profonda dal diaframma fino ad avvertire cuore e viscere dove dimorano le potenze dell’anima, la ripetizione incessante della formula adorante passando dalle labbra all’enunciazione tacita, l’assopimento dei ribollimenti del sangue e del pensiero sino a pervenire alla completa apátheia (impassibilità) ed esuchía (pace interiore, silenzio), sono le indicazioni standard. Molti lettori le troveranno familiari nel contesto di ordinarie tecniche di rilassamento, basta sostituire alla preghiera un cd di ambient music, così come altri generi elettronici e altri incentivi chimici e strobo possono associarsi a più mosse estasi da rave. Del resto, nella dickiana trilogia di Valis, l’emanazione del mondo è immaginata come esalazione-espirazione del soffio divino, cui segue l’inalazione-inspirazione ciclica delle creature selezionate per il viaggio di ritorno. E tutto ciò, «sustanze e accidenti e lor costume» che per l’universo si squadernano, stanno internati in Dio quasi conflati insieme, che vuol dire fusi come metallo o respiro o soffio che attizza il fuoco della fornace... Gregorio Palamas afferma da un lato l’inaccessibilità di Dio, secondo i dettami della teologia negativa dello Pseudo-Dionigi, dall’altro la possibilità della deificazione e della partecipazione alla vita di Dio come scopo ultimo dell’esistenza umana, sulla base di una precisa distinzione in Dio fra essenza impartecipabile ed energia partecipata mediante le tecniche sopraelencate. Cristo ha due nature e due energie (volontà naturali) e tramite la seconda noi possiamo accedere all’energia divina, manifesta nella luce che avvolse i discepoli sul monte Tabor, luce inesprimibile, increata, eterna, 8

Mescoliamo qui varie fonti: La scala del Paradiso di Giovanni Climaco (VII secolo, studiato da H. Ball), le opere di Gregorio Palamas, Niceforo l’Esichiasta, Gregorio il Sinaita (XIV secolo), la Filocalia, importante collezione di antichi scritti cristiani, pubblicata nel 1782 da Nicodemo Aghiorita e da Macario di Corinto, cfr. l’antologia di O. Clément, Nuova Filocalia. Testi spirituali d’oriente e d’occidente, Qiqajon, Bose 2010.

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atemporale, gloria trinitaria. Assumendo la luce-energia in parallelo alla sostanza impartecipabile e immergendovisi mediante gli esercizi psicosomatici esichiastici, la teologia si fa bio-teologia, fa leva sulle modificazioni indotte nel corpo per farne corpo di luce, secondo una comunione né sostanziale né ipostatica bensì energetica: non è l’essenza di Dio che si sposta per venire verso l’uomo, piuttosto sono le Tre Persone, attraverso le energie, a farsi presenti in lui. L’azione pneumatica si esprime sempre in sembianze di luce o di fuoco, come in Cantico dei Cantici 8, 6: «forte come la morte è l’amore, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore». L’esichiasta fugge il mondo senza odiarlo. Si batte contro le passioni e l’acedia, vive nel silenzio per ascoltare Dio. Emula i celesti fino a diventare angelo. La menzione perseverante e la rimembranza di Dio, come nelle recite di versetti coranici e nelle danze dei dervisci rotanti nel dhikr, conducono all’estasi. Il fatto decisivo è la sua partecipazione energetica al divino, dove l’enérgeia è spostata radicalmente dall’originaria natura di atto puro dell’intelletto a compartecipazione cosmica corporea, teologia del bios e non del noûs, in opposizione alle concezioni neoplatoniche per cui il corpo è ostacolo all’estasi e alla hénosis – donde l’equipollente avversione islamica di Avempace nel XIII secolo alle pratiche sufi e cristiano-ortodossa di Barlaam di Calabria agli esichiasti nel XIV secolo. Nella mistica renana la luce, in coerenza con la caligine (gnofós) luminosissima dello Pseudo-Dionigi, è talmente abissale da confondersi con l’inaccessibile oscurità (skotos): per Meister Eckhart la celata tenebra della luce invisibile dell’eterna Divinità è inconoscibile e la tenebra racchiude e non afferra la luce dell’eterno Padre.9 Siamo tuttora in ambito dionisiano ovvero di un’esperienza conoscitiva che trabocca nell’ignoranza, dato che la perfetta conoscenza di Dio (toû theoû gnosis) si acquisisce tramite l’inconoscenza (ágnosis o agnosia, assai simile alla super-ignoranza, hu-

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Die verborgene Finsternis des unsichtbaren Lichtes der ewigen Gottheit ist unerkannt und wird auch nimmermehr erkannt werden. Und das Licht des ewigen Vaters hat ewiglich in diese Finsternis geschienen, aber die Finsternis begreift das Licht nicht (Joh. 1,5), Predigt 51, Die deutschen Werke, Bd. 2, hrsg. J. Quint, Kohlhammer, Stuttgart 1971 (rist. 1988), pp. 476 sg. = Predigten. Werke I. (J. Quint-N. Largier), Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt a/M 1993, Bd. 1, pp. 548 sg. Passi analoghi in Predigten, cit., Pr. 15, I p. 181, e 22, p. 265, dove quella celata tenebra è l’ultimo fine, das letzte Ende o Endziel, dell’essere.

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perágnoia, abisso di silenzio, di Damascio,10 futura docta ignorantia di Bonaventura e Cusano), in un’unione che si attua aldilà dell’intelligenza, per ricezione di un raggio super-sostanziale della tenebra divina (pròs tèn huperousion toû theioû skotous aktina), che ritorna in tutta la grande letteratura estatica e non necessariamente religiosa: nella noche oscura del alma e nel rayo de tiniebla di Juan de la Cruz, nel sole nero e nella non-conoscenza di Georges Bataille, nel raggio laser rosa inviato dal satellite VALIS a Horselover Fat di Dick... Insostenibile bagliore di un Dio supermanifesto (huperfaés) che abbacina il soggetto, superiore visione in cui soggetto e oggetto si confondono in attonito stupore, privazione o trascendenza, in cui l’iniziato, grazia all’ignoranza assoluta, conosce con perfetto moto circolare e con sguardi privi di vista Chi sorpassa ogni cosa conoscibile discorsivamente con moto elicoidale...11 La versione spiritualista platonico-cristiana – in cui la materia è illuminata ma la sua informe tenebra rilutta ad accogliere e comprendere la luce – compare in epoca rinascimentale nel De Sole di Marsilio Ficino, ribadendo con accenti platonici e dionisiani la scala ascendente dal calore alla luce materiale e immateriale:12 Il nostro divino Platone chiamò il Sole figlio visibile del sommo bene. Pensò anche che il Sole fosse la statua visibile di Dio posta da Dio stesso in questo tempio del mondo perché da ogni parte tutti la ammirassero sopra tutto. Come dice Plotino in accordo con Platone, gli antichi veneravano il Sole come Dio. [...] 10

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De primis principiis, § 29; cfr. t. I del Traité des premiers principes, texte établi par L. G. Westerink et introduit, traduit et annoté par J. Combés, 3 voll., Les Belles Lettres, Paris 1986-1991, rist. 2002. Impressionanti, anche nella terminologia, le affinità con lo Pseudo-Dionigi, per primo intuite da A. Kojève. Cfr. H.-Ch. Puech, La ténèbre mystique chez le Pseudo-Denys l’Aréopagite et dans la tradition patristique, «Études carmélitaines», 23 (1938), pp. 33-53, tr. it. La Tenebra mistica nello Pseudo-Dionigi Areopagita e nella tradizione patristica, in Sulle tracce della Gnosi, Adelphi, Milano, 1985, pp. 151-170, che suggerisce il trascinamento della connotazione privativa di skotos in quella sovrabbondante di gnofós per influenza della nuvola mistica di Esodo 19,16 e 20,21, che avvolge Mosè nella sua ascesa al Sinai, nonché delle teofanie crepuscolari o tenebrose di Filone, Origene e Gregorio di Nissa. Per i principali testi dionisiani, cfr. De Mystica Theologia I e III (Migne PG III 997b sgg. e 1032d sgg., tr. it. pp. 405 sgg. e 411 sgg.), le Lettere I e V (ivi, 1065a sgg. e 1073a sgg., tr. it. pp. 419-420 e 423) e il De divinis nominibus XIII (Migne PG III 708d e 872b, tr. it. pp. 308 e 355. Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Einaudi, Torino 1976, v. VII, pp. 991-995.

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Così come il Sole genera gli occhi e i colori, e agli occhi dà la capacità di vedere e ai colori quella di esser visti, ed entrambi congiunge in unità mediante la luce, così Dio si comporta rispetto a tutti gl’intelletti e a gl’intelligibili. Dio infatti crea le specie intelligibili delle cose e gli intelletti, dando loro una forza propria e naturale. Li circonfonde poi di continuo con una luce comune per mezzo della quale eccita all’atto le virtù degl’intelligibili e de gl’intelletti congiungendoli nell’azione. E questo lume Platone chiama verità rispetto alle cose comprensibili, e scienza nelle menti. Egli pensa che il bene in sé, ossia Dio, trascende tutto questo come il Sole trascende la luce, gli occhi e i colori. Ma quando Platone dice che il Sole supera tutto quello che è visibile, senza dubbio allude al di sopra del corporeo a un Sole incorporeo, ossia al divino intelletto. Poiché tuttavia si può salire dall’immagine all’esemplare togliendo quello che c’è di meno perfetto ed aggiungendo quel che ha valore, togli al Sole, a cui Averroè tolse già la materia, anche ogni quantità determinata, ma lasciagli con la luce la potenza, in modo che rimanga la luce dotata di una meravigliosa virtù non chiusa in alcuna definitezza di quantità o di figura, estesa per uno spazio infinito che riempie tutto con la sua onnipresenza. Pensa ora questa luce che oltrepassa l’intelligenza come quaggiù oltrepassa la vista degli occhi. Così avrai in qualche modo raggiunto, secondo le tue capacità, dal Sole Iddio, che ha posto nel Sole il suo tabernacolo. E poiché nulla è più lontano dalla luce divina dell’informe materia, niente è più lontano dalla luce dei Sole che la terra. Così i corpi in cui prevale la condizione terrestre, del tutto alieni come sono dalla luce, non accolgono in sé nessuna luce. E non perché la luce non possa penetrarli. La luce infatti, che non illumina all’interno la lana o il foglio, penetra istantaneamente il cristallo, che pur è così arduo a penetrarsi. Così la luce divina risplende anche nelle tenebre dell’anima, ma le tenebre non la comprendono. E non è forse anche in questo simile a Dio, che nelle menti angeliche e beate prima diffonde la scienza delle cose divine, ed accende quindi l’amore? Come accende quaggiù nei credenti l’amore che purifica e converte prima di donare l’intelligenza delle cose divine. Così il Sole illumina istantaneamente le nature pure e luminose già fatte celesti mentre quelle opache e materiali riscalda prima con la luce, le accende e le purifica, per poi illuminarle. E così col calore come con la luce fatte lievi e trasparenti, le solleva quindi e le sublima. Per questo Apollo con le saette dei suoi raggi trapassa, purifica, discioglie, solleva la massa di Pitone. Né dobbiamo dimenticare che a quel modo in cui speriamo in Cristo finalmente regnante, che con lo splendore del suo corpo susciterà dalla terra i corpi umani, analogamente aspettiamo ogni anno dopo l’inverno letale il Sole signore dell’Ariete, che richiama alla vita e alla bellezza i semi delle cose, nascosti come morti nella terra, e gli animali in letargo.

La luce erompe in ambito intellettuale, scissa dal naturalismo e vive! Il suo risvolto operativo si colloca su due altri piani: la complementarità ideologica a un regime signorile bancario cui propone schemi gerarchici per regolare i flussi monetari e di mercato, l’impianto di un mecenatismo programmatico, che fa della fioritura artistica il suggello propagandistico del

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regime stesso, sull’esempio di Augusto. Il pratico Cosimo il Vecchio protegge Ficino e gli affida l’educazione del più fantasioso Lorenzo. Del resto, la Nascita di Venere o la Primavera botticelliane ci sembrano preferibili alle celle esichiastiche. La luce irrompe nei quadri come nelle architetture, mentre il fuoco è riservato al rogo di Savonarola o Botticelli, savonaroliano mai pentito, vi getta le sue stesse opere. Il programma iconografico della Primavera è però stilato in termini più platonici che lucreziani, secondo le giovanili propensioni di Marsilio più che con l’asciutto naturalismo hard del Machiavelli, più fedele trascrittore del De rerum natura. Cui maggiormente si avvicinano le tavole schiettamente lucreziane e ovidiane di Piero di Cosimo sulle storie dell’umanità primitiva, al cui culmine abbiamo appunto l’Incendio nella foresta dell’Ashmolean Museum di Oxford o le Storie di Prometeo del Musée des Beaux-Arts di Strasburgo. Dovremo bilanciare tali ardori mistici, corporei e intellettuali, con altre immagini e favole, che ci (in)trattengano poeticamente sulla terra rifluendo dal teologico al politico e al terapeutico. Con il Rimbaud comunardo delle Mains de Jeanne-Marie, né esichiastiche né botticelliane: Leur chair chante des Marseillaises Et jamais les Eleisons!

4. Roghi e candele La fiamma del focolare e della candela, ai due estremi del ciclo riflessivo di G. Bachelard sul fuoco,13 l’associano alla meditazione solitaria. Di estrema ambivalenza, il fuoco è intimo e universale, brilla in Paradiso, brucia all’Inferno. Essere più sociale che naturale per il ruolo che il braciere assolve nel raccogliere gli uomini intorno e cucinare il cibo in modo ignoto agli altri animali. Con il contorno di tutte le buone vibrazioni digestive: zuppa calda, sopore post-prandiale, scarica del caffè e dell’ammazzacaffè... Natura sociale, dunque oggetto di desiderio: rubare il fuoco (complesso di Prometeo) è il desiderio del bambino che gioca con i fiammiferi sottratti al padre come dell’eroe che deruba Zeus in pro degli uomini. Ma, appunto, anche il suscitatore di ogni fantasticheria, che attrae lo sguardo sulla brace e invita a gettarsi nel vulcano (complesso di Empedocle). Il 13

La psychanalyse du feu, Gallimard, Paris 1949, tr. it. in L’intuizione dell’istante. La psicanalisi del fuoco, Dedalo, Bari 1984; La flamme d’une chandelle, Puf, Paris 1961, tr. it. La fiamma di una candela, Editori Riuniti, Roma 1981.

