127 17 21MB
Italian Pages 464 [480] Year 1962
LEONE TROZKI
Lev Davidovic Bronstein (Trozki) nacque ad Elizavetgrad nel 1879. Era figlio di ebrei benestanti. Si laureò in legge a Odessa. Ancora giova nissimo ma già con anni di, carcere e di Siberia al suo attivo, evase ed emigrò clandestinamente a Londra per affiancarsi a Lenin nel movimento socialdemocratico che faceva capo a Plechanov. Fu indubbiamente il mi glior cervello della rivoluzione : Lenin lo superava per senso politico ma nessun altro personaggio della rivoluzione lo uguagliò nell'intendimento storico del fatto politico. Fu anche il più dinamico. In effetti fu lui ad organizzare l’insurrezione vittoriosa dell’ottobre 1917. Se la nuova repubblica sovietica superò le prove della lunga guerra civile, lo dovette a Trozki che trasformò le informi forze rivoluzionarie in un esercito grazie all’impiego di ufficiali zaristi per istruirlo e comandarlo. Era l’uomo più adatto a succedere a Lenin e quindi il più temuto da Stalin, che con una lunga e accanita macchinazione lo eliminò dalla vita politica, poi lo esiliò e infine lo fece uccidere da un sicario (Città del Messico, 20 agosto 1940). Delle sue opere, dopo questa postuma biografia di Stalin che riteniamo la più notevole per il contributo alla conoscenza storica della Russia So vietica, è particolarmente segnalata la Storia della rivoluzione russa (1937).
Questo libro, che Trozki scrisse negli ultimi tre anni della sua vita, dal gennaio 1937 quando giunse nel Messico all’agosto 1940 quando vi morì, è la sua opera più ma tura e sotto ogni riguardo la più importante. Ha avuto una strana sorte. La morte per mano di un sicario dell’OGPU sorprese Trozki quando stava ultimando la revi sione del manoscritto originale rus so e della traduzione inglese che doveva essere pubblicata dalla casa Harper & Brothers di New York. Era imminente la sua uscita quan do verso la fine del ’41 soprav venne Pearl Harbour; e il libro non vide la luce che a guerra fini ta, nel 1946. Al pubblico anglo sassone passò quasi inosservato. Così accadde all’incirca della tra duzione italiana pubblicata l’anno dopo da Garzanti, e di quella fran cese che Grasset pubblicò nel 1948. Pure è un’opera di valore enor me perchè fa luce sulla storia del la Russia moderna e sull’uomo che per oltre un quarto di secolo ne fu il protagonista. Per molti anni una schiera di biografi sovietici lavorò a costruire la figura ufficiale di Stalin, mentre uno stuolo di funzionari frugava gli archivi e le biblioteche delTUnione Sovietica per distruggere e sostituire tutti i documenti che potessero intaccare il mito eroico di Stalin e far dubitare delle colpe dei suoi nemici. E si soppressero addirittura i testimoni. Oggi lo storico non saprebbe dove trovare la verità, se non avesse per guida gli ultimi scritti di Trozki e in particolare questa biografia. Negli scritti precedenti Trozki aveva chiarito molti punti dell’attività staliniana durante gli anni del po tere; solo in questo ultimo libro egli indagò, con rigorosa docu mentazione, tutta la parte ante cedente della vita del dittatore. Continua nel II risguardo Sopracoperta di Fulvio Bianconi
Trozki era l’uomo più odiato da Stalin; ricambiasse o no tale odio (egli ci assicura di no), il pubblico vedeva in lui il nemico numero uno di Stalin. Quindi ogni sua presa di posizione poteva suscitare la diffidenza del lettore, se non fosse stata suffragata da solidis sime prove. Il libro è ricco di analisi geniali, ma il suo pregio maggiore sta proprio nell’abbon danza dei documenti e nel rigore con cui sono esaminati e con frontati. Nella premessa all’edizione ame ricana del ’46 Charles Malamuth dice che il libro, alla morte di Trozki, era ancora lontano dalla compiutezza. Egli basa tale per suasione sulla ricchezza eccezio nale dell’apparato documentario, in cui vede l’impalcatura appron tata dallo scrittore come guida alla prima stesura del libro, e destina ta a venire in gran parte ridotta nel testo definitivo. Ma Trozki non aveva bisogno di referenze biblio grafiche e d’archivio per ricostrui re fatti che conosceva benissimo. E quale funzione avesse il vastis simo corredo documentario nei riguardi del lettore, lo dice Trozki stesso nell’introduzione. La parte del libro che egli aveva già licen ziata (morì, si noti, una decina di giorni prima del termine, in cui contava di consegnare l’opera in tera all’editore) corrispondeva nel testo russo a circa quattro quinti del libro, nella versione inglese a circa tre quinti. Infine, il lettore riconoscerà facilmente la sostan ziale omogeneità fra le parti li cenziate per la stampa e quelle non ancora riviste dall’autore. Tutto si riduce a lievi differenze di forma. Il nuovo corso della politica sovietica e il crollo del mito sta liniano nell’ URSS conferiscono uno stimolante interesse e la più viva attualità a questo libro, che viene ora riproposto all’attenzione dei lettori italiani in rinnovata veste editoriale.
LEONE TROZKI
STALIN
GARZANTI
A cura di Ugo Tolomei
SUiM&icHW' fi/ CAWC/ Di/
Per il centenario della rivoluzione russa 1917-2017
NUOVA edizione: aprile 1962 Proprietà letteraria riservata
Printed in Italy
Officine Grafiche Garzanti - Milano
NOTA ALLA PRIMA EDIZIONE AMERICANA (1946)
Leone Trozki rivide i primi sette capitoli e l’appendice di questo libro nell’originale russo. Nella traduzione inglese rivide i primi sei capitoli — ma non il settimo — e l’appendice. I primi sette capitoli dovevano venire ancora rivisti e ridotti a una forma più concisa una volta completato il libro. Come tanti scrittori, Trozki era piuttosto fiducioso che preciso nel prevedere la data entro cui avrebbe terminato un libro; in più degli altri egli aveva quel tem peramento ottimista che è del rivoluzionario e del capo militare. Per di più, il suo lavoro fu continuamente turbato dalle minacce e dagli attentati alla sua vita. Così, la data in cui il suo libro sarebbe stato compiuto ebbe una serie di rinvii. Da ultimo egli ci segnalò che la fine di agosto 1940 sarebbe stata, per usare la sua espressione, la « data decisiva ». Ma il suo manoscritto non era ancora licenziato quando, il 20 agosto, egli fu mortalmente ferito da un sicario. Due giorni dopo morì. L’editore ha perciò lasciato i primi sette capi toli e l’appendice senza altre correzioni, salvo pochi tagli fatti per evitare delle ripetizioni. Parte del manoscritto non ancora licenziato (sotto forma di una lunghis sima striscia di fogli incollati insieme) era nello studio di Trozki al momento dell’attentato, e nella colluttazione tra lui e l’assassino alcuni punti del mano scritto furono sporcati di sangue e alcuni andarono distrutti. Del resto nessuna parte di questo scritto postumo aveva ricevuto dall’autore la sua forma pro prio definitiva. Vi entravano delle annotazioni che attendevano un ulteriore sviluppo, altre prese dalle pagine di altri scrittori, vari documenti, cartelle dettate e non ancora riviste dall’autore, il tutto ordinato alla buona in attesa della sistemazione definitiva. Alcuni brani erano messi insieme in maniera approssimativa e portavano abbozzati i titoli e sottotitoli. Gran parte era rappresentata da materiale non elaborato, raccolto sotto ottantuno sottotitoli, in più di centosessanta cartelle. Deriva da questo materiale grezzo gran parte dell'introduzione, e così i capitoli dall’ottavo in poi. Date le circostanze era inevitabile che diversi passaggi fossero inseriti dall’editore; ma si è cercato di ridurli al minimo indispensabile per chiarezza e coerenza. Sono dell’editore i titoli, l’ordine dato al testo in alcuni passi, la guida cronologica e l’indice. Il criterio seguito dall’editore, per la parte incompiuta del manoscritto, è stato dunque di pubblicare il testo completo omettendo solo le ripetizioni
VI
NOTA ALLA PRIMA EDIZIONE AMERICANA (1946)
LA PRIMA RIVOLUZIONE
77
Da dove ebbe questa informazione il narratore che non aveva avuto niente a che fare con la conferenza? Dmitrievski è un ex-diplomatico sovietico, uno « sciovinista » e antisemita unitosi per qualche tempo alla fazione di Stalin durante la sua lotta contro il trozkismo, che più tardi, quando fu all’estero, disertò passando all’ala destra dell’emi grazione bianca. £ significativo il fatto che diventato un attivo fascista Dmitrievski mantenne un’alta opinione di Stalin e continuò a detestare tutti i suoi avversari e a ribadire tutte le leggende del Cremlino. Ma sentiamo ancora un po’ la sua versione. Dopo la riunione in cui fu discusso il boicottaggio della Duma, Lenin e Stalin « uscirono insieme dalla Casa del Popolo dove si svolgeva la conferenza. Faceva freddo. Soffiava un vento gelido. A lungo essi girarono per le strade di Tammerfors. Lenin si sentiva attratto verso quell’uomo di cui aveva sentito parlare come di uno dei più risoluti e tenaci rivoluzionari della Trans caucasia. Desiderava sondarlo a fondo. Lo interrogò attentamente e a lungo sul suo lavoro, sulla sua vita, la gente che incontrava, le sue letture. Di tanto in tanto Lenin inseriva una frase breve... e il suo tono era di soddisfatta approvazione. Quell’uomo era proprio della specie di cui egli aveva bisogno ». Dmitrievski non era a Tammerfors, non poteva aver origliato la conversazione di Lenin con Stalin pedinandoli di notte. Inoltre risul ta evidente dal suo libro che non parlò mai con Stalin; e non lo cita come fonte. Pure quando lessi la sua storia vi sentivo dentro una voce viva e come familiare. Con un lieve sforzo di memoria riuscii a capire cosa era : Dmitrievski non aveva fatto che trasportare su uno sfondo finlandese il racconto dei miei primi incontri con Lenin e i nostri vagabondaggi per le strade di Londra nell’autunno del 1902. Il folklore è ricchissimo di queste trasposizioni di brillanti episodi da un eroe mi tologico a un altro; la sua storiografia burocratica adopera la stessa tecnica. Koba aveva ventisei anni quando finalmente uscì dal suo guscio provinciale e apparve nell’orbita del partito. Per la verità la sua appa rizione fu appena notata e ci vollero sette anni prima che egli diven tasse membro del comitato centrale. Pure la conferenza di Tammerfors fu una pietra miliare nella sua vita. Vide Pietroburgo, incontrò i capi del partito, ne potè vedere il meccanismo da vicino, ebbe modo di paragonarsi agli altri delegati, prese parte a discussioni, fu eletto a far parte di un comitato e, (come dice la sua biografia ufficiale) « si legò definitivamente a Lenin ». Purtroppo, di tutto questo si sa molto poco. La storia del suo primo incontro con Lenin, la fece lo stesso Stalin parlando a una riunione solenne degli allievi ufficiali dell’Armata rossa
78
STALIN
al Cremlino. La fece, è vero, il 28 gennaio 1924 cioè una settimana dopo che Lenin morendo si era privato della facoltà di correggere le sue eventuali inesattezze. Non che il racconto, convenzionale e arido, ci dica gran che; ma definisce così bene il suo autore che merita di riportarlo. « Mi incontrai la prima volta col compagno Lenin nel di cembre 1905 alla conferenza bolscevica di Tammerfors in Finlandia. Avevo tanto sperato di vedere l’aquila di montagna del partito, il grand’uomo, grande non solo come figura politica, ma, dirò, proprio fisicamente : me lo immaginavo gigantesco e solenne. E quale non fu la mia delusione quando vidi un uomo assolutamente qualunque, di statura un po’ inferiore alla media, un uomo che non si distingueva per nulla dai comuni mortali... » Qui facciamo una pausa un momento. Un calcolo astuto si nasconde dietro la finta ingenuità delle immagini dove l’« aquila di montagna » si incrocia con l’uomo gigantesco. Sta lin in sostanza diceva ai cadetti : Non giudicatemi dalla mia aria qua lunque, neanche Lenin aveva niente di speciale nell’aspetto. « £ un uso ammesso, » continuò Stalin, « che il ” grand’uomo ” giunga tardi alle riunioni: così gli altri lo aspettano con l’animo teso; e quando spunta si sente mormorare: ” Zitti... Eccolo... Sta arrivando! ” Per me questa usanza non era superflua : serve a mantenere vivo il rispetto per il capo. Perciò fui ancora più deluso quando seppi che Lenin era giunto alla riunione prima di gran parte dei delegati; mezzo nascosto in un angolo, conversava con alcuni delegati senza impor tanza. Non vi nascondo che mi parve la violazione di una regola ele mentare. Solo più tardi ho capito che la semplicità, la modestia del compagno Lenin, il suo bisogno di passare inosservato o per lo meno di non rendersi vistoso, di non sottolineare la sua importanza : questi tratti erano tra i più notevoli nel carattere del compagno Lenin. Erano i tratti del capo di nuove masse, masse di gente ordinaria e umile, di gente situata al piede della scala sociale... » Il contrasto che vuole inscenare Stalin è bugiardo. Fino al 1905, vivendo a Tiflis e a Baku, è ben poco verosimile che il compagno Koba avesse trovato il modo di accorgersi delle « regole » a cui dovrebbe uniformarsi il grand’uomo che arriva a un’adunata. Era il tempo dell’attività clandestina, e non potevano esserci mai comparse teatrali in sale di assemblea, esclama zioni commosse e roba così; meno che mai, poi, in una conferenza limitata ad elementi dirigenti del partito. Quando confessa con finta semplicità che quel rito solenne non gli era apparso un rito superfluo, pensa solo a guadagnarsi gli ascoltatori con un espediente. Commette un falso trasferendo al 1905 gli usi del mondo sovietico in un’epoca molto posteriore in cui la comparsa di uno dei capi più popolari poteva
LA PRIMA RIVOLUZIONE
79
essere accolta da un uragano di applausi, senza rituale prestabilito del resto. Venuti quei tempi non vi si era potuto sottrarre neanche Lenin; anzi meno degli altri. Stalin no: non aveva esperienza perso nale di ovazioni perchè le sue comparse sulla tribuna passavano inos servate; e non perchè si studiasse di rimanere nell’ombra. Lo stesso suo discorso ai cadetti mostra il contrario. « Soprattutto due discorsi tenuti da Lenin a quella conferenza, » continuò Stalin, « furono notevoli : uno sulla situazione generale del momento l’altro sul problema agrario. Purtroppo non se ne è conservato il testo. Due discorsi pieni di foga, che accesero gli animi degli ascolta tori. L’estremo potere di convinzione, la semplicità e la chiarezza nei ragionamenti, le sue frasi corte e comprensibili per tutti, la mancanza di pose, di gesti teatrali, di frasi a effetto : questi tratti contribuivano a rendere l’oratoria del compagno Lenin superiore a quella di tutti gli altri. Ma devo dire che a conquistarmi fu un altro aspetto dei discorsi del compagno Lenin. Ed era la forza irresistibile della sua logica : una logica secca ma che dominava gli ascoltatori, a poco a poco li elettriz zava, finiva per irretirli. Ricordo che molti delegati dicevano : ” La logica del compagno Lenin è come un polipo gigante che ti abbraccia da ogni parte coi suoi tentacoli, in tenaglie di ferro, sicché non puoi sfuggirgli, o ti arrendi o è il disastro completo.” Ecco, questo era il tratto più notevole dell’arte oratoria del compagno Lenin... » Si sente a orecchio che Stalin qui non pensa a Lenin, pensa a spacciarsi per oratore presso i cadetti : a convincerli che i buoni oratori sono per un parlamento borghese, la potenza oratoria è un’altra cosa... Se ci si guarda dentro, il ritratto che fa di Lenin oratore è spettacoloso : « Discorsi pieni di foga », « logica secca » che « elettrizza » poi « irre tisce » ; il « polipo gigante » che ti abbraccia « coi suoi tentacoli » che poi sono « tenaglie di ferro ». È difficile cogliere qui dentro un’imma gine del compagno Lenin, ma l’immagine che ne esce del compagno Stalin è grandiosa. Il congresso di unificazione potè riunirsi solo nell’aprile 1906 a Stoccolma. Nel frattempo il soviet di Pietroburgo era stato arrestato, l’insurrezione di Mosca soffocata, un’ondata di repressione aveva spaz zato il paese intero. I menscevichi piegavano verso la destra. Plechanov espresse il loro stato d’animo con una frase eloquente : « Non avremmo dovuto prendere le armi! » I bolscevichi rimanevano fermi nel loro orientamento alla rivolta. Sul cadavere della rivoluzione lo zar convocava la prima Duma nella quale, fin dal principio delle ele zioni, la vittoria dei liberali sull’aperta reazione menscevica si profilava chiaramente. I menscevichi, che poche settimane prima propendevano
80
STALIN
per un semi-boicottaggio della Duma, ora avevano trasferito le loro speranze dalla lotta rivoluzionaria alle conquiste costituzionali. Al mo mento del congresso di Stoccolma essi vedevano il compito più impor tante della social-democrazia nel dare appoggio ai liberali. I bolscevichi aspettavano di vedere i nuovi sviluppi delle insurrezioni contadine che dovevano ridare vita alla lotta proletaria e spazzare via la Duma imperiale. All’opposto dei menscevichi continuavano a parteggiare per il boicottaggio. Come sempre dopo una disfatta, le divergenze si erano fatte estremamente aspre. Fu sotto tali cattivi auspici che il congresso delle unificazioni iniziò i suoi lavori. Il numero dei delegati con voto deliberativo era centotredici tra cui menscevichi e bolscevichi. Almeno teoricamente ogni delegato rap presentava trecento iscritti, sicché l’intero partito aveva poco meno di 34.000 membri di cui circa 19.000 menscevichi e 14.000 bolscevichi. Ma la gara elettorale induceva a esagerazioni, e le cifre reali erano senza dubbio molto più modeste. In ogni modo in quel periodo il partito non stava aumentando ma assottigliando le sue fila. Dei centotredici dele gati undici rappresentavano Tiflis. Di questi, dieci erano menscevichi e uno bolscevico. Quest’unico bolscevico era Koba sotto lo pseudonimo di Ivanovic. La relazione delle forze è indicata da questi dati aritmetici. Beria ha avuto la temerarietà di asserire che « sotto la direzione di Stalin » i bolscevichi del Caucaso avevano isolato i menscevichi dalle masse. Le cifre davvero non sembrano dargli ragione. La partecipazione abbastanza attiva di Ivanovic ai lavori del con gresso è documentata dai verbali. Ma se leggendoli uno non sapesse che Ivanovic era Stalin, non presterebbe la minima attenzione ai suoi discorsi e ai suoi interventi. Dieci anni fa nessuno li citava e gli storio grafi del partito non si erano ancora accorti che Ivanovic e il futuro segretario generale del partito erano la stessa persona. Ivanovic fu messo a un comitato tecnico che studiava le modalità di elezione dei delegati. Per quanto insignificante, l’incarico è sintomatico: Koba era nel suo elemento quando si trattava della tecnica dell’apparato. Per inciso : i menscevichi lo accusarono due volte di truccare i rapporti. Non si può giurare sull’obbiettività degli accusatori, ma resta che di simili incidenti la carriera di Stalin è fittamente costellata. Al centro dei lavori del congresso era la questione agraria. Il movi mento dei contadini aveva preso alla sprovvista il partito. Il vecchio programma social-democratico, che non prevedeva quasi nessuna azione ai danni della grande proprietà fondiaria, era crollato. La confisca dei latifondi diventava inevitabile. I menscevichi lottavano per la « municipalizzazione », cioè per il trasferimento delle terre alle ammi
LA PRIMA RIVOLUZIONE
81
nistrazioni democratiche locali. Lenin era per la « nazionalizzazione », purché il potere si trasferisse totalmente al popolo. Plechanov, il mag gior teorico del menscevismo, raccomandava di non fidarsi troppo del futuro governo centrale e non armarlo con la proprietà delle terre. « La repubblica sognata da Lenin, » diceva, « non avrà vita molto lunga. Non possiamo illuderci che si instauri in Russia un sistema demo cratico come quello che vige in Svizzera, in Inghilterra o negli Stati Uniti. Dato anche il rischio di una restaurazione monarchica la nazio nalizzazione è pericolosissima... » Così caute e modeste erano le vedute del padre del marxismo russo! A suo avviso il trasferimento della terra allo Stato era ammissibile solo nella certezza che lo Stato stesso sarebbe appartenuto ai lavoratori. « La conquista del potere, » diceva, « diven terà indispensabile quando faremo la rivoluzione proletaria. Ma questa nostra rivoluzione non potrà essere che piccolo-borghese, e perciò dob biamo rinunciare a impadronirci del potere. » Il fatto è che Plechanov vedeva subordinata la lotta per il potere ad una definizione sociologica a priori, meglio a una nomenclatura della rivoluzione, anziché al rap porto reale tra le sue forze interne; e questo era il tallone di Achille di tutta la sua strategia dottrinaria. Lenin voleva che i comitati rivoluzionari rurali occupassero le terre e Un’Assemblea Costituente sanzionasse l’occupazione con una legge di nazionalizzazione. « Nel mio programma agrario, » scrisse, « l’insurre zione dei contadini potrà completare la rivoluzione democratico-bor ghese. » Su un punto essenziale egli era d’accordo con Plechanov : la rivoluzione doveva cominciare e doveva concludersi come una rivo luzione borghese. Il capo del bolscevismo non riteneva impossibile per la Russia realizzare coi soli suoi mezzi il socialismo ma trovava assurdo sperare che la Russia mantenesse le sue conquiste democratiche se non interveniva una rivoluzione socialista in Occidente. Al congresso di Stoccolma espose questo suo punto di vista in forma inequivocabile : « La rivoluzione borghese democratica in Russia potrà trionfare coi suoi soli mezzi ma non potrà conservare e consolidare le sue conquiste a meno che sopravvenga una rivoluzione socialista in Occidente. » Non ha senso comune l’interpretazione data più tardi da Stalin a que ste parole : che cioè Lenin si riferisse alla minaccia di un intervento straniero. Lenin parlava dell’inevitabilità della restaurazione del vec chio regime, causata dal fatto che il contadino una volta divenuto piccolo proprietario — o l’equivalente del piccolo proprietario sotto la forma di un possesso senza la nominale proprietà — avrebbe finito per rinnegare la rivoluzione. « La restaurazione diventerebbe imman cabile, sia in caso di municipalizzazione, sia in caso di nazionalizzazione
82
STALIN
o di spartizione della proprietà fondiaria, perchè il piccolo proprieta rio, sotto forma esplicita o larvata, sarà immancabilmente un fautore della restaurazione. Dopo la vittoria totale della rivoluzione democra tica, » insisteva Lenin, « i piccoli proprietari certamente si rivolte ranno contro il proletariato; e più presto avremo fatto a rovesciare il nemico comune del proletariato e della piccola proprietà contadina, più presto vedremo questa seconda insorgere contro di noi... La rivo luzione democratica ha questa sola forza di riserva : il proletariato europeo. » Ma Lenin anche se vedeva il destino della « democrazia » russa nelle mani del socialismo europeo, non vedeva però tra l'insurrezione democratica e il raggiungimento dello « scopo finale » una lunga, inde terminabile fase di attesa. Già nel periodo della lotta proletaria ci si doveva impadronire dei punti strategici da dove si poteva compiere una rapida avanzata verso la meta socialista. La nazionalizzazione delle terre doveva aprire una finestra sul futuro. « Venuto il momento della rivoluzione democratica e della rivolta dei contadini, » disse, « non ci potremo fermare alla confisca della grande proprietà terriera, dovre mo andare oltre, vibrare un colpo decisivo a tutta la proprietà rustica, e in tal modo aprire la strada alle ulteriori lotte socialiste. » Ma Ivanovic alias Stalin non era d’accordo con Lenin su questo punto essenziale per le sorti della rivoluzione. In quel congresso egli si espresse in modo deciso contro la nazionalizzazione e a favore della distri buzione delle terre confiscate fra i contadini. Fino ad oggi ben pochi nell’Unione Sovietica sanno di una divergenza di vedute chiaramente documentata dai verbali del congresso : perchè è vietato a chiunque citare o anche alludere al discorso che tenne Stalin in sede di discus sione del problema agrario. Un discorso molto importante. Stalin disse : « Poiché ci avviamo a concludere una temporanea alleanza rivoluzio naria coi contadini, non possiamo ignorare il programma della loro lotta anzi è necessario che lo appoggiamo se esso non è di ostacolo alle finalità economiche della rivoluzione. I contadini chiedono la spar tizione. La spartizione non è in contrasto coi fenomeni summenzionati (sù?). Dunque dobbiamo appoggiare la spartizione. Dunque sia la na zionalizzazione sia la municipalizzazione diventano inaccettabili. » Al cuni anni più tardi Stalin doveva raccontare che a Tammerfors Lenin aveva tenuto un impareggiabile discorso sulla questione agraria, susci tando l’entusiasmo generale; avrebbe trascurato però di dire che — fa cendo eccezione fra tanto entusiasmo — lui Stalin aveva parlato contro il programma agrario di Lenin : lo aveva definito un programma « inaccettabile ».
LA PRIMA RIVOLUZIONE
83
Il fatto che il giovane delegato del Caucaso, il quale non cono sceva affatto la Russia, osasse farsi avanti così recisamente contro il suo capo sulla questione agraria, non può non provocare meraviglia. Koba di regola evitava di avventurarsi su un ghiaccio infido, si guardava dal rimanere nella minoranza. Entrava in una discussione solo quando era certo di avere la maggioranza dietro le spalle; come negli anni a ve nire, era certo che l’apparato organizzativo gli assicurava la vittoria indipendentemente dalla maggioranza. I motivi che lo spingevano a parlare in difesa della spartizione delle terre dovevano essere ben forti. Per quanto se ne può appurare a distanza di trent’anni, i motivi erano due, e tutt’e due altamente caratteristici di Stalin. Koba era entrato nella rivoluzione da plebeo provinciale. Le idee di Lenin sulla rivoluzione internazionale gli erano estranee. Egli cer cava « garanzie » più immediate. Il sentimento individualista della pro prietà terriera era molto più vivo fra i contadini georgiani che fra quelli russi : i primi non avevano fatto l’esperienza delle « terre comu nali ». E il figlio del contadino di Didi-Lilo aveva solo in mente che beneficiando quei piccoli proprietari col regalo di altri pezzetti di terra il partito si metteva più al sicuro dalla controrivoluzione. Insomma è chiaro che nel suo caso lo «^spartizionismo » non era una convinzione dottrinaria ma diventava un programma organico in perfetta armo nia con le fondamentali inclinazioni della sua natura, con la sua edu cazione, col suo ambiente sociale. Vent’anni dopo, riscopriremo in lui un atavico ritorno allo « spartizionismo ». Quasi altrettanto chiaro ci sembra il secondo motivo di Koba. Ai suoi occhi il prestigio di Lenin era decisamente diminuito dalla disfatta di dicembre : egli dava sempre un ben maggiore significato al fatto che alla idea. In quel congresso Lenin era in minoranza. Koba non poteva vincere a fianco di Lenin. Questo fatto sarebbe bastato da solo a screditare ai suoi occhi il programma della nazionalizzazione. Per i bolscevichi come per i menscevichi la spartizione significava un male minore in paragone al programma della fazione opposta; perciò Koba aveva qualche ragione di sperare che la maggioranza avrebbe finito per ripiegare sul male minore. L’inclinazione organica del demo cratico radicale coincideva col calcolo dello stratega. Però Koba calcolò male: i menscevichi disponendo di una forte maggioranza non furono costretti a scegliere il male minore. È importante notare per futura memoria che al tempo del con gresso di Stoccolma, Stalin considerava l’unione del proletariato coi contadini solo come « temporanea » : non pensava nemmeno che i con tadini potessero mai diventare alleati permanenti del proletariato.
84
STALIN
Vent’anni dopo, questa « mancanza di fede » nei contadini doveva venir dichiarata la principale eresia del « trozkismo ». Ma molte altre vent’anni dopo dovevano ricomparire in scena con aspetto altrettanto mutato. Nel 1906 Stalin dichiarava il programma agrario dei bolscevichi e quello dei menscevichi, la nazionalizzazione e la municipaliz zazione, ugualmente inaccettabili, mentre per lui la spartizione della terra non era « di ostacolo alle finalità economiche della rivoluzione ». Il rapporto principale dei partigiani della spartizione però non fu fatto dall’ignoto Ivanovic, ma dall’assai più autorevole Suvorov, che sviluppò il punto di vista del suo gruppo con sufficiente ampiezza. « Si dice che questa è una misura borghese, ma il movimento stesso dei contadini è piccolo-borghese », disse Suvorov. « Se vogliamo appog giare i contadini dobbiamo farlo proprio in questo modo. Paragonata alla schiavitù l’economia indipendente dei contadini rappresenta un passo avanti; sarà superata da altri sviluppi quando verrà l’ora. » La trasformazione della società in senso socialista, cioè, potrà avvenire solo quando lo sviluppo capitalistico avrà « sorpassato », cioè quando sarà rovinato anche il piccolo proprietario creato dalla rivoluzione borghese. Ma il vero autore del programma della spartizione delle terre non era Suvorov, era lo storico radicale Roikov, il quale si era unito ai bolscevichi poco dopo la rivoluzione del 1905. Egli non partecipava al con gresso perchè era in prigione. Secondo le vedute di Roikov, che egli sviluppò in una polemica con l’autore di questo libro, non solo la Rus sia ma anche paesi assai più progrediti erano immaturi per una rivo luzione socialista. Il capitalismo aveva ancora davanti a sè in tutto il mondo un lungo periodo di progressi, il cui termine si perdeva nella nebbia del futuro. Per facilitare il compito del capitalismo russo, che era più arretrato di tutti gli altri sistemi capitalistici, il proletariato doveva tollerare la spartizione delle terre come prezzo dell’alleanza dei contadini. Ben presto l’illusione di un livellamento agrario si sa rebbe dissipata, perchè gradualmente la terra sarebbe tornata a con centrarsi nelle mani dei proprietari più capaci e progrediti : ci sarebbe un ritorno al capitalismo. Nella prima votazione Lenin si unì ai partigiani della spartizione perchè « non andassero dispersi i voti contrari alla municipalizza zione». Egli considerava il programma della spartizione come un male minore; ma precisò che pur presentando una certa difesa contro la restaurazione della nobiltà terriera e dello zar, la spartizione poteva anche creare la base per una dittatura del tipo bonapartista. Egli accusava i partigiani della spartizione di essere « unilaterali, conside
LA PRIMA RIVOLUZIONE
85
rando il movimento dei contadini solo dal punto di vista del passato e del presente senza prendere in considerazione il futuro del sociali smo ». Quando il contadino vede la terra come una proprietà « di Dio » oppure « di nessuno », pensa con mente confusa e obbedisce al suo individualismo e alle sue inclinazioni mistiche. Però nelle sue viste c’è uri elemento progressivo che bisogna agganciare per utilizzarlo contro l’ordinamento borghese. I partigiani della spartizione (Lenin in quel discorso li chiamò « practicos ») non ci riuscirebbero. Saprebbero solo « gonfiare un lieve errore facendone uno grosso... Grideranno alle masse contadine che la terra è di nessuno, che è di Dio... Il governo approfitterà dei vantaggi della spartizione per diffamare e avvilire il marxismo ». Sulle labbra di Lenin « practicos » era una parola di di leggio che indicava i rivoluzionari di vedute ristrette, i propagandisti di piccole formule definite. È interessante notare che nel corso dei venticinque anni che seguirono Stalin doveva spesso proclamarsi con orgoglio un « practico » in distinzione dai « letterati » e dagli « emi grati ». Più tardi si proclamò «teoretico»; ma fu solo dopo che, a mezzo dell’apparato politico, ebbe ottenuto la vittoria pratica e si fu assicurato un buon riparo contro ogni critica. Plechanov aveva ragione a connettere strettamente la questione agraria con quella del potere. Anche Lenin era consapevole di questa connessione, e in modo assai più profondo. Secondo Lenin per rendere possibile la nazionalizzazione si doveva instaurare la dittatura democra tica dei proletari e dei contadini, che egli distingueva nettamente dalla dittatura socialista del proletariato. Al contrario di Plechanov, Lenin pensava che la rivoluzione agraria non sarebbe stata realizzata dai liberali ma dalla plebe, o non si sarebbe realizzata affatto. Ma la natura della « dittatura democratica » che egli predicava rimase sem pre nebulosa. Secondo Lenin se i rappresentanti della piccola proprietà ottenevano una posizione dominante in un governo rivoluzionario (una eventualità poco probabile in una rivoluzione borghese del secolo ven tesimo) questo governo correva il pericolo di diventare uno strumento della reazione. La verità è che se il proletariato conquista il potere con l’aiuto della rivoluzione agraria, cadono le barriere che dividono la rivoluzione democratica dalla rivoluzione socialista; perchè la prima si trasforma certamente nella seconda, la rivoluzione diventa « perma nente ». Lenin non aveva nella sua attrezzatura teorica gli estremi per ribattere a questo argomento. Quanto a Koba il « practico », egli guar dava con spregio sovrano alla prospettiva di una « rivoluzione per manente ». Difendendo contro i menscevichi i comitati rivoluzionari contadini
86
STALIN
in quanto strumenti per l’esproprio delle grandi proprietà terriere Ivanovic disse : « Se l’emancipazione del proletariato può essere opera del proletariato, quella dei contadini può essere opera dei contadini » : formula simmetrica che è una parodia del marxismo. L’idea di una missione storica del proletariato si basa principalmente sull’assunto che il piccolo-borghese non potrebbe affrancarsi con le sue mani. Certo la rivoluzione contadina non si fa senza la partecipazione dei conta dini, dei loro contingenti armati, dei loro comitati e via dicendo; però le sorti della rivoluzione contadina si decidono in città. Super stite amorfa della società medioevale, la campagna non può avere una politica sua, ha bisogno di venir guidata da fuori. La funzione di sua guida, due nuove classi se la contendono. Se i contadini si affidano alla borghesia liberale, la rivoluzione si blocca a mezza via per poi tornare indietro. Se si accoda al proletariato, inevitabilmente la rivo luzione sfonderà i limiti borghesi. La prospettiva di una rivoluzione permanente era, precisamente, fondata su questa particolare conce zione del rapporto tra le classi in una società borghese storicamente arretrata. Ma a Stoccolma nessuno difese queste prospettive. La rivoluzione era in regresso; i menscevichi meditavano di far blocco coi liberali; i bolscevichi erano in minoranza e, per di più, in discordia tra loro. La prospettiva di una « rivoluzione permanente » doveva aspettare undici anni per tornare a fiorire. Con sessantadue voti contro quaran tadue e sette astenuti il congresso adottò il programma menscevico di « municipalizzazione » ; cosa che poi non avrebbe avuto alcun effetto pratico : i contadini non se ne diedero per intesi, i liberali boicottarono il programma. Nel 1917 i contadini avrebbero subito la nazionalizza zione delle terre come già l’ascesa dei soviet al potere e il predominio bolscevico nel partito.
