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Italian Pages 246 Year 2017
PER UN’INTRODUZIONE GLI ULTIMI JEDI: L’OTTAVO CAPITOLO DA GUERRE STELLARI A LA MINACCIA FANTASMA: EMOZIONI E MAGIA LUCAS SU LUCAS VITA DA LUCAS LE GALASSIE DI LUCAS DALLE ORIGINI A ROGUE ONE GEORGE LUCAS E LA HOLLYWOOD ANNI SETTANTA E SE IL CINEMA COMINCIASSE CON STAR WARS? LA NUOVA EDIZIONE DELLA PRIMA TRILOGIA GLI SPIN OFF DI STAR WARS EFFETTI SPECIALI: LA INDUSTRIAL LIGHT & MAGIC SUONO: LO SKYWALKER SOUND STAR WARS: OPERA SPAZIALE STAR WARS, LA NUOVA REALTÀ STAR WARS E LA FISICA LA LADY, I SUOI CAVALIERI E LA FORZA “SE C’È UN CENTRO LUMINOSO DELL’UNIVERSO, QUESTO È IL PUNTO PIÙ LONTANO” WHO’S WHO I personaggi di Star Wars
FILMOGRAFIA Titoli di coda Crediti
1997-2017 STAR WARS i film, i personaggi, gli effetti speciali a cura di Massimo Benvegnù e Federico Magni Una realizzazione Falsopiano/Fogli Volanti secondo gli standard dell’International Digital Publishing Forum ISBN 9788893041034 Prima edizione digitale 2017
PER UN’INTRODUZIONE
Federico Magni
La prima edizione di “Guida a Star Wars”, interamente curata da Massimo Benvegnù, ebbe un grande successo e uscì nel 1999, quando giungeva sugli schermi La minaccia fantasma, episodio iniziale della nuova trilogia dedicata al fenomeno Guerre stellari. Erano ventidue anni che George Lucas non tornava dietro la macchina da presa e l’ambientazione poneva la vicenda più di trenta anni prima rispetto alle avventure di Luke Skywalker e Han Solo. Questa nuova edizione precede l’uscita dell’ottavo capitolo, intitolato Gli ultimi Jedi. Nel frattempo Lucas ha ceduto il suo impero alla Disney, che si sta impegnando a distribuire un episodio all’anno, sia che si tratti di vicende direttamente collegate al filone principale (Il risveglio della Forza) sia di spin-off (Rogue One). In entrambi i casi la risposta del pubblico è stata egualmente entusiasta, a riprova di quanto sia ancora forte il fascino dell’avventura ai tempi dei Cavalieri Jedi. Rispetto alla trilogia di inizio Millennio, i nuovi film sono il più vicino possibile, in termini di cronologia e di stile, alla prima pellicola, con il recupero di atmosfere, tecnologie, sviluppi e tematiche, nonché di visi familiari (segnate dal tempo o rigenerate al computer). È una testimonianza del perdurare del Mito e della sua efficacia, nella maniera in cui è stato concepito dalla immaginazione di Lucas e portato sullo schermo con le tecniche più avanzate. I realizzatori dei film di oggi sono, per la maggior parte, gli stessi appassionati che riempivano le sale alla fine degli anni Settanta, così come i cineasti di allora ammiravano i film fantastici arricchiti dai trucchi di Ray Harryhausen o, nel caso dello stesso Lucas e del suo sodale Steven Spielberg, i serial proposti nelle matineé (come il Flash Gordon della Universal degli anni Trenta) poi passati sugli schermi televisivi. Questa rinnovata guida all’Universo di Star Wars non nasce con l’intento di chiarire ogni interrogativo ma per accompagnare l’appassionato (che sicuramente ritroverà errori o inesattezze
delle quali chiediamo anticipatamente scusa) e lo spettatore casuale nella esplorazione di vari aspetti di un fenomeno cinematografico che continua (e continuerà) ad appassionare il pubblico di tutto il mondo.
GLI ULTIMI JEDI: L’OTTAVO CAPITOLO
Riccardo Bellini
Dopo mesi di speculazioni, attese ingannate a suon di stravaganti teorie, pronostici e notizie inaspettate, finalmente si appresta il 13 dicembre, data dell’uscita nelle sale italiane di Star Wars: Gli ultimi Jedi, l’ottavo episodio della saga cinematografica creata da George Lucas nel 1977. Tra rumors, anticipazioni e aspettative, prepariamoci insieme alla visione di questo secondo capitolo della nuova trilogia inaugurata due anni fa con Star Wars: Il risveglio della forza, cogliendo l’occasione per gettare anche uno sguardo agli sviluppi dello spin off Solo: A Star Wars Story. Nel frattempo, Disney e la Lucasfilm, annunciano la realizzazione di una futura terza trilogia spiazzando i fan e il mondo dello spettacolo…
Dove eravamo rimasti
Sono passati circa trent’anni dagli eventi di Il ritorno dello Jedi (1983). Nella stessa Galassia lontana lontana di un tempo, il temibile Primo Ordine, nato dalle ceneri del vecchio Impero e guidato dal misterioso Snoke, è alla ricerca di Luke Skywalker, con l’obiettivo di eliminare l’ultimo Jedi rimasto, ora nascosto in un luogo remoto, mentre sulle tracce dell’eroe si mobilita anche la resistenza cappeggiata da Leia Organa, intenzionata a riportare l’ordine e la pace. Alla resistenza si uniscono Rey, una ragazza che sembra misteriosamente legata al destino di Skywalker e capace di ricorrere alla Forza, Finn, disertore dell’esercito del Primo Ordine, e il pilota Poe, insieme ai veterani Han Solo e il fido Chewbecca. In un confronto con Kylo Ren, ex allievo di Skywalker e figlio di Han e Leia passato al lato oscuro sotto la guida di Snoke, Solo viene ucciso a tradimento dal figlio, nel tentativo di riportare a casa quest’ultimo, prima che la resistenza riesca finalmente a distruggere la micidiale Base Starkill. Rey, a seguito di uno scontro con Kylo Ren a cui sopravvivono entrambi, riesce a raggiungere il pianeta su cui si trova Skywalker, consegnandoli la sua spada laser. Questo è il punto a cui ci ha lasciato Il risveglio della forza, film che inaugura la terza trilogia di Star Wars all’insegna del revival, cercando di mettere definitivamente una pietra sopra la contestatissima trilogia prequel diretta dallo stesso George Lucas (La minaccia fantasma, L’attacco dei cloni e La vendetta dei Sith), rea, secondo il parere di molti fan, di avere addirittura rovinato l’intera saga – e Jar Jar Binks non è nemmeno tra le cose peggiori, il che la dice lunga. Con Il risveglio della forza si è dunque sentita l’esigenza di tornare alle atmosfere originali che hanno decretato il successo dei primi tre film, aderendo il più possibile all’immaginario di quel mondo consegnato alla storia del cinema e tradito dai tre titoli che hanno provato a inventarne le origini. Oltre al ritorno di Han Solo (Harrison Ford), Leia (Carrie Fisher), Luke Skywalker (Mark Hamill), Chewbecca (Peter Mayhew) e dell’iconica astronave Millennium Falcon, il regista J. J. Abrams (Mission: Impossible III, Star Trek, la serie televisiva Lost), ora impegnato con Episodio IX, e la
Lucasfilm, che nel 2012 è stata acquistata dalla Disney per 4 miliardi di dollari, hanno optato per una maggiore fisicità scenografica con il ritorno ai modellini, riducendo notevolmente, rispetto ai prequel, l’utilizzo della computer grafica. Insieme a questo, si segnala il tentativo di tornare a un maggiore coinvolgimento dello spettatore nelle spettacolari scene di azione, soprattutto aeree, una sceneggiatura più leggera e spigliata, contro l’esasperata ed esasperante verbosità dei tre film di mezzo, e l’inserimento di molti momenti comici a contrappuntare la drammaticità degli eventi principali, nello stile della trilogia classica. Ma l’intento di accontentare fan di vecchia e nuova generazione si è spinto ben al di là di certi recuperi, dando vita a quello che è, in fin dei conti, un remake del primo film della saga (Episodio IV – Una nuova speranza), calibratissimo nel ricalcare, passo dopo passo, i momenti cruciali della pellicola del 1977, con tanto di ritrovamento dell’eroe prescelto su pianeta desertico – prima era Luke, ora è Rey, – e attacco a stazione-spaziale-arma-daguerra con un unico punto debole – prima la Morte Nera, ora la Base Starkill. E si potrebbe continuare… Ma proprio qui sta il punto. Se è vero che l’episodio VII si pone sotto l’egida della nostalgia e dell’imitazione, è anche vero che esso non fa che sottolineare lo scarto con il passato. Indicativo a tal proposito il vano tentativo da parte di Kylo Ren di emulare l’ineguagliabile Darth Vader, spingendosi al limite della parodia. Paradossalmente è proprio questo divario incolmabile a conferire in un certo senso dignità al personaggio, emancipandolo dalla figura di un modello ingombrante; e così potrebbe essere per l’intero episodio. La speranza, dunque, è che Il risveglio della forza non sia altro che un rassicurante preambolo a un seguito proiettato invece verso la piena conquista di una propria identità, un prodotto concepito ad hoc così da soddisfare il più possibile il gusto di chi si è sentito tradito dai tre film precedenti, ma solo per preparare il pubblico a qualcosa di inevitabilmente diverso rispetto al passato, pur nel rispetto di quest’ultimo. Questo è insomma quello che potremmo augurarci da Gli ultimi Jedi, alla cui regia e sceneggiatura troviamo questa volta il quarantatreenne
Rian Johnson, regista dell’originale neo-noir Brick – Dose mortale (2005) e dell’acclamato thriller fantascientifico Looper (2012), distribuito anch’esso dalla Disney.
«Il tempo della fine degli Jedi è giunto»? Molti sono i quesiti con i quali Il risveglio della forza ci ha lasciato in sospeso, a partire da ciò che è capitato a Luke Skywalker e da come verrà sviluppato il personaggio. In merito all’argomento, in un’intervista al The New York Times dello scorso settembre, Johnson ha assicurato che il leggendario Jedi ha avuto le sue ragioni per scegliere la strada dell’esilio e che non è stato certo facile, in fase di sceneggiatura, trovare delle motivazioni che non tradissero l’immagine e lo spirito del personaggio: “Sono cresciuto avendo una certa percezione di chi sia Luke Skywalker. E questo mi ha guidato attraverso un percorso ben preciso. So che non si sta nascondendo su quell’isola. So che non è un codardo”. Un discorso sicuramente fondamentale e delicato, in quanto cuore del nuovo episodio che, come confermato dallo stesso regista, già nel titolo originale, The Last Jedi, da intendersi al singolare, fa riferimento proprio a Luke e non ad altri, come invece esigerebbe il plurale della traduzione italiana, con allusione al destino della giovane Rey, che già nel teaser pubblicato ad aprile, vediamo sottoporsi a quello che sembrerebbe una sorta di allenamento sotto lo sguardo dello stesso Luke. Johnson ha così espresso un certo rispetto per una delle saghe più famose al mondo, ricordando l’infanzia passata a immaginare avventure con i beniamini del film, per poi veder coronato un sogno impensabile – «davo per scontato che ogni regista del pianeta volesse dirigere uno Star Wars» ha dichiarato – una volta arrivata la proposta da parte della presidente della Lucasfilm Kathleen Kennedy di dirigere Gli
ultimi Jedi. Ma nonostante un’inevitabile deferenza verso la trilogia classica, sembra che il cineasta abbia voluto dare al personaggio di Luke qualcosa di nuovo se non addirittura di sconvolgente, o almeno questo è quello che ha suggerito lo stesso interprete Mark Hamill, le cui dichiarazioni, rilasciate ad ABC News e riportate parzialmente dal “The Guardian”, circa una divergenza tra lui e il regista in merito all’evoluzione del personaggio hanno indotto alcuni siti web a parlare di un presunto malcontento da parte dei fan. Intervistato in occasione dei Tony Awards, l’attore ha poi chiarito la questione, ribadendo quanto già espresso su “Vanity Fair”: “Ho avuto un po’ di problemi… perché tutti hanno citato solo la parte in cui dicevo di non trovarmi in accordo con Rian circa le sue scelte per il personaggio di Luke Skywalker. La questione è che sono rimasto sorpreso da come lui ha “letto” Luke. E mi ci è voluto un po’ per abituarmi al suo modo di pensare, ma una volta adattatomi alla cosa è stata un’esperienza trascinante”. Certo, per quanto inaspettate potranno essere le scelte del regista, rimane inverosimile la “teoria” di un passaggio di Luke al lato oscuro su cui si sono sprecate chat su chat di speculazioni, tutto a partire dalla frase pronunciata dalla voce di Luke nel teaser di aprile: «Il tempo della fine degli Jedi è giunto». I pretesti avanzati sono tra i più sterili – c’è chi si è persino lasciato condizionare da alcune immagini di Skywalker in abiti scuri – e la Lucasfilm, insieme allo stesso Hamill non hanno perso occasione per giocarci un po’ su: «Sì è possibile. Tutto è possibile in questo film», ha risposto l’attore alla fatidica domanda sul passaggio tra le fila dei cattivoni da parte dell’ultimo Jedi. A confondere ulteriormente le acque ci ha pensato la IMAX (azienda che si occupa di apparecchiature cinematografiche con cui sono state girate alcune scene del film) con la pubblicazione in ottobre di due curiosi poster de Gli ultimi Jedi, uno per la parte buona e l’altro per la parte cattiva, entrambi i quali vedono la presenza
di Luke, che sul lato dei malvagi occupa il posto che a rigor di logica dovrebbe spettare al sinistro Snoke. Inutile rammentare l’assurdità di chi pensa che una produzione di centinaia di milioni di dollari, sotto il cui vigile sguardo passa ogni materiale destinato alla pubblicità, decida di bruciarsi così deliberatamente, a due mesi dall’uscita nelle sale del film, quello che in tal caso sarebbe un twist forse ancora più sconvolgente della fatidica rivelazione di Darth Vader sul suo legame familiare con Luke ne L’impero colpisce ancora (1980). Quello a cui invece assisteremo è il dissidio interiore di un uomo profondamente amareggiato per i propri fallimenti e spinto dalle circostanze a dubitare dello stesso ordine Jedi così come è sempre stato concepito – d’altronde come dargli torto? – senza con questo aver perso la propria purezza; e questo potrebbe davvero favorire una delle svolte più interessanti dell’intera saga. L’altro grosso quesito riguarda invece le origini della giovane Rey (Daisy Ridley). Con quale Jedi è imparentata la ragazza, inaspettatamente capace di utilizzare la Forza e di maneggiare piuttosto abilmente una spada laser alla prima prova? Anche in questo caso i fan non hanno badato a spese in fatto di speculazioni, anche se le ipotesi più probabili al momento sono quelle che vogliono Rey figlia di Han e Leia oppure di Luke. Alcuni indizi disseminati nel Risveglio farebbero propendere per la seconda supposizione, a cominciare dalla visione avuta dalla giovane a contatto con la spada di Skywalker alla Taverna Maz Kanata, per arrivare all’eloquente incrocio di sguardi tra Rey e il maestro Jedi alla fine del film. Ancora una volta, in un articolo su Entertainment Weekly, Hamill ci ha messo lo zampino, divertendosi a fomentare i rumors sul rapporto tra i due con la domanda «Ma siamo proprio sicuri che Luke non conosca già Rey?», dopo aver già stuzzicato i fan in altre occasioni scherzando sul suo modo di rapportarsi a Ridley come ad una figlia. Quello che sappiamo con certezza è che durante la lavorazione dell’ep. VII Johnson ha chiesto a J. J. Abrams di modificare in parte il finale del film, facendo accompagnare Rey, nel suo viaggio verso l’isola di Luke, da R2-D2 anziché da BB-8 come
originariamente previsto, richiesta alla quale Abrams ha ovviamente acconsentito. Un altro personaggio che ha destato molte curiosità, tra quelli comparsi per la prima volta nel Risveglio, è l’inquietante Snoke, il quale appare in un breve frammento del trailer de Gli ultimi Jedi diffuso a ottobre, apparentemente occupato a torturare la povera Rey grazie ai suoi poteri psichici. Il leader del Primo Ordine è rimasto per il momento avvolto nel mistero più assoluto e dalle parole di Johnson, in una dichiarazione rilasciata a “Vanity Fair”, sembra che non sapremo molto sul suo conto nemmeno in questo ottavo capitolo. Un mistero col quale il fandom di Star Wars è ovviamente convolato a nozze, partorendo le fantasie più assurde sull’identità dell’oscuro signore: da chi vi ha visto una reincarnazione di Darth Vader a chi crede che si tratti in realtà di Darth Sidious (l’Imperatore della prima trilogia). Tutte teorie da cestinare, come ha confermato Pablo Hidalgo, membro della Lucasfilm Story Group, citando un estratto del romanzo del 2015 Star Wars: Il risveglio della forza basato sulla sceneggiatura originale del film, in cui si afferma esplicitamente che Snoke non appartiene alla razza umana. Inoltre, sempre sul fronte lato oscuro, sarà interessante assistere agli sviluppi dell’apprendista di Snoke, Kylo Ren, il quale tornerà, come mostra il trailer, provvisto di una vistosa cicatrice metallica sul volto, conseguenza del precedente duello con Rey in cui l’aspirante Sith ha rischiato di perdere la vita, e determinato a chiudere i conti con il proprio passato. Ma forse le cose non stanno proprio così; forse, i dubbi riguardanti le proprie scelte di vita non si sono ancora dissipati del tutto dalla mente del personaggio, come parrebbe mostrarci un primo piano contenuto nel trailer, in cui Kylo sembra vacillare (anche solo per un attimo) sotto il peso delle proprie decisioni. Certo, un’ipotetica redenzione da parte del figlio di Han Solo, magari nell’ep. IX, non sarebbe tra le scelte più originali. È molto più auspicabile, invece, sperare che vengano approfondite le ambiguità di un personaggio che, almeno potenzialmente, potrebbe forse dare qualcosa di nuovo all’universo Star Wars.
Nuovi arrivi stellari Accanto ai personaggi classici e a quelli che stiamo imparando a conoscere, il cast di Gli ultimi Jedi vanta due new entry d’eccezione: gli attori Laura Dern e Benicio del Toro. La prima interpreterà l’Ammiraglio Amilyn Holdo, membro della resistenza e vecchia conoscenza di Leia. Stando ad alcune voci, pare che la presenza di Holdo destabilizzerà gli equilibri interni alla resistenza, probabilmente a causa di alcune divergenze sul modo di condurre la lotta contro il Primo Ordine, mentre nel romanzo uscito lo scorso settembre Leia: Princess of Alderaan, incentrato sulla gioventù della principessa Leia, non viene menzionata alcuna rivalità tra quest’ultima e l’amica Amilyn. Non sappiamo come sia evoluto il rapporto tra le due nel tempo, quindi, non è da escludere l’ipotesi di un attrito. Le prime immagini del personaggio dai capelli rosa, vestito di un elegante abito lungo, sono state diffuse a maggio ma la Dern non si è scucita sul suo ruolo nella saga, limitandosi ad esternare il proprio entusiasmo per aver preso parte al progetto in una puntata del The Ellen Degeneres Show. Sul personaggio di del Toro abbiamo meno notizie. Il suo nome è DJ e sembra un tipo piuttosto losco che potrebbe giocare un ruolo decisivo nell’aiuto offerto alla resistenza. John Boyega, l’interprete di Finn, ha detto a proposito: “Abbiamo bisogno di un codificatore e lui è il migliore nella galassia. Sfortunatamente non si tratta di un tipo affidabile, lavora solo per soldi. Non combatte per una fazione”. Anche Joseph Gordon-Levitt, attore feticcio di Johnson, avrà una piccola parte nel film ma solo in veste di doppiatore di uno degli alieni che affollano il Casinò di Canto Bight, uno dei giganteschi set di Ep. VIII che ha molto impressionato
Mark Hamill per grandezza e numero di comparse: «Si è trattato sicuramente di uno dei più colossali set su cui abbia mai messo piede». Ma Gli ultimi Jedi si segnala anche per la penultima interpretazione di Carrie Fisher – l’ultima è in Wonderwell (2017) dell’esordiente Vlad Marsavin – scomparsa il 27 dicembre 2016, giusto in tempo per terminare le riprese del film. Non è chiaro quello che succederà a Leia nel nuovo capitolo, a parte il fatto che questa avrà un ruolo decisamente maggiore che nel film precedente, ma sappiamo con certezza che, nel rispetto della memoria dell’attrice, la Lucasfilm non si avvarrà delle tecniche digitali per ricostruirne l’immagine nell’ep. IX, come invece era accaduto nello spin off Rogue One: A Star Wars Story (2016) all’attore Peter Cushing, deceduto nel 1994. Così recita un comunicato di gennaio da parte della produzione: “Solitamente non rispondiamo direttamente ai fan o alle speculazioni della stampa, ma ci sono voci in giro a cui vorremmo fare riferimento. Siamo decisi ad assicurare ai nostri fan che la Lucasfilm non ha alcuna intenzione di ricreare digitalmente la performance di Carrie Fisher in veste di Principessa o Generale Leia Organa. Carrie Fisher era, è, e sarà sempre parte della famiglia della Lucasfilm. Era la nostra principessa, il nostro generale e, cosa ancora più importante, nostra amica. La ferita della sua perdita è ancora aperta, conserveremo con affetto il suo ricordo come Principessa Leia e ci batteremo per onorare il suo lascito a Star Wars”. Alcune testate, tra cui il Daily Mail, hanno inoltre riportato la notizia secondo cui la Disney riceverà un indennizzo fino 50 milioni dollari in seguito alla morte della Fisher, come stipulato nel caso l’attrice non fosse riuscita a completare la trilogia. Del resto, non è difficile immaginare le difficoltà in cui devono essersi trovati autori e produttori dopo una notizia
che, con molte probabilità, ha costretto a significative modifiche nella lavorazione del IX capitolo. Solo (una questione di punti di vista) Il franchise di Star Wars è, letteralmente, un universo in continua espansione, tra libri, fumetti, serie animate, videogiochi, giocattoli, parchi a tema (grazie alla Disney) e quant’altro. Ad arricchire l’offerta, nel febbraio 2013 sono stati annunciati due spin off che sarebbero usciti tra un film e l’altro della nuova trilogia. Dopo Rogue One, uscito l’anno successivo al capitolo VII, il 25 maggio 2018 – almeno per quanto riguarda gli USA – sarà la volta di Solo: A Star Wars Story, dedicato alle peripezie di un giovane Han Solo, interpretato dal ventottenne Alden Ehrenreich. Il film ripercorrerà alcuni eventi che hanno segnato la vita del famigerato contrabbandiere e futuro eroe della Resistenza, come l’incontro con l’amico Lando Calrissian (Donald Glover), a cui Solo riesce a strappare, in un torneo di carte, il leggendario Millennium Falcon. Nel cast vedremo anche l’attore Woody Harrelson nei panni di un certo Beckett, truffatore e mentore di Han. Al di là della trama, la stessa lavorazione del film è stata qualcosa di rocambolesco e travagliato. In estate, a cinque mesi dall’inizio della produzione, viene diffusa la notizia del licenziamento dei due registi reclutati inizialmente, Philip Lord e Christopher Miller, autori dei fortunati Piovono polpette (2009) e The LEGO Movie (2014), in seguito a divergenze nate con lo storico sceneggiatore Lawrence Kasdan (L’impero colpisce ancora, I predatori dell’Arca perduta, Il ritorno dello Jedi) e la produzione, principalmente per via della libertà con cui i due di Piovono polpette, pare piuttosto inclini all’improvvisazione, si sono rapportati alla sceneggiatura originale e al piano di lavoro previsto, rischiando di portare la storia su binari lontani dalle idee della Lucasfilm. Dopo un periodo di pausa, al loro posto è subentrato il navigato Ron Howard, che in ottobre ha ultimato con successo le riprese, anche se non è ancora chiaro se il
regista di Apollo 13 abbia continuato, con i dovuti aggiustamenti, un lavoro già ad una buona fase di sviluppo o sia addirittura ripartito da zero come invece sostengono alcuni rumors. Ciò che conta, è che la produzione sembra soddisfatta della scelta. Ma Lord e Miller non sono gli unici ad essere stati licenziati negli ultimi mesi dalla Lucasfilm. A questi si aggiunge, tra gli altri, Colin Trevorrow, che avrebbe dovuto occuparsi della regia dell’ep. IX. Sembra che il regista, galvanizzato dal successo di un blockbuster come Jurassic World (2015), non abbia posto freni al proprio ego, arrivando ad una rottura con la Lucasfilm che ha così deciso di sostituirlo con il più mansueto J. J. Abrams. Per quanto riguarda invece Johnson e Gli ultimi Jedi, il verdetto sul lavoro di questo ottavo capitolo è ormai alle porte e dai risultati ottenuti dal trailer (120 milioni di visualizzazioni in sole 24 ore) è chiaro che l’attesa, a maggior ragione nell’anno del quarantesimo anniversario dall’uscita del primo Star Wars, è altissima.
DA GUERRE STELLARI A LA MINACCIA FANTASMA: EMOZIONI E MAGIA
Massimo Benvegnù
La sala, come un tunnel, si aprì all’universo Marguerite Yourcenar, Moneta del Sogno
Star Wars è stato come quando è arrivato McDonald, e il gusto per il buon cibo è sparito. Siamo entrati in un periodo di involuzione William Friedkin
Guerre stellari è il primo film che ricordo di avere visto in una sala cinematografica. Ero in prima fila, a due passi dallo schermo, avvolto da quel mondo fantastico che veniva proiettato davanti ai miei occhi. I miei genitori col cinema ci erano cresciuti e non avevano certo bisogno di nuovi eroi di celluloide. Avevano assistito agli assalti di John Wayne, ingaggiato duelli di fioretto con Errol Flynn, invaso non so quante volte la Francia per liberarla dai nazisti, con ogni mezzo: navi, sottomarini, tank. Ma la mia generazione non aveva ancora vissuto l’avventura: e ora era lì, davanti a me in una galassia molto lontana. La spada laser di Luke Skywalker era per noi l’equivalente della sciabola del pirata Errol Flynn, le grandi gesta di Han Solo erano figlie degli eccessi di Humphrey Bogart e di tutte le anime perdute nei bar dei porti di mezzo mondo (o per meglio dire, mezzo universo… in fondo che differenza c’è tra le semplici navi e le navi… spaziali?). Guerre stellari andava a sondare in profondità nel DNA cinematografico di una generazione che era cresciuta con il grande intrattenimento degli “Studios”, ma soprattutto andava a ripresentare le stesse tipologie ad una generazione che per
motivi anagrafici non era mai stata esposta a certi prototipi per i quali non aveva mai subìto fascinazione. Certo, George Lucas ha sempre ammesso di aver attinto a piene mani da quell’immaginario della memoria collettiva che era il cinema del passato di Hollywood, tant’è che lui e il suo grande amico e collega d’avventure Steven Spielberg si ritrovarono, alcuni anni dopo, ad inventarsi quel virtuoso e prezioso esercizio che risponde al nome de I predatori dell’Arca Perduta, dove però ad essere sezionato, analizzato e riutilizzato non è solamente il linguaggio “alto” del cinema, ma anche i tanti stereotipi che hanno popolato per decenni il cinema di serie B. Guerre stellari è questo ma anche altro, perché non di solo cinema si nutre l’universo lucasiano. Al suo interno c’è tutta la fantascienza pulp degli anni cinquanta, i cui unici effetti speciali erano le menti degli scrittori che si ritrovavano a disegnare un futuro che in certi casi pensavano più prossimo, e che in altri hanno azzeccato pienamente. Ci sono i fumetti, altro grande contenitore popolare di storie, che affascinò ed affascina tuttora chi per lavoro racconta storie attraverso le immagini. Insomma, Lucas si ritrovò a rimescolare in un grande calderone generi sottovalutati o considerati ormai obsoleti, e diede vita alla rinascita della fantascienza. Non dimentichiamo che, pochi anni prima di Star Wars, una serie adesso amatissima come Star Trek era stata cancellata dalla programmazione del network che la trasmetteva. Mentre adesso ha raggiunto praticamente il livello di un “culto” di media grandezza. Visto l’enorme successo del film (e possiamo solo immaginare gli incassi a Tatooine…), assieme al primo grande successo di Steven Spielberg, Lo squalo, Lucas diede inizio anche ad una stagione nuova per l’industria cinematografica, quella dei “blockbusters”, ovvero dei film dagli incassi multimiliardari. Intendiamoci, ad Hollywood hanno sempre fatto i soldi con i film. Solamente, non si erano mai resi conto esattamente quanti se ne potessero ancora fare creando filmevento come Star Wars. L’industria si era sempre basata su un semplice livello di domanda e offerta: gli studios producevano un tot di pellicole all’anno che erano viste da un considerevole
numero di persone, in un processo che assumeva, nel periodo di maggior splendore per le istituzioni Hollywoodiane, toni di serialità, dove lo studio, oltre alla qualità del film, doveva assicurare soprattutto una certa quantità di film distribuiti all’anno, per sopperire alle necessità del pubblico e degli esercenti, una vera e propria “fame di cinema” da parte degli spettatori. Quando questa situazione di equilibrio venne a mancare a causa di agenti esterni, come ad esempio l’avvento della televisione, che diventò in pratica il ricettacolo delle cosiddette produzioni di serie B (non nel senso spregiativo del termine, d’altronde Lucas, Spielberg e tanti altri trovarono proprio in esse le pillole per la loro crescita cinematografica), si ricercò sempre di più il cosiddetto fattore-evento, nel senso che l’esperienza filmica non diventava più semplicemente un momento di svago dove assistere ad uno spettacolo, ma “qualcosa di più”. Si veniva a creare quindi un indotto in cui rintracciare il vero motivo per cui si andava a vedere quel film, in molti casi collegato a qualche nuovo traguardo tecnico raggiunto (in contrapposizione al piccolo schermo in bianco e nero che ormai la faceva da padrone nei salotti e nelle sale da pranzo) che “bisognava assolutamente andare a vedere di persona”. Fu così, mettendola giù facile, che Hollywood iniziò a spingere sul colore, sullo schermo di grandezza superiore, sul suono di maggiore qualità, etc, fino ad arrivare alle estremizzazioni di oggi e agli altisonanti nomi che ci sono ben familiari: dolby digital, THX, IMAX e così via (e dietro il successo di alcune di queste sigle c’è molto spesso lo stesso Lucas…). Ormai non bastava più il nome della star a caratteri cubitali sul cartellone, né qualche foto lasciva di una bella donna che prometteva “magnifiche visioni”… Il cinema di colpo ritorna ad essere quello che era nel momento della sua nascita: un grande baraccone tecnologico. In fondo i parigini della fine del secolo scorso accorrevano a frotte alle proiezioni dei film dei fratelli Lumière e di Georges Méliès proprio per ammirare questa diabolica nuova tecnologia… com’era possibile che quel treno corresse su un lenzuolo bianco? Come faceva quell’uomo a scomparire all’improvviso? Il minuscolo diventava immenso, e allo stesso tempo intere folle, porti,
stazioni riuscivano ad essere contenute in una sola parete. La Magia del Cinema. Ci vollero anni perché il pubblico arrivasse all’assuefazione. E ancora oggi, alzi la mano chi, in tenera età, non si è comunque lasciato incantare da quella magia. Certo, adesso i piccoli hanno da subito il televisore a colori, il videoregistratore, il computer, i videogames… ma allora spiegatemi, come mai la Walt Disney non è ancora andata in bancarotta? Ve lo dico io, funziona ancora. Parlavo prima del concetto di film-evento, concetto che è errato limitare solamente a film come Guerre stellari. Diciamo invece che Guerre stellari è un caso limite, visto che in sé ogni film è, anche, un evento, nel senso che di esso noi possiamo studiare la sua forma e contenuto, ma possiamo anche analizzarlo dal punto di vista dell’incidenza su un determinato periodo storico. Un film può aver influenzato il costume di un’epoca, aver inciso sulla morale, sui comportamenti, può aver lanciato mode, idee, diffuso libri e pensieri, ma anche tagli di capelli, capi d’abbigliamento, costumi di carnevale, etc. È un modo nuovo di intendere lo studio della materia cinematografica, che, certo, al giorno d’oggi va preso seriamente in considerazione, visto il panorama attuale, dove ogni film si trascina dietro una campagna promozionalepubblicitaria di dimensioni a volte anche maggiori rispetto a quelle del film stesso, durante la quale si viene travolti da trailers, spots, gadgets di ogni tipo, libri, dischi, magliette, spillette e sponsorizzazioni di fast-foods. Certo, devo ammettere che la vita del futuro critico cinematografico diventerà sempre più triste (dal mio punto di vista) se dovrà passare dall’analisi di Metropolis di Fritz Lang o di Sentieri Selvaggi di Ford allo studio applicato sui bicchieri dei McDonald’s, ma in fondo così vanno le cose (un consiglio alle giovani generazioni già alla caccia di reperti filmici presso i vari fast-foods: lavate sempre bene il vostro oggetto di studio. Non lasciate macchie di ketchup o gocce di Coca-Cola su quello che diventerà il prezioso reperto di un evento cinematografico…). Non ho ancora visto i saggisti che appaiono in questo libro rovistare tra i rifiuti di Burger King… ma vorrei spendere una parola anche su di loro.
Molti di loro fanno parte della generazione di chi ha visto Guerre stellari al cinema per la prima volta in tenera età e ne è rimasto folgorato. Certo, alcuni sono rimasti, nonostante la crescita, grandi appassionati di “Science Fiction” e dell’universo di Luke Skywalker e Darth Vader, mentre altri hanno con gli anni assunto una posizione più critica nei confronti della Saga lucasiana. Questo gruppo di critici “attorno ai trent’anni”, per dirla con una canzone, fanno parte di quella generazione che non è cresciuta solamente con il Primo e Secondo canale. Hanno conosciuto il “boom” delle televisioni private, vere e proprie miniere di immagini nuove per il nostro paese alla fine degli anni settanta, hanno visto nascere il fenomeno dei videogiochi, prima da bar (ci si commuove pensando a “Pong”…) e poi le prime mitiche “consolle”, antenate delle odierne playstation; si sentivano padroni del mondo possedendo un computer con 48 K di ram, mentre oggi svariati gigabytes non bastano più, hanno imparato a leggere con Topolino, ma non erano troppo vecchi per leggere i “manga” giapponesi, quando questi hanno iniziato a sbarcare in Italia, e adesso sono quasi tutti navigati utenti di Internet, la Rete delle Reti. Questo per dire che la generazione qui scesa in campo è stata decisamente “plasmata” dalle immagini, in qualunque forma si presentassero loro. Non è un caso quindi che si trovino a parlare dell’opera più famosa di un’altra generazione, quella dei “baby boomers” americani che ha dato al cinema registi come Lucas, Spielberg, ma anche Coppola, Bogdanovich, Scorsese, De Palma, anch’essa cresciuta a forti dosi di immagini. Questi giovani critici provengono in larga parte da quelle facoltà dove oggi, in Italia, si studia Storia e Critica del Cinema, materia ormai non più vista con quel fare di sufficienza dalle altre cattedre, ma giunta ad un buon livello di maturità ed incidenza all’interno dell’università italiana, grazie al lavoro di un gruppo di docenti che in diverse parti d’Italia, con spirito a volte decisamente pionieristico, sono stati capaci di creare delle isole felici e funzionali nelle quali poter finalmente “studiare cinema”. A loro va il nostro grazie per averci “aperto la strada”.
Guerre stellari è anche un film “generazionale”; è forse per questo che avevo un po’ di timore verso il nuovo episodio della Saga. Perché penso che forse non appartenga più a me, bensì ad una nuova generazione di “figli”. In fondo, quando è uscita nelle sale qualche anno fa la riedizione dei primi tre episodi, lo slogan che li accompagnava diceva “per tutti quelli che non li hanno mai visti al cinema”. Ecco, io li avevo già visti. George Lucas mi ha dato del “vecchio” a venticinque anni. Grazie George, dopo tutti questi anni… È vero, nel frattempo lo schermo cinematografico è diventato per me qualcosa di più, se possibile, di quella finestra su un mondo magico. Dopo quel “battesimo di luce”, noi piccoli spettatori siamo cresciuti e abbiamo iniziato a camminare con i nostri piedi e a guardare con i nostri occhi, abbiamo scoperto “classici” attraverso la programmazione di certe reti tv, abbiamo iniziato a cercare i “nostri” eroi, i nostri simboli all’interno di quello che il cinema poteva offrirci. Sì, è vero, abbiamo visto anche Top Gun e Beverly Hills Cop, ma poi ci siamo emozionati con le avventure degli Intoccabili, siamo saliti sui banchi dell’Attimo Fuggente, abbiamo scoperto un “lato oscuro della Forza” molto più terreno grazie a Quei Bravi Ragazzi. Siamo riusciti insomma a crearci un percorso formativo a base di cinema “popolare”, anche in questi anni così marcatamente consumistici. Poi, è vero, è giunta la febbre da militante di cineclub… abbiamo divorato chilometri di Greenaway, chili di Kubrick, montagne di “indipendenti” americani. Riuscire, oggi, anche solo per un attimo, a farci ritornare alla gioia e all’ingenuità del passato, a quello stato di meraviglia di quella prima visione, sembra davvero una missione impossibile anche con tutti gli sforzi della imponente “Industrial Light & Magic”… Eppure, giocando con la nostalgia (barando, quindi… ma va bene lo stesso), Lucas in qualche modo riesce a muoverci qualcosa dentro. Perché, quando in La minaccia fantasma entra in scena, per la prima volta, il nostro vero grande beniamino dell’infanzia, C1P8 (chi se ne fregava veramente di Luke Skywalker e di Han Solo da bambino), e Lucas, perché sa che nel frattempo noi ci siamo documentati sul cinema, gli
dedica nientemeno che un “primo piano” dove il piccolo robottino muove la “testa” e, probabilmente, guarda in camera lanciando i suoi famigerati fischietti… beh, in quel momento a Lucas riesce un piccolo miracolo, perché riesce a soddisfare queste due anime che convivono assieme da tutti questi anni: lo spettatore ormai scafato e il ragazzino che ritrova la meraviglia perduta. Nella speranza che tra il pubblico, oggi, ci sia un piccolo spettatore (o una piccola spettatrice) che, grazie a questo film, scopra tutta la magia del cinema…
UNA NUOVA SPERANZA Ogni saga ha un suo inizio. La saga di Guerre Stellari per me è iniziata una domenica pomeriggio in una galassia ormai molto lontana, quella di un cinema della provincia veneta. Avevo sei anni e Guerre Stellari è il primo film che ricordo di aver visto al cinema. Vent’anni dopo, molti film dopo, un’altra saga aveva inizio, quella della prima edizione di questa guida. Era la primavera del 1999 e stavo finendo la mia carriera universitaria, quando ricevetti una chiamata dagli editori. La sfida era riuscire a completare un prodotto editoriale in un tempo ristrettissimo - poco più di un mese - prima dell’uscita sugli schermi italiani di La Minaccia Fantasma, l’attesissimo (allora) sequel a quella prima storica Trilogia. Con l’incoscienza tipica della gioventù, invocai la Forza e accettai l’incarico. La prima decisione che presi, una volta al comando di quel Millennium Falcon cartaceo, fu di coinvolgere principalmente miei coetanei, quelli diventati ufficialmente “vecchi” in quel 1997 in cui George Lucas decise di ri-distribuire nelle sale i primi tre film al grido di “per tutti quelli che non li han mai visti sul grande schermo”.
Episode I in America era uscito a maggio: forse siamo stati il primo libro nella storia dell’editoria cinematografica italiana in cui per documentarsi si utilizzò un file scaricato da Internet… i tempi sono indubbiamente cambiati. Nell’introduzione al tomo dell’epoca, con veggenza sorprendente, parlai di Walt Disney, di primi piani a un robot, della nascita di una cinefilia al femminile anche per Star Wars (In un universo allora quasi totalmente maschile come quello della fantascienza, la guida del 1999 totalizzava circa un terzo di donne tra i suoi autori). Visto il 2016 di J.J. Abrams, Rey e BB-8, direi di essere stato fin troppo saggio e premonitore. La stessa saggezza che mi fa lasciare il passo, come in ogni saga generazionale che si rispetti - e Star Wars è, soprattutto, una saga generazionale, ormai non solo nel contenuto ma anche nella forma - ad una nuova curatela, ad una nuova forma editoriale, a nuovi contenuti, ad una nuova speranza.
LUCAS SU LUCAS Massimo Benvegnù e Giovanni Buggio
ESPERIENZE GIOVANILI Non mi sono mai occupato realmente di film fino all’epoca del college. Non pensavo nemmeno ai film, ero molto più interessato alle macchine. Mi sono avvicinato al cinema al college, e da allora ne sono uscite storie di tutti i colori, ma quando avevo dieci anni sognavo di guidare a Le Mans, Montecarlo od Indianapolis. Non c’è stato qualcosa in particolare che mi abbia ispirato da bambino riguardo a quello
che ho poi fatto da adulto, se non il fatto che ero estremamente curioso sul perché la gente facesse ciò che fa. E mi ha sempre interessato molto conoscere le motivazioni della gente. E raccontare storie, costruire cose. Da giovane, i miei anni di teen-ager sono stati dedicati completamente alle auto. Sono state la cosa più importante della mia vita dai 14 ai 20 anni.
IL RITO D’INIZIAZIONE Il crocevia della mia carriera l’ho incontrato molto presto. Ho avuto un incidente d’auto. Prima di quell’evento non ero mai stato un buon studente. Non avevo molto a fuoco la mia vita. Sono passato attraverso un incidente a cui non sarei mai dovuto sopravvivere. E durante questa esperienza, scoprii che ci doveva essere un motivo se ero lì, e che sarebbe stato meglio per me scoprire qual era, e che avrei fatto bene a trovare quale fosse il mio talento, cosa fosse ciò che amavo fare nella vita, ed anche che avrei dovuto realizzarlo. Questo mi ha motivato molto direttamente, e mi ha indirizzato definitivamente alla ricerca di ciò che amavo, e alla svolta verso la cinematografia. LA SCUOLA I miei genitori sono stati molto importanti. Ci sono stati tre o quattro insegnanti che mi hanno ispirato. Non ero particolarmente bravo in inglese - non è che mi piacesse molto - ma ho avuto un insegnante di inglese che era veramente brillante, Mr Fagan. Non so se mi abbia insegnato molto, ma mi ha sicuramente spinto ad essere creativo e a scrivere. E quando pensi ai tuoi migliori insegnanti, sono più persone che hai preso d’esempio e che ti hanno ispirato, piuttosto che persone che ti hanno comunicato delle nozioni. Mr. Fagan insegnava alla Downey High School, a Modesto, in California.
Era un insegnante molto esuberante, acceso, insegnava ai ragazzini direttamente al loro livello. Era un insegnante di letteratura e grammatica inglese. E poi alle superiori, ero molto interessato alla storia. “Perché la gente fa ciò che fa”, è una specie di “come l’hanno fatto in passato”. Da bambino ho passato un sacco di tempo cercando di collegare il passato al presente
LA MIA GENERAZIONE Io credo che il grande vantaggio della mia generazione sia questo: quando eravamo alla scuola di cinema, e tentavamo di entrare nel business, le porte erano tutte chiuse, e c’era un bel muro alto alto, e nessuno ce la faceva ad entrare. Così tutti noi barboni e mendicanti che stavamo davanti ai cancelli, abbiamo deciso che o facevamo gruppo, o non saremmo mai sopravvissuti. Se uno di noi ce l’avesse fatta, avrebbe aiutato tutti gli altri a farcela, e da allora ci saremmo aiutati a vicenda. Così ci siamo riuniti. Credo che ogni società inizi così, i cavernicoli se la immaginavano così. Tutte le società iniziano con la comprensione del fatto che insieme, aiutandoci l’un l’altro, possiamo sopravvivere meglio che lottando gli uni contro gli altri. Le culture agricole, ed anche le prime società cacciatrici. Tutto comincia in città - stato, ma poi manifestiamo la tendenza a perdere il collante quando ci scordiamo che come gruppo siamo più forti che come singoli individui. Iniziamo a pensare di volere tutto per noi stessi, e che non vogliamo aiutare nessun altro. Vogliamo il successo, ma non ci va che qualcun altro possa averlo a sua volta, perché vogliamo essere gli unici vincitori. Una volta acquisita questa mentalità - che è quella che va per la maggiore in gran parte della nostra società - si perde sempre. Non si può vincere in questo modo. Io e i miei amici… parte del nostro successo lo dobbiamo al fatto di esserci sempre aiutati l’un l’altro. Se io trovavo lavoro, aiutavo subito qualcuno di loro a fare
altrettanto. Se qualcuno aveva più successo di me, era anche per merito mio. Così, il mio successo non dipendeva da come riuscissi a schiacciare chi mi stava attorno, ma da come riuscissi a portarlo in alto. E per loro era la stessa cosa. Nel corso del tempo, ci siamo spinti in alto a vicenda, e continuiamo a farlo. Anche se, alla fine, abbiamo aziende concorrenti, se i miei amici ce la fanno, allora tutti ce la fanno. Questa è la chiave, cercare di farcela tutti quanti, senza che qualcuno si diverta al fallimento altrui. E continuiamo a farlo, anche con i giovani registi. Nessun tentativo riesce senza l’aiuto degli amici, e tentare di essere sempre il numero uno è, alla fine, un’idea perdente. Hai bisogno di tuoi pari, di persone che siano al tuo stesso livello. Nella vita non sai mai quando potrai avere bisogno di aiuto, né da chi. Uno dei temi più ricorrenti delle fiabe è quello del povero che chiede aiuto dal bordo della strada, che, se aiutato, si rivela la chiave del successo del protagonista. Se invece non lo si aiuta, si finisce trasformati in una rana o in qualcos’altro. È un’idea che è in giro da migliaia di anni, e che si rivela ancora più utile adesso che la gente è più presa dalla propria espansione personale piuttosto che dall’aiutare gli altri. Non credo che ci sia qualcuno che sia arrivato al successo e non comprenda l’importanza del far parte di una più ampia comunità, dell’aiutare altra gente nel gruppo, di dare al gruppo qualcosa in cambio. E non è una cosa che fai quando ormai sei arrivato; la si fa quando si è ai livelli più bassi, e si sta ancora lottando. Quando eravamo alla scuola di cinema, eravamo tutti molto poveri, ed avevamo tutti un bisogno disperato di lavorare. Se uno di noi non riusciva ad avere un determinato lavoro, ci si mandava un altro, nella speranza che almeno uno ce l’avrebbe fatta. Si fa così fin dal principio. Puoi cominciare aiutando ogni giorno tuo fratello o tua sorella, o i tuoi compagni di scuola, o la comunità. Ma non è solo una sorta di servizio pubblico, è un modo di vivere. Poi impari quanto è bello, e che, aiutando gli altri, ottieni di più. È molto più logico aiutare gli altri a raggiungere il livello di ognuno, piuttosto che criticare, o prendere in giro, così tutti hanno la possibilità di muoversi. E se lo fai ogni volta, la cosa ti aiuta da un punto di
vista personale. È comunque una buona decisione per gli affari - mettiamola così. La cosa più importante è che ti senti meglio con te stesso, e sei una persona più felice. Se l’America è la ricerca della felicità, il modo migliore per inseguirla è aiutare le altre persone. Non c’è cosa che ti renda più felice. Puoi essere ricco, famoso e potente quanto vuoi, e questo non ti renderà felice. È già stato detto mille e mille volte, è un tale luogo comune che quasi non serve dirlo, ma la gente non capisce che è vero. Puoi trovare ricchi, famosi e potenti che non sono affatto felici, e trovare gente che ha scoperto che è l’aiutare gli altri, l’essere compassionevoli verso gli altri che ti rende felice, che ti appaga spiritualmente, di un tipo di appagamento che va al di là di qualunque cosa tu possa comperare. È un’idea vecchia di cinquemila anni, ed ogni profeta, ogni persona intelligente, razionale e capace l’ha ribadita. E la cosa più importante è che è vera.
IDEE Ho un sacco di idee, e voglio essere capace di lavorare. Quando ho girato American Graffiti mi sono detto “finalmente ce l’ho fatta”. Sono un regista. Penso che non morirò di fame e penso che se va bene potrò realizzare tutte le idee che voglio. Per quanto mi riguarda, è come uno di quei concorsi in cui hai cinque minuti dentro un supermercato per prendere qualunque cosa tu voglia dagli scaffali, e cerchi di riempirti il carrello più che puoi. Io guardo così al mio lavoro: ho un supermarket pieno di idee, e la sfida è quante riuscirò a realizzarne prima di dovermene andare. American Graffiti è stata la possibilità di dire “okay, hai il carrello, te ne andrai in giro per il supermarket. Adesso è solo una questione di lanciarsi e arraffare quante più idee puoi. Non è un problema di modestia, è il fatto che mentre lo fai non ti concentri sul successo, né sull’appagamento o su cose del genere. Cerchi semplicemente di realizzare tutte le cose della tua vita che vorresti.
IL REGISTA E LO SCRITTORE Arrivai ad un punto in cui ero in grado di fare un primo film. E la persona che mi stava aiutando, Francis Ford Coppola, mi disse: “se vuoi farcela in questo mestiere, e vuoi diventare un regista, devi imparare a scrivere. Devi imparare a stendere da solo la tua sceneggiatura, e a farla funzionare bene”. Io risposi: “non mi piace scrivere, non voglio fare le sceneggiature da me, preferisco procurarmi uno scrittore e farlo fare a lui”. E lui, di rimando: “non puoi avere uno scrittore, dovrai farlo da solo, e devi scrivere questa sceneggiatura”. Mi diede parecchi suggerimenti, e a volte un amico veniva a darmi una mano: era l’addetto al suono del film, ed anche un mio compagno di scuola, così ci lavorammo insieme, ma scrivere non era proprio cosa per me. Ad ogni modo, ce la feci, e nel film successivo, American Graffiti, finii per stendere da solo la sceneggiatura, perché sapevo che così andava fatto. Se vuoi dirigere, devi scrivere. Ed è utile, perché l’intero nocciolo del fare un film parte con il soggetto, e con l’idea che contiene. Se arrivi a questo, allora tu stesso sei il tuo studio, e nessuno può più fermarti, perché ti basta una matita ed un blocco e sei già sulla buona strada. Puoi creare, e se sei veramente bravo, alla fine riuscirai a mettere insieme qualcosa che potrai vendere, o a trovare qualcuno che voglia rischiarci su dei soldi. Così arrivi a fare il film vero e proprio, che è la cosa che preferisco. Mi piace il montaggio, ed il girare vero e proprio, ma con l’andare del tempo, ho imparato ad amare ogni singola parte del processo, e adesso la maggior parte del mio tempo la passo a scrivere; e per il resto, di tempo me ne resta veramente poco…
ANTROPOLOGIA (E FLASH GORDON)
Fin dai tempi dei miei studi in scienze sociali, mi sono sempre interessato alla mitologia. Ho seguito un corso di antropologia che riguardava il rapporto tra mito e cultura. Volevo creare una sorta di mitologia moderna, che si rivolgesse ai giovani. Amo lo spazio, amo la velocità, ed ho amato Flash Gordon da bambino: queste sono state le mie fonti di ispirazione, ma ci sono voluti due anni interi di lotta solo per riuscire a scriverle. Sono certo che ognuno abbia il suo metodo personale; il mio è più o meno così: so che c’è un film lì, posso anche vederlo, solo che non riesco a vederlo ordinatamente, né chiaramente. Allora provo a guardare attraverso la nebbia, e all’improvviso, ecco che appaiono una scena o due, e le metto giù. Ma poi c’è ancora nebbia, e pezzi che non sono mai al posto giusto. Continuo ad andare avanti, ed inizio a vedere che una cosa ha il suo posto qui, l’altra invece là, e finalmente riesco a vederlo come un tutt’uno. Ho fatto diverse bozze per Guerre stellari, e mente alcune idee, immagini, temi sono in qualche modo usciti da sé, calzando già a pennello, molte delle parti “di connessione” non giravano affatto. Non riuscivo ad immaginarmi bene come funzionasse la storia, ma se ci si sta su abbastanza, sudandoci quanto basta, alla fine si può quasi vederlo, il film su cui si lavora. Una volta terminata la sceneggiatura, io posso “far scorrere” il film nella mia testa, ed è come se lo avessi già visto. Così, quando vado a dirigerlo o a montarlo, so già come sarà. Il problema è che il film reale spesso non esce bene come quello della tua testa. C’è un sacco di frustrazione nei compromessi che sei obbligato ad accettare, o in tutte quelle cose che non vanno come avrebbero dovuto. Devi imparare a convivere con tutto questo. Anche sulla scrittura, devi imparare che una volta iniziato a scrivere, i personaggi cominciano a “parlarti”, e che se hai messo in piedi delle situazioni e creato personaggi diversi, saranno loro a raccontarti la tua stessa storia. Allora non puoi più dir loro cosa fare, perché si rifiuteranno di farlo; ti diranno: “no, non sono quel personaggio, io non mi comporto così, io faccio quest’altra cosa”. E ciò ti conduce lungo una via. Hai questi flash di immagini o di momenti, e
poi entrano i personaggi. Una volta che hanno preso vita, ci vuole un po’ prima che possano avere proprie opinioni sulle cose. Quando le acquisiscono, però, è come se tu ti sedessi e guardassi il film, ed è così che arrivi alla bozza finale della sceneggiatura. Poi passi il tutto alla vita reale, ed entrano in campo forze di tutt’altra misura. Ti devi muovere, ed adattarti all’ambiente del momento. Sai, l’attore oggi non è ben disposto, o non fa la tal cosa, o questa non si mette come ti eri aspettato, o piove. Quando giri un film, nel corso di un giorno possono succedere un sacco di cose a cui ti devi adattare. Siccome non ti puoi mai veramente fermare, spesso sei costretto a dire “va beh, facciamo così”. Puoi cambiare il tuo programma, puoi prendere la misura. Ma all’improvviso ti ritrovi a cambiare l’aspetto generale, o l’azione, per conformarti ad una cosa qualunque; se è una bufera, dici “okay, la riscriviamo in modo che si svolga in una bufera”. E poi ti prende la mano. Devi accettare il fatto che entrano in campo altri elementi, su cui non hai il totale controllo. Penso che gran parte del lavoro di fare film sia nell’abilità che uno ha di affrontare le sfide che si ritrova ogni mattina quando va al lavoro. La cosa importante è quanto le si affronta per il meglio, quanto si riesce a non perdere di vista il tema principale del film, i tratti dei personaggi più rilevanti, l’intreccio. Il trucco sta nell’usare ciò che ti ritrovi contro ogni giorno per rafforzare il film, invece che per distruggerlo. La tua battaglia la combatti qui, e questa è la parte difficile, quella che ti fa tornare a casa stanco alla fine della giornata.
IL MITO Sono giunto alla conclusione che il mio lavoro è di creare dei modelli, non di mostrare alla gente il modo in cui va il mondo, perché lo sanno già. Una cosa che però l’arte può fare è indicarti come le cose dovrebbero andare, per spingerti a dire “questo è il mondo che vorremmo, e queste sono le persone
che ci piacerebbe essere”. È l’altro lato della medaglia del “così va il mondo”. Più o meno all’epoca di questa intuizione, mi accorsi che ai nostri giorni proprio non si faceva uso della mitologia. Mi sembrava che ci fosse una rottura, nelle fiabe moderne, nei miti, nel raccontare storie in generale, tra padri e figli. L’epopea western era probabilmente l’ultima storia di respiro americano; che ci parlasse, cioè, dei nostri valori. Dopo che ebbe esaurito il suo ciclo, però, non era stata sostituita da qualcos’altro. Sul fronte letterario si faceva avanti la fantascienza, che manifestava più un’attrattiva intellettuale, rispetto al ruolo di tradurre i valori fondanti una società in una forma più accessibile ai giovani. Questi valori non sono innati, ma si tramandano… Le cose importanti da dire, sono cose che vanno ripetute e ripetute generazione dopo generazione, altrimenti una di queste se le perde, e per sempre. Così mi sono dato anima e corpo alle ricerche su fiaba, folklore e mitologia, ed ho cominciato a leggere i libri di Joseph Campbell. Fu curioso, perché, leggendo L’eroe dai mille volti, iniziai a rendermi conto di quanto la mia prima bozza di Guerre stellari richiamasse temi classici; sembra che questi profondi elementi psicologici siano presenti in tutti, e che lo siano stati per migliaia di anni; del resto la psicologia umana non è cambiata di molto. Qualunque sia la struttura mentale, le cose non cambiano. Così ho modificato la successiva bozza di Guerre stellari sulla base di ciò che avevo imparato sui temi classici, per darle un po’ più di corpo. Intanto ho continuato a leggere Le maschere di Dio, e molti altri libri del genere. Mi chiedevo “Quali sono i tratti comuni di tutti questi miti”. È più facile a dirsi. Ci sono trame di concetti psicologici, che si insinuano attraverso differenti miti. Ho cercato di condensarli, e di inserirne un concentrato nella mia scrittura, in un modo che potesse però essere recepito da un dodicenne. Del resto, la mitologia si è sempre servita dell’immaginazione, nella misura in cui era necessaria a raffigurarsi eventi meravigliosi, che non accadono nella vita normale, e che di solito si svolgono in terre di frontiera. Allora mi sono chiesto anche “dov’è la frontiera oggi ?”. Beh! posso starmene in cortile, alzare il naso e domandarmi “chissà cosa
c’è lassù”. E questo è ciò che considero alla base di tutte le mitologie, cioè qualcuno che se ne sta in piedi a guardare l’orizzonte e a dirsi “chissà cosa c’è laggiù, oltre le colline”… e poi “ci farò su una storia, su quello che c’è laggiù, oltre le colline”. IL FUTURO DEL CINEMA Credo che ci saranno maggiori possibilità di accesso all’intrattenimento da casa, con il sistema della pay per view. Ci saranno film di fascia molto ridotta, in termini di pubblico cui si rivolgono. Avremo la possibilità di vedere una gamma di film molto più ampia, e penso che questo sia fantastico. Potremo reperire materiale di consultazione con l’interattività dei sistemi multimediali, giochi, musica, e tutto questo convergerà. Si potranno avere diversi elementi narrativi, ed occasioni di interattività che renderanno il tutto più simile ad un gioco. E ci saranno spettacoli, come quelli musicali, che saranno principalmente d’ascolto, ma avranno immagini di accompagnamento, e la possibilità di interagire.
GLI ATTORI DIGITALI Abbiamo comunque un sacco di attori umani nel film. Gli strumenti digitali sono ottimi per quelle cose, come alieni o robot, che si possono creare e, per cui non si possono utilizzare gli attori. In ogni caso, usiamo gli attori per le voci, e per i personaggi digitali, l’animatore diviene egli stesso l’attore, dovendo usare le stesse identiche abilità. Gli attori ci sono, è solo che lavorano in un modo diverso da quello a cui siamo abituati. Resta comunque infinitamente più conveniente utilizzare un attore in carne ed ossa, piuttosto che crearne uno, e credo che sarà sempre così. Questo garantisce l’arte della recitazione per almeno un altro millennio.
AMBIZIONI Per quanto riguarda me e la compagnia, le ambizioni che ho sono un po’ diverse da quelle delle altre persone. Non sto di sicuro cercando di fare cinquanta film in un anno; sono riuscito a malapena a mettere insieme le cose che volevo fare da un punto di vista artistico. Avrei un sacco di film da fare, è solo che non ho abbastanza tempo per realizzarli; mi piacerebbe vivere fino a centocinquanta anni!
SCRIVERE E GIOCARE Quando si gioca, il che è molto simile a quando si scrive, cioè si lavora di fantasia, si creano cose da cui si è emotivamente attratti. Pensare di poter essere amici di una creatura pelosa di due metri e mezzo, o di un robot senziente alto sessanta centimetri, e che in questo ci possano essere significati per nulla apparenti, è una cosa importante da superare sul piano emotivo. Darth Vader e i suoi alleati erano semplicemente persone che avevano perduto la loro umanità. E contro di loro andavano messe persone che conservavano i propri lati umani, senza dare importanza a cose come forma, dimensioni, colori, aspetto.
PASSIONI Quando ero piccolo non ne avevo. Crescendo ho coltivato molti interessi. Mi piaceva lavorare con il legno, costruire le cose. Mi piacevano le auto, e mi piaceva l’arte.
Durante i miei primi anni di college, mi interessavano molto le scienze sociali, l’antropologia, la sociologia, la psicologia, questo genere di cose. Conservavo il mio interesse per l’arte e la fotografia. Non sapevo ancora che avrei potuto metterle tutte insieme in un’unica occupazione, e che l’avrei amata. Mi sono voluto trasferire ad una scuola d’arte, e sono finito per andare alla University of Southern California. Lì avevano una scuola di cinema, ed io mi dissi “beh! Assomiglia alla fotografia, forse potrebbe essere interessante”. E una volta iscrittomi a quel corso, scoprii che era quella la cosa che amavo, ed in cui ero bravo. E mi resi conto che poteva riuscirmi bene, e che mi divertiva. Accese veramente una passione in me, e tutto partì da lì. Dopo questo, non ho fatto nient’altro che film. Ripensandoci adesso, se fossi andato alla scuola d’arte, o avessi continuato antropologia, probabilmente sarei finito comunque a fare film. Non importa quale strada avessi preso, sono quasi certo che ci sarei finito in ogni caso. Per lo più ho seguito le mie passioni, e mi sono detto “mi piace questo, mi piace quello”, continuando ad andare avanti dove quelle cose si facevano più calde, finché mi sono trovato in un posto bollente, ed ero là.