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rogo – morte individuale e cosmica – è un compagnon d’évolution, la meno solitaria delle morti, passione fino alla consumazione e alla dispersione fusionale nel Tutto. L’homme rêvant è quello della profondità e del cambiamento, insomma del divenire. Gli si associa un principio vitale, fortemente animato, autoalimentato e sessualizzato: igneo è l’elemento maschile, penetrante, informante e metamorfico, come acquatica è la ricettività femminile. L’alchemico matrimonio del cielo e della terra e le speculazioni di Paracelso lo confermano, mentre la scoperta dell’elettricità statica da strofinio rivernicia con colori pseudo-scientifici antiche dottrine. La combustione spontanea, spesso annodata con l’alcolismo, diventa la versione familiare dell’immersione empedoclea nelle viscere del vulcano. Destino del fuoco è l’incomprimibile oscillazione fra natura passionale e demoniaca ed efficacia purificante – quest’ultima lineare nell’idealizzazione (Novalis, Rilke) a luce che non brucia ma rischiara, al punto che, per Novalis, Licht macht Feuer, capovolgendo la sequenza per cui è il fuoco a produrre luce. Entra ora in scena la discreta, domestica, ipnotica candela amica del meditativo, sul cui tavolo scandisce il tempo come l’altrettanto desueta clessidra: la sabbia che rotola verso il basso, la fiamma che cola verso l’alto, si inerpica in verticale, verticalizza il sognatore per nutrimento aereo opposto a qualsiasi nourriture terrestre di gidiano sapore. Rêverie verticalisante, la più liberatoria,14 fragile fiore che presagisce un più alto altrove, un trascendere dell’essere nel regno dei valori. Solitudine rammemorante del sognatore, dello scrittore davanti alla pagina bianca, il suo perdersi nel tempo e la morte, perché del pari fiamma e vita si estinguono assopendosi. E la candela, petite lumière in lotta con le tenebre come il suo più regolato successore, la lampada a olio, distribuisce chiaroscuri nella stanza, Rembrandt, Georges de la Tour... Tonalità ignea e aerea, che hanno in comune l’ascesa verticale, qui si sposano: il sognatore, partecipe di entrambe, non è tormentato dalla passione, viaggia en douce come portato dalle acque, con il mondo non nel mondo, fonde il suo essere intimo con l’essere cosmico senza il bruciante consumarsi nel fuoco vulcanico. Candela e lampada ardono da sole, un volta accese. Il camino lo si ravviva aggiungendo o spostando ceppi, soffiando sulle braci. Ci si può smarrire contemplandolo, chiacchierare intorno, amoreggiare... Perfino il divampare a freddo della discussione in rete, la rissa virtuale è un flame.

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La flamme, cit. cap. III, che rinvia a considerazioni analoghe in L’air et les songes, cit., capitoli I e IV.

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5. Fuochi del conforto Focolari, candele, liturgie zoroastriane e pasquali, focarazzi da mignotte e da grigliate, caminetti senza tiraggio e con braci elettriche, forni a legna per pizze: accompagnano la vita cuocendo, scaldando, allegorizzando transiti divini e spandendo tepore conviviale nella stagione giusta. Niente di disprezzabile e magari anche una teologia alla mano, immagini rassicuranti del divenire – questo forse intendeva Eraclito popolando di dèi il focolare. Teniamoci questa dimensione: il politeismo, oltre che contrasto tragico e scelte infondate, è anche promessa quotidiana di quiete contro l’ascesi sacrificale e i millenarismi da strapazzo, le apocalissi a spese dei creduloni. L’espressione romanesca al riguardo è: fare il frocio col culo degli altri. Abituale per le religioni, purtroppo invalso anche in molte agende rivoluzionarie. Una teologia politica del fuoco aderisce stretta al suo ruolo elementare di trasmutazione simbolico-materiale delle cose: l’eracliteo governo cosmico del fulmine, il fuoco che tutto giudica ed elabora e l’ordinaria cottura del cibo, presa in carico e assimilazione, distruzione quale fase di passaggio e restituzione al ciclo del divenire. La metallurgia e poi l’alchimia, entrambe circonfuse di un magico alone iniziatico, stanno sul limite fra usi familiari e pericolosi del fuoco: ferro e oro sono il furore della guerra, la lavorazione profonda del campo, l’insidia della ricchezza e del commercio. Il forno, dove il fuoco è concentrato e intensificato nella cavità terrestre o in un struttura artificiale quasi magma vulcanico, cuoce e fonde, sforna pane e leghe metalliche. Gli dèi che vi presiedono sono più corruschi di quelli del focolare. La fucina del fabbro arieggia l’inferno. La salamandra sopravvive nel fuoco, la fenice vi trova rinascita. Il carro di fuoco di Elia trascina nell’estasi della visione, mentre il fuoco che purga le anime dei peccatori è un espediente abbastanza tardivo per aggirare la predestinazione e raccattare testamenti per la Chiesa. Alle pire induiste, il buddhismo preferisce il fuoco interiore dell’illuminazione. La promessa di resurrezione passando per una fornace (la mitologia iniziatica dell’Orco inghiottitore, il miracoloso salvataggio anagogico dei tre fanciulli nel libro di Daniele) viene svelata in anticipo nella perfida magia di Medea, che persuade le figlie del re Pelia, zio e nemico del suo sposo Giasone, a farlo a pezzi e gettarlo nel calderone per ringiovanirlo. Nel Vangelo di Matteo il Battista battezza con l’acqua ma annuncia la venuta di Chi battezzerà con il fuoco dello Spirito Santo. I fuochi invero pagani di S. Giovanni lo ricordano, in uno con le scorpacciate delle acquose lumache e altre stregonerie. Incendi rituali, nelle civiltà agrarie, commentano la rotazione delle culture, che ancor oggi affumi-

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ca d’estate le banchine delle autostrade. Le liturgie della rigenerazione sono una pratica di conforto.

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6. Fuochi del disordine Quando la rigenerazione si fa fenomeno e auspicio storico e non più ricorrenza stagionale, il significato dei rituali vira a maggiore intensità. Fuochi dell’oppressione, innanzi tutto, della minaccia spettacolare. Roghi di corpi per espiare i desideri e i pensieri, per disciplinare mediante l’esempio (streghe, ebrei recidivi, averroisti, eretici), roghi connessi simbolicamente alla purificazione del contagio, stracci e cadaveri di appestati: dopo Gutenberg roghi per la riconosciuta potenza dei libri. L’Emilio e il Contratto sociale russoiani condannati ad esso nel 1762, naturalmente, ma anche il 1933 dei libri immorali e sovversivi, inceneriti nell’happening di Goebbels (in concomitanza con la provocazione di Goering al Reichstag), il buon odore del napalm al mattino, l’estetica dell’attentatore shahîd, qualche film arso dalla solerte magistratura italiana in anni più democratici, Calderoli in braghe verdi che incendia le leggi inutili nel cortile ministeriale sotto sorveglianza dei pompieri, il futuro fantascientifico di Fahrenheit 451, il fungo di Hiroshima... I bagliori delle fiamme rischiarano fin troppo facilmente l’ideologia della rivoluzione, dissolvendone il momento costituente nella prassi destituente, che spesso è necessario attraversare, o addirittura nei suoi dettagli di attrito insorgente. L’apokatástasis incombe fra scintille e fumi e infatti la reintegrazione nel vulcanico Empedocle e negli Stoici è la contrazione che segue la periodica conflagrazione del mondo secondo l’allineamento dei pianeti, mentre per una parte della patristica, non aliena da suggestioni gnostiche,15 si collega al giudizio finale (con salvezza per tutti) e alla separazione dal male, immaginata come quella dell’oro dalle impurità nella fornace. Il trasferimento all’apocalisse rivoluzionaria è documentabile. Non disconosciamo la ricaduta confortevole della violenza che brucia, ma non vogliamo magnificarne la portata propriamente rivoluzionaria. Il fuoco è dimensione simbolica del tumulto, spesso suo contorno teatrale, in casi limite un mezzo di lotta. Il fumogeno colorato è eccellente allegoria di un’incerta collocazione intermedia del tumulto post-sovrano, sul crinale fra la citazione insurrezionale e la possibilità di un uso effettuale. Il discri15

Clemente Alessandrino, Origene, Gregorio di Nyssa (P.G., XLVI, cols. 100, 101, per l’immagine della raffinazione)

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Fuoco

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mine sta nei rapporti di forza, nelle circostanze e nello spazio che si apre intorno alla produttività del tumulto – ovvio che è un’ovvietà... La retorica del fuoco annientatore corona, quasi incendio di stoppe, la definizione terrestre del nemico, è l’aureola dell’attribuzione di identità per separazione e opposizione a un altro, inconsistente quanto la fredda fiamma alcolica che avvolge una banana flambée o un punch presentati in gran pompa dal cameriere. La violenza rivoluzionaria non è teologica né divina: occasionale, circostanziata, neppure maieutica ma solo concomitante con la produzione del nuovo: bilancia la violenza che vuole impedirlo, rimuove senza odio e risentimento gli ostacoli all’esodo. Scorre via con la de-enfatizzazione della decisione. Se non c’è più decisione che sancisce chi è sovrano nello stato d’eccezione, se non c’è più sovranità e neppure stato d’eccezione piuttosto incontri plurimi dove l’investimento di energia aiuta a far presa e a mantenerla, entriamo in uno spazio in cui la violenza è onnipresente e fungibile, assume rilievo tattico e non strategico, laddove strategico è stabilire, a prezzi giusti, una condizione di buona vita, far prevalere la politica prima (Muraro) della relazione e la politique della presa di parola degli esclusi (Rancière) sulla politica seconda di servizio o police amministrativa. La teologia dell’Uno entra nella letteratura occidentale con Iliade II, vv. 198 sgg., quando Odisseo zittisce e bastona Tersite, che aveva contestato Agamennone, proclamando che uno dev’essere il capo e non è bene che i molti comandino e che si azzardi a prendere la parola chi nulla conta in guerra e nel Consiglio, un enaríthmios, un fuori-di-conto.16

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Il demos «è la parte supplementare rispetto a ogni computo delle parti della popolazione… il supplemento che disgiunge la popolazione da se stessa sospendendo le logiche della dominazione legittima», Rancière, Dix thèses sur la politique, in appendice a Aux bords du politique, 2°, La Fabrique, Paris 1988, tr. it. in «La rosa di nessuno», n. 3, 2008, Mimesis, Milano 2008, pp. 156 sgg., tesi 5. Contare le parti reali, presenti ed elencabili istituisce la police, «una partizione del sensibile il cui principio è l’assenza di vuoto e di supplemento», identità di politica e Stato, mentre la politique perturba tale aggiustamento supplementando la comunità proprio con i senza-parte e rendendola così una nuova più comprensiva totalità. La politica esiste nel momento in cui l’ordine naturale del dominio viene interrotto dall’istituzione di una parte dei senza-parte: essa «rappresenta il tutto della politica come forma specifica di legame e definisce l’elemento comune della comunità politica, ovvero divisa, su un torto che sfugge all’aritmetica degli scambi e dei rimedi», al di fuori restano soltanto l’ordine del dominio o il disordine della rivolta, J. Rancière, La mésentente, Galilée, Paris 1995; tr. it. Il disaccordo. Politica e filosofia, Meltemi, Roma 2007, p. 33. L’uso dispregiativo del fuori-di-calcolo e fuori-di-numero (out’en logoi out’en

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Teologia dei quattro elementi

Possiamo adesso riprendere il discorso sull’ambiguità del politeismo neoplatonizzante e del suo inevitabile collasso, con Porfirio e Giuliano, di fronte alla sovversione cristiana, una volta che si fosse collusa con l’Impero. Prendiamo lo scolastico opuscolo di Celso,17 laddove si impugna il detto evangelico contro il servire più padroni sostenendo che non si fa torto al dio egemone venerando i demoni e gli eroi cui lui stesso ha delegato la tutela di determinati aspetti della vita. Chi troppo enfatizza l’unicità del divino a scapito delle sue cerniere gerarchiche fa opera sediziosa e in sostanza anti-governativa, perché anche l’autorità politica è espressione del divino ed esige una quota del culto. L’Uno platoneggiante implica la rappresentanza imperiale e le gerarchie dei cieli e degli angeli si riflettono in quelle burocratiche, secondo una divisione del lavoro delegata dall’alto per organi del corpo e facoltà dell’anima, le prime, per ranghi e competenze amministrative le seconde. Come si sosterrebbero i potenti, se non godessero del favore di un demone per superna licenza? Chi non brucia incenso ai simulacri degli dèi minori intermediari e ai simboli imperiali è un agitatore clandestino, un ribelle sedizioso, nemico dell’ordine e della ragione. Oltre a separarsi dal consesso umano, i Cristiani si spaccano in rissose fazioni eretiche, mentre giustamente Omero aveva proclamato uno essere il re, a immagine di Zeus. La teologia medioplatonica, piuttosto semplificata, rende compatibili l’Uno e la poliarchia politeista, svuotata del suo pluralismo simbolico e ridotta a gerarchia emanativa, soprattutto riflette in cielo la monarchia universale, prima ellenistica e poi romana: la proietta sopra la sfera della Luna per trarne legittimazione trascendente al di sotto, con elementari dispositivi allegorici e cultuali. Basterà che i Cristiani accolgano gli inviti a entrare nell’Impero, aggiustando il geloso monoteismo con formule trinitarie e angeliche e soprattutto riconoscendo la conformità dell’ordine politico a quello celeste (operazione conclusa con Damascio e lo PseudoDionigi), perché si affermi un’unica economia del potere, che rende patetici i tentativi di restaurazione pagana quanto i residui sovversivismi ereticali. Le teologie politiche laiche succedute alla frastagliata assimilazione del cristianesimo nell’ideologia imperiale (e viceversa) non fuoriescono dalla grammatica dell’Uno e a volte la ritrovano nella fusionalità mistica del fuo-

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arithmôi) era proverbiale presso i Greci e viene usato da Celso per squalificare Ebrei e Cristiani (Alethés logos IV 31, tr. it. Contro i Cristiani, Rcs, Milano 2012, pp. 94-95). Op. cit., VIII 8, 52-64 e 68, tr. it. pp. 204-207 e 220 sgg.

