Suicidi

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Indice 7 La costruzione sociale dei suicidi di Enrico Caniglia e Cirus Rinaldi

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55 Il ragionamento sociologico pratico: alcune caratteristiche del lavoro del Centro per la prevenzione del suicidio di Los Angeles Harold Garfinkel 77 La ricerca di aiuto: nessuno a cui rivolgersi Harvey Sacks 105 L’analisi sociologica dei significati sociali sul suicidio Jack D. Douglas 149 Uno studio fenomenologico sui messaggi dei suicidi Jerry Jacobs 173 Reazioni sociali al suicidio: il ruolo delle definizioni del coroner J. Maxwell Atkinson 203 Produrre suicidi James L. Wilkins

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La costruzione sociale dei suicidi di Enrico Caniglia e Cirus Rinaldi1

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Introduzione I saggi raccolti nel presente volume rappresentano le voci e le prospettive di ricerca critiche che, più di altre, anno contestato profondamente gli studi positivisti sulle condotte “devianti” in termini epistemologici, teorici e metodologici, guardando in particolare a un tema classico e fondativo della ricerca sociologia, lo studio del suicidio. Gli approcci positivisti – altrimenti detti oggettivisti, assolutisti o anche normativi – soprattutto per quanto riguarda lo studio della devianza, ritrovano in Émile Durkheim il loro autore di riferimento, il quale, a partire dal famoso adagio secondo cui «la prima e fondamentale regola è quella di considerare i fatti sociali come delle cose» (Durkheim 1895 [1996], p. 33; enfasi mia), contribuisce a rendere paradigmatica l’idea secondo la quale i fatti sociali sono da considerarsi alla stregua delle cose naturali, indipendenti dalla volontà umana e, in quanto fenomeni esterni all’individuo, esercitanti su questi un rilevante potere coercitivo; per la metodologia durkheimiana, essi sono conoscibili “oggettivamente” per mezzo degli stessi metodi di ricerca utilizzati dalle scienze naturali. Il positivismo, dunque, indica precise questioni di ordine ontologico, epistemologico e metodologico che, in termini assai sintetici, possono riassumersi nell’obiettivo dell’accertamento di relazioni causali o di regolarità empiriche che esistono indipendentemente dal soggetto osservatore, di «leggi generali» dunque, che il soggetto conoscitore (considerato prin1.  Il presente saggio è frutto della riflessione comune dei due autori. Tuttavia sono da attribuire a Enrico Caniglia il paragrafo 1 e le conclusioni, mentre Cirus Rinaldi è autore dell’Introduzione e dei paragrafi 2 e 3.

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cipalmente come mero «soggetto passivo») riesce a scoprire utilizzando il distacco necessario e attingendo ai principi della logica nello studio di una realtà sociale «data» e «oggettiva», dotata di significati intrinseci e di caratteristiche essenziali immediate e indipendenti dalla coscienza dell’osservatore. Secondo questo approccio, la devianza corrisponde a qualità intrinseche, a atti, condotte o tratti che necessitano di essere limitati, controllati o eliminati: essa è un fenomeno «oggettivo» compiuto da attori sociali che differiscono – per il possesso di inclinazioni o perversioni «discrete» e «misurabili» – da soggetti convenzionali che generalmente aderiscono con un certo grado di consenso alle norme sociali e giuridiche che sono riconosciute come unico modello di riferimento. L’individuazione dei fenomeni devianti consiste in un processo di per sé semplicistico: infatti, dal momento che queste prospettive sostengono l’idea di modelli sociali e organizzativi basati su un alto livello di condivisione e di consenso intorno alle norme sociali, il soggetto trasgressivo/ deviante/criminale è colui o colei che viola le aspettative e il consenso istituzionalizzati. La rappresentazione complessiva corrisponde all’idea di società e gruppi altamente consensuali che aderiscono omogeneamente e in modo meccanico agli ordinamenti normativi, ragion per cui il comportamento deviante e quello criminale attirano di per sé sanzioni negative finalizzate a riassorbire lo squilibrio provocato all’interno del legame offerto dalle norme comuni. Questo paradigma, esprimendo di fatto modelli di intervento correzionalisti e di matrice eziologica, si fonda sull’ipostatizzazione del senso comune e delle norme giuridiche esistenti, considerando queste ultime – in particolare – come i principali indicatori in cui si sostanziano i valori morali di un gruppo o di una società. In termini prettamente metodologici, la logica positivista – non problematizzando il polo della produzione giuridica – si concentra sui violatori della norma, considerati come soggetti intrinsecamente «diversi» dal resto della società, portati a compiere le loro condotte a causa di forti condizionamenti esterni e facilmente individuabili – nonostante vengano osservati da «lontano» – attraverso statistiche e dati ufficiali che, attribuendo parvenza di oggettività alla loro ricerca (con i conseguenti effetti di 8 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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professionalizzazione del ruolo del sociologo, della possibilità di rendersi immuni alle critiche esterne e a diventare diretta espressione delle agenzie governative; Davis 1975, pp. 99-100), riproducono idee di senso comune categorizzate sotto forma di occorrenze e tassi “tipici”. I modelli consensualisti introducono una rappresentazione di stabilità, di integrazione e di prevedibilità, ma lo fanno con il rischio di condurre – come sostiene Jack D. Douglas, uno degli autori compresi nel presente volume – verso idee metafisiche che divengono paradigmatiche e non legate all’osservazione empirica del processo in cui naturalmente si manifestano i fenomeni, forme di conoscenza statica (e non dinamica) basate su formulazioni astratte e omniscienti e su categorie predeterminate. Le prospettive costruzioniste, invece, guardano ai contesti sociali come luoghi contraddistinti da un alto grado di pluralismo, in cui i gruppi spesso competono o sono in conflitto tra loro per pervenire a «definizioni della realtà» che di per sé presuppongono processi sociali dinamici e altamente interattivi. Gli approcci costruzionisti – dal momento che i modelli di comportamento non si basano su norme condivise in modo omogeneo e meccanico – sostengono che non sia utile alla ricerca considerare i comportamenti che si discostano da queste come «violazioni normative» tout court, ma piuttosto dal momento che le linee per le azioni emergono e sono create in situazioni interazionali, culturali e storiche specifiche, sarebbe persino difficoltoso se non impossibile specificare a priori il comportamento legittimo o meno da tenere in quelle stesse situazioni (e sicuramente al mutare delle condizioni e delle situazioni). Il fulcro principale dell’analisi si sposta, pertanto, verso l’individuazione dei diversi pubblici e arene sociali che definiscono attori, caratteristiche e condotte come devianti o criminali e la descrizione dei processi implicati all’interno della più complessiva arena di definizione che comprende la dimensione politica, economica, giuridica e culturale. Da un punto di vista prettamente metodologico, l’attenzione non potrà più essere rivolta alla registrazione «ufficiale» della criminalità, ma piuttosto essa si sposta verso l’analisi organizzativa e definizionale dell’imputazione di devianza.

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A differenza delle prospettive assolutiste, il costruzionismo sociale non indica una rappresentazione statica dei concetti di «bene» o «male»: non è possibile immaginare soggetti e gruppi «convenzionali» e «conformi» in termini omogenei e totalizzanti, soprattutto perché gli attori sociali interpretano le azioni reciprocamente e negoziano le norme attraverso processi comunicativi per mezzo dei quali condividono simboli e producono tipizzazioni, processo sulla base del quale si generano etichette e attribuzioni che rivestono valore costitutivo per le condotte piuttosto che offrirne delle mere reificazioni (Rubington – Weinberg 2008, pp. 1-3). Gli approcci costruzionisti non possono essere raggruppati all’interno di insiemi analitici omogenei, considerato che esistono posizioni che vanno da prospettive radicali che rifiutano l’idea di una realtà «oggettiva» (Woolgar – Pawluch 1985) ad altre di tipo «contestuale» che posizionano la costruzione sociale di devianza e crimine in contesti culturali e strutturali reali (Best 1989). Se intendessimo indicare caratteristiche comuni all’interno delle prospettive costruzioniste volendole applicare alla costruzione della realtà deviante, potremmo indicare le seguenti: 1) le «verità» sul mondo della devianza, dal momento che sono frutto di negoziazioni, non sono da considerarsi come fenomeni concreti né coincidono con tratti fisici-biologici-fisiologici ma piuttosto possono essere rappresentate come «rivendicazioni di verità» e attribuzioni di significati; 2) lo stesso ragionamento va esteso alle rivendicazioni fatte da attori dotati di potere simbolico e materiale, gruppi, organizzazioni e movimenti specifici; 3) le etichette utilizzate per definire la devianza non sottendono una realtà immutabile, statica ma dipendono dagli attori, dai gruppi, dalle organizzazioni e dai movimenti che le producono; 4) la realtà delle condotte devianti muta nel tempo, nello spazio e tra i diversi gruppi e culture; 5) a causa del processo implicato nella produzione della devianza, nessun soggetto – che si tratti di una figura esperta o meno – può vantare punti di vista privilegiati per definire cosa sia devianza o crimine; 6) la conoscenza è prodotta dai processi sociali che si basano sulla interazione e la condivisione di significati soggettivi attribuiti a una situazione che è sempre negoziata dai diversi partecipanti (aggressori, vittime, agenti 10 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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del controllo sociale, sociologi e criminologi, studenti, giornalisti, gente comune, etc.); 7) i significati “devianti” sono prodotti e negoziati costantemente per cui essi acquistano pregnanza a partire dai soggetti che li attribuiscono ai soggetti, alle loro condotte e a un fenomeno specifico così come dipendono delle circostanze in cui si producono risposte nei confronti di queste stesse condotte; 8) anche i soggetti che producono conoscenza sulla realtà della prostituzione (criminologi, istituzioni, altri esperti) diventano oggetto di riflessione analitica; 9) anche la produzione di conoscenza sui fenomeni devianti è un processo politico di definizione che mira a risultati politici o sociali specifici e, infine, 10) la conoscenza e i significati rispetto alla prostituzione non sono stabiliti una volta per tutte ma piuttosto sono multipli, variabili e mutevoli attraverso la ricostruzione del linguaggio e del processo simbolico e per mezzo dell’alterazione dei metodi discorsivi che li realizzano (Henry 2007). Gli approcci costruzionisti2 si situano, dunque, in aperto conflitto con le prospettive assolutiste e normative che, presupponendo un ordine sociale che determina le condotte degli individui, non permettono di analizzare le modalità attraverso le quali gli stessi soggetti, anche in termini collettivi, costruiscono, negoziano e possono, persino, distruggere gli ordini sociali. I funzionalisti – con Durkheim come capostipite – osservano la devianza «da lontano» e utilizzano, principalmente, statistiche e dati ufficiali che hanno finito con il validare i loro stessi presupposti teorici e attribuire parvenza di oggettività alla loro ricerca, a professionalizzare il ruolo del sociologo, a rendersi immuni da critiche esterne e a diventare, talora, diretta espressione delle agenzie governative (Davis 1975, pp. 99-100).

2.  Per una disamina mi si permetta di rinviare a C. Rinaldi 2016, Diventare normali. Teorie, analisi e applicazioni interazioniste della devianza e del crimine, McGraw-Hill, Milano.

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1. La riflessione etnometodologica La riflessione etnometodologica di cui è iniziatore Harold Garfinkel (1917-2011), studente di Talcott Parsons con il quale conseguirà nel 1952 il dottorato in filosofia a Harvard, riprende il tema del senso comune come «normalità» che gli attori sociali (ri)producono attraverso pratiche che dotano la realtà sociale di una sua regolarità, secondo accordi taciti attraverso cui coordinano le proprie condotte. L’analisi si concentra sugli etno-metodi ossia sui modi attraverso cui le persone producono forme di ragionamento comune e conoscenza ordinaria di senso comune (Garfinkel 1967a). Si tratta dunque dello studio dei metodi e delle pratiche che utilizzano le persone per classificare quanto fanno gli altri e loro stessi e, pertanto, per creare l’ordine sociale. Dunque il focus dell’analisi si concentra sulle cose che facciamo: fare il genere, produrre arresti, pronunciare giudizi, categorizzare la morte in suicidi, etc. L’etnometodologia si è particolarmente interessata all’analisi dell’uso delle forme di conoscenza di senso comune, delle presupposizioni di funzionamento della realtà, dei procedimenti e delle pratiche di ragionamento messe in atto dagli attori sociali quali membri effettivi di un contesto sociale per rendere il mondo intellegibile, normale, descrivibile, giustificabile (Fele 2002, pp. 21 ss.),. Le pratiche, gli strumenti, i metodi, le tecniche, le procedure utilizzati dagli individui diventano il fulcro principale dell’interesse etnometodologico, dal momento che si tratta di attività che hanno valore costitutivo. Infatti l’etnometodologia studia le condizioni che rendono possibile l’ordine sociale attraverso l’attenzione agli «atteggiamenti naturali» ossia ai ragionamenti e alle conoscenze di senso comune che i soggetti utilizzano nella loro quotidianità, evidenziando soprattutto il processo di costruzione situata e contestuale. La conoscenza di senso comune utilizzata dagli individui per compiere le loro attività ordinarie e che li orienta si compone di «conoscenza procedurale pratica, più che sostanziale, contenutistica, proposizionale, una conoscenza del come, più che una conoscenza di cosa» (Fele ivi, pp. 22-23). L’insieme di regole, tra cui quelle che sottendono l’appartenenza a classi 12 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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di persone specifiche – come il “normale”, l’“omosessuale”, il “suicida”, etc. – sono date dagli attori sociali per scontate e considerate come modalità «tipiche», «giuste», «normali» di fare le cose. Dal momento che le procedure utilizzate dagli attori sociali sono di tipo costitutivo, ossia servono per costruire le regolarità sociali, essi partecipano contemporaneamente a legittimare l’organizzazione specifica in cui hanno corso, la rendono giustificabile e la mantengono: la pratica di attribuzione di «nomi» e di «categorie», lo svolgimento di «procedure» sono svolti in modo da interpretare come le cose dovrebbero andare lisce e svolgersi «ragionevolmente» così come le buone ragioni sono state istituzionalizzate all’interno di un’organizzazione specifica. Il processo di categorizzazione sociale riveste una funzione pratica e procedurale, riguarda l’organizzazione locale e contestuale delle attività ordinarie naturali e il loro essere ordinate, spiegabili. Il ruolo dell’etnometodologia rispetto alle teorie della reazione sociale si concentra sul lavoro interpretativo pratico degli individui nel momento in cui forniscono e producono attribuzioni rispetto a ciò che viene considerato «deviante» e a quanto, invece, viene definito «normale». Tutte le nostre attività (parlare, muoversi, agire, comportarsi, etc.) sono dunque «descrivibili-spiegabili-comprensibili» perché gli individui partecipano alla stessa comunità morale (accountability); rispetto agli obiettivi pratici degli individui, gli oggetti non esistono indipendentemente dal modo in cui si costruiscono le comprensioni degli stessi (riflessività) e le attività ordinarie naturali sono sempre organizzate in termini locali e hanno carattere contestuale (indessicalità), dal momento che il significato non ha carattere estensivo bensì scaturisce dal rapporto con altri significati e con i contesti in cui è definito (Garfinkel 1967a). Le origini della prospettiva dell’etichettamento sono profondamente radicate nelle riflessioni etnometodologiche soprattutto guardando, tra i vari studi, a quelli condotti da John I. Kitsuse e Aaron V. Cicourel che, come sostiene Rains, indicano come le «imputazioni di devianza» consistono nei metodi (in termini di definizioni, di trattamento o di interpretazioni) che i membri ordinari usano per «riconoscere» la devianza e 13 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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che questi «riconoscimenti» da soli producono le popolazioni devianti utilizzate nelle ricerche sociologiche e che le stesse statistiche devianti e criminali possono essere comprese all’interno delle pratiche di routine che le agenzie ufficiali utilizzano per produrle (Rains 1975, p. 9). Nel corso delle seguenti pagine, la riflessione etnometodologica e l’analisi interazionista simbolica ci permetteranno di comprendere la funzione dell’uso pratico che si fa di sistemi di classificazione, di diagnosi, di trattamento e di protocolli formalizzati all’interno di contesti organizzativi specifici. In tal senso, l’approccio ci permette di analizzare il rapporto esistente tra consegne e mission organizzative (le disposizioni di trattamento, di diagnosi, di imputazione, di progressione scolastica, etc.) e la loro realizzazione pratica e procedurale che, come abbiamo indicato, si basa su precomprensioni, presupposizioni, su forme di conoscenza di senso comune (di cui gli attori dispongono per produrre resoconti adeguati), su strutture di senso familiari disponibili, su conoscenza di sfondo implicita (Cicourel – Kitsuse 1963; Atkinson 1971; Wieder 1974; Hester – Eglin 1997; Travers – Manzo 1997). Quando analizziamo le categorie in uso presso i contesti organizzativi deputati al controllo sociale – volendo parafrasare Sudnow – ci rivolgiamo a termini di riferimento stenografici relativi alla conoscenza specifica della struttura sociale e degli eventi (devianti o criminali) su cui poggia il compito di organizzare in termini pratici le varie attività (difesa legale, imputazione, diagnosi, trattamento, valutazione dei test di intelligenza, costruzione del reato, definizione dell’utente, etc.) (Sudnow 1965). Questa forma di conoscenza comprende non soltanto la rappresentazione delle condotte criminali (delinquenziali, marginali, patologiche, etc.), ma anche le caratteristiche socio-strutturali delle comunità, le dinamiche dei gruppi coinvolti, i modelli e gli stili di vita, le biografie e i tratti degli individui, le aspettative e la probabilità che si verifichino potenziali reiterazioni: una delle principali conseguenze è che il funzionamento di tali organizzazioni viene garantito mediante l’utilizzo appropriato delle categorie che permettono di assumere quotidianamente ogni decisione. Gli schemi di codifica e quelli interpretativi svolgono un ruolo esemplare all’inter14 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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no dell’organizzazione sociale della conoscenza e, come avremo modo di mostrare, hanno potere di controllo sulla percezione (Goodwin 2003). Inoltre, come provato da Goffman nel suo studio sulle istituzioni totali (1961 [2003]), all’interno delle organizzazioni e delle istituzioni deputate al controllo, gli individui rappresentano il «materiale grezzo» e insieme «i prodotti del lavoro organizzativo» (Kitsuse 1970); lo staff delle istituzioni totali – come qualunque altra organizzazione deputata al controllo – si occupa di un lavoro «il cui oggetto è costituito da persone», in cui «gli oggetti e i prodotti del lavoro sono uomini» [e donne], in cui «nella loro qualità di materia di lavoro, le persone possono assumere, talvolta, le medesime caratteristiche degli oggetti inanimati», «come si trattasse di un materiale di lavoro» (Goffman 1961 [2003], pp. 102-103). Dopo avere analizzato i processi di tipizzazione utilizzati all’interno dei contesti informali, approfondiremo la riflessione sulle «people-processing institutions» (Kitsuse 1970; McKinlay 1975; Holstein 1983) o come indicato da Lionel Lacaze sui processi di «serializzazione istituzionale» (comunicazione personale 18 maggio 2016). Siamo convinti che le attribuzioni di motivi specifici che soggetti informali o attori istituzionali possono fornire rispetto ad altri servano, in primo luogo, a definire una persona (Blum – McHugh 1971, p. 106) e inoltre che una serie di istruzioni organizzative, formali e informali, arrivino a costituire il tipo deviante e criminale (Smith 1978). Per la tradizione costruzionista i motivi sono costitutivi dell’azione e non un loro antecedente causale, per cui anche nel caso del suicidio i motivi (ragioni o intenzioni che dir si voglia) sono qualcosa di costitutivo del suicidio in quanto tale e non esplicativi dell’azione sociale (Louch 1966): è riconoscendogli dei motivi che possiamo arrivare a definire quell’atto come un suicidio e non qualcos’altro – ad esempio, una morte accidentale o dovuta a un mero atto di follia. In altre parole, i motivi (ragioni o intenzioni) sono parte del fenomeno che il sociologo deve analizzare e non una risorsa esplicativa: l’attribuzione di stati mentali antecedenti a cui fa seguito il suicidio non servono a spiegano quest’ultimo, come vorrebbe la sociologia tradizionale e la stessa autopsia psicologica, bensì servono a renderlo riconoscibile (identificabile, definibile) come un suicidio (Blum 15 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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– McHugh 1971, p. 100). È proprio

in questa direzione di a) rifiuto della ricerca eziologica e di b) focus sugli aspetti costitutivi di un atto come “suicidio” che vanno letti i saggi etnometodologici di Harold Garfinkel e di Harvey Sacks. Per comprendere il ragionamento di Garfinkel occorre fare attenzione al fatto che dal suo punto di vista studiare il suicidio come fenomeno sociale non significa individuarne le cause, come avviene nella tradizione positivista che risale a Durkheim e che è ancora oggi impersonata dalla psicologia o dalle correnti epidemiologiche in sociologia, bensì si tratta di scavare più a fondo sulle pratiche sociali e di significato che costituiscono, o meglio rendono riconoscibile questo tipo di agire auto-distruttivo in quanto tale. Grazie a questa sorta di svolta copernicana dello studio del suicidio si scopre che esiste un’infinità di altri fenomeni sociali connessi al suicidio e che l’approccio meramente eziologico (quello fondato sulla ricerca delle cause) ha dato per scontato o addirittura oscurato. Si tratta dunque di fenomeni trascurati del rapporto tra società e suicidi e sui quali la ricerca etnometodologica vuole incrementare il nostro sapere. Nel suo pionieristico saggio sulle procedure del Centro per la prevenzione del suicidio di Los Angeles, l’attenzione di Garfinkel non è più sugli antecedenti causali del decesso – siano essi fattori sociali, motivazioni individuali etc. – quanto invece sui metodi professionali che permettono allo staff del Centro, a partire dai “resti” – posizione del corpo, messaggi di addio, disposizione degli oggetti, dicerie etc. – la ricostruzione di tali antecedenti causali e così arrivare a definire come suicidi alcuni casi di morti sospette. I casi di suicidio non si presentano con un cartello con su scritto suicidio, ma appaiono ambigui, potenzialmente degli incidenti. I professionisti incaricati di risolvere tali ambiguità partono da tutti gli indizi disponibili, ad esempio i “resti”. Questi resti sono impiegati per formulare un resoconto riconoscibile come coerente, tipico, uniforme, chiaro, in altre parole un resoconto sostenibile dal punto di vista professionale, e quindi riconoscibilmente

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ragionevole per i membri, di come la società sia riuscita a produrre quei “resti”3.

L’interrogativo garfinkeliano è allora il seguente: con quali metodi lo staff del Centro definisce cosa è successo? Con quali procedure provano a determinare quali delle ipotesi (suicidio, omicidio o decesso naturale) siano quelle corrette? È come se il sociologo californiano avesse operato un radicale spostamento del focus della ricerca sociologica: dalla definizione della realtà sociale – “che cosa è il suicidio e cosa lo causa?” – alle procedure con cui tale realtà viene definita, ricostruita e spiegata dai membri stessi della società “per tutti i loro scopi pratici”. Lo scopo di Garfinkel non è però quello di criticare tali metodi professionali o di migliorarli. L’etnometodologia infatti rifiuta l’atteggiamento “superiore” del sociologo convenzionale che pretende di saperla più lunga dell’attore sociale al punto di arrogarsi il compito di definire lui, in via esclusiva, che cosa è la realtà o come va conosciuta. Al contrario, l’etnometodologia assume come obbiettivo di ricerca lo studio dei metodi, tutt’altro che approssimativi anzi assai sofisticati, con cui i membri della società provano a spiegare e definire in modo plausibile e chiaro un evento – ad esempio il suicidio – facendo anche in modo che sia utile per qualsivoglia scopo pratico – dati statistici, contestazioni, azioni giudiziarie etc. Il suicidio non è dunque un fenomeno che sta “lì fuori” nel mondo, ma sono questi metodi professionali a costituirlo così come lo conosciamo: è in base a tali metodi professionali che si decide quale caso di morte sia un suicidio e quindi possa essere contato come “suicidio” dalle statistiche ufficiali. Ma quali proprietà hanno questi metodi d’indagine che permette a tali professionisti di arrivare a una decisione-spiegazione che sia comprensibile, chiara, plausibile, insomma razionale, e che, inoltre, rendono possibile ad altri attori afferrare tale spiegazione e poi, eventualmente, anche contestarla o riformularla? Per Garfinkel, la risposta a queste domande 3. Vd. Garfinkel, Il ragionamento sociologico pratico: alcune caratteristiche del lavoro del Centro per la prevenzione del suicidio di Los Angeles, infra.

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deve partire con l’evidenziare come i “resti”, come anche le “azioni investigative” dei membri del Centro e i loro “risultati” (rapporti, dossier, spiegazioni etc.), assumono la forma di azioni, di oggetti e di materiali linguistici che sono essenzialmente espressioni indessicali, vale a dire elementi che acquistano il loro significato solo contestualmente, nel senso che solo riferendosi al contesto è possibile cogliere tale loro natura al punto che quest’ultima cambia da contesto a contesto. L’indessicalità è per l’etnometodologia solo la prima delle proprietà dei resoconti e delle indagini del Centro – come anche di tutti i fenomeni sociali in generale. L’altra, strettamente connessa alla prima, è la riflessività. Spiegazioni, prove e indizi non sono tali di per sé, in forza di qualche proprietà assoluta e intrinseca che li caratterizza, ma diventano tali in relazione al contesto in cui sono usate, in altre parole, sono fenomeni riflessivamente costituiti dallo specifico contesto in cui prendono corpo. Ad esempio, la foto della posizione del corpo del deceduto, diventa una “prova” di qualcosa – gesto suicida, incidente etc. – grazie alla sua intrinseca indessicalità che la rende un “elemento dell’investigazione”. Il saggio illustra questa linea di ragionamento attraverso un argomentare non facile da seguire. Garfinkel si serve di un linguaggio irto e complesso (diventato noto come garfinkelese), come stratagemma per sottolineare a ogni passo e in modo stringente l’inevitabile circolarità (la natura riflessiva) che esiste tra agire sociale e indagine empirica. Anche la scienza (dalla fisica alla sociologia) esperisce tale circolarità, e la individua proprio nell’implicazione indessicale presente negli elementi linguistici e pratici insiti nei propri metodi. Tuttavia, la scienza tratta tale implicazione alla stregua di un problema da superare (ad esempio, sostituendo le espressioni indessicali con espressioni oggettive, trascendendo i dati fenomenologici, codificando le osservazioni empiriche). Per questa ragione, la “metodologia” – i metodi pratici e le spiegazioni ad hoc – dello staff del Centro può apparire “ingenua” ai sociologi perché priva di qualsiasi tentativo di risolvere l’indessicalità e la riflessività. Per contro, Garfinkel dimostra invece come indessicalità e riflessività siano problemi irrisolvibili anche per la “metodologia scientifica”. Inoltre, a suo avviso non 18 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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si tratta neanche di problemi bensì di risorse cruciali per la produzione di spiegazioni – ad esempio, rapporti sui decessi in termini di suicidi – che siano utili, comprensibili, contestabili e impiegabili per tutti gli scopi pratici. Per Garfinkel, le indagini del Centro dimostrano come a causa dell’indessicalità non si possa mai giungere a teorie generali sulle ragioni/ cause del suicidio, come su qualsiasi altro fenomeno sociale, ma si possa solo produrre spiegazioni ad hoc, vale a dire sempre limitate al caso in questione, e inevitabilmente incomplete. E tuttavia, grazie all’indessicalità, la spiegazione-definizione di un decesso ambiguo prodotta dallo staff del Centro, nonostante la sua natura limitata e incompleta, è comunque razionale, vale a dire comprensibile, chiara, plausibile. Certo, ammette Garfinkel nel saggio tradotto, è difficile che i sociologi e i membri del Centro riconoscano questo aspetto del loro lavoro, perché ne deriverebbe, ad esempio, il riconoscimento che i dati statistici non siano la fotografia reale del fenomeno del suicidio bensì il prodotto di determinate pratiche organizzative. Più in generale ne deriva l’idea che chi indaga sui suicidi di fatto concorra a costituire (non ovviamente a causare i decessi) il significato stesso di ciò che chiamiamo suicidio nella nostra società – quasi che i membri dello staff del Centro o gli stessi sociologi impegnati in una ricerca sul suicidio, agiscano di concerto con il suicida nell’articolare la comprensibilità di quell’atto come “suicidio”, quasi fossero una sorta di “complici”. Dice Garfinkel: il personale del Centro troverebbe alquanto incongruo considerare seriamente il fatto che sono impegnati in un lavoro di certificazione dei decessi in modo tale da concertare i propri sforzi con quelli della persona che cerca di commettere suicidio in modo da assicurare il perfetto riconoscimento di “ciò che è veramente successo”.

Date tali implicazioni critiche, non deve sorprendere che l’etnometodologia sia stata a lungo interpretata come una sorta di estremo scetticismo verso l’impresa scientifica, sociologia compresa. In realtà è sempre 19 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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possibile interpretarla, come pare più sensato, come un progetto di ricerca rivolto allo studio di ambiti fino al quel momento non considerati dalla sociologia: l’agire pratico e la riflessività dei metodi ordinari e scientifici. Garfinkel ha svelato tutto un intero campo di fenomeni sociali che si presenta come costituivo rispetto a qualsiasi altro fenomeno sociale e la cui analisi appare quindi prioritaria. Dalla lettura del saggio di Garfinkel si ha però l’impressione che il sociologo americano si fermi a constatare l’indessicalità e la riflessività senza però fornire un resoconto dettagliato di come l’agire pratico le trasformi in risorsa. In questa direzione si è invece orientata la ricerca etnometodologica di Harvey Sacks. Nella prima metà degli anni Sessanta, il giovane allievo di Garfinkel viene coinvolto nelle ricerche sul suicidio commissionate da Edwin Shneidman, il direttore del Centro per la prevenzione del suicidio di Los Angeles. Sacks ne approfitta per usare i dati telefonici del Centro come materiale per il lavoro di tesi di dottorato (Sacks 2017) di cui il saggio che qui presentiamo è una sintesi. Di cosa si occupa la ricerca di Sacks? Non certo di individuare le cause del suicidio in forma di teorie generali, anzi a dire il vero non si occupa affatto della questione delle cause bensì studia una di quelle attività ordinarie generali che spesso circondano le vicende dei suicidi, ma che la ricerca sociologica ha spesso trascurato: le richieste di aiuto. Il meditare il suicidio, dice Sacks, non va da solo, ma è spesso un’alternativa a cui si pensa quando non si ha nessuno a cui chiedere aiuto per una condizione di grave sofferenza. Ma come funziona il chiedere aiuto? A chi si chiede aiuto? E attraverso quali procedure? È possibile, si chiede Sacks, descrivere nei dettagli le pratiche ordinarie (i metodi) di cui i membri di una società si servono per individuare le persone cui chiedere aiuto, nonché i meccanismi di significazione da loro impiegati per rendere le loro richieste riconoscibili in termini di richieste di aiuto? Questi sono gli argomenti di ricerca del suo saggio. Possono sembrare fenomeni tutto sommato fin troppo ovvi, quasi non meritevoli di investimento analitico: “lo sanno tutti” che si chiede aiuto ai propri cari, a chi è vicino – i genitori, il partner, gli amici etc. Eppure tali fenomeni si rivelano in possesso di uno 20 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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spessore metodico insospettato e che Sacks prova a restituirci attraverso la descrizione delle socio-logiche che li organizzano. Il punto di partenza è la conclusione di “non avere nessuno a cui rivolgersi” per chiedere aiuto – l’anticamera di quell’isolamento sociale che spesso precede il suicidio – a cui giungono i potenziali suicidi. Tale conclusione può sembrare una di quelle affermazioni di senso comune del tutto prive di logica, una mera frase fatta. Sacks dimostra invece come a tale conclusione si giunge con metodicità e rigore di ragionamento, il che ne fa qualcosa di sensato e tutt’altro che una frase fatta. L’etnometodologo si impegna a ricostruire in modo sistematico una vasta parte di quegli elementi scontati e taciti che compongono il ragionamento (la socio-logica) che guida l’esperienza ordinaria di chiedere aiuto, rivelando così che la conclusione “nessuno a cui rivolgermi” è rigorosa e tutt’altro che banale. L’individuo arriva a tale conclusione quando, procedendo in modo metodico, scopre che le posizioni sociali, quelle che le procedure di senso comune indicano come destinatarie di una richiesta di aiuto, sono vuote, nel senso che non sono ricoperte da nessuno, o indisponibili, nel senso che chi concretamente le ricopre non può essere destinatario di una richiesta di aiuto. Usando come materiale empirico le registrazioni delle telefonate al Centro di prevenzione del suicidio di Los Angeles da parte di utenti che erano arrivati alla drammatica conclusione di voler tentare il suicidio perché non avevano nessuno a cui rivolgersi per avere un aiuto nella difficile condizione in cui si trovavano, Sacks scopre l’esistenza di una “collezione R” costituita da categorie d’identità sociali organizzate a “coppie relazionali standardizzate”, vale a dire coppie di categorie legate tra loro e rispetto alle quali chi telefona al Centro può collocare se stesso e gli altri e essere a sua volta collocato – marito-moglie, genitore-figlio, vicino di casa-vicino di casa, fidanzato-fidanzata, amico-amico, cugino-cugino etc. Tale collezione è un insieme di due posizioni e anche di diritti e doveri associati a tali posizioni, tra cui quelli di chiedere aiuto e di ricevere richieste di aiuto. Insomma, la collezione R legittima la richiesta di aiuto, e fornisce anche la procedura con cui farla. Ad esempio, la procedura pre21 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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vede che i possibili destinatari siano disposti secondo un ordine preciso: prima si chiede a questi e solo dopo ci si può rivolgere ad altri. Se infatti un richiedente aiuto salta tale ordine, ciò viene puntualmente rilevato dagli interlocutori che chiederanno il perché di questa alterazione (“Perché non ne hai parlato prima con …?”). Ma cosa succede se le prime posizioni di tali coppie categoriali, e via via tutte le altre, non sono occupate da qualcuno? In diverse società tribali, quando tali posizioni (marito, moglie, padre etc.) diventano prive di un occupante esse vengono automaticamente riempite da qualcun altro – ad esempio, morto il marito, la vedova si risposa subito con il cognato; se non si hanno figli, allora i nipoti diventano tali etc. – in modo da non restare mai vuote. Nella nostra società ciò non succede e allora tali posizioni sociali possono restare vuote. Ecco dunque “non ho nessuno a cui rivolgermi”. Può anche verificarsi che quelle posizioni non siano “destinatarie idonee”: ad esempio, rivolgersi a loro potrebbe implicare il parlare di questioni che metterebbero fine al legame che esiste tra il richiedente aiuto e l’occupante la posizione. Per chiarire questo punto, Sacks evidenzia come per dimostrare che ha veramente bisogno di aiuto, e che dunque non si tratta di uno scherzo o una bugia, la persona deve indicare le ragioni della sofferenza. Ma l’obbligo del dare ragioni nasconde delle insidie: ad esempio, una moglie avrà remore a rivolgersi al marito se la ragione per cui è sprofondata nella depressione è perché è stata lasciata dall’amante segreto – il marito potrebbe infatti chiedere il divorzio e quindi “svuotare la posizione”. Ecco un altro aspetto che può portare il richiedente aiuto a dichiarare di non avere nessuno a cui rivolgersi. Che si fa quando “non si ha nessuno a cui rivolgersi”? All’individuo non resterebbe che ricorrere a “estranei”, ad esempio a soggetti che offrono aiuto su base professionale e che Sacks definisce “collezione K” – psicologi, assistenti sociali, etc. Tuttavia tale passo appare problematico proprio in forza della regola della collezione R, che in un certo senso obbliga a rivolgersi a certi attori e non ad altri. Ed è da qui che nascono

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tutte le difficoltà e i limiti dell’offrire aiuto “organizzato e professionale” nel caso del suicidio. Inoltre, dagli scambi verbali letteralmente riportati nel saggio da Sacks, secondo quella che diventerà un vero e proprio approccio sociologico innovativo noto come analisi della conversazione (Sacks 2017; Fele 2007), risulta evidente che siano spesso gli stessi membri di K, i professionisti contattati, a richiamare la collezione R, ribadendone così l’importanza e mettendo ulteriormente in difficoltà i richiedenti auto (“Perché non si è rivolto a…?”). Il suicidio comincia così a diventare pericolosamente l’unica alternativa possibile. Stante queste difficoltà, ci si potrebbe chiedere se non sarebbe meglio che nella nostra società si superasse l’obbligo convenzionale di ricorrere alla collezione R quando si ha bisogno di chiede aiuto, ma Sacks fa notare come il superare R può portare a effetti ancora peggiori: ad esempio, potrebbe comportare il rimuovere l’obbligo di richiedere aiuto quando si è in difficoltà, per non menzionare che spesso rivolgersi ai professionisti, ai membri della collezione K, costa, per cui è possibile solo per chi può economicamente permetterselo. E in queste condizioni, la scelta di vagliare il suicidio come soluzione aumenterebbe pericolosamente. Da notare il rigore empirico della ricerca di Sacks. Attraverso l’analisi di scambi telefonici naturali – vale a dire non inventati o simulati bensì trascritti in modo fedele così come sono avvenuti – tra potenziali suicidi e assistenti del Centro di prevenzione del suicidio di Los Angeles, l’interpretazione del sociologo newyorkese si fa tutt’uno con il fenomeno vissuto che intende descrivere e spiegare. Sono infatti gli stessi attori sociali a dimostrare la rilevanza di tali procedure nella richiesta di aiuto, e non certo il sociologo a imporla sui dati. Lungi dal trascendere i dati attraverso forme di codificazione o di teorizzazione a priori, sono le parole stesse dei potenziali suicidi e dei professionisti a mostrare la rilevanza delle categorie della collezione R e delle sue procedure nelle richieste di aiuto. Siamo veramente agli antipodi rispetto allo studio del suicidio basato sui dati statistici ufficiali della tradizione durkheimiana a cui, del resto, non è mai venuto in mente di prendere in considerazione il pro23 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

blema della richiesta di aiuto come elemento in gioco rispetto al suicidio. Certo, nella sua foga di non dar nulla per scontato o di indimostrato, il procedere argomentativo di Sacks risulta spesso difficile da seguire, ma resta pur sempre un viaggio affascinante nell’insospettata profondità che si nasconde nel mondo dell’ovvio.

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2. La costruzione sociale dei significati del suicidio: la prospettiva “fenomenologica” La posizione prospettica di Douglas presenta una sintesi originale di vari approcci teorici (Johnson 2015; Melnikov – Koratba 2017), essa abbraccia l’interazionismo simbolico, inglobando gli studi fenomenologici e l’etnometodologia, all’interno di un approccio esistenzialista alla vita quotidiana (Douglas – Johnson 1977; Douglas et al. 1980) che predilige metodi di ricerca naturalisti, flessibili, aperti, legati allo studio dell’esperienza umana (Douglas 1976, 1985). Jack D. Douglas nasce nel 1937 a Miami studia ad Harvard durante l’ascesa di figure come Talcott Parsons, George Homans e Robert Bales tra il 1955 e il 1959 e consegue una borsa di studio per il proprio PhD a Princeton, dapprima con l’idea di testare i modelli matematici di comportamento per poi esprimere tutto il proprio scetticismo nei confronti del metodo statistico a vantaggio di metodi di ricerca qualitativa quali la ricerca sul campo, l’osservazione, lo studio di casi. Questo interesse fu provocato da un trauma, la morte del proprio fratello William nel 1958 in circostanze sospette che fecero pensare a un suicidio. La tesi di dottorato, pubblicata nel 1967 – The social meanings of suicide – propone infatti una critica profonda degli studi durkheimiani sul tema, introducendo le acquisizioni di una forma di “conoscenza dinamica” in grado di svelare come la categorizzazione burocratica e attuariale delle condotte devianti trascuri di fatto i significati che emergono da contesti concreti e l’uso stesso che i membri sociali fanno dei significati in situazioni concrete. Queste acquisizioni sono certamente prodotte dall’influenza che sull’autore esercitano Harold Garfinkel e Harvey Sacks, e le prime riflessioni etnometodologiche, di cui fece esperienza diretta 24 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nel 1964, quando ottenne un insegnamento alla U.C.L.A. mentre stava ancora lavorando alla tesi dottorale. Il lavoro teorico di Douglas si fonda su alcuni punti chiari: per comprendere i significati soggettivi e le interpretazioni delle azioni umane bisogna attenersi allo studio dei fenomeni della vita quotidiana così come si presentano, ovverosia tentando di individuarli attraverso le stesse categorie e gli stessi significati attribuiti dai soggetti direttamente coinvolti nell’azione. La sensibilità fenomenologica dello studioso lo porta a dubitare delle stesse categorie utilizzate dagli attori istituzionali (e dai ricercatori) per descrivere i fenomeni, differenziando questa prospettiva esistenzialista – legata direttamente all’esperienza dei soggetti – dagli approcci strutturali o da versioni più behavioriste dell’interazionismo simbolico (Johnson 2015, p. 288). In termini epistemologici, dunque, categorie come “devianza” – e, dunque, suicidio – assumono caratteri di rilevante problematicità nella misura in cui, soprattutto nelle loro versioni “pubbliche” e “amministrative” (si pensi, in particolare, alle definizioni istituzionali e statistiche di questi fenomeni), esse riflettono in modo artificiosamente consensuale una realtà condivisa monolitica che, oltre a manifestare pregiudizi di tipo metodologico (il modo in cui, per esempio, sono costruite le statistiche criminali), finisce per rappresentare visioni semplicistiche che hanno trascurato la comprensione dei significati sociali e del sé individuale. Come accennavamo, la costruzione funzionalista ha comportato, almeno nelle sue origini, una rilevante ipostatizzazione della realtà sociale, una oggettivizzazione che permetteva funzionalmente un progetto politico e retorico implicito: se, come scrive Douglas nel saggio tradotto in volume, Durkheim accetta l’assunto dell’antropologo criminale italiano Enrico Morselli che “un cadavere è un cadavere”, vorrà dire che la retorica sociologica positivista permette che le categorizzazioni ufficiali diventino meccanicamente una registrazione del reale, la realtà della realtà, qualcosa che si può individuare con facilità (tenendo conto tuttavia di problemi tecnici di “misurazione”), arrivando a presupporre pertanto che ogni definizione legale (o ufficiale) di suicidio siano affidabili e valide registrazio25 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ni dirette di significati sociali condivisi omogeneamente e, dunque, non problematiche. La retorica assolutista dà per scontato che le azioni che la gente comune compie corrispondano alle categorie prodotte da agenzie e ricercatori. Se, ipoteticamente, rispetto a società non differenziate, caratterizzate da strutture semplici e non particolarmente organizzate, ci ritroviamo di fronte a modelli consensualisti dotati di stabilità e di modelli di interazione regolari e prevedibili (in cui ha piena applicazione generale l’analisi sociologica dell’indignazione morale introdotta da Durkheim) (Durkheim 1893 [1996], p. 103), le società contemporanee sono invece caratterizzate da livelli elevati di pluralismo e non possono rispecchiarsi meccanicamente in un unico condiviso codice morale. In primo luogo, infatti, se le società coincidessero meramente con il loro codice morale (e se non fosse possibile definirle se non facendo ricorso al consenso morale che vi si manifesta), non sarebbe possibile porsi il problema delle origini e delle trasformazioni dei loro ordinamenti normativi e del diritto penale (Hester – Eglin 1997, p. 67); in seconda battuta, inoltre, i significati morali rimangono altamente problematici nella loro applicazione e attribuzione per via della dimensione creativa (libera) dell’azione umana; e, infine, sebbene possediamo dei significati astratti condivisi sul “bene” e il “male”, sulle condotte “morali” e su quelle “immorali”, essi tuttavia – nel corso dei processi della vita quotidiana – non sono mai applicati in modo immediato e diretto dal momento vengono elaborati, attribuiti, modificati a seconda di situazioni e contesti emergenti altamente, essenzialmente problematici. L’uso e l’applicazione di una regola corrispondono inevitabilmente a pratiche selettive e situazionali e «l’appello a una moralità assoluta è una strategia retorica per mascherare questa [forma di] azione situata» (Johnson 2015, p. 289). Per tali ragioni ogni significato è sottoposto a processi di oggettivazione istituzionale e di categorizzazione organizzativa: ogni categoria è il prodotto di elaborazioni minuziose e di passaggi organizzativi. Non si tratterebbe, dunque, di tener in considerazione soltanto la lezione garfinkeliana quando suggerisce di analizzare ogni tipo di agenzia deputata alla 26 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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definizione, la raccolta e l’analisi delle fonti statistiche e di intenderla come «un’organizzazione di azioni sociali» (Garfinkel 1956, p. 181), studiandone i «valori tecnici che il personale di quel sistema specifico ottengono per via delle loro modalità concrete di azione» (Garfinkel ivi, p. 191) oppure, come evidenziato da Cicourel e Kitsuse, di dare per scontato – una volta confusi i processi da cui deriva il comportamento con le procedure da cui scaturiscono i tassi di criminalità – che «la spiegazione dei processi dai quali scaturisce il comportamento spieghi anche le procedure dalle quali scaturiscono i tassi di criminalità» (ovverosia, detto in altro modo, che vi sarebbe una corrispondenza tra i comportamenti che si vorrebbero spiegare e la loro distribuzione statistica) (Cicourel – Kitsuse [1963] 2020), bisogna anche comprendere le procedure utilizzate nella classificazione ad opera degli attori formali e le modalità in cui le regole sono interpretate nelle loro attività quotidiane (Douglas 1971, pp. 79 ss.). Guardando nello specifico alle condotte suicidarie, il ricercatore dovrà chiedersi se gli attori formali posseggano definizioni ufficiali di suicidio (così come di ogni qualsiasi altro fenomeno “deviante”) e come arrivino ad elaborarle; se le categorizzazioni sono dotate di autonomia semantica oppure, al contrario, se si basano su significati di senso comune (tutti sanno, alla fine, cosa si intende per suicidio); se nello svolgimento delle loro pratiche lavorative questi attori posseggono una personale interpretazione di cosa sia e in cosa consisti un suicidio. Lo studio monumentale di Douglas porta a considerare le procedure di categorizzazione e di classificazione del “suicidio come causa di morte” come attività vincolate a dimensioni pratiche: ogni interpretazione organizzativa viene elaborata in modo tale da risolvere gli stessi problemi pratici che si incontrano di volta in volta (come per esempio svolgere una mole considerevole di lavoro nel breve periodo), ragion per cui il numero delle interpretazioni complessive corrisponderà alle combinazioni specifiche di tentativi pratici di risolvere i problemi incontrati da organizzazioni specifiche» (Douglas ivi, p. 83). Dietro la costruzione di categorie generali, assolute e astratte (come quella di “crimine”) si nasconde, secondo una delle riflessioni più fortemente legata alla critica del potere che viene offerta dall’autore, il tenta27 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tivo che le norme si rappresentino come eque, dissimulando il proprio carattere istitutivo arbitrario: così come l’idea di “bene” implica la definizione della categoria di “immoralità” e a seguire l’elaborazione di forme specifiche di intervento e controllo, allo stesso modo una norma organizzativa può svolgere una funzione di validazione post hoc rispetto all’operato svolto4. Le società contemporanee vedono coesistere, nello stesso tempo e negli stessi contesti, sia forme di consenso che di conflitto, dal momento che senza conflitto il consenso non avrebbe alcun significato e lo stesso varrebbe per il consenso privato di elementi conflittuali: dunque sebbene molti individui si riferiscano a un codice generale o pubblico di moralità, sono comunque vigenti anche delle forme private di moralità costituite da significati morali situati, ovvero interpretazioni morali astratte applicate a situazioni concrete (Pfuhl – Henry 1993, p. 10; Douglas 1970). L’analisi costruzionista fornita da Douglas pone pertanto l’accento sulla necessità tutta umana di costruire un ordine sociale e di attribuire significati al mondo; la vita sociale altrimenti sarebbe insignificante e «intrinsecamente precaria» (Berger 1984, p.17), dunque siamo obbligati ad imporre un ordine significativo alla realtà, a contrastarne la sua assurdità, in termini esistenzialisti e le società complessivamente sono tese a convincere i propri membri che la realtà possiede significati, sebbene tale impresa diventi sempre più gravosa via via che le società diventano più complesse. Le forme di categorizzazione formale della devianza rimangono altamente problematiche in termini dunque essenziali e in termini situazionali: nel primo caso perché il concetto stesso di devianza – se usato in termini astratti e assoluti – causa incertezza nel suo uso e dissenso tra i soggetti, nel secondo caso il livello di problematicità e di conflitto investe l’uso della categoria in situazioni pratiche e concrete (Douglas 1970, p. 102). La questione principale, dunque, consiste nel comprendere che talora la 4.  Nel momento in cui classifichiamo un individuo come membro di una categoria, questi diventa rappresentativo di quella stessa categoria e possiamo utilizzare potenzialmente qualunque conoscenza di cui disponiamo (dipendente dalle nostre appartenenze culturali, dai nostri repertori specifici, dal ruolo che svolgiamo all’interno di un’organizzazione) per il «trattamento» di quella categoria specifica (Sacks 2010, p. 31).

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gente comune, ma anche gli stessi esperti (tra cui i sociologi), è propensa a presupporre l’esistenza di caratteristiche stabili, considerate come prodotti consensuali più di quanto non accada realmente (Schur 1979, p. 5). Nel caso del suicidio, come evidenzierà Douglas nel saggio incluso nel volume, il problema non è l’accuratezza della misurazione del fenomeno ma determinare i suoi significati sociali per poter procedere in modo accurato anche verso eventuali analisi quantitative del fenomeno. Se la categoria di suicidio è essenzialmente problematica (in quanto categoria astratta), essa lo diventa anche in termini situazionali e pragmatici perché dipende dai significati “situati” attribuiti, dai risultati di quanto potremmo definire un’arena definizionale e di discussione sul suicidio – in cui si negoziano significati ma su cui ci si confronta anche conflittualmente, in cui si “discute” ma si hanno anche “discussioni”, si dibatte, ci si contrasta attraverso contese definizionali. Ritornando all’analisi del suicidio, l’autore indica almeno sei dimensioni di significati attribuibili alla condotta suicidaria che esprimono le ambiguità semantiche del fenomeno e a partire dalle quali è possibile ottenere alla fine una serie di specifiche definizioni formali di suicidio, «una categoria con un significato (astratto) diverso che può essere legittimamente applicata o non applicata a determinati tipi di azione»5 e la cui applicazione dipende da fattori che esulano dal significato dello stesso concetto. Le diverse arene di argomentazione, definizione e discussione implicate nel fenomeno suicidario non dispongono di significati specifici attribuibili a tutte o alla maggior parte delle condotte suicidarie, «il significato di tali azioni deve essere costruito dagli individui che le commettono e dagli altri coinvolti attraverso le loro interazioni con l’altro. Come i significati specifici verranno realizzati o effettivamente classificati dipenderà dalle intenzioni dei vari attori, dai modi socialmente percepiti attraverso cui le azioni sono messe in atto, dagli specifici modelli di significati suicidari […] che sono

5. Vd. Infra

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realizzati, e l’intero processo di discussione, prima, durante e dopo le “azioni suicide”»6. La problematicità della condotta suicidaria diventa ancora più cogente, così come tutte le azioni sociali sono problematiche in termini essenziali e situazionali, dal momento che più semplicemente ci concentriamo su fenomeni che posseggono un significato apparentemente condivisibile – come l’idea di «azione», «atti», «gesta» – e che, con la stessa semplicità, consideriamo delle «verità», mentre altre tipologie di fenomeni – «come «intenzione», «motivi» o «ragioni» – sono definite e considerate incerte, inaffidabili, problematiche. Come attribuire infatti alla condotta suicidaria il significato di «atto di uccidersi intenzionalmente», azione volta consapevolmente a distruggere il proprio sé? Potrei volermi uccidere – commettendo ciò che solitamente dunque viene attribuito alla categoria di “suicidio” – con l’obiettivo tuttavia di fare classificare l’azione compiuta come «incidente» per non arrecare dolore ai miei cari o per proiettare una diversa immagine del mio sé; come classificare, invece, quelle condotte con esiti fatali indipendenti dalla piena volontà del soggetto coinvolto e dalle sue reali intenzioni? Come distinguere in modo specifico la condotta compiuta se dovessi, invece, coinvolgere altri soggetti, se si trattasse di un «omicidio-suicidio», in che modo definire la mia intenzione che l’esito fatale sia una mia scelta esclusiva o possa essere condivisa anche dal soggetto eventualmente coinvolto? In che modo differenziare in termini analitici il suicidio in sé, il parasuicidio o suicidio preterintenzionale o i suicidi mancati per ignoranza nell’adeguatezza del mezzo scelto, il tentato suicidio con intenzioni “realmente” suicide? In sintesi, come distinguere con certezza e oggettività statistica chi intenda commettere suicidio, chi voglia morire ma si ritrova a sopravvivere, chi si ritrovi a morire non avendone intenzione? Una impostazione meramente nomotetica della questione, così diffusa dalla prospettiva assolutista, non fa che radicare i propri convincimenti negli atteggiamenti di senso comune del dato per scontato rispetto a ciò 6. Vd. Infra.