EMOZIONI Penso che giudicare emozionanti i film sia una cosa estremamente personale. È un lavoro molto duro. E non è poi così glamour, è soltanto un modo semplice per esprimere delle idee. Io sono più una persona orientata verso la visualizzazione che verso la verbalizzazione. Per me l’emozione sta nel fatto che ho trovato un modo per raccontare una storia come volevo, con un medium che sapevo gestire come volevo.
Penso che sarebbe stato molto difficile per me se avessi provato a fare qualcos’altro, perché, anche se scrivo sceneggiature, non credo di essere un buono scrittore. Ho un grande interesse per lo studio delle culture e delle questioni sociali, ma non credo che avrei avuto molto successo come accademico. Credo che si debba trovare ciò in cui si è bravi, e andare in quella direzione. Ognuno di noi ha del talento, è solo questione di continuare a girare fino a che non si scopre in che cosa. Il talento è una combinazione di qualcosa che ami, di qualcosa in cui ti puoi perdere - qualcosa che puoi iniziare alle 9.00 di mattina, alzare gli occhi dal tuo lavoro ed accorgerti che sono le 10.00 di sera - e qualcosa che sei naturalmente portato a fare bene. E di solito le due cose vanno insieme. Sai, molte persone amano fare una determinata cosa, ma non riesce loro abbastanza bene. Bisogna continuare sulla strada delle cose che ci piacciono finché non incontriamo qualcosa che sappiamo fare veramente bene. Può essere qualunque cosa. Ci sono un sacco di cose là fuori, è solo una questione di girare finché non si trova quella giusta, una nicchia grande abbastanza.
IL “COSA” E IL “COME” Imparare a fare film è facile; il difficile è imparare su cosa farli. La prima cosa da fare è cercare di imparare più cose possibili sulla vita e sui suoi differenti aspetti. Poi devi imparare le tecniche con cui si crea un film; e queste cose puoi impararle abbastanza in fretta. Ma avere una buona comprensione della storia, della letteratura, della psicologia, delle scienze è molto importante per poter realmente fare un film.
SUCCESSO
Se vuoi avere successo in un particolare campo, penso che la perseveranza sia un elemento chiave. Sai, è importante trovare qualcosa che ti interessi, per cui hai una grande passione, perché dovrai dedicarci gran parte della tua vita. E devi davvero focalizzartici su, perché dovrai affrontare un sacco di ostacoli, e di gente che dice che non ce la puoi fare. E dovrai prendere un bel po’ di rischi. Lavorare duro è molto importante. Devi trovare qualcosa da amare abbastanza per essere capace di affrontare questi rischi, per passare oltre questi ostacoli, per saper attraversare i muri che ti si pareranno davanti sempre. Se non hai questo sentimento verso la cosa che fai, ti fermi al primo grande ostacolo che incontri. Così, io credo che non ce la si possa fare se non si persevera. Se non si è capaci di superare molti grandi ostacoli. Penso che sia una delle più importanti caratteristiche riguardo al lavoro in generale.
IL LAVORO E importante lavorare duro. Senza lavorare duro non si arriva da nessuna parte. Non importa quanto sembri facile visto da fuori, è una lotta molto dura. Sai, la parte della vita di una persona in cui c’è la lotta, non si vede. Si vede soltanto il successo che ha. Ma non ho mai incontrato nessuno che non abbia saputo descrivermi anni ed anni di durissima lotta nel tentativo di raggiungere una meta, qualunque fosse. Non c’è modo di aggirare questo ostacolo. Il segreto è non perdere mai la speranza. È molto difficile, perché se stai facendo qualcosa che ha veramente importanza, credo che verrai spinto sull’orlo della disperazione prima di uscire dall’altra parte. Devi essere capace di resistere. Ho avuto molti più bassi che alti nella mia vita. E molte più battaglie. Prima di tutto, quando mi iscrissi alla scuola di cinema tutti mi dicevano “che cosa stai facendo? Questo è un vicolo cieco per la tua carriera”, perché nessuno
ce l’aveva mai fatta ad entrare nella vera industria cinematografica da una scuola di cinema. Potevi riuscire a trovare un lavoro alla Lockeed, o in qualche altra industria, ma nessuno allora riusciva ad entrare nel settore dell’intrattenimento. Tutto sommato io non ero interessato ad entrarci, così non ci diedi molta importanza. Ero più interessato a fare i film in sé, a tornare a San Francisco per fare film sperimentali, quel genere di cose. E forse anche dei documentari. Non mi importava. Poi ho finito la scuola, sono tornato a San Francisco, e tutti mi hanno detto: “perché vai a San Francisco ?”. Io ho risposto: “è lì che vivo”. E tutti: “è assolutamente impossibile lavorare nel cinema vivendo a San Francisco”. Così ho detto: “voglio vivere dove mi va. E farò dei film, perché amo fare film”. Ed ho lottato… voglio dire, mi ci sono voluti anni per far partire il mio primo film. Adesso, quando parlo con gli studenti, dico loro: “il lavoro più facile che mai dovrete affrontare sarà fare il vostro primo film”. E quello più facile da trovare, perché nessuno sa ancora se siete veramente in grado di fare un film o no. Avete fatto un mucchio di progetti, avete dimostrato talento, e avete pure parlantina, e siete riusciti a convincere qualcuno che dovreste avere una occasione; loro ve ne danno una. Dopo che avete sfruttato quella occasione, allora avrete il vostro bell’inferno di difficoltà nel far partire il vostro secondo film, perché guardano il vostro primo film e dicono: “Oh… beh, non ti vogliamo più”. Mi ci sono voluti tre o quattro anni per passare dal mio primo al mio secondo film, bussando porta a porta, e cercando di convincere qualcuno a darmi una seconda possibilità. Scrivendo, lottando, senza soldi in banca, lavorando come editore, come cameraman, trovandomi dei lavoretti, cercando di guadagnarmi da vivere in qualche modo, di restare vivo, e di piazzare una sceneggiatura che nessuno voleva. Alla fine riuscii in qualche modo a fare quel film, American Graffiti, e dopo che quello fu un grande successo, le difficoltà scomparirono. I miei primi sei anni nel cinema furono disperati. Ci sono un sacco di volte in cui ti siedi e dici “perché sto facendo tutto questo? Non ce la farò mai. Non può accadere. Dovrei uscire a cercarmi un lavoro vero, e provare a
sopravvivere”. Ho chiesto soldi in prestito ai miei genitori, ne ho chiesti ai miei amici. Sembrava che non sarei mai stato in grado di restituirli. Ma è la vita. Devi mangiare, pagare l’affitto, e ripagare gli amici che ti aiutano.
LA TECNICA Beh, quando ho scoperto il cinema, e quando ho scoperto la cinematografia. Il mio unico scopo era essere in grado di fare un film. Lottavo per raggiungere una posizione da cui poter dire “Ah… adesso sono un regista, e posso continuare a fare i film che voglio… per tutto il resto della mia vita”, il contrario che lottare e dire: “ho un film, ma non ne girerò mai più un altro”. Fu un grande momento per me quando feci American Graffiti, ed ebbe successo. Perché veramente mi sono potuto sedere e dire “Okay, sono un regista adesso. Posso avere un lavoro. So di poter lavorare in questa industria, far valere le mie capacità, ed esprimere il mio punto di vista sulle cose. Essere creativo in un modo che mi diverte. Anche se finissi a fare spot per la tv, o se tornassi a fare i documentari che amo veramente, sarei comunque in grado di farlo. So di poter trovare un lavoro da qualche parte, so di poter guadagnare dei soldi. So di poter fare ciò che voglio”. E quella fu una bellissima sensazione. A quel punto sapevo di avercela fatta. Niente nella mia vita mi avrebbe impedito di fare film.
IL PASSATO ED IL FUTURO Questa nuova trilogia è il racconto di come ognuno è venuto a trovarsi esattamente nel punto in cui è adesso. È come se aveste visto la seconda metà di una serie, e adesso potete vedere la prima metà. I personaggi sono gli stessi, ma
gli attori ovviamente no, perché la storia si svolge quando sono più giovani. È una storia che ha per protagonisti Ben Kenobi ed Anakin Skywalker, e che racconta come si è arrivati al momento in cui Ben se ne sta in mezzo al deserto aspettando un “qualcosa” che dovrebbe succedere. È anche la storia di come Darth Vader è diventato quello che è, e di come l’Imperatore ha conquistato il potere. Si inizia prima della sua ascesa, e si continua seguendola. Quando sarà finito, si tratterà di un unico film di circa dodici ore. Nel primo film, i personaggi sono molto giovani, anche se Obi-Wan è sulla trentina. Negli episodi due e tre, Anakin è attorno ai venti. Anakin ha più o meno l’età che ha Luke nell’episodio quattro, ed Obi-Wan è sui quaranta. Il secondo ed il terzo episodio si svolgono quasi in continuità, alla distanza di al massimo due anni l’uno dall’altro; ed alla fine del terzo, Anakin ha ventidue anni, mentre Ben ne ha circa quarantadue. In questa logica, Una nuova speranza giunge quindi circa vent’anni dopo, quando Obi-Wan è sui sessanta.
PREPARARE UNA NUOVA TRILOGIA È un lavoro lungo, ma la scrittura lo è sempre, dopo tutto. È molto divertente poter ritornare adesso a quell’universo, soprattutto perché, essendo in possesso delle attuali tecnologie, sono in grado di ricrearlo più simile a come me l’ero raffigurato all’inizio, con più personaggi che se ne vanno in giro, e in generale con un sacco di cose diverse. Ho passato l’ultimo film della trilogia a litigare con quei personaggi che avevano una loro “mente”, e a confrontarmi con quelli come Yoda, che non potevano camminare per più di un metro. Ora mi posso permettere di avere personaggi che fanno tutte le cose che prima risultavano impossibili, e perciò è tutto più divertente. Avrei voluto farlo prima, è solo che, quando ho finito i primi tre, ho deciso che mi serviva una pausa. Mi sono dedicato alla costruzione dello Skywalker ranch, e allo
sviluppo di alcune delle nuove tecnologie, oltre che ad occuparmi di altri film su cui volevo lavorare. Del resto avevo speso nove anni su Guerre stellari, ed ero felice di poter fare dell’altro per un po’. In più, sul piano delle tecnologie, non c’era ancora stata un’evoluzione sufficiente a consentirmi di realizzare quello che avevo in mente. Molte delle cose che sono uscite negli ultimi dieci anni, riguardavano il perfezionamento delle tecnologie. Così adesso posso davvero realizzare il film che avrei voluto. Era frustrante dover lavorare con una tavolozza così povera di colori; si potrebbe dire addirittura che nei primi tre film avevo dovuto lavorare con solo il bianco ed il nero sulla mia tavolozza, mentre ora ne ho a disposizione una con tutti colori, e li posso finalmente aggiungere. Penso che sarà molto eccitante. Posso avere uno Yoda che cammina, un sacco di alieni diversi, moltissimi robot, e veicoli spaziali differenti, non più soltanto astronavi. In più, dispongo di una maggiore fluidità a riguardo, soprattutto in termini di direzione. Posso finalmente muovermi all’interno di una scena. Anche se prima non si vedeva, dal punto di vista del regista, era molto dura, perché tutti erano come “cementati” sul posto. È difficile dirigere una scena quando i tuoi attori non si possono proprio muovere, è frustrante.
LE RIEDIZIONI Quando ho realizzato il primo film, c’erano un paio di sequenze che non erano venute bene come speravo. Una riguardava Solo e Jabba the Hutt, che, nella fretta di terminare il film, non sembrava assolutamente necessaria, per via del fatto che riguardava personaggi ed avvenimenti che non apparivano fino agli ultimi episodi. A quel punto non sapevo se il film avrebbe avuto abbastanza successo da permettermi di farne un sequel, e così mi sono detto: “ma sì. Tagliamola e basta; ci vorrebbe troppo tempo e troppo lavoro per
sistemarla”. Avevo sempre voluto reinserirle nel film, e una volta terminati gli altri due episodi, era diventato sempre più intrigante tentare di farlo, visto che rimandavano agli episodi successivi. Tanto più che, con il livello tecnologico cui siamo arrivati, posso restituire quelle scene al film, e renderle maggiormente simili a come le avrei volute.
LA TECNOLOGIA La gente vede nella tecnologia un elemento che spesso pone fine a qualcosa. Ma nella cinematografia, in certi casi non lo è affatto. La cinematografia, intesa come l’atto creativo che si esprime nella forma artistica del cinema, è del tutto tecnica, al contrario dello scrivere un libro, o di qualcos’altro che ha a che fare solo parzialmente con la tecnologia; voglio dire, la parte dello scrivere vero e proprio - utilizzando differenti penne, differenti tipi di carta - era sicuramente una cosa importante; basta pensare alla prima macchina per stampa, ai primi libri rilegati, o ai paperback, libri a basso prezzo per il grande pubblico. È tutta tecnologia che consente allo scrittore di raggiungere un pubblico più vasto. Molti pittori del passato erano degli esperti nell’arte della miscelazione dei colori, e ne inventavano di nuovi per potersi esprimere in modi diversi. Michelangelo, ad esempio. Le tecnologie costruttive dei pennelli erano molto importanti per il modo in cui permettevano di utilizzare la propria abilità. È la stessa cosa per il cinema, solo che, sai, ha diversi aspetti. Nel primo film, hanno montato una macchina da presa e filmato un treno che entrava nella stazione. E tutti erano stupefatti. Questa era tecnologia, solo “oh! Guarda! La tecnologia”. Ma, sviluppandosi, ha cominciato ad evolversi in una forma d’arte, molto più sofisticata di così. E tutto ciò che è stato fatto da allora, fosse aggiungere il suono, o il colore, o utilizzare la tecnologia digitale, è stato semplicemente un modo di allargare la tela su cui lavoravamo, per poter lavorare con più
colori. È cominciato tutto con le pitture rupestri, ed erano molto belle e cariche di significato. Ma con l’andare del tempo, ci si ritrova con la tecnologia della tela, o della scultura su diversi tipi di materiali, ed in poco tempo tutto si fa molto sofisticato. Così adesso puoi raccontare storie più interessanti, e ti puoi esprimere più chiaramente. Questo è ciò che sta accadendo adesso, ed è il motivo per cui tutti gli artisti fanno pressione sulla tecnologia, sul medium, per riuscire ad allargarne il raggio d’azione in modo da poter usare al meglio la loro immaginazione. Direi che ai nostri giorni, l’area che dispone del più ampio raggio d’azione sia la letteratura, e credo che sia sempre stato così, perché è una chiave alla mente umana, ed è estremamente diretta. Lì è soltanto una questione di carta e penna, e di come decidi di utilizzare le tue parole. Ma già il teatro - intendo Shakespeare - la gran parte del teatro di Shakespeare è stata scritta con il vincolo della tecnologia dell’epoca. Le cose stanno sul palco in una certa maniera, e sono scritte in modo da rapportarsi con le limitazioni del palco stesso, della luce tremolante delle candele, del pubblico rumoroso, del modo in cui gli attori dovevano salire o scendere dal palco se non c’era il sipario, o roba del genere. Da questo punto di vista, l’artista riceve molti condizionamenti dalla tecnologia disponibile per il medium nel quale lavora. E nel cinema, data la sua natura altamente tecnologica, l’artista è sempre stato il più costretto nelle scelte. La tecnologia digitale, e le altre cose che si stanno portando avanti di questi tempi, ti permettono di raccontare delle storie migliori, e di utilizzare molta più immaginazione che nel passato.
LA SCUOLA DI CINEMA Quand’ero alla scuola di cinema, la grande domanda era “quand’è che ci faranno fare un film?”. In prima classe, era una classe di animazione, mi diedero un metro di pellicola da 16 mm., che era esattamente un minuto di film, e mi dissero:
“ecco qua, provate la macchina, guardate come va su e giù, e cosa succede quando muovete le cose in giro. Imparate ad usarla”. Era una grossa macchina per le animazioni, con un gigantesco braccio. Beh! Io ne ho fatto un film. Un film di un minuto. Ci ho messo una colonna sonora. Sono entrato in concorso ad un sacco di festival. Ho vinto miliardi di festival. Sembra che avesse rivoluzionato una sorta di animazione detta kinestatis, che si realizzava con movimenti veloci su fotogrammi. Dissi: “grandioso!”. Gli altri studenti dissero: “ma come hai fatto?”, ed io rispondevo: “l’ho fatto e basta”, mi hanno dato un pezzettino di pellicola, ed io ne ho fatto un film. Ed ho continuato a farlo. Gli altri studenti restavano seduti in giro per il campus dicendo: “vorrei che mi facessero fare un film, vorrei che me lo lasciassero fare già da questa classe, vorrei…”. Sai, se qualcuno mi avesse dato 30 metri di pellicola, io ne avrei fatto un film, mentre gli altri ragazzi generalmente no. Avevano gli stessi 30 metri, la stessa macchina da presa, e continuavano a chiedere: “quand’è che farò un film?”. Ed io invece continuavo a farli, i film. Quando i ragazzini vengono da me e mi chiedono: “come ci si entra, nel business?”, io rispondo: “comincia!”. Realizzai anche che scrivere non mi piaceva particolarmente; avevo una personalità molto “visiva”, adoravo l’uso della pellicola in sé. All’epoca non amavo molto le storie ed i personaggi, ero più un regista astratto.
DIO Ho messo nel film La minaccia fantasma una forza che risveglia un certo tipo di spiritualità nei giovanissimi. Si tratta però più di credere in Dio che in un particolare sistema religioso. L’ho fatto apposta per costringere i bambini a chiedere spiegazioni su questo grande mistero. Vedere intorno a me gente che non ha la curiosità di domandarsi se esiste o no
Dio, mi sembra la peggiore cosa che possa capitare. Ciò che voglio è sentire gente che dice: “mi sto guardando attorno, sono molto curioso di sapere e non avrò pace fin tanto che non scoprirò una risposta. Se non sarò in grado di trovarla morirò tentando di scoprire il mistero della creazione del mondo”. Guerre stellari tenta di distillare tutti i quesiti che la religione può porre e li trasforma in un unico concetto, quello che esiste un grande mistero. Mi ricordo che quando avevo dieci anni chiedevo alla mia mamma come mai se c’è un solo Dio esistono tante religioni. A tutt’oggi non ho ancora trovato una risposta, e la mia conclusione è che tutte le religioni sono vere. Sono convinto che esiste un Dio, non ci sono dubbi su ciò. Non sono sicuro, però, di chi sia questo Dio e di cosa sappiamo di lui.
L’AMERICA Mi piacerebbe che la nostra società maturasse un po’, vederla fondata meno sull’emotività e più sulla conoscenza. Vorrei che l’educazione avesse un ruolo più importante nella nostra vita di tutti i giorni, e che la gente potesse arrivare ad avere una comprensione più ampia, più d’insieme, di come ci inseriamo nel nostro mondo e nell’universo intero; non soltanto nei riguardi di noi stessi, ma soprattutto riguardo agli altri. Non sono però sicuro che riusciremo a farcela. Ovviamente, un sacco di gente ha un mare di sogni diversi su dove dovrebbe essere l’America, e di come dovrebbe adattarsi alle cose. Ovviamente, molto poche di queste visioni sono tra loro compatibili, e molto poche sono quelle compatibili con le leggi della natura. La natura umana sta in una costante battaglia tra l’essere totalmente assorbiti da se stessi, ed il cercare di essere creature sociali. La natura ci crea come animali comunitari. La creatura più totalmente incentrata su di sé è una cellula cancerogena; e noi, almeno per la maggior parte, non siamo fatti di cellule cancerogene. Portando la
nozione su larga scala, dobbiamo capire che il mondo ha una struttura largamente cooperativa, non solo nei confronti dell’ambiente, ma anche verso gli altri esseri umani, e se non lavoriamo insieme per tenere in piedi l’intero organismo, questo muore, e noi con lui. Questa è una legge della natura, è sempre esistita e sempre esisterà. Noi siamo tra le poche creature che hanno capacità di scelta, ed un intelletto per razionalizzarla. La maggior parte degli organismi viventi o si adatta e diviene parte del sistema o viene spazzata via. L’unica cosa che noi dobbiamo adattare è il nostro cervello, e se non lo usiamo per adattarci, non sopravviveremo.
I FILM I film e altre forme di intrattenimento visivo formano una parte molto importante nella nostra cultura, e influenzano in modo estremamente potente il modo in cui la nostra società funziona. Anche se le persone nell’industria cinematografica non lo vogliono accettare, esse sono parzialmente responsabili per il mondo di oggi. Nel bene e nel male, l’influenza che una volta aveva la chiesa per formare la società, oggi è sostituita dai film. Sono i film e la televisione a dirci come vivere, che cosa è giusto e che cosa è sbagliato.
LA MIA VITA Fare film è la mia vita, e mi piace raccontare storie, ne ho un sacco in testa che spero di riuscire a tirare fuori prima di andarmene. Per me l’unico problema è “come posso riuscire a trarre qualcosa da ognuna di queste storie nel tempo che mi resta?”. Il mio sogno e di riuscire a farcela. È stato il mio sogno fin da giovane: “riuscirò a fare dei film? Riuscirò a fare
quel che voglio?”. Ho passato una buona parte del mio tempo facendo quello che volevo, e mi sono dilettato nel far partire aziende, sviluppare tecnologie, e altre cose del genere, che mi permettessero di fare i film che volevo. Ho anche sempre seguito il mio personale gusto del momento, facendo ciò che allora mi sembrava più interessante. Non ho mai avuto un vero “piano”, del tipo “devo andare da qui a là, e queste sono le cose da fare”. Se c’è un piano sotto a tutto questo, è “ho un mucchio di film da fare, questo è quello che sto facendo adesso, e il prossimo sarà quell’altro”, cercando di concentrarmi su di uno solo per volta.
VITA DA LUCAS
(dalla nascita alla prima proiezione di Star Wars) Massimo Benvegnù
George Lucas nasce il 14 maggio 1944 a Modesto, una piccola cittadina situata nella valle agricola di San Joaquin, in California. II padre gestisce un magazzino di vendita all’ingrosso di materiale di cancelleria per uffici, e in seguito, durante l’adolescenza di George, acquisterà un ranch fuori città per dedicarsi alla coltivazione di pesche ed uva, mentre la madre, casalinga, si occuperà di George e delle sue tre sorelle. Piccolo, gracile, George non eccelle negli sport ed è un bambino fragile ed introverso, che soffre già in tenera età di
diabete. Se, nella interviste, Lucas parlerà della sua come di una tipica infanzia all’americana, come quelle descritte da Norman Rockwell nei suoi disegni che hanno immortalato la “american way of life” a base di colori vivaci, benessere e ragazzini rubicondi alle prese con i piaceri semplici della vita come il guantone da baseball, la torta di mele e la vita all’aria aperta, ci sono altrettanti fonti contrastanti al riguardo, soprattutto riguardo il carattere piuttosto difficile, conservatore ed autoritario del padre. George Sr. era cresciuto durante la Grande Depressione, aveva sostenuto grossi sacrifici per riuscire a mettere in piedi la sua piccola azienda, e non vedeva certo di buon occhio il fatto che il figlio non dimostrasse interesse alcuno per il business di famiglia e passasse la maggior parte del suo tempo a fantasticare leggendo fumetti e guardando la televisione. Modesto (nomen omen) non offriva molti svaghi, e le uniche vie di fuga per il piccolo George erano quindi i fumetti, dagli album della Disney a Superman, e i classici della letteratura per ragazzi come L’isola del tesoro e Robin Hood. I due cinema della città offrono a Lucas l’occasione del primo contatto con il medium che poi lo vedrà protagonista (il primo film che ricorda aver visto al cinema è un classico del genere d’avventura: Le miniere di Re Salomone), ma lui stesso ebbe ad affermare: “I film hanno avuto un effetto decisamente inferiore su di me durante l’infanzia rispetto alla televisione”. I tempi stavano già cambiando? Il tubo catodico già stava prendendo il sopravvento nell’immaginazione generale della gente rispetto al cinema, fino a quel momento unica materia prima del Sogno. D’altro canto, i lunghissimi serials che popolavano a quel tempo i teleschermi americani erano di buona fattura e avevano molto spesso provenienza pseudocinematografica. Non è un caso che Spielberg e Lucas - e assieme a loro molti altri registi della loro generazione - guarderanno con nostalgia a quel periodo della produzione televisiva “Made in USA”. Lucas è, non poteva essere altrimenti, un pessimo studente. La sua più grande passione in giovane età sono le automobili,
“mezzo di comunicazione” per scappare dall’esistenza monotona della propria città e visitare altri luoghi, altri mondi, espandere la propria conoscenza. Con un gruppo di amici, Lucas costruisce e modifica parti d’auto, nel migliore spirito degli “hot rod”, gli spericolati teen-agers americani degli anni cinquanta alle prese con sfide di velocità tra i loro bolidi immortalati in tanti film, anche famosi come Gioventù bruciata, e poi anche nel suo American Graffiti. La prima automobile è una Fiat completamente riequipaggiata, fornita di un roll-bar e di un motore truccato, con la quale Lucas si rende protagonista di un episodio che segnerà la sua vita. Due giorni prima della cerimonia della consegna dei diplomi nella high school di Modesto, il diciottenne Lucas sta guidando all’alba lungo una strada di campagna per ritornare al ranch di famiglia. Un compagno di classe, che lo aveva seguito a forte velocità a sua insaputa, prova a superarlo sulla destra: la Fiat viene colpita in pieno. L’impatto è violentissimo. Fortunatamente, le cinture di sicurezza speciali da lui progettate si spezzano - probabilmente mai fu così contento di un suo flop - e Lucas viene sbalzato fuori dall’automobile. Il compagno di classe è illeso, ma George Lucas rimarrà in coma per due lunghi giorni, sospeso fra la vita e la morte, con numerose ossa fratturate e i polmoni danneggiati. Durante la lunga convalescenza, il giovane si interrogherà spesso sul destino che lo aveva condotto al confine tra la vita e la morte, una esperienza che Lucas ama ricordare come il suo “rito di iniziazione”. Non molto più tardi avverrà un altro passaggio classico nella vita di ogni ribelle, ovvero la rottura con la famiglia. Sembra che siano volate parole grosse quella sera in cui George Jr. comunicò al padre l’intenzione di andare a Los Angeles per iscriversi ad una scuola di cinema. Il padre considerava Hollywood come la città del peccato, e avrebbe preferito di gran lunga il figlio alle prese con la cancelleria; gli disse “tornerai indietro tra qualche anno”. Lucas rispose con decisa enfasi “non tornerò mai indietro” e aggiunse “sarò miliardario prima dei trent’anni” (e tutti sappiamo come è andata a finire).
È interessante notare come la figura autoritaria del padre istilli in Lucas un profondo odio per le istituzioni, che sovente fa da sfondo ai suoi film. Allo stesso modo, Lucas sarà sempre alla continua ricerca di una figura paterna “positiva”, sia nella realtà - l’esempio migliore è Francis Ford Coppola - ma anche all’interno della saga di Guerre stellari… Quindi, dopo due anni senza infamia e senza lode al Modesto Junior College, George Lucas nel 1964 si trasferisce all’USC, portando con sé una vocazione ormai consolidata per il cinema. In quel momento di sperimentazioni psichedeliche, in particolar modo nella “bay area” di San Francisco, la sua droga è la pellicola: “Tutto quello che volevamo era semplicemente qualche metro da impressionare, la nostra dose giornaliera”. All’USC diviene ben presto una star. Dal 1965 al 1968 realizza diversi cortometraggi di carattere astratto, definiti dall’autore stesso come “poemi visivi”. Il suo primo film è un’animazione della durata di un minuto, intitolato Look at Life, ispirato dal popolarissimo settimanale americano “Life”. Consiste in un montaggio molto rapido di fotografie e titoli pubblicati da quella rivista sugli argomenti “odio” e “amore”. Look at Life vince premi un po’ dappertutto, e diventa un modello per tutti gli studenti di arti visive dell’Università su come fare cinema in maniera originale e poco dispendiosa. Il successivo cortometraggio, Freiheit (“Libertà” in tedesco), della durata di tre minuti, affronta un tema non meno complicato, visti oltretutto i pochi mezzi a disposizione: la fuga di un uomo che cerca di attraversare il muro dl Berlino per scappare verso la libertà(!). Poi verranno 1:42:08, su un pilota da corsa che collauda una vettura, ed Herbie, girato con una camera a mano a bordo di una Volkswagen, e costituito solamente da immagini sfocate di pioggia che cade, mentre in sottofondo si sente l’inconfondibile tocco pianistico del grande Herbie Hancock, il jazzista a cui è ispirato il titolo. Tra i titoli successivi ricordiamo anche Anyone Lived in a Pretty How Town, un film astratto ispirato da una poesia dello scrittore americano E.E.Cummings, e The Emperor un
documentario su un disc-jockey, che contrapponeva l’immagine che i suoi ascoltatori avevano di lui con la sua vita reale (“l’imperatore” non è dunque Palpatine, bensì la prima incarnazione del “Lupo Solitario” di American Graffiti). Il suo ultimo cortometraggio “indipendente” è THX 1138:4EB, la prima versione di quello che poi diventerà THX 1138, quindici minuti che non sono altro che il finale del primo lungometraggio Lucasiano. Più importanti per Lucas durante questo periodo sono certamente i tre documentari di “backstage” che si trova a girare grazie a delle borse di studio, che rappresentano i primi timidi approcci di Lucas all’interno del sistema Hollywoodiano. Lasceranno, come vedremo, ferite mai rimarginate e spingeranno il filmmaker di San Francisco a cercare sempre più spesso la totale indipendenza nei confronti dei grandi studios, e a cercare di crearne uno in proprio, seguendo la sua propria personale utopia. Il primo di questi “making of” girati da Lucas è reso possibile grazie alla Columbia Pictures, che permette ad un gruppo di studenti delle università USC e UCLA di girare a loro piacimento sul set del western L’oro dei MacKenna, in lavorazione a Page, Arizona. Mentre gli altri studenti traggono da questa esperienza lavori abbastanza convenzionali, Lucas realizza un bizzaro documentario sul deserto, dove, in lontananza, si può intravedere il set del film! Lucas al proposito dichiarò: “non eravamo mai stati di fronte a tanta opulenza, milioni di dollari spesi ogni cinque minuti per questa grossa produzione… per noi era assurdo, perché fino a quel momento eravamo abituati a fare film con trecento dollari, e vedere questo incredibile spreco di denaro influenzò non poco il nostro modo di guardare ad Hollywood”. Anche il set del secondo film sul quale Lucas si trova a girare un documentario è sontuoso ed hollywoodiano quanto basta… direttamente negli studi della Warner Bros a Burbank, nel cuore di Los Angeles. In più, si tratta addirittura di un musical, Sulle ali dell’arcobaleno (Finian’s Rainbow), con protagonisti Fred Astaire, ormai sul
viale del tramonto, e Petula Clark. Ma il regista è Francis Coppola, che sarebbe diventato di lì a poco il più autorevole dei giovani filmmakers americani, grazie ad enormi successi di pubblico e critica come Il Padrino, La conversazione ed Apocalypse Now, progetti che come vedremo ebbero una notevole influenza anche sulla carriera di George Lucas. Come Coppola fosse finito lì, a dirigere Fred Astaire in direzione viale del Tramonto, resta ancora oggi un mistero. Comunque, nel più improbabile dei luoghi, avviene l’incontro che cambierà in modo radicale le vite di entrambi. Coppola prende da subito il giovane George sotto la sua ala protettrice, loda infinitamente il suo documentario, definendolo “decisamente migliore del mio film”, e lo coinvolge immediatamente in un altro suo progetto intitolato The Rain People, girato a bassissimo costo, in cui Lucas si trova a ricoprire un po’ tutti i mestieri del set, oltre che a girare un altro “making of”. Assieme iniziano a concepire l’idea di costituire una casa di produzione alternativa agli studios di Hollywood, con cui finanziare progetti di giovani registi impossibilitati ad emergere all’interno di un sistema ormai in crisi. Coppola ha già pronto il nome da dare a questa utopistica casa di produzione: Zoetrope (che era un primitivo strumento di visione, un antenato del cinema). L’idea è quanto meno rivoluzionaria. Disse Lucas a questo proposito: “Francis vedeva la Zoetrope come una sorta di studio alternativo, alla Easy Rider, dove poter raccogliere giovani talenti con poca spesa, produrre i loro film, sperare che uno di questi avesse un grosso successo, e poi con i guadagni continuare ad implementare la casa di produzione. Era un vero atto di ribellione. Avevamo idee che non sarebbero mai riuscite a passare attraverso le censure di Hollywood. Zoetrope doveva essere una dipartita da Hollywood. Era un nostro modo di dire: “non vogliamo essere parte del vostro Sistema, non vogliamo fare il vostro tipo di film, vogliamo fare qualcosa di completamente differente. A noi importavano i film, non i contratti”. È così che, nell’autunno del 1969, Coppola apre il suo quartier generale dell’American Zoetrope in un magazzino a due piani al numero 827 di Folsom Street a San Francisco.
George Lucas si trasferisce a San Francisco con la moglie Marcia, montatrice, e ne diventa il vicepresidente. La prima mossa di Coppola è di offrire alla Warner Bros un’opzione per un “pacchetto” di sceneggiature e progetti della Zoetrope in cambio dei finanziamenti necessari per impiantare stabilmente la sua società. Tra questi, ci sono due progetti di Lucas: THX1138, sceneggiatura basata su uno dei suoi primi cortometraggi, e un soggetto di John Milius intitolato Apocalypse Now, che Lucas vorrebbe dirigere. La Major accetta e Lucas inizia la produzione di THX, con Coppola a fare da mediatore tra l’”artista” e l’”industria”. Lucas è talmente ben protetto dal suo ‘padrino’ Coppola, che alla Warner non hanno ancora capito bene che razza di film hanno finanziato, seppur a buon mercato. Quando, nel maggio del 1970, i dirigenti della Warner vedono THX, lo accolgono piuttosto male, e chiedono a Lucas di ri-editarlo di qualche minuto. Il regista rifiuta, e la major si vede costretta a togliere il “final cut” a Lucas. (“Hanno tagliato le dita al mio bambino”, dichiarò Lucas). Il film esce nel 1971 e va piuttosto male in sala., La fiducia di Lucas nei confronti della vecchia Hollywood continua a scendere. Quasi per provocazione, sembra che Francis Ford Coppola disse a Lucas di smetterla di pensare solamente a film astratti, e lo sfidò a scrivere una commedia, o almeno un film capace di coinvolgere emozionalmente il pubblico: “prima di American Graffiti ho lavorato solamente a progetti per film ‘negativi’ - Apocalypse Now e THX, due film molto ‘arrabbiati’. Allora decisi che era ora di fare un “feel good movie”, di quelli dove ti senti meglio dopo averlo visto. Mi resi conto che i giovani avevano iniziato a perdere conoscenza di un certo passato, quello degli anni successivi alla seconda guerra mondiale, perché la controcultura degli anni sessanta aveva spazzato via tutto quello che non era considerato ‘cool’, e l’unica idea di cultura giovanile era rappresentata dalla droga. Quindi decisi di preservare, raccontandolo in un film, cosa provassero i teenagers americani negli anni cinquanta.” Nasce così l’idea di American Graffiti, che Lucas (prodotto da Coppola) dirige nel 1972, con un modesto budget di
750.000 dollari (THX ne era costati 1.200.000), che assicura a Lucas un piccolo compenso iniziale, 20.000 dollari, a fronte del 25 per cento degli introiti del film. Il film viene girato in soli 28 giorni, montato nel garage dei Coppola, e presentato ad un pubblico di prova a San Francisco il 28 Gennaio del 1973. Anche se la Universal è piuttosto perplessa riguardo alla possibile accoglienza del pubblico nei confronti di un film così “nostalgico” e “retrò” (“la versione americana de I vitelloni, secondo Lucas), il film esce nell’estate di quell’anno ed ha un enorme successo, incassando più di cinquanta volte il suo costo. Lucas ne ricava alcuni milioni di dollari, arrivando quindi alla meta espressa al padre in gioventù con un anno di anticipo. Dopo il successo di Graffiti, Lucas, decide di lasciar perdere il progetto di Apocalypse Now - che poi Coppola dirigerà qualche anno dopo e alle cui vicende produttive sono stati dedicati un numero considerevole di manoscritti… - e di concentrarsi invece su un trattamento da lui scritto nel 1972 per un film di fantascienza, basato su miti, fiabe e sulle teorie di Joseph Campbell e Carlos Castaneda. Da Castaneda ruba un personaggio, uno sciamano di nome Don Juan, che diventa Obi-Wan, e la teoria della “Forza della Vita” che in Lucas, semplicemente, sarà “la Forza”. Nel 1973 la lunghezza del soggetto è di sole tredici pagine, ma, alla luce di American Graffiti, viene considerato materiale preziosissimo. La 20th Century Fox ne acquista i diritti, pagando a Lucas 15.000 dollari per la prima stesura della sceneggiatura, 50.000 dollari per la versione definitiva e 100.000 dollari per il suo lavoro di regista; non molti, in verità, ma il contratto di Lucas prevede anche clausole all’apparenza stravaganti ai vecchi dirigenti della Fox, come ad esempio i diritti sulle vendite della colonna sonora e di altri prodotti legati al film (il famigerato merchandise), nonchè prelazioni sugli eventuali sequels. Clausole che permetteranno a Lucas, visto l’enorme successo dell’universo Star Wars, di diventare uno degli uomini di cinema più ricchi del mondo. Lucas impiega ben due anni e mezzo a scrivere la sceneggiatura di Star Wars. Sembra che sulla sua scrivania all’epoca troneggiasse una fotografia di Sergei Eisenstein, il
grande regista e teorico del cinema russo, mentre un Juke-Box Wurlitzer suonava in sottofondo vecchi brani degli anni sessanta. Si dice che la figura del malvagio imperatore sia stata ispirata dal presidente Nixon, coinvolto in quegli anni nello scandalo Watergate. L’Annikin Starkiller della prima stesura divenne Anakin Skywalker, padre di Luke. Si dice che il personaggio di Han Solo, “maverick” sempre in conflitto con il Sistema, sia stato ispirato direttamente da Francis Ford Coppola; e certo l’assonanza tra Luke e Lucas è forte e da non ignorare. Comunque, il 25 Marzo 1976, assicurati ben 8.5 milioni di dollari nel budget, Lucas inizia a iniziare a girare il primo degli episodi della sua saga stellare. Le riprese di Star Wars si tengono a Londra, presso gli studi di Elstree, probabilmente scelti da Lucas per avere maggiore indipendenza e minor controllo da parte dei dirigenti della Fox. L’esperienza per Lucas è umiliante, perché la troupe, formata principalmente da veterani inglesi, fin dall’inizio non vede di buon occhio questo giovane americano alle prese con pezzi di plastica e cose pelose. Miriadi di aneddoti circondano le storie di quello che per vent’anni resterà l’ultimo film diretto da Lucas, e includono ammutinamenti della troupe, apparecchi meccanici che non funzionano, attori decisamente poco preparati, o poco entusiasti dei dialoghi (sembra che Harrison Ford una volta disse a Lucas: “George, tu puoi anche scrivere queste stronzate, ma io non le posso dire!”). Perfino Spielberg offrirà il suo aiuto per girare alcune scene con una seconda unità. Al ritorno in America, il regista, poco soddisfatto, inizia ad assemblare il materiale girato assieme agli effetti speciali della appena fondata ILM. Raffazzonata una copia lavoro presentabile, Lucas decide di organizzare una proiezione casalinga per la “ristretta cerchia” dei suoi amici registi, in modo da raccogliere le loro impressioni e cercare di “salvare” il film. Brian De Palma è quello che esprime le maggiori perplessità (“non si capisce niente di quello che succede”), mentre Spielberg è il più prodigo di complimenti (“secondo me incasserà almeno trentacinque milioni di dollari”). Scorsese rifiuta l’invito.
La data d’uscita è ormai già fissata per il 25 Maggio del 1977, e Lucas e sua moglie Marcia decidono di lasciare la città e prendersi una vacanza alle Hawaii. Ma anche lì sono raggiunti dall’onda lunga del succeso di Guerre stellari. Il film è un altro immediato successo, con gente in coda per ore ed ore per cercare di entrare ed incassi record in tutta l’America. Coppola, in quel momento nella giungla delle Filippine alle prese con Apocalypse Now, invia un telegramma al vecchio amico che recita solamente: “Mandami dei soldi. Francis”. Spielberg raggiunge Lucas alle Hawaii, e i due iniziano a discutere di un progetto da realizzare in comune, che diventerà I predatori dell’Arca Perduta. Raggiunto un tale successo, Lucas si trova improvvisamente isolato. Se gli altri amici “mavericks” radunati a San Francisco per quella proiezione ‘carbonara’, continueranno a lottare ogni giorno con studios, agenti e star esigenti, Lucas si ritrova invece a capo di un impero finanziario che può permettersi ogni cosa, ma fino a La minaccia fantasma non dirigera più un film, dedicandosi invece solamente alla produzione di progetti altrui, allo sviluppo tecnologico della Industrial Light and Magic e dello Skywalker Ranch. Sorge spontanea un’ultima domanda: se Lucas avesse diretto Apocalypse Now invece di Guerre stellari, cosa sarebbe cambiato nella sua vita, e nella Storia del Cinema? Forse solo il vecchio saggio Yoda sarebbe capace, dall’alto dei suoi novecento anni d’esperienza, di poter formulare qualche ipotesi valida…
LE GALASSIE DI LUCAS DALLE ORIGINI A ROGUE ONE
Roberto Lasagna Un cineasta che sfidò l’impero George Lucas, un nome che sarà difficile non vedere legato per sempre ad un tipo particolarissimo di cinema. Egli, pur avendo ceduto la Lucasfilm alla Disney nel 2012, vedrà il suo nome siglare anche le prossime sortite cinematografiche di J. J. Abrams e soci, e Lucasfilm è per tutti sinonimo di avvenirismo, di esperienza cinematografica destinata a infrangere i confini della percezione ordinaria. Così è sempre stato con Lucas, regista di sei lungometraggi, quattro dei quali intitolati Star Wars. Autore totale e al contempo massimo rappresentante della tecnologia al servizio della rappresentazione. Autore amatissimo e punto di svolta del giudizio critico nei confronti della partecipazione alle sorti di un film. Con lui il cinema cambia, compie un salto avanti, ma il suo cuore è antico, i suoi racconti traggono slancio dalle favole per divenire possibilità di un sogno da vivere come sopra una pista di pattinaggio, o su una pista da ballo. Lucas è un ballerino delle stelle, come gli automobilisti di American Graffiti (1973) erano dei sognatori sulle strade di una città sempre in movimento. La saga di Guerre stellari non ha soltanto conquistato i botteghini di tutto il mondo, ma ha prodotto interpretazioni e ripensamenti del genere fantastico, soprattutto, di un modo di intendere lo spettacolo cinematografico negli anni Settanta della New Hollywood. La saga di Guerre stellari non è soltanto una fuga dal reale, una vertigine in nuovi spazi del possibile e del visibile. La prova è forse da ricercare negli altri lavori cinematografici di Lucas, nelle sue poche ed emblematiche regie (considerando la successiva trilogia-prequel di Guerre stellari, quella realizzata a cavallo tra il 1999 e il 2005, tutt’uno con un unico progetto di cinema che riemerge negli anni Novanta e si proietta nel nuovo millennio) e nelle produzioni, cioè in quei tasselli cinematografici che da soli appaiono esclamativi di un’idea di cinema come campo di sperimentazione per nuovi scenari
della visione. Peraltro, quando esce nelle sale il primo film del giovane regista, non tutti lo ritengono soltanto un divertissement per la “generazione pop-corn” come sarebbe successo invece per i successivi film del regista; nello stesso tempo, la figura del cineasta Lucas appare legata, almeno agli inizi, al destino di Francis Ford Coppola e di una concezione egemonica del rapporto con il pubblico (nonché con la produzione). In seguito Lucas erediterà i toni sontuosi e spettacolari di Coppola privilegiando tuttavia la ricetta estetica del padre spirituale dei nuovi cineasti americani, Roger Corman. Quindi, la strada percorsa da Lucas prenderà una direzione che lo porterà presto alla definizione di un modo decisamente personale di intendere lo spettacolo cinematografico. Nel tentativo di rivendicare l’importanza dell’immaginazione, non per questo diffidando completamente del realismo, Lucas intende proclamarsi fin dal primo lungometraggio, THX 1138, realizzato nel 1970, quale novello Georges Méliès del cinema statunitense. Un Méliès per le masse americane avvinto da una serie di presupposti ben definiti. Astrattismo, simbolismo, amore per i generi e tensione formale all’ennesima potenza fanno di questo esordio un atto di coerenza per la nascente casa di produzione Zoetrope. Quasi un manifesto di modernismo che favorisce la molteplicità di letture. L’autarchia produttiva di Coppola e di Lucas, uniti nel tentativo di smarcarsi dallo strapotere delle Major, nasce comunque nel segno della mediazione con le grandi case di produzione. Infatti, come il primo film di Lucas si rivelerà un flop al botteghino, Coppola sarà costretto a correre ai ripari lavorando con la Paramount per il blockbuster Il Padrino (The Godfather, 1972). Grazie agli enormi proventi di quel film potrà finanziare ancora l’amico Lucas “imponendo” alla Universal la distribuzione di American Graffiti (e questa volta si tratterà di un grande successo di pubblico). American Graffiti è uno dei film più emblematici nella ridefinizione del pubblico che corre nelle sale per gustarsi i prodotti della rinascente industria cinematografica: grande attenzione ai giovani, al loro micro-mondo che diviene simbolo di molte universalità, alle mode e ai gusti correnti; ma
anche, American Graffiti, film del ripensamento generazionale, della riflessione sui piccoli-grandi temi della quotidianità, sull’importanza dell’adolescenza e sul riaffiorare dei sogni rimasti irrealizzati durante quell’importante fase dell’esistenza. La fuga da una vita sentita come frustrante è pertanto una radice comune ed autori come Lucas, Scorsese e Spielberg. Se Il grande amico degli esordi cinematografici di Lucas è Francis Ford Coppola, più avanti, dopo l’enorme popolarità di Guerre stellari, egli individua in Steven Spielberg il nume tutelare delle sue nuove operazioni produttive. La saga dell’esploratore Indiana Jones, di cui Lucas produce il primo e il terzo episodio scrivendo però il soggetto dell’intera trilogia e lasciando a Spielberg il compito di regista, mentre appartiene allo spirito di entrambi i cineasti, può essere considerato a pieno titolo come un progetto lucasiano: ne fanno fede la vocazione antropologica dei migliori momenti della saga, e, inoltre, la concezione stessa di serialità che si impone come una delle caratteristiche fondanti il cinema di Lucas. Più in generale, Lucas e Spielberg rilanciano il cinema d’avventura per adulti, ben oltre la vocazione “infantilista” da più parti additata in merito alla loro vocazione espressiva. In questo senso, le influenze tra produttore e regista sono senza dubbio reciproche, così come, all’inizio di carriera, Coppola avrebbe influenzato Lucas nella scelta di esprimere una tensione estetica maggiormente rigorosa e intellettualistica, mentre Lucas, a sua volta, avrebbe incoraggiato Coppola nella prosecuzione di un proprio disegno produttivo. Ad ogni modo, a dispetto della grande popolarità dei suoi più grandi successi produttivi, il “lato oscuro” di Lucas si sarebbe fatto sentire anche dopo i due film d’inizio carriera, cioè sia in Guerre stellari, terza regia del nostro nonché l’ultima prima di un silenzio registico durato vent’anni, sia nella saga “prestata” alla regia di Steven Spielberg. Per quanto pertiene quest’ultima, le avventure dell’archeologo Jones condensano in una traiettoria di ripetizioni il modello di un cinema entusiasmante che sembra volere restituire ai quarantenni la foga di quando erano scolaretti. Dal canto suo Spielberg, nei tre film interpretati da
Harrison Ford (una delle “scoperte” di Lucas), si impegna al fine di rendere lo spettacolo sempre più acrobatico, pirotecnico, come sarà anche nei momenti migliori di Jurassic Park (1993). Sua, ad esempio, è l’attenzione per i meccanismi della suspense, suo è anche il sensazionalismo effettistico di buona parte della saga. La tensione conoscitiva verso nuovi mondi, che si modula in una vera e propria poetica dell’altrove in Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, 1977) e in E.T. (1982), fa capolino nella saga di Indiana Jones attraverso la raffigurazione di un personaggio, l’esploratore-archeologo, cui è nondimeno agevole riconoscere la più genuina ispirazione lucasiana. Avvio sperimentale L’incontro con l’avventura simbolizzato attraverso la baldanza fumettistica della saga di Indiana Jones, acquisisce tuttavia un senso più sfaccettato se ricondotto alle origini cinematografiche di Lucas; quelle, propriamente, di THX 1138. A questo proposito, volendo gettare uno sguardo sul film più “sperimentale” del cineasta, conosciuto e apprezzato soprattutto dagli appassionati di cinema, ci sembra opportuno soffermarci un poco sul titolo italiano, mai come in questo caso così “profetico”: L’uomo che fuggì dal futuro. Il film di Lucas è infatti la raffigurazione di un XXV secolo buio, sotterraneo, decisamente poco a misura d’uomo. Il destino degli individui appare programmato a tavolino da un sistema sociale impietoso e cibernetico, così come la riproducibilità della specie è affidata al freddo determinismo delle provette di laboratorio. THX 1138, rivisto oggi, è un film in linea con gli umori della cinematografia di quegli anni, in specie per le suggestioni derivanti dal senso di “utopia capovolta” che esso condivide. L’avventura è una delle componenti del film, ma non la principale. Il fascino che Lucas avverte per altri mondi, sicuro riflesso della sua formazione di studioso d’antropologia, si traduce nella ricognizione di un universo futuro che sembra imparentato con il passato di totalitarismo di alcune reali
situazioni storiche. Il lavoro di Lucas deve molta della sua particolarità ai referenti cinematografici cui fa riferimento, primo fra tutti il mondo sotterraneo di Metropolis (1927). Ma la divisione in classi è qui allegorizzata attraverso una più invadente divisione tra buoni e cattivi. L’opposizione bene contro male che sarà centrale in Guerre stellari, è esplicitata in THX 1138 nell’esperienza formale di un racconto postespressionista, che attualizza in parte le istanze politiche presenti nella narrativa di Orwell e Huxley. Ci troviamo in fondo nei pressi di in un cinema altamente simbolico nel quale si riattiva il terrore per la figura del “grande fratello”, simbolizzata questa volta dall’invisibile “Controllore supremo”. L’universo concentrazionario di THX 1138 sembra essere il mondo ideale per gli adepti di Darth Vader, il cavaliere Jedi al servizio del lato oscuro della “Forza” in Guerre stellari. È un sotto-mondo totalitario in cui il “Controllore supremo” resta sconosciuto ai più, mentre al suo servizio è predisposta una rete di controllori e osservatori, secondo una rigida scala gerarchica difesa alla base da una potente squadra di robopoliziotti, completamente meccanici, agghindati con divise nere ed elmetti bianchi, i quali, coadiuvati da temibili sbarre elettriche, assicurano il mantenimento dell’ordine attraverso punizioni corporali e soluzioni definitive. Il futuro secondo Lucas è già pienamente raffigurato in THX 1138. Il titolo americano del film sta a significare il codice con cui è denominato il personaggio del film (Robert Duvall, in uno dei primi ruoli da protagonista); si tratta di un numero di serie tra i tanti che compongono quel che resta dell’umanità. Un’umanità sotterranea, igienizzata, stordita da onnipresenti altoparlanti che emettono di continuo slogan rassicuranti, secondo un training di controllo e stordimento della psiche. La vita è all’insegna dell’artificialità. Il cibo è sintetico. Il lavoro avviene in centri supermeccanizzati ed è finalizzato allo scopo di produrre nuovi soggetti meccanici. Il sesso è bandito dal sistema, mentre qualche volta si scopre tra gli individui, tutti rasati e vestiti di camici bianchi, la sopravvivenza di qualcuno nato non in provetta, ma attraverso un rapporto sessuale considerato
“animalesco” e geneticamente riprovevole. Proprio costoro il sistema perseguita più di altri, come anche chi sembri “cedere” alle tentazioni della carne. I “nati-naturalmente” vengono controllati con assiduità, per evitare il rischio che contagino gli altri. Ed è quanto succede a Luh 3417 (Maggie McOmie), che si mostra irrispettosa delle leggi poiché butta nel water i sedativi e cerca di sedurre THX, un “operatore” addetto al montaggio dei robot. Nel futuro di Lucas il crimine più sconcertante riguarda dunque la carica libertaria che l’eros porta inevitabilmente con sé. Si tratta di una tematica fondamentale in un film come THX 1138. La macrostruttura concentrazionaria può mantenere la sua coesione laddove eserciti il suo controllo sul lato meno addomesticabile della natura umana: gli istinti e la carica trasgressiva di Eros. In questo senso il film di Lucas anticipa, con la sua fredda ambientazione, la resa espressiva di alcune tematiche che ritorneranno in altri film sul futuro realizzati durante gli anni Settanta, da 2022: i sopravvissuti (Soylent Green, 1973) di Richard Fleischer a Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1971) di Stanley Kubrick: la censura degli istinti, conseguenza di una struttura sociale autodistruttiva e cannibalica, rappresenta la chiave d’interpretazione di un avvenire letto nella prospettiva di un’Utopia negativa e cibernetica. Ma Lucas conduce la sua dialettica facendo emergere, in extremis, la speranza. Come sarà nella trilogia di Guerre stellari, il bene combatterà contro il male in una danza che sarà annunciata sin dal titolo dei singoli film: l’equilibrio tra bene e male (Guerre stellari), il prevalere del male (L’impero colpisce ancora), il riscatto del bene, quindi, l’affermazione della verità (Il ritorno dello Jedi). In effetti, già in THX 1138 lo scontro tra bene e male supera lo schematismo attraverso una prospettiva di chiarificazione delle “potenzialità” dell’individuo: affrontare la lotta contro il sistema ipermeccanizzato significa anche percepire la gravità della propria condizione di individuo tenuto in una condizione di totale “snaturamento”, e recuperare l’autodeterminazione (la “Forza”) per fuggire ai controlli del sistema significa percepire l’urgenza di una ribellione imperiosa e fatale ai meccanismi dell’automa
sociale. L’estrema conseguenza di questo tragitto di ribellione è la scoperta della verità, che determina a sua volta una nuova concezione dell’esistenza, simbolizzata nel finale di THX 1138 attraverso la scoperta da parte del protagonista di una realtà altra, di cui si negava l’esistenza negli ambienti sotterranei del pianeta. L’immagine di Duvall stremato che, raggiunta la superficie terrestre, apre la botola e sbuca fuori, non trova il paesaggio azzerato dalle radiazioni propagandato minacciosamente dal sistema, ma un immenso sole che accoglie la sua rinascita, si iscrive senza equivoci nel clima simbolico di una fiaba sociologica, secondo quell’affabulazione romanzesca che sarà comune a tutti i film di Lucas fino a I predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark, 1981). Contaminazioni L’esordio di Lucas è all’insegna del recupero di quegli elementi dell’immaginario fantascientifico tradizionale di cui il regista verifica l’inossidabilità attraverso un racconto destinato a nascondere la sua vocazione classica nella brillantezza di uno stile in cui trova ampio spazio il gioco delle contaminazioni. THX 1138 è, in questo senso, un film ostentatamente “postmoderno” eppure vivificato dal sapore di verosimiglianza della ricostruzione scenica e sorretto dalla sobrietà della narrazione. Inoltre, la modernità di Lucas è da cogliersi nel clima altamente simbolico in cui egli cala il suo immaginario, bagnando la vicenda di toni ora messianici e speranzosi, ora impauriti e oscuri. Lo stile del racconto, sospeso tra simbolismo e iperrealismo, favorisce presto un’interpretazione critica meno scontata del suo lavoro. Sergio Arecco, ad esempio, si domanda se “Thx, nel suo camice bianco, col capo raso, fra le pareti nude della sua stanza-utero, spesso rannicchiato in posizione fetale, circondato da altre larve come lui, non allegorizza forse la condizione del neonato che apre gli occhi per la prima volta, senza ancora distinguere nulla? E tutta la fabula del film non veicola forse la metafora
della nascita, o rinascita, dal grembo altrui, con le proprie sole forze? E non è questa una simbologia anche autobiografica?” (Sergio Arecco, George Lucas, Il castoro, La Nuova Italia, 1995, p. 31). Non è pertanto un caso che tutti i film di Lucas ottengano nel corso del tempo una sorta di supervalutazione critica. Il destino interpretativo del regista di Guerre stellari prende le mosse senza dubbio dall’aura “sperimentale” di THX 1138, film che pone le premesse per uno stile caratterizzato dalla fascinazione per le nuove acquisizioni della tecnologia e il riproporsi di costanti, narrative e tematiche, di sapore antico. La moderna epica di Guerre stellari sembrerebbe dunque anticipata da questo racconto allusivo, conoscitivo, ritualistico, sorta di allegoria “rinascimentale” del nuovo cinema statunitense che cerca di opporsi all’omologazione dell’immaginario nutrendosi delle molteplici possibilità offerte da una scrittura costantemente simbolica, affascinata da un mondo ideale che come un dedalo mostra anfratti di morte e crudeltà, ma anche momenti di rivalsa possibilista. Il cinema di Lucas muove quindi i suoi passi nel terreno dell’arcano esibendo una predilezione per il “germe” della ribellione in contesti sociali diversificati. In questo senso la trilogia composta da THX 1138, American Graffiti e Guerre stellari appare decisamente compatta. Il tema del riscatto da un universo concentrazionario (sorta di mondo demoniaco o di Leviatano, come avrebbe notato anche Arecco), che si modula attraverso il canone della fuga e dell’inseguimento, è comune alla vicenda di Thx e della sua compagna Srt, a Luke Skywalker e Han Solo di Guerre stellari, mentre non è improprio riconoscerlo indirettamente anche nella ipnotica deambulazione dei personaggi di American Graffiti, per i quali la notte diviene l’inesauribile “territorio di fuga” dalle regole di un mondo adulto percepito come imperscrutabile. La ribellione inscenata in THX 1138 anticipa dunque il bisogno di sperimentare una concezione più autentica del vivere, attitudine che sarà propria del personaggio più enigmatico di American Graffiti, il giovane Curt Henderson al quale il Circolo dei Commercianti devolve un assegno di duemila dollari come borsa di studio in suo favore affinché lui, ragazzo
intellettualmente dotato, possa frequentare un collegio dell’Est. E la reazione di Curt, la sua esitazione dinanzi a quell’allettante offerta degli adulti, esprime una ribellione al pensiero comune che si manifesta attraverso la condizione di una protratta e irriducibile afasia, sintomo di disadattamento ma anche, nel film di Lucas, di una personalità gratificata dall’emergere del proprio spirito anticonformista. L’incertezza esistenziale del ragazzo californiano del 1962 è all’origine della sua coscienza di scrittore, tale sarà infatti, un giorno, il destino di Curt; se non sapremo mai di cosa si occuperà il giovane, di quali argomenti nutrirà i suoi libri, grazie al respiro di grande nostalgia evocato da American Graffiti è legittimo immaginare che egli non riuscirà a liberare facilmente i suoi pensieri dalle origini di “navigante” nella fitta rete di luci notturne del paese natìo. Luci, bagliori, immagini. Come il viaggio nell’iperspazio dell’astronave Millennium Falcon in Guerre stellari, il cinema di Lucas esplora l’impatto dell’individuo con le molte realtà di un universo abitato da luci, ologrammi, riproduzioni digitali, lanciandosi a tutta velocità in una sinfonia visiva che esprime tensione nei confronti della famigerata “riproducibilità tecnica”, così come nei riguardi di un’esistenza minacciata da quel “grande fratello” della nostra epoca chiamato serialità. Il rischio nel quale incorre l’uomo del futuro (e questo discorso vale, a ben vedere, sia per il protagonista di THX 1138 che per i futuri adulti di American Graffiti) è di perdere coscienza, cadere stordito nel marasma sonnambolico di un mondo percepito come pura superficie visiva; a questo proposito THX 1138 trasmette l’inquietudine per un universo futuro dominato da immagini stranianti, e proprio grazie ad una simile prospettiva hanno avuto buona ragione coloro che hanno saputo leggere nel film l’attualizzazione di una tematica kafkiana. Tuttavia, il percorso di Lucas deve il suo smalto iperrealista soprattutto all’ispirazione cinefila, la stessa che sarà percepibile nei migliori episodi filmici dell’amico Steven Spielberg (pensiamo in particolar modo a Incontri ravvicinati del terzo tipo, forse il più affine alla tensione estetica di Lucas). Dunque la suggestione kafkiana, come il riflesso di film quali Aurora