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Fuoco

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co. A un nuovo politeismo che spezza sul serio l’Uno e le sue rappresentazioni regali corrisponde il processo decisionale dei molti prima esclusi, l’interruzione di una teodicea del dominio, che giustifica ogni ingiustizia e sofferenza in nome della gerarchia promanante da un vertice sovraordinato.

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Riscaldare, cuocere il cibo, tener lontani animali feroci e zanzare, alimentare ricordi e racconti – forse per il fuoco basterebbe così. Al limite, illuminare la strada: jetzt komme, Feuer!

Principio dinamico e logos di tutto l’universo, distruzione, cottura, camino, elemento scatenante del divenire di cui l’acqua era fluido decorso, secondo complementarità patriarcale di maschile e femminile. Fuoco si dice in molti modi e vanno ponderati con saggezza. Il fuoco della distruzione, per esempio, non è estatica febbre fallica, ma lavoro ben fatto per facilitare il divenire, prossimo al tepore del forno e del camino, all’utilità delle braci. Nell’arco fra apokatástasis e barbecue si consumano storia e retorica della fiamma. Vogliamo rapirla a una teologia della decisione ultima e della partecipazione fusionale per restituirla a usi terreni, cui presiedono gli dèi eraclitei del focolare. Il fuoco incivilitore, al pari del miele e della dottrina salvifica di Epicuro, che ha dissipato la superstizione e ha portato la verità agli uomini, come le api suggono il nettare dai fiori per elaborarlo e Prometeo ha sfidato gli dèi per portare il fuoco agli uomini...

I segni di fuoco o trigono di fuoco (Ariete, Leone, Sagittario), positivi, maschili, yang, caldi e secchi, sono contraddistinti da creatività, passionalità ed energia, associati a luce e calore quali elementi primari di trasformazione della materia. Tenaci e schietti esigono altrettanto sincero attaccamento. Intrattengono buone relazioni con i segni d’aria, contraltare alla loro dinamica estroversione, ma si amano soprattutto fra loro.

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CONCLUSIONI

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1. Dirupi Suggelliamo la nostra artigianale Elementatio theologica con lieve parodia del finale del secondo Faust: redenzione e assunzione in cielo del peccatore grazie all’intercessione dell’Eterno Femminino. Il paesaggio romantico – gole montane (Bergschluchten), selve, radici e tronchi a strapiombo, caverne, rapide torrentizie e cascate – incornicia una sfilata di anacoreti, padri e dottori della Chiesa glorificanti Dio nei quattro elementi, angeli giubilanti, cori di bimbi morti appena nati, peccatrici pentite, ivi compresa Una Poenitentium sonst Gretchen gennant: Margherita redenta e ingaggiata a salvatrice, ti pareva che il rimorso della sedotta non riscattasse il seduttore. Il contingente è immagine del divino Uno-Tutto, l’inattingibile si cala nell’evento, l’incommensurabile ci cade nelle mani insieme alle rose dell’Eterno – ok, l’Ereignis. La catena neoplatonica dell’essere irretisce le buone intenzioni spinoziane – e già subito prima il mandante dell’esproprio omicida di Bauci e Filemone si crogiola nel senso di colpa per non rinnegare l’imprenditorialità capitalistica e le sue recinzioni. L’Ewig-Weibliche vittimario e redentore cade allora a proposito e l’etere scintilla di luci e sospiri, confermando l’impunità del seduttore e dell’assassino. Proviamo invece a immaginare una redenzione politeista, partendo dal passo programmatico di Friedrich Nietzsche, La gaia scienza § 143: Il vantaggio più grande del politeismo. Che il singolo si eriga il suo proprio ideale e derivi da esso la sua legge, le sue gioie e i suoi diritti – questa fino a oggi è stata considerata come la più mostruosa di tutte le umane aberrazioni e come idolatria in sé. In realtà quei pochi che osarono ciò, hanno sempre sentito la necessità di un’apologia davanti a se stessi, ed essa di solito si esprimeva in questi termini: «Non io! Non io! Ma un Dio attraverso di me!». Fu nell’arte e nella forza mirabili di plasmare dèi – il politeismo – che questo istinto poté disgravarsi, purificarsi, giungere a perfezione, nobilitarsi. […] Al di sopra e fuori di sé, in un lontano oltremondo, si poteva vedere una molteplicità di nor-

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Teologia dei quattro elementi

me: un dio non era la negazione o la bestemmia di un altro dio! Qui per la prima volta furono permessi individui, qui per la prima volta si onorò il diritto degli individui. L’inventare dèi, eroi e superuomini di ogni specie costituì l’inestimabile propedeutica per la giustificazione dell’egoismo e della sovranità del singolo: la libertà che si accordava al dio contro gli dèi, la si attribuì infine a se stessi contro leggi e costumi e vicini. Il monoteismo, invece, questa rigida conseguenza della dottrina di un uomo normativo e unico – la fede quindi in un dio normativo, accanto al quale non ci sono che dèi falsi e bugiardi – costituì forse il pericolo più grande nel corso dell’umanità fino a oggi quell’arresto prematuro, già da un pezzo raggiunto, per quel che c’è dato sapere, dalla maggior parte delle altre specie animali: in quanto esse tutte credono in un animale unico, normativo e ideale della loro specie e hanno definitivamente tradotto in carne e sangue l’eticità del costume. Nel politeismo era come preformata la libertà di spirito e la multiforme spiritualità dell’uomo: la forza di crearsi occhi nuovi e personali, sempre più nuovi e personali: cosicché per l’uomo soltanto, in mezzo a tutti gli animali, non esistono orizzonti e prospettive eterne.

Come di regola per Nietzsche, conviene lavorare in modo selettivo e lui stesso lo faceva per l’Eterno Ritorno... Niente enfasi su sovranità del singolo e superuomo e andiamo all’essenziale. Politeismo è molteplicità di norme. Nel politeismo non si assume a dio-modello un super-animale del gregge, anzi l’uomo, nella sua incompiutezza e unfitness, si definisce rispetto a un mondo dal quale resta distinto, senza tradurre in carne e sangue l’eticità del costume, senza rendersi immanente la comunità o la specie. L’animale, invece, aderisce alla sua nicchia ambientale per istinto, è tigre, cane, zecca. Le zecche hanno un dio-zecca. L’uomo, se si dà un dio unico, imita la zecca. La norma unica è ricondotta a un meccanismo istintuale, che esclude la libertà di variazione. L’uomo prosegue il processo evolutivo grazie al proprio disadattamento. Con diversi accenti, Üxküll, Gehlen, la distinzione di Heidegger fra Welt e Umwelt nel corso 1929-1930 e da ultimo l’accezione di «comunità inoperosa (désoeuvrée)» in J.-L. Nancy non hanno fatto che riprendere quell’intuizione di Nietzsche. Possiamo anzi asserire che egli ha disegnato un’embrionale dicotomia fra teo-logia e antropo-logia, dove la prima è monoteista, la seconda politeista, la prima debitoria e asservente, la seconda produttrice di valori. Il politeismo è supplemento simbolico alla pluralità dei conflitti, contro ogni superstiziosa idolatria (Engels) dell’Uno-Sovrano, proiezione immaginaria ma ordinativa del monoteismo politico. Esistono le genti del Libro e il popolo di Dio, Deus est populus come Rex est populus. L’Uno plotiniano è re, basileus (Enneadi V, 5, 3), e il suo ordine necessario non si lascia alterare dalle casuali epicuree «vane deviazioni (parenklísesis kenaîs)» de-

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Conclusioni

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gli atomi (ivi III 1, 16).1 La teologia fa ancora da teodicea a favore delle classi dominanti. Ormai, però, il sovrano-territorium si è ridotto davvero a spaventapasseri. Di regola agisce per delega di poteri sovranazionali che stanno alle sue spalle e la molteplicità delle norme, qualora promani dall’alto, è solo trasmissione caotica del comando dell’Uno, inganno governamentale e non apertura all’ethos dei molti. La moltitudine si chiama fuori, la sua molteplicità non individualistica di norme si esprime in politeismo dei valori, in esodo indignato dalla deferenza all’Uno. Già in Hölderlin, i numi sono figure reali, ognuna con un proprio centro di senso, attributi e correlato campo d’azione, cui corrispondono peculiari tonalità affettive di «pietà religiosa dell’uomo» (Guardini). Il politeismo vi esprime la discorde concordia fra i valori rivoluzionari in veste neoclassica e pagana e l’afflato redentivo cristiano. E stavamo ancora dentro l’orizzonte della sovranità.

2. Politeismo dei valori Riprendiamo la formula da Max Weber,2 che fa di tale poliarchia fra potenze inconciliabili la cornice dell’autentica pratica politica appassionata di parte, distinta dall’agire burocratico oggettivo e imparziale, intreccio e smistamento, invece, fra etiche dell’intenzione e della responsabilità. Non è un’innocua metafora, come talora s’intende in letture riduttive di Weber. Egli, dopo aver messo al primo posto fra le virtù dell’uomo politico la passione come Sachlichkeit, dedizione appassionata a una causa, Dio o diavolo, e aver richiamato Machiavelli, che preferiva la salvezza della patria a quella dell’anima, insiste sul fatto che noi apparteniamo a ordini di vita soggetti a leggi diverse e cui dobbiamo sacrificare come i Greci ai loro dèi, pur sapendo che spesso erano reciprocamente incompatibili. In tal senso,

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Non sarà un caso se, nella Firenze dei Medici, Plotino ispirerà la teologia filo-bancaria di Marsilio Ficino, il clinamen di Lucrezio l’ideologia repubblicana di Machiavelli. Del resto, lo stesso Plotino visse nell’intervallo fra il residuo equilibrio di imperatore e ceto senatorio nella dinastia degli Antonini e l’emergere di un’ideologia autocratico-militare dell’Uno, i cui simboli religiosi (di origine mazdea) saranno Mitra, il Sol invictus, infine Cristo sui labari costantiniani. L’espressione, desunta da J. Stuart Mill, è adoperata da Weber in vari luoghi, antologizzati da F. Ghia in Max Weber, Il politeismo dei valori, Morcelliana, Brescia 2010. Il testo cardinale di riferimento è M. Weber, Politik als Beruf, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1919, tr. it. in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1948, rist. 1966, pp. 45 sgg.

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Teologia dei quattro elementi

non esiste un monopolio della decisione nello stato d’eccezione, piuttosto un conflitto ricorsivo in cui l’apparato statale di volta in volta si schiera o arbitra, un insopprimibile Polytheismus der Werte, appunto. Non discrepante sarà l’attitudine di Hannah Arendt in merito a soggetto, politica e sfera pubblica.3 Prender sul serio quel passo significa riaggiustare lo schema accademico delle tre forme di potere legittimo e il loro presunto confluire nella gabbia d’acciaio dello Stato burocratico moderno, problematizzando il ruolo del carisma e recuperando la meno nota insistenza weberiana sulla democrazia comunale come potere in sostanza «illegittimo»,4 eccedente dal basso per coniuratio i preesistenti ordinamenti. Su tale piano di irriducibilità del politeismo teologico-politico a una forma unitaria, legittima, del potere, Weber apre a una dimensione più intrigante e labirintica, amazing, del suo pensiero. Dal disincanto del mondo e dalla neutralizzazione burocratica rispunta il carisma in conflittuale pluralità. La chiamata (Beruf) soggettiva da protagonista una parte contro la totalità, spartisce i chiamati in dissidio infondabile. Chi vive nel mondo (ricordiamo la nietzschiana distanza fra uomo mobile e animale istintuale incastrato nella nicchia dell’eterno) ha da scegliere quale o quali di questi dèi vuole o deve servire e si allontana sempre più dal Dio unico. Nel saggio Due vie, 1916, il politeismo stava sotto il segno occasionale dell’infatuazione bellica di potenza, l’onnipotente Macht-Pragma ma, a disfatta avvenuta, riemerge una dialettica più cumulativa della responsabilità e dell’onore del politico vs la fedeltà esecutiva del burocrate sine ira et studio, pertanto gli si addice il possedere spirito di parte, ira et studium. Ciò è trasferibile alla lotta di classe, come dimostrò il suo allievo Lukács in Storia e coscienza di classe, tanto influente sul primo operaismo italiano. Al contrario, il chiassoso rilancio della teologia politica operato da Schmitt, malgrado gli insistiti tentativi nel secondo dopoguerra di spacciarla in

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Il «chi è» della vita attiva si rivela attraverso l’azione e il discorso nella pubblica arena, alla pari con forze plurali concorrenti; la politica si dà solo in una costellazione di posizioni non fondabili su un’unica logica o su un corso razionalmente predeterminato della storia. Machiavelli è maestro comune di Weber e Arendt. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tübingen 1922, neu hrsg. von J. Winckelmann, 1956, Zweiter Teil, Kap. IX, 7. Abschn. (Die nichtlegitime Herrschaft), pp. 727 sgg., tr. it. Economia e società, Comunità, Milano 1961, vol. II, pp. 541 sgg. Rispetto alla democrazia delle poleis, quella comunale italiana ricompatta ruolo politico ed economico-professionale, a differenza dalla separazione greca fra agorá e oîkos. L’esaurimento del lavoro schiavile e il carattere periferico della servitù della gleba conferiscono ai tumulti un tratto moderno di classe.