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che è la «realtà» normale, attesa, plausibile; indicare significati assoluti determina la costruzione di una natura umana caratterizzata da condizioni fisse e determinate; immaginare, invece, ordini e significati sociali essenziali dotati di caratteristiche e funzioni statiche (che si tratti di caratteri di genere, culturali o di requisiti funzionali) significa reagire alla profonda ansia e incertezza derivanti dalla paura di verificare quanto la condizione umana sia mutevole e l’ordine sociale arbitrario, quanto l’oggettività sia funzionale a postulare la distanza tra osservatore e osservati, quanto l’esistenza di «leggi scientifiche del crimine» necessitino per la loro stessa esistenza di comportamenti umani prevedibili e predeterminabili, considerato che pensare il contrario significherebbe riconoscere quella libertà all’azione umana di scegliere di agire diversamente nelle medesime circostanze, una minaccia per le certezze che genera imprevedibilità e mina le generalizzazioni (cosi come la compattezza del controllo) (Young 2011, pp. 63-69). Gli attori formali coinvolti nell’arena definizionale si ritrovano, dunque, a «oggettivare intenzioni», ovvero sono alla ricerca di prove rilevanti ed evidenze dirette per dedurre l’intenzione (o la mancata intenzione) del soggetto coinvolto, rendendo alcuni segni «interni» (e, pertanto, in linea di principio, insondabili) al soggetto pienamene osservabili – «rendere caratteri esterni “indici” o “segni” della dimensione interna» (Douglas 1971, pp. 110-111). Questo processo di «oggettivizzazione delle intenzioni» si basa sul riferimento a significati comunemente accettati riferibili a segni esteriorizzati di intenzionalità, ovverosia a quei significati prodotti in termini organizzativi che sono interpretabili come l’argomento più difendibile e plausibile all’interno dell’elaborazione di una decisione professionale. I processi decisionali (sia che si tratti di azioni investigative sia di altra natura organizzativa) fanno uso di idee di senso comune ogni qualvolta intendano riferirsi alle intenzioni del suicida: la natura delle azioni (la posizione di una ferita o di una traccia ematica o di eventuali segni di colluttazione o, ancora, di segni di soffocamento, etc.), le caratteristiche del soggetto (“era un depresso”, “aveva perso il lavoro”, “non sopportava che l’avesse lasciato”) o le relazioni in situazioni specifiche (il 31 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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rapporto con eventuali partner o familiari: “era geloso”, “aveva nascosto le sue difficoltà ai genitori”). Nella loro elaborazione finale, le decisioni sul caso possono essere considerate in termini analitici come un insieme di sequenze interpretative – di «dati», di «scoperte», di «risultati» – in grado di adattarsi reciprocamente all’interno di una logica auto-giustificativa in grado di pervenire a un complesso plausibile di narrazioni facilmente utilizzabile come spiegazione adeguata (e dunque “pubblica”) delle intenzioni e delle azioni dedotte (Douglas ivi, p. 113). La categorizzazione formale – l’imposizione dunque di un significato ufficiale e univoco rispetto ad un atto essenzialmente e situazionalmente problematico (come lo sono tutti i significati morali) – corrisponde alla creazione di una «realtà sociale ad hoc» in grado di confutare le realtà sociali (private) dei diversi membri coinvolti, occultando i significati di queste stesse realtà la cui interpretazione è il principale obbiettivo di una sociologia fenomenologicamente orientata. Le statistiche ufficiali sono un esercizio di approssimazione in grado di spiegare soltanto parzialmente le variazioni dei “dati”, non a causa semplicemente di errori nelle procedure tecniche o della necessità di correttivi di misurazione o di campionamento, ma a causa dell’oggetto delle proprie applicazioni: il comportamento umano inteso nella sua complessità esistenziale. Le condotte suicidarie consistono in una delle forme più rappresentative delle condotte devianti individuali. Le analisi classiche, come quella di Émile Durkheim (1897 [1987]), sebbene propongano prospettive che finalmente slegano il suicidio da impostazioni prettamente bio-psico-mediche, tuttavia lo considerano come mero prodotto di coercizioni esterne e vi attribuiscono significati “assoluti”, univoci, occultando l’ambiguità della categorizzazione semantica del fenomeno7. 7.  È opportuno rammentare che Durkheim ammetta, pur non sviluppando questa analisi ulteriormente, che il suicidio è di per sé un fenomeno ibrido, amorfo e mutevole. «[I suicidi] non costituiscono, come si potrebbe credere un gruppo del tutto a sé, una classe isolata di fenomeni mostruosi, senza rapporto con gli altri tipi di comportamento, ma, anzi, che vi si ricollegano mediante una serie continua di intermediari. Sono

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Dunque nella riflessione durkheimiana, l’analisi statistica sovente offre significati generici e attribuzioni di significati ad hoc che finiscono per adattare i dati alla teoria generale dello studioso: infatti l’ambiguità stessa del fenomeno ci porta a riflettere profondamente sui termini utilizzati per definire il comportamento suicidario, così come sulle statistiche utilizzate, le classificazioni e l’analisi delle circostanze, elementi di per sé problematici perché sono anch’essi prodotto di costruzioni sociali. I significati attribuiti alle condotte devianti possono persino distorcerne l’eventuale rappresentazione statistica. Gruppi, comunità e società definiscono in modo differente il concetto di suicidio: alcune società, per esempio il Giappone, considerano il suicidio come un atto degno di rispetto mentre quelle cattoliche solitamente come un peccato; le prime dunque saranno più propense a classificare una morte come suicidio rispetto alle altre; allo stesso modo, saranno proprio i gruppi più «integrati» solitamente a stigmatizzare i suicidi8 e a insomma la forma esagerata di pratiche usuali. Infatti, diciamo che vi è suicidio quando la vittima, nel momento in cui commette l’atto che deve por fine ai suoi giorni, sa con totale certezza ciò che normalmente ne deriva. Ma questa certezza può essere più o meno forte. Sfumatela con qualche dubbio, e avrete un fatto nuovo che non è più suicidio, ma che ne è un prossimo parente poiché non esistono tra loro che differenze di grado. Un uomo che si esponga consapevolmente per altri, ma senza che il risultato mortale sia sicuro, non è di certo un suicida, anche nel caso che soccomba, come non lo è l’imprudente che scherzi con la morte pur cercando di evitarla o l’apatico che, non tenendo seriamente a nulla, non si dia pena di curare la sua salute e la comprometta per negligenza. E, tuttavia, questi diversi modi di agire non si distinguono radicalmente dai suicidi propriamente detti. Derivano da stati d’animo analoghi. Poiché comportano uguali rischi mortali, non ignorati dall’agente che non si arresta alla prospettiva di tali rischi; unica differenza è che le probabilità di morte sono minime. […] Tutti questi fatti costituiscono, dunque, delle specie di suicidi embrionali e, se non è un buon metodo confonderli col suicidio completo e sviluppato, non bisogna comunque perder di vista i rapporti di affinità che hanno con quest’ultimo. Perché ci appare sotto tutt’altro aspetto una volta che lo si sia riconosciuto strettamente collegato agli atti di coraggio e di abnegazione da un lato, e agli atti di imprudenza e di semplice negligenza, dall’altro». È. Durkheim 1987 [2003], Il suicidio. Studio di sociologia, Rizzoli, Milano. 8.  Come indica Timmermans, esiste una sorta di regola della prossimità per cui più

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riuscire con maggior successo a classificare diversamente il tipo di morte (distorcendo i tassi di suicidio ufficiali)9; così come, per via del carattere ambiguo del concetto, una maggiore equivocità dell’intero processo definizione può derivare da differenze esistenti di ordine legale, amministrativo e procedurale nei diversi contesti; le diverse professionalità coinvolte, la loro autorità scientifica, la loro formazione e il loro eventuale ruolo politico complicano la questione perché rendono ancora più evidente quanto il suicidio sia un prodotto organizzato di burocrazie professionali che vi attribuiscono le proprie definizioni e significati, divenendo per esempio il campo di battaglia definizionale tra coroners e patologi forensi, intenti a individuare intenti suicidari postumi ed evidenze di morte auto-inflitta (attraverso i risultati di una eventuale autopsia, testimonianze, esami tossicologici o per via dell’analisi della scena del delitto) e di intenzionalità (ancora più problematica come dimensione, dedotta da prove “implicite”, messaggi di addio, tentativi di suicidio precedenti falliti, eventuale presenza di malattia mentale) e impegnati in continue triangolazioni di dati di fonti diverse (Timmermans 2006). Recuperando in termini weberiani e fenomenologici il «senso», le riflessioni di Jack D. Douglas, attraverso lo studio di diari, note e testimonianze, ci permettono di comprendere che il suicido è una costruzione sociale, prodotta in primo luogo da chi lo commette: un esempio di significazione differita utilizzata da chi compie questa condotta dal profondo valore comunicativo in grado di fornire (restituire) significati alle azioni. Se il mondo sociale è da considerarsi come risultato di un’esperienza soggettiva che gli individui contribuiscono a produrre quotidianamente, per comprendere le condotte suicidarie bisogna considerare come queste siano definite da soggetti significativi (come la polizia, i medici legali, altre figure esperte, etc.) e che tipo di significati il suicida costruisca attraverso si è vicini e maggiore è l’intimità con il deceduto minori le probabilità che lo si consideri un suicida (Timmermans 2005, pp. 327-328). Vd. anche B. Carpenter – G. Tait – G. Adkins – M. Barnes – C. Naylor – N. Begun 2011, Communicating with the coroner, in «Death Studies», 35, pp. 316-337. 9. Vd. J. D. Douglas, L’analisi sociologica dei significati sociali del suicidio, infra.

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le proprie azioni. Per arrivare ad un’analisi comprendente delle condotte suicidarie, lo studioso e la studiosa devono essere in grado di avvicinarsi quanto più possibile ai mondi sociali coinvolti, attraverso la raccolta di informazioni per mezzo di interviste a sopravvissuti, di studio di casi, di analisi dei documenti (come i diari personali o i messaggi eventualmente lasciati prima di porre fine alla propria vita). L’azione solitaria del suicida mostra come atti solitamente attribuiti a caratteristiche individuali siano, al contrario, significati appresi («questa vita non è più degna di essere vissuta» oppure «non ce la faccio più» sono significati che apprendiamo ad attribuire all’interno dei nostri gruppi di riferimento) e proiettati sulla scena sociale, probabilmente con l’intento di poter biasimare chi non si è riuscito a biasimare in vita. Lo studio presenta una tipologia fondata sui significati consegnati e proiettati dai suicidi: per alcuni il suicidio, infatti, può diventare un mezzo per trasformare il proprio sé (come forma di rimorso e pentimento, per esempio, nel caso in cui il suicida abbia causato la morte di qualcun altro mentre guidava ubriaco); oppure può assumere la funzione di fuga e di evasione dal mondo (per abbandonare una vita miserabile oppure, nel caso dei suicidi di massa che hanno colpito alcuni gruppi religiosi, per abbandonare il mondo); può diventare un mezzo per vendicarsi e per biasimare gli altri (per rendere colpevoli soggetti che il suicida considera responsabili del suo malessere o delle sue sfortune) oppure per ottenere solidarietà e comprensione (attraverso cui il soggetto spera di attirare l’attenzione altrui e di essere «scoperto in tempo»). L’analisi delle condotte suicidarie così come compiuta da Douglas ci permette di comprendere che, in qualche modo, il suicida consegna agli altri (i sopravvissuti, eventuali testimoni, esperti che analizzano il caso) una possibilità di negoziazione differita delle norme e dei significati morali; come afferma Douglas, quanto maggiore è il livello di integrazione del deceduto con la propria comunità e con gli attori istituzionali, tanto più i vari attori ufficiali deputati a decidere le cause di morte (medici, polizia, esperti, etc.) saranno influenzati in modo favorevole, sia a livello conscio che inconscio, dalle preferenze del suicida, dalle aspettative dei suoi cari e dei suoi altri significativi (Douglas 1967, pp. 201-213). 35 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Il saggio “fenomenologico” di Jerry Jacobs rientra anch’esso tra i primissimi tentativi di superamento del modello durkheimiano di studio sociologico del suicidio. Apparso nel 1967 nella rivista Social Problems – all’epoca diretta da Howard Becker, uno dei nomi di punta dell’interazionismo simbolico nonché tra i principali leader del programma antipositivista della sociologia americana – e dunque in contemporanea con i saggi etnometodologici di Harold Garfinkel e Harvey Sacks qui pubblicati, il lavoro di Jacobs si fa apprezzare per il suo genuino tentativo di proporre un modo di fare ricerca sul suicidio orientato alla ricerca dei significati proiettati attraverso la condotta suicidaria da parte dei soggetti e, dunque, totalmente alternativo a quello durkheimiano. Sociologo umanista e strenue sostenitore dei metodi qualitativi10, ha insegnato sociologia presso la Syracuse University di New York, dove si è occupato di varie tematiche attinenti lo studio delle condotte devianti, di metodologia qualitativa applicata allo studio della devianza (Jacobs 1974) , di analisi della condizione anziana e del ritardo mentale tra i bambini, ed è autore altresì di due volumi specificamente dedicati al suicidio (Jacobs 1971, 1982). Nel saggio tradotto nel presente volume, Jacobs non fa cenno alla tipologia classica di Durkheim – suicidio anomico, egoistico, altruistico – che in sociologia era ormai considerata alla stregua di una classificazione «naturale». La base empirica della sua ricerca non è più costituita dai dati statistici ufficiali, che, come abbiamo precedentemente indicato, da Durkheim in poi erano stati usati in guisa di mera configurazione reale del fenomeno sociale del suicidio. Al loro posto, Jacobs fa spazio all’imperativo centrale della sociologia costruzionista: quello di dare la parola agli attori, i veri soggetti in grado di conoscere i fenomeni sociali di cui sono protagonisti, attraverso le razionalizzazioni desunte dai messaggi d’addio. La ricerca di Jacobs riporta così al centro dell’attenzione l’individuo e le sue sofferenze. Sul tema della sofferenza, il ragionamento polemico 10.  È coautore di uno dei primi manuali complessivi di sociologia qualitativa, che è anche l’unica opera tradotta sinora in lingua italiana. Vd. H. Schwartz – J. Jacobs 1987, Sociologia qualitativa. Un metodo nella follia, Il Mulino, Bologna.

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durkheimiano è sempre stato considerato stringente ma, fa notare Jacobs, è tale solo in apparenza. Per Durkheim, le condizioni individuali di sofferenza non giocherebbero nessun ruolo nel suicidio perché, a suo avviso, alcune persone sopportano le più indicibili sofferenze mentre altre si uccidono per molto poco, per cui, concludeva, dire che la sofferenza individuale sia responsabile del suicidio sarebbe solo senso comune. Su questo punto Jacobs è categorico: come fa Durkheim a sapere queste cose visto che non ha mai studiato approfonditamente nessun caso individuale? Se si raccoglie anche solo qualche breve informazione sui casi individuali non ci si può non accorgere che le cose stanno diversamente: i messaggi di addio considerati da Jacobs appaiono più che eloquenti dimostrazioni del ruolo giocato dalla sofferenza nel suicidio, e ciò dovrebbe suggerire che sono invece le osservazioni di Durkheim a costituire uno stereotipo indimostrato. In cerca di un’ipotesi esplicativa che fosse consistente con il vissuto che traspare nei messaggi d’addio invece di negarlo o trascenderlo come fa la teoria durkheimiana, Jacobs prova ad adattare al tema del suicidio l’ipotesi del tradimento della fiducia elaborata dal grande classico della criminologia americana, Donald Cressey. Se Cressey si occupava della fiducia nel mondo degli affari finanziari (Cressey 1951) , Jacobs prova a riconsiderarla nel quadro della vita in generale, e quindi in termini di fiducia esistenziale, la fiducia del rispetto del sacro bene della vita. Il suicidio diventa allora una sorta di potenziale tradimento di questa fiducia esistenziale – «del vincolo sociale del sacro bene della vita» – tradimento che, come quello in ambito finanziario, viene giustificato dall’attore appellandosi a vicissitudini personali insuperabili altrimenti. Jacobs evidenzia come la maggior parte dei messaggi d’addio da lui esaminati riporta i ragionamenti serrati con cui il suicida prova proprio a dimostrare di non aver tradito la fiducia nel sacro bene della vita nonostante compia l’atto del suicidio: insiste a dire che è stato costretto a farlo, che non aveva altra scelta, che la sofferenza era insopportabile, etc. L’autore prova che razionalizzazioni e le giustificazioni utilizzate dai suicidi siano utilizzate in vista di una potenziale stigmatizzazione del sé come «traditore della 37 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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fiducia» e, pertanto, come fulcro principale della preoccupazione degli effetti della reazione altrui sull’integrità dell’immagine del sé del suicida, per tali motivi il saggio presenta un repertorio tipologico delle forme di neutralizzazione degli stigmi potenziali da intendersi come tentativi di rimpiazzare un’identità screditata (come quella di suicida) attraverso strategie narrative di destigmatizzazione differita. L’approccio metodologico di Jacobs basato principalmente sull’analisi di storie di vita di suicidi, dei loro diari e dei messaggi di addio propone una sorta di approccio morfologico allo studio delle condotte suicidarie a differenza degli approcci durkheimiani orientati verso la ricerca del comun denominatore dei suicidi (Jacobs 1971). Nei suoi lavori più maturi sul tema, come in The moral justification of suicide (Jacobs 1982), presterà maggior attenzione metodologica allo studio degli «accounts» come risorse utilizzate dai suicidi per rendere plausibili e giustificabili le proprie condotte che non descrivono meramente l’azione o forniscono semplici “ragioni”, ma nell’intento di recuperare delle nuove ragioni che medieranno in differita la loro azione, come razionalizzazioni in grado di funzionare come una nuova azione sociale (Burke 1935 [1965]). Si tratta probabilmente di una delle più interessanti analisi sociologiche in cui si evidenzia quanto gli individui si dimostrino creativi – e persino strategici nel modo di utilizzare le risorse giustificative a diposizione per imporre le proprie linee di condotta e posporre o neutralizzare il giudizio – fornendo significati anche rispetto a elaborazioni di linee di azione tragiche, come il suicidio, all’interno di un’esistenza alienante e priva di senso, assurda (Lyman – Scott 1970). I messaggi di addio possono pertanto essere interpretati come modalità che lo stesso sé produce per giustificar-si (self accounts) con effetti anche drammaturgici di gestione differita delle impressioni. A differenza dell’impostazione durkheimiana, Jacobs sostiene, per esempio, che il sucida utilizzi la religione per costruire giustificazioni morali della propria azione come necessario passaggio trascendentale di purificazione o di espiazione e l’interiorizzazione di un credo religioso, dunque, a differenza delle posizioni classiche che la indicano come segno di integrazione sociale, può ritrovarsi persino a 38 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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incoraggiare le condotte suicidarie (Jacobs 1982, pp. 43-66); individua altresì come l’ideazione suicidaria possa essere utilizzata non soltanto per “promuovere l’azione fatale” ma anche per prolungare la vita, oppure, ancora, come nel caso del suicidio adolescenziale, la scelta di morire non si basi sul mero desiderio di «farla finita», non si tratta di una scelta, essa è piuttosto risultante da fallimenti progressivi nelle capacità di adattamento e di fronteggiamento con i problemi della vita, dove il problema è il mantenimento di relazioni sociali significative (Jacobs ivi, p. 124). Nonostante le nuove impostazioni metodologiche che smarcano l’analisi da interpretazioni psichiatriche o psicopatologiche secondo cui traumi infantili, delusioni amorose, depressioni, irrazionalità o famiglie disastrate predisporrebbero a tentativi di suicidio, il lavoro di Jacobs è ancora legato all’idea, tipica della tradizione positivista, che studiare il suicidio significa essenzialmente scoprirne le cause. In questo senso, la sua analisi dei processi decisionali del suicida si rivela ambigua. Il sociologo sembra assumere i motivi come molle dell’azione, insomma si fa guidare dall’idea dei motivi (ad esempio la sofferenza) come antecedenti causali del suicidio, per cui il suicidio è semplicemente l’atto (o l’effetto) che segue il motivo. Così facendo Jacobs non solo riduce il suicidio esclusivamente all’esito di un processo decisionale solipsistico, ma anche non coglie il fatto che proprio il messaggio d’addio rende palese che il motivo è ciò che costituisce il suicidio come un’azione sociale. I messaggi di addio intesi come account presuppongono parlanti e pubblici identificabili: quando utilizziamo delle spiegazioni generiamo delle aspettative di ruolo oppure ci adeguiamo a dei ruoli; inseriamo noi stessi e gli altri all’interno di account specifici, quelli necessari all’identità conferita o assunta almeno per il periodo in cui offriamo la spiegazione. Ogni account, allora, comprende negoziazioni identitarie sottostanti (Lyman – Scott 1970, p. 136). All’interno delle nostre trasformazioni identitarie, sia volontarie che coercitive, possiamo ritrovarci ad offrire spiegazioni rispetto al nuovo ruolo assunto (quello del suicida, il traditore del sacro bene della vita) e ai motivi per i quali abbiamo abbandonato quelli convenzionali. La riflessione sugli account ci permette di comprendere che il successo o gli insuccessi, a partire dal 39 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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loro utilizzo, dipendono dalle «background expectancies» (Garfinkel 1964), ossia da schemi interpretativi che ci permettono di definire quali comportamenti siano più appropriati all’ordine sociale implicito in ogni attività quotidiana ordinaria: impariamo nei vari processi di socializzazione quali situazioni prevedano più di altre l’utilizzo di account, che tipo di account fornire, quali sono le condizioni che portano a rifiutarne alcuni o riconoscerne altri. In qualche modo, anche i suicidi – come chiunque altri – hanno imparato ciò che i propri cari o un pubblico generalizzato potrebbero voler sentirsi dire; questi racconti differiti svolgono una funzione di lavoro identitario proiettivo per mediare o mitigare la stigmatizzazione, mettere al riparo il sé. Alcune storie sono tipizzate e presentano elementi comuni. Infatti, pur all’interno di differenze individuali, le narrazioni presentano strutture narrative e retoriche simili dipendenti dal modo in cui i soggetti definiscono il proprio sé, le proprie azioni ed esperienze all’interno di discorsi collettivi. Uno degli effetti principali insito nell’uso di storie è che rappresentano sia la spiegazione del processo di ruolo che il soggetto vive sia la sua ricostruzione biografica (o un serie di conversioni biografiche ai nuovi ruoli). Le analisi successive hanno tuttavia riconosciuto al lavoro fenomenologico il tentativo di allontanarsi da una riflessione meramente psicodinamica e il contributo offerto per lo studio dei messaggi di addio come strumenti per presentare il proprio sé (Yang – Lester 2011). Se da una parte, gli studi di orientamento psicologico hanno continuato a sostenere che il suicida mette in atto una sorta di “fallacia psicosemantica” (Shneidman – Farberow 1957), ossia confonde il sé cosi come esperito da sé stesso con il sé come esperito dagli altri, dall’altra le ricerche contemporanee non trascurano il fatto che i messaggi siano da intendersi come dichiarazioni pubbliche, consegnate a un pubblico specifico o anche a un audience generalizzata e non li si possa trattare come documenti meramente personali, ma piuttosto come atti sociali (Etkind 1997 cit. in Yang – Lester 2011, p. 77). Per tali ragioni, la stessa scelta di scrivere un messaggio di addio significa cercare di riconciliare l’immagine di sé come una persona di cui fidarsi (un soggetto plausibile, dunque), con l’interno 40 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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di apparire come soggetto tuttavia ragionevole, «normale», che sta per assumere una decisione specifica, preoccupandosi della reazione altrui sebbene non possa esservi presente. Del resto, i «video di addio» (Lester – Yang – Lindsay 2004) diffusi sul web da parte di terroristi suicidi (o i messaggi dei kamikaze; vd. Orbell – Morikawa 2011) – solitamente girati o scritti alla presenza di altri membri e visionati da questi ultimi – anziché essere considerati come accessi alle dimensioni più profonde (e insondabili) degli esseri umani sono forme di presentazione del sé (Yang – Lester ivi, p. 76). Guardando inoltre alla costruzione sociale delle emozioni, le suicide notes possono essere considerate atti comunicativi utilizzati per gestire il senso di colpa del suicida (così come quello dei destinatari del messaggio), in grado di fornire significati socialmente condivisibili (nel caso in cui i suicidi siano più o meno giustificabili, come nel caso di malattie croniche) e interpretandoli rispetto alle identità e agli status sociali coinvolti (McClelland – Reicher – Booth 2000; Henslin 1970). All’impostazione fenomenologico-esistenzialista si deve riconoscere l’attenzione attribuita alla “volontà” del soggetto, la contingenza e l’imprevedibilità degli attori e delle azioni criminali, aspetti confluiti, soprattutto nell’analisi svolta presso il campus di San Diego dell’Università della California, all’interno dell’insieme di teorie che compongono la criminologia esistenzialista (Lippens – Crewe 2009). La critica fenomenologica si concentra soprattutto sulla necessità di modificare gli approcci metodologici al fine di sollecitare un’analisi dettagliata dei significati morali che tutti i soggetti coinvolti attribuiscono alle «etichette» (e non soltanto dei soggetti preposti formalmente al controllo sociale), che si tratti di chi viene etichettato, di chi etichetta e delle audiences sociali (Douglas – Scott 1972). I fenomenologi si interessano, soprattutto, a comprendere in che modo gli attori sociali costruiscono ordini morali situati e contestuali, in che modo inoltre ne tengano conto e che cosa prendono in considerazione; inoltre, i fenomenologi suggeriscono di sviluppare categorie alternative a quelle fornite dagli attori del controllo sociale, soprattutto quando il ricercatore e la ricercatrice si ritrovano, come suggeriscono Warren e Johnson, a situare la devianza in aree tradizionali e rischiano di 41 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

utilizzare la prospettiva degli attori formali definendo come deviante o criminale quanto gli attori del controllo sociale percepiscono come deviante e criminale (Warren – Johnson 1972, p.81).

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3. La reazione sociale al suicidio: l’integrazione di labeling ed etnometodologia Il tema dell’analisi della categorizzazione sociale dei suicidi e delle «morti improvvise» assume dal punto di vista teorico, soprattutto nella sua versione europea, particolare rilevanza per ciò che concerne la combinazione sia di aspetti analitico concettuali dell’interazionismo simbolico (nella sua versione labeling) sia di elementi tratti dall’analisi etnometodologica. Queste convergenze possono essere rintracciate nel lavoro di L. Maxwell Atkinson. Dopo aver conseguito il proprio PhD in sociologia presso l’Università dell’Essex, Atkinson insegna sociologia presso le Università di Lancaster (1969-1972) e di Manchester (1972-1975), diviene Senior Research Fellow del Centre for Socio-Legal Studies e del Wolfon College dell’Università di Oxford e dagli studi socio-giuridici e l’analisi della conversazione vira nell’ultima parte della sua carriera verso interessi legati più prettamente alla comunicazione pubblica11. La prospettiva del labeling viene introdotta nel contesto britannico all’interno della “nuova teoria della devianza” che si sviluppa a partire dalla National Deviancy Conference (1968), i cui sostenitori rielaborano, in versione critica, una teoria dell’etichettamento che si tinge di tensioni marxiane (Taylor – Walton – Young 1973 [1975]) e che verrà ulteriormente elaborata durante gli anni settanta alla luce della sintesi che Stuart Hall – e gli altri affiliati al Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) dell’Università di Birmingham (Rinaldi – Benvenga 2020) – fornirà degli studi fenomenologici, etnometodologici, interazionisti e della teoria gramsciana. L’Oxford Centre for Socio-Legal Studies si situerà come principale contesto in cui, proprio studiosi come Atkinson (insieme con Robert Dingwell e Paul Drew), 11.  Vd. Blog dello studioso: https://speaking.co.uk/

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intesseranno confronti fruttuosi tra le varie prospettive e produrranno rilevanti lavori di interesse socio-giuridico12. Come hanno dimostrato gli etnometodologi (Garfinkel 1967b; Sudnow 1967), anche una categoria «naturale» come quella del morire non appartiene al mondo prettamente biologico, ma viene costituita dalla serie di pratiche messe in atto da professionisti e figure esperte (medici legali, infermieri, etc.) all’interno di visioni professionali, ambiti di indagine e attività specifiche. È quanto, per esempio, rileva Atkinson nel suo studio sulla costruzione della categoria «suicidio» ad opera dei coroners (Atkinson 1978), di cui il saggio riprodotto nel presente volume presenta le tesi principali. Atkinson, in realtà, inizia il proprio lavoro assumendo una postura specificamente positivista, dal momento che era interessato alla questione dell’accuratezza delle statistiche e focalizzando in seguito l’interesse principale sulla costruzione sociale del fenomeno; i punti di riferimento, come esplicitato dallo stesso studioso, sono i classici dell’etichettamento attenti alla dimensione della risposta sociale (tra cui Edwin M. Lemert e Howard S. Becker), il lavoro di Jack D. Douglas sulla problematicità dei significati del suicidio e la critica di ispirazione etnometodologica nei confronti delle statistiche ufficiali (in particolare Kitsuse e Cicourel, Cicourel e Sudnow) (Atkinson ivi, pp. 3-8). Atkinson analizza le diverse inchieste sulle condotte suicidarie, frequenta medici legali e compie anche periodi di osservazione etnografica nei loro studi, circostanze che gli permettono di tener conto di una serie di fattori che i coroners utilizzano quando devono categorizzare una morte come suicidio (se esistono note scritte dai suicidi, le modalità di morti, i luoghi e le circostanze della morte, la biografia del deceduto, etc.). Come indicato nel saggio tradotto, Atkinson evidenzia che le due principali problematicità metodologiche che investono la ricerca sul suicidio concernono l’accuratezza delle statistiche ufficiali e la validità degli stessi dati 12.  Tra questi il primo lavoro di analisi della conversazione condotto in tribunale; vd. J. M. Atkinson – P. Drew 1983, Order in Court: the organization of verbal interaction in courtroom settings, Macmillan, London.

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a scopo di indagine; soprattutto questo secondo punto – a partire dalle intuizioni di Jack D. Douglas – indica la problematicità di attribuire significati a un fenomeno, come quello del suicidio, altamente problematico e pluridimensionale, dal momento che i dati sono per loro natura altamente variabili tra le diverse società, perché ciascuna di esse – e al loro interno i diversi gruppi che le compongono – «etichettano» con il termine suicidio una serie di condotte che non possono essere ridotte a significati univoci (morti impreviste? Morti accidentali? Morti per errore o distrazione a seguito di dosi eccessive si farmaci? Le morti per annegamento permettono che le autorità individuino l’intenzione del suicida? E quei suicidi malati terminali morti per cause naturali?), pena l’errore logico di classificare tipologie diverse all’interno di un’unica categoria statica. Anche per Atkinson, pertanto, non si tratta semplicemente di individuare come soluzione il miglioramento dell’accuratezza statistica, bensì di problematizzare la definizione di suicidio come realtà assoluta e data per scontata. Per l’autore lo studio dei processi di registrazione dei decessi da parte dei coroner non soltanto permette di comprendere le modalità attraverso le quali gli attori formali costituiscono la realtà del suicidio, ma consente altresì di comprendere le reazioni sociali alle varie forme di morte. I coroner, infatti, si ritrovano a risolvere una serie di ambiguità definizionali derivanti dalle diverse fonti di informazione che arrivano alla loro attenzione – le definizioni legali di suicidio, le procedure formali a cui devono attenersi e le loro conoscenze ordinarie – e per mezzo delle quali devono elaborare una definizione ufficiale sulla base dell’analisi di casi concreti. In primo luogo, il coroner deve «risolvere» le ambiguità derivanti dalle definizioni giuridiche e dalle categorizzazioni normative relative a morte «violenta» o «innaturale» oppure «improvvisa, dalle cause sconosciute» o che si verifica in contesti e luoghi specifici (come le abitazioni private, le strade, le stazioni o le carceri). Pertanto il lavoro di categorizzazione del medico (definizione «operativa») parte da una serie di definizioni dipendenti dalle interazioni costanti tra gruppi professionali diversificati (avvocati, poliziotti, altre figure esperte, etc.); tuttavia i risultati delle perizie mediche dipendono dalla distinzione che il medico legale com44 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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pie tra «morte improvvisa» e «morte imprevista» e, inoltre, si procederà all’inchiesta a seconda di un’ulteriore differenziazione operata da questi tra morte «naturale» e «innaturale». Pertanto, perché una morte sia categorizzata come suicidio, essa deve essere reputata «improvvisa» e, in secondo luogo, «innaturale» (Atkinson infra; ma anche Atkinson 1978, pp. 95, 99). Inoltre, a seconda della categorizzazione utilizzata, potrebbero essere necessari ulteriori informazioni o prove oppure alcune potrebbero suggerire una valutazione ancora più approfondita del caso. Infatti, per esempio, rispetto a una morte causata da un incidente in automobile, non sembra necessario raccogliere informazioni sulla biografia, sulle caratteristiche e sulle condizioni socio-economiche dei membri dell’eventuale famiglia deceduta; ma se si dovesse trattare di un caso di impiccagione potrebbe essere percepito come necessario, al fine di categorizzare formalmente la morte, raccogliere informazioni maggiori sull’individuo. Nel processo di elaborazione di «teorie specifiche» che siano in grado di spiegare «morti improvvise» non soltanto assistiamo alla traduzione della questione dal linguaggio legale a quello medico (con tutti i limiti di questa «traduzione») – una sorta di operazionalizzazione della definizione formale di suicidio – ma, nel caso di tutta quella serie di «morti equivoche» (che si situano tra i due estremi delle morti tipicamente accidentali e quelle tipicamente suicide), ritroviamo il coroner intento nell’interpretazione dei potenziali indicatori di «intenti suicidari» (che si tratti dei messaggi di addio, dei luoghi e delle circostanze del decesso o delle caratteristiche relazioni dei soggetti). Con l’eccezione dei messaggi di addio, tutti i possibili indicatori hanno un valore meramente implicito per ciò che riguarda la dimensione dell’intenzionalità del suicida; per tali motivi il coroner si ritrova a interpretare le informazioni rinvenibili nelle cartelle dei casi (contenenti gli eventi più rilevanti della vita del suicida) e, in qualità di «specialista dell’imputazione» (Lofland 1969), nel momento in cui reagisce nei confronti di un caso considerandolo come suicidio opera, al contempo, una ricostruzione del carattere morale dell’individuo, scandagliandone la biografia sino a ritrovarvi quei frammenti biografici che saranno utilizzati per assimilare la persona alla categoria (Goffman 45 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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2003, p. 79) del suicida tipico. Questa forma di interpretazione retrospettiva (Kitsuse 1962 [1983]) è utilizzata dagli attori del controllo formale per validare le proprie «diagnosi» o per spiegare la condotta sotto esame in modo da trasformare i soggetti (il deceduto) in oggetti conformi alle aspettative organizzative (il suicida) ed elaborare le eventuali azioni future. I coroner arrivano, pertanto, a un verdetto sulla base di fonti differenziate, all’interno delle quali svolgono un ruolo rilevante anche le loro opinioni personali, generando le prove necessarie rispetto a quanto viene considerato comunemente un suicidio tipico, definendo alcuni tipi di morti come suicidi, alcune situazioni come quelle tipicamente in cui le persone commettono suicidio, così come quel genere di persone che tipicamente commettono suicidio (Atkinson 1978, p. 144). È chiaro che il tipo di morte indicato porterà a interpretare e ricostruire le caratteristiche del soggetto come tipicamente suicide (soprattutto perché alcuni tipi di indicatori – genitori separati, malattia mentale, perdita continua di lavoro, mancanza di legami significativi, etc. – rendono più «plausibile» il verdetto di suicidio) all’interno di modelli esplicativi coerenti al tipo di decesso. In un certo senso i coroner diventano imprenditori morali perché arrivano a condividere le definizioni comunemente diffuse di suicidio, sono in grado di confermarle e di introdurne delle nuove in termini pubblici, influenzando il pubblico generale ma anche il mondo della ricerca; i diversi attori sociali coinvolti – coroner, suicidi stessi, ricercatori, media, pubblica opinione, etc. – creano dunque delle arene definizionali del suicidio in cui le «le definizioni di ognuno di questi soggetti avrà un effetto diretto o indiretto delle definizioni di tutti gli altri» (Atkinson infra). Può dunque verificarsi il caso in cui alcuni soggetti siano definiti come maggiormente propensi alle condotte suicidarie: pertanto – pur disponendo di statistiche che proverebbero il contrario (Atkinson 1969)13 – se si condivide l’idea che la categoria degli studenti sia propensa alle con13.  J. M. Atkinson 1969, Suicide and the student, University Quarterly, 23, pp. 213224.

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dotte suicidarie (se si definiscono situazioni, soggetti e cose in un certo modo; Thomas 1923 [1971]), i coroner tenteranno di confermare la tesi suicidaria qualora morisse uno studente, gli accademici faranno ricerca sul tema, media e letteratura scientifica contribuiranno a confermare e attestare l’equazione «studenti = categoria a rischio suicidario» e quanto più questa definizione sarà diffusa tanto più è probabile che persino gli studenti arrivino a condividerla, considerando il suicidio come una soluzione da percorrere (Atkinson 1969). Pur essendo critici nei confronti di un eventuale applicazione deterministica della profezia che si auto-adempie, crediamo che lo sviluppo di definizioni egemoni possano assumere il valore di account motivazionali generalizzati (Ben-Yehuda 1990, p. 23) da cui il suicida – come chiunque altri rispetto a qualunque evento – ha imparato cosa significhi essere un suicida, quali siano i motivi per cui esserlo, come giungere alla decisione di togliersi la propria vita. La dimensione allarmista e il panico morale scatenati dalla più recente ansia sociale rispetto alla dimensione giovanile determinano che gli studenti possano considerare la pratica suicidaria come azione peculiare del proprio gruppo sociale, che in qualche modo alcuni soggetti possano essere portati a un certo tipo di condotta soprattutto se gli altri si aspettano che compiano un’azione simile14 e, conclude Atkinson, che sia necessario comprendere le minacce legate alla definizione pubblica di gruppi particolari come categorie a rischio (Atkinson 1969, p. 223). Le influenze delle prospettive costruzioniste, e in particolare fenomenologiche ed etnometodologiche, sono particolarmente rilevanti anche nel lavoro di James L. Wilkins. Il Centre of Criminology (oggi Centre for Criminology & Sociolegal Studies) dell’Università di Toronto si caratterizzava come centro interdisciplinare particolarmente attento alle nuove prospettive costruzioniste emergenti, in cui “Jim” Wilkins è stato mentore di una serie di studiosi15, tra cui Michael E. Lynch nei suoi primi studi 14.  Atkinson cita a riguardo le condotte dei potenziali suicidi rispetto alle aspettative sociali citando A. L. Kobler – E. Scotland 1964, The end of hope, Free Press, New York. 15.  Il suo lavoro principale è rappresentato da J. L. Wilkins 1975, Legal aid in the criminal courts, University of Toronto Press, Toronto.

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etnometodologici applicati ai contesti giuridici (Lynch 1982). Anche il lavoro di Wilkins piuttosto che attenersi alla mera analisi dei dati aggregati pone l’attenzione sulle procedure e le valutazioni specifiche che li generano, guardando all’emergenza stessa delle categorie criminali. L’autore sostiene che la dichiarazione di un suicidio dipende dall’esito di dispute argomentative esistenti tra i diversi attori sociali esperti; la certificazione delle cause di morte sono, pertanto, il risultato di conflitti definizionali tra giudizi ufficiali e di altri esperti.

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Conclusioni Se da una parte la tradizione durkheimiana ha inteso individuare delle leggi generali e universali – al pari delle scienze naturali – che fanno della condotta suicidaria un “fatto”, di natura sui generis ma pur sempre dipendente in modo rilevante dalla società e dalla sua costituzione morale che incide profondamente sul comportamento individuale sino a fargli assumere esternamente espressioni auto-lesioniste; la riflessione fenomenologica ed etnometodologica, invece, non riconosce il suicido come fenomeno sociale prova del fallimento dell’ordine sociale, essa guarda al modo in cui attraverso la costruzione del suicidio si utilizzino spiegazioni “coerenti” tali da poter “ricostruire” il fenomeno del suicidio attestando e ristabilendo l’ordine sociale in termini plausibili. Il suicidio, come ogni altro fatto sociale, non è dato ma viene “scoperto”, certificato, stabilito, rilevato, diagnosticato a partire dai suoi “segni” che vengono interpretati alla luce di procedure professionalizzare «resocontabili». Pertanto le stesse procedure e le pratiche utilizzate per interpretare il fenomeno e stabilire “quanto successo” diventano in sé oggetto di problematizzazione. Il soggetto esperto interpellato – che si tratti del coroner, di un poliziotto o di altre figure – si ritrova a partire da “resti” (un messaggio di suicidio; una scena del “crimine”; i corpi sottoposti ad autopsia o in obitorio), ossia da segni, a raccontare e (ri)costruire storie plausibili rispetto a “quanto è accaduto”, deve in qualche modo “fare ordine”, imporre un ordine, in modo 48 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

che l’incertezza e il disordine non prevalgano sulla plausibilità, sulla ragionevolezza e sulla verosimiglianza di quanto è accaduto, sul come e sul perché si debba trattare di suicidio.

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Il ragionamento sociologico pratico: Centro per la prevenzione del suicidio di Los Angeles1

alcune caratteristiche del lavoro del

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Harold Garfinkel L’obiettivo di questo lavoro è di analizzare le pratiche di certificazione del Centro per la Prevenzione del Suicidio di Los Angeles (SPC) come occasione per riflettere sulle azioni pratiche e il ragionamento sociologico pratico. Lo scopo è di considerare come tema d’indagine sociologica le diverse proprietà di tali pratiche e ragionamenti. Questi fenomeni esibiscono specifiche caratteristiche che sono loro proprie per cui costituiscono di per sé un legittimo tema di indagine. Le pratiche di certificazione del SPC offrono dati che permettono di esaminare tali fenomeni. Il capitolo è organizzato nel seguente modo. L’agire pratico e il ragionamento sociologico pratico sono descritti nella prima parte, nelle sezioni dedicate: alle “situazioni di scelta di senso comune” che sono apprese in vario modo ma che si presentano ripetutamente nelle circostanze e nelle pratiche del SPC; alle singole caratteristiche delle pratiche di spiegazione del SPC; e ad alcune ambiguità strutturali di tali spiegazioni. Queste osservazioni sono poi assunte come contesto per la seconda parte nella quale sono formulate tre caratteristiche problematiche del ragionamento sociologico pratico.

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Il ragionamento sociologico pratico

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Elaborare resoconti nelle “situazioni di scelta di senso comune” Nel 1957 il Centro (SPC) e l’Ufficio del medico legale di Los Angeles unirono le forze per fornire ai certificati di morte forniti dal coroner la legittimazione di autorità scientifica “nei limiti delle certezze pratiche imposte dallo stato delle conoscenze”. L’Ufficio del medico legale affidava al SPC alcuni casi di “morte improvvisa e innaturale”, che presentavano alcune ambiguità rispetto al fatto se si trattasse di suicidio o di altri tipi di decesso, con la richiesta di svolgere un’indagine denominata “autopsia psicologica”2. Dopodiché la causa della morte veniva decisa attraverso consultazioni incrociate così come una specifica etichetta di decesso veniva iscritta nel certificato di morte. Le pratiche e le preoccupazioni con cui lo staff del SPC conduceva le indagini in situazione ordinarie si presentavano con le medesime caratteristiche delle pratiche d’indagine che si erano incontrate in altre situazioni, come le deliberazioni delle giurie nei casi di reati colposi; le procedure con cui il personale clinico selezionava i pazienti per le cure psichiatriche ambulatoriali; il lavoro degli studenti avanzati di sociologia che codificavano i contenuti delle cartella cliniche seguendo dettagliate istruzioni di codifica e tante altre innumerevoli procedure professionali 2.  I seguenti riferimenti bibliografici contengono relazioni relative a procedure di autopsia psicologica sviluppate presso il Centro per la prevenzione del suicidio di Los Angeles: T. J. Curphey 1967, The forensic pathologist and the multidisciplinary approach to death, in E. Shneidman, Essays in self-destruction, Science House Inc., New York, pp. 463-475; T. J. Curphey1961, The role of social scientist in the medicolegal certification of death from suicide, in N. Farberow, E. Shneidman (a cura di), The cry for help, McGraw-Hill, New York; E. Shneidman, N. Farberow 1961, Sample investigations of equivocal suicidal deaths, in N. Farberow, E. Shneidman (a cura di), The cry for help, McGraw-Hill, New York; R. Litman, T. J. Curphey., E. Shneidman, N. Farberow, N. Tabachnick 1963, Investigation in equivocal suicides, «Journal of the American Medical Association», 184, pp. 924-929; E. Shneidman 1963, Orientation toward death: a vital aspect of the study of lives, in R. White (a cura di), The study of lifes, Atherton Press, New York.

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che sono proprie delle indagini antropologiche, linguistiche, psichiatriche e sociologiche3. Il personale del centro riconosceva, con estrema franchezza, come condizioni dominanti del proprio lavoro e come questioni da considerare attentamente quando si trattava di stabilire l’efficacia, l’efficienza o l’intellegibilità di esso – e le testimonianza del SPC si aggiungeva a quella dei giurati, dei ricercatori e di tutti gli altri – le seguenti caratteristiche relative alla attività del Centro: (1) c’era un pressante interesse da parte di tutti per la concertazione temporale delle attività; (2) c’era un interesse per la questione pratica par excellence: “Cosa fare adesso?”; (3) il ricercatore era costantemente preoccupato di dare prova della sua conoscenza di “ciò che tutti sanno” rispetto alle caratteristiche della situazione in cui deve svolgere le sue indagini lavorative, e a fare così per ogni effettiva occasione in cui le decisioni erano l’esito delle sue scelte; 4) le questioni che a livello discorsivo erano etichettate come “programmi di produzione”, “norme di condotta”, “regole per una decisione razionale”, “cause”, “condizioni”, “ipotesi verificate”, “modelli”, e “regole di inferenza induttiva e deduttiva” nelle situazioni concrete erano date per scontate come consistenti in ricette, modi di dire, slogan e parzialmente formulate come piani di azioni; 5) a chi conduceva le indagini erano richieste conoscenze e capacità nel trattare situazioni “di quel tipo” cui le “regole per una decisione razionale” etc. erano rivolte in modo da “vedere” o, per come lo intendevano, per assicurare la natura oggettiva, effettiva, consistente, completa ed empiricamente adeguata delle ricette, modi di dire, previsioni, e descrizioni relative all’effettivo uso delle regole; 6) per chi doveva prendere decisioni pratiche, le situazioni concrete erano fenomeni di per sé e che esercitavano un’ampia preminenza, e la natura razionale delle regole o dei ragionamenti per prendere le decisioni ne era senza alcuna eccezione subordinata e non viceversa; infine, e forse ancor più importante, 7) tutte le caratteristiche precedenti, assieme al sistema delle alternative a disposizione degli investigatori, i loro metodi 3.  Riportati in H. Garfinkel 1967, Studies in ethnomethodology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, New Jersey.

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decisionali, le loro informazioni, le loro scelte e la razionalità delle loro spiegazioni e azioni erano parti costitutive delle stesse circostanze pratiche nelle quali tali investigatori svolgevano il loro lavoro d’indagine – una caratteristica che quest’ultimi, ogni qual volta volevano affermare l’utilità dei loro sforzi, riconoscevano, richiedevano, ci contavano, davano per scontata, usavano e definivano.

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Le pratiche di spiegazione nel SPC Per i membri del SPC, la conduzione di indagini era parte integrante del loro lavoro quotidiano. In quanto riconosciute dai membri dello staff come caratteristiche costitutive del loro lavoro quotidiano, le indagini erano allora intimamente connesse con le condizioni del loro utilizzo, con le varie catene interne ed esterne di reporting, supervisione e valutazione, e allo stesso modo con “priorità di rilevanza” fornite dall’organizzazione per la valutazione di che cosa “realisticamente”, “praticamente” o “ragionevolmente” dovesse o potesse essere fatto, nonché quanto velocemente, con quali risorse, vedendo quali persone, parlando di cosa, per quanto tempo e così via dicendo. Tali considerazioni fornivano al “abbiamo fatto quello che potevamo, e per qualsiasi ragionevole scopo ecco quello che abbiamo scoperto” le sue caratteristiche di senso organizzativamente appropriato, fatticità, impersonalità, anonimità dell’autore, finalità, riproducibilità – in altre parole, la spiegazione adeguatamente razionale dell’indagine. Riguardo alle loro capacità lavorative, allo staff era richiesto di formulare spiegazioni, per tutti gli scopi pratici, di come un decesso era veramente accaduto. “Veramente” faceva inevitabilmente riferimento a meccanismi quotidiani, ordinari e professionali. Solo ai membri era permesso di invocare tali meccanismi come ragioni adeguate a giustificare la ragionevole natura del risultato senza bisogno di fornire particolari. In occasione di contestazioni, i meccanismi ordinari professionali sarebbero stati citati “nella misura in cui fossero rilevanti”. Altrimenti, tali caratteristiche venivano 58 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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scorporate dal prodotto finale. Al loro posto, una spiegazione di come l’indagine era stata condotta rendeva il-modo-in-cui-era-stata-effettivamente-condotta appropriato alle abituali richieste, agli abituali risultati, alle normali pratiche, e all’abituale linguaggio con cui i membri del SPC parlavano, come professionisti bona fide, delle abituali domande, degli abituali risultati e delle abituali pratiche. Una, tra diverse etichette (collegate alle cause di morte), doveva essere assegnata a ciascun caso, essendo comunque anche legalmente possibile una combinazione delle quattro possibilità più semplici: morte naturale, incidente, suicidio e omicidio4. Tutte le etichette erano assegnate in modo da evitare equivoci, ambiguità e improvvisazione; tuttavia queste etichette erano anche assegnate in modo da invitare all’ambiguità, all’equivoco e all’improvvisazione. Faceva parte della natura del lavoro non solo che l’ambiguità fosse un problema – e forse lo è – ma anche che gli investigatori si riferissero alle circostanze del caso al fine di invitare all’ambiguità, all’equivoco, all’improvvisazione e così via. Non è che l’investigatore, disponendo di un elenco di etichette, conduca un’indagine che procede passo dopo passo a individuare alcune ragioni per sceglierne una. La formula non è “ecco cosa abbiamo fatto e tra le etichette a disposizione questa etichetta alla fine definisce nel migliore dei modi quello che abbiamo scoperto”. Invece le etichette erano continuamente posticipate o anticipate. L’indagine era congegnata in modo da essere fortemente guidata dai contesti immaginati dall’investigatore rispetto ai quali l’etichetta sarebbe potuta essere “applicata” da quello o quell’altro interessato, ivi compreso lo stesso deceduto; ciò era così al fine di decidere, usando qualsiasi “datum” potesse essere stato scoperto, che quel dato potesse essere usato per mascherare la situazione se ce ne fosse stato bisogno – o creare equivoci, commentare, persuadere, esemplificare e così via dicendo. La principale caratteristica dell’indagine è che niente di essa rimane fisso eccetto il 4.  Le possibili combinazioni includono: morte naturale, incidente, suicidio, omicidio, possibile incidente, possibile suicidio, possibile morte naturale, incidente-suicidio non accertato, morte naturale-suicidio non accertato, morte naturale-incidente non accertato e morte naturale-incidente-suicidio non accertato.