(Murnau, 1927) e Il processo (Welles, 1962), sono da leggere nell’ottica citazionistica propria di un cinema che si nutre di immagini altrui mimetizzandosi in una forma cinematografica abbagliante, luminosa, ipotizzando una dimensione sociale (gli ambienti asettici e supersorvegliati di THX 1138, lo sfavillio delle strade notturne di American Graffiti) nella quale è in atto la battaglia inquietante tra reale e virtuale. THX 1138, come abbiamo detto, sarà un flop ai botteghini. Esso verrà riscoperto solo in seguito all’enorme successo di American Graffiti, diventando un vero e proprio cult-movie per le nuove generazioni. In Italia uscirà soltanto nel 1976. Curiosamente, nell’arco di 4 anni, il nostro paese verrà “invaso” dai tre film di Lucas. American Graffiti è notoriamente uno dei più grandi successi cinematografici degli anni Settanta. L’enorme popolarità del film è dovuta principalmente all’inventiva del suo autore, il quale sembra sapere più di chiunque altro cosa possa affascinare i giovani cinespettatori americani. Innanzitutto, a fare breccia nel cuore delle nuove generazioni, è il clamoroso effetto “revival” evocato dalle immagini, che invita lo spettatore a tuffarsi in una dimensione di sogno nella quale ciò che conta è liberarsi dai pensieri angosciosi della vita “diurna” per dedicarsi unicamente alla gratificazione dei propri desideri. In questo senso American Graffiti incarna l’idea stessa di cinema quale esperienza onirica, un’idea che d’ora innanzi Lucas non abbandonerà più. Cosa di meglio, allora, che avere tutto il tempo per rimorchiare le ragazze, lanciarsi in sfide temerarie con le automobili, provare l’ebbrezza della “bumba” (ovverosia gli alcolici), non dovere ascoltare i ricatti della fedeltà di coppia e tutte le regole “da grandi” che affliggono la vita dei ragazzi di provincia? Lucas, con il suo secondo lungometraggio, realizza il prototipo del “film-desiderio”, costruendo un giocattolo vivificato da una colonna sonora che diverrà presto un glorioso hit internazionale. Come un caleidoscopico e modernissimo “video-clip”, American Graffiti è scandito ininterrottamente dalle note di Bill Haley (Rock around the clock è la canzonesimbolo con cui si apre il film), Crests (Sixteen Clandles), Del Shannon (Runeway), Beach Boys (Surfin’ Safari, All Summer
Long), Platters (Smoke Gets in Your Eyes, Only You, Pretender), Joey Dee & The Starlighters (Peppermint Twist), Regents (Barbara Anne), Monotones (Book Of Love), Chuck Berry (Jonny B. Goode), Johnny Burnette (You’re Sixteen You’re Beautiful - And You’re Mine), Sonny Till & The Orioles (Crying In The Chapel), Spaniels (Goodnight, Well It’s Time To Go). Ogni canzone, interrompendosi, lascia il posto alla successiva secondo un’alternanza mai casuale. Ciascun brano diviene infatti necessario per la comprensione del particolare episodio rappresentato, secondo una concezione di cinema sinfonico e corale che trae energia dalla cura meticolosa con cui il materiale sonoro interagisce con le cadenze ipnotiche del racconto cinematografico. Dunque un film composto di microeventi disposti in una successione magmatica resa armoniosa da una regia che scandisce le sequenze al ritmo dei Platters, di Chuck Berry e di un repertorio di minuziosa archeologia musicale. E il rischio di frammentarietà è superato grazie all’equilibrio dell’insieme. Lucas è consapevole di stare realizzando un film di pure emozioni, e un giorno considererà THX 1138 la sua “testa” e American Graffiti il suo “cuore”. Coerentemente, il regista si concentra sul cuore emotivo del film rappresentato dai giovani americani dei primi anni Sessanta. Precisamente, ci troviamo nella California del 1962, con buona probabilità a Modesto, città natale di Lucas e di Steve, uno dei protagonisti. Il film ripropone la serata d’addio alle vacanze estive. Tra le molte microstorie Lucas predilige quattro personaggi e le loro disavventure. Insieme formano un clan che onora quotidianamente il rito del raduno al Mel’s Drive-in. Qui convengono, uno alla volta, il goffo e proletario Terry Fields (Charlie Martin Smith), sempre in vespa e alla ricerca di una bellona che gli rivolga un’occhiata, Steve Balander (Ronnie Howard, presto star del serial televisivo Happy Days e poi regista di successo per pellicole di smagliante fede hollywoodiana nonché regista dello spin-off Solo), il rampollo di famiglia benpensante con tanto di auto nuova e girlfriend, Laurie Henderson, smorfiosa quanto lui, Curt Henderson (Richard Dreyfuss), la “coscienza” del gruppo, intelligente al punto da ricevere un assegno come
borsa di studio da parte dei commercianti del paese, ma anche il più straniato assertore dei valori della vita, scettico nei confronti dei clan e delle certezze comuni, sfuggente e infantile così come straordinariamente affascinato dalla “magia notturna” (sogna di incontrare sulla prossima auto la sua “dea”, e di poter conoscere un giorno “Lupo solitario”, la voce della radio che, come un “grande fratello” bonario, infonde calore e nostalgia ai ragazzi in cerca di emozioni). Infine, sopraggiunge l’ultimo protagonista del film, il meccanico John Milner (Paul Le Matt), sorta di James Dean diseroicizzato, grande talento del volante, mitizzato dall’occhialuto Terry Fields come l’imbattibile pilota della vallata di San Joaquin. Lucas descrive con evidente partecipazione un universo giovanile sul quale pesano grandi responsabilità. Ognuno infatti deve fare una scelta, prendere una decisione che condizionerà il proprio futuro. Chi deve, come Steve, decidere se ritenere la sua storia sentimentale con Laurie un fatto realmente importante, chi invece, come Curt, riflettere se valga la pena raggiungere il college oppure restare nella soffocante provincia di Modesto. In questo clima d’incertezza incutono particolare simpatia coloro che non sembrano avere molte possibilità di scelta nel proprio immediato futuro: Terry Fields, buffo giullare squattrinato, paladino d’inadeguatezza ma sempre sul punto d’inventare qualche nuova soluzione per mettersi al pari con i più collaudati rivali, John Milner, nostalgico senza meta, proletario e viscerale proprio come il deificato Holly, immagine del “duro ribelle” la cui progressiva inattualità comunica sgomento più che nostalgia. La didascalia finale del film (spesso censurata nelle riedizioni italiane passate in TV, secondo un malcostume che produce un vero e proprio snaturamento con relativo “alleggerimento” del senso di American Graffiti), rappresenta una sorta di lapide che sancisce il limite definitivo della grande notte di divertimenti: Steve sarà un giorno un agente delle assicurazioni a Modesto, Curt diverrà scrittore e vivrà in Canada, John perderà la vita nel 1964, investito da un ubriaco, Terry morirà in Vietnam nel 1965. La finitezza dell’esistenza assume un significato
impietoso per questi giovani. Il film favorisce dunque il recupero di un passato che non può risolversi in puro revival. Se Lucas si impegna, come sarà nel successivo Guerre stellari, in una riproduzione dei segni esteriori dell’epoca che sembra fuoriuscita da un’enciclopedia (drive-in, blue-jeans, t-shirt, flipper, giubbotti di pelle, gonne larghe con la vita stretta, ecc.), la sua opera va al di là dell’immagine del film-cartolina producendosi in una rivisitazione nostalgica di quell’età, i sedici anni, in cui ogni fatto dell’esistenza acquisisce un significato rituale, consonante con i cambiamenti che ciascun individuo deve affrontare. In questo senso, American Graffiti diviene davvero un film simbolo, poiché, più dello scrupolo filologico, conta in esso la celebrazione appassionata, divertente ma anche amara di una condizione nella quale i miti verranno presto vanificati o smascherati (come succede a Curt il quale, alla fine del film, scopre che “Lupo solitario” non trasmette da un satellite in orbita come favoleggiato dai giovani, ma dalla periferia di Modesto, e altri non è che un simpatico grassone con la barba). Film nostalgico, dunque, ma anche film sospeso sulla condizione di passaggio dal sogno al reale, vivificato dall’idea che i miti sono comunque indispensabili per ciascuno. THX 1138, in questa prospettiva, sembra il negativo di American Graffiti. Nel primo film di Lucas il personaggio doveva liberarsi da un mondo di incubo per scoprire che la vita sulla terra non era affatto invivibile come pretendeva il Controllore Supremo. In American Graffiti il sogno sembra confinato nella notte, e la scoperta della realtà, mentre smaschera il mito, ne rivendica l’importanza per l’individuo. L’alternativa è di rimanere degli eterni borghesi benpensanti come Steve, oppure morire senza avere sognato l’esistenza della propria “dea ispiratrice”. Lucas, con American Graffiti, mentre è coinvolto fino in fondo dall’aspetto emotivo dei suoi sognatori, lascia tuttavia tra parentesi la riflessione sull’infantilismo giovanilista degli americani, mostrando una disposizione d’animo estremamente conciliante con quell’eden di eterni ragazzini. La tappa successiva della sua carriera sarà propriamente la saga di Guerre stellari cui il regista dedicherà le sue forze (e il
termine non è casuale), di lì in avanti, nel segno di un cinemaossessione da rivedere-riformulare-rivisitare, come una favola metacinematografica sempre pronta a ridisegnarsi sulle attitudini dei nuovi spettatori. Senza dubbio American Graffiti pone le basi per la strategia di serializzazione dell’immaginario di cui si sarebbe d’ora innanzi nutrito il lavoro di Lucas. In questo, ancora una volta, il regista è influenzato da Coppola il quale, nel 1974, cioè l’anno successivo a American Graffiti, realizza con enorme successo di critica e di pubblico il primo seguito di Il Padrino. Ma sarà soprattutto Lucas a fare della serialità una colonna portante del nuovo cinema e insieme una “dichiarazione d’intenti”; ciò, beninteso, non soltanto attraverso la trilogia di Guerre stellari, ma anche con l’ideazione della saga dell’archeologo Indiana Jones e la creazione dell’Industrial Light Magic, vero e proprio laboratorio di sperimentazione nel campo degli effetti speciali. Inoltre, e non proprio per caso, nelle reti del cineasta capiterà talvolta la produzione di qualche film “teorico” come Mishima (1985) di Paul Schrader o Tucker (1988) di Francis Ford Coppola. Divagazioni avventurose Varrà quindi la pena, a questo punto, di soffermarsi sul più clamoroso tra i progetti realizzati da Lucas e Spielberg. Per puro caso i due vecchi amici si erano ritrovati assieme in vacanza alle Hawaii nel maggio del 1977. Guerre stellari era uscito da poco e stava sbancando il box-office. Lucas confidò all’amico fraterno di avere in mente un progetto altrettanto clamoroso, un film incentrato su di un archeologo insolito, Indiana Jones, un po’ atleta, un po’ scienziato, un eroe e un mercenario, sorta di James Bond degli anni Trenta animato da una passione profonda e “disinteressata” per i fatti e gli oggetti storici. Il film, che sarebbe stato diretto da Philip Kaufman, avrebbe seguito le avventure di Indiana Jones alla ricerca della
leggendaria Arca dell’Alleanza. Spielberg confessò di essersi innamorato del progetto dopo pochi istanti: «George me ne parlava da cinque minuti ed ero già in piedi, incapace di trattenere l’eccitazione» (The Making of “Raiders of The Lost Ark”, Ballantine Books, New York, 1981, p. 25). Quando, qualche mese più tardi, Lucas gli disse che Kaufman aveva rinunciato alla regia, Spielberg confidò all’amico il desiderio di dirigere il film personalmente. Contattò allora il giovane sceneggiatore e futuro regista Lawrence Kasdan, che approntò una sceneggiatura adattata fedelmente al dinamismo grafico dei numerosi bozzetti preparati da Spielberg durante l’ideazione del lavoro. Dopo cinque mesi di intensa scrittura, Kasdan si presentò infine con una sceneggiatura ricca e fantasiosa. A quel punto, nel dicembre del 1979, Lucas volle definire assieme a Spielberg e Kasdan un dettagliato piano di produzione, pretendendo anche l’alleggerimento di alcune parti della sceneggiatura. Alla vigilia del nuovo decennio, Lucas e Spielberg si stavano dunque preparando ad allestire un film che sarebbe apparso grandioso nella messa in scena, ma che sarebbe risultato relativamente economico nella realizzazione. Sarebbe stata questa, d’altronde, la regola dei due cineasti per tutti gli anni Ottanta. Le parole di Spielberg sono rivelatrici del lavoro con Lucas: “Cominciammo a girare nel giugno dell’80 e finimmo nel settembre dello stesso anno. Fu il periodo complessivo di riprese più breve che mi trovai a fare dai tempi di Sugarland Express. Per Sugarland ci vollero cinquantacinque giorni. I predatori, con tutta la sua spettacolarità e la sua esuberanza, lo girammo in settantatrè giorni, cosa di cui sono orgogliosissimo. Volevo davvero girarlo in modo economico, facendolo apparire come un film di quaranta milioni di dollari, spendendo invece solo venti milioni, che era il budget originariamente previsto. I venti milioni però, avrebbero coperto 86 giorni di riprese, ma io avevo organizzato un secondo piano generale di 73 giorni, di cui pochissimi sapevano e la Paramount per prima. Quello fu il piano di lavoro che seguimmo e scoprii che non facendo i circa 53 ciak previsti per ogni inquadratura, ma facendone soltanto, diciamo, da tre a cinque, riuscivo a mettere molta più
spontaneità nel film e, insieme, meno pretenziosità e meno indulgenza nei confronti di me stesso”. La prontezza di Spielberg nell’adattarsi alle esigenze organizzative del progetto rappresenta già un primo elemento per individuare la sensibile affinità con Lucas; quest’ultimo, d’ora in avanti, sempre più produttore e ideatore di nuove formule cinematografiche anziché esecutore in prima persona. Ma le affinità tra i due cineasti toccano più punti. La loro collaborazione imprime infatti una svolta alla carriera di entrambi. Mentre registi come Coppola, Scorsese e Schrader saranno riconosciuti come i “film-makers” del nuovo cinema statunitense, ovverosia autori di pellicole di impatto popolare ma ricche di spunti critici e influenze artistiche, Lucas e Spielberg saranno invece per lungo tempo soltanto dei “movie-makers”, cioè i fortunati ideatori di pellicole di facile presa sul grande pubblico (in particolar modo su quello giovanile), il cui obbiettivo principale è di sbalordire con un accumulo di trovate ad effetto. Sarebbe apparsa come sempre più inequivocabile, in seguito, la seguente dichiarazione di Spielberg l’indomani dell’incredibile boom de Lo squalo (Jaws, 1975) al botteghino; un’affermazione che il regista si lascia sfuggire pensando proprio all’entourage dei suoi amicicollaboratori, tra i quali, appunto, Lucas, Zemeckis, Milius e De Palma: «Ci scambiamo spesso aiuto e copioni: siamo interessati a fare film intelligenti e ben fatti che possano rivolgersi a milioni di spettatori ed assolutamente disinteressati a film di successo critico che nessuno andrà a vedere». Una dichiarazione che lo stesso Spielberg avrebbe cercato di far dimenticare in futuro realizzando film “seri” come L’impero del sole (Empire of the Sun, 1987) e Schindler’s list (1993). Ma si tratta, ad ogni modo, di una dichiarazione d’intenti estremamente attendibile, se pensiamo all’evoluzione della carriera della coppia Lucas-Spielberg negli anni a venire. Il primo film realizzato assieme è I predatori dell’arca perduta, uno dei successi più travolgenti del 1981. Sin dalla prima sequenza, attraverso la celebre sovrimpressione della montagna che prende il posto del marchio Paramount, possiamo percepire lo smalto di un film determinato a riaprire
il conto in sospeso con lo stile e l’entusiasmo del cinema avventuroso americano d’un tempo. Se I predatori dell’arca perduta è innegabilmente frutto del piglio spielberghiano, risulta nondimeno indubbio che affiori in esso una perfetta intesa tra i due uomini di spettacolo. Assieme, Lucas e Spielberg recuperano la figura del paladino di grandi avventure, senza parodizzarla secondo il gusto corrente, ma calcando certamente i toni ironici e da “burlesque”; la loro operazione si ispira evidentemente al cinema americano degli anni Trenta e Quaranta, ma soprattutto al carisma divistico di Humphrey Bogart, mentre, a livello narrativo, il loro lavoro si concentra in principal modo sull’intento di riprodurre il dinamismo grafico dei fumetti americani d’epoca, tanto più che lo storyboard del film è concepito sin da subito come un’enorme tavolozza a fumetti. E se gli aspetti visivi e scenografici riprendono gli stilemi e il fascino delle tavole di Flash Gordon, sul piano del ritmo narrativo ci troviamo piuttosto dalle parti dei film con l’agente segreto James Bond, sorretto per di più da un inedito gusto disneyano. I predatori dell’arca perduta è un grosso catalogo di riferimenti, come American Graffiti lo era di una differente epoca storica: l’eroemito degli anni Trenta, il mercenario alla Bogart in epoca di Guerre Mondiali, le terre misteriose del Nepal, le tombe dei faraoni egizi la cui profanazione grida vendetta, l’elemento magico celato nell’Arca dell’Alleanza, il magazzino finale nel quale viene depositata l’Arca, a sua volta immagine di un ipotetico “archivio dell’immaginario”. Tra i molti elementi implicati nella catalogazione, a uscire da un processo di museificazione è soprattutto il versante spiritualista della vocazione cinematografica, che ne I predatori dell’arca perduta risuona come una sorta di ideale rivendicazione ebraica contro la ferocia dei nazisti profanatori (emblematica a questo proposito la clamorosa sequenza finale con Indiana Jones e la sua compagna che si salvano chiudendo gli occhi dinanzi alla “tentazione demoniaca” di vedere le ricchezze nascoste dentro l’Arca, mentre la furia divina si scaglia contro il manipolo di nazisti capitanati dal perfido e fumettistico Belloq). Il versante spiritualista, in particolar modo, deve
essere molto importante per i due cineasti, se pensiamo che Spielberg aveva realizzato quattro anni prima un film come Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo la cui vocazione messianica era ben raffigurata dall’arrivo degli angeli-alieni sulla Terra, mentre i personaggi predestinati al “contatto” come Richard Dreyfuss rivolgevano spesso gli occhi al cielo in attesa di una visione rassicurante. Lucas e Spielberg propongono dunque un cinema nel quale gli effetti speciali raggiungono livelli ragguardevoli. Il loro lavoro diviene, in qualche modo, raffigurazione di quelle “visioni supreme” agognate da Dreyfuss in Incontri Ravvicinati. In questo senso il loro sforzo appare nutrito soprattutto di cinema e di sperimentazione visiva. Tuttavia è dato cogliere nel loro comune exploit anche un meno consolante “lato oscuro”. I successivi episodi della saga di Indiana Jones sono il sicuro riflesso di questa circostanza. Occorre ricordare, a questo proposito, che il progetto di Lucas prevedeva una trilogia sin da subito, ma a patto che il primo film riscuotesse un buon successo di pubblico. Tuttavia, diversamente da Guerre stellari, la trilogia dell’archeologo non era stata del tutto progettata anticipatamente nelle sue trame. Decisivo, su questo punto, è stato l’intervento di Spielberg. Del trittico interpretato da Harrison Ford, il secondo episodio, Indiana Jones e il tempio maledetto (Indiana Jones and the Temple of Doom, 1984), è quello che ha fatto storcere il naso alla maggior parte dei fan. Film eccessivamente claustrofobico e sepolcrale, è stato detto. In effetti, il film presenta una sceneggiatura più scarna rispetto al capostipite, una scrittura che si adagia in modo piuttosto meccanico su una sinfonia di sacrifici umani e riti vudù, con Indiana alle prese questa volta con i seguaci di una dea assassina e i rischiosissimi sforzi per cercare di salvare centinaia di bambini tenuti come schiavi in una miniera. Il ritmo, incalzante nella prima parte, non salva però le debolezze della seconda. Il film, comunque, rende conto ancora una volta della vocazione cinefila di Lucas e Spielberg, che si rifanno sfacciatamente alle vecchie scenografie dei film con Tarzan e Bela Lugosi. Inoltre, in modo ancora più esplicito rispetto a I predatori dell’arca perduta, l’intrepido e
ironico Indiana viene affiancato da una ragazza continuamente in disaccordo con lui ma fatalmente innamorata (qui la biondina Kate Capeshaw, futura signora Spielberg). La donna, come altre interpreti spielberghiane, sembra provenire direttamente dalle deliziose commedie anni Trenta di Howard Hawks. Il clima di morte e truculenza, smussato a tratti dall’ironia e dalla goliardia carnascialesca del racconto, sembra comunque appartenere pienamente all’ideatore di Guerre stellari. Anzi, possiamo dire che Indiana Jones e il Tempio Maledetto appare più cupo e sinistro de I predatori dell’Arca Perduta quasi come L’impero colpisce ancora si mostrava meno enfatico e possibilista di Guerre stellari. In ultima analisi, Indiana Jones e l’ultima crociata (Indiana Jones and the Last Crusade, 1989) è spielberghiano soprattutto nel recupero della figura del padre del personaggio, ruolo che viene assegnato al carismatico Sean Connery. Questi, attore-feticcio del cinema spionistico, è l’emblema di un ideale confronto tra il modello avventuroso-rocambolesco degli anni Sessanta (i film di James Bond, appunto) e gli eredi spirituali degli anni Ottanta-Novanta come Lucas e Spielberg, imbevuti di cinefilia e spregiudicato sensazionalismo.
Ma, a ben vedere, Indiana Jones e l’ultima crociata è anche un film lucasiano, nella misura di un rinnovato scontro tra bene e male che tanto caratterizza il cinema di Lucas. Infine, esso è il simbolo luminoso della collaborazione tra due cineasti affini, entrambi orfani di autentici padri spirituali e agitati dal costante desiderio di trasfigurare attraverso racconti iperbolici il proprio “lato oscuro”. Un simbolo che cerca nuova luce nel film Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, dove Harrison Ford ritorna, nel 2008, a rivestire i panni del celebre archeologo, e dove l’attore, assieme a Spielberg e a Lucas, inaugura un inevitabile effetto nostalgia che si rifletterà nelle loro realizzazioni future. Favole resistenziali Dopo Guerre stellari (1977) Lucas sembra destinato ad essere “soltanto” il produttore dei suoi film, e anche in questo senso si rafforza l’idea che la produzione sia specificamente la vera forma espressiva per un cineasta destinato ad avere il controllo ideativo su ogni momento della realizzazione. Lucas è così l’autore di script, di sceneggiature. Ma quando negli anni Novanta egli annuncia di voler produrre e dirigere una nuova trilogia di Guerre stellari, cioè tre film destinati ad essere il preludio della trilogia classica, ci si accorge una volta di più che il suo sogno è costantemente legato a quella visione. Nei tre film che dal 1999 rilanciano Guerre stellari facendone una volta di più la saga di fantascienza di maggior successo di sempre, Lucas traccia ancora una volta nuove coordinate espressive. E crea qualche corto circuito che manda in tilt sia gli appassionati che i critici. Se per Guerre Stellari, Lucas aveva attinto all’immaginario cinematografico e mitologico del cinema d’avventura, il riferimento, per quanto riguarda l’evoluzione tecnologica al servizio dell’espressività cinematografica, era stato soprattutto 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, tanto più che per il suo film Lucas si mise sulle orme dei collaboratori kubrickiani, a cominciare
dal compianto Gilbert Taylor, direttore della fotografia de Il Dottor Stranamore (1964). Taylor avrebbe prestato a Guerre stellari il suo indiscutibile talento nel restituire alla rappresentazione quel quid di realismo che avrebbe permesso di parlare di verosimiglianza pur in un contesto completamente avvenieristico. Con la trilogia-prequel composta di La minaccia fantasma (1999), L’attacco dei cloni (2002), La vendetta dei Sith (2005), lo sguardo di Lucas è talmente impregnato delle nuove suggestioni digitali da far scomparire quel ricercato effetto polveroso, di gustoso realismo, che percepimmo nella prima trilogia. Evidentemente, le nuove tecnologie, l’affannosa ma velocissima evoluzione dei mezzi, devono aver fatto pensare a Lucas che la prima trilogia esibisse inevitabilmente il passaggio del tempo nelle tracce di effetti speciali pur sempre pionieristici secondo una concezione, la sua, in stato di perenne movimento (cioè aggiornamento…). Non a caso durante gli anni Novanta la prima trilogia venne rieditata con aggiunte e nuovi effetti speciali, in tal modo annunciandosi come “momento ponte” per l’annunciata trilogia-prequel. Ma il realismo della prima trilogia corrispondeva, per l’appunto e in un senso piuttosto genuino, ad una percezione di “realismo magico”, dove gli attori in carne ed ossa facevano la loro apparizione in un universo in cui i temibili condottieri del lato oscuro della Forza, assieme agli altri bizzarri abitanti dell’universo, parevano proprio, anche loro, “in carne ed ossa”. Adesso, la proliferazione di effetti digitali della nuova trilogia, mentre obbedisce sul finire degli anni Novanta alla suggestione lucasiana di ricreare scenari nel modo più futuribile e nel segno del maggior realismo, ottiene talvolta un effetto di piattezza espressiva, ovvero defaillances di sfumature nella composizione dell’immagine, fermo restando l’elevato livello di elaborazione della composizione scenica. Mentre sono sovente magnifiche alcune sequenze d’azione (la corsa degli “sgusci”, omaggiante Ben Hur ne La minaccia fantasma, tutto l’avvio de L’attacco dei cloni che riproduce una baldanzosa immersione luministica tra le vie di una metropoli in stile, appunto, Metropolis) che intendono restituire il senso di
un’immersione nel futuro come esperienza da vivere, godardianamente, “fino all’ultimo respiro”, non di rado il respiro della narrazione registra pause di credibilità mentre la ricercata naturalezza della visione è minata dalla ricorrente sensazione di saturazione percettiva. Le immagini sono piatte, i droidi e perfino il temibile generale Grevious esibiscono tutta la pixellante grana virtuale di cui sono manifestazione. Ma quest’effetto di virtualità traboccante, alla lunga emerge anche come l’elemento strategico, a livello espressivo, della seconda trilogia di Lucas. E’ proprio il confronto tra il segno “veemente” dell’espressività umana e la tracotanza di droidi digitalizzati o di creature simil muppets ridotte anch’esse a decalcomania digitale, a richiedere, nel terzo episodio della nuova trilogia (La vendetta dei Sith, il migliore della serie ritornata in pista), la presenza di nuovo pathos, che finalmente sgorga da una vicenda in cui si registra il maggior contatto e il punto di passaggio drammatizzato e simbolico verso la trilogia del passato. Ci si accorge così che la nuova trilogia è, almeno nelle intenzioni, una realizzazione compatta e con un preciso senso (anche strumentale, come onda che riporta inavvertitamente verso il passato-futuro della prima trilogia, visto che in ogni episodio fanno l’apparizione graduale e sensazionale personaggi e figure che attingono al futuropassato). Una trilogia che certamente sperimenta sul piano espressivo, disegnando una composizione visiva che unisce le dimensioni temporali (l’antica Reggia di Caserta diventa lo sfondo delle riunioni intergalattiche del Senato spaziale), dove la componente politica è palese e manifesta sin da La minaccia fantasma (e il senatore Palpatine, che si mostra dapprima e quasi inavvertitamente il politico esperto delle spartizioni del potere della scena, è poi il consumato demiurgo del lato oscuro della Forza) sempre al servizio di un panteismo adrenalinico di esibita vocazione avventurosa. I film, a dire il vero, patiscono anche per via di racconti con limitate evoluzioni, per di più compresse dall’orbita delle scene madri, e solo La vendetta dei Sith è un film degno della fama di Lucas, quasi come soprattutto Guerre stellari lo era per la prima trilogia. Permane, costante, la vocazione cosmopolita, meticcia, vera
linfa dell’orizzonte espressivo di Lucas, uno dei punti di forza e di maggiore rottura del suo intero progetto cinematografico. Il quale, tuttavia, credo abbia espresso proprio sul finire degli anni Settanta la sua maggiore portata simbolica. Guerre stellari, infatti, conduceva ad esiti di convincente stilizzazione una certa favolistica ma anche, in anticipo rispetto ad altri, un condensato di cultura pop in cui erano compresi fumetti e varie serialità, stili, atteggiamenti, mode. In questo disinvolto e sincero sincretismo, le principesse Leile viaggiavano a fianco di furfanti bonari come Ian Solo, lo smalto espressionista di Metropolis si fondeva con lo spirito di Flash Gordon. Alto e basso si sporcavano le mani nella ricerca di una suggestione pagana d’intrattenimento, attraversata da un’ipotesi misticheggiante. I nuovi Dei non erano di certo solo gli effetti speciali, ma il coraggio, l’avventura, il ritorno alla condivisione di sogni di libertà. La guerra contro l’impero era proprio la guerra contro l’omologazione, in uno scenario resistenziale visto, per la prima volta al cinema, come favoloso, cui contribuiva, e contribuisce ancora dopo tanti anni da quel 1977, la musica sinfonica, lisergica e favolosa di John Williams. E non deve essere stato facile, per Lucas, resistere alla dimensione gigantesca della macchina produttiva, quella che è diventata nel frattempo Star wars e poi Lucasfilm, per restituire al suo cinema lo smalto del confronto sentito tra gli individui e l’orizzonte che li sovrasta. E’ quanto Lucas ha cercato di fare, ed è in buona misura riuscito a fare, proprio con La vendetta dei Sith, dove gli elementi della tragedia classica riverberano i loro gravi echi su tutto il racconto. Qui, in questo definitivo prequel, il cavaliere Jedi, Anakin Skywalker, soffre e sul suo volto cogliamo lo sgomento per il suo irrefrenabile seppure contraddetto passaggio al “lato oscuro”. Il suo corpo di giovane è afflitto, ferito in battaglia, martoriato, infine ridotto in quello di un uomo monco. Sarà lui a risollevarsi diventando Darth Vader, il vero padrone dell’impero il cui elmetto nero è sicuramente memore o clone di quello dei nazisti. E nella teatralità furoreggiante di un film che nella sua estetica risaputa riepiloga tutti gli avvenimenti e si salda alla trilogia che fu, si spiega l’abilità di uno sguardo
incisivo e al contempo enfatico, per il quale la riflessione sul tempo e sul destino offre rivoli di senso ad una narrazione classica che proietta i suoi echi di serialità sul cinema che sarà (o che non sarà mai più così). Scopriamo così che la nuova trilogia andava anch’essa alla ricerca delle emozioni, o dell’emotività, che una concezione seriale necessita. E in questa direzione anche J. J. Abrams, abile meta-regista che aveva già rimesso in pista i personaggi classici di Star Trek e che ha voluto ritrovare, ne Il risveglio della forza, i personaggi della prima trilogia di Lucas riallacciandosi inevitabilmente a quell’epoca e declinando in chiave attuale le loro motivazioni, obbedisce con il suo lavoro del 2015 a realizzare un monumento celebrativo incentrato sui mille rimandi di una favola seriale, facendo dell’avventura cosmica uno spazio iper, cioè ipermnemonico, iperbolico, ipermodulare. Quasi un ologramma della nostra memoria condivisa attraverso il cinema e gli altri mezzi di comunicazione. Ricercando soprattutto le emozioni perdute, o dissimulate, o mummificate, per riportarle, infine alla luce. Verso, come da copione, una nuova speranza. Il risveglio della mitologia Il risveglio della forza è stato il film più atteso del 2015 e uno dei film più pubblicizzati di sempre. Il trailer del film era programmato da più di un anno. La campagna di marketing per il settimo episodio di Star wars si è dimostrato, in effetti, senza precedenti. E di tutto rispetto il successo del film, per quanto atteso, per quanto agognato dalla Disney e vagheggiato da tutto un mondo di spettatori trovatisi dinanzi al film capace di ridestare l’attenzione per la saga cinematografica più longeva. Con Il risveglio della forza, il fatto più sorprendente è proprio quello di trovarci di fronte, malgrado tutto, ad un film. Abrams, grande cultore e conoscitore della saga, compone un nuovo episodio pilota per una nuova generazione di spettatori, calcando le orme della trilogia originale e aggiornando moduli stilistici e forme rappresentative. Per
buona parte dell’avvio del film si respira il senso dell’attesa sacrale e timorata: che qualcosa ridesti agli antichi bagliori, che i personaggi della prima trilogia riappaiano come “revenants” familiari e mai finiti nel dimenticatoio. In America, Harrison Ford, Mark Hamill e Carrie Fisher sono stati al lavoro per mesi al fine di promuovere il grande ritorno. Abrams si inserisce nel filone dei nostalgici spielberghiani e riporta in vita le antiche maschere. Quella di Han Solo, innanzitutto. Harrison Ford con i capelli grigi e i movimenti legnosi è letteralmente Han Solo trentadue anni dopo. Quel gusto un po’ sfacciato per la battuta e i toni da vilain spaziale sono quanto sopravvive, a livello di caratterizzazione psicologica, del suo personaggio anticonformista e anarcoide, mercenario dal buon cuore, in fuga perenne in un mondo di lascivi e spietati figuri. Al suo fianco si collocano i nuovi protagonisti della serie, Rey, Finn e Kylo Ren, giovani volti e giovani attori, per ridare corpo ad un’avventura che, letteralmente, riparte da capo. E’ stato giustamente notato che Il risveglio della forza, più che ad un sequel, somigli ad un remake. Il rivolo antropologico di senso che affiora nelle immagini deve il suo connotato sfavillio all’emergente ricalco di una trama e di una vicenda nota: A new hope permane senza mezzi toni come il momento ispiratore, il film a cui Abrams e lo sceneggiatore Lawrence Kasdan vogliono ritornare per riportare la riflessione e l’avventura cinematografica al suo corso originario, quando le dinamiche della lotta tra il bene e il male si disegnavano su profili dal sapore primigenio e su una febbre di scoperta che era la stessa della sorpresa e della meraviglia condivise con uno spettatore appassionato. Nella tensione al ricalco, alla riproposizione di situazioni ritrovate con il vigore di una nostalgia che non disdegna la cupa nota di una temporalità che sfugge e divora le impressioni liete, si fa strada infatti una certa rappresentazione tragico-drammatica, che non può presentarsi completamente come fredda decalcomania dei tempi che furono. Quando infatti un invecchiato e serio Han Solo confessa con disarmante fragilità ai giovani Rey e Finn (i nuovi Luke e Leila della trilogia nascente) che “la forza, i cavalieri Jedi….. è tutto vero”, si fa
strada l’ammissione di un immaginario che vuole tornare a galla ma che ha dinanzi a sé l’incredulità dei nuovi sguardi smaliziati (nuovi spettatori, non sempre capaci di immedesimarsi con gli antichi paladini) e la scommessa in un avvenire incerto, dove ai giovani protagonisti è affidato un orizzonte tutto da scrivere. Il risveglio della forza rifonda la saga dalle sue fondamenta di lotta contro i dominatori dello spazio, invocando gli spettri di un’omologazione del sentire che obbedisce ad antichi retaggi qui più che mai disegnati sul ritorno di fanatismi e totalitarismi dai sapori conosciuti. I cloni che popolavano i prequel di Lucas lasciano il posto ad un Nuovo Ordine, nuova declinazione dell’Impero, in cui i volti e le masse sono cloni del terzo Reich e degli eserciti della trilogia originaria. Si è fatto un gran parlare attorno all’importanza delle figure femminili ne Il risveglio della forza. Rey, innanzitutto. A lei il compito di vivacizzare i movimenti di una femminilità celata nelle polveri di uno spazio antico e modernissimo, cuore lontano e futuribile di un film sospeso tra il talento del bravo professionista appassionato (quello di Abrams) e l’automatismo di una scrittura modellata su situazioni note. A Rey il compito di ritrovare la spada di Luke Skywalker e di riportarla al paladino dei cavalieri Jedi ritrovato in un finale che sospende e rinvia ogni continuazione del racconto. A lei la missione di riportare a Luke il comando di un’avventura che si annuncia inconclusa e nuovamente rinviata. Dopo il senso d’attesa della prima parte, il senso di rinvio della parte conclusiva, per un film che pare così sospeso e contratto tra due momenti che obbligano a pensare, inevitabilmente, alla dimensione della saga, oltre il singolo episodio. Ma è un personaggio femminile inatteso anche quella Maz Kanata, amica di Han Solo, cui è affidato il compito di aiutare Han e la coppia Rey-Finn dalla fuga per la caccia dei soldati del Primo Ordine, annunciandosi come una tra le amiche-figure complici dell’immaginario mitologico disegnato attorno alla figura di Han Solo, il cui fedele Chewbecca si ritaglia, forse soprattutto ne Il risveglio della forza, il ruolo più simpatico ed emotivamente coinvolgente della “rentrée” (è anche il solo, con l’eccezione dei droidi
fraterni C-3PO e R2-D2, a non essere invecchiato). Ritornano un po’ tutti nel nuovo film, con Leila che è finalmente figura senatoriale a capo dei ribelli in virtù di una saggezza quasi sacerdotale, e ritornano i robot un tempo fonte di divertimento e avventura. Atteso come il sequel della “nuova speranza” in fatto di fantascienza, Il risveglio della forza è un divagare programmatico negli ambienti del primo film, di cui viene riproposta addirittura la temeraria spedizione della truppa eroica negli ambienti della base del Primo Ordine, esatta reimmersione nei labirinti, nelle architetture che oggi sanno pretestuosamente di polveroso, dei corridoi che ricordano “La morte nera” e che hanno la sporca trasandata fuliggine degli interni invecchiati del Millennium Falcon. Quella polverosa dimensione di veridicità che già nei film degli anni Settanta e Ottanta voleva darsi come chiave veritativa per un film d’invenzione e che Abrams sottolinea e ritrova nella minuziosa ricostruzione d’ambiente. La scrittura lascia nelle mani della protagonista Rey il mistero del futuro. Nel momento in cui afferra la rinvenuta spada laser di Luke Skywalker (a cui si avvicina per un mistero che nel film rimane inspiegabile quanto arcano…) la vediamo elettrizzata e stordita per via di un ipotetico flash-back/flash-forward che si vuole anticipatore e occultatore, la cui luce chiarificatrice è destinata a crescere nelle prossime puntate mentre ora pone interrogativi destinati a gonfiare la messe delle ipotesi del mondo dei followers della saga. Rey figlia di Luke? Rey e Kylo fratelli? Abrams e Kasdan hanno ribadito con Episode VIII la vocazione autocelebrativa di una saga che promette di ripetere non soltanto la suggestione di un’esperienza estetica pressoché tale e quale a quella vissuta negli anni Settanta, ma anche di rivivere la complessa intelaiatura di rimandi e di parentele, di rapporti intrecciati e di riferimenti simbolici in una geneaologia che attraversa il cosmo così come gli universi e le poche storiche conosciuti. In fondo, Star wars è oggi più che mai una summa spettacolare ed enciclopedica della mitologia contemporanea, che richiama il bisogno di raccontare il passato innestando nella contemporaneità ipotesi di speranza intrecciate alle derive ultratecnologiche e agli
spettri della distruzione planetaria e della dominazione totalitaria. Rispetto agli anni Settanta, il realismo ha un minor sapore di magia, e perfino la fantascienza sembra sempre meno un orizzonte lontano. Il sapore tragico-shakespeariano è invece ribadito dal destino di alcuni personaggi, e dal confronto tra Han Solo e il figlio maledetto Kylo Ren. Anche Rogue One, spin-off voluto dalla Disney, non fa che aggirarsi, in una luce ordinaria e in ambienti cupi, lungo le ombre della prima trilogia, per sottrarre magia agli orizzonti magici dei cavalieri Jedi, e riportare un po’ di ordinaria quotidianità nelle gesta di una nuova eroina, a confronto con “La morte nera” e con l’impero prima maniera. Non deve stupire questo estremo ricorso al passato. In fondo Star Wars, fenomeno di massa e leggendaria vicenda produttiva, ha aperto spiragli e scorci su mondi che sono poi rimasti luoghi dell’immaginario tutti da scoprire. Rogue One, in questa direzione e ancor più de Il risveglio della forza, si muove in questa zona perlustrativa, riportando un’estetica conosciuta in una scrittura e in una vicenda dai sapori contemporanei. Altri spin-off sono arrivo. Quello su Han Solo e quello su Boba Fett. I personaggi di culto della saga. Un continuum orientato a non perdere di vista il passato celeberrimo, che avrà facilmente il volto di nuovi personaggi destinati ad essere un giorno richiamati a rapporto dalla Disney e dai perlustratori dell’immaginario inventato da Lucas. Con la speranza, nuova, che i film del futuro ci riguardino un po’ di più e non siano soprattutto il frutto di una rincorsa autocelebrativa. E qualcosa di tangibilmente incorraggiante si profila, almeno in parte, all’orizzonte: il primo spin-off della saga, invece di mostrarsi unicamente come un calcolato film destinato a ridestare il nostalgico appassionato della galassia lontana fantasticata da George Lucas, ha notevolmente sorpreso perché, innanzitutto, con Rogue One si è tornati a parlare con serietà di un film legittimamente concepito come amplificatore di suggestioni e tensioni le più vicine possibili allo spirito che animò gli esordi della saga di Guerre stellari. L’entusiasmo dei fan, per una volta, è coinciso con il plauso decisamente incoraggiante della critica, a testimonianza che il progetto di rinascita-continuità
della serialità lucasiana appare plasmato su una conoscenza filologica della semantica spaziale nell’intento di ribadirne ed amplificarne l’apertura simbolica e la riproducibilità mitopoietica, così da rimarcare anche quella dimensione istituzionale del cinema come fatto socio-industriale, che il manto stellato ha saputo riverberare in guisa avventurosa e valicante ogni sorta di confine, sia esso geografico o simbolico, spettacolare ed espressivo. Può apparire singolare che sia proprio uno spin-off della saga a sollevare i maggiori consensi, anche rispetto a Il risveglio della forza che sul finire del 2015 aveva comunque ridestato a furor di popolo le antiche nostalgie; eppure il progetto della Disney - che prevede oltre a una trilogia sequel anche tre spin-off da realizzare e distribuire tra un episodio e l’altro della saga ufficiale -, per quanto calcolato e previsto, lascia intendere come il margine di creatività maggiore sarà meglio percepibile con il lavoro di registi maggiormente ispirati, e nel caso di Gareth Edwards abbiamo trovato un giovane director per il quale Star Wars è, in maniera di certo non nascosta, il sogno di un’intera vita. A tal punto che Rogue One sembra nascere proprio come un’estensione di Guerre stellari del 1977, ovvero come una divagazione sui temi e sui territori del film da cui la saga ebbe origine, di cui salvaguardia e aggiorna l’asciuttezza espressiva e conserva il controllo narrativo in una progressione drammatica che culmina in sequenze dove la resa carismatica degli interpreti e una regia che dosa con efficacia i tempi e i registri espressivi definiscono non un calco ma un’efficace rivisitazione d’istanze drammatiche e situazioni avventurose. Dove, ne Il risveglio della forza, i fatti e le circostanze confluivano in una frettolosa rincorsa per presentare alle attuali generazioni nuovi personaggi pronti a prendere il posto di quelli antichi, in Rogue One la narrazione è più robusta e sorvegliata, il clima espressivo cupamente drammatico, i toni generalmente più convincenti, i caratteri sovente più affilati e le ambientazioni perfino più curate per dare il segno di una perpetua minaccia incombente calata in un contesto che, pur esibendo il perfezionismo nell’ideazione e riproduzione del mondo attorno alla Morte Nera, è
precisamente l’approfondimento architettonico-scenografico di quei luoghi originari, ora collocati anche in una prospettiva economico-sociale dagli echi non difficilmente circoscrivibili. In questa planimetria galattica, si rafforza l’idea che il cosmo stellare sia dominato da forze antagoniste ma soprattutto che lo sfruttamento sia all’ordine del giorno. Così ci sono pianeti come Jedha occupati dalle truppe imperiali, oppure come Ilium dove si estraggono i cristalli kyber che servono a dare potenza alla Morte Nera, pianeta-arma di distruzione di massa. Alderaan e Tatooine sono i pianeti che evocano leggendari suggestioni del film capostipite e luoghi-rifugio sia per ribelli che per i cavalieri Jedi. In Rogue One, certo, non c’è moltissima ironia, laddove, ne Il risveglio della forza, l’ironia (almeno quella non involontaria) era in buona parte dovuta al ritorno di personaggi iconici come Ian Solo e Chewbecca, i cui movimenti e la cui complicità destavano sovente il sorriso e restituivano una nota di struggimento per un film i cui esiti drammatici erano presto annunciati (film, quello di J. J. Abrams, in questo senso davvero impietoso e solennemente “calcolato” nel destino riservato ai personaggi). In Rogue One il droide K-2S0, modello imperiale riprogrammato dai ribelli, obbedisce nondimeno a una suggestione lucasiana: esattamente come nel primo film del 1977, esso è provvidenziale come R2D2 e oggetto di situazioni comiche come C3P8, tuttavia con una nota caustica in più (è anche più sinistro) e un ruolo risolutivo che lo vedrà sacrificarsi per la missione dell’Alleanza. Anche la suggestione spirituale che pervade l’intera saga, in Rogue One si offre a situazioni in cui l’efficacia espressiva ha la meglio ed è funzionale al crescendo di immedesimazione empatica richiesto nei ribelli che sfidano il potere accecante dell’Impero. In Rogue One la Forza risvegliata è al servizio di un’ideologia di squadra che una truppa di ribelli anarchici rivendica sfidando l’immobilismo della burocrazia e portando concretamente verso la possibilità di una “nuova speranza”. La stessa che darà il titolo al film d’avvio e che nel lavoro diretto da Gareth Edwards mobilita una serie di personaggi nuovi e singolari, capaci anche di redimersi e di prendere decisioni con la propria testa - come
succede a Cassian- e d’imprimere uno smalto affascinante e al contempo ruvido ad un racconto che esibisce un preciso controllo dei tempi drammatici e conduce verso una riperlustrazione realistica di quegli scenari immaginari che l’appassionato aveva rimpianto nei più recenti film della saga consegnati ad un virtuosismo digitale patinato. Laddove poi Il risveglio della forza destava un inevitabile e ricercato effetto nostalgia, in Rogue One siamo a dir poco oltre, ci troviamo anzi alla ricerca di quella fascinazione dell’immaginario, d’originaria impronta lucasiana, volta alla ricerca di nuove soluzioni inventive e interpretative nonché di configurazioni scenografico-architettoniche pur sedimentate su frequentazioni felicemente ritrovate. Sono volti davvero carismatici quello di Mads Mikkelsen nel ruolo di Galen Erso, lo scienziato dissidente costretto a lavorare per la costruzione della Morte Nera, padre sfortunato della giovane Jyn, e quello di Forest Withaker nella parte di Saw Errera, ribelle estremista circondato da una corte di fantomatici soldati-spettri. Galen Erso e Saw Errera sono due variabili non previste dal sistema e dall’Alleanza ribelle, due testimoni anarchici e figure non allineate destinate a riflettere sul film echi di sgomento. E Jyn, la figlia dello scienziato buono che tutti crederanno un “venduto” all’Impero, è l’eroina sacrificale dell’Alleanza che ridesta il sapore antico di ogni ribellione; come sottolinea dinanzi al ribelle Cassian che cova il segreto ordine di uccidere il padre di Jyn visto come una minaccia dai superiori, Jyn non è abituata a uomini che non fuggono quando la situazione si fa complicata… Quest’imbeccata ai toni sbruffoni di certo cinema avventuroso (e a quelli che la principessa Leia rivolgeva a Ian), non deve far dimenticare che proprio Jyn, cui Felicity Jones offre genuina adesione, è nel film la ragazza che riconosce l’essenzialità e la possibilità di ogni rivendicazione di fiducia nei propri propositi; la sequenza più spassosa, in questo senso, è quella ambientata nei corridoi imperiali del pianeta Scarif, quando Jyn e Cassian, a seguito della valutazione scientifica del droide K-2S0 circa l’assoluta impossibilità di raggiungere sani e salvi la torre di controllo in cui sono celati i piani della Morte Nera, decidono come se
niente fosse di procedere. Qui l’ironia fa pensare all’assunto di fondo del film, che racchiude poi tutta la dialettica più continuativa della saga, quell’immersione immaginativa in un universo in cui il bene e il male, così come l’istinto e la razionalità, sono parte di un unico campo di battaglia. L’ironia, come sguardo altro non allineato, quello che permette di poter continuare il proprio cammino sfidando, grazie all’istinto o alla “forza”, la planimetria di un mondo in cui tutto è previsto e comandato da sorveglianti impersonali; “forza”, infine, quale elemento magico-immaginativo che può permettere l’intrusione dell’irrazionale in una scena altrimenti dominata da visioni spettrali e sempiterne ricomparse di totalitarismi (sulle ceneri dell’Impero, infatti, nascerà il Primo ordine, e così via). Tullio Kezich scriveva, recensendo Guerre stellari, che poteva andare bene il divertimento, purché non ci costringesse a indossare abiti da Balilla…. Il critico naturalmente si riferiva al rischio che un simile divertimento potesse diventare presto autoreferenziale e proco riflessivo, soprattutto nei confronti della guerra evocata sin dal titolo. Ma i riferimenti disseminati nel film ai racconti dei cavalieri della tavola rotonda e i precedenti “antitotalitaristi” di Lucas erano ben chiari. Lo stesso Impero incarnava proprio lo spettro del totalitarismo, al cui controllo tentano di sottrarsi i pianeti Alderann e Tatooine. Lucas, come un cineasta rinascimentale, aveva anzi suggerito con il suo cinema d’intrattenimento una visione fantasiosa e sicuramente iper-immaginativa che rivendicasse il primato dell’immaginario sulla mentalità burocratica e finanche freddamente tecnocratica. Rogue One ci sembra, anche in questa prospettiva, il film più attentamente calato nella primigenia suggestione “rivendicativa”: la nuova speranza è anche in un cinema più fortemente ancorato alle urgenze sociali perfino in ambito fantascientifico. Abile, essenziale, cupo e apocalittico, eppure con un cuore più “trasparente” rispetto agli ultimi film della Lucasfilm, Rogue One riporta perfino in vita, in un commovente tentativo di avvicinamento alle immagini dell’originario scenario di Lucas, le fattezze del compianto interprete Peter Cushing per il ruolo, ampliato rispetto a quello che si poteva vedere in Episode IV,
del Grand Modd Tarkin, ritrovato grazie alla tecnologia CG1. Lo stesso avviene per la sequenza finale, in cui i piani della Morte Nera finiscono nelle mani di una ritrovata Pricipessa Leia dopo l’impressionante duello dei soldati dell’Alleanza contro un indistruttibile e più che mai fantomatico Darth Vader. A questo supremo tentativo di riavvicinarsi all’originale creando una sorta di corto-circuito temporale per gli spettatori di allora e di oggi, contribuisce, contraddicendo la presunta imperturbabilità del proposito, il doppiaggio del suddetto redivivo Darth Vader (da noi, Massimo Foschi che prestò la voce già al personaggio nel 1977), il cui tono di voce sensibilmente più tremulo contraddice la ferrea presenza di scena, e consegna un insight quasi struggente allo spettatore più attento e affezionato. Anche per questi suoi effetti minori ma essenziali alla percezione e alla resa del film come fatto estetico e per la dimensione istituzionale che lo caratterizza, Rogue One è un paradigmatico e inaspettato esempio di cinema che riflette, costitutivamente, sul dispositivo come macchina del tempo e come clamoroso oggetto pensante.
GEORGE LUCAS E LA HOLLYWOOD ANNI SETTANTA
Antonio Andreotti
Per ragioni cinematografiche, culturali, affettive e quant’altro vi venga in mente, quello del californiano George Lucas è un nome così celebre che sembra persino non aver bisogno di un’introduzione come questa che state leggendo.
La sua è stata un’ascesa fulminea nell’Olimpo cinematografico: dopo alcune esperienze amatoriali, prima di compiere 30 anni Lucas gira due film, L’uomo che fuggì dal futuro (1970) e American graffiti (1973), ben presto diventati due cult movies, e il monumento Guerre stellari (1977), primo capitolo della omonima trilogia. Ma come è arrivato Lucas a questo risultato, davvero strabiliante sotto molteplici punti di vista? In quale contesto artistico è maturata la sua poetica? Come si vede domande non da poco, cui proveremo qui a dare una risposta (se non esaustiva, si spera almeno sufficiente). Per iniziare a capire da dove derivi “The Force”, la “Forza” del progetto lucasiano, si deve partire obbligatoriamente da qualche parte. Il punto di partenza per la nostra ricognizione possiamo identificarlo in quella galassia artistica e produttiva rispondente al nome del regista statunitense Roger Corman, gran cerimoniere e padre spirituale di una buona parte di quel New American Cinema che tanto fece parlare di sé negli anni Settanta, nonché mentore artistico di registi poi diventati molto celebri come ad esempio Francis Ford Coppola, Peter Bogdanovich, il Dennis Hopper di Easy Rider (1969), il primo Martin Scorsese e altri nomi ancora. Nella storia del cinema americano tra gli anni Sessanta e Settanta Roger Corman è una figura la cui importanza trascende di gran lunga i risultati estetici dei suoi film, non di rado ragguardevoli. Corman è importantissimo perché è l’esempio vivente e operante in quel periodo dell’autoreproduttore, che di propria volontà esce dal circuito dei grandi Studios hollywoodiani per fare film in proprio avvalendosi poi dei “colossi” per la distribuzione delle proprie opere, in modo da ottenere una notevole visibilità commerciale, senza nel contempo avere condizionamenti durante la lavorazione. Corman è il regista che gira B-movies a bassissimo budget anche in una sola settimana, un artigiano di altissima professionalità presso il quale il mestiere si impara presto, e bene. Corman è colui che mantiene saldo il rapporto coi generi
cinematografici in un’epoca, quella degli anni Sessanta, dove la crisi economica dei grandi Studios e le perturbanti folate riformatrici che giungono dalle new waves di tutto il mondo stavano minando dalle fondamenta la struttura portante sulla quale per oltre vent’anni aveva poggiato la Hollywood classica. Subito una precisazione: i rapporti tra George Lucas e Roger Corman, fondamentali per tracciare la nascita di un percorso artistico come quello del regista californiano, non sono diretti. Infatti Lucas interseca il proprio destino con quello della factory cormaniana attraverso la fondamentale mediazione di Francis Ford Coppola. A metà del 1968, prima di diplomarsi all’università, il ventiquattrenne diplomando all’Ucla e attento studioso di antropologia culturale George Lucas usufruisce di una borsa di studio universitaria che lo porta dritto sul set del musical con Fred Astaire e Petula Clark Sulle ali dell’arcobaleno (Finian’s Rainbow), diretto proprio da Coppola. Lì Lucas, in perfetta sintonia coi dettami cormaniani bene introiettati dal regista italo-americano, impara a fare un po’ di tutto. Lucas apprende molto bene, tanto da girare per conto proprio un “film sul film” che per definizione dello stesso Coppola risulta “più bello del mio stesso film”. Coppola si entusiasma così tanto del lavoro del giovane californiano che l’anno dopo lo porta con sé anche sul set del suo film successivo, il road movie con James Caan e Shirley Knight Non torno a casa stasera (The Rain People, 1969). Per quel film Lucas svolge le mansioni di aiuto scenografo e assistente tuttofare che cura in special modo fotografia e montaggio, e produttore associato con tanto di menzione ufficiale nei credits. Eccolo qui lo snodo fondamentale per l’epopea lucasiana, ecco il momento cruciale dove il nostro impara molte di quelle tecniche e competenze che poi saprà sfruttare con la massima abilità negli anni successivi: in primis il mestiere, appreso magari in fretta, come presupposto fondamentale di ogni azione, e lo stretto e fecondo contatto con l’ambiziosissimo Coppola. Il quale per conto suo non cessa per un solo istante di
pensare in grande e oltre i limiti contingenti di disponibilità di denaro e quant’altro si frapponga sul suo cammino. In uno slogan, “prima farsi le ossa, ma poi pensare sempre in grande”. Sono questi gli anni decisivi per la formazione del regista; infatti in questo periodo Lucas precisa anche la propria peculiare cifra stilistica: la capacità di rapportarsi in maniera critica coi generi cinematografici, categoria critica alquanto vecchiotta ma che ci è utilissima per comprendere un cinema coltamente popolare come è quello di Lucas; il dovere di mettere in scena uno spettacolo sempre sontuoso e accattivante, valorizzando al massimo quello che c’è a disposizione. A tale proposito è notoria l’accuratezza delle scenografie nelle opere di Corman, che riusciva a fare miracoli anche con budget di quattro lire. Lucas si ricorderà molto bene di questa lezione anche quando avrà a disposizione straordinarie risorse finanziarie. Si veda in proposito l’importanza che ricoprono le scenografie in L’uomo che fuggì dal futuro, il luccichio incessante e magniloquente delle strade in American graffiti e, solo a titolo esemplificativo, la scena del saloon fantascientifico in Guerre stellari. E ancora: il fecondo rapporto con la tecnologia, strumento necessario per arricchire quello spettacolo che per Lucas è innanzitutto piacere della visione e del racconto. Un racconto che è sempre svincolato da preoccupazioni di ordine realistico\contenutistico che ad esempio si ritrovano in tanti film dell’epoca come America, dove vai? (Medium Cool, 1969), di quel Haskell Wexler così importante nella vita del nostro. Wexler, stimatissimo direttore della fotografia degli anni ‘50 e operatore di American Graffiti, con la sua influenza intellettuale indirizzerà l’ancora universitario Lucas verso studi più attenti e approfonditi sul disegno e l’animazione. Ecco, l’approccio del regista, anche quando partirà da presupposti in apparenza di questo tipo come nel film appena citato, sarà sempre filtrato e mediato dalla voglia di complicare i piani della narrazione, dalla capacità di rimescolare in maniera incessante archetipi della cultura sia
alta che bassa, senza paura di contaminare codici espressivi. Come Corman traeva film horror da opere di Edgar Allan Poe senza alcun timore reverenziale, così Lucas capisce che per esempio gli amatissimi pulp magazines e le antiche saghe nordiche sono tra loro compatibili, facce complementari di una poetica (il postmoderno?) che reputa il saccheggio indiscriminato di stili e codici espressivi l’unica strada percorribile per poter esprimere una propria visione del mondo e del cinema. Ma non andiamo troppo avanti, e torniamo a occuparci di ciò che qui si tratta, cioè il contesto dentro al quale nascono le tanto celebri opere del regista di Modesto, California. Fissiamo però bene questi elementi nella memoria, perché torneranno prepotentemente alla ribalta. Lo stile (o per meglio dire il saccheggio degli stili altrui) prima di tutto, si diceva. E in questa ottica i film di Lucas appaiono come il prodotto probabilmente più immediato e fruibile di una tendenza assolutamente prioritaria nel cinema americano degli anni Settanta, ossia quel gusto per il metacinema che funge da vero e proprio denominatore comune delle molteplici poetiche estetiche rintracciabili in quel periodo nel cinema americano. In altri termini cinema che parla di se stesso, cinema che riflette sulla propria memoria ponendo questi argomenti come principale (e nemmeno tanto dissimulato) oggetto del discorso. Parlando di questa generazione di cineasti statunitensi l’indimenticabile maestro francese Francois Truffaut, come spesso gli è capitato nel corso della sua vita, ha detto una sacrosanta verità: “Lucas, Spielberg e gli altri della Nuova Hollywood appartengono alla generazione cresciuta con le immagini mentre la mia, invece, è cresciuta con le parole”. Immagini invece che parole, il “come” più che il “che cosa”. D’altro canto Lucas questa aria l’ha respirata fin da subito, girando “il film sul film” di cui abbiamo parlato prima. Senza scomodare per l’ennesima volta La società dello spettacolo del filosofo francese Guy Debord, ci limitiamo semplicemente a far notare che in una società bombardata dalle immagini, in
primis quelle hollywoodiane, era inevitabile che prima o poi il senso stesso dell’immagine diventasse il tema per antonomasia. Questo ci riporta ancora al Corman lontano padre putativo di Lucas attraverso la già citata mediazione coppoliana, e al suo cinema artigianale ma lucidissimo dal punto di vista teorico, ben conscio cioè che ciò che poteva esser detto era già stato detto. Da questo presupposto derivano due conseguenze: una formazione culturale di questo tipo, vale a dire tutta basata sulle immagini anziché sulle parole, rimanda innanzitutto a una nozione di spettacolo, anzi di spettacolarità, assolutamente centrale nel cinema americano di quegli anni. Nozione che si traduce in una poetica ben precisa come quella della nostalgia di cui tanto si è scritto. E si torna ancora al cinema di Roger Corman, come calamitati in un maelstrom del tanto amato (da Corman) Poe, e al suo film Il massacro del giorno di San Valentino (St. Valentine’s Day Massacre, 1966). Con questo che resta un low-budget movie anche se distribuito dalla Fox, semidocumentaristico e ironico resoconto d’epoca mediato da un filtro visivo intelligentemente ispirato all’iconografia del periodo, il regista indica in modo esemplare la via maestra da seguire agli allievi della sua factory, nonché a tanti giovani cineasti che si affacciano alla ribalta in quegli anni. Questo gangster-movie figlierà, tanto per dirne uno, l’eccellente Dillinger (1973) di quel John Milius così tanto assimilabile a Lucas nel suo iter artistico, se non nel successo. Oppure America 1929: sterminateli senza pietà (Boxcar Bertha, 1972) di Martin Scorsese, altro notevolissimo esempio di cinema della nostalgia che denuncia i vizi del presente mostrandone con acume storico le radici nel passato. Il tema della nostalgia poi caratterizza tutta l’opera di un altro “cavallo di razza” della scuderia cormaniana, che della coscienza della fine del cinema ha fatto la sua missione artistica; il Peter Bogdanovich che dal cormaniano esordio di Bersagli (Targets, 1968) poi decolla con L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1971), Ma papà ti manda sola?