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Conclusioni

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ereditaria continuità con Weber, è un ritorno fugace alla rappresentazione cattolica, con tanto di fanfare sul peccato originario e sulla consustanziazione eucaristica. Machiavelli, Goethe e Nietzsche, per citati che siano dal giurista di Plettenberg, maestro insuperato di occasionalismo vulgo opportunismo, gli sono altrettanto estranei che Weber. La terna perfetta di qualsiasi teologia politica monoteista invalidante la legge di natura è: creazione dal nulla, caduta peccaminosa, distruttibilità del creato. Per coglierlo al volo basti affiancare alla ferma convinzione machiavelliana nell’eternità del mondo, che insomma – per dirlo con l’amato Lucrezio (De rerum natura I, 150) – nulla possa nascere dal nulla per cenno divino, nullam rem e nilo gigni divinitus umquam, il diktat hobbesiano5 per cui Dio ha creato l’universo ex nihilo, non da una materia già esistente secondo la dottrina aristotelica, e alla fine butterà all’aria tutto quando e come vorrà, invalidando a priori le tipologie di legge naturale che si oppongono ai processi di autorizzazione e delega pattizia al Sovrano. La gigantesca riduzione di complessità, che si esplicò nelle teorie e nelle pratiche della sovranità, è diventata oggi obsoleta e viene rimpiazzata da tecnologie più sofisticate del potere, che traggono origine dalla sua variante pastorale6 e culminano nel tipo di comando che prende il nome corrente di governance, gestione autoritaria e flessibile integrata nella produzione postfordista e nel pensiero unico del neo-liberismo. La proliferazione delle fonti giuridiche di autorità spacchetta i poteri legislativi ed esecutivi fra vari livelli superiori e inferiori alla dimensione nazionale oppure li delega a centri strategici finanziari in regime di autotutela. La miscela fra residui poteri nazionali, emergenti pretese imperiali dopo il declino dell’egemonismo Usa e prima del consolidamento di quello cinese, influenza delle multinazionali e dei loro organi ufficiosi, varia da situazione a situazione e giorno per giorno secondo l’andamento della crisi. Un esito assai tipico di tali strategie è la 5

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Appendice latina al Leviathan, in Th. Hobbes, Opera philosophica quae latine scripsit omnia, ed. W. Molesworth, apud Longman Brown Green et Longman, Londini 1839-1845, rist. fototipica, Aalen, Scientia, 1961 III, p. 513, tr. it in Scritti teologici, a cura di G. Invernizzi e A. Lupoli, Franco Angeli, Milano 1988, p. 207. Per cui si rinvia ai corsi di M. Foucault al Collège de France del 1977-1978 (Sécurité, territoire, population) e del 1978-1979 (Naissance de la biopolitique), tr. it. Feltrinelli, Milano 2005. In termini filosofici «lo Stato postfordista assicura una sorta di surrettizia realtà politico-militare a quell’ens rationis che l’Universale, come tale, è. La democrazia rappresentativa e gli apparati amministrativi operano la sostituzione sistematica del Comune, individuabile ma non-predicabile, con l’Universale, predicabile ma non-individuabile», P. Virno, E così via, all’infinito, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 207.

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balcanizzazione dell’Europa mediante il sovranismo nazional-bancario per conseguire «un comando neo-feudale sulla moltitudine attiva portatrice di cooperazione, legame sociale e sapere diffuso» (Marazzi). Rispetto alle versioni classiche della sovranità, questo ritorno al medioevo offre una parvenza di decentramento politeista, da cui è assente il conflitto intra-settoriale, perché tutte le agenzie mirano a neutralizzarlo dislocando i fronti di contrasto e segmentando il flusso della resistenza in vasi incomunicanti. Mentre un autentico politeismo dei valori e delle istanze di potere si fonda sull’esposizione al conflitto, la governamentalità che lo simula, come il popolo rappresentato nella sovranità simulava la moltitudine, offre pluralità e polimorfismo, dentro però un dispositivo esclusivo di veridizione: la rispondenza alle regole del mercato finanziarizzato. La crisi apre una contraddizione insanabile fra efficienza governamentale e democrazia in senso lato (non-rappresentativa e in certi casi perfino rappresentativa). Essa non si manifesta più negli schemi usuali della rivoluzione, speculare alla sovranità, piuttosto nella disorganicità di cicli di tumulti e insorgenze, della cui varia natura abbiamo parlato altrove7 e che sono il referente materiale di una teologia politica sui generis, cui attribuiamo il nome di politeista, pur consapevoli dell’uso anacronistico di un termine spendibile solo in ambito monoteista. Molte differenze sono create artificialmente o sovraesposte nell’interesse del neo-liberismo: esempio da manuale le quarantasei tipologie contrattuali di precariato che deliziano il mercato del lavoro italiano. Ciò nondimeno, la profonda unità polare di potere e contropotere postulata dalle teorie sovrane e rivoluzionarie dei due secoli trascorsi si è effettivamente dissolta. La coppia Dio/Diavolo del monoteismo ha fatto il suo tempo. Nella contenuta frammentazione dell’Impero – non l’anarchia, ma il consolidamento di pochi grandi raggruppamenti in incerta competizione fra loro e dotati ognuno di un'agenda autoritaria e virtualmente coloniale – e nella regionalizzazione degli ambiti di sfruttamento, resistenza e conflitto, non tutto sta sullo stesso piano, tanto meno scompare l’antagonismo di classe, che insieme alle contraddizioni geopolitiche mantiene un ruolo di ultima istanza. Diventa molto più complicata e scrausa la connessione dei dominati, mentre per i dominanti la finanziarizzazione funziona meglio, assegnando ranghi gerarchici e mantenendo, con sempre maggior fatica, un discreto regime di estrazione del plusvalore mediante sfruttamento diretto e prelievi di rendita. La crisi ha rimesso in questione l’egemonia capitalistica che era stata garantita, nel bipolarismo della guerra fredda dal compromesso keynesia7

Il già menzionato Tumulti, di A. Illuminati e T. Rispoli.

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no e nella breve stagione dell’egemonismo Usa dopo il 1989, dallo strapotere militare e dai successi iniziali dell’offensiva neo-liberista. Per applicare la metafora di Cosmopolis, fino a un certo punto la vertigine finanziaria può giocarsi la carta dell’irregolarità (la prostata asimmetrica dello speculatore protagonista), che dall’interno del corpo irride l’illusione simmetrica della previsione razionale, ma poi l’andamento caotico comincia a braccare e mettere in scacco la razionalità strategico-speculativa, a cambiare l’assetto geopolitico. La distruzione del passato e il sacrificio del presente all’avido e inafferrabile futuro – i tratti ossessivi di una teologia finanziaria – consegnano il futuro a centri di poteri diversi da quelli prevalenti alla fine del secolo scorso. Il problema è che le classi subalterne non ne ricavano nulla, devono condurre su altro terreno, con altra postura, lo scontro per l’egemonia e prima ancora per la sopravvivenza. Quale parte ha la componente simbolica in tale battaglia, scontando la frammentazione degli interessi e la dissoluzione della solidarietà di classe faticosamente plasmata fra inizio Ottocento e metà Novecento? Faticosamente, si badi bene, contro corporativismi e ignoranza, crumiraggio e pulsioni nazionaliste, presunzione coloniale e sovversivismo plebeo. Tanto per ricordare che non è poi un problema del tutto inedito.

3. Allegoria qualunque A Man’s life of any worth is a continual allegory – and very few eyes can see the Mystery of his life – a life like the scriptures, figurative. [...] Shakespeare led a life of Allegory; his works are the comments on it. Lettera di John Keats a George e Georgiana Keats, 1819

Nun will ich (noch) etwas sagen, was ich (noch) nie gesagt habe. Gott schmeckt sich selbst. In dem Schmecken, in dem Gott sich schmeckt, darin schmeckt er alle Kreaturen. Mit dem Schmecken, mit dem Gott sich schmeckt, damit schmeckt er alle Kreaturen – nicht als Kreaturen, sondern die Kreaturen als Gott. In dem Schmecken, in dem Gott sich schmeckt, in dem schmeckt er alle Dinge. [...] Wieder will ich sagen, was ich (noch) nie gesagt habe: Gott und Gottheit sind so weit voneinander verschieden wie Himmel und Erde. Ich sage mehr noch: Der in-

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nere und der äußere Mensch sind so weit voneinander verschieden wie Himmel und Erde. Gott aber ist’s um viele tausend Meilen mehr: Gott wird und entwird. [...] Es gibt manche arme Leute, die kehren wieder heim und sagen: “Ich will an einem Ort sitzen und mein Brot verzehren und Gott dienen!” Ich (aber) sage bei der ewigen Wahrheit, diese Leute müssen verirrt bleiben und können niemals erlangen noch erringen, was die anderen erlangen, die Gott nachfolgen in Armut und in Fremde. Amen.

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Meister Eckhart, Nolite timere qui corpus occidunt, animam autem occidere non possunt, Predigt 109

La vita come allegoria, le opere come commento. La vita, basta che abbia un minimo di valore. Le opere, non necessariamente Re Lear o Antonio e Cleopatra. Una teologia del quotidiano o almeno di un eccezionale romanticamente terreno. Consumato in pochi anni e sepolto dietro la Piramide, nel Cimitero degli Inglesi: Here lies One Whose Name was writ in Water... Nei pressi di un altro protagonista di vita allegorica commentata da opere, Antonio Gramsci. Che ogni vita sia di per sé allegorica, che equivalga alle Scritture, ribalta in pieno l’allegorismo biblico agostiniano e la sua controparte orientale, la teologia simbolica dionisiana,8 con l’ingenua elencazione della corrispondenza dei sensi umani alle funzioni spirituali e via via di oggetti, piante, animali, minerali ai loro significati allegorici, morali e anagogici. Ben oltre: la teologia pura, diretta che si addice agli eletti (theologia safés o fanés), è adesso calata nella vita terrena, in ogni life of any worth, in una vita qualunque. L’autozoé di DN XI, una vita animale (zoé) generalizzata al cosmico-divino, ripiega sull’umanità del bios – il sostrato reale della resistenza e dello sfruttamento, della creatività e delle recinzioni esproprianti. L’aldiqua della prassi, non la mistica capovolta dell’immanenza. La posta è il chiunque, travolto dalla crisi, cooperante con i suoi simili per contrastare l’oppressione e produrre vita qualificata. Qui si gioca la partita, non in cielo. Nella Diesseitigkeit di Marx e nella «terrestrità» di Gramsci. E poi, non spaventatevi, traduciamo il testo in esergo del mistico renano. Dopo un enfatico richiamo («Fate ora attenzione! Vi dirò qualcosa che non 8

Questo trattato dello Pseudo-Dionigi non ci è pervenuto, ma è documentato in De coelesti hierarchia XV (Migne PG III 328a-340b, tr. it. P. 125 sgg.) e nella Lettera IX (ivi, 1104b sgg., tr. it. pp. 448 sgg.), secondo il principio per cui le cose visibili sono immagini che manifestano le cose invisibili.

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ho ancora mai detto») spiega che la creazione non fu operazione di alcun genere, ma lavoro su se stesso in se stesso e l’opera era dunque a lui identica – un potente tratto di panteismo! Infatti, in tale operazione Dio ama se stesso e le sue creature, non in quanto creature ma in quanto frammenti di Dio. Il Creato è parte del Creatore e la differenza ontologica si estingue. «Voglio dirvi ancora qualcosa che non ho mai detto. Dio assapora se stesso. Nell’atto di assaporare se stesso, egli assapora tutte le creature [...] non in quanto creature, ma le creature in quanto Dio. Nell’atto di assaporare se stesso, assapora tutte le cose. [...] Di nuovo vi dirò qualcosa che non ho mai detto: Dio e la Divinità sono separati l’un l’altra così ampiamente come il cielo lo è dalla terra. Dico ancora di più: l’uomo interiore e l’uomo esteriore sono separati l’un l’altro così ampiamente come il cielo lo è dalla terra. Ma Dio lo è molte migliaia di miglia in più: Dio si forma e si dissolve». Wird und ent-wird. Ent-wird, si sottrae al divenire, de-diviene, riavvolge il nastro, tasto rewind. Qualcosa di più di una de-creazione o kénosis. Nel suo mistero ineffabile (la Divinità è al di là dalla conoscenza discorsiva) Dio e le creature riposano congiunte, si dissolvono nell’indistinzione di agire e non-agire. «Queste cose dovevo dirvele. Se non ci fosse stato un pubblico, avrei predicato alla cassetta delle elemosine». La facezia plebea suggella la sorpresa. Come ci si accosta all’abisso divino? Non parla di sé. «V’è della povera gente che torna a casa e dice:”Voglio sedere in qualche luogo, consumare il mio pane e servire Dio!”. Ma io dico nella verità eterna che questa gente deve rimanere smarrita e non può mai raggiungere e conquistare quel che raggiungono gli altri, che seguono Dio nella povertà e in terra straniera. Amen». Ora non è più questione di luminosa caligine e raggi superessenziali, piuttosto di migrazione e povertà come condizioni di santità. Di rinuncia all’identità avallata da casa, proprietà e garanzia religiosa comunitaria, per acquisirne una più arrischiata nella fusione con un Dio indecifrabile, cui rimettersi in abbandono. Il vuoto di Dio precipita nell’anima evacuata. Certo, resta il miraggio di una super-identità con l’hupértheos – è il prezzo di qualsiasi monoteismo, anche assottigliato nell’assenza,9 nel culto mime9

La decostruzione del cristianesimo, perseguita con ammirevole coerenza da J.-L. Nancy nei testi La déclosion (2005) e L’adoration (2010), conduce al Dio della kénosis, a una «trascendenza nell’immanenza» o eccedenza dell’umano risultante dallo svuotamento del posto di Dio o sua ritrazione, che lascia essere la potenza del comune, del con-essere, di una democrazia infinitamente aperta nell’interruzione di ogni mito e senso ultimo. Versione soft ancora monoteista della crisi e del conflitto. Il Glimmung di Dick era una più ragionevole versione del dio morente.