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suo essere predisposta alle occasioni del suo uso. Quindi una indagine di routine è quella in cui un investigatore impiega particolari sotterfugi (goblins) per condurre, riconoscere e sostenere l’adeguatezza pratica del suo lavoro. Dal punto di vista delle pratiche che la rendono possibile, una indagine di routine non consiste in qualcosa che è realizzata in base a delle regole. Sembra consistere in un’indagine che è apertamente riconosciuta come inferiore alle aspettative. Tuttavia, la sua adeguatezza è riconosciuta proprio nel suo essere inferiore e nessuno chiede spiegazione per le sue manchevolezze. [Interrogarsi su] che cosa i membri stiano facendo nelle loro indagini è sempre una faccenda di altri, nel senso che particolari persone, identificabili in termini organizzativi, acquisiscono un interesse per i risultati delle spiegazioni, elaborate dai membri del Centro, di qualsiasi cosa sia stata riportata [nell’indagine] come essere “veramente accaduta”. Tali considerazioni contribuiscono largamente a far percepire le indagini come processi guidati da un resoconto di cui si rivendica la correttezza per tutti gli scopi pratici. Quindi uno dei compiti dell’investigatore è di rendere un resoconto di come una specifica persona sia morta in modo che esso sia ragionevole per tutti gli scopi pratici. “Ciò che è veramente successo”, sia nel percorso che porta a stabilirlo, come anche dopo che esso sia stato inserito in un dossier e l’etichetta decisa, può essere rivisto continuamente come pure continuamente anticipato alla luce di che cosa potrebbe essere stato fatto o che si farà con quelle decisioni. Lungo la strada per prendere una decisione, ciò che potrebbe venire da quest’ultima potrebbe essere rivisto e previsto alla luce delle sue anticipabili conseguenze. Dopo che un parere è stato prodotto e il coroner ha firmato il certificato di morte, il risultato può ancora essere “riesaminato”, per usare un loro termine. Esso quindi consiste in una decisione che può aver bisogno di essere rivista “ancora una volta”. Gli investigatori volevano sicuramente arrivare a un resoconto di come una persona era morta, ma facendo in modo da permettere comunque al coroner e al suo staff di controbattere a possibili contestazioni di incompletezza del resoconto o che sostenevano che il decesso era avvenuto 60 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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in modo differente da – o in contrasto o in contraddizione con – quanto sostenuto dai membri che hanno condotto l’indagine. Il riferimento qui non è né in parte né interamente alle contestazioni dei sopravvissuti – anzi tali questioni sono considerate meri episodi, la maggior parte dei quali è risolta abbastanza velocemente. Le più significative contestazioni consistevano in perenni processi risultanti dal fatto che quello del coroner è un ufficio politico. Le sue attività producono continuamente documentazioni sulle sue attività; e tali documentazioni sono oggetto di revisioni in quanto prodotti del lavoro scientifico del coroner, del suo staff e dei suoi consulenti. Le attività d’ufficio sono tecniche per realizzare rapporti che sono scientifici per tutti gli scopi pratici, e implicano lo “scrivere” come procedura di legittimazione, poiché è proprio per il fatto di essere scritto che un rapporto diviene un dossier. Che l’investigatore “rediga” un rapporto implica che ha compiuto una registrazione pubblicamente disponibile, e cioè che può essere usata da qualsiasi persona. Gli interessi di quest’ultimi e relativi al perché, al come e al cosa l’investigatore ha fatto, chiameranno in causa le capacità e titoli professionali dell’investigatore. Tuttavia, gli investigatori sono consapevoli che altri interessi daranno forma alla “revisione”, perché le loro stesse attività saranno vagliate per esaminare la loro adeguatezza scientifica-a-tutti-gli-effetti-pratici come pareri socialmente elaborati da professionisti. Non solo per gli investigatori ma per tutte le parti in causa è rilevante “che cosa è stato veramente scoperto per tutti gli scopi pratici”, che consta necessariamente di quanto si possa scoprire, quanto si possa rivelare, quanto si possa nascondere, quanto si possa cancellare, e quanto possa essere considerato come niente. Tutti gli investigatori acquisiscono un interesse in ragione del fatto che, in forza di questioni di dovere professionale, essi stanno redigendo rapporti scritti, per tutti gli scopi pratici, di come una persona sia veramente morta e veramente morta nella società. Le decisioni implicano una conseguenza inevitabile. Con questo alludo al fatto che gli investigatori devono dire chiaro e tondo ciò che è veramente successo. Le parole importanti sono le etichette che sono assegnate a un testo per considerarlo come “spiegazione” di quella etichetta. Tuttavia in 61 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cosa una etichetta consista in quanto etichetta esplicativa è sempre, e per tutti, indefinibile in modo assoluto, perfino quando espresso con parole chiare. In effetti, il fatto che è espresso – quando, per esempio, un testo scritto è stato inserito in un dossier del caso – senza tanti giri di parole ciò fornisce ragioni affinché qualcuno possa fare qualcosa con le parole usate come resoconto del decesso. Viste rispetto ai modelli d’uso, le etichette e i testi che le accompagnano presentano una lista aperta di conseguenze. Riguardo all’uso dei testi, va visto cosa può essere fatto con loro, a quali conclusioni si può arrivare, cosa resta da fare “per il momento”, in considerazione dei modi in cui il contesto di quella decisione può riorganizzarsi per “riaprire il caso”, “avanzare una contestazione” o “trovare un problema” e così via dicendo. Per i membri del SPC, tali possibilità, in quando modelli, sono noti. Tuttavia, nel loro essere processi concreti, tali possibilità sono sempre indefinite in ogni occasione concreta. Le indagini del Centro iniziano con una morte sulle cui modalità il coroner esprime delle perplessità. Si usa il decesso come occasione per determinare le varie contingenze della vita sociale che si sono concluse con quella morte, e si interpretano i “resti” – quel o quell’altro brandello di oggetti, il corpo e i suoi ornamenti, bottiglie di medicinali, messaggi, vestiti, appunti – qualsiasi cosa possa essere fotografata, raccolta e impacchettata. Anche altri “resti” vengono raccolti: pettegolezzi, osservazioni veloci, storie – tutto materiale del “repertorio” di chiunque possa essere interrogato tramite scambio verbale. Questi frammenti “qualsiasi”, che acquistano senso all’interno di una storia, una regola o un modo di dire, sono impiegati per formulare un resoconto riconoscibile come coerente, tipico, uniforme, chiaro, in altre parole un resoconto sostenibile dal punto di vista professionale, e quindi riconoscibilmente ragionevole per i membri, di come la società sia riuscita a produrre quei “resti”. Questo punto risulterà chiaro al lettore consultando un normale manuale di patologia forense, in cui si imbatterà nell’inevitabile foto di una vittima con la gola tagliata. Quando il coroner usa quella “visione” per insinuare dubbi sulle modalità del decesso, potrebbe dire qualcosa come “nel caso in cui un corpo assomiglia a quello della foto, ci si trova di fronte alla morte 62 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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per suicidio perché la ferita mostra quei ‘tagli compiuti con esitazione’ che accompagnano una ferita mortale. Si può ipotizzare che questi tagli siano gli indizi di una procedura con cui la vittima ha compiuto inizialmente tentativi preliminari carichi di esitazione e poi ha realizzato il taglio mortale. Sono ipotizzabili anche altri corsi di azione in cui quei tagli che sembrano tagli da esitazione possono invece essere stati prodotti da altri meccanismi. È necessario partire con l’immagine concreta e ipotizzare come dovrebbero essere stati compiuti altri differenti corsi di azioni in modo che quella foto possa risultare compatibile con essi. Si dovrebbe pensare che la fotografia mostri la fase di un corso di azione. Rispetto a quanto mostrato da una foto concreta, c’è un corso di azione a cui solamente quella fase risulta compatibile? Questa è la domanda del coroner”. Il coroner (e lo staff del Centro) si pone questa domanda per ogni specifico caso, e perciò il lavoro di raggiungere praticamente una decisione sembra quasi inevitabilmente assumere una diffusa e importante proprietà. I membri del Centro devono arrivare a quella decisione considerando il “questo è”: devono iniziare con questa immagine; questa annotazione; questa collezione di qualsiasi cosa dispongano. E qualsiasi cosa vi sia è buona abbastanza nel senso che non solo andrà bene ma va bene. Si fa andar bene qualsiasi cosa di cui si disponga. Questo non significa che l’investigatore del Centro si accontenti o che non si sforzi quanto dovrebbe. Significa piuttosto che di “qualsiasi cosa” si occupi, qualsiasi cosa è ciò che deve considerare per definire il modo in cui quei fenomeni sociali hanno operato per produrre quell’immagine, per arrivare a quella scena come risultato finale. In questo modo i resti immortalati dalla pellicola fotografica sono sia un indizio per produrre spiegazioni sia la cosa che va spiegata dalle indagini del Centro. Qualsiasi cosa con cui i membri del Centro hanno a che fare deve servire come precedente per mezzo del quale leggere i resti al fine di vedere come i fenomeni sociali potrebbero aver operato per produrre quello che il ricercatore ha “alla fine”, “in ultima analisi” e “in ogni caso” stabilito. Ciò a cui l’indagine arriva è ciò che la morte ha prodotto.

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Aspetti strutturalmente ambigui dei resoconti pratici Gli aspetti strutturalmente ambigui dei metodi e dei risultati delle attività pratiche in cui consiste il lavoro di conoscenza dei fenomeni sociali, svolto sia da parte delle persone comune sia da parte di chi lo fa per professione come i sociologi, sono stati sintetizzati da Helmer e Rescher (1958, pp. 8-14). Entrambi sottolineano che quando i resoconti dei membri, relativi ad attività quotidiane, vengono impiegati per identificare, analizzare, classificare, rendere riconoscibile o decidere la propria linea di azione in occasioni simili, le prescrizioni sono simili a regole, delimitate nel tempo e nello spazio e “approssimative”. Per approssimative si intende che sebbene siano intese come condizionate dal punto di vista della loro forma logica, “la natura delle condizioni è tale che non possano spesso essere espresse completamente o pienamente”. Gli autori citano come esempio un’affermazione relativa alle tattiche di navigazione nel Diciottesimo secolo. Sottolineano come l’affermazione faccia riferimento all’artiglieria navale come condizione di validità. Nell’elaborare le condizioni (sotto le quale una affermazione ha valore) lo storico delinea cosa sia tipico del posto e del periodo. Le complete implicazioni di tale riferimento possono essere ampie e infinite; per esempio … l’artiglieria si ramifica attraverso la tecnologia metallica di lavorazione in metallurgia, estrazione mineraria etc. Quindi le condizioni che sono operative in quella formulazione di una legge storica potrebbero solo essere indicate in modo generico, e nella maggior parte dei casi si non si può necessariamente aspettare che le condizioni siano indicate in modo esaustivo. Questa caratteristica delle leggi storiche viene qui indicata come approssimazione … Una conseguenza di questa approssimazione delle leggi storiche è che non sono universali ma semplicemente quasi-generali in quanto ammettono delle eccezioni. Dato che le condizioni che delimitano l’ambito di applicazione delle leggi non sono definite

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in modo esaustivo, una ipotetica violazione della legge può venir giustificata mostrando che una legittima, anche se fino ad allora non formulata, condizione dell’applicazione della legge non è stata specificata nel caso preso in considerazione.

Va considerato che ciò vale per qualsiasi caso specifico e non dal punto di vista della necessità logica, in altre parole non in ragione della sua natura di quasi legge bensì a causa delle pratiche concrete di ricerca. Tale formulazione si usa secondo queste pratiche in forma di legge e la si considera come una formulazione corretta a dispetto del fatto che le condizioni sotto le quali si potrebbe specificare la sua appropriatezza o il suo uso corretto in quella specifica occasione sono state solo espresse in modo approssimato, e tuttavia il risultato e l’uso viene considerato adeguato. Di conseguenza, Helmer e Rescher sottolineano: Le leggi [storiche] possono essere considerate come contenenti un tacito avviso del tipo “solitamente” o “a parità di condizioni”. Una legge storica non è quindi strettamente universale nel senso che deve essere considerata applicabile in tutti i casi che cadono dentro il dominio delle sue formulate e formulabili condizioni; piuttosto va pensata come formulante relazioni che valgono generalmente, o meglio, che valgono come “regola”. Tale legge la definiremo quasi-legge. Al fine di avere una legge valida non è necessario che non si verifichino eccezioni, ma è solo necessario che, se evidenti eccezioni dovessero verificarsi, una adeguata spiegazione venga prodotta, una spiegazione che dimostri la natura eccezionale del caso in questione, e la assuma come violazione di una condizione corretta, benché fino a quel momento non era stata ancora formulata, della validità della legge.

Queste e altre caratteristiche possono essere attribuite alla descrizione delle pratiche di certificazione dei professionisti del Centro. Infatti, 1) qualsiasi volta venga richiesto a un membro di dimostrare che un reso65 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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conto analizza una situazione concreta, egli costantemente farà uso delle pratiche di “eccetera”, “a meno che” e “a partire da questo caso”, al fine di dimostrare la razionalità dei suoi resoconti. 2) La natura ragionevole dei resoconti è basata su un accordo, stipulato da investigatore e destinatario, di fornirsi reciprocamente qualsiasi ulteriore informazione necessaria. 3) Durante la loro comunicazione i resoconti richiedono che i destinatari siano disposti ad attendere, questo perché ciò che gli viene detto adesso, diventerà chiaro più avanti. 4) Allo stesso modo delle conversazioni, delle reputazioni e delle carriere, i particolari dei resoconti sono elaborati passo dopo passo nel corso del loro uso concreto e in riferimento ad esso. 5) Il significato dei materiali dei resoconti dipende fortemente dalla loro collocazione in una serie, dalla loro rilevanza per i progetti dei destinatari, e dal verificarsi delle occasioni organizzate del loro uso. In sintesi, il senso riconoscibile, il carattere metodico e l’impersonalità dei resoconti del Centro non sono indipendenti dalle occasioni socialmente organizzate del loro uso. Le loro caratteristiche razionali consistono in quello che i membri fanno con esse e comprendono di esse nelle occasioni concrete e socialmente organizzate del loro uso. Tali resoconti, essendo riflessivamente e intimamente legati – riguardo al loro significato – alle occasioni socialmente organizzate del loro uso, corrispondono alle caratteristiche delle occasioni socialmente organizzate del loro stesso uso. Alcuni problemi riguardanti la realizzazione pratica dell’azione razionale Espressioni oggettive ed espressioni indessicali Le proprietà esibite dai resoconti (in ragione del loro essere caratteristiche delle occasioni socialmente organizzate del loro uso) sono state indagate dai logici come proprietà delle espressioni indessicali e delle proposizioni indessicali. Husserl parlava di espressioni il cui senso non può essere deciso da un destinatario senza che conosca necessariamen66 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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te o presupponga qualcosa sulla biografia e gli scopi di chi produce le espressioni, le circostanze in cui sono pronunciate, il precedente corso della conversazione, o gli specifici rapporti di quell’interazione sociale effettiva o potenziale che esista tra parlante e ascoltatore (Faber 1943, pp. 237-238). Russell ha osservato che le descrizioni che contengono tali espressioni si applicano non a una cosa, ma a cose diverse in occasioni diverse (Russell 1940, pp. 134-143). Tali espressioni, scrive Goodman, sono usate per fare affermazioni certe, e ciononostante sembrano mutare il loro valore di verità (Goodman 1951, pp. 287-298). Ogni loro pronunciamento è fatto di parole che si riferiscono a una certa persona, tempo o luogo, ma designano qualcosa che non è designato dalle successive ripetizioni delle parole. La loro natura denotativa è relativa al parlante. Il loro uso si basa sulla relazione tra il parlante e l’oggetto a cui la parola si riferisce. Il tempo è rilevante per stabilire a cosa si riferisca una espressione indessicale temporale. Allo stesso modo, per sapere a quale luogo si riferisca, una espressione indessicale spaziale dipende dal luogo in cui è pronunciata. Le espressioni indessicali e le affermazioni che le contengono non sono ripetibili liberamente; in un dato discorso, non tutte le loro ripetizioni al suo interno ne costituiscono delle traduzioni. La lista di queste caratteristiche può essere estesa in modo indefinito. Tra gli studiosi del ragionamento sociologico pratico, siano esse persone comuni o sociologi di professione, esiste un accordo pressoché unanime sulle proprietà delle espressioni indessicali e delle azioni indessicali. Esiste anche un ampio accordo su: 1) sebbene le espressioni indessicali “sono di enorme utilità” sono anche “elementi di disturbo per il discorso formale”; 2) una distinzione tra espressioni oggettive ed espressioni indessicali non è solo propriamente legittima ma inevitabile per chiunque faccia scienza; 3) senza la distinzione tra espressioni oggettive ed espressioni indessicali, e senza la preferenza per quelle oggettive, i successi delle ricerche scientifiche, generalizzanti e rigorose – la logica, la matematica, alcune scienze fisiche – sarebbero impossibili, e le scienze inesatte dovrebbero abbandonare ogni speranza; 4) parole e frasi possono essere distinte in base a una procedura di valutazione che renda riconoscibile il 67 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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loro carattere di espressioni indessicali o di espressioni oggettive; e 5) in ogni caso specifico, solo difficoltà pratiche impediscono la sostituzione di espressioni indessicali con espressioni oggettive. Nei lavori dei filosofi la distinzione e la sostituibilità [tra espressioni indessicali e espressioni oggettive] sono motivate dalla ricerca e dall’interesse per teorie che possano essere correttamente verificate e in cui è possibile la computabilità di parole e frasi. I settori delle scienze sociali in cui la distinzione e la sostituzione si verificano sono innumerevoli. Queste sono sostenute e a loro volta sostengono immensi sforzi rivolti a sviluppare metodi per produrre valide analisi delle azioni pratiche. Le applicazioni promesse, e i loro benefici, sono vastissime. Ciononostante, laddove gli studi di azioni partiche siano stati intrapresi, la promessa distinzione e sostituzione di espressioni indessicali con espressioni oggettive resta meramente sulla carta per ogni particolare caso e per ogni concreta occasione nella quale tale distinzione o sostituibilità deve essere dimostrata. In ogni caso concreto, senza alcuna eccezione, verranno citate condizioni che un competente investigatore deve essere in grado di riconoscere in modo che in quel particolare caso i termini della dimostrazione possono essere allentati e ciononostante la dimostrazione conterà come adeguata. Per testi e corsi di azione “lunghi”, per eventi in cui le azioni dei membri sono caratteristiche degli eventi che tali azioni realizzano, o in qualsiasi caso non siano usati simboli o non siano state sostituite espressioni indessicali con simboli, le pretese dimostrazioni del programma sono soddisfatte in termini di questioni di gestione di pratiche sociale. La distinzione e la sostituibilità sono sempre realizzate solamente per tutti gli scopi pratici, e quindi il primo fenomeno da considerare problematico consiste nella riflessività delle pratiche e delle realizzazioni scientifiche che si svolgono nelle e che si occupano delle attività organizzate della vita quotidiana, la quale è una riflessività essenziale.

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L’essenziale riflessività dei resoconti Per i membri del Centro, la teorizzazione pratica è una faccenda seria. Le loro preoccupazioni riguardano ciò che è definibile “per scopi pratici”, “alla luce della situazione”, “data la natura delle effettive circostanze” etc. I membri del Centro sono ampiamente consapevoli che le pratiche che formano le loro circostanze lavorative sono le stesse delle misure con cui un tasso di suicidio viene elaborato. Insomma, le pratiche del Centro sono trattate dal suo personale come, in qualche modo, approssimazioni di procedure scientificamente adeguate. I resoconti, attraverso cui ogni decesso problematico è considerato sotto gli auspici del caso, sono considerati come approssimazioni di “ciò che è veramente successo”, [allo stesso modo in cui] i tassi di suicidio sono considerati in qualche modo come approssimazioni di “tassi di suicidi reali”. I membri del Centro citano la rilevanza delle considerazioni pratiche nel loro lavoro di teorizzazione sociologica come un difetto di tale lavoro. Tale difetto viene anche citato come difficoltà o come fonte delle virtù del loro lavoro. Il loro vanto consiste nel recitare tutte le frustrazioni che la natura e l’uomo impongono al loro compito di fare scienza quando si tratta di certificare cause e modalità di un decesso. Nei loro termini, il come fanno e cosa fanno è commentato nel seguente modo: “dopo tutto stiamo facendo il meglio che possiamo, che è meglio di quanto possa fare chiunque altro”. Nel caso dei membri del SPC, come anche dei giurati e dei ricercatori in sociologia, le circostanze pratiche e le azioni pratiche fanno riferimento a diverse questioni organizzativamente serie e importanti: a risorse, scopi, scuse, opportunità, compiti e ovviamente a ragioni per contestare o prevedere l’adeguatezza delle procedure e delle scoperte che si producono. Una questione è esclusa dagli interessi dei membri del Centro: le azioni pratiche e le circostanze pratiche non sono di per sé un tema di indagine, né tanto meno il principale; né le loro indagini indirizzate alla teorizzazione sociologica sono intraprese per formulare in cosa consistano questi compiti in quanto azioni pratiche. In nessun caso l’indagine 69 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sulle azioni pratiche viene condotta in modo che il personale del Centro sia in grado di riconoscere e descrivere cosa stia in primo luogo facendo. Ancora meno le azioni pratiche sono investigate al fine di spiegare a chi le compie il modo in cui sta parlando di ciò che sta facendo. Infatti, il personale del Centro troverebbe alquanto incongruo considerare seriamente il fatto che sono impegnati in un lavoro di certificazione dei decessi in modo tale da concertare i propri sforzi con quelli della persona che cerca di commettere suicidio in modo da assicurare il perfetto riconoscimento di “ciò che è veramente successo”. Dire che “non sono interessati” allo studio delle azioni pratiche non significa che li sto criticando, o sto evidenziando che hanno perso un’opportunità, né che ho scoperto un errore, e neanche sto facendo un commento ironico. Né voglio dire che, poiché i membri del Centro sono disinteressati, allora si “precludono” la possibilità della teorizzazione sociologica. Né sto dicendo che le loro indagini impediscono l’uso del ruolo del dubbio, né che è precluso loro il rendere scientificamente problematiche le attività organizzate della vita quotidiana, né ciò significa accennare alla differenza tra interessi “puri” e “applicati” nella ricerca e nella teorizzazione. Che significa allora dire che non sono interessati allo studio delle azioni pratiche e del ragionamento sociologico pratico? E quale è l’importanza di tale affermazione? Esiste un aspetto dei resoconti che possiede una straordinaria rilevanza tale da confinare tutte le altre caratteristiche a una specifica proprietà: quella di proprietà riconoscibile dell’investigazione sociologica pratica. Esso consiste in questo: riguardo al carattere problematico delle azioni pratiche e dell’adeguatezza pratica delle loro indagini, i membri danno per scontato che un membro deve fin dall’inizio “conoscere” gli ambienti in cui agisce se le sue pratiche debbano servire come risorse per offrire un resoconto comprensibile delle specifiche e locali caratteristiche di questi ambienti. Considerano come qualcosa di puramente implicito che qualsiasi genere di resoconto dei membri, diverso per tipo logico, uso e metodo di assemblaggio, sia una caratteristica della situazione che tramite 70 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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essa si rende osservabile. I membri del Centro sanno, richiedono, contano e fanno uso di questa riflessività per produrre, realizzare, riconoscere o dimostrare l’adeguatezza scientifica, per tutti gli scopi pratici, delle loro procedure di ricerca e delle loro scoperte. Non solo i membri del SPC, i giurati e tanti altri, danno per scontata questa riflessività, ma riconosco, dimostrano, rendono osservabile gli uni agli altri il carattere razionale delle loro pratiche concrete – vale a dire occasionali – mentre rispettano tale riflessività come un’immodificabile e inevitabile condizione delle loro indagini. Quando affermo che i membri del Centro non sono interessati allo studio delle azioni pratiche non voglio dire che non hanno nessuno, poco o un po’ di interesse. Il fatto che essi non siano interessati ha a che vedere con le pratiche ragionevoli, con gli argomenti plausibili, con le scoperte ragionevoli – con lo “spiegabile per tutti gli scopi pratici” come questione che può essere spiegata. Essere interessati comporterebbe l’intraprendere iniziative per rendere osservabile il carattere riflessivo delle attività pratiche – per studiare le pratiche ingegnose dell’indagine scientifica come un fenomeno organizzativo, senza pensare a correzioni e senza ironia. I membri del Centro, come qualsiasi altro membro impegnato in indagini pratiche, sebbene potrebbero avere un interesse in questo, riescono comunque a non averne alcuno. L’analizzabilità delle azioni in contesto come una realizzazione pratica In innumerevoli modi le indagini del Centro sono costituite dalle proprietà degli ambienti che analizzano. Allo stesso modo, le indagini sono rese riconoscibili ai membri come scientificamente adeguate a tutti gli scopi pratici. Infatti, quei decessi che sono resi spiegabili per tutti gli scopi pratici sono realizzazioni organizzative pratiche. Dal punto di vista organizzativo, il Centro consiste in procedure pratiche per realizzare la spiegazione razionale dei decessi per suicidio come caratteristiche riconoscibili degli ambienti nei quali tali spiegazioni sono prodotte.

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Nelle concrete occasioni di interazione tale realizzazione è per i membri onnipresente, aproblematica e ovvia. Per i membri che fanno sociologia rendere questo tipo di realizzazioni un argomento di ricerca sociologica pratica sembra inevitabilmente richiedere di trattare le proprietà razionali delle attività pratiche come “antropologicamente strane”. Con questo voglio richiamare l’attenzione su pratiche riflessive come le seguenti: con le pratiche di spiegazione i membri rendono le attività familiari e ovvie della vita quotidiana riconoscibili come attività familiari e ovvie; con l’uso di un resoconto delle attività ordinarie, quest’ultime saranno riconosciute “un’altra prima volta”; i membri trattano i processi e i risultati dell’ “immaginazione” come un prolungamento delle altre osservabili proprietà degli ambienti nei quali accadono; il procedere in un certo modo permette ai membri contemporaneamente di riconoscere, in mezzo a situazioni concrete, che quest’ultime hanno un senso compiuto, una fatticità compiuta, una oggettività compiuta, una familiarità compiuta e una resocontabilità compiuta: e le modalità organizzative di questa compiutezza sono aproblematiche, conosciute superficialmente, conosciute solo quando fatte abilmente, affidabilmente, uniformemente, con grande standardizzazione, insomma come questioni che non meritano spiegazioni. La realizzazione consiste nel fare, riconoscere e usare etnografie. In modi ancora sconosciuti tale realizzazione è un fenomeno ovvio per i membri. E la ragione per cui sono sconosciuti i modi a causa dei quali tale realizzazione è un qualcosa di ovvio, è un fenomeno affascinante, e questo perché nelle sue modalità sconosciute, consiste 1) nell’uso dei membri di attività concertate quotidiane quali metodi con cui riconoscere e dimostrare le proprietà isolabili, tipiche, uniformi, ripetibili, coerenti, equivalenti, sostituibili, dirigibili, descrivibili in modo anonimo, pianificabili – in breve le proprietà razionali delle espressioni e azioni indessicali; 2) l’analizzabilità delle azioni in contesto, dato che non solo non esiste un concetto generale di contesto, ma anche che ogni uso di “contesto” senza eccezione alcuna è esso stesso essenzialmente indessicale.

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Le proprietà riconoscibili come razionali delle loro indagini – il loro riconoscibile carattere coerente, metodico, uniforme o pianificato – sono in qualche modo i risultati delle attività concertate dei membri del Centro. Le proprietà razionali delle loro indagini pratiche in qualche modo consistono nel lavoro concertato di spiegare – a partire da frammenti, modi di dire, osservazioni passeggere, da dicerie, da descrizioni parziali, da “codificati” ma essenzialmente vaghi cataloghi dell’esperienza e così via dicendo – come una persona è morta, e di riuscire a fare così per quei decessi a partire dagli ambienti ampiamente diversificati della vita quotidiana. Tale in qualche modo è il punto fondamentale della questione. Indicazioni per la ricerca Il tratto specifico del ragionamento sociologico pratico, in qualunque luogo si verifichi, è che cerca di rimediare alle proprietà indessicali del parlare e dell’agire dei membri al fine di dimostrare l’osservabilità delle azioni organizzate. Infiniti studi metodologici sono rivolti a fornire un rimedio alle espressioni indessicali, le cui proprietà rappresentato per i membri delle seccature pervasive e ostinate, attraverso l’uso rigoroso di concetti per descrivere l’agire ordinario e il parlare ordinario in tutti i suoi particolari strutturati. Le proprietà delle espressioni e azioni indessicali sono proprietà ordinate. Consistono in un senso organizzativamente dimostrabile di fatticità, di uso metodico e di accordo tra chi appartiene alla stessa cultura. Le loro proprietà ordinate consistono in proprietà delle espressioni e azioni indessicali che sono organizzativamente dimostrabili come razionali. Queste proprietà ordinate sono continue realizzazioni delle comuni attività degli investigatori. La dimostrabile razionalità delle espressioni e azioni indessicali sono conservate nel corso della produzione, da parte dei membri, del carattere ordinario, familiare, routinario delle circostanze pratiche. In quanto processo, ed esito di questo processo, la razionalità

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delle espressioni indessicali consiste di compiti pratici soggetti a qualsiasi esigenza dell’agire organizzativamente situato. Per lo studio di tali fenomeni, sono raccomandate le seguenti politiche interpretative. 1) Osservare il SPC, come anche qualsiasi altro ambiente, come qualcosa che si auto-organizza rispetto al carattere intellegibile delle proprie specifiche, concrete e locali apparenze in quanto apparenze di un ordine sociale. Come in qualsiasi altro ambiente, il Centro organizza le proprie attività per rendere le sue proprietà in termini di un ambiente organizzato di attività pratiche discernibile, descrivibile, registrabile, riportabile, analizzabile – in breve resocontabile (accountable). La sua costituzione organizzativa consiste in diversi metodi per realizzare la resocontabilità (accountability) dei suoi modi organizzativi come attività concertate. Ogni pretesa dei membri del Centro riguardo all’efficacia, la chiarezza, la coerenza, la pianificabilità e l’efficienza, come anche ogni considerazione relativa a prove adeguate, dimostrazioni e descrizioni, ottiene tale carattere dalla natura professionale di tale intrapresa e dai modi in cui i suoi diversi ambienti organizzativi, in ragione dal loro essere attività organizzative dotate di “sostenibilità”, “facilitazione”, “resistenza” ect., si basano su metodi per rendere le loro faccende una questione resocontabile (accountable) per tutti gli scopi pratici. Solo ed esattamente nei modi in cui il SCP è definito dai suoi membri come ambiente organizzato, esso consiste di metodi usati dai membri per rendere evidenti gli uni agli altri le forme dei loro ambienti come connessioni chiare, coerenti, pianificabili, consistenti, selezionabili, conoscibili, uniformi e riproducibili – in altre parole, connessioni razionali. Così come il personale del Centro è coinvolto in faccende organizzate, allo steso modo è impegnato in un rigoroso e pratico lavoro di scoprire, dimostrare e persuadere, attraverso ricostruzioni delle ordinarie e concrete occasioni delle loro interazioni, delle evidenze di coerenti, chiari selezionati e pianificati arrangiamenti. Solo ed esattamente nei modi in cui il Centro è definito dai suoi membri come entità organizzata, le sue attività consistono nei metodi in cui i 74 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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membri forniscono resoconti dell’ambiente come qualcosa di raccontabile, comparabile, descrivibile, rappresentabile – in altre parole costituito da eventi resocontabili (accountable). 2) Ovviamente, non solo il SCP ma qualsiasi effettiva situazione di attività che sia esaminabile rispetto alle caratteristiche che “scelgano” tra alternative di senso, fatticità, pratiche metodiche, cause, accordo collettivo tra chi appartiene alla stessa cultura, azioni pratiche, è l’esito delle azioni dei membri. Quando tale possibilità è usata come indicazione per la ricerca e l’interpretazione, ne nascono indagini di qualsiasi tipo, dall’inchiesta del coroner alle scoperte astrofisiche, tutte simili nel loro presentare un interesse di studio, come [insieme di] pratiche organizzate socialmente in modo abile. Ogni modo di condurre un’indagine, senza alcuna eccezione, acquista un interesse per noi sui vari modi per mezzo dei quali la struttura sociale delle attività quotidiane fornisce contesti, oggetti, risorse, giustificazioni e argomenti. Il lavoro di fare stregoneria, matematica, chimica e sociologia, come pure autopsia psicologica, se fatto da un profano o invece da un professionista, andrebbe studiato tramite una politica di ricerca secondo cui ogni caratteristica di senso, fatto e metodo, per ogni specifico caso di indagine, è da intendere come abile realizzazione di un ambiente organizzato di azioni pratiche; inoltre, quelle proprietà di coerenza, pianificabilità, rilevanza o riproducibilità delle loro pratiche e dei loro esiti sono acquisite e assicurate solo attraverso organizzazioni specifiche e situate di pratiche ingegnose. Ogni tipo di indagine, senza eccezione, consiste in abili pratiche organizzate laddove le proprietà delle espressioni indessicali – modi di dire, suggerimenti, descrizioni, preposizioni ellittiche, osservazioni veloci, favole, racconti e così via – sono dimostrate. La razionalità dimostrabile delle espressioni e delle azioni indessicali è una continua realizzazione delle attività organizzate della vita quotidiana. E qui sta il centro della nostra ipotesi. L’abile produzione di questi fenomeni, in tutti i loro aspetti, da ogni prospettiva e a ogni stadio, agli occhi dei membri deve presentare il carattere di compito pratico, rigoroso, e soggetta a ogni esigenza della condotta organizzativamente situata. 75 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Riferimenti bibliografici Curphey T. J. 1961, The role of social scientist in the medicolegal certification of death from suicide, in N. Farberow, E. Shneidman (a cura di), The cry for help, McGraw-Hill, New York. Curphey T. J. 1967, The forensic pathologist and the multidisciplinary approach to death, in E. Shneidman, Essays in self-destruction, Science House Inc., New York, pp. 463-475. Farber M. 1943, The foundation of phenomenology, Harvard University Press, Cambridge, Mass. Garfinkel H. 1967, Studies in ethnomethodology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, New Jersey. Goodman N. 1951, The Structure of appearance, Harvard University Press, Cambridge, Mass. Helmer O., Rescher N. 1958, On the epistemology of the inexact sciences, P-1513, RAND Corporation, 13 ottobre, pp. 8-14. Litman R., Curphey T. J., Shneidman E., Farberow N., Tabachnick N. 1963, Investigation in equivocal suicides, in «Journal of the American Medical Association», 184, pp. 924-929. Russell B. 1940, Inquiry into meaning and truth, Norton & Company, New York. Shneidman E. 1963, Orientation toward death: a vital aspect of the study of lives, in R. White (a cura di), The study of lifes, Atherton Press, New York. Shneidman E., Farberow N. 1961, Sample investigations of equivocal suicidal deaths, in N. Farberow, E. Shneidman (a cura di), The cry for help, McGraw-Hill, New York.

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La ricerca di aiuto: nessuno a cui rivolgersi1 Harvey Sacks

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I In questo saggio il mio obiettivo è di elaborare una descrizione che permetta la riproducibilità della conclusione a cui può giungere un potenziale suicida: “Non ho nessuno a cui rivolgermi”. Da parte mia, ciò comporta lo sforzo (a) di individuare le collezioni di categorie di appartenenza nei cui termini viene formulata la richiesta di aiuto dei potenziali suicidi, e (b) di descrivere in quali modi tali collezioni sono utilizzate per determinare se ci siano persone selezionabili e disponibili2. In base ai materiali qui considerati3, due sono le collezioni di categorie che sembrano cruciali. Tali collezioni possono essere così definite: (1) 1.  H. Sacks 1967, The search for help: no one to turn to, in Schneidman E. (a cura di), Essays in self-destruction, Science House Inc., New York, pp. 203-223. Traduzione dall’inglese di Enrico Caniglia, Gianna Maulucci, Andrea Spreafico e Federico Zanettin. 2.  I materiali per questo capitolo sono stati raccolti e in gran parte analizzati durante il mio periodo di permanenza come ricercatore presso il Center for the Scientific Study of Suicide, Los Angeles (1963-1964). Sono profondamente debitore nei confronti di questa istituzione in particolare del suo direttore, il dottor Edwin Schneidman, per il sostegno finanziario e di altro genere. Varie versioni sono state scritte mentre partecipavo a una ricerca finanziata dall’U.S. Air Force, AF-AFOSR-757-65, di cui Harold Garfinkel è stato direttore di ricerca. Vorrei anche ringraziare L. Churchill, E. Schegloff, D. Sudnow e D.L. Weider per i loro commenti alle prime versioni. Il dipartimento di Sociologia, UCLA, mi ha dato la possibilità di perseguire queste ricerche. 3. I materiali analizzati consistono in conversazioni telefoniche fra persone che hanno tentato il suicidio o persone che parlano per conto di individui che hanno tentato il suicidio e i membri di uno staff di una clinica di emergenza psichiatrica. Nelle citazioni incluse nel testo, S è il membro dello staff clinico, C indica l’utente. Con l’espressione strumento di categorizzazione si intende una collezione di categorie di appartenenza, che contiene almeno una categoria, che possa essere applicata a una popolazione, costi-

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una collezione di coppie di categorie relazionali che chiamerò R, e (2) una collezione K, costruita in riferimento a una particolare distribuzione di conoscenze riguardanti il come affrontare un certo problema (in questo caso, il commettere suicidio). Sono elementi della collezione R le coppie di categorie come marito-moglie, genitore-figlio, vicino di casa-vicino di casa, fidanzato-fidanzata, amico-amico, cugino-cugino, estraneo-estraneo etc. A rivelarci se una coppia di classi è una componente della collezione R è la seguente regola: una coppia di categorie fa parte di una collezione R se tale coppia è una coppia relazionale “standardizzata” che costituisce un luogo per un ventaglio di diritti e doveri che riguardano l’attività di dare aiuto. Dire che le coppie sono “standardizzate” significa affermare quanto segue: 1. se un Membro X conosce la propria posizione di coppia rispetto a un Membro Y, allora X conosce anche la posizione di coppia di Y rispetto a se stesso. X sa anche che se Y sa quale sia la propria posizione di coppia rispetto a X, allora Y conosce quale posizione di coppia X ha rispetto Y. 2. se un Membro Z (che non è né X né Y) sa quale posizione di coppia X ritiene sia la propria posizione di coppia rispetto a Y, allora Z sa quale posizione di coppia X ritiene sia la posizione di coppia di Y rispetto a X. Z sa anche che X ritiene che, se Y sa che X stia rispetto a Y nella posizione di coppia che X suppone, allora Y ritiene che Y tuita almeno da un Membro, in modo da prevedere, attraverso l’impiego di alcune regole di applicazione, l’accoppiamento di almeno un Membro della popolazione con un membro di uno strumento di categorizzazione. Uno strumento è allora una collezione più le regole della sua applicazione. Quando “membro” è usato con la “M” maiuscola si riferisce alla persona che impiega gli strumenti di categorizzazione (Membro di una popolazione); dove è invece scritto con “m” minuscola si riferisce ad una categoria che fa parte di una collezione (elemento di una popolazione). L’espressione collezione è usata solo per gruppi di categorie che i Membri di una comunità considerano facenti un gruppo.

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sta rispetto a X nella posizione di coppia che X suppone. Z sa inoltre che il contrario vale per Y. Di più, Z sa, come sanno X e Y, quali sono i diritti e gli obblighi che fanno sì che tra gli X e Y dati vi sia una convergenza nella determinazione delle rispettive posizioni di coppia. Dato che per l’uso di R relativamente alle richieste di aiuto è assolutamente centrale avere il tipo di standardizzazione che abbiamo presentato, dobbiamo subito passare a individuare che cosa la precedente formulazione ci permette di osservare nei materiali raccolti. In virtù delle caratteristiche della standardizzazione di R, due Membri qualsiasi, a prescindere della posizione di coppia che impiegano per collocarsi reciprocamente, dunque anche se non si conoscevano prima di una data conversazione, sono in grado di valutare il trattamento che prevedibilmente un terzo Membro: (1) riserverà a uno di loro qualora quest’ultimo fosse un potenziale suicida, nonché la posizione di coppia del terzo Membro rispetto quest’ultimo, o (2) che riceverà da qualsiasi altro Membro, se è qualcun altro e non uno dei due che ha tentato il suicidio, e se si conosce la relazione di coppia di quel terzo Membro con qualsiasi altro. In base alla formulazione precedente possiamo quindi parzialmente comprendere alcuni dei casi più ricorrenti nel mio materiale empirico, e cioè come le diverse coppie di soggetti sono in grado di valutare le aspettative di comportamento di diversi terzi individui variamente categorizzati, quando un partecipante alla conversazione, e qualche volta entrambi, conoscono solamente la posizione di quel terzo individuo di cui si stanno valutando le aspettative di comportamento. Tali casi sono quindi osservabili come ordinati nelle varie posizioni di coppie dalle quali sono composti. La collezione K è composta da due classi (“professionisti”, “profani”). Poiché K sarà poco considerata in questo lavoro, ne offrirò una trattazione minima. Primo, sia K sia R possono categorizzare qualsiasi popolazione di uno o più Membri. Riguardo a K stessa: i) tutte quelle categorie occupazionali, per le quali è corretto dire che i loro Membri 79 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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hanno speciali o esclusivi diritti per affrontare certi problemi, sono possibili occupanti la classe K “professionisti”; ii) per ogni dato problema per il quale esiste una occupazione come detto prima, quell’occupazione (o occupazioni) costituisce in modo esclusivo la classe professionisti, dove tutti coloro che non ne sono Membri appartengono in modo indifferenziato alla classe K “profani”. Dunque, per ogni dato problema, essere membro di una delle classi esclude l’essere membro di un’altra. Riguardo alla collezione R, potremmo domandarci: quando si compie una richiesta di aiuto, perché è prevista la rilevanza della collezione R? Comunque, tale formulazione della domanda è sbagliata. Come osserveremo, l’autentica natura di una richiesta di aiuto consiste nei diritti e nei doveri che sono organizzati attraverso la collezione R. Il mio compito iniziale è allora mostrare come le caratteristiche della collezione R forniscono le proprietà di una richiesta di aiuto. II Focalizzandoci sulla collezione R, potremmo chiederci: come è che quando una ricerca di aiuto è stata intrapresa, diventa rilevante la collezione R? Come osserveremo, l’effettiva proprietà della ricerca di aiuto è fornita dai diritti e dai doveri che sono assemblati con riferimento alla collezione R. Il mio compito iniziale è allora di mostrare come le caratteristiche della collezione R forniscano le proprietà per il verificarsi di una ricerca di aiuto. Per alcune coppie di categorie: 1. X, un potenziale suicida (occupante programmatico4 di una posizione di coppia), ha il diritto di rivolgersi a Y (un occupante program4.  È questo il caso per collezioni come R. Se la collezione è rilevante, allora tutte le sue categorie saranno rilevanti, indipendentemente se alcune di loro siano o meno effettivamente occupate da qualcuno. In questo caso si parla di “occupante programmatico”.

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matico dell’alternativa posizione di coppia) al fine di ottenere aiuto. Quindi ogni Membro ha il diritto programmatico di intraprendere una richiesta d’aiuto, o quanto meno di stabilire se ogni posizione di coppia, al cui occupante programmatico egli ha il diritto di rivolgersi, sia effettivamente occupata da qualcuno. 2. Se X sceglie di avanzare una richiesta d’aiuto e se quella richiesta implica il dire a coloro a cui si è rivolto chi è lui, qual è il problema e cosa ha provocato l’intenzione di suicidarsi, allora X è tenuto a rivolgersi agli occupanti di queste categorie. Gli occupanti di queste categorie avranno allora il diritto che X non si rivolga a occupanti di altre categorie. 3. Se X vede che l’alternativa al chiedere aiuto è il suicidio, allora X è obbligato a cercare aiuto invece di ricorrere al suicidio. È una pretesa degli occupanti di queste classi che X cerchi aiuto invece di suicidarsi. A queste tre regole si deve la struttura della richiesta d’aiuto nei casi in cui c’è in ballo il suicidio. Sono proprio esse a rendere la richiesta fattibile. Inoltre, dalle regole dipende il fatto che, laddove la richiesta di aiuto viene avanzata, essa verrà fatta da quelle categorie cui spetta l’obbligo di intraprendere una richiesta, vale a dire di cercare dei soccorritori. Siccome le regole indicano a chi è opportuno o meno chiedere aiuto, esse individuano, all’interno della classe R due sottoinsiemi: Rp e Ri. Coloro che le regole definiscono come “classi i cui occupanti sono quelli appropriati a cui rivolgersi” sono membri di Rp; coloro che le regole collocano come “classi ai cui occupanti non è appropriato rivolgersi” sono membri di Ri. Sembra che il sottoinsieme Rp sia usato in modo metodico, nel senso che vi è una sequenza corretta nell’uso delle sue classi e che, inoltre, le regole da 1 a 3 valgano non solo riguardo al sottoinsieme Rp ma anche riguardo alla corretta sequenza per avvalersi di Rp. Quindi, se c’è un occupante di una “prima posizione”, a fronte di un qualsiasi occupante di una “seconda posizione”, le regole indicano che bisogna rivolgersi agli occupanti della “prima posizione” e non della “seconda”. 81 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Dato quanto sopra, e in riferimento alla collezione R, possiamo delineare almeno la struttura del problema di chi richiede aiuto. Dato che “qualcuno” è “un occupante di una posizione di coppia del sottoinsieme Rp” e “nessuno” è “nessun occupante di una posizione di coppia del sottoinsieme Rp”, il problema di chi richiede aiuto allora è: ci sono persone disponibili che occupano una qualche posizione di coppia di quel sottoinsieme i cui occupanti sono quelli appropriati a cui rivolgersi per chiedere aiuto? Assumendo per il momento ciò che non abbiamo ancora dimostrato – che la presenza di un occupante e la disponibilità ad aiutare sono problemi separati – possiamo osservare: se per un potenziale suicida non vi sono soggetti che ricoprono le posizioni di Rp, allora, secondo le regole fornite, egli non è tenuto a rivolgersi a qualcuno per chiedere aiuto. In tale eventualità, le regole comunque non vietano che egli possa correttamente rivolgersi a qualcun altro. Con la precedente discussione abbiamo determinato (se tale discussione ha una valida natura descrittiva) la correttezza della seguente asserzione: non sempre una richiesta d’aiuto rende rilevante la collezione R. Comunque, nel caso dei suicidi esiste una rilevanza di un insieme di diritti e obblighi riferiti alla collezione R. Quest’ultima e i diritti e doveri organizzati con riferimento alle sue categorie determinano le caratteristiche dell’intraprendere una richiesta di aiuto. Com’è già stato detto, la collezione R fa più di questo. Autorizza la richiesta e fornisce la procedura per farla. Su queste cose dirò di più in seguito. III Vediamo ora come l’apparato che abbiamo elaborato a partire dai materiali possa permettermi di analizzare la loro produzione e come le precedenti categorie e regole d’uso forniscano l’occorrenza riproducibile di una varietà di parti di conversazione naturali. Vediamo inoltre come

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possono essere elaborate soluzioni al problema posto all’inizio: in che modo è riproducibile la conclusione “Non ho nessuno a cui rivolgermi”? Per prima cosa, il fatto che R classifichi una popolazione (di una o più persone) e che sia gli obblighi di cercare aiuto sia le regole per scegliere coloro che possono darlo siano formulati utilizzando le sue categorie, funzionino in modo che R venga usato per fare una classificazione iniziale del destinatario (delle conversazioni telefoniche che stiamo esaminando) da parte dei potenziali suicidi che telefonano, anche se il destinatario può essere categorizzato in riferimento a categorie organizzate in altre collezioni (per esempio K). Quelli che chiamano parlano frequentemente del destinatario come un “estraneo”. Anche i chiamanti che non sono potenziali suicidi riferiscono spesso che le categorie di R sono considerate quelle corrette a cui potenziali suicidi debbano rivolgersi per chiedere aiuto. Si ha tale categorizzazione perfino se possa verificarsi che, riguardo alla categoria impiegata per individuare il destinatario, il destinatario è considerato, rispetto all’insieme R, quello sbagliato a cui rivolgersi. Qualora il destinatario non è membro di Rp, si può notare che le spiegazioni che implicano il riferimento alle caratteristiche di Rp sono offerte senza essere richieste. E quando richieste, tali spiegazioni vengono fornite senza essere considerate irrilevanti o inopportune. (1) Donna che medita il suicidio: il ricevente, un assistente sociale, non ha richiesto alcuna spiegazione della telefonata. “Mia sorella è venuta da noi domenica e abbiamo parlato. L’ho chiamata proprio ora, abbiamo parlato e mi ha pregato di telefonarvi e di riferirle cosa mi avete detto”.

Se non è stata offerta alcuna spiegazione, allora in alternativa il ricevente può, facendo riferimento alla standardizzazione di R, costruirsi da solo una spiegazione. Può dedurla, impiegando le caratteristiche di R, qualora il fatto che sia stato cercato un contatto con qualcuno di Ri è considerato come indicativo della posizione del chiamante rispetto a Rp.

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(2) S1. È mai stata sposata, signorina G.? C1. No. S2. Lei è qui un po’ da sola e le cose non vanno bene? C2. È così. S3. Lei ha nessuno qui? C3. Ho dei cugini, ma sa, sono cugini. Di terzo o quarto grado….

È importante notare, come propone la mia ipotesi, che chi telefona può considerare l’aver fatto la chiamata come una cosa impropria, senza riguardo al fatto che il destinatario è uno che si considera come quello giusto da chiamare indipendentemente dalle norme di R. La scorrettezza di un contatto e la riluttanza di un destinatario possono considerarsi due argomenti separati. Il fatto che alcune persone o classi di persone vogliano offrire aiuto, si adoperano per dare aiuto, o propongono la loro competenza specifica, ciò non li rende quelli giusti a cui rivolgersi se rispetto a R sono membri di Ri. (3) C1. Forse è stato un errore chiamare. Non so, intendo dire che…. S1. Perché lo pensa? C2 Mi sembra che cercare aiuto da un estraneo sia, non saprei. Sembra molto ... cioè non dovrei farlo. Come se la mia famiglia e i miei amici non mi aiutassero. Cioè, perché dovrei chiedere aiuto ad un estraneo, mi spiego? S2. A volte abbiamo bisogno di un sostegno professionale. C3. Allora le dirò che ho cercato per molti anni di farmi aiutare dalla mia famiglia, di capire e di farmi capire, di dire loro chi ero e cosa stavo provando a fare, ma loro si sono rifiutati di ascoltarmi e insomma, è tutto è un gran casino ora e sono qui da mia nonna, e naturalmente ...oh, non lo so.

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S3. Quando le persone vicine non si accorgono che abbiamo bisogno di loro, ci scoraggiamo e pensiamo che nessuno ci aiuterà. C4. Sì, è proprio così che mi sento oggi, come se volessi andarmene e dire, al diavolo tutto voglio sparire e basta. È esattamente così ... ma non avrei dovuto neanche chiamarla, cioè volevo chiamare, davvero. Ho pensato che avrei potuto ottenere delle risposte, comunque non avrei dovuto perché sento che è un inganno, davvero.

La standardizzazione di R e la rilevanza delle sue categorie nella ricerca di aiuto fornisce argomenti ai Membri circa le categorie e i loro occupanti perfino se i partecipanti non si conoscano prima dello scambio telefonico. La collezione di categorie mette in luce una serie di temi. Ad esempio, la questione se ci sono occupanti di queste categorie può essere considerata quando (a) la rilevanza della considerazione che ci siano occupanti non è vista come un problema; e quando (b) il modo con cui il fatto che ci siano (o no) occupanti non è visto come qualcosa di irregolare in sé. Negli scambi telefonici raccolti si osserva in modo ricorrente che le valutazioni di un comportamento atteso (di terze persone non partecipanti alla conversazione) si basano sulla determinazione della posizione di coppia in R del Membro il cui comportamento atteso viene valutato. Non succede mai che tali discussioni comincino con un riferimento ai Membri formulati come un generico “qualcuno” o in riferimento a collezioni diverse da R. Nessuno dei partecipanti alle conversazioni conosce le persone di cui parla, ma le informazioni riguardo alla posizione di coppia sembrano a loro sufficienti per compiere valutazioni sul comportamento atteso. Date le informazioni sulla posizione di coppia, coloro che pensano che le informazioni sull’occupante non siano coerenti con le inferenze fornite dalla conoscenza di tale posizione, ritengono, così come i loro interlocutori, che le inferenze derivate dalle posizioni di coppia non vengono semplicemente rimpiazzate se hanno delle “conoscenze speciali”. È necessaria invece un’argomentazione speciale, e inoltre si insisterà che quelle conoscenze speciali risulteranno non corrette laddove non lo 85 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sarà l’inferenza tratta dalla posizione di coppia. Le inferenze fornite dalle posizioni di coppia vanno considerate seriamente perfino se la loro correttezza viene poi negata. Il fatto di conoscersi quindi non fornisce conoscenze che possano rimpiazzare le altre, quelle derivate dalla posizione di coppia. Se la persona suicida è la terza parte dello scambio conversazionale (vale a dire non è un partecipante a tale scambio) allora va valutata la sua prevedibile reazione a una offerta di aiuto. Nel fare ciò, le norme riguardo a R sono rilevanti. Il chiamante dichiarerà continuamente che non ci si può aspettare che l’aiuto di un estraneo venga accettato; e che, inoltre, un potenziale suicida sarebbe infastidito dal fatto di sapere che è stato consultato un estraneo. In diversi casi, il chiamante ha sostenuto che la strategia appropriata sarebbe stata, a suo avviso, di dire al possibile suicida che si è cercato un “amico” e che quindi è giusto contattarlo. La standardizzazione di R e le regole per distribuire le categorie in sottoinsiemi fornisce una soluzione al problema discusso in questo lavoro. Il senso di “nessuno a cui rivolgersi” può essere espresso nel modo seguente: nel sottoinsieme Rp, per un Membro A, non ci sono occupanti per le categorie di Rp. La possibilità che tale situazione possa verificarsi per alcuni Membri ci porta a considerare una realtà che si verifica in riferimento a un apparato del tutto diverso. In alcune società, la rimozione dell’occupante di una categoria – ad esempio la morte del marito – è l’occasione per il funzionamento di un meccanismo in base al quale qualche altro Membro ne prende il posto, se tale altro Membro selezionabile sia disponibile. Tra i Bemba per esempio (Richards 1956, pp. 38-39)5: Quando un uomo muore, il suo nome, i suoi doveri di parentela e il suo asse ereditario sono trasmessi ai figli della sorella o a suo nipote attraverso una figlia. L’erede diventa, in senso sociale, effettivamente l’uomo defunto; ne adotta i suoi termini di parente5.  A. I. Richards 1956, Chisungu, Faber, pp. 38-39.

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la, chiamando così, per esempio, “nipote materno” la persona che precedentemente avrebbe chiamato “fratello”.

