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Italian Pages 240 Year 2012
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Il corpo della filosofia Collana diretta da Rossella Fabbrichesi e Cristina Zaltieri 6
Il corpo della filosofia è la scrittura dei suoi testi, là dove il pensiero si fa visibile, si concede al nostro sguardo. Porre l’accento su tale corpo non significa attraversare i testi mirando ad un altrove invisibile di cui essi sono i segni, ma illuminare l’intreccio scritturale che è la loro carne, il textum. Significa anche tener conto che il pensiero si dispiega sempre in un’alterità (corpo, scrittura, carne, materia) che lo contamina e lo nutre. Lungi da rimuoverlo od obliarlo, la filosofia deve essere all’altezza di tale suo corpo potente e glorioso.
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Spinoza. Una fisica del pensiero di François Zourabichvili Presentazione di Cristina Zaltieri Traduzione di Franco Bassani
Negretto Editore
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Volumi pubblicati nella collana IL CORPO DELLA FILOSOFIA: 1.
Camilla Pagani, Genealogia del primitivo. Il musée du quai Branly, Lévi-Strauss e la scrittura etnografica. Prefazione di Carlo Sini
2.
Andrea Parravicini, La mente di Darwin. Filosofia ed evoluzione
3.
Cristina Zaltieri, L’invenzione del corpo. Dalle membra disperse all’organismo
4.
Barbara Stiegler, Nietzsche e la biologia. Presentazione di Rossella Fabbrichesi e Federico Leoni
5.
François Zourabichvili, Il vocabolario di Deleuze. Introduzione e Traduzione di Cristina Zaltieri
6.
François Zourabichvili, Spinoza. Una fisica del pensiero Presentazione di Cristina Zaltieri Traduzione di Franco Bassani
Immagine di copertina: Giovanni Galafassi, Spinoza, acquerello, 2012 Progetto grafico: Mara Sanfelici Titolo originale: Spinoza. Une phisique de la pensée © Presses Universitaires de France, Paris 2002 © Negretto Editore, Mantova, aprile 2012 Telefono 340 5241726 [email protected] www.negrettoeditore.it Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-95967-24-0
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Indice Presentazione. Per un materialismo plurale trasformativo di Cristina Zaltieri
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SPINOZA. UNA FISICA DEL PENSIERO
Avvertenza
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Introduzione
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Capitolo I – Il nuovo concetto di forma
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1. Traslazione simultanea: l’inconsistenza del composto cartesiano 2. Il pezzo di cera: quantità di materia e identità 3. L’individuo e la specie in Spinoza 4. Comunità chimica e comunità politica 5. Che cosa diviene la nozione di forma in Cartesio
Capitolo II - Il concetto di «rapporto di quiete e movimento» e la sua polisemia 1. Il rapporto tra il movimento e la quiete (Breve trattato) 2. Rapporto di quiete e moto tra le parti (Etica) 3. Interpretazione dei quattro lemmi sulla conservazione della forma 4. Lo statuto della malattia nell’Etica
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Capitolo III - Estensione e conatus (potenza e causalità)
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1. La potenza dell’essenza 2. Dalle forme finite alla forma infinita; lo statuto della trasformazione 3. Autoaffermazione ed esteriorità 4. L’unione dei conatus
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Capitolo IV - Che cos’è una fisica del pensiero?
1. Il problema dello statuto dell’idea infinita
97 105 106 109 112
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2. L’illusione dello sdoppiamento (il rapporto dell’essenza con l’esistenza) 3. La tesi dell’identità reale dell’idea e del suo oggetto, e le sue ambiguità 4. Lineamenti di una fisica cogitativa 5. Trasformazione mentale e ipotesi sull’amnesia 6. Lo statuto della sensazione 7. L’unità della mente
Capitolo V - Parlare in spinoziano
1. Che cosa significa «avere» in spinoziano 2. Composizione delle idee: la definizione genetica 3. Abbozzo di una grammatica dell’idea 4. In che senso le nozioni comuni sono idee 5. Daccapo, delle essenze e dei lettori colpiti da strabismo
Capitolo VI - Mutazioni, eternità e morte mentali 1. In che senso la mente è eterna (e, da capo, in che senso le nozioni comuni sono idee) 2. Ritorno ai due concatenamenti e il caso dell’amore
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Capitolo VII - Il sogno delle trasformazioni soprannaturali
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1. La logica della chimera 2. Il paradosso dell’essere del non essere 2.1. La potenza dell’impotenza: la confusione 2.2. Immaginare una negazione? 3. Sognare ad occhi aperti 3.1. Don Chisciotte e i rabbini 3.2. I sortilegi dell’ignoranza (banalità dell’allucinazione) 3.3. La confusione delle cose e delle affezioni e il sogno del libero arbitrio
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Epilogo - Avvolgere e morire
225
Conclusione
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Bibliografia
235
Indice dei nomi
237
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Presentazione Per un materialismo plurale trasformativo
1. Una filosofia della trasformazione
Osservava Bachelard: “in letteratura non esiste un solo caos immobile”.1 Se ne può evincere che il divenire porti inevitabilmente con sé un elemento di disturbo in quanto evocatore di movimento/agitazione e molteplicità, i due caratteri fondamentali attribuiti da sempre al caos. È comprensibile, dunque, che il pensiero intrattenga con il divenire un rapporto difficile quanto ineludibile e che abbia cercato e cerchi tuttora di esorcizzarlo o addomesticarlo in differenti modi. Può, infatti, liquidarlo come semplicemente illusorio, indicando in un essere immobile, posto oltre l’esperienza, l’unica vera realtà, oppure può tentare di controllarne gli esiti e l’andamento, definendolo di volta in volta lineare, circolare, evolutivo, degenerativo, dialettico… Infine si dà un’altra possibilità, questa però più rara: quella che il pensiero cerchi di accogliere il divenire, ma in tal caso occorre mettere in conto che gli esiti possano essere perlomeno stranianti. È quello che accade in questo testo di François Zourabichvili il quale - mostrandosi in ciò erede conseguente e rigoroso del pensiero di Deleuze – assume le provocazioni del divenire in tutte le loro serie conseguenze così che la propria filosofia, nell’incontro con tale ospite inquietante, si trova a fare i conti con un concetto, non nuovo, è vero, ma, non a caso, davvero poco frequentato nella nostra tradizione di pensiero, di contro spesso associato a saperi morti o marginali come l’alchimia e la magia: il concetto di “trasformazione”. Non è questa l’unica originalità di questo testo bello e difficile, qui presentato nella rigorosa traduzione di Franco Bassani, perché il filosofo che Zourabichvili elegge a propria guida nella sua costruzione dei lineamenti di una filosofia della trasformazione è Baruch Spinoza, proprio colui di cui Hegel, che ne era ammiratore per molti versi, deprecava nelle Lezioni di storia della filosofia la staticità del sistema, l’assenza totale di movimento che rendeva astratta la sua Sostanza. Zourabichvili, di contro, sconfessa totalmente la vulgata di uno Spinoza parmenideo, nel cui pensiero non troverebbe posto alcun “reale” cambiamento dato che la Sostanza divina permarrebbe immobile nel trascolorare inessenziale
G. Bachelard, La Terre et les Rêveries du repos: Essai sur les images de l’intimité, Corti, Paris, 1948; tr. it di M. Citterio e A.C. Peduzzi, Red Edizioni, Milano, 2007, p.54. 1
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dei modi - per mostrare di contro, con un lavoro testuale di grande cura e profondità, la radicalità con cui Spinoza ha pensato il divenire, accettando di esso l’esito forse più sconcertante: la trasformazione, per l’appunto. Ecco quindi già due singolarità con cui il lettore si deve misurare leggendo questo testo: una filosofia della trasformazione, in primo luogo, che, in secondo luogo, trova in Spinoza il proprio modello perché la Sostanza non è qualcosa d’altro dal movimento incessante dei modi nei quali essa si offre. Ma le singolarità di questo testo non finiscono qui. Affrontare con rigore il pensiero della trasformazione in Spinoza vuol dire confrontarsi in primo luogo con un asserto chiave del pensiero spinoziano, affidato ai Principi della filosofia di Cartesio: “la materia assume successivamente tutte le forme che è capace”2 in cui si intrecciano la questione “fisica” della trasformazione con quella ontologica (come pensare la materia che si trasforma?) attraverso una nozione di “forma” che – del tutto inedita come si vedrà - diviene così il cuore cruciale dell’intera l’indagine. Il confronto con tale nozione impegnerà non poco Zourabichvili dato che i primi tre capitoli del suo lavoro sono ad esso dedicati. Proprio lungo questo percorso Zourabichvili s’imbatte nella questione cardine che dà il nome al testo. Pensare radicalmente il divenire porta con sé un’interrogazione sull’identità, sulla sua forma per l’appunto, la quale, nel linguaggio di Spinoza, è forma dei singoli modi che sono insieme corpo e pensiero del corpo (mente). Ora, la lettura dei testi di Spinoza, pone a Zourabichvili un quesito che finora non ha avuto spazio nelle interpretazioni della critica, forse perché spiazzante in quanto conduce ai limiti dell’ossimorico: se la Substantia, Deus sive natura si esprime, tra gli infiniti attributi, nell’ estensione e nel pensiero, allora oltre ad una fisica dei corpi Spinoza ci lascia intendere che sussista una fisica del pensiero, una “fisica cogitativa generale”, che contempli le relazioni, i concatenamenti e le trasformazioni del pensiero. Zourabichvili legge in Spinoza l’indicazione dunque per un materialismo ancora tutto da pensare, un materialismo che egli chiama “integrale o assoluto”, ma che sarebbe meglio definire, a mio parere, “materialismo plurale” in modo da evitare l’idea di una riduzione di una materia all’altra e di porre l’accento sulla pluralità delle materie che alberga in esso. Dunque la materia che si trasforma non è unica, non è solo corpo/estensione, a cui tutto deve essere ricondotto (come insegna il materialismo volgare): le materie della physis sono molteplici e una di queste è il pensiero.