Ivanovic tenne altri due discorsi al congresso ma furono semplicemente parafrasi di discorsi e articoli di Lenin. Esaminando la situa zione generale del partito egli biasimò giustamente la condotta dei menscevichi che svilivano il movimento popolare per adattarlo a tutti i costi alla politica della borghesia liberale. « O l’egemonia del prole tariato, » disse ripetendo quello che era ormai uno slogan, « o l’ege monia della borghesia democratica : il problema è tutto qui, qui stanno tutte le nostre divergenze. » Ripeteva quest’alternativa ormai prover biale, ma non che la capisse. L’egemonia del proletariato significa la sua prevalenza politica sulle altre forze rivoluzionarie nel paese e soprattutto sui contadini. All’indomani di una vittoria rivoluzionaria
LA PRIMA RIVOLUZIONE
87
questa « egemonia » deve naturalmente tradursi nella dittatura del proletariato con tutto ciò che ne deriva. Ma Koba sapeva solo che la rivoluzione russa doveva aprire la strada al regime borghese! Miste riosamente egli accordava l’idea di un’egemonia proletaria con quella di una politica indipendente fatta dai contadini, i quali si sarebbero liberati da sè e avrebbero diviso le terre in piccoli lotti! Questo congresso fu chiamato « di unificazione » ed effettivamente vi si compì l’unione formale delle due frazioni del partito e delle organizzazioni nazionali (la social-democrazia polacca, lituana e lettone e il Bund ebraico). Ma la sua importanza non stava qui; stava, come vide Lenin, nel fatto che essa « mise in luce il distacco netto fra ala destra e sinistra della social-democrazia ». La scissione intervenuta al secondo congresso non era stata che un’« anticipazione » presto sor passata; l’unificazione sancita a Stoccolma fu un passo compiuto sulla via della nuova e definitiva scissione che sarebbe avvenuta sei anni dopo. Pure, durante il congresso Lenin era ben lontano dal pensare che la scissione fosse inevitabile. Era ancora troppo recente l’esperienza dei mesi drammatici del 1905 quando i menscevichi avevano sterzato violentemente verso sinistra. È vero che subito dopo quell’episodio i menscevichi, come scrive fa Krupskaia, « avevano mostrato chiara mente il loro gioco » ; ma per allora Lenin, secondo la testimonianza della sua compagna, continuava a sperare « che una nuova ondata rivoluzionaria (della quale egli era certo) li avrebbe investiti portandoli a riconciliarsi con la frazione bolscevica ». Senonchè la « nuova ondata » non sopravvenne affatto. Subito dopo il congresso Lenin scrisse un appello al partito, firmato anche da altri delegati della « ex-frazione bolscevica » (in teoria le frazioni non esistevano più) : appello che conteneva una sobria ma precisa critica della risoluzione adottata. È da notare che dei quaran tadue bolscevichi che avevano preso parte al congresso solo ventisei firmarono l’appello. Mancano le firme di Ivanovic e del capo del suo gruppo, Suvorov. I partigiani della spartizione ritenevano la loro diver genza dal gruppo di Lenin abbastanza importante per non volersi rivol gere al partito assieme a loro, benché sulla questione agraria l’appello fosse formulato in modo molto circospetto. Perderemmo tempo a cer care dei commenti a questo fatto nelle recenti pubblicazioni ufficiali del partito. Del resto Lenin in un minuzioso rapporto a stampa sul congresso di Stoccolma, in cui espone per esteso gli argomenti discussi e nomina tutti gli oratori di una qualche importanza sia bolscevichi che menscevichi, non fa un solo accenno ai discorsi di Ivanovic : evi dentemente non li considerava così importanti come a trent’anni di
88
STALIN
distanza si vuole che li ritenesse. La situazione di Stalin nel partito, per quello che ci risulta, non mutò. Non venne proposto per il comi tato centrale, che fu costituito da tre bolscevichi, Krasin, Rykov e Desnizki, e da sette menscevichi. Koba per allora rimaneva « uno dei militanti del Caucaso ». Negli ultimi due mesi dell’anno della prima rivoluzione il Caucaso era stato una caldaia in ebollizione. Nel dicembre 1905 il comitato degli scioperi, presa in mano l’amministrazione delle ferrovie transcau casiche e del telegrafo, era diventato padrone della vita economica di Tiflis. In periferia comandavano gli operai armati. Ma non durò a lungo : presto le autorità militari tornarono a dominare la situazione. In tutto il governatorato di Tiflis fu proclamato lo stato d’assedio. Ci furono scontri armati a Kutais, a Ciaturi e altrove. Nella Georgia occidentale infuriava la rivolta contadina. In una lettera scritta il 10 dicembre dal capo della polizia del Caucaso Scirinkin al ministro della Polizia a Pietroburgo si legge : « Nel governatorato di Kutais la situazione è delicata... i ribelli hanno disarmato la polizia, si sono impadroniti delle ferrovie, loro stessi vendono i biglietti e fanno il servizio d’ordine... Di laggiù non mi giungono più rapporti, i gendarmi sono stati chiamati a Tiflis. I nostri corrieri vengono fermati e perqui siti dai ribelli che si impadroniscono delle carte che trovano loro addosso. Anche qui la situazione è insostenibile... Il governatore gene rale è stato colpito da un esaurimento nervoso... Manderò altri parti colari per posta o, se non è possibile adoperare la posta, a mezzo di corriere... » Tutto ciò non avveniva a caso. L’iniziativa della massa che si era risvegliata certo contava molto; ma non sarebbe bastata se fra gli operai non c’erano anche degli specialisti, degli organizza tori periferici e dei capi. Ma Koba mancava dalla scena. Faceva il giornalista e commentava senza darsi fretta gli avvenimenti già scaduti. Proprio nelle giornate più turbolente, potè andarsene a Tammerfors; e nessuno si accorse della sua assenza nè del suo ritorno. La situazione anche laggiù presto si capovolse una volta repressa la rivolta a Mosca : conseguenza, questa, della repressione avvenuta a Pietroburgo dove gli operai erano esausti dalla lunga lotta e per ef fetto delle serrate. La fine dell’insurrezione in Transcaucasia, nei paesi baltici e in Siberia veniva da sè. Era l’ora della reazione; ma i bol scevichi stentavano a rendersene conto, anche perchè nel riflusso gene rale c’era ancora qualche onda che saliva isolata. Tutti i partiti rivo luzionari, anzi, si ostinavano a credere che stesse per giungere a riva la grande ondata. Quando dei fedeli un po’ più scettici osservavano a Lenin che la reazione sembrava in netta ripresa, Lenin rispondeva:
LA PRIMA RIVOLUZIONE
89
« Sarò l’ultimo ad ammetterlo. » Ma l’andamento degli scioperi, che sono l’espressione essenziale della volontà di rivolta nella massa, parlava eloquentemente: nel 1905 due milioni settecentocinquantamila scio peranti, nel 1906 neanche un milione. Ed ecco la spiegazione data allora da Koba : per lui il proleta riato non aveva subito che scacchi episodici, « prima di tutto perchè gli mancavano le armi, o ne aveva troppo poche; e avete un bell’essere risoluti, non vi buttate a fermare i proiettili con le mani! » La spiega zione era un po’ semplicistica. Certo è difficile fermare le pallottole con le mani, ma la disfatta aveva cause più profonde. La sollevazione in massa dei contadini non era avvenuta; e quel tanto, si era verificato più in periferia che al centro. L’esercito non era stato abbastanza infiltrato. Il proletariato conosceva ancora troppo male sia la sua forza sia quella del nemico. Il 1905 ha un suo immenso significato storico : fu « l’anno delle prove generali ». Ma questa definizione Lenin l’avreb be data alquanto più tardi. Nel 1906 era convinto che il sipario si stesse alzando per la rappresentazione. E Koba nel gennaio 1906 para frasando Lenin come sempre, e come sempre semplificandone la visione fino a deformarla, scriveva : « Una volta per tutte dobbiamo rompere ogni esitazione, agire risolutamente, partire nell’azione tagliandoci i ponti alle spalle... L’unità del partito, la rivolta armata diretta dal partito, una politica aggressiva : ecco ciò che ci darà la vittoria. » Ma nemmeno i menscevichi si decidevano ancora ad ammettere che la rivoluzione era finita. Nessuno aveva obbiettato quando al congresso di Stoccolma Ivanovic aveva detto : « Eccoci alla vigilia di una se conda esplosione... Su questo siamo tutti d’accordo. » Non ci sarebbe stata nessuna esplosione ; e quanto alla « politica aggressiva » essa du rava sì, ma stava divenendo la politica dei colpi di mano, della guerri glia frammentaria. Stava dilagando su tutto il paese l’ondata delle « confische », delle « espropriazioni » : parole che volevano poi dire gli assalti alle banche, alle tesorerie, ai convogli che portavano del danaro. Frantumata la rivoluzione, ora l’iniziativa era nelle mani del go verno tornato padrone dei suoi nervi. Fra l’autunno e l’inverno i rivo luzionari avevano abbandonato la « clandestinità », si erano mostrati a viso aperto, sicché ora la polizia conosceva uno per uno i suoi avver sari. Il regolamento dei conti cominciò il 3 dicembre con l’arresto in massa del soviet di Pietroburgo. Presto, tutti i militanti che non avevano fatto a tempo a scomparire si trovarono in stato d’arresto. La vittoria dell’ammiraglio Dubasov sui rivoltosi di Mosca diede il segnale a un maggiore incrudelire della repressione. Si calcola che tra il gennaio 1905 e la convocazione della prima Duma il 27 aprile 1906
90
STALIN
venissero uccise più di quattordicimila persone, oltre alle mille giustiziate pubblicamente; ne venissero ferite ventimila e imprigionate ed esiliate circa settantamila. Le vittime furono particolarmente numerose nel dicembre 1905 e nei primi mesi del 1906. Koba non si espose; non fu ferito nè esiliato nè incarcerato. Non ebbe nemmeno bisogno di nascon dersi. Restò a Tiflis; e da Tiflis era possibile partire di nascosto per Tammerfors ma non era possibile stando a Tiflis dirigere di nascosto la rivolta popolare. La verità è una sola : Koba era rimasto costantemente fuori, del tutto fuori dell’attività rivoluzionaria, e la polizia si disinteressava di lui. Nell’estate 1906 Koba stava ancora vegetando nella redazione del giornale bolscevico « legale » di Tiflis. Lenin intanto era nascosto a Kuokalla in Finlandia, e di lì comu nicava con Pietroburgo e col resto della Russia. Con lui erano gli altri dirigenti bolscevichi. I fili interrotti dell’organizzazione clande stina si venivano riannodando. Scrive la Krupskaia : « Da ogni parte della Russia venivano dei compagni con cui si decideva il lavoro da compiere » ; e qui cita buon numero di nomi, tra cui quello di Sverdlov che « godeva di una grandissima influenza » negli Urali; nomina anche Voroscilov e altri. Malgrado i richiami minacciosi della critica ufficiale mentre scriveva il suo libro, Stalin non lo nomina nemmeno. Pure ogni volta che trova un appiglio per mettere Stalin in vista, lo fa; ma qui la sua memoria non le offre neanche un minimo pretesto. La prima Duma fu sciolta nel luglio 1906. Lo sciopero di protesta invocato da tutti i partiti di sinistra fallì : gli operai avevano capito che gli scioperi da soli non servivano, e altro non erano in grado di fare. Il tentativo dei rivoluzionari di ostacolare il reclutamento della classe di leva fallì. Ci fu un’esplosione isolata: la rivolta nella fortezza di Svenborg con la partecipazione dei bolscevichi; ma fu subito repressa. La reazione prendeva fiato. Il partito era costretto a infossarsi sempre più profondamente nella clandestinità. « In sostanza, » scrive la Krup skaia, « Ilio ormai dirigeva da solo, da Kuokalla, tutta l’attività dei bolscevichi. » E qui dà una lunga lista di fatti e di nomi; quello di Stalin non c’è. Non è presente alla riunione che si svolge nel novembre a Terioki per decidere il problema delle elezioni della nuova Duma. Non va a Kuokalla. Non c’è traccia di corrispondenza tra lui e Lenin nel 1906. Si erano incontrati a Tammerfors ma non si era stabilito nessun rapporto personale tra loro due. Si erano rivisti a Stoccolma, ma neanche questo incontro li aveva avvicinati. La Krupskaia rac conta di una passeggiata per le vie di Stoccolma: con Lenin, c’erano Rykov, Stroiev, Alexinski e alcuni altri; Stalin non lo nomina. Se tra i due uomini era nato un rapporto, doveva averlo interrotto la loro
LA PRIMA RIVOLUZIONE
91
divergenza sulla questione agraria. Ivanovic infatti non aveva firmato l’appello al partito; Lenin non aveva fatto nessun accenno a Ivanovic nel rapporto sulla conferenza. In seguito alle decisioni prese a Tammerfors e a Stoccolma, anche nel Caucaso i bolscevichi si unirono ai menscevichi; si formò un comi tato regionale unico, di cui Koba non faceva parte. Se crediamo a Beria, egli faceva parte invece del centro bolscevico del Caucaso che nel 1906 lavorava in segreto, all’infuori dell’attività comune. Di questo centro e della posizione che vi godeva Koba non si sa nulla. Una cosa sappiamo : le vedute di Koba in materia di organizza zione avevano subito, dai tempi del primo soggiorno a Tiflis c di Baku, un mutamento notevole almeno nelle apparenze. Koba non avrebbe più osato invitare gli operai ad ammettere che erano indegni di entrare nei comitati. I soviet e i sindacati ora davano dei posti di rilievo a operai, i quali di solito si rivelavano più preparati che non gli « intellettuali » ; e, giuste le previsioni di Lenin, i dirigenti dei comitati si erano affrettati a riformare il loro punto di vista o almeno a preten dere di averlo riformato. Ora Koba nel suo giornale sosteneva che « la massa doveva decidere le questioni che la riguardavano ». E a questo fine non bastava la delegazione per suffragio : « Napoleone III fu portato al potere dal suffragio universale, e tutti sappiamo che questo imperatore elettivo fu uno dei più grandi oppressori del popolo. » Se Besoshvili (lo pseudonimo di Koba in quel periodo) avesse saputo indovinare il suo avvenire, non avrebbe evocato quel sinistro prece dente. Ma le sue doti di chiaroveggente non sono mai state molto notevoli; e questa come vedremo è stata una sua debolezza ma anche, almeno in un certo periodo, la sua forza. Le disfatte del proletariato costrinsero i marxisti a ripiegare su posizioni difensive. Nemici o dissidenti che nei mesi di tempesta erano rimasti zitti, ora levavano la testa. A sinistra e a destra ora si prendeva il materialismo oppure la dialettica a responsabile dei furori della reazione. A sinistra, cioè da parte degli anarchici; a destra cioè tra liberali, democratici e populisti. Gli anarchici non avevano partecipato affatto al movimento del 1905; nel soviet di Pietroburgo erano rap presentate solamente tre frazioni : menscevica, bolscevica e social-rivo luzionaria. Ma ora, caduti i soviet, nella delusione generale gli anar chici trovavano più ascolto e più simpatia. Questo contraccolpo si fece sentire anche nelle regioni caucasiche : regioni arretrate dove sotto alcuni aspetti l’anarchismo trovava terreno più favorevole che altrove. Per difendere le posizioni marxiste Koba scrisse in georgiano una serie di articoli intitolata: «Anarchia e socialismo». Erano articoli bene
92
STALIN
intenzionati, che d’altra parte non vai la pena di riassumere perche erano già un riassunto di scritti altrui; e sarebbe difficile anche farne degli estratti perchè dovunque cada l’occhio non trova che grigiore opaco. Tant’è vero che questo lavoro non fu mai ripubblicato. Alla destra dei menscevichi georgiani (che insistevano a ritenersi marxisti) ora nacque il partito federalista che era una parodia locale in parte della frazione social-rivoluzionaria e in parte dei « cadetti ». Besoshvili alias Koba denunciò giustamente l’inclinazione di questo partito a compromessi e manovre vili; ma lo fece ricorrendo a immagini ineffabili : « È noto, » scriveva, « che ogni animale ha il suo colore ; ma il camaleonte non se ne accontenta: di fronte al leone prende il colore del leone, di fronte al lupo quello del lupo, di fronte alla rana quello della rana. Prende di volta in volta il colore che gli fa più co modo... » Uno zoologo protesterà. Ma si può anche indulgere allo stile da parroco mancato del nostro Besoshvili pensando che almeno a pren dersela coi federalisti aveva ragione. Abbiamo detto tutto quello che c’era da dire sulle attività di KobaIvanovic-Besoshvili durante la prima rivoluzione. Non è molto come qualità nè come quantità. Lo spirito di Koba, dove non abitava ombra di fantasia e non abitavano interessi sociali, era ben poco produttivo. E poi, malgrado quello che i biografi ci raccontano, quest’uomo testardo, bilioso e pretensioso era anche pigro. Specie il lavoro intellettuale gli era e gli è odioso. Quanti lo hanno conosciuto in tempi più recenti sanno che Stalin non ama lavorare. Il giudizio che ripeterono spesso con un mezzo sorriso di disprezzo, Bucharin, Krestinski, Serebriakov e tanti altri, era: « Koba è un fannullone. » In modo più riservato, anche Lenin fece qualche allusione a questo suo tratto : un tratto dove si rivelano da un lato l'origine orientale e dall’altro l’ambizione delusa. Occorreva, ogni volta, che sorgesse un movente di carattere egoistico e per di più urgente, per indurre Koba a uno sforzo prolungato e siste matico. Poiché la rivoluzione non ne voleva sapere di farlo emergere, lo stimolante gli mancava; e così egli diede alla rivoluzione un contri buto irrisorio, specie se lo confrontiamo ai benefici che la rivoluzione diede a lui.
CAPITOLO QUARTO
LA REAZIONE
a persona privata di un rivoluzionario nei periodi di attività clan
L
destina era sempre relegata all’ultimo piano; ma non poteva smettere di esistere. I sentimenti privati lottavano per farsi strada fin sotto il sole. Nascevano delle relazioni amorose, sempre anch’esse sotto il segno della rivoluzione. Le stesse idee, la stessa lotta, lo stesso pericolo, un comune isolamento dal resto del mondo creavano fortissimi legami. Due persone si arrangiavano per convivere nascoste, venivano separate dalla prigione, cercavano di riunirsi nell’esilio. Della vita pri vata del giovane Stalin sappiamo poco, ma quel poco è prezioso per la luce che getta sulla sua personalità. « Si sposò nel 1903, » dice Iremashvili. « A modo suo fu un matri monio felice. Certo mancava in casa sua quell’uguaglianza fra i sessi che egli predicava come essenziale nello ” Stato nuovo Ma non era nel suo carattere trattare nessuno da pari a pari. Il suo matrimonio fu felice perchè sua moglie, che non gli era pari nemmeno lontanamente, lo considerava un semidio; e perchè era una georgiana tradizionale cioè abituata a considerarsi una schiava. » Iremashvili descrive la moglie di Koba su per giù con gli stessi tratti con cui ne descrive la madre. « Questa vera georgiana... si dedicava completamente al benessere di suo marito. Passava innumerevoli notti in ardenti preghiere in attesa che il suo Soso rientrasse dalle conferenze segrete. Pregava Iddio perchè Koba rinunciasse alle sue idee e tornasse ad una pacifica vita familiare fatta di lavoro e di benessere. » Così apprendiamo che Koba, il quale aveva ripudiato la religione a tredici anni, aveva sposato una donna così ingenuamente e profonda mente religiosa. Il caso può essere normale nell’ambiente borghese in cui il marito si considera un agnostico o si trastulla coi riti massonici, mentre la moglie, consumato il suo ultimo adulterio, si inginocchia in confessio-
94
STALIN
naie davanti al sacerdote. Ma fra i rivoluzionari russi la questione era considerata immensamente più importante. Il rivoluzionario non era un agnostico, era un ateo militante : non guardava con tolleranza a quella religione così strettamente legata a tutto ciò che egli combatteva con perenne rischio personale. Fra i lavoratori, specie se sposati molto gio vani, c’erano molti casi di mariti che diventavano rivoluzionari mentre la moglie persisteva tenacemente nell’antica fede. Ma questi casi di solito sfociavano in drammatici conflitti. Talora il marito teneva se greta alla moglie la sua nuova vita, e si allontanava sempre più da lei. Oppure il marito riusciva a guadagnare la moglie alle sue nuove idee staccandola dalle tradizioni della sua gente. I giovani lavoratori lamen tavano che era difficile trovare ragazze libere dalle vecchie superstizioni. Fra gli studenti la scelta del compagno di vita era considerevolmente più facile. Quasi mai un intellettuale rivoluzionario sposava una cre dente. Non che ci fossero regole stabilite formalmente; solo, le circostan ze del costume agivano fatalmente in quel modo. Il caso di Koba in somma era del tutto eccezionale. Le divergenze di vedute tra Koba e sua moglie non condussero a nessun drammatico conflitto. « Quest’uomo inquieto, che ad ogni passo si credeva spiato c sorvegliato dalla polizia zarista, poteva trovare l’amo re solo nella sua casa povera. Solo sua moglie, il suo bambino e sua madre erano esentati da quel disprezzo che egli provava per tutti gli altri. » Il quadro idilliaco dipinto da Iremashvili può far pensare che Koba fosse tollerante verso la fede della sua compagna. Ma questo sarebbe contrario alla sua natura tirannica; non doveva trattarsi di tol leranza ma solo di indifferenza. Koba non cercava nella moglie una amica, che condividesse le sue convinzioni o almeno le sue ambizioni. Gli bastava una donna remissiva e devota. In teoria era un marxista; nei sentimenti, nelle aspirazioni spirituali era ancora il figlio di Leso Zhugashvili da Didi-Lilo. La cronologia di Iremashvili, che non è scarsa di inesattezze, sulla vita privata di Koba è più esatta che sulla sua vita politica. Però la data che egli assegna al matrimonio di Koba solleva al cuni dubbi. Egli lo colloca nel 1903; ma Koba, arrestato nell’apri le 1902, ritornò dall’esilio solo nel febbraio 1904. È possibile che il matrimonio abbia avuto luogo in prigione. Simili casi non erano rari. Ma è più probabile che abbia avuto luogo dopo la sua fuga dal l’esilio, all’inizio del 1904. Nell’ottobre 1907 la moglie di Koba1 morì, sembra di polmonite. 1 Si chiamava Ekaterina Svanize. Un suo fratello più tardi doveva diven tare presidente della Banca Sovietica per il Commercio con l’Estero.
LA REAZIONE
95
In quel periodo Koba e Iremashvili non erano più in relazioni amiche voli. Iremashvili si lamenta : « La sua ostilità contro di noi, suoi amici di prima, era diventata violenta. Egli ci attaccava ad ogni occasione nel modo più selvaggio e meno scrupoloso, cercando di aizzare altra gente contro di noi... La schiacciante maggioranza dei marxisti del Caucaso era con noi, e questo lo inveleniva ancora peggio. » Ma gli usi georgiani erano così radicati che l'ostilità politica non impedì a Iremashvili di visitare Koba in occasione della morte di sua moglie, per dirgli qualche parola di conforto. « Era affranto. Mi accolse con modi affettuosi, come un tempo. Il viso pallido di quest’uomo così duro, la sua angoscia... un dolore profondo e tenace, perchè non era più capace di nasconderlo ad estranei. » La sepoltura avvenne secondo tutti i riti ortodossi. I parenti della morta lo desideravano, e Koba non si oppose. « Quando il corteo rag giunse l’entrata del cimitero, » dice Iremashvili, « Koba mi strinse forte la mano e mi disse, indicando la bara : ” Soso, questa creatura raddolciva il mio cuore di pietra; è morta e con lei è morto il mio ultimo sentimento affettuoso per un essere umano. ” Portò la destra sul cuore. ” Tutto è così desolato, qua dentro, così terribilmente deso lato! ” » Possono sembrare pareste teatrali, insincere, ma probabilmente erano sincerissime : non solo perchè a pronunciarle era un giovane so praffatto dal dolore, ma perchè anche in seguito ogni tanto doveva riaf fiorare in Stalin l’inclinazione a un pathos eccessivo : cosa non rara nelle persone di tratto solitamente arido. Morendo, sua moglie gli lasciava un figlioletto dai lineamenti deli cati che ritroveremo nel 1919-1920 studente nella scuola secondaria di Tiflis, dove Iremashvili era insegnante. Poco dopo suo padre trasferì Yascia a Mosca. Lo incontreremo di nuovo al Cremlino. Gli anni del matrimonio di Koba dunque vanno dal 1903 (o 1904) al 1907 : copro no l’epoca della prima rivoluzione. Non è una coincidenza irrilevante : il ritmo della vita privata dei rivoluzionari era strettamente legato al ritmo dei grandi avvenimenti. « Dal giorno in cui seppellì sua moglie, » insiste Iremashvili, « egli perdette l’ultimo barlume di sentimenti umani. Il suo cuore ora era pieno di quell’odio inesprimibile, perfido, che il padre con la sua du rezza spietata gli aveva inculcato quando era ancora ragazzo. Soffocava sotto lo scherno gli impulsi morali del resto sempre più deboli. Spietato con se stesso, diventò spietato con tutti. » Ecco dunque lo stato d’animo di Koba nel momento in cui la reazione spietata dilagava nel paese. L’inizio degli scioperi di massa fra il 1895 e il 1899 aveva annuii-
96
STALIN
ciato ravvicinarsi della Rivoluzione. Ma allora il numero medio degli scioperanti non raggiungeva i 50.000 all’anno. Nel 1905 questo numero salì di colpo a due milioni settecentocinquantamila, nel 1906 scese a neanche un milione, nel 1907 a 750.000 inclusi gli scioperi a ripetizio ne. Il pieno della reazione venne nel 1908. Il numero degli scioperanti cadde a 174.000; nel 1909 scese ancora a 64.000; nel 1910 a 50.000. Ma, mentre il proletariato stava rapidamente ripiegando, i contadini che il suo esempio aveva risvegliati continuavano la loro offensiva. Nei mesi della prima Duma il saccheggio delle proprietà terriere diventò parti colarmente intenso. Vi fu anche un’ondata di ammutinamenti fra i soldati. Dopo soffocata l’insurrezione a Sveaborg e a Kronstadt, nel luglio 1906, la monarchia si fece animo; introdusse le corti marziali e con l’aiuto del Senato alterò la legge elettorale. Tuttavia non rag giunse il suo scopo: la seconda Duma fu ancora più radicale della prima. Nel febbraio 1907 Lenin descrisse così la situazione politica: «La più sfrenata, la più impudente illegalità... La legge elettorale più reazio naria d’Europa. Il corpo rappresentativo più rivoluzionario d’Europa nel paese più retrogrado ! » E concluse : « Abbiamo davanti a noi una nuova e più minacciosa... crisi rivoluzionaria. » Qui Lenin sbagliava. La rivoluzione era ancora abbastanza forte per imporsi sull’arena dello pseudo-parlamentarismo zarista, ma in realtà era già spezzata. Le sue convulsioni erano sempre più deboli. Lo stesso processo subiva il partito social-democratico. Continuava ad aumentare il numero dei membri, ma l’influenza del partito sulle masse declinava. Cento social-democratici non erano più in grado di condurre in piazza lavoratori quanti riuscivano a condurvene, un anno prima, dieci social-democratici. Non solo i lavoratori, ma anche i picco lo-borghesi avevano cercato di vendicare la disfatta in una battaglia aperta contro lo zarismo votando per i partiti di sinistra; ma non erano più capaci di ribellarsi. In realtà l’orientamento a sinistra della Duma e il progresso numerico segnato dal partito social-democratico erano sintomi del declino della Rivoluzione. Senza dubbio Lenin ammetteva già allora che poteva essere così. Ma in attesa che l’esperienza glielo confermasse, continuava a confor mare la sua politica all’ipotesi rivoluzionaria. Era la regola fondamen tale della sua strategia. « La social-democrazia rivoluzionaria, » egli scriveva nell’ottobre 1906, « deve scendere in campo per prima, risolutamente, per la lotta diretta; e dev’essere l’ultima a ripiegare sul metodo indiretto. » Per lotta diretta intendeva le dimostrazioni, gli scioperi gene
LA REAZIONE
97
rali, gli scontri con la forza pubblica, la rivolta. Per metodo indi retto intendeva lo sfruttamento della possibilità di ordine « legale », in cluse le possibilità fornite dal sistema parlamentare, per la riorganizza zione delle forze rivoluzionarie. La strategia di Lenin comportava, be ninteso, il pericolo di valutare male il momento e ricorrere al metodo della lotta diretta quando le circostanze non lo volevano. Ma per un partito rivoluzionario, un simile rischio di natura tattica è incompara bilmente meno grave del pericolo, di ordine strategico, di lasciar pas sare le congiunture favorevoli senza utilizzarle. Il quinto congresso del partito, tenuto a Londra nel maggio 1907, ebbe un ragguardevole numero di partecipanti : trecentodue delegati con voto deliberativo (uno ogni cinquecento membri del partito) e una cinquantina con voce consultiva. Dei delegati con voce deliberativa novanta erano bolscevichi e ottantacinque menscevichi russi; le delega zioni nazionali formavano il « centro » fra queste due ali. Al congresso precedente erano stati rappresentati quattordicimila bolscevichi e diciannovemila menscevichi (un delegato quella volta rappresentava trecento membri). Nei dodici Mesi trascorsi fra i due congressi la sezione russa del partito era cresciuta da trentunmila a settantasettemila membri, cioè nel rapporto di due e mezzo a uno; e in una certa misura l’aumento era dovuto all’inasprirsi della lotta fra le fra zioni, ciascuna delle quali aveva intensificato i reclutamenti. Ma è pacifico che per tutto quell’anno erano affluiti particolarmente, nelle file del partito, gli operai di mentalità evoluta; e questo voleva dire che l’ala sinistra si era venuta rafforzando più dell’altra. Nel 1905 i menscevichi avevano dominato i soviet, dove i bolscevichi erano una modesta minoranza. Nel 1906 le due frazioni all’incirca si uguaglia vano. Ma nell’intervallo tra la prima c la seconda Duma i bolscevichi presero una posizione di netto predominio. Quando si inaugurò la se conda Duma l’elemento operaio evoluto era in forte maggioranza bolscevico. E il congresso di Londra fu un congresso bolscevico. Questa evoluzione del partito verso sinistra fu notata dalle autorità. Poco prima del congresso il dipartimento di Polizia segnalò alle dira mazioni locali che « i menscevichi con le loro attuali tendenze non rappresentano un pericolo serio come i bolscevichi ». Un rapporto sui lavori .del congresso mandato al dipartimento di Polizia da un agen te all’estero conteneva questa valutazione: «Fra gli oratori che nelle discussioni hanno parlato in difesa della tesi estremista rivoluzionaria erano Stanislav (bolscevico), Trozki, Pokovski (bolscevico), Tyszko (social-democratico polacco); in difesa della tesi ” opportunista”, Martov e Plechanov (capi del menscevismo). Vi sono chiari segni,» conti
98
STALIN
nuava l’agente dell’Ochrana l, « che i social-democratici stanno adot tando i metodi rivoluzionari.. Il menscevismo, che fiorì grazie alla Duma, declinò quando la Duma si dimostrò impotente, lasciando via libera al bolscevismo o comunque alle tendenze estremiste rivoluziona rie. » In verità, come abbiamo già visto, l’evoluzione che avveniva nei sentimenti del proletariato era assai più complicata e oscura: c’era un’avanguardia che consigliata dall’esperienza piegava verso la sinistra, mentre la massa infiacchita dalla disfatta si orientava a destra. Il vento della reazione spirava già sul congresso. « La nostra rivoluzione attra versa tempi difficili, » disse Lenin nella sessione del 12 maggio. « Ab biamo bisogno di tutte le nostre forze, di tutto il nostro auto-controllo, di tutta la nostra perseveranza di rivoluzionari temprati, se vogliamo sopravvivere allo scetticismo, alle defezioni, all’apatia, alla remissività. » « Stalin, » scrive un biografo francese, « vide Trozki per la prima volta a Londra. Ma quella volta Trozki non dovette neanche notarlo. Il presidente del soviet di Pietroburgo non era uomo da fare facil mente nuove conoscenze e tanto meno da concedere familiarità, salvo dove sussistevano delle positive affinità. » Effettivamente appresi per la prima volta che Koba si era trovato alla conferenza dal libro di Souvarine, e in seguito ne trovai conferma nei verbali ufficiali. Come a Stoc colma, Ivanovic era a Londra non già come uno dei 302 delegati votan ti, ma fra i 42 con voce puramente consultiva. Il bolscevismo era ancora così debole in Georgia che Koba non aveva potuto raccogliere i 500 voti necessari in tutta Tiflis. « Neanche nella città nativa di Koba e mia, Gori, » scrive Iremashvili, « c’era un solo bolscevico. » Dello schiac ciante predominio dei menscevichi nel Caucaso diede chiara testimo nianza in quel congresso il rivale di Koba, Sciaumian, un capo bolscevi co del Caucaso, futuro membro del comitato centrale. « I menscevichi del Caucaso, » egli lamentò, « approfittando del loro vantaggio nume rico e del loro predominio ufficiale, fanno di tutto per impedire ai bolscevichi di essere eletti. » In una dichiarazione firmata dallo stesso Sciaumian e da Ivanovic leggiamo : « Le organizzazioni mensceviche del Caucaso sono composte quasi interamente di piccoli borghesi di città e di campagna. » Dei 18.000 membri del partito nel Caucaso, so lo 6000 erano operai; e anche gli operai in gran parte erano per i menscevichi. La nomina di Koba a delegato sia pure con voce consultiva diede 1 Ochrana sta per Ochrannoie Otdelenìe, dipartimento della Sicurezza. Si tratta del servizio di Polizia Segreta, parte del dipartimento di Polizia del ministero degli Interni dell’impero russo, creato nel 1881 e che divenne subito un organo estremamente importante.
LA REAZIONE
99
luogo a un incidente piccante. Quando venne il turno di presidenza di Lenin, questi propose di adottare senza discussione la proposta della commissione dei mandati di dare il voto consultivo a quattro delegati, fra i quali Ivanovic. L’instancabile Martov gridò dal suo posto : « Mi si spieghi chi sono queste persone a cui si vuol dare il voto consultivo. Chi sono, di dove vengono e così via. » Al che Lenin rispose: « A dire il vero non lo so neanch’io, ma il congresso può ben fidarsi dell’unanimità della commissione dei mandati. » Molto probabilmente Martov aveva già qualche informazione confidenziale sulle specifiche attività di Ivano vic (ne parleremo poi esaurientemente) e precisamente per questa ra gione Lenin si affrettò ad impedire che si approfondisse lo spiacevole ar gomento, invocando il parere unanime della commissione dei mandati. Martov aveva trattato quei quattro come illustri sconosciuti; e Lenin ammise che sconosciuti erano anche a lui. Nel 1907 insomma Stalin era totalmente ignoto non solo alla massa dei membri del partito ma agli stessi delegati nel congresso a cui partecipava. La proposta della commissione dei mandati fu accolta con forte numero di astensioni. Ma il fatto più notevole è che una volta fornito del voto consultivo, Koba non ne usò nemmeno una volta. Il congresso durò ancora quasi tre settimane, le discussioni furono ampie e particolareggiate. Ma Koba non vi mise una parola. Negli Atti del congresso il suo nome ricorre due volte, insieme a quelli di altri firmatari di due brevi dichiarazioni dei bolscevichi del Caucaso sui loro conflitti coi menscevichi; e anche qui al terzo posto. Altre tracce della sua presenza al congresso egli non ne lasciò. E per valutare questo fatto bisogna conoscere il meccanismo di quel congresso. Ogni frazione, ed ogni « organizzazione nazionale », si riuniva per suo conto negli intervalli fra le sedute per decidere la sua linea di condotta e designare i suoi oratori. In tre settimane, la fra zione bolscevica del Caucaso non stimò utile servirsi una sola volta della voce di Ivanovic. Sulla fine di una delle ultime riunioni del congresso, prese la parola un giovane delegato di Pietroburgo. Tutti avevano già lasciato i loro posti e si avviavano all’uscita; sicché dapprima quasi nessuno gli diede ascolto. Ma di lì a poco il deflusso si arrestò, i delegati cominciarono a riprendere i loro posti; a poco a poco l’assemblea si ricostituì. Quel di scorso fece del giovane delegato novellino (Grigori Zinoviev aveva appena venticinque anni) un membro del comitato centrale. E Ivanovic condannato al silenzio dovette notare, e ricordare con invidia, il suc cesso di quel giovane sconosciuto. Ivanovic era passato attraverso quel congresso senza lasciar traccia nelle memorie. Un altro delegato senza rilievo, il bolscevico Gandurin,
100
STALIN
doveva scrivere nelle sue Memorie : « Negli intervalli di solito ci si assiepava tutti intorno a questo e quel membro importante del partito, e lo crivellavamo di domande » ; e fa una lunga lista di assediati e assediami; tra i secondi nomina Litvinov, Voroscilov, Tomski; ma Sta lin non lo cita. Pure le Memorie di Gandurin furono scritte nel 1931, quando trascurare Stalin era seriamente sconsigliabile. I bolscevichi eletti a far parte del comitato centrale furono Mieshkovski, Rozhkov, Teodorovic e Noghin; e come supplenti: Lenin, Bogdanov, Krasin, Zinoviev, Rykov, Schanzer, Sammer, Leitaisen, Taratuta e A. Smirnov. La ragione per cui figuravano come « supplenti » i membri più autorevoli della frazione, era che si desiderava mettere in primo piano la gente che svolgeva la sua attività in Russia. Ivanovic non era nè tra gli effettivi nè tra i supplenti in ogni modo. Sarebbe sbagliato cercarne la ragione nelle manovre dei menscevichi: ciascuna delle due frazioni si sceglieva i suoi uomini. E non era questione di età : Zinoviev, Rykov, Taratuta, A. Smirnov, erano più giovani di Ivanovic. L’ultima riunione della frazione bolscevica, a congresso già chiuso, fu dedicata alla designazione dei quindici membri del « centro bolscevi co segreto » (il « C. B. »). Troviamo fra i quindici alcune delle penne più notevoli (già allora o in seguito) del partito : Lenin, Bogdanov, Pokrovski, Rozhkov, Zinoviev, Kamenev; i suoi migliori organizzatori come Krasin, Rykov, Dubrovski, Noghin. Ivanovic restò fuori. E anche questo è un fatto notevole. Stalin poteva restare escluso dal comitato centrale perchè non era conosciuto dai delegati di tutto il partito, o, ammettiamolo per pura ipotesi, perchè i menscevichi del Caucaso ce l’avevano a morte con lui. Ma se all’interno della sua frazione aveva quel tanto di autorità, sarebbe entrato senz’altro nel C. B. perchè c’era bisogno di un compagno che rappresentasse il Caucaso. Ivanovic avrà di sicuro sognato di entrare nel C. B.; ma non vi entrò. E allora se contava tanto poco perchè era a Londra? Non poteva votare; non serviva come oratore; non ebbe, chiaramente, alcuna parte nelle sedute segrete dei bolscevichi. D’altra parte non è verosimile che fosse venuto lì solo per vedere e ascoltare. Un qualche compito ce l’aveva. Quale? II congresso finì il 19 maggio. Il 1° giugno il Primo Ministro Stolypin invitò la Duma a espellere immediatamente i cinquantacinque de putati social-democratici c autorizzare l’arresto di sedici di quei cin quantacinque; e nella notte del 2 giugno senza aspettare l’autorizzazio ne della Duma la polizia procedette a una parte degli arresti. Il 3 giugno venne il decreto di scioglimento della Duma; e al colpo di Stato
LA REAZIONE
101
fece seguito la promulgazione di una nuova legge elettorale. Intanto infierivano in tutto il paese gli arresti in massa, preparati con cura da tempo; in modo particolare si colpirono i ferrovieri, per prevenire uno sciopero generale. Fallirono il tentativo di ammutinamento nella fiotta del Mar Nero e il tentativo di sedizione in un reggimento a Kiev. L’autocrazia zarista trionfava; e la prima volta che Stolypin si guardò allo specchio, dopo compiuta l’impresa, dovette credere di vedervi San Giorgio che trionfava sul drago morente. L’evidente declino del moto rivoluzionario si rifletté in una serie di crisi nel partito e anche in seno alla frazione bolscevica, la gran maggio ranza dei cui membri era per il boicottaggio delle nuove elezioni. Rea zione giusta e naturale contro gli arbitri! e le violenze del governo; ma nel contempo vi era in quella decisione un proposito di coprire la pro pria debolezza con un gesto vistoso. Lenin, che dopo il congresso si riposava in Finlandia, meditò la questione sotto tutti i possibili aspetti e concluse che, decisamente, le elezioni non erano da boicottare. Que sto rese assai difficile sua posizione in seno alla frazione bolscevica. « Tolti Lenin e Rozhkov, » scrive Martov, « tutti gli uomini che con tavano di più nella frazione — uomini come Bogdanov, Kamenev, Lunaciarski e Volski — si erano pronunciati per il boicottaggio. » Il passo di Martov è interessante per il fatto che tra « gli uomini che con tavano di più » mette persino il già allora dimenticato Volski ; e non vi mette Stalin. Nel 1924 quando una rivista storica ufficiale di Mosca pubblicò la testimonianza di Martov, nessuno nella redazione della rivista trovò che la mancanza del nome di Stalin vi costituisse una lacuna. Eppure Koba era tra i partigiani del boicottaggio. Su questo punto abbiamo delle testimonianze dirette; ed è vero che ci vengono da menscevichi; ma ce n’è una indiretta, che è decisiva: non uno degli storici ufficiali di oggi che bisbigli mezza parola sulla posizione assunta da Stalin in vista delle elezioni per la terza Duma imperiale. In un pamphlet uscito poco dopo il colpo di Stato, col titolo: Sul boi cottaggio della terza Duma, sono esposte le ragioni dell’una e dell’altra parte: Lenin difende la tesi della partecipazione, e la tesi contraria, quella del boicottaggio, è sostenuta da Kamenev. Koba aveva saputo difendere così bene la sua oscurità, che nel 1907 nessuno pensava a chiedergli di dire la sua in una pubblicazione del genere. Il vecchio bolscevico Pireiko rammenta che i bolscevichi partigiani del boicottag gio «accusavano Lenin di menscevismo». Koba, nella sua cerchia ri stretta, non avrà risparmiato a Lenin le sue invettive in georgiano e in russo.
102
STALIN
Ciò che Lenin chiedeva alla sua frazione, era di disporsi a guardare la realtà in faccia. « Il boicottaggio significa guerra aperta al vecchio governo; e salvo che questo avvenga nel clima di una intensa fioritura dello spirito rivoluzionario, sarà una guerra che perderemo. » Molti an ni dopo, nel 1920, Lenin avrebbe scritto: «Già il boicottaggio della Duma nel 1906 era stato un errore dei bolscevichi. » Errore perchè do po la sconfitta patita in dicembre era assurdo pensare a una vera offen siva rivoluzionaria a breve scadenza; e quindi era assurdo rinunciare a servirsi momentaneamente della tribuna parlamentare per ricostituire le file rivoluzionarie sconvolte. Nella conferenza del partito che si tenne in Finlandia nel luglio, dei nove delegati bolscevichi otto si dichiararono per il boicottaggio; l’unico che votò contro fu Lenin. Ivanovic non c’era. Principale porta voce dei fautori del boicottaggio fu Bogdanov. La decisione di prendere parte alle elezioni fu varata coi voti dei menscevichi, del gruppo po lacco, del gruppo lettone, del Bund ebraico e di Lenin. « Nella casa di campagna (dove si svolgeva la conferenza), » racconta la Krupskaia, « Ilio stava difendendo con calore la sua posizione quando giunse Krasin pedalando sulla bicicletta, e si fermò lì fuori, accanto a una fine stra. Stette ad ascoltare attentamente gli argomenti di Ilio. Poi senza nemmeno aver varcato la soglia ripartì, pensoso. » Ripartì pensoso, e stette via più di dieci anni : sarebbe rientrato nel partito solo dopo la rivoluzione di ottobre, e anche allora si lasciò reinserire solo a poco a poco. In seguito, lentamente, anche perchè i fatti stavano dando ragione a Lenin in modo sempre più chiaro, gli altri bolscevichi passarono dalla sua parte. Ma non proprio tutti come vedremo. Zitto e in punta di piedi, si allontanò dalla tesi del boicottaggio anche Koba. I suoi articoli nei giornali del Caucaso e i discorsi che aveva tenuti nel Cau caso in difesa del boicottaggio, nessuno li aveva notati e nessuno quindi dovette fare uno sforzo per dimenticarli. La terza Duma imperiale iniziò la sua vita ingloriosa il 1° novembre. La grossa borghesia e la nobiltà terriera vi si erano assicurata la mag gioranza in anticipo. Cominciò il periodo più nero nella vita della « nuova Russia ». Le organizzazioni operaie vennero sciolte, la stam pa rivoluzionaria messa a tacere con le spedizioni punitive e con le sentenze delle corti marziali. Ma più paurosa di tutto fu la reazione all’interno del partito. I membri disertavano in massa. Gli intellettuali abbandonavano ogni attività politica per darsi alla scienza, all’arte, alla religione o al misticismo erotico. A completare il quadro vi fu un’epidemia di suicidi. All’interno dei partiti rivoluzionari c’era una
LA REAZIONE
103
forte corrente ostile ai capi e agli stessi partiti. Il mutamento avvenuto negli spiriti resta testimoniato negli archivi della polizia dove finivano le lettere censurate, formando per gli storici futuri un repertorio ine stimabile. Per esempio quando Lenin era tornato a Ginevra, gli fu spedita (c non gli giunse) una lettera da Pietroburgo che diceva : « Tutto è quieto, di fuori e di dentro; ma dentro, negli animi, è una quiete ve lenosa. Cela una tale ira, che un giorno farà urlare tutta l’umanità... » Un certo Zacharov scrive a un amico di Odessa : « Non abbiamo più fiducia negli uomini che avevamo tanto onorati. Ricordi quando, alla fine del 1905, Trozki dichiarava serio serio: la rivoluzione politica è già vittoriosa, la rivoluzione sociale le terrà dietro a brevissima distan za? E le meravigliose formule tattiche dell’insurrezione in armi, ri cordi il vanto che ne facevano i bolscevichi? Ho perso la fede nei no stri capi, e in tutti gli intellettuali rivoluzionari. » I rapporti che le organizzazioni locali mandavano all’organo cen trale del partito ritras^erito all’estero, non erano meno eloquenti. Persino dai bagni penali gli eroi e le eroine dell’insurrezione e degli attentati terroristici scrivevano schernendo le loro proprie prodezze; non usavano le parole partito, compagno, socialismo che in senso iro nico. Non disertavano solo gli intellettuali, o non solo quelli che per natura danno alla loro adesione a una corrente politica un valore tran sitorio e marginale; le diserzioni erano numerose fra i lavoratori d’avan guardia, iscritti al partito da molti anni. Negli strati più bassi del proletariato, infuriavano il ritorno alla religione, l’ubriachezza, il gioco e gli altri diversivi simili. Negli strati più alti, il tono era dato dagli egocentrici che al partito chiedevano magari un innalzamento cultura le, un arricchimento della loro isolata personalità, senza sentire vera solidarietà coi compagni. La frazione menscevica ora poggiava in lar ga misura su questo tenue strato dell’aristocrazia operaia, formato in gran parte da metallurgici e da tipografi. Il proletariato medio, a cui la rivoluzione aveva insegnato a leggere i giornali, era ancora elemento più stabile. Ma questi medi proletari, entrati nella vita politica sotto la guida degli intellettuali, ora senza la loro guida erano paralizzati. Non che tutti disertassero. Ma i rivoluzionari decisi a non arrendersi urtavano contro difficoltà inumane. Un’organizzazione clandestina ha bisogno di vivere in un ambiente genericamente favorevole, e ha biso gno di rinnovare di continuo le sue riserve. Nell’atmosfera depressa del momento diventava, piuttosto che difficile, praticamente impossibile osservare puntualmente le regole vitali della cospirazione, e mantenere i
104
STALIN
contatti rivoluzionari. « Le attività clandestine continuano a illangui dirsi. Nel 1909 la polizia fece delle irruzioni nelle tipografie del partito a Rostov sul Don, a Mosca, a Tiumen, a Pietroburgo... È stata seque strata una quantità di materiale di propaganda, specie a Pietroburgo, Bielsko e Mosca... I numerosi arresti compiuti hanno privato il parti to dei suoi membri più attivi... » Sembrano i lamenti di un rivoluziona rio e sono rievocazioni compiaciute che si leggono nelle Memorie del generale della polizia a riposo Spiridovic. «Non abbiamo più nessuno,» scriveva la Krupskaia nel 1909, in inchiostro simpatico, in una lettera ad amici di Odessa. « Sono tutti o in prigione o in esilio. » La polizia lesse anche la parte della lettera in inchiostro simpatico, e così le prigioni russe ebbero qualche ospite in più. Naturalmente col diradarsi delle file, occorreva essere meno esigenti sulle qualità degli uomini che formavano i quadri; il livello morale dei comitati si abbassava paurosamente. Riusciva più facile agli agenti provocatori infiltrarsi fino ai posti di comando; all’occorrenza, l’agente si liberava con un cenno del rivale che gli bloccava l’ascesa. Ormai ogni tentativo di epurazione energica dagli elementi sospetti fruttava solo una nuova ondata di arresti. L’atmosfera di diffidenza bloccava le iniziative. Fu mediante una serie di arresti calcolati tempe stivamente che nei primi mesi del 1909 l’agente provocatore Kakushkin salì a capo dell’organizzazione di Mosca. Una lettera di un membro attivo del movimento, intercettata dalla polizia e rimasta nei suoi archi vi, dice: «L'Ochrana ha realizzato il suo sogno: ha i suoi agenti alla testa delle nostre organizzazioni. » A Pietroburgo le cose non andava no meglio : « Tolti di mezzo i dirigenti, non osiamo nominare i loro successori per paura di metterci in mano alle spie; e l’organizzazione va in briciole. » In tutta la Russia, nel 1909 c’erano cinque o sei orga nizzazioni ancora attive; poi tramontarono anche quelle. A Mosca i membri del partito erano cinquecento nel 1908; sulla metà del 1909 si erano ridotti a trecentocinquanta; alla fine dell’anno erano centocin quanta, e nel 1910 l’organizzazione moscovita si estinse. Un ex-deputato alla Duma, Samoilov, nelle sue Memorie racconta come all’inizio del 1910 crollò l’organizzazione di Ivanovo-Voznesensk, fino a poco prima influente e attiva. Le tennero dietro i sindacati locali. Invece, cominciava a spadroneggiare la masnada monarchico-reazio naria detta la Centuria nera. Negli stabilimenti tessili a poco a poco ri tornava in onore il sistema di prima della rivoluzione : salari bassi, multe forti, licenziamenti in tronco, vessazioni di ogni genere. L’operaio subiva e taceva. Ma, malgrado tutto, il passato non si poteva reinstau rare tal quale. L’operaio sopportava, ma in attesa di una sua ora che
LA REAZIONE
105
gli si dipingeva nella speranza in forma molto concreta ora che ne aveva avuto un assaggio. E poi, al terrore esercitato dall’alto al basso rispondeva ora un terrore esercitato dal basso. La rivoluzione stroncata continuò ancora per lungo tempo a dibattersi furiosamente: si trattava di esplosioni isolate, razzie di partigiani, atti terroristici o individuali o di gruppo. Gli indici statistici del terrore illustrano in modo molto chiaro la para bola delle fortune rivoluzionarie in quegli anni. Nel 1905 il terrorismo aveva fatto duecentotrentanove vittime; nel 1906 furono settecentosei, nel 1907 milleduecentotrentuno. Quanto al numero delle persone ferite, esso non salì in proporzione con quello dei morti perchè col passare del tempo i terroristi imparavano a mirare giusto. Il terrorismo raggiunse il vertice nel 1907. « Certi giorni, » scrive un osservatore liberale, « si registravano diversi atti terroristici in grande stile a cui andavano aggiunti numerosi episodi secondari di vandalismo o saccheggio, assas sinio di qualche piccolo funzionario imperiale... In tutte le città della Russia furono creati dei laboratori di esplosivi, talvolta le bombe di struggevano anche i loro incauti fabbricanti. » L’alchimia di Krasin diventava popolare. Prima c’erano stati scioperi e atti terroristici, poi, diminuendo rapi damente il volume degli scioperi a partire dal 1906, quello degli atten tati terroristici si era messo ad aumentare in proporzione. L’impeto scatenato dalla rivoluzione e bloccato dalle reazioni, doveva sfogarsi in terrorismo come si sfogava in altre sfere. Ma non durò così molto a lungo: mentre vi erano stati 1231 assassini nel 1907, le cifre scesero a 400 nel 1908 e a circa un centinaio nel 1909. Nel Caucaso, dove era ancora viva la tradizione del banditismo di strada e della vendetta di sangue, la guerriglia trovò un gran numero di reclute temerarie. Più di mille atti terroristici d’ogni specie furono perpetrati nella Transcaucasia fra il 1905 e il 1907. Le bande partigiane furono numerosissime e assai attive anche negli Urali sotto la guida dei bolscevichi e in Polonia sotto la bandiera del partito socialista polacco. Il 2 agosto 1906 molte decine di poliziotti e di soldati vennero feriti nelle strade di Varsavia e di altre città polacche. Secondo i capi, lo scopo di questi attacchi era di « mantenere lo spirito rivoluzionario nel proletariato ». Alla testa di tutte queste attività c’era Giuseppe Pilsudski, il futuro « liberatore » della Polonia e anche il suo futuro oppressore. Commentando ciò che avveniva a Varsavia, Lenin scrisse : « Invitiamo i numerosi gruppi di combattimento del nostro partito a uscire dalla loro inerzia e dedicarsi alla guerriglia... » « E questi appelli, »
106
STALIN
commentava il generale Spiridovic, « non rimanevano senza risultato nonostante la opposizione del comitato centrale menscevico. » Il problema del denaro, che è essenziale in ogni guerra, anche in quella civile, ebbe molta parte nelle imprese dei terroristi. Prima del manifesto costituzionale del 1905 il movimento rivoluzionario era finanziato principalmente dalla borghesia liberale e dagli intellettuali radicali. Anche i bolscevichi, l’opposizione liberale li considerava sem plicemente dei rivoluzionari democratici più intraprendenti degli altri. Ma una volta trasportate le sue speranze sulla futura Duma, la borghe sia cominciò a vedere nei rivoluzionari un ostacolo alla riconciliazione con la monarchia. Questo cambiamento portò un grave colpo alle finan ze della rivoluzione. Arresti e disoccupazione avevano quasi esaurito l’afflusso del denaro proveniente dai lavoratori. Ultimamente le orga nizzazioni rivoluzionarie avevano creato un vasto apparato politico con tipografie proprie, con proprie case editrici, numerosi propagandisti, unità di combattimento che dovevano essere armate. Ed ora venivano meno le fonti di finanziamento. Non restava che procurarsi l’occorrente con la forza. L’iniziativa venne dal basso. Le prime « espropriazioni » furono quasi pacifiche : avvenivano per tacita intesa fra gli « espropria toli » e gli impiegati delle istituzioni espropriate. Era famoso l’episo dio degli impiegati della compagnia di assicurazioni « La speranza », che avevano rassicurato gli espropriatoli verdi di paura dicendo : « Co raggio, compagni! » Ma il periodo idilliaco non durò a lungo. Dopo i borghesi anche gli « intellettuali », compresi gli impiegati delle banche, abbandonarono la rivoluzione. Le misure della polizia si erano fatte se vere. Prive di aiuto e di simpatia le organizzazioni « di combattimento » in parte si ridussero in fumo e si corruppero. Un tipico esempio di come degeneravano anche i gruppi più disci plinati è citato nelle memorie di Samoilov, ex-deputato della Duma, eletto dagli operai tessili di Ivanovo-Voznesensk. Il gruppo che in ori gine operava « sotto la direzione del centro del partito », cominciò a tralignare nella seconda metà del 1906. Quando esso offrì al partito una parte del denaro rubato in una fabbrica (nell’azione era stato ucciso il cassiere), il comitato del partito respinse l’offerta e richiamò all’ordine il gruppo. Ma era troppo tardi : i membri del gruppo ave vano ormai perduto ogni ritegno; presto la loro attività fu quella di una banda di ladroni. Pieni di soldi, cominciarono a far baldoria e alla polizia fu facile acciuffarli uno dopo l’altro, finché ebbe eliminato tutta la banda. « Eppure, » scrive Samoilov, « molti di loro in origine erano dei veri combattenti per la rivoluzione, dal cuore puro come il cristallo. »
LA REAZIONE
107
Quei gruppi di combattimento erano nati per porsi alla testa delle masse in rivolta, insegnar loro l’uso delle armi, colpire il nemico nei punti più vitali. Principale o forse unico teorico in questo settore era Lenin. Dopo l’insuccesso della rivoluzione di dicembre si era posta la questione : che fare ora di quei gruppi di boieviki.1 E al congresso di Stoccolma Lenin aveva presentato un progetto di risoluzione in cui l’attività dei boieviki era definita come un seguito logico ai fatti di dicembre, in quanto essi dovevano impostare sul piano dell’azione la futura offensiva in grande stile contro lo zarismo. Nella stessa risoluzio ne Lenin ammetteva il principio delle « espropriazioni », in quanto ne cessarie a rifornire le casse del partito, e purché compiute sotto il controllo del partito. Questa risoluzione però i bolscevichi la dovettero ritirare, a causa delle obiezioni suscitate anche all’interno della loro frazione. Fu accettata invece, con sessantaquattro voti contro quattro e venti astenuti, la mozione menscevica che condannava l’« espropria zione » a danno di privati o enti privati e la limitava ai fondi pubblici e alle località dove esistevano degli organi del potere rivoluzionario. I ventiquattro che votarono contro o si astennero, costituivano la parte intransigente, leninista, della frazione bolscevica. Nel rapporto particolareggiato che fece sul congresso di Stoccolma, Lenin tralasciò però ogni accenno alla risoluzione votata su questo tema, col pretesto che egli non era stato presente alle discussioni; e che del resto « non riguardava una questione di principio ». È impro babile che l’assenza di Lenin fosse fortuita : si deve pensare che non voleva trovarsi con le mani legate. Egli agì press’a poco nello stesso modo l’anno dopo al congresso di Londra quando, costretto dalla sua qualità di presidente ad assistere alle discussioni sul problema degli « espropri », rifiutò di votare malgrado i furori dei menscevichi. La risoluzione di Londra vietava gli espropri e ordinava l’immediato scio glimento dei gruppi di boieviki. Non era una questione di moralità astratta. Le classi sociali c i partiti politici non vedono il problema dell’assassinio dal punto di vista del comandamento biblico, ma da quello degli interessi che rappresen ta. Quando il Papa e i cardinali benedissero le armi di Franco, nes sun conservatore propose di arrestarli per istigazione all’assassinio. I moralisti ufficiali si scagliano contro la violenza quando è violenza rivoluzionaria. Invece chi si batte contro l’oppressione sociale, deve per forza riconoscere il principio della rivoluzione. E chi riconosce la rivo luzione, riconosce la guerra civile. Ora (queste sono parole di Lenin) 1 Guerriglieri.