Ancora, tra la gente dello Shtetl (Zborowski – Herzog 1962, p. 289)6:

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Se un uomo muore senza figli, il fratello celibe è obbligato a sposare la moglie al fine di perpetuare la linea. Né la vedova né il fratello possono sposare una persona diversa senza una formale autorizzazione dell’altro.

Questo meccanismo è assente nella nostra società. L’assenza ha una speciale importanza perché diverse relazioni che i Membri gestiscono – dove le caselle di una unità sono riempite in termini di relazioni di persona-nominata con persona-nominata e non in termini di relazione di membro-unità con membro-unità – risultano poi, in seguito al fatto che una coppia è diventata incompleta, trasformate in relazioni di membro unità con membro unità. Una vedova scopre che le sue amiche non sono più sue amiche quando non ha più il marito, e si accorge allora di aver perso anche qualcos’altro oltre il marito con la morte di quest’ultimo (o in caso di divorzio, con il divorzio). Le nostre conversazioni includono scambi come questi: (4) S1. Da quanto tempo si sente così? Da Natale? [quando il marito l’ha lasciata per un’altra] C1. Sì. S2. E prima? C2. No, ho sperato prima di Natale. Ho sperato. Ho pensato che un amore come il mio potesse superare qualunque cosa. Sentivo che nel mio amore c’era tutto. E questo ora mi si ritorce contro. Sento che non ho più niente. In altre parole tutti se ne fregano. 6.  M. Zborowski, E. Herzog 1962, Life is with people, Schocken Edition, p. 289.

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S3. Tutti cosa? C3. Se ne fregano. A cosa serve? S4. E le amiche? Lei ha amiche? C4. Ho amiche, cosiddette amiche. Avevo delle amiche, mettiamola così. S5. Ma senti che da quando lui se n’è andato, tutto…. C5. Come i topi che abbandonano la nave che affonda. Nessuno vuole parlare con una che è nelle mie condizioni. Hanno tutte le loro famiglie, i loro problemi e i loro mariti.

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Un altro resoconto (una vedova): (5) C1. … Sono al limite. Mi chiedo per cosa devo vivere? Ho chiesto a Elsie [la figlia] di dirmelo. Di dirmi qualcosa. Mi ha chiesto se prendo le pillole per dormire. Tutto qua. Le ho detto che non riesco a trovare un motivo per andare avanti. Non ho – ho avuto delle amiche ma non amiche intime. Intendo dire che hanno tutte il marito. Non puoi appoggiarti a loro. Resto seduta qui giorno dopo giorno.

IV Procediamo adesso a sviluppare un altro modo in cui si può arrivare appropriatamente alla conclusione “nessuno a cui rivolgermi”. Possiamo notare che per l’affermazione “Ho intenzione di suicidarmi” (come affermazione che può stare per una richiesta di aiuto) è rilevante l’offerta di un resoconto, di una spiegazione. Si può dimostrare che esista un motivo per il fatto che la richiesta di aiuto venga accompagnata da una spiegazione. Tale motivo può avere una rilevanza che va oltre il fenomeno del suicidio.

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Quando l’azione di un Membro (ad esempio, il dare aiuto) è condizionata dall’essere informato della presenza di una qualche condizione che (a) non possa essere appurata e (b) la cui asserzione non è chiara rispetto alla sua correttezza – vale a dire che l’asserzione può essere fatta impropriamente, come uno scherzo o una bugia – allora i Membri possono ritenere che la richiesta sia stata fatta senza che sussistesse un reale bisogno. L’orientamento dei Membri verso possibili fraintendimenti in tali situazioni è ben illustrato dalla favola “Al lupo! al lupo!”. Nel caso di potenziale suicidio, i Membri ritengono che la minaccia di suicidio possa essere espressa in modo sbagliato: (6) (una ex fidanzata riferendosi a un uomo che vuole suicidarsi) S1. Sa se lui si è già trovato in questo stato d’animo prima d’ora? C1. Non così. Ma come ho cercato di dire prima, all’inizio io ho pensato che era tutto parte di una recita, cioè non una recita, non dovrei usare questa parola. È solo che lui ha fatto di tutto per sistemare le cose e così….

Questa paura di ciò che possiamo chiamare l’uso sovversivo di una minaccia di suicidio non è ovviamente senza ragione. Si veda ad esempio la seguente conversazione tra un uomo segnalato e il personale di una clinica. (7) S1. Cosa ha fatto? C1. È stato un impulso perché mia moglie mi stava lasciando, ma è stato solamente per portarla alla riconciliazione. Capisce cosa intendo? S2. Sì, ma cosa ha fatto? C2. Ho cercato di spararmi S3. In che modo? C3. Ho preso il fucile, l’ho caricato ed ho cercato di spararmi

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S4. Poi cosa è successo? C4. E’ partito un colpo, ma in realtà non ho mirato a me stesso. Provo a spiegarmi meglio; era per farle credere che avevo intenzione di farlo […] S5. Cosa pensa di ciò che ha fatto? C5. Che l’avrei portata in tribunale per la riconciliazione

Ci sono diversi modi di considerare questo uso sovversivo della richiesta d’aiuto, uno di questi può implicare quanto segue: i Membri ritengono che esistono ragioni più o meno valide per il suicidio e decidono se e quale aiuto dare in base al fatto che esista una ragione determinabile e considerano, inoltre, se e quali fatti sussistono per determinare se sia stata data una spiegazione valida o meno. (8) La seguente citazione riguarda un ambito molto diverso – si tratta di un estratto di una decisione arbitrale – ma può semplificare tale procedura. Ford-UAW Arbitrato, caso A-70, Harry Shulman, arbitro. La storia degli impiegati licenziati rasenta l’assurdo. Dodici di loro hanno testimoniato davanti me. Ognuno dichiara di essere interamente un innocente spettatore incapace di capire perché è stato licenziato. Nessuno di loro ammette di aver preso parte alle manifestazioni. Nessuno ammette perfino la curiosità normale di un innocente spettatore. Ognuno dichiara di sapere assai poco sulla causa del fermo e si è preoccupato anche meno dopo aver saputo la ragione. Tutti dicono che quando le luci si sono spente e la fila si è fermata, hanno chiesto al caposquadra cosa fare e poiché veniva detto loro che potevano andare a casa o restare come preferivano, ma che il loro tempo era terminato, allora sono andati a casa. Uno degli uomini, un giovane pugile, afferma che dopo aver visto la folla e l’agitazione, lui tranquillamente si riparò in un posto

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caldo e confortevole e si mise a dormire. Fece questo, come ha detto, per due o tre giorni (essendo assente il terzo) e dormì sonni tranquilli finché le agitazioni non si placarono del tutto. Sembra che tutti erano veri e propri angeli immuni dal contagio dell’agitazione che c’era nell’ufficio. Senza dubbio, ci sono stati seri arresti il 5, 6 e l’8 novembre. C’erano uomini indignati e vocianti che andavano in giro incitando all’azione. Chi erano questi uomini esaltati? Chi erano questi uomini indignati per i quali era così difficile andare al lavoro e che erano cosi esaltati, come sostiene il sindacato, che si rivoltarono contro i loro propri capi aggredendone due? Come sono stati scelti invece questi 14? Il sindacato non dà spiegazioni. Non c’è ragione di non pensare che questi uomini siano stati estratti a sorte; e che questo metodo sarebbe perfino ritenuto comunemente in grado di individuare i colpevoli. E non c’è fondamento che gli uomini siano stati selezionati per delle animosità verso di loro – con l’eccezione di uno. Nessuno era visto come uno che crea problemi o di cui la compagnia sarebbe stata felice di liberarsi. La spiegazione della compagnia è semplice e priva di contraddizioni, diversa dalle incredibili storie raccontate dagli indagati. Il conciliatore dei rapporti di lavoro, con l’aiuto del suo assistente, prese i nomi o il numero di tesserino degli uomini più attivi nei gruppi che dimostravano in questo ufficio. Questo vale per dodici dei quattordici… . In queste circostanze non posso credere alla pretesa di innocenza degli uomini.

In breve, nel caso di fatti in contraddizione tra loro, i Membri ritengono che è vero quel fatto per cui è fornita una spiegazione adeguata e non vero quello per cui non è fornita una spiegazione adeguata. Quindi quando l’azione del dare aiuto è basata su una situazione che è difficilmente definibile con certezza da parte di chi dovrebbe dare aiuto, la richiesta di una spiegazione sembra diretta a determinare se lo stato di bisogno sia effettivo. 91 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Una persona che sta riflettendo sull’usare R per ottenere aiuto dovrà allora fronteggiare il problema di dire sia che intende suicidarsi e sia anche perché vuole farlo. Si dovrà perciò confrontare con il prendere in considerazione le diverse reazioni che può ricevere nel momento in cui spiegherà le proprie ragioni. Di conseguenza, ciò che mette i Membri di Rp nella condizione di capire cosa devono fare non è semplicemente il fatto che venga dichiarata l’intenzione del suicidio. Al contrario, il motivo del suicidio fornisce loro quello di cui hanno bisogno per decidere come reagire. In tal modo diventa rilevante e disponibile una procedura utile per prevedere cosa potrebbe fare un potenziale soccorritore. Il possibile suicida la può usare in modo più circoscritto, in riferimento alla standardizzazione di azione appropriata che un potenziale soccorritore può intraprendere, se si considera quel resoconto come il resoconto di quelle azioni. Ricordiamo che se c’è un primo Membro disponibile di Rp, è a quel Membro che il potenziale suicida dovrà rivolgersi per chiedere aiuto, quindi quest’ultimo può utilizzare la procedura che abbiamo visto con riferimento al primo Membro. Supponiamo che la persona potenziale suicida sia una donna sposata. Per quel che sia, il primo membro di Rp sarà suo marito. Ipotizziamo che la ragione del suo suicidio implichi il fatto che lei sia coinvolta in una relazione con un altro uomo – ad esempio, per menzionare un esempio paradigmatico che abbiamo trovato in una lettera di una suicida, un amico del marito. La donna allora deve considerare le varie azioni che il marito può intraprendere a causa del suo tradimento. Da una parte, egli può ritenere il fatto del rischio di suicidio come adeguatamente spiegato e darle aiuto, dall’altra, potrebbe usare l’adulterio per mettere fine al loro rapporto, per chiedere il divorzio. La donna dovrà allora affrontare il seguente dilemma; da una parte, il fatto che sia sposata e che è una potenziale suicida fa sì che suo marito sia la prima persona a cui deve rivolgersi per chiedere aiuto, dall’altra, ciò che lei gli dirà potrebbe agire nel senso di far perdere a quest’ultimo proprio quel posto che lo rendeva la prima persona a cui rivolgersi. In questo dilemma lei potrebbe rendersi conto che non ha nessuno a cui

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rivolgersi – quando lei è tenuta a chiedere aiuto, allora deve rivolgersi a lui, e lui risulta disponibile. Il caso può essere generalizzato nel modo seguente: se un potenziale suicida ha come ragione del suo suicidio qualche azione che per il primo membro di Rp può essere causa di una rottura (divorzio, disconoscimento, o anche morte) allora, utilizzando le categorie secondo le regole dell’uso che abbiamo costruito, si ritrova nel dilemma sopra descritto e arriva a dire: “Non ho nessuno a cui rivolgermi”. Nel seguente scambio, il chiamante è un omosessuale potenziale suicida. (9) S1. Capisco cosa significhino queste pressioni su di lei. C’è qualcuno di cui si può fidare, qualcuno che possa prendersi cura di lei? Perché è questo di cui lei ha bisogno ora. Ha bisogno che qualcuno venga a stare da lei e se ne occupi. C1. Le sole persone che conosco sono uguali a me. Non ho altri amici S2. E che mi dice delle persone come lei? C2. Loro mi danno un sacco di cose e … S3. E il suo medico? C3. Non ho un medico di famiglia. S4. Qualcuno le avrà prescritto quelle pillole? C4. È solo un medico che ho chiamato apposta. S5. E non l’ha mai visto? C5. Molto tempo fa per una cosa di poco conto. Non lo conosco molto bene. S6. Pensa che la prenderebbe in carico? C6. Non lo so. S7. E cosa mi dice dei suoi genitori? C7. Non posso dirlo a loro, piuttosto mi ucciderei. S8. Non può dire loro cosa? C8. Niente.

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S9. Neanche che si sente male e che ha bisogno di essere ricoverato? C9. No. S10. Ma avranno gli occhi e probabilmente è un sacco di tempo che si stanno preoccupando per lei. C10. No non sono preoccupati. S11. Mi piacerebbe chiamarli e parlare con loro. C11. Non voglio che lo sappiano. S12. Certamente non direi niente di quello che mi ha detto. Direi solo che sta soffrendo e che è in un cattivo stato e che sta pensando di suicidarsi ed ha bisogno di essere ricoverato in una clinica e che vorrei che la portassero lì. Le va bene che sappiano questo? C12. Non voglio che sappiano niente, mio padre ha problemi di cuore e mia madre non sta bene. S13. E sua madre cosa? C13. Non è in buona salute neanche lei e se li chiamasse e gli dicesse qualcosa…… S14. Non so. Ho chiamato molte persone e penso che saprei gestirli in modo che non vadano fuori di testa. Lei però ha certamente bisogno che qualcuno si prenda cura di lei in questo stesso momento. Penso che questo faccia parte del grande problema che lei non ha una relazione con qualcuno, non ha nessuno a cui appoggiarsi. È così, vero? C14. Sì, l’unica cosa su cui posso appoggiarmi ora è il pavimento. S15. Penso che, be’, quello che ciò che ho imparato dalla mia esperienza è che le persone di solito si dimostrano migliori di quello che pensavamo, anche se un estraneo ti aiuta se gli dici che sei malato e devi andare in clinica, ma in ogni caso mi piacerebbe parlare con i suoi genitori di questo. Può star certo che non farò nessun riferimento ai suoi problemi sessuali, e sono sicuro che loro si sono preoccupati del fatto che ogni sera torna a casa ubriaco. C15. Non lo sanno, sono sempre al letto a quell’ora.

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S16. Non sono molto lucidi? C16. No, stanno bene, in realtà hanno fatto anche troppo per me.

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Avendo sostenuto che ci sono procedure corrette che portano alla conclusione “non ho nessuno a cui rivolgermi”, il lettore potrebbe chiedersi se ogni affermazione di questa conclusione riguarda dal mio punto di vista soltanto il problema di come mostrare che quell’asserzione è corretta. Ci possono essere, verosimilmente, asserzioni di questo tipo che sono sbagliate. I membri capiscono quando tali affermazioni sono sbagliate e la mia analisi permette di individuarle. (10) S1. Quindi dici che stai pensando al suicidio? C1. Sì ci sto penando da tre mesi, ma alla fine ho raggiunto il limite, penso. S2. Pensi che l’unico motivo sia quello finanziario? C2. Sì. Non credo di essere malato. Capisco che per pensare al suicidio penso che bisogna essere malati. S3. Non è per forza così. Parliamo della tua condizione finanziaria, allora. C3. È un casino, tutto qua. Si tratta di tanto denaro che ho chiesto in prestito e non posso restituire. Gran parte è privato, di cari amici, e un’altra buona parte è un prestito della banca. I pagamenti hanno scadenze, e ciò mi fa pressione e non ho alternative. Non posso rivolgermi altrove; cioè potrei ancora andare dai miei amici, ma sono orgoglioso e non voglio farlo più.

Per i membri il fatto che una rottura possa accadere, a causa del resoconto offerto dal potenziale suicida, non significa necessariamente che lo sarà. Comunque, quando i potenziali suicidi cercano di scoprirlo, vanno incontro a particolari difficoltà. Il problema può essere posto nel modo seguente: (1) ci sono massime note che prevedono che per certe azioni per cui può verificarsi una 95 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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rottura, la rottura non avviene. Ad esempio esiste una massima nel caso delle figlie incinte ma non sposate. Sebbene alcuni genitori potrebbero affermare in generale che la gravidanza di una ragazza non sposata è terribile e che si dovrebbero intraprendere azioni drastiche come il disconoscimento nei suoi confronti, se succede che una figlia si trova in tale situazione, allora la massima proposta, citando una conversazione, diventa: “I genitori devono restare vicini alla loro figlia dandole l’aiuto di cui ha bisogno”. Tali massime sono valide per diversi fatti per i quali possa verificarsi una rottura, ma (2) non esistono procedure disponibili per determinare se, in ogni dato evento della loro rilevanza, sarà la massima o la rottura a determinare le azioni del Membro rilevante in base a Rp. Non sembra facile determinare il comportamento di Rp tale che si possa conoscere la loro azione così da procedere ad agire in modo radicalmente differente. I diversi modi con cui qualcuno in tale situazione può tentare di scoprire cosa verrà fatto sono manifestatamente inadeguati. Possono consistere, ad esempio, in una discussione che tocchi l’argomento in generale, o l’evento reale senza riferimenti al loro caso concreto. Per molti, la risposta probabile che si avrebbe in conversazioni del genere sembra essere l’alternativa di rottura, indipendentemente dal fatto di cosa farebbero se si trattasse di una situazione reale. (11) S1. C’è qualcuno su cui può contare o a cui può rivolgersi? C1. Non in una situazione come questa. S2. Non c’è nessuno che sa cosa sta passando? C2. No, e nessuno ... mi spiego meglio. Divido un appartamento con un tipo che conosco bene. Però questo non è il genere di cose di cui parlerei con lui. S3. Perché? C3. Diciamo che è un tipo che pensa positivo. S4. ha un atteggiamento un po’ aggressivo… C4. Una persona molto aggressiva, e be’, tanto per iniziare questo lo abbatterebbe, e lui ha avuto sempre fiducia e così via, si

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è appoggiato a me molte volte. Che ora sia io a rivolgermi a lui e dirgli che è un po’ che ci sto pensando, e così via. S5. Non pensa che capirebbe? C5. Capirebbe, ma significherebbe che non potrebbe contare su di me o fidarsi di me e così via come ha fatto fino ad ora. S6. Non la seguo bene. Pensa che se lui scoprisse che lei ha una debolezza o che si sente turbato o depresso, questo farebbe vacillare la sua fiducia in lei? C6. Sì, proprio così. S7. A volte non valutiamo bene le persone intorno a noi, e a volte reagiscono meglio di quanto crediamo. Ma questa è solo una supposizione perché io non lo conosco. C7. Ho cercato di valutare la situazione per quel che lo riguarda. Diciamo, facendo allusioni sottili e riferimenti ad altri e così via e così via, e questo è l’atteggiamento con cui devo avere a che fare. S8. Non ha una buona opinione di quelli che si sentono così? C8. No, tende a considerarli molto deboli e incapaci di affrontare i problemi e così via e così via. E non voglio l’impressione che a me potrebbe capitare una cosa del genere. S9. Preferirebbe esser morto? C9. Francamente penso di sì.

V È evidente che la regola dell’uso metodico di Rp sia centrale in quanto detto sopra. Se una prima posizione di Rp ha un occupante, allora il fatto che una persona che intende suicidarsi abbia una buona ragione per non rivolgersi a tale posizione non significa che sia più appropriato rivolgersi all’occupante di seconda posizione. L’uso metodico di Rp ha un insieme di conseguenze che possiamo raccogliere in questa sezione, anche se alcune di loro sono state già menzionate o suggerite prima. Possiamo cominciare rivedendo le precedenti 97 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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considerazioni. Primo, riguardo il verificarsi di una morte che la polizia ipotizza sia dovuta a suicidio, un modo per verificare se ciò sia corretto o meno è di interrogare i membri (di Rp) che potrebbero fornire informazioni rilevanti. Sembra proprio che Rp e le regole del suo uso portino i funzionari a questo tipo di indagine, e che essi usino il dispositivo R in modo tale che, conoscendo niente altro che il nome della persona morta, possano sentirsi sicuri di sapere chi devono trovare e contattare, ovvero le persone potenzialmente disponibili come Membri di Rp, per stabilire se la morte è dovuta a suicidio. I funzionari possono supporre che se si è trattato di suicidio e se erano disponibili Membri di Rp, allora il suicida avrebbe (secondo le norme di Rp) informato tali Membri – o alcuni di loro – della sua intenzione di suicidarsi. Rp è usato normalmente in questo modo dalla polizia e dai coroner. 12) (da un verbale della polizia) Dopo aver completato la nostra indagine all’ospedale, abbiamo proceduto all’identificazione e abbiamo contattato il marito della vittima e i suoi due figli. Durante l’interrogatorio hanno ribadito al sottoscritto che secondo loro la vittima è morta per cause naturali; che lei non ha mai tentato il suicidio, e che le pillole trovate vicino al corpo non hanno nulla a che vedere con la sua morte.

13) (da un rapporto del coroner) Si ritiene che la persona che debba essere contattata è la moglie del signor R. la quale comunque vive, a quanto risulta, permanentemente nel New Mexico.

Il fatto che la prima posizione sia standardizzata è cruciale per i magistrati. Le caratteristiche della standardizzazione rendono prevedibile che se c’è un Membro di prima posizione, e questo si determina dall’uso del nome della persona morta, allora un genitore o il coniuge vanno cercati e inoltre queste persone sono considerate archivi appropriati. In altre pa98 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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role, se uno dei due esiste allora la questione del successo di un’indagine dipende dalla sua disponibilità. Il fatto di non essere disponibili sembra avere come conseguenza un procedere dell’indagine senza ulteriore uso di R – ad esempio, senza cercare di individuare altre persone che potrebbero in qualche modo sapere se una qualche dichiarazione è stata fatta dal suicida. I Membri della prima posizione sono d’accordo con i magistrati. Come indicheremo fra breve attraverso alcuni materiali, essi ritengono che se un potenziale suicida non li ha informati sulla propria intenzione, allora la morte non va considerata un suicidio. Il fatto che essi possano affermare che non erano stati informati, costituisce spesso il fondamento per la loro pretesa secondo cui l’ipotesi che una morte sia un suicidio non dovrebbe essere avanzata o, se avanzata, andrebbe messa in discussione. 14) (in una lettera in cui si chiede al magistrato di rivedere la decisione che si è trattato di suicidio) So che questa le sembrerà solo una scocciatura ma, come ho detto, non posso spiegare cosa significhi per me non avere la memoria di mia madre macchiata dai dubbi circa la sua morte. Non voglio che nessuno dei suoi nipoti, di cui uno ha tredici anni, sappia mai o senta dire che ci siano dubbi sulla sua morte, perché so che non ce ne devono essere. Mio marito è stato un po’ con lei quella sera e lei era di buon umore. È andata al lavoro sabato mattina del 6-2-62 ed ha lavorato fino alle 16:30. È rimasta a prendere un caffè con una delle donne ed era di buon umore. Più tardi la sera ha parlato con la vicina di casa dicendole che si sentiva male fisicamente e che voleva venire a vivere da noi. Più tardi mia cognata l’ha chiamata e aveva molta tosse e si sentiva stanca, ma mentalmente era presente e disse che si sentiva così male che sarebbe andata subito al letto per riposarsi visto che doveva lavorare presto domenica mattina… 15)

(da un verbale del coroner)

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Ho chiamato la signora P. per fissare un appuntamento. Lei disse che suo marito non aveva mai parlato di suicidio e non era da lui commettere un suicidio.

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Quando una persona appartenente a una non-prima posizione viene informata da un potenziale suicida delle sue intenzioni o lo viene indirettamente a sapere, allora, anche se non conosce i Membri che occupano la prima posizione, tale persona ritiene che il corso d’azione opportuno consista nell’individuare e nell’informare l’occupante di una prima posizione, oppure nel consigliare il potenziale suicida di rivolgersi all’occupante di una prima posizione. 16) C1. Mi chiedevo se potesse darmi un consiglio. Sabato scorso mi è venuta a trovare una vicina di casa nonché mia amica. Era disperata per una situazione familiare e mi ha detto che non voleva più vivere e io non l’ho presa molto sul serio, ma mentre era lì ha preso diciotto pillole di sonnifero. S1. A casa sua? C2. Sì, è successo sabato verso le cinque, direi, e così l’ho consigliata, cioè non non mi ero accorta che l’aveva fatto perché quando è successo ero uscita dalla stanza. E l’ho consigliata di andare a cercare un parente. Ho pensato che avrebbe potuto aiutarla meglio di me.

Può essere che qui c’è una conseguenza estremamente importante dell’uso ordinato di Rp. Vale a dire: se i Membri della prima posizione non danno aiuto, allora non ci si può aspettare che i Membri delle altre posizioni lo facciano.

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VI Abbiamo osservato che sia R che K possono categorizzare una qualsiasi popolazione. Poiché le norme organizzate con riferimento a R offrono la struttura e la procedura di richiesta di aiuto per i potenziali suicidi, allora una persona che con riferimento a K è “un professionista”, nei miei materiali è considerato “un estraneo”, vale a dire un Membro di Ri. Il problema è così posto: come mai le persone potenziali suicide, o quelle che chiedono aiuto utilizzando R, arrivano a considerare opportuno rivolgersi a un professionista? Siccome sembra che la restrizione a usare Rp funzioni come un obbligo del potenziale suicida di rivolgersi a qualche categoria di Rp, ci sono delle procedure alternative che ciononostante permettono di lasciare inviolato quell’obbligo: 1. I Membri di Rp possono dire al suicida che deve rivolgersi a un professionista. 2. I Membri di Rp ai quali ci si è rivolti per cercare aiuto, possono cercare loro stessi un professionista. 3. Se non ci sono membri di Rp, allora non è improprio rivolgersi ad un “estraneo”. 17) S1. Lasci che le faccia un’altra domanda. Noi qui siamo molto interessati. Riceviamo chiamate da persone che spesso sono reticenti a dare il proprio nome oppure non lo dicono affatto. Perché? Cosa ve lo impedisce o cosa vi fa esitare? C1. È che uno si sente come un dannato pazzo, capisce? S2. Perché? C2. Ho più di ventuno anni e dovrei, capisce, se avessi un fratello, una sorella, un marito o qualcuno con cui parlare parlerei con quella persona. Ma mi sento una specie di idiota quando sei costretto a chiamare un estraneo e dire: “Posso parlare con lei per favore?”

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Nel caso ci siano Membri di Rp, comunque non si violano gli obblighi verso di loro se si cerca un non-Membro in maniera anonima, vale a dire senza rivelare la propria identità e quella di Rp. Un ufficio come il Centro di Prevenzione dei Suicidi ha scoperto che le persone che chiamano spesso non lasciano il loro nome (Tabachnick – Klugman 1965). Il fatto è forse parzialmente spiegabile poiché quando contattano un estraneo sentono che stanno violando le regole di R. Un contatto fatto sotto questo vincolo pone al ricevente un compito difficile, quando cerca di portare la persona a intraprendere un percorso terapeutico. Non considereremo nel dettaglio come fa un professionista ad approfondire tale contatto, ma faremo solamente un accenno. L’appropriatezza di R produce l’inadeguatezza di K, così l’adeguatezza di K fornisce l’inadeguatezza di R. Quelli che sono, in riferimento a R, Membri di Rp sono similmente in riferimento a K Membri di Ki, dove Kp è il professionista e Ki il non professionista per ogni dato problema per cui K è rilevante. Il compito di un professionista, contattato fin dall’inizio come estraneo, allo scopo di trasformare il proprio status in una categoria pienamente appropriata, è di dimostrare al suicida che per il suo problema il professionista ha una speciale ed esclusiva competenza, per cui non solo non è inappropriato rivolgersi a figure come la sua, ma anche che Rp non può dare tale aiuto. 18) S6. Chiariamo subito una cosa. A chiunque può capitare di trovarsi in una situazione da cui non riesce a tirarsi fuori da solo, in cui ha bisogno di un aiuto esterno. C7. È così si dovrebbero chiamare degli estranei per avere aiuto? S7. Certo. Se si rompesse una gamba non ci penserebbe due volte prima di chiamare un medico per farsi aiutare. C8. Sì, ma è diverso. Ma la tua famiglia dovrebbe aiutarti, non crede? S8. Forse dovrebbero, ma non sempre lo fanno.

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C9. Sì, ma penso davvero che, cioè ... S9. Veramente, non credo che la sua famiglia possa aiutarla nella sua situazione. Credo che sia qualcosa contro cui deve lottare da solo e per questo avrà bisogno di un aiuto di tipo professionale. Lei teme che questo significhi essere pazzo? C10. No, non credo di essere pazzo.

Dato che la conclusione “nessuno a cui rivolgersi” è raggiunta in riferimento a Rp, si potrebbe supporre che la sostituzione di R con K fatta fin dall’inizio eviterebbe che si arrivi a questa conclusione. Rimuovere la rilevanza di R può però portare a eliminare il carattere obbligatorio della richiesta d’aiuto. Inoltre, dato che tra i criteri nella scelta di rivolgersi a K non c’è il semplice bisogno di aiuto ma anche la possibilità di pagare, quelli che non possono permetterselo potrebbero considerarsi ancor più svantaggiati qualora pensassero che K fosse l’unica appropriata. 19) S1. Guardi, lei certamente ha bisogno di aiuto. C1. Quale aiuto? Come quello di spendere 45 dollari l’ora per andare in un posto come uno psicoanalista, dollari che non ho. Non lavoro da un anno e mezzo.

Riferimenti bibliografici Richards A. I. 1956, Chisungu. A girl’s initiation ceremony among the Bemba of Zambia, Faber & Faber, London. Zborowski M., Herzog E. 1962, Life is with people, Schocken Books, New York. Tabachnick N., Klugman D. J. 1965, No name. A study of anonymous suicidal telephone calls, in «Psychiatry», 28, pp. 79-87.

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L’analisi sociologica dei significati sociali sul suicidio1

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Jack D. Douglas [Vi sono] due tipi di conoscenza, che per comodità possono essere definite come conoscenza dinamica e conoscenza statistica. Il metodo statistico per l’indagine delle domande sociali vede Laplace come il suo esponente più scientifico e Buckle come il suo esponente più popolare. Le persone vengono raggruppate sulla base di alcune caratteristiche ed il numero di persone che compongono il gruppo viene definito in base a queste stesse caratteristiche. In sociologia, questo è il materiale grezzo da cui parte lo sforzo statistico per arrivare a dedurre delle teorie generali. Altri studiosi della natura umana procedono in un modo diverso. Essi osservano gli uomini nella loro individualità, entrano nel merito della loro storia, analizzano le loro motivazioni e confrontano le loro aspettative con ciò che fanno poi nella loro condotta effettiva. Questo può essere definito come il metodo di studio dinamico applicato all’uomo. Per quanto il metodo di studio dinamico dell’uomo possa essere imperfetto nella pratica, esso è evidentemente l’unico metodo perfetto in principio, e le sue carenze derivano dalle limitazioni delle nostre capacità piuttosto che da un insieme di procedure imprecise. Se noi ci affidiamo al metodo statistico, lo facciamo ammettendo che non siamo in grado di rendere conto dei dettagli di ogni caso individuale e aspettandoci che gli effetti molto diffusi di eventi causali, anche se molto diversi in ogni individuo, produrranno un risultato medio su tutta la nazione, a partire da uno studio di cui possiamo stimare il carattere e le propensioni di un essere immaginario chiamato l’Uomo Medio. Clerk Maxwell, Scienza e Libero arbitrio.

1.  J. D. Douglas 1966, The sociological analysis of social meanings of suicide, in «European Journal of Sociology», 7, pp. 249-275. Traduzione di Jessica Neri, revisione di Enrico Caniglia e Cirus Rinaldi.

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La storia delle idee dimostra in maniera definitiva che certe idee possono diventare così pervasive e centrali nel pensiero di una cultura che anche dopo molti secoli i membri di quella cultura continuano ad applicare, senza metterle in discussione, le stesse idee in molti modi anche a nuovi campi di esperienza2. Tali idee sono ciò che noi dovremmo chiamare idee metafisiche. Queste idee metafisiche generalmente formano il terreno per il discorso del senso comune. La storia delle idee ha mostrato che esse formano anche il terreno per, e spesso costituiscono gran parte della sostanza di, lavori intellettualmente seri. Anche se la scienza nel mondo occidentale è nata e si è sviluppata in parte come una esplicita rivoluzione contro tutto ciò che non è controllato, ovvero le idee “non empiriche”, i recenti lavori nella storia della scienza sono arrivati alla conclusione che il pensiero scientifico è largamente il risultato di, e in parte costituito semplicemente da, queste idee metafisiche3. Inoltre, lavori più recenti nella storia della scienza hanno portato alla conclusione che una volta che le idee scientifiche sono state accettate dai membri di una disciplina scientifica, queste idee a loro volta vanno a formare il terreno non controllato e la sostanza dei normali lavori scientifici all’interno di quella disciplina. Anche se queste idee quindi hanno molto più in comune con il discorso umanistico e del senso comune di quanto molti scienziati avrebbero mai cura di ammettere, vi sono molte importanti differenze che possono essere prese in considerazione dando alle idee delle scienze definite e non controllate un nome differente – che è quello delle idee paradigmatiche (Kuhn 1962). Anche se il pensiero sociologico è ancora in certa misura in una fase non paradigmatica della costruzione del pensiero, sembra ragionevolmente chiaro che a partire da circa la metà del XIX secolo il pensiero sociologico si è costruito su entrambe le idee non controllate o metafi2.  Il classico studio di Lovejoy rispetto all’idea della Great Chain of Being è una di queste dimostrazioni definitive. 3.  Il classico lavoro di E. A. Burth è stato uno dei primi ad applicare chiaramente questa idea generale alla scienza. Vedi E. A. Burth 1954, The metaphysical foundations of modern science, Doubleday, New York.

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siche e le idee paradigmatiche. Pertanto, il pensiero sociologico è stato paradigmatico, anzi è stato molteplicemente paradigmatico: cioè, il pensiero sociologico è stato sin da quel momento normalmente e intenzionalmente costruito in modo da essere visto dai membri della (grezzamente definita) disciplina in grado di adattare certe (molteplici) idee usate da quei membri nella costruzione del “pensiero sociologico”4. Queste idee paradigmatiche erano i fondamenti sui quali tutti i lavori venivano costruiti. A volte una o due idee paradigmatiche formavano la base per lavoro di una vita di un sociologo5. In generale, comunque, questi lavori erano costruiti attorno ad un certo numero di idee paradigmatiche, anche se queste idee spesso confliggevano l’una con l’altra quando venivano esaminate in relazione tra loro6. 4.  Fino alla fine del diciannovesimo secolo i termini usati invece che “sociologia” erano “statistica morale”, “igiene pubblica”, “statistica medica”, “statistica sociale”, ecc. Da quando queste discipline di pensiero sono andate effettivamente a costituire i lavori paradigmatici per questi lavori (come il Suicidio di Durkheim) ancora trattati come paradigmi sociologici da parte dei sociologi, sembra evidente che una persona possa usare il termine “sociologico” per riferirsi ad essi, anche se i primi autori non rispondono a ciò che spesso è stato utilizzato come regola generale di autoattribuzione del termine “sociologia”. Il problema complessivo della nominazione mette a fuoco la questione generale dei processi attraverso i quali questa serie sfaccettata di discipline sia arrivata a condividere il nome di «sociologia». È chiaro che era talmente conflittuale la questione dell’attribuzione di un nome che vi era anche vacillazione da parte di alcuni. Perché il termine «sociologia» ha prevalso su tutti gli altri, almeno in Francia? I suoi caratteri di generalità hanno permesso ai suoi proponenti di ottenere maggiore supporto da parte di più numerose tradizioni di pensiero all’interno degli scontri politici tesi a determinare una professione indipendente all’interno del contesto accademico? È stato il fallimento nel trovare un tale nome generale a determinare la morte degli statistici morali in Germania? L’intera questione critica del dare un nome alle discipline necessita di analisi serie. 5.  Halbwachs ha precedentemente argomentato che questa è la chiave per comprendere molti lavori di Quètelet. Vedi La Teoria dell’Uomo Moderno: Scritti su Quètelet e la statistica morale. 6.  Invece che una qualche sintesi delle idee paradigmatiche, i primi sociologi erano generalmente soddisfatti di produrre un tema unificante al loro lavoro, che usualmente consisteva in qualche obiettivo generale del welfare sociale, come il potere della nazione, la riduzione della sofferenza o l’estirpamento del male.

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La maggior parte dei sociologi del XX secolo che hanno lavorato sul tema del suicidio hanno preso il Suicidio di Durkheim come paradigma principale: ovvero, essi hanno costruito i loro lavori in maniera tale da far sì che i membri della disciplina potessero considerare7 i loro lavori come ulteriori esposizioni delle fondamentali (e paradigmatiche) idee del Suicidio di Durkheim. Nel fare questo, essi hanno implicitamente assunto che le domande fondamentali riguardanti la natura propria di un’indagine sociologica in merito al suicidio avessero già trovato risposta nel Suicidio. Questo significa che le idee fondamentali dei lavori di questo XX secolo non sono affatto evidenti. Bisogna sicuramente collocare queste idee nel contesto del Suicidio di Durkheim se le si vogliono comprendere adeguatamente. Ancora una volta, tuttavia, le idee fondamentali o paradigmatiche di Durkheim non possono essere adeguatamente comprese fino a quando non le si inseriscono nel contesto dei molti lavori del XX secolo inerenti al suicidio che Durkheim ha usato per costruire il proprio lavoro. Per queste ragioni, la nostra indagine sui metodi sociologici di analisi dei significati sociali del suicidio deve iniziare con un’indagine sulle idee metafisiche e paradigmatiche delle opere ottocentesche che hanno formato il contesto del Suicidio di Durkheim. Saremo quindi pronti ad esaminare criticamente queste idee, così come si trovano nella loro forma più sviluppata nel Suicidio di Durkheim. Da questo esame critico potremo procedere alla nostra esposizione di quello che ora sembra essere il miglior metodo sociologico per analizzare i significati sociali del suicidio. Il pensiero sociologico dell’Ottocento sul Suicidio

7.  Deve essere qui specificato che i sociologi hanno spesso utilizzato diversi dispositivi per presentare i loro lavori come più in accordo con il paradigma accettato professionalmente, il Suicidio di Durkheim, di quanto non fossero in realtà. Halbwachs, ad esempio, ha tentato di mostrare che il suo lavoro, Le cause del suicidio, era in accordo “in linea di principio” con il Suicidio di Durkheim anche se egli di fatto ha rigettato molto delle argomentazioni di base di Durkheim.

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Le idee metafisiche dei sociologi del XIX secolo erano molto vicine alle idee metafisiche del senso comune, specialmente quando queste idee di senso comune venivano espresse da quegli autori letterati e filosofi più sofisticati che erano coinvolti nelle attività pratiche di amministrazione dei programmi di sanità pubblica e negli uffici governativi per le statistiche demografiche. Nel corso di tutto il XIX secolo vi fu una grande profusione di opere letterarie e filosofiche sul suicidio. Questo grande interesse degli intellettuali per il suicidio cominciò nel XVIII secolo, quando l’etica del suicidio divenne una questione fondamentale nel grande dibattito sulla reale e corretta natura (o reali e corrette nature) della società8. Questa preoccupazione per il suicidio come problema sociale crebbe rapidamente nel XIX secolo, fino a raggiungere un punto in cui un ampio segmento della popolazione sembrava aver dato per assodato che vi fosse una vera “mania” per il suicidio in tutta Europa9. 8.  Vedi L. G. Crocker, 1952, Discussion of suicide in the eighteenth century, in «Journal of the History of Ideas», XIII, pp. 47-72. L’importanza del suicidio nel pensiero francese di questo periodo fu a sua volta probabilmente in parte il risultato dell’importanza del soggetto nel pensiero inglese nel XVII secolo. Vedi S. E. Sprott, 1961, The english debate on suicide, Open Court Press, LaSalle, Illinois. 9.  Tissot scrisse un lavoro molto influente esprimendo sia questa idea sia l’idea che un crescente “spirito di rivolta” fosse responsabile di tali azioni sociali, un’idea che divenne più importante nelle opere sociologiche con il progredire del secolo (vedi De la manie du suicide, Paris 1841). La stessa idea è stata espressa nel lavoro molto più equilibrato di Jan Masaryk: “Die Selbstmordneigung tritt gegenwartig in alien civilisirten Landern mit erschreckender Intensitat auf...” (vedi Der Selbstmord als Sotiale Massenerscheinung der Modernen Civilisation, Wien 1881). Gran parte di questa credenza della diffusa “mania” del suicidio è stata probabilmente il risultato della grande importanza del suicidio nella letteratura romantica (vedi, per esempio, l’attacco al romanticismo di Maigron, Le romantisme et les moeurs, Paris 1910). Ma la sensazione di certezza che la quantità di suicidio fosse in costante aumento era probabilmente il risultato del costante aumento delle registrazioni ufficiali dei decessi causati dal suicidio. Questo costante aumento dei conteggi ufficiali è stato probabilmente il risultato di un costante aumento delle attività di registrazione dei funzionari, ma c’era poco atteggiamento critico verso le statistiche tranne da parte dei medici che erano coinvolti nei problemi di cercare di categorizzare

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Questa grande preoccupazione per il suicidio ha portato alla pubblicazione di un gran numero di opere sul suicidio che esprimevano le idee metafisiche di senso comune riguardanti il suicidio e che hanno influenzato direttamente le opere dei sociologi. Le opere di Buonafede, Bourquelot, des Etangs, Debreyne, Lisle, de Boismont e Legoyt sono state tutte molto importanti a questo proposito10. Da queste numerose opere, e probabilmente anche dalla loro esperienza diretta di senso comune, i sociologi hanno ricavato (o “assorbito”) le loro idee metafisiche più importanti per i loro lavori sul suicidio. Anche se non sono le uniche nelle loro opere11, le tre idee metafisiche più importanti per il nostro scopo sono le seguenti: le cause della morte. Anche se non ci preoccuperemo direttamente delle recenti opere letterarie e filosofiche sul suicidio in questo saggio, è importante notare qui che questa preoccupazione per il suicidio inteso come problema è ancora molto grande nel mondo occidentale di oggi. Infatti, anche se può essere stato un risultato temporaneo della Seconda guerra mondiale, vi sono tutti gli elementi per dire che gli ultimi decenni sono stati un periodo in cui il suicidio è stato considerato un problema filosofico e morale più grave che in qualsiasi momento del secolo scorso. Il grande lavoro di Albert Camus, The myth of Sisyphus, comincia con l’affermazione brutale che “c’è solo un problema filosofico veramente serio, e cioè il suicidio”. Per altri esempi importanti vedi P. L. Landsberg 1953, The experience of death: the moral problem of suicide, The Philosophical Library, New York; L. Meynard 1954, Le suicide, ètude morale et metaphysique, Presses Universitaires de France, Paris; G. Siegmund 1961, Sein oder nichtsein: die frage des selbstmordes, Paulinus-Verlag, Trier. 10.  Molte delle opere più importanti che costituiscono il collegamento tra le opere filosofiche, letterarie e di senso comune e le opere sociologiche sono state ampiamente citate (e citate nella bibliografia) nell’opera molto influente di Legoyt Le suicide ancien et moderne (Paris 1881). 11.  Una delle idee meta-fisiche più importanti in queste opere sociologiche non sarà trattata direttamente in questa sede. Questa è la loro idea universalmente condivisa ovvero che le azioni suicidarie sono azioni “immorali”, sia in senso assoluto (come nella concezione di Durkheim della “patologia sociale”) sia nel senso che questo è un significato sociale rispetto al suicidio universalmente condiviso nelle società occidentali. Questa idea stava dietro l’idea teorica esplicita che una rottura o una riduzione della “costrizione sociale” (o “organizzazione sociale”, ecc.) era in qualche modo la causa dei tassi crescenti di suicidio nelle società occidentali.

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1. Le azioni sociali sono in qualche modo causate (o motivate) da significati posseduti dall’individuo e condivisi da altri membri della società12. Questa era una delle più fondamentali idee di senso comune riguardanti le persone. Tale idea è stata accettata e utilizzata dai sociologi anche quando alcune delle loro idee paradigmatiche si trovavano in conflitto con essa; ed è rimasta in gran parte non esaminata tra i sociologi francesi e italiani che erano i più importanti nel costruire il pensiero sociologico sul suicidio, anche quando i sociologi tedeschi cominciarono a considerare il problema della determinazione dei significati sociali come il problema più fondamentale del pensiero sociologico. Anche se credo che una tale proposizione fondamentale richieda di essere esaminata, limiti di spazio ci impediranno di trattarla qui come questione problematica; rispetto allo scopo di questo saggio essa rimarrà un’idea metafisica. 2. Gli individui conoscono i significati delle proprie azioni e conoscono anche i significati delle azioni degli altri individui. La prima metà di questa idea metafisica è stata rigettata da una delle idee paradigmatiche delle opere sociologiche nella seconda metà del XIX secolo (vedi sotto), ma la seconda metà, la capacità dell’osservatore (il sociologo) di capire i significati delle azioni degli altri, è stata mantenuta. 3. Le azioni sociali significative, specialmente quelle morali o immorali, sono soggette al conteggio e all’analisi quantitativa come gli oggetti e le proprietà fisiche. Questa idea, che fu affermata per la prima volta chiaramente da alcuni filosofi alla fine del XVII secolo e utilizzata per la prima volta nell’analisi delle statistiche sociali da Sussmilch nel XVIII secolo (Sussmilch 1761), rimase in gran parte non esaminata per tutto il XIX secolo e la prima metà del XX secolo. (Questa particolare idea è in un certo senso paradigmatica, in quanto è stata 12.  Questa idea metafisica distingueva nettamente il pensiero sociologico dal pensiero paradigmatico dei “meccanicisti sociali” e da alcuni dei positivisti più estremi che cercavano semplicemente di usare le teorie delle scienze naturali come paradigmi per analizzare le azioni sociali. Per un trattamento eccellente dei “meccanisti sociali”, vedi P. A. Sorokin 1928, Contemporary sociological theories, Harper, New York, pp. 3-63.

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esplicitamente dichiarata dagli statistici morali e da altri e in quanto a volte essi esaminavano i modi in cui si dovrebbe procedere alla quantificazione. Tuttavia, viene qui trattata come un’idea principalmente metafisica, perché i sociologi non l’hanno mai messa in discussione e, quindi, mai realmente hanno tentato di stabilire o dimostrare la sua validità. Dal VII secolo in poi, uomini di affari pratici, come funzionari governativi e medici, sono arrivati a supporre che il mondo sociale, come tutto il resto del mondo, fosse soggetto alla precisione quantitativa13. Con il XIX secolo le uniche domande riguardavano gli argomenti di come si potrebbe quantificare più efficacemente il mondo sociale). Queste idee metafisiche pervadono le opere sociologiche del XIX secolo e della maggior parte di quelle del XX secolo. Tuttavia, essi hanno avuto la maggiore influenza nel determinare le forme specifiche di pensiero nelle opere sociologiche, sia attraverso la loro influenza sulle idee paradigmatiche del lavoro sociologico, sia attraverso le loro combinazioni con le idee paradigmatiche di queste opere. Le più importanti idee paradigmatiche delle opere sociologiche del XIX secolo sul suicidio (e sulla maggior parte degli altri fenomeni sociali) sono le seguenti: 1. La stabilità dei tassi di suicidi dimostra che le statistiche ufficiali sui suicidi (da cui sono state tratte tali percentuali) sono affidabili e valide. Come de Guerry aveva sancito, tale regolarità non poteva essere il risultato del caso: La statistique criminelle devient aussi positive, aussi certaine que les autres sciences d’observation lorsqu’on sait s’arrêter aux faits bien constates, et les grouper de manière a les dégager de 13.  Per una disamina eccellente dello sviluppo culturale generale, nel mondo occidentale, delle idee e dei valori della precisione quantitativa vedi G. N. Clark 1949, Science and social welfare in the age of Newton, Clarendon Press, Oxford.

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ce qu’ils offrent d’accidentel. Ses résultats généraux se présentent alors avec une si grande régularité qu’il est impossible de les attribuer au hasard. Chaque année voit se reproduire le même nombre de crimes dans le même ordre, dans les mêmes régions; chaque classe de crimes a sa distribution particulière et invariable, par age, par saison; tous sont accompagnés, dans des proportions pareilles, de faits accessoires, indifférents en apparence, et dont rien encore n’explique le retour (Guerry 1833, p. 9).

2. La stabilità dei tassi di suicidio indica che queste azioni sono causate da alcuni fattori legittimi esterni o non controllati dagli individui che le commettono. Ancora una volta, de Guerry aveva spiegato il caso piuttosto bene: «Si nous considérons maintenant le nombre infini de circonstances qui peuvent faire commettre un crime, les influences extérieures ou purement personnelles qui en déterminent le caractère, nous ne saurons comment concevoir, qu’en dernier résultat, leur concours amené des effets si constants, que les actes d’une volonté libre viennent ainsi se développer dans un ordre fixe, se resserrer dans des limites si étroites. Nous serons forces de reconnaitre que les faits de l’ordre moral sont soumis, comme ceux de l’ordre physique, a des lois invariables, et qu’a plusieurs égards, la statistique judiciaire presente une certitude complète» (ivi, p. 11).

3. I fattori esterni più importanti che determinano queste azioni sono i fattori sociali14. 14.  Sia de Guerry che Quetelet hanno espresso bene questa posizione. Si consideri, ad esempio, la seguente dichiarazione di Quetelet: «La società comprende in sé i germi di tutti i crimini commessi, e allo stesso tempo le strutture necessarie per il loro sviluppo. È lo Stato sociale, in una certa misura, che prepara questi crimini, e il criminale è solo lo strumento per eseguirli. Ogni stato sociale presuppone, allora, un certo numero

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4. I fattori sociali più importanti nella causalità dei tassi sociali di suicidio sono i significati sociali, e specialmente i “costumi morali” dei gruppi sociali. Questa idea paradigmatica era chiaramente un’esplicita formulazione di una delle idee metafisiche più importanti15. 5. Esiste un insieme ragionevolmente piccolo di significati sociali altamente astratti (come il “sistema sociale” o la “struttura sociale”) a fungere da causa per modelli specifici di azioni sociali che sono i tassi di suicidio; e l’unica teoria sociologica valida di tali modelli (o tassi di suicidi) sarà quella che farà riferimento agli stati di questo insieme di significati astratti. A differenza delle altre idee paradigmatiche, questa idea non venne completamente sviluppata sino al Suicidio di Durkheim16. Tuttavia, come dimostreremo più avanti, questa idea, nella forma specifica usata da Durkheim, si è sviluppata lentamente nel corso del secolo. Il conflitto dei metodi Queste idee metafisiche e paradigmatiche, soprattutto se combinate con alcune idee paradigmatiche minori (vedi sotto), hanno costituito la base di due metodi fondamentalmente diversi per analizzare le significazioni sociali delle azioni suicidarie. All’inizio, questi due metodi erano abbastanza ben combinati, almeno sincretisticamente, nell’opera della medicina statistica17. Con il progredire del XIX secolo, tuttavia, queste ed un certo ordine dei crimini, questi essendo soltanto le conseguenze necessarie della sua relativa organizzazione» (A Treatise on Man, Edinburgh 1842, p. 6, originariamente pubblicato come Sur l’homme a Paris nel 1835). 15.  Questa idea è stata chiaramente sviluppata al tempo del testo di E. Morselli 1882, Suicide: an essay on comparative moral statistics, New York. 16.  Morselli sembra aver condiviso gran parte di questa idea, ma la sua maggiore cautela nel costruire argomenti statistici tra le categorie esterne e gli stati interni, sembra averlo dissuaso dallo sviluppare l’idea, vedi, per esempio, la sua eccellente dichiarazione di questa posizione in ivi, p. 114. 17.  Il lavoro più importante in questa scuola di pensiero è quello di Esquirol E.

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due tradizioni di analisi metodologica, il metodo dello studio dei casi e il metodo (morale) statistico, sono entrati in conflitto crescente. Da questo conflitto gli statistici morali crearono alcune idee paradigmatiche per giustificare il proprio metodo e per “invalidare” il metodo di studio dei casi. Queste idee paradigmatiche, combinate con le idee metafisiche e paradigmatiche più generali già discusse, hanno costituito le idee distintive della posizione sociologica di Durkheim18.

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Il metodo dello studio dei casi Il metodo per la determinazione dei significati che causano azioni suicidarie studiando i singoli casi di suicidio è saldamente fondato nelle idee metafisiche che le azioni sono causate da significati condivisi e compresi da tutti i membri della società. Date queste due idee, era evidente che per spiegare il suicidio, si dovevano conoscere i suoi significati e che si poteva meglio conoscere questi significati con auto-dichiarazioni di significati. L’uso crescente, soprattutto da parte dei medici, delle idee di induzione scientifica nello spiegare le azioni ha portato allo sviluppo di questo metodo comune nel tentativo di fornire spiegazioni più astratte osservando una serie di casi di suicidio. Questo metodo statistico informale (o metodo di induzione analitica)19 è stato sempre più formalizzato. Si sviluppò da una semplice rassegna non strutturata dei classici casi letterari di suici-

1838, Maladies mentales, Paris. 18.  Anche se la nostra discussione sul sociologismo è piuttosto diversa, gli aspetti distintivi del sociologismo di Durkheim sono stati ben discussi da parte di E. Tiryakian 1962, Sociologism and existentialism, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, N. J. 19.  Una delle discussioni più fini di questo metodo in relazione ad altri metodi usati dai sociologi è stata fatta da L. L. Bernard 1928, The development of methods in sociology, The Monist, XXXVIII, pp. 292-320.