2. Un monismo anomalo
Spinoza rappresenta indubbiamente un’anomalia che irrompe nella nostra
B. Spinoza, Principi della filosofia di Cartesio, tr.it. di O. Proietti in B. Spinoza, Opere, a cura di F. Mignini, tr.it. di F. Mignini e O. Proietti, Mondadori, Milano, 2007,p.337. 2
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cultura di pensiero sotto diverse forme. Una delle più problematiche è proprio costituita dal problema dell’individualità, considerata da molta critica di scarsa “consistenza” all’interno della Sostanza, problema che trascina con sé molteplici e complesse questioni di natura diversa, teoretica, politica ed etica. Se poi si vuole leggere l’individualità attraverso la lente utilizzata per lo più dalla tradizione, ossia come composto di un’anima-mente-psiche e di un corpo-materia, ci si imbatte nell’impossibilità di incasellare Spinoza in una delle due soluzioni classiche entro cui grossomodo ancora al suo tempo si componeva la questione della relazione tra corpo e mente. Mi riferisco alla lettura dualistica che ha le radici in Platone per cui l’eterogeneità radicale di idee e anima, da una parte, e della materia dei corpi,dall’altra, trattata a livello antropologico nel Fedone e a livello cosmologico nel Timeo, poteva essere temperata solo da un intervento demiurgico che ponesse tale dualità in opera nell’uomo e nel cosmo, in una precaria e conflittuale convivenza nella quale l’egemonia spettava all’anima. Descartes trasformerà tale relazione in radicale dualità di sostanze che non sarà più l’azione di Dio a mediare bensì la quanto mai discussa ghiandola pineale posta nella base cranica dell’uomo, utilizzata ad hoc per spiegare un connubio destinato così a diventare ancor più problematico. Ma, d’altro canto, non è neppure possibile ricondurre Spinoza al modello alternativo, quello monistico, sia nella versione duale esplorata da Aristotele per la quale anima pensante e corpo diventano due espressioni per dire un’unica cosa, ossia l’individuo, non avendo tali parole alcuna realtà fuori dal sinolo in cui sono inseparabili. In questo contesto lo studio dell’intelletto poteva così esser posto in un’opera fisica, il De anima, perché trattare del pensiero significava pur sempre trattare di un prodotto dell’intelletto che, anche se divino, era comunque prodotto dalla natura.3 E nemmeno il pensiero di Spinoza è compatibile con la versione più radicalmente corporea del monismo nelle sue due declinazioni, quella epicurea – per cui l’anima, come ogni ente, è un particolare composto di atomi – e quella stoica – per cui l’anima è fatta di una materia particolare, ossia il pneuma, sorta di corpo sottile. Proprio il monismo corporeo è la matrice da cui discendono le varie declinazioni dell’attuale riduzionismo scientifico, ben rappresentato da J. P. Changeux, uno dei padri della moderna neurobiologia, che dice: “La separazione tra attività mentali e neuronali non si giustifica[…] Ci sono soltanto due ‘aspetti’ di un unico e identico evento che si potranno descrivere con termini pre-
3 Convincente a proposito dell’origine interna al corpo, e dunque naturale, dell’anima intellettiva in Aristotele, prodotta dal pneuma insito nello sperma, appare la lettura della complessa questione offerta da Enrico Berti in L’origine dell’anima intellettiva secondo Aristotele, in F. Alesse, F. Aronadio, M.C. Dalfino, L. Simeoni, E. Spinelli (a cura), Anthropine sophia. Studi di filologia e storiografia filosofica in memoria di Gabriele Giannantoni, Napoli, Bibliopolis, 2008, pp. 295-328 e in Natura e generazione degli animali in Aristotele in “Kriterion”, vol.51,n°122,Belo Horizonte, July/Dec.2010, http://dx.doi.org/10.1590/S0100-512X2010000200010.
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si a prestito sia dal linguaggio dello psicologo (o dell’introspezione) sia da quello del neurobiologo.”4 Spinoza non può ascriversi a nessuno dei modelli citati perché è sì fautore di un monismo radicale - solo una Sostanza esiste ed è Deus sive Natura – ma allo stesso tempo sottoscriverebbe appieno quel che dice Blaise Pascal: “ Da tutti i corpi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: ciò è impossibile e di un altro ordine.”5 Siamo così introdotti in un paesaggio filosofico alquanto straniante dove estensione e pensiero divengono le espressioni differenti e autonome di una sostanza medesima: La Mente e il Corpo sono una sola e stessa cosa che viene concepita ora sotto l’attributo del Pensiero e ora sotto l’attributo dell’Estensione. Onde avviene che l’ordine ossia la concatenazione delle cose è una, sia che la natura si concepisca sotto questo o sotto quel attributo, e conseguentemente che l’ordine delle azioni e delle passioni del nostro Corpo è simultaneo per natura (simul sit natura) con l’ordine delle azioni e delle passioni della Mente.6
La simultaneità dei due ordini, del pensiero e dell’estensione è stata spesso problematicamente interpretata come “parallelismo”7, secondo una dizione che si troverà in Leibniz ma che non è presente in Spinoza, conducendo per questa via a interpretare i due ordini, quello della connessione delle idee e quello della connessione dei corpi, come biunivocamente corrispondenti punto per punto, secondo uno schema di uniformità e di regolarità così poco rispondente alla realtà dell’esperienza da risultare inservibile. Si tratta invece di comprendere la convivenza della simultaneità dei due ordini degli attributi con l’irriducibilità dell’ uno all’altro costantemente asserita da Spinoza (per dirla con un suo esempio, l’idea del cerchio e il cerchio esistente in natura non sono affatto riducibili uno all’altro anche se esprimono una medesima cosa). Comprendere Spinoza, verificare un possibile impiego del suo pensiero nella nostra esperienza, riconoscere un’attualità –dunque- della sua filosofia, è pratica che non può prescindere dall’affrontare questo arduo nodo del rapporto pensiero/estensione.
4 J. P. Changeux, L’homme neuronal, Fayard, Paris, 1983; tr.it., L’uomo neuronale, Feltrinelli, Milano,1990, p.320. 5 B. Pascal, Pensèes, tr. it. di A. Bausola e R. Tapella, in B. Pascal, Pensieri, opuscoli, lettere, Rusconi, Milano, 1978, n°829, p.755. 6 B. Spinoza, Etica, III, 3; tr.it. di O. Proietti in B. Spinoza, Opere, op.cit. D’ora in poi E nel testo, seguito dal numero romano della parte e dal numero romano della proposizione con l’eventuale aggiunta di “dim.” per “dimostrazione” e di “sc.”per “scolio” o “lem” per “lemma”. 7 Per una documentata critica a tale nozione cfr. C. Jacquet, I rapporti corpo/mente in Spinoza e la critica al “parallelismo”, sul sito “Quaderni materialisti”, Aprile 2007.
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Fare chiarezza intorno alla natura propria e irriducibile del divenire del pensiero vorrebbe dire illuminare anche alcuni dei problemi più complessi incontrati dalla critica di Spinoza: la natura degli attributi, la loro autonomia, la loro eterogeneità che convive con la loro relazione non di parallelismo ma di simultaneità (simul) e di uguaglianza (aequalis). Vorrebbe dire anche affrontare quel tema corpo-mente, troppo spesso oggi ridotto a chiacchiera, attraverso la questione di una “natura” propria della mente non riducibile alla meccanica dei corpi.8 E’ proprio il compito che si assume Zourabichvili in questa sua indagine sulla fisica del pensiero la cui strada Spinoza avrebbe, a suo parere, indicato senza però percorrerla.