(What’s Up, Doc?, 1972) e Paper Moon (1973), rappresenta infatti il massimo tentativo, a livello concettuale, di fare del ripercorrimento critico della storia del cinema americano la propria profonda ragion d’essere. Ed è quello stesso Bogdanovich che nei primi anni Settanta tenterà senza fortuna, in compagnia di Francis Ford Coppola (guarda caso) e William Friedkin, di fondare una propria piccola major denominata “Directors Company”. I conti continuano a tornare: indipendenza produttiva, vera o presunta tale, come obiettivo da raggiungere o da mantenere e forte predilezione a svolgere nei film un discorso sul già detto. Insomma, il milieu culturale nel quale Lucas cresce e matura è questo. Ed è di tutta evidenza che la qualità di quel “romance” giovanilista che è American Graffiti e il sincretismo culturale di Guerre stellari segnino due momenti importantissimi. Ma nel caso di Lucas bisogna obbligatoriamente spostare l’asse del nostro discorso da un’altra parte. Il regista infatti rompe ogni indugio tagliando di netto ogni mediazione tra discorso sul cinema e discorso critico sulla società americana, mediazione di certo presente nelle opere dei già citati Bogdanovich e Scorsese, del Sydney Pollack di Come eravamo (The Way We Were, 1973), o anche del Robert Altman di Gang (Thieves Like Us, 1973) oppure del Chinatown (1973) dello “straniero” Roman Polanski, solo per citare alcuni tra i film più celebri. I presupposti per questa rottura c’erano tutti: il percorso del George Lucas studente di antropologia culturale e appassionato di fumetti, pulp magazines e saghe nordiche non poteva combaciare a quello del gruppo di cineasti appena menzionato. E arrivati a questo punto la citazione per l’altro enfant terrible del cinema americano, Steven Spielberg, è davvero obbligatoria, perché è lui la vera pietra di paragone per capire meglio la poetica di George Lucas. Film come Duel (1971), Lo squalo (Jaws, 1975), Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, 1977), aprono la strada a quella che sarà la natura profonda del discorso lucasiano. Trame
avventurose, ad alto tasso di suspense, svincolate dai nodi della contemporaneità, favole dal marcato spessore metaforico e citazionista (i rimandi al capolavoro melvilliano Moby Dick ne Lo squalo sono esemplari), un’attenzione parossistica ai peculiari valori cinematografici della messa in scena della narrazione, un gusto quasi istintivo per il pastiche. Senza dimenticare, per l’amor di Dio, il profondo spirito cinefilo, che però non è mai critico e consapevole come nei registi più “intellettuali”. Se ad esempio in Bogdanovich l’allusione al cinema era fondante, in Lucas invece produce dei paradossi piuttosto curiosi. Con tutta la sua fitta trama di citazioni eterogenee e disparate da classici del cinema anche notissimi come Sentieri selvaggi di John Ford, Guerre stellari è uno spettacolo che, pur essendo tutto giocato sul riciclo, nel 1977 “suonava” comunque come mai visto prima al cinema. L’intelligenza in questo caso è la stessa che Umberto Eco ha riscontrato in Casablanca (1943) di Michael Curtiz: uno stereotipo è l’incarnazione della banalità, 100 stereotipi stipati uno accanto all’altro commuovono e divertono sollecitando le nostre corde più profonde e il nostro inconscio. Messa in un angolo la pensosa seriosità di operazioni come quella bogdanoviciana, Lucas gioca la carta dello spettacolo pieno e ridondante e del gioco che rimanda solo a se stesso. E sappiamo tutti come è andata a finire. E poi il grande dato distintivo, lo spartiacque che contraddistingue Spielberg e Lucas da moltissimi loro colleghi: l’amore, fiducioso ma mai sottomesso, per tutto ciò che è tecnologia, nei due vero strumento a disposizione della fantasia e mai “buco nero” che si divora tutto il film con la sua costosissima magniloquenza in fondo fine a se stessa. Senza addentrarci in una prolissa ricognizione di questo argomento, limitiamoci a dire che nel caso del nostro regista il simbolo del suo cinema sembra proprio essere l’astronave “Millennium Falcon” di Han Solo, ferrovecchio spesso malconcio ma al contempo capace di volare nell’iperspazio seminando ogni volta gli inseguitori. Il cinema del futuro e il futuro del cinema, sembra volerci dire Lucas, è questo; tornare a narrare le favole di una volta condendole con gli aromi di strabilianti
effetti speciali, robottini, androidi pelosi e quant’altro. Ma attenzione, in queste favole ci devono essere sempre esseri umani in carne ed ossa, ai quali far vivere avventure che profumino intensamente del cinema del passato così amato. Un’idea di cinema più limpida di così non si può proprio immaginare. Insomma, la ricetta è bella e pronta. Imparato il mestiere nella bottega cormaniana, capita la necessità di mettersi in proprio da Francis Ford Coppola senza però fare gli errori del regista italo-americano, precisate al meglio le caratteristiche della propria poetica con Steven Spielberg, la vivanda dello chef Lucas è pronta. E c’è da scommettere che il nostro chef continuerà a cucinare ancora a lungo, visto che ha dalla sua un asso nella manica mica da ridere. Infatti nei primi anni Ottanta, sbancati i botteghini di tutto il mondo, Lucas e Spielberg si mettono in proprio. Spielberg prima con la Amblin Entertainment, e ora con la acclamatissima DreamWorks SKG, Lucas con la celeberrima Lucasfilm. Per conto nostro diciamo solo che appare di tutta evidenza come questa fabbrica di soldi per Lucas sia la bottega nella quale perfezionare gli arnesi di lavoro coi quali creare nuove avventure della visione, in fondo vissuta con quell’umiltà artigiana appresa tempo addietro da Corman e Coppola e mai più dimenticata. Rapidissima postilla: molti studiosi di cinema hanno scritto più volte che Lucas, con Spielberg, è il genio che ha aperto la strada alla restaurazione spettacolare e superproduttiva della Hollywood di fine anni Settanta. A voi tutta la libertà di giudizio.
E SE IL CINEMA COMINCIASSE CON STAR WARS?
Roy Menarini
Il bello di Guerre stellari e dei suoi seguiti, o dei suoi antefatti, è che si possono interpretare in decine di modi diversi. Si può leggere la trilogia come una fantasia rigogliosa partorita da un nuovo Ariosto; si può immaginare la saga come un monumento al post-moderno o come il corrispettivo contemporaneo dei miti della civiltà antica. Si può azzardare una lettura politica, tanto che alla fine degli anni ’70 in molti si provarono a dimostrare che il film di Lucas era di destra, mentre la fantascienza per solito dovrebbe essere di sinistra (dimenticando che l’entità dei miti e degli eroi è difficilmente proletaria). Insomma, la storia di Guerre stellari è fatta prima di tutto di spettatori, ognuno dei quali ha trovato il suo percorso nei film: ideologico, esoterico, mistico, soggettivo, capzioso, fazioso, immaginario. Non sono molti, invece, coloro che hanno pensato a un’eventuale metafora della realtà odierna, scorgendo riferimenti e agganci alla quotidianità. E come si sarebbe potuto? In fondo, il sostrato della trilogia è solo casualmente connesso all’umanità, la maggior parte del testo essendo nutrito di suggestioni zoologiche, interplanetarie, persino fuori dal tempo che conosciamo, nel profondo futuro o forse nel passato di un universo parallelo. Eppure, qualcosa di contingente, nel flusso di fantasia lucasiano, c’era e c’è tuttora. Si chiama cinema, se per cinema non intendiamo la solita ricerca parossistica dei prestiti e delle fonti di Guerre stellari. Già lo sappiamo che Lucas ha immesso Ford e Kurosawa, Corman e Méliès, Errol Flynn e David Lean nella sua personale fantasmagoria. Non ricordiamo, invece, che il suo exploit è intimamente collegato alla presenza “fisica” della sala cinematografica. Poco importa che più tardi, per molte generazioni, Guerre stellari sia diventato prima di tutto una videocassetta consumata fino alla nausea. La conquista degli spettatori è passata anche attraverso il valore aggiunto del “meraviglioso” nella sala cinematografica.
Il dolby-stereo multipista, il sonoro mantenuto a livelli assordanti, il 70 millimetri (dove c’era), il coinvolgimento psicosensoriale del pubblico ha contato come e più del film stesso. E del resto ci si trovava, in quello scorcio degli anni ’70, in un momento nel quale il cinema statunitense si andava riorganizzando dopo la sonora batosta del decennio precedente, quando la produzione indipendente e la crisi economico-ideologica avevano scosso dalle fondamenta il sistema hollywoodiano. Come del resto era accaduto negli anni ’50, alcuni giovani sperimentatori del cinema d’intrattenimento pensarono a caricare la “sala” di nuove attrattive, finendo con l’estendere la forma film a un prodotto multimediale da cui non ci si stacca più. Non è con Guerre stellari che nasce il merchandising (magliette, pupazzi, spille e gavettoni) ma è con esso che si afferma come sistema imprescindibile. Negli anni ’50 il circuito drive-in con le attrattive erotico-sentimentali tante volte raccontate con nostalgia dallo stesso cinema americano, oppure i tentativi fatti col 3-D, o ancora il technicolor e lo schermo panoramico, riuscirono solo per breve tempo a battere la concorrenza televisiva. La trilogia di Lucas riconquista il mercato anche grazie al fatto che niente in Tv o nei videogiochi poteva in quel momento competere con il film, “quel” film, al cinema. Niente avrebbe potuto sostituire il suono dolby delle spade laser, e nulla sarebbe stato in grado di offrire le stesse emozioni di una battaglia volante al centro di un enorme bosco fatato. Ecco perché Lucas è stato il più attento cineasta della New Hollywood, di quel gruppo di sbarbati cineasti che prendevano il cinema come un gioco e il gioco come un affare tremendamente serio. Duro da digerire per i puristi dell’impegno, questo concetto: Lucas ritornava alle origini del cinema, ritrascinava le folle del cinema primitivo, quello delle fiere e dei baracconi, laddove si erano stancate di andare pur di vedersi i talk-show o i telefilm polizieschi. Certo, si dice spesso che con Lucas, prima ancora che con Kubrick, il cinema d’autore e il cinema popolare si sono dati appuntamento per mai più distinguersi nettamente.
Eppure, fatta salva l’evidente cultura inclusiva di Lucas, le letture seriose e psicanalitiche di Star Wars sono sempre apparse un po’ fuori luogo, quasi preoccupate di nobilitare quella materia pulsante che tanto (troppo?) aveva divertito gli spettatori. E quando l’istituzione o la cultura hanno cercato di nobilitare il cinema, arte popolare per eccellenza, hanno spesso preso fischi per fiaschi. Per di più, Lucas è persona attenta e sensibile ai mutamenti della tecnologia. Proprio per questo, e non solo per meri scopi commerciali, ha celebrato il ventennale dell’inizio della saga, con una versione riarrangiata e digitalmente rassodata della trilogia. Le Star Wars rinnovate hanno travolto i botteghini e hanno decretato una volta per tutte che il cinema deve fare i conti con un dato ineluttabile. Ogni film, al di là della paternità e delle giuste leggi di garanzia del copyright, sarà rimaneggiabile all’infinito grazie alle nuove tecnologie computerizzate. Questo significa che il film che vediamo oggi potrebbe non essere lo stesso che vedremo domani, e che quello che abbiamo visto ieri potrebbe non essere più lo stesso che ricordiamo con nostalgia e gratitudine. Questioni complesse, che coinvolgono il problema del restauro e la definizione stessa di cinema, e soprattutto di “film”, ovvero di “pellicola”. Tra poco, forse già con Episode 2, il cinema farà a meno del supporto di celluloide, e verrà proiettato via satellite o via hard disk in linguaggio numerico. La videocamera digitale sostituirà la macchina da presa, e le “pizze” verranno destinate alle cineteche passando direttamente il testimone ai supporti di compressione dati. Incuriosisce molto che proprio Lucas, ancora una volta, si faccia alfiere della rivoluzione tecnologica. Ci troviamo di fronte a un regista che di volta in volta sceglie un periodo storico per imporre la legge dell’intrattenimento, laddove per intrattenimento si intenda la promessa di qualcosa di “unico” nella forma come nella sostanza. Se Star Wars verrà ricordato per il trionfo della sala e del suo potere onirico e spettacolare, la nuova trilogia potrebbe finire nei libri di storia come il simbolo del nuovo cambiamento epocale.
Ciò non toglie che ci sarà sempre (probabilmente) una ritualità e una collettività del vedere film, e una completa libertà interpretativa di fronte a storie in fondo così atemporali, mitologiche, leggendarie come quelle inventate da Lucas. Paradossalmente, è proprio nei film di questo regista che si nasconde oggi la reale indipendenza poetica. In mezzo alla propaganda pubblicitaria, tra un pupazzo di Darth Maul e un adesivo di Anakin Skywalker, scoviamo un cineasta che, per il semplice fatto di aver dimostrato che i propri gusti coincidono con quelli del mondo intero, ha oggi il più completo controllo sul suo prodotto e la più invidiabile carta bianca quanto a scelte estetiche e strategie narrative. Tempo fa, con acume, Enrico Ghezzi notava come in fondo Star Wars contenesse cose imbarazzanti e le facesse passare con la massima semplicità: due barattoli di ferro che dialogano tra loro, attori vestiti come nell’antica Roma che si combattono con spade fosforescenti, etc. Ciò dimostra il potere del cinema e delle sue storie. Forse il miracolo non si ripeterà, ma quanto sono stati ridicoli, loro sì, gli imitatori!
LA NUOVA EDIZIONE DELLA PRIMA TRILOGIA
Maria Silvia Fiengo
In occasione del suo ventesimo compleanno, Guerre stellari, e i due episodi che lo seguirono all’epoca, sono stati fatti oggetto di un importante e costosissimo restauro. La trilogia sfidava il suo stesso mito, tornando a splendere sugli
schermi alle soglie di quel 2000 che negli anni Settanta era ancora “il futuro”. L’operazione, costata dieci milioni di dollari, era volta a riportare le pellicole nelle sale cinematografiche, dove un film già distribuito in videocassetta difficilmente può sperare nel grande pubblico. È così nata l’edizione speciale, “nuove scene girate, vecchie finemente adattate e riprese di vent’anni fa, combinate con la più moderna computer grafica” 1 restituivano alla saga di Star Wars, per volontà del suo autore, l’originario fulgore. L’impresa ha portato a modificare uno dei venticinque film posti sotto la tutela della Libreria del Congresso di Washington. Il posto occupato dal film nell’immaginario collettivo, l’importante uso di tecnologie digitali e il ruolo svolto da George Lucas nel suo recupero, fanno di Star Wars un caso limite tra gli interventi sul patrimonio cinematografico, e suggeriscono alcune riflessioni riguardo alla nozione di restauro del film. Cosa vuol dire restaurare un film? Il restauro di un film è un concetto sfuggente; ultimamente abbondantemente sfruttato per invogliare gli spettatori al grande schermo, resta oscuro ai più. L’immaterialità e l’ubiquità di un film sottraggono il concetto all’intuizione del pubblico, mentre la molteplicità dei soggetti coinvolti nella realizzazione (sceneggiatori, registi, produttori, distributori, censura, tecnologie, direttori della fotografia etc) e la diffrazione delle sue forme (sceneggiatura, pellicola girata, negativo, copie, proiezione sullo schermo, videocassette e via dicendo) complicano l’intervento degli addetti ai lavori.È utile quindi chiarire che cosa significa restaurare un film. L’aspetto centrale e più problematico di questo tipo di intervento è che qualsiasi sia l’approccio adottato, il risultato sarà una nuova edizione, ovvero il restauro di un film non può prescindere dalla realizzazione di una nuova matrice da cui si stamperanno nuove copie. Infatti la pellicola, supporto fisicamente e chimicamente ragile, si consuma con l’uso ed il concetto di duplicazione è fondante già nel momento creativo. Il lavoro sembrerebbe perciò simile a quello del filologo
letterario che, studiati gli originali, costruisce un modello dell’archetipo. Ma la stessa fragilità del film fa si che in un tempo relativamente breve le copie originali vadano perdute, si impone perciò un rigore particolare al modello che di fatto diverrà il futuro originale. Ed in questo il restauro del film si avvicina a quello pittorico, dove si interviene direttamente sull’oggetto, modificandolo. La consapevolezza da mantenere nel restaurare un film è dunque quella che, se non si è provveduto a conservare un duplicato identico del materiale d’origine, qualsiasi intervento modificherà per sempre l’opera. Da un punto di vista pratico l’intervento di restauro cinematografico si articola su due fasi: la prima consiste nella ricerca e nella consolidazione dei materiali esistenti, la seconda nella creazione della matrice priva dei difetti del tempo. Più dettagliatamente un lavoro standard su un film sonoro di cui esiste il negativo si può semplificare nel seguente schema: 1a) Ricerca del negativo e verifica del suo stato. 1b) Raccolta delle copie positive in circolazione e di quanti altri materiali si riesca a trovare (girato non montato, tagli di censura etc.). 1c) Analisi comparata dell’insieme dei materiali e loro classificazione. 1d) Ipotesi di lavoro sulla base dei materiali in pellicola e del loro confronto con le fonti non-film (visti di censura, sceneggiatura, appunti, testimonianze, articoli etc). 2a) Riparazione fisica del materiale ipotizzando che ci sia un buon negativo…
d’origine
e,
2b) Realizzazione di una copia positiva del negativo ricostruito (chiamata interpositivo se il film è a colori, lavanda se bianco e nero).
3c) Realizzazione di una copia negativa dell’interpositivo (internegativo per il colore, controtipo per il bianco e nero). Questa è la nuova matrice di stampa. Nel corso degli ultimi tre passaggi il film subisce gli interventi di restauro decisi nell’ipotesi di lavoro: scene perse o danneggiate nel negativo possono essere recuperate da un positivo in buono stato, graffi e difetti dell’immagine possono essere eliminati parzialmente nel processo di stampa, la colonna sonora può essere pulita eliminando il gracchiare dovuto al tempo, operazioni sempre più raffinate, ma anche più invasive, si possono attuare con la disponibilità di tecnologie avanzate. Ed è evidente come i concetti di “scena persa”, “danni del tempo”, “difetti dell’immagine” lascino un largo margine di scelta al restauratore e di come, senza una rigorosa ipotesi di lavoro, la nuova edizione restaurata si possa trasformare in una nuova edizione del tutto.
Gli interventi su Star Wars Prima di prendere in considerazione il tipo di lavoro svolto per Guerre stellari è utile indicare quali sono stati materialmente gli interventi volti ad “arginare i danni del tempo”. 1) Il negativo, ritrovato in Kansas in condizioni molto deteriorate, è stato pulito, corretto in alcuni effetti ottici (ad esempio le dissolvenze), migliorato nella qualità di stampa e conservato. 2) Alcuni effetti speciali considerati non più buoni sono stati ripresi e migliorati dalla Industrial Light and Magic. Gli interventi di questo tipo sono riportati in maniera dettagliata per i tre film nelle tabelle qui di seguito.
3) La colonna sonora è stata rimasterizzata e il sistema sonoro è stato trasformato da ottico a digitale (la versione del 1977 era ottica, ma esistevano alcune copie in 70 mm su traccia magnetica la cui qualità si avvicinava a quella dell’attuale digitale). Guerre Stellari, 1977 Han Solo incontra Jabba La scena era stata girata con un attore da sostituire poi in truka (Macchina di stampa, la truka permette di stampare un fotogramma per volta, accoppiando immagini provenienti da negativi diversi. È stata usata per anni nella realizzazione di effetti speciali e per unire film a immagini animate.) mediante un pupazzo o una ripresa a passo uno. Per mancanza di tempo e soldi non era poi stata inserita. Dopo aver scannerizzato l’interpositivo originale si è provveduto a sostituire l’attore che aveva posato per Jabba con il nuovo personaggio costruito a computer. Veicolo fluttuante Per ottenere l’effetto della macchina fluttuante sul deserto il veicolo era stato ripreso schermandone le ruote con il procedimento del trasparente. L’effetto rimaneva però statico. La scena, girata negli ultimi giorni, è stata trovata con molta fatica nel negativo originale. È stata scannerizzata la ripresa della macchina e quella dello sfondo (che si trovavano chiaramente su due diverse pellicole) e sono state poi appaiate digitalmente creando un movimento più fluido del veicolo e un maggior realismo nelle ombre.
Ronto Il paesaggio di Mos Eisley era stato girato in parte in Tunisia in un luogo semideserto. Con la computer grafica è stato aggiunto il Ronto, sorta di grande dinosauro che attraversa lo spiazzo di fronte all’aeroporto. Mos Eisley Ancora lo scalo aeroportuale, a giudizio di Lucas troppo poco animato. È stata creata una nuova inquadratura digitale, che allarga il paesaggio fantastico limitato in origine ad una inquadratura. Inoltre, sulla ripresa d’epoca, sono state aggiunte nuove creature a computer.X-Wings L’inseguimento spaziale era stato realizzato unendo due inquadrature diverse. Digitalmente si è trasformata la scena in una inquadratura unica con un maggior numero di aeroplani.
L’impero colpisce ancora, 1980 Cloud City Poche le scene che illustravano la città. Aggiunta una nuova vista della città e una panoramica a volo tra le torri realizzate a computer. Cava di ghiaccio
Il wampa possiede poche scene. L’intera scena è stata rigirata, aumentano le inquadrature della caverna: è stato ricostruito un abito da Wampa telecomandato. La prima delle nuove scene è stata poi combinata con una vecchia inquadratura di Luke. Arrivo del Falcon L’atterraggio del Falcon a Cloud City era povero e fasullo. Girata una visione dell’arrivo sulle torri della città. Aggiunte due torri sull’atterraggio e sostituite le fiamme dipinte con nuove immagini di fuoco. Navicella della Morte Nera Mancava la scena in cui la Morte nera raggiunge lo Star Destroyer con la sua navicella. Si vedeva direttamente il personaggio sulla nave spaziale. Creato il disegno di una navicella combinato poi con vecchi elementi, mentre l’inquadratura dell’esterno dello Star Destroyer è presa dal film precedente. Miniera di gas Il paesaggio era stato realizzato con un modellino combinato all’immagine di nuvole. Aggiunto a computer un elemento rotante in primo piano.
Arrivo dalla Morte Nera
Leia, Lando, Han e Chewie attraversano una hall dirigendosi dalla Morte Nera. La scenografia è poco caratterizzata. Aggiunto a computer il panorama fuori da una grande finestra e un ascensore.
Il ritorno dello Jedi, 1983 Sarlacc nel pozzo La creatura tentacolare nel pozzo è poco visibile e statica. Aggiunti becco e tentacoli roteanti al mostro. Sy Snootles Festa in casa di Jabba, considerata poco vivace. Aggiunte scene per personaggi di sfondo, Sy Snootles, il cantante, viene fatto ballare. Celebrazioni finali Feste considerate poco vivaci. Nuovi modellini digitali e nuove scene girate in trasparente. Macchine autobus e caos di ogni tipo, celebrazioni degli Ewok.
Il caso dell’Edizione Speciale È palese come questa edizione presenti numerosi punti di rottura sia con il concetto di restauro comunemente inteso
nella storia dell’arte del nostro secolo, sia con la nozione di filologia così come viene definita nello studio della letteratura. Ed è scontato che l’uso dell’aggettivo “restaurata” è, in questo caso, improprio. Di fatto si tratta di una riedizione d’autore. Tuttavia, nel caso del cinema, esiste un elemento ulteriore da considerare nel restauro, ed è quello della sua rimessa in uso. Da questo punto di vista il film si avvicina a quei manufatti per i quali il concetto di unità dell’opera sfuma di fronte al dato materiale. Per fare un esempio basti pensare al recupero di vecchi mobili per arredare una nuova casa: spesso la riconoscibilità e la reversibilità degli interventi lasciano il posto ad un meno rigoroso senso dell’intero, e il termine “restaurato” viene impiegato con un significato preso a prestito dal senso comune. Nel caso del cinema la rimessa in uso è una condizione necessaria, in quanto un film non proiettato non esiste, non possiede infatti né il movimento né il suono. Se a questo si aggiunge che non si interviene materialmente sulle pellicole d’epoca, si spiega come spesso i restauri cinematografici finiscano per essere discutibili. È vero che nel caso di Star Wars il negativo è stato pulito, duplicato e conservato, ed è questa la versione restaurata, ma questa versione non viene restituita al pubblico, nelle sale compare, giocando sull’equivoco del restauro, una versione alternativa. Sempre più spesso i film ripristinati con l’intento di essere riammessi nel circuito di distribuzione vengono designati come “Edizioni Speciali”.
Il concetto di Edizione Speciale: inseguendo il futuro L’edizione speciale non è un restauro, ma non è neppure semplicemente una nuova edizione. Si tratta generalmente di una edizione volta a considerare come “scena persa”, “danni
del tempo” “difetti dell’immagine” tutti quegli elementi di disturbo causati dal passare del tempo, non necessariamente connessi con l’invecchiamento e l’usura. L’edizione speciale, cioè, sembra riproporsi di svincolare i film dai legami col proprio tempo: limiti tecnici, economici, censori e via dicendo. Nel recente caso del film L’infernale Quinlan, ad esempio, l’edizione speciale si riproponeva di restituire il film alla volontà dell’autore, sulla base di un memoriale dettagliato lasciato da Orson Welles; la forma imposta al film dal produttore, quella con cui il film è uscito, è stata considerata come una sorta di danno del tempo. Nel caso di Riso amaro, Giuseppe de Santis ha garantito per la reintroduzione della scena dell’aborto in risaia: in questo caso è stata una presunta censura a fare le veci dell’invecchiamento da correggere. Nello stesso modo, le tecnologie digitali, avendo la possibilità di descrivere numericamente suono ed immagini per riproporli “più nuovi”, possono far considerare cause di “invecchiamento” vecchie tecniche di registrazione all’epoca imperfette. Assumendo come dato scontato che la volontà dell’autore fosse quella di ottenere il miglior risultato possibile. L’intervento su Star Wars rientra in questa categoria. È lo stesso autore a dichiarare che nel far fluttuare la macchina in aria si era dovuto limitare ad un risultato insoddisfacente; così come per le scene dell’aeroporto avrebbe voluto mettere folle di personaggi. Queste scene sono cioè state considerate danneggiate da “difetti dell’immagine” dovuti alla loro età. Quello che sembra paradossale non lo è poi così tanto: la ricostruzione di effetti ottici come le dissolvenze è una pratica accettata, perché non lo dovrebbe essere il miglioramento dei “trasparenti”? Inoltre, attualmente è pratica comune pulire digitalmente il suono dei film, eliminando, oltre ai disturbi dati da sporcizia e rotture, anche parte di quelli dovuti alle tecniche di registrazione d’epoca, mentre, per quanto riguarda le immagini, il freno ad interventi di restauro digitale è principalmente economico. Sono però già in uso, e si tratta degli stessi strumenti impiegati per realizzare effetti speciali, strumenti che offrono una gamma illimitata di intervento. In futuro i limiti nella correzione delle immagini d’epoca
potrebbero spostarsi sensibilmente, in proporzione al mutare della percezione di qualità dell’immagine. L’Edizione Speciale di Star Wars ha quindi questo merito: invita alla prudenza nell’impiego di tecnologie digitali per il restauro e ci mostra come non basti la volontà provata dell’autore, unita ad un effettivo miglioramento qualitativo di suono ed immagine. Esiste infatti un terzo punto: l’ “originale”, la copia conservata alla Libreria del Congresso. Ogni caso di film è diverso, ogni intervento è più o meno riuscito, chi plaude al lavoro su L’Infernale Quinlan può trovare quello su Star Wars un massacro. Ma se la fantascienza anni Settanta deve essere di latta, allora, potremmo concludere, un autore ad Hollywood negli anni Cinquanta deve risultare sottomesso alla volontà dei produttori. Di fatto queste operazioni, che non possono essere considerate restauri, sono legittime, e spesso interessanti. Rimane il fatto che anche, e soprattutto, la versione di distribuzione d’epoca deve essere conservata, duplicata, e resa accessibile al pubblico, con i suoi difetti e con il suo valore storico. Quando così non è, questi interventi vanno considerati comunque uno scempio.
GLI SPIN OFF DI STAR WARS
Benedetta Pallavidino
Star Wars è senza dubbio la saga che, sin dai suoi inizi, ovvero sin dall’uscita della trilogia originale (1977 -1983),
meglio si presta a venire ampliata attraverso sequel e prequel che si concentrino sulle varie fase degli scontri intergalattici. Nel 2012, in seguito all’acquisizione della Lucasfilm da parte della Walt Disney Company, viene annunciata da Lucas la produzione dei tre episodi (VII VIII e IX) sequel della saga, e poco dopo essi, viene lanciata l’idea della serie Anthology, ovvero una serie a se stante di avventure ambientate nel mondo di Star Wars che facciano luce su eventi poco chiari, citati o marginalmente toccati negli episodi della serie originale. Così, nel 2014, si inizia a parlare di Rogue One – A Star Wars Story, nato da un’idea del supervisore agli effetti speciali John Knoll. Ambientato poco prima delle vicende narrate in Una nuova speranza (1977), Rogue One è incentrato su un gruppo di spie ribelli in missione per recuperare i piani della Morte Nera, nuova letale arma dell’Impero. Non appena i cast vengono aperti, la prima notizia a trapelare è quella del ruolo centrale di un’eroina femminile, un personaggio fascinoso e carismatico che possa egregiamente, dal punto di vista cronologico, anticipare quello iconico della Principessa Leia. I tre nomi che, per primi, sembrano essere in lizza per il ruolo sono: Rooney Mara, Tatiana Maslany e Felicity Jones, mentre per il ruolo del protagonista maschile compaiono quelli di Edgar Ramirez, Aaron Paul e Diego Luna. Jones e Luna vengono confermati e contornati da un cast stellare che, tra gli altri, include Riz Ahmed, Mads Mikkelsen, Ben Mendelshon e Forrest Whitaker. Le riprese iniziano a Londra l’8 agosto del 2015 e si protraggono fino a fine inverno, con varie riprese aggiuntive volute dal regista Gareth Edwards per rendere più cupe e misteriose le atmosfere e gli scenari di ambientazione. L’inizio del tour promozionale, la fase più importante per la distribuzione dei prodotti di questa portata (saghe e cinecomics), viene decretato dal panel di presentazione del film allo Star Wars Celebration a Londra e al San Diego Comic Con nel luglio 2016, per poi concludersi a ridosso dell’uscita in sala: 16 dicembre 2016 (15 dicembre in Italia).
Galen Erso (Mads Mikkelsen), scienziato a servizio dell’impero Galattico, tenta inutilmente di ritirarsi a vita privata insieme alla moglie Lyra (Valene Kane) e alla figlia Jyn. Viene raggiunto dal Direttore Imperiale Krennic (Ben Mendelshon) che, dopo aver ucciso, in segno di vendetta, la moglie di Erso lo costringe a tornare al servizio dell’imperatore per concludere la progettazione della Morte Nera. Jyn, che è riuscita a sfuggire agli scagnozzi di Krennic, viene salvata e cresciuta dal ribelle Saw Gerrera. A distanza di anni Erso invia un pilota presso Gerrera (Forrest Whitaker), per informarlo di una vulnerabilità inserita all’interno della Morte Nera, l’unico punto debole capace di sabotare e distruggere l’arma letale. Nel mentre Jyn (Felicity Jones), portata in salvo da una prigione imperiale, entra in contatto con l’Alleanza e viene inviata insieme all’ufficiale Cassian Andor (Diego Luna) e al droide K-2SO (Alan Tudyk) su Jedha per ritrovare Gerrera. L’anziano ribelle mostrerà a Jyn il messaggio inviato dal padre e la renderà partecipe del segreto che può fermare la mossa decisiva dell’Impero. La giovane eroina ritroverà il padre in punto di morte, ucciso dalle bombe scagliate dai ribelli sulla base imperiale di Eadu e in seguito, diverrà capo di una spedizione speciale, diretta su Scarif per impossessarsi dei piani di progettazione della Morte Nera. Un gran numero di soldati ribelli si sacrificheranno per coprire Jyn e Cassian e permettere loro di riuscire nell’impresa. Mentre la battaglia prosegue e i Ribelli si scontrano contro le guarnigioni di Darth Vader, il messaggio contenente la chiave per la salvezza viene trasmesso all’Alleanza e consegnato direttamente alla Principessa Leia. Come classicamente accade nei vari episodi della saga, anche Rogue One si regge sull’instancabile ed inarrestabile confronto tra bene e male, si simula e dissimula al fine di essere nel “giusto” rispetto a quegli insegnamenti che sono stati impartiti e in virtù dei quali si è stati cresciuti. L’ambiguità di personaggi quali gli Erso o Cassian aiuta la narrazione a procedere dinamica e tridimensionale, inoltre supporta un delicato e complesso studio della psicologia del personaggio. C’è un’evoluzione, quasi sempre in positivo, che
spinge, in particolar modo i ribelli, ad elevarsi, ad abbandonare i loro dubbi, le loro paure o il loro risentimento per farsi veicolo di giustizia e libertà. Incerto è il ruolo di Galen, a cavallo tra bene e male, tra Impero e Ribellione, altrettanto misteriosi sono gli obiettivi inziali di Cassian e di Jyn, sepolti sotto una montagna di sentimenti contrastanti. La morte, l’assistere alla sua violenza e alla sua crudezza, consente di evolvere, di maturare, di far affondare il proprio credo, quello instillato sin da bambini, in un terreno fertile in cui farlo crescere e germogliare. I ribelli e la loro avventatezza di facciata vacillano, sovvertendo un’idea originale di giustizia imparziale e superiore e lasciando spazio all’espressione del coraggio di quei “soldati semplici” che nella ribellione credono e vedono i riflessi di una speranza, flebile ma concreta, per cui vale ancora la pena lottare. “Ogni ribellione nasce dalla speranza” dice Jyn innanzi al consiglio interdetto ed immobilizzato dal terrore di venir sconfitto dalle forze imperiali. Il più misterioso dei personaggi si espone e si erige a guida illuminata dalla Forza, quella stessa Forza a cui, la madre prima di morire, ha suggerito di affidarsi. Jyn Erso spicca il volo a bordo della Rogue One, accompagnata da tutti quei folli ribelli che nella vita non sempre hanno saputo fare la cosa giusta, ma che, per una volta, l’ultima, quella decisiva, scelgono la via del riscatto. Senza addentrarsi in uno studio specifico e dettagliato della filosofia che sta alla base di Star Wars, vale la pena di soffermarsi sulle eccellenze di una pellicola che, non è da dimenticare, ha garantito agli Stati Uniti il maggior incasso al botteghino del 2016. Gli effetti speciali, e visivi, il dinamismo e il fascino della rapidità, l’invincibile e insistente senso di potere, il giganteggiare di esplosioni, scontri a fuoco, impatti rovinosi e disastrosi, calibrati e strategicamente intarsiati nella narrazione conquistano gli appassionati e atterriscono l’occhio inesperto. Il troneggiare, lo sfilare, lo sfoderare e l’impugnare la spada laser di Darth Vader infiamma i cuori e riporta alla mente l’eroismo e il fascino di quei “cattivi” che non passano mai di moda, che non invecchiano e che garantiscono, in pochi frame, il successo della pellicola, così come un rapido e fugace
sguardo su Leia, oggi nel 2017, fa crescere un senso di nostalgia verso quella storica Carrie Fisher scomparsa prematuramente. Un brivido percorre il cultore e lo infervora sullo scorrere dei titoli di coda, poiché la potenza, datata ma sempre ad effetto, di pragmatiche frasi come “E’ la speranza” conferiscono quel sapore di confortevole famigliarità che solo i miti irriducibili sanno conservare con lo scorrere del tempo. Non sono mancate le critiche, soprattutto riguardo alla ricostruzione computerizzata del generale Turkin interpretato da Peter Cushing, volto storico che si è voluto conservare, nonostante l’attore sia deceduto più di vent’anni fa. Analogamente anche l’apparizione di Leia porta con sé una polemica: in principio creduta una Fisher ringiovanita dalla computer grafica, si è rivelata, in realtà, una sostituzione; la celebre principessa è stata infatti interpretata, come spoilerato su Twitter poco dopo dell’uscita del film in sala, dalla semisconosciuta attrice norvegese Ingvild Deila. Fonte di discussione e di delusione all’interno del Fandom di Star Wars è stata lo scoprire che il personaggio di Jyn Erso, amato ancor prima di raggiungere il grande schermo, inizi e concluda la sua evoluzione e il suo percorso storico nell’arco di due sole ore di pellicola. La sua tridimensionalità e la sua sfaccettata personalità hanno creato un immediato e rapido processo di attaccamento viscerale e di avvicinamento empatico che porta il pubblico di appassionati a insorgere contro la decisione di liquidare in poche drammatiche inquadrature qualunque possibilità di un futuro nella galassia. Nonostante sia improbabile, tra i commenti sui forum del Fandom emergono arzigogolate e fantasiose teorie, che meriterebbero una pubblicazione a sé, anche solo per premiare la fervida immaginazione, che vorrebbero Jyn comparire, con una grottesca e poco credibile comparsata in Han Solo, secondo episodio di Anthology. Han Solo – A Star Wars Story in principio previsto in uscita a dicembre 2018 e poi anticipato a maggio, sarà incentrato sulla storia del pirata più amato della galassia, in quella fase di vita che precede le vicende di Una nuova speranza. Stando a come Lucas lo definì nel 1977: “un
solitario che comprende l’importanza di far parte di un gruppo e di stare per il bene comune”, il Solo dipinto nello spin off dovrebbe dunque apparire come un eremita schivo e solitario, riservato e fiducioso solo in se stesso, calcolatore e diffidente, probabilmente anche un po’ sprovveduto e lievemente ingenuo. Questa teoria trova fondamento nel fatto che nell’episodio IV Han Solo debba restituire una gran somma di denaro allo spietato Signore del crimine Jabba the Hutt. Jabba potrebbe dunque essere, con buone probabilità, uno dei principali antagonisti dello spin off, che si troverebbe così a poter chiarire le radici e gli antefatti del loro rapporto. Inoltre, non è da scartare l’ipotesi che questo film si soffermi lungamente e piacevolmente – senza dubbio i fans ne sarebbero felici – sulla nascita del sodalizio tra Solo e il suo fedelissimo co pilota Chewbecca. In questo caso potrebbe dunque persino assumere le fattezze di un doppio spin off dedicato all’approfondimento di un dittico e della sua formazione. Ciò che, senza dubbio, spiazza e preoccupa i cultori della saga, è il dover ritrovare i tratti mitici del personaggio impersonato da Harrison Ford, in un “pivellino” alle prime armi – il ruolo del giovane Solo è stato, infatti, assegnato a Alden Ehrenreich, conosciuto per il ruolo da protagonista in Beautiful Creatures (2013). Se con Rogue One, la scelta di introdurre personaggi di nuova creazione tutelava la produzione da qual si voglia critica, la mossa successiva, ovvero la coraggiosa scelta di andare a scardinare e a svecchiare un personaggio degli anni Settanta, potrebbe essere fatale. Nonostante anche il terzo capitolo di Anthology: Boba Fett, recuperi un personaggio della trilogia originale, si prospetta poter essere meno rischioso, in quanto si pone l’obiettivo di dare spazio ad un personaggio marginale, trascurato e lasciato troppo vistosamente in secondo piano. Toccare Han Solo significa, in qualche modo, rischiare di sovvertire un’intera poetica e di restituire, soprattutto alle nuove generazioni, un’immagine sfalsata, magari sfocata e annacquata di un eroe leggendario. La regia di Han Solo è stata affidata a Ron Howard che, insieme ad un cast ben nutrito tra i quali spiccano in nomi di
Emilia Clarke, Paul Bettany, Thandie Newton, ha da poco concluso le riprese. I fans a caccia di spoiler hanno già avanzato parecchie teorie sugli ipotetici schieramenti dei personaggi: una di queste vede Il personaggio di Newton schierato con le guarnigioni imperiali e quello di Clarke sentimentalmente legato al protagonista. Se, già per Han Solo, la fase di lavorazione è avvolta da mistero e segretezza, ancora meno si sa sullo spin off dedicato a Boba Fett. Si tratterebbe, anche in questo caso, evidentemente di un prequel. My Entertainment World nel dicembre 2016 conferma la notizia della produzione di un film incentrato sulla storia del più noto cacciatore di taglie della galassia, ma non scende nel dettaglio. A quasi un anno di distanza, ancora nessuna certezza, anzi, a rendere ancora più complicata la situazione, intervengono rumors riguardanti la possibile decisione di realizzare spin off su Obi- Wan e su Yoda, film che potrebbero andare a colmare i buchi che si verrebbero a creare a partire dal 2019, anno in cui è prevista l’uscita dell’ultimo capitolo della terza trilogia. LucasFilm e Disney nel frattempo si sbilanciano sul futuro, e a novembre 2017 è stata annunciata la creazione di una terza trilogia… Rogue One sembra, pertanto, destinato ad essere un unicum irripetibile nell’universo di Guerre stellari, un prodotto di grande valore, innovativo, anticonvenzionale e femminicentrico. Sulla scia dell’apertura a nuovi ruoli femminili iniziata da Rey ne Il risveglio della forza (2015), introduce un personaggio indipendente, emancipato, forte, ribelle e risoluto, avanti anni luce rispetto a Leia, coraggiosa, ma costantemente frenata dal superoismo troneggiante di Luke Skywalker e dal resto dell’allegra compagnia di Forze del bene. L’universo di Star Wars dimostra di sapersi adattare ai tempi e di saper regalare alle nuove generazioni personaggi memorabili che non hanno nulla da invitare ai consunti e amatissimi classici della saga. Jyn Erso, come Rey – e non a caso prima dell’uscita di Rogue One girava voce che Jyn potesse essere madre di Rey - incarnano, in un universo
parallelo, il prototipo di donna dell’epoca 2.0, scaltra ed indipendente, e modernizzano una saga, che, neppure a cavallo del nuovo millennio, non aveva saputo offrire intuizioni o spunti di rinnovamento rispetto alla colossale grandezza della trilogia fondante. Ciò in cui si confida è che le nuove generazione, grazie agli spin off, ancor prima che ai sequel, abbiano l’occasione di conoscere e di rivalutare, in chiave più vicina alle loro corde, una saga che, se vista secondo i canoni contemporanei, con occhi di adolescenti inesperti, può sembrare arcaica e primitiva. Come riferito da Diego Luna a Entertainment Weekly, nell’uscita speciale dedicata a Rogue One, ciò che la pellicola, del tutto costruita su personaggi inediti, si proponeva era la possibilità di ampliare l’audience e raggiungere una buona percentuale di “non cultori” e di spingerli ad una attenta riflessione sulla diversità e sulla costante metafora, non che forte parallelismo, con la realtà contemporanea. Dialoghi e affermazioni che, per gli affezionati sono fonti di reminiscenze “intrafilmiche”, acquisiscono una doppia valenza e si trasformano in trait d’union tra passato e presente, tra narrazione interna ed esterna, tra finzione e realtà.
EFFETTI SPECIALI: LA INDUSTRIAL LIGHT & MAGIC
Federico Magni
Nell’impero cinematografico fondato da George Lucas la Industrial Light & Magic occupa un posto di primo piano. Può essere definita, con le dovute proporzioni, l’impresa di maggior successo tra quelle fondate dal cineasta di Modesto.
Sorta inizialmente per provvedere agli effetti speciali di un solo film, si è imposta come la più importante ed influente, un nome di punta ed una forza trainante, ha dominato per più di vent’anni il settore degli effetti visivi ed è sopravvissuta agli sconvolgimenti che hanno caratterizzato il settore degli anni recenti. Tramite la vendita della Lucasfilm, anche la ILM è entrata a far parte dell’impero Disney nel 2012. La ILM nasce dalla volontà di Lucas di avere una propria struttura dedicata agli effetti speciali, che gli assicuri la realizzazione di ogni tipo di effetti secondo la propria visione del film. Quando dà inizio al progetto Guerre stellari, forte degli incassi di American Graffiti, Lucas è più che mai convinto di voler realizzare in proprio, da regista e produttore, con un controllo completo su ogni fase della lavorazione. Inoltre pensa ad una avventura cui applicare uno stile dinamico e coinvolgente, con tecnologie di nuova concezione. Secondo Lucas il film che ha portato un salto di qualità alla fantascienza è 2001: odissea nello spazio, così si mette alla ricerca dei tecnici che abbiano preso parte al film o lavorato con Stanley Kubrick. Il direttore della fotografia Gilbert Taylor ha firmato Il dottor Stranamore, John Barry è il responsabile delle scenografie di Arancia meccanica, al costumista John Mollo si debbono le uniformi di Barry Lyndon. Da 2001 provengono il capo truccatore Stuart Freeborn, Colin Cantwell e Harry Lange, il primo coinvolto nel design delle astronavi ed il secondo nella parte scenografica. 2001 è stato uno spartiacque anche per quanto riguarda i trucchi e, sebbene la sua raffigurazione sia fortemente diversa, adotta lo stesso approccio di Kubrick nell’organizzare le risorse: concetti e soluzioni nuove e personale pronto ad affrontare ogni sfida, senza idee preconcette e convinzioni radicalizzate: “per poter realizzare il film, sapevo che dovevo mettere in piedi una compagnia perché non c’era nessuno all’epoca che potesse fare il genere di effetti speciali che volevo.” (Paula Parisi, ILM at 30, Hollywood Reporter, 18-20 novembre 2005)
La riflessione parte dal fatto che, alla metà degli anni Settanta, l’industria degli effetti visivi vede poche compagnie reggersi su pellicole del genere catastrofico o sulla fantascienza apocalittica (L’avventura del Poseidon, Terremoto, L’inferno di cristallo, La fuga di Logan). Molti dei grandi studios hanno chiuso i propri reparti interni e quelli che sopravvivono sono guidati da veterani con i quali Lucas difficilmente si potrebbe raffrontare. La prima trilogia: Guerre stellari La ILM sorge in un capannone disadorno a Van Nuys, periferia di Los Angeles, nel luglio del 1975. Il tentativo di assumere Douglas Trumbull, il principale artefice dei trucchi di 2001, non si concretizza: Trumbull è impegnato con Steven Spielberg per Incontri ravvicinati del terzo tipo, ma raccomanda un suo collaboratore, John Dykstra, le cui idee sul riprendere modellini e miniature con una sorta di movimento computerizzato incontrano l’approvazione di Lucas. Dykstra viene posto a capo della unità effetti visivi ed inizia a reclutare personale. Molti dei tecnici che vanno a formare le fila della ILM sono freschi di università e pochi sono coloro che hanno un minimo di esperienza nel settore, situazione che porta Lucas a commentare “[la ILM] tendeva ad assomigliare più ad una confraternita studentesca che a una compagnia di effetti speciali.” (Paula Parisi, op. cit.) Il più anziano del gruppo è l’illustratore Ralph McQuarrie (classe 1929), i cui disegni preliminari sono fondamentali nel definire l’aspetto dei personaggi, come i droidi R2D2 e C1P8 e il carismatico anatgonista Darth Vader. Richard Edlund (nato nel 1940) può vantare la più lunga militanza cinematografica, con la società di effetti ottici di Joseph Westheimer e il pioniere della computer grafica Robert Abel. Altri possono esibire brevi esperienze non accreditate in produzioni indipendenti o fuori dal circuito maggiore (Dennis Muren, Joe Viskocil) ma la maggior parte è al debutto nel campo degli
effetti speciali professionali. Eppure sarà proprio questo gruppo eterogeneo a creare, con entusiasmo e passione, effetti talmente innovativi da richiamare l’attenzione di masse di pubblico. Nel maggio del 2007 la Visual Effects Society, composta da professionisti del settore, pubblica la lista dei cinquanta film che più hanno influenzato l’arte degli effetti visivi: 2001 è al terzo posto, a pari merito con Matrix, Blade Runner è al secondo posto e in vetta si piazza Guerre stellari. L’innovazione più importante sono le riprese a movimento controllato, attuate su modellini e set in miniatura: in esse è la macchina da presa a muoversi verso il modellino o la miniatura, con un movimento imposto e memorizzato da un computer. Il movimento può essere replicato con millimetrica precisione un numero infinite volte, per riprendere più elementi separatamente o in gruppi e gli sfondi su cui si vuole posizionarli. Questo procedimento riduce notevolmente i problemi di posizionamento all’interno di una stessa inquadratura e, conseguentemente, i difetti di allineamento in fase di composizione ottica. Le riprese a movimento controllato sono quelle di maggiore impatto e permettono di mettere in scena astronavi imponenti, scontri ad alto tasso di spettacolarità, caccia spaziali che si inseguono sfrecciando in un canalone. Dalle illustrazioni preparatorie di Ralph McQuarrie la sezione artistica guidata da Joe Johnston arriva alle elaborazioni grafiche da passare al reparto modellistica. Riproduzioni di astronavi e pianeti e miniature di città e canyon vengono creati dalla squadra di Grant McCune, che comprende Steve Gawley e Paul Huston, cui si aggiungono gli specialisti di materie plastiche Lorne Peterson e Jonathan Erland, responsabili delle astronavi di grande formato. Il passo successivo sono le riprese a movimento controllato attuato con il sistema messo a punto da John Dykstra, Jerry Jeffress e Alvah J. Miller, denominato Dykstraflex. Dietro la macchina da presa per queste sequenze si alternano Richard Edlund, Dennis Muren e Ken Ralston (assunto per il turno notturno). Con un simile dispiegamento di elementi nelle inquadrature
(modellini, miniature, sfondi, matte painting) gli artisti della ILM optano per usare una pellicola a grande formato, in modo che le immagini abbiano maggiore nitidezza e non perdano di qualità durante i passaggi nella stampante ottica. Richard Edlund riesce a recuperare due macchine da presa utilizzate per il Vistavision, il formato a grande schermo lanciato dalla Paramount negli anni Cinquanta, che vengono adattate per filmare modellini e sfondi. Tra coloro che modificano le macchine da presa figura Donald Trumbull, padre di Douglas, tornato a mettere la sua inventiva al servizio della tecnica cinematografica (prima di una lunga carriera come ingegnere aeronautico, Trumbull senior ha lavorato agli effetti de Il mago di Oz, 1939). Inoltre viene convocato il veterano William Reinhold a tenere un corso accelerato di riprese su sfondo blu. Un tipo di effetti altamente specialistico è il matte painting, ovvero dipinti su superfici opache o trasparenti raffiguranti parti di scena in scala ridotta (ambienti, paesaggi o universi) difficili o costose da replicare dal vivo. Il dipinto viene piazzato a poca distanza dalla macchina da presa e integra scene già girate. Per questo genere di effetti, fondamentale in una pellicola di fantascienza, Lucas si rivolge a Harrison Ellenshaw, all’epoca il principale artista in forza alla Disney, che realizza quattordici dipinti usati in diciassette sequenze. Le scene con gli attori vengono girate in prevalenza negli studi inglesi di Elstree, dove Lucas ingaggia il mago degli effetti meccanici John Stears, che ha attrezzato la Aston Martin dei film di James Bond. Si deve a Stears l’invenzione delle spade laser. La ILM si distingue da subito per la spinta innovativa, la ricerca di nuove soluzioni, caratteristiche che Lucas non cessa di incoraggiare: Peter Kuran introduce l’uso di luci interattive nelle scene di scontri spaziali, Joe Viskocil simula le esplosioni in assenza di gravità riprendendole dal basso. I 360 effetti visivi prodotti dalla compagnia sono fondamentali nel decretare il successo del film e la ILM passa da uno stato di pressoché anonimato alla prima fila nel campo dei trucchi cinematografici, condizione sancita da uno dei sette Oscar vinti dalla pellicola nel 1978.
L’impero colpisce ancora Quando si ripresenta con L’impero colpisce ancora, la ILM è reduce da forti cambiamenti. La sede, come tutta la Lucas Film, è stata spostata a San Rafael, nella contea di Marin, al di fuori della caotica area di Los Angeles. E’ un’area dove già ferve una ragguardevole attività cinematografica, grazie a produttori come Francis Ford Coppola e Saul Zaentz. La mente creativa della ILM non è più John Dykstra, rimasto a Los Angeles per guidare la propria compagnia Apogee, ma Richard Edlund, inoltre Lorne Peterson ha preso in carico la sezione miniature (dopo che Grant McCune ha seguito Dykstra), Harrison Ellenshaw guida il nuovo reparto matte painting e Bruce Nicholson la sezione di composizione ottica. Queste nuove condizioni non intaccano la qualità del lavoro della ILM per L’impero. La battaglia iniziale sul pianeta ghiacciato Oth è generata da un esemplare dispiegamento di varie tecniche, dalla composizione ottica al rotoscope, dai modellini alla animazione a passo uno. Quest’ultima disciplina è una delle più difficili da mettere in scena: consiste nel muovere uno o più modellini articolati filmando l’azione un fotogramma alla volta. Questo significa che un pupazzo con quattro arti e la testa necessita di centoventi movimenti per un secondo di apparizione sullo schermo. E’ la tecnica resa celebre dal primo King Kong, ma comporta un talento particolare per ottenere movimenti fluidi e realistici, uno spostamento troppo vicino o troppo marcato rispetto al precedente risulta in un movimento a scatto. Molti degli artisti della ILM si sono appassionati agli effetti visivi grazie ai film di Ray Harryhausen, ma pochi si sono avvnturati sui sentieri impervi della animazione vera e propria. Nel primo episodio Phil Tippett e Jon Berg animano la partita a scacchi olografici tra Luke e Chewbacca, ma ora hanno in carico l’avanzata dei camminatori imperiali. La natura meccanica dei camminatori si adatta particolarmente alla animazione a passo uno. L’incedere pesante e le spettacolari cadute dei camminatori sono enfatizzate dalle riprese al rallentatore con le speciali
macchine da presa messe a punto dalla equipe di Edlund. Due sono le vecchie macchine della Vistasion già modificate per Guerre stellari, la terza è stata concepita e costruita direttamente dalla ILM ed è una delle più moderne e sofisticate sul mercato (subito battezzata ‘Macchina dell’Impero’). Un’altra innovazione è la stampante ottica a quattro proiettori ‘Quad Printer’ che consente un assemblaggio accurato delle immagini in un numero limitato - talvolta uno solo - di passaggi. Le lenti speciali progettate da David Grafton assicurano una ragguardevole nitidezza e definizione, necessarie quando le inquadrature comprendono sciami di asteroidi, flotte spaziali o truppe terrestri. I modellisti sono impegnati con cinquanta nuove miniature, tra cui un Millenium Falcon più dettagliato e flessibile da maneggiare. E’ però l’animazione a riservare le maggiori sorprese: nella tecnica a passo uno il modello animato è sempre a fuoco, spiccando per risoluzione in mezzo agli elementi ripresi in movimento. Questa condizione prende il nome di effetto stroboscopico. Per ovviare al difetto Dennis Muren e Stuart Ziff escogitano la tecnica battezzata Go-Motion, con cui viene impresso un lieve movimento al modello animato al momento dello scatto, in modo da ottenere una leggera sfocatura che lo renda coerente con gli altri elementi dell’inquadratura. Questa tecnica debutta ne L’impero e trova una estesa applicazione ne Il drago del lago di fuoco. Mani esperte come quelle di Frank Oz muovono invece il pupazzo raffigurante il venerabile maestro Jedi Yoda, in una performance anche vocale che conferisce a Yoda credibilità e autorevolezza. Le distese brumose del pianeta Dagobah, rifugio di Yoda, sono il fiore all’occhiello della sezione matte painting, insieme alle panoramiche del sistema gassoso di Bespin con la suggestiva Città delle Nuvole, universi usciti dai pennelli di Ellenshaw, Ralph McQuarrie e Michael Pangrazio. Per riprese con gli attori la troupe torna agli studi Elstree, dove un nuovo teatro di posa (il nr. 6) viene costruito per le scene nelle gallerie ghiacciate. Gli effetti meccanici sono gestiti da Brian Johnson e, quando quest’ultimo deve lasciare per un precedente impegno, subentra il suo associato Nick Allder. Entrambi sono reduci
dal successo di Alien e Johnson infittisce la schiera dei partecipanti a 2001: Odissea nello spazio ingaggiati da Lucas. Dopo Guerre stellari è veramente la ILM a colpire ancora il pubblico e l’industria cinematografica, forte di una struttura dinamica e consolidata, in grado di provvedere con i suoi reparti interni ad ogni tipo di effetti speciali, con una efficienza che era mancata durante la lavorazione del primo episodio. A ciò va unita la componente innovativa, da sempre incoraggiata da Lucas, caratteristica costante della compagnia che la manterrà in prima fila anche quando la concorrenza si farà serrata. La ILM che si appresta ad allestire le magie visive per Il ritorno dello Jedi, non è più ad esclusivo servizio della saga ma si è immessa sul mercato. Attendendo che inizi la lavorazione del terzo capitolo, Lucas concede i servizi della società a proprie conoscenze: Hal Barwood e Matthew Robbins (Il drago del lago di fuoco) e soprattutto Steven Spielberg, che diverrà cliente abituale della ILM. La collaborazione con Spielberg conferma in modo lampante il primato che la società ha acquisito nell’ambito dei trucchi visivi: I predatori dell’arca perduta e E. T. aggiungono altri due Oscar a quelli già vinti per Guerre stellari e L’impero colpisce ancora. Il ritorno dello Jedi Per Il ritorno dello Jedi la ILM confeziona novecento sequenze con effetti visivi, a fronte dei trecentosessanta di Guerre stellari e dei quattrocento de L’impero colpisce ancora. Una delle scene che colpiscono più il pubblico è l’inseguimento ad alta velocità tra le sequoie della foresta di Endor. Lo sfrecciare in mezzo agli alberi viene filmato con una Steadicam manovrata personalmente dal suo inventore Garrett Brown, a un fotogramma al secondo. Su questi sfondi vengono sovrimpresse otticamente le immagini di motoslitte in miniatura (con pupazzi a replicare gli attori), filmate davanti
ad uno sfondo blu e mosse tramite controllo remoto. Il reparto creature lavora per più di un anno per fabbricare le forme di vita aliena di cui il film è permeato, compresa la corte di Jabba the Hutt, la popolazione degli Eworks e soprattutto il Rancor, un mostruoso essere la cui tana si trova sotto il trono di Jabba. Il Rancor è in realtà un pupazzo animato con aste da Phil Tippett, Tom St. Amand e David Sosalla, i cui movimenti, dato che viene filmato in un set in scala ridotta, devono essere velocizzati anziché rallentati come avviene nella normale animazione a passo uno (la ripresa avviene a settantadue fotogrammi al secondo per celare l’uso di miniature). Gli animatori si occupano anche dei movimenti dei mezzi imperiali da combattimento terrestre - battezzati Quadropodi mentre il capo truccatore Stuart Freeborn elabora una versione più articolata di Yoda. Lorne Peterson e la sezione miniature producono più di un centinaio di modellini tra astronavi, mezzi di trasporto e di combattimento terrestri e satelliti, a fronte della mezza dozzina di elementi assemblati per Guerre stellari (e moltiplicati grazie alle riprese a movimento controllato). Un altro reparto che viene messo sotto pressione è quello inerente ai matte painting, composto ora da elementi formatisi internamente alla ILM: Michael Pangrazio (supervisore), Chris Evans e Frank Ordaz eseguono quarantacinque matte painting, dalle foreste di alberi giganti di Endor agli interni della Morte Nera, che vengono filmati da Neil Krepela e Craig Barron. I vari elementi vengono assemblati otticamente da Bruce Nicholson e dai suoi associati Kenneth Smith, John Ellis e David Berry. L’attacco finale è un dispiegamento dei talenti di Steve Gawley (i tunnel della Morte Nera in miniatura) e di Thaine Morris (le esplosioni controllate che distruggono i tunnel e il modellino del pianeta). Il ritorno dello Jedi conclude in maniera sfarzosa (dal punto di vista tecnico) la trilogia ma segna anche la fine di un ciclo: Richard Edlund e Phil Tippett, due tra le figure più autorevoli, lasciano la società per intraprendere carriere autonome, Edlund assume la guida della Effects Entertainment (dietro invito del fondatore Douglas Trumbull) che converte nella Boss Film, mentre Tippett fonda lo studio omonimo. In questo periodo il settore
infatti conosce un momento di forte espansione, con decine di nuove società indipendenti che, seguendo l’esempio della ILM, vanno a riempire il vuoto lasciato dai dipartimenti dei grandi Studios. Alcune di queste società sono attrezzate per coprire la più parte degli trucchi visivi, molte sono specializzate in un definito genere di effetti (miniature, animatronica, matte painting). Questa espansione comprende anche società formate da artisti provenienti dalla ILM: alle già citate Apogee (John Dykstra), Boss Film (Richard Edlund) e Tippett Studio (Phil Tippett) si affiancano la GrantMcCune Design, la Visual Concept Engineering (Peter Kuran) e la Matte World (Craig Barron). Nonostante la crescente concorrenza la ILM domina il campo per quasi vent’anni, grazie alle collaborazioni con registi quali Steven Spielberg (Il ciclo di Indiana Jones, E.T., Jurassic Park), James Cameron (Abyss, Terminator 2), Robert Zemeckis (Chi ha incastrato Roger Rabbit?, La morte ti fa bella, Forrest Gump), Ron Howard (Cocoon, Willow, Fuoco assassino).