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dio, in opere come quelle di Montaigne20 e Voltaire21, fino all’attento conteggio di Brierre de Boismont22 ed altri, rispetto al numero delle note di suicidio mostranti determinate motivazioni per le relative azioni suicidarie. I metodi utilizzati dai membri di questa tradizione metodologica per determinare il significato del suicidio, tuttavia, non si sono formalizzati lungo le linee del metodo statistico. Questi ricercatori e teorici non tentarono di imporre a questi significati una serie di categorie predeterminate, ma le loro analisi rimasero vicine alle categorie linguistiche utilizzate dagli stessi individui suicidi. Né fecero molti tentativi di analizzare i significati con metodi più formali.

20.  Montaigne ha discusso il suicidio a lungo in “Custom of the Island of Cea”. Va sottolineato che l’uso della letteratura e casi storici di suicidio sono rimasti molto importanti per tutto il XIX secolo. Tali opere come quella di Legoyt erano in gran parte basate su materiale storico e in alcuni aspetti fondamentali questo tipo di dati era molto più affidabile e valido rispetto a quello dei sociologi del XX secolo. (Si vedano qui di seguito le numerose critiche delle statistiche ufficiali). Il materiale storico e letterario rimane, naturalmente, la migliore fonte di studi sui cambiamenti nei significati morali del suicidio. Tale materiale è stato utilizzato molto bene a questo scopo da parte di W. E. H. Lecky 1869, History of european morals from Augustus to Charlemagne, 2 voll., New York. È stato utilizzato in modo eccellente nel miglior studio fatto finora sui significati morali del suicidio, di A. Bayet 1922, Le suicide et la morale, Alcan, Paris. Durkheim stesso si è basato quasi interamente sui casi letterari presi dal Romanticismo per costruire i suoi tipi di suicidio. È Durkheim [1897] 1951, Suicide, The Free Press, Glencoe, pp. 227-294. 21.  Il saggio di Voltaire sul suicidio nel Dizionario Filosofico ha fatto uso non solo dei casi storici tradizionali, ma anche dei casi di quotidiani contemporanei. Da tali fonti ha tentato di giungere a certe conclusioni scientifiche sul suicidio: 1) il suicidio è più frequente nelle città che nelle regioni rurali; 2) l’esplosione della maggiore frequenza urbana di suicidio è data dal fatto che le città producono più malinconia (o depressione) negli individui perché hanno più tempo libero dal lavoro fisico per pensare; 3) il suicidio può essere fisicamente ereditato perché il carattere morale è ereditato (un’idea che Morselli e molti altri hanno accettato con più enfasi); e 4) alcuni individui suicidi, come il Phaedra di Euripide, si suicidano per vendicarsi di qualcuno (un’idea che divenne di grande importanza solo nelle opere sul suicidio del XX secolo). 22.  B. De Boismont 1856, Du suicide et de la folie suicide, Paris.

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Sebbene, come diremo tra poco, questo metodo di studio dei casi fosse per certi aspetti più valido del metodo statistico utilizzato dai sociologi dell’ultima parte del XIX secolo, il metodo comportava ancora una visione troppo semplicistica dei significati sociali. Per i nostri scopi qui, è sufficiente notare che il metodo non è riuscito a considerare la complessità e la difficoltà di comprendere il sé degli individui. Esso ha assunto un grado troppo elevato di consapevolezza di sé, razionalità e onestà da parte degli attori sociali. Fu in parte a causa della realizzazione di ciò che gli statistici morali e, successivamente, i sociologi durkheimiani rifiutarono il metodo di studio dei casi per determinare ed analizzare i significati sociali del suicidio. Questo è stato dimostrato in due idee paradigmatiche specifiche che entrambi hanno adottato e usato nelle loro analisi delle opere basate sul metodo dello studio di casi: a. il suicidio stesso è un’azione irrazionale, così che non si può presumere che gli individui che commettono suicidio capiscano i significati delle loro proprie azioni23; b. gli uomini sono in generale infinitamente complessi e/o irrazionali, cosicché l’intero metodo di studio dei casi per l’analisi dei significati attraverso la dichiarazione e le azioni degli individui come dati fondamentali non è valido. Vi erano, tuttavia, altri motivi, probabilmente più importanti, per il rifiuto del metodo dello studio dei casi da parte di questi gruppi di sociologi. Per prima cosa, alcuni di loro erano ansiosi di creare la propria disciplina professionale e accademica, e questo sembrava richiedere un metodo che era distinto dai metodi di senso comune ancora utilizzati dai metodologi (di matrice filosofica e psicologica) dello studio di casi. Come disse Durkheim, “[...] se ci deve essere una scienza sociale, ci aspettiamo che non si limiti a parafrasare i pregiudizi tradizionali dell’uomo comune, 23.  Questa idea fu largamente adottata dai teorici psichiatrici, soprattutto dal lavoro di Esquirol (op. cit.) in cui il suicidio venne considerato un sintomo di infermità mentale.

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ma ci dia una visione nuova e diversa degli stessi”24. Ancora più importante, tuttavia, era il metodo matematico distintivo, il metodo statistico, verso il quale gli statistici morali si erano sempre più impegnati. L’idea fondamentale di questo metodo matematico era che le differenze individuali dovevano, per certi scopi, essere eliminate o trascurate. Quetelet aveva tentato, in una certa misura, di salvare la considerazione degli individui dalla sua teoria dell’uomo medio; ma i dati sugli individui vennero sempre più rifiutati fino a quando il paradigma fondamentale della posizione sociologica quasi25 andò ad eliminare completamente tali dati: c. la società deve essere considerata come un livello differente della realtà dagli individui, così che l’analisi dei dati a partire dagli individui è considerata invalida26. 24.  É. Durkheim [1895] 1962, The rules of sociological method, The Free Press, Glencoe, xxxvii. L’importanza del nuovo metodo per la nuova disciplina accademica (o il contrario) è stata indicata dallo stesso Durkheim nella sua introduzione a The rules of sociological method: «Una felice combinazione di circostanze, tra le più importanti delle quali può giustamente essere la proposta di istituire un corso di sociologia del diritto presso la Facoltà di Lettere di Bordeaux ci ha permesso di dedicarci presto allo studio delle scienze sociali e, di fatto, di farne la nostra professione. Pertanto, abbiamo potuto abbandonare queste questioni generali (di sociologia filosofica) e affrontare un certo numero di problemi ben definiti. La forza stessa degli eventi ci ha portato a costruire un metodo che, a nostro avviso, è più preciso e più esattamente adattato alle caratteristiche distintive del fenomeno sociale» ivi. p. ix. 25.  Durkheim non elimina completamente i dati sugli individui, anche quando la coerenza lo richiede. Attraverso le sue idee aristoteliche sulla causalità, Durkheim mantenne (anzi) una forma di causalità negativa per gli individui. Questa era una forma di causalità materiale, mentre la causalità efficiente, che è ciò che riguarda la scienza, era la società. Per un’analisi di tali aspetti dell’argomento di Durkheim vedi J. D. Douglas 1967, Appendice II: the individual and society in Durkheim’s suicide, in J. D. Douglas, The social meanings of Suicide, in stampa dalla Princeton University Press. 26.  Il metodo statistico di indagine non sarebbe certamente sufficiente per spiegare questa eliminazione dei dati individuali. Oltre ai fattori di fondazione di una professione indipendente, ci sono state altre forze intellettuali che hanno condotto nella stessa direzione: la teoria politica era venuta a trattare lo stato della nazione come indipendente dai singoli membri; la psicologia razziale aveva sviluppato idee di forze extraindividuali

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Purtroppo, come vedremo, questa idea paradigmatica ha avuto come conseguenza l’eliminazione di tutti i mezzi scientifici per determinare e analizzare il significato sociale del suicidio.

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Il metodo statistico di analisi dei significati sociali del suicidio Anche se si radica indietro nelle opere degli aritmetici politici e di Sussmilch da linee dirette di influenza, il metodo statistico dei sociologi nel XIX secolo è stato sviluppato principalmente da tre grandi scuole di pensiero tra loro connesse, facendo ognuna un uso un po’ diverso delle idee metafisiche e paradigmatiche fondamentali: gli statistici e gli igienisti medici, provenienti in gran parte dagli “ideologi” francesi (Picavet 1891), e meglio rappresentati da Villerne e da Parent Duchatelet; i teorici delle probabilità, derivanti in gran parte dall’influenza diretta di Laplace su Quetelet, che a sua volta ha influenzato le opere di tutte le tradizioni; e le opere demografiche, derivanti da molte fonti diverse, tra cui Sussmilch, attraverso la sua influenza su Malthus e altri. Queste tradizioni di pensiero furono sempre più sintetizzate e portate avanti nel corso del secolo dagli statistici morali, in particolare dalle opere di Guerry, Etoc-Demazy (1844), de Boismont, Lisle (1856), Morselli, Oettingen (1882), Wappaus, Masaryk, Wagner (1864), e Bertillon (1895). Alla fine del secolo si elevò il grande tentativo di una sintesi delle idee metafisiche e paradigmatiche fondamentali di queste tradizioni di pensiero, ovvero il Suicidio di Durkheim27. Poiché il lavoro di Durkheim è il migliore di questi lavori stati-

e significative che causavano azioni degli individui; e l’analogia organica fu potente per tutto il diciannovesimo secolo. 27.  Questa interpretazione del Suicidio di Durkheim è stata precedentemente presentata nel The social meanings of suicide dell’autore, parte I, cap. 1 e 2, per la conferenza stampa della Princeton University Press. Tutta la storia della ricerca sociale fatta da queste numerose scuole è stata affrontata in A. Oberschall, J. Douglas 1966, The rise of social research, Harper&Row, New York..

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stico-morali28 e poiché è questo lavoro che ancora serve come paradigma sociologico per la ricerca e la teoria sul suicidio, dobbiamo esaminare brevemente i metodi di Durkheim relativamente alla definizione e alla analisi dei significati sociali del suicidio. Sul piano più generale, il compito che Durkheim si è posto nel Suicidio è stato quello di mettere sistematicamente in relazione le già consolidate relazioni statutarie tra certe statistiche sulle categorizzazioni ufficiali degli individui (come individui sposati, divorziati, ecc.) e certe statistiche ufficiali sui tassi di suicidio alla teoria dell’anomia-egoista delle azioni immorali sviluppata da alcuni autori Romantici29, e precedentemente applicata solo parzialmente alle statistiche sul suicidio di Boismont e Morselli30. Le statistiche ufficiali sul suicidio sono state considerate quasi del tutto prive di problemi (ad eccezione della categorizzazione ufficiale dei motivi, che contrastava con l’intera teoria del suicidio di Durkheim). Scrivendo il Suicidio Durkheim accettò come valida l’idea di Morselli che “un cadavere è un cadavere”, con cui Morselli intendeva dire che una categorizzazione ufficiale delle cause della morte avrebbe potuto dire in maniera molto affidabile e valida se un individuo avesse commesso suicidio.

28.  Dal momento che ci sono alcuni che probabilmente contesterebbero definendo il Suicidio di Durkheim un lavoro di statistica morale, dobbiamo sottolineare che il Suicidio è stato rivisto nel primo volume de L’Annal sociologique (1896-1897), pp. 397-406, sotto la categoria generale di “Statistica morale”. Si potrebbe anche sottolineare che l’autore anonimo di questa recensione è stato molto critico rispetto a Durkheim “negando” tutto il valore causale dei fattori individuali. 29.  Chateubriand ha offerto un contributo rilevante in merito a questo. Per alcuni dei dettagli relativi a questa relazione vedi J. D. Douglas, The sociological study of suicide: suicidal action as socially meaningful actions, tesi di dottorato non pubblicata, Princeton University, Princeton, pp. 20-26. 30. Questa formulazione rispetto allo scopo di Durkheim tralascia l’importante aspetto intellettuale e di battaglia del Suicidio, cioè, l’obiettivo di giustificare l’esistenza indipendente di una professione sociologica. Questo è molto importante per la comprensione dell’intero lavoro, anche se non per la comprensione di quella parte dello stesso che qui ci riguarda.

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In realtà non c’era una giustificazione adeguata a questa ipotesi. I medici legali e i teorici del suicidio, tra cui Esquirol, erano da tempo consapevoli della grande difficoltà di determinare se un cadavere era il risultato di un suicidio (Rumsey 1875). Soprattutto, questi problemi si configuravano come il risultato diretto dei significati sociali del suicidio condivisi da vari gruppi di statistici. Purtroppo per le argomentazioni proprie di Durkheim, le categorizzazioni ufficiali di una morte causata da “suicidio” erano generalmente più dipendenti dalle relative attribuzioni in merito ad un’intenzione di morire da parte di qualcuno sulla propria azione: poiché una delle dimensioni critiche dei significati implicati nelle definizioni ufficiali di “suicidio” come causa di morte e nei significati generali di senso comune sul “suicidio” nel Mondo Occidentale è proprio quella dell’”intenzione di morire”31, le categorizzazioni ufficiali del “suicidio” in generale possono essere valide e affidabili solo come categorizzazioni ufficiali di “intenzione”. Poiché Durkheim pensava che le categorie ufficiali di intenzioni o motivazioni fossero completamente inefficaci e inaffidabili, avrebbe dovuto giungere alla medesima conclusione rispetto alle statistiche ufficiali sul suicidio. (La natura essenzialmente problematica dei significati sociali del “suicidio” è alla lunga una ragione molto più importante nella considerazione delle statistiche ufficiali sul suicidio di avere significati sconosciuti - e possibilmente inconoscibili - ma ci occuperemo di questo in seguito. ) Durkheim probabilmente credeva in certa misura che la stabilità delle statistiche ufficiali sul suicidio significasse che esse non potevano in alcun modo essere il risultato di errori. Questo punto di vista era stato espresso molto prima da Guerry, ed è stato utilizzato ad intermittenza per tutto il XIX secolo, e alla fine ha dato la sua più brillante esposizione ne Les causes du suicide32 di Halbwachs (1930). L’argomento è inefficace, anche 31.  Per una disamina delle diverse dimensioni del significato implicate nel tentativo di definire formalmente il “suicido” e delle implicazioni di questo per la definizione dei significati di senso comune del suicidio, vedi J. Douglas, The social aspect of suicide, disponibile nel volume IX della nuova International Encyclopedia of the Social Sciences; e nella Appendice I di The Social Meanings of Suicide, op. cit. 32.  L’autore sta al momento predisponendo una edizione inglese de The Causes of

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nella sua forma più brillante, per due ragioni che queste teorie non hanno considerato: anche gli “errori” finiscono generalmente per adattarsi a certi schemi stabili33; e la natura complessa dei significati sociali del suicidio che porta ad un maggior numero di modi diversi di categorizzare i suicidi, in realtà porta ad aspettarsi distribuzioni di probabilità altamente stabili nelle categorizzazioni ufficiali del suicidio34. Oltre a questo problema fondamentale con le statistiche ufficiali sul suicidio, vi è un gran numero di pregiudizi nelle statistiche ufficiali che mette in parallelo le categorie ufficiali della struttura sociale (classe, occupazione, età, ecc.) così da influenzare notevolmente qualsiasi teoria da esse costruita o testata. Ancora più importante, sembra più ragionevole aspettarsi che nelle società, come il mondo occidentale, in cui alcuni gruppi stigmatizzano moralmente i suicidi e le loro famiglie, ci saranno entrambe le tendenze nei membri di diverse categorie (ufficiali) da avere una qualsiasi morte “sospetta” all’interno delle loro famiglie classificata come qualcosa di diverso da “suicidio” e dai differenti gradi di successo di questi tentativi. Inoltre, sembra più ragionevole aspettarsi che i tentativi e le frequenze di successo saranno più grandi proprio in quei gruppi che sono più “integrati” nella società. L’implicazione generale di questo argomento molto coinvolgente è che maggiore è il grado di “integrazione” sociale di un gruppo, minore sarà il suo tasso di suicidio ufficiale a causa della natura del processo di categorizzazione ufficiale stesso. Di conseguenza, si possono spiegare le correlazioni fondamentali nell’argomento di Durkheim in termini di natura dei processi ufficiali di categorizzazione35. Suicide, per la sua pubblicazione da parte della University of California Press. 33.  Questo è stato infatti reso visibile da Buckle in una nota a piè di pagina riguardante gli errori sugli indirizzi della posta londinese, ma egli fallì nel trarne le implicazioni generali. 34.  L’intero argomento e la massa di dati contro la validità e l’affidabilità delle statistiche ufficiali sul suicidio sono stati trattati in modo molto dettagliato nella Parte III del testo di J. D. Douglas , The sociological study of suicide, pp. 259-406. 35.  Ibidem.

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In generale, l’uso di statistiche ufficiali sul suicidio per ricavare e testare le teorie sociologiche del suicidio si basava su ipotesi e argomenti fallaci. Inoltre, il fallimento dei sociologi che utilizzavano il metodo statistico per analizzare i significati sociali al fine di rilevarli era il risultato diretto della loro incapacità di cogliere l’importanza dei significati sociali nel determinare le statistiche ufficiali e di fatto di tutto il loro metodo statistico di analisi significati sociali. Da una parte l’argomento generale di Durkheim riguardava le statistiche ufficiali sul suicidio; dall’altra parte vi sono le statistiche ufficiali rispetto ad altre categorie ufficiali come il matrimonio, il divorzio, l’educazione, ecc. Durkheim ha assunto senza nessuna argomentazione che questa correlazione costituisse una causalità o una spiegazione. La spiegazione di queste relazioni statistiche in termini di significati sociali è stata fornita da Durkheim in diversi modi: 1) le sue definizioni causali (o retrospettive) dei tipi di suicidio gli hanno fornito alcuni significati sociali; 2) egli ha ricavato i significati delle altre categorie ufficiali dalle sue osservazioni e ragionamenti di senso comune; 3) egli ha dedotto significati sociali a partire dalle norme o dalle leggi giuridiche della società; 4) egli ha dedotto post hoc alcuni significati di queste altre categorie a partire dalle loro relative associazioni con le statistiche sui tipi di suicidio (a cui erano stati attribuiti significati per definizione, sebbene in verità queste definizioni fossero definizioni parzialmente descrittive, derivate dalla conoscenza di Durkheim di questi lavori usando il metodo di analisi dello studio dei casi per quanto riguarda i significati sociali36; e 5) egli ha La maggior parte degli argomenti precedenti contro l’uso delle statistiche ufficiali sono stati avanzati da parte di psichiatri. (Vedi, in particolare, il lavoro dettagliato di F. Achille-Delmas 1933, Psychologie pathologique du suicide, Alcan, Paris. Anche se queste opere sono state spesso adeguate nel particolare, non hanno mai cercato di dimostrare che esistono pregiudizi (sistematici) nelle statistiche e che questi pregiudizi sono legati alla struttura sociale e ai processi ufficiali di categorizzazione in modi specifici. 36.  De Boismont fu particolarmente importante in questo modo e probabilmente mise a disposizione gran parte del materiale di Durkheim relativo ai casi individuali di suicidio. Vedi J. D. Douglas, The sociological study of suicide, pp. 20-112.

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dedotto i significati delle relazioni da molti differenti petitio principii creati a questo scopo. Il metodo della petitio principii di Durkheim è stato criticato molto bene sia da Alpert che da Needham e qui non ci riguarda37. Le definizioni post hoc o causali dei tipi di suicidio di Durkheim hanno in realtà aggiunto poco significato sociale al resto delle sue analisi. L’aspetto critico di tutto il suo metodo di definizione ed analisi dei significati sociali del suicidio era la procedura che utilizzava per determinare ed analizzare i significati delle categorie ufficiali diverse dal suicidio. Bayet, nel suo grande lavoro su Le suicide et la morale, fu il primo sociologo a vedere chiaramente che l’intero metodo di Durkheim per determinare e analizzare i significati di queste categorie (e, si aggiunga, anche dei tipi di suicidio) era un metodo di senso comune: En tout cas, ce qui est grave, c’est qu’il faut croire l’auteur sur parole. Oil sont les usages prouvant que les protestants «punissent le suicide» ? Par quoi s’exprime «l’eloignement» pour ceux qui touchent au suicide ? Quels faits permet- tent de dire que la morale commune reprouve le suicide ? Durkheim ne le dit pas. Sans doute est-il d’avis que la morale de son temps est la sienne et qu’il la connait. Mais on peut supposer aussi, sans aucun paradoxe, que notre propre morale nous est en un sens fort etrangere. Le temoignage du plus grand philo- sophe ne peut remplacer, au point de vue scientifique, des observations soumises au controle à la critique» (Bayet 1922, p. 3).

Durkheim non ha visto chiaramente la necessità di un metodo scientifico per definire e analizzare i significati: probabilmente perché ha iniziato il Suicidio con un metodo positivistico che ha enfatizzato fattori esterni

37.  Vedi, in particolar modo, R. Needham 1963, Introduction, in È Durkheim, M. Mauss, Primitive classification, The University of Chicago Press, Chicago, pp. xiii-xv.

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(morfologici) come le cause di azioni sociali quali il suicidio38. Nel corso del lavoro è andato sempre più a intendere i significati sociali di tali categorie o fattori come le cause critiche o spiegazioni dei tassi di suicidio, ma non aveva alcun metodo obiettivo per determinare i significati sociali diversi dall’uso del senso comune e delle norme giuridiche esistenti. In una parte del Suicidio egli sosteneva, come aveva fatto in precedenza, che solo le norme giuridiche erano un’indicazione adeguata dei significati morali, poiché non erano soggette a variazioni individuali39. Il suo intero argomento, tuttavia, si basava sul presupposto assolutamente fondamentale che i significati morali del suicidio non variano all’interno delle culture occidentali, poiché, altrimenti, le variazioni nei tassi di suicidio potrebbero essere spiegate dalla sua stessa teoria in termini di variazioni di questi significati morali piuttosto che in termini di variazioni dei significati sociali di anomia-fatalismo ed egoismo-altruismo. (Bayet vide come l’assunzione dell’invarianza nei significati morali da parte di Durkheim fosse fondamentale per la sua intera argomentazione e continuò a dimostrare con immenso dettaglio quanto ingiustificata fosse l’assunzione di Durkheim per la sua stessa società, la Francia.) Ciò significava che gli era rimasto solo il senso comune per determinare e analizzare le variazioni nei significati sociali delle categorie che stava usando per spiegare le variazioni nei tassi di suicidio. Una dimostrazione adeguata del fatto che Durkheim si sia basato quasi esclusivamente sulle sue concezioni di senso comune rispetto alle catego38.  Roger Lacombe, nella sua eccellente critica a La mèthode sociologique de Durkheim, Alcan, Paris (1926), ha sostenuto che la debolezza fondamentale di tutto il metodo di Durkheim era la sua incapacità di riconoscere la necessità di qualsiasi mezzo scientifico per determinare i significati (psicologici) interiori che Durkheim credeva fossero le cause delle azioni sociali. Lacombe, tuttavia, non ne vedeva le ragioni nella natura stessa del metodo positivistico di Durkheim né aveva una soluzione specifica da offrire al problema. 39.  Come Bayet (op. cit.) sosteneva in modo eccellente, l’intera concezione “realista” del diritto e dei suoi rapporti con la moralità e le azioni di Durkheim è del tutto insostenibile. Bayet, tuttavia, non ha considerato che questo metodo di analisi dei significati morali era un risultato necessario dell’intero metodo di Durkheim.

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rie ufficiali delle relazioni sociali per ricavare o attribuire significati critici tra queste categorie di relazioni sociali e le loro cause generali e significative di anomia-fatalismo ed egoismo-altruismo richiederebbe un’argomentazione estremamente lunga. Inoltre, poiché questo argomento è già stato presentato altrove, ci accontenteremo di un esempio di questa lacuna critica dell’argomentazione di Durkheim. Quando Durkheim ha invocato le presunte differenze tra la mente maschile e la mente femminile per spiegare l’effetto meno “vincolante” sulle donne del matrimonio, stava semplicemente seguendo la pratica stabilita tra i ricercatori del suicidio. Morselli aveva sostenuto, per esempio, che gli uomini sono, per loro natura, molto più soggetti alle “motivazioni egoistiche” delle donne: Per quanto riguarda le sue cause (fisiche e morali) il più grande eccesso degli uomini lo si ritrova nella categoria dei vizi, in quella degli imbarazzi finanziari, e nella stanchezza della vita, cioè, tra i motivi egoistici, mentre tra le donne, dopo le malattie mentali, predominano le passioni, problemi domestici, vergogna e rimorso (soprattutto nei casi di gravidanza illegittima). Tra le cause che li spingono a lasciare questa vita, la donna mostra sempre quello spirito di abnegazione, quella delicatezza di sentimento e di amore, che ispira tutti i suoi atti (Morselli 1882, p. 305)

Ora, Durkheim non mette affatto in discussione il maggior tasso di suicidi egoistici degli uomini. Lavorando in gran parte con le stesse statistiche sulle associazioni familiari e sul suicidio che usava anche Morselli, Durkheim trovò più o meno le stesse relazioni statistiche e, lavorando nella stessa tradizione teorica, concordò, a modo suo, che la differenza era nel maggior egoismo dell’uomo. Ma egli poi fornisce un’interpretazione di senso comune del tutto opposta (e molto complessa) rispetto a questo presunto egoismo maschile, un’interpretazione che si adatta a tutti i dettagli della sua stessa teoria:

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Questo è anche il motivo per cui la donna può sopportare la vita in isolamento più facilmente dell’uomo. Quando una vedova è vista sopportare la sua condizione molto meglio di un vedovo e desidera il matrimonio con meno passione, si è portati a considerare questa facilità nel dispensare con la famiglia un segno di superiorità; si dice che le facoltà affettive della donna, sono molto intense, sono facilmente impiegate al di fuori del circolo domestico, mentre la sua devozione è indispensabile all’uomo per aiutarlo a sopportare la vita. In realtà, se questo è il suo privilegio è perché la sua sensibilità è rudimentale piuttosto che altamente sviluppata. Vivendo al di fuori dell’esistenza comunitaria più che dell’uomo, essa ne è meno penetrata; la società le è meno necessaria perché è meno impregnata di socialità. Ella ha pochi bisogni in questa direzione e li soddisfa facilmente. Con alcune pratiche devozionali e alcuni animali di cui prendersi cura, la vita della vecchia donna non sposata è piena. Se rimane fedele alle tradizioni religiose e trova così pronta protezione contro il suicidio, è perché queste forme sociali molto semplici soddisfano tutti i suoi bisogni. L’uomo, al contrario, è duro sotto questo aspetto. Mentre il suo pensiero e la sua attività si sviluppano, essi traboccano sempre più in queste forme antiquate. Ma poi ne ha bisogno di altri. Poiché egli è un essere sociale più complesso, può mantenere il suo equilibrio solo trovando più punti di sostegno al di fuori di se stesso, ed è perché il suo equilibrio morale dipende da un maggior numero di condizioni che è più facilmente disturbato (Durkheim [1897] 1951, pp. 215-216).

Anche quando egli risultasse consapevole delle interpretazioni di senso comune completamente contrarie alle proprie, egli continuerebbe ad utilizzare le sue interpretazioni di senso comune con completa sicurezza.

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Il metodo dell’uso dei confronti sistematici delle comunicazioni situate per determinare e analizzare i significati sociali del suicidio Il risultato logico delle idee paradigmatiche di quelle opere che utilizzano il metodo statistico per determinare e analizzare i significati sociali è quello che si trova nella teoria sociologica di Durkheim: essi non hanno mezzi scientifici per determinare e analizzare i significati sociali in termini di eventi reali del mondo che possono essere oggettivamente osservati e replicati perché hanno negato ogni valore epistemologico a tali forme di dati40. Devono però avere un significato sociale per spiegare il tasso di suicidi. Di conseguenza, devono usare le loro idee di senso comune (i loro dati Deus ex Machina) circa i significati di alcune categorie. Essendo privi di qualsiasi metodo di osservazione per arrivare a tali mezzi, essi utilizzano le loro idee di senso comune per imputare questi significati alla categoria che le loro teorie astratte hanno predetto. L’argomentazione è giunta al culmine e sembra molto convincente finché non si considera la natura delle prove critiche, i significati sociali41. Anche se i dettagli sono molto difficili, la natura generale della soluzione è chiara: per determinare e analizzare i significati sociali del suicidio, e, di conseguenza, per essere in grado di determinare quali rapporti 40.  L’intera argomentazione riguardante questa interpretazione de il Suicidio si può trovare nella Parte I di J. D. Douglas, The social meanings of suicide, disponibile da parte della Princeton University Press. 41.  Pur essendo molto cauto nel criticare il padrone della scuola francese, Halbwachs vide chiaramente la fiducia del Suicidio nella «dialettica»: «En fermant cet ouvrage, plus d’un lecteur, surtout plus d’un lecteur philo- sophe, a sans doute eu le sentiment que le problème du suicide ne se posait plus, et qu’on connaissait désormais la solution, Est-ce la dialectique, sont-ce les statistiques qui emportaient la conviction ? L’un et l’autre sans qu’on sut bien toujours distinguer ce qui etait l’autre. Quelquefois la dialectique plus que les faits, non par la faute de Durkheim d’ailleurs. Mais cela presentait plus d’un inconvenient. On ne s’apercevait pas que l’edifice reposait sur des fondements qui n’etaient point partout aussi solides. Comment en eut-il ètè autrement? II n’y a pas d’oeuvre scientifique que de nouvelles experiences n’obligent a reviser et completer». M. Halbwachs 1930, Les causes du suicide, p. 3.

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causali esistono tra questi significati e i vari tipi di azioni suicidarie, i sociologi devono sviluppare metodi scientifici per osservare, descrivere e analizzare le azioni comunicative riguardanti i casi reali di suicidio. Poiché abbiamo già visto le debolezze fondamentali del metodo dei primi studi di casi, questo precedente metodo non sarà di grande aiuto. I metodi di studio di casi del XX secolo della psichiatria e della psicologia sono anche di scarsa utilità, poiché si basano principalmente su certe teorie astratte dell’azione, predeterminate e genetiche42, che escludono dalla considerazione quasi tutti gli aspetti relativi ai significati sociali, falsando così la natura dell’azione umana. Ciò che è necessario è un nuovo metodo sociologico per determinare e analizzare le azioni comunicative che possono essere osservate e replicate nei casi reali di suicidio. Questo metodo deve mantenere l’accento sull’osservazione e sulla descrizione dei metodi precedenti, ma deve anche mantenere l’accento sugli studi comparativi dei modelli di significato del metodo statistico. Il metodo ideale comporterebbe, al primo passo dell’osservazione, la registrazione esatta di tutti gli atti comunicativi verbali e non verbali coinvolti in un caso di suicidio. Il passo successivo sarebbe l’analisi preliminare dei modelli di elementi linguistici invarianti (es. parole, frasi, frasi, espressioni facciali, ecc.). In seguito, si analizzerebbero successivamente tali comunicazioni per determinare le strutture variabili in cui queste espressioni linguistiche compaiono: cioè, si andrebbero a determinare gli usi (o costruzioni – vedi sotto) fatti con queste espressioni linguistiche. Si cercherebbe allora di determinare le relazioni tra le situazioni generali o i contesti degli attori sociali, come definiti dagli attori, e le configurazioni emergenti. Infine, si sarebbe pronti ad avanzare una teoria più generale mettendo in relazione i significati tra loro e con le relative azioni.

42.  Le inadeguatezze e i limiti dell’utilità di casi studio psicologici e psichiatrici di suicidio sono state analizzate a fondo da J. D. Douglas, The sociological study of suicide, op. cit., pp. 377-406.

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Non c’è bisogno di sottolineare che questo ideale è piuttosto utopistico in questo momento. Al momento la migliore approssimazione al metodo ideale praticabile comporta l’uso attento dei casi migliori delle comunicazioni e delle azioni suicidarie registrate dagli psichiatri e da altre persone coinvolte, come le persone che commettono tali azioni, analizzati dalla comprensione di senso comune dei significati di tali atti comunicativi nella nostra società43. Questo tipo di analisi di casi devono essere comparative e non devono essere predeterminate da una serie di categorie di personalità o di società che si presume siano le sole categorie giuste per comprendere il mondo sociale. Un’analisi di questo tipo è chiaramente molto lunga e noi non possiamo entrare nel merito di ciò in questa sede, anche se i dettagli del metodo non saranno chiari fino a quando non si potrà effettivamente constatare l’analisi comparativa di un certo numero di casi. Tuttavia, le mie precedenti analisi di questo tipo hanno portato a conclusioni che hanno implicazioni fondamentali per tutte le indagini e la teoria sociologica e che, di conseguenza, sono particolarmente degne di sintesi qui44. Seguendo la breve dichiarazione di queste conclusioni generali, analizzeremo brevemente alcuni casi di “suicidio per vendetta” per dimostrare alcuni dei dettagli fondamentali di questo metodo di determinazione e analisi dei significati sociali del suicidio. Il sociologo che comincia a considerare i modi reali in cui i funzionari arrivano alla decisione che un dato caso di morte è un “suicidio” scopre presto un fatto sorprendente “sul suicidio” nel mondo occidentale. Prima di tutto, si scopre che il termine “suicidio” non ha alcun significato chiaro e distinto nel mondo occidentale, nemmeno in termini di definizioni formali proposte dai teorici o quelli decretati dalla legge per i funzionari incaricati di categorizzare le “cause di morte.” Le seguenti sono 43.  La definizione e l’analisi dei significati sociali del suicidio in altre culture pone molti e difficoltosi problemi. Il miglior tentativo fatto finora è quello di G. Devereux 1961, Mohave etnopsychiatry and suicide, U.S. Govt. Printing Office, Washington. 44.  Vedi J. D. Douglas, The social meanings of suicide, op. cit., Parte IV.

130 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

le dimensioni più comuni dei significati trovati in combinazioni differenti nelle definizioni formali e giuridiche di “suicidio”: 1. 2. 3. 4. 5.

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6. 7. 8. 9.

 l’iniziazione di un atto che conduce alla morte dell’iniziatore; la volontà di un atto che conduce alla morte del volontario; la volontà di autodistruzione; la perdita di volontà; la motivazione ad essere morti (o a morire, o ad essere uccisi) che porta all’iniziazione di un atto che porta alla morte dell’iniziatore; la conoscenza di un attore riguardo ai rapporti tra i suoi atti e lo stato oggettivo della morte; il grado di integrazione primaria delle decisioni di un attore che decide di avviare un’azione che porta alla morte dell’attore; il grado di fermezza o persistenza della decisione (o della volontà) di avviare un atto che porti alla morte dell’iniziatore; il grado di efficacia delle azioni di morte45.

La profusione e la complessità delle diverse definizioni di suicidio rendono certamente evidente che le diverse statistiche ufficiali sul suicidio non possono essere comparabili. Ma, cosa molto più importante, indica che il “suicidio” è una concezione essenzialmente problematica: cioè, il “suicidio” non è una categoria linguistica socialmente significativa che viene applicata correttamente o erroneamente ad un dato caso di azione sociale; si tratta piuttosto di una categoria con un significato (astratto) diverso che può essere legittimamente applicata o non applicata a determinati tipi di azioni. Il fatto che la categoria sia effettivamente imputata in una data situazione dipende da fattori parzialmente indipendenti dal significato del termine stesso. Soprattutto, se la categoria è imputata o meno in una data situazione dipende dai processi argomentativi di disputa che si svolgono 45.  Per una presentazione dettagliata delle varie definizioni teoriche e formali del “suicidio” vedi P. B. Schneider 1954, La tentative de suicide, Delachaux, Paris, pp. 9-59. Per un’analisi di queste dimensioni di significato nelle definizioni formali, vedi J. D. Douglas, Appendice II, The social meanings of suicide, op. cit.

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tra i partecipanti alla situazione. (Ad esempio, è più comune per i membri della famiglia e gli amici ritrovarsi a contestare i funzionari ufficiali in modo che quel caso di morte non venga classificato come un “suicidio”.) Questa natura essenzialmente problematica dei significati sociali del “suicidio” significa, da una parte, che non esiste un qualcosa di definito, necessariamente valido (socialmente significativo) rispetto al “tasso di suicidio”. L’intera idea di un dato “tasso di suicidio” necessariamente valido (o invalido) per una società occidentale è un’idea completamente errata della natura significativa del “suicidio” nelle società occidentali, anche se ci si preoccupa solo delle categorizzazioni fatte dai funzionari. (Ci si aspetterebbe, tuttavia, che i significati fossero meno essenzialmente problematici tra un gruppo con un alto grado di esperienza condivisa che tra gruppi diversi di questa natura). Qualunque sia lo stato della realtà, i “fatti”, si possono costruire molti conteggi diversi, ugualmente “validi”, socialmente significativi del “suicidio”, e questo è vero anche se, per qualche ragione totalmente arbitraria, ci si occupa solo delle categorizzazioni dei funzionari. Il problema delle statistiche sui suicidi, quindi, non è affatto quello di elaborare semplicemente misurazioni più accurate. Il problema fondamentale è quello di determinare e analizzare i significati sociali del suicidio che deve essere risolto prima di poter tentare qualsiasi analisi quantitativa. Tuttavia, è ancora più importante scoprire che, oltre ad essere essenzialmente problematico, il “suicidio” è anche problematico in termini situazionali (o pragmatici). Ovvero, indipendentemente dal significato sociale astratto dato alla categoria del “suicidio”, le imputazioni effettive o realizzate della categoria in un dato caso di morte dipendono da molti altri fattori, soprattutto dalle intenzioni dei partecipanti. (Un esempio ovvio di questo che illustra la differenza tra i due tipi di problemi di significati è l’individuo che intende specificamente commettere ciò che egli imputa alla categoria dei “suicidio” ma lo fa in modo tale che i funzionari locali lo possano classificare come un “incidente”.) Poiché non ci sono significati specifici imputati a tutte (o anche la maggior parte) le azioni suicidarie, il significato di tali azioni deve essere 132 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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costruito dagli individui che le commettono e dagli altri coinvolti attraverso le loro interazioni con l’altro. Come i significati specifici verranno realizzati o effettivamente classificati dipenderà dalle intenzioni dei vari attori, dai modi socialmente percepiti attraverso cui le azioni sono messe in atto, dagli specifici modelli di significati suicidari (vedi sotto) che sono realizzati, e l’intero processo di argomentazione e disputa, prima, durante e dopo le “azioni suicide”. (Dovrebbe essere chiaramente notato che se le azioni sono classificate socialmente come “suicidarie” o meno dipende esattamente dallo stesso tipo di processo. Cioè, gli individui costruiscono gli argomenti che coinvolgono il comportamento e le dichiarazioni per comunicare ad altre persone i significati che più si adattano alle loro intenzioni. Gli esempi ovvi sono quegli individui che costruiscono situazioni che credono saranno classificate come “incidenti”, con l’intenzione di evitare “imbarazzo” per le loro famiglie, stigmatizzazione del loro carattere, perdita di soldi di assicurazione, ecc.). Lo studio del suicidio in termini di situazioni specifiche o di istanze reali di “suicidio” porta a vedere che i significati imputati al “suicidio” da parte di individui non coinvolti in una concreta, reale situazione di azione suicidaria sono molto diversi dai significati imputati al “suicidio” di individui che sono coinvolti in una situazione concreta di azione suicidaria al momento della comunicazione. Ciò significa che i significati situati sono molto diversi dai significati astratti. Questa scoperta ha due implicazioni fondamentali per tutte le indagini sui significati sociali del suicidio e, molto probabilmente, per tutta la sociologia. In primo luogo, non è possibile prevedere o spiegare tipi di eventi sociali, come il suicidio, in termini di significati sociali astratti come l’egoismo o i valori sociali generali contro il suicidio. Questa è una negazione sia dell’idea paradigmatica fondamentale della teoria sociologica di Durkheim che dell’idea (derivativa) paradigmatica fondamentale della maggior parte delle teorie generali della sociologia di oggi. In secondo luogo, non è possibile studiare i significati sociali del suicidio, che sono più importanti nella causalità del suicidio, con qualsiasi mezzo (come questionari o esperimenti di laboratorio) che consista nell’astrarre chi comunica dai casi concreti di suicidio in cui sono coinvolti. Questa generalizzazione porta a 133 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mettere in discussione il valore di qualsiasi metodo di indagine di qualsiasi ambito di azione sociale che cerchi di sottrarre i membri della società alle implicazioni della loro vita quotidiana. Ciò non significa che non ci siano modelli di significati comuni a quegli eventi imputati alla categoria del “suicidio” o del “suicida” da parte dei membri della società. Quando si guardano i significati imputati a situazioni concrete si trovano certe dimensioni generali di significati che si verificano in quasi tutti i casi. La cosa più importante è che ogni azione suicida è creduta significare qualcosa di fondamentale (o sostanziale) circa il sé dell’individuo che lo commette, o circa la situazione (particolarmente rispetto agli altri significativi) per cui ha commesso l’azione, o su qualche combinazione tra sé e la situazione. Se la media specifica realizzata (vedi sotto) sarà indirizzata al sé o alla situazione dell’attore dipenderà dalle attribuzioni di causalità fatte dai vari interagenti: cioè vedranno l’individuo come la causa (o il “responsabile”) delle proprie azioni oppure lo vedranno come causato (“orientato” a farlo) dalla situazione (perdita di lavoro, problemi familiari, ecc.). L’individuo che commette l’azione suicida tenta molto generalmente di collocare una di queste due generali costruzioni di significati sull’azione facendo uso di tali dispositivi come indicare la causa esterna che è da considerare come causalità (o colpa) del suo suicidio. Non è possibile per gli individui costruire qualsiasi significato per le loro azioni, anche se la creatività individuale estende immensamente i confini e tutti i casi includono idiosincrasie imponderabili. Ci sono, prima di tutto, i vari criteri che determinano la plausibilità degli argomenti, che limitano molto i significati che possono essere realizzati, anche se è anche più probabile che in alcuni casi gli individui intendano anche avere le loro argomentazioni considerate non plausibili o irrazionali (“insano”, “insensato”, ecc.). Vi sono, in secondo luogo, relativamente pochi modelli di significati situati che si trovano a svolgere un ruolo importante nella maggior parte dei significati realizzati riguardanti le “azioni suicidarie” e che, di conseguenza, vengono generalmente molto utilizzati dagli individui per costruire intenzionalmente alcuni significati generali. (A causa della loro frequenza sembra molto probabile che gli individui debbano 134 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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prendere in considerazione questi modelli in qualche modo nei loro tentativi di costruire il significato delle loro azioni per gli altri.) I modelli più comuni di significati di questo tipo nel mondo occidentale sono quelli che riguardano la “vendetta”46, la “ricerca di aiuto”47, la “simpatia”, la “fuga”, il “pentimento”, l’”espiazione di colpa”, l’”autopunizione” e la “serietà”48. Possiamo meglio illustrare una parte del metodo di analisi di tali significati di suicidio49presentando brevemente alcune analisi comparative di casi. A questo scopo analizzeremo i significati relativi alla “vendetta” del suicidio. Come abbiamo notato in precedenza, le azioni suicidarie hanno, come una delle loro potenziali dimensioni di significato, il significato che qualcosa è fondamentalmente sbagliato in questa situazione. Ciò significa che le azioni suicidarie possono essere usate di riflesso per dire che qualcosa è fondamentalmente colpevole per la loro situazione. A causa dei valori generalmente condivisi contro il ferire gli altri, soprattutto contro lo spingere un’altra persona troppo lontano (“al limite”), gli individui possono utilizzare tali significati riflessivi per raggiungere obiettivi mentre ancora vivi attraverso il tentativo di suicidio, ma poi “non riescono” a morire (o riescono a non morire, a seconda di quale sia il loro obiettivo). 46.  L’autore sta attualmente analizzando i significati “vendetta” interculturale del suicidio in un’opera intitolata Revenge Suicide, che sarà pubblicata dalla Prentice-Hall. 47.  Harvey Sacks ha precedentemente analizzato questi modelli di significato in “No One to Turn to” di E. Schneidman, Essays in Self-Destruction, che sarà pubblicato da Holt, Rinehart e Winston. Vd. Harvey Sacks, “La ricerca di aiuto: nessuno a cui rivogersi”, infra. 48.  Vedi J. D. Douglas, The sociological study of suicide, op. cit. pp. 440-511. 49.  Dobbiamo sottolineare che in questo documento abbiamo discusso e ci siamo concentrati sul “suicidio” piuttosto che sull’ampio spettro di diverse categorie sociali del fenomeno “suicidario” nel mondo occidentale. Il motivo è semplicemente una semplificazione, non abbiamo potuto discutere in dettaglio altre categorie in un lavoro così breve. Le proprietà generali del “suicidio” probabilmente valgono per queste altre categorie, ma ci sono molte importanti differenze specifiche. (Alcuni di questi sono stati discussi brevemente in J. D. Douglas, The sociological study of suicide, op. cit.).

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Possiamo vedere questo uso del significato riflessivo del suicidio piuttosto chiaramente nel seguente caso: «Il Sig. F. B., nato nel 1902, aveva dimostrato per diversi anni prima di essere ricoverato in ospedale una crescente irritabilità, sospetto e mancanza di inibizione. Nel 1945 divenne apertamente paranoico e depresso, e allo stesso tempo faceva eccessive richieste sessuali. Aveva paura di suicidarsi (tre membri della sua famiglia si erano suicidati) e minacciava in questo senso sua moglie e suo figlio. Quando sua moglie iniziò il procedimento di separazione egli diventò estremamente depresso e auto-accusatorio. Una sera bevve acido con intento suicidario e disse a sua moglie di averlo fatto. Fu immediatamente ricoverato in un ospedale generale e da lì in poi trasferito nel reparto di osservazione e infine in un ospedale psichiatrico. I suoi sintomi paranoici e depressivi rimasero stazionari e si stabilì in uno stato di ottusità ritardata. Sua moglie non continuò con il procedimento di separazione, ma lo visitò regolarmente e disse che non avrebbe divorziato poichè egli avrebbe potuto provare ancora a togliersi la vita. Al momento dell’intervista di follow-up, sette anni dopo il tentativo di suicidio, era ancora in ospedale [...]» (Stengel – Cook 1958, p. 56)

In questo caso possiamo vedere chiaramente che la moglie interpretò le azioni suicidarie del marito come un risultato diretto della procedura di separazione, cioè, era a lei chiaro che questa particolare situazione, immediatamente precedente alla procedura di separazione, era la “causa” delle sue azioni suicidarie. In linea con la sua interpretazione delle azioni del marito, e il desiderio che lui non commettesse il suicidio, ella ristabilì la situazione al momento precedente la “causa”. Tuttavia, esiste anche una possibilità “aggressiva” rispetto a questo significato riflessivo generale delle azioni suicidarie50. Attraverso vari metodi usati per individuare chi o 50.  Gli psicologi e i sociologi hanno considerato in maniera molto generica il “sui-

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quale sia la causa (cioè chi o cosa sia “da incolpare”) di certe azioni suicidarie, è possibile produrre sanzioni sociali negative e propri sentimenti di colpa nei confronti di entità e persone specifiche51. Nell’analizzare tali significati sembra essenziale iniziare a confrontare le istanze culturalmente più ovvie e solo dopo aver compreso i molti dettagli di queste poi procedere ai casi più culturalmente particolari e sottili. Uno dei casi culturalmente più evidenti del vendicarsi su una qualche (o più) persona specifica è il seguente: «Un giovane impiegato di ventidue anni si uccise perché la sua sposa di quattro mesi non era innamorata di lui, bensì di suo fratello maggiore ed ella voleva il divorzio in modo che lei potesse sposare il fratello. Le lettere che egli ha lasciato mostravano chiaramente il desiderio, attraverso il suicidio, di portare una spiacevole visibilità su suo fratello e sua moglie, e di attirare l’attenzione su di sé. In essi descrisse la sua storia d’amore in frantumi e consigliò ai giornalisti di vedere un amico a cui aveva inoltrato diari per ulteriori dettagli. La prima frase di un messaggio speciale a sua moglie leggeva: “Ti amavo, ma muoio odiando te e anche mio fratello.” Questo venne scritto con mano ferma; ma mentre il diario del suicidio progrediva, la scrittura diveniva sempre più irregolare e poi quasi incomprensibile fino a quando divenne incosciente. Qualche tempo dopo aver acceso il gas scrisse: “Ho preso la mia ‘panacea’ cidio” come una forma di “aggressione”. Vedi, per esempio, il testo di A. F. Henry, J. F. Short 1954, Suicide and homicide: some economic, sociological and psychological aspects of aggression, The Free Press, Glencoe. Essi non hanno notato, però, che il successo di tale tentativo aggressivo è dovuto alla natura riflessiva dei significati sociali del suicidio. Essi hanno totalmente tralasciato l’intera natura sociale di questo tipo di azione. 51.  È possibile costruire significati rispetto alle proprie azioni suicidarie in modo tale da “incolpare il mondo” o “incolpare Hollywood” (come sembra essere stato parzialmente per la morte di Marilyn Monroe) e così via. Tuttavia, poiché le nostre teorie di senso comune sulle persone tendono ad enfatizzare fortemente le persone come i fattori causali per la spiegazione delle nostre azioni, è particolarmente facile vedere altri individui come coloro da incolpare per un’azione suicidaria.

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per tutti i mali umani. Non ci vorrà molto.” Un’ora dopo continua: “Ancora lo stesso, spero di svenire per le 2. Gee, ti amo così tanto, Florence. Mi sento molto stanco e un po’ stordito. Il mio cervello è molto consapevole. Posso vedere che la mia mano sta tremando—è difficile morire quando si è giovani. Ora vorrei che l’oblio arrivasse in fretta”—la nota concluse lì. In un’altra nota si scusava verso la padrona di casa dell’inconveniente di aver usato il suo locale come casa della morte. Ancora in un’altra lettura: “A chi può interessare: La causa di tutto: Ho amato e mi sono fidato di mia moglie e mi sono fidato di mio fratello. Ora odio mia moglie, disprezzo mio fratello e condanno me stesso a morire per essere stato così stupido da aver amato qualcuno di così spregevole come mia moglie ha dimostrato di essere. Sia lei che il suo amante (mio fratello) sapevano già da questo pomeriggio che avevo intenzione di morire questa sera. Essi sembravano abbastanza soddisfatti della prospettiva e non si sono preoccupati di nascondere la loro euforia. Avevano buoni motivi per sapere che non stavo scherzando”. Il fratello che ha ventitré anni parò francamente alla polizia della sua amicizia con la moglie di suo fratello. Seppur separati durante l’infanzia quando i genitori si erano allontanati, i due fratelli erano diventati più tardi compagni inseparabili fino a poco prima della tragedia, quando entrambi si innamorarono della stessa ragazza. L’uomo più giovane tentò il suicidio quando il suo amore non venne ricambiato e dopo la sua guarigione, la ragazza accettò di sposarlo per pietà—ma più tardi scoprì che non poteva vivere seguendo questo patto. Dopo alcune settimane di vita coniugale, il marito scoprì la relazione esistente tra sua moglie e suo fratello. Divenne molto depresso e minacciò il suicidio. Il giorno prima della sua morte, vi era stato un evento e quando egli si assicurò del fatto che i due erano profondamente innamorati l’uno dell’altro, lo scrivente replicò: “Va bene, posso farti più male da morto che da vivo”» (Dublin – Bunzel 1933, pp. 294-295)

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Questo caso mostra molto chiaramente la struttura generale dei significati “vendetta” che le azioni suicidarie sono generalmente in gran parte destinate a costruire nella mente degli altri e nell’individuo che commette l’azione suicidaria. Innanzitutto, e in questo caso è più che evidente, si nota l’importanza di indicare la persona che si pensa sia da biasimare, la persona che si intende essere ritenuta responsabile dell’azione suicidaria da parte di altri e da parte della persona accusata. Il problema generale di analizzare tali significati è quello di determinare come gli individui nella nostra cultura si muovano attribuendo la causa delle azioni sociali e quali significati (normativamente, in particolare) possa avere una causa rispetto a questo tipo di azione52. In questo caso, l’indicazione di chi tra gli attori si debba assumere la colpa e di chi egli ritiene debba essere biasimato da altri (e da se stessi) è molto chiara: egli ha lasciato molti appunti e ha fatto molte dichiarazioni affinché coloro che ha accusato fossero perfettamente chiari. Ma l’aver sottolineato i colpevoli non basta: per averli definiti come le cause da parte di altri (o da parte di loro stessi) deve dimostrare che esiste qualche situazione tipica che si ritiene in genere causa di un movente tipico, che a sua volta si ritiene causa di alcune azioni tipiche (come le azioni suicidarie). In questo caso ha fatto queste cose cercando di dimostrare che 52.  Hendin ha cercato di dimostrare che in Danimarca le persone vengono ritenute non solo una causa fondamentale delle proprie azioni, come in tutto il mondo occidentale, ma anche che le persone dovrebbero essere ritenute responsabili anche delle azioni di altri, molto più di quanto non sia ritenuto nella maggior parte degli Stati Uniti. Sembra quindi che la differenza fondamentale, una differenza che rende molto più possibile l’uso di azioni suicidarie come una minaccia (in questo modo per ottenere ciò che si vuole ottenere) e come vendetta, sia dovuta ad una differenza nella definizione sociale di “responsabilità” relativa alle azioni (benessere, ecc.) di altri, piuttosto che in una differenza nelle definizioni delle cause di tali eventi. Vedi H. Hendin 1964, Suicide in Scandinavia, Grune and Stratton, New York, pp. 28-29. Questo esempio evoca l’intero problema dei modelli sub-culturali dei significati sul suicidio. Chiaramente ci sono vari modelli, alcuni dei quali sono nazionali (il “suicidio romantico” in Germania sarebbe un altro caso). Tuttavia, anche se poco su di loro è ancora conosciuto, essi sembrano essere delle variazioni rispetto ai modelli generalmente condivisi.