108
cvwfr di/ gwMaa&fa
STALIN
« la guerriglia è una forma di lotta inevitabile quando intercorrono degli intervalli più o meno lunghi fra le azioni importanti di una guerra civile ». Alla luce dei principi generali della lotta di classe, tutto questo era assolutamente irrefutabile. La discordia sorgeva nella valutazione delle singole circostanze concrete. Quando due grosse battaglie di una guerra civile sono separate da pochi mesi, quest’intervallo deve essere colmato con la guerriglia. Ma quando l’intervallo è di diversi anni, la guerriglia non è più la preparazione di future battaglie ma, sem plicemente, la convulsione di un vinto. Beninteso, è difficile determina re il momento della frattura. Le questioni del boicottaggio e della guerriglia erano strettamente collegate. Ha senso boicottare un’assemblea rappresentativa solo se il movimento di massa è abbastanza forte per rovesciarla o ignorarla. Ma quando le masse sono in ritirata, la tattica del boicottaggio perde il suo significato rivoluzionario. Questo, Lenin lo capiva meglio di chiunque altro. Nel 1906 ripudiò il boicottaggio della Duma. Dopo il colpo di stato reazionario del 3 giugno 1907 si battè risolutamente con tro il boicottaggio perchè l’alta marea era finita e cominciava la risac ca. Quando diventa necessario partecipare al gioco parlamentare per guadagnar tempo mentre si prepara la nuova mobilitazione delle mas se, evidentemente la guerriglia diventa pura anarchia. Se in piena guer riglia civile essa completava e stimolava l’azione della massa, subentrata la reazione essa potrà pretendere di sostituirsi all’azione della massa che si è arrestata ma non farà che compromettere c disgregare il partito. Olminski, uno dei migliori compagni di lotta di Lenin, all’epoca dei soviet diede implicitamente un felice giudizio sugli errori di questo periodo : « Non pochi giovani compagni di prim’ordine morirono sulla forca, altri si corruppero moralmente, altri rinnegarono la rivoluzione. L’opinione pubblica fu indotta a confondere i rivoluzionari coi comuni banditi; e più tardi, quando cominciò la rinascita del movimento ri voluzionario operaio, essa fu particolarmente lenta proprio nelle loca lità dove erano state più numerose le ” espropriazioni ” : come Baku e Saratov. » Teniamo a mente questo riferimento a Baku. Se sommiamo tutto ciò che fece Koba negli anni della prima rivolu zione, troviamo tanto poco che siamo costretti a chiederci: possibile che sia tutto qui? Nel turbinio degli avvenimenti che gli si svolgevano intorno, egli non potè non cercare di far qualcosa anche lui, di farsi valere in qualche modo. Che egli prese parte all’attività terroristica e in particolare agli « espropri » è pacifico. Bisogna vedere in che forma. Scrive Spiridovic : « Principale ispiratore e guida principale delle
LA REAZIONE
109
azioni dei boieviki era Lenin, che si serviva di alcuni uomini a lui vicini e fidati. » Chi erano? L’ex-bolscevico Alexinski — che a partire dalla guerra si specializzò in rivelazioni sui bolscevichi — raccontò in giornali stranieri come in seno al comitato centrale esistesse un nucleo ristretto « la cui esistenza era un segreto non solo per la polizia ma anche per i membri del partito. Questo comitato nel comitato, formato da Lenin, Krasin e un altro... si occupava specificamente delle finanze del parti to ». « Occuparsi delle finanze » qui significa : dirigere le espropriazio ni. Il terzo membro che Alexinski non nomina era il medico, economista e filosofo Bogdanov di cui ci siamo già occupati. Alexinski non aveva nessuna ragione per tacere della parte svolta in questo settore da Stalin; se non ne disse nulla era perchè non gli risultava nulla; e ciò benché in quegli anni egli si trovasse nel vivo dell’attività centrale del partito, e si incontrasse anche con Stalin. Di solito Alexinski rac conta più e non meno di quello che sa. Da una nota all’ Opera omnia di Lenin apprendiamo che Krasin « diresse l’ufficio tecnico del comitato centrale per la lotta a mano armata»; e la Krupskaia scrive: «Tutti i membri del partito oggi conoscono la grande attività svolta da Krasin durante la rivoluzione del 1905 per armare i boieviki, sovrintendere alla produzione delle mu nizioni e via dicendo. Era un’attività cospiratoria, silenziosa, ma svolta con estrema applicazione. Vladimir Ilio era al corrente, meglio di chiunque altro, delle fatiche di Krasin; e da allora in poi gli mantenne sempre una grande stima. » Voitinski, un bolscevico molto in vista al tempo della prima rivoluzione, dice : « Mi formai allora la convin zione che in tutta l’organizzazione bolscevica Nikitic Krasin era il solo uomo che godeva del pieno rispetto e della piena fiducia di Lenin. » È vero che l’attività di Krasin era soprattutto circoscritta a Pietroburgo. Ma se Koba avesse svolto nel Caucaso un’attività consimile, Krasin, Le nin e la Krupskaia lo avrebbero saputo. E la Krupskaia, che nelle sue memorie per dimostrare la sua ortodossia si ingegna di nominare Sta lin ogni volta che ne trova almeno un pretesto, della parte da lui svolta nella lotta in armi non dice assolutamente niente. Di punto in bianco la Pravda di Mosca il 3 luglio 1938 saltò fuori a dire che nel 1905 « c’era stato un movimento rivoluzionario in grande stile nel Caucaso » ; un movimento svolto « dalle organizza zioni più combattive del partito, create personalmente dal compagno Stalin ». Quest’unico, isolato accenno ufficiale a una parte avuta da Stalin nell’attività di gruppi tanto combattivi, riguarda comunque il principio del 1905 quando ancora non si parlava di « espropriazioni ». Non ci dà alcun particolare accertabile, e non potrebbe darcene perchè
110
STALIN
un’organizzazione bolscevica spuntò a Tiflis solo nella seconda metà del 1905. Cosa ne dice Iremashvili? Rievocando con sdegno le prodezze dei terroristi e degli « espropriatoli », dice : « Koba fu l’iniziatore di quei delitti perpetrati dai bolscevici in Georgia, che servirono tanto bene alla causa della reazione. » Dice che Koba dopo la morte di sua moglie, dopo quindi che aveva « perduto ogni traccia di sentimenti umani », diventò « l’organizzatore e difensore zelante di una catena di perversi assassini! : furono uccisi dei principi, dei preti, dei borghesi... » Abbiamo trovato altre occasioni per convincerci che Iremashvili è tanto meno credibile quanto più si allontana dalla narrazione della vita privata di Stalin per entrare in quella politica, e quanto più si allontana dal pe riodo infantile e dell’adolescenza. Ogni legame politico fra i due amici d’infanzia, Zhugashvili alias Stalin e Iremashvili, si era spezzato ancora all’inizio della prima rivoluzione. Fu solo per combinazione che il 17 ottobre 1905, il giorno in cui venne reso pubblico il manifesto costi tuzionale, Iremashvili vide Koba che in una via di Tiflis arringava la folla dall’alto di un lampione (allora nelle dimostrazioni pubbliche i lampioni avevano una parte importante). Lo vide, ma non stette ad ascoltarlo. Essendo un menscevico, Iremashvili poteva avere notizie sull’attività terroristica di Koba solo di seconda o di terza mano. Non è il più sicuro dei testimoni. Di quell’attività egli cita due esempi : la famosa « espropriazione » perpetrata a Tiflis nel 1907, della quale parleremo anche noi tra poco, e l’assassinio del principe Giavciavaze, noto scrittore georgiano. Dice Iremashvili a proposito di quell’« espro priazione », che situa erroneamente nel 1905 : « Anche quella volta Koba riuscì a burlarsi della polizia, la quale non riuscì nemmeno a raccogliere indizi bastanti per implicarlo in quel crudele attentato. Pe rò il partito social-democratico georgiano in seguito a quel fatto espul se ufficialmente Koba dalle sue file. » Quanto all’assassinio del principe Giavciavaze, Iremashvili non cita nessun fatto che indichi una compli cità di Stalin; il poco che dice in proposito, è assolutamente privo di valore : « Indirettamente, » dice, « Koba aveva collaborato a organiz zare questo assassinio. Era un propagandista pieno d’odio, istigatore di ogni crimine. » Frasi come questa ci dicono solo che Koba non era molto stimato dai suoi avversari politici. Invece l’anonimo ma informatissimo autore di un articolo uscito nella Volksstimme di Mannheim il 2 settembre 1932 (probabilmente un menscevico georgiano) sostiene che amici e nemici esagerarono molto la gesta di Koba come terrorista. « È vero che Stalin aveva una atti tudine e una simpatia speciale per l’organizzazione di colpi di mano
LA REAZIONE
111
come quelli... Ma egli vi svolgeva di regola, puramente, una parte organizzativa : non vi metteva materialmente un dito. » Niente di vero, secondo l’autore dell’articolo, nelle righe di quei biografi che ce lo descrivono « sempre armato di bombe e di pistole, preso fino al collo in una catena continua di avventure pazzesche ». Un’invenzione del genere è quella di una diretta partecipazione di Koba all’assassi nio del dittatore militare di Tiflis, il generale Griaznov, il 17 gennaio 1906. « Questa azione fu eseguita per ordine del partito social-demo cratico georgiano (menscevico) da terroristi individualmente designati dal partito. Stalin, come gli altri bolsceviche non contava niente nel partito georgiano e non ebbe alcuna parte nè diretta nè indiretta in questa azione. » La testimonianza dell’autore dell’articolo, benché ano nima, non è da buttar via; solo in quello che concede a Stalin è incon sistente : gli riconosce « un’attitudine e una simpatia speciale » per gli « espropri » e gli assassini!, ma non cita un solo episodio che ne dia prova. ì. Un testimonio serio è invece il vecchio terrorista bolscevico georgia no Kote Zinzaze. Egli racconta che Stalin contrariato dalla lentezza dei menscevichi che non si decidevano a fare la pelle a Griaznov gli propose di formare un loro gruppo che se ne incaricasse. Ma poco dopo i menscevichi si decisero ad agire. Lo stesso Zinzaze racconta che nel 1906 gli venne l’idea di formare una squadra d’azione esclusivamente bolscevica, per svaligiare le pubbliche tesorerie. « I compagni estremi sti come Koba-Stalin approvarono la mia idea ». Testimonianza dop piamente interessante : in primo luogo perchè se ne ricava che, secondo Zinzaze, Koba era un « estremista », termine che nel linguaggio del tempo significa anche un caporione, non un semplice gregario; in se condo luogo perchè ci suggerisce che in fatto di azione terroristica Koba non era un organizzatore, la sua iniziativa si limitava all’approvazione delle iniziative altrui. Sia detto per inciso, Kote Zinzaze morì nel 1930 nel luogo di deportazione dove era stato spedito dal suo compagno Koba-Stalin.
Malgrado l’opposizione diretta e formale del comitato centrale men scevico, e in compenso con l’attiva partecipazione di Lenin, i gruppi di combattimento nel novembre 1906 poterono tenere un loro con gresso a Tammerfors. Qui tra i principali esponenti dei gruppi trovia mo alcuni uomini che in seguito ebbero delle posizioni rilevanti nel partito: come Krasin, Jaroslavski, Zemliatcka, Lelaianz, Triliser. Sta lin, che pure in quel momento era a piede libero, non intervenne. Mettiamo che non si arrischiasse fino a Tammerfors per cautela di
112
STALIN
cospiratore. Però Krasin era il vero capo di tutti i boieviki, era un uo mo noto, correva un rischio maggiore di quello di ogni altro parteci pante alla conferenza, e questo non gli impedì di svolgervi la parte principale. Il 18 marzo 1918, diversi mesi dopo l’avvento del regime bolsce vico, il capo del menscevichi Martov scriveva in un giornale di Mosca: « Il fatto che i bolscevichi nel Caucaso si compromisero in azioni spe ricolate nell’ambito delle ” espropriazioni ”, non può essere ignorato dal compagno Stalin dal momento che in quel periodo egli venne espulso dalle organizzazioni del partito proprio perchè aveva messo le mani nelle espropriazioni. » Stalin quella volta volle citare Martov davanti a un tribunale rivoluzionario. E al processo, in un’aula gre mita di gente, dichiarò : « Mai in vita mia la mia posizione è stata oggetto di un’inchiesta in seno al partito, e mai sono stato escluso da una sua organizzazione. È un’ignobile calunnia. » Ma sul punto, se aveva o non aveva preso parte agli « espropri », Stalin non disse verbo. « Un’accusa come quelle che mi sono rivolte da Martov, non può essere formulata senza appoggiarla su prove. È disonesto infangare un uomo servendosi di dicerie senza fondamento. » Ci possiamo chiedere quale scopo aveva l’indignazione di Stalin. Che in genere i bolscevichi avessero partecipato agli « espropri » non era un segreto : Lenin stesso aveva difeso quel genere di azione in articoli di giornale. A parte questo, essere stato escluso da un’organizzazione dei mensce vichi non poteva apparire disonorante a un bolscevico: tanto meno a dieci anni di distanza. Stalin insomma non aveva motivo per insorgere contro le accuse di Martov se queste avevano una base nei fatti. E anche in questo caso, portare davanti a un tribunale un avversario intelligente e astuto come Martov era un rischio. Dunque, Martov aveva affermato il falso? Trascinato dal suo temperamento di pubbli cista e dall’odio che nutriva per i bolscevichi, Martov — questo è indubbio — passò in più occasioni i limiti in cui lo avrebbe dovuto man tenere, non foss’altro, l’indubbia limpidità della sua natura. Però qui non si trattava più di articoli e di foga giornalistica, era un processo. E Martov restò fermissimo nelle sue affermazioni. Chiese di poter portare dei testimoni; e ne nominò alcuni : « ... Isidor Ramishvili, che presiedeva il tribunale rivoluzionario il quale accertò la partecipazione di Stalin all’espropriazione del vapore Nicola I a Baku; Noi Zhordania; il bolscevico Sciaumian; e altri membri del comitato distrettuale del Caucaso negli anni 1907-1908. Un altro gruppo di testimoni con alla testa Gukovski attuale commissario del popolo alle Finanze, sotto la cui presidenza si investigò il tentato assassinio dell’operaio Zharinov il
LA REAZIONE
113
quale aveva denunciato al partito il comitato di Baku e il suo capo Stalin per la parte avuta in certi espropri... » Ribattendo a Martov, Stalin non fiatò nè della espropriazione del piroscafo nè del tentato assassinio di Zharinov ; si limitò ad insistere : « Non sono mai stato sottoposto a giudizio, e se Martov lo sostiene è un ignobile calun niatore. » « Espellere » uno di questi « espropriato^ » era tecnicamente im possibile perchè prudentemente usavano abbandonare essi per primi il partito. Si poteva solo decidere di non riammetterli. Koba non si era dimesso; ma non c’erano prove dirette contro di lui; ed è possibile che Martov avesse ragione fino ad un certo limite. Stalin, egli diceva infatti, era stato espulso « in via di principio ». Stalin aveva ragione anche lui : non si era mai istruito formalmente un processo contro di lui. A un tribunale non era facile districarsi in una faccenda posta in questi termini, specie mancando i testimoni : perchè Stalin si oppose alla loro escussione invocando la difficoltà di comunicazione tra il Cau caso e Mosca in quel periodo. Il tribunale preferì non andare a fondo della questione. Premesso che una calunnia a mezzo della stampa esu lava dalla sua competenza, inflisse ugualmente a Martov un « pub blico biasimo » perchè aveva insultato il governo sovietico. È impossibile non riflettere con inquietudine sull’episodio, appena accennato in quel processo, dell’operaio Zharinov che si era tentato di sopprimere perchè aveva osato protestare contro gli espropri. Non sappiamo niente di più preciso sulla vicenda, che comunque getta una luce sinistra sull’avvenire. Nel 1925 il menscevico Dan scriveva che gli « espropriato^ », ad esempio Orzhonikize e Stalin nel Caucaso, avevano provvisto alle necessità finanziarie della frazione bolscevica. Non faceva che ripetere le cose dette da Martov, probabilmente avendole ottenute dalla stessa fonte. Ma anche qui, nessuna indicazione concreta. Pure i tentativi di sollevare il velo che copre questo romantico periodo della vita di Koba non sono mancati. Emil Ludwig nella conversazione che ebbe con Stalin al Cremlino, col distacco tra reverente e irriverente che gli era proprio, chiese al dittatore di raccontargli qualcuna delle sue avventure di gioventù: per esempio, disse, lo svaligiamento di una banca. Per tutta risposta Stalin gli mise in mano un libercolo dove, gli assicurò, era raccontato « tutto » per filo e per segno. Ma in realtà non vi era raccontato un bel nulla. Quanto a Stalin, nei suoi scritti o discorsi non c’è una parola delle sue avventure di boievik. Come mai? Il riserbo, la modestia auto biografica non sono mai stati il suo forte. Quello che non vuol vantare
114
STALIN
con la sua penna lo vanta con la penna altrui. Certo, dopo la sua ascesa vertiginosa al vertice del potere egli può essere stato guidato dalla considerazione del prestigio dello Stato, che egli incarna. Ma per diversi anni dopo la rivoluzione di ottobre questi pensieri gli furono del tutto estranei. E niente trapelò mai di iniziativa dei vecchi boieviki, sui giornali di quegli anni : anni in cui Stalin non controllava ancora la storiografia russa. Non un documento che comprovi una sua fama di organizzatore di colpi di mano, nè negli schedari della polizia nè in confidenze di transfughi dal partito. È vero che gli archivi della polizia zarista oggi sono in mano di Stalin. Ma si può giurare che non contengono nulla : se fosse risultato qualcosa della sua attività di « espropriatele », le condanne che gli furono inflitte in quegli anni sarebbero state ben più severe. Un’ipotesi vagamente verosimile è quella espressa da Suvarin : che Stalin non parli e non permetta ad altri di parlare « delle azioni terrori stiche legate in qualche modo al suo nome, semplicemente perchè ver rebbe a galla che in tali episodi altre persone agirono e lui non fece che dirigerle da lontano ». Tacere su un dato ordine di fatti poteva dargli il modo di attribuirsene il merito quando gli piacesse. Alle inven zioni sue o dei suoi storiografi, le « memorie » della gente che ebbe vera mente una parte nell’azione partigiana non potranno dare nessuna smentita : non dicono niente in contrario, perchè non parlano affatto di lui.
Ivanovic alias Koba scriveva a quel tempo nel suo giornale illegale di Baku, a proposito delle decisioni prese al congresso di Londra: « Delle mozioni presentate dai menscevichi ne è stata votata una sola, quella sulle azioni dei boieviki; e anche questa per una ragione del tutto marginale. I bolscevichi non si opposero, in quella occasione, perchè volevano almeno una volta dare soddisfazione ai menscevichi. » È una spiegazione che stupisce per la sua apparente idiozia. « Dare soddisfazione ai menscevichi » era l’ultimo pensiero che poteva passare nella testa di Lenin. Poi sappiamo che i fatti sono diversi : la mozione passò perchè oltre all’appoggio dei menscevichi aveva quello dei let toni, dei polacchi (che pure di solito erano solidali coi bolscevichi), del Bund ebraico, e di buona parte degli stessi bolscevichi. Però la spiega zione data da Koba non è idiota come sembra. Gli occorreva in un qualche modo minimizzare agli occhi dei boieviki del Caucaso la mo lesta decisione del congresso. Scelse una spiegazione di una grossolana inconsistenza; ma questo la indeboliva relativamente. Un lettore fornito di mente critica si sarebbe accorto dell’assurdo; ma i membri dei gruppi
LA REAZIONE
115
di combattimento non erano aquile ed erano pronti a prendere per buono un argomento che svuotava la condanna delle « espropriazioni » pronunciata dal congresso e li faceva sentir più liberi di continuare nelle loro rapine.
Il 12 giugno 1907 alle 10.45 di mattina a Tiflis nella Piazza di Erivan si svolse un attacco a mano armata di un’audacia incredibile contro un plotone di cosacchi che scortava una vettura con una ingente somma di denaro. L’operazione era stata progettata con precisione cro nometrica. Furono lanciate diverse bombe ad alta carica, a intervalli esattamente calcolati. Vi fu una violenta sparatoria. Il sacco conte nente il denaro (341.000 rubli) scomparve insieme agli autori dell’at tentato: la polizia non potè arrestare un solo boievik. Morirono tre co sacchi della scorta, e un’altra cinquantina di militari e borghesi furono feriti. Un uomo che ^doveva essere il cervello di quella rapina passeg giava per la piazza travestito da ufficiale e, oltre a osservare i movi menti del convoglio e quello dei suoi boieviki, si era dato cura di scar tare il pubblico dal luogo previsto per l’attacco, con abili pretesti, per ridurre al minimo le vittime. Nel momento critico, quando il colpo pareva sventato, l’ufficiale si era impadronito del sacco ed era scom parso. Risultò poi che per qualche tempo il bottino era rimasto nasco sto nell’imbottitura di un divano nella casa del direttore dell’Osserva torio di Tiflis. Ed è da notare che il giovane Koba era stato impiegato per qualche tempo all’Osservatorio, come contabile. Qui conviene esaminare la figura del direttore dell’Osservatorio : un boievik armeno di nome Petrosian, ma meglio noto col soprannome di Ramo. Giunto a Tiflis sulla fine dell’altro secolo, si era legato con alcuni propagandisti tra cui Koba. Conosceva male il russo, e pare che un giorno volendo chiedere a Koba a chi doveva dare una certa cosa, anziché dire komu («a chi ») dicesse kamò (che non vuol dir niente). Koba trovò questo errore molto ridicolo, e con notevole cattivo gusto fece di « Kamo » il nomignolo dell’armeno. Era un nomignolo destinato a diventare storico, e in modo tutt’altro che ridicolo. La spiegazione che abbiamo riportata dell’origine del nome venne data dalla compagna Medvedieva, la vedova di Kamo; la quale nelle sue Memqrie non dice nient’altro delle relazioni tra Kamo e Koba; mentre dice parecchio dell’affetto vivissimo che aveva Kamo per Lenin da lui incontrato la prima volta in Finlandia nel 1906. Ne parla anche la Krupskaia. « Questo valoroso boievik, » dice, « di un’audacia incredi bile, con una forza di volontà ferrea, era nello stesso tempo ingenuo come un bambino... Nutriva un’affezione vivissima per Ilio, Krasin e
116
STALIN
Bogdanov... diventò amico anche di mia madre, a cui parlava a lungo di sua zia e delle sue sorelle. Faceva spesso la spola tra la Finlandia e Pietroburgo. Portava in Russia delle armi, ogni volta; mia madre lo aiutava a nascondersi addosso delle rivoltelle. » Curiosa collaborazione, se si pensa che la madre della Krupskaia era la vedova di un funzio nario zarista e solo in età molto tarda abbandonò le pratiche religiose. Poco prima dell’« espropriazione » di Tiflis Kamo fece una visita allo stato maggiore del partito in Finlandia. Racconta la Medvedieva: «Andò in Finlandia travestito da ufficiale; visitò Lenin, e ripartì per Tiflis portando delle armi e degli esplosivi. » Quel viaggio ebbe luogo o alla vigilia o immediatamente dopo il congresso di Londra. Le bombe che Kamo portava a Tiflis provenivano dal laboratorio di Krasin. Chimico di professione, Leonid Krasin già da studente sognava di fabbricare delle bombe grandi come una noce. Il 1905 gli diede buon motivo per approfondire le sue ricerche in questa direzione. Non ottenne mai quelle dimensioni ideali, ma i laboratori che lavoravano sotto la sua direzione produssero bombe altamente distruttive. Quelle che servirono all' « espropriazione » sulla piazza di Tiflis non erano le prime. Dopo l’espropriazione Kamo apparve a Berlino. Là fu arrestato su denuncia del provocatore Zhitomirski che occupava un posto impor tante nell’organizzazione bolscevica all’estero. La polizia prussiana s’im padronì anche della sua valigia che conteneva bombe e rivoltelle. Secondo le informazioni raccolte dai menscevichi (l’inchiesta fu con dotta dal futuro diplomatico Cicerin), la dinamite era destinata a un « colpo » contro la banca Mendelssohn a Berlino. Ma secondo il bene informato bolscevico Piatnizki, ciò non era affatto vero. « La dinamite era destinata al Caucaso. » Kamo rimase in una prigione tedesca più di un anno e mezzo, simulando costantemente la pazzia furiosa, per consiglio di Krasin. Riconsegnato alla Russia come pazzo incurabile, passò un altro anno e mezzo al castello Metech a Tiflis. Lo assogget tarono alle prove più difficili. Dichiarato pazzo incurabile, Kamo fu trasferito finalmente in un manicomio di dove fuggì. « Dopo di che si nascose nella stiva di un piroscafo e raggiunse Parigi per incontrarsi con Ilic. » Questo accadeva nel 1911. Kamo si addolorava del distacco fra Lenin da una parte e Bogdanov e Krasin dall’altra. « Egli era ardentemente attaccato a tutti e tre, » ripete la Krupskaia, la quale racconta un episodio quasi idilliaco : Kamo chiese delle mandorle, se dette nella cucina, che, come nel suo nativo Caucaso, serviva anche da stanza da pranzo, e mangiando le mandorle narrò come aveva simulato la pazzia e come aveva addomesticato una rondine mentre
LA REAZIONE
117
era in prigione. « Ilio lo ascoltava impietosito dalle traversie di quel l’uomo irrequieto e audace, ingenuo, capace delle prodezze più folli e che ora, dopo la sua fuga, non sapeva più che cosa fare. » Arrestato di nuovo in Russia, Kamo fu condannato a morte. Ma per il tricentenario della dinastia dei Romanov, nel 1913, vi fu un’am nistia; invece della forca Kamo ebbe l’ergastolo. Quattro anni dopo, la rivoluzione di febbraio lo liberò. La rivoluzione di ottobre innalzò al potere i bolscetàchi, ma privò Kamo di quell’atmosfera di congiura che era la sua atmosfera naturale. Ne fece un pesce fuor d’acqua. Durante la guerra civile io cercai di impiegarlo nella guerriglia nelle retrovie del nemico, ma il campo di battaglia non era fatto per lui : doveva battersi da solo. E i terribili anni passati avevano lasciato in lui la loro impronta. Kote Zinzaze, altra figura leggendaria, doveva morire di tubercolosi, nel luogo della deportazione a cui lo aveva con dannato Stalin. Penso che la stessa fine avrebbe fatto Kamo; ma Stalin fu prevenuto da un’automobile che travolse e uccise Kamo in una strada di Tiflis nel 1922. Kamo stava pedalando nell’oscurità su una modesta bicicletta : non aveva fatto una brillante carriera. Nel partito la parte attiva svolta da Koba nelle espropriazioni di Tiflis da molto tempo era considerata indubbia. Però l’ex-diplomatico Besedovski, che potè sentire diverse storie negli ambienti buro cratici di prima e di seconda categoria, dice che Stalin « per ordine di Lenin » non aveva svolto alcuna attività diretta nell’« espropria zione » di Tiflis, ma in seguito si vantò di averne elaborato personal mente il piano esecutivo fin negli ultimi particolari, e di avere lanciato egli stesso la prima bomba dal tetto del palazzo del principe Sumbatov. Oggi sarebbe difficile controllare se davvero Stalin pronunciò tali vanterie. Nell’epoca sovietica egli non ha mai negato nè confermato l’insinuazione di Besedovski. Non che gli potesse dispiacere l’idea di adornarsi con l’aureola che circondava le imprese degli « espropriatori », un’aureola di eroismo romantico. Certo è che ancora nel 1932 io non nutrivo nessun dubbio sulla parte svolta da Stalin nell’attacco nella piazza di Erivan : tanto che vi accennai per inciso, come a una cosa pacificamente stabilita, in un articolo di quel tempo. Più tardi però uno studio più accurato di quell’episodio mi doveva costringere a mutale le mie vedute. Nella cronologia che figura in appendice al volume 12° de\V Opera omnia di Lenin, sotto la data 12 giugno 1907, leggiamo: « Espropria zione di Tiflis (314.000 rubli) organizzata da Kamo-Petrosian. » E niente altro. In una raccolta in onore di Krasin, in cui si parla molto della celebre tipografia illegale del Caucaso e delle gesta dei boieviki,
118
STALIN
Stalin non è mai nominato. Un vecchio boievik, bene informato delle vicende di quell’epoca, scrive in un saggio contenuto in quel volume : « I piani di tutte le espropriazioni da lui progettate, come quelle delle tesorerie di Kvirili e di Duscet e quella della Piazza di Erivan, Kamo li studiò insieme a Nikitic Krasin. » Di Stalin nemmeno una parola. Un altro ex-boie7)ik dice : « Le espropriazioni come quella di Tiflis vennero tutte compiute sotto la direzione di Leonid Borisovic Krasin. » Anche qui, niente Stalin. Nel libro di Bibineshvili dove sono precisati tutti i particolari anche infimi sia della preparazione che dell’esecuzione di quell’attacco, il nome di Stalin non figura mai. Questo costante silenzio dice per lo meno che Koba non era in diretto contatto coi membri del gruppo d’azione, non dava loro istruzioni, insomma non era l’organizzatore; e, va da se, tanto meno vi partecipò di persona. Il congresso di Londra si concluse il 27 aprile 1907. L’« esproprio » di Tiflis avvenne il 12 giugno, un mese e mezzo dopo. Era troppo poco tempo perchè Stalin, rientrato dal congresso, potesse preparare e portare fino all’esecuzione un’impresa così delicata. Senza dubbio gli uomini che vi dovevano partecipare erano stati selezionati e si erano allenati in una serie di rischiose avventure del genere; probabil mente aspettavano solo la decisione del congresso per agire. Forse ce n’erano tra loro che si chiedevano qual era in quel momento il punto di vista di Lenin sugli espropri. Aspettavano un ordine, e potè essere benissimo Stalin a portare quell’ordine. Ma la sua partecipazione andò più in là di questo? Non sappiamo niente dei rapporti che correvano tra Kamo e Koba. Kamo era un uomo portato ad affezionarsi ai suoi simili; ma non abbiamo notizia di un suo attaccamento per Koba. E siccome ci si parla del suo attaccamento a tanta altra gente, questo silenzio non ci lascia credere probabile che i due andassero d’accordo. Bibineshvili nella biografia di Kamo racconta che nell’epoca sovietica « un miste rioso personaggio » comparve in Georgia e, con un falso pretesto, si impadronì della corrispondenza di Kamo e di altri documenti preziosi. Dei documenti e del loro trafugatore non si seppe più nulla. Chi aveva bisogno di far sparire quelle carte? Ma qualunque cosa sia successa dopo, non esclude che in quel giugno 1907 i due uomini collaborassero. Può aver guastato i loro rapporti in seguito la debolezza di Koba, che si attribuì la paternità dell’impresa altrui. Niente di strano. Chi ha inventato di essere stato l’autore della rivoluzione di ottobre, poteva pure inventare di aver diretto l’attacco di Tiflis. Barbusse racconta che nel 1907 Koba passò un certo tempo a Berlino per avere « dei colloqui con Lenin ». Quali colloqui, a che
LA REAZIONE
119
proposito, non lo dice. È vero che il libro di Barbasse è tutto un rosario di errori. Ma questo episodio particolare non va tralasciato, perchè nel colloquio con Ludwig Stalin disse di essere stato a Berlino nel 1907. Lenin non abitava a Berlino; e se vi andò apposta per quegli incontri, non poteva trattarsi certo di conversazioni teoriche. Gli incontri poterono aver luogo o subito prima o subito dopo il congresso di Londra, e ciò rende assai probabile che vi si trattasse della prossima o delle prossime espropriazioni, e in genere del modo di rifornire di fondi il partito. Ma perchè a Berlino e non a Londra? È verosimile che Lenin considerasse incauto incontrarsi con Ivanovic a Londra dove era sotto gli occhi degli altri delegati e delle numerose spie zariste e non zariste. Oppure vi doveva partecipare anche una terza persona che non era al congresso. Da Berlino in ogni modo, secondo Barbasse, Koba rientrò a Tiflis, di dove poco tempo dopo ripartì per Baku, e da Baku ripartì per l'estero, di nuovo per incontrarsi con Lenin. Un qualche testimonio ben preparato (Barbasse andò a informarsi « sul vivo » nel Caucaso, e lì apprese e trascrisse tutto quello che gli propinava Beria) gli dovette accennare a due distinti incontri con Lenin all’estero, per mettergli bene in testa quale intimità esisteva fra Koba e il capo. Ma se il se condo incontro avvenne, esso e il precedente si lumeggiano a vicenda. Uno avvenne prima, l’altro dopo l’assalto della Piazza di Erivan; e il secondo incontro potè avere per tema il quesito : si continua o si smette? « Fu in queste circostanze, » scrive Iremashvili, « che nacque la vera amicizia fra Lenin e Koba. » « Amicizia » evidentemente qui è mal detto. La distanza che separava i due personaggi escludeva ogni lega me personale. Però sembra che effettivamente in quel periodo i due cominciassero a conoscersi. Se è vero che prima del colpo di mano di Tiflis Lenin ebbe un abboccamento con Koba per parlare del piano di quell’impresa, è credibile che concepisse una viva ammirazione per l’uomo in cui vedeva l’organizzatore del colpo. E che, leggendo il tele gramma in cui lo si informava del colpo riuscito senza vittime dalla parte dei rivoluzionari, esclamasse tra sè o anche ad alta voce rivolto alla Krupskaia : « Però, che splendido georgiano. » Sono le parole che leggiaipo più tardi in una sua lettera a Gorki. Entusiasmarsi per le per sone che davano prova di animo risoluto o che comunque sapevano portare a buon fine una missione, fu un tratto caratteristico di Lenin finché visse. Soprattutto apprezzava gli uomini d’azione. Basandosi sulle vanterie di Koba che gli si presentava come l’ideatore e organizzatore del colpo di Tiflis, egli potè ritenersi in presenza di un uomo che sapeva
120
STALIN
andare fino in fondo a un’impresa e sapeva guidare altri uomini al l’azione ; e potè decidere che « questo splendido georgiano » gli sarebbe tornato utile ancora. Per la verità il colpo di mano eseguito sanguinosamente a Tiflis non fruttò nulla. Il bottino consisteva in banconote da cinquecento rubli : pezzi di taglio troppo grosso perchè si potessero spacciare impu nemente. Con la pubblicità suscitata da quello scontro, presentarsi con una certa quantità di quelle banconote a una banca russa sarebbe stato una follia. Si tentò all’estero. Là il provocatore Zhitomirski, che partecipava al tentativo, avvertì in tempo la polizia. Così il futuro com missario del popolo agli Esteri Litvinov fu arrestato a Parigi mentre tentava di cambiare una partita di quel denaro. A Stoccolma fu arre stata Olga Ravic, futura moglie di Zinoviev. A Ginevra arrestarono il futuro commissario alla Sanità Pubblica Sematcko, ma probabilmente fu un puro equivoco. « Proprio io, » scrisse in seguito Sematcko, « uno di quei bolscevichi che condannavano il sistema delle espropriazioni! » Gli incidenti causati dalla rapina di Tiflis dovettero indurre molti altri bolscevichi a pensarla come lui. « In Svizzera, » scrive la Krupskaia, « erano spaventati a morte. Non parlavano che degli espropriatori russi. Ne sentivamo parlare con orrore nella pensione dove Ilio e io prendevamo i pasti. » Notiamo che sia Olga Ravic sia Sematcko sono scomparsi nelle recenti « epurazioni » sovietiche. L’« espropriazione » di Tiflis non poteva essere considerata una sem plice scaramuccia, un episodio della guerriglia che riempiva il vuoto fra due vere battaglie della guerra civile. Poi, Lenin ormai sapeva che la rivoluzione era rinviata a un futuro indeterminabile. Per allora il problema era di procurare al partito i mezzi finanziari per campare. Dovette cedere alla tentazione di quella che si presentava come una opportunità eccezionale. In fondo l’idea dell’« espropriazione » di Tiflis conteneva in sè degli elementi di avventura, e in ciò faceva a pugni coi principi di Lenin. Per Stalin il caso era ben diverso. Le alte consi derazioni storiche avevano poco valore ai suoi occhi. La decisione presa nel congresso di Londra per lui era un pezzo di carta il cui contenuto molesto andava aggirato magari con un trucco grossolano. Poi il suc cesso avrebbe legittimato il rischio corso. Suvarin qui osserva che non è giusto scaricare sulle spalle di un qualunque gregario la responsabilità del capo della frazione bolscevica. Ma qui non si tratta di scaricare responsabilità, si tratta di distinguerle. A quel tempo la maggioranza della frazione bolscevica era in contrasto con lo stesso Lenin sulla que-
LA REAZIONE
121
8rione degli « espropri ». I bolscevichi che avevano contatto diretto coi gruppi dei boieviki erano in grado di compiere, sul fenomeno che que sti rappresentavano, delle constatazioni sostanziali che invece Lenin, nuovamente emigrato, non poteva fare. Un capo, per quanto geniale, per forza commetterà dei poderosi errori se perde il contatto con gli strati di fondo del partito. Stalin non era emigrato, ma ugualmente non fu tra quei bolscevichi che capirono l’inammissibilità della guerriglia quando la rivoluzione era in fase di declino. E ciò non per caso. Per Stalin il partito era prima di tutto un apparato. La macchina aveva bisogno di mezzi finanziari che si potevano ottenere mediante un’altra macchina distinta dalla prima, staccata cioè dalla vita e dalla lotta delle masse. E qui Stalin era nel suo vero elemento. Le conseguenze della sanguinosa avventura che concluse un capi tolo della storia del partito, furono assai gravi. I dissensi intorno al l’oc esproprio » di Tiflis avvelenarono a lungo i rapporti in seno al par tito e in seno alla stessa frazione bolscevica. Lenin ben presto cambiò fronte; da allora in poi si pronunciò sempre risolutamente contro quelle rapine, che dovevano rimanere per un certo tempo retaggio esclusivo dell’ala sinistra della frazione. Dell’incidente di Tiflis si inte ressò ufficialmente un’ultima volta il comitato centrale del partito nel gennaio 1910, per insistenza dei menscevichi. Una risoluzione condannò severamente il sistema degli « espropri » definendolo un’inammissibile violazione della disciplina di partito; aggiungendo però, quanto ai fatti del passato, che coloro che vi avevano partecipato non intendevano certo danneggiare il movimento operaio, ed erano stati guidati solo « da una errata valutazione degli interessi del partito ». Non ci furono espulsioni, nessuno venne nominato; Koba, per così dire, beneficiò di un’amnistia collettiva. Intanto la disintegrazione progrediva. Già nell’ottobre 1907 il « letterato » menscevico Potresov scriveva ad Axelrod : « Il fallimento è completo. Siamo al colmo della demoralizzazione... Non esiste più organizzazione, e non ci sono gli elementi per rifarne una. E lo stesso sfacelo c’è chi lo vuole erigere a principio. » « Erigere lo sfacelo a principio » diventò presto l’implicita parola d’ordine per molti espo nenti della frazione menscevica, incluso lo stesso Potresov. Dichiara rono che l’organismo clandestino del partito era morto e sepolto, che gli sforzi per farlo risuscitare erano utopistici ed erano reazionari. Martov sosteneva che proprio « gli episodi scandalosi come quello del cambio delle banconote di Tiflis » imponevano agli elementi più attivi e più sinceri della classe operaia « di rifiutare ogni contatto con l’ap parato illegale ». Lo sviluppo spaventoso che aveva raggiunto l’attività
122
STALIN
degli agenti provocatori, secondo i menscevichi (allora già sopranno minati « liquidatori ») era un argomento di più per dimostrare che era necessario ripudiare la « clandestinità ». Trincerati nelle organizzazioni sindacali, nelle società culturali, nelle cooperative di assicurazione, non svolgevano più un’attività di rivoluzionari ma di propagandisti « culturali », di predicatori. Per mantenersi ai loro posti nell’apparato « legale », i funzionari che provenivano dal ceto operaio cominciarono a usare mezzi mimetici. Evitavano la lotta col mezzo dello sciopero per non compromettere peggio i loro sindacati che già erano tollerati a stento. È chiaro che quella « legalità ad ogni costo » significava la rinuncia totale al metodo rivoluzionario. Negli anni più tristi, i « liquidatori » occuparono il proscenio. « Erano meno perseguitati dalla polizia, » scrive Olminski; « avevano dalla loro numerosi scrittori, non pochi conferenzieri, buona parte delle forze intellettuali in genere. Erano persuasi di essere ormai i padroni del campo. » Quanto alla frazione bolscevica, che vedeva le sue file diradarsi non di giorno in giorno ma d’ora in ora, i suoi sforzi per mantenere in piedi l’apparato « illegale » si urtavano a continue contrarietà. Sembrava che il bolscevismo ormai fosse condannato senza ricorso. Scriveva Martov : « Tutti gli sviluppi che abbiamo sotto gli occhi... ci indicano che l’idea di un partito-setta capace di reggersi in piedi è solo una pietosa utopia reazionaria. » Martov e gli altri men scevichi si ingannavano, va da se; e si ingannavano su un punto per loro essenziale. Furono le loro previsioni e le loro decisioni a rivelarsi utopistiche. Nel regime costituito il 3 giugno dalla reazione zarista, non c’era posto per un partito operaio legale. Del resto, persino i libe rali si videro rifiutare la registrazione. Commentava Lenin : « I ” li quidatori ” si sono sbarazzati del partito illegale ma non hanno fatto fede all’impegno di sostituirgliene uno legale. » Proprio perchè esso solo manteneva fede alla missione rivoluzionaria, nell’ora in cui la rivoluzione era sfiancata e umiliata : proprio per questo il bolscevismo si avviava agli anni del trionfo. Proprio agli antipodi dei « liquidatori », nell’ala sinistra della fra zione bolscevica, si era formato un gruppo estremista che si ostinava a non ammettere che le cose erano cambiate, e persisteva a sostenere la tattica dell’azione diretta. Erano state le diatribe sulla questione del boicottaggio alla Duma, riprese all’indomani delle elezioni, a far na scere questo gruppo dei cosiddetti otzovisti : 1 cioè di coloro che esige vano l’immediato richiamo dei deputati social-democratici della Duma. 1 Dal verbo otzyvath, richiamare.