La seconda trilogia: La minaccia fantasma Quando si ripresenta sulla scena nei panni di produttore e regista, Lucas dichiara di aver messo in cantiere la nuova trilogia grazie anche alle risorse offerte dalle nuove tecnologie, in modo particolare le immagini al computer. “grazie alla tecnologia digitale, sono stato capace di pensare ad una più grande, più epica dimensione, che è quello che volevo che fossero i film di Guerre stellari…con la tecnologia digitale le possibilità si sono aperte di nuovo. Improvvisamente un sacco di cineasti possono pensare a storie che sono film storici, o fantasy. Con questa tecnologia adesso disponibile non sono più in questo angusto vicolo creativo di girare solo particolari tipi di film d’azione o drammi contemporanei.” (Don Shay, Return of the Jedi, Cinefex nr. 78, luglio 1999)
Nella prima trilogia il contributo del computer ha riguardato soprattutto le azioni a movimento controllato, con pochissima presenza di immagini create graficamente (il simulatore di volo durante la preparazione dell’attacco alla Morte Nera in Una nuova speranza, il modello oleografico della nuova Morte Nera in costruzione ne Il ritorno dello Jedi) tuttavia Lucas intende esplorare anche questa possibilità e, nel 1979, costituisce una divisione di computer grafica all’interno della ILM, con a capo Ed Catmull. E’ questo gruppo a creare, tre anni dopo, la prima sequenza formata da immagini al computer: la fioritura di un pianeta arido per il film Star Trek: l’ira di Kahn. La scena prende il nome di ‘Effetto genesi’. Nello stesso periodo altre società, specializzate in questo tipo di immagini, spostano la loro attenzione dal mercato pubblicitario al settore cinematografico. Nel giro di pochi anni escono Tron (1982), prodotto dalla Disney con gli effetti visivi della Tripla I, Robert Abel & Associates, Magi e Digital Effects, e Giochi stellari (The Last Starfighter, 1984) dove la maggior parte dei trucchi visivi è realizzata in computer grafica dalla Digital Productions. Pur con pregevoli risultati i film non innescano quella conversione al digitale che riuscirà invece alla ILM: Piramide di paura (1985) presenta il primo personaggio in computer grafica nella figura del cavaliere che si stacca da una vetrata, Willow (1986) contiene una serie di trasformazioni ottenute con il morphing e Abyss introduce la prima creazione animata in 3D, lo pseudopodo d’acqua. Terminator 2 (1991) dispiega un uso estensivo del morphing e altre innovazioni digitali per il metallo liquido di cui è formato il Terminator T-1000, una pelle sintetica estensibile dalla resa realistica caratterizza La morte ti fa bella (1992) e Jurassic Park (1993) segna il punto di svolta, con dinosauri ed altri rettili preistorici creati in modo realistico, con riproduzione della pelle e della muscolatura, e posti ad interagire con interpreti reali nella maggior parte delle sequenze. Il successo del film apre le porte ad un cambiamento radicale nel settore degli effetti visivi, con le immagini al computer che passano da elemento di curiosità a tecnica di punta del processo cinematografico. Lo stesso Lucas ammette: “Nel momento che
scoprimmo di poter creare i dinosauri digitalmente [in Jurassic Park], realizzai che avevamo raggiunto il livello che mi occorreva per tornare a pensare di nuovo a Guerre stellari.” (Don Shay, op. cit.) All’inizio della lavorazione de La minaccia fantasma la ILM conserva ancora una posizione di prestigio ma la concorrenza è sempre più agguerrita e numerosa, proprio grazie alle nuove tecniche disponibili: entità come la Digital Domain (Titanic, 1997), Rhythm&Hues (Babe, 1995) e Sony Pictures Imageworks (Starship Troopers, 1997) sono in grado di fornire lavori confrontabili, per qualità e ingegnosità, alle opere della ILM. La responsabilità degli effetti visivi della nuova trilogia è affidata a John Knoll. Inventore del Photoshop, entrato alla ILM nel 1986, Knoll è tra gli addetti alla computer grafica per Abyss e gestisce da supervisore gli interventi della ILM in Star Trek: Generazioni, Star Trek: Primo contatto e Mission: Impossible prima della prestigiosa assegnazione. Lo affiancano il veterano Dennis Muren (l’uomo che ha traghettato la ILM nel nuovo corso digitale), Scott Squires e il direttore dell’animazione Rob Coleman. A dare forma grafica alla visione di Lucas provvede Doug Chiang; alla ILM dal 1989, Oscar per La morte ti fa bella, Chiang eredita il ruolo che fu di Ralph McQuarrie e definisce l’aspetto di astronavi, veicoli, alieni, truppe corazzate e, in collaborazione con il reparto scenografia, anche di ambienti e sfondi. Lucas può dare libero corso alla sua immaginazione grazie alle capacità della tecnologia digitale: gli attori recitano per la maggior parte su set spogli davanti a sfondi neutri, che vengono poi riempiti dagli artisti della computer grafica; sorgono così le distese desertiche di Tatooine, le suggestive vedute di Naboo, la metropoli Coruscant, dai palazzi svettanti fino alle nuvole, la città subacquea di Otoh Gungan. La presenza di un direttore dell’animazione tra i supervisori degli effeti sottolinea quanta importanza Lucas conferisca a questa disciplina, impiegata per una ampia varietà di forme aliene. Del resto Lucas non nasconde il suo orgoglio per i risultati raggiunti dalla ILM nel campo della animazione al computer: ‘Noi possiamo fare il tipo di animazione che la Pixar fa nei
loro cartoon - ma noi possiamo farlo in maniera fotorealistica… nessuno è in grado di farlo alla maniera della ILM in termini di creare personaggi fotorealistici che appaiono reali all’interno di una scena’. (Don Shay, op. cit.) Dopo il dragone di Dragonheart, il fantasmino di Casper e i dinosauri di Jurassic Park: The Lost World, la ILM è pronta ad affrontare personaggi senzienti che devono interagire con interpreti in carne ed ossa. E’ enorme il numero di creature che il film esibisce, stavolta in una singolarità di forme tali da dissipare il sospetto che si tratti di attori camuffati: da Boss Nass, leader dei Gungan, al trafficante Watto, ai concorrenti della podrace di Tatooine. Il personaggio su cui si appuntano più le aspettative, Jar Jar Binks, non riesce a catturare le simpatie del pubblico nonostante la cura nell’animazione e nella resa realistica dei vestiti. Lucas non rinuncia tuttavia ai benianimi del pubblico: un incompleto C-3PO fa la prima sua apparizione nella casa di Anakin Skywalker, mentre R2-D2 si dimostra già abile come tempestivo riparatore. La prevalenza di effetti al computer non esclude l’uso di tecniche più tradizionali, anzi l’intento della ILM è di integrare quanto più efficacemente le varie competenze acquisite dai tecnici nel corso degli anni. Il supervisore Steve Gawley conferma che La minaccia fantasma rappresenta il più grosso impegno affrontato dalla ILM fino ad ora in termine di modelli e miniature: “In totale abbiamo costruito cinquecento e più tra modellini, miniature e personaggi per questo spettacolo.” (Jody Duncan, Kevin H. Martin, Mark Cotta Vaz, Heroes’ Journey, Cinefex 78, luglio 1999) L’impotente arena di Anchorhead, teatro della sfida dei podracer, gli eleganti palazzi di Theed (capitale di Naboo), la nave ammiraglia della Repubblica non sono formati da pixel ma da elementi modellati in truciolato e masonite, per assicurare consistenza e resa prospettica durante le riprese in movimento. Quando Lucas si reca a girare in Inghilterra, negli studi Leavesden, la troupe di Nick Dudman prende in carico il trucco a figura intera di interpreti e comparse, la stessa tecnica che nella prima trilogia era gestita da Stuart Freeborn. Il consiglio dei Jedi, i cospiratori vicerè Nemoidiani, il pubblico che assiste
alla gara dei podracer e vari abitanti di Tatooine figurano tra i centoquarantasei tipi di trucco, alcuni dei quali dotati di meccanismi animatronici, che Dudman e soci modellano seguendo i dettami di Lucas e di Doug Chiang. Viene messo a punto un nuovo Yoda, per i cui movimenti viene richiamato l’animatore originale Frank Oz (nel frattempo divenuto regista, In & Out) mentre la maschera di Chewbacca viene recuperata per conferire il giusto aspetto ad un gruppo di delegati Wookie.
L’attacco dei cloni Il secondo episodio L’attacco dei cloni stabilisce nuovi primati, dalle milleottantacinque sequenze con effetti visivi si arriva a duemila, delle quali novecentoventotto con personaggi creati al computer, per un ammontare di sessantanove minuti di filmato. Questa notevole mole di lavoro è prodotta da tre unità, guidate da John Knoll, Pablo Helman e dal team formato da Dennis Muren e Ben Snow. Mentre arrivano avanzamenti significativi nella riproduzione di indumenti, prosegue la creazione di mondi e universi con specifiche caratteristiche: dall’oceanico Kamino, sede della fabbrica dei cloni, al desertico Geonosis, che ospita l’impianto di produzione dei droidi ma soprattutto l’immensa arena (in realtà una miniatura circolare dal diametro di quattro metri e mezzo ed alta quasi due metri) dove inizia lo scontro tra le forze separatiste e le armate della Repubblica. sostenute dai cavalieri Jedi. La battaglia terrestre, che vede schierati i separatisti e le armate di droidi contro le truppe dei cloni e le forze Jedi, rappresenta il maggiore concentramento di effetti di tutta la saga di Guerre stellari ed è supervisionata da Dennis Muren e Ben Snow, affiancati da Rob Coleman e Hal Hickel per quanto attiene l’animazione. L’altra grande sfida affrontata nel film è la riproduzione digitale del maestro Yoda, concepito da Lucas come una versione più agile e combattiva del
venerabile mentore de L’impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi. Partendo proprio dalle scene di questi due film, Coleman e i suoi sessanta animatori producono uno Yoda digitale carismatico e credibile, sia nell’esprimere centenaria saggezza sia quando affronta con la spada laser il Conte Dokku che, nella personificazione di Christopher Lee, raggiunge quasi i due metri. Il nuovo Yoda, che incorpora espressioni e movenze tipiche del pupazzo animato da Frank Oz, vale a Coleman ed al suo team una lettera di congratulazioni dello stesso Oz. Le parti romantiche sono ambientate negli angoli più suggestivi di Tatooine e Naboo e sono affidate alla unità di Pablo Helman (responsabile anche delle sequenze sul pianeta Kamino) che utilizza anche riprese della Reggia di Caserta e del Lago di Como. Una delle novità sostanziali è che si tratta del primo film di grosso budget ad essere girato su un sistema digitale a 24 frame ad alta definizione, anziché su pellicola. Lucas introduce questa soluzione per una maggiore ricchezza, nitidezza e definizione, nonché la possibilità di una più immediata manipolazione delle immagini. Infatti una volta terminato un gruppo di riprese, il girato viene sottoposto al capo montatore Ben Burtt, che inserisce digitalmente la parte filmata dal vivo nelle scene virtuali create dalla unità di previsualizzazione di David Dozoretz, ottenendo una anteprima grezza di come apparirebbe la scena finale. E’ una anticipazione del processo che verrà affinato da James Cameron per Avatar e Lucas lo utilizza per scegliere il tipo di intervento che la ILM deve svolgere per ultimare le sequenze.
La vendetta dei Sith Il terzo capitolo La vendetta dei Sith chiude la seconda trilogia e, come era successo per Il ritorno dello Jedi, in modo grandioso, anche per quanto riguarda la parte tecnica. Gli effetti visivi ampliano temi già sviluppati con i capitoli
precedenti. John Knoll e Roger Guyett pilotano la ILM attraverso un violento combattimento tra giganteschi vascelli da battaglia, stavolta nel cielo sopra Coruscant, e plasmano universi di nuova concezione: oltre ai già citati Naboo e Tatooine, l’azione si snoda sul lussureggiante Kashyyyk, patria dei Wookie, su Felucia, coperto di immense foreste tropicali, sul cavernoso Utapau fino alla drammatica conclusione su Mustafar. Il livello di lavorazione è tale da includere fino a sessanta elementi in una stessa inquadratura. Sul versante dell’animazione Rob Coleman produce uno Yoda sempre più realistico nell’aspetto e nei movimenti ed un cattivo totalmente composto da pixel - il generale Grievous, metà alieno e metà droide – entrambi in grado di tenere efficacemente la scena assieme a interpreti reali. Il vulcanico pianeta Mustafar, percorso da fiumi di magma incandescente, è teatro dello scontro tra Obi Wan Kenobi e Anakin Skywalker. L’ambientazione apocalittica è frutto dell’assemblaggio di elementi generati al computer, matte painting digitali, riprese della eruzione dell’Etna del 2002 ed una miniatura lunga più di nove metri che riproduce la superfice del pianeta, opera del reparto modellistica di Brian Gernand. Nei canali scolpiti della miniatura viene fatta scorrere la lava artificiale, preparata in laboratorio grazie al methylcel, un forte addensante usato comunemente nei frappè, poi intensificata con un programma di simulazione dei fluidi. Con i suoi duemilacentocinquantuno effetti, novanta minuti di animazione e quasi ottocento personaggi in computer grafica La vendetta dei Sith rappresenta il lavoro più ambizioso prodotto dalla ILM, e stabilisce nuovi primati riguardo alle potenzialità della computer grafica. La varietà e la magnificenza della messa in scena non sono però sinonimi di eccezionalità: nella competizione per gli Oscar i giurati preferiscono alla galassia lontana (La minaccia fantasma) la realtà alternativa di Matrix e, tre anni dopo, l’espressività di Yoda (L’attacco dei cloni) deve cedere il passo alla schizofrenia di Gollum (La compagnia dell’anello: le due torri). La vendetta dei Sith non arriva neanche alla nomination, fermandosi alla lista preliminare. E’ sintomatico dei tempi: la rivoluzione digitale,
che la ILM ha contribuito in modo determinante a innescare, ha spalancato il mercato a nuovi competitori, la maggior parte dei quali specializzati in immagini al computer (CGI). Esaminando i nomi più importanti non è raro trovare un legame con la ILM: Ken Ralston, supervisore di Chi ha incastrato Roger Rabbitt? e Forrest Gump, diviene direttore creativo alla Sony Pictures Imageworks, mentre la Digital Domain (Apollo 13, Titanic) annovera tra i fondatori Scott Ross, ex general manager della compagnia di Lucas, e la neozelandese Weta (il ciclo de La compagnia dell’anello, King Kong) muove i primi passi grazie a programmatori provenienti dalla ILM. Questa nuova, fitta concorrenza stravolge il settore, provocando la chiusura di società rinomate (Apogee, Boss Film, Illusion Arts) e di organizzazioni dall’ illustre passato (Howard A. Anderson Co., Pacific Title & Art), sostituite da una miriade di compagnie di varie dimensioni e competenze. L’affermazione delle immagini al computer porta con sé un aumento della domanda di effetti visivi, trainando anche imprese esperte in generi di trucchi più tradizionali (miniature, effetti meccanici e pirotecnici, animatronica). La ILM deve adattarsi al nuovo corso e, pur dovendo condividere la supremazia degli anni precedenti, riesce ancora a stupire. Più delle dimensioni e della abbondanza sfoggiate nella nuova trilogia, a far parlare sono le metamorfosi de La mummia (1999), dalla graduale ricomposizione alla evocazione di una tempesta di sabbia, e l’oceano tumultuoso di acqua sintetica in La tempesta perfetta (2000). Il ciclo dei Transformers (2007-2014) procura nuove schiere di ammiratori ma a riportare l’Oscar nelle teche della ILM è uno strambo pirata con le fattezze di Johnny Depp. Le connotazioni fiabesche e personaggi fantastici de I pirati dei Caraibi (2003-2011) consentono ai tecnici della ILM di sfoderare un repertorio di trucchi classici e di nuova concezione come l’Imocap, un sistema personalizzato di performance capture, ovvero di registrazione delle movenze e delle espressioni di uno o più interpreti che indossano tute munite di sensori. L’apparato ha un ingombro minimo e può essere utilizzato su qualunque set, nel momento stesso delle
riprese principali, e consente una notevole libertà d’azione agli attori. Basandosi sui dati registrati dai sensori, gli animatori e i tecnici della computer grafica giungono alla creazion2 di personaggi straordinari come il capo pirata Davy Jones (con volto da polipo e arti da crostaceo) e la sua ciurma. L’Oscar viene assegnato per il secondo film del ciclo (La maledizione del forziere fantasma, 2006) e fra i premiati figura propriamente John Knoll, il supervisore con la maggiore esperienza negli effetti creati al computer. Oltre all’Oscar gli anni Duemila vedono altre novità in arrivo per la ILM: il trasferimento da San Rafael alla nuova sede, più ampia e moderna, presso il Letterman Digital Arts Center, nel Presidio di San Francisco; l’apertura di una sede distaccata a Singapore e l’esordio nel lungometraggio di animazione Rango (2011), che vede riunita la coppia registainterprete de I pirati dei Caraibi, Gore Verbinski e Johnny Depp. Agli animatori della ILM compete l’ambientazione western e la gestione dei settantacinque personaggi della pellicola, che ottiene l’Oscar come miglior film d’animazione. La presenza in questo nuovo settore sembra anticipare quanto avviene un anno dopo: in una delle maggiori operazioni finanziarie della storia cinematografica il colosso Disney acquista la Lucasfilm per una cifra intorno ai quattro miliardi di dollari. Dopo una trattativa durata un anno e mezzo, la Lucasfilm entra a far parte della Walt Disney Co. il 26 ottobre 2012 ed il pacchetto comprende la Industrial Light & Magic, lo studio di sonorizzazione Skywalker Sound e la compagnia di videogame LucasArts.
Il risveglio della Forza In un periodo in cui l’universo fantascientifico cinematografico è sovrappopolato di seguiti, rifacimenti, trasposizioni dalla carta stampata, fin quasi alla saturazione delle aspettative del pubblico, il successo planetario del
seguito della prima trilogia di Guerre stellari può attestare allo stesso tempo l’efficacia della campagna pubblicitaria della Disney e la capacità di incantare da parte dei miti creati da George Lucas. La validità di questi miti e l’efficacia della messa in scena sono riproposti con scrupolo e filologico rispetto da J. J. Abrams. Dopo aver rilanciato la saga di Star Trek, il regista e produttore di New York si accosta al nuovo episodio di Guerre stellari con la dedizione dell’allievo appassionato, evidenziando gli elementi – narrativi e stilistici - che gli spettatori maggiormente associano alla saga. ‘Volevamo recuperare l’essenza della trilogia originale, e questo significa un sacco di creature ed effetti realizzati dal vivo ed un migliore uso di set ed esterni.’ La situazione temporale - eventi successivi alla prima trilogia anziché antecedenti - consente di affiancare ai nuovi personaggi volti familiari, che si tratti di esseri umani (Luke Skywalker, Han Solo, Leia Organa), unità meccaniche (i beniamini R2-D2 e C-3PO) o creature aliene (Chewbacca). Abrams si muove all’interno delle linee principali del mito, attraverso linee narrative familiari allo spettatore (la predestinazione, la lotta ad un potere totalitario, la seduzione delle forze oscure) ma cerca di mantenere la componente fantastico-avventurosa convocando Lawrence Kasdan, sceneggiatore de L’impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi, nonché de I predatori dell’arca perduta. E riprende il tema della ricerca di Luke dalle prime tracce di copione stese da Lucas. Le riprese in esterni assumono un ruolo preminente nella produzione, poste ad evocare quel senso di avventura e di spazio tipici della prima trilogia. L’ “Empty Quarter” degli Emirati Arabi, area inospitale appena fuori di Abu Dhabi, fornisce i paesaggi desertici del pianeta Jakku. Le distese ghiacciate dell’Islanda fanno da ambientazione per il satellite Starkiller, dove il raduno delle truppe del Primo Ordine richiama le sfilate del Terzo Reich, mentre le zone boscose attorno al castello di Maz Tanaka prendono spunto dal parco nazionale del Lake District nel Regno Unito.
Dal punto di vista degli effetti è imprescindibile il ricorso alla ILM, il cui esordio nel primo film diede un nuovo impulso ad un settore che stagnava nella ripetitività. Il lavoro viene ripartito tra quattro sedi: San Francisco, con supervisore Patrick Tubach; Londra, supervisore Mike Mulholland; Singapore, supervisore David Dally, e Vancouver, supervisore Tim Belsher. Assieme ai partner Hybride, BASE FX, Virtuous e Propshop, la ILM produce millequattrocento dei duemilacento effetti visivi, mentre quasi ottocento vengono gestiti dalla Kelvin Optical di Los Angeles, appartenente alla Bad Robot dello stesso Abrams. Coordina il tutto Roger Guyett, alla quarta collaborazione con Abrams, dopo Mission: Impossible III, Star Trek (2009) e Star Trek Into Darkness (2011). Attivo alla PDI (Pacific Data Images) dal 1993 ed alla ILM dal 1995, ha ottenuto un premio Bafta per Salvate il soldato Ryan (1998) ed ha contribuito a due episodi de I pirati dei Caraibi ed a La vendetta dei Sith. Gli effetti sul set (meccanici, pirotecnici, atmosferici), come avvenuto per la trilogia originale, sono approntati da una troupe inglese, in questo caso quella di Chris Corbould (The Dark Knight, Inception). Lo stile vissuto e consumato che permeava ambienti, astronavi e paesaggi delle prime pellicole (“Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…”) viene riproposto da Abrams con dovizia di particolari, in contrapposizione con gli ambienti lucenti ed asettici dei prequel. Uno stile che ha affascinato non solo gli spettatori ma anche gli addetti ai lavori: David Fogler, responsabile del team dei modellisti, dichiara “Avevo dieci anni quando vidi il primo Guerre stellari [Una nuova speranza] e venni impressionato. Quello che mi colpì era l’aspetto estetico. Il mondo sporco, logoro, arruginito, reale. Potevo relazionarmi con esso. E’ rimasto con me fino ad oggi.’ (Barbara Robertson, ‘www.cgw.com/Publications/CGW/2016/Volume-39-Issue-1Jan-Feb-2016-/Sci-Fi-Magic.aspx’) L’approccio produce l’impressione che la maggior parte degli effetti derivi da tecniche tradizionali, in realtà modellini,
miniature ed effetti sul set diventano la base su cui plasmare quell’intervento digitale che porta al prodotto finito. Su duemilacinquecento sequenze circa duemilacento sono generate al computer, che si tratti di immagini in computer grafica, animazione, composizione o rimozione di elementi ridondanti. Il risultato è un sofisticato lavoro virtuale che dispiega le caratteristiche di una creazione reale e tangibile. Gli archivi della ILM a Marin forniscono le schede di fabbricazione e gli originali disegni progettuali di Ralph McQuarrie, basi primarie da cui prendono spunto i disegnatori per definire l’aspetto delle truppe del Primo Ordine, della flotta stellare e del Satellite Starkiller. Allo stesso modo il Bast Castle, concepito come dimora di Darth Vader e mai visualizzato nella prima trilogia, serve da riferimento per il castello di Maz Kanata. Il Millenium Falcon digitale è replicato sul modello lungo un metro e mezzo forgiato per L’impero colpisce ancora e le sue evoluzioni mentre è inseguito dai caccia imperiali tra le dune di Jakku sono ispirate alla fuga nello sciame di meteoriti dallo stesso film ed alla entrata nel reattore nucleare da Il ritorno dello Jedi. E’ lo stesso Roger Guyett, da regista della seconda unità, a filmare gli sfondi per la sequenza nel deserto di Abu Dhabi. Le riprese sono poi adattate dagli artisti della animazione, che vi collocano il Millenium digitale inseguito dai caccia imperiali. Gli attori sono filmati all’interno di repliche parziali degli abitacoli del cargo costruiti dalla equipe degli effetti meccanici negli studi Pinewood di Londra. Le movenze dei caccia, impostate in origine tramite il movimento controllato, sono riprodotte fedelmente sia in termini di traiettorie che di velocità apparente. Ad affiancare il reparto di animazione per queste realizzazioni interviene un consulente di lusso nella persona di Dennis Muren, decano della ILM il cui primo incarico fu proprio di cameraman per le riprese a movimento controllato. Le molteplici creature del film escono dalla officina di Neal Scanlan, autorità nel campo degli effetti animatronici. Premio Oscar per Babe, maialino coraggioso e lungamente
attivo presso il Jim Henson Creature Shop, dal 1996 guida il proprio studio di animazione a Borehamwood. Ogni creatura prende origine da una maquette, un modello di riferimento tridimensionale su cui viene sviluppata la forma definitiva. Molte vengono costruite ed animate sul set, compreso il nuovo droide BB-8, concepito su bozzetto dello stesso Abrams. BB-8 è animato da Brian Herring, che ne controlla il procedere tramite una barra articolata poi cancellata in post produzione, e da Dave Chapman, addetto ai movimenti della testa tramite controllo remoto. Un terzo delle sequenze in cui compare il droide utilizza una replica digitale, soprattutto quando BB-8 sfoggia le appendici estensibili. Le creature antropomorfe – in massimo numero nel locale del castello di Maz – sono ottenute con il trucco a figura intera, e la pelliccia di Chewbacca è riprodotta con la stessa tecnica ideata dal capo truccatore Stuart Freeborn per il film del 1977, a sua volta una rielaborazione delle pelli dei primati di 2001: odissea nella spazio, sempre a cura di Freeborn. Alla animazione digitale sono invece affidati i personaggi di Maz Tanaka e del leader supremo Snoke. Le espressioni facciali di Lupita Nyong’o (Maz) sono registrate dal programma Mocap ideato dalla stessa ILM, mentre i movimenti del corpo sono colti dall’IBC (Image Based Capture). Snoke è interpretato dallo specialista Andy Serkis (Gollum ne Il signore degli anelli, King Kong), le cui movenze sono filmate all’ Imaginarium Studios di Londra, di proprietà dello stesso attore. Le maquette con le sembianze di Maz e Snoke vengono plasmate sempre dalla equipe di Scanlan e passate alla ILM di Londra, che gestisce l’aspetto finale e le animazioni grazie ai dati raccolti con i programmi di registrazione del movimento. Il supervisore Mike Mulholland coordina l’operato della divisione di Londra assieme al direttore dell’animazione Mike Eames (Dragonheart) ed al direttore tecnico Ben Morris. Premio Oscar per La bussola d’oro, Morris è un altro artista la cui carriera negli effetti visivi è stata ispirata dall’opera di George Lucas. ‘Guerre stellari fu la ragione per cui sono entrato in questo settore […] quando si è presentata l’opportunità di lavorare a questo episodio nel
Regno Unito, sapevo che era l’occasione che capita una volta nella vita (Michael Rosser, ILM London: A force to be reckoned with, 25 giugno 2015, screendaily.com). Dopo l’esordio da modellista al Jim Henson Creature Shop, Morris si converte alle immagini digitali, specializzandosi alla Mill Film, poi alla Framestore, in cui lavora quattordici anni prima di accettare l’incarico alla divisione londinese della ILM. Il trattamento digitale riguarda anche le estensioni dei set reali: nel caso del pianeta Jakku il reparto ambientale aggiunge giganteschi relitti di astronavi agli scenari di Abu Dhabi, mentre le superfici ghiacciate dell’Islanda si popolano di truppe corazzate, mezzi di combattimento ed installazioni militari per diventare la base Starkiller. Nella sequenza finale il rifugio dell’ultimo Jedi è in realtà l’isola Skellig Michael in Irlanda. Le divisioni di Vancouver e Singapore gestiscono questo tipo di effetti, così come l’amplificazione delle esplosioni, delle scie di fuoco e dei proiettili traccianti, avendo come riferimento gli effetti pirotecnici allestiti sui set dalla squadra di Chris Corbould. La comparsa di scie traccianti e fasci luminosi (come nel caso delle spade laser) è risolta con i procedimenti di animazione, anziché dalla sovraimpressione con il rotoscope, tecnica tipica della prima trilogia. Abrams riporta in primo piano elementi assurti al rango di icone, come le spade laser, facendone uno dei motori dell’azione e ne assegna una particolare al nuovo villain della saga (Kylo Ren), forgiata come un’arma medioevale e costruita dalla società Propshop. Un altro omaggio all’opera di Lucas è la scacchiera con i pezzi olografici, che Abrams ripropone nelle medesime posizioni e con le stesse figure del primo film. A questo intento collaborano Phil Tippett, il maestro dell’animazione a passo uno che gestì la sequenza a suo tempo, ed il regista Peter Jackson, possessore di alcuni dei pezzi autentici, che li scannerizza e ne manda i dati alla ILM per ottenere repliche più fedeli possibile. Un altro veterano coinvolto, ma a pieno titolo, nella produzione è Paul Huston. Partito da modellista ed ora attivo come artista di ambienti
digitali, è l’unico tecnico della ILM che ha avuto parte attiva in tutti e sette gli episodi principali del ciclo di Guerre stellari.
Rogue One Che i film del ciclo Guerre stellari (e i relativi spin-off) non possono esistere senza gli effetti visivi è affermazione ovvia, ma ancora più veritiera nel caso di Rogue One. L’idea esce dalla mente di John Knoll, uno dei principali artisti in forza alla ILM e responsabile degli effetti visivi della seconda trilogia. La lavorazione del primo Guerre stellari vide all’opera, nella nonata ILM, un gruppo di appassionati che si sobbarcarono lunghe ore e turni stressanti per prendere parte ai quei trucchi visivi su cui tanto avevano letto e ricercato. Allo stesso modo la passione spinge John Knoll ad immaginare chi fossero e come agirono quelle ‘spie ribelli [che] sono riuscite a rubare i piani segreti dell’arma decisiva dell’Impero, la Morte Nera’. Knoll inizia a pensare al soggetto nel 2003, quando sia lui che Lucas sono impegnati con La vendetta dei Sith. Quando il trattamento è finito Knoll, su consiglio del collega Kim Libreri (Matrix) lo sottopone alla presidente della Lucasfilm Kathleen Kennedy, la quale da’ il via libera al progetto. La stesura finale viene redatta da Knoll assieme a Gary Whitta, e la sceneggiatura vede le firme di Chris Weitz e Tony Gilroy. Nel frattempo Knoll è entrato nel progetto non solo come ideatore della trama e responsabile degli effetti visivi ma anche come produttore esecutivo. Le riprese del film hanno luogo in Islanda (meta ormai molto frequentata dalle troupe cinematografiche), alle Maldive e nella Valle di Wadi Rum, già apparsa in Lawrence d’Arabia e utilizzata per le ambientazioni de The Martian. La post produzione si rivela laboriosa, con un terzo del film girato nuovamente sotto la supervisione di Gilroy e tre tecnici del montaggio coinvolti (uno dei quali è John Gilroy, fratello minore di Tony) cui si
affianca il veterano Stuart Baird (Superman, Skyfall), specialista di film d’azione. Lo stile visivo del film riflette un deciso avvicinamento all’estetica del primo episodio, ancora più marcato rispetto a Il risveglio della Forza e che si coniuga efficacemente con lo stile documentaristico del regista Gareth Edwards. Gli scenografi Doug Chiang (responsabile della parte visiva da L’attacco dei cloni) e Neil Lamont (il ciclo di Harry Potter) ambientano la vicenda tra distese desertiche e città in rovina, memori del lavoro dell’illustratore primario Ralph McQuarrie. Le idee di McQuarrie contribuirono a definire compiutamente l’universo immaginato da Lucas, non solo in termini di ambienti e costumi, ma anche astronavi, pianeti e satelliti. Il film omaggia Una nuova speranza fin dalla sequenza iniziale e le citazioni successive comprendono abitanti di Jedha che paiono usciti dalla taverna di Mos Esley e il soldato sulla torre d’avvistamento a guardia della base ribelle di Yavin (nel film originale era il modellista Lorne Peterson, ripreso nella giungla del Guatemala). Dal punto di vista visivo l’impresa è ricreare con fedeltà la rappresentazione che irruppe sugli schermi nel 1977, senza deludere gli appassionati nel confronto. La ricostruzione è resa più impegnativa in quanto gli eventi si pongono temporalmente nella stessa epoca del primo film. La gran parte della illusione anziché a modelli, miniature, matte painting e movimento controllato è affidata alle immagini al computer ed alla composizione digitale (anche se le discipline tradizionali non vengono accantonate del tutto). Pianeti, astronavi, creature, mezzi di trasporto e di combattimento sono formati da pixel ed escono dalle workstation, nei teatri di posa gli interpreti agiscono in uno spazio vuoto che verrà poi riempito con la grafica digitale (la foto di George Lucas circondato dai modellini della prima trilogia sembra sempre più appartenere al passato). La ILM schiera le forze al completo, con la maggior parte del lavoro affidata alla sede principale di San Francisco sotto la supervisione di Knoll e Nigel Sumner, cui si affiancano Londra (coordinata da Mohen Leo), Singapore (Dave Dally) e
Vancouver, più altre undici compagnie ad integrare le sequenze, tra cui Hybride, Ghost VFX, Scanline, Atomic Fiction, Whiskey Tree e Virtuous. L’apporto di queste compagnie è organizzato da Craig Hammack. La ILM di San Francisco produce le battaglie spaziali, i pianeti Lah’mu (rifugio di Galen Erso), Mustafar, ove è ubicato il castello di Darth Vader, sviluppato dagli schizzi di McQuarrie per L’impero colpisce ancora, l’avamposto commerciale sito sull’Anello di Kafrene, e Scarif, complesso di sicurezza e sede degli archivi strutturali imperiali. La ILM di Londra trasforma, assieme alla Scanline, le pianure della Giordania nella luna desertica di Jedha, con i resti della città santa dei cavalieri Jedi. Il pianeta roccioso Eadu, dimora del laboratorio in cui Galen Erso lavora alla Morte Nera, è una creazione della ILM Singapore. Alla Whiskytree di San Rafael (California) si deve la colonia imperiale di Wobani, a cui Jyn Erso viene sottrata dai ribelli, la Atomic Fiction di Oakland assiste la ILM nella creazione di Mustafar, mentre la Ghost VFX di Copenhagen ha l’arduo compito di far rivivere sullo schermo la luna di Yavin: dal quartier generale dell’alleanza ribelle sul corpo celeste si levarono i caccia stellari che distrussero la Morte Nera nel primo episodio. Le sedi ILM di San Francisco e Vancouver uniscono le forze per tramutare le Maldive nel pianeta Scarif, obiettivo della missione ribelle alla ricerca dei piani della Morte Nera e teatro dello scontro finale. La battaglia di Scarif vede l’apparizione dei caccia imperiali e ribelli assieme agli enormi camminatori d’assalto (i quadrupedi AT-AT de L’impero colpisce ancora e i bipedi ATST de Il ritorno dello Jedi), ed è una combinazione degli sforzi dei reparti di modellistica ed animazione. Per rimanere coerenti alle linee estetiche del primo film, vengono acquistati su ebay kit di assemblaggio identici a quelli usati a suo tempo per mettere insieme le navi spaziali, i pezzi vengono scannerizzati da Paul Huston (uno dei veterani di tutti il ciclo di Guerre stellari) e John Goodson per creare un archivio digitale di oltre trecento elementi. Il gruppo del capo animatore Hal Hickel modella copie dei vari veicoli spaziali (caccia, incrociatori, navi ammiraglie) da questi
elementi e ne cura movimenti, interazioni e collisioni, avendo cura di replicare con fedeltà le traiettorie e le evoluzioni tipiche della pellicola del 1977. La produzione impiega una trentina di artisti distribuiti nei quattro siti, con San Francisco che esegue l’animazione dei camminatori a quattro zampe e Londra dei bipedi, con cicli di camminamento al posto della animazione a passo uno. Oltre ai team che materializzano e muovono i mezzi da combattimento terrestri e aerei, la ILM forma squadre apposite per gestire le esplosioni e le scene di distruzione. Ma la parte più impegnativa per il settore animazione è la creazione del nuovo droide K-2SO e la riapparizione del Governatore Tarkin. K-2SO è un droide protocollare come C-3PO, ma di dimensioni maggiori e più incline alle considerazioni critiche. Pur realizzato al computer, il personaggio deve il suo aspetto a Neal Scanlan e voce e movenze all’attore Alan Tudyk (l’automa Sonny di Io, robot). Tudyk indossa sul set una tuta grigia ricoperta di sensori, versione aggiornata del dispositivo di Motion Capture ideato per La maledizione del forziere fantasma, la cui efficacia ha fatto ottenere un Oscar al capo animatore Hal Hickel. Seguendo l’ideazione di Scanlan, Landis Fields crea il modello digitale dell’androide, mentre Hickel modifica l’impostazione originale conferendo maggiore espressività agli occhi. Il ritorno di Tarkin si basa su una riproduzione digitale dell’interprete Peter Cushing, scomparso nell’agosto del 1994. I dati vengono ricavati dall’analisi dei quattro minuti di metraggio originale e di un calco del volto dell’attore realizzato per Top Secret (1984). La copia digitale di Cushing viene animata tramite l’elaborazione della performance dell’attore Guy Henry (Harry Potter e i doni della Morte), filtrata dal nuovo sistema di animazione facciale ideato da Kiran Bhat, Michael Koperwas, Brian Cantwell e Paige Warner e premiato con un Oscar nella categoria delle invenzioni tecniche. Il sistema provvede ad adattare le espressioni di Henry ai tratti caratteristici di Cushing (movimenti delle labbra e degli occhi) per arrivare ad una performance quanto più fedele al Tarkin del primo film. L’illusione è completata quando al nuovo Tarkin vengono
applicate le modalità di illuminazione usate nel 1977 (il taglio fotografico impiegato da Greig Fraser non ottiene la stessa parvenza di realtà); la critica si divide sulla efficacia e necessità di riportare sullo schermo un interprete scomparso: l’Hollywood Reporter sottolinea la ‘evidente naturalezza e completa credibilità’ della creazione mentre altre testate evidenziano, per chi è informato dei fatti, come la ricomparsa di Cushing catalizzi l’attenzione sviando dall’andamento della storia. Lo stesso procedimento, ma in forma più concisa, è praticato per l’apparizione della principessa Leia, in questo caso le fattezze di Carrie Fisher ventenne vengono applicate sull’attrice norvegese Ingvild Deila attraverso il processo di motion capture. Motore principale dell’azione, la Morte Nera viene anch’essa ricreata al computer, anzi ne vengono sviluppate tre versioni: un globo da usare nei campi lunghi, con un livello minimo di dettaglio su tutte le aree, una sezione a media risoluzione con le zone superficiali rifinite ed una sezione estremamente dettagliata della parte vicina al bordo equatoriale, comprendente la zona concava da cui parte il raggio distruttore. E’ quest’ultima versione a rappresentare uno dei lavori più complessi e impegnativi del reparto modellistica. Lo specialista di animatronica Neal Scanlan torna come progettista delle creature, anche se queste ultime sono presenti in numero minore rispetto ai film precedenti. In aggiunta alla ideazione di K-2SO, il reparto di Scanlan si distingue con il Bor Gullet, la creatura tentacolare simile ad un polpo, in grado di percepire la verità. Concepita come effetto animatronico, il personaggio richiede aggiunte digitali soprattutto per i tentacoli avviluppanti, tanto che, come sottolinea Hickel ‘ha finito con l’essere un formidabile mix dell’apporto pratico di Neal Scanlan e del lavoro in CG della ILM’ (Vincent Frei, Rogue One - A Star Wars Story: Hal Hickel, 9 gennaio 2017, www.artofvfx.com)
Le immagini al computer tuttavia non possono sopperire all’intera gamma dei trucchi visivi, specie con un regista come Gareth Edwards, il cui passato nei documentari porta a prediligere uno stile realistico e che richiede effetti pratici e pirotecnici direttamente durante le riprese. Girando, come da tradizione, negli studi inglesi di Elstree, è una troupe britannica a gestire le procedure sul set, in questo caso quella di Neil Corbould, che prende il posto del fratello Chris (Il risveglio della Forza). Mentre Chris Corbould ha firmato le pellicole più recenti di James Bond ed è un collaboratore di fiducia di Christopher Nolan, Neil ha al suo attivo due Oscar (Il gladiatore e Gravity) ed è frequentemente richiesto da Ridley Scott. La troupe di Corbould predispone le esplosioni e i combattimenti nelle riprese con gli attori, poi potenziate ed estese tramite gli interventi digitali (intensificazioni di scoppi, detriti, proiettili, fumo, scie traccianti). La parte più impegnativa si rivela l’esplosione all’interno del complesso imperiale di Scarif. La deflagrazione deve distruggere l’edificio principale cioè l’imponente torre che contiene l’archivio dati e Corbould è chiamato a predisporre uno scoppio di alto impatto visivo all’interno di un teatro di posa eretto da poco: ‘Si trattava di un teatro nuovo di zecca, appena costruito, così sarebbero stati abbastanza irritati se l’avessimo danneggiato’ (Scott Lehane, The Visual Effects of ‘Star Wars: Rogue One’, 3 febbraio 2017, www.awn.com). Il film è dedicato alla memoria di Christopher ‘Chris’ Bayz, artista degli effetti visivi alla ILM scomparso a cinquanta anni nel 2016.
SUONO: LO SKYWALKER SOUND
Federico Magni
Il mandato di George era che voleva qualcosa che non era mai stato sentito prima (Mike Minkler) Anche nel campo del suono il contributo di George Lucas nel definire nuovi parametri di eccellenza è da considerarsi notevole, sia nella creazione dei suoni che nel missaggio e nella riproduzione. Guerre stellari (1977) ha imposto il Dolby Stereo come principale formato del circuito cinematografico, attestando la superiorità del suono stereofonico sul datato sistema mono. Successivamente Lucas ha introdotto il sistema di certificazione THX per assicurare la massima fedeltà nella resa acustica. Lo studio Skywalker Sound, sorto inizialmente per fornire effetti sonori di nuova concezione, si è ampliato fino a diventare una delle più innovative e richieste strutture di post produzione, fino ad abbracciare l’intero processo sonoro. Per Lucas è stato fondamentale poter sviluppare la propria visione produttiva e artistica in un contesto più creativo e meno rigido del classico sistema hollywoodiano: la Bay Area. Nel 1969 George Lucas e Walter Murch, ex compagni di corso alla scuola di cinema della University of Southern California, raggiungono Francis Ford Coppola nella Bay Area, a Nord di San Francisco, dove il regista ha fondato la American Zoetrope. L’industria cinematografica americana attraversa un periodo di forti cambiamenti: la concorrenza della televisione, i mutati gusti del pubblico che affolla le sale per film come Easy Rider, stanno minando il sistema degli Studios. Nel contempo un gruppo di cineasti sperimenta tematiche e stili più consoni ai cambiamenti del tempo: Arthur Penn, Mike Nichols, Dennis Hopper, Robert Altman, Bob Rafelson, Hal Ashby, Peter Bogdanovich, Brian De Palma, Martin Scorsese e lo stesso Coppola. I cambiamenti riguardano anche l’ambito tecnico-produttivo: molte delle
grandi compagnie chiudono o riducono i loro reparti sonori mentre le società indipendenti conquistano sempre più terreno, prima in campo televisivo (Ryder Sound, Glen Glenn Sound) quindi al servizio dei nuovi talenti in produzioni a costi contenuti. Easy Rider, Cinque pezzi facili (Five Easy Pieces), L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show), Il re dei giardini di Marvin (The King of the Marvin Gardens) hanno in comune il missaggio presso la Producer Sound Services di Don Minkler. Lucas segue l’esempio di Coppola, mantenendosi lontano da Hollywood anche dopo il successo di American Graffiti e stabilendosi nella contea di Marin. Grazie a cineasti come Coppola e produttori come Saul Zaentz la Bay Area diviene un terreno fertile per realizzazioni cinematografiche. La vicinanza a San Francisco, mecca dell’industria discografica dopo il boom del rock & roll nonchè sede di una fiorente e rinomata industria di documentari, mette a disposizione strutture e talenti per la registrazione ed il missaggio del suono. Coppola, Zaentz, Milos Forman, Carroll Ballard e Philip Kaufman attingono a questo bacino per le colonne sonore dei propri film. Walter Murch, con il suo approccio originale su suono e montaggio, diventa la figura di riferimento e introduce al medium cinematografico vari tecnici dell’area, tra i quali Mark Berger, Alan Splet (collaboratore fisso di David Lynch), Richard Beggs e Randy Thom, cui vanno ad aggiungersi Tom Scott, Jay e Todd Boekelheide, Leslie Shatz e David Parker. Nasce così una industria di post produzione alternativa, per metodi e concezioni, agli studi hollywoodiani e dalla quale escono le colonne sonore de La conversazione (The Conversation), Il padrino - parte II (The Godfather - Part II), Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest). Murch collabora alla sceneggiatura di THX 1138 e cura il missaggio di American Graffiti durante il quale, secondo la leggenda, fornisce a Lucas l’ispirazione per il nome di R2 D2: nel chiedergli la seconda bobina di dialogo della scena numero due, abbrevia la richiesta in ‘R(eel)2 D(ialog)2’, secondo una
modalità appresa da un altro grande tecnico del suono, Richard Portman. Murch non può accettare l’offerta di lavorare a Guerre stellari in quanto impegnato con Coppola e raccomanda Ben Burtt Jr.. Uscito anch’egli dalla scuola di cinema della USC, Burtt unisce ad una breve esperienza in documentari e film a basso budget una conoscenza enciclopedica degli effetti sonori nei film del passato e del loro reiterato impiego in più produzioni. Alla metà degli anni Settanta gli effetti sonori tipici di un film di fantascienza derivano, per lo più, da parti preesistenti estrapolate dagli archivi di grandi società di produzione o di compagnie specializzate e trattate da uno specialista fino ad ottenere il risultato voluto. Lucas affida a Burtt la ricerca di suoni particolari secondo la concezione in uso nella Bay Area: “Non usare l’archivio. Esci e prendi.” (Rich Gentry, Alan Splet and the Sound Effects for DUNE, American Cinematographer, Dic. 1984) Per quasi due anni Burtt raccoglie, organizza e rielabora, secondo la propria creatività, effetti acustici di qualsiasi natura nello scantinato della casa di Lucas a San Anselmo, nella contea di Marin. Da questo laboratorio, battezzato di Sprocket System, escono il suono del Millenium Falcon, il ronzio delle spade laser (manipolazione del rumore di un proiettore a 35 mm filtrato attraverso un tubo catodico), il respiro inquietante di Darth Vader (è il respiro profondo dell’interprete James Earl Jones registrato collegando il microfono ad un autorespiratore da immersione). In aggiunta Burtt elabora i linguaggi delle creature aliene e le espressioni meccaniche di R2D2. Nei titoli di Guerre stellari Burtt viene accreditato, oltre che per gli effetti sonori, anche per i ‘dialoghi speciali’ e, in qualità di creatore delle ‘voci aliene, delle creature e dei robot’, si vede assegnare un Oscar speciale durante la premiazione del 1978.
Dolby Stereo
La creazione degli effetti speciali sonori rientra nella fase chiamata trattamento del suono o, traducendo alla lettera il termine americano, montaggio del suono (sound editing) che comprende anche la pulizia e la rifinitura dei dialoghi e la produzione dei suoni complementari (rumori di scena, brusio di una folla) non ottenuti durante le riprese. Quando i dialoghi, le musiche e gli effetti sonori sono completati ed incisi su piste audio separate, queste ultime vengono passate ai tecnici di missaggio per la fase finale (re-recording) in cui i tre elementi sono combinati insieme per dare luogo ad una unica colonna sonora. A seconda delle direttive del regista e della sensibiltà dei tecnici, un elemento sarà preponderante rispetto agli altri all’interno di ogni sequenza. Guerre stellari, con le marce trascinanti di John Williams ed una massiccia quantità di effetti sonori di nuova concezione, richiede una post produzione complessa e impegnativa, in studi di missaggio attrezzati con strumentazioni all’avanguardia. Cercando la migliore qualità possibile, Lucas sonda i formati in grado di valorizzare la colonna sonora. Dopo aver scartato il Sensorround, opta per il Dolby Stereo Tipo A: ad un metodo per la riduzione dei rumori di fondo, il sistema associa due piste sonore incise otticamente sulla pellicola a 35mm, che alimentano quattro canali di diffusione, i due classici (destra e sinistra), uno centrale di bilanciamento ed uno supplementare per i suoni d’ambiente e gli effetti speciali; nel caso di incisione su supporto magnetico le piste audio diventano quattro (sempre per il 35mm) per poi passare a sei nel caso del formato a 70mm, nel quale ai quattro canali precedenti vengono aggiunti due canali per le frequenze più basse. Il formato a 70mm è quello che offre una maggiore gamma dinamica ed una resa ottimale. Stephen Katz dei laboratori Dolby viene ingaggiato come consulente per l’uso del nuovo formato. Le composizioni di John Williams vengono registrate da Eric Tomlinson (Il violinista sul tetto / Fiddler on the Roof,
Amadeus) ai rinomati Studi Anvil di Denham (Inghilterra), che già hanno sperimentato il Dolby con l’incisione della partitura di Maurice Jarre per La figlia di Ryan (Ryan’s Daughter). Il trattamento di Guerre stellari viene affidato a Sam Shaw, uno dei montatori del suono di American Graffiti (l’altro, il veterano Jim Nelson, ha in carico la gestione organizzativa della ILM). Messosi in proprio (La rabbia giovane / Badlands) dopo una lunga militanza alla 20th Century-Fox, Shaw coordina un gruppo che comprende Gordon Davidson, Robert Rutledge e Gene Corso. Il missaggio finale ha luogo negli studi Samuel Goldwyn di Hollywood, e vede all’opera, dopo una lunga fase preliminare, Don MacDougall (musiche), Ray West (dialoghi) e Bob Minkler (effetti sonori), gli ultimi due ingaggiati in extremis dalla Ryder Sound e dalla Producer Sound Services. Le piste del formato Dolby conferiscono al suono una dimensione più corposa e avvolgente (la frase sulle locandine del film, posta sopra al logo, recita: ‘per rendere migliore il suono dei film’), enfatizzando i brani di John Williams, inoltre il posizionamento di altoparlanti alle spalle del pubblico per diffondere la traccia degli effetti sonori (surround) amplifica la sensazione di trovarsi nel mezzo dell’azione. L’impatto sul pubblico, fin dalle prime inquadrature, è entusiasmante. Sottolinea Walter Murch: ‘Guerre stellari fu l’apripista che portò la gente a rendersi conto non solo dell’effetto del suono, ma l’effetto che il buon suono aveva al box office. Cinema che non avevano mai adoperato un sistema stereo furono costretti ad adottarlo se volevano Guerre stellari.’ (Peter Biskind, ‘Easy Riders, Raging Bulls: How the Sex-Drugs-and-Rock ‘N’ Roll Generation Saved Hollywood’, 1999, cit. in David Konow, ‘Star Wars and the Explosion of Dolby Stereo’, www.tested.com, 21 marzo 2014) Guerre stellari non è il primo film ad impiegare il Dolby Stereo - l’esordio avviene con Lisztomania (1975) - ma impone la versione Tipo A (con piste sonore ottiche), che diventa in breve lo standard del mercato cinematografico. Nel giro di pochi anni si passa dai tredici film distribuiti col Dolby Stereo nel 1977 agli oltre sessanta del 1980 e, sei anni più tardi, si tocca quota mille con
Heartbreak Ridge. I locali subiscono un cambiamento ancora più massiccio: a fronte dei trenta cinema equipaggiati per il Dolby Stereo nel 1977, si arriva ad oltre duemila cinquecento tre anni dopo.
Dallo Sprocket System allo Skywalker Sound Anche L’impero colpisce ancora viene missato negli studi Goldwyn, stavolta da Bill Varney, Steve Maslow e Gregg Landaker, lo stesso team che si occupa de I predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark). Il 1980 è l’anno dell’affermazione per i tecnici della Bay Area: Apocalypse Now di Francis Ford Coppola si aggiudica l’Oscar per il miglior suono (Walter Murch, Mark Berger, Richard Beggs e Nathan Boxer) e Lo stallone nero (The Black Stallion) di Carroll Ballard la statuetta per il trattamento del suono (Alan Splet). Anche lo Sprocket System ampia il raggio d’azione: Ben Burtt arriva ad occuparsi dell’intero trattamento del suono (creazione e montaggio). Come coordinatore in toto della concezione sonora della pellicola assume il titolo di sound designer (a partire da American Graffiti 2, 1979), seguendo l’esempio di Walter Murch, primo ad ottenere questa qualifica grazie al lavoro in Apocalypse Now. Si fa largo una nuova e più articolata concezione del processo sonoro: il regista si interfaccia con il sound designer fin dall’inizio della lavorazione, ottenendo in cambio un apporto più mirato e creativo, i tecnici partecipano a tutte le fasi di produzione ed i lavori non sono compartimentati rigidamente come nelle produzioni hollywoodiane. Un contributo importante all’ascesa di Burtt e dello Sprocket System deriva dal primo importante cliente esterno: Steven Spielberg. Suoni caratteristici come i colpi di pistola e lo schiocco della frusta di Indiana Jones e i pigolii di E.T. vengono ideati nel laboratorio di San Anselmo. Il ritorno dello Jedi (Return of the Jedi, 1983) è il primo film che vede lo
Sprocket System gestire completamente la parte sonora. Oltre alle mansioni di sound designer, Ben Burtt cura anche il missaggio degli effetti sonori mentre cominciano ad avere ruoli di responsabilità le nuove leve formatesi all’interno della compagnia: Gary Summers e Randy Thom, assistenti ne L’impero colpisce ancora, effettuano il missaggio dei dialoghi e della musica. Il lavoro finisce candidato all’Oscar, in un anno (1984) in cui la Bay Area piazza altri due film nella corsa per il miglior suono (oltre allo Jedi, Uomini veri / The Right Stuff e Mai gridare al lupo / Never Cry Wolf) e monopolizza la categoria del trattamento suono (Uomini veri e Il ritorno dello Jedi). Uomini veri vince entrambi i premi. Arriva a completamento il percorso iniziato da Coppola, ovvero una alternativa al sistema di post produzione hollywoodiano, con un rapporto più costruttivo tra tecnici e cineasti. Mark Berger riassume: “Se stavi facendo una grossa produzione d’azione e d’avventura, ti rivolgevi a George Lucas ed allo Skywalker Sound. Se volevi un film drammatico con ottima musica e dialoghi impeccabili, si andava al Saul Zaentz Film Center. E se lavoravi in una produzione più piccola, andavi da Francis Ford Coppola nel suo studio nel Little Fox Theatre.” (Steve Hockensmith, The Oscars? Berkeley adjunct’s been there, won that, Berkeley News, 19 Febbraio 2013) Spostatosi dapprima da San Anselmo a San Rafael, lo Sprocket System consegue titolo e sede definitiva nel 1987, quando si insedia nello Skywalker Ranch (la tenuta di Lucas vicino a Nicasio, California) e assume il nome di Skywalker Sound. ‘L’idea originale dietro lo Skywalker Ranch era che George avrebbe avuto cinque film contemporaneamente in una qualche fase di produzione. Quando divenne chiaro che questo non sarebbe accaduto lo Sprocket Systems venne aperto ai clienti esterni e venne eventualmente rinominato Skywalker Sound.’ (Ben Burtt, in Michael Kunkes, Sound Trek The Audio Explorations of Ben Burtt, Editors Guild Magazine, Maggio-Giugno 2009 : Volume 30, Number 3) Lo Skywalker Sound viene attrezzato per l’intera gamma sonora cinematografica: registrazione, trattamento e missaggio finale, nonché progettazione del suono e restauro, ad una media di trenta film all’anno. Inoltre
vi si effettuano incisioni per il mercato discografico da parte di artisti e gruppi di musica contemporanea e classica (Isaac Stern) e si creano colonne sonore per videogame e spot commerciali. La nuova struttura viene tenuta a battesimo, significativamente, da Francis Ford Coppola con Tucker: un uomo e il suo sogno (Tucker: A Man and his Dream, 1988), cui vanno ad aggiungersi Ron Howard (Willow) e Steven Spielberg (Indiana Jones e l’ultima crociata / Indiana Jones and the Last Crusade). Nel decennio successivo arrivano James Cameron e Robert Zemeckis, a comporre un parco clienti che annovera i protagonisti più significativi dell’immaginario filmico degli anni Novanta. L’operazione condotta da Lucas è simile a quella organizzata da un altro celebre indipendente, Michael Todd. Todd lanciò un nuovo formato di schermo panoramico - il Todd-AO - e creò il reparto suono della Todd-AO per il necessario supporto sonoro. La struttura, sorta inizialmente per le sole produzioni della Todd-AO, divenne sempre più richiesta e tuttora ha una posizione di prestigio tra gli studi di post produzione. Dalle console dello Skywalker Sound escono colonne sonore tipiche del periodo, per pellicole in cui la cornice audio consolida e sorregge con grande efficacia l’impatto delle immagini: le trasformazioni del Terminator e del T-1000 (Terminator 2 - il giorno del giudizio / Terminator 2 - Judgement Day), i versi dei dinosauri di Jurassic Park, le corse attraverso i decenni di Forrest Gump, l’agonia del Titanic, lo sbarco in Normandia in Salvate il soldato Ryan (Saving Private Ryan), fino alle gesta de I pirati dei Caraibi (Pirates of the Caribbean) ne all’universo dove vivono gli Avatar. Ai nuovi livelli di qualità delle componenti visive e di sofisticazione degli effetti speciali corrispondono parti sonore sempre più articolate e complesse, con una presenza crescente di effetti sonori. Le creazioni dello Skywalker Sound sono caratterizzate da un accorto bilanciamento di dialoghi, musica ed effetti sonori, senza che una delle componenti prevarichi apertamente. Pure in film con effetti visivi e sonori imperanti, il missaggio riesce a servire egregiamente anche le altre parti, basti pensare al missaggio musica per il tema di John Williams
in Jurassic Park (eseguito da Shawn Murphy) o la partitura di James Horner per il Titanic (Gary Summers). La clientela arriva a comprendere Barry Levinson (Avalon, Bugsy, Sesso e potere), Robert Redford (L’uomo che sussurrava ai cavalli / The Horse Whisperer, La leggenda di Bagger Vance / The Legend of Bagger Vance, Leoni per agnelli / Lions for Lambs), David Fincher (Fight Club, Il caso curioso di Benjamin Button / The Curious Case of Benjamin Button, The Social Network) e Kathryn Bigelow (Strange Days, K-19), fino ad accogliere produzioni indipendenti, come lo erano le prime opere di Lucas e Coppola, ed anche cortometraggi e documentari. Un campo specifico nel quale lo Skywalker Sound è attivo fin dagli inizi è l’animazione, in particolare le produzioni della Pixar. Il primo cortometraggio della Pixar (a cui si ispira il logo stesso della compagnia) Luxo, Jr. lancia la carriera di Gary Rydstrom, destinato a diventare uno dei più richiesti creatori di effetti sonori. Le possibilità offerte dall’animazione stimolano la creatività di molti altri artisti, tra cui Randy Thom, vincitore un Oscar con Gli incredibili (The Incredibles), e lo stesso Ben Burtt, cui si devono le espressioni sonore di WALL-E. Come la ILM, lo Skywalker Sound diventa, nel proprio settore, sinonimo di eccellenze e creatività, e stabilisce uno standard qualitativo con i quale le strutture concorrenti si confrontano. Negli anni Novanta questa supremazia è attestata da quattro vittorie agli Oscar, sia nel campo del missaggio che del trattamento suono: Terminator 2 - Il giorno del giudizio, Jurassic Park, Titanic, Salvate il soldato Ryan. Tra i talenti che hanno manovrato le console allo Skywalker Ranch ricordiamo, oltre ai già citati Rydstrom e Thom, Gary Summers, Tom Johnson, Christopher Boyes, Michael Semanick, Shawn Murphy, Ren Klyce, Lora Hirschberg, Tom Myers ed i progettisti sonori Richard Hymns (collaboratore di fiducia di Spielberg e Redford), Gloria S. Borders (che ha intrapreso una carriera dirigenziale alla Dreamworks ed alla Digital Domain), Michael Silvers, Christopher Scarabosio, Matthew Wood. Mentre l’apporto di questi tecnici si ritrova soprattutto nel settore cinematografico, Leslie Ann Jones è il
punto di riferimento per quanto attiene le incisioni ed i missaggi per il mercato discografico. Molti provengono dalla University of Southern California (USC), la stessa di Lucas, Burtt e Murch. Attualmente lo Skywalker Sound conta sei studi di missaggio ed una forza lavoro oscillante tra le ottanta e le centosessanta unità, per una media tra i venti e i trenta film all’anno, cui si aggiungono le colonne sonore per videogame, spettacoli per parchi di divertimento a tema e spot pubblicitari. La successiva evoluzione del Dolby (e dei suoi concorrenti) vede lo Skywalker Sound in prima fila. Batman returns introduce il Dolby Surround in forma digitale nel 1992, con una configurazione a cinque tracce sonore, nella quale è raddoppiato il canale dedicato al surround e viene aggiunto un canale supplementare per le basse frequenze, da cui la denominazione 5.1. L’anno successivo esce il sistema DTS, sempre in configurazione 5.1, messo a punto dalla Digital Theater System, Inc., con dati riversati su CD anziché impressi su pellicola ed una qualità paragonabile se non superiore al Digital Dolby Surround (anche se quest’ultimo si prenderà una maggiore fetta di mercato). Il DTS debutta sulle scene con Jurassic Park, che vale allo Skywalker Sound la seconda accoppiata suono-trattamento sonoro agli Oscar. La compagnia di Lucas si aggiudica anche il lancio del nuovo sistema digitale Dolby, equipaggiato con un canale aggiuntivo per il surround da affiancare alle uscite posteriori, che diventano così destro, sinistro e centrale. La minaccia fantasma è il primo film a sperimentare questo sistema, denominato Dolby Digital Surround EX. Il missaggio della nuova trilogia è gestita dai talenti cresciuti allo Skywalker (Gary Rydstrom, Tom Johnson, Michael Semanick, Tom Myers, Christopher Scarabosio) assieme a collaboratori d’eccezione (Shawn Murphy e Rick Kline per il missaggio musiche), a cui si aggiunge Andy Nelson, tecnico di fiducia di Steven Spielberg e J.J. Abrams ed ospite frequente allo studio. Gli effetti sonori e le espressioni aliene portano sempre la
firma di Ben Burtt, coadiuvato da Tom Bellfort e Matthew Wood.