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era stato tradito dall’azione immorale di suo fratello e di sua moglie. Ora, poiché la costruzione di un tale significato dipende chiaramente da molte più prove che soltanto dalle sue stesse affermazioni, il significato che si crea in altre menti dipende in parte dalle risposte significative a questa colpa date da parte di coloro che glielo hanno fatto notare. In questo caso essi hanno cercato di apparire sinceri (parlando liberamente con la polizia) e dimostrando che lei non lo aveva mai veramente amato, ma che stava semplicemente facendo un gesto gentile, e non poteva fare a meno di tradirlo a causa della forza dell’amore (cioè, che non era affatto “realmente” un tradimento, benché possa essere ammesso che si contempli questo senso dal suo punto di vista). Il problema che tali strategie devono affrontare è che commettere un’azione suicidaria significa anche che uno si impegna molto in quello che dice (di essere serio e sincero, come dimostra questo atto di volontà finale) e che è meritevole di “simpatia” a causa di ciò che la situazione esterna lo ha costretto a fare53. In una tale situazione coloro che sono accusati passano di conseguenza un momento molto difficile cercando di definire le cose in un modo che possa essere più accettabile per se stessi (soprattutto se “sanno” che quello che dice è “vero”). E non possono sostenere di avere più ragione o di essere più solidali. Sembrerebbe che abbiano solo due linee di azione che promettano un qualche successo: quella di ridefinire quello che è successo (non era “davvero” come diceva lui), che è la strada scelta dal fratello e dalla moglie in questo caso, e quello di ridefinire la persona che ha commesso l’azione suicidaria—era “pazzo” o stava solo cercando di farci del male, in modo che non appaia dopo tutto così simpatico. Questo potrebbe aiutare a spiegare perchè così tanti individui che tentano azioni suicidarie vengono trattati come “pazzi” (inviati agli psichiatri, ecc) dagli altri significativi e perché gli individui che orientano le loro azioni suicidarie verso la 53.  Qui abbiamo dovuto introdurre alcune delle altre dimensioni e di altri modelli dei significati sociali del suicidio. Ciò dimostra la necessità fondamentale di un approccio comparativo generale in cui si consideri ogni modello o dimensione nel contesto di tutti gli altri. Qualsiasi altro approccio distorce completamente i significati. (Questo è stato fatto nella Parte IV di J. D. Douglas, The social meanings of suicide, op. cit).

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colpevolizzazione degli altri, utilizzano meno mezzi diretti per incolpare (cioè, in un modo che non appaia soltanto come “aggressivo”)54. Questa analisi ci ha anche portato a vedere che la causalità sociale o la “colpa”, come il “suicidio” stesso, sono il risultato di processi di discussione suicidaria tra i vari partecipanti, reali e immaginati che siano55. (Ciò porta anche ad aspettarci che la società nel suo insieme debba essere alla fine analizzata in termini di tali conflitti significativi piuttosto che in termini di modelli presunti di significati condivisi come viene generalmente fatto oggi.) Come esempio dello spesso implicato e implicito significato di “vendetta” che può essere costruito per le azioni suicidarie, possiamo presentare e brevemente analizzare il caso di Marguerite come riportato nel lavoro eccellente di Deshaies: «Trentotto anni, divorziata da diversi anni, Marguerite S. aveva perso i genitori e un figlio. Viveva da sola e lavorava come commessa in un grande magazzino parigino. Molto carina, raffinata, ben bilanciata, per niente emotiva, non aveva mai avuto il minimo disturbo psicopatico. Di intelligenza normale, era molto affettuosa, servizievole, gentile, priva di ogni aggressività, nel complesso passiva e un po’ svogliata. Lei era caratterizzata da civetteria, fiducia in se stessa, e dal modo lento e un po’ infantile comune alle belle donne. Sfruttava a malapena il suo fascino, e viveva piuttosto rivolgendosi verso se stessa, in attesa degli eventi piuttosto che prepararsi per loro. Nel 1938 accadde qualcosa. Chance la mise in relazione con un ingegnere, Guy, due anni più giovane di lei. Divenne la sua amante. La loro relazione non fu interrotta dalla guerra, al contrario questa la rinforzò, almeno da parte di Marguerite. E poi, questi furono i tristi anni dell’occupazione, con le loro ansie e le speranze co54.  L’intera analisi è stata ripresa da The social meanings of suicide. 55.  Un’analisi più estesa di tale processo suicidario è stata sviluppata in ivi, Cap. V della Parte IV.

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muni. Anche se non vivevano insieme, Marguerite impegnava la sua ingegnosità per migliorare l’esistenza di Guy; la loro intesa sessuale era perfetta. Marguerite era felice e amata con passione, senza riserve, senza ripensamenti, senza occhi per il futuro, anche se la loro relazione non aveva un impegno formale. (Guy, un compagno metodico e prudente, aveva avuto cura di rendere questo chiaro fin dall’inizio.) Per Marguerite, Guy rappresentava l’universo. Era allo stesso tempo figlio e amante, famiglia e padrone, la ragione della vita e lo scopo della vita. Aveva legato a lui tutta la sua capacità di affetto, riempito il vuoto di un’esistenza incompleta, e fatto l’insegnante ideale attorno al quale la sua personalità più profonda poteva svilupparsi. Non si trattava di un colpo di fulmine, ma di una lenta, costante, costruzione di strati che la univano indissolubilmente al suo oggetto. La presa dell’oggetto si manifestava in ogni cosa senza essere un’ossessione, perché il sé non aveva posto per lottare, la sua adesione era completa. Dare corpo e anima a se stessi non è un’immagine vana, la forma oblativa dell’amore, forse la più pura, la prova, come nel caso presente, una passione fortunata, una passione normale. Perché deve accadere così raramente? Una sera di novembre del 1943 vi fu la catastrofe. Con considerazione, ma con decisione, Guy le annunciò la fine della loro relazione. Marguerite provò un’emozione intensa, con dolore cardiaco, congestione facciale, lacrime, astenia. “È impossibile, oh! no, non è vero! Dimmi che è un incubo! Mio Guy, mio Guy, tu sei tutto per me, tu sei il mio Dio, tu sei la mia anima! Si può vivere senza la propria anima? Non è possibile. Sei tutta la mia vita, tutto [...] A chi dirò i miei problemi, i miei pensieri? È orribile! Tu sei la mia unica ragione di vita, senza di te non ho più nulla. Mi sento come se mi scoppiasse la testa. Devo pagare con tutte le torture del cuore e della mente per le poche ore di gioia che ho conosciuto? Mio caro, se te ne vai o è follia o morte per me [...] Non lo desidero, ma non avrei la forza di sopportare [...]”.

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Distrutta, la povera Marguerite smise di lavorare, rimase chiusa in casa, e perse interesse in tutto ciò che non era l’oggetto della sua passione. Il suo sconcerto fu totale, un vero e proprio cataclisma in cui, in un colpo solo, tutta l’organizzazione affettiva della sua vita svanì, tutti i suoi legami furono spezzati, tutti i suoi interessi svanirono, tutto il suo futuro svanì. Il tempo si fermò alla soglia del presente, gravato da un passato che non poteva più portare a nulla. Le settimane scorrevano, le loro speranza e le loro disperazioni alternate, determinate dall’atteggiamento di Guy, che a volte era mite e caritatevole, a volte duro e spietato secondo il predominio dei suoi sentimenti teneri o la sua volontà razionale di realizzare il suo piano. [...] Intanto Marguerite era tornata al lavoro e si sforzava di riconquistare il suo amante. Era calma, con un comportamento normale, non più emotivo; tuttavia, la sua passione era rimasta invariata. Dopo un triste Natale, crudelmente nutrita dai teneri ricordi del passato, apparve per la prima volta animata da una tendenza aggressiva che diede all’idea del suicidio l’artefice della vendetta. “Sto soffrendo, non ce la faccio più, voglio morire. Vorrei poterti odiare! Ti ho dato tutto e tu mi hai dato un cuore duro. Perché non ho incontrato un altro uomo che aveva un cuore meno duro? Perché ti amo così tanto? Mi piacerebbe odiare, vorrei odiarti. Vorrei uccidere te e poi me stessa [...] Abbi pietà!” “Ma io so cosa farò: non sei tu che mi lascerai, sono io. Morirò davanti a te, sotto i tuoi occhi, voglio che tu mi veda morire. Voglio che tu mi veda morta e voglio che l’immagine di me resti sempre tra quella donna e te.” La gelosia esplode e lavora contro il rivale sconosciuto: “Strapperò gli occhi di quella donna. La ucciderò. La ucciderò. Lei non ha diritto di sposarti. Tu sei tutta la mia vita, senza di te è la fine del mondo, senza di te non posso continuare a vivere.” Questa aggressività fu transitoria e il suicidio continuò ad essere visto come una liberazione dalla sofferenza e anche come un modo per liberare Guy dai problemi e dalla noia che aveva creato per lui.

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L’idea del suicidio era attiva e accettata, ma Marguerite esitava ancora, forse per mancanza di coraggio, ma soprattutto perché persisteva una vaga speranza, dato che Guy continuava a vederla. Il suo sonno era turbato da incubi impressionanti: incidenti ferroviari, precipizi cadenti; mentre si nasconde sotto l’acqua, sempre più profonda, soffoca; Si getta dalla finestra dell’edificio di Guy; Guy appare improvvisamente a casa sua e gli dice: “Io rimarrò sempre con te”; a volte qualche sogno sessuale, eccezionalmente sogni di guerra (bombardamenti a cui lei è passivamente presente). Poi ogni speranza scomparve. Guy mantenne definitivamente la sua decisione e le disse di “farsi una sua vita” senza di lui. E poi, dato che non poteva più vivere né con lui né senza di lui, decise di uccidersi. Amava ancora Guy, e in una lettera che gli rivolse il 29 aprile 1914, gli riferì tutto il suo amore, e molto teneramente, senza ironia né lamentele, gli augurò felicità prima di dirgli adieu. Il giorno dopo issarono il suo corpo dalla Senna»56.

La cosa che più colpisce del suicidio di Marguerite è la grande differenza nel “tono” generale o nel significato globale (cioè il contesto di significato determinato dai significati dominanti) dell’ultima comunicazione con il suo amante, il suo “addio” tramite la lettera, dalle precedenti comunicazioni sulla sua intenzione di suicidarsi. Nelle prime fasi della battaglia era chiaro che stava combattendo e che il suicidio veniva usato come “arma”, una minaccia di rendere l’altro responsabile per la ferita grave e immorale a se stessa. Nell’ultima comunicazione, che, purtroppo, Deshaies non riproduce, non era, a condizione che l’interpretazione di Deshaies fosse corretta, per niente “aggressiva”, anzi, era gentile e amorevole verso di lui. È possibile, naturalmente, a prima vista credere di aver avuto un “cambio di sentimento” e di aver deciso di non incolpare il suo amante per la sua morte. Ma, anche se questo fosse ciò che aveva inteso, 56.  G. Deshaies 1947, Psychologie du suicide, Presses Universitaires de France, Paris (questo caso è stato tradotto dall’autore di questo saggio).

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probabilmente questo non era il significato di una tale comunicazione, o non l’unica comunicazione, verso qualcuno, come l’amante stesso, a cui guardare. Il significato per un osservatore, soprattutto qualcuno di particolarmente empatico verso di lei in modo tale da essere un po’ comprensivo, è che lei ha espresso il suo più profondo amore per lui ed è stata così indulgente da augurargli solo la più grande felicità. Questo non solo la rende più dipendente da lui, a causa del grande amore, e, quindi, lo rende ancora di più la causa della sua azione suicidaria; ma la rende anche molto più “solidale”. Il risultato complessivo del suo cambiamento di tono nelle sue comunicazioni è quello di rendere il suo amante ancora più “colpevole” o “biasimevole” per la sua azione terribile, probabilmente anche ai suoi stessi occhi. (È, tuttavia, del tutto possibile che il suo amante, essendo sottoposto a colpa, potrebbe ancora vederlo nei termini del primo tono delle sue comunicazioni, tanto più che le prime parti della sequenza di comunicazioni tendono a determinare fortemente il contesto delle ultime parti delle comunicazioni57. Se è così, allora potrebbe interpretare il suo “addio” come una forma indiretta di “aggressione”). L’espressione di “simpatia” può essere essa stessa un’azione voluta, o di fatto anche se non voluta, potrebbe produrre un danno maggiore; e sembra particolarmente possibile farlo quando si commette un’azione suicidaria, affinché l’unica “aggressione” espressa sia quella rivolta verso se stessi in modo tale da far apparire l’altro, di cui si esprime solo l’amore, come “realmente” responsabile dell’incidente58. Quest’ultima analisi è in primo luogo dipendente dalle concezioni di senso comune degli osservatori sociologi. Come tale, è chiaramente meno replicabile o scientifica. Tali analisi possono essere verificate solo dopo che gli studi comparativi più oggettivi, replicabili e diretti degli attori sociali hanno portato a risultati altamente verificabili. L’obiettivo 57.  Questo suggerito “effetto primacy” è una delle molte proprietà della comunicazione che si dovrebbero considerare abbastanza bene prima di poter dare tutte le interpretazioni quasi definitive dei significati dei fenomeni suicidari. 58.  Questa analisi è stata ripresa dalla Parte IV di J. D. Douglas, The social meanings of suicide, op. cit.

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immediato delle indagini sociologiche sul suicidio deve essere quello di fornire il materiale descrittivo necessario e le analisi di tale materiale. Restano ancora da approfondire molte altre descrizioni e analisi accurate dell’intero processo suicidario. Tuttavia, i problemi fondamentali e i metodi per risolverli ora sembrano chiari.

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Sprott S. E. 1961, The english debate on suicide, Open Court Press, LaSalle, Illinois. Sussmilch J. P. 1761, Die gottliche ordnung in den veranderungen des menschlichen geschlechts, Berlino. Tiryakian E. A. 1962, in Sociologism and existentialism, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, N.J., 1962. Tissot J. 1841, De la manie du suicide, Paris. Von Oettingen A. 1882, Die moralstatistik, Erlangen. Wagner A. 1864, Die Gesetzmässigkeit in den scheinbar willkürlichen menschlichen Handlungen, Hamburg.

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Uno studio fenomenologico sui messaggi dei suicidi1

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Jerry Jacobs

Secondo Durkheim, la possibilità di scoprire un denominatore comune delle situazioni personali dei suicidi è minima: «… sono innumerevoli le circostanze che sembrano causare il suicidio perché lo accompagnano piuttosto frequentemente» (Durkheim [1897] 2016, p. 347). Nel definire il numero e gli effetti delle circostanze personali sugli individui, Durkheim afferma: alcuni uomini sopportano le più orribili sfortune, mentre altri si uccidono a causa di problemi minimi. Comunque, abbiamo mostrato che quelli che soffrono di più non sono quelli che in prevalenza si uccidono … Al limite, se veramente accade che la situazione personale della vittima sia l’effettiva causa della sua decisione, tali casi sono comunque molto rari …

Date le precedenti assunzioni, non sorprende scoprire che di conseguenza, anche coloro che hanno riconosciuto come causa principale le condizioni individuali hanno cercato queste condizioni più nell’intrinseca natura della persona che in eventi esterni, e cioè nella sua costituzione biologica e nelle contingenze fisiche da cui dipende.

1.  J. Jacobs 1967, A phenomenological study of suicide notes, in «Social Problems», 15, 1, pp. 60-72. Trad. it. di Enrico Caniglia.

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Quello che ovviamente colpisce è che Durkheim abbia abbandonato la ricerca di un comune denominatore del suicidio ancor prima di cominciare. Non avendo mai studiato approfonditamente un caso concreto di suicidio anzi, per quanto ne sappia, non ha neanche mai tentato, come avrebbe potuto sapere che “alcuni resistono alle più orribili sfortune, mentre altri si uccidono per problemi minimi”, o che “quelli che soffrono di più non sono quelli che in prevalenza si uccidono”, o che la situazione personale della vittima è raramente la causa del suicidio? Penso che tali sue considerazioni siano di senso comune e non siano giustificate. Non c’è bisogno di ricorrere all’intuito, come Durkheim ha appena dimostrato di fare, per conoscere gli effetti della situazione personale sul suicidio. Dopo tutto abbiamo a disposizione la migliore autorità possibile sull’argomento: il suicida stesso. Ritengo che qualsiasi uomo che commetta suicidio soffra sicuramente più di chi continua a vivere. Non voglio morire. Non sono in grado di far capire a qualsiasi estraneo, attraverso le cose che scrivo, con quanto impegno abbia cercato di evitare questo passo. Ho provato ogni sotterfugio per ingannare me stesso, per prendere in giro me stesso dicendomi che la vita non fosse poi così cattiva dopo tutto (Cavan 1928, p. 242).

L’affermazione di cui sopra è molto più congrua con la posizione dei suicidi così come rivelata nei messaggi d’addio, nelle lettere e nei diari dei suicidi piuttosto che con le affermazioni di Durkheim prima riportate. È sicuramente l’opposto di quanto Durkheim credeva, poiché le persone non sembra che si uccidano per assurdi problemi personali o per impulsività come nel caso dei suicidi delle persone disturbate. Tutti sono spinti a uccidersi per la stessa identica ragione, vale a dire perché si soffre più di coloro che continuano a vivere e si è incapaci, nonostante i propri continui sforzi, di porre rimedio a quella sofferenza. In breve, sono proprio quelli che soffrono di più che in prevalenza si uccidono.

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L’ultima parte della affermazione conclusiva di Durkheim merita una particolare attenzione poiché si riferisce a quelli che “hanno riconosciuto come causa principale le condizioni individuali” quando cercano una spiegazione del suicidio. Questi studiosi si basano principalmente, come fonti di dati, sui resoconti di storie di vita, sui messaggi dei suicidi o sulle interviste a persone che hanno tentato il suicidio. Tuttavia perfino essi “… hanno cercato queste condizioni più nell’intrinseca natura della persona che in eventi esterni …”. Questo è stato l’approccio tipico degli psichiatri, degli psicologi e di alcuni dei sociologi meno positivisti. La ragione è che perfino coloro che trattano le situazioni personali degli individui attraverso lo studio delle storie di vita o dei massaggi dei suicidi, non hanno trovato nessun denominatore comune del suicidio. L’incapacità delle ricerche appena citate di spiegare il suicidio in termini di processi razionali e consapevoli le ha condotte a cercare in qualche modo il “reale” significato della versione del suicida, o a sovrimporre ai dati una spiegazione che fa riferimento all’inconscio o all’irrazionale o a qualche altro sistema teorico. [Rispetto ai messaggi dei suicidi] si suggerisce opportunamente di considerarli come dispositivi di proiezione (allo stesso modo di come i MAPS tests o i protocolli TAT sono prodotti di proiezione) dai quali l’informazione sul soggetto può essere inferita (enfasi aggiunta) (Shneidman – Farberow 1957, p. 197)

Anche gli psichiatri tendono a interpretare le spiegazioni dei loro pazienti a partire da questa prospettiva generale. Qui l’enfasi è sull’inconscio, gli elementi irrazionali, nonostante l’apparenza della razionalità. … il suicidio non è principalmente un atto razionale perseguito al fine di raggiungere fini razionali, perfino quando è compiuto da persone che appaiono essere completamente razionali. Piuttosto,

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è un atto magico, attuato per raggiungere fini irrazionali, folli e illusori (Wahl cit. in. Shneidman – Farberow 1957, p. 23)

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Il dilemma con cui si confrontano le ipotesi precedenti è ben illustrato da Charles Wright Mills. La ricerca dei “motivi reali” che supponiamo essere contrapposti alla “mera razionalizzazione” è spesso permeata da una concezione metafisica, secondo la quale i motivi “reali” sono, in un certo qual modo, di derivazione biologica. Accanto a questa ricerca di qualcosa di più reale, che stia al di là della razionalizzazione, si situa la concezione sostenuta da molti sociologi, secondo la quale il linguaggio è una manifestazione esterna o concomitante di qualcosa di originario, di più genuino, di più “profondo” riposto nell’individuo. La contrapposizione tra “atteggiamenti reali” e “mere verbalizzazioni” o “opinioni” implica che, nel migliore dei casi, possiamo solo inferire dal linguaggio quale sia “realmente” l’atteggiamento o il motivo dell’individuo. Dunque, cosa possiamo verosimilmente inferire? Di cosa è sintomatica la verbalizzazione? Non possiamo inferire processi fisiologici dai fenomeni linguistici. Tutto ciò che possiamo inferire e verificare in termini empirici è un’altra verbalizzazione dell’attore che crediamo stesse orientando e controllando l’azione nel momento in cui l’azione stessa veniva messa in atto. I soli elementi sociali che possono “essere situati più in fondo” sono altre forme linguistiche. L’“atteggiamento o il motivo reale” non è qualcosa di differente per qualità dalla verbalizzazione o dall’ “opinione”. Essi risultano differenti solo in termini relativi e a livello temporale (Mills [1940] 2019, pp. 52-53).

Per superare tale critica è necessario offrire una spiegazione del suicidio che derivi e sia confermata da alcuni dati empirici. Ritengo che ciò sia possibile assumendo le situazioni esistenziali dei suicidi come correlate 152 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ai messaggi d’addio. Cercherò di stabilire un comune denominatore del suicidio attraverso gli aspetti formali del processo decisionale piuttosto che in qualche evento indipendente come un trauma infantile o un “precipitato di cause”. I messaggi d’addio dei suicidi offrono una fonte di dati valida per ottenere indicazioni su cosa abbia portato l’individuo a compiere quel gesto. La loro rilevanza si basa sull’assunzione, espressa da diversi autori, che essi contengano un resoconto spontaneo, non sollecitato dal ricercatore, delle riflessioni e delle emozioni della vittima relative al senso del loro gesto, di ciò che egli ha ritenuto esserne la causa. Uno studio sul suicidio a Philadelphia, condotto da Tuckman, Kleiner e Lavell, ha rilevato che dei 742 suicidi verificatisi tra il 1951 e il 1955, il 24% ha lasciato messaggi (Tuckman – Kleiner – Lavell 1959, p. 59). Shneidman e Farberow notano che ogni anno tra il 1945 e il 1954, dal 12 al 15% dei suicidi commessi nella contea di Los Angeles abbiano lasciato messaggi d’addio (Shneidman – Farberow 1957, p. 198). Sembra che non ci siano differenze di condizioni sociali, psicologiche o biologiche tra le persone che lasciano messaggi d’addio e quelle che non lo fanno (Tuckman – Kleiner – Lavell 1959, p. 59). Con poche eccezioni, i messaggi appaiono sempre dotati di senso (ivi, p. 60). Tuckman e altri riconoscono inoltre che «in questa ricerca, gli autori furono colpiti dal fatto che in un numero consistente di casi il suicidio potesse essere il risultato di una decisione consapevole e razionale … sebbene, in misura minore, fattori inconsci potevano aver influito» (ivi, p. 62). Dopo aver analizzato 112 messaggi di persone che avevano commesso suicidio nell’area di Los Angeles, anche io sono stato colpito dal loro carattere razionale e coerente. Dopo tutto, i fattori di coerenza e razionalità erano evidenti negli stessi messaggi, mentre quelli inconsci “potevano aver influito” in misura minore. La maggior parte delle teorie dei suicidi tiene alquanto in conto sia i fattori psichici che quelli ambientali. Mentre i fattori ambientali sono spesso citati e classificati da coloro che analizzano i messaggi dei suicidi, nessuno ha offerto una spiegazione dei fattori psichici che possono rin153 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tracciarsi negli stessi messaggi e a questo proposito le formulazioni degli psichiatri e degli psicologi sono sempre di natura deduttiva. Credo che una spiegazione del suicidio possa derivare empiricamente dagli stessi messaggi senza bisogno di far riferimento a un sistema teorico esterno. Non c’è bisogno di procedere in modo tradizionale attribuendo un significato ai messaggi o, dato che esiste un numero praticamente infinito di distinzioni categoriali che possano essere elaborate, classificarli con qualche sistema di senso comune che abbia avuto presa sul ricercatore perché potenzialmente “fruttuoso” o vantaggioso – ad esempio categorie demografiche, ambientali, biologiche o psicologiche. Una descrizione dei motivi del suicidio, delle esperienze e dei pensieri che vi sono implicati, non può essere prodotta senza una più ampia prospettiva teorica che però disponga di una qualche verifica empirica nei messaggi stessi. Intendo offrire tale ipotesi dopo aver prima brevemente considerato alcune delle attuali teorie del suicidio Le teorie sociologiche del suicidio Dato l’ambito di questo saggio, non mi dilungherò in una discussione critica delle precedenti teorie sociologiche del suicidio, ma mi limiterò ad offrire alcune indicazioni generali per mostrare come la mia ipotesi differisca dalle altre. Va evidenziato che Durkheim (1897), Gibbs e Martin (1964), Henry e Short (1954), Powell (1950) hanno in comune il fatto che le loro teorie si basano essenzialmente sull’analisi dei tassi ufficiali di suicidio. Le loro teorie consistono principalmente in una spiegazione di questi tassi ufficiali, compiuta attraverso l’attribuzione di un significato alle correlazioni individuate tra i tassi e certe condizioni sociali. Non fanno riferimento a casi concreti di persone suicide, alle loro credenze o a cosa hanno lasciato scritto. Alcuni di loro, mentre usano la comune base dell’analisi statistica dei tassi ufficiali di suicidio, incorporano anche concetti psicologici e psicoanalitici. In fondo, anche Durkheim era consapevole che se si ritiene che le 154 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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norme sociali agiscano come costrizioni, allora devono essere interiorizzate. Anche se lo ha riconosciuto, non si è mai occupato di studiare come ciò avvenisse. La mia ipotesi non solo riconosce che le norme devono essere interiorizzate se si ritiene che agiscano come costrizioni sugli individui (o inversamente, che le costrizioni delle norme interiorizzate devono essere superate se si vuole agire contrariamente ad esse), ma descrive tale processo e quando avviene. L’ipotesi considera anche il suicidio come un fatto sociale che trova le sue cause in altri fatti sociali, ma differisce dall’ipotesi di Durkheim in quanto si impegna a definire questi fatti sociali attraverso l’analisi dei messaggi dei suicidi. Le basi dell’ipotesi I dati e le osservazioni sui quali è fondata l’ipotesi derivano da due fonti principali: 112 messaggi di suicidi di adulti e di adolescenti avvenuti nell’area di Los Angeles, e le osservazioni da me raccolte attraverso la partecipazione a una ricerca, durata due anni e mezzo, su adolescenti che avevano tentato il suicidio. Mentre la partecipazione a quest’ultima ricerca mi ha fornito molte valide indicazioni per l’ipotesi, i dati sui quali quest’ultima è basata sono stati ricavati dai 112 messaggi di suicidi prima menzionati. Il saggio illustrerà un campione di messaggi tratto dalle diverse categorie da me identificate. I messaggi saranno analizzati e discussi attraverso un modello teorico pensato per fornire un resoconto delle decisioni consapevoli che avvengono prima che l’individuo sia capace di prendere in considerazione l’atto del suicidio e poi darvi luogo. Quest’ultimo è inquadrato dentro il più ampio contesto di ciò che l’individuo ha provato per diventare capace di quelle argomentazioni verbali. I messaggi forniscono la base per l’ipotesi e nello stesso tempo offrono al lettore un mezzo per verificarne la validità. Ritengo che tale verifica non abbia valore solo per questi specifici messaggi, ma per qualsiasi insieme di messaggi provenienti dallo stesso ambiente culturale. 155 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Il concetto chiave dell’ipotesi, vale a dire il concetto di tradimento della fiducia, e come l’individuo arrivi a esperire ciò nonostante rimanga convinto che lui resti una persona degna di fiducia, è ricavato dal lavoro di Donald Cressey sull’appropriazione indebita. Nella versione finale dell’ipotesi si legge: Le persone degne di fiducia la tradiscono quando si ritengono oberati da problemi finanziari che non risultano condivisibili con altri, quando sono consapevoli che questi loro problemi possono essere segretamente risolti tradendo la fiducia di cui godono nel mondo finanziario, e quando sono in grado di applicare alla propria condotta, in quella situazione, giustificazioni verbali che li rendono capaci di adattare tali comportamenti alla propria concezione di se stessi come persone che si occupano di fondi e di proprietà fiduciarie (Cressey 1951, p. 30)

Tale concezione di tradimento della fiducia viene estesa all’atto del suicidio, vale a dire al tradimento del sacro bene della vita, e alle giustificazioni verbali che l’individuo elabora al fine di riconciliare l’immagine di se stesso come persona degna di fiducia con un atto di tradimento della fiducia – il suicidio. In base a queste considerazioni ho pensato che le trascrizioni verbali di questi resoconti individuabili nei messaggi d’addio lasciati dai suicidi rappresentavano una eccellente fonte di dati per questa analisi. Qui però finiscono le somiglianze con il lavoro di Cressey, poiché il mio lavoro sui suicidi non si basa sull’induzione analitica. In questo saggio sono considerati sia i suicidi sia i tentati suicidi. Gli eventi e i processi che portano a entrambi sono ritenuti equivalenti all’interno della seguente definizione: il tentato suicidio è considerato un tentato suicidio solo se la persona cercava la morte ma non ci è riuscita. In questo saggio, coloro che tentano il suicidio non con l’intenzione di morire ma solo per usarlo come “mezzo per attirare l’attenzione”, come “tecnica manipolatoria” etc. non sono considerati come tentati suicidi. Le intenzioni delle persone che tentano il suicidio come mezzo per at156 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tirare l’attenzione possono fallire e portare alla morte. Le persone che concretamente tentano il suicidio possono, a causa di informazioni sbagliate o di circostanze fortuite, continuare a vivere. Tuttavia ciò in nessun modo altera la loro intenzione o le esperienze che le hanno condotte alle spiegazioni verbali che descrivono le loro intenzioni. È in questo senso che suicidi e tentati suicidi sono da me considerati la stessa cosa. Ho distinto le tre precedenti categorie di soggetti – suicidi, tentati suicidi e suicidi per attirare l’attenzione – procedendo nel seguente modo. Gli autori dei 112 messaggi analizzati in questo saggio sono stati tutti considerati suicidi in base alla definizione a loro assegnata dall’Ufficio del coroner della contea di Los Angeles in base a indagini sulle circostanze della loro morte. La distinzione tra tentati suicidi e “mezzi per attirare attenzione” è stata basata sui resoconti con cui gli adolescenti descrivevano le loro intenzioni ai tempi del loro atto. Tutti gli adolescenti che avevano tentato il suicidio sono stati incontrati entro 48 ore dal tentato suicidio. Le loro intenzioni furono riportate a tre persone diverse durante il loro ricovero volontario nell’ospedale – il medico che li ha assistiti nella sala d’emergenza; lo psichiatra durante il colloquio psichiatrico o me medesimo o dal mio assistente nel corso di un’intervista durata due ore. La loro classificazione è basata su una comparazione dei tre resoconti. I tre adolescenti mancati suicidi cui ci si riferisce alla fine di questo saggio nella sezione dedicata al “mondo dell’aldilà”, al momento del tentato suicidio intendevano porre fine alle loro vite. Introduzione all’ipotesi Quasi tutti i messaggi studiati ricadono dentro una delle sei categorie generali, vale a dire “messaggi principali”, “messaggi di malati che chiedono perdono”, “messaggi di malati che non chiedono perdono”, “messaggi con accuse dirette”, “ultime volontà e testamento” e “messaggi che contengono istruzioni”. Il totale delle sei categorie di messaggi e le loro spiegazioni danno forma all’ipotesi: una spiegazione sistematica valida 157 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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per tutti i massaggi tranne dieci: 102 su 112. Le eccezioni sono discusse più avanti. In dieci punti illustreremo le caratteristiche dei “messaggi principali”. 35 su 112 rientrano in tali categorie. In aggiunta, i “messaggi di malati che chiedono perdono” contengono tutte o quasi tutte le caratteristiche trovate nei “messaggi principali”. Il grado di tale presenza dipende dalla loro lunghezza. Avverto il lettore di non considerare le altre quattro forme di messaggi come eccezioni che tendono a negare il processo associato ai “messaggi principali” e ai “messaggi di malati che chiedono perdono”. Le rimanenti quattro forme e le spiegazioni che le accompagnano non sono eccezioni ma aggiunte importanti che ampliano il panorama degli iniziali dieci punti. Per analogia consideriamo l’affermazione “la luce si muove per linea retta” ad eccezione di quando incontra un oggetto opaco, nel caso di rifrazione, nel caso di diffrazione etc. Non si sostiene che queste espressioni tendano a negare il principio di propagazione lineare della luce, ma solo che agiscono nel senso di restringere la sua portata e stabilire i suoi confini di validità. Il riconoscimento e la discussione delle altre quattro categorie per i messaggi servono allo stesso scopo. Fino dove è in grado di spiegare le eccezioni in modo tale che le spiegazioni siano consistenti con le prove, la somma totale di queste spiegazioni costituisce una comprensione più dettagliata e comprensiva della luce, o nel caso dell’ipotesi in questione, del suicidio. Credo anche che l’ipotesi fornisca una spiegazione del suicidio, dentro una medesima cultura, che risulta sia più empiricamente fondata sia più coerente con le prove di quanto non lo siano altre ipotesi. L’ipotesi Le persone degne di fiducia tradiscono la fiducia quando sono convinte di avere un problema. La natura di tale problema è che problematiche gravi hanno tormentato il loro passato, continuano a farlo nel presente ed emergeranno in modo imprevedibile per tutta la loro vita. Paradossal158 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mente questi imprevedibili problemi accadranno in modo assolutamente prevedibile, come è sicuro che sono sorti in modo inaspettato adesso, e come in modo inaspettato erano sorti nel passato. Il problema è quindi visto assoluto come la vita, per cui deve essere risolto con qualcosa di altrettanto definitivo: la morte. Poiché è impossibile cancellare il problema, dato che è considerato inevitabile e inevitabilmente rivolto al peggio, e poiché è considerato necessario risolvere questo problema per continuare a vivere, vale a dire per non tradire la fiducia di qualcuno, e poiché la natura assoluta del problema è risolvibile solo con soluzioni definitive, e poiché c’è solo un’unica soluzione definitiva, si scopre che è necessario risolvere il problema della vita con la morte o – per dirla in altri termini – tradire la sacra fiducia pubblica con il più privato degli atti: il suicidio. Nella maggior parte dei messaggi è implicita, o esplicita, l’idea che “non volevo che andasse in questo modo … ma …”. In questa prospettiva, si trovano a giudicarsi senza colpa, cioè persone degne di fiducia, mentre allo stesso tempo sanno che gli altri li giudicheranno traditori della fiducia perché quest’ultimi non hanno provato quello che essi hanno provato e per questo motivo non possono riconoscere la natura morale e ragionevole dell’atto estremo. In considerazione di ciò, chiedono agli altri indulgenza e perdono, perché, in sintesi, sanno cosa stanno facendo, ma sanno anche che gli altri non possono capirlo. Che i problemi dell’esistenza, quelli che si è moralmente obbligati a risolvere in modo da non violare la sacra fiducia nella vita, possano essere risolti solo con la morte è un paradosso assurdo, ma dalla prospettiva del potenziale suicida, è una conclusione inevitabile e giusta. Dall’assenza di scelta – “il riconoscimento della necessità” – dall’apparente mancanza della possibilità di scegliere, nasce la più grande libertà. E’ così che il suicida considera l’atto estremo come la potenziale liberà che ha cercato durante tutta la sua vita. Ciò si rintraccia negli stessi messaggi d’addio. I loro autori raramente appaiono “depressi” o “ostili”. I messaggi sono nel complesso molto sereni, come se nel momento dello scrivere la sofferenza fosse cessata e la soluzione trovata. Tuckman sostiene che il 51% dei messaggi che ha studiato esprimevano “un sentimento positivo e non 159 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di ostilità” e un altro 25% esprimeva “neutralità affettiva” (Tuckman – Kleiner – Lavell 1959, p. 61). Ciò si riscontra nei dati di Farberow et al., secondo cui il periodo di maggior rischio non è durante la depressione o la “malattia” ma quello immediatamente successivo, quando il paziente sembra migliorare (Farberow – Shneidman – Litman 1963, p. 49).

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I messaggi di tipo principale Lo studio che segue descrive gli aspetti formali di un processo che l’individuo deve attraversare prima di essere in grado di pensare seriamente al suicidio e quindi di tentarlo. Fino a che punto questo processo sia operativo sarà illustrato attraverso un’analisi dei “tipi principali” di messaggio. Fino a che punto gli altri cinque tipi deviano dalle caratteristiche rintracciate nel “tipo principale” sarà illustrato nella spiegazione che accompagna ciascuno dei cinque rimanenti tipi. La somma totale di tutti e sei i tipi di messaggi e le spiegazioni che li illustrano costituisce l’ipotesi, vale a dire una spiegazione sistematica e razionale del suicidio fondata sugli stessi resoconti dei suicidi scritti appena prima dell’atto fatale. Durkheim argomentava in modo approfondito quanto quell’atto privato e contrario alla fiducia pubblica fosse irrazionale e/o immorale nonché vincolato da sanzioni pubbliche che provano a prevenirlo. Allo scopo di abbattere questi vincoli e al prezzo di essere giudicato dagli altri come uno che tradisce la fiducia, la persona deve 1) trovarsi di fronte a un problema che appare inatteso, intollerabile e irrisolvibile; 2) assumerlo non come un isolato incidente spiacevole, bensì come qualcosa che sta dentro una lunga biografia di situazioni problematiche e di cui sarà ricco anche il futuro; 3) credere che la morte sia l’unica risposta possibile all’apparente irrisolvibile dilemma della vita; 4) giungere a questo stato d’animo a) attraverso un crescente isolamento sociale che lo rende incapace di condividere questo problema con altre persone o con persone che condividendolo siano capaci di risolverlo, o b) perché isolato socialmente a causa delle cure mediche per una malattia incurabile che a sua volta lo 160 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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allontana dallo stato di salute e dalla comunità, quindi rendendo doppiamente irrisolvibile il problema; 5) superare i vincoli sociali, vale a dire le norme sociali che aveva interiorizzato e che gli facevano vedere il suicidio come un atto irrazionale e/o immorale; 6) riuscire in questo perché non si sente parte integrante della società rispetto agli altri e perciò si ritiene non più legato ai suoi vincoli; 7) riuscire a realizzare il passo 6 applicando al suo atto una giustificazione verbale che lo renda in grado di allontanare la propria concezione di sé da quella del traditore della fiducia; 8) arrivare a fare questo definendo la situazione come un problema a) di cui non si è responsabili, b) irrisolvibile, ma non per mancanza di sforzo personale, e c) di cui non è data altra soluzione tranne la morte (lui non voleva che andasse a finire in questo modo ma … era “la sola via di uscita”); 9) in breve, considerare la morte come necessaria e così facendo rimuovere la scelta e di conseguenza la colpa e l’immoralità; 10) premunirsi contro il verificarsi di problemi nell’aldilà. Trentacinque dei 112 messaggi erano del “tipo principale” e contenevano tutti o la maggior parte di questi elementi – il possederli tutti o meno dipendeva dal se o meno la lunghezza lo consentisse. Tutti i messaggi del tipo principale erano caratterizzati dal fatto che l’autore chiede perdono o indulgenza. L’esempio seguente ne illustra il tenore generale È difficile dire perché non voglio vivere. Ho solo una ragione. Le tre persone che ho al mondo e che amo non mi vogliono. Tom, ti amo tanto nonostante mi hai detto che non mi vuoi e non mi ami. Non ho mai pensato che mi avresti portata fino a questo punto, ma adesso sono arrivata alla fine, e questa è la cosa migliore per te. Hai così tante preoccupazioni e mi dispiace di averne aggiunta un’altra. Papà, ti ho fatto tanto male, ma immagino che veramente facevo male a me stessa. Volevi solamente il meglio per me e devi credere che questo lo è. Mamma, hai provato in tutti i modi a rendermi felice e a fare la cosa giusta per tutti noi. Anche io ti amo tantissimo. Tu non hai fallito, io sì. Non ho nessun posto dove andare e quindi sono tornata dove ho sempre trovato la pace.

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Ho fallito in ogni cosa abbia fatto e spero che non fallirò in questo. Vi amo tutti profondamente e mi dispiace che sia questo il modo con cui devo dirvi addio. Per favore, perdonatemi e siate felici. Tua moglie, vostra figlia.

Primo, il problema non è prodotto da loro stessi. A primo sguardo la persona suicida sembra dire esattamente l’opposto. “Tu non hai fallito, io sì”, “Ho fallito in ogni cosa”. Tuttavia, dopo aver riconosciuto questo, afferma “Tom, ti amo tanto nonostante mi hai detto che non mi vuoi e non mi ami. Non ho mai pensato che mi avresti portato a questo punto”, per cui certamente li ama e sono loro che non la amano e questo è “il problema”. Secondo, c’è una lunga storia di problemi. “Mamma, hai provato in tutti i modi a rendermi felice e a fare la cosa giusta per tutti noi. Anche io ti amo tantissimo. Tu non hai fallito, io sì”, o “Tom … Hai così tante preoccupazioni e mi dispiace di averne aggiunta un’altra”, etc. Sembra che sia stata lei a creare una così lunga serie di problemi. Ciononostante, anche lei ne ha sofferto. “Papà, ti ho fatto tanto male, ma immagino che veramente facevo male a me stessa”. Terzo, l’escalation dei problemi è andato oltre l’umana sopportazione. “È difficile dire perché non voglio vivere. Ho solo una vera ragione. Le tre persone che ho al mondo e che amo non mi vogliono”, o “Tom, ti amo tanto nonostante mi hai detto che non mi vuoi e non mi ami”. Questi particolari problemi hanno un’origine recente e sono più gravi di qualsiasi altro lei abbia provato precedentemente. Dal suo resoconto, se avesse incontrato prima problemi di questo tenore, si sarebbe già tolta la vita, poiché questi problemi la privano di ciò che precedentemente ha costituito una ragione sufficiente per continuare a vivere. Quarto, la morte è vista come inevitabile. “È difficile dire perché non voglio vivere. Ho solo una vera ragione. Le tre persone che ho al mondo e che amo non mi vogliono”, o “…ma adesso sono arrivata alla fine…”, e infine “Vi amo tutti profondamente e mi dispiace che sia questo il modo con cui devo dirvi addio”.

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Quinto, chiede perdono: “vi amo profondamente e mi dispiace che debba essere questo il modo di dirvi addio”. Sesto, sanno quello che stanno facendo ma sanno che gli altri non possono capirlo. “Papà, … volevi solamente il meglio per me e devi credere che questo lo è”. L’opinione espressa nel messaggio del suicidio al punto tre è la stessa che menzionano tutti gli altri che si sono suicidati o hanno tentato, dato che questo è un caso particolare della più generale condizione di “progressivo isolamento sociale dalle relazioni significative”. Ellen West, il cui caso è forse il più noto, meno di un anno prima di togliersi la vita scrisse nel proprio diario: a causa di questa malattia mi sto allontanando sempre più dalle persone. Mi sento esclusa dalla vita reale. Sono completamente isolata, come sotto una campana di vetro. Vedo le persone come attraverso un muro di vetro, le loro voci mi arrivano attutite. Ho un inesprimibile desiderio di unirmi a loro, grido, ma non possono sentirmi. Allungo le mie braccia verso di loro, ma le mie mani si scontrano contro le pareti della mia campana di vetro (Brinswanger 1958, p. 256)

Tutti i rimanenti messaggi del “primo tipo” hanno in comune tutte o la maggior parte delle precedenti caratteristiche. Tutti i messaggi di questa categoria, senza eccezioni, chiedono perdono o indulgenza da parte dei sopravvissuti. Messaggi dei malati Le richieste di perdono o indulgenza possono essere omesse quando l’autore sente che le persone possano accettare eccezioni alla generale indignazione per l’atto di suicidio, eccezioni che dovrebbero essere riconosciute a tutti coloro che, ad esempio, soffrono per una malattia incurabile, provano dolori atroci etc. In tali casi, il suicida può ritenere che nessuna 163 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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giustificazione sia necessaria, e la richiesta di perdono può essere inclusa oppure no nel messaggio d’addio, dipendendo dall’ambiguità con cui le persone giudicano il criterio precedente. Trentaquattro messaggi erano compresi nella categoria “malattia”. Ventidue di essi omettono la richiesta di perdono; dodici la includono. Questa categoria di messaggi ha la maggior parte delle medesime caratteristiche del “tipo principale”. Quante condizioni del tipo principale erano presenti nei messaggi compresi nella categoria “malattia” dipendeva solo se la lunghezza lo consentisse. Le due caratteristiche distintive di queste due serie di messaggi riguardano se o meno è chiesto perdono, per le ragioni affermate prima, e secondariamente se la fonte del problema è generalmente meglio definita e delimitata all’area della malattia, dolore etc. e alle implicazioni sociali e personali a carico dell’individuo. Ecco alcuni esempi di messaggi. Messaggi di malati con scuse: Amatissimi figli: nelle ultime tre settimane si è fermata la circolazione del sangue nei miei piedi e nelle mie mani. Riesco a malapena a tenere un cucchiaio in mano. Prima di ricevere un altro colpo dopo quello alle mie gambe ho deciso che questa sarebbe la cosa più semplice per me. Vi ho sempre amato tantissimo. Per favore, perdonatemi. Non riesco a sopportare questi dolori. Con amore, la mamma.

Messaggi di malati senza scuse: Se riceverai questa lettera allora vuol dire che ho vuotato il mio barattolo dei sonniferi.

E un secondo messaggio della stessa autrice indirizzato alla stessa persona include la riga: “Sicuramente può esserci una giustificazione per l’eutanasia”. In un altro messaggio si legge:

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Cara Jane, stai rovinando la tua salute e la tua vita a causa mia, e non posso lasciartelo fare. I dolori al viso sembrano peggiorare ogni giorno ed esiste un limite a quello che una persona può sopportare. Ti amo tanto. Bill.

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Messaggi di accuse dirette In nessuno dei messaggi di questa categoria si chiede perdono o si chiede scusa. Il suicida non solo sente che non è stato solo lui a causare il problema, ma sa anche chi è il responsabile che lo ha spinto al suicidio. Per questo motivo, si sente giustamente indignato e omette la richiesta di indulgenza, specialmente quando la nota è diretta alla parte colpevole. I “messaggi di accusa diretta” sono generalmente molto brevi, raramente superano le poche righe. Dieci dei 112 messaggi studiati rientravano nel tipo dell’“accusa diretta”. Ad esempio, Tu, Bob e Jane siete la causa di questo – non ho altro da aggiungere. Addio Jane. Non potevo continuare a farmi rovinare da te. Bob Mary, spero che sarai soddisfatta. Bill Se tu avessi letto le 150 pagine di Red Ribbons questo non sarebbe successo.

Le ultime volontà e i testamenti Nessuno di questi messaggi contiene richieste di perdono o di indulgenza. Questa assenza, come nei casi precedenti, dipende dalla struttura del messaggio stesso. Questi messaggi solitamente riguardano soltanto la 165 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

maniera in cui vadano divise la proprietà del suicida. Non menzionano le circostanze del suicidio, e di conseguenza, non c’è bisogno di ammettere la colpa o chiedere perdono. Nessuno dei suicidi lo fa. Ultime volontà e testamento: Con la presente lascio tutti i beni e le proprietà che ho al mondo a Bill Smith. Lascio un dollaro a Chris Baker e uno a Ann Barnes. Scritto nel pieno possesso delle mie facoltà mentali. Mary Smith.

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Istruzioni I seguenti messaggi sono alcuni esempi di istruzioni. Sono quasi sempre molto brevi e le considerazioni sulle “ultime volontà e testamenti” sono valide anche per essi. Avvertite Jane, S Street, Apt 2. Thank Officer n. 10. Mi sono buttata nell’oceano. Prendete la bara più economica che ha Jones Bros. Non mi ricordo il prezzo. Ho lasciato i soldi nel cruscotto della macchina.

Precauzioni prese per impedire il sorgere di problemi nell’aldilà. Per guardarsi dall’eventualità che gli stessi drammatici problemi possano presentarsi nell’aldilà, proprio la cosa che chi si uccide vuole evitare, viene formulato e interiorizzato uno di sei possibili corsi di azioni. Mi sono imbattuto per la prima volta in queste forme mentre studiavo i suicidi di adolescenti; i messaggi d’addio tendono a confermarli. 1) Il potenziale suicida che abbia un trascorso di persona molto religiosa e di praticante smette improvvisamente di frequentare la chiesa e 166 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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inizia a considerarsi come non religioso. Quindi mette da parte il paradiso e l’inferno, considera la morte come un atto conclusivo, e si assicura in questo modo tutti i benefici del non credente rispetto al significato dell’atto del suicidio. 2) La persona che frequenta la chiesa in modo sporadico ma ha ricevuto una sufficiente formazione religiosa tale da rendere ambivalente la sua posizione rispetto all’aldilà, improvvisamente comincia a interrogare le persone molto religiose per sapere se “Dio perdona chi commette suicidio” o “Dio perdona tutto?” E se quest’ultime, credendo che Dio effettivamente lo faccia, oppure per compiacere la persona, o perché desiderose di convertila o per altre ragioni ancora, rispondono “Sì, certamente se tu credi veramente, Dio perdonerà ogni cosa”; a questo punto il potenziale suicida di colpo si converte e prova a credere profondamente in modo da assicurarsi un posto in cielo, privo di problemi. Quello che segue è il messaggio d’addio scritto da una ragazza di 16 anni che aveva tentato il suicidio. Sia la ragazza sia la madre riferirono che gli interessi religiosi della ragazza iniziarono improvvisamente e negli ultimissimi mesi. Il messaggio illustra il tentativo dell’adolescente di risolvere in anticipo i problemi del dopo la morte attraverso il ragionamento prima descritto. Ti prego, perdonami Dio … Nel mio cuore so che Cristo è in ogni luogo nel mondo ed è vicino a tutti. Ogni momento di ogni giorno rappresenta Dio in ogni modo possibile. So che nella mia mente ci sono pensieri cattivi su tante cose diverse e a volte penso che Cristo non esiste. Ma il mio cuore è forte e che quando penso che Cristo non esiste il mio cuore sa che invece esiste. … Mia madre crede che non esista né l’inferno né il paradiso (immagino) ma io so che invece paradiso e inferno esistono. Dio, non voglio andare all’inferno per cui perdonami per quello che sto facendo. John L. dice che se io credo e accetto Gesù allora andrò in cielo. Alcuni dicono che se tu chiedi perdono a Dio per le cose che hai

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fatto a te stessa o agli altri, egli ti perdonerà (se tu credi in Gesù e lo ami). … Il cielo è così sereno mentre la terra è così piena di problemi e terrificante.

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3) La persona religiosa, che è convinta che il suicidio sia un peccato mortale, proverà a risolvere questo dilemma informandosi con la madre o con qualche autorità. “Dio perdona tutto?”, sapendo che il suicidio potrebbe essere un’eccezione, gli si risponderà “Se hai fede”. Nonostante il noto pronunciamento contrario del Papa, il suicida accetterà questa risposta e la riterrà vera. 4) La persona religiosa, che pensa di non essere in grado di assicurarsi un posto in cielo o non è sicura se la morte possa essere una soluzione ai sui problemi, sfiderà Dio, ad esempio “Anche se andrò all’inferno, almeno non avrò più quei mal di testa e le preoccupazioni per il bambino e tutto ciò sarà comunque un risultato”. Almeno non hai violato la credenza nell’inferno, perché nessuno sulla terra ti ha mai detto come ci si comporta nell’inferno e lasci le tue cose senza il problema di diventare un traditore della fiducia. Tale ambiguità non permette di sapere se si tratterà di un lieto fine o di un buon inizio. L’incertezza di cosa succede dopo la morte è illustrata in alcune parti del messaggio d’addio di un uomo a sua moglie e alla sua famiglia. Miei cari: quando leggerete questo io non sarò più sulla terra ma giusto all’inizio della mia punizione per quello che ho fatto a tutti voi … Ho pensato moltissimo a quello che ho fatto e ogni volta che ci ho pensato mi è sembrato che non ci fosse altro modo … Non so cosa ci sia dall’altra parte, forse sarà peggio di qui.

È interessante notare che l’autore del messaggio inizia col dire che la sua punizione nell’aldilà sia proprio l’inizio. Si tratta di un’affermazione data con sicurezza: la punizione sembra una certezza. Comunque, la lettera finisce con questo messaggio: “Non so cosa ci sia dall’altra parte, 168 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

forse sarà peggio di qui”. Quel “forse” contenuto nell’affermazione suggerisce la possibilità che “forse” sarà meglio. Nella speranza di inclinare la bilancia nella giusta direzione, il suicida conclude il suo messaggio con “Vi amo tutti. Possa Dio aiutarmi e perdonarmi per quello che sto facendo. Ancora addio. Jack, papà”.