LA REAZIONE
123
Mentre i menscevichi anche sotto la pressione irresistibile della rivolu zione continuavano a ritenere necessaria la partecipazione al Parla mento, fosse pure il più grottesco simulacro di Parlamento fabbricato dallo zar, gli otzovisti giudicavano che il boicottaggio del Parlamento sorto sulla disfatta della rivoluzione, e solo esso, poteva ridare vigore al movimento di massa. Dato che i lampi sono accompagnati da tuoni, essi intendevano almeno tentare di suscitare i fulmini a forza di tuoni.
Intanto la nostalgia dei suoi laboratori di dinamite continuava a tormentare l’animo di Krasin. Questo rivoluzionario sensato e astuto per un certo tempo si legò agli otzovisti; dopo di che, per diversi anni avrebbe abbandonato addirittura la rivoluzione e i rivoluzionari di ogni specie e sottospecie. Bogdanov, uno dei collaboratori più stretti di Lenin, membro della « trinità » bolscevica segreta, anche lui si indi rizzò a sinistra. E con la rottura di quel triumvirato segreto la vecchia direzione del bolscevismo si disintegrò. Lenin tuttavia non si spostò di un passo. Nell’estate del 1907 la maggioranza dei bolscevichi era per il boicottaggio; ma nella primavera del 1908 gli otzovisti erano già in minoranza a Pietroburgo e a Mosca. La preponderanza di Lenin si stava rifacendo evidente di giorno in giorno. Koba questa volta capì abbastanza presto cosa stava succedendo. La sfortunata esperienza fatta col programma agrario, quando egli era sceso apertamente in campo contro Lenin, gli aveva insegnato qualcosa. Alla chetichella, col suo solito sistema, egli piantò in asso i suoi compagni « boicottisti ». Aveva imparato una cautela sostanziale che non avrebbe più tralasciata: quando qualcosa sta cambiando, rimanere fuori della vista altrui finché il mutamento non sia compiuto. A forza di scissioni e di lotte in seno al partito, lotte spesso a vuoto, stava nascendo nelle diverse frazioni un autentico desiderio di conci liazione e di ricostruzione su basi unitarie. Fu in questo periodo che nacque un nuovo aspetto del « trozkismo » : non cioè il trozkismo in quanto teoria della rivoluzione permanente ma in quanto corrente per la riconciliazione in seno al partito. Qui ne dobbiamo parlare breve mente perché sia facile poi al lettore comprendere la lotta che doveva sorgere fra stalinismo e trozkismo. Fin dal 1904, cioè da quando era nato jl disaccordo sulla valutazione da dare alla borghesia liberale, io avevo rotto coi minoritari, coi menscevichi; a partire dal secondo congresso, per tredici anni dovevo rimanere fuori dell’una e dell’altra frazione. Di fronte alla lotta che aveva scisso il partito la mia posizione era questa: dato che tutt’e due le frazioni erano dirette dall’elemento intellettuale rivoluzionario, e dato che nessuna delle due era uscita
124
STALIN
dagli schemi della rivoluzione borghese-democratica, la loro scissione non era giustificabile : il giorno della nuova rivoluzione, sotto la pres sione della classe operaia esse avrebbero dovuto agire di concerto come avevano fatto nel 1905. Vi sono dei critici del bolscevismo che ancora oggi considerano savia quella mia posizione. Io no : c’era in essa un errore profondo che la teoria e l’esperienza hanno messo da tempo in luce. La pura e semplice riconciliazione fra due rami dissidenti non è possibile che su una linea di mezzo. Ma nel caso specifico, dov’era la garanzia che la linea mediana tracciata artificialmente avrebbe poi coinciso con la linea di marcia dei fatti concreti? Compito della politica come scienza è formare i programmi e i piani in base all’analisi ob biettiva della lotta di classe, non sui parallelogrammi di forze seconda rie ed effimere come sono le frazioni politiche. Certo il potere reazio nario restringeva le attività del partito in limiti ben angusti. Sotto la pressione delle necessità dell’ora, poteva sembrare che i dissensi in seno al partito fossero secondari e magari gonfiati artificialmente dai capi che stavano all’estero. Ma proprio sotto l’imperversare della reazione il partito non poteva educarsi dei nuovi quadri per mancanza di una visione veramente panoramica e in profondità. Il domani è quello che conta nel preparare la politica di oggi. La corrente favorevole alla conciliazione si illudeva in certo modo che lo stesso corso degli avvenimenti avrebbe indicato le tattiche da seguire man mano. Un simile ottimismo fatalistico non significava solo il superamento delle lotte interne, significava la rinuncia alla stessa idea di partito. Infatti se è vero che il « corso degli eventi » sa dettare alla massa la giusta politica da seguire, a che cosa serve l’unione raggiunta da un’avanguar dia proletaria, a che cosa servono un programma, un apparato diret tivo, a che cosa serve coltivare lo spirito di disciplina nel partito? In seguito, nel 1911, Lenin fece dei rilievi particolarmente acuti sul « conciliazionismo » di fronte alle finalità essenziali del partito negli anni della controrivoluzione. « Numerosi social-democratici, » egli scri veva, « in quel momento scivolarono nella tesi della conciliazione, partendo da premesse molto disparate. A sostenere la tesi conciliativa nel modo più coerente fu Trozki, indubbiamente il solo fra tanti che tentò di dare a quella tendenza una base teorica. » Appunto perchè in quegli anni il conciliazionismo aveva assunto un carattere epidemico, Lenin vi scorgeva la peggiore minaccia agli sviluppi ulteriori del par tito rivoluzionario. Aveva notato felicemente come i « conciliatori » partissero dalle premesse più disparate : sia dalla premessa opportu nistica sia da quella rivoluzionaria. Però nel combattere il conciliazio nismo egli si riteneva autorizzato a prescindere dalle posizioni di ori
LA REAZIONE
125
gine. Anzi attaccava con accanimento maggiore proprio i « concilia tori » la cui posizione fondamentale era più vicina a quella bolscevica. Ritenendo controprodùbente una lotta condotta alla luce del sole con tro l’ala conciliatrice della frazione bolscevica, egli preferì che la sua polemica prendesse di mira il « trozkismo », tanto più che Trozki, co me Lenin aveva visto così bene, era il solo a tentare, non foss’altro, di dare al suo conciliazionismo una base teorica. Un giorno, dei brani ritagliati dagli scritti e dai discorsi di Lenin nella campagna contro i « conciliatori » sarebbero riusciti preziosi a Stalin in una campagna alla quale non erano certamente destinati. Lo studio delle attività di Lenin negli anni della reazione — atti vità minuziosa e spesso umile, pazientemente attardata nei particolari, ma di fatto sempre ispirata a un pensiero audace ed elevato — riuscirà sempre grandemente istruttivo per uno spirito rivoluzionario. Nel 1909 egli scriveva : « Al momento della rivoluzione (intendeva quella del 1905) abbiamo imparato a parlar francese, voglio dire che abbiamo imparato a galvanizzare le masse. Ora che è sopravvenuto il ristagno, ora che regna la reazione, dobbiamo parlar tedesco : agire lentamente, conquistando il terreno centimetro per centimetro. » Martov, il capo dei menscevichi, scriveva nel 1911: «Quello che due o tre anni fa i capi del movimento legale (intendeva dire i ” liquidatori ”) com presero solo in linea di massima, cioè che occorreva costruire un par tito ” alla tedesca ”... ora è riconosciuto da tutti come il compito a cui è urgente che ci si dedichi. » Dunque Lenin e Martov avevano co minciato a « parlar tedesco » ; ma in realtà parlavano due lingue assai diverse. Per Martov « parlar tedesco » significava accettare il semi-asso lutismo russo nella speranza di « europeizzarlo » gradualmente. Per Le nin significava utilizzare, con l’aiuto del partito illegale, le magre possibi lità di una politica legale onde preparare la nuova rivoluzione. Come dimostrò la degenerazione della social-democrazia tedesca, i menscevichi erano quelli che si avvicinavano di più al « parlar tedesco ». Quanto a Koba, egli non conosceva nè il francese nè il tedesco; ma la sua natura lo spingeva verso la posizione di Lenin. Koba non cercava l’arena aperta come gli oratori e i giornalisti menscevichi, per chè questa esponeva il suo lato debole : gli conveniva idealmente di sporre, di una macchina centralizzata; e sotto un regime controrivolu zionario questa macchina poteva essere solo illegale. Se Koba mancava di prospettiva storica, egli era ricchissimo di perseveranza. Negli anni della reazione egli non fu tra le decine di migliaia che disertarono il partito, ma fra le poche centinaia che gli rimasero fedeli. Poco dopo il congresso di Londra il giovane Zinoviev, eletto nel
126
STALIN
comitato centrale, e il giovane Kamenev, diventato membro del centro bolscevico, si stabilirono all’estero. Koba rimase in Russia. In seguito egli presentò questo fatto come uno straordinario titolo di beneme renza. La realtà era tutt’altra : che un rivoluzionario rimanesse in pa tria o emigrasse, non era lui a deciderlo ma i suoi capi. Se il comitato centrale avesse visto in Koba un buon teorico e un pubblicista capace di produrre meglio all’estero, gli avrebbe indubbiamente ordinato di emigrare ed egli non avrebbe potuto nè voluto dir di no. Koba non emigrò perchè nessuno gli ordinò di emigrare. Da quando i capi del partito si erano accorti di lui, era considerato come un « pratico », cioè come un rivoluzionario fra tanti, da adoperare in un’attività organizzativa locale. E Koba stesso, che aveva potuto misurare le sue forze nei congressi di Tammerfors, di Stoccolma e di Londra, doveva aver poca voglia di raggiungere gli emigrati fra i quali si sarebbe visto relegare al terzo posto. Più tardi, dopo la morte di Lenin, il fatto che Koba era rimasto a casa influì sul significato della parola « emi grato » : essa acquistò ufficiosamente lo stesso senso spregiativo che le avevano dato i conservatori all’epoca zarista. Riprendendo la via dell’esilio Lenin sentiva, e lo disse, di mettere un piede nella tomba. « Siamo terribilmente tagliati fuori da tutto... » scriveva da Parigi nell’autunno 1909. Nella stampa borghese russa co minciavano ad apparire articoli che denigravano gli emigrati, presi a simbolo della decadenza rivoluzionaria. Nel 1912 Lenin rispose a queste calunnie nel giornale bolscevico di Pietroburgo : « Sì, gli emigrati de vono sopportare molte difficoltà... C’è più povertà qui che altrove. Specialmente alta è fra noi la percentuale dei suicidi... Tuttavia qui e non altrove sono state impostate e meditate le questioni fondamen tali della democrazia russa negli anni di confusione e di interregno. » Le idee della rivoluzione del 1917 furono preparate nel corso di quelle grevi e sfibranti battaglie dal gruppo degli emigrati, a cui Koba non prese alcuna parte. Dall’autunno 1907 al marzo 1908 Koba svolse la sua attività rivo luzionaria a Baku. Non è possibile stabilire quando vi giunse: forse aveva lasciato Tiflis nel momento in cui Kamo caricava la sua ultima bomba : la circospezione è uno degli aspetti tipici del coraggio di Koba. Baku, città di molte razze, che all’inizio del secolo aveva già più di centomila abitanti, continuava a crescere rapidamente attirando all’in dustria del petrolio masse di tartari azerbegiani. Le autorità zariste avevano reagito con successo al movimento rivoluzionario del 1905 istigando i tartari contro gli armeni più progrediti. Ma la rivoluzione
LA REAZIONE
»
127
s’impadronì anche degli incolti azerbegiani. In ritardo sul resto del paese, essi parteciparono in massa agli scioperi del 1907. Nella « Città Nera » Koba passò circa otto mesi, tolto il tempo che gli prese il viaggio a Berlino. « Sotto la direzione del compagno Stalin, » scrisse l’inventivo Beria, « l’organizzazione bolscevica di Baku crebbe, acquistò forza e si temprò nella lotta contro i menscevichi. » Koba, secondo Beria, veniva sempre mandato nelle regioni dove gli avversari erano particolarmente forti. « Sotto la direzione del compagno Stalin i bolscevichi spezzarono l’influenza dei menscevichi e dei social rivoluzionari, » e così via. Apprendiamo poco di più da Alliluiev. La ricostruzione delle forze bolsceviche dopo il caos portatovi dalla poli zia, secondo Alliluiev si compì « sotto la direzione e con la partecipa zione del compagno Stalin... Il suo talento organizzativo, il suo entu siasmo rivoluzionario, la sua inestinguibile energia, la sua fermezza di bolscevico... » Sfortunatamente le Memorie del suocero di Stalin furono scritte nel 1937. La formula « sotto la personale direzione e con l’attiva partecipazione » tradisce la marca di fabbrica di Beria. Il social rivoluzionario Vereshciak, che lavorava attivamente a Baku nello stesso periodo e osservava Koba con gli occhi di un avversario politico, rico nosce in lui eccezionali doti organizzative, ma gli nega ogni influenza fra i lavoratori. « La prima impressione che si ha di lui è pessima, » scrive. « Ma egli lo sa e ne tiene conto. Non parla mai alla folla dei comizi... La presenza di Koba in questo o quel distretto è sempre un segreto, si può indovinarla solo dalla intensificata attività dei bol scevichi. » Questo somiglia di più alla verità. Avremo occasione di in contrare ancora Vereshciak. Le Memorie di bolscevichi scritte prima dell’era totalitaria non mettono Koba alla testa dell’organizzazione di Baku ma Sciaumian c Zaparize, due rivoluzionari d’eccezione, uccisi dagli inglesi du rante l’occupazione della Transcaucasia il 20 settembre 1918. « Allora a Baku, » scrive Karinian nella biografia di Sciaumian, « svolgevano una certa attività A. Yenukize, Koba (Stalin), Timofei (Spandarian), Alfescia (Zaparize). L’organizzazione bolscevica... aveva una larga base nei sindacati dei lavoratori del petrolio. Segretario di questi sin dacati e loro vero animatore era Alioscia Zaparize. » Più in là : « Que sti due (Sciaumian e Zaparize) erano i capi più amati dagli operai di Baku. » A Karinian, che scriveva queste righe nel 1924, non venne in mente di includere Koba tra i « capi più amati ». Stopani, altro bolscevico di Baku, racconta come nel 1907 egli si votò all’attività sindacale, « che era la più urgente nella Baku di allora ». I sindacati erano controllati dai bolscevichi. « La figura più
128
STALIN
importante in quel settore era Alioscia Zaparize, un elemento prezioso; Koba vi svolgeva delle mansioni secondarie : era assorbito principal mente dal lavoro del partito. » Qual era questo « lavoro del partito » Stopani non lo dice. In cambio ci fornisce qualche ragguaglio utile sulla discordia che regnava tra i bolscevichi di Baku. Erano d’accordo tutti sulla necessità di « consolidare » l’influenza del partito sui sinda cati; ma, dice, « non eravamo d’accordo sul grado di questo consoli damento e sul modo in cui raggiungerlo : avevamo già un’ala sinistra rappresentata da Koba e un’ala destra cui appartenevano Zaparize e molti altri, tra cui io sottoscritto. Le nostre divergenze non erano di fondo, riguardavano la tattica e i metodi. » Il discorso di Stopani benché volutamente vago (Stalin era già molto potente quando egli scriveva) ci permette di ricostruire con esattezza la posizione dei vari personaggi. L’ondata degli scioperi aveva messo in luce l’importanza dei sindacati. I loro capi erano naturalmente i più preparati a valutare lo stato d’animo della massa operaia e a guidarla : insomma, quella era l’ora di Zaparize e di Sciaumian. Ributtato in seconda linea, Koba si era trincerato nel comitato clandestino. La lotta per « consolidare » l’influsso del partito sui sindacati significava la lotta per fare emergere Koba al disopra di Sciaumian e di Zaparize. Era una campagna perso nale, e presentandoci una delle due ali come formata dal solo Koba, Stopani ci dice che questi aveva contro di sé tutto il resto dei bolsce vichi di qualche rilievo. Particolarmente aspra era la rivalità fra Koba e Sciaumian. Tal mente aspra che quando venne arrestato Sciaumian gli operai — lo sappiamo dai menscevichi georgiani — sospettarono Koba di averlo denunciato alla polizia e insistettero perché fosse giudicato da un tri bunale del partito. Non se ne fece nulla perché poco dopo venne arre stato anche Koba. E del resto è improbabile che avessero delle prove serie contro di lui. I loro sospetti dovevano basarsi su una coincidenza. Resta un fatto : il giudizio dei compagni su Koba era tale che lo cre devano benissimo capace di tradire per ambizione. Su nessun altro si appuntarono mai dei sospetti del genere. Circa il finanziamento del comitato di Baku nel tempo in cui Koba ne faceva parte, vi sono degli indizi — ma niente di più — su alcune « espropriazioni » violente : tributi estorti a industriali con la minaccia della morte, o di incendiare i loro pozzi; fabbricazione e spaccio di banconote false, e così via. I fatti accaddero, su questo non c’è dubbio; è difficile appurare se le voci che le attribuivano all’iniziativa di Koba esistevano già allora o furono messe in circolazione più tardi. Comun que una sua partecipazione, se c’era, non poteva essere diretta : sa
LA REAZIONE
129
rebbe stato sicuramente smascherato. Semmai egli diresse alcune di quelle operazioni da dietro le quinte, come tentò di fare coi sindacati. In realtà si sa pochissimo di quello che fece Koba nel periodo di Baku. Benché ogni episodio anche insignificante venga messo in rilievo quando può servire a glorificare il gran capo, sulle sue supposte attività rivolu zionarie di quel periodo non si sono scritte che frasi vaghe. E questo plebiscito dell’evasività non può essere casuale. Il social-rivoluzionario Vereshciak, ancora giovanissimo, nel 1909 venne incarcerato nella prigione di Baku e vi restò tre anni e mezzo. Koba, arrestato il 25 marzo, passò in quel carcere sei mesi poi venne deportato; tra viaggio e luogo di deportazione, stette via nove mesi; poi evase e tornò di nascosto a Baku; arrestato di nuovo nel marzo 1910, per altri sei mesi restò nel carcere di Baku a continuo contatto con Vereshciak. Poi nel 1912 i due si ritrovarono a Narym in Siberia. E infine dopo la rivoluzione di febbraio le due vecchie conoscenze si rividero al primo congresso dei soviet a Pietrogrado, dove Veresh ciak rappresentava la guarnigione di Tiflis. Più tardi, quando la stella di Stalin era già alta, Vereshciak esule all’estero scrisse in giornali degli emigrati russi una narrazione minu ziosa della loro vita comune in carcere. Forse non tutto ciò che narra Vereshciak merita fede, e certi suoi giudizi non convincono. Per esempio egli dice, certo per sentito dire, che Koba dichiarava di aver denun ciato alcuni suoi compagni di seminario « per motivi rivoluzionari » ; e abbiamo già constatato l’inverosimiglianza di questa storia. Le consi derazioni di questo scrittore populista sul marxismo di Koba sono pue rili. Però Vereshciak ebbe l’enorme vantaggio di poter osservare Koba in un ambiente dove, per quanto si faccia, gli usi e le convenzioni della convivenza civile scompaiono. La prigione di Baku, capace di quattrocento detenuti, allora ne ospitava più di millecinquecento. Dor mivano ammucchiati nelle celle, nei corridoi, fin sui gradini delle scale. In simili condizioni un uomo non poteva conservare neanche un mi nimo di isolamento. Salvo le celle di rigore, tutti i locali erano costan temente aperti; criminali comuni e condannati politici circolavano libe ramente per tutti i reparti e nel cortile. « Era impossibile coricarsi o anche mettersi a sedere senza trovarsi addosso a qualcuno. » Sicché tutti erano sotto gli occhi di tutti, e molti scoprivano negli altri e in sé stessi dei tratti che fuori di lì non avrebbero mai sospettati. Anche individui freddi e riservati scoprivano degli aspetti del loro carattere che normalmente tenevano nascosti. « La formazione di Koba si rivelava estremamente unilaterale, » scrive Vereshciak. « Gli mancavano i principi generali, e non aveva
130
STALIN
educazione. La sua natura lo aveva distolto dal coltivarsi, era un uomo radicalmente rozzo. A ciò si accompagnava in lui una astuzia raffi nata, che gli permetteva di nascondere anche ad osservatori acuti certi altri tratti della sua personalità. » Per « principi generali » sembra che Vereshciak intenda la moralità : come populista, aderiva alla scuola del socialismo « etico ». Un lato di Koba che sorprendeva Vereshciak era la saldezza dei suoi nervi. Nella prigione era molto diffuso un gioco crudele che consisteva nello stuzzicare e provocare una persona finché usciva com pletamente dai gangheri. Lo chiamavano « cacciare (un tale) dentro a una bolla». Con Koba era tempo perso: «Non fu mai possibile fargli perdere la pazienza, » dice Vereshciak, « aveva dei nervi di ferro. » Quel gioco era idilliaco in confronto ad un altro gioco che face vano le autorità coi prigionieri. Fra costoro ce n’erano che, condannati a morte, aspettavano l’esecuzione di momento in momento. Mangia vano e dormivano insieme agli altri. E sotto gli occhi di tutti gli altri a un certo momento venivano prelevati, portati fuori e impiccati; sicché nelle celle si udivano le loro urla e i loro gemiti. Questo man teneva tutti i prigionieri in una costante tensione nervosa. « Ma Ko ba, » dice Vereshciak, « dormiva sodo, o continuava tranquillamente a studiare l’esperanto. » (Aveva scoperto che l’esperanto era la lingua dell’avvenire.) È inverosimile che Koba fosse indifferente alle esecu zioni. Ma aveva i nervi saldi. Sapeva chiudere la porta alla pena altrui. Un sistema nervoso come il suo era un vantaggio non indifferente. Malgrado il caos, le impiccagioni, le baruffe politiche e personali, la prigione di Baku era una grande scuola rivoluzionaria. Koba vi si distinse tra i capi marxisti. Non entrava in discussioni in privato, discuteva solo pubblicamente : chiaro segno che superava per istruzione marxista e per esperienza la gran parte dei suoi compagni di prigionia. « L’aspetto rozzo di Koba e la sua durezza polemica, » dice Veresh ciak, « rendevano spiacevole ascoltarlo. Come oratore mancava di spi rito, era solo un espositore arido. » Vereshciak rievoca una discussione sul problema agrario, in cui Orzhonikize, il compagno d’armi di Koba, finì per schiaffeggiare il suo contraddittore, il social-rivoluzionario Ilia Karzevaze, e a sua volta fu pestato di santa ragione dai social-rivolu zionari. Non è certo una storia inventata : il vivace Orzhonikize con servò la sua tendenza alle vie di fatto anche quando diventò un alto dignitario sovietico, e una volta, per questa ragione, Lenin propose la sua espulsione dal partito. Vereshciak dice di aver provato dell’ammirazione per la « memo
LA REAZIONE
131
ria meccanica » di Koba, che sotto quella fronte angusta aveva im magazzinato, egli credeva, tutti gli scritti di Karl Marx. « Il marxi smo era il suo forte, » dice, « su quel terreno non potevate batterlo. Non c’era problema e non c’era circostanza di fronte a cui non sapesse collocare immediatamente la formula corrispondente, presa da Marx. Ai giovani compagni di partito, scarsi di cultura politica, faceva una notevole impressione. » Il fatto è che Vereshciak era uno di quei gio vani scarsi di cultura politica. Al giovane populista che si era nutrito solo di letteratura sociologica nostrana, il bagaglio marxista di Koba pareva formidabile. In realtà era un bagaglio modestissimo. Koba non aveva curiosità radicali, non si sapeva applicare, non aveva la minima disciplina mentale. Era improprio definire « meccanica » la sua me moria. Aveva una memoria ristretta, puramente empirica, per niente meccanica malgrado egli provenisse da un seminario : una memoria di contadino, senza penetrazione e senza sintesi, ma salda e tenace specie nel rancore. Non è affatto vero che la sua testa fosse zeppa di frasi di Marx pronte per rispondere a tutti i quesiti. Koba non è mai stato un erudito. Del marxismo egli aveva incasellato nella sua memo ria, attraverso l’opera selettiva di Lenin e di Plechanov, alcuni afori smi elementari sulla lotta di classe e sulla prevalenza dei dati concreti sulle idee. Per quanto ridotte agli ultimi termini, quelle quattro for mule gli servivano ancora con gli ingenui populisti : come un uomo armato di una cattiva rivoltella è ancora in vantaggio con uno armato di un boomerang. Sappiamo che quando era recluso nelle prigioni di Batum e di Kutais, Koba aveva cercato di penetrare i misteri della lingua tedesca. Era l’epoca in cui la social-democrazia tedesca aveva molta influenza sui russi. Ma con la lingua di Marx egli ebbe ancora meno successo che con la sua dottrina. Nel carcere di Baku si mise a studiare l’espe ranto di cui si era messo in testa che fosse « la lingua dell’avvenire ». È un particolare eloquente sul livello intellettuale di Koba, che poteva formarsi una convinzione così ingenua e che, nel campo degli studi, cercava sempre la linea di minor resistenza. Negli otto anni che passò tra la prigione e l’esilio, non solo non gli riuscì di imparare nulla delle lingue altrui, ma non riuscì a imparare nemmeno quella lingua di nessuno che era l’esperanto. Di massima i detenuti politici cercavano di restare in disparte dai condannati per delitti comuni. Koba invece « potevate vederlo di con tinuo in mezzo ai ladri, ai ruffiani e ai ricattatori ». Gli ispirava rispetto, dice Vereshciak, la gente che poteva vantare la partecipazione a un qualche vero « colpo ». Non è detto che Vereshciak sia nel vero.
132
STALIN
Forse non era che lo attirassero i ladri, o non era tanto questo: può darsi che a frequentare quelle compagnie lo riducesse il disagio che provava in compagnia di gente intellettualmente superiore a lui. Nel Politburo, al tempo di Lenin, sedeva quasi sempre silenzioso e acci gliato. Come conversatore si faceva più allegro e più alla mano se era gente di mentalità elementare, senza tendenze intellettuali. Nella guerra civile quando qualche reparto — per lo più di cavalleria — prendeva la mano ai comandi e si dava alle violenze e ai saccheggi, Lenin di solito diceva : « Gli mandiamo Stalin. Lui sa trattare con gente di quella specie. » In carcere Koba non si fece mai iniziatore di proteste e manife stazioni; però sosteneva sempre coloro che le iniziavano; e « ciò indu ceva gli altri prigionieri a considerarlo un buon camerata ». C’è del giusto : Koba non fu mai un iniziatore, in nessun luogo e nessuna cir costanza. Aveva l’arte di utilizzare le iniziative altrui, spingendo gli iniziatori a farsi avanti e conservando per parte sua la libertà di scelta. Non che gli mancasse il coraggio; ma preferiva spenderlo con parsi monia. Il regime delle carceri era un misto di indulgenza e di crudeltà. I carcerati godevano di una notevole libertà di movimento nei confini del carcere. Ma quando si superava un certo limite vagamente segnato nell’uso, l’amministrazione di colpo ricorreva alla forza militare. Vereshciak racconta come nel 1909 (e qui si sbaglia, fu nel 1908), la Do menica di Pasqua, un reparto del reggimento di Salyan bastonò tutti i prigionieri obbligandoli a passare tra due file. « Koba passò anche lui sotto la tempesta di bastonate, a testa alta, con un libro in mano; e quando la gragnola di colpi si infittì su di lui, prese un secchio e con quello sfondò la porta della sua cella sfidando la minaccia delle baio nette. » L’uomo eccezionalmente padrone dei suoi nervi, in circostanze rarissime era capace di furori estremi. Lo pseudo-storico moscovita Jaroslavski ha ripreso la storia di Vereshciak rendendola più precisa : « Stalin, » dice, « passò tra le due file di soldati leggendo Marx. » Il grande nome è messo qui come si mette una rosa in mano a una statua della Vergine Maria, e tutta la storiografia sovietica è ornata di simili rose. Koba che prende le bastonate leggendo Marx è diventato un’immagine classica, imbandita agli scolari in forma poetica e in forma prosastica. L’episodio è ri dicolo, ma come esempio di stoicismo non avrebbe avuto nulla di eccezionale in quell’atmosfera. Crudeltà ed eroismo abbondavano nelle carceri. Piatnizki racconta che quando fu arrestato a Vilna nel 1902 un poliziotto propose di mandare quel giovanissimo operaio al comandante della polizia del distretto, uomo di nota crudeltà, per
LA REAZIONE
133
chè lo facesse confessare. Ma un poliziotto più anziano gli osservò : « No, non dirà niente neanche lì, è uno dell"Iskra, » Già allora i rivo luzionari della scuola di Lenin erano noti per la loro fermezza. Con Kamo, per sincerarsi se aveva veramente perduto la sensibilità i medici gli ficcavano degli spilli sotto le unghie; e sopportò simili prove per alcuni anni prima che lo dichiarassero pazzo incurabile. Qualche colpo dato col calcio del fucile significava poco al paragone. Furono le condizioni particolari della vita in prigione a permettere a Vereshciak di osservare in Stalin un tratto del carattere, il quale gli doveva permettere di rimanere inosservato a lungo : « era maestro nell’incitare segretamente gli altri, restando in disparte dalla loro attività ». E qui cita due esempi. Un giorno un giovane georgiano venne basto nato nel corridoio del reparto prigionieri politici. Nella prigione cir colava a suo proposito una sinistra parola: «provocatore». Dovettero intervenire i soldati di guardia per sottrarlo ai suoi bastonatori; il corpo insanguinato venne portato all’infermeria su una barella. Era veramente un agente provocatore? E se sì, perchè non era stato ucciso? « L’usan za in quella prigione era che il provocatore smascherato venisse uc ciso, » osserva Vereshciak. « Ma lì nessuno sapeva niente sul conto di quel giovane, e non riuscivamo a trovare il bandolo della matassa; finché parecchio tempo dopo accertammo che la voce era partita da Koba. » A carico del giovane georgiano non emerse mai nulla; proba bilmente era uno di quegli operai che avevano denunciato Koba come delatore di Sciaumian. Secondo caso : un giorno sulla scala che portava al reparto politici un prigioniero noto col soprannome di « Greco » pugnalò un giovane operaio entrato di recente in prigione. Era convinto che il nuovo venuto fosse una spia, benché non lo conoscesse affatto. Anche questo incidente sanguinoso rimase un mistero per molto tempo. Finalmente il Greco dichiarò che a indurlo in errore era stato Koba. La gente del Caucaso è di temperamento infiammabile e ha il col tello facile. Un calcolatore freddo come Koba, pratico della loro lingua c del loro costume, non trovava difficoltà ad eccitarli gli uni contro gli altri. Nei due casi citati da Vereshciak si trattava chiaramente di sue vendette personali. Egli non provava il bisogno di far sapere alle vittime di dove veniva il colpo. Koba non ha mai confidato volen tieri i suoi sentimenti, nemmeno la soddisfazione di un rancore appa gato. Lo gode meglio da solo. I due sordidi episodi sono tutt’altro che difficili da credere, perché in futuro la biografia di Koba ne doveva registrare numerosi altri di identici. Nel carcere di Baku, Koba comin ciava ad allenarsi.