3. Per una lettura immanente di Spinoza: “alla lettera!”
Qual è lo stile interpretativo con cui Zourabichvili legge Spinoza? Quale “metodo” di lettura lo guida nella sua esplorazione della fisica del pensiero spinoziana? Se in fondo è proprio il titolo a rivelarcelo– come poi si chiarirà – è comunque lo stesso autore a far tema della questione in un breve articolo: La question de la littéralitè.9 Qui Zourabichvili si occupa dell’altro pensatore che insieme a Spinoza è stato da lui indagato con grande originalità e amore: Deleuze. L’intento è qui quello di riflettere sulla negazione ricorrente e quanto mai enigmatica di ogni metaforicità dei propri concetti che è presente lungo l’intera opera di Deleuze. Il richiamo costante di Deleuze insegnante a Vincennes è “alla lettera!” (proprio con la rievocazione di tale appello si apre il testo di Zourabichvili Il vocabolario di Deleuze10). È un richiamo che Zourabichvili fa del tutto suo premettendo come sia davvero inopportuno leggere in esso un’ingenua accettazione della partizione proprio/ figurato. Ossia, l’appello alla letteralità non è affatto immemore di come il senso proprio possa nascere solo insieme al senso metaforico e di come il concetto si possa fregiare di un senso proprio solo in quanto abbia espunto da sé, sulla base
In un testo che va a considerare il ruolo del desiderio come “impensato della politica” in Spinoza, alla base del vincolo civile, Francesca Bonicalzi osserva che la supposizione di una reciproca determinazione tra mente e corpo è per Spinoza l’esito dell’ignoranza delle cause che muovono le azioni degli uomini e di ciò che possa il corpo così come la mente. Questa supposizione ha come conseguenza l’illusione della libera decisione che rende ognuno di noi un sognatore ad occhi aperti. (F.Bonicalzi, L’impensato della politica. Spinoza e il vincolo civile, Guida, Napoli, 1999, pp.31-46). 9 Si tratta del testo di un intervento che François Zourabichvili tenne all’Università di Lione II il 21 Novembre 2003 in occasione di alcune giornate di studio sul tema “ Deleuze e gli scrittori”, poi pubblicato postumo dalla rivista on line “Klesis” in un numero dedicato a Zourabichvili, nell’aprile del 2007, consultabile al sito http://www.revue-klesis.org/numeros.html#d5p1. 10 La produzione di Zourabichvili consta, oltre che di una serie di articoli, di quattro testi, due dedicati a Deleuze e due a Spinoza. I primi due sono: Deleuze. Une philosophie de l’événement, 8
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di partizioni tutt’altro che “naturali” e dunque tutt’altro che ovvie o evidenti, un presunto senso figurato. Né si può intendere il rifiuto della figuratività del concetto come cecità nei confronti del movimento, dello slittamento costante o deriva che attraversa da parte a parte tutto il linguaggio, secondo la “metaforica generalizzata”, come ha insegnato Derrida. L’appello alla letteralità si è dunque nutrito di tutto il lavoro di critica all’opposizione proprio/metaforico e vuole procedere oltre. Occorre in primo luogo intendersi sul concetto di “letteralità”: Zourabichvili spiega come esso equivalga al concetto di piano d’immanenza ovvero di piano d’univocità. Vuol dire che nel letterale si dispiega tutto il procedere del senso e che non c’è un piano altro, esterno, superiore o nascosto a cui il letterale rimanda. Certo il letterale così inteso non va confuso con un ipotetico senso proprio, è semmai proprio ciò che vive al di qua di ogni partizione tra proprio e figurato. Non si tratta nemmeno dell’esito di un qualche processo di scomposizione etimologica capace di rivelare l’origine e insieme ad essa un presunto senso autentico del concetto; piuttosto la letteralità invita a considerare le parole non dunque come meri significanti evocanti un senso che sta altrove, ma come inviluppi di intensità che occorre con pazienza svolgere. Il movimento del concetto è lo scaturire, mai compiuto del tutto, del duplice zampillio di attuale e virtuale - che si accompagnano sempre l’un l’altro - dove attuale è l’effettività spaziotemporale - sia materiale che immaginaria - del concetto, e virtuale è l’affettività che abita ogni effettività, la amplia, la moltiplica, ne dilata il territorio. Dunque, cimentarsi in una lettura “alla lettera” di Spinoza, vuol dire “sperimentare”, piuttosto che interpretare, il suo pensiero, ossia esplorarne tutte le virtualità, svolgendole dai concetti in cui esse stanno avviluppate, una delle quali è certo “la fisica del pensiero”. Come nota Pierre Macherey in un’acuta riflessione dedicata al testo di Zourabichvili11, “fisica del pensiero” è espressione che scompagina entrambe le aree della fisica e del pensiero, è espressione che sfiora l’ossimorico ma, d’altra parte, non è forse lo stesso Spinoza che ci conduce verso connubi rasentanti l’impossibile laddove invita a pensare la “libera necessità” o l’ “amor intellettuale”? Certo è che nella nostra cultura filosofica, dopo che Cartesio ha separato nettamente le cose estese dalle idee, la fisica è lo studio della natura e dei suoi movimenti,
Paris, PUF, tr.it. di F. Agostini, Ombre Corte, Verona, 2002 e Le vocabulaire de Deleuze, Ellipses, Paris, 2004; tr.it. di C. Zaltieri, Negretto Editore, Mantova, 2012 mentre dedicati a Spinoza sono Spinoza – Une phisique de la pensee, Paris, PUF, 2002, tr. it. di F. Bassani, Spinoza. Una fisica del pensiero – che qui presentiamo -, prima parte di un lavoro più ampio che ha per tema “La trasformazione in Spinoza”, la cui seconda parte consiste nel testo Enfance et royauté. Le conservatisme paradoxal du Spinoza, Paris,PUF, 2002; tr.it. in corso di pubblic., presso Negretto Editore, Mantova. 11 P. Macherey, Lire Spinoza aujourd’hui:a propos de l’ouvrage de François Zourabichvili,Spinoza – Une phisique de la pensee in “Klesis – Revue Philosophique”: Autour de François Zourabichvili, n°5/1 2007, pp. 1-16, consult. al sito http://www.revue-klesis.org/numeros.html#d5p1.
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mentre di contro il pensiero appartiene ad un ambito dell’essere irriducibile alle leggi del movimento dei corpi. Allora esplorare la fisica cogitativa rischia d’essere catalogato come un gioco gratuito, come un capriccio bizzarro di un commentatore a tutti i costi originale? È Zourabichvili stesso a porsi la domanda per poi rispondere che proprio Spinoza ha audacemente indicato ad ogni attento lettore tale nuova via del pensiero, in quanto: [...] se le idee hanno natura diversa dai corpi, se un’idea non può avere come “confine” un corpo e viceversa, non c’è motivo che la causalità abbia come suo unico modello le leggi dell’urto, e non potrà trattarsi di una semplice trasposizione metaforica.12
L’intento che guida quest’incontro con Spinoza è quello di rifuggire ogni tentazione di addomesticare o edulcorare una filosofia anomala come quella del solitario pensatore olandese. Non si tratta, dunque, per l’autore, di far opera di facilitazione nella lettura di Spinoza - se con ciò s’intende trasporre una lingua nata ardita e ardua nel linguaggio comune della nostra cultura filosofica di cui peraltro Spinoza è stato ospite inquietante e male accolto. L’autore fa proprio un altro suggerimento deleuziano e impugna una nuova “pedagogia del concetto” per farsi largo nel fitto della foresta speculativa spinoziana: si deve entrare nella lingua del filosofo, penetrarne la grammatica che regge l’intera fabbrica concettuale dell’Etica, imparare dunque a leggere in spinoziano, lingua forgiata dal filosofo utilizzando opportuni e ricorrenti operatori linguistici, costruendo una logica insolita, tendendo oltre i limiti semantici convenuti le parole conosciute e delineando in tal modo un nuovo, insolito ma ancora assai seducente per il nostro presente, habitat speculativo. E’ per questa via che può apparire al nostro sguardo il territorio, inesplorato ma da sempre sotto traccia nel paesaggio dell’Etica, di una fisica generale speculativa. Ora si può comprendere meglio il complesso articolarsi del percorso verso la fisica speculativa presente in quest’opera che nell’Introduzione Zourabichvili espone così: 1) si tratta in primo luogo di esplorare che cosa diventa la forma in Spinoza perché è sulla base del rifiuto delle definizioni tradizionali - sia aristotelica che cartesiana – e della costruzione di una nuova concezione della forma che si può inaugurare una modalità inedita e fruttuosa di considerare l’individualità, capace di colmare un vuoto presente nel meccanicismo e nel materialismo. 2) Occorre poi affrontare la questione di come questo nuovo concetto di forma non interessi soltanto l’individualità dei corpi; non è un caso, infatti, che tale concetto sia presentato nella seconda parte dell’Etica, il De mente, poiché si tratta di porre tale nuova concezione della forma al servizio dell’individuazione delle idee.
F. Zourabichvili, Spinoza – Une phisique de la pensee, op.cit., pag.4. D’ora in poi SFP nel testo seguito dal numero di pagina. 12
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3) A tal fine, si tratterrà in terzo luogo di entrare nel vivo della lingua di Spinoza, lo spinoziano, esaminandone i principi in modo da acquisire la chiave di accesso di quel sorprendente ma anche disorientante territorio speculativo che è la teoria dell’universo pensante (intelletto infinito) nella quale trova legittimazione la fisica cogitativa generale inaugurata dall’Etica illuminando, inoltre, una serie di oscurità presentate nel De mente. 4) Infine, quarto e ultimo passo del testo - di grande rilievo perché salda l’intera ricerca di Zourabichvili all’impresa etico-politica che Spinoza ha affidato alla sua filosofia – la fisica cogitativa, a partire dal lavoro spinoziano sulla forma, deve servire a discernere tra la potenza dell’intelletto (quella che dà il titolo alla V parte dell’Etica, ”Della potenza dell’intelletto, ossia dell’umana libertà”) e un uso malsano dell’immaginazione, non per associare idee o costruire possibili, ma per dare presenza attuale alla finzione. Se la potenza dell’intelletto è un vero e proprio potere di trasformazione ed è il cuore del progetto etico-paidetico di Spinoza, come ben ci indica Zourabichvili, l’immaginazione confusiva, che costruisce ibridi inesistenti – chimere - confidandoli reali, costringe l’uomo a una vita d’illusioni che alimenta passioni tristi o incrementanti l’impotenza della mente: paura dell’irreale, nostalgia del mai accaduto, speranza dell’impossibile... Negli ultimi due capitoli del testo, dedicati a tali diffuse patologie del pensiero, si rivela così la funzione diagnostica e insieme terapeutica della fisica del pensiero di fronte a declinazioni della mente verso le quali la natura umana purtroppo pare inevitabilmente incedere, spinta in ciò anche dall’azione di cattivi maestri. Zourabichvili ci rivela a tale proposito uno Spinoza che si fà nietzscheanamente ”medico della cultura” e che richiede ad ognuno di uscire dalla condizione comune alla quale siamo consegnati fin dalla nascita: quella di agire determinati da cause a noi sconosciute, peraltro nell’illusione di possedere una totale libertà. Ci richiede quindi di abbandonare lo stato di “sonnambulismo diurno” che contrassegna per lo più l’umana esistenza e di trasformarci in “vigilambuli”13 in modo da abbandonare la confusione e l’oscurità del mondo umbratile del sogno nel quale siamo immersi mentre siamo ad occhi aperti.