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tico del posto vacante di Dio – ma quel passaggio liturgico è troppo pericoloso e convertibile in toni mondani dissonanti. Infatti, le autorità ecclesiastiche sorvolarono sulle suggestioni panteiste ma presero nota e condannarono certe temerarie affermazioni suscettibili di corrompere i cuori delle persone semplici. Ecco il cap. 8 della bolla In agro dominico emanata nel 1329 da papa Giovanni XXII: «Coloro che non si rivolgono alle cose, né agli onori, né all’utilità, né alla devozione interna, né alla santità, né al premio, né al regno dei cieli, ma a tutte queste cose hanno rinunciato, e anche a ciò che è loro proprio, in questi uomini Dio è onorato». Non fosse mai! Le beghine e Margherita Porete sperimentarono nella propria carne un fuoco non simbolico. La valenza anti-feudale della mistica, che in nome della libera epistrofé o reditus o conversio all’Uno super-gerarchico disconosceva le gerarchie ecclesiali e terrene e perfino la supremazia di genere, non poteva restare senza risposta. La Guerra dei contadini e il Regno anabattista dei Santi instaurato a Münster saranno le tappe successive e il passaggio dall’estasi alla violenza ne marca, attraverso sconfitte, la maturazione politica. Dio è violent. Naturalmente oggi è questione non di vita santa, ma di una vita qualunque. Povertà e migrazione non sono scelte morali o chiliastiche piuttosto effetti di crisi e premesse di sovversione. A voler rovesciare in radice ogni pretesa di secolarizzare la teologia considerandola precorrimento imperfetto, figura di quanto contempleremo nell’al di là, buttato lo specchio e risolto l’enigma, tocchiamo qui con mano che millenarismo teologico e passioni religiose (erranza, povertà, teopatia) sono forme di politica comunista calate in un tempo dove trovano un senso compiuto (ci sono dèi in ogni focolare). Caso mai il nodo è un altro: una teologia monoteista della liberazione c’è stata, ha chiuso una dignitosa stagione eterodossa delle Chiese, adesso però è residuale. Nel tradurre le formule teologiche non si possono usare le categorie giuridiche sovrane, di più: non si può lasciare inalterato l’apparato monoteista soggiacente.

4. Tradurre l’Uno in molti Questo problema di traduzione è, altresì, un problema di egemonia. Porgiamo delle approssimative indicazioni di rotta. La vecchia teologia cigola, pur fornendo ancora qualche prestazione. Agli angeli subentrano i derivati fluttuanti sui famosi ‘mercati’, inafferrabili e ricattatori, il debito di tenebra incombe abbacinante ed esorta alla

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santa ignoranza per rafforzare la propria presa destinale, l’invisibile continua a essere oggetto di rappresentazione sacramentale e gerarchica, corazzata dalla fiducia parlamentare e dalle polizie in assetto anti-sommossa. I capricci teologici non servono più a definire la persona giuridica a sostrato dell’obbligazione, ma post-persone negli ingranaggi della governance. Le post-persone sono mantenute nel loro guscio giuridico autorizzativo, ma evacuate di contenuto decisionale e consultivo vaporizzato a forza di trasferire la funzione attoriale a entità sempre più remote e capricciose, a divinità indifferenti che, al confronto, il Dio-che-non-è era un vecchio zio impiccione. I processi di dislocazione (Laclau) che, inseriti in una struttura con un fuori, rendono insuturabile, dis-identico un sistema costituendone la temporalità per eventi,10 producono nel contempo identificazione soggettiva e collasso dell’oggettività, temporalizzano lo spazio presunto chiuso nell’antagonismo politico. L’egemonia non solo è combinazione di potere e contingenza (Laclau) ma, nella persuasiva ipotesi di Frosini, è il momento in cui «l’oggettività svela la traccia della sua contingenza, riaprendo il tempoevento della politica. Insomma, il potere come egemonia è la mediazione impossibile in atto di verità-evento e potere-oggettività». Affermazione e insieme smagliatura dell’universale. Vediamola, l’egemonia, sotto il profilo della traduzione, una modalità particolare della prassi che si fa carico della dislocazione, dello squilibrio fra pratiche sedimentate in assetti di potere e in ideologie universali. Il Dio unico (la lingua originaria universale) era ed è l’archetipo di ogni ideologia che si crede l’universale definitivo, che satura i vuoti e inibisce il movimento, là dove il tempo diventa spazio, secondo l’immagine ieratica del Parsifal, che giustamente Nietzsche aborriva. In un diagramma politeista – dove gli dei sono simbolici e valoriali, reciprocamente relativi, condensano le vicende umane e non ci ficcano il naso, confinati negli intermundia epicurei e lucreziani – l’universale si genera solo e provvisoriamente nella traduzione da una lingua (da una pratica, da una struttura) in un’altra, 10

Politics and Ideology in Marxist Theory. Capitalism, Fascism, Populism, Verso, London 1977, Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale (1985, con Chantal Mouffe), il melangolo, Genova 2011, e La ragione populista (2005), a cura di D. Tarizzo, Laterza, Roma-Bari 2008, che recepiamo nel riorientamento effettuato da F. Frosini, Da Gramsci a Marx, cit., cap. V e nel saggio Spazio/tempo ed egemonia/verità. Due questioni gramsciane per Ernesto Laclau, in Aa.Vv., Populismo e democrazia radicale. In dialogo con Ernesto Laclau, a cura di M. Baldassari e D. Melegari, Ombre Corte, Verona 2012, pp. 175 sgg. Vedi anche l’intervista a Laclau, ivi, pp. 11 sgg.

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nell’eterolingualità che mantiene le differenze fra identità sempre cangianti e mai totalizzanti per lo stesso loro sottoporsi a traduzione. Ogni lingua s’immagina archetipo dell’universale, ma solo nel confronto e nella traducibilità questo si realizza storicamente, comunica, si sedimenta in istituzioni. A proposito della Traumgeschichte della filosofia tedesca, Frosini ha osservato (traduciamolo a nostra volta) non trattarsi soltanto di una traduzione onirica dal giacobinese all’idealese, perdendo il contatto con la politica, ma dell’invenzione del burocratese, cioè del linguaggio dello Stato di diritto in cui la Rivoluzione francese viene normalizzata per neutralizzazione, amputandola degli aspetti più radicali. Parlamentarismo più burocrazia, rappresentanza della società civile atomica raggruppata in Stände corporativi coordinati da un’amministrazione pastorale, funzione degli intellettuali organici. Un preciso disegno egemonico borghese che si avvolge in panni speculativi come i giacobini si erano mascherati in toghe romane, secondo il parziale effetto veritativo dell’ideologia. Sotto tale profilo, la polemica anti-hegeliana di Feuerbach, in parte condivisa dal giovane Marx, è senz’altro ingenua e sopravaluta il capovolgimento della teologia e il ruolo della Diesseitigkeit, di un’ideologia dell’aldiqua. Il Marx degli opuscoli politici degli anni ’50 e ’70 andrà molto al di là del 1843-1844 e farà sul serio i conti con Hegel, prendendolo in parola sulla burocrazia e passando dalla denuncia del «gesuitismo» allo smantellamento del «bonapartismo» dell’amministrazione statale. Torniamo alla neue Mythologie auspicata nel composito Systemfragment del 1800, «una nuova mitologia al servizio delle idee, una mitologia della ragione», fondata sulla coppia monoteismo della ragione e del cuore e politeismo dell’immaginazione e dell’arte, e consideriamo che la comprensione dell’efficacia simbolico-comunicativa di un approccio post-illuministico si apre verso due direzioni di presa effettiva sul mondo, che possiamo immaginosamente associare ai nomi di due presumibili estensori. Direzione Hegel: mondanizzare l’idealismo in filosofia del diritto e legittimazione dello Stato moderno (presentato in vesti arcaiche, come avevano fatto i Fisiocrati per l’economia), far lavorare i concetti per produrre un assetto costituzionale e garantirgli un consenso moderato. La consistenza vischiosa della sua costruzione statuale testimonia la persistenza di una lunga storia della sovranità, che incorpora non solo gli antenati legittimi (Lutero, Hobbes, Locke e Rousseau), ma anche il realismo machiavelliano e la soggettività mistico-eretica di Eckhart e Böhme. Direzione Hölderlin: infilare ai giacobini tedeschi pepli greci e sostituire alla rigidità del diritto romano e napoleonico il gioco delle potenze cto-

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nie e celesti, orientali e occidentali, far sfociare nel Mediterraneo Reno e Danubio, Neckar e Indo, mescolare a ritroso le stirpi e le lingue, lo svevo, il greco e il francese, inventare una Heimat ibrida per la comunità senza voce. Gli dèi vi definiscono sfere di valori, in miscela o in alternanza: Zeus sovrano gerarchico e il detronizzato Saturno che riapparirà portando l’eguaglianza dell’età dell’oro, Ercole e Dioniso che si rispecchiano fraterni in Cristo. Il ritorno degli dèi è però segnato dal sentimento della perdita o, in Hyperion, dal fallimento della rivolta anti-turca, allegoria del giacobinismo tedesco. È poesia sentimentale nel senso schilleriano, messa al servizio di un’educazione popolare che, per le vicende personali dell’autore, resterà allo stadio di progetto. In entrambi i casi il colore speculativo è solo epidermico, perché l’obbiettivo è di razionalizzare il popolo (cioè organizzarlo, dall’alto o dal basso) e di rendere sinnlich i filosofi, immetterli nel concreto e trovar loro audience, cioè di farli operare nel forgiare il linguaggio del diritto (per analogia teologica al Dio che entra nel mondo, lo Stato) o nel costruire una comunità rivoluzionaria liberata dalla divisione del lavoro. Per Hegel era più semplice: l’implicazione autoritaria e unitaria della sovranità e della rappresentazione rendeva intercambiabili dittatura giacobina e liberalismo girondino, Polizeiwissenschaft settecentesca e governance post-sovrana, dispotismo illuminato pre-rivoluzionario e rivoluzione passiva della Restaurazione. Non lo si doveva affatto mettere a testa in giù, ma serviva prenderlo sul serio e combatterlo quale corifeo della più aggiornata sovranità borghese, come poi sarà il bonapartismo. Una prova generale, per l’aspetto speculativo, del pensiero unico che neutralizza il negativo, nella macchina giuridico-amministrativa, di ogni governo tecnico del conflitto e della crisi. Hölderlin è invece il banco di prova effettivo delle ambivalenze di politeismo e mitologia. Il monoteismo della ragione si compone con difficoltà con il politeismo dell’immaginazione, relega gli dèi a contorno del grande Redentore, che alfine diventa immanente nel pensiero idealistico. Non si varca il limite del popolo sovrano e della comunità strozzata. Pericolo accessorio sarà poi la lettura heideggeriana, dove estetismo e ontologia liquidano i residui sovversivi e fanno di Hölderlin un vate dell’Essere, del linguaggio che ne è casa. Il dionisiaco di Nietzsche evita lo scoglio, ma si insabbia in una volontà di potenza il cui vero limite è l’estetismo individuale più che la permeabilità alla banalizzazione fascista. Su un piano più pragmatico, sotto l’influenza di Nietzsche e Bergson, Georges Sorel fa della mitologia un attrezzo di lotta del movimento opera-

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io, in specifico del sindacalismo rivoluzionario. L’accezione del termine è abbastanza grezza, facendo riferimento alle forze vitali irrazionali che dànno vigore agli obbiettivi politici senza troppo curarsi di coerenza e realismo, nondimeno funzionano e conducono alla vittoria. Esempi moderni di miti sono lo sciopero generale (che Sorel stesso ricava dal e ripropone al sindacalismo rivoluzionario), la rivoluzione catastrofica o presunta tale di Marx.11 I prototipi storici sono invece dal primo cristianesimo apocalittico, della Riforma, della Rivoluzione francese – figure del monoteismo religioso o della sovranità laica. Sono argomenti di cui constatare l’efficacia storica, non discutere la validità razionale. Non di descrizioni di cose, ma espressioni di volontà, ben distinte dall’elucubrazione intellettuale di utopie. Strumenti di mobilitazione e di battaglia, non formulazioni istituzionali, più o meno plausibili e logiche. Il volontarismo politico supplementa e sostituisce la struttura economica di classe. Le sue espressioni non sono scalfibili dalle sconfitte né corruttibili dal parlamentarismo, così come la Riforma protestante salvaguardò il cristianesimo dalla corrosione umanistica. Presentando obbiettivi fuori dal presente e indeterminati nel tempo, i miti fanno appello alle tendenze inconscie più forti e organiche di un popolo o di una classe o di un partito, ne rigenerano la tempra morale e la volontà invertendo, con machiavelliano ritrarsi ai princìpi, la corruzione che il tempo e le pressioni esterne inducono nei programmi originari. Ogni rivoluzione tradisce i propri miti, ma senza di essi, avrebbe mai potuto vincere? Sarebbe da astrologi fare le pulci preventivamente al contenuto dei miti, domandarsi se lo sciopero generale è realizzabile, quando e come, quanto criticare retrospettivamente la mancata seconda venuta di Cristo sulla terra. I miti sono «mezzi per agire sul presente» e il loro impatto complessivo è l’unico criterio di giudizio, non l’attendibilità delle singole parti e previsioni. Lo sciopero generale è «il mito nel quale si racchiude tutt’intero il socialismo, cioè un’organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo contro la società moderna», promettendo il riscatto delle sofferenze passate più che dettagliando i godimenti futuri – Benjamin se ne ricorderà! Inoltre nello sciopero generale, mito a 11

Per i testi cfr. Réflexions sur la violence, Librairie des « Pages Libres », Paris 1908, ed. definitiva 1919, Intr. e capp. IV e V e VII, tr. it. in Scritti politici, a cura di R. Vivarelli, UTET, Torino 1963, pp. 96 sgg., 105-106, 109, 208-212, 262-263 e 348 sgg.; La décomposition du marxisme, Marcel Rivière, Paris 1908 e 1910, capp. V e VI, tr. it. ivi, pp. 768 e 862.