134
STALIN
In altre pagine Vereshciak racconta una serie di imprese arri schiate che Koba avrebbe compiute a Baku, ma le racconta per sentito dire : l’organizzazione di una banda di falsari, alcuni « colpi » per im padronirsi di denaro dello Stato, e altre gesta simili. « Lì in prigione, » dice, «c’erano alcuni boieviki condannati per rapina o come falsari; ma Koba non venne mai imputato formalmente di delitti del genere. » Se quei condannati avessero saputo della parte che egli aveva nelle stesse loro malefatte, uno prima o poi lo avrebbe tradito; ma non sapevano nulla. « Questa capacità di colpire con la mano altrui senza mai mostrare la sua, permise a Koba di diventare un abilissimo intri gante, uno che non indietreggiava dinanzi a nessuna malefatta ma restava al sicuro da ogni responsabilità. » Se stiamo al racconto di Beria, in carcere tra le diatribe coi populisti e le chiacchierate coi ladri Koba non trascurò di occuparsi dell’organiz zazione rivoluzionaria. Riuscì, sempre in prigione, a procurarsi dei contatti regolari col comitato di Baku. Niente di più verosimile. Quando dei carcerati politici sono mescolati a quelli comuni, e prima di tutto continuano ad essere in contatto tra di loro, isolarli dall’esterno è impossibile. Un numero di un giornale clandestino per esempio fu interamente compilato lì dentro. Il polso della rivoluzione, per quanto indebolito, continuava a battere. La prigione non indusse Koba ad approfondire la teorica rivoluzionaria, ma non lo distolse dalla lotta. Il 20 settembre fu tolto di lì e mandato a Solvycegodsk nel nord, in provincia di Vologda. Era una deportazione di favore, all’acqua di rose : per un periodo massimo di due anni, nella Russia europea non in Siberia, non in un villaggio sperduto ma in una borgata di duemila abitanti, e con la possibilità di fuggire, praticamente, quando voleva. Questo dice che la polizia non aveva prove nè gravi nè gran che serie contro Koba. Dato il costo bassissimo della vita in quelle regioni, era facile vivere coi pochi rubli mensili che lo Stato passava ai deportati; per gli even tuali bisogni extra, ricevevano delle sovvenzioni dagli amici e dalla Croce Rossa rivoluzionaria. Come Koba passò quel periodo a Solvyce godsk (che fu poi di nove mesi in tutto) non lo sappiamo. Non esistono documenti pubblicati che vi si connettano: nè articoli di giornali nè corrispondenze. C’è solo una « posizione » nell’archivio della polizia locale intestata « Josif Zhugashvili », dove sotto l’intestazione « Con dotta » leggiamo : « Grossolano, prepotente, senza rispetto per le auto rità. » La mancanza di rispetto per le autorità era comune a tutti i rivoluzionari, ma la volgarità era un dato personale. Nel 1909 Alliluiev, che vive a Pietroburgo, riceve una lettera di
LA REAZIONE
135
Koba dal luogo di deportazione. Koba gli chiede di mandargli il suo indirizzo. « Sulla fine dell’estate di quell’anno, » scrive Alliluiev, « Sta lin evase dal luogo di deportazione e venne a Pietroburgo. Ci incon trammo per caso in una strada del quartiere Litieini. » Stalin non era riuscito a trovare Alliluiev in casa nè al lavoro, e si era ridotto a vagare per le strade del quartiere. « Quando lo incontrai era morto di stan chezza. » Alliluiev lo sistemò presso il portiere di un reggimento della Guardia imperiale, che era un simpatizzante dei rivoluzionari. « Lì Stalin potè vivere tranquillo per un po’ di tempo. Si abboccò con alcuni membri della frazione bolscevica nella terza Duma. Poi ripartì per Baku. » Ripartì per Baku. Non poteva essere il patriottismo ad attirarlo nuovamente laggiù. Piuttosto si può supporre che a Pietroburgo nes suno conoscesse Koba, che i deputati della Duma non lo trovassero interessante, che nessuno gli proponesse di rimanere e gli offrisse un sussidio, particolare indispensabile per chi viveva alla macchia. « A Baku si rimise con energia al compito di rafforzare le organizzazioni bolsceviche... Nell’ottobre del 1909 passò a Tiflis, e qui diresse la lotta dell’organizzazione bolscevica contro i liquidatori menscevichi. » Non occorre dire ai lettori che queste sono frasi di Beria. Koba in questo periodo pubblicò nei giornali clandestini alcuni articoli, che oggi interessano solo perchè furono scritti dal futuro Stalin. In mancanza di meglio si dà gran valore a una corrispondenza di Koba da Baku, del dicembre 1909, che uscì in un giornale del partito pubblicato all’estero. Questa « lettera dal Caucaso » dopo aver fatto presente la differenza fra il centro industriale attivo che è Baku e Tiflis che è una città morta di funzionari, bottegai e artigiani, passa a spiegare — giustissimamente — la prevalenza dei bolscevichi a Tiflis con la struttura sociale della città. Poi parte in una polemica contro l’inamovibile capo della social-democrazia georgiana, Zhordania: il quale aveva appena proclamato per l’ennesima volta la necessità di « unire le forze della borghesia e del proletariato ». Secondo Zhorda nia gli operai dovevano rinunciare alla loro politica intransigente, perchè « meno violenta è la lotta fra proletariato e borghesia, più piena sarà la vittoria della rivoluzione borghese ». Koba sosteneva il perfetto contrario: «Il successo della rivoluzione sarà tanto più pieno, se la rivoluzione farà perno sulla lotta di classe del proleta riato, coi contadini poveri al suo seguito, contro la proprietà terriera e contro i borghesi liberali. » Parole sostanzialmente giuste, e senza un’ombra di originalità: a partire dalla primavera del 1905 questa dichiarazione polemica era stata fatta innumerevoli volte. A Lenin
136
STALIN
le corrispondenze dalle varie parti dell’impero erano preziose in quanto lo tenevano al corrente delle situazioni locali; non gli serviva a niente sentirsi esporre delle idee che uscivano dal suo cervello. Eppure, nel 1907 si proclamò che la « lettera dal Caucaso » di Stalin era « un modello classico di tattica lenin-stalinista ». Uno degli incensatori ufficiali scrisse : « La nostra letteratura e l’insegnamento nelle nostre scuole ancora non hanno gettato una luce sufficiente su questo arti colo la cui profondità, la cui ricchezza di pensiero, la cui importanza storica sono straordinarie. » Dice ancora questo illustre storico, un certo Rabicev: «Final mente fra marzo e aprile 1910 si potè costituire una sezione russa del comitato centrale. Stalin ne faceva parte. Ma tutti i suoi membri furono arrestati prima che la sezione cominciasse ad operare. » Se è così, almeno nominalmente Koba entrò a far parte del comitato centrale nel 1910 se non anche prima. È una pietra miliare impor tante nella sua carriera. Solo, è un atto falso. Quindici anni prima di Rabicev il vecchio bolscevico Ghermanov (alias Frumkin) scriveva : « In un mio incontro con Noghin fu deciso di proporre al comitato centrale di costituire la sezione russa con questi cinque membri : Noghin, Dubrovski, Malinovski, Stalin e Miliutin. » Non si trattava di una decisione del comitato centrale ma di una proposta fatta da due bolscevichi. Continua Ghermanov : « Tutt’e due conoscevamo Stalin come uno dei più attivi e più capaci attivisti di Baku. Noghin andò a Baku per parlare con lui; ma per un complesso di ragioni Stalin non potè assumersi gli oneri comportati dalla qualità di mem bro del comitato centrale. » Ghermanov non dice nulla delle ragioni che glielo impedivano. Due anni dopo, Noghin scrisse a proposito del suo viaggio a Baku : « Stalin allora viveva in una rigida clan destinità. Era molto in vista nel Caucaso, e quindi era costretto a vivere nascosto nei campi petroliferi di Balachani. » A quanto pare, Noghin non lo potè nemmeno vedere. Il silenzio di Ghermanov sugli impedimenti di Stalin permette di fare delle deduzioni interessanti. Il 1910 fu l’anno di massimo declino del movimento e del massimo favore della tendenza conciliativa. In una seduta plenaria del comitato centrale tenuta in gennaio a Parigi i « conciliatori » riportarono una vittoria sia pure assai precaria. Fu deciso allora di reinstaurare il comitato centrale in Russia, con la partecipazione dei « liquidatori ». Noghin e Ghermanov, si noti, erano due bolscevichi della tendenza conciliativa. Ricostruire quella sezione russa, cioè destinata a una vita clandestina, era compito di Noghin. Non essendoci a disposizione personaggi di vero rilievo, si fecero dei
LA REAZIONE
137
tentativi diretti ad attirare nella sezione dei militanti della provincia. Uno fu Koba, che Noghin e Ghermanov conoscevano come « uno dei migliori attivisti di Baku ». Ma la sua candidatura andò a vuoto. Per chè? Il bene informato autore dell’articolo nella Volksstimme di Mannheim che abbiamo già citato, dice che per quanto « i biografi ufficiali cerchino di dare per mai avvenute sia le ” espropriazioni ” in cui ebbe parte Stalin sia la sua espulsione dal partito, resta il fatto che i bolscevichi stessi esitavano molto a dargli delle cariche direttive di una certa importanza ». Si può concludere, senza timore di sbagliarci, che la ragione del fallimento della missione di Noghin consistette nelle informazioni raccolte, una volta sul posto, circa le attività di Koba come boievik. Nella seduta plenaria a Parigi gli « espropriatoli » era no stati sconfessati come uomini che agivano « in base a un’erronea concezione degli interessi del partito ». I menscevichi che si battevano per mantenere il partito nella legalità non potevano prendersi per collaboratore un noto organizzatore di « espropriazioni ». A quanto pare, Noghin non se ne rese conto prima di aver parlato coi dirigenti menscevichi del Caucaso. Notiamo che dei due « conciliatori » che proteggevano Stalin, Ghermanov e Noghin, il primo in seguito scomparve senza lasciar traccia; quanto a Noghin solo la morte prematura nel 1924 lo salvò dal condividere la sorte di Rykov, Tomski, Ghermanov e altri suoi amici. Che la sua parte fosse di primo, secondo o terzo piano, certo è che a Baku l’attività di Koba ebbe più successo che a Tiflis. Però l’idea di una Baku diventata l’unica cittadella inconquistabile dei bolscevichi appartiene al regno del mito. Per combinazione, ad avviare la crea zione di questo mito fu Lenin stesso quando, sulla fine del 1911, pose l’organizzazione di Baku e quella di Kiev « fra le organizzazioni esem plari, le più progredite della Russia, negli anni 1910 e 1911 », cioè negli anni del declino e del primo accenno di ripresa del partito. « L’organizzazione di Baku continuò a vivere senza interruzioni negli anni difficili, e prese parte attiva a tutte le manifestazioni del movi mento operaio », dice una nota al volume XV dell "Opera omnia di Lenin. I due giudizi, quello di Lenin e quello del suo chiosatore, giu dizi che oggi formano la base di un capitolo della biografia di Stalin, non reggono a un esame attento. Baku dopo un momento di vitalità promettente attraversò le stesse fasi di declino degli altri centri indu striali russi; il suo declino avvenne con un leggero ritardo, ma fu più grave. Leggiamo nelle Memorie di Stopani : « A partire dal 1910 a Baku
138
STALIN
non c’è più vita politica nè sindacale. » Sopravvisse ancora qua e là qualche campione di attività sindacale per brevi momenti, ma so prattutto per opera dei menscevichi. « Presto l’attività dei bolscevichi si spense del tutto, in conseguenza di una serie di scacchi, della scom parsa degli elementi attivi, dello sfavore generale. » Nel 1911 non c’era più neanche quel poco che rimaneva nel ’IO. Orzhonikize fu a Baku nel marzo 1912 quando in Russia la causa rivoluzionaria si riprendeva a vista d’occhio, e scrisse al comitato centrale all’estero : « Ieri ho potuto finalmente raggranellare alcuni operai... Degli organismi locali non c’è più traccia; quindi la riunione è rimasta puramente pri vata... » Sono testimonianze sufficienti. Ricordiamo la frase di Olminski che abbiamo già citata : « La ripresa fu più lenta nelle città dove avevano lavorato di più gli espropriatori: come Baku e Saratov. » La svista di Lenin su Baku fu una della tante sviste commesse da un emigrato, costretto a giudicare da lontano in base a informazioni fram mentarie e malsicure, e talora forse volutamente inesatte come le comunicazioni ottimistiche di Roba. Comunque il quadro d’assieme è chiaro. Roba non partecipò atti vamente al movimento sindacale che allora era la sola parte viva della lotta (vedi le testimonianze di Rarinian e di Stopani). Non prese parte alle riunioni operaie (vedi Vereshciak). Viveva in una « totale clan destinità » (Noghin). « Per un complesso di ragioni » non potè entrare nella sezione russa del comitato centrale (Ghermanov). A Baku le « espropriazioni » erano state più numerose che altrove (Olminski) ; e così gli atti terroristici di altro genere (Vereshciak). Roba passava per avervi svolto un’attività direttiva (Vereshciak, Martov ed altri). E certo queste attività richiedevano il distacco dalle masse, la vita alla macchia. Per un certo tempo a Baku l’organizzazione clandestina sopravvisse artificialmente, sovvenzionandosi con le rapine. Questo rese più violento il colpo della reazione quando venne, e ritardò la ripresa. Ed è una conclusione che non ha solo valore biografico : ne ha uno teorico-storico non indifferente, in quanto ci aiuta a far luce su determinate regole generali sui movimenti popolari. Il 24 marzo 1910 il capitano della polizia Martinov comunicò di avere arrestato Josif Zhugashvili (alias Roba) membro del comitato di Baku, « l’elemento militante più attivo, in una posizione di comando » (almeno scrisse così se non è stato Beria a ritoccare il documento). Sempre in relazione a questo arresto un altro ufficiale di polizia, il ca pitano Galimbatovski, informò i suoi superiori che « data la parte cipazione costante » di Zhugashvili ai complotti rivoluzionari e date le sue evasioni, riteneva opportuno applicargli « la più alta misura
LA REAZIONE
139
punitiva ». Non si riferiva alla pena di morte : « la più alta misura punitiva » nel gergo amministrativo era la deportazione in qualche posto lontano in Siberia per cinque anni. Intanto Koba si trovava di nuovo nell’ormai familiare prigione di Baku. La situazione politica generale e il regime del carcere ave vano subito mutamenti radicali da diciotto mesi a quella parte. Si era verso la fine del 1910, la reazione trionfava dovunque. Agitazione operaia, espropri, gesta terroristiche, erano scesi al minimo della scala. Anche in prigione c’era più disciplina e più calma. Niente discussioni collettive o no; Koba se voleva poteva studiarsi a fondo l’esperanto, ma doveva esserne ormai deluso. E il 27 agosto, d’ordine del governa tore del Caucaso, Zhugashvili si vide interdetto il soggiorno nelle pro vince caucasiche per la durata di cinque anni. Quanto al consiglio del capitano Galimbatovski, si vede che non era corredato da buone prove perchè a Pietroburgo non lo presero in considerazione; Koba fu sem plicemente rimandato nella provincia di Vologda a completare i suoi due anni di relegazione. È chiaro che a Pietroburgo non lo considera vano ancora un uomo pericoloso.
CAPATOLO QUINTO
LA RIPRESA
P
er cinque anni all’incirca, dal 1906 al 1911, Stolypin fu il
padrone assoluto della Russia. Ma ebbe il torto di spremere tutte le risorse della reazione. Il regime nato il 3 giugno 1906 dimostrò la sua inettitudine in tutti i campi ma soprattutto in quello agrario. Dalle combinazioni politiche Stolypin dovette scendere alla nuova pratica del bastone poliziesco. Quasi a sottolineare la banca rotta completa del suo regime, l’uomo che assassinò Stolypin apparte neva alla sua polizia segreta. Nel 1910 vi fu un’indiscutibile ripresa industriale; e i partiti rivo luzionari si trovarono di fronte a questo problema : che effetto avrà questa evoluzione economica sulla situazione politica? La maggior parte dei social-democratici mantenne la posizione schematica di pri ma : la crisi mette le masse in agitazione, la ripresa industriale le acquieta; quindi sia la frazione bolscevica sia quella menscevica ten devano a minimizzare o addirittura negare l’esistenza di una ripresa. Fece eccezione la Pravda di Vienna che con tutte le sue illusioni « conciliative » prospettò e sviluppò un’idea perfettamente giusta : le ripercussioni politiche della ripresa economica come quelle della crisi non si presentano secondo un automatismo fisso ma di volta in volta sono decise dalla fase in cui si trovava già la lotta sociale e dal la complessiva situazione del paese. Ad esempio se una vasta campa gna di scioperi si sviluppava nel corso della ripresa industriale, un’im provvisa flessione dell’industria poteva produrre un’immediata e vio lenta ripresa rivoluzionaria, con l’aiuto di determinate circostanze di contorno. D’altro lato, dopo un lungo periodo di lotta rivoluzio naria concluso in perdita, una crisi industriale dividendo e fiaccando ulteriormente il ceto operaio può anche stroncare lo spirito di rivol ta. Oppure giungendo dopo un lungo periodo di reazione la ripresa
142
STALIN
industriale può ravvivare potentemente lo spirito combattivo del prole tariato; dopo di che il sopravvenire di una nuova crisi avvierà le sue nuove energie sui binari dell’azione politica. La guerra russo-giapponese e le convulsioni della prima rivolta proletaria avevano impedito al capitalismo russo di partecipare alla ripresa industriale avvenuta nel mondo intero fra il 1903 e il 1907. Nel contempo la massa proletaria si era sfinita nella rivolta. La crisi mondiale delle industrie, sopraggiunta nel 1907, causò in Russia una ulteriore depressione che durò tre anni, e che ben lontano dal pro vocare gli operai alla lotta li infiacchì e li scoraggiò più che mai. Gli scacchi, i continui arresti e la disoccupazione crescente li ridussero alla paralisi. Su questa base Stolypin potè edificare il suo « successo ». Al proletariato russo occorreva proprio la ripresa industriale per ri prendere fiato e soprattutto per prendere più piena coscienza della sua funzione indispensabile nell’economia del paese, e su queste pre messe ritrovare lo spirito di lotta. Alla fine del 1910 vi furono delle dimostrazioni di piazza occasio nate dalla morte del liberale Muromzev, ex-presidente della Duma, e di Leone Tolstoi. Era molto che non accadeva niente di simile. Il movi mento rivoluzionario studentesco entrò in una nuova fase. A guardare le cose in superficie poteva parere che la ripresa rivoluzionaria avesse origine proprio in quel lieve strato intellettuale : che fossero gli stu denti ad animare col loro esempio la parte più evoluta del proleta riato operaio. È così che ragiona di solito l’idealismo storico. In realtà la spinta andava dal basso in alto. Era la classe lavoratrice che grazie alla ripresa industriale si riscuoteva dal torpore. Soltanto, prima di rivelarsi in superficie la nuova corrente aveva già investito la classe studentesca. Questa ha dei tempi di reazione molto più brevi, e fu ciò a darle una sorta di priorità apparente. I primi disordini furono ef fettivamente quelli studenteschi. Ma un osservatore bene informato non poteva non vedere che il processo si era iniziato altrove. La catena di scioperi presto si infittì. È vero che il 1911 segnò appena centomila scioperanti : il torpore da vincere era forte, e comunque la cifra del 1911 era già doppia di quella del 1910. Alla fine dell’anno l’atmosfera nelle zone industriali era profondamente mutata. Conviene aver presente che dopo gli ottimi raccolti del 1909 e del 1910, che avevano dato impulso alla ripresa industriale, la siccità causò nel 1911 un raccolto disastroso ; esso non arrestò la ri presa industriale ma ridusse alla fame venti milioni di contadini. Ricominciò così il fermento di rivolta nelle campagne, e la questione agraria tornò all’ordine del giorno.
LA RIPRESA
143
Nella conferenza bolscevica del gennaio 1912 si era parlato con buonissimo fondamento di un « inizio di ripresa politica » ; ma un sen sibile mutamento di scena avvenne solo nella primavera di quell’anno, e a produrlo fu il « massacro degli operai della Lena ». In piena taiga, a settemila chilometri da Pietroburgo e a duemila dalla stazione ferro viaria più vicina, i paria delle miniere d’oro che con la loro fatica procuravano milioni di rubli ogni anno agli azionisti russi e inglesi avevano osato reclamare la giornata lavorativa di otto ore, un aumento della paga e l’abolizione delle multe. In risposta venne chiamata da Irkuzk la truppa, che sparò sulla folla inerme. Vi furono centocinquanta morti, e duecentocinquanta feriti di cui ancora alcune decine morirono per mancanza di assistenza medica. Quando l’incidente della Lena venne in discussione alla Duma, il ministro degli Interni Makarov — un funzionario ottuso, nè peggiore nè migliore dei suoi colleghi — di chiarò fra gli applausi dei deputati di destra : « È accaduto, e potrà accadere di nuovo. » La frase di una sorprendente impudenza produsse nel paese una scossa elettrica. Prima scioperarono gli operai di Pietro burgo, poi gli scioperi si moltiplicarono in tutti i centri industriali. Alla ondata di sdegno che rispose all’episodio della Lena si può paragonare solo quella che sette anni dopo doveva essere prodotta dalla « Dome nica di sangue ». Stalin in quei giorni era a Pietroburgo, reduce da una deportazione a cui presto ne sarebbe seguita un’altra. « Gli spari della Lena, » scrisse nella Zviezda (un giornale che avremo occasione di citare ancora), « han no rotto il silenzio. Il fiume del risentimento popolare si è mosso. Si è mosso!... Tutto quanto ha di cattivo e di funesto il regime attuale, tutto ciò che rende martire la Russia, si è condensato in un unico fatto : l’incidente della Lena. Quelle fucilate hanno dato il via agli scioperi e alle manifestazioni... » A scendere in sciopero furono circa trecentomila operai. Poi lo scio pero del 1° maggio ne mobilitò quattrocen tornila. Secondo le cifre ufficiali, il totale del 1912 fu di settecentocinquantamila. Negli anni della ripresa il numero degli operai in Russia era aumentato del 20%; nel febbrile intensificarsi della produzione, era aumentata notevolmente la loro importanza per l’economia generale. Ormai un risveglio della classe operaia si estendeva immancabilmente a tutti gli altri strati popo lari. La campagna affamata si muoveva a sua volta. L’agitazione si esten deva all’esercito e alla marina. Propriamente non si trattava di una ripetizione ma della continuazione dei fatti avvenuti nel 1905. Ma men tre al grandioso sciopero del gennaio 1905 si era accompagnata un’in genua petizione allo zar, questa volta gli operai innalzarono l’insegna
144
STALIN
della repubblica democratica. Idee e metodi del 1905 ritornavano in campo, ma arricchiti dall’esperienza degli anni di reazione; e i frutti furono nuovi. Fin dal primo giorno la direzione del movimento fu in mano agli operai; e in seno all’avanguardia proletaria predominarono i bolscevichi. Erano già presenti, in sostanza, gli elementi propri della futura rivoluzione; ma i bolscevichi erano lenti a rendersene conto. Era stata la ripresa industriale a gettare le fondamenta della futura « rivoluzione permanente », rafforzando il proletariato e creandogli una funzione vitale nell’economia generale e quindi nella vita politica del paese. Solo la scopa della dittatura del proletariato poteva spazzare le scuderie del vecchio regime : la rivoluzione democratica poteva trion fare solo trasformandosi in rivoluzione socialista, cioè superandosi. Tutto questo era già enunciato nelle premesse del « trozkismo ». Ma esso aveva il suo tallone di Achille : il « conciliazionismo », con nesso alla fiducia in una rigenerazione rivoluzionaria del menscevismo. Ora la nuova ripresa nettamente rivoluzionaria dava, evidentemente, un colpo mortale al « conciliazionismo ». La frazione bolscevica si appog giava sull’avanguardia rivoluzionaria del proletariato urbano e gli stava insegnando a trascinarsi dietro i contadini; la frazione menscevica era basata sullo strato molto sottile di una aristocrazia operaia, e guardava alla borghesia liberale con occhio amichevole. Una volta che la massa proletaria si fu ributtata nel conflitto aperto, la conciliazione fra le due correnti era impossibile. I « conciliatori » si trovarono costretti a prendere l’una o l’altra via : i rivoluzionari si unirono ai bolscevichi, gli « opportunisti » ai menscevichi. La terza deportazione di Koba durò dal 23 settembre 1910 al 6 luglio 1911. Circa due mesi li passò in viaggio da Baku a Solvycegodsk, comprese le soste nei « depositi » intermedi. Dei sette mesi e mezzo circa che passò a Solvycegodsk non sappiamo quasi nulla; i compagni di esilio che vi frequentò, i libri che lesse, i problemi a cui si interessò. Due sue lettere di quel periodo ci dicono che riceveva delle pubblica zioni dall’estero e fu quindi in grado di seguire la vita del partito, o almeno degli emigrati, fra i quali la lotta interna era giunta alla fase più acuta. Plechanov con un piccolo numero di seguaci aveva rotto i rapporti con gli amici di ieri per prendere le difese del partito « ille gale » contro i « liquidatori » : estrema fiammata di radicalismo in questo uomo notevole che si avviava al declino. Nacque dunque, inat tesa, una coalizione fra Lenin e Plechanov. Parallelamente, si erano ve nuti riavvicinando i « liquidatori » (Martov e altri), il gruppo del gior nale Vperiod (con alla testa Bogdanov e Lunaciarski) e i « conciliatori » trozkisti. Questo secondo blocco, che non aveva alcuna base di princi
LA RIPRESA
145
pio, era nato prendendo quasi di sorpresa gli stessi suoi componenti. I « conciliatori » continuavano a voler conciliare i bolscevichi coi mensce vichi; ma poiché il bolscevismo rappresentato da Lenin respingeva net tamente una simile alleanza, era naturale che i « conciliatori » finissero per allearsi, o quasi, coi menscevichi e coi « vperiodisti ». A cementare questa associazione effimera era solo, scrisse Lenin a Gorki, « l’odio per i bolscevichi, perché lottano senza transigere per la loro idea ». Una lettera di Stalin, datata del 31 dicembre 1910 e indirizzata a Parigi a un non meglio identificato Simion, dice : « Compagno Simion! Ieri a mezzo dei compagni ho ricevuto la tua lettera. Per prima cosa, i miei saluti più calorosi a Lenin, a Kamenev e agli altri (da que sta frase njelle ripubblicazioni dell’era staliniana sono scomparsi i saluti per Kamenev). Secondo me la linea del blocco (Lenin-Plechanov) è l’unica giusta... Nel piano del blocco si riconosce la mano di Lenin : è un contadino furbo che sa dove si nascondono i gamberi. Questo però non vuole ancora dire che ogni blocco sia accettabile. Quello trozkista per esempio si basa sulla mancanza di scrupoli... Il blocco Lenin-Plechanov è vitale perché basato sui principi fondamentali e su un’identità di vedute quanto al modo di procedere per rianimare il partito. Ma è un blocco non una fusione, e la frazione bolscevica deve mantenere gelosamente il suo carattere di frazione. » Tutto ciò era in perfetto accordo con le idee di Lenin, anzi non in accordo, era un compendio di punti di vista espressi da lui. Più innanzi nella lettera Koba fa presente al « compagno Simion », ma come di sfuggita, che « ciò che conta di più » non è la cosiddetta « emigrazione » ma l’at tività « pratica » svolta in Russia; si affretta però a spiegare che per attività pratica egli intende « l’applicazione dei principi ». E final mente arriva al sodo : « Secondo me si deve costituire subito un ufficio centrale (in Russia) il quale coordini l’attività clandestina, quella semi clandestina e quella legale... Ormai questo ufficio è necessario come l’aria per respirare. » La proposta non ha niente di nuovo. Lenin aveva tentato ripetutamente, dal congresso di Londra in poi, di rico stituire in Russia un ufficio parallelo al comitato centrale, ma non era approdato a nulla a causa della disorganizzazione sopravvenuta nel partito. Koba suggeriva di convocare una conferenza del partito : « Essa potrebbe fare emergere i nomi adatti per la composizione di questo ufficio centrale. » Dopo aver proposto di spostare il centro dinamico del partito dall’estero alla Russia, Koba si affrettava dunque a parare una possibile stizza di Lenin. Proseguiva : « Si deve agire fermamente e duramente, senza badare alle critiche dei ” liquidatori ”, dei trozkisti e dei vperiodisti... » Poi torna alla faccenda dell’ufficio
146
STALIN
centrale : « Chiamatelo un po’ come volete, ” Sezione russa del comi tato centrale ”, ” Ufficio ausiliario del comitato centrale ”... Ed ora ti parlerò di me. Devo fare altri sei mesi quaggiù. Poi sarò a piena disposizione del partito; ma se c’è un bisogno estremo di attivisti posso evadere anche subito. » È chiaro dove mira la lettera : Koba pone la sua candidatura per il comitato centrale. Questa sua ambizione, che in sè non ha niente di riprovevole, chia risce il senso di un’altra lettera che egli scrisse in quel tempo a un gruppo di compagni bolscevichi di Mosca. « È il compagno Soso, il georgiano, che vi scrive. Vi ricorderete certamente : Tiflis, Baku, il 1904... Prima di tutto molti saluti a Olga, a te e a Ghermanov. I. M. Golibiev, con cui passo le mie giornate di proscritto, mi ha parlato molto di voi. Ghermanov mi ha conosciuto sotto il nome di K...b...a... (sono certo che capirà)... » Il tono è di chi o sa di essere uno scono sciuto o sa di contare così poco da poter essere rapidamente dimenti cato. Continua la lettera : « Terminerò in luglio. Ilic e gli altri vogliono che vada nell’uno o nell’altro centro senza aspettare la scadenza... Io preferirei arrivare fino in fondo perchè chi è in posizione regolare ha più libertà di agire. Ma se è proprio urgente (aspetto che mi rispon dano) non occorre dire che partirò prima... Qui si vive in un ozio soffocante. » Dal punto di vista della più elementare cautela questa lettera è stu pefacente. La corrispondenza di un deportato è sempre in forte rischio di passare per le mani della polizia, e per nessuna ragione egli manderà mai per la posta ordinaria ad altri membri del partito, che egli cono sce solo vagamente, delle informazioni sui suoi rapporti di cospiratore con Lenin : raccontando, come fa Koba, che lo esortano a evadere dal luogo di deportazione, e che se proprio vogliono è pronto a scap pare. Difatti questa lettera e l’altra al « compagno Simion » finirono in mano alla polizia, che non stentò a individuare il mittente e i desti natari. Come spiegare questo comportamento assurdo? Forse bisogna ricorrere all’idea della vanagloria di Koba; una vanagloria impaziente. Il « georgiano Soso » non sa resistere alla tentazione di inventare ad uso dei bolscevichi di Mosca che Lenin in persona lo ha incluso fra i militanti di primissima linea. Ma la vanità qui non può aver avuto che una parte secondaria. Leggiamo avanti nella lettera. « Naturalmente anche qui abbiamo sen tito parlare della ” tempesta in un bicchier d’acqua ” che sta furoreg giando all’estero : da una parte il blocco Lenin-Plechanov, dall’altra il blocco Trozki-Martov-Bogdanov. Per quel tanto che ne so, gli operai sono favorevoli al primo dei due blocchi. Però cominciano a giudicare
LA RIPRESA
147
con un certo spregio gli emigrati. " Che facciano l’ira d’iddio tra loro se questo li diverte ”, si sente dire in giro; ” noi intanto, che abbiamo a cuore l’interesse del movimento continuiamo a lavorare — e questo è l’essenziale.” E a me non pare che ragionino male! » Dunque la lotta di Lenin contro liquidatori e « conciliatori » è una tempesta in un bicchier d’acqua. La gente che lavora, come lui Koba, guarda con disprezzo gli emigrati bolscevichi, come Lenin. « Noi che abbiamo a cuore gli interessi del movimento... » : interessi che evi dentemente non collimano coi programmi elaborati all’estero dal comi tato centrale. Pare incredibile ma fra le due lettere, quella al « compagno Simion » e quella ai compagni moscoviti, ci seno appena ventiquattro giorni. Nella lettera destinata ad essere letta da Lenin o riferita a Lenin, Koba pensa che le coalizioni e gli antagonismi che si stanno delineando all’estero siano essenziali per le fortune dell’attività pratica in Russia, attività che non vale se non come « applicazione dei prin cipi » elaborati all’estero. Nella lettera ai compagni moscoviti, le lotte tra emigrati meritano solo di essere prese in burla. Nella prima lettera Lenin è un « contadino astuto » che sa « dove si nascondono i gam beri », nella seconda è un attaccabrighe maniaco. Gli operai cominciano a considerare lui e la gente come lui con un certo disprezzo, e « non giudicano male ». Un anno e mezzo più tardi, quando col favore della ripresa rivolu zionaria la lotta tra le varie correnti dell’« emigrazione » si era fatta ben più acuta, il sentimentale semi-bolscevico Massimo Gorki scrisse a Lenin rammaricandosi delle beghe che imperversavano tra gli esuli. Lenin gli rispose : « Queste ” beghe ” tra social-democratici, a scandaliz zarsene sono i borghesi, i liberali, i social-rivoluzionari, gente che non sa affrontare con serietà le questioni serie e preferisce tener dietro a chi gli conviene, lavorare di diplomazia, stare un po’ di qua un po’ di là... » In un’altra lettera insisteva : « Chiunque si renda conto che questi pretesi litigi hanno a che fare coi principi fondamentali, è tenuto a chiarire al popolo le questioni di principio che vi sono coin volte, e non lasciare che si culli nel pensiero che ” tanto sono beghe tra generali ”. » Gorki tornò alla carica : « Oggi in Russia ci sono fra gli operai moltissimi giovani pieni di spirito di lotta, e che ce l’hanno a morte con 1’ "emigrazione ”... » E Lenin di rimando : « Lo so. Ma non è colpa dei capi... Prendersela con loro, ingiuriarli, è facile ma non serve a nulla. » Confrontare tra loro le due lettere di Koba, che secondo lui non erano destinate a incontrarsi mai, è prezioso per le luci che se ne rica
148
STALIN
vano sulla sua personalità. Il suo modo di vedere più autentico è quello espresso nella seconda lettera : « Continuiamo a lavorare per il movi mento, il resto andrà a posto prima o dopo. » Era il modo di ragio nare di molti « conciliatori » tra i meno forniti di cervello. Se Koba si esprime in modo grossolano nei riguardi dei dirigenti in esilio, è in primo luogo perchè la grossolanità fa parte della sua natura, poi per chè con quella lettera egli mira ad attirarsi la simpatia di « pratici » come Ghermanov. Sapeva da Golubiev, recentemente deportato a Mo sca, qual era l’umore di questa gente. Il lavoro dei rivoluzionari rimasti in Russia andava male, l’organizzazione clandestina stava attraversando il suo momento peggiore, e gli attivisti del tipo « pratico » tendevano a sfogare la loro amarezza prendendosela con gli emigrati che stavano litigando per chissà quali stupide gelosie. Per capire bene il doppio gioco di Stalin giova tener presente che Ghermanov, il quale pochi mesi prima aveva proposto Stalin per il comitato centrale, era molto legato con gli altri « conciliatori » molto influenti. Egli desiderava che costoro sapessero di averlo solidale. D’altra parte non si lasciava sfuggire di mente il peso che aveva Lenin nel partito : quindi scrive a Parigi una dichiarazione d’amore per i sacri principi; scrive a Mosca una lettera di derisione contro Lenin. Nella prima lettera plagia alla meglio gli attacchi di Lenin ai « conciliatori », nella seconda quelli dei « conciliatori » contro Lenin. E questo, a di stanza troppo breve perchè vi sia stata un’evoluzione nei suoi punti di vista. Ma la lettera al « compagno Simion » contiene un accenno cauto al fatto che 1’ « emigrazione » non è poi tutto, e nemmeno è la cosa principale : la cosa principale è il lavoro che si fa in Russia. Anche nella lettera ai bolscevichi di Mosca c’è una frase prudenziale messa lì come per caso : gli operai, per quel che ne sa, sono piuttosto favo revoli al blocco Lenin-Plechanov. Stalin si prepara un alibi bifronte. La tecnica di Stalin come intrigante è sì primitiva, grossolana; ma ai suoi fini è più che bastante. Non è per caso che Koba indirizza la prima lettera ad altri che Lenin, benché sia scritta perchè Lenin la legga. Rivolgendosi a un terzo gli è più facile parlare di Lenin su un tono di ammirazione familiare e generica, senza andare più a fondo che non gli convenga. I veri moventi di Koba non sfuggivano a Lenin, lo si può giurare. Ma Lenin ragiona da vero uomo politico : c’è un rivolu zionario di professione, che ha già dato prova di volontà e di vigore nella lotta, ed ora vuole far carriera nel partito. Teniamone nota. D’altra parte Ghermanov avrebbe tenuto nota del fatto che in Koba i « conciliatori » avevano un alleato.
LA RIPRESA
149
Si noti questo : Koba aveva le qualità sufficienti per entrare nel comitato centrale. La sua ambizione era pienamente legittima. Ma egli non pone schiettamente la sua candidatura : lavora come può data la sua natura, cioè lavora di doppiezza e di scetticismo integrale. Si noti anche quest’altra cosa: nell’attività clandestina era regola elementare distruggere una lettera di un compagno di lavoro appena letta; e i contatti coi dirigenti all’estero erano rarissimi. Perciò Koba era ben sicuro che le due lettere non sarebbero mai state messe a con fronto da nessuno. Se i due documenti si sono salvati, e la sicurezza di Koba si è smentita, è merito della censura imperiale che fermò le due lettere, le quali finirono negli archivi della polizia. Qui dormirono per molti anni. Il 23 dicembre 1925 (quando il regime totalitario non era diventato il congegno automatico che è oggi) il giornale di Tiflis Zari Vostoka pubblicò la lettera di Koba ai compagni moscoviti, che qualcuno aveva scovata tra le carte della polizia. La povera redazione del giornale passò un bruttissimo quarto d’ora. E in seguito, nessuno ha più ripubblicato la lettera; non uno dei biografi ufficiali di Stalin che vi faccia cenno. Malgrado quel gran bisogno di militanti clandestini a cui accenna vano le sue lettere, Koba quella volta non scappò : scontò la pena della relegazione fino in fondo. Intanto i giornali davano notizia delle prime adunate studentesche, delle prime manifestazioni di piazza. Almeno diecimila persone avevano partecipato alla manifestazione sulla Prospet tiva Kevski. Gli operai facevano causa comune con gli studenti. « Non è forse l’inizio di un cambiamento? » chiedeva Lenin in un articolo alcune settimane prima che Stalin mandasse la lettera al « compagno Simion ». Nei primi mesi del 1911 la ripresa non era più sperabile: era una realtà clamorosamente evidente. Ma Koba, che ha tre evasioni al suo attivo, questa volta resta lì fino allo spirare del periodo di de portazione. Si direbbe che il risveglio rivoluzionario lascia questo rivo luzionario indifferente. Forse, ricordandosi del 1905, vedeva poco vo lentieri sopravvenire questa nuova ondata. Tutti i biografi di Stalin ci raccontano che egli evase dalla provin cia di Vologda dov’era relegato. Ma non è vero. La sua deportazione spirava nel luglio 1911. La direzione della polizia di Mosca registra che Jcfcif Zhugashvili « ha compiuto il suo periodo di deportazione am ministrativa nel comune di Solvycegodsk ». Nella conferenza dei membri bolscevichi del comitato centrale che si era tenuta recentemente all’e stero, si era nominata una commissione speciale per preparare la con ferenza del partito; ne facevano parte, a quanto sembra, Koba e altri quattro. Quando ha finito il periodo di deportazione Koba va a Baku e
150
STALIN
a Tiflis per smuovere i bolscevichi locali e convincerli ad andare alla conferenza. In quel momento nel Caucaso non c’erano più organi del partito ben definiti. Era tutto da rifare, o quasi. I bolscevichi di Tiflis approvarono un appello scritto da Koba, sulla necessità dell’azione rivo luzionaria organizzata. « Oggi, » diceva, « gli operai oltre all’opera degli agenti provocatori e di altre canaglie e a tante altre difficoltà, devono superare un ostacolo che sorge nelle loro stesse file: la menta lità borghese di molta gente. » Alludeva ai « liquidatori ». Il suo ap pello terminava con un passo immaginoso del tipo ahimè caro all’au tore : « Le cupe nubi sanguinose della nera reazione, che pesano sulla Russia, cominciano a dissiparsi per far posto alle nubi temporalesche dello sdegno e dell’ira popolare. Lo sfondo nero della nostra esistenza è solcato dai lampi; e mentre in lontananza sorge l’aurora, ecco avvi cinarsi la tempesta... » Koba aveva lasciato legalmente la provincia di Vologda per tor nare nel Caucaso. £ dubbio se lasciò legalmente il Caucaso per andare a Pietroburgo : di solito a chi aveva scontato un periodo di relegazione si proibiva per un certo tempo di abitare nelle maggiori città della Russia. Con o senza permesso, finalmente Koba partì per la capitale. Il partito usciva appena dal lungo torpore. Gran parte dei suoi uomini più capaci era ancora in carcere o in esilio. In un momento così ser viva anche Koba. Ma il suo soggiorno nella capitale fu breve. Tra la fine della deportazione e il successivo arresto di Koba passarono sì e no due mesi, da cui bisogna togliere tre o quattro settimane di viaggio. Non sappiamo nulla di come Koba si veniva adattando al nuovo am biente, e se vi si veniva adattando. Unico documento che riguardi questo periodo è un brevissimo rapporto sulla situazione, mandato da Koba all’ « emigrazione » dopo aver partecipato al convegno segreto di quarantasei social-democratici nel distretto di Vyborg. Ecco come vi è riassunto un discorso tenuto da un menscevico in vista : « Non occorre nessuna organizzazione che abbia carattere di partito, basta che vi siano dei ” gruppi di propaganda ” attivi, che tengano delle conferenze o simili riunioni perfettamente legali in apparenza, per discutere di pro blemi assicurativi o del bilancio municipale o cose del genere... » Se condo il rapporto di Koba, la proposta dei « liquidatori » menscevichi di adattarsi a una pseudo-legalità costituzionale si era urtata con l’op posizione unanime degli operai, compresi quelli della frazione mensce vica. E alla fine della riunione tutti, escluso l’oratore, avevano votato per l’organizzazione clandestina. Nel pubblicare questa relazione che veniva da Pietroburgo, o Lenin o Zinoviev vi aggiunse la seguente nota redazionale : « La corrispon
LA RIPRESA
151
denza del compagno Koba merita di essere letta con attenzione da quanti hanno a cuore le sorti del partito... È difficile immaginare una migliore risposta alle opinioni e alle speranze dei " conciliatori Forse l’episodio descritto dal compagno Koba è eccezionale? No, esso è ti pico... » E in fondo alla nota si ribadiva : « Di rado il partito riceve delle informazioni così precise; e noi dobbiamo perciò ringraziare il compagno Koba... » Questa nota di commento è stata naturalmente sfruttata dalla En ciclopedia Sovietica, che commenta : « Le lettere e gli articoli di Stalin sono altamente simbolici dell’unità ferrea, nella lotta e nel pensiero po litico, tra Lenin e l’uomo di genio che era suo compagno d’armi. » Per arrivare a questo diapason la nota dell’Enciclopedia dovette pas sare per una serie di edizioni ; e dovettero venire « liquidati » un certo numero di collaboratori dell’Enciclopedia. Alliluiev racconta che un giorno, al principio di settembre, rincasando si accorse di alcuni poliziotti che ronzavano intorno a casa sua, e nel l’appartamento trovò Stalin e un altro bolscevico georgiano. Quando Alliluiev gli accennò agli agenti che erano in strada, Stalin ribattè con sgarbo: « Che diavolo? I compagni stanno diventando dei piccoli bor ghesi pieni di paura! » Secondo lui i poliziotti erano frutto della fan tasia di Alliluiev, ma presto si rivelarono per esseri reali : il nove set tembre Koba fu arrestato, e il 22 dicembre era di nuovo in un luogo di relegazione; questa volta però fu spedito a Vologda e non in un borgo del distretto : era una condizione più benevola. Probabilmente la nuova deportazione era il castigo per il suo trasferimento illegale a Pietro burgo. Il centro bolscevico all’estero continuava a mandare degli emissari in Russia per preparare la conferenza della frazione ormai imminente. La rete dei contatti interni si stava ricostituendo faticosamente. Infu riava ancora l’azione degli agenti provocatori, gli arresti erano continui. Tuttavia il favore che l’idea della conferenza incontrò presso gli ope rai più progrediti, a dire di Olminski, dimostrava che essi avevano tollerato i « liquidatori » senza in realtà accettare le loro vedute. Mal grado le difficoltà di ogni genere, gli emissari poterono prendere con tatto con molti gruppi clandestini locali. « Spirava finalmente un po’ di aria ffesca, » scrive Olminski. La conferenza si inaugurò a Praga il 5 gennaio 1912. Vi parteci pavano quindici delegati, mandati da una ventina di organizzazioni clandestine, quasi tutte molto sparute. I rapporti dei delegati diedero ben presto un quadro esauriente della situazione. I pochi gruppi locali erano formati quasi esclusivamente da bolscevichi; abbondavano do
152
STALIN
vunque gli agenti provocatori, e appena un gruppo alzava la testa ve niva abbattuto da una delazione. Il quadro era particolarmente dram matico nel Caucaso. « A Ciaturi (il solo centro industriale della Geor gia), » dichiarò Orzhonikize, « non c’è più ombra di organizzazione. A Batum neanche. A Tiflis è la stessa cosa. Negli ultimi anni non si è messo in circolazione un manifesto, non c’è stata attività clandestina di nessun genere... » Ma con tutto ciò, alla conferenza spirava un vento di deciso ottimismo. La massa operaia si stava riscuotendo, il partito aveva il vento nelle vele. Le decisioni raggiunte a Praga segnarono per un lungo periodo l’indirizzo del partito. In primo luogo fu deciso di « creare dei gruppi social-democratici formati da lavoratori di ogni ramo e che formino una rete ” legale ” quanto più estesa è possibile ». La carestia, che aveva ri dotto alla fame venti milioni di contadini, provava ulteriormente « l’im possibilità di assicurare alla Russia un normale sviluppo borghese... fintanto che il potere resterà nelle mani di una classe di grossi pro prietari dalla mentalità feudale... Compito della rivoluzione democratica è e rimane quello di portare al potere il proletariato con la classe con tadina al suo seguito ». Altra decisione importante raggiunta nella con ferenza fu di dichiarare estranea al partito la frazione dei « liquidatori ». Tutti i veri socialdemocratici senza distinzione di tendenze erano invitati a lottare contro la corrente della « liquidazione » e per la ricostruzione del partito sulle linee della « clandestinità ». Così era completa la rottura con la frazione menscevica. Nasceva il partito bolscevico, con un suo comitato centrale. La Storia del Partito pubblicata nel 1938 sotto la direzione di Stalin ci informa che « a formare il comitato centrale bolscevico en trarono Lenin, Stalin, Orzhonikize, Sverdlov, Goloshcekin c altri. Stalin e Sverdlov furono nominati in loro assenza perchè erano ambedue deportati ». Però in una raccolta ufficiale di documenti del partito pubblicata nel 1926 si legge: «La conferenza creò un nuovo comitato centrale di cui furono chiamati a far parte Lcin, Zinoviev, Orzhonikize, Spandarian, Viktor Ordynski, Malinovski e Goloshcekin ». La Storia del Partito dunque lascia fuori Zinoviev e l’agente provocatore Malinov ski; e inserisce il compagno Stalin che nella vecchia lista non c’era. Venire a capo di questo mistero può servire sia a illuminarci sulla vera posizione di Koba, sia a darci un’idea più precisa di quella che è la storiografia moscovita. In realtà Stalin non entrò affatto a far parte del comitato centrale bolscevico quando fu costituito a Praga; vi entrò più tardi, mediante la cosiddetta « coopzione ». Ce lo apprende la stessa
LA RIPRESA
153
fonte del 1926 appena citata: « In seguito vi entrarono per coopzione i compagni Koba (Zhugashvili) e Vladimir (Belostoiski). » Belostoiski era un operaio delle officine Putilov. La stessa notizia ci è fornita dagli archivi della polizia di Mosca; e dai manuali sovietici che la ripeterono fino al 1929 quando venne un ordine di Stalin che modificò la storia. La questione se Koba entrò prima o dopo nel comitato centrale bolscevico non è futile come si può credere. Stalin desiderava quella nomina. I candidati disponibili erano così pochi che entrarono nel comitato centrale figure assolutamente insignificanti. Pure Stalin non vi entrò. Perche? Perchè Lenin non era un dittatore, e del resto il par tito non avrebbe tollerato dei suoi tratti dittatoriali. Dopo aver sondato gli altri o alcuni degli altri delegati, Lenin dovette capire che non con veniva mettere avanti subito la candidatura di Koba. Si riservò di farlo entrare poi nel comitato per quell’altra via. Dmitrievski scrive : «Quando nel 1912 Lenin fece entrare Stalin nel comitato centrale, la cosa sollevò una viva indignazione. Nessuno protestò ufficialmente, ma in privato vi furono molte rimostranze. » In generale le notizie date dall’ex-diplomatico Dmitrievski non meritano molta fede; presentano solo un certo interesse in quanto riflettono le voci e gli umori che prevalevano nella burocrazia di un certo periodo. Ma è un fatto che Lenin con quell’atto suscitò dei malumori. Comunque, per una parte secondaria e male accolto, Stalin a un certo momento entrò nel comitato centrale del partito bolscevico. Non è finita. « Il comitato centrale... su proposta di Lenin formò a sua volta un ufficio incaricato di dirigere l’attività del partito in Russia, con a capo il compagno Stalin, e formato oltre a lui da Sverdlov, Spandarian, Orzhonikize e Kalinin, » così racconta Beria, che mentre scriviamo questo capitolo è stato nominato capo della polizia segreta di Stalin : giusta ricompensa dei suoi meriti di storico. Sarebbe fatica sprecata cercare delle prove ad appoggio di questa recente versione. Del resto, nessuno fu mai posto « a capo » di un’istituzione del partito : non era nelle regole. Dice un vecchio manuale ufficiale che il comitato centrale (all’estero) formò per la Russia « un ufficio costituito da Orzhonikize, Spandarian, Stalin e Goloshcekin ». È la lista che danno anche le note all "Opera omnia di Lenin. Nei documenti della polizia di Mosca sono nominati solo i primi tre, coi loro nomi di battaglia: Timofei, Sergo e Koba. Stalin qui e lì è messo al terzo posto : una riprova, se ce ne fosse bisogno, che non era « a capo » di niente. Quanto a Goloshcekin, dimenticato dalla polizia nel 1912, più tardi fu eliminato a titolo retroattivo dalla storiografia bolscevica; e al suo posto misero Kalinin.