Si tratta di un concetto utilizzato da Deleuze in Francis Bacon. Logique de la sensation, Èditions du Seuil, Paris, 2002; tr.it. si S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata, 2004, p. 109 e in Cinéma II.L’image-temps, Les. Èditions de Minuit, Paris, 1985; tr.it. di L. Rampello, Ubulibri, Milano, 1989, p.187. In entrambe tali occorrenze il termine sta però ad indicare una situazione di automatismo vissuto in stato di veglia mentre nell’accezione che Zourabichvili dà alla parola, “vigilambulo” è colui che esce dal sonnambulismo, dall’ immersione confusiva nel sogno illusorio in cui la mente è impotente per affrontare il percorso della vita con la mente vigile, attiva, liberata dal torpore del sonno. 13
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4. Forma e trasformazione
L’estensione di cui un corpo è formato non compare né scompare: è materia per trasformazioni. (SFP,81)
Dunque, la fisica proposta da Spinoza – pensa Zourabichvili - è una teoria generale della trasformazione, una filosofia del divenire non addomesticato in alcuna lettura “pacificante”, sia essa continuista, gradualista, evolutiva o circolare. Il divenire è dunque per sua natura “trasformativo” in perfetto accordo d’altronde con il progetto etico spinoziano che in Enfance et royauté verrà originalmente esaminato nella sua natura profondamente paidetica proprio come una pedagogia della trasformazione individuale e insieme politica. Ecco che per parlare a ragion veduta della trasformazione in Spinoza, occorre in primo luogo aver chiaro in che consiste per lui la forma. Nei primi tre capitoli di questo testo si considera la riflessione di Spinoza sulla “forma” nel contesto a lui proprio del pensiero post-cartesiano, mostrandone tutto il particolare interesse e la profonda originalità. In primo luogo, avverte Zourabichvili: È Spinoza che, prima di Leibniz, reintroduce in filosofia la nozione di forma, screditata dopo Cartesio. I due non lo fanno nello stesso modo, benché sembra che partano dallo stesso problema: l’aporia dell’individuazione nella fisica cartesiana. Ambedue reagiscono alla concezione passiva e statica dell’estensione in Cartesio; fanno appello ad un conatus che ciascuno a suo modo collega alla rinnovata nozione di forma. (SFP, 179)
Teniamo presente che ragionare sulla forma significa andare al cuore dell’identità, mettere in gioco la sua labilità o la sua permanenza e dunque ragionare sull’individualità, tema particolarmente sensibile nel pensiero spinoziano. In questo contesto Cartesio ha rappresentato per Spinoza di certo un problema aperto che richiedeva soluzione poiché in Cartesio si mostra una oscillazione irrisolta tra l’assunzione indiscussa della permanenza della sostanza, secondo il senso comune, e l’ adozione del criterio, quanto mai labile e discutibile, della “solidarietà cinetica” come criterio di individualizzazione dei corpi (“Per un corpo intendo tutto quello che è trasportato assieme” dice Cartesio) a cui si aggiunge – solo per quanto concerne l’uomo - l’accettazione della identificazione scolastica tra forma e anima. Zourabichvili mostra quale differente significato viene dato da Spinoza a tutta l’area semantica legata a “forma”, “formare”, “formazione” e si pone a cercare una via di soluzione di una delle questioni più complesse lasciate aperte da Spinoza il quale utilizza costantemente il concetto di essenza - legando peraltro a questo termine la conoscenza di terzo tipo - senza definirlo mai esattamente pur sbarrando nettamente la via ad una accezione platonica o trascendente del termine in quanto è per Spinoza impensabile una separazione tra cose esistenti ed essenze. Consideriamo i tratti e le risultanze fondamentali di questa indagine zourabi15 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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chviliana sulla forma. In primo luogo essa parte dalle numerose aporie presentate dalla forma cartesiana. Ad esempio, la definizione meccanicistica deI singolo corpo come “tutto ciò che viene trasportato insieme”, nelle parole di Cartesio, sembra affidare la forma di un corpo alla sua relazione con corpi vicini da immaginare in stato di quiete e appare così alquanto inconsistente perché negativa e relativa. D’altronde Cartesio non pare particolarmente interessato a rendere più chiara e coerente la natura fisica della forma perché preferisce risolvere il problema dell’individuazione del corpo ricorrendo all’istanza trascendente dell’anima, del tutto indifferente al suo divenire. Sono due i passi essenziali compiuti da Spinoza a riguardo dell’indagine sulla forma: 1) il rifiuto delle definizioni dell’uomo che riposino sugli universali e dunque su forme già costituite, valide per tutti; 2) l’individualizzazione della forma nel senso di una capacità affettiva (di patire e agire) che è guidata, però, da una logica relazionale e comunitaria, in quanto tale capacità s’esprime solo nella relazione. Vi è in Spinoza una sorta di riabilitazione della causa formale il cui destino egli separa nettamente da quello della causa finale, quest’ultima letta solo come estrema ratio dell’ignoranza, per congiungerlo strettamente a quello della causa efficiente non più pensabile come separata da essa quale era nel contesto emergente del meccanicismo moderno. Alla definizione di tale causa formale concorre più di un elemento, ognuno di grande originalità ma anche di difficile decifrabilità ai nostri occhi abituati alle figure tradizionali della forma/essenza. Nel De mente, secondo libro dell’Etica, Spinoza definisce la forma dell’individuo nei termini di un particolare rapporto di quiete e di movimento tra gli infiniti corpuscoli che lo costituiscono e specifica che si tratta, affinché tale corpo mantenga la sua identità - pur nel mutarsi e succedersi continuo dei corpuscoli che lo compongono – di conservare una “comunicazione” medesima tra le parti. Si legge a proposito nell’Etica Un individuo così composto conserva la propria natura, sia che si muova nella sua totalità sia che resti in quiete, sia che si muova verso questa o quella direzione, fino a quando ciascuna parte conservi il proprio movimento e lo comunichi alle altre come prima. (E,II,13, lem.7)
Emerge qui una lettura dell’organismo come esito del permanere di una comunicazione tra la moltitudine delle parti componenti che sia esente da qualsiasi istanza finalistica e armonicista, lettura a cui il testo di Zourabichvili dedica pagine importanti. Vi si legge a proposito: Mai Spinoza è stato tanto vicino a una definizione genetica dell’organismo: la fabrica del corpo, o la sua struttura, si spiega in termini dinamici col modo in cui diversi corpi si comunicano i loro moti rispettivi secondo una certa proporzione. [...] l’esistenza o meno di una comunicazione secondo proporzione è la ragione di ogni struttura, ossia il criterio che la differenzia da un semplice aggregato, per usare un termine di Leibniz. (SFP, 60)
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Ma Zourabichvili è più interessato a sottolineare le originali implicanze di tale definizione riguardo alla nozione di forma. Essa risulta indissolubilmente legata al concetto - cruciale nella filosofia di Spinoza - del “rapporto di quiete e di movimento” a cui Zourabichvili dedica l’intero secondo capitolo del testo tracciandone la storia a partire dalla sua prima comparsa nel Breve trattato. Da Deleuze Zourabichvili assume l’idea che la filosofia altro non sia se non una prassi di creazione dei concetti; e i concetti – come abbiamo visto - richiedono di essere presi sul serio, à la littre !, non liquidati come metaforiche evocazioni o suggestioni letterarie bensì svolgendone tutte le implicazioni speculative che in essi sono avviluppate. Ciò non significa che i concetti siano monoliti del pensiero, privi di polisemia, anzi, come dice l’autore, essi sono portatori di “forza aforismica” ossia racchiudono nello spazio ristretto delle sillabe che li compongono una grande ricchezza di logos. Questo vale anche per il concetto di “rapporto di quiete e movimento” in cui sta l’essenza, per Spinoza, della fabrica dei corpi e delle menti, ciò che ne costituisce l’intima struttura. Ci basti sottolineare a proposito che l’assenza