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parte, «il proletariato si separa distintamente dalle altre parti della nazione, considerandosi il grande motore della storia e subordinando ogni considerazione sociale a quella della lotta»; educa così «un sentimento di gloria inerente al suo ruolo storico e all’eroismo del suo sentimento militante» e aspira alla prova decisiva nella quale «darà la misura piena del suo valore». Non vuole conquistare nulla, soltanto espellere i capitalisti dalla produzione e abolire lo Stato. Vediamo all’opera non soltanto il futuro gramsciano spirito di scissione ma anche in nuce l’ordinovista società dei produttori, alla cui «morale» dedicherà il VII capitolo delle Réflexions sur la violence e vari passi nella Décomposition du marxisme, la cui conclusione celebra le avanguardie sindacaliste rivoluzionarie come i monaci del movimento operaio, gli eredi degli ordini religiosi che salvarono la Chiesa dalle compromissioni temporali della gerarchia ufficiale, tornando a separarla dal mondo corrotto e corruttore. Ai tempi di Sorel (e ai nostri) dal parlamentarismo piccolo-borghese e dal tradeunionismo socialdemocratico, organici alla speculazione finanziaria. Aggiornando Nietzsche e mantenendone la profonda ispirazione individualista contaminata con un’evidente simpatia per l’anarchismo ormai penetrato nel sindacalismo rivoluzionario o anarco-sindacalismo, Sorel oppone alla disciplinare morale dei consumatori la rivoluzionaria morale dei produttori come nuova aristocrazia, industriale e guerriera. Da non perdere la preveggenza (Bataille lo riprenderà) con cui denuncia un socialismo di Stato, futuro socialismo reale, che mantenesse la divisione fra produttori e pensatori che applicano alla produzione i dati della scienza, instaurando una disciplina di fabbrica più rigorosa di quella capitalistica. I produttori rivoluzionari, invece, puntano a una sommossa generalizzata «frammentata», senza un piano di insieme che favorirebbe soltanto la sostituzione di un governo politicante a un altro: essi vogliono «esaltare l’individualità della vita del produttore», a partire dal rifiuto della misura ordinaria nel lavoro di fabbrica, secondo una stretta affinità con l’operare dell’artista che si distingue dall’artigiano per l’innovazione originale dei modelli e l’infinità del suo volere. La sociologia pre-fordista dei produttori (operai specializzati di mestiere) inclina, qualora si adottino il mito dello sciopero generale e la pratica della violenza – «la violenza illuminata dall’idea di sciopero generale» –, a uno stato d’animo epico che consente allo stesso tempo di realizzare la rivolta e un progresso illimitato nella produzione in un’officina liberamente funzionante e autogestita. Facile denunciare l’ambiguità di una posizione che copre, nel sostanziale irrazionalismo, Iww e consigli di fabbrica torinesi come lo squadrismo, esalta Lenin ed è appropriato da Mussolini, ispira Gramsci, Lukács e Benjamin

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restando colluso con l’Action française e postumi torbidi filoni sindacal-rivoluzionari nazionalisti francesi, italiani e spagnoli. Tuttavia la vera e più profonda contraddizione di Sorel risiede nella mescolanza di sovversione e produttivismo e nel fantasma unitario e organicistico che compensa il suo individualismo di fondo, come l’appello al mito integra la critica delle illusioni del progresso. Risolutivo è capire quanto la sua rivendicazione del mito come parte di una filosofia dell’azione, cioè di uno spostamento creativo della filosofia dall’ambito della conoscenza a quello della vita attiva, influenzi la nuova concezione gramsciana dell’ideologia, una volta che il sardo si è liberato dai debiti giovanili più espliciti (rivoluzione contro il Capitale, compresa). Non tanto per sottrarre Gramsci a Sorel, che è problema di filologia storica, quanto per ricavare una concezione oggi spendibile di ideologia da quella fascinosa e contorta genealogia, urge insistere sulla «perfezione e instabilità del sistema egemonico» (Frosini) cui ogni ideologia contribuisce e mira. Doppio movimento per cui il successo di un’egemonia istituisce una distinzione di dirigenti e diretti che limita la soggettività delle forze sociali coinvolte e dunque apre una faglia nell’universale appena attinto. C’è, in altre parole, «un’incoerenza costante tra ciò che [l’egemonia] sollecita e ciò che essa tollera, un’eccedenza costante del soggetto reale rispetto al soggetto rappresentato». Il mito, sottratto a Sorel ed epigoni, si risolve in una pratica dell’eccedenza fondata sull’accertata impossibilità di un monoteismo immanente, di un’unità totalizzante dello schema sociale, dello stesso processo rivoluzionario. Il mito sostituisce l’auto-rappresentazione unitaria di un gruppo alla rappresentanza parlamentare, per totalizzazione della parte, pars totalis in cui ogni scheggia dello specchio riflette per intero il paesaggio circostante. Questo fu la classe operaia all’alba e al crepuscolo del fordismo, in Storia e coscienza di classe di Lukács e in Operai e capitale di Tronti, idealizzazione dei due estremi di un periodo eroico della lotta di classe, cui non poteva che seguire il disilluso tramonto della politica, inchiodata a quella fase della soggettivazione. Il mito, in tale accezione monoteista, è immanenza e trasparenza della tribù a se stessa, definita dall’antagonismo a un’altra tribù, dentro una concezione della storia per cui ogni fase è retta da un dio unico, dalla tribù più progressiva. La passione irrazionale, che consente un accesso privilegiato alla verità, fa dell’esclusione una forza storica e sociale senza paragoni. Naturalmente in questo c’è molto di vero e un bel pezzo della nostra comune storia: ma quel soggetto coeso, per cui l’esclusione (come per gli Ebrei) diveniva fattore di identità e di elezione, ha esaurito la sua carica propulsiva, come si è scaricato l’impeto della rivoluzione speculare alla sovranità.

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Se di una neue Mythologie abbiamo bisogno, essa non potrà limitarsi ad adornare un impianto monoteista con il politeismo dell’immaginazione (mantenendo la gerarchia di ragione e fantasia) e forse non basterà un’educazione delle masse dall’alto, che ha avuto le sue ragioni e contro-ragioni. La brillante idea di Rousseau di sostituire con la pseudo-spontanea festa popolare, in cui il popolo è spettacolo a se stesso, la recita gotica, in cui i potenti si rappresentavano davanti a una platea passiva e ingannata, era una metafora azzeccata per gettare i capisaldi della modernità: l’autorappresentazione e la perfetta trasparenza del popolo, soggetto introvabile della sovranità democratica. La pedagogia, privata e collettiva, ne era il corollario. Spettri e famuli dell’Uno. Tentiamo una ridefinizione: politeismo come festa federale delle singolarità sociali in aggregazione e conflitto, non di comunità trasparenti a se stesse. Quali comunità? Non ci sono più sovranità nazionali, o meglio tengono con i denti, hanno un pessimo aspetto, sono improbabili candidati a dio unico della loro nazione e pure a nuovi Olimpi o Walhalla. Valmy è lontana e così Sadowa e Gettysburg. Gli imperi, che dalle nazioni avevano preso le mosse, non hanno più un’inconcussa egemonia: in più di due (modello mazdeo e manicheo) non funzionano come soggetto teologico monoteista. Non saranno certo le combriccole simil-imperiali che si contendono strategicamente i mercati e il controllo delle risorse planetarie a configurare la nuova cerchia delle potenze divine e dei valori esistenziali. Neppure i territori-spaventasseri con le loro atterrite appartenenze. Soffermiamoci piuttosto su forme di vita da federare mediante traduzione ed egemonia: precaria giovanile, generazione tardo-precarizzata, lavoro fisso e trasferimenti, migranti, autoimprenditori... Molte cerchie di genere e queer... L’andamento irregolare del ciclo delle lotte e dei discorsi controegemonici riflette l’eterogeneità dei soggetti e dello loro cadenze temporali, nel bene e nel male. Cosa intendiamo precisamente per forma di vita? Una condizione definita da una struttura economica e sociale, per esempio dagli effetti debitori e occupazionali della finanziarizzazione, che produce precarietà e inoccupazione, contrae salari e pensioni, accolla le nuove generazioni sulle spalle dei genitori, ancora attivi ma strangolati dai mutui, e sui trasferimenti e beni mobili e immobili accumulati dai nonni e lestamente prosciugati da inflazione e tasse. Ma anche parecchio di più. Ciascuna forma di vita ha un suo corredo di passioni gioiose e tristi, una diversa esperienza del tempo nel contrarsi del presente e correlativo peso della memoria e delle attese future, assume droghe disparate: varianti chimiche, surrogati alcolici o

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immaginari, ossessive frequentazioni del social network, credenze religiose, apocalissi e paradisi individuali. Lo xu-nón, il pensare-insieme eracliteo dello stato di veglia (DK B 89), è infiltrato da molti sogni e deliri privati, ma per converso resta decisiva l’intuizione che Guy Debord ha del comunismo alla vigilia del 1968: compresenza simultanea di molti tempi indipendenti federati.12 Cambia l’atteggiamento verso il lavoro e il reddito, disastrato dalla crisi, dato che l’instabilità negativa e in altri casi la facilità acquisitiva (speculativa o criminale non cambia molto) discreditano le virtù ancestrali della parsimonia e del risparmio, con effetti derivati di stabilizzazione magari immaginaria del carattere. Incomparabile il rapporto con l’informazione e il sapere, fra nativi e internauti digitali e acquisiti, lettori di giornali e libri, spettatori della Tv generalista, maghi dello smartphone, utenti passivi del cellulare e analfabeti informatici. Contano gli scalini d’età, con un tendenziale spostamento dell’irresponsabilità fisiologica adolescenziale verso fasce più adulte, nell’impossibilità di fare affidamento sul sistema di gratificazioni e scoraggiamenti invalso in epoca fordista: si pensi alla disintegrazione del Welfare e all’evanescenza di un sistema pensionistico che garantisca il futuro. Non ci si educa al mantenimento delle promesse in assenza di premi calcolabili. Calo del reddito e corrosione del carattere cancellano alcune distinzioni di status e di testa fra giovani precari, cassintegrati, operai di fabbrica sotto ricatto di dismissione, ceto medio declassato degli impieghi e delle professioni, pensionati sotto il limite di sussistenza, titolari di partita Iva, artigiani, aspiranti imprenditori di se stessi, indebitati con banche o cravattari. La condizione marginale e la cittadinanza sub condicione del migrante diventano il paradigma corrente di tutto il lavoro dipendente e dell’inoccupazione. Il passo occluso alla cittadinanza sociale dei lavoratori italiani equivale a un permesso condizionato di soggiorno per stranieri, come tendenzialmente si livellano verso il basso redditi, prestazioni sanitarie e scolastiche, possibilità di accesso al credito e al mutuo. Per fruire di questo

12

Le projet révolutionnaire d’une société sans classes, d’une vie historique généralisée, est le projet d’un dépérissement de la mesure sociale du temps, au profit d’un modèle ludique de temps irréversible des individus et des groupes, modèle dans lequel sont simultanément présents des temps indépendants fédérés (La société du spectacle, § 163, tr. it. Commentari sulla società dello spettacolo, Sugarco, Milano 1990, p. 194). Lo stile ludico si presenta, nella crisi, con il volto poco rassicurante dei NEETs, i giovani Not in Education, Employment, or Training, gli sfigati.

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degrado a un italiano basta nascere, a un immigrato è richiesto un rischioso tragitto per terra o per mare. Lo schiacciamento della condizione precaria sulla giovinezza mette in luce una specifica ambivalenza: la neotenia, il prolungamento indefinito di certe attitudini adolescenziali è sia occasione di feroce sfruttamento che testimonianza della flessibilità dell’animale umano, che continua ad apprendere ben oltre lo svezzamento. Il tocco giovanilistico della figura precaria e dell’alone raffigurativo (look, sostanze, gergo), pur facendosi grottesco con il passare degli anni, implica e riproduce l’indole potenziale del lavoro vivo post-fordista, il risvolto positivo della dipendenza di grandi masse operaie dal vampiresco apparato del capitale fisso, trasferibile imperturbato dal fordismo-taylorismo al socialismo reale. Nel terzo millennio, come prima accadeva al lavoratore produttivo, essere giovani è una disgrazia. Una sfiga, ein Pech scriveva Marx. La precarietà accomuna cerchie distinte e le mantiene nella separatezza, nel terrore di confondersi e precipitare verso il peggio. Le risorse scarse e di continuo rimesse in discussione portano a difendere il posto fisso per qualsiasi carico di sfruttamento e livello retributivo, la cassa integrazione costringe i ‘beneficiari’ ad aggrapparsi a quel misero privilegio o a scannarsi per essere ammessi alle newco, rinunciando alla tessera sindacale, o a ridurre le pretese per timore di delocalizzazione. Un universo di ricatti e ansie, di per sé tutt’altro che favorevole alla resistenza e al contrattacco, in mancanza di un sostegno sindacale e politico venuto meno per ‘senso di responsabilità’ davanti alla crisi, che invece si alimenta dei bassi salari e consumi nonché dello sgretolamento dei diritti.13 La traducibilità reciproca delle forme di vita, condizione per un riscatto dal debito e dalla crisi, rimane virtuale senza un’egemonia. Nell’Otto-Novecento essa fu garantita con duplice mossa: il ruolo di una classe operaia delle grandi aziende, minoritaria assai rispetto all’insieme dei lavoratori (casi limite le officine Putilov di Pietroburgo o Fiat di Torino), ma concentrata e disciplinata dal processo di produzione capitalistico di cui costituiva il nucleo essenziale, da un lato, dall’avanguardia organizzativa formata da intellettuali di origine borghese e quadri professionali di fabbrica, dall’altro. Condizione in gran parte non riproducibile, almeno in Occidente, per la frammentazione degli insediamenti industriali e l’intima precariz13

Secondo concordi dati statistici, in tutto il mondo occidentale la crisi attuale è stata preceduta da un biennio (in Italia almeno da un decennio) di contrazione dei redditi da lavoro dipendente e da una crescente sperequazione fra salari e profitti finanziari.