154
STALIN
Il 24 febbraio Orzhonikize informò Lenin di aver visitato Ivanovic (Stalin) a Vologda e aver preso accordi definitivi con lui. Ivanovic, aggiungerà, « è contento di come la faccenda si è sistemata ». Non si trattava del problema politico risolto a Praga ma del suo caso per sonale. Il 28 febbraio Stalin, finalmente entrato nel comitato centrale, fuggì dal luogo di esilio. Dopo una breve sosta a Baku andò a Pietro burgo. Aveva compiuto trentadue anni due mesi prima. Il passaggio di Koba dall’arena politica provinciale a quella nazio nale coincise con la ripresa del movimento proletario e con un nuovo fiorire della stampa rivoluzionaria. Il governo non aveva più la sicu rezza di prima. Fra l’altro la censura fu allentata. Le possibilità della propaganda politica « legale » quindi aumentarono. Il partito bolsce vico dapprima pubblicò un giornale settimanale, poi anche un quoti diano. Di colpo la possibilità di agire sulla classe operaia aumentò. Il partito come partito era ancora clandestino, ma le redazioni dei suoi giornali in pratica erano anche le sedi del partito; sicché per un certo periodo l’idea della stampa del partito e quella del partito stesso coincisero nella mente del pubblico, e i bolscevichi vennero chiamati « pravdisti ». La Pravda ebbe due anni e mezzo di vita (doveva risor gere più tardi), passò sotto una varietà di nomi perchè il governo la soppresse otto volte e otto volte riapparve mutando la testata. Su alcune delle questioni più scottanti la Pravda poteva spesso pronunciarsi solo con accenni e perifrasi; a chiamar pane il pane ci pensavano i pro pagandisti, a voce e coi manifesti stampati alla macchia; e del resto i lettori impararono presto a leggere tra le righe. La tiratura della Pravda di Pietroburgo, 40.000 copie, ora può parere minuscola; ma passando di mano in mano, e grazie all’orecchio ipersensibile del po polo russo sotto l’oppressione zarista, il giornale parlava a centinaia di migliaia di lavoratori. Perciò la giovane generazione bolscevica si raccolse intorno alla Pravda sotto la guida dei superstiti della reazione. Il 15 marzo Lenin, ancora all’oscuro della fuga di Stalin da Vologda, chiedeva in una lettera: «Niente da Ivanovic? Cosa fa, dov’è? » Il partito .mancava di uomini. Nella stessa lettera Lenin diceva che a Pietroburgo era urgente disporre di un collaboratore « legale » (cioè non evaso nè comunque ricercato) « perchè le cose prendono una brutta piega : è una guerra dura e rabbiosa... Non abbiamo infor matori, e non abbiamo un controllo sufficiente sul giornale ». La guer ra a cui alludeva Lenin era quella con la redazione della Zviezda restia ad attaccare i « liquidatori ». « Cosa si aspetta ad attaccare Zhivoie Dielo (un giornale dei ” liquidatori ”) ? Lo batteremo di
LA RIPRESA
155
sicuro; e se non lo attaccheremo ora, andrà male. Non dovete aver paura delle polemiche... ». Citiamo da una lettera, ma lo stesso motivo ritorna in tutte le lettere di Lenin in questo periodo. « Cosa fa Ivanovic? » ci possiamo porre anche noi la domanda di Lenin. Non è facile accertare cosa facesse Stalin in quel periodo. I suoi obblighi di membro del comitato centrale a Pietroburgo com prendevano di sicuro anche una certa attività connessa con la stampa legale e illegale. Ma questo fatto passò sotto silenzio finché non vennero impartite opportune istruzioni agli « storici » staliniani. Ve diamo. La Zviezda venne fondata nel 1910 quando cominciarono ad affiorare i primi segni di ripresa. Dice un documento ufficiale : « Lenin, Zinoviev e Kamenev, che erano all’estero, lavorarono insieme con pas sione a instradare e dirigere questo giornale. » Nelle note critiche alla Opera omnia di Lenin sono nominati undici collaboratori particolar mente attivi in Russia; e Stalin non è degli undici. Però è certo che egli collaborava alla Zviezda; e la sua posizione nel partito lo rendeva influente anche nella redazione del giornale. La stessa amnesia che colpì i curatori dell "Opera omnia di Lenin, colpì i memorialisti e gli autori dei manuali scolastici per molti anni. E la Pravda? Nel numero speciale che la Pravda consacrò nel 1927 al suo quindicesimo anniver sario, non c’è un articolo che faccia il nome di Stalin. Sola eccezione — in un certo senso — sono le preziose Memorie di Olminski. Questi, che collaborò in quegli anni sia alla Zviezda sia alla Pravda, descrive così la parte avuta da Stalin nella vita dei due gior nali : « Stalin e Sverdlov comparvero a Pietroburgo alcune volte dopo la fuga dal luogo di deportazione. Furono comparse brevi, e presto i due vennero nuovamente arrestati, ma fu quanto bastava per riani mare notevolmente sia il giornale sia il partito... » Questo accenno, che è in una nota a piè di pagina, è probabilmente veridico. Stalin comparve brevemente alcune volte, e ogni volta diede una specie di sferzata all’organizzazione, alla sua stampa, ai suoi rappresentanti nella Duma. Erano comparse episodiche, la sua influenza era strettamente deter minata dalle sue posizioni nell’apparato; così, non ebbe effetti durevoli c non restò incisa nelle memorie. La gente che scrive i suoi ricordi senza essere costretta a ricordare quello che vuole l’autorità, non bada a rammentarsi della posizione gerarchica occupata da questo o quel burocrate; ritrova le persone che erano vive, le azioni che erano azioni, i fatti chiari, le formule che quadrano, le espressioni originali; e Stalin non lasciava nella memoria del prossimo niente di simile. Perciò è na turale che i memorialisti ricordino tutto di Lenin e niente di Stalin : bastava l’originale, la cattiva copia era in sovrappiù.
156
STALIN
Non che Stalin seguisse Lenin al cento per cento. Gli obblighi che aveva contratti facendosi sostenere dai « conciliatori » lo costringevano a continuare in quel doppio gioco che conosciamo fin dalla lettera di Solvycegodsk, con Lenin contro i « liquidatori », coi « conciliatori » contro Lenin. Delle due parti nel gioco, sosteneva la prima aperta mente e l’altra in modo coperto. Nemmeno in seguito emerse la cam pagna che egli aveva condotta contro il centro del partito all’estero, per la semplice ragione che gli autori delle memorie uscite dopo la rivoluzione erano stati tutti, attivamente o no, nel complotto contro Lenin, e quindi avevano tutto l’interesse a non toccar l’argomento. Tra l’aprile 1912 e il febbraio 1913 Stalin, secondo il computo fatto da uno dei suoi prossimi collaboratori, pubblicò non meno di una ventina di articoli : cioè un paio al mese. E questo nel momento di punta di un periodo animatissimo, pieno di problemi, e le cui vicende furono essenziali per il futuro del bolscevismo. È vero che di quei dieci mesi Stalin ne passò circa sei in esilio. Ma era molto più facile man dare articoli alla Frauda o alla Suiezda da Solvycegodsk o da Vologda che da Cracovia, di dove Lenin e Zinoviev mandavano quotidiana mente i loro articoli e le loro corrispondenze. Uomo lento, estremamente diffidente, di una pigrizia orientale, Stalin ha sempre avuto la penna improduttiva. Ora il suo stile si era sveltito in confronto con quello dei tempi della prima rivoluzione, ma era sempre bollato del marchio della mediocrità. Egli scriveva nella Zviezda del 15 aprile 1912: «Dopo le manife stazioni degli operai per le loro rivendicazioni economiche sono venute le loro manifestazioni politiche. Dopo gli scioperi per l’aumento dei salari sono venute le proteste, le adunate, gli scioperi politici per l’ec cidio della Lena... È indubbio che le forze sotterranee del movimento di liberazione si sono messe all’opera. Vi salutiamo, prime rondini! » Le « forze sotterranee » che diventano « prime rondini » sono tipiche dello stile di Koba, quanto le « cupe nubi sanguinose della nera rea zione », e lo « sfondo nero, solcato da lampi... mentre sorge l’aurora e si avvicina la tempesta ». Però, se vogliamo, il contenuto dell’articolo è chiaro. Traendo le conclusioni dall’episodio della Lena, Stalin esa mina — come sempre schematicamente e in modo scolorito — la con dotta del governo e dei partiti, irride alle « lacrime di coccodrillo che i borghesi versano sugli operai trucidati ». Certo un lettore deve sapersi distogliere dall’assaporare le immagini distraendosi dal tema : è troppo bello leggere di « forze oscure che cercavano di nascondersi dietro schermi di lacrime di coccodrillo ma ora cominciano a riapparire » ; ma insomma l’articolo quello che vuol dire lo dice. Senonchè si tratta,
LA RIPRESA
157
immancabilmente, di idee di un’ottusità e come di una meccanicità che, una volta penetrata la scorza del bello stile staliniano, ci dà voglia di tornare indietro. In un proclama clandestino di quel tempo, egli scri veva : « Proprio oggi, il 1° maggio, quando la natura esce dal sonno in vernale e i boschi e le montagne si coprono d’erba e i campi e i prati si ornano di fiori, e il sole comincia a scaldare di più, e nell’aria si sente la gioia della rinascita, c la natura danza ed esulta: proprio oggi il proletariato ha deciso di proclamare al mondo che esso (il proletariato) porta all’umanità la primavera e la liberazione dai ceppi capitalistici... L’oceano del movimento operaio si espande sempre di più... il mare del furore proletario si alza in ondate sempre più alte... Certi della vitto ria, calmi, forti gli operai marciano fieri sulla via della Terra Promessa, sulla via del fulgido Socialismo » Ma la sostanza era vera. Le ondate degli scioperi si gonfiavano, i contatti del partito coi lavoratori si moltiplicavano, un giornale set timanale non bastava più ai bisogni del movimento e fu allora che la Zviezda cominciò a raccogliere fondi per finanziare un giornale quo tidiano. « Sulla fine dell’inverno 1912, » scrive l’ex-deputato Poletaiev, « Stalin fuggito dalla deportazione giunse a Pietroburgo. Il lavoro per fondare il quotidiano si fece subito più intenso. » E Stalin stesso scrive nel 1922, in un articolo commemorativo del decennale della Pravda: « Fu sulla metà di aprile del 1912 che una sera nell’abitazione di Pole taiev due deputati della Duma (Pokrovski e Poletaiev), due giornalisti (Olminski e Baturin) e io che ero membro del comitato centrale, de cidemmo le basi di principio della Pravda e ci mettemmo al lavoro per il primo numero. » È dunque Stalin stesso a dichiararsi corresponsabile per le basi di principio su cui sorse la Pravda. L’essenza di questi principi basilari si può poi riassumere così : « Lavoriamo e il resto si farà da se. » Stalin fu arrestato il 22 aprile, il giorno in cui uscì il primo numero della Pravda. Ma per quasi tre mesi il giornale si mantenne sulle linee con cordate da lui. La parola « liquidatore » ne era rigorosamente bandita. « Lottare senza pietà contro il ” liquidazionismo ” era indispen sabile, » scrive la Krupskaia, « e per questo Vladimir Ilic si tormentava vedendo la Pravda, fin da principio, evitare accuratamente la polemica coi ” liquidatori ”. Scriveva alla redazione delle lettere furibonde... » Solo una minima parte di queste lettere poterono poi venire in luce. Quanto agli articoli di Lenin : « Taluni sparivano senza lasciar traccia, altri non uscivano che con grande ritardo. Ilic si infuriava, scriveva lettere di fuoco, ma era tempo perso. »
158
STALIN
Era, del resto, la continuazione della battaglia tra Lenin e la Zviezda. « È dannoso, disastroso, grottesco nascondere ai lavoratori le nostre differenze di opinioni,» scriveva Lenin 1’11 luglio. Pochi giorni dopo chiese al segretario di redazione, il futuro vice-presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo e commissario agli Esteri Viaceslav Molo tov, di spiegargli perche il giornale « bandisce sistematicamente dai miei articoli e da quelli di altri collaboratori ogni menzione dei " liquida tori " ». Intanto si avvicinavano le elezioni per la quarta Duma. Lenin ammonì : « Le elezioni nei collegi operai di Pietroburgo saranno ac compagnate certamente da una battaglia a oltranza coi " liquidatori ". Essa sarà il perno della campagna elettorale fra gli operai più evoluti; e il giornale dei lavoratori starà zitto, continuerà persino a tacere il nome dei ” liquidatori ” ? Questo è puro suicidio.» A Cracovia, Lenin capiva perfettamente la manovra tacita ma risoluta dei pezzi grossi « conciliatori » del partito. Ed era convinto di aver ragione : il rapido rianimarsi del movimento operaio doveva portare alla ribalta i problemi radicali della rivoluzione, e sgombrare il campo dai « liquidatori » e anche dai « conciliatori ». La grandezza di Lenin non stava nella sua capacità di costruire un organismo poli tico (e certo lo sapeva costruire!) ma nella sua capacità, in ogni mo mento critico, di impiegare l’energia viva delle masse per sorpassare le limitazioni e rompere le cristallizzazioni che sopravvengono fatalmente in un « apparato » politico. Lo dimostrò una volta di più in questo frangente. Sotto la pressione crescente della massa operaia, e sotto le frustate che giungevano da Cracovia, poco a poco, non senza qualche tentativo di ribellarsi, la Pravda abbandonò la sua posizione di neutra lità temporeggiatrice. Stalin passò poco più di due mesi in prigione a Pietroburgo poi il 2 luglio partì per il nuovo luogo di relegazione : di là degli Urali, nel nord della provincia di Tomsk, nel distretto di Narym celebre per le sue foreste, i suoi laghi e le sue paludi. Questa volta era deportato per quattro anni. Vereshciak, personaggio che conosciamo già, lo incontrò nel villaggio di Kolpasciovo dove Stalin fece qualche giorno di tappa forzata. Vi si trovavano anche Sverdlov, I. Smirnov e Lascevic : tre bolscevichi della vecchia guardia (Smirnov sarebbe stato fatto fuci lare da Stalin, Lascevic doveva morire nell’esilio ordinato da Stalin; solo la morte prematura ha salvato Sverdlov dal destino dell’uno o del l’altro dei suoi compagni). Scrive Vereshciak : « L’arrivo di Stalin nel distretto di Narym rianimò l’attività dei bolscevichi, e fu seguito da parecchie fughe. » A un certo momento fuggì anche Stalin : « Se ne andò quasi scopertamente, col primo piroscafo della primavera. » In
LA RIPRESA
159
realtà Stalin fuggì solo sulla fine dell’estate. Era la sua quarta evasione. Tornato a Pietroburgo il 12 settembre, trovò la situazione molto mutata. Scoppiavano scioperi tumultuosi. Gli operai scendevano nella strada gridando degli « slogans » rivoluzionari. La politica dei mensce vichi era chiaramente in forte discredito; e in proporzione col loro ri basso, cresceva l’influenza della Pravda. Le elezioni per la Duma si av vicinavano; la campagna elettorale bolscevica era stata precisamente im postata da Cracovia. I temi erano già decisi : si combatteva non solo separatamente ma contro i « liquidatori ». Le tre principali formule su cui ci si batteva erano : la repubblica, le otto ore lavorative, la con fisca delle grandi proprietà terriere. Svincolare i piccoli borghesi dal liberalismo e attirare i contadini a fianco degli operai erano le due di rettive della piattaforma elettorale di Lenin. Lenin, capace come nes suno di affiancare all’audace slancio del pensiero la cura minuziosa dei particolari, era veramente l’unico marxista che aveva studiato e capito a fondo i congegni e le insidie della legge elettorale di Stolypin. Aveva impostato politicamente la campagna elettorale del partito ed ora la guidava giorno per giorno con perizia di tecnico. Per aiutare Pietro burgo, da Cracovia mandava continuamente articoli, istruzioni, emissari minuziosamente preparati. Safarov, uno degli « scomparsi » di questi anni, nella primavera del 1912 viaggiando dalla Svizzera a Pietroburgo fece sosta a Craco via; vi giunse un paio di giorni prima che Inesa, una militante molto in vista del partito, politicamente molto legata a Lenin, partisse per collaborare alla campagna elettorale a Pietroburgo. « Per due gior ni... » racconta, « Lenin ci imbottì di istruzioni. » Le elezioni nel col legio operaio di Pietroburgo dovevano svolgersi il 16 settembre. Inesa e Safarov vennero arrestati il 14. « La polizia non sapeva ancora, » scrive la Krupskaia, « che Stalin fuggito dall’esilio era arrivato il 12. » Ag giunse : « Le elezioni nel collegio operaio furono un grande successo. » Non dice che fu un grande successo per merito di Stalin, semplicemente scrive le due frasi una di seguito all’altra: una delle tante misure di difesa passiva a cui la Krupskaia ricorre per scrivere in pace. Nell’ultima edizione delle memorie déll’ex-deputato Badaiev leggiamo : « Stalin che era appena evaso da Narym prese parte ad alcuni comizi convo cati all’,ultimo momento nelle officine » ; ma nell’edizione precedente questo particolare non c’era, Badaiev non se ne era ancora « ricordato ». Secondo Alliluiev « Stalin assunse immediatamente la direzione dell’e norme campagna elettorale per la quarta Duma... Viveva alla macchia a Pietroburgo, dove cambiava rifugio di continuo. Non volendo distur bare i suoi compagni a tarda notte, quando per ragioni di sicurezza
160
STALIN
aveva tenuto un comizio di notte invece di rincasare andava ad aspet tare il giorno in una taverna dove si faceva servire del tè » ; e alle volte riusciva a dormire un poco, « seduto, in un’atmosfera appestata dal fumo della mahorka1 ». Ma notiamo che Alliluiev scrisse le sue Me morie nel 1937. La verità è che Stalin non potè fare pressoché nulla per la campagna elettorale : nè impostarla nè contribuire in modo sensibile alla sua impostazione. Questo, anche a parte la sua povertà di risorse oratorie : capitò a Pietroburgo quattro giorni prima delle elezioni. Qualcosa potè fare per il seguito delle elezioni, che si svol sero per gradi secondo un complicatissimo sistema. Potè rendersi utile tenendo riuniti i delegati e guidandoli da dietro le quinte mediante i congegni dell’apparato clandestino. In questo genere di manovre Stalin era nella sua acqua. Un documento importante di quella cam pagna elettorale fu l’opuscolo delle Istruzioni degli operai di Pie troburgo ai loro deputati, Badaiev nella prima edizione delle Memorie diceva che a redigerle era stato il comitato centrale (all’estero) ; nella se conda le attribuisce a Stalin. Con molta probabilità furono il prodotto di una fatica collettiva, in cui non è impossibile che Stalin come rappre sentante in loco del comitato centrale abbia avuto l’ultima parola. « Riteniamo, » si legge nelle Istruzioni, « che in Russia siano all’oriz zonte dei movimenti di massa più profondi di quelli del 1905. A ini ziarli sarà come nel 1905 la classe più progredita della società russa, il proletariato; il quale non può avere altro alleato che la massa conta dina... » Lenin scrisse alla redazione della Pravda che pubblicassero le Istruzioni in buona evidenza. Il congresso dei delegati provinciali le adottò a schiacciante maggioranza. In quei giorni roventi anche Stalin diventò attivo, persino come giornalista : in una settimana la Pravda pubblicò quattro suoi articoli.
I risultati delle elezioni a Pietroburgo e più o meno in tutti i centri industriali furono favorevoli. In sei province industriali fra le più im portanti, che comprendevano circa i quattro quinti della classe operaia russa, vennero eletti i candidati bolscevichi. Furono eletti anche sette « liquidatori », soprattutto dai voti deha piccola borghesia cittadina. In una corrispondenza all’organo centrale del partito pubblicato all’e stero Stalin scriveva: «Diversamente dalle elezioni del 1907, queste del 1912 sono venute a coincidere con una ripresa rivoluzionaria tra i lavoratori russi. » Gli operai, che erano sempre stati ben lontani dalla tendenza « boicottata », lottarono accanitamente per il loro diritto al 1 Tabacco da fumo ottenuto dalla radice della pianta.
LA RIPRESA
161
suffragio; quando una commissione governativa tentò di invalidare le votazioni avvenute nelle principali officine di Pietroburgo, i lavoratori reagirono con uno sciopero unanime che ottenne lo scopo. « Conviene notare, » diceva a tale proposito l’autore della corrispondenza, « che l’iniziativa degli scioperi fu presa dal comitato centrale » : cioè dal rap presentante in loco del comitato centrale, cioè da Stalin stesso. Dopo questa vanteria, concludeva : « Le lezioni di questa campagna elet torale sono due: che la social-democrazia rivoluzionaria è viva e forte, e che i ” liquidatori ” hanno fatto fallimento. » E questo era vero. I sette deputati menscevichi, quasi tutti « intellettuali », cerca rono di mettere sotto controllo i sei bolscevichi che erano poveri di esperienza politica. Verso la fine di novembre Lenin scrisse a Vasiliev alias Stalin : « Se i nostri sei vengono tutti dalle coscrizioni operaie, non c’è ragione perchè si sottomettano a quel gruppetto di siberiani. » (Chiamava « siberiani » gli intellettuali che per lo più erano degli ex-deportati politici reduci dalla Siberia.) Proseguiva : « Che protestino con vigore se quegli altri approfittando dei voti che hanno in più ten tano di spadroneggiare. » Stalin avrà pure risposto, ma la sua risposta non è mai stata pubblicata. L’appello di Lenin non ebbe buona acco glienza. I sei bolscevichi mettevano la solidarietà coi sette menscevichi, come tali « estromessi dal partito », innanzi alla loro indipendenza politica. Anzi in una risoluzione speciale che fu pubblicata dalla Frauda il gruppo riunito dichiarò che « l’unità social-democratica era una ne cessità assoluta » e si pronunciò addirittura per la fusione della Frauda con Lue’, il giornale dei « liquidatori ». Raccomandava intanto ai suoi membri, come primo passo, di collaborare a tutt’e due i giornali. Il 18 dicembre il menscevico Lue’ inserì trionfalmente i nomi di quattro de putati bolscevichi (di cui due in realtà non avevano consentito) nella lista dei suoi collaboratori; e dei nomi di membri della frazione men scevica apparvero contemporaneamente nelle colonne della Frauda. Tornava a trionfare il « conciliazionismo » cioè cadeva l’edificio co struito alla conferenza di Praga. Di lì a poco nella lista dei collaboratori di Lue’ apparve un nuovo nome, quello di Gorki. La cosa odorava di complotto. Lenin scrisse a Gorki: « Come ha potuto decidere una cosa simile? È possibile che pro prio lei $egua i deputati e, come loro, cada in un tranello? » Ora, quando vi fu questo effimero trionfo dei « conciliatori » Stalin era a Pietroburgo e controllava per conto del comitato centrale il movimento e la Frauda; ma non disse mezza parola di protesta contro delle deci sioni che erano una pugnalata alla politica di Lenin. Più tardi il de putato Badaiev per giustificare il peccato in cui era caduto scrisse : « Co
162
STALIN
me in ogni altra circostanza, la nostra decisione fu presa in pieno ac cordo con quella cerchia direttiva del partito con cui eravamo in con tatto costante. » Che è un giro di parole per dire che erano d’accordo con l’ufficio di Pietroburgo del comitato centrale, cioè con Stalin. Badaiev chiedeva insomma che la responsabilità dei capi non venisse get tata sui gregari. Qualche anno fa vi fu un accenno sulla stampa sovietica al fatto che si conosceva ancora poco sulla lotta tra Lenin e la redazione del la Pravda. Ma proprio in questi anni si è presa ogni misura perchè questo capitolo della storia della rivoluzione rimanesse nel mistero. Si è impedita la pubblicazione integrale della corrispondenza di Lenin. Lo storico non ha a disposizione che quei pochi documenti i quali per una ragione o per un’altra uscirono dagli archivi prima che questi cadessero sotto il controllo totalitario. Ma anche da questo poco materiale fram mentario esce un quadro chiaro dei fatti. L’intransigenza di Lenin era un prodotto della sua perspicacia realistica. Egli insisteva perchè si an dasse fino in fondo alla separazione decisa a Praga e che in ultima ana lisi costituì in seguito la linea sulla quale venne combattuta la guerra civile. Stalin nella sua mente empirica non poteva vedere lontano. Nella campagna elettorale si era battuto contro i « liquidatori » perchè voleva avere i suoi deputati : ciò significava prepararsi un solido punto di appoggio. Ottenuto questo, non vedeva l’utilità di sollevare una nuova « tempesta in un bicchier d’acqua » ; tanto più che ora i menscevichi, per seguire l’ondata popolare, si mostravano disposti a parlare un lin guaggio diverso. Perchè scalmanarsi? Invece nella mente di Lenin tutta la politica consisteva nell’educazione rivoluzionaria della massa. La lotta contro i menscevichi durante la campagna elettorale per lui non aveva senso se dopo le elezioni i deputati delle due correnti facevano blocco. Secondo lui era capitale mostrare chiaramente ai lavoratori, ad ogni passo e ad ogni proposito, che i bolscevichi avevano la loro visione ben distinta su tutti i problemi fondamentali. L’essenza del conflitto tra Cracovia e Pietroburgo era qui. Le incertezze dei deputati bolscevichi alla Duma erano strettamente connesse con la politica della Pravda. Ora, scrive Badaiev nel 1930: « In quel periodo Stalin, che viveva alla macchia, aveva la di rezione della Pravda. » E il bene informato Seveliev : « Benché dovesse vivere alla macchia, Stalin nell’autunno 1912 e nell’inverno 1912-1913 continuò a dirigere la Pravda. Fece solo delle brevissime assenze per an dare all’estero, a Mosca e altrove. » Queste due testimonianze, che col limano con ogni altro dato disponibile, non si lasciano contestare. D’al tra parte non si può dire propriamente che Stalin in quel periodo di
LA RIPRESA
163
rigesse la Pravda. Il vero direttore del giornale era Lenin; il quale ogni giorno mandava articoli, recensioni, proposte, istruzioni, correzioni. Sta lin col suo cervello pigro non poteva tener dietro a quel torrente di idee e di direttive che del resto per nove decimi gli parevano o superflue o esagerate. In sostanza la redazione del giornale si mantenne in una posizione difensiva. Mancava di idee politiche proprie : tutto il suo sforzo era di smussare gli angoli troppo vivi della politica di Cracovia. Lenin sapeva mantenere il taglio della sua lama, e la sapeva riaffilare. Così, si creò naturalmente l’opposizione tra Stalin che sosteneva di dietro le quinte la tendenza « conciliativa », e Lenin l’intransigente. I tre curatori dell "Opera omnia di Lenin. — Bucharin, Molotov e Saveliev — scrivono : « Altri conflitti scoppiarono a causa della posi zione remissiva della Pravda nei riguardi dei ” liquidatori ” all’indo mani della campagna elettorale, e a causa dell’invito a collaborare che fu rivolto ai ” vperiodisti e le relazioni (tra Lenin e la redazione della Pravda) peggiorarono ancora in seguito alla partenza di Stalin da Pie troburgo nel gennaio 1913. » Questa espressione scelta accuratamente « peggiorarono », dice già che i rapporti non erano buoni neanche prima della partenza di Stalin. Solo che Stalin aveva fatto di tutto per evi tare di diventare lui personalmente il bersaglio degli strali di Lenin. I membri della redazione erano gente senza influenza nel partito, certuni erano elementi entrati nel giornale un po’ « di fortuna ». Lenin non avrebbe fatto fatica a ottenerne la sostituzione. Ma quel tanto di appoggio che avevano, lo avevano nei quadri superiori del partito cioè essenzialmente nel rappresentante in loco del comitato centrale. Prendere di punta Stalin, che era connesso sia al giornale sia ai quadri superiori del partito, voleva dire creare del nervosismo. La considera zione che ispirò la condotta di Lenin è chiara. Lenin era tenace e prudente. Il 13 novembre egli scriveva alla redazione dicendosi «pro fondamente rattristato » perchè la Pravda non aveva scritto nulla sul congresso internazionale socialista appena aperto a Basilea: « Dedicare al congresso un articolo non era difficile, e la redazione sapeva che (‘sso si inaugurava domenica... » Stalin forse cadde dalle nuvole : un congresso intemazionale? A Basilea? Per lui era il mondo della Luna. Ma la fonte vera dei conflitti non era in questo genere di sviste, per quanto frequenti: era nella divergenza di vedute sullo sviluppo stesso del partito. La politica di Lenin aveva un senso solo per chi la valu tava in ordine all’avvenire della rivoluzione; guardata dai punti di vi sta della tiratura del giornale, o della struttura attuale dell’apparato, appariva semmai stravagante. Nel fondo del suo animo, Stalin con tinuava a vedere nell’« emigrato » Lenin un fanatico e un visionario.
164
STALIN
Non si può tralasciare un incidente marginale, che successe in questo periodo. Lenin viveva in miseria. Quando fu fondata la Pravda, all’uo mo che ne era in sostanza il fondatore, ed era il suo collaboratore di gran lunga più autorevole, fu fissato uno stipendio minuscolo ma che, nelle condizioni in cui Lenin era ridotto a Cracovia, venne a costituire la sua fonte principale di sostentamento. Nel momento in cui il conflitto tra lui e la redazione era nella fase acuta, il denaro smise di giungergli. Lenin, sempre così riservato in cose del genere, dovette adattarsi a scrivere: «Perchè non mi mandate il denaro che avanzo? Questo ri tardo mi mette in notevole imbarazzo. Vi prego di far presto. » Po teva essere una punizione meditata? Lo si vorrebbe escludere; ma più tardi quando fu al potere Stalin usò largamente di questo mezzo pu nitivo. E anche se si trattava di una semplice disattenzione, essa lu meggia bene i rapporti poco cordiali che correvano tra Pietroburgo e Cracovia. L’indignazione di Lenin contro la Pravda esplose soltanto in una lettera che egli mandò alla redazione subito dopo la partenza di Stalin per Cracovia dove avrebbe partecipato alla conferenza dello stato maggiore del partito. Se ne ricava per forza l’impressione che Lenin attendesse quella partenza per schiacciare il formicaio « conciliazionista » di Pietroburgo senza togliersi la possibilità di un accordo ami chevole con Stalin. Appena sgombrato il campo dall’avversario più ingombrante Lenin lanciò contro la redazione della Pravda il suo at tacco devastatore. Nella lettera del 12 gennaio, diretta a una persona di sua fiducia a Pietroburgo, egli denuncia una « stupidaggine imper donabile » commessa dalla Pravda nei riguardi di un giornale degli operai tessili, stupidaggine di cui si deve subito fare ammenda; e pro segue di rimprovero in rimprovero. Fin qui la lettera è di mano della Krupskaia; ma in calce, Lenin aggiunge di suo pugno: «Abbiamo ri cevuto una lettera della redazione, stupida e insolente e a cui non risponderemo. Bisogna sbarazzarsi di quella gente... Ci inquieta non sapere ancora niente del piano di riorganizzazione della redazione. Ma meglio che di riorganizzazione bisogna parlare di liquidazione di tutti i redattori implicati in questi pasticci... La linea tenuta dal giornale è assurda. Fanno le lodi del Bund e della Zeit\1 una vera vergogna. Non sanno tener testa al Lue3... Il modo in cui trattano questi articoli (gli articoli di Lenin stesso) è bestiale. Ormai ho perduto la pazienza... » Gli accenti esasperati di Lenin (che sapeva contenersi quando voleva), e tutte le sue dure critiche al giornale, si riferiscono al periodo 1 Un giornale del Bund, di tendenze « opportunistiche ».
LA RIPRESA
165
in cui la direzione sul posto era tenuta da Stalin. Chi fosse l’autore della « lettera stupida e insolente » a cui si riferisce Lenin non è noto; e certo questo mistero non è casuale; però non doveva trattarsi di Stalin, troppo prudente per scrivere una lettera del genere; e del resto, pro babilmente quando fu scritta egli non era più a Pietroburgo. L’ipotesi più probabile è che ne fosse autore Molotov, segretario di redazione della Frauda, uomo non meno rude di Stalin e molto meno duttile di lui. Che Lenin era partito per un attacco a fondo lo si vede anche da queste righe della sua lettera: « Cosa si è fatto per controllare il movimento di denaro? Chi ha incassato gli abbonamenti? Chi ha in mano questo denaro oggi? A quanto ammonta? » È chiaro che Lenin non esclude la possibilità di una rottura completa, c si preoccupa, per tale eventualità, di con servare in mano le risorse finanziarie. In realtà, i « conciliatori » scon certati dall’attacco non avrebbero neanche osato pensare a una rottura; la sola arma che si illudevano di adoperare era quella della resistenza passiva; e anche questa, Lenin gliela tolse subito di mano. In risposta ad una lettera pessimistica di Shklovski da Berna, cer cando di spiegargli che la causa dei bolscevichi non era poi a così mal partito, la Krupskaia comincia con l’ammettere: « Certo la Frauda si comporta assai male... » Lo dice nel tono in cui si parla di cosa ammessa, pacifica. « Hanno assunto in redazione della gente senza capacità, dei mezzi analfabeti... Per evitare le polemiche a tutti i costi, non pubblichiamo le lettere di protesta degli operai contro il Lue9... » Ma, aggiunge la Krupskaia, ormai sono in vista delle « riforme radi cali ». La sua lettera è del 19 gennaio. L’indomani Lenin ne manda una a Pietroburgo, scritta sotto sua dettatura dalla Krupskaia: « Dob biamo dare alla Frauda una nostra redazione, togliendoci dai piedi quell’altra. Oggi come oggi il giornale va malissimo. Non condurre una campagna per l’unità della massa proletaria è assurdo e vile... Uomini così si possono chiamare redattori? Ma non sono neanche uomini, sono degli stracci miserevoli... » Questo era lo stile a cui Lenin ricorreva quando voleva far capire che era deciso ad andare fino in fondo. Aveva aperto un fuoco parallelo di batterie ben piazzate sui « con ciliatori » della Duma. Ancora il 3 gennaio egli aveva scritto a Pietro burgo : « Assicuratevi assolutamente che venga pubblicata la lettera degli operai di Baku... » La lettera chiedeva che i deputati bolscevichi smettessero di collaborare al Lue3. Rammentando come « per cinque an ni i ” liquidatori ” avessero ripetuto in tutti i toni che il partito era morto », i suoi autori concludevano con la domanda: « Come mai ora
166
STALIN
tengono tanto a unirsi a un cadavere? » Per parte sua Lenin chiedeva: « Cosa aspettano a rompere col Lue’? Quanto dovremo aspettare?... Persino dalla lontana Baku giunge questa protesta di venti operai... » Non è arrischiato pensare che ancora quando Stalin era a Pietroburgo, vista l’inutilità delle sue proteste, Lenin si fosse dato da fare perchè dei lavoratori di qualche parte lontana della Russia gli mandassero di quelle lettere. E possiamo chiederci: perchè proprio da Baku? Quelle lettere comunque Lenin non le faceva mandare alla Pravda a Pietro burgo, dove era in carica il capo del movimento operaio di Baku; le faceva spedire al suo indirizzo, a Cracovia. Appaiono poco a poco i fili arruffati del complotto. Lenin attacca mentre Stalin manovra. Mal grado la resistenza che gli oppongono i « conciliatori », e giovandosi dell’aiuto inconsapevole dei « liquidatori » che si stanno rivelando troppo opportunisti, Lenin riuscì a indurre i deputati bolscevichi a dimettersi da collaboratori del Lue’; ma essi continuarono per allora ad essere legati alla maggioranza « liquidazionista » nella Duma. Preparato all’eventualità peggiore, anche alla rottura, Lenin però — come sempre — fece di tutto per ottenere il suo scopo col minimo di complicazioni e col minimo danno per tutti. Ecco perchè chiamò Stalin a Cracovia e una volta lì gli fece capire che era meglio se stava alla larga dalla Pravda mentre avvenivano le riforme dai lui decise; e nel contempo spedì a Pietroburgo un altro membro del comitato centrale, Sverdlov, il futuro presidente della Repubblica sovietica. Che si trattasse di una sostituzione lo dice una voce ufficiale. Il co mitato centrale, » dice una nota nel 16° volume delle opere di Lenin, « mandò Sverdlov a Pietrogrado per riorganizzare la direzione del giornale. » Una lettera di Lenin a Sverdlov, quando questi era a Pietroburgo, dice: « Oggi abbiamo appreso che lei ha già messo mano alla riforma della Pravda. Mille saluti, rallegramenti e auguri di successo... Non può credere quanto eravamo stufi di lottare con una redazione così ostile... » Ci si sente la lunga amarezza, e il respiro di sollievo. Final mente Lenin chiudeva i conti del periodo disgraziato in cui Stalin « aveva diretto di fatto la Pravda ». Scriveva Zinoviev nel 1934 quando già la spada di Damocle pen deva sulla sua testa : « Ricordo che avvenimento fu l'arrivo di Stalin a Cracovia. » Certo, di quell’arrivo Lenin era doppiamente contento : per chè partito Stalin da Pietroburgo egli poteva compiere la sua delicata opera di riforma della Pravda; e perchè probabilmente sarebbe riuscito a farla senza provocare attriti in seno al comitato centrale. La Krupskaia, nel fare il breve e cauto racconto dell’arrivo di Stalin a Cracovia,
LA RIPRESA
167
buttò lì questo accenno: « Ilio era irritatissimo a causa della Pravda; e anche Stalin ne era irritato. Ragionarono insieme del modo di prov vedere... » Conoscendo i fatti, è impossibile dubitare che sia Lenin sia Stalin fossero irritati, ma per ragioni diverse. La conferenza per partecipare alla quale Stalin era stato convocato a Cracovia, durò dal 28 dicembre al 1° gennaio 1913. Vi presero parte undici persone fra membri del comitato centrale, deputati alla Duma e militanti locali di un certo rilievo. Oltre ai problemi politici gene rali creati dalla rapida ripresa rivoluzionaria, si discussero varie que stioni delicate che riguardavano la vita interna del partito, la sua rappresentanza alla Duma, la stampa, la linea da tenere nei confronti dei « liquidatori », il problema dell’« unità ». Il principale relatore fu Lenin; ed è facile immaginare che i deputati bolscevichi e Stalin che li aveva manovrati da dietro le quinte sentissero delle amare verità, sia pure formulate con cortesia. Stalin non deve aver mai preso la parola, o non si spiega che nella prima edizione delle sue Memorie (1929) l’ossequioso Badaiev dimenticasse addirittura di nominarlo tra i presenti. Star zitto quando ci sono complicazioni nell’aria, del resto, è il metodo di Stalin. I verbali e gli altri documenti della conferenza finora « non si sono ritrovati », e probabilmente sono state prese misure sufficienti perchè non vengano ritrovati mai più. In una lettera man data dalla Krupskaia in Russia intorno a quel tempo leggiamo: « Le relazioni sull’attività dei vari comitati locali sono state molto interes santi. Dappertutto le masse rivoluzionarie aumentarono... Al tempo delle elezioni emerse che dappertutto i lavoratori avevano continuato per loro conto ad organizzarsi... Molte di quelle organizzazioni non erano collegate col partito, ma erano nello spirito del partito. » Lenin in una lettera a Gorki disse che la conferenza era stata « un successo », e che « le sue conseguenze si sarebbero fatte sentire ». Pensava, soprattutto, al raddrizzamento della politica interna del partito. Non senza ironia il dipartimento di polizia segnalò al suo agente all’estero incaricato di riferire sulla conferenza che a Pietroburgo si era meglio informati che non fosse lui sul posto : contrariamente a quanto egli aveva segnalato, il deputato Poletaiev non era alla con ferenza, mentre vi parteciparono: Lenin, Zinoviev, la Krupskaia, i de putati Malinovski, Petrovski, Badaiev e Lobov, l’operaio Medvedev, il tenente d’artiglieria Troianovski (il futuro ambasciatore sovietico in Giappone e poi negli Stati Uniti), sua moglie, e Koba. Dopo di allora Koba ha fatto carriera. Nella lista della polizia veniva ultimo. Nelle note alle opere di Lenin (1929) è già al quinto posto, dopo Lenin, Zinoviev, Kamenev e la Krupskaia (benché Zinoviev, Kamenev e la
168
STALIN
Krupskaia fossero già in forte sfavore nel 1929). Nelle liste più recenti è sempre al secondo posto, dopo Lenin. Che il dipartimento di polizia a Pietroburgo fosse meglio infor mato dell’agente sul posto su quanto accadeva a Cracovia, non può far specie. Una delle parti principali nella conferenza fu svolta da Malinovski, di cui solo le più alte cariche della polizia imperiale co noscevano la vera qualità di agente provocatore. Alcuni social-demo cratici veramente avevano sospettato di lui già negli ultimi anni della reazione; ma non avevano prove, e la loro diffidenza si assopì. Nel gennaio 1912 Malinovski fu delegato dai bolscevichi di Mosca alla conferenza di Praga. Lenin notò questo operaio capace ed energico e lo aiutò ad avanzare la sua candidatura alle elezioni; anche la po lizia gli diede una mano, arrestando i suoi rivali più temibili. Alla Duma, il deputato degli operai di Mosca affermò subito la sua auto rità in seno al suo gruppo. Lenin gli mandava dei discorsi bell’e fatti, da pronunciare alla Camera. Lui li trasmetteva per la revisione al direttore del dipartimento di polizia, il quale dapprima cercò di in trodurvi delle correzioni; ma nel gruppo bolscevico un deputato go deva di pochissima autonomia. In conclusione, se il deputato social democratico era il migliore informatore dell’Ochrana, la spia dell’Ochrana diventò (coi testi preparati da Lenin) il più fiero oratore parlamentare del partito social-democratico. Rinacquero dei sospetti sul suo conto nell’estate del 1913, in seno al partito. Ma anche questa volta mancavano le prove. Il governo imperiale, tuttavia, cominciò ad allarmarsi della possibilità che Mali novski fosse smascherato, e ne seguisse un grosso scandalo politico. Per ordine dei suoi superiori nel maggio 1914 Malinovski presentò al pre sidente della Duma le sue dimissioni da deputato. Rinacquero le voci contro di lui, e questa volta raggiunsero la stampa. Malinovski andò all’estero ad incontrarsi con Lenin per sollecitare un’inchiesta di partito. Aveva certamente concertato la sua condotta coi suoi superiori nel dipartimento di polizia. Di lì a due settimane il giornale del partito a Pietroburgo pubblicò un telegramma in cui, in termini velati, si diceva che il comitato centrale, esaminato il caso di Malinovski, aveva concluso per la sua completa integrità. Di lì a pochi giorni ancora, fu pubblicato un comunicato che diceva: con la volontaria rinuncia al mandato parlamentare Malinovski « si era posto fuori dei ranghi dei marxisti organizzati ». Cioè, era stato espulso dal partito. Lenin fu sottoposto dai suoi avversari a un lungo e crudele fuoco di fila per aver protetto Malinovski. E certo, la presenza di una spia governativa tra i deputati alla Duma e soprattutto in seno al comitato
LA RIPRESA
169
centrale fu una grande calamità per il partito. Stalin per esempio era stato deportato, l’ultima volta, in seguito a delazione di Malinovski. Ma a quel tempo i sospetti, spesso inaspriti dall’ostilità fra le fazioni, avvelenavano tutta l’atmosfera della « clandestinità ». Nessuno aveva mai fornito prove dirette contro Malinovski. Non si poteva condannare un membro del partito alla morte politica — e forse anche fisica — in base a un sospetto. Data la posizione di responsabilità occupata da Malinovski, la sua reputazione coinvolgeva in una certa misura anche la reputazione del partito e Lenin ritenne suo dovere difenderlo con l’energia che gli era solita. Solo dopo la caduta del regime imperiale si potè avere la prova che Malinovski era stato un agente della polizia. E dopo la rivoluzione di ottobre Malinovski, ritornato a Mosca da un campo di prigionia tedesco, fu condannato a morte e fucilato. Malgrado la penuria di attivisti, Lenin non aveva nessuna fretta di rimandare in Russia Stalin. Gli importava, invece, portare a termine le riforme intraprese a Pietroburgo prima che Stalin vi tornasse. Poi, neanche a Stalin premeva tornare sul posto delle sue ultime attività, dato che alla conferenza di Cracovia queste attività erano state sia pure indirettamente bollate. Lenin come era suo costume fece di tutto perchè il vinto si ritirasse senza ignominia. Lo spirito di vendetta era assolutamente estraneo all’animo di Lenin. Per dare a Stalin un pretesto che gli permettesse di prolungare il soggiorno all’estero, indirizzò la sua attenzione sullo studio del problema delle nazionalità; solo a Lenin poteva venire in mente un accomodamento del genere! Era facile spiegare l’importanza di quel problema a un uomo nato nel Caucaso, dove vivono ancora oggi decine di nazioni diverse, più o meno primitive. Nel paese di Stalin, la Georgia, il senso dell’indipen denza nazionale era ancora vivissimo. Da esso, anzi, Koba aveva rice vuto il primo impulso rivoluzionario. Anche il suo pseudonimo, Koba, era legato alle lotte dei georgiani per l’indipendenza. È vero che a dire di Iremashvili durante la prima rivoluzione Koba era diventato freddo alla causa della Georgia. « L’indipendenza nazionale non aveva più senso per lui : il suo sogno di potenza non poteva stare in confini così stretti, gli ci volevano quelli della Russia o forse del mondo. » In realtà il periodo in cui Stalin avrebbe sentito a questa maniera era ancora parecchio lontano. Ma è un fatto: quando diventò bolscevico, Koba si spogliò di quel patriottismo romantico che invece poteva andare d’accordo col socialismo all’acqua di rose dei menscevichi georgiani. Però a differenza dei membri di tante altre nazionalità della grande
170
STALIN
Russia, un georgiano come Koba anche una volta superata ogni pas sione patriottica non era detto che diventasse agnostico dinanzi al pro blema delle nazionalità. I difficili rapporti tra le numerose nazionalità presenti nel Caucaso vi complicavano l’attività rivoluzionaria. Le vedute abbracciate da Koba includevano l’internazionalismo. Ma è da chiedersi se anche il suo animo divenne internazionalista. Lenin, russo della Grande Russia, non poteva tollerare nemmeno una celia che toccasse la sensibilità di una nazione oppressa. Stalin aveva anche qui la rozzezza del contadino di Didi-Lilo. Negli anni della vigilia rivo luzionaria non osava certo scherzare apertamente con gli altrui pregiu dizi nazionali, come fece poi quando fu al potere. Ma qualche tratto minimo rivelava già il suo vero modo di sentire. Per esempio nel 1907 parlando in un articolo della prevalenza degli ebrei nella frazione men scevica che si era rivelata al congresso di Londra, Koba scriveva : « Ci fu un bolscevico (credo fosse il compagno Alexinski) che a questo pro posito osservò scherzosamente che mentre i bolscevichi erano una fra zione russa, i menscevichi erano una frazione ebraica: sicché forse per noi bolscevichi era il momento di fare un bel pogrom di menscevichi. » Ancora oggi si stenta a capacitarsi che in un articolo destinato alla stampa operaia del Caucaso, cioè di una regione avvelenata dalle anti patie nazionali, Stalin potesse arrischiare una battuta di quel genere. Ma notiamo bene, non si trattava di insensibilità contadina, si trattava di un gesto ben calcolato. La spiritosaggine figurava nello stesso arti colo in cui Koba — in frasi che conosciamo già — minimizzava la risoluzione del congresso contro gli « espropri » dei boieviki. La fra zione menscevica, ostile agli « espropri », era diretta prevalentemente da ebrei; e con lo scherzoso accenno al pogrom Koba intendeva met tere in svantaggio psicologico quegli avversari agli occhi degli operai politicamente più grezzi. Era più facile agire con la minaccia e lo scher no che con un lucido esame delle ragioni prò e contro; e Stalin è sempre stato per la linea di minor resistenza. Aggiungeremo che lo scherzo non era casuale neanche da parte di Alexinski, il quale da bolscevico dell’ala sinistra sarebbe presto diven tato un reazionario e un antisemita. Koba beninteso difendeva la linea ufficiale del partito; ma mentre prima del viaggio all’estero i suoi articoli non superavano il calibro della spicciola propaganda quotidiana, ora per incitamento di Lenin egli passava al piano assai più ampio del problema generale delle nazio nalità. La materia era complicata; ma qui lo soccorreva indubbia mente la conoscenza concreta che egli aveva dei problemi delle nazionalità in conflitto, vivendo nel Caucaso.