di una quantità normativa di movimento o di quiete è qui segno di come tale rapporto sia da intendere come squisitamente individuale e abbia dunque a che fare con la capacità particolare e irripetibile di ogni singolo individuo di tollerare eccitazioni e indebolimenti, di metabolizzare gli “urti” degli altri corpi per cui la forma a cui pensa Spinoza è assolutamente individualizzata e vive solo nel nesso indissolubile di ogni individualità con tutte le altre. La forma, principio di coesione interna dell’individuo, è tale solo in relazione con l’esterno: il rapporto individuante non ha realtà che nella relazione mostrando una dipendenza reciproca tra le forme e una costante osmosi tra di esse dalle notevoli implicanze politiche. Infine la forma in quanto principio di formazione che lavora dall’interno la cosa e la fa esistere si pone in stretta congiunzione con il conatus, introdotto da Spinoza improvvisamente nel terzo libro dell’Etica. Il conatus, o potenza, è il concetto che dà la decisiva virata al pensiero spinoziano rispetto al procedere del meccanicismo fisico della sua epoca verso quella personale lettura etica del mondo che è la sua cifra più originale e sorprendente; qui è il punto d’intersezione tra fisica ed etica in quanto definisce la natura di ogni modo come ethos nel senso di prassi, come comportamento, come insieme unico e particolare di effetti prodotti e subiti. Ecco che alla luce del conatus il rapporto di quiete e movimento va oltre una lettura puramente dinamica per assumere una coloritura affettiva. Dunque la forma, differenza individuale, nel testo di Spinoza assume vieppiù la valenza di capacità affettiva che si esplica nel tessuto della fitta trama delle relazioni con tutti gli altri modi in cui ogni modo è da sempre posto. Così la forma è pienamente quello che è solo in relazione con l’esterno: il rapporto individuante non ha realtà che nel rapporto; una forma è inseparabile da incessanti trasformazioni, composizioni, scomposizioni, ricomposizioni cui sottopone ciò che le sta intorno o cui è sottoposta essa stessa, non solo perché è necessario prelevare, cogliere, assimilare i diversi
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alimenti ed esporsi di continuo all’aria, agli urti, alle intemperie, ma perché occorre inoltre inserirsi in insiemi più grandi e accordarsi di continuo con altre forme o parti della Natura (per formare una società, un ambiente ecologico, ecc.). (SFP, p.93)
Nel gioco imprevedibile di tali relazioni è possibile un radicale mutamento di questo conatus - potenza che caratterizza ogni singolarità, può dunque darsi un cambiamento di forma, può accadere la “trasformazione”, da intendere come il venir meno di un particolare rapporto di quiete/movimento (di una particolare espressione di potenza affettiva) che caratterizzava un individuo con il conseguente emergere di un altro – occorrenza che si da quindi senza bisogno di ricorrere per forza alla morte. E’ questo modo radicale di intendere il divenire che Spinoza vuole farci pensare, stupendoci e inquietandoci, con alcuni noti esempi. Quando considera il caso del poeta spagnolo che perde la memoria, dell’uomo che perde la vista (lettera 39 del Carteggio Spinoza- Van Blijenbergh) o dell’infante che diventando adulto muta da colui che ha “un corpo atto a pochissime cose, e dipendente massimamente dalle cause esterne” - e la cui mente, in quanto idea del corpo, è pure ben poco potente - in colui che avendo “ un corpo atto a moltissime cose, si riferisca a una mente che sia il più consapevole di sé e di Dio e delle cose.” (E, V,39, sc.) 14
5. Per una fisica speculativa generale
Dopo la disamina della forma spinoziana il capitolo centrale, il quarto, dal titolo “Che cos’è una fisica del pensiero?” può tratteggiare i lineamenti di una fisica cogitativa generale. Una volta compreso che il nuovo concetto di forma/ essenza è in Spinoza un operatore d’individualità ed è del tutto immanente, occorre chiedersi quale significato possiamo attribuire a termini quali forma, formari, formaliter,…frequentemente riferiti alla mente e alle sue idee nella parte seconda dell’Etica, “Natura e origine della mente”. L’ipotesi di Zourabichvili è che questa costellazione di termini si debba leggere proprio a partire dall’autonomia del pen-
14 In direzione di questa declinazione “trasformativa” Zourabichvili legge la “pedagogia” che è possibile evincere dal pensiero di Spinoza in Enfance et royauté. Le conservatisme paradoxal de Spinoza, op.cit.. In questo testo Zourabichvili espone le linee guida di quella che potrebbe essere una pedagogia spinozista: “1) Educare in modo uguale tutte le attitudini del corpo e sviluppare la potenza dello spirito; 2)sollecitare la speranza piuttosto che la paura, apprendendo ad agognare delle ricompense immanenti (acquiescientia in se ipso, virtù); 3) adattare se stesso alla comprensione dell’allievo, seguendo il leitmotiv della concezione spinoziana del profetismo (prima il nocciolo comune a tutte le religioni, amore del prossimo, giustizia e carità, in seguito – non appena possibile - le matematiche più per la loro qualità formativa che per il loro contenuto proprio); 4) e infine, mai dimenticare il legame di ragione e affetto.” (F.Zourabichvili, Enfance et royauté. Le conservatisme paradoxale de Spinoza, op.cit.,pp.171-172, tr. mia)
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siero dal corpo, anche se occorre riconoscere che di primo acchito, nel testo di Spinoza, la fisica cogitativa generale si presenta affetta da una ambiguità di cui la fisica dei corpi è esente; la attraversano, infatti, lacerazioni e aporie riconducibili ad un’oscillazione costantemente riproposta dal testo spinoziano: da una parte l’individualità e l’unità dell’idea-mente sembra rimandare al corpo come fa pensare la proposizione II,13 dell’Etica:
L’oggetto dell’idea costituente la mente umana è il corpo, ossia un certo modo dell’estensione esistente in atto; e nient’altro. (E, II, 13)
Ma, d’altra parte, Spinoza non rinuncia a pensare ogni idea-mente come espressione di un ordine cogitativo globale, intelletto infinito o idea di Dio (non perché Dio ne sia il soggetto separato ma perché è esso stesso l’espressione di Dio nell’attributo del pensiero) che si esplica in una rete infinita di relazioni in quanto genere d’essere intero, nella sua specificità d’espressione, e portatore di una causalità che gli è propria: L’essere formale delle idee riconosce come causa Dio, soltanto in quanto è considerato come cosa pensante, e non in quanto si esplica mediante altro attributo. Cioè, le idee tanto degli attributi di Dio quanto delle cose singole, non riconoscono come causa efficiente gli stessi ideati, ossia le cose percepite, ma Dio stesso in quanto è cosa pensante. (E, II, 5)
Come spiegare questa apparente contraddizione? Zourabichvili segue a proposito un’indicazione proposta di Deleuze: per ogni idea occorre distinguere una sua realtà oggettiva (è idea di qualche cosa, di qualche corpo) e una sua realtà formale ossia è essa stessa “qualche cosa”, di natura diversa dal corpo.15 Dunque, se la realtà oggettiva di un’idea rimanda al corpo, di cui l’idea è mente, la realtà formale dell’idea rimanda all’intelletto infinito di cui essa è parte. Anche se il corpo rimane l’ideatum dell’idea, Spinoza ci invita ad abbandonare quella logica fondata sul senso comune per cui le idee avrebbero come centro gravitazionale il corpo, riducendo ogni loro funzione al solo movimento di tensione (intenzionalità) verso il corpo. Vi è da chiarire il significato che occorre attribuire al ricorrente simul (nello stesso tempo) per indicare che ai cambiamenti del corpo corrispondono cambiamenti della mente. L’uso di simul in Spinoza vuol dire che alle modificazioni del corpo - derivanti dagli urti, dagli incontri con altri corpi - anche la mente, idea del corpo, si modifica, in quanto incontra – a sua volta- altre idee di corpi, ingloba parzialmente tali idee, si compone con esse. Ma da tali processi simultanei non è possibile inferire alcun nesso causale, ossia dalle modificazioni del corpo non 15 G. Deleuze, Che cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, tr.it. di A. Pardi, Ombre Corte, Verona, 2007, p.43.