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5) Un altro gruppo preoccupato con la prospettiva dell’inferno usa il messaggio d’addio per chiedere agli altri di “pregare per la sua anima” o “Dio mi perdoni” e, una volta presa questa precauzione, spera per il meglio. 6) La reincarnazione è l’ultima forma di possibile salvezza: “Forse andrà meglio nella prossima vita: non potrà andare peggio di così”. Questa soluzione ai problemi della vita e la speranza di prevenirli nel futuro è stata scoperta tramite le interviste agli adolescenti che avevano tentato il suicidio. Un ragazzo ebreo di 15 anni, che aveva frequentato regolarmente la sinagoga fino al suo trasferimento da New York, improvvisamente smise di partecipare ai servizi religiosi e più di recente cominciò a interessarsi alla reincarnazione. Anche una battista quattordicenne nera, che fino a un anno prima era stata praticante, smise di frequentare la chiesa e iniziò a interessarsi alla reincarnazione. Forse non è necessario sottolineare quanto sia particolare per un ebreo o un battista intraprendere una conversione verso le dottrine della reincarnazione, specialmente quando non si è mai ricevuto un indottrinamento esterno. Entrambi gli adolescenti riconoscevano tale peculiarità, ma si rifiutarono di discuterla approfonditamente. In sintesi, le convinzioni religiose non sembrano agire nei confronti dell’individuo in termini di un vincolo che preclude il suicidio, poiché si tende a interpretare i dogmi religiosi a seconda delle proprie necessità. È vero che Durkheim tratta approfonditamente il grado di integrazione sociale all’interno delle diverse religioni quale impedimento al suicidio, piuttosto che il dogma religioso in quanto tale. Tuttavia, non ha affrontato il modo in cui un dogma religioso, rivolto specificatamente a 169 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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prevenire il suicidio, possa servire a “incoraggiare” il suicidio fornendone razionalizzazioni. Quanto ho presentato prima spiega il perché e il come ciò possa essere fatto dal potenziale suicida. Riconosco che alcune eccezioni si verificano all’interno di ciascuna categoria. Tuttavia, è incoraggiante che tra i messaggi di suicidi studiati, pochissimi casi rientrassero in una “categoria residuale”: solo dieci in tutto, quattro dei quali contenevano gli unici elementi di humor riscontrati nei messaggi, ad esempio “Si prega di non disturbare. C’è qualcuno che riposa – impiccato al parafango della sua macchina”. Conclusioni Se è vero, come pensava Hume, che “… tale è la naturale paura della morte che motivi futili non potranno mai farci riconciliare con essa” (Hume 1965, p. 305), è anche vero che l’orrore della vita non è certo un futile motivo. Sono convinto che la maggior parte delle persone preferisca le incertezze della vita alle incertezze della morte, poiché nella vita possono dire a se stessi che certi eventi accadranno, che dalla vita “ci si può aspettare qualsiasi cosa”, vale a dire “la vita fatta di alti e bassi”. Se si esclude dalla definizione della vita l’incertezza – ad esempio “la vita non è fatta di alti e bassi”, ma è fatta solo di momenti “bassi”, e non è vero che qualsiasi cosa possa accadere, ma le cose possono solo andare peggio – allora potrebbe essere meglio provare le incertezze della morte proprio in virtù dell’incertezza che l’avvolge. Accettando la morte si ha la possibilità di risolvere i problemi della vita, mentre nel frattempo ci si protegge da problemi futuri (o almeno si ha la possibilità di risolvere i problemi del futuro quando si presenteranno). Ritengo che sia necessario prendere sul serio quanto scritto dai suicidi per spiegare il loro gesto ai sopravvissuti, insomma occorre considerarli persone razionali, e auspico che il lettore possa essere aiutato in questo compito dal considerare l’ipotesi che ho qui illustrato. Sono anche convinto che una più completa comprensione del suicidio si formerà solo se 170 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

le procedure per “trascendere i dati” non finiscano per ignorarli, e che tali dati abbiano una relazione diretta con il fenomeno della vita vissuta che si sta studiando, in questo caso il suicidio.

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Riferimenti bibliografici Brinswanger L. 1958, The case of Ellen West, in R. May – E. Angel – F. Hellenberger (a cura di), Existence, Basic Books, New York, pp. 237-364. Cavan R. 1928, Suicide, Chicago University Press, Chicago. Cressey D. 1951, Other people’s money, The Free Press, Glencoe. Durkheim È. [1897] 2016, Il suicidio. Studio di sociologia, BUR, Milano. Farberow N. L., Shneidman E. S., Litman R. E. 1963, The suicidal patient and the physician, in «Mind», 1, pp. 69-74. Gibbs J., Martin W. 1964, Status integration and suicide, University of Oregon Press, Eugene. Henry A., Short J. 1954, Suicide and homicide, The Free Press, Glencoe. Hume D. 1965, Of suicide, in A. MacIntyre (a cura di), Hume’s ethical writings, Collier Book, New York. Powell E. 1950, Occupational status and suicide: toward a redefinition of anomie, in «American Sociological Review», 23, pp. 131-139. Shneidman E., Farberow N. 1957, Appendix: genuine e simulated suicide notes, in E. Shneidman, N. Farberow (a cura di), Clues to suicide, McGraw Hill, New York. Tuckman J., Kleiner R. J., Lavell M. 1959, Emotional content of suicide notes, in «American Journal of Psychiatry», 116, pp. 59–63. Wahl C. 1957, Suicide as a magical act, in E. Shneidman, N. Farberow (a cura di), Clues to suicide, McGraw Hill, New York. Wright Mills C. W. 1940, Situated actions and vocabularies of motives, in «American Sociological Review», 5, pp. 904-913 (trad. it. Azioni situate e vocabolari di motivi, in AA.VV., Motivi, account e neutralizzazioni, a cura di C. Rinaldi e V. Romania, PM, Varazze, pp. 39-64).

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Reazioni sociali al suicidio: il ruolo delle definizioni del coroner1

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J. Maxwell Atkinson

Nel 1927, la Bibliographie des Selbstmords di Hans Rost conteneva un elenco di circa 4.000 titoli sul suicidio (Rost 1927). Edwin Schneidman e Norman Farberow hanno elencato più di 2.000 volumi apparsi tra il 1927 e la pubblicazione del loro libro The Cry for Help nel 1961 (Farberow – Schneidman 1961). Nel corso della mia ricerca, mi sono imbattuto in altri 300 studi sul suicidio pubblicati dopo questa data. Nel 1960, è stata fondata la International Association for Suicide Prevention che ha finora organizzato non meno di cinque conferenze internazionali. L’ultimo decennio ha visto la comparsa negli Stati Uniti di un nuovo settore specialistico di studi, la “suicidologia”, che vanta una propria associazione professionistica, la American Association of Suicidology, e una propria rivista, The Bulletin of Suicidology. Un investimento così robusto nello studio del suicidio lascia supporre che debba esservi un accordo generalizzato su quali siano gli approcci e le teorie più adeguate per indagare l’argomento. Uno sguardo nemmeno troppo profondo alla letteratura in materia, tuttavia, fa capire che ciò non corrisponde affatto al vero e che solo un ottimista potrebbe affermare che siamo in procinto di comprendere ogni aspetto del suicidio. Alla luce di queste considerazioni, non è una coincidenza che uno dei pochi nuovi ambiti di discussione dell’ultimo decennio riguardi i metodi da adottare per lo studio di questo argomento.

1.  J. M. Atkinson 1971, Societal reactions to suicide: the role of coroners “definitions”, in S. Cohen (ed.), Images of deviance, Penguin Books, Harmondsworth, pp. 165–191. Traduzione di Romolo G. Capuano.

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Il problema dei dati Il suicidio non è chiaramente uno dei fenomeni più facili da studiare. La tipica imprevedibilità che lo caratterizza rende impossibile, tranne in rarissimi casi, ogni osservazione, e la morte di chi vi è coinvolto esclude la possibilità di condurre un qualsiasi tipo di intervista. Di norma, però, chi si occupa di suicidio non si lascia condizionare più di tanto da questi problemi e tende a sfruttare quanto più possibile i dati immediatamente disponibili come le statistiche ufficiali, le cartelle dei coroner e altre fonti. La crescente raccolta di dati statistici nell’Europa del diciannovesimo secolo portò alla pubblicazione di un certo numero di analisi dei tassi di suicidio, che culminarono nel classico studio sociologico di Durkheim, Il suicidio, nel 1897 (Durkheim [1897] 1952). Con lo sviluppo, nell’attuale secolo, di nuove discipline come la sociologia e la psichiatria, le analisi dei tassi di suicidio e degli studi di caso basati sulle cartelle dei coroner sono aumentate, e sono emerse diverse correlazioni tra suicidio e numerose variabili. Il celebre psichiatra Erwin Stengel ha riassunto alcune delle più note correlazioni nel modo seguente: Abbiamo rilevato che i tassi di suicidio […] sono positivamente correlati con i seguenti fattori: sesso maschile, età, stato vedovile, essere divorziati o non sposati, sterilità, alta densità demografica, vivere in grandi città, stili di vita elevati, crisi economiche, consumo di alcol, provenienza da famiglie separate o divorziate, disturbi mentali e malattie fisiche (Stengel 1964).

Si è imposta, dunque, la tendenza a interpretare i tassi di suicidio in relazione a vari processi sociali, anche se, fino a tempi relativamente recenti, gli esperti hanno ignorato il fatto che gli stessi tassi sono il prodotto di complessi processi sociali. Raramente gli autori hanno fatto riferimento a problemi sorti nel corso della registrazione dei decessi e spesso hanno messo a confronto dati provenienti da città, aree e paesi diversi indi-

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pendentemente dalle difformità tecnologiche, amministrative e culturali esistenti tra essi. Queste tendenze non riguardano esclusivamente gli studi sul suicidio. Sociologi e altri studiosi delle varie forme del comportamento sociale sono partiti spesso dai medesimi assunti sulle statistiche provenienti dalle fonti ufficiali. In anni recenti, tuttavia, la crescente consapevolezza del fatto che gli stessi tassi sono il prodotto di processi sociali ha spinto i sociologi a esaminare più da vicino tali processi (Erikson 1962; Kitsuse – Cicourel 1963). Di conseguenza, piuttosto che limitarsi a estrarre un campione da una popolazione di minori condannati per vari reati e formulare generalizzazioni sulle cause della delinquenza, è più probabile che oggi un sociologo sia interessato al modo in cui quei minori vengono arrestati, condotti in tribunale, incriminati e condannati. Allo stesso modo, è probabile che voglia sapere se ci sono minori la cui condotta è uguale a quella dei coetanei condannati, ma che, per qualche ragione, riescono a evitare alcuni o tutti i processi che portano alla condanna, o se ci sono tipi di condotte simili che non vengono mai ufficialmente etichettate come “criminali”. Gli studi finora condotti su tali questioni hanno non solo dato vita a teorie alternative del comportamento deviante, ma hanno dimostrato chiaramente quanto fosse sbagliato, un tempo, pensare che i problemi sollevati dai processi di produzione dei tassi fossero insignificanti e trascurabili. Per quanto riguarda il suicidio, l’attuale consapevolezza della serietà dei problemi di metodo implicati si è incentrata su due questioni fondamentali. La prima e più comune riguarda l’accuratezza o meno delle statistiche ufficiali ed è emersa per la prima volta in modo articolato nella prima metà degli anni Sessanta in Scandinavia, dove i ricercatori mostrarono preoccupazione per le osservazioni che, a livello internazionale, andavano accumulandosi sui tassi di suicidio manifestamente alti registrati in Svezia e Danimarca (Dalgaard 1962; Rudfield 1962). La preoccupazione non era condivisa solo dai paesi scandinavi, comunque, e quando, nel 1967, si tenne la quarta Conferenza internazionale per la prevenzione del suicidio, la questione della registrazione dei decessi fu 175 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ritenuta così importante che vi fu dedicata una intera sessione plenaria (Farberow 1968). Una seconda questione, sensibilmente diversa, fu formulata da Jack D. Douglas nel libro The Social Meanings of Suicide, pubblicato nello stesso anno in cui fu tenuta la conferenza citata (Douglas 1967; vd. anche Douglas 1966). In esso viene proposto quello che è probabilmente lo studio più esauriente e raffinato del suicidio e delle ricerche sul suicidio mai scritto. Descriverne le tesi in poche righe significherebbe non rendere giustizia all’opera. Tuttavia, questo saggio deve molto al libro di Douglas, il che mi impone di sintetizzarne alcuni dei punti essenziali. Douglas non è interessato solo alla questione dell’accuratezza dei dati provenienti da fonti ufficiali, ma anche a quella della validità del loro uso a scopo di indagine. A suo parere, la ricerca degli autentici tassi di suicidio, che è l’obiettivo principale dei sostenitori del primo tipo di approccio alle statistiche ufficiali, è un falso problema in quanto presuppone che il suicidio sia una forma di comportamento unidimensionale e invariabile. Douglas evidenzia con forza che i significati associati al comportamento suicidario variano parecchio sia all’interno della stessa società sia, ovviamente, tra culture diverse. Ad esempio, un vecchio eschimese si assicurerà il posto migliore nel paradiso eschimese se si espone alle intemperie in tempi di carenza di cibo; comportamento che contrasta completamente con la visione cristiana del suicidio. Allo stesso modo, nella nostra cultura, i significati attribuiti, ad esempio, al suicidio di un bancarottiere e alla morte osannata del capitano Oates in Antartico sono chiaramente molto diversi. Di conseguenza, afferma Douglas, il primo compito che dobbiamo porci quando studiamo il suicidio è quello di esaminare le varie forme di comportamento che una società etichetta con questo nome, allo scopo di elaborare una classificazione dei diversi significati attribuiti a quelli che superficialmente appaiono come forme simili di comportamento. Solo così sarà possibile elaborare teorie del suicidio che non commettono l’errore logico di classificare tutti i suicidi nella stessa categoria, come se fossero la stessa cosa.

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Ciò vuol dire che limitarsi a discorrere dell’accuratezza delle statistiche ufficiali significa dare per scontata l’esistenza di una definizione assoluta ed eterna di suicidio, con la conseguenza che l’unico problema metodologico diventa quello di accertare la correttezza delle varie procedure di certificazione. Se, invece, si procede dalla premessa che il suicidio è una forma di comportamento definita socialmente e non naturalmente, la sua definizione diventerà problematica e varierà da società a società e all’interno della stessa società nel corso del tempo. Nel suo sforzo di dimostrare come il suicidio possa essere studiato a partire da questa premessa, tuttavia, Douglas adopera fonti di seconda mano ricavate, ad esempio, da altri studi sul suicidio. Eppure se, come egli stesso riconosce, le cartelle dei coroner non rappresentano una fonte valida di dati perché riflettono le idee degli stessi su ciò che deve intendersi per suicidio, dovrebbe essere altrettanto problematico affidarsi ai casi studiati da altri autori. In altre parole, si può affermare che le fonti di dati adoperate da Douglas sono inadeguate rispetto ai criteri da lui stesso stabiliti. Condotto alla sua logica conclusione, questo ragionamento equivale a dire che non esistono fonti di dati valide sul suicidio e, di conseguenza, che non è possibile compiere ulteriori studi. L’obiettivo principale di questo contributo, tuttavia, è di mostrare che la situazione non è fosca come appare e che i processi di registrazione dei decessi sono una fonte cruciale di informazioni sulle reazioni sociali alle varie forme di morte e, quindi, che le cartelle dei coroner sono importanti anche dalla prospettiva adottata da Douglas. A tale scopo, in prima battuta, descriverò le procedure per la registrazione dei decessi adottate in Inghilterra e Galles; tale descrizione è finalizzata a illustrare l’importanza cruciale dei coroner nel decidere quali decessi sono riconducibili a suicidio. Seguiranno alcune osservazioni sulla definizione legale di suicidio e sulle procedure formali a cui i coroner sono tenuti a conformarsi per raggiungere le loro decisioni. Farò uso poi di dati che scaturiscono dall’esame di alcuni casi e da conversazioni preliminari con quattro coroner per esaminare alcune delle tecniche più informali da questi adottate nell’applicare la definizione ufficiale ai casi concreti. Infine, proporrò 177 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

alcune considerazioni sulle implicazioni di questo tipo di analisi per la ricerca passata e futura sul suicidio.

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Le operazioni di registrazione dei decessi in Inghilterra e Galles In Figura 1 propongo una rappresentazione diagrammatica delle procedure adottate nella fase di registrazione dei decessi in Inghilterra e Galles. Ordinariamente, il medico che ha in carico il defunto nel periodo antecedente il decesso consegna un certificato alla famiglia in cui indica la causa di morte “in base a quanto consta”. Il certificato viene consegnato o spedito al locale Ufficio dell’anagrafe e dello stato civile che registra il decesso e concede il nulla osta all’esecuzione del funerale e delle altre incombenze. Se, però, il decesso ricade in alcune categorie particolari o se il medico non è in grado di determinare la causa di morte, il caso è rimandato al coroner. Allo stesso modo, il coroner deve essere informato qualora non sia disponibile alcun certificato di morte come, ad esempio, quando il decesso avviene in assenza di un medico curante. Una volta che il caso sia stato rimesso al coroner, il primo compito di questi è decidere se il defunto è morto di cause naturali o innaturali. A tal fine, egli deve acquisire delle informazioni che può ricavare sia dai suoi funzionari, di solito funzionari di polizia, sia ordinando un’autopsia. Se il coroner decide che si tratta di morte naturale, non vi è bisogno di un’inchiesta, ma se il decesso risulta imputabile a cause innaturali, è necessario avviare un’inchiesta. Oltre a ciò, in alcuni casi particolari, come quando il decesso avviene in fabbrica, in carcere, in strada o in ferrovia, la legge impone l’avvio di una inchiesta.

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Figura 1: Il processo di registrazione dei decessi in Inghilterra e Galles

Certificazione di morte

Stato civile

Decesso

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Nessuna certificazione di morte

Coroner

Rimozione del corpo

Inchiesta

Tratto da Deaths in the Community (London: British Medical Association, 1964) e What to do when Someone Dies (London: Consumers’ Association, 1967).

Essendo una delle più antiche istituzioni britanniche, la corte del coroner opera in base a norme e consuetudini peculiari, che sarebbe poco pertinente descrivere in dettaglio in questa sede. È opportuno, tuttavia, osservare che le norme che ordinariamente disciplinano l’ammissibilità delle prove non hanno valore per la corte del coroner per cui ogni coroner ha un certo margine di discrezione nel decidere come condurre un’inchiesta e come valutare prove e testimonianze. Inoltre, la maggior parte dei coroner lavora in questa veste a tempo parziale: su un totale di 250 coroner in Inghilterra e Galles, solo quattordici di essi si dedicano a questa professione a tempo pieno. Per diventare coroner, è necessario essere abilitati in diritto o in medicina ed esercitare la professione da almeno cinque anni. Di conseguenza, la maggior parte dei coroner a tempo parziale sono membri di studi legali che, per tradizione, provvedono ad assegnare localmente un loro associato a questa funzione, mentre i coroner a tempo pieno sono di solito abilitati in diritto e in medicina. Come è prevedibile, dato il sistema, il numero di casi gestiti dai singoli 179 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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coroner e il modo in cui vengono gestiti varia moltissimo da coroner a coroner. Per esempio, il numero di casi in cui viene disposta un’autopsia varia ampiamente da giurisdizione a giurisdizione. Allo stesso modo, se un coroner che opera in una zona rurale può non gestire nemmeno un caso in un anno, i quattordici coroner a tempo pieno, che operano in aree densamente popolate, gestiscono circa un terzo dei casi annualmente rimessi al coroner. Per quanto concerne le statistiche sul suicidio, il ruolo del coroner nel processo di registrazione dei decessi è evidentemente cruciale in quanto, prima che un decesso venga classificato come suicidio, deve essere esaminato dal coroner in seguito a un’inchiesta. La funzione principale del coroner consiste nell’occuparsi di quelli che potrebbero essere definiti “decessi residuali”; decessi, cioè, di cui gli altri medici non hanno saputo fornire una spiegazione adeguata. Tale funzione serve, in parte, a garantire una sorta di tutela nei confronti di possibili situazioni sospette e a prevenire la possibile diffusione di epidemie e altre occasioni di rischio per la salute. Il compito del coroner, dunque, almeno in parte, è di spiegare le morti improvvise, il che è particolarmente interessante se si considera che scopo delle ricerche sul suicidio è di elaborare teorie che spieghino un tipo particolare di morte improvvisa. Anzi, giunti a questo punto, è importante osservare che vi è più di una somiglianza superficiale tra la condotta del coroner, da un lato, e quella dei teorici del suicidio, dall’altro. Definizioni legali e operative di suicidio Tradizionalmente, chi si occupa di suicidio nell’ambito della ricerca si sforza di fornire una definizione più o meno sofisticata di suicidio. Una volta che sia stata introdotta, essa viene facilmente trascurata al momento di esaminare i dati empirici, il che è perfettamente comprensibile se si considera il fatto che è estremamente improbabile che un coroner sia a conoscenza delle definizioni di ogni singolo esperto. Durkheim e altri che hanno seguito questa strada sono stati criticati per aver ignorato la 180 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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possibilità di una discrepanza tra le proprie definizioni di suicidio e quelle adoperate da quanti sono coinvolti nei processi di categorizzazione ufficiale (Atkinson 1968). Eppure, questo è un problema molto comune in sociologia e il sociologo è costantemente alle prese con la necessità di individuare definizioni operative appropriate dei concetti che utilizza. Ad esempio, se vuole studiare l’isolamento sociale, prima di individuarlo, dovrà delimitare i confini del concetto e decidere che cosa far rientrare in esso. Anche se si limiterà a definirlo con i termini “assenza di contatti sociali”, dovrà, comunque, trovare un modo per misurare il contatto sociale e, se pure vi riesce, dovrà individuare un punto arbitrario oltre il quale una persona può essere definita “isolata”. Il coroner si trova in una posizione molto simile in quanto è chiamato ad applicare un certo numero di definizioni legali di vari tipi di decesso a casi particolari. A proposito degli Stati Uniti, Douglas ha così sintetizzato la sua posizione: A prescindere dagli effetti delle definizioni formali, è evidente che i coroner fanno riferimento a definizioni operative diverse di suicidio. Inoltre, uffici di coroner diversi adoperano procedure di indagine molto diverse quando devono giustificare la decisione di categorizzare le cause di morte (Douglas 1967, p. 228).

Naturalmente, “suicidio” è solo una delle definizioni legali di morte adoperate dai coroner di Inghilterra e Galles e, finora, non è stato esaminato accuratamente il modo in cui essa viene applicata. Se si esclude l’omicidio, non vi sono lavori specifici sulle altre categorie di morte innaturale di competenza del coroner, il che riflette, in parte, le maggiori ripercussioni sociali dell’omicidio rispetto alle altre forme di morte (Havard 1960). Così, un verdetto di omicidio può mettere in moto una serie di ulteriori processi legali, mentre la maggior parte degli altri verdetti non aggiunge granché all’indicazione della causa di morte indicata nella cartella medica. Individuare la definizione legale precisa di suicidio non è un compito semplice come sembra. Il Suicide Act del 1961 ha cancellato il suicidio 181 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dal novero dei reati gravi (felonies), il che significa che non è più possibile perseguire il tentato suicidio alla stregua di un tentato reato grave. Per quanto riguarda la reazione sociale al suicidio, esso può essere considerato come la fase finale di un graduale cambiamento di atteggiamento in corso da anni. In sostanza, questa visione è l’esito della vittoria della lobby della salute mentale, che ha formalmente trasformato il suicidio da questione legale a questione esclusivamente medica. Occorre un esperto in diritto per capire se l’approvazione di questa legge significa che oggi non esiste alcuna definizione legale, formalmente statuita, di suicidio. Prima del Suicide Act, la legge definiva il suicidio come un omicidio, con l’unica differenza che vittima e autore coincidevano. Se ora esaminiamo la legge sull’omicidio, scopriamo che esso è definito come l’uccisione dolosa di un’altra persona; l’aggettivo “doloso” sottende un concetto complesso, spesso dibattuto nel corso dei processi. Un esperto in diritto troverebbe probabilmente eccepibile la seguente grossolana semplificazione, ma la definizione più breve di “dolo” è quella che lo equipara all’intenzione di uccidere la vittima. Di conseguenza, il suicidio potrebbe essere definito come l’uccisione di se stessi, unita all’intenzione di uccidere. Questa definizione ammette un paio di eccezioni piuttosto rare, tanto che gli studiosi del campo possono permettersi di ignorarle. Se, per esempio, A punta un’arma da fuoco contro B con l’intenzione di ucciderlo, e l’arma esplode uccidendo A, ma lasciando incolume B, la morte di A è tecnicamente un suicidio. Le ragioni sottostanti a questa eccezione sono oscure, ma probabilmente riflettono il desiderio di coloro che originariamente concepirono la norma di assicurarsi che la morte accidentale di un individuo che tenta di ucciderne un altro non sfugga alla punizione. In questo modo, sopraggiunta la morte, la Corona poteva impossessarsi dei suoi beni, così come accadeva per gli altri autori di reati gravi. Un’altra norma riguarda il limite di tempo entro cui deve sopravvenire la morte dopo un atto suicidario. Se una persona muore oltre questo limite, la sua morte non può essere classificata come suicidio, anche se è dimostrabile che essa scaturisce da un’azione originariamente rivolta contro di sé.

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Sebbene, in teoria, il coroner abbia a disposizione varie alternative, in pratica la maggior parte delle inchieste si conclude con un verdetto di morte accidentale (in inglese, anche misadventure). Segue immediatamente, quello di suicidio, che dà conto di circa un quarto di tutti i verdetti. Nella maggior parte delle inchieste, dunque, si assiste quasi sempre a una gara a due. Di norma, il coroner emette l’uno o l’altro verdetto. Affinché pronunci un verdetto di suicidio, occorre che sia convinto che il defunto è morto di sua mano e che ha avuto l’intenzione di uccidersi. In confronto a un giudice alle prese con un caso di omicidio, il coroner si trova in una posizione particolarmente difficile durante l’inchiesta. L’ovvia impossibilità di controinterrogare il morto e l’assenza della pubblica accusa e dell’avvocato difensore comportano che, per emettere un verdetto di suicidio, l’intenzione debba essere stabilita post-mortem. La sua posizione è paragonabile a quella di un giudice chiamato a giudicare un morto accusato di omicidio senza l’assistenza degli avvocati. In questo senso, il coroner è costretto a dipendere da indicazioni che, per ragioni che saranno spiegate più avanti, lo avvicinano o lo allontanano dal verdetto di suicidio. Che il problema di stabilire l’intenzione di uccidersi non sia sempre di facile soluzione è stato pubblicamente riconosciuto da Theodore J. Curphey, coroner della contea di Los Angeles, il quale ha ottenuto la collaborazione degli esperti del celebre Los Angeles Suicide Prevention Center nei casi di morti dubbie (Curphey 1961). Il loro metodo è noto come “autopsia psicologica” e prevede la raccolta di informazioni su: gli eventi della vita del defunto (Rost 1927); la storia psichiatrica (Farberow – Schneidman 1961); l’eventuale comunicazione dell’intenzione suicida ad altre persone (Durkheim [1897] 1952); altri dati di tipo investigativo che possano contribuire a fornire indicazioni sul movente del suicidio (Stengel 1964). Curphey ha dichiarato che uno dei vantaggi principali del ricorso a operatori psichiatrici e sociali specialisti nello svolgere “autopsie psicologiche” è che il personale normalmente assegnato ai coroner non ha le competenze necessarie a individuare la presenza o assenza dell’intento suicidario. In Gran Bretagna non abbiamo ancora niente del genere, ma ritengo che i nostri coroner svolgano già “autopsie 183 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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psicologiche” e che l’esperimento condotto a Los Angeles sia semplicemente un tentativo di fare ciò che i coroner hanno sempre fatto in modo presumibilmente più efficiente. In realtà, come spero di evidenziare più avanti, gli indizi da cui i coroner inglesi desumono l’intento suicidario sono molto simili a quelli ricercati dagli investigatori psicologici di Los Angeles. I coroner, dunque, devono affrontare il difficile problema di operazionalizzare o applicare una definizione legale e formale di suicidio senza l’aiuto di alcune componenti essenziali delle normali corti di giustizia. Inoltre, il manuale più importante della professione li esorta a formulare un verdetto di suicidio solo quando le prove in tal senso sono sicure, senza indicare alcun criterio in base al quale ottenere tale sicurezza (Jervis 1957). In quanto segue, esamineremo alcuni dei modi in cui i coroner si occupano di stabilire la presenza dell’intento suicidario. Indicatori di intento suicidario I biglietti lasciati dal suicida Per il coroner l’indizio più inequivocabile che si sia verificato un suicidio è la presenza di un biglietto scritto dal defunto, attestante, esplicitamente o implicitamente, l’intenzione di suicidarsi. In questi casi, l’unico vero problema per il coroner è di verificare che nessuno stia cercando di travisare un omicidio facendolo apparire come un suicidio. Purtroppo, solo in una minoranza di casi è dato rinvenire biglietti del genere. Le statistiche variano ampiamente da una regione all’altra. Le ricerche da me condotte nella contea dell’Essex indicano che la percentuale di suicidi ufficialmente registrati per i quali sia stato ritrovato un biglietto è nell’ordine del 30%. Non solo sono pochi coloro che scrivono un biglietto, ma, secondo un ufficiale di polizia che ha molta esperienza nel campo, molti di essi finiscono con l’essere bruciati ben prima dell’arrivo della polizia. In altre parole, distruggere il biglietto sembra essere la mossa più ovvia 184 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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da parte di chiunque abbia intenzione di occultare un suicidio. Nella maggior parte dei casi, dunque, il coroner deve fare affidamento su prove di altro tipo. I biglietti lasciati dai suicidi attirano sempre più l’interesse dei suicidologi quale fonte di conoscenza delle motivazioni del suicida. La propensione precedente a ignorare ciò che le persone scrivono nei biglietti in base al fatto che esse non avrebbero il controllo delle proprie facoltà mentali al momento del suicidio è stata superata dalla considerazione che il contenuto del biglietto può essere interpretato quale indicatore dello stato d’animo dell’individuo al momento della morte. Ad esempio, la comparazione tra biglietti autentici e biglietti contraffatti rivela che gli autori dei primi sono spesso molto più razionali di quanto comunemente si creda (Schneidman – Farberow 1957; Osgood – Walker 1959; Tuckman – Kleiner – Lavell 1959; Seiden 1969). Quando si chiede a qualcuno di scrivere un biglietto immaginario, i risultati sono di solito molto più melodrammatici di quanto si riscontri nei biglietti autentici. Questi ultimi tendono a rivelare una reale consapevolezza delle conseguenze della morte imminente; consapevolezza espressa in termini di consigli pratici per coloro che li troveranno o sotto forma di un vero e proprio testamento. È più probabile rinvenire frasi come “Troverai del denaro per Jill e David nel secondo cassetto della scrivania” o “Ricordati di spegnere il gas” in un biglietto autentico che in uno contraffatto. Jerry Jacobs ha dimostrato la potenziale utilità dei biglietti lasciati dai suicidi come fonte di informazione sui significati sociali del suicidio (Jacobs 1967). Dopo aver osservato che gli studi sociologici tradizionali sul suicidio prevedono l’attribuzione di significati alle correlazioni tra tassi ufficiali, egli cerca di dimostrare che i biglietti dei suicidi sono una forma diretta ed estremamente significativa di comunicazione da parte delle persone defunte. In considerazione della loro spontaneità, razionalità e coerenza, Jacobs ritiene che sia ingiustificabile negare la loro rilevanza espressiva in termini di motivazioni suicidarie. La sua analisi lo conduce a distinguere sei categorie in cui fa agevolmente rientrare 102 dei suoi 112 biglietti, per poi procedere a mostrare come essi rivelino molto sugli 185 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

atteggiamenti degli autori nei confronti della vita, dei loro problemi, della morte e delle alternative prese in considerazione. Oltre ad essere utilizzabili dal coroner come mezzo per stabilire l’intento suicidario, dunque, i biglietti dei suicidi rappresentano di per sé una importante fonte di informazione sui significati sociali del suicidio. Da questo punto di vista, la loro potenzialità deve essere ancora pienamente esplorata.

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Modalità di morte Seppure in misura minore rispetto ai biglietti lasciati dai suicidi, certe modalità sono considerate dal coroner indicative, quasi con certezza assoluta, di un particolare tipo di morte. Ad esempio, quando il decesso di un individuo, sia egli il conduttore del veicolo o il pedone, avviene in seguito a un incidente stradale, è molto improbabile che il coroner formuli un verdetto di suicidio, sebbene, negli Stati Uniti, si siano verificati non di rado suicidi di questo genere (Ford – Moseley 1963; MacDonald 1964). Ma, in Inghilterra e Galles, avviene così raramente che un decesso verificatosi a seguito di un incidente stradale venga registrato come suicidio che non esiste nemmeno una specifica sezione statistica dedicata a questa modalità suicidaria negli uffici di stato civile. Allo stesso modo, l’impiccagione non è prevista dalle statistiche ufficiali come possibile morte accidentale, in conformità alle opinioni dei coroner da me conosciuti, che considerano questa modalità come un indicatore quasi certo di intento suicidario. Tra le poche eccezioni dobbiamo considerare i rari casi di morte accidentale per impiccagione dovuti a una forma particolare di masturbazione masochistica, che le famiglie del suicida, peraltro, preferiscono vedere registrati come suicidi. In un altro caso a me noto, fu formulato un verdetto di morte accidentale riguardo a un tredicenne trovato penzolante da una catena in un bagno di scuola. In questa circostanza, il coroner argomentò, innanzitutto, che il ragazzo era troppo giovane per poter elaborare chiaramente un intento suicidario e, in secondo luogo, che le probabilità che il metodo utilizzato portasse 186 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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alla morte erano molto scarse. Emerse, inoltre, che il giovane aveva recentemente visto un film in cui comparivano varie impiccagioni; fatto che spinse a ritenere che probabilmente avesse voluto sperimentare la cosa su di sé. In sostanza, poiché appariva dubbio che l’esito di tale comportamento fosse intenzionale, il coroner si sentì autorizzato a formulare un verdetto di morte accidentale. Allo stesso modo, il secondo caso descritto più avanti dimostra che esistono altri tipi di morte accidentale, anche se, nella fattispecie, le prove che fosse in programma una vacanza in montagna non furono sufficienti a impedire al coroner di formulare un verdetto di non luogo a procedere. Il fatto rilevante, comunque, è che esistono situazioni non associate al suicidio, come scalare una montagna, che prevedono l’uso di corde e la possibilità di una morte accidentale. L’assenza dalle statistiche di morbilità degli uffici di stato civile della sottocategoria “impiccagione” all’interno della categoria “morte accidentale” è un indicatore della rarità di tali situazioni. Tra i due estremi della morte tipicamente accidentale e della morte tipicamente dovuta a suicidio intercorrono una serie di situazioni più equivoche, che comprendono morti per overdose, per avvelenamento da gas o altre sostanze, per annegamento e per caduta dall’alto. Una dose normalmente non nociva di barbiturici può, ad esempio, rivelarsi mortale se associata ad alcol o altre droghe; circostanza che rende particolarmente arduo stabilire l’esistenza di un intento suicidario. Le morti celebri di Brian Epstein e Judy Garland rientrano entrambe in questa categoria di decessi e, nonostante le velate insinuazioni dei mass media, né l’una né l’altra hanno avuto come esito un verdetto di suicidio. Alcuni individui, specialmente se anziani, possono assumere dosi eccessive di farmaci per errore o distrazione. Allo stesso modo, il deterioramento dell’olfatto e dell’udito, fenomeno tipico della vecchiaia, può avere come conseguenza l’incapacità di individuare una perdita di gas prima che sia troppo tardi. Molti decessi per annegamento potrebbero essere suicidi, ma il problema evidente di dimostrare l’esistenza di un intento suicidario fa sì che, prevedibilmente, la maggior parte di essi vengano registrati come morti accidentali. Al riguardo, un coroner che ha giurisdizione su un’area den187 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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samente popolata attraversata da un fiume ha osservato che, nei casi di annegamento, i riscontri sono di solito di natura talmente indiziaria che quasi mai emette un verdetto di suicidio basandosi su di essi. Altrettanto interessanti sono le osservazioni di McCarthy e Walsh, autori di uno studio sul suicidio a Dublino, secondo i quali, nella città irlandese, l’effettivo tasso di suicidi è il doppio di quello registrato ufficialmente a causa del grande numero di annegamenti che lì si verificano (MacCarthy – Walsh 1966). Per questo motivo, i due autori hanno adoperato un campione di dati ufficiali che comprende anche decessi non etichettati come suicidi, ma che, secondo loro, andrebbero giudicati tali. Di questi, più di un terzo riguarda casi di annegamento. Alla luce di questi dilemmi, la modalità di morte rappresenta una circostanza particolarmente rivelatrice e importante per il coroner. Sarebbe possibile disporre le varie modalità secondo una graduazione a partire da quelle più probabilmente riconducibili a morti accidentali, passando per quelle più dubbie, e terminando con quelle più tipicamente indicative di intento suicidario. I colloqui da me avuti con i coroner lasciano intendere che la questione della modalità di morte indirizza in maniera determinante la ricerca di ulteriori elementi di prova. Nei due casi estremi, ad esempio, i coroner andranno probabilmente alla ricerca di elementi che confermino la natura suicidaria o accidentale del decesso; nei casi più equivoci, invece, andranno alla ricerca di indizi di altro genere che consentano di orientare il verdetto finale. In assenza di un biglietto lasciato dal suicida, dunque, il modo in cui una persona muore fornisce una prima indicazione generale su quale verdetto attendersi o stimola la ricerca di ulteriori elementi di prova utili a prendere una decisione. Prima di dare un’occhiata a questi ulteriori elementi di prova, è opportuno osservare che quanto detto sull’importanza della modalità di morte come mezzo per stabilire l’intento suicidario ha un carattere molto generale. Due coroner da me consultati hanno riferito che essi operano sulla base di una serie di assunti pratici. Come afferma uno di essi:

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«Il problema è quando uno ha preso meno di dieci dosi di barbiturici. È qui che devo fare particolare attenzione e cercare ulteriori elementi. Se ha preso più di dieci dosi, posso essere quasi certo che si è trattato di suicidio».

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Non sorprende che questo coroner abbia competenze mediche. Il secondo esempio mi è stato riferito da un coroner che ha giurisdizione su un luogo di villeggiatura e che ha a che fare con un gran numero di casi di annegamento. «Un elemento a cui presto particolare attenzione nei casi di annegamento è come sono ripiegati gli abiti. Se sono ripiegati con cura sulla spiaggia, vuol dire che probabilmente si tratta di suicidio».

Valutazioni di questo tipo sono presumibilmente il frutto di anni di esperienza ed è molto plausibile che tutti i coroner elaborino personali indicatori di intento suicidario nel corso della loro attività. Luogo e circostanze del decesso Affini alla modalità di morte sono i due indicatori del luogo e delle circostanze del decesso. Ad esempio, è più probabile che venga formulato un verdetto di suicidio se una persona muore di overdose nel mezzo di un bosco piuttosto che nel suo letto, poiché il fatto di essersi recata in un posto lontano viene interpretato come indicatore di intento suicidario. Allo stesso modo, un decesso avvenuto a seguito di uno sparo ha maggiori probabilità di essere classificato come accidentale se si è verificato nella sala d’armi da fuoco del defunto o in un luogo formalmente deputato all’uso dell’arma piuttosto che in una piazzuola di sosta deserta. Oltre al luogo, altre circostanze relative al decesso possono essere interpretate come altamente significative. Nei casi di morte per avvelena189 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mento da gas, ad esempio, un elemento di prova può essere costituito dal fatto che la vittima abbia adottato ogni accorgimento per impedire fughe di gas, ostruendo porte e finestre con stracci. Nei casi di avvelenamento, il coroner indagherà la possibilità di ingerire il veleno per errore, come può accadere nel caso di diserbanti o altre sostanze del genere. Ugualmente, nei casi di morte a seguito di ingestione di pillole, può essere importante sapere se le stesse sono state accumulate, trafugate o prese in prestito o se sono state normalmente prescritte al defunto. La logica secondo cui è possibile stabilire l’intento suicidario in base a questo genere di prove sembra essere basata sull’assunto, condiviso non solo dai coroner, che se qualcuno vuole uccidersi, cercherà di farlo nel migliore dei modi. Pertanto, le azioni sopra descritte sono presumibilmente interpretate come misure specifiche adottate per massimizzare la probabilità di morte prima della scoperta del fatto. Ne consegue che il suicidio è considerato quasi per definizione un comportamento solitario, che, di norma, non è eseguito in pubblico. Ciò è confermato dal fatto che se ci si taglia i polsi o si ingurgitano farmaci in presenza di altri, è improbabile che tali azioni siano interpretate come seri tentativi di suicidio. Gli eventi della vita e le condizioni mentali Con la possibile eccezione del biglietto, nessuno degli elementi di prova descritti finora sarebbe di per sé sufficiente a indurre un coroner a emettere un verdetto di suicidio, perché, tranne che per il biglietto, tutti sono essenzialmente indicatori impliciti dello stato d’animo del defunto immediatamente prima del decesso. Per i coroner, però, come accade a Los Angeles quando vengono eseguite le autopsie psicologiche, sono importanti anche elementi più espliciti come quelli relativi alle condizioni mentali del defunto e agli eventi della sua vita in genere. Ciò è emerso in modo particolare dalle cartelle mostratemi da un coroner. La prima pagina di ogni cartella conteneva una sezione sommaria riportante, di norma, un riassunto degli eventi più rilevanti della vita del soggetto fino al gior190 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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no della sua morte. La sezione era compilata in base alle testimonianze dettagliate raccolte dall’ufficio del coroner e inserite nella cartella. Illustrandomi questa sezione, il coroner mi disse: «Sono informazioni molto importanti, a cui dedico sempre particolare attenzione». Le informazioni iniziavano con il riferire che i genitori del defunto si erano separati quando questi era molto giovane, circostanza che il coroner commentò nel modo seguente: «Questo è molto significativo». Leggemmo poi che il soggetto si era arruolato nell’esercito regolare ed era stato congedato per invalidità qualche anno prima della morte. A questo punto, il coroner osservò che, per quanto possa sembrare sorprendente, molti ex membri delle forze armate si suicidavano. Quando poi appresi che il soggetto era stato congedato per un esaurimento nervoso, che, da allora, era stato più volte ricoverato in istituti psichiatrici e che non era mai riuscito a mantenere un impiego civile per più di qualche mese, mi fu chiaro che solo in presenza di elementi di prova straordinari sarebbe stato possibile classificare il decesso come qualcosa di diverso da un suicidio. Il coroner concluse la sua analisi, confermando questa impressione: «Siamo in presenza di uno schema classico: genitori separati, forze armate, esaurimento nervoso, passaggio da un lavoro all’altro, nessun legame familiare: non ci sono dubbi». Il motivo per cui riferisco questa storia è che essa consente di evidenziare che i coroner posseggono opinioni non solo su quali modalità di morte riconducano al suicidio, ma anche sul tipo di circostanze che spingono gli individui a suicidarsi. Ritengo, inoltre, che, insieme agli indicatori descritti in precedenza, queste opinioni contribuiscano a creare un modello esplicativo di ogni singolo decesso. Di conseguenza, affinché sia formulato un verdetto di suicidio, nessuna parte del modello deve essere in contrasto con le opinioni del coroner relative ai fattori tipicamente associati al suicidio. Due ulteriori esempi che non soddisfano i criteri della coerenza logica contribuiranno a chiarire quanto detto: Caso I: Una vedova di 83 anni fu ritrovata morta per avvelenamento da gas nella cucina del cottage in cui abitava da sola dopo

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la morte del marito. Stracci e asciugamani erano stati infilati sotto la porta e intorno ai telai delle finestre. Durante l’inchiesta, le poche persone che la conoscevano testimoniarono che aveva sempre avuto un aspetto allegro e gioioso e il coroner emise un verdetto di non luogo a procedere sulla base del fatto che non vi erano prove che indicassero come erano stati aperti i rubinetti del gas.

Questa vicenda appare, a prima vista, un chiaro caso di suicidio: una vedova, vecchia e sola, si uccide con il gas, facendo in modo da prevenire ogni fuga della sostanza. Le testimonianze relative al suo aspetto gioioso, però, devono avere suscitato dei dubbi nel coroner; dubbi sufficienti a impedirgli di emettere un verdetto di suicidio. La gioia, infatti, mal si concilia con un intento suicidario. Per esprimerci in altro modo, si potrebbe dire che le testimonianze relative all’aspetto gioioso della donna hanno impedito al coroner di offrire una spiegazione soddisfacente del perché la stessa avrebbe dovuto suicidarsi. La stessa situazione si è verificata nel caso seguente: Caso II: Uno studente diciassettenne, che andava regolarmente a fare spese con i genitori a una certa ora di un certo giorno della settimana, decise, una volta, di rimanere a casa da solo. Al ritorno, i genitori lo trovarono morto e penzolante dalla ringhiera del pianerottolo. Nei due anni precedenti, era stato in cura da uno psichiatra a causa di una depressione e i genitori sapevano che era molto preoccupato per il futuro che lo avrebbe atteso una volta terminata la scuola. Durante l’inchiesta, un testimone riferì che lui e il defunto avevano in programma una vacanza in montagna di lì a poco. Inoltre, il giorno del decesso, fu ritrovato sul letto del ragazzo un libro sull’alpinismo aperto. Il coroner formulò un verdetto di non luogo a procedere.

Anche in questo caso, tutto sembra indicare un suicidio: il metodo adoperato, il fatto che il ragazzo avesse fatto in modo da minimizzare le 192 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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probabilità di un intervento esterno, le depressioni periodiche e le preoccupazioni relative al futuro. Altri elementi, però, avevano fatto trasparire la possibilità di una spiegazione alternativa: forse il ragazzo aveva fatto qualche esercitazione di alpinismo e si era impiccato per errore. Che i coroner abbiano avuto dubbi riguardo ai due casi è provato dai verdetti di non luogo a procedere; verdetti che i coroner tendono a non prendere in considerazione, se possono. In altre parole, in entrambi i casi, gli elementi di prova a disposizione non erano sufficientemente coerenti da legittimare un verdetto di morte per suicidio o di morte accidentale. Al contrario, il caso seguente, come quello dell’ex membro delle forze armate citato in precedenza, sollevò pochi problemi per il coroner: Caso III: Un sessantatreenne fu ritrovato morto per avvelenamento da gas dalla moglie che era andata a fare delle compere. Soffriva di bronchite da quattordici anni ed era semiparalizzato da tre. La moglie testimoniò che, negli ultimi tempi, era parso molto depresso e che, in varie circostanze, aveva minacciato di togliersi la vita. Il coroner formulò un verdetto di suicidio.

In questo caso, il decesso fu facilmente spiegato: le cattive condizioni di salute avevano causato la depressione, la quale aveva spinto l’uomo al suicidio. Inoltre, lo stesso aveva verbalizzato le sue intenzioni poco prima di morire. Conclusioni e implicazioni La descrizione dei criteri in uso per stabilire l’intento suicidario ci porta a riflettere su alcune questioni importanti. In primo luogo, evidenzia che vi sono una serie di indicatori che suggeriscono la maggiore probabilità di un verdetto o la necessità di acquisire ulteriori elementi di prova. Nel caso di un decesso avvenuto in seguito a un incidente automobilistico, ad esempio, è estremamente improbabile che si tenga conto degli 193 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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eventi della vita familiare del defunto. La separazione dei genitori durante l’infanzia o i particolari della sua situazione finanziaria sono fattori che probabilmente non verranno mai presi in considerazione. In altre parole, questa specifica modalità di morte non indurrà quanti sono interessati a una categorizzazione ufficiale del decesso a cercare elementi di prova di questo tipo. All’opposto, se un individuo muore per impiccagione, sarebbe considerato appropriato cercare elementi del genere. Una seconda conclusione generale è che il fatto di indagare su una morte improvvisa comporta che il coroner sia chiamato a offrire delle spiegazioni. Se gli indicatori disponibili gli consentono di costruire un modello esplicativo che appaia coerente rispetto a un tipo particolare di morte, il verdetto si risolverà in una categorizzazione conseguente. D’altro lato, se non riuscirà a spiegare in maniera adeguata le ragioni di un suicidio, formulerà un verdetto diverso. Al riguardo, è possibile aggiungere due considerazioni. Innanzitutto, abbiamo osservato in precedenza che il compito principale del coroner è quello di spiegare le ragioni di decessi per i quali gli altri componenti del sistema di registrazione non riescono a fornire una spiegazione adeguata. Questo compito gli impone, però, solo di apporre un’etichetta riferita alla causa di morte. Di conseguenza, gli viene chiesto di dire se un decesso è stato causato da un incidente o da un suicidio. Voglio osservare, però, che, almeno nel caso del suicidio, il coroner è chiamato a fornire una forma più complessa di spiegazione perché la necessità legale di stabilire l’intento suicidario comporta la ricerca di un motivo o ragione per cui il defunto avrebbe dovuto togliersi la vita. Egli è, dunque, chiamato espressamente a fornire una spiegazione di tutti i decessi che gli vengono assegnati, mentre, nel caso del suicidio, egli è implicitamente tenuto a spiegare quest’ultimo. La seconda considerazione, collegata alla prima, è che il coroner non è l’unico a essere impegnato in questo compito. Jack Douglas osserva: […] una categorizzazione ufficiale della causa di morte è il risultato finale di un ragionamento al pari della categorizzazione di qualsiasi altro membro della società (Douglas 1967, p. 229).