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zazione che investe ogni tecnologia lavorativa, ovunque collocata. Non dimentichiamo, inoltre, che i provvisori cambiamenti novecenteschi nel modo di produzione furono conseguiti grazie alla sovradeterminazione di eventi bellici sullo schema rivoluzionario, che vi fu adattato après coup (ruolo dei contadini, emancipazione coloniale, militarizzazione degli apparati di partito, ecc.), nella stessa misura in cui la contesa capitalistica per l’egemonia imperiale si era spostata dal controllo dei mercati e delle colonie alla guerra guerreggiata. D’altronde, se nel 1774, 1792 e 1848 la rivoluzione aveva innestato la guerra, dal 1870-1871 in poi avvenne l’inverso. Non sarà una legge bronzea, però... Neppure semplicissimo è sostituire alla coppia grande fabbrica/partito una qualche egemonia del precariato organizzato, per il solo fatto di concentrare il tratto comune del lavoro sfruttato. Oltre tutto, nel precariato si è largamente sovrastimata la consistenza numerica della componente cognitiva, lavoro immateriale o intellettualità diffusa o cognitariato, dipendente, pseudo-autonomo e autonomo che sia. Se è vero che un giovane su due è precario, solo il 15% ha una laurea. Le prestazioni lavorative sono in parte smaterializzate ed eseguite sulla base di un’istruzione superiore, ma spesso prive di una reale autonomia operativa e dipendenti da sistemi complessi fuori controllo. La società della conoscenza, perfino nella versione più aziendale della knowledge-based economy, si è rivelata una promessa inadempiuta che la crisi ha drasticamente ridimensionato in Occidente come in Cina, dove si registra un’eccedenza dei lavoratori intellettuali forniti di laurea rispetto agli impieghi adeguati disponibili, per non parlare della tragedia dei diplômés chômeurs nel Maghreb. Ciò nondimeno, la frazione cognitiva del lavoro precario ha contagiato altri strati subalterni e potrebbe svolgere la funzione egemonica che fu della grande fabbrica, per ragioni rovesciate e distorcendo il ruolo degli intellettuali e della disciplina così rilevante nei due ultimi secoli. La dis-identificazione che fa seguito al crollo del sistema sovranità-popolo e del fordismo produttivo precipita esattamente nel punto in cui l’oggettività dell’egemonia «svela la traccia della sua contingenza, riaprendo il tempoevento della politica», dove quindi l’impossibilità di un’identità maggioritaria, stabile e omologante le altre differenze è l’unica possibile occasione di politica, traduzione ed egemonia. Il divenire-minore è condizione di un assemblaggio per traduzione reciproca di altre condizioni minori, soprattutto quando la forma di vita che vi si candida contiene intensivamente in sé alcuni tratti epocali e concomitanti di eccedenza e precarietà. Lo stesso paradigma energetico del contratto è sfrangiato dallo sfruttamento biopolitico della soggettività, con effetti combinati di assoggettamento, riluttanza

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e ribellione. Ricaduta politica ne è una diversa postura e strategia dell’opposizione: «assenza di potere è resistenza, […] ostacolo alla totalizzazione del potere, alla sua chiusura» (Frosini). La politica, liberata dall’inerenza organica a una struttura di classe a dominante, è restituita a una dinamica degli umori che veniva prima della ragion di Stato e della successione stadiale delle classi e dei modi di produzione. L’organizzazione delle lotte storiche non si avvale più dell’autodisciplina dei produttori garantita da una filosofia teleologica della storia, ma di un diverso rapporto fra general intellect, crisi e tumulti. La candidatura a funzioni traduttive e promozionali meglio che d’avanguardia della frazione più intellettuale del lavoro vivo precario (ma potrebbe essere, come nella metafora amazzonica, anche di una certa composizione femminile) non si condensa in un gruppo sociale o in un genere: il cognitariato è un soggetto identitario del miraggio capitalistico della società della conoscenza e il divenire-donna non coincide con la metà del cielo. Politeismo vuol dire tenere distinte e comunicanti le forme di vita, senza accettarle per definitive, anzi facendole giocare per un superamento delle condizioni imposte dalla crisi. La politica è egemonica quando associa interesse e passione in una narrazione, è strategia non espressione sociale. Si può ancora parlare in tal caso di rappresentazione?14 Come per la teologia politica, in senso forte tale concetto fa massa in rapporto alla credenza in un Dio unico assente e perciò rappresentato, a un trono vacante da occupare o venerare in indeterminatezza, a un doppio corpo del re o del popolo che esprima la drastica eterogeneità fra un creatorepersona e una creazione venuta dal nulla. Ultimo esito del plesso monoteista è la mistica lacaniana del significante vuoto e del ripristino del 14

L. Bazzicalupo, La rappresentazione politica dopo la sua decostruzione, in Aa.Vv., Populismo e democrazia radicale, cit., pp. 99 sgg., sostiene che alla destrutturazione succede di necessità «una post-rappresentazione, cioè una rappresentazione consapevole dell’avvenuta decostruzione e dell’impossibilità di una netta divisione di empirico e trascendentale e che muove proprio da questa consapevolezza, per riguadagnare lo spazio per la politica che la rappresentazione stessa consentiva». Il ritorno alla rappresentazione coinciderebbe con la messa in forma delle soggettivazioni post-sovrane e la coagulazione di soggetti politici «per quanto anti-essenzialisti, strategici ed eventualmente barrati», adatti alla pratica governamentale. Il quasi-trascendentale rappresentativo indicherebbe la necessità dello scarto, dello sdoppiamento dei movimenti e dei soggetti, la cui opaca visibilità comporta sempre un’ombra. Le allusioni lacaniane e i riferimenti all’être singulier-pluriel di Nancy infiltrano di monoteismo quest’originale riflessione.

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noumenico come oggetto impossibile. Gli agálmata di Porfirio, nel crepuscolo neoplatonico del paganesimo, raffiguravano realtà invisibili in forme visibili, rivelando le potenze divine, rendevano per simulacri i gradi dell’emanazione. La religione olimpica faceva lo stesso, in contesti civici, con bassi quozienti di adorazione. Uno stile rappresentativo debole, fra feticismo e culto delle immagini, che le religioni del Libro hanno sempre cercato di estirpare o relegare ai margini. L’Uno-basileus e il Sovrano unto o amministrativo testimoniano l’efficace uso politico della trascendenza rappresentativa. I miti rivoluzionari e il politeismo dei valori, nella misura in cui raddoppiano pratiche di antagonismo con narrazioni consolatorie o salvifiche (cominciando dalla costruzione machiavelliana di dighe contro l’avversa fortuna), frequentano un terreno assai prossimo e spesso il ricorso alla dimensione simbolica e a un immaginario comune di parte supplementa il momento organizzativo del pluralismo delle differenze. Resta tuttavia un bel solco fra l’ideologia sovrano-rappresentativa e la fatuità delle code narrative e leaderistiche che seguono spettralmente la sperimentazione di nuove soggettivazioni politiche. Non abbiamo, nel secondo caso, una gravitazione di pieni intorno a un vuoto centrale, ma un costituirsi di intervalli nel sistema di relazioni fra dèi-potenze. Negli intermundia si generano simulacri e si accumula spazzatura. Non è poi grave. Si tratta di uno smaltimento interminabile: la schiuma dei progetti egemonici e di ogni esercizio contro-egemonico che non si contenti di sguazzare nella differenza. Concessioni alla formazione di un seguito. Il simbolismo della fedeltà di parte ai propri dèi e dello scontro tra affiliazioni va vissuto laicamente, nello spirito di un’illusione necessaria. Il politeismo sminuzza la fedeltà all’evento, escludendo l’unicità dell’evento cui restare fedeli. Come per Zerbinetta, ogni nuovo amante è un dio unico al momento, ma ci sono tanti dèi, indugiano di frequente nel focolare di casa e invocano la loro modica dose di adorante dedizione. Vanno appagati ma non inorgogliti... Postura più igienica ed equilibrata, che scredita il fanatismo per il piatto del giorno, cui ahimè decadono i grandi credi epocali. Un’ontologia della relazione e dell’incontro ridimensiona l’etica della fedeltà a pratica della continuità e dell’organizzazione. Cosa non da poco, ma sottomessa a una valutazione circostanziale. I grandi eventi evocano irresistibilmente l’imbroglio nella post-produzione. Le sequenze esemplari sono artifici narrativi che mirano a stabilizzare incontri riusciti e l’infedeltà che li traversa mascherata da fedeltà è il prezzo per adattare la realtà al mito. Leggende rivoluzionarie all’insegna di un monoteismo storiografico, usi ideologici che precipitano nella distorsione totalitaria o nell’autoillusione. Mitologie fredde dell’Uno a limitato impatto simbolico, cui a volte

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si oppone una parodia tiepida tutta intellettuale che si richiama a un comunismo metastorico, nuovo nome divino per partecipare l’impartecipabile. Ci mancherebbe pure che, oltre che con Dio, le banche ed Equitalia, stessimo in debito con l’Evento. Le mitologie di parte e il quantum di fedeltà trasferibile nella continuità organizzativa funzionano contro il monoteismo da grande coalizione e pensiero unico. L’universale interrotto dell'ideologia diventa un requisito effettivo di resistenza al sovranismo effettivo dei mercati, a quello illusorio nazionale e all’utilizzo consolatorio di nominazioni rivoluzionarie. Un universale barrato chiede una costanza relativa (ancorché superiore alla corrente volatilità di movimenti e parole d’ordine) e sconta senza cinismo la congiuntura. Fedeltà sperimentale, che non pone meno problemi che in altri campi. L’uomo non è imperium in imperio – si sa. All’Uno incolore, achrómaton, del Fedro lo stesso Platone opponeva, con critico disdegno, il poikilon himation, il variopinto mantello dei regimi democratici, cari ai poveri e alle donne, (Repubblica VIII, 557a-b), che amano organizzarsi la vita a piacere, darsi all’infedele passione dello shopping. Politeismo della potenza immaginativa (Einbildungskraft), monoteismo della ragione, filosofi e filosofia resi sinnlich, sensibili, tangibili, comprensibili. Un passo in più: unione dell’intelligenza del processo storico complessivo e passioni proprie di ogni forma di vita, in modo da comprendere e tradurre differenze, apertura indefinita e rinuncia esplicita a chiudere la pluralità, sfruttando le smagliature di un pensiero unico neo-liberale che non si appoggia più a una forma-Impero, anzi è nella fase che precede l’esplosione e cerca di occultarla naturalizzando procedure finanziarie impazzite. La sensibilità (comprensibilità, funzione egemonica) degli intellettuali aderisce alla forma di vita, non è oggettivabile senza residui eppure ne eccede l’immediatezza, altrimenti non potrebbe tentare una traduzione in cui la particolarità si perde senza che l’universale si chiuda. La doppia lingua, in cui ogni traduzione s’ingaggia, fa spazio al fuori-di-conto, alla tumultuosa innovazione, a narrazioni rappresentative e maschere temporanee, il cui gioco più o meno virtuoso non si sottrae alla Fortuna. E infatti e tuttavia... Abbiamo ispirato il nostro lucreziano politeismo a Venere, hominum divomque voluptas, che percuote i cuori con la sua forza vitale, v’infonde dolce amore, produce tutte le cose liete e amabili propagando la generazione delle stirpi e assopendo le feroci opere della guerra. Leggiadre immagini della naturale fertilità sono la Magna Mater, Cerere e Bacco, depurate dai culti selvaggi. Rinneghiamo il regno totali-

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tario del commerciante Mercurio, che arricchisce pochi banchieri e affama masse prostrate. Resta, ahinoi, Marte, la cui ferocia si accresce con i progressi della tecnologia (ai tempi del Poeta, già con la navigazione), e la cui presenza nell’agire umano non è agevole abrogare. Abbiamo citato il suo ruolo oggettivo nel portare a realizzazione gli schemi rivoluzionari virtuali dello scorso secolo, a partire dal 1871. Come escludere (la foresta politeista non è il giardino dell’Eden) che abbia a che fare con il nostro tortuoso presente? Visto che nel segno di Mercurio non si riesce a domare la crisi concordando un nuovo equilibrio geopolitico, l’appello di Marte torna a risuonare, come nell’agosto del 1914 e del 1939, oppure nelle forme più decentrate e anticicliche in tono minore della seconda metà del secolo trascorso e di più recenti disavventure mesopotamiche e afghane. La sintassi spaziale impatta ruvidamente con la logica linguistica e temporale, come anticipavano crisi e migrazioni. Già lo mostrava il paradigma migrante nella scomposizione precaria del lavoro nazionale, con il che si rende conto della statica, dell’effetto economico e sociale di una cospicua minoranza ricattabile a cittadinanza ridotta, esercito di riserva o proletariato sottocosto. Ancor più squilibrante ne è la dinamica, l’insieme dei flussi bi-direzionali fra aree di sottosviluppo e cangianti luoghi di destinazione, secondo l’andamento della crisi. Facile immaginare come il mescolamento e filtraggio di popolazioni a diritti ineguali agisca in tempi di pace e di guerra e comunque scinda una prospettiva metropolitana dal contesto nazionale, che si mantiene solo con un esasperato razzismo, quale connota oggi il populismo dei paesi sia ricchi che, ancor più, in spaurita decadenza. Finlandia e Grecia insegnano, ai due estremi. Tenendo conto che i flussi che traversano il Mediterraneo e lo stillicidio di sbarchi a Lampedusa sono irrisori in confronto ai movimenti (sempre bi-direzionali) che coinvolgono la linea fra Usa e America centrale o l’area mediorientale rispetto ad Africa e Asia o lo spazio fra Asia meridionale e Australia. La localizzazione di nord e sud è complicata e le correnti di merci e corpi scorrono lungo coordinate alterate. La fusione fra intelligenza e massa, la riaggregazione delle classi subalterne ha per spazio un mondo formato da società in dissoluzione e mescolanza e da paesi emergenti che riproducono, a modo loro, fasi in apparenza precedenti di industrializzazione accelerata di formazione del proletariato, paesi non a caso traversati e messi in tensione da flussi migratori esterni e interni che rilanciano la conflittualità. Uno squilibrio multipolare che attira magneticamente la guerra o la simula su piani sfalsati. Un po’ di keynesismo militare non guasta mai per smaltire merci e poveri, mentre si affaccia la tentazione di utilizzare la residua superiorità tec-

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nologica Usa per ridimensionare pericolosi concorrenti sul nascere e tenere sotto controllo l’immigrazione. Anche una severa ammonizione a insubordinati e insorgenti cadrebbe a puntino. Se tale sciagurato scenario prevalesse, ogni iniziativa egemonica dal lato delle moltitudini subalterne, ne verrebbe qualificata con tratti operativi nuovi ed esiti incerti. Da pagani novelli, interrogheremo gli oracoli, senza trascurare di erigere argini.

Unica figura mitologica e imperiale dello Zodiaco cinese, presiede al 2012, anno del Drago Nero e di pubblicazione del libro; vale come segno d’acqua. Tanto per non limitarci all’Olimpo greco e ai suoi predecessori vedici.

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ETEROTOPIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Salvo Vaccaro 1.