LA RIPRESA
171
Prima della guerra, erano due i paesi d’Europa dove la questione nazionale aveva un’estrema importanza politica : l’impero russo e l’im pero austro-ungarico. Qui e lì il partito dei proletari creò una sua scuola. Sul piano teorico, la social-democrazia austriaca rappresentata da Otto Bauer e Karl Renner vedeva la nazionalità come un dato indi pendente dal territorio, dai fattori economici e dalle classi: ne faceva un’astrazione connessa al supposto « carattere nazionale ». Sul piano della politica concreta essa si fermava, qui come altrove, alle proposte di alcuni ritocchi allo status quo. Nel loro terrore di vedere smembrato l’impero, i social-democratici austriaci in sostanza si ingegnavano di adattare i loro programmi alla circostanze presentate da un complesso statale fatto di tanti pezzi eterogenei. Il loro preteso programma di « autonomia culturale nazionale » proponeva che i membri di ogni singola nazionalità, indipendentemente dal sito geografico in cui si trova vano in seno all’impero, formassero altrettante comunità in seno alle quali risolvere i loro individuali problemi di « cultura » (la scuola, la chiesa, il teatro e via dicendo). Programma evidentemente utopi stico, in quanto si pretendeva — in una società tormentata da contrasti sociali — di separare la cultura di un dato territorio dalla sua econo mia. Era anche un programma reazionario in quanto prevedeva la separazione degli operai in gruppi nazionali e quindi il loro indeboli mento come classe. La posizione di Lenin era agli antipodi di quella della social-demo crazia austriaca. Lenin da una parte vedeva la nazionalità come valore legato al territorio, all’economia, alla struttura delle classi; d’altra parte rifiutava di concedere un valore di categoria inviolabile allo Stato storico le cui frontiere tagliavano il corpo vivo delle nazioni. Ad ogni nazionalità in uno Stato egli chiedeva che si riconoscesse il diritto di separazione. E fintantoché varie nazionalità dovevano coabi tare nei confini di uno Stato — o per loro scelta o per necessità — le loro esigenze culturali dovevano ottenere la maggiore soddisfazione possibile nel quadro di un’ampia autonomia regionale, con ampie e precise garanzie per i diritti delle minoranze. Nel contempo Lenin considerava dovere dei lavoratori in uno Stato, indipendentemente dalla loro nazionalità, coalizzarsi in un’unica organizzazione di classe. Il .problema nazionale era particolarmente scottante in Polonia, a causa dei precedenti storici. Il Partito Socialista Polacco (P.P.S.) di retto da Giuseppe Pilsudski, rivendicava con ardore l’indipendenza del paese. In realtà quel partito era « socialista » in modo vago e accesso rio: prima di tutto era un partito di nazionalisti militanti. Invece il movimento della social-democrazia polacca diretto da Rosa Luxem-
172
STALIN
bourg voleva solo l’autonomia regionale della Polonia in seno a una Russia democratica. Rosa Luxembourg partiva dal fatto che durando il regime imperiale l’indipendenza polacca era economicamente irrealiz zabile, e dopo l’avvento del socialismo non sarebbe più stata necessaria. Per lei il « diritto all’auto-determinazione » era un’astrazione vacua. La polemica tra le due correnti durò degli anni. L’idea di Lenin era che l’eredità di una nazione è la somma e la combinazione del portato di più epoche storiche; e malgrado il rigido controllo dello Stato impe rialistico i problemi nazionali conservano la loro forza; e, intervenendo determinate congiunture regionali o mondiali, la Polonia poteva rag giungere l’indipendenza anche nell’epoca dell’imperialismo. Per Lenin il diritto all’auto-determinazione era semplicemente un’ap plicazione dei principi della democrazia borghese alla sfera dei rapporti internazionali. Una vera democrazia, totale, universale, non era realiz zabile in regime capitalistico. Però anche sotto l’imperialismo i lavo ratori non avevano rifiutato di battersi per i diritti democratici tra cui il diritto di ogni nazione all’indipendenza. In alcune parti del mondo era proprio l’imperialismo ad attribuire alla parola d’ordine dell’auto determinazione un valore straordinario. Mentre l’Europa centro-occi dentale era riuscita a risolvere in questo o quel modo i suoi problemi nazionali nel corso del secolo XIX, nell’Europa orientale come in Asia, Africa e America del sud l’età dei movimenti nazionali e democratici non si era schiusa che all’inizio del XX secolo. Negare oggi il diritto delle nazioni all’auto-determinazione equivaleva a prestare un aiuto agli imperialisti contro le loro colonie e in generale contro le nazioni che essi opprimevano. Gli anni della reazione avevano notevolmente esasperato il proble ma delle nazionalità in Russia. Gli atti di repressione compiuti da chi era al potere, colpendo i paesi di frontiera, vi aveva provocato in rispo sta un ravvivarsi del nazionalismo. Il 1913 fu l’anno del processo inten tato a Kiev all’ebreo Bayliss sotto l’assurda accusa di omicidio rituale. Alla luce degli orrori commessi in seguito in Germania e anche in Rus sia, si può considerare quell’episodio come idilliaco; ma nel 1913 esso scandalizzò il mondo intero. Quell’esplosione antisemitica non era che un aspetto del male inteso nazionalismo che andava infiltrandosi anche in qualche settore della classe operaia. Allarmato, Gorki aveva scritto a Lenin che occorreva combattere quelle espressioni di barbarie sciovini stica. Lenin gli rispose : « Quanto al nazionalismo, sono pienamente d’accordo con lei, è da affrontare con decisione. Qui con noi abbiamo un meraviglioso georgiano che dopo aver raccolto tutto il materiale occorrente in Austria c altrove ora sta scrivendo un lungo articolo
LA RIPRESA
173
per Prosveshcenie.1 Insisteremo su questo tema. » Lenin si riferiva a Stalin. Si noti che Gorki, legato da lungo tempo al partito, ne conosceva bene i quadri dirigenti; ma Stalin evidentemente gli era sconosciuto se Lenin credeva di dovergliene parlare con quella perifrasi. Probabil mente è l’unico caso in cui Lenin abbia parlato di un rivoluzionario russo in vista indicandone la nazionalità. Nei due mesi di soggiorno all’estero Stalin scrisse difatti un saggio breve ma piuttosto esauriente intitolato II marxismo e il problema delle nazionalità, Prosveshcenie era una rivista « legale », perciò Stalin vi fece uso di un vocabolario prudente; però l’impostazione rivoluzio naria non vi appariva meno chiara. L’autore cominciava col contrap porre la definizione data alla « nazione » dal materialismo storico a quella che ne dava lo psicologismo astratto della scuola austriaca. « La nazione è una comunità stabile come lingua, come territorio, come impostazione economica, come forma psicologica, costituita dalla storia e che si manifesta in una comunione culturale » : questa complessa definizione in cui i caratteri psicologici della nazione sono colti nel loro incontro con le circostanze geografiche e coi fattori economici del suo sviluppo, non solo è impeccabile sul piano teorico ma è una defini zione fertile di conseguenze pratiche. Ci obbliga a tener conto, nel ragio nare della sorte futura di una nazione, del suo divenire pratico e, prima di tutto, della realtà territoriale. Il bolscevismo non ha mai nu trito un rispetto feticistico per le frontiere dello Stato. Il problema politico era allora quello di fare dell’impero zarista, prigione di po poli, un corpo territoriale, politico e amministrativo in cui trovassero soddisfazione le necessità e le aspirazioni delle singole nazionalità che lo componevano. Nel concetto del partito del proletariato, alle varie nazionalità non era prescritto di rimanere nelle frontiere dello Stato, o di uscirne : spettava ad esse decidere. Il partito si impegnava ad aiutarle indivi dualmente a prendere coscienza delle proprie aspirazioni e realizzarle. La possibilità o meno per una nazione di diventare uno Stato a se, dipende da circostanze concrete e specie da rapporti di forza. « Chi può dire, » scriveva Stalin, « se la guerra balcanica segna la fine o l’inizio di lunghe complicazioni? Può nascere un insieme di circostanze interne ed esterne in conseguenza al quale questa o quella nazione inclusa nella Grande Russia riterrà indispensabile porre e risolvere il problema della sua indipendenza. È chiaro che in casi siffatti non deve essere il marxismo a porle degli ostacoli. I marxisti russi non possono ignorare il diritto delle nazioni all’auto-determinazione. » 1 L’istruzione.
174
STALIN
Proseguiva dicendo che gli interessi delle nazioni che vorranno restare incluse nella Russia democratica dovranno essere tutelati stabi lendo « delle precise entità autonome : la Polonia, la Lituania, l’Ucrai na, il Caucaso e via dicendo. L’autonomia regionale permetterà un migliore sfruttamento delle risorse naturali di ogni singola regione. Non separati da frontiere, i cittadini saranno in grado di organizzarsi in partiti secondo i loro interessi di classe ». Qui una autonomia am ministrativa delle regioni, intese nella loro integrità sociale, è contrap posta felicemente all’idea velleitaria delle autonomie culturali attuate prescindendo dalla realtà territoriale. Ma dal punto di vista della lotta proletaria si poneva il problema bruciante dei rapporti tra lavoratori delle diverse nazionalità in seno ad un unico Stato. Il bolscevismo era per l’unità completa e compatta dei lavoratori di ogni origine, nel partito e nei sindacati, sulla base del centralismo democratico. « Il tipo di organizzazione non si riflette solo sull’attività pratica, ma si impone profondamente in tutta la vita spi rituale del lavoratore. Questo vive la vita della sua organizzazione, in seno ad essa riesce a educarsi e a sviluppare il proprio spirito. L’organizzazione internazionale del lavoro è, perciò, la grande scuola e la grande propaganda dell’internazionalismo. » Tra gli scopi segnati nel programma austriaco di « autonomia cultu rale » c’era anche quello di « sviluppare le singole caratteristiche nazio nali ». E un bolscevico si poteva chiedere con stupore : perchè? a quale scopo? Perchè ci dovremmo dar cura di accentuare il distacco tra na zione e nazione? Il bolscevismo rivendicava ai gruppi etnici la libertà di secessione; ma diritto non è obbligo. All’idea di mantenere artificial mente in vita dei tratti etnici distintivi, il bolscevismo era nettamente ostile. La liberazione da ogni forma palese o larvata di servitù non doveva servire a separare i proletari dei vari paesi ma anzi ad unirli sotto il segno della rivoluzione. Certo, dove esistono dei privilegi e delle picche nazionali tant’è permettere che le varie nazionalità fac ciano divorzio : la classe operaia delle varie nazionalità, affrancata dal peso di una convivenza forzosa, riuscirà più facilmente a mante nere e rafforzare la sua solidarietà come classe, e in tale modo a pre parare la riunione che avverrà un giorno sotto il segno dell’interna zionalismo. Il programma della social-democrazia austriaca non serviva che a rivelarne la debolezza; e infatti non salvò l’impero degli Asburgo e non salvò la social-democrazia. Coltivando i caratteri individuali dei gruppi etnici e nello stesso tempo negando soddisfazione alle esigenze dei loro proletariati, il programma austriaco sanzionava lo stato di fatto pre
LA RIPRESA
175
sente : il predominio in seno all’impero della frazione etnica germanica e di quella ungherese. Cioè, osservava Stalin giustamente, esso favo riva il nazionalismo austro-tedesco e quello ungherese. Qui bisogna am mettere che Stalin dava del pensiero avversario un ragguaglio volutamente troppo schematico. « È come, » diceva, « se si volessero tute lare certe particolarità dei tartari di Transcaucasia come l’usanza dell’auto-flagellazione in pubblico nella festa di Ciachsei-Vachsei; o assi curarci che in Georgia sopravviva la legge del taglione. » (Per la verità doveva essere proprio Stalin a portare l’usanza della vendetta georgiana a un vertice senza precedenti; ma questa è un’altra storia.) Un posto rilevante è dato in questo articolo alla polemica con un vecchio avversario di Stalin, Noi Zhordania, il quale negli anni del la reazione era venuto evolvendo verso una forte affinità col pro gramma della social-democrazia austriaca. Con alcuni esempi Stalin di mostra come l’autonomia culturale di una nazione, « futile dovunque la si voglia realizzare... diventi poi estremamente assurda se si pensa di attuarla nel Caucaso ». Non meno esauriente è la sua critica del Bund ebraico, che era organizzato secondo un principio nazionale non territoriale, e che pretendeva di imporsi a modello all’insieme del par tito. « Bisogna scegliere tra le due cose : o il federalismo del Bund, e ciò comporta la ricostituzione della social-democrazia russa sulla base di un isolamento degli operai in tanti nuclei nazionali; o la forma internazionalista, che comporta al contrario che il Bund si rico stituisca su una base di autonomie territoriali... Non esiste una via di mezzo possibile. » Il marxismo e il problema delle nazionalità è lo scritto teorico più importante di Stalin; anzi è il suo solo scritto di contenuto teorico. Non conoscendo di suo che queste quaranta pagine di stampa, si sa rebbe indotti a vedere in lui un teorico maturo e autorevole : cosa piuttosto curiosa, perchè egli non ha mai scritto una sola pagina che assomigli a queste, nè prima nè dopo. Ma la chiave del mistero è sem plice: questo lavoro di Stalin è in sostanza un lavoro di Lenin. Lenin due volte in vita sua aveva rotto i rapporti con quelli tra i suoi intimi collaboratori che si distinguevano per la loro mente di teorici. La prima volta fra il 1903 e il 1904 si era separato dalle vec chie autorità della social-democrazia russa — Plechanov, Axelrod e Zuzulic — e da due giovani marxisti di valore come Martov e Potresov. Poi negli anni della reazione egli era stato abbandonato da Bogdanov, da Lunaciarski, da Pokrovski, da Rozhkov, tutti scrittori alta mente qualificati. Zinoviev e Kamenev, rimasti i suoi collaboratori più stretti, non erano menti teoretiche. Così la ripresa rivoluzionaria tro
176
Scmvwhu/ & cuwfr Di/ QrMtuiela-
STALIN
vava Lenin isolato; e non fa specie che egli si aggrappasse a qualunque giovane compagno che potesse, con la sua competenza fosse pure in uno spicchio della problematica rivoluzionaria, collaborare al programma del partito. « Ilio quel giorno, » racconta la Krupskaia, « si intrattenne a lungo con Stalin sulla questione delle nazionalità. Era contento di essersi im battuto in un uomo che si interessava seriamente a quell’ordine di pro blemi e sapeva orientarcisi. Stalin prima di quel colloquio aveva pas sato due mesi a Vienna per documentarsi sull’argomento; e lì aveva frequentato i nostri compagni Bucharin e Troianovski. » C’è evidente mente parecchio che la Krupskaia lascia nella penna. Dicendo che « Ilio si intrattenne a lungo con Stalin », la Krupskaia intende : diede a Stalin le idee direttrici, mise in luce i vari aspetti del problema, dissipò i malintesi, indicò le fonti per ulteriori informazioni, esaminò l’abbozzo dell’articolo e lo corresse... » Altrove è lei stessa che dice : « Ricordo bene come si comportava Ilic coi giovani scrittori inesperti. Esaminava con loro la questione di fondo, badava ad impostarla nei suoi giusti termini, a togliere di mezzo le impostazioni inadeguate. Ma lo faceva con tanta discrezione che il suo interlocutore non si accor geva di star seguendo un corso. Questa era l’arte di aiutare come la praticava Ilic. Se per esempio voleva affidare un tema da svolgere ad un collaboratore della cui capacità non era proprio sicuro, per prima cosa svolgeva il tema in via di conversazione, cercava di mettere in luce i punti di vista del suo interlocutore e completarli, orientava il suo interesse, chiariva il tema a fondo, poi diceva: " Perchè non scrive un articolo su questo argomento? ” L’altro non si rendeva conto che prima di fargli tale domanda Ilic lo aveva imbeccato così bene; e scri vendo non si rendeva conto di scrivere una cosa altrui, persino metten dovi i vocaboli e i giri di frase tipici del vero autore. » Qui natural mente la Krupskaia non fa il nome di Stalin e di nessun altro; però queste righe sono nel suo capitolo che parla del lavoro di Stalin sulle nazionalità. Era il genere di accenni indiretti a cui la Krupskaia doveva ricorrere per proteggere alla meglio i diritti intellettuali di Lenin dagli usurpatori. Così possiamo ricostruire con chiarezza la genesi dell’articolo di Stalin. Prima, a Cracovia Lenin lo indirizza alla scelta del tema e gli indica le fonti da consultare. Poi Stalin va a Vienna che è il centro della « scuola austriaca ». Non conoscendo il tedesco non combinerebbe niente da solo. C’era Bucharin che conosceva la lingua, aveva una testa capace di digerire delle idee, conosceva la bibliografia, sapeva come consultarla. Lui e Troianovski furono incaricati da Lenin di illu
LA RIPRESA
177
minare il « meraviglioso » ma rozzo georgiano. A loro indubbiamente dobbiamo le citazioni importanti fatte nell’articolo; la cui struttura logica lievemente pedantesca fa pensare all’influsso di Bucharin il quale aveva delle tendenze cattedratiche, a differenza di Lenin per cui l’interesse politico e polemico decideva anche della struttura di un lavoro. L’influenza di Bucharin non dovette andare molto oltre l’ese cuzione architettonica: perchè sulla questione delle nazionalità Bucha rin era più vicino a Rose Luxcmbourg che a Lenin. Quanto l’articolo deve a Troianovski non lo sappiamo. Sappiamo solo che da quel tempo data l’amicizia fra Troianovski e Stalin il quale, dopo diversi anni e diverse vicende, avrebbe dato all’insignificante e instabile Troianovski una posizione diplomatica di notevole importanza. Da Vienna, Stalin tornò a Cracovia col materiale raccolto. Qui il lavoro era ripreso in mano da Lenin, revisore attento e instancabile. Il suo pensiero e il suo stile sono chiaramente riconoscibili ad ogni passo. Vi sono delle frasi evidentemente sistemate senza riguardo al contesto dal firmatario dell’articolo, e delle frasi inserite a buon punto dal revisore, che non si capiscono chiaramente a meno di ricorrere alle opere corrispondenti di Lenin. « Non è la questione delle naziona lità ma la questione agraria quella da cui dipende il progresso della Russia; il problema delle nazionalità è secondario. » È un pensiero di Lenin, da lui sviluppato ampiamente negli anni della reazione. In Italia e in Germania la lotta per la liberazione e per l’unificazione aveva formato a suo tempo l’asse della rivoluzione borghese. In Russia la situa zione era del tutto diversa : il gruppo nazionale numericamente preva lente, quello « veliko-russo », non soltanto non era oppresso ma era l’oppressore; e questo non toglieva che gran parte dei suoi membri, i contadini, vivessero ancora in condizione di schiavitù. Un pensiero basato su osservazioni complesse, come quello della priorità del proble ma agrario in Russia, non sarebbe stato espresso dal vero autore del l’opuscolo così nudo e crudo, come un luogo comune, se non ne avesse posto le premesse altrove. Zinoviev e Kamenev che vissero a lungo accanto a Lenin non solo assorbirono le sue idee ma fecero proprie anche le sue espressioni favo rite, persino la sua grafia. Stalin non si trovava nello stesso caso : viveva anche lui a spese del cervello di Lenin, ma a distanza ; egli racimolava dai testi del suo maestro appena quel tanto che gli serviva per i suoi scopi immediati. Era troppo scabro, troppo ottuso ed elementare per poter fare suoi i tratti di stile tipici del maestro. Questo fa che le cor rezioni e aggiunte fatte da Lenin al suo articolo vi spicchino — per adoperare le parole di un poeta — come pezze di stoffa nuova e dai
178
STALIN
colori vivaci cucite su un vecchio straccio stinto. È tipico di Lenin dire che la scuola austriaca è « una forma sottile di nazionalismo » ; Stalin non scriveva a questo modo. Leggiamo nell’articolo, a proposito della definizione data da Bauer della nazione come « comunità relativa dei caratteri » : « Ci si chiede in che cosa la nazione di Bauer si distingue dallo ” spirito nazionale ” mistico e assoluto degli spiritualisti. » Questa è una frase di Lenin. Stalin non solo non la sapeva scrivere, non può nemmeno averla mai capita. Poco più innanzi, parlando delle corre zioni eclettiche portate dallo stesso Bauer alla sua definizione della nazione, l’articolo dice : « E così la sua teoria cucita col filo idealistico trova in se stessa la sua contraddizione. » Lo stile è di Lenin. Così si dica della definizione dell’internazionalismo insito nello spirito dell’orga nizzazione operaia, « la più vera scuola dell’uguaglianza ». Stalin non scriveva così. Poi, in tutto questo lungo articolo non troviamo un ca maleonte che prenda il colore del leone, non una rondine sotterranea, non uno schermo fatto di lacrime di coccodrillo. Lenin di questi orna menti ve ne avrà trovati, e li avrà cancellati. Il manoscritto originale con le correzioni di Lenin finora è rimasto nascosto, se esiste ancora. Ma una cosa non può restare nascosta : che Stalin in tutti gli anni di prigione e di proscrizione non produsse niente che assomigliasse all’articolo di Cracovia. L’8 febbraio 1913 (Stalin era sempre all’estero), Lenin si congratulò con la direzione della Pravda per « l’enorme miglioramento del gior nale da tutti i punti di vista ». Si riferiva in particolare alle posizioni assunte dal giornale in questioni di principio, e alla lotta che esso aveva ripresa contro i « liquidatori ». A quanto dice Samoilov, era Sverdlov in quel momento a dirigere di fatto il giornale, dall’appartamento di un deputato bolscevico dove stava nascosto al riparo, o almeno così cre deva, dell’immunità parlamentare del suo ospite. « Era oltre a tutto, » dice Samoilov, « un uomo pieno di attenzioni per i suoi collaboratori » ; di Stalin — che pure godeva del suo grande rispetto — Samoilov non dice mai niente di simile. Il 10 febbraio la polizia irruppe nell’appar tamento del deputato « immune » e arrestò Sverdlov, che poco dopo venne spedito in Siberia. Dovette essere per denuncia di Malinovski. Poi sulla fine di febbraio fu Stalin che reduce dal soggiorno all’estero andò ad abitare da quel deputato. « Prese subito le redini della fra zione e della Frauda, » dice Samoilov. « Non solo prendeva parte a tutte le riunioni tenute in quell’appartamento, ma spesso con grave rischio personale interveniva anche alle sedute della frazione socialde mocratica dove, nella polemica coi menscevichi in particolare, la sua presenza era preziosa. »
LA RIPRESA
179
Di ritorno a Pietroburgo Stalin aveva trovato la situazione molto mutata. Gli operai più avanzati approvavano decisamente le riforme di Sverdlov ispirate da Lenin. La Pravda aveva una nuova redazione; i « conciliatori » erano stati tolti di mezzo. Stalin non tentò nemmeno di difendere la posizione da cui era stato sbalzato due mesi prima. Non era nel suo spirito. Gli importava solo salvare la faccia. Il 26 febbraio pubblicò nella Pravda un articolo in cui esortava i lavoratori « ad alzare le loro voci contro ogni tentativo di rompere la compattezza della fra zione, da qualunque parte venga ». In sostanza l’articolo rientrava nella campagna per preparare la scissione della frazione bolscevica alla Duma e addossarne la responsabilità ai menscevichi. Impacciato dal suo recente atteggiamento così diverso, Stalin tentava di cavarsela adoperando la vecchia fraseologia per dire il contrario. Questo spiega l’accenno ambiguo ai tentativi di scindere la frazione « da qualunque parte vengano ». Dopo essere stato alla scuola di Cracovia egli si inge gnava di riincamminarsi per una strada nuova avendo l’aria, il più possibile, di continuare sulla strada di prima. Non ebbe il tempo nè di farcela nè di fallire, perchè poco dopo fu arrestato. Il rivoluzionario georgiano Kavtaraze nelle sue Memorie racconta di un giorno in cui incontrò Stalin in un ristorante di Pietroburgo, sotto il naso dei poliziotti. Usciti, a un certo momento i due credettero di aver fatto perdere le loro tracce agli agenti. Stalin prese una slitta di piazza; e appena la slitta si avviò, un altro veicolo pieno di poliziotti gli si mise dietro. Kavtaraze era sicuro che Stalin non se la sarebbe cavata; invece poi apprese che era ancora in libertà. In un tratto di strada male illuminato, Stalin era scivolato destramente all’esterno della slitta per lasciarsi cadere sul primo mucchio di neve abbastanza alto per nasconderlo. La slitta dei poliziotti era passata oltre senza accorgersi di nulla; e lui di lì a poco era andato a nascondersi in casa di un compagno. Tre giorni dopo, vestito da studente (racconta Kavtaraze), Stalin lasciò il nascondiglio e si rimise al suo lavoro, che era quello di dirigere l’attività clandestina a Pietroburgo. Con queste invenzioni adulatrici, Kavtaraze cercava di stornare dalla sua testa i fulmini che la minacciavano; ma, come altri, si svergognò senza frutto. Kavtaraze situa questo episodio nel 1911, nel quale anno Stalin si trovò a Pietroburgo solo per un tratto dell’estate quando non c’erano mucchi di neve in cui gettarsi. La rivista storica ufficiale che pubblicò le Memorie finse di non accorgersi di questo particolare. A voler pren dere l’episodio per autentico, bisogna situarlo nelle poche settimane che Stalin passò a Pietroburgo tra la fine del 1912 e il principio del ’13, fra il ritorno dall’estero e la cattura.
180
STALIN
Nel marzo l’organizzazione bolscevica sotto il patronato della Pravda diede un concerto; e Stalin voleva andarvi perchè avrebbe po tuto incontrarvi certi compagni che gli serviva vedere. Così almeno racconta Samoilov. Stalin prima di decidere chiese consiglio a Malinovski : gli conveniva andarci? C’era molto rischio? Malinovski gli rispose che secondo lui non c’era nessun pericolo; e avvisò la polizia. Appena Stalin fu entrato la sala si riempì di poliziotti. Cercarono di farlo scappare da una porta di servizio, con un mantello da donna; ma non servì. Stavolta era una cosa seria: Stalin sarebbe rimasto fuori circolazione per quattro anni. Due mesi dopo l’arresto di Stalin, Lenin scriveva alla Pravda : « Mi congratulo dei vostri successi... Il miglioramento è stato formidabile... Speriamo che sia definitivo : che non ci si metta la sorte contraria ! » E per avere un quadro completo sarà bene ricordare anche la lettera che Lenin mandò a Pietroburgo nell’ottobre 1913 quando Stalin era già nel lontano posto di relegazione, e a dirigere la Pravda c’era Kamenev : « Qui siamo tutti soddisfatti del giornale e della sua direzione. Da molto tempo non sento una parola di critica... Mi sono dimostrato buon profeta. Ricordate? » E la lettera finiva così : « ...Tutta la nostra attenzione ora è concentrata sulla lotta dei sei deputati alla Duma per difendere i loro diritti. Vi prego di insistervi con tutto il vigore possi bile; che il giornale e l’opinione pubblica non tentennino mai un istante. » I fatti che abbiamo rievocati conducono a una conclusione inevi tabile : per Lenin, la Pravda fu diretta malissimo finché fu diretta da Stalin. In quel periodo la frazione bolscevica alla Duma piegava verso il « conciliazionismo » ; la frazione e il giornale cominciarono a rad drizzarsi solo quando, partito Stalin, Sverdlov introdusse le « sostan ziali riforme » volute da Lenin. Il giornale migliorò ancora quando passò in mano a Kamenev. E fu sempre nel periodo di Kamenev che i deputati bolscevichi alla Duma stabilirono chiara la loro indipendenza. Nell’episodio concluso con la definitiva scissione dei bolscevichi, Malinovski ebbe una parte attiva, anzi ne ebbe due. Scrive a questo proposito nelle sue Memorie il generale della polizia Spiridovic : « Ma linovski, seguendo le direttive sia di Lenin sia del dipartimento di poli zia, nell’ottobre 1913 riuscì a produrre la rottura definitiva fra i ” sette ” e i ” sei ”. » I menscevichi in seguito fecero a lungo dell’ironia sulla coincidenza della linea voluta da Lenin con quella voluta dalla polizia. Ora che i fatti hanno reso la loro sentenza, quella vecchia baruffa ha perduto molto del suo significato. La polizia sperava che la scissione della social-democrazia indebolisse il movimento proletario;
LA RIPRESA
181
Lenin credeva che solo la scissione avrebbe messo gli operai alla testa della rivoluzione. Si sbagliava la polizia; dopo di allora i menscevichi non avrebbero più rappresentato che una parte insignificante : la vit toria completa era preparata ai bolscevichi. Tra Pietroburgo e l’estero, Stalin prima dell’ultimo arresto aveva lavorato intensamente per sei mesi. Aveva collaborato alla campagna elettorale, diretto la Pravda, preso parte a una conferenza importante dello stato maggiore del partito all’estero, scritto quel significativo articolo sul problema delle nazionalità. Furono sei mesi importantissimi per la formazione della sua personalità. Per la prima volta aveva assunto delle responsabilità nella vita politica della capitale, aveva sentito il sapore della grande politica, era stato in stretto contatto con Lenin. Il sentimento di superiorità di questo « pratico » sdegnoso dei teorici doveva essere stato scosso dal contatto personale col grande esule. Certamente egli a questo punto si riesaminò con maggiore spirito cri tico e maggiore sobrietà; la sua ambizione si fece più guardinga. Se l’invidia aveva colorato e colorava la sua ambizione di provinciale, ora la cautela l’avrebbe almeno mimetizzata.