THX La ricerca della qualità si estende dalla produzione fino alla fruizione (di massa che singola). Oltre all’esordio nel campo del missaggio, Il ritorno dello Jedi vede anche la prima applicazione di un sistema di procedure ideato per assicurare una ottimale resa acustica, battezzato THX. Quando viene avviata la costruzione dello Skywalker Ranch, Lucas incarica il direttore tecnico ed esperto audio Tomlinson Holman di provvedere alle migliori condizioni tecniche ed ambientali per l’intero processo sonoro. Il procedimento nasce dalla esigenza di ottenere la massima fedeltà nell’ascolto della colonna sonora completata e delle sue componenti e la sigla viene generalmente considerata l’abbreviazione di Tomlinson Holman eXperiment, anche se è evidente l’analogia con il titolo del primo lungometraggio di Lucas (THX 1138). Il sistema di norme procedurali prevede l’impiego di un moderno impianto di diffusione e un apparato per decodificare le tracce Dolby, coordina la disposizione ottimale degli altoparlanti, e concerne anche le dimensioni dello schermo e gli angoli di visione, nonché i materiali con cui è costruita la sala di proiezione. Essa deve risultare acusticamente isolata, con determinati parametri sul riverbero, riduzione dei rumori di fondo e limitazioni dell’effetto eco. I miglioramenti apportati dal THX suscitano l’interesse degli addetti ai lavori e portano Lucas a promuoverne l’installazione nei cinema. L’intento è che il pubblico possa ascoltare il film nella forma più simile a quella concepita dai realizzatori, sperimentando la stessa qualità acustica che esce dalla sala di missaggio. All’epoca di Guerre stellari sono pochi i locali con impianti in grado di valorizzare la gamma dinamica del Dolby Stereo, e lo stesso regista-produttore è consapevole che la maggior parte
del pubblico non può apprezzare il livello di eccellenza del suono, ma l’affermazione del film porta gli esercenti a considerare quanto una resa audio efficace possa contribuire al successo di un prodotto. Al momento della uscita de Il ritorno dello Jedi, una serie di cinema selezionati vengono equipaggiati con le prescrizioni contenute nel THX, nell’ambito di un programma sponsorizzato dallo stesso Lucas (Theater Alignment Program). Nel giro di pochi anni i criteri del THX diventano lo standard adottato dalla maggior parte delle sale ed un marchio di qualità riconosciuto (nel trailer con il quale annunciata l’applicazione del THX nella sala cinematografica, lo slogan è ‘il pubblico sta ascoltando’). Nel 1990 viene immessa sul mercato la versione per l’ambiente domestico (da applicare nell’ home theater) e nel 2002 Holman riceve un Oscar di categoria tecnica per ‘il miglioramento dei sistemi di diffusione sonora per film’, attestato di una qualità che ha fatto sperimentare al pubblico una nuova e più completa esperienza sonora.
STAR WARS: OPERA SPAZIALE La musica di Star Wars Sylvia McCosker
Guerre stellari, la saga di George Lucas, è “lirica” sotto diversi aspetti: i generosi allestimenti e (in La minaccia fantasma), i costumi, le trame intricate, le grandiose entrate e le uscite di scena, le sequenze d’azione, lunghe ed elaborate, che con pomposi tappeti sonori corrispondono sia alle arie che
ai balletti che venivano spesso inserite nell’opera lirica. Poi c’è la musica. La musica in un film può essere portatrice di significato, sia che lavori con le immagini che contro di esse , e può procurare gran parte del piacere, anche se lo spettatore non è un allenato musicista né un esperto di cinema. Questo è certamente vero per la trilogia di Guerre stellari. Senza le partiture di John Williams io stessa troverei questi film molto meno memorabili. La maggior parte dei film, come la maggior parte dei musical e delle opere, hanno uno o forse due motivetti che fanno fischiettare la gente all’uscita del teatro, ma la trilogia di Guerre stellari è piena di hit: “Star Wars/Skywalker Theme”, “Force Theme”, “Leia’s Theme”, “Love Theme/Han’s Theme” e “Imperial March”. Questi motivi vengono ascoltati più volte (ce ne sono anche di piacevoli che si sentono una volta sola, come “Asteroid Waltz” che si sente in L’impero colpisce ancora mentre Han vola attraverso una scia di asteroidi, o “Ewok March”, o “Victory Chant” che conclude Il ritorno dello Jedi). Non sorprende che sia apparsa rapidamente una suite orchestrale di Guerre stellari, e che venga ancora suonata di quando in quando anni dopo. Per operare il confronto lirico: forse il parlato in Guerre stellari dev’essere affrontato più come un libretto d’opera che come un classico dialogo teatrale. Williams non è il primo compositore che salva una sceneggiatura non certo immortale. Di nuovo, come in molte opere liriche, una trama standard fondata su archetipi può essere sminuita da un linguaggio mediocre ma salvata dalla musica che comunica il Mito. È stato detto che Lucas e Williams hanno adottato un approccio sullo stile del “tema wagneriano”, secondo il quale personaggi e idee chiave vengono identificati da un cliché musicale che li segue durante tutta la storia. Questo è generalmente corretto; in verità gran parte degli interventi vanno in questa direzione. Comunque prenderò anche in considerazione alcune delle sequenze più singolari e l’uso del silenzio.
Forse il motivo principe della trilogia, (anche in Minaccia fantasma), è “Force Theme”. Questo tema viene proposto prima che venga menzionata la “Forza”. È brevemente abbozzato quando Leia dona a R2D2 la scheda-dati contenente i piani della Morte Nera, e poi sviluppato quando Luke guarda il tramonto dei due soli. (È forse questo un riferimento musicale alla relazione tra Luke e Leia in Ritorno dello Jedi?). Il tema viene riproposto durante la prima conversazione di Luke con Kenobi e infine rivelato come il motivo della “Forza”. Lo ascoltiamo mentre Kenobi descrive la Forza a Luke, e da allora è una costante ogni volta che la Forza compare nel film. Solo allora, se siamo attenti alla musica o mentre riguardiamo il film, realizzeremo che la partitura alludeva alla Forza in tutte le occasioni precedenti. Williams e Lucas a volte lo usano come la traduzione in musica del motto “che la Forza sia con te”. Così è da intendere la sua comparsa in altre occasioni: quando Luke si imbatte nella casa bruciata dei suoi genitori adottivi e ancora, brevemente, quando il Falcon decolla da Mos Eisley in New Hope e da Hoth in L’Impero colpisce ancora. E pure nel Ritorno dello Jedi, nell’episodio in cui Darth Vader si impossessa dell’imperatore e lo porta verso la fossa. In questa circostanza il “Force Theme” si riafferma brevemente ma in maniera inconfondibile. È la prima e unica volta nella trilogia che il “Force Theme” accompagna un’azione di Vader. Risentiamo comunque il motivo, questa volta “trionfante”, durante il suo funerale. Ciascuno dei tre personaggi principali, Luke, Leia e Han, ha il suo specifico corrispettivo musicale. Da parte sua, “Star Wars/Skywalker” non è solo il cliché di Luke, è il motivo che firma la saga. È presente nell’ouverture di tutti i film, incluso Minaccia fantasma. In New Hope non lo riascoltiamo finché non incontriamo Luke. Dopo di che suona durante tutte le principali battaglie e quando le forze del bene riescono ad evitare un pericolo, come nella battaglia con la Morte Nera in New Hope e, nel Ritorno dello Jedi, durante la lotta contro gli uomini di Jabba sulla nave di sabbia. In L’Impero si sente per
l’ultima volta durante la ripresa della flotta ribelle nello spazio, anche se è brevemente usato all’inizio dei titoli. “Leia’s Theme” in New Hope sottolinea l’episodio in cui si intravede Leia con R2D2 e quello della breve lotta prima che Leia venga catturata. È riproposto quando R2 comunica il suo messaggio a Luke e quando quest’ultimo incontra la donna in prigione. “Leia’s Theme” e “Luke’s Theme” dominano la musica dei titoli di coda di New Hope. Curiosamente in L’Impero si sente una volta sola. In Jedi, risuona quando Leia si toglie la maschera da “mercenaria”, sul letto di morte di Yoda, quando Luke capisce che è lei la sorella gemella. E, infine, quando Luke e Han nella foresta si chiedono se sia stata veramente uccisa. A differenza del “Luke’s Theme”, il motivo di Leia si riferisce sempre e solo a lei. Il motivo che accompagna tutte le scene chiave tra Han e Leia in L’Impero e Jedi è, allo stesso modo, il motivo di Han e il “Love Theme”. È presente per la prima volta all’inizio de L’Impero: Luke chiama Han con la trasmittente; alla risposta di Han, si afferma distinta una piccola melodia, cinque note suonate da un singolo strumento. La volta successiva ascolteremo la versione orchestrata, durante un’accesa conversazione tra Han e Leia, verso la fine del volo tra gli asteroidi, quando i due, sul Falcon, si avvicinano al loro nascondiglio. È lo stesso tema che ascoltiamo in occasione del loro primo bacio e al momento della loro fuga dallo Star Destroyer. Quando Leia e Lando arrivano alla piattaforma dove li aspetta il Millennium Falcon (suggerisce che Han è con loro nello spirito, rappresentato dalla sua astronave) risentiamo il “Love Theme”. Quest’ultimo è riproposto nella scena finale di L’Impero: Luke e Leia guardano insieme lo spazio mentre Lando parte alla ricerca di Han. La partitura stessa dei titoli di coda de L’Impero comprende un lungo contrasto tra questo motivo e la minacciosa “Imperial March”. In Jedi è usato meno frequentemente: quando Leia sveglia Han dall’ibernazione; quando i due si parlano dopo che Luke è andato ad incontrare Darth Vader e durante l’abbraccio finale.
In New Hope l’“Empire Theme” di Williams è presente quando Darth Vader sale a bordo della nave di Leia, e ancora quando il Falcon viene catturato o quando la Morte Nera si avvicina a Yavin. È una scelta appropriata ma non del tutto originale. Per L’Impero colpisce ancora, il più dark della trilogia, quello in cui il male sembra prevalere, Williams ha scritto l’ossessiva “Imperial March”, che domina nel confronto tra i ribelli e l’esercito imperiale, sia in L’Impero che in Jedi. Si sente per la prima volta in L’Impero, quando la flotta imperiale viaggia nello spazio. Va di pari passo con l’azione quando Luke avvicina l’imperatore a bordo della Morte Nera II in Jedi. Il suo utilizzo finale nella trilogia è esemplare quando Vader/Anakin muore. Risentiamo “Imperial March” per l’ultima volta, trasposta e accennata da un’arpa, nota per nota, l’equivalente musicale della redenzione che ha appena avuto luogo nel film. Questo tema è stato usato così efficacemente nella trilogia che in Minaccia fantasma Williams ritiene opportuno citarne solo un frammento, una sola volta, per dirci tutto quello che attende Anakin in futuro. Un altro motivo interessante è “Impossibility Theme”, una melodia che ascoltiamo una prima volta durante la conversazione tra Yoda e il fantasma di Ben. Potremmo pensare ad un brano riempitivo, o a un pezzo costruito per sottolineare l’emotività della scena. Poi appare di nuovo, in versione ampliata, quando Yoda solleva la nave di Luke dalla palude, e comprendiamo che è legato a un’idea. L’ultima volta risuona quando Luke arriva a Cloud City, e quando Leia e Lando scappano attraverso i corridoi. È evidente che non è riferibile ad un’emozione, ma si collega senza dubbio a un’idea, riassumibile nell’espressione “fare o non fare un tentativo”. Per gli Ewoks in Jedi, Williams compone un’allegra marcetta. Ma, come è solito fare, egli la “cita” ben prima che sia rivelato il personaggio a cui si riferisce. Come Luke ritorna dai suoi amici dopo l’inseguimento, la musica degli Ewoks compare nella colonna sonora. Un altro caso di “prefigurazione” attraverso un motivo musicale si trova in
L’Impero e Jedi. Un motivetto allegro che appare in L’Impero quando Lando, Leia e Luke iniziano la loro fuga disperata da Bespin, e che viene riproposto quando R2 salva la situazione aggiustando l’Hyperdrive del Falcon. È lo stesso che risuona in Jedi, trasformato in un inno ribelle, introduzione al concilio di guerra e accompagnamento all’entrata della flotta in battaglia. “Emperor’s Theme” è un portentoso canto senza parole, che sentiamo nelle principali scene dell’imperatore ne Il ritorno dello Jedi. Assai differente come stile dagli altri momenti musicali della trilogia, è nuovamente utilizzato per l’apparizione di Darth Sidius in Minaccia fantasma, un fatto che incoraggia il pubblico a riconoscere il futuro Imperatore del Male. A parte questi motivi musicali che creano legami intellettuali ed emozionali, attraverso la trilogia troviamo semplicemente anche dei validi tappeti sonori. Come in molti altri film, questi creano uno stato d’animo o caratterizzano una scena, ma sono anche gradevoli di per sé. Alcuni rientrano nello stile “classico/sinfonico” della partitura. Per esempio, quando la nave di Han si avventa tra le rocce della scia di asteroidi, Williams produce “Asteroid Waltz”, che sfuma nel “Love Theme/Han’s Theme” e viene quindi completato dal trillo di un corno impertinente quando il Falcon si alza e scompare nella grotta. Altri momenti musicali differiscono in modo marcato e sconfinano in altri generi musicali. Come il quartetto jazz nella cantina di Mos Eisley e il cantante al palazzo di Jabba. Altre volte è la musica a creare aspettative che poi gli eventi tradiscono, come all’inizio della scena della cerimonia delle medaglie alla fine di New Hope. Qui la partitura di Williams dà la sensazione di citare una marcia nuziale. E anche le prime immagini dei personaggi principali sembrano fondarsi sui cliché associati di solito alle rappresentazioni dei matrimoni: persone eleganti che si scambiano sguardi; solo più tardi scopriremo che i personaggi devono solo essere decorati. Un simile contrasto tra aspettative ed eventi si verifica in
L’Impero colpisce ancora quando la melodia “Star Wars/Skywalker” suona mentre Luke vola sulla sua navicella verso Bespin per salvare Han e Leia. In questo caso l’ottimismo “cavalleresco” del motivo è ironico, in quanto Luke finirà lui stesso nei guai. Williams è molto convincente quando contrappunta le entrate e le uscite di personaggi potenti, le processioni, le avanzate delle armate. Il pensiero va alle celebrazioni per la vittoria da parte degli Ewoks alla fine di Jedi, e anche alla parata vittoriosa su Naboo alla fine di Minaccia fantasma. Questi brani, come le melodie che firmano la saga, sono piacevoli, non solo al primo ascolto, ma anche quando diventano ormai note, quando cioè affrontano il test al tornasole per ogni composizione musicale. Una precisazione: sembra veramente esserci una stretta e interessante relazione tra la musica e la storia. La musica non ci dice solo: ”spaventatevi” o “sentitevi felici”. Frequentemente ci dice cosa pensare, connettendo personaggi ed eventi. La ricorrenza dei temi musicali chiave, aiuta anche a legare insieme i tre film, guadagnando in impatto con la ripetizione e l’associazione. Per esempio, nel momento in cui ascoltiamo il “Force Theme” per l’ultima volta, durante il funerale di Vader, questo ci riporta subliminalmente alla mente un insieme di immagini. In Minaccia fantasma, Williams e Lucas possono contare sulla nostra memoria per essere sicuri che noi riconosceremo la Forza quando i personaggi si apprestano ad usarla. Inoltre, non ci sono quasi silenzi reali nella trilogia (definendo “silenzio” una sequenza di puro materiale visivo, sia di quiete che d’azione senza dialogo, musica o effetti sonori d’altro tipo). Ci sono solo brevi tratti di dialogo non orchestrati in New Hope, in L’Impero e circa venti pause in Jedi; e la circostanza non si ripete in Minaccia Fantasma. Questi brevi passaggi di solito si trovano in punti di transizione della storia. L’improvvisa assenza di sfondo musicale, che è percepita solo subliminalmente dal pubblico, porta con sé un cambiamento, e crea un senso di tensione e di
attesa, come la calma prima della tempesta. Un esempio, il primo passaggio di azione e dialogo non orchestrati in L’Impero colpisce ancora, arriva quando Leia scopre che non ci sono notizie su Luke e Han, e che le porte del bunker devono essere chiuse per ripararsi dalla notte artica. I titoli di coda di ciascun episodio funzionano come epilogo, durante il quale Williams sviluppa completamente i temi principali, senza inserire alcun altro tipo di suono. Ciò riassume musicalmente gli eventi e i personaggi principali: “Star Wars e Leia’s Theme” in New Hope; “Impossibility” e i motivi “Empire/Vader” e “Han Solo” in L’Impero; “Victory of Ewoks” in Jedi e “Duel of Fates” in Minaccia Fantasma. Grazie a John Williams la trilogia di Guerre stellari è un’opera “spaziale” in più di un senso. (traduzione di Francesca Mezzomo)
STAR WARS, LA NUOVA REALTÀ
Holger Ziegler
C’era una volta un ragazzino che sognava ad occhi aperti di eroi splendenti e di principesse dolcissime, di maestri saggi e di mostri oscuri, che viveva trepidante la battaglia infinita tra il Bene e il Male. Quel bambino è diventato un uomo e ha
fatto qualsiasi cosa per realizzare il suo sogno. E alla fine è riuscito nell’impresa di rendere tutti partecipi di questa sua grande aspirazione. Così potremmo immaginare la storia e la vita di George Lucas, uno dei filmakers più noti e affermati del mondo. La trilogia di Guerre stellari lo ha reso ricco e famoso, la conseguenza è stata una maggiore indipendenza produttiva, un altro obbiettivo che era nelle sue intenzioni di indipendente. Oggi investe i suoi soldi nelle iniziative e nei film prodotti della ILM (Industrial Light & Magic), sempre attento a sviluppare nuove tecnologie di realizzazione digitale. E pensare che la ILM aveva iniziato la sua attività nel settore degli effetti speciali, diventando sempre più competente e impegnata nel campo della produzione di immagini digitali. L’ultimo più recente approdo è stata la realizzazione, in ogni passaggio, di un film completamente “girato” con la tecnologia digitale. E mentre il nuovo episodio di Star Wars, realizzato, come afferma Lucas stesso, con il computer al novantacinque per cento, era pronto per essere proiettato, due multinazionali, la JVC e la Texas Instruments, presentavano i loro nuovi proiettori a tecnologia digitale. Quando in maggio il film iniziò il suo cammino nelle sale, molte decisero di proiettarlo in digitale, probabilmente solo per testare il nuovo standard di proiezione, ma Lucas non ha mai perso la speranza di lavorare a un lungometraggio che possa “essere girato, montato e realizzato interamente in digitale, come mai è accaduto finora nel cinema”. Cosa significa questo sviluppo tecnologico per il film? Lucas afferma che la sua intenzione è quella di raccontare storie e che l’unico scopo della tecnologia è di concorrere ad illustrarle al meglio. Perciò preferisce la tecnologia digitale, per le sue infinite possibilità di creare scenari non condizionati e limitati dalla realtà fisica -un fatto questo di cui Lucas si è spesso lamentato, soprattutto durante le riprese del primo episodio di Star Wars, un film in cui la tecnologia digitale ha avuto un ruolo in fondo marginale, solo qualche trucco e gli effetti speciali- e anche se figure come R2D2 o C3PO hanno avuto grande popolarità a causa proprio della loro ruvida
fisicità, e create con il digitale avrebbero perso del tutto questa caratteristica fondamentale, e sarebbero restate in qualche modo involucri senz’anima. Durante la produzione dell’ultimo Star Wars, Lucas ha avuto per la prima volta la possibilità di lasciar correre fino in fondo la propria fantasia e di realizzare veramente tutti i suoi sogni e aspirazioni. Ha “dipinto” il suo film grazie al computer: non più le immagini riprodotte grazie all’obiettivo della macchina da presa, ma piuttosto pittura o frammenti di colore e di immagini unite idealmente in un moderno collage. Lo spettatore non vede qualcosa di innaturale o di fuori dal mondo, semplicemente sono i pensieri di Lucas a prendere definitivamente forma. Mentre fino ad ora il cinema era legato in tutti i sensi alla realtà della sua consistenza “fotografica”, con la produzione digitale si apre una nuova era: le immagini del mondo create e determinate dalla loro stessa inconsistenza virtuale. Sganciandosi a poco a poco dalla realtà il cinema si avvicina sempre più al sogno. La stessa storia, i suoi riferimenti alle saghe e all’epica, aiutano la settima arte in questa direzione. Tornando a Lucas, il senso stesso delle sue storie si rifà in maniera profonda alla saga, in particolare legata a mondi lontani e sconosciuti, comunque calata in una realtà del tutto “irreale”, lontana dalle cose concrete della vita di tutti i giorni. Non sente più alcun bisogno della realtà tradizionale, né davanti né dietro la macchina da presa, c’è solo la lucida realtà del computer. Per quello che Lucas pensa del cinema e per le sue necessità artistiche è l’unica, fatale direzione possibile. Lo sviluppo e le nuove frontiere della cinematografia prevedono l’abbandono dell’età dell’oro della celluloide. È il trionfo dell’immaginazione e del sogno, un allontanarsi lento ma inarrestabile dalla concretezza della vita reale. È un processo lento iniziato molti anni fa, un nuovo modo di pensare e di raccontare per immagini. Il cinema si libera di ogni condizionamento legato alla vita reale e riconquista la sua funzione di grande macchina da sogni, gioco ed intrattenimento capace di prendersi gioco dello spazio e del tempo. Si tratta di un punto di vista anche “filosofico”, non solo legato al cinema. Ma per creare nuove immagini è
necessario credere comunque nella realtà visibile. La nuova tecnologia digitale ha liberato il cinema anche dalla sua finalità riproduttiva, e ha posto le basi per un nuovo viaggio della conoscenza, vissuto attraverso un nuovo mondo che reclama la propria realtà, una realtà per forza lontana dall’essere “fisica”, ma non per questo priva di ogni finalità conoscitiva. Lasciamo quindi che la leggenda viva e si affermi. Il digitale produce immagini che hanno perso la loro consistenza fisica, una consistenza che resta comunque un punto di riferimento, e per questo non sono dimenticate le immagini reali appartenenti al mondo fisico. Perfino Lucas non ha completamente fiducia nel potere persuasivo della sua storia virtuale, se ha deciso di affidare a una star come Ewan McGregor il ruolo di protagonista del film. Star è comunque sinonimo di realtà fisica e di persistenza reale. La sua presenza trasferisce sullo schermo una indubbia fisicità. Stars digitali come Lara Croft o Kyoko Date sono fenomeni singolari, anche se un giorno prenderanno il posto delle vere stars in carne ed ossa. Per ora queste agiscono e vivono negli spazi della fantasia digitale di chi le ha create, con un contatto comunque verificabile con il reale, il grande mercato del merchandising e dei video musicali. Sono proprio i combattimenti di Lara, persona virtuale e animata contro la schiera degli avversari vivi e reali, una prima e concreta contaminazione. Si tratta di un grande risultato per la tecnologia digitale. Ogni immagine può essere potenzialmente manipolata, possono essere aggiunte nuove componenti artificiali. Reale e virtuale ricostruiscono una nuova idea del mondo. E tutto appare sorprendentemente più vero. Il fatto che il digitale possa modificare e falsare la realtà non può essere usato come un capo d’accusa contro le nuove tecnologie. Fin dalle origini il cinema ha sempre dovuto fare i conti con la manipolazione della realtà. È un falso problema. Una “realtà obbiettiva” può forse esistere, ma alla fine resta quasi sicuramente un orizzonte inaccessibile. “Non posso credere nelle immagini senza manipolarle con le mie mani”
potrebbe essere una formula indovinata per riassumere le tendenze stilistiche di molti registi di oggi. Non ci sono quindi immagini “vere” in tutti i sensi. Perfino le immagini che appartengono alla Storia possono essere facilmente manipolate, al punto tale che il dubbio sulla verità della visione è diventato quasi un bene comune. Qualsiasi immagine non può mai essere considerata completamente vera. E il cinema, da parte sua, ha perso con il digitale proprio questa parte di presunta verità, ha insegnato allo spettatore la diffidenza verso le immagini, e come per la fotografia ci ha insegnato che ciò che vediamo non è mai del tutto reale. Il cinema ha perso la sua essenza materiale. I film non esistono più nella loro consistenza di fotogrammi, uno dopo l’altro, visibili grazie alla luce. Ora sono pixels di un database, serie invisibili di numeri, cinema senza realtà. È un conflittodibattito probabilmente senza fine. Solo al momento della proiezione video e cinema mostrano la loro origine tecnologica. Ma il digitale azzera ancora una volta il discorso. La differenza fra cinema e video diventa minima e quasi impercettibile. Cosa dire davanti a questo nuovo e imprevedibile fenomeno? C’è qualcosa che avvicina Star Wars ad un gigantesco videogioco, qualcosa che assomiglia molto alla realtà virtuale. Non a caso i produttori hanno lanciato il film sul mercato abbinandolo alla vendita di un videogioco come Star War Racer, un computer game che consente al giocatore di calarsi nella realtà del film e salvare il mondo dalla minaccia del Male. C’è bisogno di chiarezza, a questo punto. Ci troviamo di fronte a una nuova idea di cinema, in chi produce (o gira) un film e in chi un film lo guarda. Lo stesso termine “cinema” deve essere riconsiderato. Cos’è il cinema? È una vecchia domanda sempre di moda. È la proiezione di fotogrammi davanti a un pubblico o è la visione di ogni genere di proiezione, in video e non? E cosa dire della percezione del pubblico, del contatto con diverse modalità di riproduzione delle immagini? Per semplificare, cosa dire della differenza sostanziale tra la luce bianca della proiezione tradizionale e la mistura di colori alla base della riproduzione in video? Qualcuno potrebbe parlare di risoluzione, di qualità
dell’immagine: il discorso non può certo fermarsi qui. Ci fu una perdita di brillantezza nel passaggio fra la stampa al nitrato e quella all’acetato. Allo stesso modo oggi la gente non è in grado di distinguere tra un video e un film in pellicola, e non c’è dubbio che gli spettatori sono da questo punto di vista pronti ad assistere ad uno spettacolo digitale. Nessun problema anche riguardo ai mille trucchi digitali. È una modalità che si ritrova anche nel cinema tradizionale, che non ha mancato di cambiare e modificare la realtà a suo piacimento. Il momento post produttivo ha sempre rappresentato il passaggio decisivo verso una nuova realtà. In questo la tecnologia digitale è solo l’ultimo gradino. La differenza è solo materiale. Nel cinema tradizionale il supporto cinematografico resta sempre tale. Il digitale ha solo introdotto una nuova componente. E il cinema resta sempre uguale a se stesso anche in film storici per la nuova tecnica, come Jurassic Park o Star Wars. La manipolazione delle immagini riguarda sempre il complesso delle sequenze girate con i metodi tradizionali. In fondo è la più interessante delle applicazioni digitali. Film completamente “tecnologici” come Toy Story restano comunque una eccezione. I filmakers hanno a disposizione solo un nuovo mezzo di espressione dal quale trarre ispirazione e nuove idee. Proprio l’uso del digitale in campi come l’animazione e gli effetti speciali ha creato una differenza impalpabile fra passato e presente. La consistenza fisica è sempre una realtà. Persino l’animazione non può fare a meno del suo background materiale, tutto riassumibile nell’intervento diretto sui fotogrammi che ha reso grande e famoso questo genere particolare di cinema. Gli effetti speciali più immateriali, pensiamo alla Blue box, sono venuti solo più tardi. La tecnica digitale ha sicuramente cambiato le cose. Le immagini possono essere completamente o solo in parte girate in digitale, e con la nuova tecnica possono essere inserite nel film. Senza alcun problema, perché un’immagine digitale non fa differenza fra realtà e realtà virtuale, tra analogico e
sequenze elettroniche aggiunte più tardi. C’è solo il solito database con i suoi pixels. Proprio per questo la fase di post produzione ha assunto negli ultimi dieci anni una importanza fondamentale. Questo anche grazie all’affermarsi delle nuove tecnologie e ai miracoli che queste consentono di fare nella fase di manipolazione e colorazione dei fotogrammi. Ai giorni nostri, il tempo delle nuove frontiere tecniche, la produzione di un film è solo il primo passo della post produzione. La perdita del valore assegnato all’iter produttivo ha sicuramente influenzato il modo di concepire il cinema. Ciò ha sicuramente influenzato i registi danesi dell’ultima generazione, che hanno stabilito le regole del loro “dogma” partendo proprio dalla condanna di ogni nuova tecnologia, soprattutto trascurando programmaticamente la fase post produttiva. È però davvero curioso che molte sequenze dei loro film siano girate e montate con la tecnica digitale. In fondo ogni dogma contiene la sua negazione. C’è sicuramente una forma di sviluppo tecnologico che cammina mano nella mano con la perdita di realtà fisica nel cinema: è il modo stesso di considerare e vivere l’esperienza cinematografica. Il riferimento è alla cultura moderna del multiplex, del marketing trionfante, del cinema come evento commerciale. In questo senso la materialità del film conta ben poco e gioca un ruolo davvero insignificante. Non ha importanza che si tratti di un film tradizionale o in digitale. Quello che interessa è l’evento cinema, è il film in se stesso. Ed è così che film profondamente tecnologici come Star Wars comunicano all’esterno, al pubblico, la loro consistenza attraverso il merchandising e tutta la serie di prodotti che ne raffigurano l’immagine e la storia. È una consistenza che non si trova per forza e solo nella sala cinematografica: il pubblico non può fare a meno di questa nuova realtà fisica. È la schiera dei giocattoli, delle magliette pubblicitarie, dei posters e dei contenitori per pop-corn. Le case di produzione supportano con grande enfasi questo mercato indotto dalle immagini. E ne hanno ben donde. Non sono pochi gli utili neppure per loro:
sul piano immediatamente monetario e su quello della percezione, dell’“immagine”. Tutto (anche i film) viene distribuito e venduto con un preciso imperativo commerciale, il mercato. I film digitali sono in questo senso facili da riprodurre e, ciò che più importa, davvero poco costosi. Resta solo un problema, di non facile risoluzione. La protezione dalle possibili duplicazioni non autorizzate. È questa la sola grande riserva che ancora rende perplessa la grande industria del cinema. E resterà tale fin quando non sarà garantito ogni diritto dei produttori cinematografici. E non sarà facile. Guerre stellari è un esempio interessante in questo senso: non appena il film ha iniziato a circolare nelle sale sono fioccate in tutto il mondo le copie pirata del film. George Lucas ha iniziato una battaglia dura contro la pirateria ma non c’è molto da fare allo stato attuale delle cose, anche se il regista ha “catturato” in una circostanza alcuni ragazzi che avevano appena rubato una copia del film in un cinema americano. In ogni caso, suona familiare questa guerra senza esclusione di colpi, questo impero sempre alla caccia di pirati… Ma le novità saranno comunque di portata enorme. Il digitale favorirà senza dubbio le produzioni a basso costo. Tutti potranno produrre ad un costo accettabile film digitali. E lo sviluppo tecnologico permetterà l’utilizzo della tecnologia digitale ad un prezzo sempre più basso. Già oggi sono in commercio programmi di grafica e di editing a poche lire. E anche questi permettono di lavorare con le immagini e consentono la realizzazione di film artigianali. Nessuno deve sottomettersi alle regole della grande produzione se tutte le immagini possono essere girate con una camera digitale, che tra l’altro non ha costi inaccessibili. E se la post produzione può facilmente essere realizzata con un computer. Da questo punto di vista il digitale è una grande rivoluzione. È la possibilità di sottrarsi al grande monopolio delle majors. Ma questo sviluppo è solo all’inizio. Basta osservare i tentativi che hanno già compiuto i registi di “Dogma” con discreto successo. Ma in fondo le videocamere ad alta risoluzione
(l’omologo della macchina da presa) sono ancora troppo costose, e i proiettori digitali non sono ancora del tutto perfetti. Gli stessi cinema non sono ancora convinti delle nuove frontiere tecnologiche e restano ancorati alla loro tradizione. Ma anche se le cose non sono ancora cambiate, il futuro è vicino e sarà sicuramente tutto in digitale. Questo significa un grande vantaggio per tutte le fasi di produzione di un film. E una grande chance anche per le cineteche di tutto il mondo, davvero facilitate da questo nuovo modo di riprodurre e conservare l’opera cinematografica. Ad un prezzo molto più basso e con la certezza di un supporto nuovo e più resistente al tempo. Molte sono le domande ancora senza risposta, una forse più urgente delle altre: perché un film non potrebbe essere a questo punto uno spettacolo puramente individuale? Perché essere soddisfatti solo delle immagini che scorrono sullo schermo? Perché non pretendere uno schermo interattivo, una volta superata la frontiera della realtà fisica del cinema? Un nuovo modo di assistere allo spettacolo cinematografico, la libertà per ogni spettatore di iniziare e finire la proiezione dove più gli piace, spaziare senza limiti nella storia incorporea che scorre davanti ai suoi occhi. Realtà virtuale, è vero. Ma il cerchio sarebbe finalmente chiuso, computer e film si darebbero infine la mano. David Croneneberg ha già mostrato in eXistenZ cosa potrebbe rappresentare un’esperienza di questo genere: la fine del realismo. O la nascita di un realismo nuovo. In ogni caso, lunga vita a quello che continueremmo a chiamare cinema.
STAR WARS E LA FISICA
La finta-scienza che ci piace tanto Germaine M. A. De Haan
Per quei milioni di persone la cui conoscenza del genere è limitata a quello che vedono nei film ed in televisione, la fantascienza troppo spesso viene identificata con mostri, poltergeists, vampiri, lupi mannari ed altri esseri mitologici. Film di questo tipo sono decisamente veicoli d’evasione dalla realtà. Possono anche essere considerati pop-corn per la mente, tranne per il fatto di non essere né nutrienti, né gustosi. Ma, a parte questi coinvolgimenti con il futuro e altri mondi, la vera fantascienza si occupa della realtà. Infatti, lo scopo principale del trattare ed analizzare la vita nel futuro è aprire nuove prospettive sul nostro modo di considerare la realtà attuale. Isaac Asimov
La realtà tecnica Con le loro migliori intenzioni, i registi e i loro fantasiosi collaboratori ci danno qualcosa di molto più credibile delle foglie di tè e dei giornali scandalistici. Le loro previsioni cinematiche sul futuro sono sempre state tutto quello che lo spettatore poteva chiedere: appassionanti, documentate, degne di plauso. E sono quasi sempre state sbagliate. Nella storia
della fantascienza il pubblico è stato “imbrogliato” un infinito numero di volte, vista la notevole quantità di grossi errori contenuti in film così tecnicamente stupefacenti. È vero, all’inizio la fantascienza serviva a “terrorizzare” e “impressionare”, e solo più tardi, con l’arrivo dei programmi spaziali, il pubblico iniziò a pretendere rappresentazioni più vicine alla realtà. Alcuni filmmakers fecero molte ricerche sul rapporto tra fantascienza e realtà, altri invece preferirono ignorare ogni legge naturale dell’universo. È ovviamente opinabile chiedersi se sia necessario o meno preoccuparsi di queste cose, perché chi vorrebbe cambiare tutti quegli stereotipi così familiari dei film di fantascienza? E poi, ci sono comunque tante domande nell’universo che non hanno ancora avuto risposta… è possibile il viaggio nel tempo? Saremo mai in grado di viaggiare più velocemente della luce? E le altre civiltà nell’universo? I mondi alternativi? L’anti-gravità? Comunque, lo scopo di questo saggio non è quello di essere negativi nei confronti dei creatori di science-fiction, anzi… e poi, con centinaia di scrittori che mettono in funzione la loro immaginazione, alcuni di loro sono riusciti anche a colpire il bersaglio. E con ogni probabilità se i film fossero totalmente e accuratamente scientifici, non sarebbero così divertenti da guardare. Sul rapporto tra la fantascienza e la realtà scientifica il Professor D. McNally, direttore dell’Osservatorio Astronomico dell’Università di Londra, dimostrò in una sua dissertazione che c’è veramente poca realtà fisica all’interno della maggior parte dei film di fantascienza, con un numero relativamente ridotto di eccezioni. Anche se molto spesso si sentono scienziati ed astronomi parlare in questo modo della fantascienza, non bisognerebbe dimenticare che c’è anche un lato positivo di tutto questo, visto che molto spesso questi “errori” sono utilizzati a scuola per insegnare ai bambini le leggi della fisica. Ad esempio, Jack Weyland, professore presso la South Dakota School of Mines and Technology a Rapid City, utilizza i passi falsi dei cineasti per illustrare le leggi della fisica durante le sue conferenze, giustificandosi così: “è il modo migliore che abbia mai visto per comunicare
la scienza”. A quanto pare però i filmmakers devono aver perso le lezioni del professor Weyland, assieme a molte altre, visto che gli errori più grossolani hanno origine proprio dalla mancanza di rispetto di certe semplici leggi che si imparano a scuola, come ad esempio il fatto che non c’è aria nello spazio… La navigazione Nei film di fantascienza, troppo spesso viene mostrata in modo errato la navigazione spaziale. L’azione in una scena aumenta grazie a caccia spaziali velocissimi che manovrano tra le stelle come se fossero sulle montagne russe, ma nella realtà tutto questo non è possibile, e neanche così eccitante. Ad esempio, se sulla terra possiamo fare delle inversioni ad U con l’automobile, grazie all’attrito degli pneumatici sul terreno, nello spazio non c’è niente contro cui poggiarsi. Se si fa cambiare direzione ad una astronave, questa continua a viaggiare comunque nella stessa direzione di prima solamente all’indietro. Per fare una inversione ad U, bisognerebbe girare la nave, fermarla grazie a dei reattori, per poi accelerare nella direzione opposta. Nella finzione, ad esempio in Star Wars, le navi spaziali manovrano come aerei, e questo nello spazio è impossibile. Un altro fenomeno mostrato in modo errato è quello dell’aberrazione stellare. Quando Han Solo e Chewbaka, per esempio, stanno “guidando” nello spazio, li vediamo circondati dalle stelle. Nella realtà questo è impossibile perché, quando ci si muove in avanti nello spazio, la luce arriva inclinata, da una direzione intermedia tra la propria e la vera direzione della stella. È lo stesso fenomeno che accade quando si cammina sotto la pioggia. Le gocce cadono dritte verso il basso, ma a noi sembra che cadano angolarmente perché noi ci stiamo muovendo in avanti. Il risultato di questo fenomeno, nello spazio, è che di fronte e dietro alla nave spaziale c’è un cono d’oscurità. In Guerre stellari, invece, ci sono navi spaziali sempre circondate da stelle.
Più veloce della luce Con le tecnologie attuali, raggiungere la velocità della luce (c=300.000 km/sec.) è impossibile. Praticamente in ogni opera di fantascienza le navi spaziali viaggiano per decine di migliaia di anni luce in pochi giorni. La ragione è molto semplice: il tempo di un film o un telefilm è troppo poco per una odissea spaziale, e il pubblico si annoierebbe facilmente, o non vivrebbe abbastanza per vedere la fine della missione. A volte i filmmakers piegano la realtà al loro volere per il bene delle storie… Il padre di Star Trek Gene Roddenberry, ad esempio, assieme ai suoi consulenti tecnici Rick Sternbach e Michael Okuda, pensò alla “velocità warp”, la possibilità di raggiungere una velocità molto superiore a quella della luce (dal diario di bordo dell’Enterprise: Warp 9,6 è equivalente a 1909 volte la velocità della luce). E senza navi così veloci a Luke Skywalker e ai suoi compagni non basterebbero neanche tutti i sei film della saga per compiere tali viaggi spaziali… Dal punto di vista scientifico, molti ricercatori hanno cercato di stabilire se sia possibile o meno viaggiare a tali velocità, come Miguel Alcubierre, o Nick Herbert che ha scritto un intero libro su questo argomento, “Faster Than Light, Superluminal Loopholes in Physics”, dove dichiara che, anche se la teoria della relatività di Einstein è contraria, la velocità superiore a quella della luce è possibile. Mah.
Accelerazione e propulsione Quando un’astronave accelera di alcuni decimi di velocità della luce, la luce proveniente dalle stelle sfugge dal campo ottico. Così, quando Han Solo lascia l’astronave madre per
andare a distruggere la “Morte Nera” di Darth Vader, non dovrebbe essere in grado di vedere stelle. E comunque, una tale velocità schiaccerebbe i passeggeri sui sedili… Vediamo come un altro problema importante che incontriamo quando si viaggia nello spazio è la propulsione. Come si potrebbero raggiungere velocità tali da raggiungere le stelle in tempi così brevi? In Star Wars questo non sembra essere un problema. Nella realtà i due modi in cui questo potrebbe essere possibile sono la “fusione” e i “missili antimateria”. Ma bisognerebbe tenere a mente che una tale accelerazione e propulsione causerebbe severi danni ai membri dell’equipaggio. Ma la legge dell’inerzia non sembra funzionare molto nei film. Le continue forze G avrebbero altrimenti già ucciso ogni Solo, Skywalker o Vader. Ma i creatori di fantascienza non sarebbero tali se non avessero inventato anche degli stabilizzatori di inerzia per ricreare la gravita artificiale, giusto?
L’iperspazio Il fatto che noi assistiamo a conversazioni, senza alcun ritardo temporale, tra persone a bordo di una nave spaziale con persone sulla superficie di un pianeta, è un altro fatto curioso di questo genere di film. Alcuni hanno cercato di correggere questo errore creando ad esempio cose come l’“iperspazio”, che è stato “inventato” da John W. Campbell per il suo racconto The Mightiest Machine (1934), e che gli è poi stato rubato da centinaia di scrittori e registi. Con l’iperspazio i messaggi vengono trasmessi a 199.516 volte la velocità della luce attraverso uno speciale canale spaziale, lo stesso che si può utilizzare anche per viaggiare più velocemente da un punto A ad un punto B. Comunque, prendere una scorciatoia iperspaziale significa scontrarsi con la relatività e la causalità… quindi non è un
caso che non si è stati (ancora) in grado di creare l’iperspazio nella realtà.
Il pianeta artificiale L’Impero malvagio di Darth Vader costruisce un pianeta artificiale, la Morte Nera. Vediamo persino le varie fasi della sua costruzione. Nella realtà, non potrebbe mai accadere, perché le forze dell’Universo sono così forti che si sfalderebbe.
Asteroidi Nei film di science-fiction ci sono fondamentalmente due interpretazioni errate riguardo agli asteroidi. Per prima cosa, cadono sempre nella direzione di qualche grossa città degli Stati Uniti, mentre, da un punto di vista statistico, dovrebbero avere più probabilità di cadere nell’oceano, visto che la maggior parte della superficie della terra è formata di acqua. Poi, c’è sempre una certa quantità di asteroidi in rotta di collisione con le astronavi dei nostri beniamini, come ad esempio nel caso di Star Wars… Nei vecchi tempi si pensava che asteroidi girassero per lo spazio e andassero a cozzare di continuo sulle carrozzerie delle navi spaziali; gli scrittori più esuberanti addirittura le immaginarono alle prese con dense nuvole di asteroidi, zigzaganti attraverso gli anelli di Saturno. In realtà, anche nelle cinture di asteroidi, gli ostacoli sono ad una distanza media di un milione di chilometri.
Il suono e la visione
Oggi è molto difficile vedere un film senza suoni presi dalla realtà, visto che rumori di ogni tipo circondano la nostra vita di tutti i giorni. Per i cineasti che si occupano di fantascienza è sempre difficile scegliere i suoni giusti per lo spazio, o per meglio dire, i non-suoni… perché nello spazio, non essendoci aria, le onde sonore non possono vibrare tra le bellissime battaglie spaziali di Star Wars, con quel fantastico effetto di mitragliatrice quando Luke passa sparando attraverso lo schermo… la scena diventerebbe noiosa senza quei suoni. E poi, il suono non viaggia velocemente come la luce. In altre parole, le grandi esplosioni spaziali messe a punto dalla ILM sono probabilmente uno degli errori più grossi, perché non possiamo vedere e sentire una simile esplosione nello stesso momento, soprattutto da distanze così ampie. Insomma, una colonna di suoni scientificamente corretta non farebbe altro che danneggiare film come quelli della saga di Star Wars, quindi ben vengano le licenze “poetiche”. Per non parlare della visione dei laser nello spazio. Un raggio laser è visibile solo in presenza di un’atmosfera, quando incontra insomma le molecole d’aria. Le luci posteriori del Millennium Falcon possono essere una buona idea sulla terra, ma nello spazio non si possono vedere. E cosa dire dei cannoni a fotoni? In Star Wars sono l’arma principale per distruggere i caccia nemici. Ma non pensate di poter manovrare contro queste armi, perché, mentre vedete arrivare il proiettile, siete già stati colpiti…
Conclusioni Tra le cose più affascinanti della science-fiction non c’è solo la combinazione della fantasia e del pensiero rispetto alle conseguenze della tecnologia attuale, ma anche il suo constante rapporto con la realtà. Ciò porta gli scienziati a pensare a problemi nuovi, che vengono posti da opere di
finzione che, a loro volta, discutono di problemi sociali e politici come il razzismo, la guerra, il rapporto tra l’individuo e la società, l’importanza dell’amicizia, la piaga della solitudine, l’esistenza di Dio e così via. Star Wars, insomma, non è nulla di più di una antica storia trasportata in un futuro tecnologizzato, con l’aggiunta degli argomenti sociali di oggi. Quindi, preparatevi ai prossimi tre episodi di Star Wars, perché la forza della realtà, come abbiamo visto, è più forte della “Forza”.
LA LADY, I SUOI CAVALIERI E LA FORZA
Il “Medio Evo” di Guerre stellari Sylvia McCosker
“Una leggenda medievale calata nello spazio più profondo”, questo è in poche parole il significato della saga di Guerre stellari per Mary Henderson. È lei ad aver curato un’esposizione sul film e scritto Star Wars-The Magic of Myth, pubblicato nel 1981 da Bantam Books. Proprio il suo studio ha tratteggiato le molte affinità tra i film di Lucas e le teorie di Joseph Campbell sul mito. E dal suo lavoro è emersa a chiare lettere la fonte di ispirazione di Lucas, probabilmente vicina allo specifico genere mitologico, nel senso più ampio del termine. Le influenze abbracciano il western, il pulp tipico di alcune riviste di science fiction, le tematiche vicine ai pirate movie, molto evidenti nel Ritorno dello Jedi e parecchi
riferimenti al cinema di guerra, primo fra tutti The Battle of Britain. Ed è noto il rapporto del regista, in fase di stampa e di realizzazione, con alcune produzioni europee che si rifanno alle tradizioni medievali. Il libro della Henderson ci chiarisce i contorni di questo discorso, ma anche senza il suo prezioso aiuto tutto suona molto familiare nella saga di Lucas: è sufficiente pensare ai fratelli Grimms, a Perrault (magari attraverso Disney), a Chretien di Troyes e a Malory, a Tennyson, Wagner, ai cicli arturiani e a Robin Hood, persino ai film dei Monthy Python. Ciò nonostante un medievalista al cospetto di Star Wars è attratto non solo dalla continuità, ma dalla discontinuità. Infatti è stata utilizzata una serie di piste narrative, di accadimenti improvvisi, di personaggi e di immagini che la cultura occidentale moderna associa al cristianesimo medievale. Ma tutto si combina con altri presupposti spirituali. In maniera del tutto personale. Ma un credo religioso differente, un dio (o più dei) lontani fra loro culturalmente creano eroi diversi? A prima vista sembrerebbe di no. La trama totalizzante - in New Hope per esempio, ma in tutta la trilogia la trama è considerata come una summa - è un chiaro indizio che ci riporta alla narrazione della tradizione medievale. E tutto è molto semplice: c’è una giovane donna e un piccolo manipolo di Cavalieri coraggiosi che devono salvarla dall’influenza di un Mago malvagio, dal Male. Nella loro impresa devono affrontare molte difficili prove: combattere contro draghi che sputano fuoco (le due stelle morte) vedersela con un Cavaliere Nero (Darth Vader), confrontarsi con apparizioni e fantasmi tipiche delle grandi saghe epiche. Come Robin Hood i cavalieri sono un piccolo esercito di partigiani del bene nascosti nella foresta. E come nel Lohengrin di Wagner la Lady (Leia, e in un secondo momento Amidala) è associata fatalmente al potere legittimo e al Bene. Il Mago è un usurpatore, un tiranno. Lo Jedi “guardiano da mille generazioni, difensore della pace e della giustizia nella galassia” non è lontano dai cavalieri del Sacro Gral, dai cavalieri di Malta o dai Templari. La similitudine non
si conferma del tutto nella trama ma resta senza dubbio ben visibile il rapporto con la grande tradizione epica. Tutto ruota attorno alla difesa degli ideali e al senso di devozione e di rispetto da parte dei personaggi, una circostanza che assume i contorni di un conflitto fra pietà filiale e dovere sociale, come nel caso di Luke, costretto a compiere azioni delittuose nel nome del Bene. E altri non meno importanti contenuti si rifanno al contesto fisico e morale, quasi una serie di test sulla volontà e sulla lealtà del gruppo che i Cavalieri di Lucas devono per forza sopportare. Una serie di prove di abilità che comprende rapimenti, fughe, duelli e singolar tenzoni in luoghi inospitali e dimenticati, lungo corridoi di castelli simili a labirinti inaccessibili. Tutto suona familiare per chi conosce i testi medievali o i film leggendari su Robin Hood e Re Artù. E in particolare tre momenti spiccano rispetto alla componente allegorica. Non appena compare Han, egli deve fronteggiare e distruggere un bounty-hunter il cui nome, Greedo, ricorda quella cupidigia che è anche il primo difetto e tentazione di Han stesso e che solo verso la fine del film viene completamente superata. Allo stesso modo, nel prologo de Il ritorno dello Jedi, Luke combatte strenuamente e tra mille difficoltà per uccidere Rancor, un mostro terribile. Anche in questo caso il nome riporta immediatamente al termine inglese “rancour”, a quell’acredine maligna e amara che è anche la prima tentazione di Luke. “Non arrenderti all’odio” è ciò che gli dice lo spirito di Ken ne L’impero. Anche Leia deve fronteggiare e sconfiggere un mostro dal significato simbolico. Nel prologo de Il ritorno dello Jedi ribalta tutte le prospettive entrando nel covo del drago per salvare il cavaliere-principe Han, ma al momento tanto sospirato del trionfo, proprio mentre il cavaliere si risveglia dal suo sonno incantato, Leia cade nelle mani degli scagnozzi di Jabba ed è obbligata a sopportare un simbolico rapimento, ribellandosi alle attenzioni e ai baci di Jabba. Più tardi la ritroviamo in una sorta di harem, come nella migliore tradizione cinematografica, un’eroina catturata dal sultano, probabilmente umiliata in un rito, invisibile sullo schermo, di pubblica svestizione. Una volta gli spettatori di sesso maschile
hanno avuto la possibilità di gioire nel vedere maltrattata Carrie Fisher, con tanto di catena che le toglie il respiro. Quello che tutti si aspettano può ancora una volta cambiare di segno: la principessa uccide da sola il Drago. San Giorgio spiega alla principessa ormai in salvo come usare la sua cintura, un legaccio indispensabile per sconfiggere il dragone. Leia usa ciò che la tiene prigioniera per strangolare ed uccidere Jabba. Luke vince l’odio, Han ha la meglio sulla cupidigia, Leia sconfigge qualcosa di molto simile alla bramosia o, meglio, con un riferimento doveroso a Freud, la sua tendenza alla perversione polimorfa. Un’altra cosa che un medievalista nota da subito è che i personaggi maschili non devono superare tentazioni di tipo sessuale e non devono affrontare i sortilegi delle streghe. Non ci sono le solite sirene, le arpie, non c’è traccia di Medusa né di Elena, di Didone o di Medea. I protagonisti non incontrano Lilith, Dalila o Morgana nell’universo di Lucas. La stessa Leia non cade mai in tentazione né è sedotta. È chiaro che il suo amore per Han non può essere minacciato dalle cure casuali e dalla galanteria un po’ ingenua di Lando. Così, anche se la trama può apparire allo spettatore moderno molto vicina alla cultura medievale, le cose non stanno proprio così. A fare la differenza è soprattutto ciò che non c’è di medievale nella produzione del regista e non ciò che ci riconduce alle grandi saghe del passato. La stessa cosa si ripete con le ambientazioni. Vediamo labirinti, castelli, foreste, cave, deserti, ma tutti questi luoghi così inospitali e sacri sono molto diversi da quelli medievali. Lo Jedi indossa un mantello che può riportare ai Benedettini, ma mai Lucas ci restituisce una cappella o una cattedrale. Tutti i luoghi sacri si rifanno, nella loro componente positiva, alla tradizione non europea, come le piramidi di Tikal erano la base dei ribelli in New Hope o gli idoli Atzechi in La minaccia fantasma. Ed altri due luoghi rappresentati come positivi hanno in realtà due nomi che ci riportano alla Bibbia in un senso completamente opposto: è il caso di Dagobah e di Endor. Il primo è un riferimento al dio fenicio Dagon. Endor era invece la casa
delle streghe (Saul consulta infatti un medium a Endor per avere un consiglio dallo spirito del profeta Samuele e non ottiene altro che un messaggio di morte e distruzione). Lucas ribalta tutto ciò che solitamente si associa a questo nome: nella sua saga Endor è il luogo della vita e della vittoria. E ancora le sciabole di luce non sono spade. Più precisamente non hanno certo la foggia di una spada, non c’è nulla che ci faccia intravedere un’elsa e una lama. E non sono neppure il dono degli dei, come nella tradizione greca e nordica. Sigfrido riforgia una spada spezzata ma Luke perde le armi del padre senza far altro che ricostruirne di completamente nuove. Rispetto alla forza, una spada di luce è molto più una proiezione del sé di Excalibur. Il titolo della saga è da parte sua molto astratto se paragonato con le grandi opere epiche medievali, di solito legate al nome del protagonista (basti pensare all’Odissea e all’Eneide): non certo Guerra dei mondi, o Guerre dello spazio, o Guerra tra le stelle, ma Star Wars, “stelle guerreggianti”, le stelle (il fato) in guerra. Ho fatto riferimento alla familiarità dei caratteri e della trama ma il riferimento vale fino a un certo punto. Luke assomiglia a Parsifal o Galahad, fin quando egli impara la levitazione e la trasmissione del pensiero. Il mantello benedettino di Kenobi ci riporta ai monaci medievali. Lo incontriamo come un cavaliere-eremita medievale nel deserto, mentre fa penitenza per gli errori che ha commesso. Subito dopo comprendiamo che sotto il mantello egli veste alla giapponese e quando parla il suo vago panteismo, come pure il suo punto di vista sulla verità, non sono quelli che ci aspetteremmo da un eremita del medioevo. Dart Vader (Anakin Skywalker) pare rivelarsi come Mago Merlino, creato dall’equivalenza di Lucas come un elemento fondante (uno dei quattro elementi?). Con l’eccezione che Merlino, il bambino del demonio redento e battezzato, diventa il consigliere di un re buono, mentre Anakin, il bimbo perfetto (probabilmente buono) diventa il discepolo-schiavo di un terribile tiranno e si redime con un sacrificio solo nel finale. Anakin, il nome dell’identità positiva di Vader, fa il paio con Anakim, i giganti pagani che perseguitarono gli Israeliti. Un
medievalista cristiano, guardando Star Wars, spesso è colpito da un effetto-specchio: crede di riconoscere qualcosa di importante ma il suo significato è come capovolto o dietro la facciata. Comunque non è sempre e solo così. Han Solo (Lone Hand!), interpretato da Harrison Ford, un attore mezzo ebreo e mezzo irlandese, è a sua volta molto vicino ai modelli medievali. È una combinazione fra il pistolero dei western e il campione che appare e scompare, forse anche un romantico fuorilegge alla Robin Hood con il suo amico Little John sempre al fianco. Han non è Parsifal o Galahad, ma è piuttosto un personaggio molto concreto, passionale e mai domo, un po’ come Lancillotto e Tristano. In ogni caso il suo modo di amare non è mai adulterino o tragico: Lucas parte sia dalla tradizione western sia dalla maggior parte della tradizione medievale per “addomesticarlo”. Ma la cosa che colpisce di più un medievalista è il nome dell’astronave di Han: come un cavaliere del medioevo anche lui possiede un uccello predatore e per questo cavalca il Millenium Falcon. Nella letteratura medievale ogni ruolo si identifica con una specie particolare di uccello. Il falcone identifica prevalentemente la regina. Dubito che Lucas ne fosse a conoscenza, ma è molto bello e appropriato che Han utilizzi il Millenium Falcon proprio per portare in salvo Leia. Sono Han e il Millenium Falcon a trasportare Leia attraverso l’Impero. Il rapporto stretto fra Han e la sua nave spaziale rende così sorprendente il matrimonio con la principessa? Lo stesso Han è, in fondo, il falcone che si identifica con la regina, proprio come il predatore che dà il nome alla sua astronave. L’identificazione è particolarmente viva nel finale de L’impero. Han è “morto”, fuori dalla storia, ma quando Leia e Lando vedono il Falcone sulla piattaforma di decollo, la colonna sonora di Williams irrompe con il tema di Han, come se il suo spirito li stesse aiutando nella fuga. E in fondo Han gioca nel film un ruolo molto importante. La sua scelta di perseguitare l’Impero contro i desideri di Kenobi, lo conduce a trovarsi al posto giusto nel momento
giusto per salvare Leia dalle minacce della Death Star. È la sua intraprendenza a porlo a contatto con gli Ewoks, che gli consentiranno di salvare la sua missione. È una sorta di guida e guardiano per Luke e Leia. Quando si getta nella mischia per salvare Luke in New Hope, fugge dal sole. Mi domando se Lucas si è reso conto, da un punto di vista cristiano, di questa natura soprannaturale di Han. L’episodio in cui Han viene tradito dall’amico, torturato e congelato (seppellito) ha molti tratti in comune con la Passione: il bacio di Giuda di Lando, Chewbacca che tenta di ribellarsi (come San Pietro) ma viene trattenuto dal Maestro, la stessa figura femminile presente in questo frangente. Fra tutti i personaggi, Han è il solo a morire e risorgere, comunque l’unico a rinascere. Luke, il cavaliere bianco, è un tipico prodotto dell’immaginazione sincretica di Lucas. Comincia la sua avventura come Parsifal, teso a seguire i passi del padre, o come Artù, nascosto per amore della salvezza. Superficialmente ricalca il tipico cammino del personaggio della classicità: impara ad usare le armi, istruito nel combattimento, serve la principessa sua sorella, uccide il drago e alla fine sconfigge e smaschera il cavaliere nero, liberando quindi suo padre dall’incantesimo. Luke ha una visione maligna a Dagobah ma non esperimenta nulla di parallelo in senso positivo che possa avvicinarlo ai cavalieri del Gral. E forse il dettaglio che ci dice di più sulla sua vicenda è quando ciondola su e giù per Bespin. La dura prova cui è sottoposto Han è riferibile senza dubbio alla tradizione cristiana. Luke recita a sua volta la parte dell’impiccato nei tarocchi. E ancora, a dispetto della grande autorità che Lucas assegna a Yoda e a Kenobi, è la lealtà del tutto umana di Luke nei confronti di Han e Leia che prende il sopravvento alla fine. Se avesse ascoltato Yoda non sarebbe mai stato a Bespin. È ciò che gli accade a Bespin a renderlo più lucido nel duello finale con Vader. Suona allo stesso modo la convinzione di Lucas che vede il bene prevalere in lui, non l’idea di Yoda o di Kenobi che considerano Vader ormai troppo lontano, al punto da affermare, volgendosi verso il Dark Side che “dominerà per sempre il tuo destino”.