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si può far discendere meccanicamente le modificazioni della mente: simul non è propter hoc – come invece tende a pensare il senso comune o un cattivo materialismo. Detto questo rimane comunque uno statuto ambiguo della fisica del pensiero che la rende più complessa, e dunque anche più fragile, della fisica di corpi la quale è tenuta a rispondere esclusivamente alle leggi del movimento. Infatti, la concatenazione delle idee risulta composta da due ordini, quello che proviene dal concatenarsi delle affezioni dei corpi che hanno espressione simultanea (non causata) negli affetti (passioni delle mente) e quello che procede dall’espressione dell’intelletto infinito come infinita concatenazione di idee. Per Zourabichvili non si può che assumere tale fragilità comprendendo come proprio essa sia una delle ragioni della vocazione etica della filosofia spinoziana: infatti, il filosofo deve farsi “medico della cultura” per liberare la mente dalle sue patologie laddove, attraversata dal contrasto tra idee e affetti mentali, minata nella sua potenza da idee che non riesce a comporre adeguatamente o intristita da chimere e illusioni a cui attribuisce esistenza, soccombe al caos confusivo. L’universo cogitativo richiede di pensare un “piano d’immanenza del pensiero” – grande invenzione di Spinoza - che comporta una serie di importanti conseguenze. a) In primo luogo non permette alcuna reificazione delle facoltà tradizionali esigendo il venir meno della verticalità delle loro gerarchie. Ecco, ad esempio, che intelletto e immaginazione diventano solo nomi per indicare diversi regimi della mente; b) in secondo luogo ne deriva la scomparsa di qualcosa da supporre “dietro le idee” che assomigli ad un sostrato, ad una coscienza che sia da esse separabile poiché – come si è detto – anche la mente è una idea; c) inoltre l’espressione “la mente ha delle idee” mostra tutta la sua grossolanità poiché la mente non possiede idee ma è composta di idee; d) gli incontri tra i corpi e le variazioni del conatus che ne derivano (affezioni) sono da leggere nei termini esclusivi di quiete e movimento, la sensazione invece è da includere nel divenire della mente: ciò che nel corpo è movimento, eccitazione, nella mente è sensazione. e) infine, occorre ammettere leggi di composizione delle idee per cui le idee divengono, si uniscono, si scompongono, si trasformano incontrandosi tra loro secondo una logica che non è la medesima regolante gli incontri tra i corpi. Zourabichvili invita a riflettere su quest’ultima questione con il rigore che il pensiero di Spinoza esige giungendo a conclusioni forse sconcertanti tuttavia non evitabili: Che l’idea includa oggettivamente i corpi esterni che producono affezioni in quello di cui è l’idea è il dato essenziale, perché questo ci fa intravedere la conseguenza, curiosa ma necessaria, che la nostra mente è in rapporto con altre menti. Per il tramite del corpo? Ma perché occorrerebbe che i rapporti intermentali si spiegassero su un piano diverso dal loro? Evidentemente c’imbarazzano, da un lato, la convinzione comune che solo la parola, le espressioni del viso, i trasalimenti del corpo informino direttamente (e quindi in via
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congetturale) il nostro spirito di quanto accde a un atro, dall’altro la nostra prevenzione illuminata contro ogni idea di telepatia. In materia, però, c’è molta confusione, poiché la saggezza apparente condivide con l’ignoranza il non potersi rappresentare il rapporto tra gli spiriti altrimenti che alla maniera metaforica di un contatto o di una trasparenza reciproca. Se togliamo a queste immagini quel che hanno di chimerico (la confusione della natura estesa con quella pensante) e comprendiamo, da un lato, che un’idea è limitata solo da un’altra idea e, dall’altro, che la mente stessa è idea, non vi sarà più alcun ostacolo ragionevole a concepire un rapporto diretto tra gli spiriti. (SFP , p.104)
Spinoza interrogandosi su che ne è dell’identità del poeta (forse Luis de Góngora) che ha perso la memoria non esita a concludere che egli non è più quello di prima. Così a proposito della crescita dei bambini egli vede in essa una trasformazione poiché in tale processo è mutata la forma del corpo e quella della mente; infine, il mutamento da vedente a cieco non lo legge come una privazione rispetto ad una presunta integrità o normalità, anch’esso è letto piuttosto come trasformazione. Tutte queste sono trasformazioni sia fisiche sia mentali. Quelle mentali avvengono nell’idea del corpo, ossia nella mente - dovute al presentarsi, in questi casi, di una diversa concatenazione delle idee di cui essa si compone - e testimoniano di come lo spirito, in Spinoza non più forma immota della materia corporea bensì idea del corpo, “anziché garantire l’identità del corpo, vede la propria identità esposta alle sue vicissitudini.” (SFP,p.59)
6. Capire lo spinoziano
Per accedere con tutti i nostri limiti di modi finiti al piano nuovo e spiazzante dell’infinito intelletto di Dio occorre prender dimestichezza con lo spinoziano, così Zourabichvili chiama la nuova lingua che Spinoza si è trovato costretto a metter in campo nell’Etica. A tale lingua è dedicato il capitolo V del testo: Parlare in spinoziano a cui vengono affidate ulteriori conseguenze scaturenti dalla fisica del pensiero. Questo sforzo, non da poco, di entrare nella sintassi della lingua filosofica di Spinoza è richiesto dalla pedagogia del concetto, suggerita da Delueze, che Zourabichvili fa propria: si tratta di intendere l’interpretazione dei testi filosofici non come una parafrasi di questi che vada in direzione di una loro traduzione nel linguaggio comune ma di considerare che la lingua usata dal filosofo è l’effettualità vera e propria del suo pensiero. Dunque, per non snaturarne il pensiero, si tratta non di offrire una parafrasi del testo bensì “di entrare nel movimento del senso iscritto nel testo stesso.” (SFP,p.124,nota 44) Lo spinoziano è la lingua dell’intelletto infinito che non ci è del tutto preclusa in quanto la nostra mente partecipa di tale intelletto. Imparare la grammatica dello spinoziano significa in primo luogo abbandonare alcuni usi della comune lingua speculativa, incompatibili con il piano d’immanenza del pensiero dispiegato da Spinoza. Per esempio, si tratta d’imparare un altro uso del verbo “avere” che invece di indicare la proprietà di un soggetto su un oggetto indica il dispiegarsi 21 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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della natura del soggetto come nell’espressione “Dio ha delle idee”. Poi occorre comprendere quale significato attribuire a quegli operatori linguistici tipici dello spinoziano come simul (simultaneamente), quatenus (in quanto) o tam…quam (sia in quanto… sia in quanto). Si tratta di operatori linguistici che servono ad affermare e ad esprimere la nostra partecipazione all’intelletto divino costruendo una sintassi della simultaneità differenziata che è il cuore dello spinoziano. La logica del simul permette di concepire l’ordine delle connessioni dei corpi e l’ordine delle connessioni delle idee come espressioni simultanee di due attributi della sostanza; la logica del Deus quatenus ci permette di articolare i due piani dell’eternità (considerazione delle cose “in quanto Dio”) e della durata (considerazione delle cose in quanto modo finito); la logica del tam…quam pure tiene insieme lo sguardo di dio, in quanto intelletto infinito, e lo sguardo finito di ogni modo che è comunque espressione del primo. Sempre la conoscenza dello spinoziano permette di comprendere come le nozioni comuni - idee di proprietà comuni a più corpi che Spinoza antepone come strumenti di conoscenza effettiva agli universali di specie e genere considerati di contro come mere astrazioni - siano strumenti del pensiero nei modi finiti che noi siamo (traggono dai corpi incontrati proprietà che non sono mai davvero uguali e che emergono a partire dalle proprie affezioni di modi finiti) e non possano essere considerate idee dell’intelletto infinito, in cui semmai sussistono solo inviluppati, impliciti. Infine assumere dimestichezza con lo spinoziano permette di evitare quei controsensi (della relazione, della composizione, della successione, delle essenze) dovuti al platonismo da cui rampolla la koinè della nostra tradizione, così penetrato nella nostra lingua filosofica da risultare inavvertito. Il controsenso della relazione consiste nel credere che oltre alle idee delle cose l’intelletto infinito alberghi anche quelle delle relazioni, ossia degli affetti, che riguardano invece solo le menti finite. In realtà nell’intelletto infinito le idee-menti, insieme alle cose estese-corpi, sono presenti tutte insieme contemporaneamente. L’opposizione di idee adeguate e di idee inadeguate non è affatto ontologica, dipende dal loro essere riferite all’intelletto infinito (dove sono solo idee adeguate e non stanno idee confuse o false) o ad una sua parte finita, la singola mente per i quali limiti si danno insieme a idee adeguate anche idee non adeguate. Il controsenso della composizione e quello della successione consistono nel pensare che la concatenazione delle idee prosegua passo a passo, da una prima che sarebbe originaria a quelle via via sempre più ad essa subordinate. In realtà gli operatori simul e quatenus applicati a specificare come pensare a partire dall’intelletto infinito di cui siamo parte, fanno dello spinoziano una sintassi della “simultaneità differenziata” che impone di pensare l’universo cogitativo come esito di una sola e unica composizione universale. L’universo spinoziano non coincide con lo stato presente del mondo, è piuttosto l’infinita trama dei corpi passati, presenti e futuri e delle menti passate, presenti, future. In tal senso tutto ciò che appartiene a questa trama può smettere 22 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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di durare ma non di essere. Infine il controsenso delle essenze invita ad evitare di leggere in Spinoza un’opposizione tra conoscenza secondo l’essenza e conoscenza secondo l’esistenza e tantomeno di identificare nella prima la conoscenza adeguata e nella seconda quella inadeguata. La finalità di questa ruminazione dello spinoziano, necessaria per accedere alla fisica del pensiero, è apparentemente chiara, ma assai difficile da rispettare per tutti coloro che appartengono alla nostra tradizione di pensiero: “Occorre non rimettere del platonismo in una filosofia che forse per prima ha tentato di abolirlo completamente.” (SFP, p.135) Questa esortazione di Zourabichvili comporta, tra le tante cose, che ammettere insieme all’infinità dei modi dell’estensione anche l’infinità dei modi del pensiero come entrambi espressioni scaturenti dalla Sostanza, non significa rendere l’uno dei due piani più vero dell’altro o più reale dell’altro, oppure l’uno causa e l’altro effetto. E’ questa apparentemente semplice notazione che dobbiamo ancora pensare davvero ed è quella che ci porterebbe oltre il territorio del platonismo o di un suo rovesciamento (dopo Heidegger sappiamo riconoscere in esso nient’altro che un esito interno alla stessa logica platonica) verso un nuovo materialismo che Zourabichvili chiama “integrale o assoluto”. Si tratta di quello che definirei “materialismo plurale trasformativo”, attento a non abiurare la complessità del reale nel comodo appiattimento dell’esistente ad un unico ordine (quello dei corpi estesi), a non ricondurre il pensiero a fenomeno secondario rispetto alla materia estesa, per pensare ad una molteplicità di materie prese in un divenire di formazioni e trasformazioni infinite.