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Ciò significa che, quando sono impegnati a discutere dei vari tipi di morte, i membri della società sono coinvolti in processi che, sebbene meno sofisticati di quelli dei pubblici ufficiali, sono però molto simili. Che le cose stiano così è confermato dall’esame da me condotto di cinquanta casi consecutivi di suicidio riportati da vari quotidiani locali. In tutti, tranne che in sei, gli autori degli articoli tentavano di offrire una spiegazione del motivo per cui i suicidi si fossero tolti la vita e, in molti casi, la spiegazione appariva già nei titoli. Ecco alcuni esempi: «Depresso, si uccide con il gas»; «Donna suicida per malinconia»; «Si uccide per paura del cancro». Le implicazioni di questo tipo di analisi per lo studio del suicidio, che dipende da un lavoro di correlazione con i dati provenienti dalle cartelle dei coroner, sono evidentemente molto importanti. Nel mostrare le relazioni esistenti tra suicidio e variabili come lo stato civile, la malattia mentale, l’alcolismo, i problemi economici e così via, si può affermare che ciò che gli studiosi fanno è rendere esplicita la spiegazione adoperata implicitamente dai coroner nella loro attività quotidiana. Anzi, le considerazioni fin qui espresse ci consentono di ipotizzare che gli elementi che i coroner usano come indicatori di intento suicidario assomigliano molto alle variabili citate dagli esperti nei loro tentativi di spiegare il suicidio. Inoltre, alla luce di quanto detto in precedenza, sembra probabile una certa corrispondenza tra le spiegazioni degli esperti e le spiegazioni offerte dal cosiddetto “uomo medio”. Giunti a questo punto, invito il lettore a riflettere brevemente su quali elementi avrebbe preso in considerazione come possibili indicatori di intento suicidario prima della lettura di queste pagine. Dopo di ciò, lo invito a tornare all’elenco sintetico delle variabili positivamente correlate con i suicidi registrati proposto da Stengel in precedenza. È ovviamente possibile che al lettore siano venute in mente variabili non riferite da Stengel o che questi ne abbia indicate alcune a cui il lettore non ha pensato. Tuttavia, se la tesi generale qui proposta è corretta, sarebbe davvero sorprendente se l’elenco “di senso comune” del lettore e quello derivato dalle ricerche degli esperti di Stengel fossero del tutto diversi. 195 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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La tesi secondo cui le spiegazioni del suicidio fornite dagli esperti sono poco più che versioni formalizzate di quelle informali adoperate dai coroner è complicata ulteriormente dalla possibilità che le spiegazioni del ricercatore retroagiscano su quelle del coroner. I coroner che ho conosciuto sono indubbiamente interessati al tema del suicidio e la notevole quantità di ricerche pubblicate sulla base delle loro cartelle fa immaginare che possano essere disponibili a contribuire alla causa della ricerca. Il coroner di Los Angeles ha fornito un utile contributo alla letteratura sul suicidio e, come ho osservato in precedenza, ha rapporti formali con il Los Angeles Suicide Prevention Center. Inoltre, alla Conferenza internazionale per la prevenzione del suicidio era presente almeno un coroner inglese. Se, dunque, pare ragionevole presumere che alcuni coroner siano ben informati sui risultati degli studi sul suicidio, sembra improbabile, stando così le cose, che le decisioni da loro assunte nel corso delle inchieste non siano in qualche modo condizionate da tali conoscenze. È possibile, ad esempio, che la conoscenza dei risultati raggiunti dalla ricerca li rassicuri sugli elementi di prova in base a cui stabiliscono l’intento suicidario o li spinga a cercarne di nuovi. Dovrebbe, a questo punto, essere chiaro che l’orientamento di questo scritto deve molto a quello proposto da Douglas in The Social Meanings of Suicide e che le conclusioni da me raggiunte confortano molte delle sue tesi. In particolare, da quanto detto, emerge che, riguardo all’impiego tipico delle statistiche ufficiali nelle ricerche sul suicidio, Douglas ha posto correttamente l’accento sul problema della validità del loro utilizzo piuttosto che sulla loro accuratezza. Considerare l’accuratezza il problema principale significa dare per scontato che il suicidio possa essere definito in modo assoluto, indipendentemente dai contesti sociali in cui si verifica. Alla luce di quanto detto, però, è più sostenibile il presupposto alternativo secondo cui i decessi sono definiti dai contesti sociali in cui accadono. L’etichetta di suicidio, pertanto, verrà applicata a un decesso solo se le caratteristiche sociali associate al defunto, prima e al momento della morte, saranno coerenti con le opinioni di chi applica l’etichetta riguardo al tipo di fattori che spingono le persone al suicidio, il tipo di persone che 196 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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si suicidano e i modi in cui le persone si uccidono. In considerazione del fatto che tutti, compresi i coroner e gli studiosi del suicidio, hanno opinioni al riguardo, chiunque, nell’ambito della ricerca sul suicidio, ignori gli effetti che questa circostanza può avere sui propri dati deve affrontare un serio dilemma. È per trovare una soluzione a questo dilemma che Douglas ha stabilito quale primo passo per la spiegazione delle diverse forme di suicidio la necessità di descrivere e classificare i diversi significati che ogni società attribuisce al comportamento suicidario. La critica che egli oppone alla validità delle statistiche ufficiali lo porta, però, a respingere la loro utilità sia ai fini dei tradizionali studi basati su correlazioni sia ai fini dell’analisi dei significati sociali del suicidio, che è l’alternativa da lui proposta. La nostra tesi, invece, è che i dati ricavabili dai coroner hanno una importanza centrale per l’analisi dei significati sociali del suicidio. Non solo i coroner condividono, in una qualche misura non determinabile, le definizioni di suicidio diffuse in un dato momento nella società, ma sono nella condizione di confermare queste definizioni pubblicamente e perfino di introdurne di nuove. Definendo determinati decessi come suicidi, è come se essi, in effetti, dicessero alla società: «Questo è il tipo di decessi definibile come suicidio, questo è il tipo di situazioni in cui le persone si suicidano e questo è il tipo di persone che si suicidano». Alla luce del fatto che, in Inghilterra e Galles, le corti dei coroner sono pubbliche e che le loro inchieste sono argomento di grande e costante interesse per i media locali e, talvolta, nazionali, i coroner svolgono una funzione estremamente importante nel confermare e, qualche volta, modificare le definizioni condivise delle situazioni suicidarie, in quanto essi possono essere considerati coloro che definiscono ciò che costituisce suicidio in una data società in un dato momento. Di conseguenza, se dobbiamo individuare i significati condivisi di suicidio prevalenti in una data società, dovremo riservare uno spazio preponderante delle nostre ricerche all’analisi delle decisioni prese dai coroner e dai loro equivalenti. Con questo non si vuole dire che ciò sia sufficiente a spiegare il comportamento suicidario, ma che non è possibile spiegarlo se non analizzia197 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mo le decisioni prese dai coroner e se non proviamo a capire il ruolo da essi svolto in rapporto alla società nel suo complesso. Ovviamente questo è più facile a dirsi che a farsi e in Figura 2 viene proposto un tentativo di chiarire il modo in cui si trasmettono all’interno di un sistema sociale le definizioni condivise delle situazioni suicidarie. Lo definisco un modello “dinamico” perché tenta di spiegare le modifiche che si succedono nel tempo. Le definizioni condivise delle situazioni suicidarie diffuse in una data società in un dato periodo (A) saranno condivise anche, in maggiore o minore misura, dai coroner (B), da coloro che mettono in atto comportamenti suicidari (C), dagli studiosi (D) e da chi opera nell’ambito dei mezzi di comunicazione di massa (E). Le frecce indicano che le definizioni di ognuno di questi soggetti avrà un effetto diretto o indiretto sulle definizioni di tutti gli altri. Figura 2: Modello dinamico di come le definizioni condivise di suicidio circolano nel sistema sociale A. Definizioni condivise delle situazioni suicidarie

B. Coroner

C. Persone che si suicidano

D. Ricercatori E. Stampa, televisione e altri media

F. Riviste, conferenze

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Senza articolare formalmente il modello, in un altro contributo, ho tentato di mostrare come esso possa trovare applicazione nel caso dei suicidi degli studenti (Atkinson 1969). Ho sostenuto che vi è ragione di credere che vi sia una definizione condivisa degli studenti come di un gruppo di individui particolarmente incline al suicidio. Maggiore è il numero di studenti che condividono questa definizione (e in base ai miei dati essi condividono in gran parte questa idea di se stessi), più è probabile che essi considerino il suicidio come una soluzione ai problemi. Maggiore è il numero di coroner convinti che gli studenti siano particolarmente inclini al suicidio, più è probabile che essi andranno alla ricerca di elementi che confermino la tesi del suicidio, quando uno studente muore. Maggiore il numero di verdetti di suicidio formulati dai coroner alla morte di uno studente, più gli esperti scriveranno sull’argomento. A questo punto, tramite i media, i verdetti e i testi accademici circoleranno nel resto della società con la conseguenza che la definizione degli studenti come soggetti particolarmente a rischio suicidario prenderà fermamente piede e sarà ampiamente condivisa. Si sarà notato che il modello tralascia e, al tempo stesso, suggerisce più relazioni di quanto sia possibile affrontare in dettaglio in questa sede. Completamente trascurato, ad esempio, è il contributo della letteratura, delle arti e della religione alla diffusione delle definizioni del comportamento suicidario. Basta avere presenti la Bibbia, Shakespeare, i film e la televisione per ricordare quanto il suicidio sia un tema comune a tutte queste fonti. Allo stesso modo, il modello suggerisce che le stesse definizioni condivise hanno un effetto considerevole sul comportamento suicidario, in quanto è inverosimile che chi si suicida o tenta di suicidarsi ignori i significati comunemente attribuiti al suicidio. Nel caso dei suicidi degli studenti, ad esempio, è relativamente semplice comprendere il funzionamento di questa relazione. In altre parole, è estremamente probabile che gli studenti concepiscano il suicidio come soluzione ai propri problemi esattamente perché essi sono consapevoli della definizione condivisa secondo cui gli studenti come gruppo sono particolarmente inclini al suicidio. Riguardo ad altri tipi di suicidio, tuttavia, non è altret199 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tanto facile stabilire i termini precisi della relazione tra definizioni condivise e comportamento reale e sono necessari ulteriori studi prima che le cose cambino. Al riguardo, sono disponibili alcuni dati recenti riferiti da Jerome Motto, il quale ha analizzato i tassi di suicidio a Detroit prima, durante e dopo uno sciopero locale dei quotidiani durato nove mesi (Motto 1969). Sebbene inviti a interpretare i risultati della sua indagine con cautela, Motto ha riscontrato il verificarsi di due importanti cambiamenti durante lo sciopero. Il primo riguarda il calo consistente del tasso di suicidi ufficiale fatto registrare dalle donne con meno di 35 anni; il secondo è relativo al fatto, mai accaduto prima, che il numero di suicidi per ingestione di pillole tra gli uomini ha superato quello delle donne. In altre parole, pur considerando il breve periodo di riferimento, la rimozione anche solo di una delle fonti di definizione delle situazioni suicidarie ha avuto un effetto notevole sul tasso di suicidi ufficiale. Queste osservazioni potrebbero sembrare un invito a ritornare alla ricerca tradizionale sul suicidio, tutta incentrata sull’analisi dei tassi. Tale conclusione, tuttavia, sarebbe solo parzialmente corretta perché il mio contributo si propone un duplice scopo. Innanzitutto, tenta di dimostrare che i processi sono talmente complessi e hanno delle implicazioni di portata talmente ampia che gli studi basati su correlazioni che intendessero ignorarli giungerebbero a conclusioni solo parziali e semplicistiche. In secondo luogo, l’analisi del ruolo dei coroner nel processo di registrazione dei decessi intende mostrare come l’analisi dei significati sociali del suicidio non possa fare a meno di esaminare nel dettaglio i dati generati dalle fonti ufficiali, le modalità con cui questi vengono prodotti e gli effetti che essi hanno sul comportamento reale. Evidentemente, le relazioni tra i molti processi implicati sono assai complesse e non facili da analizzare. Ma se vogliamo che il grosso investimento nel campo della ricerca sul suicidio, a cui abbiamo fatto riferimento all’inizio, dia i suoi frutti, è necessario che i suicidologi si occupino di questo tipo di analisi.

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Produrre suicidi1

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James L. Wilkins La concezione più diffusa del suicidio sostiene che ciò che va spiegato è come le persone sono indotte a compierlo. L’atto in sé e l’accertamento del suo compimento sono considerati semplici e diretti, convenendo che di tanto in tanto possano presentarsi alcuni problemi tecnici. La letteratura è in linea con questa interpretazione, in quanto ci viene dato solo un elenco di tecniche riguardo il modo in cui le persone arrivano a suicidarsi, e praticamente nulla rispetto al modo in cui poi altre persone decideranno che si tratta di un suicidio e a come comunicheranno questa valutazione. Andrebbe considerato che il suicidio può esser assimilato a un reato, alla malattia mentale e ad una miriade di altri fenomeni che, fino a qualche tempo fa, gli scienziati del comportamento sembravano ritenere accertabili in modo “semplice” e con significati altrettanto semplici da attribuire. Mano a mano che si sono compresi meglio i processi sociali sottesi a spiegare “adeguatamente” questi eventi, le complessità che sono emerse hanno richiesto un’attenzione crescente alla necessità di spiegare ciò che si pensava le spiegazioni precedenti spiegassero. È evidente che se si mal interpretano e se si individuano erroneamente le occorrenze che si vogliono spiegare, la spiegazione che viene sviluppata a partire da quegli elementi può non esser utile allo scopo. Pertanto, dovremmo chiederci: cosa avviene quando si pensa che sia stato compiuto un suicidio? A cosa bisogna prestare attenzione quando il suicidio viene considerato in relazione alla possibile esistenza di “strategie” volte a conseguirlo, accertarlo e negarlo?

1.  J. L. Wilkins 1970, Producing suicides, in «American Behavioral Scientist», 14, 2, pp. 185-202. Traduzione di Morena Tartari.

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La letteratura della scienza del comportamento Le circostanze direttamente implicate nell’atto del suicidarsi, l’accertamento e la certificazione dei suicidi sono stati temi molto dibattuti ma poco studiati. Spesso sembra che richiamare l’attenzione a questi temi significhi voler aprire una disputa dottrinale. Ad esempio, Matza ha proposto l’osservazione generale che, tra i sociologi, «Invece di usare le stime ufficiali della quantità e della distribuzione come base per una adeguata teoria della devianza, i neo-Chicagoans abbiano usato le stime stesse come tema di speculazione e spiegazione» (Matza 1969, pp. 82-83). Certamente, nel caso della ricerca sul suicidio, la pratica comune è, per l’autore, di affermare innanzitutto che le statistiche ufficiali sono sufficientemente valide e affidabili, o che non lo sono, e poi di procedere con la sua analisi. La rassegna più recente e completa delle idee su questo tema si trova in The social meanings of suicide di Douglas (1967) e in una recensione critica di quel libro scritta da Gibbs (1968). Ciascun autore ammette che si sa troppo poco e che le implicazioni andrebbero intese probabilmente ben oltre il semplice uso delle statistiche sul suicidio. Tuttavia, le posizioni contrastanti di ciascun autore sono espresse con convinzione e la preoccupazione specifica per le implicazioni è limitata a quelle che derivano dall’accettabilità o inaccettabilità dei dati ufficiali. Passando in rassegna brevemente alcune questioni, è molto comune che coloro che si oppongono all’utilizzo delle statistiche ufficiali lo facciano sostenendo, ad esempio, che i “significati” del suicidio devono ritenersi svariati, che la “definizione” utilizzata non sarebbe uniforme, che un efficace “occultamento” e altri “bias” potrebbero essere sufficientemente attestabili e non controllabili al punto da rendere i dati inutilizzabili. Questi aspetti vengono contestati in base all’osservazione che si tratta di mere speculazioni, che mancano prove rispetto all’impatto che avrebbero sui dati e che si può sostenere con uguale plausibilità che questi probabili problemi sono superati. Quando i dati sono citati per screditare le statistiche sui suicidi, si scopre che agenzie diverse all’interno 204 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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della stessa giurisdizione e nello stesso periodo non concordano rispetto al numero di suicidi, possono essere citati casi di pratiche strane di certificazione (ad esempio, che solo le persone per le quali viene trovato un messaggio relativo al suicidio saranno certificate come suicide) e possono essere riscontrati singoli casi in cui sono presenti decisioni opinabili. A tali obiezioni di tipo più empirico, i difensori delle statistiche ufficiali sollevano critiche metodologiche e la questione appare capovolta quando sostengono che avere dati inadeguati sia peggio che non avere dati. Coloro che si trovano su un fronte della questione non sono in grado di convincere quelli che si trovano sul fronte opposto e, a volte, è stato osservato, non è possibile raggiungere un accordo per risolvere la disputa. È un’ironia il fatto che una volta che gli eventi di interesse sono considerati supportare l’affidabilità e la validità della ricerca sul suicidio, avvengano così pochi sforzi per condurre indagini effettive su di essi. Tuttavia, allo stesso tempo, è sulla base di informazioni e speculazioni così deboli che un immenso corpus di letteratura sul suicidio è stato accumulato. Per buona parte di questo articolo raccomando al lettore di mettere da parte le questioni relative alla controversia sull’affidabilità e la validità. La letteratura relativa a questa controversia contribuisce poco agli obiettivi di questo progetto e questo studio non è in grado di risolvere le controversie generali che vi si possono trovare. In qualsiasi modo i processi da descrivere possano essere confrontati con il funzionamento degli strumenti di misura rispetto all’affidabilità, alla validità o ad altre proprietà, prima di considerare tale confronto, vediamo quali sono questi processi. Il campione I dati di base provengono da un follow-up degli utenti dei centri di prevenzione del suicidio a Chicago. Il centro di Chicago non mancava di familiarità con l’organizzazione e il funzionamento (Wilkins 1970b) o le caratteristiche delle persone che vi si rivolgevano, rispetto a quelli di altre città (Wilkins 1969). 205 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Il numero dei nomi potenzialmente rintracciabili era 1.311 e il periodo medio di rischio dal momento del loro primo contatto con il centro era di diciannove mesi. L’elenco degli utenti è stato confrontato con i registri del coroner della Contea di Cook per tutti i decessi, quindi con i registri della County of Health e di Vital Statistics, e di nuovo con quelli dell’ufficio del coroner. I dettagli dei metodi utilizzati, la scelta del periodo di rischio, studi simili e altre questioni che sembrano non essere raccontate di rilievo per i fini di questo studio possono essere reperiti in un articolo di questo autore sull’American Journal of Psychiatry (Wilkins 1970a). Rispetto ai diciassette decessi avvenuti tra coloro che hanno contattato i centri di prevenzione del suicidio, le classificazioni ufficiali erano quattro accertati per suicidio, due per cause indeterminate, due per incidenti, cinque per cause naturali dopo l’indagine, tre per cause naturali senza l’indagine e una, che non raggiunse l’ufficio del coroner per l’indagine, e che pure fu classificata come naturale. Quando i registri ufficiali completi, compresi i verbali quando presenti, sono stati confrontati con i documenti delle cartelle del centro di prevenzione del suicidio ed esaminati dal personale di ricerca, i risultati, come riportato nell’articolo dell’American Journal of Psychiatry (Wilkins 1970a), sono diversi. Dei diciassette decessi, otto sono stati classificati come suicidi, inclusi i quattro già ufficialmente così designati; quattro casi erano ambigui rispetto alla causa; e i restanti cinque casi suggerivano che si trattasse di suicidio attraverso intossicazione alcolica diretta e grave, a volte accompagnato da sostanze stupefacenti. Processi di produzione diretta Il problema da considerare è la discrepanza tra le classificazioni ufficiali e quelle dei ricercatori. Diverrà chiaro che non si tratta di rilevare errori da parte del coroner. Inoltre, alcune spiegazioni sorprendentemente semplici risulteranno inadeguate, come il fatto che il personale di ricerca abbia avuto il vantaggio di maggiori informazioni o abbia lavorato con 206 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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una definizione più ampia. Non si sostiene che le classificazioni da parte del personale di ricerca debbano essere considerate come criterio. Il problema, come affermato, è la discrepanza tra questi insiemi di valutazioni, e l’importanza dell’affrontare il problema riguarda la produzione di suicidi socialmente riconosciuti. Poiché il numero di decessi in questo studio ammonta a soli diciassette casi, c’è il pericolo che i motivi della divergenza tra le valutazioni ufficiali e quelle del personale di ricerca possano non riferirsi a eventi uniformi e sistematici e, nel peggiore dei casi, che potrebbero essere abbastanza idiosincratici. Di conseguenza, questa sezione attinge a molte altre fonti di informazioni, inclusi commenti e scritti per e sui coroner e i loro equivalenti sostanziali, quali polizia, medici e altri che sono coinvolti nel processo di produzione di dichiarazioni e azioni fondate rispetto al modo in cui i membri della comunità muoiono. Nessuna morte può essere certificata come un suicidio a meno che non venga dichiarata da un coroner o equivalente (es. medico esaminatore, commissione medico-legale). Parte della responsabilità del medico legale è di esaminare i casi di “morte improvvisa o violenta, apparentemente suicida, omicida o incidente”, nonché tutti i casi in cui il defunto potrebbe non esser entrato in contatto con un medico nel periodo indicato (Illinois 1969, p. 727). Affinché questi decessi siano portati alla sua attenzione, il coroner dipende in gran parte dai medici e dalla polizia, le cui prestazioni a questo proposito sono state spesso oggetto di denuncia e dibattito. Ad esempio, Turkel osservò medici che per «la maggior parte... consideravano tale indagine secondaria al loro principale interesse e alla loro formazione, vale a dire la medicina» (Turkel 1953, p. 1090). Il coroner di San Francisco ha anche obiettato alla frequenza con cui i certificati di morte sono «compilati con alcune cause di morte comunemente note ma altamente tecniche», il che è peggio «del tradizionale e criticato “semplicemente morto” quest’ultimo ci dice su quanto si sapeva molto di più che una diagnosi medica senza basi» (Turkel 1955, pp. 1486-1487).

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La causa medica dei decessi per suicidio può mascherare la loro natura suicidaria in questa maniera, e anche quando il medico è attento a spiegazioni alternative al suicidio, si sa che il suicidio lascia tracce che possono essere facilmente fraintese (Moritz – Stetler 1964, pp. 19-20). Un ulteriore motivo di denuncia, da tutte le parti coinvolte, è che «non è chiaro quale parte della formazione di un medico lo qualifichi in particolar modo rispetto all’indagare queste questioni penali e probatorie» (Turkel 1953, p. 1090). Gli esaminatori medici delle contee di Philadelphia e Dade (Florida) hanno commentato che «Il successo o il fallimento nel riconoscimento della reale incidenza di suicidio spesso dipende direttamente dagli investigatori della polizia, non dalla professione medica» (Davis – Spelman 1968, p. 457). Dal punto di vista della polizia, non è desiderabile che ciò venga loro delegato, e arrivano a concordare (O’Connor 1968, pp. 475-477) con l’osservazione offerta dal coroner (Davis – Spelman 1968, p. 461), con le linee guida per le indagini (Gross 1962, p. 12-13) e altri aspetti (Litman 1966, p. 15) poiché la principale preoccupazione della polizia dovrebbe essere quella di individuare gli omicidi. È stato anche riferito che «Un certo numero di agenti di polizia espresse la sensazione che i casi [non omicidiari] fossero prima seppelliti e poi rapidamente dimenticati» (Litman et al. 1963, p. 926). Ancora più significativi, forse, sono i seguenti aspetti: «In primo luogo, il poliziotto medio sarebbe poco disposto o non in grado di arrivare a fare una valutazione adeguata in molti casi. In secondo luogo, in un anno potrebbe vedere solo due o tre casi di competenza del coroner e quindi potrebbe essere totalmente non qualificato» (Turkel 1953, p. 1090). La disponibilità o la competenza dei medici a intraprendere indagini che potrebbero portare ad un verdetto di suicidio può essere ritenuta di minor importanza nella misura in cui i coroner dovrebbero valutare casi in cui la persona deceduta può non aver fatto visita a un medico nell’arco del periodo indicato. Ciò potrebbe consentire al medico di delegare l’onere investigativo, ma più ampie implicazioni aggiungono complessità al processo. Ciò non significa che il problema venga facilmente trasferito, 208 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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poiché è lasciato alla discrezione dei medici di famiglia determinare il significato di “frequenza”. Ciò significa che molti dei decessi con cui il coroner ha a che fare sembrano chiaramente non violenti e insospettabili. Inclusi tra questi, in Illinois si sono anche casi di «morte in cui la dipendenza da alcol o da qualsiasi farmaco potrebbe essere stata un con-causa» (Illinois 1969, p. 727). Di solito solo il dieci o il venti percento di tutti i decessi a Chicago, a Los Angeles e altrove arrivano nell’ufficio del coroner, e la probabilità più alta per ciascuno di questi è che non contenga nulla di sospetto. In accordo con ciò, nell’area di Detroit è stato riferito che nel 1967 oltre l’ottanta per cento delle indagini sui decessi vennero condotte solo al telefono (Danto 1968, p. 19). Gli effetti di questi atteggiamenti e di queste pratiche sono difficili da individuare nei documenti dei casi di Chicago. I registri tacciono spesso il modo in cui il caso è giunto ad essere considerato. Anche se l’effetto maggiormente significativo riguarda la decisione sostanziale che viene presa alla fine, una sua misurazione non è al momento possibile. Uno dei diciassette casi sfuggì del tutto alla valutazione. Almeno altri cinque casi notificati all’ufficio del medico legale e non certificati come suicidi avrebbero potuto giungervi per presenza di alcol e droga. Procedure di indagine Una volta portata all’attenzione del medico legale, l’inchiesta può proseguire in modi differenti. A Chicago, durante il periodo dello studio, poco più del 25% dei decessi riferiti all’ufficio del coroner sono stati oggetto di indagine. Ogni volta che (1) «l’esame, indagine preliminare o autopsia hanno rivelato che la morte è dovuta a cause naturali» non è richiesta un’indagine e ogni volta che (2) la causa della morte non può essere accertata, allora un’indagine può essere richiesta a discrezione del coroner (o della sua giuria) (Illinois 1969, pp. 728-729). Ciò consente 209 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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grande libertà rispetto al numero e alla natura dei casi a cui rivolgere le indagini, ad esempio, allo scopo di ridurne il numero, basandosi su indagini preliminari frettolose o, in particolare laddove si tratti di procurare un vantaggio finanziario all’ufficio, di mantenere le indagini a un livello minimo di approfondimento, indipendentemente dal fatto che siano necessarie (National Municipal League 1954, p. 3). A prescindere dal fatto che venga effettuata o meno un’indagine, l’autopsia o l’esame tossicologico sono altri modi per indagare ufficialmente. Ancora una volta, in Illinois e altrove, ciò è lasciato al giudizio del medico legale che si basa sulle conoscenze che ha a portata di mano (Illinois 1969, p. 732). Gli studi di valutazione di queste decisioni del medico sono stati fondamentali, sia per quanto riguarda la frequenza degli errori sia per le procedure stesse. Forse i più importanti tra questi studi sono stati quelli di Turkel, che presentavano le seguenti conclusioni (Turkel 1953, pp. 1086-1087): È difficile immaginare che la vera causa e tutti i fattori che contribuiscono a questi decessi [riferiti al coroner o a un suo pari in California e in altre città] possano essere accertati quando, come in alcune giurisdizioni, nel 60-80% di questi casi la causa della morte è stabilito dalla storia e dall’ispezione senza un’autopsia... È dubbio che chiunque, medico o no, possa tranquillamente stabilire la causa del decesso in un caso medico-legale senza autopsia, tranne in un numero relativamente limitato di casi.

Allo stesso modo, parlando di giudizi «sulla base di una storia clinica e di un esame esterno del corpo, senza una completa autopsia», Johnson osserva che «Molte autorità nel corso degli anni hanno condannato questa pratica» (Johnson 1969, p. 102). Nel passare in rassegna 263 casi ritenuti senza dubbio o sospetto decessi per cause naturali ma rivelate dall’autopsia come innaturali, Johnson (1969, p. 103) osservò che «Nella stragrande maggioranza dei casi il corpo non era stato adeguatamente

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esaminato né da un medico né da un funzionario di polizia e in alcuni non era stato fatto alcun esame». Inoltre, il coroner di San Francisco ha notato che la percentuale di autopsie «non dice nulla sulle caratteristiche delle indagini sulla scena. Non valuta l’accuratezza e la completezza dell’autopsia. Non fornisce alcun dato rispetto all’uso del microscopio o del laboratorio» (Turkel 1955, p. 1486). Queste differenze nei risultati non sono interpretate come dovrebbero seguendo l’applicazione delle moderne conoscenze scientifiche. Piuttosto, come diceva Johnson, «più si cerca, più si trova». I decessi che si sono rivelati suicidari includevano l’impiccagione, in cui erano stati trascurati i segni estesi della legatura, tagli alla gola passati inosservati, avvelenamento da gas in cui i rubinetti aperti non erano stati notati, e altre circostanze la cui natura ovvia non richiedeva conoscenze scientifiche per esser scoperte (Johnson 1969, pp. 104-105; Litman 1963, p. 925). Inoltre, come ha affermato il coroner di Los Angeles, «la differenza tra decesso per suicidio e decesso per altre cause è principalmente una questione che riguarda l’intenzione della vittima di uccidersi. Intenzione e motivazione non sono né sostanze chimiche né tessuti» (Curphey 1965, pp. 112). Gonzales e i suoi colleghi hanno osservato che «quando la storia del caso non è nota e risultati patologici sono assenti... sfortunatamente non esiste alcuna letteratura che descriva un metodo sistematico per attaccare questo tipo di problema analitico» (Gonzales et al. 1954, p. 949). Tuttavia, come ha commentato il coroner di San Francisco rispetto ai suoi colleghi, «ogni funzionario ti dirà che nella sua giurisdizione c’è poco o nessun pericolo che i decessi per crimine e violenza vengano trascurati» (Turkel 1955, p. 1485). Oltre a considerare le vie che portano a un possibile verdetto di decesso per suicidio e le procedure utilizzate, si dovrebbe prendere in considerazione la posizione dell’ufficio nei verdetti di suicidio. La funzione dell’ufficio del coroner ha subito un sostanziale cambiamento nel suo sviluppo storico, e oggi è comune che venga, come in Illinois, così accusato: «La competenza della giuria del coroner è di determinare se esiste 211 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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una causa possibile per cui credere che sia stato commesso un crimine» (Illinois 1969, p. 737). Altre possibilità, come il suicidio, sono di interesse secondario. Per il suicidio, è forse ancora più importante che «quando si è verificata una morte violenta e le prove non attestano se fosse dovuta a suicidio o incidente, c’è una presunzione contro il suicidio... la pratica di istruire [la giuria] sulla presunzione è approvata in [diversi casi citati]» (McCormick 1954, p. 643). Il fatto che questa sia una regola utilizzata è attestato da Thurston, il quale, nel suo libro di testo, ha osservato rispetto ai coroner che «un’alta percentuale di verdetti di inchiesta contestati sono correlati a un accertamento di suicidio basato su prove insufficienti» (Thurston 1958, p. 82), e da una successione di casi in cui i verdetti di suicidio furono annullati per aver ignorato questa presunzione (Williams 1969, p. 129). Inoltre, gli esaminatori medici delle contee di Philadelphia e Dade si sono recentemente lamentati della posizione secondo cui la prova del suicidio deve essere dello stesso «ammontare della prova... necessario per condannare in un tribunale penale [in altre parole, la prova oltre ogni ragionevole dubbio]» (Davis – Spelman 1968, p. 461). In quanto procedimento ufficiale, l’indagine del coroner è anche vincolata da altri requisiti legali. All’indagine, per esempio, si applicano le regole della prova, sebbene secondo Thurston (1958, pp. 72-73), potrebbero essere «rilassate… Al coroner è richiesta una solida conoscenza delle regole della prova e solo l’esperienza gli può insegnare quanto riferire in modo equilibrato mentre sta ancora conducendo un’indagine completa e adeguata». Sebbene queste regole siano seguite con diversi gradi di scrupolosità, sembrerebbero maggiormente rispettate nelle occasioni in cui i testimoni sono rappresentati da un avvocato. Degli otto suicidi più evidenti nello studio di follow-up di Chicago, nessuno dei quattro casi certificati come suicidio era rappresentato da un avvocato, mentre veniva rappresentato da un avvocato uno dei quattro non certificati come suicidio. Ciò può far tornare alla mente commenti come quelli di Maguire (1947, p. 10) secondo cui «la vera verità è che i tribunali e le legislature,

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in particolare nel contesto statunitense attuale, hanno elaborato molte regole per escludere dai processi un gran numero di prove». Ancora una volta, lo scopo qui è la descrizione, non la difesa. Se ci debbano essere più o meno leggi o avvocati nelle inchieste sui decessi è pertinente quanto se ci debbano essere più o meno indagini tossicologiche. Come ha affermato il coroner di Sheffield, I medici sostengono che, poiché la componente medica dell’indagine medico-legale diventa più minuziosa e complessa, è necessario un addestramento medico per apprezzare alcune delle questioni più sottili che vengono sollevate. Gli avvocati, d’altra parte, sostengono che il patologo, come testimone, dovrebbe richiamare l’attenzione del coroner su quei punti e interpretarli per lui, e che lui, con una formazione legale e una esperienza in procedimenti giudiziari e valutazione delle prove, darà loro il giusto peso nel raggiungere una decisione finale. Dal mio punto di vista, ciascuna professione attribuisce troppa importanza ai propri particolari meriti ed è troppo pronta a non riconoscere quelli delle altre professioni (Pilling 1969, pp. 111-112).

Che un coroner abbia in primis una formazione giuridica, come in Inghilterra, o una formazione medica, come è comune negli Stati Uniti, c’entra poco con la questione posta qui, ovvero che le responsabilità dell’ufficio sono sia mediche sia legali. Alcune ulteriori conseguenze delle decisioni del coroner richiedono attenzione. Generalmente, il verdetto della giuria di un coroner non è più accettabile come prova della causa del decesso (Cross 1967, p. 375); né, in Illinois e in altre giurisdizioni, è ammissibile in cause civili (Illinois 1969, pp. 741 ss.); e le deposizioni assunte su richiesta «non servono ad altro che al contraddittorio» (Illinois 1969, p. 731). Poiché l’importanza dei verdetti del coroner è stata intaccata in questi aspetti, le altre sue responsabilità appaiono maggiori. Ad esempio, rivolgendosi ad altri coroner, Thurston (1958, p. 120) ha sottolineato che «Non è una funzio213 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ne del coroner curiosare tra i problemi privati e il dolore di una famiglia, ma potrebbe essere impossibile evitarlo senza che sembri di aver svolto un’indagine incompleta». In generale, il verdetto del coroner ha un’importanza diretta solo per i sopravvissuti. Sono loro che, una volta escluso l’omicidio, sembrerebbero molto probabilmente preferire un verdetto diverso dal suicidio, e sono loro a lamentarsi del fatto che la sua inchiesta sia “incompleta”. Thurston (1958, p. 121) proseguiva: «Ogni caso deve essere considerato così come si presenta, ma è bene ricordare che un’indagine troppo zelante può dare un grande dolore a una famiglia nel momento in cui è meno in grado di sopportarlo». È stata spesso avanzata l›idea che i funzionari possano accertare ma non denunciare casi di suicidio, a causa delle pressioni ad occultare, della compassione per i sopravvissuti, dello stigma del suicidio e per ragioni simili. Si ritiene accada tra i medici (Danto 1968, p. 19), la polizia (Litman 1966, p. 14), i coroner (Seiden 1967, p. 4) e persino tra i membri dello staff dei centri di prevenzione del suicidio che assistono alle indagini ufficiali (Litman 1963, p. 927). Non esiste una stima della frequenza dei casi in cui si incorre in un errore completo quando si ritiene che decessi per suicidio siano avvenuti per qualche altro motivo, anche se è stato testimoniato spesso, da fonti abbastanza autorevoli, che è improbabile che si tratti di mera invenzione. Tuttavia, è importante che questa tesi non sia confusa con le osservazioni citate nel paragrafo precedente, che informano i colleghi coroner rispetto alle difficoltà che frequentemente si incontrano nello svolgimento delle indagini. In sintesi, come visto dai materiali di Chicago e da queste fonti per quanto riguarda le pratiche in altri luoghi, vi sono una serie di impedimenti alla certificazione del suicidio, e ciascuno dei corsi specifici che l’indagine e l’inchiesta possono prendere presenta ostacoli distintivi. Ne consegue che una spiegazione adeguata dei suicidi certificati deve includere un riferimento al modo in cui operano questi setacci sociali. Ciò che sembra venga richiesto, una volta che l’esistenza di questi processi selettivi è stata riconosciuta, è che la ricerca mostri come il modo in cui 214 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

operano si rifletta sulla scelta di un certo tipo di persone e di decessi che sono socialmente approvati per essere i nostri suicidi.

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Processi di «packaging» La descrizione fin qui compiuta delle pratiche che sono comuni nel periodo tra il decesso e l’eventuale certificazione di suicidio è solo introduttiva rispetto alla complessità del produrre suicidi. L’esame delle decisioni prese nei singoli casi rivela diversi aspetti importanti non solo nella spiegazione dei decessi, ma anche più in generale per i dati e la ricerca nelle scienze del comportamento. Da discutere qui sono (1) il ruolo della tipizzazione; (2) la costruzione di spiegazioni da parte degli attori; e (3) l’inferenza rispetto all’intenzione. Tipizzazione Il ruolo della tipizzazione si riferisce qui alla misura in cui le decisioni su elementi cruciali sono sostenute da inferenze che vengono utilizzate per raggiungere un’immagine tipizzata invece di venire per prima cosa accertate in maniera indipendente e riscontrate come rilevanti. Il modello del processo decisionale è quello in cui le conclusioni precedono la ricerca di supporto probatorio e il supporto che sarebbe sufficiente non è noto fino a quando non viene riscontrato (ad esempio Cicourel 1968; Garfinkel 1967a, 1967b). Un esame dettagliato dei singoli casi suggerisce questo modello. Il confronto tra due casi apparentemente semplici provenienti dallo studio di follow-up di Chicago è calzante. In entrambi i casi, le informazioni rispetto alla motivazione erano relativamente limitate. In uno, è stata trovata una donna impiccata nel suo appartamento. Nell’altra, si diceva che una donna che guidava da sola a una velocità compresa tra le 75 e le 85 miglia all’ora in zona con limite di 40-45 miglia orarie, in 215 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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una superstrada “limpida e asciutta”, avesse improvvisamente sterzato di fronte a un’altra macchina e si fosse schiantata contro il guardrail e poi finita oltre esso. Nel primo caso, le domande e le risposte nell’inchiesta hanno riguardato i seguenti punti: l’assenza di suo marito, l’assenza di un suo scritto che annunciasse il suicidio, un precedente commento rivolto a un portiere rispetto a una corda per impiccarsi, che «non vi fu accenno al suicidio fino al [momento del decesso]», che non vi erano prove che si trattasse di “delitto” e che non era stata in cura da un medico. Nel secondo caso, il marito riteneva che l’evento fosse un incidente e sosteneva che le condizioni mentali della moglie fossero “buone”, e le attività della moglie quella sera, per quanto ne sapeva, erano normali. Un tassista testimone dell’evento testimoniò che l’automobile “sfrecciò” a finaco a lui fino allo schianto. Era sua convinzione, e anche quella di un poliziotto presente sulla scena, che «vi fosse coinvolto il whisky», anche se l’investigatore che testimoniò disse «non vi era alcuna prova di questo». Queste sintesi sono approssimative, ma non sono state tralasciate domande o risposte di una qualche importanza. I risultati, come si può supporre, furono che il primo caso fu giudicato suicidario e il secondo no. Forse i ricercatori hanno considerato entrambi come suicidi perché la donna deceduta nella sua auto aveva dichiarato poco prima l’intenzione di suicidarsi proprio in quel modo in una chiamata al centro di prevenzione del suicidio. Le informazioni contenute nei fascicoli del centro di prevenzione del suicidio sull’altro caso non hanno fornito informazioni discrepanti rispetto a quanto era stato registrato ufficialmente, ma hanno aggiunto che aveva parlato, diversi mesi prima della sua morte, di volersi suicidare in un modo bizzarro e improbabile. Per quanto riguarda la questione generale del processo decisionale, sembra che nel caso di impiccagione l’interrogatorio si sia focalizzato subito su aspetti che potessero sostenere un’inferenza del suicidio, mentre nel secondo caso non sono state seguite tali linee di indagine. È possibile che per i casi del primo tipo siano ritenute necessarie indagini sul suicidio più che per quelli del secondo tipo e che sia la ricerca di documentazione

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sia la quantità sufficiente di informazioni per arrivare a una decisione derivino dalla tipizzazione del caso in questione.

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Spiegazioni Per comprendere il processo decisionale, una domanda fondamentale riguarda come le persone costruiscano spiegazioni di ciò che avviene nelle loro faccende pratiche. Una spiegazione adeguata di un decesso potrebbe essere quella di dire che si era verificato per “insufficienza respiratoria”. Se il decesso è accettato come suicidio, l’adeguatezza della spiegazione dell’insufficienza respiratoria verrebbe meno, anche se in sé è corretto affermare che si è verificata un’insufficienza respiratoria. Nel campione dei decessi di Chicago potrebbero essersi verificati casi semplicemente come questo, ma non si può dire. La ragione di ciò è che le persone che esprimono intenzioni o piani suicidari non sono in tal modo esentate da una morte non suicidaria. Poiché nella maggior parte delle registrazioni dei decessi è sufficiente fornire solo una dichiarazione indicante che il defunto aveva, ad esempio, malattie cardiache o epatiche, anche il più significativo indizio di piani suicidari proveniente dai dati del centro di prevenzione del suicidio non può fare altro che aumentare i sospetti [che si trattasse di suicidio]. L’ambiguità e la vaghezza di ciò che spiegano le spiegazioni del decesso, da un caso all’altro, possono anche essere apprezzate dall’esame di lunghi verbali. Ci si aspetta che non tutti i fatti messi in evidenza abbiano la stessa rilevanza e che l’evento che viene alla fine spiegato dipenda da una selezione ad arte tra le “confezioni” suggerite. Potrebbe essere pertinente considerare le due seguenti interpretazioni che hanno inizio da circostanze simili. (A) Una giovane donna è stata trovata morta nel lago Michigan. Si pensava che la causa diretta del decesso fosse annegamento o presunto annegamento. Un agente di polizia testimoniò che l’area non era di soli217 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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to usata per nuotare, che era “ventosa” e che l’acqua era “increspata” il giorno del decesso e che nessuno la vide entrare in acqua. L’esame patologico rivelò lacerazioni di entrambi i polsi, effettuate prima della morte. Inoltre segnalava “segni di esitazione”, che sono tagli superficiali che si riscontrano comunemente in persone suicide e che sono il risultato dei primi tentativi dell’individuo che utilizzi questo mezzo. Il funzionario di polizia testimoniò anche che il ragazzo della vittima e la sua migliore amica riferirono che “da circa un mese era molto abbattuta”, perché sentiva che le possibilità di successo nella sua carriera artistica erano limitate a causa del suo sesso. (B) Una giovane donna venne trovata morta nel lago Michigan, e si pensò che la causa diretta del decesso fosse annegamento o presunto annegamento. Non si sapeva precisamente dove entrò in acqua. Era single e studentessa universitaria. Suo padre testimoniò che, quando si recò con lei all’opera circa una settimana prima della sua morte, disse che “si sentiva molto bene” e che pensava anche che le sue condizioni mentali fossero buone. Il funzionario di polizia ha testimoniato che non vennero ritrovati messaggi [annuncianti] il suicidio e che venne riferito che la vittima aveva detto che “il suicidio fosse un modo molto inefficace per risolvere i problemi”. Non aveva ricevuto cure psichiatriche ed era, secondo l’opinione del funzionario, “sana di mente”. Aveva “l’abitudine di fare passeggiate” nella zona in cui venne ritrovato il suo corpo, ed il suo ragazzo aveva segnalato la sua “scomparsa” circa una settimana prima della sua morte. I suoi vestiti non furono ritrovati. Il funzionario testimoniò che spesso c’erano netturbini nella zona che avrebbero potuto prenderli. Sua madre aggiunse che la vittima era una “eccellente nuotatrice” e pensava che la figlia si fosse tolta i vestiti dopo essere entrata in acqua come misura di sicurezza. Il caso A sembra chiaramente essere un suicidio. Il caso B è stato giudicato come decesso per causa “indeterminata”. Questi due casi sono, tuttavia, lo stesso caso, e le informazioni delle interpretazioni A e B sono 218 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tratte dagli stessi documenti ufficiali. La scelta su quale tra le due decisioni sia valida potrebbe essere un esercizio inutile. Il verdetto ufficiale fu quello per causa indeterminata, e il primo problema è comprendere come vi ci sia giunti, nonostante le evidenze scientifiche e le testimonianze credibili portassero direttamente al verdetto di suicidio. Si sarebbe tentati di concludere che i dati presentati come caso B richiedano un verdetto di causa indeterminata in quanto vengono sollevati dubbi sulla possibilità di suicidio. Ma non è proprio così semplice come sembra. La testimonianza del padre della vittima, che [la ragazza] “si sentiva molto bene”, contiene l’unica informazione discrepante con un verdetto di suicidio. Il resto delle informazioni contenute nella versione B sembrano abbastanza coerenti con un verdetto per suicidio basato essenzialmente sulle informazioni contenute nella versione A. Sebbene ciascuna delle due versioni abbia senso, il modo in cui la loro combinazione porta alla decisione per la seconda versione invece che per la prima non sembra essere così auto-evidente. Intenzione Il terzo argomento da considerare nell’esame di questi casi dallo studio di follow-up di Chicago è l’inferenza dell’intento e la negazione dell’intento. Alla luce della frequenza con cui l’intento inferito entra sia nei dati che nell’analisi, può essere corretto affermare che la scienza del comportamento non si è preoccupata a sufficienza di come l’intento venga inferito. È particolarmente evidente che questo argomento è di vitale importanza per lo studio del suicidio. La presente analisi si concentrerà sui mezzi con cui l’intenzione suicida può essere negata. Per essere più precisi, questa non è una questione che riguarda l’evidenza avversa alla probabilità che l’intenzione suicidaria sia un’inferenza ragionevole o che sia più ragionevole di qualsiasi altra.

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Invece, il problema è quello di comprendere le situazioni in cui sembra chiaro che se ci fosse stata un’intenzione sarebbe stata suicidaria, ma la possibilità di una qualsiasi intenzione viene esclusa. L’automatismo ha a lungo presentato problemi sia in medicina che in diritto e la disputa che lo riguarda è piuttosto evidente nel lavoro con il suicidio. Nella sua versione più nota, l’automatismo nel suicidio si riferisce alle situazioni in cui farmaci vengono assunti in dosi in eccesso a causa della perdita della capacità da parte dell’individuo di ricordare di averne assunto dosi precedenti. Jansson, Forssman e altri hanno riferito di campioni di suicidi e di tentati suicidi in cui hanno riscontrato questo automatismo nell’assunzione dei farmaci in oltre un quarto dei casi (Jansson 1961, 1962), mentre altri hanno riportato che tali casi sono limitati (Litman 1963, pp. 925-926). Il termine “automatismo” non è apparso in nessuno dei registri dei decessi nel campione di Chicago, ma sembra molto appropriato per descrivere le basi su cui si fondano diverse decisioni prese. Il suo significato qui comprende sia gli usi medici sia quelli legali che riguardano casi in cui attraverso droghe, alcol, o altre cause o combinazioni di esse, l’individuo sembra aver perso il potere di controllare “volontariamente” o “consapevolmente” il proprio comportamento. Uno dei casi in cui il gruppo di ricerca ha ritenuto che il decesso fosse per suicidio mentre il giudizio ufficiale era per incidente, illustra la questione. La vittima venne trovata morta nel suo garage, seduta nell’automobile con l’accensione inserita. Le circostanze indicavano un tipico suicidio. Tuttavia, venne affermato che, in effetti, la vittima era una nota alcolista e probabilmente non era in grado di rendersi conto di essere in pericolo. Il gruppo di ricerca non era persuaso da tale argomentazione, potendo accedere ad altre informazioni dai fascicoli del centro di prevenzione del suicidio che li portarono a mettere in discussione la possibilità che un automatismo fosse entrato in giorno in quella circostanza, dato che la figlia della vittima aveva di recente tentato il suicidio esattamente nello stesso modo. Un giudizio di automatismo sembrava essere cruciale per 220 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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molti altri casi, ma sia i registri ufficiali che quelli del centro di prevenzione del suicidio erano troppo succinti per consentire la valutazione di questi casi. Anche in questo caso, da un punto di vista medico-legale, quella che sembra essere un’intenzione suicidaria può essere negata in considerazione della “follia”, della “malattia mentale”, e di simili condizioni. L’attuale stato delle cose è stato riassunto bene da Hart (1962, pp. 145-146): «I casi di suicidio da parte di persone disturbate pongono alcuni problemi difficili. Un atto volto a produrre la conseguenza che di fatto produce, di solito nega la relazione causale, ma un atto compiuto senza una piena capacità di valutazione delle circostanze non la nega. Le corti hanno abbastanza libertà in queste situazioni, e mentre molti hanno ritenuto che un atto di suicidio neghi la relazione [causale] a meno che non sia il risultato di un impulso incontrollabile, o venga compiuto in uno stato di delirio o di frenesia, altri ne consentono l’utilizzo qualora il suicidio sia avvenuto durante una condizione depressiva causata da demenza, confusione mentale o nevrosi d’ansia acuta, poiché queste ultime condizioni sono ora ritenute come “cose che in realtà detronizzerebbero il potere volitivo della persona offesa».

Anche la divergenza tra i giudizi ufficiali e quelli del gruppo di ricerca ha sollevato questo problema. Un caso in cui una donna si è accoltellata e ha assunto un eccesso di sostanze nel suo bagno chiuso a chiave è stato ufficialmente ritenuto non essere un suicidio. Che si fosse ripetutamente accoltellata, che fosse stata sottoposta a cure psichiatriche, che stava per entrare in un ospedale psichiatrico e che la sua famiglia fosse presente in casa mentre si uccideva, furono apparentemente le informazioni che produssero un verdetto ufficiale di causa indeterminata. Dal verbale sembra che l’argomento decisivo fu che era pazza. Forse era pazza, ma per il gruppo di ricerca si trattò, ciò nonostante, di suicidio, probabilmente anche per il fatto che, al centro di prevenzione del suicidio, avevano pre221 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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so visione di una sua dichiarazione riguardante l’intenzione di suicidarsi. Le complessità nel giudizio secondo cui un individuo è sufficientemente folle da non riuscire a suicidarsi sono ulteriormente suggerite dal confronto tra il caso precedente e un altro caso in cui un paziente in ospedale psichiatrico, che aveva tentato il suicidio con liscivia e aveva dichiarato di aver spesso tentato il suicidio, si uccise buttandosi da una finestra dell’ospedale e venne riconosciuto come suicidio da entrambi i funzionari e dal gruppo di ricerca. Questa sezione è stata dedicata ad alcuni problemi di natura generale, che sono illustrati dai materiali dello studio di follow-up sugli utenti dei centri di prevenzione del suicidio a Chicago. I diciassette decessi consistevano di una serie di documenti ufficiali che andavano da una certificazione criptica di “malattia cardiaca” a un’inchiesta del coroner con ampie relazioni mediche, convocazione di testimoni e rappresentanza legale della famiglia del defunto. Il confronto tra i documenti relativi a queste persone, provenienti dal centro di prevenzione dei suicidi di Chicago, indica l’importanza di continuare a fare ricerca sui processi attraverso i quali vengono realizzati i certificati di morte. I documenti contengono molti misteri. Il principale, tra gli argomenti che emergono come importanti, riguarda come le tipizzazioni operano nel corso delle decisioni, come le spiegazioni della morte sono sviluppate a partire da materiali discordanti e le questioni delicate del decidere la probabilità dell’intento suicida se fosse da escludere del tutto. Conclusioni Coloro che nella comunità partecipano al processo che porta alla certificazione delle cause di morte devono far fronte alle richieste imposte dalle pratiche mediche, dalle responsabilità e dai vincoli legali, dalle informazioni che arrivano a loro, dalla loro comprensione delle situazioni pratiche per se stessi e per i loro clienti e dalla necessità di conciliare gli 222 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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aspetti discordanti di queste richieste tra loro stesse. Dal punto di vista del coroner, un numero elevato di decessi deve essere certificato, pochissimi tra questi dovrebbero essere suicidi e le indagini protratte per poco più di una manciata di casi sono considerate inutili e dannose. Il coroner ha un obbligo speciale di motivare la decisione per i casi che giudica come suicidi. Non ha l’obbligo di ricercare casi di suicidio quando motivi [per il suicidio] non siano già suggeriti dal fascicolo che gli perviene. Di conseguenza, in tutti i casi i registri ufficiali interpretano ragionevolmente e coloro che codificano potrebbero porre loro delle critiche solo con l’aiuto dei fascicoli del centro di prevenzione del suicidio. Sebbene non sia stato fatto alcun tentativo sistematico di valutare la credibilità o la bontà dei verbali valutando se le procedure o le evidenze in esse citate fossero scientifiche, il mio giudizio è che non si sarebbe trovata alcuna relazione. Coloro che considerano le certificazioni di morte in base alla loro congruenza con gli standard relativi alle procedure scientifiche (ad esempio Gibbs 1961, pp. 228-229) dovrebbero essere consapevoli del fatto che la combinazione tra buon senso, conoscenze legali di base e altre conoscenze di base utilizzate per fare inferenze, che sono state decisive nei casi qui esaminati, sarà difficile da conciliare con i criteri scientifici che il ricercatore ha in mente. Attendibilità e validità saranno mascherate principalmente dalle esigenze del medico legale (ad esempio, la presunzione contro il suicidio) di presentare prove o ragionamenti favorevoli quando il verdetto è di suicidio, tuttavia non è necessario fornire, nei registri, prove che possano essere favorevoli a una decisione di suicidio così come invece avviene per i casi di morte per causa diversa. Dal presente studio emergono altri due problemi per le teorie sul suicidio provenienti da variabili presenti nei registri dei decessi. Le interpretazioni basate sulle variabili della “scheda tecnica” (come età, sesso, stato civile) erano coerenti con i modelli citati e spiegati nella maggior parte delle teorie esistenti, ma solo per quei suicidi ufficialmente certificati come tali e non per quei decessi valutati dal gruppo di ricerca come suicidi, sebbene fossero stati ufficialmente classificati diversamente. Altre variabili che nella letteratu223 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ra sono state proposte come rilevanti per il suicidio sono ufficialmente studiate solo in modo occasionale. La ricerca uniforme e sistematica su queste variabili (ad es. storia lavorativa, cure psichiatriche) non viene intrapresa e sarebbe improprio assumere che lo sia stata in precedenza. È molto importante, tuttavia, riconoscere che i principali benefici che possono derivare dalla ricerca continuativa sulla produzione dei suicidi superano interamente i vecchi dibattiti riguardanti l’”attendibilità” e “validità” delle statistiche ufficiali. Quasi un decennio fa, Kitsuse e Cicourel (1963) presentarono, su basi teoriche, la tesi generale secondo cui i “processi di produzione dei comportamenti e quelli di produzione di tassi possono essere studiati e comparati all’interno di un unico framework”, considerando entrambi come attività socialmente organizzate che sono determinanti di devianza. La letteratura da allora non ha mostrato un pieno apprezzamento della loro argomentazione, in quanto rimane più frequente trovare “produttori di stime”, intesi come surrogati di scienziati o come persone che fanno cose che sono interessanti di per se stesse. La tentazione di cadere in questi errori è forse più forte quando il tema è il suicidio. Sembra particolarmente difficile andare oltre le nozioni che il suicidio può avvenire solamente nell’istante prima della morte, e che lo studio di tutto ciò che accade quell’istante sia uno studio che riguarda qualcosa di diverso dal suicidio. Tuttavia, oltre alla desiderabilità teorica di includere il riconoscimento di un evento e le conseguenze del riconoscimento come parte dello studio di quell’evento, i dati qui presentati indicano che porre una particolare attenzione a questi temi è anche una necessità pratica. Non è stato sufficientemente compreso il fatto che si presenta una necessità impellente di comprendere le modalità con cui quelle morti, da noi riconosciute come suicidi, vengano prodotte nel corso dell’indagine e venga assemblata una spiegazione dei loro “risultati”. Tale necessità è apparentemente maggiore per il lavoro svolto a partire dai registri ufficiali, ma dovrebbe anche essere preso in considerazione nella valutazione di qualsiasi altro giudizio che riguardi l’attestazione di un suicidio. Inoltre, i

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risultati del tentativo di soddisfare tale necessità possono essere utili per lavorare su altri temi nella scienza del comportamento.

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