Il modo di rappresentare i personaggi femminili è una delle componenti in cui l’apparenza di continuità segna contemporaneamente il maggior distacco dai modelli medievali. Ho già avuto modo di sottolineare l’assenza di temperamento e la presenza di mostri femminili. C’è a questo punto da aggiungere che nella saga di Lucas non ci sono vecchie streghe, nessuna donna anziana che offre i propri consigli. Le figure spiritualmente caratterizzate, nel bene e nel male, sono indiscutibilmente maschili. In effetti una donna è pure presente nel Consiglio di La minaccia fantasma, ma la macchina da presa scivola velocemente su di lei senza neppure consentirle di pronunciare una battuta. A prima vista, Leia, Mon Mothma e Amidala sembrano aderenti al modello medievale, la Lady alla quale sono dedicate tutte le imprese cavalleresche. Nella tradizione medievale la devozione è comunque spirituale/erotica. Le donne di Lucas hanno ben poca brillantezza erotica rispetto a personaggi come Ginevra, Isotta o Beatrice. Sono piuttosto icone famigliari (sororali) quando non caratterizzate in senso benigno e materno. Il vero nome di Mon Mothma riconduce alla figura matrona, Mon è uguale a Mom, moth(er), quando non addirittura “momma”. L’identità personale di Amidala, il suo corpo femminile, è ugualmente nascosto dall’abito e dalla velata identità di schiava che di tanto in tanto assume. La sua caratteristica posa da regina, seduta e immobile come una statua, l’avvicina all’Imperatrice e alla Giustizia dei tarocchi. Quando prende la parola in Senato sfoggia la luna crescente di Artemide nella sua capigliatura. Incontra il suo futuro innamorato, Anakin, quando è ancora un ragazzino, e lei è un’affascinante sorella maggiore. Leia ci appare come Artemide o Giovanna d’Arco (è una notazione di Henderson), la vergine guerriera pura e fiera. Il suo amore per Han la rende più donna, come accade alle amazzoni della tradizione. Lucas lo sottolinea soprattutto quando la ritrae urlante e bisognosa della protezione di Han mentre si imbatte in un mynock. Le capacità di Leia sono poi caratterizzate in senso erotico solo dopo il suo amore con Han. Han, il non Jedi, è il testimone del passaggio di Leia dal suo essere donna al suo futuro di matrona. Le scene del loro volo e
del loro corteggiamento sono inframmezzate dal rito di iniziazione di Luke, condotto da Yoda. L’elemento erotico è in ogni caso secondario e la loro storia d’amore risente della loro comune dedizione alla causa. In Il ritorno dello Jedi lo spazio dedicato alla loro relazione è veramente poco: anche l’ultimo fotogramma del film non è l’abbraccio tra due amanti ma una giusta combinazione fra l’arrivo del sipario e un ritratto completo di una famiglia vincente. È giusto dire che ci sono altri personaggi che potrebbero essere analizzati secondo un’ottica medievalista. Per esempio C3PO e Jar Jar Binks come “Fool” o, solo per fare un altro esempio, R2D2 come il nano, ma ciò che abbiamo già detto fino ad ora può già dare un’idea abbastanza precisa delle intenzioni di Lucas. Come si comporta quindi Lucas come narratore? Con un intelligente uso della variazione. C’è qualche inesattezza nel racconto, questo è vero. Come possono infatti, per fare un esempio, Han e Leia raggiungere Bespin in un altro sistema solare senza utilizzare l’iperspazio? Supponendo pure la velocità della luce la distanza tra una stella e l’altra è davvero notevole. Non mancano anche dialoghi molto lunghi e sequenze altrettanto articolate (la Pod Race in La minaccia fantasma ricorda da vicino la corsa di Ben Hur, è solo più in grande, più rumorosa e più veloce). Ma il problema più grande da questo punto di vista è la metafisica tecnologica. Ciò che i personaggi ci dicono rispetto alla Forza non è di grande attrattiva per chiunque conosca la storia del Dio cristiano e addirittura di Zeus e Apollo. Se “la vita l’ha creata e vivificata, noi abbiamo creato gli dei e gli dei siamo noi” (una vera apoteosi). In un universo dove si suppone che la Forza sia un’ultima testimonianza di realtà (divisa in luce e buio, e, per quanto riguarda un discorso di tipo morale, usata indifferentemente dai personaggi buoni e da quelli malvagi) è strano incontrare una storia in cui tutto pare collegato, anche nelle scelte di tipo morale, ai modelli di stampo classico e medievale. Anche nella considerazione della lealtà individuale e nella possibilità del pentimento. “Una leggenda medievale”,
abbiamo detto con Mary Henderson, “calata nello spazio”, ritagliata da una fiera teologia personale e inserita in un vuoto interstellare nutrito di un implicito quanto passionale panteismo. La storia va oltre tutto questo. Anche se abbandona un’idea concreta di dio e continua ad affermare la personalità umana. Ma il ricorso al contesto spirituale cambia non poco le cose. C’è la rappresentazione dimessa dell’eros di cui abbiamo già parlato, la perdita di temperamento di alcuni personaggi e il trattamento riservato alla storia d’amore fra Leia e Han. E anche la rappresentazione della morte è molto significativa, basti pensare alla smaterializzazione dei corpi di Kenobi e di Yoda. I cristiani medievali erano pur sempre degli asceti, ma la loro rigida teologia li teneva lontani dall’affermare che l’universo materiale era malvagio. Così, da una parte l’energia riservata al sesso, e dall’altra la preferenza accordata alle pratiche funerarie. I corpi erano destinati alla resurrezione, la gente del medioevo si preservava da racconti pagani in cui gli eroi scomparsi erano bruciati sul rogo, e non praticava la cremazione. Lancillotto viene sepolto, non cremato. Al contrario, Lucas arriva vicino ad affermare che il mondo fisico è illusorio o malvagio proprio a causa della sua fisicità. “Gli esseri luminosi siamo noi”, afferma Yoda, “non questa cruda materia”. È forse questa l’antimateria” filosofica, nel senso di concezione moralmente negativa della materia, espressa dal torrente di effetti speciali che sommerge gli attori in carne ed ossa in La minaccia fantasma? Tutto sommato, si tratta della storia di un giovanissimo schiavo che collabora nel salvataggio di una principessa e diventa un apprendista cavaliere. O forse ancora la storia di un cavaliere dai mille ideali e di un romantico fuorilegge che aiutano la principessa e i ribelli di Robin Hood a sconfiggere un Cavaliere Nero, a liberarsi di un Drago, a demolire un oscuro e inquietante castello. E alla fine ad avere la meglio sul malvagio tiranno e usurpatore. Questa storia, che punta a ripristinare una forma giusta di governo fra gli uomini, ha forza sufficiente anche da sola (specialmente con l’aiuto della
colonna sonora di Williams) per coinvolgere una sempre più grande platea, persino un medievalista che sobbalza sulla sedia ogni volta che i personaggi invocano la “Forza” per raggiungere i loro obbiettivi.
“SE C’È UN CENTRO LUMINOSO DELL’UNIVERSO, QUESTO È IL PUNTO PIÙ LONTANO”
Viaggio semiserio tra le rovine di una civiltà futura… Star Wars e la Tunisia Giovanni Buggio
Se siete dei musulmani seri, almeno una volta nella vita vi tocca un giro a La Mecca. Se siete dei seri fan di Star Wars, vi tocca un giro in Tunisia. E guai a chi si lamenta, visto che vi poteva capitare Graceland o Pietrelcina; tutto sommato, la vostra è una meta turistica classica. Inutile dire, se non per quei due o tre non-fanatici capitati per caso su questo libro, che si sta parlando dei luoghi “reali” in cui sono stati filmati Star Wars - A New Hope, e The Phantom Menace. Il buon George Lucas, infatti, non solo ha preso in prestito alcune
località topiche della repubblica nordafricana, ma si è pure “cattato” il nome di una città per dare una patria ad Anakin e Luke Skywalker. Tataouine, nel Sud Est della Tunisia, ha evidentemente ispirato proprio nel nome quel Tatooine di sabbia e schiavi da cui Anakin prima e Luke poi si dipartirono alla ricerca di un futuro da Jedi. Soltanto in quello, però, visto che, per ironia della sorte, sembra l’unica città nei dintorni in cui le macchine da presa non abbiano trovato qualcosa di abbastanza stellare da essere inserito nei quattro film. Noi ve la nominiamo perché è un centro turistico ben attrezzato, e soprattutto vi dà la possibilità di far arrivare agli amici cartoline con timbro postale da fuori galassia. Si trova inoltre al centro della locale rete stradale: sarà quindi un agevole campo base per i vostri vagabondaggi, poiché alcuni dei luoghi in questione sono nelle vicinanze. Da qui si raggiungono facilmente i siti di Ksar Hadada, Matmata ed Ajim. Il primo è tra i più importanti. Vi sono state effettuate riprese solo per The Phantom Menace, e questo lo rende di più fresco interesse; pur perdendo la suggestione che altri luoghi devono alla memoria. Ksar Hadada conta su una ambientazione rimasta, almeno fino alla scorsa estate, quasi intatta. L’antico granaio fortificato (“Ksar”, appunto) della città di Hadada, è stato usato da Lucas e compagnia per il quartiere di schiavi in cui il giovane Anakin e la madre vivono. Determinante nella scelta il caratteristico elemento architettonico della cittadella: porte e finestre oblunghe e rotondeggianti, accatastate una a fianco all’altra in un susseguirsi claustrofobico e disorientante di vicoli, piccoli cortili e scale che paiono portare da nessuna parte. L’effetto è completato dalle applicazioni sceniche; sostituendo infissi in materiale plastico agli originali si è creato un look esoticospaziale dall’indiscutibile precisione filologica. All’aficionado basterà confrontare i motivi riprodotti sulle porte della Mos Eisley di A New Hope con quelli di Hadada per rendersene conto. Il colpo d’occhio è impressionante, se solo vi riesce di sbarazzarvi delle comitive di “normali” vacanzieri, che rischiano di rovinare la vostra esperienza trascendente, e di ritrovare l’angolo esatto della macchina da presa di Lucas,
dato che le applicazioni sono state ovviamente limitate a quelle visibili sullo schermo. Si può avere l’impressione di trovarsi davvero su un pianeta a migliaia di anni luce di distanza. Abbiamo però taciuto su una cosa: questa fedeltà all’iconografia Star Wars non è dovuta unicamente al breve tempo trascorso dalla fine delle riprese; Ksar Hadada è adesso un frequentato hotel (anche se voci riportate non lo definiscono esattamente come uno Sheraton, tanto per intenderci… ) dove i gestori hanno pensato bene di lasciare intatto il lavoro della troupe. Il tutto funziona benissimo, sia per quanto riguarda la conservazione della memoria, sia per la cattura del succulento turista. Vi sconsigliamo comunque una notte allo Ksar Hadada, se non siete già allenati agli ostelli della gioventù, e siccome sappiamo che vi vendereste un rene per un souvenir originale, preferiremmo evitaste di fregare una delle porte del film: sono ingombranti, si rompono facilmente, e non garantiamo sull’esito salutare di una lite con la gente dell’albergo. Per raggiungere Hadada, prendete la via che da Tataouine va a Nord Ovest verso Ghoumrassen, lasciatevi quest’ultima alle spalle e seguite le indicazioni; lo Ksar è su una collinetta nel centro della città. I chilometri da percorrere non sono molti, ma in compenso la strada a volte è poco più di una striscia di ghiaia, ed è perciò un vero tormento/inferno. Se da Hadada continuate verso Nord Ovest potreste anche arrivare alla cittadina di Matmata. Non dovreste incontrare grandi difficoltà: ci sono segnali già a molti chilometri di distanza, trattandosi di un luogo reso caratteristico da curiose abitazioni scavate direttamente nella roccia della montagna. Se n’era accorto Lucas, che vent’anni buoni fa girò allo Sidi Driss Hotel gli interni della casa in cui Luke ed i suoi zii buonanima vivevano, su Tatooine. L’esperienza qui può essere fatale agli “Star Wars addicted” più deboli di cuore: il ristorante dell’albergo conserva ancora intatta la sala da pranzo della discussione tra il giovane Skywalker e zio Owen. Un ignoto fan ha peraltro riaffrescato i soffitti con gli originali motivi visibili nel film, creando un effetto di sorprendente déjà-vù. Notate comunque la continuità nella scelta del setting tra qui e
lo Ksar: l’architettura di “cava” dell’albergo richiama sicuramente le atmosfere viste ad Hadada. Da quanto fin qui noto, la cucina del Sidi Driss sembra essere molto piacevole; provatela e potrebbe riuscirvi di mangiare al tavolo della scena in questione. Evitate però di chiedere latte blu o verde al cameriere: se avete fortuna, penserà che siete degli idioti, se non ne avete potrebbe anche portarvelo. Sotto al ristorante, poi, si può dare un occhiata a quella che, nella finzione cinematografica, fu la cucina di zia Beru, ma non aspettatevi la stessa fedeltà, perché la stanza fu quasi completamente ricostruita per il set, e adesso, non ci trovereste poco più che un ripostiglio. Altra cosa da cui guardarsi è la scritta sulla porta dell’hotel, la quale recita “Mos Eisley Cantina”. Il locale dell’incontro tra Jan Solo e Luke è in realtà un po’ più ed Est, sull’isola di Djerba Proprio Djerba, a qualche decina di chilometri, è la tappa successiva. Lì avrete la possibilità di riprendervi con del sano turismo qualunquista, e non appena tornati in forze vi sarà facile recuperare il vostro mondo di fiaba: ad Ajim, porto a Sud Ovest dell’isola, si trova la “Cantina” nominata poco fa, assieme ai luoghi dove fu creato il porto spaziale di Mos Eisley, “covo di feccia e di malvagità” peggiore dell’universo. Le “aggiunte” effettuate per le riprese rendono piuttosto arduo riconoscere esattamente le filming locations, anche se per il vero esperto dovrebbe essere ostacolo superabile. Più facile sicuramente reperire la casa di Obi-Wan Kenobi, situata qualche chilometro a Nord di Ajim, lungo una stradina di sabbia che segue la costa. La costruzione, in pietra e calce bianca, si staglia su un suggestivo panorama fatto di Mediterraneo e di reti che asciugano sul muro. La necessità di farla apparire come un eremo nel deserto ha costretto Lucas ad escluderlo, e perciò il posto potrà sembrarvi inusuale. Se però siete buoni fotografi, e avete portato i vostri costumi originali (non vorrete farci credere che non ne avete almeno uno…), le foto che ne ricaverete saranno decisamente indimenticabili. Non le fate comunque vedere al vostro capo, se non siete assolutamente sicuri della sua appartenenza ad uno Star Wars
club, e magari neanche ai vostri nipoti: il rispetto è l’unica cosa consolante della vecchiaia. Lasciata Djerba, siete pronti per situazioni più intensamente caratteristiche. Dirigetevi perciò ad Ovest, verso la città di Tozeur. Località di buone dimensioni, renderà più agevole la vostra avventura sahariana sia per la posizione rispetto ai siti da visitare, sia per i servizi offerti. In prossimità della città-oasi di Nefta, a Sud Ovest di Tozeur, si possono vedere i set più o meno naturali delle scene in esterna nel deserto di A New Hope: percorrendo una strada sconsigliabile nella stagione delle piogge, si arriva a Chott el Jerid. Qui era stato ricreato il paesaggio lunare della fattoria di zio Owen, con i crateri sui bordi dei quali il giovane Skywalker sedeva, guardando tristemente i soli gemelli di Tatooine. Visitando questo sito, dovrete superare una naturale irritazione per le difficoltà riscontrabili nei tentativi di immedesimarsi: non ci sono residuati del set, ed anzi, i crateri stessi sono attualmente riempiti. Inoltre, la civiltà non è abbastanza lontana per consentirvi un buon viaggio di fantasia; Nefta, infatti, dista circa una ventina di chilometri, e ci sono punti da cui appare tranquillamente all’orizzonte. Le cards americane da collezione, con i fotogrammi dei film, si rivelano essenziali per ritrovare le giuste angolazioni di ripresa, riscoprendo così la magia del luogo; senza contare che finalmente si svela l’arcano su quale fosse la possibile utilità di oggetti del genere. Quando ne avrete abbastanza di crateri, puntate pure su La Grande Dune, a Nord Ovest verso il confine algerino. È piuttosto difficile sbagliare, perché parliamo ora di una delle zone turistiche più famose di tutta la Tunisia. Seguite le indicazioni per il Café Des Dunes, e vi ritroverete immersi nel mare di sabbia in cui avete visto e rivisto C1-P8 e D3-PO arrancare, gli Stormtrooper dell’impero seguirli, e poi i Jawas, ed i Sandcrawlers con i loro curiosi ed enormi animali. Può anche darsi che vi imbattiate in uno scheletro di Krayt Dragon, ma io non ci conterei troppo; ad onor del vero, dobbiamo avvisarvi sulla reale consistenza di questo scampolo di Sahara: La Grand Dune è per lo più un gruppo di dune isolate, che
danno l’impressione di essere infinite se mostrate con determinati accorgimenti. La cosa non era ovviamente sfuggita a Lucas ed ai suoi, capaci di ricostruire un enorme deserto a pochi passi dallo stesso caffè in cui probabilmente ci si sbronzava dopo, e qualche volta durante, le riprese. Non sarà comunque difficile a voi, memori di mille e mille visioni di A New Hope, trovare le posizioni adatte per abbandonarvi alla suggestione. Un consiglio: se non vi siete imbattuti nello scheletro di Krayt Dragon, evitate di acquistarne dai locali prima di un accurato controllo. Lo scheletro originale era in fibra di vetro, grigio da un lato e bianco dall’altro; riproduceva solo metà dell’osso, poiché l’altra metà poggiava sulla sabbia, e ne era visibile all’interno la caratteristica struttura plastica. Capirete che, a ventitré anni di distanza, la possibilità che qualcuno abbia ancora degli originali è piuttosto scarsa, e rischiate quindi di acquistare pezzi da un vero fossile di allosauro o di triceratopo. Dopo questa esperienza, ritornate tranquillamente verso Tozeur, da dove, dirigendovi ad Est, riuscirete a visitare il piccolo canyon di Sidi Bohulel. Qui sono state filmate le scene “rocciose” di Tatooine in A New Hope: ricordiamo l’agguato dei Sandcrawlers, la cattura di C1-P8 da parte dei Jawas, e l’incontro tra Luke ed Obi-Wan. L’ultimo dei siti che vi consigliamo di visitare è probabilmente il più suggestivo; si trova a Nord Ovest di Tozeur, ma per raggiungerlo dovreste prendere lì una guida. L’insediamento, perché di questo si può parlare, è nel bel mezzo del deserto, e vi si arriva su di una strada di sabbia battuta “non ufficiale”. fu costruita a spese della produzione del film Il Paziente Inglese, per effettuare alcune riprese esterne. La località è Chott el Gharsa, si trova molto vicina al confine algerino, ed è attualmente gestita da agenzie turistiche governative. Qui potrete visitare un’intera cittadina sul pianeta Tatooine, ricostruita per le riprese di La minaccia fantasma con complessità e precisione ammirevoli. Vi aggirerete tra le vie di Mos Espa, lasciandovi liberamente coinvolgere dalla sua atmosfera extraterrestre, anche perché la cosa “terrestre” più vicina è a più di trenta chilometri. La possibilità di interazione con l’ambiente è quasi totale, più che in qualunque altro posto
del genere: la finzione del cinema non è costretta in nessun modo a patti con la realtà, e se c’è un posto sulla terra in cui esista un pezzo di quel “posto più lontano dal centro luminoso dell’universo”, è a Chott el Gharsa. Sembra inoltre che ci sia una discarica nei dintorni, in cui si possono ritrovare pezzi di scarto delle lavorazioni; per quelli di voi abituati a frugare nei bidoni della spazzatura della Kenner, a Cincinnati, in cerca del più recente prototipo di giocattolo di Star Wars, sarà un vero paradiso. Oltre alla sensazione di dislocazione spaziotemporale del set artificiale, forti emozioni possono essere fornite al cultore anche da alcuni set più o meno naturali nelle vicinanze: sono rintracciabili la spianata della gara dei “podracers”, o le sabbie su cui si svolge il primo combattimento di spada laser tra Qui-Gon Jinn e il malvagio Darth Maul. Chiudiamo questo rapporto semiserio sussurrandovi all’orecchio un’indiscrezione: pare (dico, pare…) che l’ottimo stato di conservazione di questi ultimi siti lasci presagire, assieme a voci raccolte qua e là, un ritorno di Lucas sul luogo dei delitti, in occasione delle riprese di Episode II. Se pertanto avete intenzione di intraprendere un pellegrinaggio in Tunisia, il suggerimento è di tenere le orecchie bene aperte, perché non si sa mai chi potreste incontrarci…. Vi auguriamo perciò un buon viaggio, con la speranza di avervi invogliato ad un soggiorno intrigante anche al di là della vostra singolare monomania.
WHO’S WHO I personaggi di Star Wars
Fiorenzo Delle Rupi e Federico Magni
LA TRILOGIA “CLASSICA”
Luke Skywalker (interpretato da Mark Hamill) Un giovane contadino di Tatooine che sogna di unirsi alla Ribellione contro l’Impero, e il protagonista della seconda trilogia. Entrato nei Ribelli, inizia anche ad apprendere le vie della Forza e ad addestrarsi per diventare l’ultimo dei cavalieri Jedi. Ma anche questo potrebbe non prepararlo ad affrontare la terribile verità sulla reale identità di suo padre, il più crudele degli agenti Imperiali: Darth Vader.
Principessa Leia Organa (interpretata da Carrie Fisher) Giovane ex-senatore di Alderaan e uno dei leader segreti dell’Alleanza Ribelle, è costretta a dedicarsi totalmente alla Ribellione quando l’Impero decide di fare uso della sua nuova arma, la Morte Nera, per distruggere il suo pianeta natale. Nel corso della lotta contro la Ribellione Leia scoprirà di essere anche lei segretamente parte della famiglia Skywalker, e incontrerà l’amore nei panni del contrabbandiere corelliano Han Solo.
Han Solo (interpretato da Harrison Ford) Un contrabbandiere corelliano capitano della malandata nave da trasporto Millennium Falcon. Anche se con riluttanza, Han abbandona gradualmente la sua vita di cinismo e di traffici di bassa lega per aiutare la Ribellione. Ma un vecchio debito mai saldato col boss del crimine Jabba the Hutt lo metterà in una situazione assai pericolosa.
Obi-Wan Kenobi (interpretato da Alec Guinness) Un vecchio eremita di Tatooine che si rivela essere uno dei cavalieri Jedi degli ultimi giorni della Vecchia Repubblica. Inizia l’addestramento di Luke nelle vie della Forza e avvia il giovane verso il proprio destino, ma gli nasconde la verità sulle sue origini. Obi-Wan è stato anche il maestro di Anakin Skywalker, il Jedi voltosi al Lato Oscuro della Forza e diventato Darth Vader, l’Oscuro Signore dei Sith.
Darth Vader (interpretato da Dave Prowse, voce di James Earl Jones) Un tempo un abile cavaliere Jedi e un potente guerriero e pilota, Anakin Skywalker venne sedotto e corrotto dal Lato Oscuro della Forza: si inchinò davanti all’Imperatore e
sterminò per suo volere l’ordine dei cavalieri Jedi. Orribilmente sfigurato in un passato duello con Obi-Wan, è ora costretto a nascondere il suo volto dietro una maschera e a respirare attraverso un supporto artificiale. Vader comanda le forze dell’Impero con ferocia e determinazione, ma quando scopre di avere un figlio rimasto fedele al Lato Chiaro della Forza e che combatte per la Ribellione, vecchie scintille del suo io di un tempo sembrano riaccendersi.
Imperatore Palpatine (interpretato da Ian Mc Diarmid) Ai tempi della Repubblica, un semplice e anonimo senatore. Ma con l’astuzia, l’inganno e il Lato Oscuro della Forza, Palpatine riuscì a farsi eleggere prima cancelliere e poi a proclamarsi Imperatore. Una volta ottenuto il potere e fondato l’Impero, ha instaurato un regime di terrore e di violenza in tutta la galassia, in parte grazie anche all’aiuto del suo servitore più potente, Darth Vader, che ha sterminato per lui i suoi unici avversari degni di contrastarlo, i cavalieri Jedi. Ma, quando Luke Skywalker entra nella lotta per la libertà della Galassia, l’Imperatore avverte un pericolo e progetta di ripetere l’opera di corruzione esercitata sul padre anche sul figlio.
Grand Moff Tarkin (interpretato da Peter Cushing) Il più brillante e crudele degli ufficiali Imperiali, a carico della nuova arma dell’Impero, la Morte Nera, il progetto che dovrebbe porre fine alla Ribellione e consegnare l’intera
galassia nelle mani dell’Imperatore. Tarkin, glaciale e scaltro, con il potere della stazione da battaglia nelle sue mani infligge un tragico colpo alla Ribellione con la distruzione del pianeta Alderaan. Ma la sua fiducia nella tecnologia e nella superiorità dell’Impero potrebbero essere eccessive.
Lando Calrissian (interpretato da Billy Dee Williams) Vecchio compagno di scorribande di Han Solo che, a differenza dell’amico, ha scelto la via del successo senza compromettersi nella guerra civile, e ha deciso di rimanere al di fuori della lotta tra Impero e Ribellione, fondando la splendida colonia mineraria di Cloud City. Ma quando Han, in cerca di un rifugio, porta inconsapevolmente gli Imperiali a Cloud City, Lando si troverà costretto a scegliere tra la fedeltà a un vecchio amico e la sopravvivenza della sua città.
Yoda (animato da Frank Oz) Un vecchio e saggio Maestro Jedi di novecento anni sfuggito alla sterminio perpetrato dall’Impero nascondendosi sul remoto pianeta Dagobah, e un tempo maestro di Obi-Wan Kenobi. Dopo la morte di Kenobi è Yoda a proseguire l’addestramento di Luke, ma anche lui è riluttante a rivelare al ragazzo la verità sul destino di suo padre.
Boba Fett
(interpretato da Jeremy Bulloch) Un misterioso e letale cacciatore di taglie mascherato e protetto da una leggendaria armatura da battaglia mandaloriana. Boba Fett, silenzioso ed efficiente, è il miglior sicario della galassia; e quando sia l’Impero che Jabba the Hutt mettono una taglia su Han Solo, Fett è il primo a mettersi sulle sue tracce.
Jabba the Hutt (animato da Stuart Freeborn e poi generato al computer) Creatura vermiforme a capo di una vasta organizzazione criminale, Jabba è capriccioso e crudele nella gestione dei suoi affari. Nel momento in cui Han Solo fallisce nel saldare un debito verso di lui, Hutt decide di farne un esempio per tutti gli altri suoi sgherri.
C-3PO (interpretato da Anthony Daniels; nell’edizione italiana chiamato D-3BO) Un droide protocollare loquace e nervoso, dai molti tic e atteggiamenti fin troppo umani. Avvezzo a diplomazia e traduzione, 3PO è perennemente sconvolto e spaventato dalle molte situazioni pericolose e battaglie che il servizio nella Ribellione comporta. Lavora in coppia con la sua controparte, il droide astromeccanico R2-D2.
R2-D2 (interpretato da Kenny Baker; C1-P8 nell’edizione italiana) Piccolo robot addetto alle riparazioni meccaniche e abile “hacker” di computer, si esprime solo attraverso una bizzarra serie di fischi. A differenza della sua controparte, C-3PO, che traduce i suoi messaggi per lui, R2 è testardo, impulsivo e fin troppo temerario.
Chewbacca (interpretato da Peter Mayhew) Un gigantesco wookiee bicentenario dall’aspetto intimidatorio e dalla smisurata forza bruta, è in realtà una creatura assai percettiva e dotata di un incrollabile senso della fedeltà. Funge da copilota, amico e guardia del corpo di Han Solo, verso il quale ha un debito di vita, che accompagna in tutte le sue imprese.
EPISODIO I
Qui-Gon Jinn (interpretato da Liam Neeson)
Un maestro Jedi dai modi poco ortodossi, spesso in contrasto con le decisioni ufficiali del Concilio Jedi. Ha sotto di sé un suo apprendista, il giovane Obi-Wan Kenobi; ma quando, nel corso della fuga dal pianeta Naboo, incontra il piccolo schiavo di nome Anakin, si convince che il ragazzo potrebbe essere l’eletto che tutti gli Jedi stanno attendendo e decide di addestrarlo personalmente.
Obi-Wan Kenobi (interpretato da Ewan Mc Gregor) Un padawan (“apprendista”) Jedi tanto serio e ponderato quanto il suo Maestro, Qui-Gon Jinn, sembra avventato e impulsivo. Anche Obi-Wan rimane coinvolto nella lotta per liberare Naboo, e pur emergendone vittorioso, erediterà dal suo maestro il difficile compito di addestrare il piccolo Anakin. Divenuto un eminente cavaliere Jedi, ha un ruolo principale nella difesa della Repubblica e nello sventare l’attacco dei Cloni. Affronta l’ex allievo Anakin, passato al Lato Oscuro, in uno scontro all’ultimo sangue.
Regina Amidala (interpretata da Natalie Portman) Giovanissima sovrana del pianeta Naboo, è forte e decisa nel volere il meglio per la sua gente, ma ancora inesperta: non sa come reagire di fronte alla strana e inspiegabile invasione del suo pianeta da parte delle forze della Federazione Commerciale, e cerca l’aiuto della Repubblica e dei Cavalieri Jedi. In situazioni d’emergenza è solita travestirsi da semplice ancella, Padmè Naberrie, e esplorare ciò che gli occhi della
regina non potrebbero vedere. Si innamora di Anakin Skywalker, ma non riesce a cambiarne l’indole impulsiva. Da questa relazione Amidala darà alla luce due gemelli: Luke e Leia.
Anakin Skywalker (interpretato da Hayden Christensen) Il personaggio principale della Nuova trilogia. Piccolo schiavo del pianeta Tatooine, predilige le corse di Pod Racer ed aspira ad un futuro migliore per la madre Shmi Skywalker. Addestrato da Obi-Wan Kenobi, è predestinato a diventare cavaliere Jedi grazie alle sue straordinarie capacità e nonostante un carattere irruento e impulsivo. Incaricato di proteggere la regina Amidala se ne innamora, ricambiato, ma viene sedotto dal Lato Oscuro della Forza.
Darth Maul (interpretato da Ray Park) Un letale e feroce guerriero Sith, maestro nelle arti marziali di combattimento e insuperato guerriero nell’uso della spada laser a due lame. Come tutti i Sith, Maul è costretto a vivere nell’ombra e a tramare vendetta contro gli Jedi, che li hanno quasi distrutti. Ora, grazie a un piano concepito dal maestro di Maul, Darth Sidious, i Sith si apprestano ad avere la loro vendetta.
Darth Sidious
(interprete ignoto) L’attuale Maestro Sith è una figura enigmatica e sfuggente che, apparendo solo via ologramma e col volto perennemente coperto da un cappuccio, ordisce una complicata trama per distruggere la Repubblica stessa. Maul è il suo servitore più fedele, ma Sidious può contare anche sulla potenza militare della Federazione Commerciale, sua alleata, e su molti appoggi politici all’interno del Senato Repubblicano.
Jar Jar Binks (interpretato da Ahmed Best) Un alieno gungan maldestro e goffo, che è stato esiliato dai suoi pari e che finisce per aggregarsi ai due cavalieri Jedi nella loro lotta per la liberazione di Naboo. Anche se in maniera maldestra e inconsapevolmente, Jar Jar riuscirà a riconciliare la sua razza col resto della popolazione del pianeta e con la Regina Amidala.
Boss Nass (interpretato da Brian Blessed) Il sovrano dei Gungan, possente e intimidatorio, vede di cattivo occhio sia la popolazione umana di Naboo che gli invasori della Federazione Commerciale. Ma quando arriva il momento di scendere in battaglia, Nass saprà mettere da parte i suoi pregiudizi e lottare di fianco agli umani per la liberazione del pianeta.
Senatore Palpatine (interpretato da Ian McDiarmid) Dapprima senatore del pianeta Naboo, viene eletto cancelliere della Repubblica. Attira nel Lato Oscuro prima il Conte Dokku poi Anakin Skywalker, quest’ultimo con la prospettiva di poter salvare la principessa Amidala. Pianifica la distruzione dell’Ordine dei cavalieri Jedi e si pone a capo dell’Impero Galattico, manovrando nell’ombra grazie a una seconda identità.
Valorum (interpretato da Terence Stamp) L’attuale Cancelliere Repubblicano vive un momento di crisi a causa della delicata situazione che la Federazione Commerciale ha scatenato invadendo il pianeta di Naboo. Non riuscendo a gestire la crisi in maniera definitiva, e non intuendo i molti complessi giochi di potere attorno a lui, Valorum viene presto destituito.
Shmi Skywalker (interpretata da Pernilla August) La madre di Anakin, anche lei schiava, conduce una vita triste e semplice sul pianeta di Tatooine. Ama e protegge il figlio, ma nasconde un triste segreto sulla sua nascita che pare turbarla e preoccuparla. Il suo tragico destino conduce il figlio ad abbracciare il Lato Oscuro.
Nute Gunray e Rune Haako (interpretati da Silas Carson e Jerome Blake) I leader della Federazione Commerciale, alieni Neimoidians codardi e titubanti mossi solo dall’avidità. Nella speranza di risolvere un annoso problema di tassazioni, si lasciano convincere dal misterioso Darth Sidious a invadere il pacifico pianeta Naboo con un’armata di droidi per sfidare le autorità Repubblicane.
Yoda (animato e doppiato da Frank Oz) Uno dei membri più anziani del Concilio Jedi di Coruscant, e amico di Mace Windu, pare essere l’unico ad avvertire il pericolo e il rischio che un eventuale addestramento di Anakin nell’uso della Forza comporterebbe; ma alla fine, contro il suo parere, il Concilio concede il suo permesso. Saggio e riflessivo, all’occasione può sfoderare grandi doti di combattente.
Mace Windu (interpretato da Samuel Jackson) Carismatico e autorevole, è inizialmente contrario a far di Anakin un cavaliere Jedi, secondo la proposta di Qui-Gon
Jinn, ma alla fine affida il piccolo Skywalker all’insegnamento di Obi-Wan Kenobi. Tra i protagonisti delle battaglie della Repubblica, salva la vita alla principessa Padme, ad Anakin ed a Obi-Wan, ed uccide il cacciatore di taglio Jango Fett. Tenta di arginare l’ascesa di Darth Sidious, con il quale ingaggia un duello mortale.
Conte Dokku (interpretato da Christopher Lee) Cavaliere Jedi tra i più potenti e rispettati, allievo di Yoda e maestro di Qui-Gon Jinn. Sedotto dal lato oscuro della Forza, entra al servizio del senatore Palpatine, organizza la Confederezione dei Sistemi Indipendenti (Confederazione Separatista) e dà inizio alla Guerra dei cloni. Maestro nell’uso della spada, nel corso della trilogia si confronta con Yoda, Obi-Wan Kenobi e Anakin Skywalker.
Generale Grievous (animato al computer, voce di Matthew Wood) Fatto costruire dal Conte Dokku è un cyborg, dotato di struttura meccanica ed organi alieni, comandante dell’armata dei droidi appartenti alla Confederazione separatista. Cruento e spietato è, assieme al Conte Dokku, il braccio armato del senatore Palpatine nella scalata al potere.
Watto (animato al computer, voce di Andrew Secombe)
Un alieno Toydarian gestore di un’officina meccanica su Tatooine e proprietario, tra le altre cose, di Anakin e di sua madre, che tiene come schiavi. Watto ha una smodata passione per il gioco d’azzardo, e in occasione di una corsa di Podracer finisce per contendersi a suon di scommesse con Qui-Gon Jinn la proprietà di Anakin e di Shmi.
Sebulba (animato al computer, voce di Lewis MacLeod) Un alieno Dug campione di Podracer e baro consumato. È l’idolo delle folle e degli sportivi di Tatooine, e ha sviluppato un’accanita rivalità con l’ultimo arrivato dei corridori, il piccolo Anakin Skywalker.
C-3PO (interpretato da Anthony Daniels e animato al computer) Un prototipo di droide protocollare che Anakin, nel suo tempo libero, sta finendo di costruire. Il droide sembra essere funzionante, ma è ancora completamente privo di una qualsiasi placcatura esterna.
R2-D2 (interpretato da Kenny Baker)
Un droide astromeccanico di servizio a bordo dell’astronave reale della Regina Amidala. Dopo aver salvato la nave e i suoi occupanti durante la fuga dal pianeta, rimane al fianco della regina e dei suoi accompagnatori nel corso delle avventure che seguono.
Capitano Panaka (interpretato da Hugh Quarshie) Protettore e guardia del corpo della Regina Amidala, vive con sofferenza e impotenza l’invasione del suo pianeta da parte delle forze della Federazione, e esprime ancora più preoccupazione per i numerosi rischi a cui la Regina viene sottoposta nel corso della sua fuga assieme ai Cavalieri Jedi.
Il Risveglio della Forza Rey (interpretata da Daisy Ridley) Abitante del deserto, si guadagna da vivere saccheggiando relitti di astronavi, finché non rinviene lo sperduto BB-8. Inseguita dalle truppe del Primo Ordine, fugge assieme a Finn sul Millenium Falcon. Le sue capacità e il suo spirito indipendente suscitano l’ammirazione di Han Solo. Trova la spada appartenuta a Luke Skywalker e, dopo una iniziale ritrosia, si impegna per riportarla al legittimo proprietario.
Finn (interpretato da John Boyega) Soldato dell’esercito del Primo Ordine, diserta e aiuta nella fuga Poe Dameron. L’incontro con Rey gli fornisce le motivazioni per unirsi del tutto alle forze ribelli. Guida Han Solo e Chewbacca all’interno della base Starkiller e combatte a fianco di Rey contro Kylo Ren.
Kylo Ren (Adam Driver) Comandante del Primo Ordine, discepolo del leader supremo Snorke, è temuto per i poteri telepatici. Aspira alla grandezza di Darth Vader, di cui venera la memoria, ma non ha ancora il pieno controllo dei poteri derivati dal Lato Oscuro. Combatte con una spada laser di sua fabbricazione. L’ambizione lo conduce ad una drammatica scelta.
Maz Kanata (interpretata in CGI da Lupita Nyong’o) Ultramillenaria piratessa aliena, gestisce un bar nel suo castello sul pianeta Takodana. Sensitiva della Forza, fornisce supporto ai ribelli con i suoi poteri di veggenza. Nei sotterranei del castello è custodita la spada laser appartenuta a Luke Skywalker.
BB-8 Droide di ultima generazione, appartiene a Poe Dameron e custodisce il frammento di mappa che svela il rifugio di Luke Skywalker. Si ricongiunge al padrone dopo essere sfuggito alle truppe del Primo Ordine, grazie all’intervento di Rey e Finn. Nel corso della fuga entra in contatto con C3-PO ed il suo consimile R2-D2. Come quest’ultimo, si esprime attraverso emissione di suoni.
Poe Dameron (interpretato da Oscar Isaac) Provetto pilota, è un esponente di rilievo della fazione ribelle. Inviato dalla principessa Organa sul pianeta Jakku, è catturato da Kylo Ren, ma viene fatto fuggire da Finn, con cui stringe una salda amicizia.
Snoke (interpretato in CGI da Andy Serkis) Capo supremo del Primo Ordine e depositario delle forze del Lato Oscuro, appare a Kylo Ren ed al Generale Hux in proiezione olografica, così come era solito fare Darth Sidious.
Generale Hux (interpretato da Domhall Gleeson)
Ufficiale del Primo Ordine, è a capo della stazione operativa Starkiller. Non possiede poteri legati al Lato Oscuro, ma è un convinto assetore della disciplina ed esercita la sua autorità con estrema efficienza.
Lor San Tekka (interpretato da Max Von Sydow) Antico alleato di Leia e Luke ritiratosi sul pianeta Jakku, viene contattato da Poe Dameron, mandato dalla principessa per cercare di rintracciare il fratello. All’arrivo delle truppe imperiali, Lor San Tekka affida all’androide BB-8 il documento mancante per trovare il rifugio di Luke Skywalker.
Rogue One Jyn Erso (interpretata daFelicity Jones) Figlia di Galen Erso, rimane da sola dopo che il padre viene portato via dalle truppe imperiali e viene cresciuta dal capo ribelle Saw Gerrera. Indipendente e combattiva, è sottratta ai lavori forzati dalle forze dell’Alleanza, che mirano attraverso lei a rintracciare Galen Erso. Da un messaggio recapitato a Gerrera viene a sapere che il padre ha approntato un punto debole all’interno della Morte Nera e si adopera per sottrarre i piani di costruzione dell’astreroide e farli avere all’Alleanza.
Galen Erso (interpretato da Madds Mikkelsen) Brillante scienziato, contrario alle mire dell’Impero, viene costretto con la forza a riprendere le ricerche per il completamento della Morte Nera. Finge di collaborare ma nel contempo invia un messaggio alla figlia Jyn per rivelarle di aver predisposto un punto debole nella difesa del pianeta killer.
Cassian Andor (interpretato da Diego Luna) Capitano della fazione ribelle, convince Jyn Erso a guidarlo dove il padre di lei sta lavorando alla Morte Nera, ma con ordini diversi dal liberarlo. Quando il congresso dell’Alleanza è diviso sul seguire le indicazioni di Jyn e tentare di impossesarsi dei piani della Morte Nera, Cassian recupera le sue motivazioni alla causa e si schiera a fianco della ragazza in una missione disperata.
K-2SO (interpretato in CGI da Alan Tudyk) Droide imperiale riprogrammato (come usa definirsi lui stesso), K-2SO unisce dimensioni imponenti (più di due metri) ad una personalità pragmatica con punte frequenti di sarcasmo, ma la sua fedeltà a Cassian Andor è fuori discussione. Pur
commentando criticamente le missioni in cui è coinvolto, prende generosamente le difese dei ribelli.
Chirrut Îmwe (interpretato da Donnie Yen) Guerriero esperto nella disciplina del combattimento col bastone, supplisce alla cecità con una sorprendente sveltezza e precisione dei colpi, tanto da essere considerato imbattibile nel confronto ravvicinato. A differenza del suo amico Baze Malbus, è un convinto assetore delle proprietà della Forza e la sua spiritualità lo sostiene attraverso le situazioni più rischiose.
Baze Malbus (interpretato da Wen Jiang) All’apparenza un mercenario dall’atteggiamento cinico e pragmatico, è in realtà inseparabile da Chirrut Îmwe, tanto da seguirlo anche in cause disperate. A differenza di quest’ultimo combatte con armi da fuoco. Incontra i ribelli a Jedha e ne condivide le sorti fino alla missione su Scarif.
Saw Gerrera (interpretato da Forest Whitaker) Capo di una unità ribelle, trae in salvo la piccola Jyn Erso dai soldati imperiali. Quando la stessa lo rintraccia su Jedha, Guerrera si è posto ai margini della ribellione conducendo una
guerra personale contro gli emissari dell’Impero, tanto da essere considerato un estremista dallìAlleanza. Fornisce a Jyn un indizio fondamentale per rintracciare il padre di lei. Bodhi Rook (interpretato da Riz Ahmed) Pilota imperiale disertore. Garlen Erso gli affida un messaggio da recapitare a Saw Gerrera ma Bodhi è guardato con sospetto dai sodali di Gerrera. L’incontro con Jyn Erso e la pattuglia dei ribelli gli restituisce la fiducia necessaria a partecipare alle azioni contro le mire imperiali.
Grand Moff Tarkin (interpretato da Guy Henry) Governatore al servizio diretto dell’Imperatore, Tarkin si batte con Orson Krennic per il comando della nuova arma, la Morte Nera. Efficiente esecutore e spietato con chi ne minaccia l’autorità, non esita a servirsi della forza distruttiva del satellite per combattere l’assalto dei ribelli agli archivi imperiali.
Orson Krennis (interpretato da Ben Mendelsohn) Direttore della Divisione di Ricerca Armi Avanzate dell’Impero, arruola a forza Galen Erso per completare la costruzione del nuovo satellite di attacco. Ambizioso e
arrivista, conta di arrivare al servizio dell’Imperatore grazie alle capacità offensive della nuova arma e si pone in contrasto con il Governatore Tarkin.
FILMOGRAFIA Federico Magni
Star Wars / Star Wars - Episode IV: A New Hope (Guerre stellari - Episodio IV: Una nuova speranza, 20th Century-Fox, 25 maggio 1977) 121 minuti Regia George Lucas Produttore Gary Kurtz per la Lucasfilm Ltd. Produttore esecutivo George Lucas Soggetto e sceneggiatura George Lucas Supervisore alla produzione Robert Watts Regia seconda unità Gary Kurtz, Robert Watts Direttore della fotografia Gilbert Taylor Fotografia seconde unità Carroll Ballard, Rick Clemente, Robert Dalva, Tak Fujimoto Operatori alla macchina Ronnie Taylor, Geoff Glover Musiche John Williams eseguite dalla London Symphony Orchestra Orchestrazioni Herbert W. Spencer Montaggio Paul Hirsch, Marcia Lucas, Richard Chew Assistenti al montaggio Todd Boekelheide, Jay Miracle, Colin Kitchens, Bonnie Koehler Scenografia John Barry Direzione artistica Norman Reynolds, Leslie Dilley, Harry Lange Direzione artistica seconda unità Leon Ericksen, Al Locatelli Arredamenti Roger Christian Costumi John Mollo Supervisione trucco Stuart Freeborn Trucco Kay Freeborn, Graham Freebron, Christopher Tucker Trucco seconda unità
Rick Baker, Douglas Beswick, Laine Liska, Jon Berg, Phil Tippett, Rob Bottin Acconciature Pat McDermott llustrazioni Ralph McQuarrie, Michael Minor, Alex Tavoularis Casting Irene Lamb, Diane Crittenden, Vic Ramos Supervisione script Ann Skinner Coordinatore stunt Peter Diamond Design titoli Dan Perri Aiuto regista Tony Waye Secondi aiuto regista Gerry Gavigan, Terry Madden Fotografo di scena John Jay Tecnico delle luci Ron Tabera Capo attrezzista Frank Bruton Attrezzista Phil MacDonald Creazione dialoghi speciali ed effetti sonori Ben Burtt Supervisione montaggio suono Sam Shaw Montatori suono Robert R. Rutledge, Gordon Davidson, Gene Corso Assistenti montaggio suono Roxanne Jones, Karen Sharp Fonico di produzione Derek Ball Registrazione musica Eric Tomlinson eseguita presso la Anvil Films Ltd. Ri-registrazione musiche John Neal Supervisione montaggio musiche Kenneth Wannberg Missaggio effettuato presso gli studi Samuel Goldwyn (supervisore Don Rogers) Tecnici di missaggio Don MacDougall (musiche), Ray West (dialoghi), Bob Minkler (effetti sonori), Richard Portman, Robert J. Litt, Les Fresholtz, Michael Minkler Consulente Dolby Stereo Stephen Katz Effetti visivi Industrial Light & Magic Inc., a Division of Lucasfilm Ltd. Unità effetti visivi - General Manager Jim Nelson Supervisore John Dykstra Operatore Richard Edlund Secondo operatore Dennis Muren Operatore seconda unità Bruce Logan Assistenti operatori Douglas Smith, Kenneth Ralston, Direzione artistica Joe Johnston Composizione ottica Robert Blalack (Praxis Film Works Inc.) Coordinatore Paul Roth Addetti stampante ottica David Berry, David McCue, Richard Pecorella, Eldon Rickman, James Van Trees, Jr. Assistenti Caleb Aschkynazo, John C. Moulds, Bruce Nicholson, Gary Smith, Bert Terreri, Donna Tracy, Jim Wells, Vicky Witt, Mark Vargo Matte painting P. S. (Harrison) Ellenshaw Disegnatore pianeti e satelliti Ralph McQuarrie Consulente mascherini scorrevoli Stanley Sayer Progettista
aggiunto astronavi Colin Cantwell Capo modellista Grant McCune Modellisti Steve Gawley, Lorne Peterson, Paul Huston, David Beadsley, Jonathan Erland, David Jones Progettista animazione e rotoscope Adam Beckett Animatori Michael Ross, Peter Kuran, Jonathan Seay, Chris Casady, Lyn Gerry, Diana Wilson, Nina Saxon Animazione a passo uno Jon Berg, Phil Tippett Tecnico animazione Laine Liska Effetti pirotecnici Joseph Viskocil, Greg Auer Animazione e grafica computerizzate Dan O’Bannon, Larry Cuba, John Wash, Jay Teitzell, Image West Design elettronico Alvah J. Miller, Jerry Jeffress Effetti elettronici Ron Hayes Componenti speciali James Shourt Progettazione fotografica e meccanica Don Trumbull, Richard Alexander, William Shourt Equipaggiamento fotografico e meccanico Jerry Greenwood, Douglas Barnett, Stuart Ziff, David Scott Supervisori ottici aggiuntivi Dan Genis, Ray Mercer Sr., Frank Van Der Veer, Dick Bond, Les Bowie Effetti ottici aggiuntivi Modern Film Effects, Van Der Veer Photo Effects, Ray Mercer & Company, Master Film Effects, De Patie-Freleng Enterprises Inc. Supervisore effetti meccanici John Stears Personaggi e interpreti Luke Skywalker Mark Hamill, Han Solo Harrison Ford, Carrie Fisher, Principessa Leia Organa Carrie Fisher, Ben (Obi-Wan) Kenobi Alec Guinness, C3PO (D3-BO) Anthony Daniels, R2D2 (C1-P8) Kenny Baker, Lord Darth Vader David Prowse, Grand Moff Tarkin Peter Cushing, Chewbacca Peter Mayhew, Voce di Darth Vader James Earl Jones, Owen Lars Phil Brown, Beru Lars Shelagh Fraser, Capo Jawa Jack Purvis, Gen. Dodonna Alex McCrindle, Gen. Willard Eddie Byrne, Capo Rosso Drewe Henley, Wedge Dennis Lawson, Biggs Garrick Hagon, John D Jack Klaff, Porkins William Hootkins, Capo Oro Angus McInnis, Oro Due Jeremy Sinden, Oro Cinque Graham Ashley, Generale Taggi Don Henderson, Generale Motti Richard Le Parmentier, Primo comandante imperiale Leslie Schofield Vedetta Lorne Peterson
Star Wars / Star Wars - Episode V: The Empire Strikes Back (Guerre stellari - Episodio V: L’impero colpisce ancora, 20th Century-Fox, 21 maggio 1980) 124 minuti Regia Irvin Kershner Produttore Gary Kurtz per la Lucasfilm Ltd. Produttore esecutivo George Lucas Produttori associati Robert Watts, James Bloom Soggetto George Lucas Sceneggiatura Leigh Brackett, Lawrence Kasdan Supervisore alla produzione Bruce Sharman Regia seconda unità (in studio) Harry Corliss, John Barry Direttore della fotografia Peter Suschitzky Fotografia seconde unità Chris Menges (in studio), Geoff Glover (esterni) Operatori alla macchina Kelvin Pike, David Garfath, Bob Smith (esterni) Musiche John Williams eseguite dalla London Symphony Orchestra Supervisore musiche Lionel Newman Orchestrazioni Herbert W. Spencer Montaggio Paul Hirsch Assistenti al montaggio Duwayne Dunham, Phil Sanderson, Barbara Ellis, Steve Starkey, Paul Tomlinson Scenografia Norman Reynolds Consulente visivo e artista concettuale Ralph McQuarrie Direzione artistica Leslie Dilley, Harry Lange, Alan Tomkins Arredamenti Michael Ford Assistenti scenografi Michael Lamont, Fred Hole Costumi John Mollo Supervisione trucco e ideazione creature Stuart Freeborn Capo truccatore Graham Freebron Truccatori Kay Freeborn, Nick Maley Acconciature Barbara Ritchie llustratore di produzione Ivor Beddoes Casting Irene Lamb, Terry Liebling, Bob Edmiston Coordinatore stunt Peter Diamond Maestro d’armi e controfigura Bob Anderson Aiuto regista David Tomblin Secondi aiuto regista Steve Lanning, Roy Button Fotografo di scena George Whitear Tecnico delle luci Laurie Shane Capo attrezzista Frank Bruton Supervisore Attrezzistica Charles Torbett Creazione suoni e supervisore montaggio suono Ben Burtt Montatori suono Richard Burrow, Teresa Eckton, Bonnie Koehler Assistenti montaggio suono John Benson, Joanna Cappuccilli, Ken Fischer, Craig Jaeger, Nancy Jencks, Laurel
Ladevich Montatori effetti Foley Robert Rutledge, Scott Hecker Fonico di produzione Peter Sutton Microfonista Don Wortham Registrazione musica Eric Tomlinson eseguita presso la Anvil Films Ltd. Ri-registrazione musiche John Neal Supervisione montaggio musiche Kenneth Wannberg Missaggio effettuato presso gli studi Samuel Goldwyn (supervisore Don Rogers) Tecnici di missaggio - Bill Varney (dialoghi),Steve Maslow (musiche), Gregg Landaker (effetti sonori) Montatori dialoghi Curt Shulkey, Leslie Shatz, Joanne D’Antonio Registrazione effetti sonori Randy Thom Tecnici di registrazione Gary Summers, Howie Hammermann, Kevin O’Connell Consulente Dolby Stereo Don Digirolamo Effetti visivi Industrial Light & Magic Inc., a Division of Lucasfilm Ltd. Unità effetti visivi - Supervisori Brian Johnson, Richard Edlund Consulente fotografia mascherini Stanley Sayer Direttore della fotografia effetti visivi Dennis Muren Direttori della fotografia aggiunti Kenneth Ralston, Jim Veilleux Operatori alla macchina Don Dow, Bill Neil Assistenti operatori Selwyn Eddy, Jody Westheimer, Rick Fichter, Clint Palmer, Michael McAlister, Paul Huston, Richard Fish, Chris Anderson Direzione artistica Joe Johnston Supervisore composizione ottica Bruce Nicholson Addetti stampante ottica David Berry, Kenneth Smith, Donald Clark, Warren Franklin, Mark Vargo, Peter Amundson, Loring Doyle, Thomas Rosseter, Tam Pillsbury, James Lim Coordinatore parte ottica Laurie Vermont Tecnici di laboratorio Tim Geideman, Duncan Myers, Ed Jones Direzione artistica Joe Johnston Assistente scenografo Nilo Rodis-Jamero Animazione a passo uno Jon Berg, Phil Tippett Tecnici animazione Tom St. Amand, Doug Beswick Animazione di Yoda Frank Oz Assistente animazione Yoda Kathryn Mullen Supervisore matte painting Harrison Ellenshaw Matte painting Ralph McQuarrie, Michael Pangrazio Fotografia effetti matte Neil Krepela Assistenti operatori effetti matte Craig Barron, Robert Elswit Fotografia matte aggiuntiva Michael Lawler Caposquadra reparto modellini Steve Gawley Capo modellista Lorne Peterson Modellisti Paul Huston, Tom Rudduck, Michael Fulmer, Samuel Zolltheis, Charles Bailey,
Ease Owyeung, Scott Marshall, Marc Thorpe, Wesley Seeds, Dave Carson, Rob Gemmel, Pat McClung Supervisore animazione e rotoscope Peter Kuran Animatori Samuel Comstock, Garry Waller, John Van Vliet, Rick Taylor, Kim Knowlton, Chris Casady, Nina Saxon, Diana Wilson Supervisore montaggio effetti visivi Conrad Buff Montaggio effetti visivi Michael Kelly Assistenti montatori Arthur Repola, Howard Stein Apprendista montatore Jon Thaler Fotografo di scena Terry Chostner Assistente di laboratorio Roberto McGrath Progettista sistemi elettronici Jerry Jeffress Programmazione sistemi Kris Brown Tecnici elettronica Lhary Meyer, Mike MacKenzie, Gary Leo Coordinatore progetti speciali Stuart Ziff Supervisore equipaggiamento tecnico Gene Whiteman Progettista Mike Bolles Macchinisti Udo Pampel, Greg Beaumonte Disegnatore Ed Tennler Progetti speciali Gary Platek Progettista ottiche speciali David Grafton Effetti pirotecnici miniature Joe Viskocil, Dave Pier, Thaine Morris Effetti ottici aggiuntivi Van Der Veer Photo Effects, Modern Film Effects, Ray Mercer & Company, Westheimer Company, Lookout Mountain Films Supervisore effetti meccanici Nick Allder Supervisore unità effetti (esterni) Allan Bryce Tecnici effetti senior Neil Swan, Dave Watkins Tecnici Phil Knowles, Barry Whitrod, Martin Gant, Brian Eke, Guy Hudson, Dennis Lowe Costruzione e supervisione robot Andrew Kelly, Rob Hone Personaggi e interpreti Luke Skywalker Mark Hamill, Han Solo Harrison Ford, Principessa Leia Organa Carrie Fisher, Lando Calrissian Billy Dee Williams, C3PO (D3-BO) Anthony Daniels, R2D2 (C1-P8) Kenny Baker, Darth Vader David Prowse, Yoda Frank Oz, Chewbacca Peter Mayhew, Ben (Obi-Wan) Kenobi Alec Guinness, Voce di Darth Vader James Earl Jones, Voce dell’Imperatore Clive Revill, Boba Fett Jeremy Bulloch, Lobot John Hollis, Capo Ugloste Jack Purvis, Wampa Des Webb, Forze imperiali: Ammiraglio Piett Kenneth Colley, Generale Veers Julian Glover, Ammiraglio Ozzel Michael
Sheard, Capitano Needa Michael Culver, Bewil Milton Johns, Ufficiali John Dicks, Mark Jones, Oliver Maguire, Robin Scobey Forze ribelli: Generale Rieekan Bruce Boa, Zev Senesca Christopher Malcom, Wedge Antilles Dennis Lawson, Derek ‘Hobbie’ Klivian Richard Oldfield, Dak Ralter John Morton, Wes Janson Ian Liston, Bren Derlin John Ratzenberger, Cal Alder Jack McKenzie, Romas ‘Lock’ Navander Jerry Harte, Tamizander Rey Norman Chancer, Trey Callum Norwich Duff, Tigran Jamiro Ray Hassett, Toryn Farr Brigitte Kahn, Wyron Serper Burnell Tucker, Generale McQuarrie Ralph McQuarrie Star Wars - Episode VI: The Return of the Jedi (Guerre stellari - Episodio VI: Il ritorno dello Jedi, 20th Century-Fox, 25 maggio 1983) 133 minuti
Regia Richard Marquand Produttore Howard Kazanjian per la Lucasfilm Ltd. Produttore esecutivo George Lucas Produttori associati Robert Watts, James Bloom Soggetto George Lucas Sceneggiatura George Lucas, Lawrence Kasdan Supervisore alla produzione Douglas Twiddy Regista seconda unità e primo aiuto regista David Tomblin Direttore della fotografia Alan Hume Fotografia in esterni Jim Glennon Fotografia seconda unità Jack Lowin Fotografia aerea Ron Goodman, Margaret Herron Riprese Steadicam Garrett Brown Riprese ultra velocità Bruce Hill Productions Musiche John Williams eseguite dalla London Symphony Orchestra Orchestrazioni Herbert W. Spencer Montaggio Sean Barton, Marcia Lucas, Duwayne Dunham Assistenti al montaggio Steve Starkey, Conrad Buff, Phil Sanderson, Nick Hosker, Debra McDermott, Clive Hartley Montaggio del negativo Sunrise Film Inc. Casting Mary Selwy Buckely Assistenti aiuto regista Roy Button, Michael Steele, Chris Newman Scenografia Norman Reynolds Ideazione visiva Ralph McQuarrie Direzione artistica Fred Hole, James Schoppe Arredamenti Michael Ford, Harry Lange Assistenti scenografi Michael Lamont, John Fenner, Richard Dawking Bozzettista Roy Carnon Costumi Agnes Guerard Rodgers, Nilo Rodis-Jamero Ideazione trucco Phil Tippett, Stuart Freeborn Capi truccatori Tom Smith, Graham Freeborn Truccatori Peter Robb King, Dickie Mills, Kay Freeborn, Nick Dudman Acconciature Patricia McDermott (responsabile), Mike Lockey, Paul Le Blanc Operatori alla macchina Alec Mills, Tom Laughridge, Mike Benson Tecnici messa a fuoco Michael Frift, Chris Tanner Assistenti operatori Leo Napolitano, Bob La Bonge Secondi assistenti operatori Simon Hume, Steve Tate, Martin Kenzie, Michael Glennon Tecnici delle luci Mike Pantages, Bob Bremner Capo macchinista Dick Dova Spah Fotografi di scena Albert Clarke, Ralph Nelson, Jr. Capo attrezzista Peter Hancock Coordinatore stunt Glenn Randall Organizzatore stunt Peter Diamond Maestro d’armi e controfigura Bob Anderson Creazione suoni Ben Burtt Montatori suono Richard Burrow, Teresa Eckton, Ken Fisher Montatori dialoghi Laurel Ladevich, Curt Schulkey, Bonnie Koehler, Vickie Rose Sampson Assistenti montaggio suono Chris Weir, Bill Mann, Gloria Borders, Suzanne Fox, Kathy Ryan, Nancy Jencks, Mary Helen Leasman Montatori effetti Foley Robert Rutledge, Scott Hecker Fonici di produzione Tony Dawe, Randy Thom Microfonisti David Batchelor, David Parker Versi canzoni Joseph Williams (Inglese) Annie Arbogast (Huttese) Ben Burtt (Ewokese) Registrazione musica Eric Tomlinson eseguita presso Anvil-Abbey Road Studio Supervisione montaggio musiche Kenneth Wannberg Missaggio effettuato presso Sprocket Systems, a Division of Lucasfilm Ltd.Tecnici di missaggio - Ben Burtt (effetti sonori),Gary Summers (dialoghi), Randy Thom (musiche), Roger Savage Ingegnere di missaggio Tomlinson Holman Assistenti Shep
Dawe, Jim Benson Tecnici audio T. M. Christopher, Catherine Coombs, Kris Handwerk, K. C. Hodenfield, Howie Hammermann, Tom Johnson, Brian Kelly, James Kessler, Susan Leahy, Robert Marty, Scott Robinson, Dennie Thorpe, John Watson Effetti speciali visivi Industrial Light & Magic Inc., a Division of Lucasfilm Ltd. Unità effetti visivi - Supervisori Richard Edlund, Dennis Muren, Ken Ralston Consulente fotografia mascherini Stanley Sayer Direzione artistica Joe Johnston, Nilo Rodis-Jamero Supervisore composizione ottica Bruce Nicholson Organizzatore della produzione Tom Smith Supervisore della produzione Patricia Rose Duignan Supervisore matte painting Michael Pangrazio Supervisori reparto miniature Lorne Peterson, Steve Gawley Supervisore animazione James Keefer Supervisore montaggio effetti visivi Arthur Repola Operatori alla macchina Don Dow, Michael J. McAlister, Bill Neil, Scott Farrar, Selwyn Eddy, III, Michael Owens, Robert Elswit, Rick Fichter, Stewart Barbee, Mark Gredell, David Hardburger Assistenti operatori Pat Sweeney, Kim Marks, Robert Hill, Ray Gilberti, Randy Johnson, Patrick McArdle, Peter Daulton, Bessie Wiley, Maryan Evans, Toby Heindel, David Fincher, Peter Romano Coordinatori produzione Warren Franklin, Laurie Vermont Addetti stampante ottica John Ellis, David Berry, Kenneth Smith, Donald Clark, Mark Vargo, James Lim Addetti allineamento ottico Tom Rosseter, Ed L. Jones, Ralph Gordon, Philip Barberio Tecnici di laboratorio Tim Geideman, Duncan Myers, Michael S. Moore Illustratore George Jenson Artisti matte painting Chris Evans, Frank Ordaz Fotografia matte Neil Krepela, Craig Barron Animazione a passo uno Tom St. Amand, David Sosalla Capi modellisti Paul Huston, Charles Bailey, Michael Glenn Fulmer, Ease Owyeung Modellisti William George, Marc Thorpe, Scott Marshall, Sean Casey, Larry Tan, Barbara Gallucci, Jeff Mann, Ira Keeler, Bill Beck, Mike Cochrane, Barbara Affonso, Bill Buttfield, Marghi McMahon, Randy Ottenberg Specialisti animazione Garry Waller, Kimberly Knowlton Animatori Terry Windell, Renee Holt, Mike Lessa, Samuel Comstock, Rob La Duca, Annick Therrien, Suki Stern, Margot Pipkin Montaggio effetti visivi Howard Stein, Peter Amundson, Bill Kimberlin Assistenti montatori Robert Chrisoulis, Michael Gleason, Jay Ignaszewski, Joe Class Supervisore animazione aggiuntiva Peter kuran Supervisore ottica aggiuntiva Greg Van Der Veer Tecnici di scena Ted Moehnke (supervisore), Patrick Fitzsimmons, Bob Finley III, Ed Hirsh, John McLeod, Peter Stolz, Dave Childers, Harold Cole, Merlin Ohm, Joe Fulmer, Lance Brackett Effetti pirotecnici Thaine Morris, Dave Pier, Peter Stolz Fotografi di scena Terry Chostner (supervisore), Roberto McGrath, Kerry Nordquist Progettisti sistemi elettronici Jerry Jeffress, Kris Brown Tecnici elettronica Mike MacKenzie, Marty Brenneis Computer grafica William Reeves, Tom Duff Supervisore equipaggiamento tecnico Gene Whiteman Macchinisti Udo Pampel, Conrad Bonderson Progettista Mike
Bolles Effetti ottici aggiuntivi Lookout Mountain Films, Pacific Title, Monaco Film Labs, California Film, Visual Concepts Engineering, Movie Magic, Van Der Veer Photo Effects Unità effetti meccanici – supervisori Kit West, Roy Arbogast Caposquadra William David Lee Sovrintendente di produzione Ian Wingrove Capotecnico Peter Dawson Tecnici riprese in esterni Kevin Pike, Michael Wood Capotecnico elettronica Ron Hone Specialista cavi sospensioni Bob Harman Ingegnere capo articolazioni Stuart Ziff Assistente effetti articolazioni Eben Stromquist Progettazione armature Peter Ronzani Creazioni plastici Richard Davis Progettazione sculture Chuck Wiley, James Howard Scultori Dave Carson, Tony McVey, David Sosalla, Judy Elkins, Derek Howarth Capo modellista Wesley Seeds Modellista Ron Young Tecnici creature Randy Dutra, Kirk Thatcher, Dan Howard, James Isaac, Brian Turner, Jeanne Lauren, Richard Spah, Jr., Ethan Wiley Consulenti creature Jon Berg, Chris Walas Coordinatrice produzione creature Patty Blau Supervisore laboratorio schiuma di lattice Tom McLaughlin Tecnico animatronica John Coppinger, Animazione Jabba the Hutt Toby Philpott, Mike Edmonds, David Barclay Animatori marionette Michael McCormick, Deep Roy, Simon Williamson, Hugh Spirit, Swim Lee, Michael Quinn, Richard Robinson Personaggi e interpreti Luke Skywalker Mark Hamill, Han Solo Harrison Ford, Principessa Leia Organa Carrie Fisher, Lando Calrissian Billy Dee Williams, C3PO (D3-BO) Anthony Daniels, R2D2 (C1-P8) / Paploo Kenny Baker, Darth Vader David Prowse, Yoda Frank Oz, Chewbacca Peter Mayhew, Anakin Skywalker Sebastian Shaw, Imperatore Ian McDiarmid, Ben (Obi-Wan) Kenobi Alec Guinness, Voce di Darth Vader James Earl Jones, Moff Jerjerrod Michael Pennington, Ammiraglio Piett Kenneth Colley, Bib Fortuna Michael Carter, Wedge Antilles Denis Lawson, Ammiraglio Ackbar Tim Rose, Generale Madine Dermot Crowley, Mon Mothma Caroline Blakiston, Wicket W. Warrick Warwick Davis, Boba Fett Jeremy Bulloch, Paploo Kenny Baker, Oola Femi Taylor, Sy Snooties Annie Arbogast, Yarna d’ al’ Gargan Claire Davenport, Teebo Jack Purvis, Logray Mike Edmonds, Chirpa Jane Busby, Capi guerrieri Eworks Malcom Dixon, Mike Cottrell, Nicki Nicki Reade, Pilota Jhoff Adam Bareham, Pilota Stardestroyer Jonathan Oliver, Primo capitano Stardestroyer Pip Miller, Secondo capitano Stardestroyer Tom Mannion, Voce di Jabba the Hutt Larry Ward, Ben Burtt, Guardie Gamorreane Tony Starr, Isaac Grand, Barry Robertson, George Miller Ewoks Margo Apostocos, Ray Armstrong, Eileen Baker, Michael H. Balham, Bobbie Bell, Patty Bell, Alan Bennett, Sarah Bennett, Pamela Betts, Dan Blackner, Linda Bowley, Peter Burroughs, Debbie Carrington, Maureen Charlton, William Coppen, Sadie Corrie, Tony Cox, John Cumming, Jean
D’Agostino, Luis De Jesus, Debbie Dixon, Margarita Fernandez, Phil Fondacaro, Sal Fondacaro, Tony Friel, Dan Frishman, John Gavam, Michael Gilden, Paul Grant, Lydia Green, Lars Green, Pam Grizz, Andrew Herd, J. J. Jackson, Richard Jones, Trevor Jones, Glynn Jones, Karen Lay, John Lummiss, Nancy Maclean, Peter Mandell, Carole Morris, Stacy Nichols, Chris Nunn, Barbara O’Laughlin, Brian Orenstein, Harrelll Parker, Jr., John Pedrick, April Perkins, Ronnie Phillips, Katie Purvis, Carol Read, Nicholas Read, Diana Reynolds, Daniel Rodgers, Chris Romano, Dean Shackenford, Kiran Shah, Felix Silla, Linda Spriggs, Gerarld Staddon, Josephine Staddon, Kevin Thompson, Kendra Wall, Brian Wheeler, Butch Wilhelm
Star Wars - Episode I: The Phantom Menace (Guerre stellari - Episodio I: La minaccia fantasma, 20th CenturyFox, 19 maggio 1999) 133 minuti Regia George Lucas Produttore Rick McCallum per la Lucasfilm Ltd. Produttore esecutivo George Lucas Soggetto e sceneggiatura George Lucas Supervisore alla produzione David Brown Aiuto regista Chris Newman Regia seconda unità Roger Christian Direttore della fotografia David Tattersall Fotografia seconda unità Giles Nuttgens Operatori alla macchina Carl Miller, Vince Piper Operatore Steadicam Keith Sewell Operatore riprese aeree Adam Dale Scenografo Gavin Bouquet Supervisore direzione artistica Peter Russell Direzione artistica Fred Hole, John King, Rod McLean, Phil Harvey Arredamento Peter Walpole Musiche John Williams eseguite dalla London Symphony Orchestra Registrazione musiche Shawn Murphy Montaggio Paul Martin Smith, Ben Burtt Costumi Trisha Biggar Fonico di produzione John Midgley Tecnici di missaggio Gary Rydstrom (effetti sonori) Tom Johnson (dialoghi) Shawn Murphy (musiche) Progettazione suono Ben Burtt Supervisione montaggio suono Ben Burtt, Tom Bellfort, Matthew Wood Montaggio effetti sonori Teresa Eckton, Chris Scarabosio Montaggio dialoghi Sara Bolder, Gwendolyn Yates Whittle Supervisione montaggio musiche Kenneth Wannberg Capo truccatore Paul Engelen Truccatori Meg Speirs, Melissa Lackersteen, Morag Ross (per Liam Neeson) Acconciature Sue Love, Sarah Love, Darlene Forrest, Jan Archibald (per Liam Neeson) Casting Robin Gurland Coordinatore Stunt e Duelli Nick Gillard Effetti speciali visivi Industrial Light & Magic Inc., a Division of Lucasfilm Ltd.