7. Divenir vigilambuli
Carlo Sini indica come gesto filosofico fondamentale di Spinoza quello di mostrare l’oziosità dell’annosa e assillante questione agostiniana, riattualizzata da Leibniz: “perché l’essere e non il nulla?”, senza prendersi alcuna briga di argomentare o cavillare a proposito, ma più semplicemente assumendo quell’ostensività del mondo che non va dimostrata perché appunto si mostra, è signum sui.16 Spinoza è il filosofo per il quale sostare nella teoria deve avvenire quel tanto che serve per un vivere saggio e “adeguato”. Non di più. Per Spinoza si conseguono i fini del vero bene e del sommo bene “anzitutto sforzandosi di intendere della natura quanto basta (si badi) per conseguire una natura umana più forte.”17
C. Sini, Archivio Spinoza, La verità e la vita, Ghibli, Milano, 2005, cap. IV, “Il mondo”, pp.75 e segg. 17 C. Sini, Dall’etica di Spinoza a Nietzsche: profezie di un’etica futura? in “Il pensiero”,1/11, dic.2011, ESI, Napoli,pp.83-89, p.85 In tale articolo Sini legge nel primato spinoziano dell’etica il 16
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Tutto ciò fa parte di un atteggiamento filosofico di fondo che Zourabichvili vuole pienamente valorizzare; si tratta di una sorta di igiene del pensiero che s’impegna a non sprecare forza mentale- evitando così di indebolire il pensiero - sull’impensabile, sia esso nulla, morte… ma vuole invece rendersi sempre più adeguato alla vita. Ora, tale igiene di pensiero Spinoza la esercita fortemente anche nei confronti della questione che Zourabichvili ha il merito di aver reso centrale nella sua interpretazione del filosofo: la trasformazione. Se il pensiero di Spinoza è un pensiero sulla formazione e trasformazione del pensiero, dell’uomo, dei corpi, dello stato, con tutto ciò che di complesso e problematico comporta un simile pensiero (mutazione della forma, impermanenza della stessa, domanda sul permanere dell’individuo…),non vuole però assolutamente avvallare l’istanza confusiva e inefficace per la quale tutto può trasformarsi in tutto. La fisica del pensiero deve esser posta al servizio di una sorta di fisiologia della trasformazione, attenta alle sue regole, ai suoi limiti, atta a fare chiarezza sulle patologie del pensiero della trasformazione che conducono a un caos annichilente il pensiero stesso. A tale scopo sono dedicati gli ultimi due capitoli del testo dai titoli al primo sguardo alquanto stravaganti: “Mutazioni, eternità e morte mentali” e “ Il sogno delle trasformazioni soprannaturali”. Nel capitolo VI, “Mutazioni, eternità e morte mentali”, Zourabichvili considera la questione alquanto misteriosa dell’eternità della mente garantita secondo il testo spinoziano dall’acquisizione d’idee adeguate e dunque dal raggiungimento della conoscenza del terzo genere detta anche da Spinoza “scienza intuitiva”. Tale conoscenza appare comunque legata al corpo (vedi proposizione V, 29 dell’Etica: “ [...] la mente intende sotto specie di eternità [...]perché concepisce l’essenza del corpo sotto specie di eternità”). Inoltre quando Spinoza parla di tale forma di conoscenza usa costantemente intelligo, intendo, ad indicare che non sta passivamente riportando le cognizioni della scolastica bensì sta esercitando in forma attiva la potenza del proprio stesso intelletto. Per Spinoza solo nello sforzo attivo della propria mente, rispettosa del proprio legame con il corpo, l’individuo si appropria in parte dell’eternità dell’intelletto divino. I due concatenamenti della mente: quello delle idee inadeguate secondo l’ordine delle affezioni del corpo e quello delle idee adeguate secondo l’ordine dell’intelletto non sono da pensare come nettamente separati: la grande logica degli affetti, centrale nell’Etica, è un passo avanti fondamentale nel campo della logica cogitativa a cui appartiene a pieno titolo in quanto esito di un innesto fruttuoso di una impostazione analitica delle variazioni della potenza del conatus in una trama speculativa rigorosamente deduttiva. La fisica cogitativa generale sconfessa la convinzione, alla base dell’etica tradizionale, che eliminando ogni rapporto con il corpo la mente si libererebbe da
profilarsi del superamento della onto-teo-logia che sarà poi pienamente annunciato da Nietzsche.
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ogni ostacolo alla pienezza del pensiero. Essa è “pensiero corporale”; infatti la mente in quanto idea del corpo, è sempre sottoposta alle sue affezioni, anche nella pratica della conoscenza intuitiva. Desiderare l’indebolimento o l’annichilimento del corpo significherebbe desiderare il proprio stesso indebolimento o annichilimento. Il problema per Spinoza – come si sa - non è quello dell’eliminazione (impossibile) delle passioni bensì quello di non esserne in balia, di trasformarle in “azioni”. Nell’ultimo capitolo, “Il sogno delle trasformazioni soprannaturali”, Zourabichvili salda la fisica cogitativa generale con l’etica, ne mostra il senso profondo che è sia etico (perché posto all’interno del progetto di liberazione individuale) sia inevitabilmente politico (in quanto siamo modi finiti di una sostanza infinita e dunque soggetti alle affezioni degli altri modi da cui dipendiamo). Il secolo di Spinoza è emblematico di una temperie culturale – quella del tardo rinascimento che incede nell’incipiente barocco- attraversata da un regime della trasformazione confusivo, allucinatorio, in cui prevale quella che si può chiamare la “logica della chimera” secondo la quale tutto può mutarsi in tutto. L’immaginario del Seicento è dominato dal gusto per la metamorfosi, più nel modello gratuito e ludico dell’Ariosto che in quello etico di Ovidio - dove la metamorfosi è sempre rivelativa di una alterazione della passione, nell’amore come nel dolore - è affascinato dalla confusione tra vita e sogno, attratto dall’esistenza spettrale degli spiriti… Ma queste fascinazioni barocche non si possono relegare al tempo di Spinoza perché testimoniano piuttosto un’attitudine all’illusione che è dell’uomo di ogni tempo. L’esplorazione delle idee inadeguate di cui la mente è capace a riguardo porta ad incontrare i sogni ad occhi aperti e le allucinazioni, laddove la produzione della mente prolifera di oggetti senza alcuna protezione. Certo si può dire che ogni idea ha una sorta di vocazione allucinatoria che si esplica in varie esperienze umane: ad esempio nei ricordi - in primo luogo, nel sogno - esperienza primaria dell’illusione e della sua forza di convinzione- e nel sonnambulismo - stato in cui il corpo agisce indipendentemente dalla mente. Spinoza insegna a sospettare di opposizioni date per certe come quelle tra sogno in quanto negazione del libero arbitrio e veglia in quanto affermazione del libero arbitrio. In realtà l’opposizione si pone semmai tra stato di veglia, da una parte, e stati ipnotici (sogno di chi dorme) ma anche ipnoidi (sogno da svegli), dall’altra. La continuità tra stato ipnotico e stato ipnoide è data dal delirio del libero arbitrio, dall’illusione della libertà che sperimenta sia chi sogna dormendo ma sia colui che “sogna” da sveglio, ad occhi aperti. E’ un rovesciamento completo del senso comune: nasciamo tutti sonnambuli, pratichiamo normalmente un sonnambulismo diurno, al quale alcuni di noi ne aggiungono uno notturno. In queste condizioni l’etica consiste nel diventare vigilambuli.(SFP,p.176)
La fisica cogitativa generale ci presenta così la sua vocazione terapeutica au25 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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spicando una conversione del pensiero da emergenza “patologica” che rende l’uomo malato perché in senso letterale gli fa “patire il logos” (quante le voci che hanno avvertito tale pericolo: Schelling, Nietzsche, Freud…!) a strumento di terapia e di cura che libera dalle illusioni del finalismo, della libertà e della chimerica onnipotenza del possibile. Commenta Macherey: “ Mettere la fisica, nel senso esteso del termine, al servizio della vita: questa sarà l’ultima parola dell’etica spinozista”.18 Questa frase di Macherey, a commento del libro di François Zourabichvili, evoca un dilemma difficile da evitare: come pensare, come poter comprendere il senso del suicidio di chi ha dedicato la propria breve vita allo studio profondo e appassionato proprio del filosofo per il quale ”l’uomo libero a nulla pensa meno che alla morte e la sua sapienza è meditazione non della morte ma della vita”? (E,IV,47) Macherey riflette spinozianamente sul suicidio attraverso lo scolio della proposizione 20 della IV parte dell’Etica che suggerisce una spiegazione stupefacente di tale gesto: chi rinuncia all’esistenza lo può fare in quanto si è già operato in lui un cambiamento d’essenza, ossia non si muore perché ci si dà la morte bensì ci si dà la morte perché si è già stati presi nel movimento della morte. Per noi il dilemma resta dolorosamente aperto, da Zourabichvili tratteniamo una frase da lui scritta nella lingua limpida e pura seppur densa di mistero dello spinoziano che può solo offrire materia di meditazione a riguardo: “ Esistente o no, ciascuno di noi resta sempre compreso negli attributi di Dio; nulla giustifica l’idea di un’uscita dagli attributi.”(SFP, p. 110) Nulla, neppure l’uscita “volontaria” dal travaglio della durata giustifica l’idea di un’uscita dall’abbraccio di Dio. Tale lingua può a volte apparirci straniera, ma Zourabichvili ci insegna come per Spinoza sia stato necessario intagliarla con la pazienza e la tenacia di molatore di lenti nelle parole che il suo tempo gli offriva per tentare con essa l’impresa di un pensiero dell’altrove, rispetto al territorio marcato dai dualismi di idea e cosa, anima e corpo, forma e forza. Una lingua che accoglie ancora in sé queste parole ma le fa diventare membra di un corpo diverso da quello dell’organismo psico-logo-centrato della nostra tradizione, un corpo nuovo che promette di servire meglio la vita e che per questo merita ancor oggi di essere esplorato.
Cristina Zaltieri, Marzo 2012
18
P. Macherey, Op.cit.,pag.14, tr.mia.
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Spinoza. Una fisica del pensiero di François Zourabichvili
Alla memoria di Gérard Lebrun
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Avvertenza Il lettore troverà nella bibliografia i riferimenti completi relativi alle opere citate. Nel corpo del testo citiamo soltanto il nome dell’autore, il titolo dell’opera, eventualmente la parte o il capitolo, infine il numero di pagina dell’edizione usata.