CAPITOLO SESTO
GUERRA E DEPORTAZIONE
olstoi un giorno per la strada vide un uomo accoccolato che
T
faceva degli strani gesti e lo prese per matto. Poi quando fu più vicino vide che l’uomo stava affilando un coltello su un sasso. Lenin citava volentieri questa storia. Le discussioni senza fine, le baruffe tra le due frazioni, poi i dissensi anche in seno alla stessa fra zione bolscevica, a un osservatore estraneo potevano parere un’agita zione di maniaci. Poi i fatti dovevano dimostrare che quei contrasti erano funzionali : si trattava di una lotta impegnata non già su qualche « distinguo » scolastico ma sui fondamenti della dottrina rivoluzionaria. Solo Lenin e i suoi seguaci, avendo precisato le loro idee e se gnato i contorni del loro territorio politico, furono pronti a utilizzare la ripresa del movimento rivoluzionario. Di qui la serie ininterrotta di successi che in breve doveva dare ai « pravdisti » il controllo del mo vimento proletario. Della vecchia generazione, i più avevano abban donato la lotta negli anni della reazione; i « liquidatori » osservavano con ironia : « Lenin non ha con sè che dei ragazzi ! » Ma proprio in questo Lenin vedeva un forte vantaggio per il suo partito. Come la guerra, la rivoluzione grava fatalmente con la quasi totalità del suo peso sulle spalle dei giovani. Disperata è la causa del partito socia lista che non riesce ad attirare la gioventù nelle sue file. La polizia imperiale che si misurava faccia a faccia coi partiti ri voluzionari, nei rapporti confidenzali non risparmiava le ammissioni lusinghiere nei riguardi dei bolscevichi. Scrive il direttore del dipar timento di polizia nel 1913 : « Da dieci anni a questa parte l’elemento più energico, il più animoso, il più tenace nella lotta, il meglio orga nizzato, è quello che gravita intorno a Lenin... Lenin è l’anima di tutte le iniziative importanti prese dal partito... La sua frazione è la meglio organizzata; è resa forte dall’unità dei propositi; nella propaganda
184
STALIN
tra gli operai è quella che dimostra maggiore ricchezza di idee... Negli ultimi due anni, da quando il movimento operaio ha cominciato a raf forzarsi, Lenin e i suoi uomini sono quelli che si tengono più a contatto con l’elemento operaio; e sono stati i primi a lanciare tra la massa degli ” slogans ” nettamente rivoluzionari... Oggi ci sono dei circoli, delle cellule, delle organizzazioni bolsceviche in tutte le città. Il co mitato centrale — che, quasi completamente riorganizzato, oggi è nelle mani di Lenin — mantiene una rete di corrispondenze e contatti per sonali continui con quasi tutti i centri industriali... Dato ciò, non è strano che oggi tutto il movimento clandestino si stia riorganizzando nei quadri bolsceviche sicché il partito bolscevico ormai è in pratica il solo vero partito operaio social-democratico... » La corrispondenza dello stato maggiore in esilio ora è piena di ot timismo. Scrive la Krupskaia a Shklovski al principio del 1913 : « I con tatti ora sono diversi da quello che erano. Si sente di avere a che fare con gente che ha le tue idee... La causa del bolscevismo fiorisce oggi meglio che mai. » I « liquidatori » che vantavano il loro realismo e definivano Lenin come il capo di una setta degenerata, da un momento all’altro si scoprono isolati al margine della realtà politica. Da Cracovia Lenin segue instancabilmente tutto quello che avviene nel movimento operaio, registra e classifica tutti i fatti che gli dicono qualcosa sullo stato d’animo della massa. Da conteggi precisi fatti in base al pro dotto di sottoscrizioni per sovvenzionare la stampa operaia, risulta che dei lettori del ceto operaio a Pietroburgo l’ottantasei per cento è fedele alla Pravda e il quattordici per cento segue la stampa dei « li quidatori ». Press’a poco lo stesso rapporto si riscontra a Mosca. Nelle province più arretrate la stampa dei «liquidatori» ha più fortuna; ma nell’insieme i quattro quinti degli operai evoluti leggono la Pravda. Che senso avevano gli appelli all’unità fra le frazioni e le tendenze, se nel corso di tre anni con la politica opposta — quella della disso ciazione netta dalle altre frazioni e correnti — Lenin aveva raccolto intorno al bolscevismo una così forte maggioranza del proletariato? Nelle elezioni per la quarta Duma, quando non si trattava di social democratici o non social-democratici ma dei voti dell’elettorato in genere, nei collegi operai il 67% aveva votato per i bolsceviche Poi al mo mento del conflitto fra le due frazioni social-democratiche alla Duma, i deputati bolscevichi a Pietroburgo avevano raccolto cinquemila voti e i menscevichi appena seicentoventuno : nella capitale i « liquida tori » erano schiacciati. In seno ai sindacati il rapporto di forze era lo stesso : dei tredici sindacati di Mosca non ce n’era uno favorevole ai menscevichi; dei venti di Pietroburgo, ne avevano quattro, ed erano
GUERRA E DEPORTAZIONE
185
i quattro meno importanti. All’inizio del 1914 nell’elezione dei rap presentanti degli operai nelle casse infortuni e malattie, avrebbero vinto in pieno i candidati della Frauda. Tutte le tendenze diverse da quella bolscevica — i « liquidatori », gli « otzovisti », le varie sottospe cie di « conciliatori » — si stavano rivelando incapaci di far presa sulla classe operaia. Lenin ne trasse le sue conclusioni : « In Russia un vero partito social-democratico può svilupparsi solo in opposizione a tutti questi gruppi. » Nella primavera del 1914 Emile Vandervelde, presidente della Se conda Intemazionale, visitò Pietroburgo per rendersi conto sul posto della lotta tra frazioni nel movimento operaio. Questo scettico oppor tunista valutò i dissensi tra i « barbari » russi col metro del parlamen tarismo belga. E al ritorno riferì : « I menscevichi intendono organiz zarsi legalmente e reclamano il diritto di coalizione. I bolscevichi vo gliono l’immediata proclamazione della repubblica e la espropriazione delle terre. » Aggiunse che questa divergenza era « piuttosto puerile ». Lenin poteva solo sorridere di queste parole. Di lì a poco i fatti dove vano mettere a una prova chiara gli uomini c le idee. Il disaccordo « puerile » tra marxisti e opportunisti si sarebbe esteso gradualmente all’intero movimento mondiale del lavoro. Lenin scriveva a Gorki al principio del 1913 : « Una guerra tra Austria e Russia sarebbe cosa preziosa per la rivoluzione (in tutta l’Eu ropa orientale); ma è quasi impossibile che Francesco Giuseppe e Ni cola ci facciano questo favore. » Invece glielo fecero, sia pure un anno e mezzo dopo. Frattanto la prosperità industriale aveva passato lo zenith. Si co minciavano a sentire le prime scosse sotterranee della crisi. Esse non fermarono l’ondata di scioperi; diedero anzi agli scioperi un carattere più violento. Sei mesi prima che scoppiasse la guerra, erano in scio pero quasi un milione e mezzo di lavoratori. E l’ultima esplosione violenta avvenne alla vigilia della mobilitazione generale. Il 3 luglio 1914 a Pietroburgo la polizia sparò contro un gruppo di operai. In obbedienza all’appello di un comitato bolscevico le maestranze delle fabbriche più importanti scioperarono; gli scioperanti erano circa due centomila. Ci furono dappertutto comizi e sfilate di protesta. Si tenta rono di costruire delle barricate. Nel pieno di questi disordini, a Pietro burgo trasformata in un accampamento militare giunse — per i nego ziati conclusivi con l’imperatore — il presidente della Repubblica fran cese Poincaré, che così ebbe il modo di gettare almeno un’occhiata sul laboratorio dove si preparava la rivoluzione russa. Alcuni giorni dopo il governo, approfittando della dichiarazione di guerra, sciolse le orga
186
STALIN
nizzazioni e abolì i giornali del movimento proletario. Prima vittima fu la Pravda. Soffocare la rivoluzione mediante la guerra era stata la brillante trovata del governo zarista. Attribuire a Stalin la paternità della teoria del « disfattismo » o della formula della « trasformazione della guerra imperialista in guer ra civile », come fanno alcuni biografi, è lavorare di fantasia; e denota una incomprensione totale della figura di Stalin. Era l’uomo meno capace di creare nuove formule tanto teoriche che programmatiche. Uomo empirico per eccellenza, aveva una gran paura dei giudizi a priori : preferiva misurare la stoffa dieci volte prima di tagliarla. Era un rivoluzionario di fuori e un burocrate conservatore di dentro. La Seconda Internazionale era un congegno politico poderoso con cui Stalin non avrebbe mai osato rompere di sua iniziativa; e l’elabora zione della dottrina bolscevica della guerra è opera di Lenin, Stalin non vi contribuì con una virgola come non contribuì con una virgola alla formulazione della dottrina rivoluzionaria. Era capace di ripetere le formule altrui; e se vogliamo capire il comportamento di Stalin negli anni di deportazione e specie nelle settimane critiche che seguirono la rivoluzione di Febbraio, e anche per capire la sua finale rottura con tutti i principi del bolscevismo, dobbiamo ricostruire brevemente il si stema che Lenin aveva già elaborato all’inizio della guerra e a cui a poco a poco egli convertì il partito. La prima domanda che si poneva allo scoppio della guerra, era se i socialisti dovevano abbracciare « la causa della patria ». Il pro blema non riguardava individualmente il socialista, il quale non aveva la scelta tra fare e non fare il soldato; disertare non è nella linea poli tica rivoluzionaria. Il problema era : un partito socialista deve accet tare politicamente la guerra? Deve cioè votare il bilancio militare, so spendere la sua lotta contro il governo, far propaganda per la difesa della patria? Lenin rispondeva: «No, non deve, non ha il diritto di farlo; e ciò non perchè è guerra ma perchè è una guerra reazionaria, una rissa sanguinosa in cui gli schiavisti gettano i loro schiavi, per ripar tirsi il bottino del mondo. » La formazione degli Stati nazionali in Europa fu un processo che si iniziò all’incirca con la Rivoluzione francese e terminò con la prima pace di Versailles, quella del 1871. A loro tempo le guerre per costruire o per tutelare gli Stati nazionali, condizione necessaria allo sviluppo di forze produttive e al progresso culturale, ebbero una funzione sto rica positiva. I rivoluzionari allora non solo potevano ma dovevano appoggiare anche sul piano politico queste guerre nazionali. Ma, fio rito sulla base degli Stati nazionali, tra il 1871 e il 1914 il capitalismo
GUERRA E DEPORTAZIONE
187
europeo decadde verso la forma monopolistica e imperialistica. « L’im perialismo, » scrive Lenin, « è la forma a cui giunge il capitalismo quando, esaurito il suo compito, si avvia al declino. » A causare il suo declino infatti è l’angustia in cui le forze produttive si trovano ristrette dai limiti della proprietà privata e da quelli dello Stato nazionale. In cerca di una via di uscita, il capitalismo si orienterà al tentativo di dividersi e ridividersi il mondo. Diventa imperialismo. Alle guerre nazionali succedono così le guerre imperialistiche : assolutamente rea zionarie nel loro carattere, perchè rappresentano il ristagno del capi talismo. L’imperialismo può vivere solo perchè ci sono sulla terra delle nazioni arretrate, in uno stato coloniale o semi-coloniale. La lotta di queste nazioni per l’unità e l’indipendenza è doppiamente progres siva: in quanto da un lato essa mira al progresso di tali nazioni e d’altro lato è destinata a sopraffare l’imperialismo. Ne esce, in parti colare, questa conclusione: che nella guerra tra una civile repubblica democratica imperialista e l’incolta monarchia di un paese coloniale i socialisti devono essere dalla parte del paese oppresso anche se è retto a monarchia e il paese oppressore è democratico. L’imperialismo nasconde i suoi scopi rapaci — la mira a crearsi delle colonie o dominare dei mercati o impadronirsi di fonti di materie prime, o assicurarsi delle sfere di influenza — sotto dei cartelli che parlano ad esempio di « difendere la pace contro gli aggressori », « salvare la patria », « proteggere la democrazia ». Sono idee false da cima a fondo. « Che sia stato un gruppo o l’altro a sferrare l’at tacco militare o a dichiarare formalmente la guerra, » scriveva Lenin nel marzo 1915, « non ha nessun peso nel determinare la tattica dei socialisti. Certe belle parole come ” difesa della patria ”, ” resistenza all’invasore ”, ” guerra difensiva ”, sono pura mistificazione... » Il pro letariato deve guardare solo all’obbiettivo significato storico della guer ra: da che classe è voluta e a che scopo? Gli imperialisti hanno un bell’invocare l’interesse della democrazia e della cultura. « La borghesia tedesca... prende in giro il proletariato affermando che la Germania si batte per emancipare i popoli oppressi dallo zarismo... La borghesia inglese e francese... prende in giro il proletariato affermando che la guerra ha lo scopo di abbattere il mili tarismo e il dispotismo germanico. » La forma di uno Stato non muta la base economica reazionaria dell’imperialismo: ed è questa che deter mina il carattere di una guerra. « Oggi è diventato ridicolo anche il solo pensiero di una borghesia progressiva, di un movimento progres sivo borghese. La vecchia ” democrazia ” borghese è diventata reazio
188
STALIN
naria... » Questa concezione della « democrazia » imperialista è la pietra angolare dell’intera visione leniniana. Nè dall’una nè dall’altra parte la guerra è fatta per difendere la patria o la democrazia o la civiltà, è fatta per assoggettare altri paesi, per stabilire dei domini coloniali; e un socialista non può preferire un campo imperialista all’altro. Sarebbe futile la pretesa di « decidere, dal punto di vista del proletariato mondiale, che la disfatta di una delle due coalizioni in lotta sarebbe il minor male. » Sacrificare per questo « minor male » l’indipendenza politica del proletariato sarebbe tra dire il futuro dell’umanità. Mirare all’ « unità nazionale » in tempo di guerra più che in tempo di pace vuol dire accettare la reazione, cooperare all’eternarsi della barbarie imperialista. È un dovere elementare di ogni socialista rifiutare questo appoggio. Però questo non è ancora che un aspetto negativo, passivo dell’internazionalismo. Non può bastare. Il compito del partito proletario è di « condurre una campagna di propaganda rivoluzionaria estesa all’esercito fin sul campo delle operazioni mili tari : predicare che i cannoni non vanno puntati contro i compagni di schiavitù di altri paesi ma contro il governo e contro i partiti reazionari del nostro come degli altri paesi ». Ma la lotta rivoluzionaria in tempo di guerra non può causare al paese la perdita della guerra? Certo. Questa conclusione non spaven tava affatto Lenin : « La lotta contro il governo del paese, governo che conduce una guerra imperialistica, non si arresterà davanti alla prospettiva della disfatta causata dall’agitazione rivoluzionaria. » Qui è l’essenza della cosiddetta teoria del «disfattismo». Avversari senza scrupoli cercarono di interpretarla nel senso che Lenin ammetteva la collaborazione con gli imperialisti stranieri per piegare la reazione nel proprio paese. La verità è questa: per lui si trattava unicamente della lotta comune del proletariato di tutto il mondo condotta anche me diante la lotta del proletariato di ogni singolo paese contro l’imperia lismo del suo paese, cioè contro il nemico principale e il nemico più attuale del proletariato. Lenin scriveva a Shliapnikov nell’ottobre 1914: « Dal punto di vista della classe lavoratrice russa, per noi russi non sussiste il minimo dubbio che il minore dei mali sarebbe, oggi come oggi, la disfatta militare dello zarismo. » Non si lotta contro la guerra degli imperialisti sospirando per no stalgia della pace. « Il pacifismo, l’astratta invocazione della pace, è una delle tante turlupinature tentate a spese del proletariato. Sotto il capitalismo, soprattutto nella sua fase imperialistica, le guerre sono inevitabili. » La pace conclusa dai governi imperialisti non è che una
GUERRA E DEPORTAZIONE
189
tregua tra due guerre. Solo la lotta rivoluzionaria delle masse contro la guerra e contro l’imperialismo che ne è l’autore, può far trionfare la vera pace. « Prima che sia avvenuta una serie di rivoluzioni, la pretesa pace democratica resterà un’utopia ipocrita. » Questa lotta contro l’inganno pacifista è tra gli elementi principali della dottrina di Lenin. Lenin respinge con un disprezzo tutto parti colare l’idea del « disarmo », idea utopistica sotto il capitalismo, adatta solo a distrarre i lavoratori dalla necessità di armarsi per la loro lotta. « Una classe oppressa che non voglia imparare l’uso delle armi e non pensi a procurarsele merita di restare schiava... La nostra parola d’or dine dev’essere : armare il proletariato per battere, disarmare ed espro priare la borghesia... Solo quando avrà disarmato la borghesia, il pro letariato potrà buttare le sue armi tra i rifiuti... » Lenin respinge l’aspirazione pura e semplice alla pace; per lui si tratta di « trasfor mare la guerra imperialistica in guerra civile ». La maggior parte dei capi dei partiti operai durante la guerra finirono per schierarsi a fianco della borghesia. Lenin li chiamava so cial-sciovinisti, cioè gente che era socialista a parole e nazionalista di fatto. Questo tradimento della causa internazionalistica non cadeva dal cielo, era la conseguenza inevitabile della politica di adattamento allo Stato capitalista fatta dai riformisti. « L’opportunismo e il so cial-sciovinismo hanno un contenuto identico : promuovono la col laborazione tra le classi anziché la lotta di classe, rinunciano alla tecnica della rivoluzione, portano aiuto al governo in difficoltà anziché appro fittare delle sue difficoltà per promuovere la rivoluzione. » L’ultimo tratto del periodo di prosperità capitalistica alla vigilia della guerra (il tratto 1909-1913) aveva creato dei legami particolar mente saldi fra lo strato superiore del proletariato e gli imperialisti. Dei lauti bocconi della ricchezza conquistata dalla borghesia nelle co lonie o in paesi in stato simile a quello coloniale, cadevano anche in bocca all’« élite » del lavoro e alla sua burocrazia. Il patriottismo professato da costoro derivava in realtà dall’interesse che essi avevano nella politica dell’imperialismo. La guerra rivela con chiarezza i veri rapporti sociali, e durante la guerra « gli opportunisti e gli sciovinisti hanno attinto la loro notevole forza dall’unione con la borghesia, coi governi borghesi, con gli stati maggiori ». Dunque gli opportunisti erano passati definitivamente nel campo dei nemici del proletariato. Il cosiddetto « centro » (rappresentato da Kauzki e da alcuni altri) che in tempo di pace aveva tentennato fra riformismo e marxismo (era la tendenza di mezzo, forse la più diffusa tra le tendenze so cialiste) in guerra diventò quasi interamente la preda dei social-scio
190
STALIN
vinisti. Comprensibilmente le masse furono tratte in inganno senza difficoltà dai capi di quelle organizzazioni che esse stesse avevano create nei decenni. Lenin dopo aver dato la sua valutazione sociologico-politica della burocrazia operaia della Seconda Internazionale non si fermò a mezza strada. « L’unione con gli opportunisti, » disse, « significa unione del proletariato con la borghesia del suo paese, e quindi significa il suo distacco dalla classe operaia del resto del mondo. » Si dovevano rompere tutti i legami coi social-sciovinisti. « Come può il socialismo far fronte ai suoi compiti attuali, come si può procedere verso la coalizione degli operai di tutto il mondo, senza rompere i rap porti con l’opportunismo? » E come con l’opportunismo si doveva rompere col centrismo, « tendenza borghese annidata nel socialismo » ? Lo stesso nome del partito andava mutato. « Ci conviene abbandonare il nome appestato e svergognato di ” social-democratici ”, e tornare al vecchio nome marxistico : chiamarci ” comunisti Ed è tempo di rompere i legami con la Seconda Internazionale e di costruire noi stessi la Terza Internazionale. » Ecco a che punto erano giunti quegli screzi fra correnti di uno stesso partito, che ad Emile Vandervelde due o tre mesi prima della guerra apparivano ancora « puerili ». Quanto a Vandervelde, il pre sidente della Seconda Internazionale, nel frattempo era mutato anche lui : era diventato un patriota, ministro del re del Belgio. Di tutti i partiti e gruppi che componevano la Seconda Interna zionale il partito bolscevico era il più rivoluzionario, anzi era il solo rivoluzionario. Pure, nemmeno il partito bolscevico riunì subito a in dividuare la sua strada nel labirinto della guerra. Nell’insieme si può dire che regnava più confusione tra i dirigenti del partito che fra i gregari : i dirigenti erano più a contatto con l’opinione borghese. La frazione bolscevica alla Duma fece una sterzata a destra associandosi ai menscevichi in una dichiarazione equivoca. È vero che nel docu mento letto alla Duma il 26 luglio veniva condannato « il falso patriot tismo sotto il cui riparo le classi dominanti continuano nella loro po litica di soprusi » ; ma vi si prometteva che il proletariato « avrebbe difeso il patrimonio culturale del popolo contro ogni insidia, sia dall’esterno sia dall’interno ». Con la scusa della « difesa del patri monio culturale » la frazione passava dalla parte dei « falsi patrioti ». Le dichiarazioni di Lenin sui bolschevichi e la guerra furono note a Pietroburgo solo al principio di settembre. L’accoglienza che ebbero dal partito non fu affatto favorevole su larga scala. Soprattutto si criticava quel suo invito al « disfattismo » che, come disse Shliapnikov,
GUERRA E DEPORTAZIONE
191
creava «molta perplessità ». La frazione della Duma condotta da Kamenev cercò di smussare gli angoli troppo vivi delle formule le niniane. Lo stesso avvenne a Mosca e in provincia. Dice un rapporto dell’Ochrana di Mosca : « La guerra ha colto impreparati i leninisti... Per un certo tempo essi sono stati incapaci di accordarsi sull’atteg giamento da prendere... » Difatti in una lettera scritta in linguaggio convenzionale e che raggiunse Lenin via Stoccolma, i bolscevichi di Mo sca gli dicevano: « Con tutto il rispetto che avevano per lui, il suo invito a ” vendere la casa ” (cioè la tesi disfattista) non li aveva con vinti. » A Saratov, secondo il maggiore esponente bolscevico locale, Antonov, « i militanti bolscevichi, menscevichi e social-rivoluzionari non solo rifiutavano la tesi disfattista ma, con pochissime eccezioni, si dichiaravano per la partecipazione alla difesa ». La situazione era un po’ più favorevole a Lenin negli ambienti operai di avanguardia. Nelle fabbriche di Pietroburgo erano apparse delle iscrizioni che dicevano: « Se la Russia vince la guerra saremo oppressi peggio di prima. » « A Ivanovo-Voznesensk, » scrive Samoilov, « i nostri compagni gui dati dall’infallibile istinto di classe hanno scelto subito la via giusta, e l’hanno imboccata fin dall’inizio della guerra. » Ma solo alcuni individui, poche decine in tutto, poterono formu lare le loro opinioni. Le organizzazioni operaie vennero distrutte dal gran numero di arresti. L’abolizione della stampa social-democratica aveva isolato i lavoratori. Questo rendeva molto più importante di prima la frazione della Duma; e i deputati bolscevichi riavutisi dal disorientamento iniziale avevano cominciato a svolgere una notevole attività clandestina. Senonchè il 4 novembre vennero arrestati tutti. I principali elementi a loro carico consistevano in documenti dello stato maggiore bolscevico in esilio; in base ad essi i deputati venivano accusati di tradimento. In corso di istruttoria Kamenev e tutti gli altri deputati salvo uno, Muranov, ripudiarono le tesi di Lenin. Nel processo che si aprì il 10 febbraio, mantennero l’atteggiamento as sunto in istruttoria. Non si creda che la dichiarazione di Kamenev — che i documenti su cui si basava l’accusa a suo carico esprimevano delle vedute in contraddizione con le sue sulla guerra in corso — fosse dettata dalla preoccupazione di salvarsi dalla condanna: essa esprimeva l’effettivo atteggiamento dei dirigenti del partito contro il disfattismo di Lenin. Con grande indignazione di Lenin, la tattica di fensiva degli imputati tolse al processo l’efficacia propagandistica che poteva avere. Ma Kamenev, un uomo politico intelligente e positivo, non era fatto per le situazioni di emergenza. Gli avvocati difensori fecero quello che poterono. Contestando l’accusa di tradimento uno
192
STALIN
di loro, Pereverzev, profetizzò che la fedeltà dei deputati operai alla loro classe sarebbe rimasta nella memoria delle generazioni, mentre i loro punti deboli, la loro impreparazione teorica, la loro soggezione ai teorici del partito che li manovravano, sarebbero caduti — insieme all’iniqua accusa di tradimento — come l’involucro vuoto di una cicala dopo la muta. Per uno di quei tiri sadici che la Storia non è mai stanca di giocarci, doveva toccare proprio a Pereverzev — in qua lità di ministro della Giustizia nel governo di Kerenski — accusare di alto tradimento e spionaggio tutti i capi bolscevichi, basando l’ac cusa su una serie di falsi a cui neanche un pubblico accusatore za rista sarebbe mai ricorso. A superare in perfidia il ministro demo cratico della Giustizia sarebbe riuscito più tardi solo Viscinski, il pubblico accusatore di Stalin. Malgrado il comportamento evasivo degli imputati il fatto stesso del processo celebrato contro i deputati dei lavoratori portò un colpo mortale al mito della « concordia civile » ; tutti gli operai che si erano istruiti alla scuola rivoluzionaria ne furono riscossi. Lenin scri veva nel marzo 1915: «Quarantamila operai comperavano la Pravda (prima che venisse abolita d’autorità), e molti di più la leggevano... Forse che i suoi lettori sono scomparsi? Ciò che la Pravda ha inse gnato vive nei cuori... L’idea dell’Internazionale dei lavoratori, degli sfruttati, degli oppressi, sopravvive... » Il processo di risveglio co minciò dunque presto; ma avanzò lentamente e solo tardi si rivelò con segni esterni. Gli operai soggetti all’obbligo militare avevano mani e piedi legati. In fabbrica la minima infrazione alla disciplina signifi cava l’invio al fronte con una nota speciale della polizia che era in pratica una condanna a morte. Severa dappertutto, la sorveglianza era severissima a Pietroburgo. Intanto venivano una dopo l’altra le disfatte dell’esercito zarista. Il mito patriottico e l’ipnosi della paura collettiva si dileguavano gra dualmente. Già nella seconda metà del 1915 scoppiò qua e là qualche sciopero causato specialmente dal caroviveri nella regione moscovita delle industrie tessili; ma per allora non ne vennero sviluppi impor tanti. Il popolo era insoddisfatto ma rimaneva inerte. Poi nel maggio 1916 in alcune guarnigioni di provincia vi furono dei disordini tra le reclute. La carestia provocò delle sommosse che dal sud dilagarono rapidamente fino a Kronstadt, la grande fortezza che proteggeva Pie troburgo dalla parte del mare. Alla fine di dicembre fu la volta della capitale. Scoppiò uno sciopero politico che coinvolse fino a duecentomila operai; e vi fu un’indubbia partecipazione delle organizzazioni bolsceviche. Ormai il ghiaccio era rotto. Nel febbraio del 1917 comin
GUERRA E DEPORTAZIONE
193
ciò una nuova serie di scioperi e di sommosse violente, che presto sfociarono nella piena insurrezione. Questa fu coronata dall’adesione della guarnigione militare.
Così, un giorno nel suo lontano esilio Stalin apprese che gli insorti avevano vinto e lo zar aveva abdicato. La regione di Turuchansk nella parte nord del territorio di Jeniseisk, nel cuore della Siberia, su una superficie di circa 77.000 chilo metri quadrati aveva una popolazione di circa diecimila anime tra russi e gente di altre razze. I villaggi, o meglio semplici gruppi di due, tre, fino a dieci case e raramente più di dieci, distavano tra loro centinaia di chilometri. Qui l’inverno dura otto mesi, e non esiste agricoltura; abbondano il pesce e la selvaggina e la gente ne vive. Stalin arrivò in questa regione inospitale sulla metà del 1913. Si incontrò con Sverdlov che era lì da prima. Poco dopo, Alliluiev ricevette una lettera di Stalin che lo pregava di sollecitare il deputato Badaiev a mandargli il denaro spedito per lui da Lenin da Cracovia. « Nella lettera, » dice Alliluiev, « egli spiegava che quel denaro gli urgeva per provvedersi delle scorte alimentari, di petrolio e di altre cose indispensabili prima che giungesse la tremenda stagione fredda. » Il 25 agosto il dipartimento di Polizia avvisò la gendarmeria di Jeniseisk del rischio di un tentativo di fuga da parte dei due confinati Sverdlov e Zhugashvili. Il 18 dicembre il dipartimento telegrafò raccomandando che il governatore di Jeni seisk prendesse le misure per prevenire tale fuga. In gennaio, sempre per telegrafo il dipartimento informò la gendarmeria di Jeniseisk che Sverdlov e Zhugashvili i quali avevano già ricevuto cento rubli stavano per riceverne altri cinquanta che dovevano servire per la loro fuga. In marzo alcuni agenti dell’Ochrana pretesero che Sverdlov fosse stato visto a Mosca; e il governatore di Jeniseisk si affrettò ad assicurare che tutt’e due i deportati « erano presenti nel loro luogo di confino, e si erano prese le misure adatte a impedirne la fuga ». Stalin aveva un bello scrivere ad Alliluiev che i soldi Lenin glieli mandava perchè si procurasse il petrolio ed altre cose di prima necessità : il dipartimento sapeva che stava progettando la fuga, e lo sapeva da ottima fonte: da Malinovski. « Nel febbraio 1914 Sverdlov scrisse a sua sorella: « Josif Zhugashvili ed io siamo stati trasferiti a cento verste (circa cento chilometri) dal sito di prima; ora siamo ottanta verste più a nord del circolo polare. La sorveglianza è diventata più rigida... La posta ci viene mandata in teoria una volta al mese a mezzo di un corriere che spesso ritarda : non abbiamo più di otto o nove distribuzioni di posta all’anno... » Il loro
194
STALIN
nuovo posto di confino era il villaggio sperduto di Kureika. Aggiun geva Sverdlov : « Per aver ricevuto del danaro Zhugashvili è stato privato del mensile per quattro mesi. Abbiamo un gran bisogno di da naro, tutt’e due; ma è impossibile mandarlo ai nostri nomi. » Sospen dendo il mensile a un confinato la polizia diminuiva il rischio di eva sione, e aiutava il bilancio imperiale. Nella prima lettera da Kureika Sverdlov descriveva chiaramente la sua vita con Stalin. « Sono sistemato molto peggio di prima. Intanto non ho più una stanza mia, ora siamo in due : con me c’è il georgiano Zhugashvili, una vecchia conoscenza (ci siamo incontrati in un altro luogo di deportazione). È un bravo ragazzo ma un po’ troppo indivi dualista nel modo in cui vive, mentre io amo almeno una parvenza d’ordine. Qualche volta me ne irrito. Ma questo non ha importanza; quello che ha importanza, è che non possiamo isolarci dalla famiglia presso cui abitiamo. Stanno in una stanza contigua alla nostra e che non ha un ingresso separato. Hanno dei bambini, e questi natural mente passano ore da noi e alle volte diventano noiosi. Poi, vengono a visitarci gli adulti del villaggio. Entrano, siedono, restano zitti per mezz’ora poi si alzano di scatto c dicono: ” Beh, devo andare, buona sera. ” Partito uno ne viene un altro e siamo daccapo. Neanche a farlo apposta vengono la sera, nelle ore migliori per studiare. È naturale, di giorno lavorano. Abbiamo finito per modificare anche noi il nostro orario. Poi, abbiamo dovuto rinunciare a leggere fin dopo mezzanotte perchè ci manca il petrolio, bisogna ingegnarsi con le candele. Siccome non fanno abbastanza luce per i miei occhi, ora studio di giorno. Ma veramente non studio molto, siamo quasi senza libri... » Queste erano, nel 1914, le condizioni del futuro presidente della Repubblica Sovietica e del futuro dittatore dell’anione Sovietica. Il tratto più interessante nella lettera è il modo riservato in cui parla di Stalin: « bravo ragazzo ma un po’ troppo individualista nel modo in cui vive ». Cioè uno che vivendo insieme ad un’altra persona non ha riguardo per la comodità e la pace dell’altro. Siccome Sverdlov rammenta a questo proposito il suo bisogno di avere « almeno una parvenza d’ordine », vuol dire che con Stalin non era possibile neanche quella. Sverdlov per natura era riguardosissimo del prossimo. Samoilov lo definisce « delicatissimo con tutti ». Stalin non era delicato con nessuno. Nel rendersi molesto a Sverdlov poi ci poteva essere una sfumatura di dispetto particolare. Non dimentichiamolo, Sverdlov era stato mandato da Lenin a Pietroburgo, contemporaneamente alla chia mata tattica di Stalin a Cracovia, con la missione precisa di liquidare la compagine redazionale della Frauda su cui Stalin si era appoggiato
GUERRA E DEPORTAZIONE
195
nella lotta contro Lenin. Stalin non perdonava mai cose del genere. Certo è che nel 1924 si annunciò la pubblicazione dell’intera corrispon denza di Sverdlov dall’esilio di Turuchansk e di Kureika, ma questa pubblicazione non è mai avvenuta. La Schweitzer, moglie di Spandarian (il terzo membro del comitato centrale il quale giunse a Kureika alla vigilia della guerra dopo che Sverdlov si era fatto trasferire altrove), dice che nella stanza di Stalin « il tavolo era ingombro di libri e grosse pile di giornali ; appesi a una corda in un angolo, c’erano una quantità di arnesi da pesca e da caccia che Stalin si era fabbricati da sè ». Evidentemente la lagnanza di Sverdlov sulla scarsità di libri aveva ottenuto un risultato pratico : gli amici avevano arricchito la biblioteca di Kureika. Gli arnesi che Stalin « si era fabbricati da sè » non potevano essere, naturalmente, arnesi da fuoco o munizioni : saranno state reti da pesca e trappole per conigli o per altra cacciagione. Stalin è più uomo da collocare trappole di notte che da sparare alla luce del giorno. Il social-rivoluzionario Karganov, futuro artista lirico, il quale nelle sue Memorie colloca un incontro con Stalin a Turuchansk nel 1911 — ma doveva essere il 1913 — racconta che una volta Stalin prese coi suoi compagni le difese di un deportato per reati comuni, un tale soprannominato Ciaika, in base a questa considerazione : che non conveniva condannarlo, era molto meglio attirarlo alla loro causa : gente come Ciaika era indispensabile nella futura lotta rivoluzionaria. Abbiamo già sentito da Vereshciak, a proposito di un’altra prigionia di Koba, qualcosa sulla sua parzialità per i criminali di diritto comune. In un altro episodio narrato da Karganov, Stalin si rivela per l’anti semita che è sempre stato, uscendo in una serie di grossolane invettive contro gli ebrei. È sempre Karganov a raccontare che Stalin violando una regola gelosamente osservata dai deportati politici aveva stretto relazioni amichevoli con un poliziotto, l’ossetino Kibirov. Ai compagni che glielo rimproveravano Stalin rispose che quelle relazioni amichevoli non gli avrebbero impedito di ammazzare quell’agente come nemico politico, se era necessario. In genere, dice Karganov che Stalin « scan dalizzava gli altri esuli con la sua assenza di principi, la sua perfidia, una crudeltà eccezionale, una vanità prepotente che si manifestava anche nelle minime inezie ». Dove, nei racconti e nei giudizi di Kar ganov, finisca la verità e cominci la fantasia è diffìcile dirlo; ma nel complesso ciò che dice Karganov coincide con le osservazioni fatte da Vereshciak nella prigione di Baku. Per il servizio postale e gli altri contatti col mondo Kureika dipen deva da un altro villaggio, Monastyrskoie, che era collegato con Jeni-
196
STALIN
seisk e, attraverso Jeniseisk, con Krasnodarsk. L’ex-deportato Gaven (che in seguito doveva entrare nel numero degli « scomparsi » del re gime staliniano) racconta che la comunità degli esuli nella regione di Jeniseisk era al corrente della vita politica in Russia, tanto legale che clandestina. Si mantenevano in corrispondenza con altri luoghi di de portazione come Krasnodarsk che a sua volta era in contatto coi comi tati bolscevichi di Pietroburgo e di Mosca, e procurava ai deportati dei documenti irregolari. Persino oltre il circolo polare artico gli esuli si mantenevano in collegamento col partito, erano divisi tra aderenti alle varie frazioni, discutevano fino a perder la voce e talvolta fino a odiarsi. Ma una completa scissione tra i social-democratici in esilio non avvenne prima della metà del 1914 quando giunse nella regione il terzo membro del comitato centrale, l'energico Spandarian. Stalin si teneva in disparte. Racconta Sciumiazki, il futuro capo della cinematografia sovietica : « Si era rinchiuso in sè stesso. Cacciava e andava a pesca ed era quasi sempre solo... Non sentiva il bisogno di contatti con la gente. Solo di rado andava a trovare il suo amico Suren Spandarian a Monastyrskoie per tornare a rinchiudersi di lì a qualche giorno nella sua caverna di anacoreta. Se partecipava a una riunione di deportati, faceva rare osservazioni sulle questioni discusse. » Queste righe, che Sciumiazki raddolcì in una seconda edizione (persino trasformò la « caverna » in « laboratorio »!), hanno l’aria di voler dire che Stalin si era staccato dalla gran parte dei deportati. Non fa mera viglia che le sue relazioni con Sverdlov si fossero rotte. Nella vita mo notona dell’esilio, anche persone più socievoli di lui evitavano difficil mente le liti e le tensioni personali. « L’atmosfera morale, » scrive di scretamente Sverdlov in una delle sue poche lettere che sono riuscite a vedere la luce, « non è tanto consolante... Un certo numero di at triti personali, quali possono formarsi solo in una vita di esilio... scuo tono i miei nervi. » Fu a causa di simili « attriti » che Sverdlov do mandò e ottenne di essere trasferito in un altro villaggio. Poi altri due bolscevichi, Goloshcekin e Medverev, disturbati da Stalin lasciarono Kureika. (L’uno e l’altro sono tra gli « scomparsi » del periodo sta liniano). I biografi di Stalin esagerano quando dicono che una fuga da quel luogo di deportazione era materialmente impossibile. Certo doveva presentare delle difficoltà. Le fughe precedenti di Stalin erano state fughe per modo di dire; erano, piuttosto, delle partenze illegali. Una volta decisi a mettersi fuori bando con la legge, andarsene da Solvycegodsk o da Vologda o anche da Narym non costava fatica. Per un confinato nel territorio di Turuchansk la faccenda cambiava. Bisognava
GUERRA E DEPORTAZIONE
197
fare un lungo viaggio in slitta trainata da renne o da cani, oppure in canotto d’estate; oppure partire nascosti nella stiva di un vaporetto se il capitano era un amico politico dei deportati. G’erano difficoltà e rischi ma non insormontabili, tant’è vero che in quegli anni fuggirono di lag giù in parecchi. È anche vero che il dipartimento di Polizia appena fiutato un progetto di fuga aveva fatto porre Sverdlov e Stalin sotto una speciale vigilanza. Ma i gendarmi di quelle zone polari, gente pigra e con un debole notorio per l’alcool, non avevano impedito la fuga di altri che erano pure « particolarmente » sorvegliati. C’era per i confinati una larga libertà di movimento. Scrive la Schweitzer: « Sta lin veniva spesso a Monastyrskoie dove gli esuli si radunavano. » Sciumiazki, come sappiamo già, ricorda che Stalin « andava a trovare il suo amico Suren Spandarian a Monastyrskoie per tornare... di lì a qual che giorno ». Nel primo anno di relegazione Stalin a quanto sembra si rendeva conto delle possibilità di fuga e fece sia pure senza fretta delle mosse preparatorie, da uomo cauto. Ma nel luglio 1914 scoppiò la guerra. Alle difficoltà della fuga ora si aggiungevano i pericoli della vita alla macchia in tempo di guerra. Fu questa complicazione aggiunta che lo distolse dal tentare la fuga. « Stalin, » scrive la Schweitzer, « de cise di rimanere in esilio. Si era rimesso a lavorare sulla questione della nazionalità; e in esilio potè terminare anche la seconda parte del libro. » Anche Sciumiazki parla del lavoro di Stalin sul problema delle nazio nalità. Ora Stalin nei primi mesi dell’esilio scrisse un nuovo ar ticolo su quel tema ; lo sappiamo da Alliluiev : « Nello stesso anno (1913) al principio dell’inverno ricevetti una seconda lettera di Stalin... Vi era accluso un articolo sulla questione delle nazionalità, che mi pregava di mandare a Lenin all’estero. » Un lavoro poco voluminoso se poteva essere accluso a una lettera. Non si sa cosa successe di quell’ar ticolo. Per tutto il 1913 Lenin continuò a sviluppare e mettere a punto il suo programma relativo alle nazionalità; non potè non buttarsi con curiosità impaziente nella lettura dell’articolo quando lo ricevette. Se su di esso scese il silenzio, ciò vuol dire una cosa sola: che Lenin lo trovò impubblicabile. Evidentemente il tentativo di proseguire da solo su una strada dove aveva fatto una prima tappa scrivendo con Lenin che gli reggeva la penna, riuscì male a Stalin. Che Lenin non giudi casse l’articolo nemmeno degno di venir pubblicato dopo una sua revi sione, dovette offendere il permaloso Stalin; e fu probabilmente que sta ripicca che lo fece desistere dal tentativo di pubblicare dell’altro nella stampa bolscevica nei tre anni e mezzo che passò ancora in esilio. Ai deportati come ai carcerati i grandi avvenimenti di cui ricevono notizia da fuori sembrano inverosimili, irreali. Scrive Sciumiazki : « Le
198
STALIN
prime notizie della guerra ci sbalordirono; alcuni di noi perdettero ogni facoltà critica... » Gaven scrive che « tra i deportati fece molta strada la tendenza " patriottica ". Tutti erano disorientati... » Niente di strano: anche a Pietroburgo, che ora aveva cambiato il suo nome in Pietrogrado, i rivoluzionari erano disorientati. « Ma l’autorità di Stalin era così forte, » scrive la Schweitzer, « che una sua lettera ai compagni di deportazione troncò i loro dubbi e rafforzò i loro senti menti... » Che ne è di questa lettera? Documenti del genere, espressamente destinati a circolare fra i deportati in una vasta area, venivano sempre copiati e ricopiati. E tante copie non andavano perdute: ce n’erano che finivano immancabilmente in mano alla polizia, che le archiviava meticolosamente. La storica lettera di Stalin è introvabile perchè non fu mai scritta. Le Memorie della Schweitzer malgrado la loro banalità sono un tragico documento umano. Essa scrisse quel libro di ricordi obbedendo a un ordine tassativo, nel 1935 a quasi un quarto di secolo dagli avvenimenti. Sapeva benissimo com’erano andate le cose in realtà. Il merito politico che era costretta ad attribuire a Stalin, apparteneva in realtà a suo marito, l’indomito Spandarian, morto in esilio nel 1916. Più vicine alla realtà sono le Memorie di Sciumiazki uscite tredici anni prima di quelle della Schweitzer. Ed è a Spandarian che Sciu miazki attribuisce l’iniziativa della lotta contro la tendenza patriottica. Spandarian, uno dei primi ad assumere una inflessibile posizione disfat tista, nelle rare riunioni tra deportati attaccava aspramente i « socialsciovinisti ». Anche nell’edizione successiva delle Memorie, molto ritoc cata, Sciumiazki si lasciò sfuggire questa frase : « Fu il povero Spanda rian a vedere chiaramente come stavano le cose... Gli altri, parrebbe, non lo vedevano ancora. » Poi subito si affretta a dire che « Stalin, sedu to nella sua spelonca, senza un attimo di titubanza adottò la linea disfat tista » ; e che le lettere di Stalin « aiutarono Suren (Spandarian) nella sua lotta contro la tendenza patriottica». Sciumiazki, si noti, non fu mai a Kureika e non potè vedere Stalin « nella sua spelonca ». Questo inserto nella seconda edizione, che ha il compito di mostrare Stalin almeno al secondo posto nella lotta in difesa del disfattismo, viene però neutralizzato dallo stesso Sciumiazki quando aggiunge a breve distanza : « Solo alla fine del 1914 o al principio del 1915, quando Stalin potè andare a Monastyrskoie e prendere vigorosamente partito accanto a Spandarian, questi cessò di essere il bersaglio dei continui attacchi dei gruppi dissidenti. » Dal che risulta che una posizione aperta in senso disfattista Stalin non la prese all’inizio della guerra ma a partire da quel viaggio a Monastyrskoie. Nel tentativo di far passare inosser
GUERRA E DEPORTAZIONE
199
vato il lungo silenzio iniziale di Stalin, e in realtà sottolineandolo, nella seconda edizione Sciumiazki pensò bene di eliminare il particolare che la visita di Stalin avvenne solo «a fine 1914 o principio 1915». Di fatto, poi, quel viaggio ebbe luogo alla fine di febbraio del 1915: quando ormai tra i deportati, per effetto dei primi sette mesi di guerra, non solo gli esitanti ma anche quelli che dapprima erano stati « pa trioti » attivi si erano fatti passare quei primi fumi. Nè sarebbe potuto essere altrimenti. Gli stessi capi bolscevichi a Pietrogrado, a Mosca e in provincia avevano trattato dapprima le tesi di Lenin con allarmata perplessità. Nessuno poteva pretendere che la mente pigra e conserva trice di Stalin arrivasse d’un balzo dove non arrivavano menti ben più aperte, cioè a quelle conclusioni leniniane che comportavano un com pleto sconvolgimento del movimento operaio. Del lungo periodo di deportazione si conoscono due soli documenti che illustrano la posizione di Stalin di fronte alla guerra. Una è una sua lettera personale a Lenin, l’altra consiste nella firma che egli appose a una dichiarazione collettiva bolscevica. La lettera, scritta il 27 febbraio 1915 da Monastyrskoie, è la prima e probabilmente l’unica lettera che Stalin scrisse a Lenin in tutto il periodo della guerra; e merita di essere riportata integralmente: « I miei saluti a voi, caro Ilio, calorosi, calorosi saluti. Saluti a Zinoviev, saluti a Nadiezhda Konstantinovna (Krupskaia). Come sta te? Come va la vostra salute? Io vivo come il solito, campo, ho già scontato metà del periodo di deportazione. È una vita noiosa, ma che farci? E costì come vanno gli affari? Dalle vostre parti la vita deve essere più gaia... Recentemente ho letto l’articolo di Kropotkin;1 quel vecchio imbecille deve aver perduto la testa. Ho letto anche il breve articolo pubblicato da Plechanov in Rìec’ : vecchio chiacchierone incor reggibile! Ahi ahi! E i ” liquidatori ” coi loro deputati che sono diven tati agenti della Libera Società Economica! Non c’è nessuno che li bastoni, il diavolo mi porti? La faranno franca in eterno? Rendetemi felice annunciandomi che sta per uscire un giornale in cui verranno frustati in faccia come si meritano, molto a lungo! Se mi volete scri vere, ecco l’indirizzo: Territorio di Turuchansk, Provincia di Jeniseisk, villaggio di Monastyrskoie, presso Suren Spandarian. Vostro Roba., Timofei (Spandarian) vi prega di trasmettere i suoi ironici rallegramenti a Guesde, Sembat e Vandervelde, per i loro posti, ahimè, di ministri. » La lettera, benché influenzata dalle conversazioni con Spandarian, 1 II principe Pioto Alexeievic Kropotkin (1862-1921) anarchico, scrittore e agitatore noto, allora viveva esule a Londra.
200
STALIN
non dice molto sulla posizione assunta da Stalin. Il vecchio anarchico Kropotkin allo scoppio della guerra era diventato uno sciovinista feroce. Plechanov, ormai ripudiato anche dai menscevichi, non faceva miglior figura. Vandervelde, Guesde e Sembat come ministri borghesi erano bersagli ovvi. Ai problemi che in quel momento agitavano le menti dei marxisti rivoluzionari, la lettera non accenna. Le discus sioni si imperniavano sull’atteggiamento verso il pacifismo, sulle parole d’ordine del « disfattismo » c della « trasformazione della guerra im perialista in guerra civile », sul problema di una nuova Internazionale operaia. Le idee di Lenin non erano ancora largamente accettate. Se Stalin ha già aderito a queste idee, la cosa più naturale che gli venga scritta è: ho aderito alle tue idee. Ora, se crediamo alla compagna Schweitzer, era stato proprio lì a Monastyrskoìe in quei giorni che Stalin aveva preso piena conoscenza delle tesi di Lenin per la prima volta. In uno stile degno di Beria, la povera donna scrive: « È difficile trovare le parole per dire con quale entusiasmo, con quale gioiosa fiducia Stalin prese conoscenza delle tesi di Lenin che confchinavano i suoi propri pensieri. » Perchè allora egli non vi accenna nemmeno scrivendo a Lenin? Di Lenin, Stalin accettava le idee che stavano dentro al suo limitato orizzonte. Il resto, quando non era «una tempesta nella teiera», doveva fargli l’effetto della musica a un sordo. E fu con questa mancanza di vedute, e non già da ardente disfattista, che Stalin andò incontro alla rivo luzione del febbraio 1917. La lettera di Monastyrskoie con la sua povertà di contenuto e il suo tono di falsa familiarità (fatto di «ahi ahi», di «il diavolo mi porti » e di « ahimè ») rivela molto più che il suo autore non intendesse farle rivelare. «È una vita noiosa, ma che farci?» Un uomo capace di un’intensa vita intellettuale non scrive così. « Se mi volete scrivere, ecco l’indirizzo... » Un uomo che ha a cuore uno scambio di vedute teoriche in una materia essenziale per lui e per la persona a cui scrive, non scrive così. La lettera porta i soliti segni staliniani: dell’ottusità, della furberia evasiva e della grossolanità. Nonostante l’importanza che dava Lenin ai contatti con la gente che aveva convinzioni affini alla sua, nei quattr’anni di esilio di Stalin non si sviluppò ombra di corri spondenza tra i due uomini. Nell’autunno del 1915 Lenin scrisse al l’emigrato Karpinski: « Ho un favore da chiederle: cerchi di appurare il cognome di ” Koba ”. Si chiama Josif Zhu... qualcosa, ma non riu sciamo a ricordarcene. Mi raccomando. » Karpinski gli rispose: « Josif Zhugashvili. » Di che si trattava? Di scrivere a Stalin, di mandar gli ancora del denaro? Comunque il fatto che Lenin abbia bisogno di
GUERRA E DEPORTAZIONE
201
appurare il cognome di Koba ci dice quanto distanti erano i loro rapporti. L’altro documento che porta la firma di Stalin è una dichiarazione collettiva di un gruppo di deportati a una rivista « legale » che si occu pava di assicurazioni sociali : « Facciamo voti che la rivista Voprosi Strachovaniia (Problemi Assicurativi) dedichi ogni migliore sforzo a questa causa: proteggere la classe operaia del nostro paese contro i sermoni corruttori, antiproletari e contrari nella sostanza all’idea inter nazionalista, dei signori Potresov, Levizki e Plechanav. » Era una di chiarazione contro il social-sciovinismo, ma in termini che potevano essere accettati anche dall’ala sinistra menscevica. La lettera, che a giu dicare dallo stile dovrebbe essere di Kamenev, è del marzo 1916 cioè di un momento in cui la pressione rivoluzionaria era già poderosa e quella patriottica si stava affievolendo. Kamenev e gli altri deputati della Duma processati con lui, erano giunti a Turuchansk nell’estate del 1915. Il modo in cui si erano com portati nel processo continuava ad essere molto discusso tra i membri del partito. Circa diciotto bolscevichi deportati, tra cui i quattro mem bri del comitato centrale Spandarian, Sverdlov, Stalin e Kamenev, si erano riuniti a Monastyrskoie. Petrovski aveva presentato un rapporto sul processo, e Kamenev lo aveva completato con alcuni rilievi. Scrive Samoilov: « Gli altri partecipanti alla riunione ci rimproverarono il nostro comportamento al processo; ma solo Spandarian lo fece in ter mini molto aspri, gli altri furono moderati. » Samoilov non attribuisce a Stalin nessuna parte di rilievo in quella riunione. È invece la vedova di Spandarian qualche anno più tardi a trovarsi costretta ad attribuire a Stalin una parte che era appartenuta a suo marito. Dice ancora Samoilov: « Al termine della discussione fu adottata una risoluzione che nel complesso approvava la condotta dei deputati nel processo. » C’era una notevole distanza fra questa assoluzione e il giudizio severo di Lenin che aveva pubblicamente condannato il contegno di Kamenev come