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Patrizia Nerozzi Bellman (a cura di), Internet e le muse. La rivoluzione digitale nella cultura umanistica Salvo Vaccaro (a cura di), Il secolo deleuziano Stefano Berni, Soggetti al potere. Per una genealogia del pensiero di Michel Foucault Paola Carbone (a cura di), Congenialità e traduzione Ottavio Marzocca, Transizioni senza meta. Oltremarxismo e antieconomia Paola Carbone (a cura di), Le comunità virtuali Ubaldo Fadini, Principio metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale Patrizia Mello (a cura di), Spazi della patologia, patologia degli spazi Susan Petrilli, Augusto Ponzio, Fuori campo. I segni del corpo tra rappresentazione ed eccedenza Fulvio Carmagnola, La specie poetica. Teorie della mente e intelligenza sociale Deleuze Gilles, La passione dell’immaginazione. L’idea della genesi nell’estetica di Kant Girolamo De Michele, Tiri Mancini. Walter Benjamin e la critica italiana Franco Riccio, Salvo Vaccaro (a cura di), Nietzsche in lingua minore Paola Carbone, Patchwork Theory. Dalla letteratura postmoderna all’ipertesto Paolo Ferri, La rivoluzione digitale. Comunità, individuo e testo nell’era di Internet Michel Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie Georges Bataille, La condizione del peccato Paola Carbone (a cura di), eLiterature in ePublishing Federico Dal Bo, Società e discorso. L’etica della comunicazione in Karl Otto Apel e Jacques Derrida Gilles Deleuze, Istinti e istituzioni Thierry Paquot, L’utopia ovvero un ideale equivoco Marco Antonio Pirrone, Approdi e scogli. Le migrazioni internazionali nel Mediterraneo Augusto Ponzio, Individuo umano, linguaggio e globalizzazione nella filosofia di Adam Schaff Anna Simone, Divenire sans papiers. Sociologia dei dissensi metropolitani Salvo Vaccaro (a cura di), La censura infinita. Informazione in guerra, guerra all’informazione Antonin Artaud, CsO. Il corpo senz’Organi Tomás Moulian, Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo Paolo Thea, Il vero cioè il falso. Invenzione, riconoscimento e rivelazione nell’arte

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29. Pierandrea Amato (a cura di), La biopolitica. Il potere e la costituzione della soggettività 30. Manolo Bertuccioli, Carlos Castaneda e i navigatori dell’infinito 31. Gianluca Bonaiuti, Alessandro Simoncini (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale 32. David Buchbinder, Sii uomo! Studio sulle identità maschili 33. Andrea Cozzo, Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa 34. Gilles Deleuze, Fuori dai cardini del tempo, Lezioni su Kant 35. Francesco Galluzzi, Roba di cui sono fatti i sogni. Arte e scrittura nella modernità 36. Giovanni Leghissa, Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione 37. Maria Maistrini, Il figurale in J.-F. Lyotard 38. Moreno Montanari, Il Tao di Nietzsche 39. Salvo Vaccaro, Globalizzazione e diritti umani. Filosofia e politica della modernità 40. Emiliano Bazzanella, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari 41. Lorenzo Fabbri, L’addomesticamento di Derrida. Pragmatismo/ Decostruzione 42. Serena Marcenò, Le tecnologie politiche dell’acqua. Governance e conflitti in Palestina 43. Gabriele Piana, Conoscenza e riconoscimento del corpo 44. Raul Prebisch, La crisi dello sviluppo argentino. Dalla frustrazione alla crescita vigorosa 45. Paolo Scopelliti, Psicanalisi surrealista. L’influenza del surrealismo su Hesnard, Lacan, Deleuze e Guattari 46. Salvo Vaccaro, Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’esperienza del GIP (Group d’Information sur les prisons) 47. Luca Vercelloni, Viaggio intorno al gusto. L’odissea della sensibilità occidentale dalla società di corte all’edonismo di massa 48. Antonio Caronia, Enrico Livraghi, Simona Pezzano, L’arte nell’era della producibilità digitale 49. Alessandra Dino (a cura di), La violenza tollerata. Mafia, poteri, disobbedienza 50. Fabio Rodda, Cioran, l’antiprofeta. Fisionomia di un fallimento 51. Raffaele Scolari, Paesaggi senza spettatori. Territori e luoghi del presente 52. Luigi Pastore, Nectarios Limnatis G. (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.1. Profili epistemici 53. Nicoletta Poidimani, Oltre le monocolture del genere 54. Luigi Pastore, Nectarios Limnatis G. (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.2. Profili epistemici 55. Paolo Bellini, Cyberfilosofia del potere. Immaginari, ideologie e conflitti della civiltà 56. Emiliano Bazzanella, Etica del tardocapitalismo 57. Paolo Cuttita, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondofrontiera 58. Eleonora De Conciliis (a cura di), Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno

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59. Giovanni Di Benedetto, Il naufragio e la notte. La questione migrante tra accoglienza, indiffernza ed ostilità 60. Piero Pagliani, Naxalbari-India. L’insurrezione nella futura “terza potenza mondiale” 61. Giovanbattista Vaccaro, Per la critica della società della merce 62. Adriano Vinale (a cura di), Biopolitica e democrazia 63. Lelio Demichelis, Giovanni Leghissa (a cura di), Biopolitiche del lavoro 64. Luca Corradi, Fabio Perocco (a cura di), Sociologia e globalizzazione 65. Paolo Bellini (a cura di), La rete e il labirinto. Tecnologia, identità e simbolica politica 66. Pierre Dalla Vigna, A partire da Merleau-Ponty. L’evoluzione delle concezioni estetiche merleau-pontyane nella filosofia francese e negli stili dell’età contemporanea 67. Ilaria Riccioni (a cura di), Comunicazione, cultura, territorio. Contributi della sociologia contemporanea, 68. Monica Pasquino, Sandra Plastina (a cura di), Fare e disfare. Otto saggi a partire da Judith Butler 69. Roberto Bertoldo, Anarchismo senza anarchia. Idee per una democrazia anarchica 70. Serena Del Bono, Foucault, pensare l’infinito. Dall’età della rappresentazione all’età del simulacro 71. Alessandro Dino e Licia A. Callari (a cura di), Coscienza e potere. Narrazioni attraverso il mito 72. Manolo Farci, Simona Pezzano (a cura di), Blue lit stage. Realtà e rappresentazione mediatica della tortura 73. Gianfranco La Grassa, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi? 74. Pierre Dalla Vigna, La Pattumiera della storia. Beni culturali e società dello spettacolo 75. Antonino Palumbo, Salvo Vaccaro (a cura di), Governance e democrazia. Tecniche del potere e legittimità dei processi di globalizzazione 76. Giovanbattista Vaccaro (a cura di), Al di là dell’economico. Per una critica filosofica dell’economia 77. Valerio Meattini, Luigi Pastore (a cura di), Identità, individuo, soggetto tra moderno e postmoderno 78. Alessandra Dino (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso 79. Raffaele Scolari, Filosofi e del mastodontico. Figure contemporanee del sublime della grande dimensione 80. Filippo Trasatti, Leggere Deleuze attraverso Millepiani 81. Enrico Manicardi, Liberi dalla civiltà. Spunti per una critica radicale ai fondamenti della civilizzazione: dominio, cultura, paura, economia, tecnologia 82. Gianbattista Vaccaro, Antropologia e utopia. Saggio su Herbert Marcuse 83. Filippo Trasatti, Massimo Filippi (a cura di), Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia 84. Giorgio Franck, Il feticcio e la rovina. Società dello spettacolo e destino dell’arte

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85. Ottavio Marzocca (a cura di), Governare líambiente? La crisi ecologica tra poteri, saperi e conflitti 86. Henryk Grossmann, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista 87. Francesco Pullia, Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza 88. Emiliano Bazzanella, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo 89. Michel Foucault, La società disciplinare 90. Damiano Palano, Volti della paura. Figure del disordine all’alba dell’era biopolitica 91. Anna Simone, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio 92. Mario De Gaspari, Malacittà. La finanza immobiliare contro la società civile 93. Carlo Ruta, Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei conflitti e l’America dall’Vietnam all’Afghanistan 94. Giuseppe Frazzetto, Molte vite in multiversi. Nuovi media e arte quotidiana 95. Emiliano Bazzanella, Religio II. La religione del soggetto 96. Gianvito Brindisi, Eleonora de Conciliis (a cura di), Lavoro, merce, desiderio 97. Alessandro Casiccia, I paradossi della società competitiva 98. Ermanno Castanò, Ecologia e potere. Un saggio su Murray Bookchin 99. Stefano d’Errico, Il socialismo libertario ed umanista oggi fra politica ed antipolitica 100. Antonio Tursi, Politica 2.0. Blog, Facebook, YouTube, WikiLeaks: ripensare la sfera pubblica 101. Chiara Lombardi, Mondi nuovi a teatro. L’immagine del mondo sulle scene europee di Cinquecento e Seicento: spazi, economia, società 102. Antonello Petrillo (a cura di), Società civile in Iraq. Retoriche sullo “scontro di civiltà” nella terra tra i due fiumi 103. Paolo Bellini, Mitopie tecnopolitiche. Stato, nazione, impero e globalizzazione 104. Antonino Palumbo, Viviana Segreto (a cura di), Globalizzazione e governance delle società multiculturali 105. Roberto Bertoldo, Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoderno debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria 106. Ruggero D’Alessandro, La comunità possibile. La democrazia consiliare in Rosa Luxemburg e Hannah Arendt, 107. Alessandro Tessari (a cura di), Sindrome giapponese. La catastrofe nucleare da Chernobyl a Fukushima 108. Matteo Bonazzi, Fulvio Carmagnola, Il fantasma della libertà. Inconscio e politica al tempo di Berlusconi 109. Mario De Gaspari, La Bolla immobiliare. Le conseguenze economiche delle politiche urbane speculative 110. Sara Elena Anna Bruni, Paolo Colavero, Antonio Nettuno (a cura di), L’animale di gruppo. Etologia e psiconalisi di gruppo. Riflessioni gruppali da un seminario urbinate 111. Viviana Segreto, «Il padre di tutte le cose» Appunti per una pedagogia del conflitto 112. Alessandra Dino (a cura di), Poteri criminali e crisi della democrazia

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113. Serena Marcenò, Biopolitica e sovranità. Concetti e pratiche di governo alle soglie della modernità 114. Cosimo Degli Atti, Soggetto e verità. Michel Foucault e l’Etica della cura di sé 115. Pascal Boniface, Verso la quarta guerra mondiale 116. Guido Dalla Casa, L’ecologia profonda. Lineamenti per una nuova visione del mondo 117. Il clown. Il meglio di Wikileaks sull’anomalia italiana, introduzione di Marco Marsili 118. Carlo Grassi, Sociologia della cultura tra critica e clinica. Battaile, Barthes, Lyotard 119. Friedrich Georg Jünger , Ernst Jünger, Guerra e guerrieri. Discorso 120. Emma Palese, Benvenuti a Gattaca. Corpo liquido, pedicopolitica, genetocrazia 121. Anna Simone (a cura di), Sessismo democratico. L’uso strumentale delle donne nel neo liberismo 122. Matthew Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida 123. Luigi Vergallo, Economia reale ed economia sommersa nel riminese in prospettiva storica 124. Salvo Vaccaro (a cura di), L’onda araba. I documento delle rivolte 125. Valeria Nuzzo, L’immagine per il paesaggio e l’architettura. Percorsi didattici per la scuola 126. Félix Guattari, Una tomba per Edipo, Introduzione di Gilles Deleuze 127. Raffaele Federici, Sociologie del segreto 128. Luca Taddio, Global revolution. Da Occupy Wall Street a una nuova democrazia 129. Enrique Dussel, Indignados 130. James Tobin, Tobin Tax 131. Jean-François Lyotard, Istruzioni pagane 132. Delfo Cecchi, Cibo, corpo, narrazione. Sondaggi estetici 133. Mario Giorgetti Fumel, Federico Chicchi (a cura di), Il tempo della precarietà Sofferenza soggettiva e disagio della postmodernità 134. Spartaco Pupo, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale 135. Giuseppina Tumminelli, Strategie di ri-produzione. Aziende agricole e strutture familiari nella Sicilia centro-occidentale 136. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 137. Ferruccio Capelli, Indignarsi è giusto 138. Enrico Manicardi, L’ultima era. Comparsa, decorso, effetti di quella patologia sociale ed ecologica chiamata civiltà 139. Manuele Bellini, Corpo e rivoluzione, Sulla filosofia di Luciano Parinetto 140. Giovan Battista Vaccaro, Le idee degli anni Sessanta 141. Milena Meo, Il corpo politico.Biopotere, generazione e produzione di soggettività femminili 142. Massimiliano Vaghi, L’idea dell’India nell’Europa moderna (secoli xvii - xx) 143. Gianluca Cuozzo, Mr. Steve Jobs. Sognatore di computer

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144. Paolo Cuttitta, Lo spettacolo del confine. Lampedusa tra produzione e messa in scena della frontiera 145. Emiliano Bazzanella, Religio III. Logica e follia 146. Emma Palese, La filosofia politica di Zygmut Bauman. Individuo, società, potere, etica, religione nella liquidità del nostro tempo 147. Emma Palese, Mostri, draghi e vampiri. Dal meraviglioso totalizzante alla naturalizzazione delle differenze 148. Matteo Bonazzi, Lacan e le politiche dell’inconscio. Clinica dell’immaginario contemporaneo 149. Eleonora de Conciliis, Il potere della comparazione. Un gioco sociologico 150. L’apartheid in Palestina. Il rapporto Human Rights Watch sui territori arabi occupati da Israele 151. Fulvio Carmagnola, Clinamen. Lo spazio estetico nell’immaginario contemporaneo 152. Francesco Pullia, Al punto di arrivo comune per una critica della filosofia del mattatoio 153. Maurizio Soldini, Hume e la bioetica 154. Gianluca Cuozzo, Gioco d’azzardo. La società dello spreco e i suoi miti 155. Andrea Gilardoni, Distruzioni. Potere & Dominio I 156. Andrea Gilardoni, (Dis)obbedienza. Meccanismi, strategie, argomenti. Potere & Dominio II 157. Nicoletta Vallorani, Millennium London, Of Other Spaces and the Metropolis 158. Giuseppe Armocida, Gaetana S. Rigo (a cura di), Dove mi ammalavo. La geografia medica nel pensiero scientifico del XIX secolo 159. Salvo Torre, Dominio, natura, democrazia. Comunità umane e comunità ecologiche 160. Tindaro Bellinvia, Xenofobia, sicurezze, resistenza. L’ordine pubblico in una città “rossa” (il caso Pisa) 161. Amalia Rossi, Lorenzo D'Angelo (a cura di), Antropologia, risorse naturali e conflitti ambientali

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