Unità effetti visivi - Supervisori effetti visivi John Knoll, Dennis Muren, Scott Squires Direttore animazione Rob Coleman Scenografo effetti visivi Doug Chiang Supervisore effetti creature (riprese dal vivo) Nick Dudman Supervisore capo computer grafica Kevin Rafferty Supervisore associato effetti visivi Barry Armour Direzione artistica David Nakabayashi Supervisore animazione battaglia terrestre Tom Bertino Supervisore tecnico animazione James Tooley Supervisore aggiunto effetti visivi Scott Farrar Supervisori computer grafica Tim Alexander, Jon Alexander, Christophe Hery, Tom L. Hutchinson, Euan MacDonald, Greg Maloney, Patrick T. Myers, Doug Smythe, Habib Zargarpour Specialisti animazione Linda Bel, Peter Daulton, Lou Dellarosa, Miguel Fuertes, Hal Hickel, Paul Kavanagh, Kim Thompson, Marjolaine Tremblay-Silva Operatori effetti visivi Martin Rosenberg, Patrick Sweeney, Pat Turner, Ray Gilberti Supervisore elaborazione creature Tim McLaughlin Supervisore modellistica Steve Gawley Capi modellistica Lorne Peterson, Barbara Affonso, Charles Bailey, William Beck, Giovanni Donovan, Brian Gernand, Ira Keeler, Keith London, Michael Lynch, Steve Walton Supervisore motion capture Jeff Light Matte painting digitali Brian Flora, Caroleen Green, Jonathan Harb, Paul Huston, Bill Mather, Rick Rische, Mark Sullivan, Yusei Uesugi, Ronn Brown, Wei Zheng Matte painting aggiuntivi Bill George Coordinamento effetti creature Lyn Nicholson Supervisore progettazione modelli animatronici Chris Barton Responsabili progettazione modelli animatronici Mark Coulier, Monique Brown, Michelle Taylor Montaggio effetti visivi Scott Balcerek, David Tanaka, Greg Hyman, John Bartle, Vicki Engel, Monique Gougeon, David Gray, Susan Greenhow, Luke O’Byrne Previsualizzazione David Dozoretz (supervisore), Jeff Wozniak, Evan Pontoriero, Ryan Tudhope, Kevin Baillie Supervisori effetti meccanici Geoff Heron (ILM), Peter Hutchinson (seconda unità) Specialisti effetti meccanici Terry Glass, Digby Milner, Tony Phelan, Leslie Wheeler, Andy Bunce Personaggi e interpreti Qui-Gon Jinn Liam Neeson, Obi-Wan Kenobi Ewan McGregor, Queen Amidala/Padmè Natalie Portman, Anakin Skywalker Jake Lloyd, Senatore Palpatine Ian McDiarmid, Shmi Skywalker Pernilla August, Yoda Frank Oz, Jar Jar Binks Ahmed Best, C3-PO Anthony Daniels, R2-D2 Kenny Baker, Cancelliere Valorum Terence Stamp, Boss Nass Brian Blessed, Mace Windu Samuel L. Jackson, Watto Andrew Secombe, Darth Maul Ray Park, Sebulba Lewis Macleod, Wald Warwick Davis, Sio Bibble Oliver Ford Davies, Captain Panaka Hugh Quarshie, Nute Gunray Silas Carson, Rune Haako Jerome Blake, Daultay Dofine Alan Ruscoe, Ric Olie Ralph Brown, Pilota Bravo 5 Celia Imrie, Pilota Bravo 2 Benedict Taylor, Pilota Bravo 3 Clarence Smith, Guardia di palazzo Dominic West, Rabè
Cristina da Silva, Eirtaè Friday (Liz) Wilson, Yanè Candice Orwell, Sachè Sofia Coppola, Sabè Kiera Knightley, TC-14 John Fensom, Capitano incrociatore della Repubblica Bronagh Gallagher, Fode Greg Proops, Beed Scott Capurro, Jira Margaret Towner, Kitster Dhruv Chanchani, Seek Oliver Walpole, Amee Jenna Green, Melee Megan Udall, Eeth Koth Hassani Shapi, Adi Gallia Gin, Saesee Tiin Khan Bonfils, Yarael Poof Michelle Taylor, Even Piell Michaela Cottrell, Depa Billaba Dipika O’Neill Joti, Yaddle Phil Eason, Aks Moe Mark Coulier, Voce di TC-14 Lindsay Duncan, Voce di Darth Maul Peter Serafinowicz, Voce of Rune Haako James Taylor, Voce di Daultay Dofine Chris Sanders, Voce di Aks Moe Marc Silk, Voce di Lott Dod Toby Longworth, Voce di Tey How Tyger, Controfigura Ewan McGregor Andreas Petrides, Controfigura Liam Neeson Rob Inch Controfigure Danni Biernat, Ray De-Haan, Joss Gower, Morgan Johnson, Mark Newman, Dominic Preece
Star Wars - Episode II Attack of the Clones (Guerre stellari - Episodio II: L’attacco dei cloni, 20th Century-Fox, 16 Maggio 2002) 142 Minuti Regia George Lucas Produttore Rick McCallum per la Lucasfilm Ltd. Produttore esecutivo George Lucas Soggetto George Lucas Sceneggiatura George Lucas, Jonathan Hales Supervisore alla produzione Stephen Jones Aiuto regista James McTeigue Casting Robin Gurland Coordinatore stunt/ Maestro d’armi Nick Gillard Direttore della fotografia David Tattersall, Fotografia seconda unità Giles Nuttgens Supervisori riprese alta definizione Fred Meyers, Brad Shield, Calum McFarlane, Brett Matthews, Damian Wyvill Aiuto operatori Luke Nixon, Jason Binnie Assistente riprese alta definizione Matt Hunt Fotografi di scena Lisa Tomasetti, Giles Westley, Paul Tiller Scenografo Gavin Bocquet Supervisori progettazione visiva Doug Chiang, Eric Tiemens, Ryan Church Direzione artistica Peter Russell (supervisore) Jonathan Lee, Ian Gracie, Phil Harvey, Michelle McGahey, Fred Hole, David Lee (squadra riprese aggiuntive), Taïeb Jallouli (riprese in Italia) Supervisore reparto artistico Fay David Arredatore Peter Walpole Assistenti arredatori Beverley Dunn, Dominic Hyman Supervisori previsualizzazione Dan Gregoire, David Dozoretz Capo attrezzista Tony Teiger Montaggio Ben Burtt Primo assistente montatore Todd Busch Assistenti Joseph Jett Sally, Cheryl Nardi Costumi Trisha Biggar Supervisione costumi Nicole Young Assistenti costumiste Michael Mooney, Jason Gibaud Coordinamento costumi Vanessa Edwards, Jo Measure (squadra riprese aggiuntive) Trucco Lesley Vanderwalt
(supervisore), Lynn Wheeler, Wizzy Molineaux, Pat Hay (squadra riprese aggiuntive) Supervisore creature Jason Baird Trucco creature Damien Martin, Elka Wardega Supervisore effetti creature Nick Dudman Trucco prostetico Paul Spateri, Mark Coulier, Barry Gower, Shaune Harrison, Kate Hill Caposquadra trucchi animatronici Matt Sloan Tecnici trucchi animatronici Martin Crowther, Chris Barton, Martin Reid, Tamzine Hanks, Tom Blake, Simon Williams Acconciature Sue Love (responsabile), Wendy De Waal, Jen Stanfield, Simon Zanker Musiche John Williams eseguite dalla London Symphony Orchestra Coro London Voices Montaggio musiche Kenneth Wannberg (supervisore), Peter Myles, Steven R. Galloway (assistente) Registrazione musiche Shawn Murphy Fonico di produzione Paul “Salty” Brincat Fonici riprese aggiuntive Brian Simmons, Simon Bishop Progettazione suono Ben BurttTecnici di missaggio Gary Rydstrom (effetti sonori), Michael Semanick (dialoghi), Rick Kline (musiche), Gary A. Rizzo Supervisori montaggio suono Ben Burtt Matthew Wood Montaggio effetti sonori Teresa Eckton, Bruce Lacey Montaggio dialoghi Marilyn McCoppen, Steve Slanec Effetti speciali visivi Industrial Light & Magic Inc., a Division of Lucasfilm Ltd. Unità effetti visivi - Supervisori effetti visivi John Knoll, Pablo Helman, Ben Snow, Dennis Muren Direttore animazione Rob Coleman Produttore esecutivo effetti visivi Judith Weaver Produttrici effetti visivi Jill Brooks, Gretchen Libby, Heather MacDonald Direzione artistica Alex Jaeger Supervisori computer grafica Kevin Barnhill, Dan B. Goldman, Samir Hoon, Robert Marinic, David Meny, Curt Miyashiro, Patrick Myers, Henry Preston Supervisori composizione digitale Jeff Doran, Dorne Huebler, Marshall Krasser Fotografia effetti visivi Carl Miller, Marty Rosenberg, Pat Sweeney Supervisore modelli digitali Geoff Campbell, Russell Paul Supervisore Viewpaint Jean Bolte Supervisori animazione Eric Armstrong, Hal T. Hickel Supervisore tecnico animazione James Tooley Specialisti animazione Linda Bel, Scott Benza, Sue Campbell, Peter Daulton, Paul Griffin, Tim Harrington, Paul Kavanagh, Victoria Livingstone, Glen McIntosh, Chris Mitchell, Steve Nichols, Steve Rawlins, Jamy Wheless, Andy Wong, Sylvia Wong Animatori Charles Alleneck, Carlos Baena, Mark Chu, Sean Curran, Andrew Doucette, C. Michael Easton, Leslie Fulton, Cameron Gates, Andrew Grant, Lesley Headrick, Jeffrey Johnson, Maia Kayser, Peter Kelly, Shawn Kelly, Trish Krause, Greg Kyle, David Latour, Neil Lim Sang, Kevin Martel, Christopher Minos, Rick O’Connor, Jakub Pistecky, Mark Powers, Mike Quinn, Jay Rennie, Magali Rigaudias, P. Kevin Scott, Tom St. Amand, Kim Thompson, Delio Tramontozzi, David Weatherly, David Weinstein, Eric Wong, Christina Yim, Virginie Michel D’annoville Supervisori matte painting digitali Yusei Uesugi, Paul Huston, Jonathan Harb Artisti matte painting digitali Jett Green, Toshiyuki Maeda, Kent Matheson, Brett Northcutt, Mathieu Raynault, Mark Sullivan, Masahiko Tani, Simon
Wicker, Susumu Yukuhiro, Zheng Wei Supervisore Matchmover 3D Jason Snell Supervisore Motion Capture Jeff Light Montatore capo effetti visivi Scott Balcerek Montatori effetti visivi Nic Anastassiou, Anthony Pitone Supervisore reparto modellistica Brian Gernand Modellisti Lauren Abrams, Barbara Affonso, Charlie Bailey, Salvatore Belleci, Nick Bogle, Mark Buck, Fon Davis, Brian Dewe, Robert M. Edwards, Thomas Ehline, David Fogler, Jon Foreman, Chris Gaw, Steve Gawley, Jon Guidinger, Neal Halter, Nelson Hall, Aaron Haye, Loren Hillman-Morgan, Peggy Hrastar, Grant Imahara, Michael Jobe, Victoria Lewis, Alan Lynch, Michael Lynch, Richard Miller, David M. Murphy, Ben Nichols, Randy Ottenberg, Alan Peterson, Lorne Peterson, Juan Preciado, Tom Proost, Mitchell Romanauski, Adam Savage, Roy Sutherland, Lauren Vogt, Danny Wagner, Mark Walas, Melanie Walas Coordinatore costruzioni Craig Mohagen Costruzioni Chuck Ray Supervisore effetti meccanici (ILM) Geoff Heron Tecnico effetti meccanici (ILM) Robert Clot Supervisori effetti meccanici David Young, (squadra riprese aggiuntive) Tom Harris Tecnici effetti meccanici Herman Bron, Brian Osmond, Bernard Golenko, Gerard Collins (squadra riprese aggiuntive) Alex Gurucharri, Barry Woodman Supervisore fabbricazione modellini Peter Wyborn Caposquadra fabbricazione modellini Trevor Smith Unità droidi Supervisore Donald Bies Coordinatore Zeynep Selcuk Tecnici Justin Dix, Trevor Tighe Modellisti Ben Collins, Kerry Anne Jensen, Michael Kelm Concezione modellini John Goodson, John Duncan, Carol Bauman, Kim Smith Personaggi e interpreti Obi-Wan Kenobi Ewan McGregor, Padme Natalie Portman, Anakin Skywalker Hayden Christensen, Yoda Frank Oz, Supremo cancelliere Palpatine Ian McDiarmid, Shmi Skywalker Pernilla August, Jar Jar Binks Ahmed Best, C3-PO Anthony Daniels, R2-D2 Kenny Baker, Mace Windu Samuel L. Jackson, Sio Bibble Oliver Ford Davies, Jango Fett Temuera Morrison, Conte Dooku Christopher Lee, Senatore Bail Organa Jimmy Smits, Cliegg Lars Jack Thompson, Zam Wesell Leeanna Walsman, Dorme Rose Byrne, Dexter Jettster Ronald Falk, Capitan Typho Jay Laga’aia, Watto Andrew Secombe, Regina Jamillia Ayesha Dharker, Boba Fett Daniel Logan, Owen Lars Joel Edgerton, Beru Bonnie Maree Piesse, Voce di Lama Su Anthony Phelan, Voce di Taun We Rena Owen, Madame Jocasta Nu Alethea McGrath, Hermione Bagwa Susie Porter, Elan Sleazebaggano Matt Doran, Lott Dod Alan Ruscoe, Plo Koon Matt Sloan, Corde Veronica Segura, Mas Amedda David Bowers, Tenente truppe Naboo Steve John Shepherd, Soldato clone Bodie “Tihoi” Taylor, Senatore Orn Free Taa Matt Rowan, Senator Ask Aak Steven Boyles, Kit Fisto Zachariah Jensen, J. K. Burtola Alex Knoll, Mari Amithest Phoebe
Yiamkiati, Oppo Rancisis Jerome Blake, Eeth Koth Hassani Shapi, Adi Gallia Gin, Saesee Tiin Khan Bonfils, Even Piell Michaela Cottrell, Depa Billaba Dipika O’Neill Joti, Controfigura Ewan McGregor Nash Edgerton, Controfigura Temuera Morrison Scott McLean, Controfigura Christopher Lee Kyle Rowling, Controfigure Natalie Portman Gill Stratham, Carly Harrop, Controfigure Daniel Stevens, Dean Gould, Jon Heaney, Avril Wynne, Dar Davies, Ray Anthony, Chris Mitchell, Robert Simper, Joss Gower
Star Wars - Episode III: Revenge of the Sith (Guerre stellari - Episodio III - La vendetta dei Sith, 20th CenturyFox, 19 maggio 2005) 139 Minuti Regia George Lucas Produttore Rick McCallum per la Lucasfilm Ltd. Produttore esecutivo George Lucas Soggetto George Lucas Supervisore alla produzione Stephen Jones Aiuto regista Colin Fletcher Casting Christine King Coordinatori stunt Nick Gillard, Richard Boue Maestro d’armi Nick Gillard Direttore della fotografia David Tattersall, Fotografia seconda unità Giles Nuttgens (riprese in Inghilterra e Svizzera), Fotografia riprese aggiuntive David Franco (Cina), Ron Fricke (Sicilia e Thailandia) Supervisore riprese alta definizione Fred Meyers, Operatori Simon Harding, Calum McFarlane Assistenti operatori Matt Toll,Tov Belling, Eddie Knight Operatore Steadicam Simon Harding Fotografi di scena Ralph Nelson, Keith Hamshere, Paul Tiller Scenografo Gavin Bocquet Supervisori ideazione visiva Eric Tiemens, Ryan Church Direzione artistica Peter Russell (supervisore), Ian Gracie, Phil Harvey, David Lee, Taïeb Jallouli Supervisore reparto artistico Fay David Arredatore Richard Roberts Assistenti arredatori Beverley Dunn, Dominic Hyman Capo attrezzista Tony Teiger Montaggio Roger Barton, Ben Burtt Montaggio aggiuntivo Joseph Jett Sally Assistente montatore Cheryl Nardi Costumi Trisha Biggar Supervisione costumi Nicole Young Assistenti Michael Mooney, Sonia Cauhepe Coordinamento costumi Claire Worlidge Trucco Nikki Gooley (supervisore), Bliss MacGillicuddy, Shane Thomas, Charmaine Fuller, Deborah Taylor Supervisore creature Dave Elsey, Aaron Ferguson Trucco prostetico Colin Ware (senior), Sophie Fleming, Kerrin Jackson, Kath Brown Caposquadra trucchi animatronici Sonny Tilders Tecnico trucchi animatronici Gregg McKee Acconciature Annette Miles (responsabile), Tracey Reeby, Pip Lund, Jodie Hellingman Musiche John Williams eseguite dalla London Symphony Orchestra Coro London Voices Montaggio musiche Kenneth Wannberg (supervisore), Ramiro
Belgart, Registrazione musiche Shawn Murphy Fonico di produzione Paul “Salty” Brincat Fonico aggiuntivo Brian Simmons Progettazione suono Ben Burtt Tecnici di missaggio Tom Myers (effetti sonori), Christopher Scarabosio (dialoghi), Andy Nelson (musiche) Supervisori montaggio suono Ben Burtt Matthew Wood Montaggio suono Tom Myers Montaggio effetti sonori Teresa Eckton Montaggio dialoghi Christopher Scarabosio Effetti speciali visivi Industrial Light & Magic Inc., a Division of Lucasfilm Ltd. Unità effetti visivi - Supervisori effetti visivi John Knoll, Roger Guyett Direttore animazione Rob Coleman Supervisore effetti visivi e previsualizzazione Dan Gregoire Produttrice effetti visivi e animazione Janet Lewin Produttrice effetti visivi Jill Brooks Direzione artistica Alex Jaeger, Aaron McBride Supervisori computer grafica Russell Earl, Craig Hammack, John Helms, Samir Hoon, Hilmar Koch, David Meny, Patrick T. Myers Animatori Scott Benza, Tim Harrington, Paul Kavanagh, Virgil Manning, Glen McIntosh, Jamy Wheless, George Aleco-Sima, Charles Alleneck, Steve Aplin, Alex Burt, Derrick Carlin, Marc Chu, Jonathan Collins, Sean Curran, Peter Daulton, Soo Yuan Han, Robyn Luckahm, Jay Rennie, Andy Doucette, Keith Huggins, Kevin Martel, P. Kevin Scott, C. Michael Easton, Maia Kayser, Chris Mitchell, Dave Sidley, Cameron Folds, Peter Kelly, Steve Nichols, Delio Tramontozzi, Leslie Fulton, Shawn Kelly, Rick O’Connor, Chi Chung Tse, David Gainey, Greg Kyle, Jakub Pistecky, Silvia Wong Supervisori composizione digitale Eddie Pasquarello, Patrick Tubach Supervisori rotoscope Beth D’Amato, Jack Mongovan Fotografia effetti visivi Carl Miller, Pat Sweeney Supervisore modelli reali Brian Gernand Supervisore modelli digitali Pamela J. Choy Supervisori modelli digitali creature Paul Giacoppo, Sunny Li-Hsien Wei Modellisti Lauren Abrams, Nick d’Abo, Charlie Bailey, Carol Bauman, Jon Berg, Nick Bogle, Jeff Brewer, Mark Buck, Fon Davis, John Duncan, Robert M. Edwards, Todd Fellows, Jon Foreman, Jon Guidinger, Neal Halter, Nelson Hall, Loren Hillman-Morgan, Peggy Hrastar, Grant Imahara, Michael Jobe, Victoria Lewis, Todd Looklinland, Michael P. Lynch, Scott McNamara, Richard Miller, David M. Murphy, Alan Peterson, Lorne Peterson, Lauren Vogt, Dan Wagner, Mark Walas, Melanie Walas, Kevin Wallace Supervisore matte painting digitali Jonathan Harb Artisti matte painting digitali Yannick Dusseault, Brett Northcutt, Yusei Uesugi, Paul Huston, Max Dennison, Barry Williams, Chris Stoski,, Toshiyuki Maeda, Kent Matheson, Kevin Page, Masahiko Tani, Simon Wicker, Susumu Yukuhiro, Zheng Wei Montaggio effetti visivi Greg Hyman (senior), Anthony Pitone Supervisori effetti meccanici Dave Young, Robert Clot, Frank Tarantino Effetti meccanici Carl Assmus, Richard Clot, Joe Fulmer, John Lanoue Tecnici effetti meccanici Rick Howie, Kerry Achurch, Bernard Golenko, Gerard Collins Supervisore fabbricazione modellini Peter Wyborn Caposquadra fabbricazione
modellini Trevor Smith Unità droidi - Supervisore Donald Bies Coordinatore Zeynep Selcuk Tecnico Justin Dix Personaggi e interpreti Obi-Wan Kenobi Ewan McGregor, Padme Natalie Portman, Anakin Skywalker Hayden Christensen, Yoda Frank Oz, Supremo cancelliere Palpatine Ian McDiarmid, Senatore Bail Organa Jimmy Smits, Chewbacca Peter Mayhew, Jar Jar Binks Ahmed Best, Sio Bibble Oliver Ford Davies, Comandante Cody Temuera Morrison, C3-PO Anthony Daniels, R2-D2 Kenny Baker, Mace Windu Samuel L. Jackson, Conte Dooku Christopher Lee, Regina di Naboo Keisha Castle-Hughes Capitano Typho Jay Laga’aia, Tion Medon Bruce Spence, Governatore Tarkin Wayne Pygram, Mas Amedda David Bowers, Capitano Antilles Rohan Nichol, Capitano Colton Jeremy Bulloch, Terr Taneel Amanda Lucas, Plo Koon Matt Sloan, Regina di Alderaan Rebecca Jackson Mendoza, Owen Lars Joel Edgerton, Beru Bonnie Maree Piesse, Zett Jukassa Jett Lucas, Agen Kolar Tux Akindoyeni, Senatore Orn Free Taa Matt Rowan, Saesee Tiin Kenji Oates, Aayla Secura Amy Allen, Clone Trooper Bodie ‘Tihoi’ Taylor, Ruwee Naberrie Graeme Blundell, Jobal Naberrie Trisha Noble, Sola Naberrie Claudia Karvan, Ryoo Naberrie Keira Wingate, Pooja Naberrie Hayley Mooy, Sly Moore Sandy Finlay, Chi Eekway Katie Lucas, Mon Mothma Genevieve O’Reilly, Fang Zar Warren Owens, Male-Dee Kee Chan, Nee Alavar Rena Owen, Voce del Generale Grievous Matthew Wood, Motee Kristy Wright, Whie Coinneach Alexander, Bene Mousy McCallum, Wookies Michael Kingma, James Rowland, Axel Dench, David Stiff, Steven Foy, Robert Cope, Julian Khazzouh Controfigure Ian McDiarmid Bob Bowles, Sebastian Dickins, Michael Byrne (duelli), Controfigura Hayden Christensen Ben Cooke, Controfigura Christopher Lee Kyle Rowling (duelli), Controfigura Ewan McGregor Nash Edgerton
Star Wars – Episode VII: The Force Awakens (Guerre stellari Episodio VII: Il risveglio della Forza, Walt Disney Studio Motion Pictures, 14 dicembre 2015) 136 Minuti Regia J.J. Abrams Produttori Kathleen Kennedy per la Lucasfilm Ltd., J.J. Abrams e Bryan Burk per la Bad Robot Sceneggiatura J.J. Abrams, Lawrence Kasdan, Michael Arndt Basata su personaggi creati da George Lucas Produttori esecutivi Tommy Harper, Jason McGatlin Produttore associato Michael Arndt Co-produttori Pippa Anderson, John Swartz, Michelle Rejwan, Tommy Gormley, Ben Rosenblatt, Susan Towner
Casting Nina Gold, April Webster, Alyssa Weisberg Associati Casting Theo Park, Jessica Sherman Assistenti Casting Rachel Dill, Lauren Evans Coordinatore stunt Rob Inch Assistente Stuart Clark Maestro d’armi C. C. Smiff Direttore della fotografia Dan Mindel, Fotografia seconda unità Bruce McCleery, Andrew Rowlands, Fotografia riprese aeree Adam Dale Operatori alla macchina Colin Anderson, Phil Carr-Forster, Tony Jackson, Gary Spratling Tecnici IMAX Scott Smith, Perry Evans, Ossa Mills, Gary Hymns, Paul Hymns Fotografi di scena David James, Jules Heath Musiche John Williams Dirette da John Williams, William Ross e Gustavo Dudamel Montaggio musiche Ramiro Belgart, Robert Wolff Registrazione musiche Shawn Murphy Canzone J. J. Abrams, Lin-Manuel Miranda Eseguita da Shag Kava Parti vocali Sally Stevens Montaggio Maryann Brandon, Mary Jo Markey Montatori associati Matt Evans, Julian Smirke Assistenti montatori Anahuac Valdez, Brad McLaughlin, Robert Sealey, Ben Chavda Assistenti Elliot Barret, Jesse Goldsmith, Armando J. Sanchez Scenografi Rick Carter, Darren Gilford Supervisori progettazione visiva Doug Chiang, Ian McCaig Direzione artistica Neil Lamont (supervisore), Alaistar Bullock, Gary Tomkins, James Clyne, Peter Dorme, Mark Harris, Ashley Lamont, Oliver Roberts, James Collins, Hayley Easton, Kevin Jenkins, Mary Mackenzie, Stuart Rose, Robert Cowper, Jo Finkel, Andrew Palmer. Stephen Swain Coordinatrice reparto artistico Polly Seath Arredatore Lee Sandales Capo attrezzista Jamie Wilkinson Assistente capo attrezzista John Fox Costumi Michael Kaplan Supervisione costumi David Crossman, Phaedra Dahdaleh Assistenti Nigel Egerton, Vivienne Jones, Samantha Keeble Coordinamento costumi Henrietta Sylvester, Natalie Travis, Lisa Sass Ideazione trucco Amanda Knight, Bill Corso (per Harrison Ford) Truccatori Amy Byrne, Sharon Nicholas, Jules Wilson, Sarah Thompson Ideazione acconciature Lisa Tomblin Acconciature Andrew Simonin, Karen Asano-Myers (per Harrison Ford), Francesca Strada, David Dorling, Jenny Harling, Helga Bosman Parrucche Alex Rouse Trucco prostetico Bethan Hollington, Heather McMullen Fonico di produzione Stuart Wilson Progettazione suono Ben Burtt, Gary Rydstrom Progettazione suono aggiuntiva Robert Stambler, William FilesTecnici di missaggio Andy Nelson (dialoghi e musiche), Christopher Scarabosio (effetti sonori) Missaggio aggiuntivo Juan Peralta, Nathan Nance Supervisori montaggio suono David Acord, Matthew Wood Assistente supervisione montaggio suono Coya Elliott Montaggio effetti sonori Teresa Eckton, E.J. Holowicki Effetti speciali visivi e animazione Industrial Light & Magic Inc., a Division of Lucasfilm Ltd. ILM Studios San Francisco, Singapore, Vancouver, Londra Unità effetti visivi - Supervisori effetti visivi Roger Guyett, Patrick Tubach (San Francisco), Ben Morris e Mike Mulholland (Londra), Dave Dally (Singapore), Tim Belsher (Vancouver), Supervisore effetti visivi Tippett Studio Chris Morley Direttori animazione Paul
Kavanagh, Michael Eames (Londra) Produttrice esecutiva effetti visivi e animazione Janet Lewin Produttori effetti visivi Luke O’Byrne, Michael Silver, Nina Fallon, Ben Lock, Sophie Cullen Produttrice associata effetti visivi Stacy Bissell Direzione artistica Yanick Dusseault, Christian Alzmann Effetti visivi e post produzione Kelvin Optical Inc. Supervisore Luke MacDonald Supervisori computer grafica Polly Ing, Daniel Pearson, Daniel Lobl, Ian Comley (Londra), Tim Belsher, Kibum Kim Supervisione Artisti digitale Colin Benoit, Sylvian Degrotte, Trevor Hazel, Cyrus Jam, Iain Morton, Matt Rank, Steve Sauers, James R. Tooley Specialisti digitale Aymeric Aute, Joel Bodin, Siksit Boonyodom, Dan Bornstein, Derrick Carlin, Tami Carter, Arturo Orgaz Casado, Marc Chu, Sonia Contreras, Stephen Cullingford, Peter Daulton, Stephen DeLuca, Peter Demarest, John Doublestein, Arslan Elver, Lucio Farina, Thomas Fejes, Rene Garcia, Thibault Gauriau, Jean-Denis Haas, Rick Hankins, Jeff Hatchel, Sherry Hitch, Georg Kaltenbrunner, Maia Kayser, Jeanle Koh, Daniel Schmid Leal, Daniel Letarter, Cedric Lo, Sean MacKenzie, Quentin Marmier, Adrian Metzelaar, Pat Moreira, Paul Murphy, Ben O’Brien, Richard Oey, Joshua Ong, Akira Orikasa, Scott Pritchard, Greg Salter, Pedro Santos, Denis Scolan, Sheldon Serrao, Justin Van Der Lek, Todd Vaziri, Mathieu Vig, John Walker, Talmage Watson, Aaron Wilson, Elvin Siew Xiangyou Animazione scacchi olografici Tippett Studio Supervisore animazione Phil Tippett Supervisore effetti visivi Chris Morley Animatori Tom C. Gibbons, Chuck Duke, Supervisori composizione digitale Jay Cooper, Jean Lapointe, Marian Mavrovic e Alex Prichard (Londra) Supervisore motion capture Matt Rank Supervisore modelli reali Dave Fogler Supervisore ambientazioni Susumu Yukuhiro Direzione tecnica Carlos Munoz Montaggio effetti visivi Greg Hyman Consulenti effetti visivi Dennis Muren, Scott Farrar, Peter Daulton Ideazione e animazione caratteri computer grafica Blind Ltd. London Supervisore computer grafica Andrew Booth Previsualizzazione e postvisualizzazione Halon Supervisore previsualizzazione Bradley Alexander Supervisore postvisualizzazione A. J. Briones Effetti visivi aggiuntivi Base FX,Hybride Technologies, Virtuous Supervisore effetti meccanici Chris Corbould Effetti meccanici Peter Notley, Ian Lowe Supervisore effetti creature, effetti speciali trucco e creazione droidi Neal Scanlan Animatori creature Brian Herring, Dave Chapman Servizi di Motion Capture Imaginarium Studios Limited, Profile Studios Personaggi e interpreti Han Solo Harrison Ford, Luke Skywalker Mark Hamill, Leia Carrie Fisher, Kylo Ren Adam Driver, Rey Daisy Ridley, Finn John Boyega, Poe Dameron Oscar Isaac, Maz Kanata Lupita Nyong’o, Supremo Leader Snoke Andy Serkis, Generale Hux Domhnall Gleeson, C-3PO Anthony
Daniels, Lor San Tekka Max von Sydow, Chewbacca Peter Mayhew, Capitano Phasma Gwendoline Christie, Ammiraglio Statura Ken Leung, Snap Wexley Greg Grunberg, controfigura di Chewbacca Joonas Suotamo, capo truppe imperiali Pip Andersen, Unkar Plutt Simon Pegg, Teedo Kiran Shah, paesano di Jakku Sasha Frost, Colonello Kaplan Pip Torrens, Maggiore Ematt Andrew Jack, Colonello Datoo Rocky Marshall, Brance Emun Elliot, Bala-Tik Brian Vernel, Tasu Leech Yayan Ruhian, Luogotenente Mitaka Sebastian Armesto, Kor Sella Maisie RichardsonSellers, Wollivan Warwick Davis, Rey da giovane Cailey Fleming, Cavaliere di Ren Mark Stanley, Razoo Quin-Fee Iko Uwais, Bazine Netal Anna Brewster, Dr Kalonia Harriet Walter, Ammiraglio Ackbar Tim Rose, voce Ammiraglio Ackbar Erik Bauersfeld, Nien Nunb Mike Quinn, voce di Nien Nunb Kipsang Rotich, FN-3181 Michael Giacchino, FN-9330 Nigel Godrich, avventori al bar Judah Friedlander, Victor McGuire, Miltos Yerolemou, Francesca Longrigg, D.C. Barnes, Matt Johnson, Luogotenente Connix Billie Lourd, Min Sakul Leanne Best, Sottotenente Goode Crystal Clarke, Contrammiraglio Guich Jeffery Kissoon, Lema Eelyak Claudia Sermbezis, Capitano Cypress Gerald W. Abrams, Vice ammiraglio Resdoxv Jim McGrath, Tabala Zo Philicia Saunders, Commodoro Meta Morgan Dameron, Jess Testor Jessica Henwick, Luogotenente Bastian Tosin Cole, Niv Lek James McArdle, Yolo Ziff Stefan Grube, soldato della resistenza Dixie Arnold, ufficiali del Primo Ordine Hannah John-Kamen, Tom Edden, Kate Fleetwood, Richard Riddell, Jefferson Hall, Thomas Sangster, Jack Laskey, animazione di BB8 Brian Herring, Dave Chapman, consulenti voce di BB-8 Bill Hader, Ben Schwartz, consulente di R2-D2 Kenny Baker, controfigura per registrazione movimenti Maz Arti Shah, controfigura per Han Solo Mike Massa
Rogue One: A Star Wars Story (A Walt Disney Studio Motion Pictures release, 10 Dicembre 2016) 138 Minuti Regia Gareth Edwards Produttori Kathleen Kennedy, Simon Emanuel, Allison Shearmur per la Lucasfilm Ltd. Soggetto John Knoll, Gary Whitta Sceneggiatura Chris Weitz, Tony Gilroy Basata su personaggi creati da George Lucas Produttori esecutivi John Knoll, Jason D. McGatlin Coproduttori Kirk Hart, John Swartz, Susan Towner Regia seconda unità Simon Crane, John Mahaffie Primo aiuto regista Toby Hefferman, Dan Channing Williams, Adam Morris Secondo aiuto regista Frazer FennellBall, Tom White, Andy Madden, Tom Edmonson, David Keadell, Tom
Mulberge, Andrew Young Casting Jina Jay Segretarie di edizione Annie Wotton, Laura Jane Miles, Lizzie Pritchard Supervisore location Mark Sumner Manager location Peter Bardsley, Eleri Coulten, Jon Roper, Thor Kjartansso Supervisore post produzione Pippa Anderson Segretaria di produzione Laura Evans Riprese ai Pinewood Studios Direttore della fotografia Greig Fraser, Fotografia seconda unità Baz Idoine Fotografia riprese aeree Adam Dale Pilota riprese aeree Marc Wolff Capo elettricista Jamie Mills Capo tecnico illuminazione Peter Evans Capi macchinisti Gary Hymns, Kenny Atherfold, Gary Pocock Scenografi Doug Chiang, Neil Lamont Supervisore direzione artistica Al Bullock Scenografi senior Stuart Rose, Gary Tomkins Scenografi Alex Baily, Rob Cowper, Jo Finkel, Lydia Fry, Ashley Lamont, Steven Lawrence, Oliver Roberts, Stephen Swain, Helen Xenopoulos Assistenti scenografi Anna Bregman, Simon Elsley, Katrina Mackay, Mary Mackenzie, Daniel Nussbaumer, Matt Sims Arredatore Lee Sandales Capo assistente arredatore Ben Barrington-Groves Assistente arredatore Julie Pitt Capo progettista grafico Laura Dishington Progettista grafico Dominic Sikking Progettista concettuale Matt Allsopp Illustratori Gavin Dean, Andrew Proctor, Elicia Sales, Luke Sanders, Rebecca White Pittore di scena Matthew Walker, Jack Candy-Kemp (assistente) Artista di storyboard Duncan Fegredo Capo attrezzista Jamie Wilkinson, Simon Wilkinson (associato) Coordinatore costruzioni Amanda Pettett Responsabile construzioni Paul Hayes, Tony Graysmark (assistente) Montaggio John Gilroy, Jabez Olssen, Colin Goudie Montatore aggiunto Stuart Baird Montatrice associata Kate Baird Assistenti montatori Michael Cheung, Tom Harrison-Read, Kevin Hickman Musica Michael Giacchino Musica originale ‘Star Wars’ John Williams Partitura diretta da (Score Conducted by) Tim Simonec Orchestrazioni William Ross, Brad Dechter, Tim Simonec, Jeff Kryka, Chris Tilton, Herbert W. Spencer Coordinatore Jeff Kryka Musica prodotta da Michael Giacchino Supervisione montaggio musica John Finklea Montaggio musica Stephen M. Davis, Warren Brown Fonico di registrazione Vincent Cirilli Tecnici di registrazione e missaggio Peter Cobbin, Joel Iwataki Fonici di produzione Stuart Wilson, Gareth John Progettazione suono Christopher Scarabosio, David Acord Tecnici di missaggio David Parker (dialoghi e musiche), Christopher Scarabosio (effetti sonori) Missaggio aggiuntivo Michael Semanick, Luke Dunn-Gielmuda, Tony Villaflor Supervisori montaggio suono Matthew Wood, Christopher Scarabosio Supervisione dialoghi e ADR Richard Quinn Montaggio dialoghi James Spencer Montaggio effetti sonori J.R. Grubbs, Jon Borland, Josh Gold Supervisione Foley Frank Rinella Coordinatori Stunt Rob Inch, Leos Stránsky Assistenti coordinatori stunt Stuart Clark, Dave Fisher Coordinatrice reparto stunt Nicole Chapman Gestione equipaggiamento stunt Aaron Blackman Maestro d’armii C. C. Smiff, Liang Yang (assistente) Ideazione trucco
Amanda Knight, Truccatrice capo Amy Byrne Truccatori Jessica Needham, Chloe Grice Ideazione acconciature Lisa Tomblin Acconciature Lisa Saccuman, Andrew Simonin, Francesca Crowder, Katie Pattenden Effetti speciali visivi e animazione Industrial Light & Magic Inc., a Division of Lucasfilm Ltd. ILM Studios San Francisco, Londra, Singapore, Vancouver Supervisori effetti visivi John Knoll, Nigel Sumner (San Francisco), Mohen Leo (Londra), Dave Dally (Singapore), Craig Hammack Supervisore animazione Hal Hickel Effetti speciali creature Neal Scanlan Produttori effetti visivi Janet Lewin, Erin Dusseault, T.J. Falls, Sophie Cullen, Ben Lock Produttrice associata Lauren Carara Direzione artistica Yanick Dusseault Montaggio effetti visivi Greg Hyman Supervisori GC Rhys Zlaringbull, Steve Ellis, Kibum Kim, Victor Schutz IV Supervisori composizione digitale Ivan Busquets, John J. Galloway, Alex Prichard, Jeff Sutherland Supervisori oggetti e ambienti Enrico Damm, Paul Giacoppo, Russell Paul, Steve Walton Supervisori artisti digitale Beth D’Amato, Ryan Hopkins, Cyrus Jam, John Levin, Patrik Marek, David Meny, James R. Tooley Specialisti digitale Aymeric Aute, Gregory Bossert, Nicolas Caillier, Brian Cantwell, Derrick Carlin, Kelvin Chu, Patrick Conaty, Kunal Ghosh Dastider, Michelle Dean, Sarah De Schot, Lucio Farina, Thibault Gauriau, Kevin George, Walter Gilbert, Rick Hankins, TC Harrison, Jamie Haydock, Daniel Hayes, Gareth Jensen, Francois Lambert, Alexander K. Lee, Dennis Lee, Eric Leong, Jay Machado, Sean MacKenzie, Jason Madigan, Pat Moreira, Timothy Mueller, Cameron Neilson, Matt Nettleton, Sheauhorng Ng, Ben O’Brien, Akira Orikasa, Jee Young Park, Ellis Parry, Shane Roberts, Francisco Rodriguez, John Seru, Sam Stewart, Malcom Thomas-Gustave, Gang Trinh, Todd Vaziri, Pieter Warmington, Paige Warner, David Washburn Artisti concettuali Julien Gauthier, Finnian MacManus, Brett Northcutt, Michael Sheffels, Russell Story, Stephen Tappin, Stephen Zavala Direttori di produzione effetti visivi Cynthia Crimmins, Pei’An Lau, Andrew Poole, Barbara Reid, Morgan Smith Direttori di produzione associati Gretel Batoon, Alice Kahn, Cheryl Kerr, Claudia Li, Nicole Matteson, Adrian Steel Coordinatori di produzione effetti visivi David Casey, Samantha Dark, Eng Sze Jia, Alexandra Henley, Javier Paz, Norma De Souza, Rosalind Stratton, Caitlin Thornton, Timothy Trimmings, Justine Watkins, Sean Wicks, Lily Zaldivar Scenografi Jennifer Coronado, David Nakabayashi ILM staff esecutivo Nina Fallon, Greg Grusby, Gretchen Libby, Sue Lyster, Dennis Muren, Randal Shore, Jessica Teach, Mark Thorley Effetti visivi aggiuntivi Hybride, Jellyfish Pictures, Ghost VFX, Whiskytree Inc., Atomic Fiction, Scanline VFX, Reynault VFX, Virtuos Ideazione e animazione caratteri computer grafica Blind Ltd. London Supervisori effetti meccanici Neil Corbould, Colin Gorry (seconda unità), Eggert Ketilsson (Islanda) Coordinatrice effetti meccanici Maria Corbould Capi effetti meccanici Craig Leong, Glen Winchester Esperti effetti
meccanici Andy Adam, Ben Broadbridge, Jody Eltham, Terry Flowers, Garth Gutteridge, Terry Jones, Steve Knowles, Martin McLaughlin, Tim Mitchell, Chris Motjuoadi, Mark Roberts In Memoria di Chris Bayz Jyn Erso Felicity Jones, Cassian Andor Diego Luna, K-2SO Alan Tudyk, Chirrut Imwe Donnie Yen, Baze Malbus Wen Jiang, Orson Krennic Ben Mendelsohn, Saw Guerrera Forest Whitaker, Bodhi Rook Riz Ahmed, Galen Erso Mads Mikkelsen, Bail Organa Jimmy Smits, Governatore Grand Moff Tarkin Guy Henry, Generale Draven Alistair Petrie, Mon Mothma Genevieve O’Reilly, Giovane Jyn Erso Beau Gadsdon, Dolly Gadsdon, Voce di Darth Vader James Earl Jones, Generale Merrick Ben Daniels, Ammiraglio Raddus Paul Kasey, Voce dell’ammiraglio Raddus Stephen Stanton, Generale Dodonna Ian McElhinney, Senatore Vaspar Fares Fares, Senatore Jebel Jonathan Aris, Senatrice Pamlo Sharon Duncan-Brewster, Darth Vader Spencer Wilding, Daniel Naprous, Principessa Leia Ingvild Deila, C-3PO Anthony Daniels, Lyra Erso Valene Kane, Sergente Melshi Duncan Pow Caporale Tonc Jordan Stephens Luogotenente Sefla Babou Ceesay Due Tubi Aidan Cook Tivik Daniel Mays Generale Hurst Romodi Andy de la Tour Capitano Pterro Tony Pitts Vaneé Martin Gordon Ribelli Eric MacLellan, Robin Pearce, Francis Magee, Bronson Webb Captano Antilles Tim Beckmann Blu Tre Geraldine James Blu Quattro Ariyon Bakare Blu Cinque Simon Farnaby Capo Rosso Drewe Henley Capo Oro Angus Macinnes Oro Nove Gabby Wong Rosso Dodici Richard Glover Blu Otto Toby Hefferman Generale Ramda Richard Cunningham Luogotenente Adema Jack Roth Ammiraglio Gorin Michael Gould Luogotenente Casido Rufus Wright Generale Corssin Michael Shaeffer Luogotenente Frobb Geoff Bell Soldato Basteren James Harkness Pao Derek Arnold Caporale Rostok Matt Rippy Bistan Nick Kellington Weeteef Cyubee Warwick Davis
Star Wars - The Last Jedi (Guerre stellari Episodio VIII: Gli ultimi Jedi, Walt Disney Studio Motion Pictures, 13 Dicembre 2017) 150 Minuti Regia Rian Johnson Produttori Kathleen Kennedy, Ram Bergman per la Lucasfilm Ltd., Sceneggiatura Rian Johnson Basata su personaggi creati da George Lucas Produttori esecutivi J. J. Abrams, Tom Karnowski,
Jason D. McGatlin, Boris Dmitrovic (Croazia), Finni Johansson (Islanda) Manager di produzione Luka Dmitrovic (Croazia), Arni Hansson (Islanda), Jo Homewood (Irlanda), Martin Joy Supervisori di produzione Adam Teeuw, Polly Hope Aiuto registi Jamie Christopher, Dominic Fysh Assistente di produzione Karla Soce Casting Nina Gold, Milivoj Mestrovic, Mary Vernieu Associati Casting Marisol Roncali, Martin Ware Coordinatore stunt Rob Inch Assistente Nicole Chapman Direttore della fotografia Steve Yedlin, Fotografia seconda unità Jaron Presant Fotografia riprese aeree Adam Dale Fotografia aggiuntiva Jean-Philippe Gossart Operatori alla macchina Tony Jackson, Gary Spratling Fotografi di scena David James, Jonathan Olley Musiche composte e dirette da John Williams Montaggio musiche Ramiro Belgart, Joseph Bon, Robert Wolff Registrazione musiche Shawn Murphy Montaggio Bob Ducsay Assistenti montatori Sam Bollinger, Shaun Aprahamian, Patrick J. Barry, Brett McManus Coordinatori post produzione Faye Morgan, Cody Vandenberg Scenografia Rick Heinrichs Progettazione visiva Kim Fredericksen, George Hull Direzione artistica Todd Cherniawsky, Chris Lowe, Phil Sims Arredatore Richard Roberts Assistenti Charlotte Crosby, Connor O’Hara Architetti di scena Roxana Alexandru, Quinn Robinson Capo attrezzista James McKeown Costumi Michael Kaplan Supervisione costumi David Crossman Ideazione trucco e acconciature Peter King Trucco prostetico Kristyan Mallett Fonici di produzione Stuart Wilson, Tim White Progettazione suono Ben Burtt, Ren Klyce Tecnici di missaggio Michael Semanick (dialoghi e musiche), David Parker (effetti sonori) Supervisore montaggio suono Matthew Wood Effetti speciali visivi e animazione Industrial Light & Magic Inc., a Division of Lucasfilm Ltd. ILM Studios San Francisco, Londra, Singapore, Vancouver Supervisori effetti visivi Ben Morris, Richard Bain, Mike Mulholland (Londra), Eddie Pasquarello (San Francisco), Alex Prichard (Singapore), Daniel Seddon (Vancouver) Produttori effetti visivi Tim Keene, Danielle Legovich (Londra), Dan Boothy (Vancouver) Produttrice esecutiva Janet Lewin Supervisore animazione Stephen Aplin, Matt Shumway (San Francisco) Supervisori composizione digitale Donny Rausch, Dan Snape, Jeff Sutherland Direzione artistica Kevin Jenkins, Yanick Dusseault Coordinatori effetti visivi Devin Anderson, Adrianna Nielle Davies, Jake Delaney, Adam Driscoll, Alyssa Harrison, Lane Howard, Weldon Huang, Jenny King, Rebecca Matkaluk, Katie Plumer, Kris Sundberg, Timothy Trimmings, Sean Wicks, Pearlyn Yeo Montaggio effetti visivi Conor Byrne, Adam Avery, Zack Mazerolle, Nick Dacey (Londra) Effetti visivi aggiuntivi Important Looking Pirates, Jellyfish Pictures, One of Us, Rodeo FX,Hybride Technologies, Stereo D Ideazione e animazione caratteri computer grafica Blind Ltd. London Supervisori effetti meccanici Neil Corbould, Branko Repalust (Croazia), Ian Lowe, John Van Der Pool Capi effetti meccanici Jody Eltham Esperti effetti
meccanici Vince Abbott, David Eltham, Matthew Johnson Progettazione creature Neal Scanlan Supervisore effetti animatronici Vanessa Bastyan Capi effetti animatronici Andy Colquhoun, Joshua Lee Modellisti creature Emily Hubbard, Karen Purvis Scultori creature Darren Nevin, Bradley Simms Effetti atmosferici (neve) Mark Hutchinson, Mike Butterfield, James Payton, John Schofield, Stephen Shelley Personaggi e interpreti Rey Daisy Ridley, Kylo Ren Adam Driver, Luke Skywalker Mark Hamill, Leia Carrie Fisher, Finn John Boyega, Poe Dameron Oscar Isaac, Maz Kanata Lupita Nyong’o, Supremo Leader Snoke Andy Serkis, Luogotenente Connix Billie Lourd, Generale Hux Domhnall Gleeson, C3PO Anthony Daniels, Paige Veronica Ngo, Chewbacca Peter Mayhew, Capitano Phasma Gwendoline Christie, Rose Tico Kelly Marie Tran, Vice ammiraglio Amilyn Holdo Laura Dern, DJ Benicio Del Toro, R2-D2 Jimmy Vee, Ammiraglio Ackbar Tim Rose, Capitano Canady Mark Lewis Jones, Warwick Davis
Titoli di coda
Federico Magni A chiusura della trattazione un sentito omaggio ai realizzatori del primo Guerre stellari che ci hanno lasciato dall’uscita della prima edizione:
John Stears (1934 - 28 Aprile 1999) effetti meccanici* Stanley W. Sayer (1917 - 5 Maggio 2000) consulente mascherini scorrevoli Robert R. Rutledge (1948 - 15 Ottobre 2001) montaggio suono
Peter Diamond (1929 - 27 Marzo 2004) coordinatore acrobazie Donald Trumbull (1909 - 7 Giugno 2004) progettazione meccanica Leon Ericksen (1937 - 19 Giugno 2007) direzione artistica seconda unità Harry Lange (1930 - 22 maggio 2008) direzione artistica Grant McCune (1943 - 27 Dicembre 2010) supervisore alle miniature* Albert J. Locatelli (1939 - 8 Aprile 2011) direzione artistica seconda unità Ralph McQuarrie (1929 - 3 Marzo 2012) illustratore Stuart Freeborn (1914 - 5 Febbraio 2013) supervisore trucco Gilbert Taylor (1914 - 23 Agosto 2013) direttore della fotografia James Nelson (1932 - 18 Giugno 2014) general manager ILM Joe Viskocil (1952 - 11 Agosto 2014) effetti pirotecnici Bob Minkler (1937 - 11 Ottobre 2015) missaggio effetti sonori* Eric Tomlinson (1931 - 24 Novembre 2015) registrazione musiche (George) Ray West (1925 - 17 Febbraio 2016) missaggio dialoghi* Richard Portman (1934 - 28 Gennaio 2017) missaggio dialoghi John Mollo (1931 - 25 Ottobre 2017) ideazione costumi* e ancora: Alec Guinness (1914 - 5 Agosto 2000) Obi Wan Kenoby Kenny Baker (1934 - 13 Agosto 2016) R2-D2 Carrie Fisher (1956 - 27 Dicembre 2016) Principessa Leia
*premio Oscar
Crediti
1997-2017 STAR WARS. I film, i personaggi, gli effetti speciali a cura di Massimo Benvegnù e Federico Magni Una realizzazione Falsopiano/Fogli Volanti secondo gli standard dell’International Digital Publishing Forum
ISBN 9788893041034 Progetto grafico a cura di Studio MalaMente
www.falsopiano.com