Abbreviazioni Per le opere citate più frequentemente ci siamo serviti delle seguenti abbreviazioni: - Descartes, Alquié, vol. 1, 2 o 3 sta per Descartes, Œvres philosophiques, éd. Alquié, t. 1, 2, o 3; - M. Gueroult, vol. 1 o 2 sta per Martial Gueroult, Spinoza, vol. 1: Dieu oppure Spinoza, vol. 2: L’Âme; - P. Macherey, vol. 1, 2, 3, 4 o 5 sta per Pierre Macherey, Introduction à l’Étique de Spinoza, rispettivamente - La première partie. La nature des choses - La seconde partie. La réalité mentale - La troisième partie. La vie affective - La quatrième partie. La condition humaine - La cinqième partie. Les voies de la liberation. Per il Traité de la réforme de l’entendement, il paragrafo che viene indicato rimanda alla suddivisione adottata da Charles Appuhn. Per la corrispondenza, quando è il caso, e in modo sistematico per il Traité théologico-politique, indichiamo la pagina dell’edizione Appuhn nella versione attualmente disponibile in formato tascabile, accompagnata all’occorrenza dal riferimento al testo latino nella paginazione originale riportata da Carl Gebhardt.1 [Poiché nella versione italiana del Trattato sull’emendazione dell’intelletto usata nella presente traduzione e che verrà indicata a suo luogo, la suddivisione non corrisponde a quella dello Appuhn, verranno citati i due diversi paragrafi.] I testi redatti ordine geometrico sono indicati mediante le seguenti abbreviazioni: - il numero romano rinvia alla parte; - il numero arabo alla proposizione; - «def.» sta per «definizione»;
1
Al momento della comparsa di una nuova traduzione del Trattato teologico-politico ad opera di Pierre-François Moreau e Jacqueline Lagrée il presente lavoro era già terminato.
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- «ass.» sta per «assioma»; - «post.» sta per «postulato»; - «dim.» sta per «dimostrazione»; - «sc.» sta per «scolio»; - «cor.» sta per «corollario»; - «def. aff.» sta per «definizione degli affetti» (al termine della parte III dell’Etica).
Traduzioni Le opere di Spinoza sono citate nella traduzione di Charles Appuhn, fatta eccezione per l’Etica (A. Guérinot) e per il Trattato politico (P.-F. Moreau). Abbiamo apportato delle modifiche ogni volta che lo esigeva l’esattezza o che il commento richiedeva che si facesse comparire il testo originale nella sualetteralità. L’insieme delle traduzioni consultate figura nella bibliografia. Salvo assenza di indicazione, nella traduzione italiana le opere di Spinoza vengono citate da Spinoza, Opere, traduzione e note di Filippo Mignini e Omero Proietti, Milano 2007. Poiché nella versione italiana del Trattato sull’emendazione dell’intelletto usata nella presente traduzione la suddivisione non corrisponde a quella dello Appuhn, sono citati i due diversi paragrafi. Per le opere di Cartesio le traduzioni italiane cui vengono attinte le citazioni sono le seguenti: - Cartesio, Opere, 2 voll., Laterza, Bari 1967; - René Descartes, Il Mondo ovvero trattato della luce e l’uomo, Edizioni Theoria, Roma 1983; - René Descartes. Tutte le lettere 1619-1650, a cura di Giulia Belgioioso, Milano (Bompiani), 2005.
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Introduzione «Per quel che concerne lo spirito umano, ritengo che anch’esso sia una parte della natura; affermo, infatti, che nella natura esiste un infinito potere di pensare che, in quanto infinito, contiene in sé, oggettivamente l’intera natura, i cui pensieri procedono nello stesso modo della natura che ne è certo l’ideato. Affermo inoltre che lo spirito umano è questo stesso potere, non in quanto è infinito e coglie la natura per intero, ma in quanto è finito e percepisce soltanto un corpo umano, di maniera che io concepisco lo spirito umano come una parte di un qualche intelletto infinito.» Lettera 32 a Oldenburg La grande tesi spinoziana della molteplicità degli attributi continua ad essere, com’è noto, in parte oscura e lacunosa. Non si capisce perfettamente come sia possibile pensare l’identità reale della mente e del corpo, ossia un rapporto tale che i suoi termini non siano delle cose, ma espressioni differenti della stessa cosa. Ci si chiede che consistenza abbia l’affermazione dell’infinità degli attributi, dal momento che, escluse l’estensione e il pensiero, essa designa una quantità innumerevole di oggetti di cui non abbiamo, né mai avremo, la minima esperienza. Infine, non si vede in che cosa possa consistere concretamente il divenire della Natura concepita sotto l’attributo del pensiero, in assenza di una teoria analoga al De natura corporum abbozzata nella seconda parte dell’Etica. Sui due primi punti, dopo il grande dibattito svoltosi in Germania nella seconda metà del XIX secolo e i suoi prolungamenti francesi più famosi (Delbos, Huan, Lachièze-Rey), il lavoro d’interpretazione sembra essersi esaurito, mettendoci di fronte a un principio sufficiente per una risposta che elimini il sospetto d’inconsistenza, ma che non per questo chiarisce per intero tutti gli aspetti del paradosso; per contro, l’esegesi è rimasta singolarmente muta sul terzo punto, vuoi perché ritenesse di poco conto la posta in gioco (le semplici conseguenze concrete dello sviluppo di ipotesi astratte), vuoi che, più semplicemente, l’abbia ignorato (non avendo preso sul serio la radicalità della tesi spinoziana). Che cosa sia in gioco col nostro terzo dubbio è tuttavia chiaro: si tratta dell’indipendenza del pensiero in quanto attributo e, quindi, della consistenza concettuale di una tesi che, in quanto tale, resta un’astrazione; forse si tratta anche, in forma più sotterranea, di quel che intendiamo per teoria filosofica e per comprensione di una teoria. Troppo spesso si dimentica che gli oggetti della filosofia non esistono né sono “visibili” fuori della loro enunciazione.²
2
Questo problema non va confuso con quello di ciò che corrisponde loro nel mondo.
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Se la verità del concetto di attributo consistesse nel fatto che, in un’infinità presunta di attributi, solo due sono accessibili allo spirito umano, per lo spinozismo le cose andrebbero piuttosto male. Perché il divenire del pensiero non si riduca al calco ideale del divenire dei corpi e perché in tal modo la molteplicità sia salva, occorre fornire almeno degl’indizi della sua autonomia, l’abbozzo di una formalizzazione indipendente; si vede quindi come i due dubbi cui sono dedicati i maggiori commenti dipendono, almeno in parte, dal terzo. Ora, se nei commenti l’effettivo divenire del pensiero quale lo concepisce Spinoza è avvolto in una nebbia fittissima; se a proposito dei “modi infiniti” dell’attributo pensiero ci si accontenta tanto spesso di congetture vaghe o assai incoerenti, quasi si trattasse di curiosità esotiche prive di reale importanza, ciò avviene senz’altro perché si ritiene che non esiste una fisica spinoziana del pensiero. Su questo punto il presente lavoro offre una smentita: questa «fisica» sembra assente perché non la si cerca là dove si deve cercarla. Istintivamente la si cerca nei paraggi di una meccanica ideale somigliante a quella dei corpi - con la sola differenza che metterebbe in contatto tra loro delle idee... Viene misconosciuta in tal modo la larghezza di vedute dello spinozismo: se le idee hanno natura diversa dai corpi, se un’idea non può avere come «confine» un corpo e viceversa, non c’è motivo che la causalità abbia come suo unico modello le leggi dell’urto, e non potrà trattarsi di una semplice trasposizione metaforica. Occorre dunque vedere se in realtà Spinoza non ha tentato di superare l’ostacolo del materialismo volgare proponendo, con strumenti filosofici inediti, l’abbozzo di una formalizzazione autonoma della natura pensante. In materia, il primo passo viene compiuto mediante una nozione di solito trascurata che, pur essendo secondaria, è tuttavia presente in tutti i momenti decisivi della costruzione, costituendo per questa ragione un prezioso indice rivelatore: la forma. Di solito si considera Leibniz il grande rinnovatore della nozione di forma, data la sua famosa parola d’ordine «riabilitazione delle forme sostanziali». Eppure Spinoza è il primo che assimila la critica cartesiana per superarla, proponendo espressamente, sotto il nome di forma, il concetto di individualità che mancava al meccanicismo.3 Tutta l’Etica è preoccupata di questa conversione della nozione; si tratta di passare dal gioco senza regole delle forme (parte I) alla natura concepita come l’elemento della trasformazione secondo leggi (prefazione della parte III), attraverso una definizione originale (parte II) da cui si sviluppano anche i principi di una medicina (parti IV e V). Questo percorso sembra interessare soltanto il corpo; nondimeno, la definizione della forma viene data nel De Mente, entro la cornice di una domanda
3 In un altro lavoro, Le conservatisme paradoxal de Spinoza. Enfance et royauté (PUF, coll. «Pratiques théoriques», Paris, 2004) abbiamo messo in luce che cosa comportino sul piano etico-politico i concetti di forma e di trasformazione, affrontando in particolare il problema dell’educazione.
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sulla «forma dell’uomo» e sull’«essere formale della mente umana». Occorre chiedersi se questa non sia che omonimia o un vestigio dell’uso scolastico. L’esame rivela che non è nulla di tutto questo e che a questo punto, al contrario, si schiude la più strana regione speculativa dello spinozismo - quella che, mediante l’elaborazione di una lingua speciale, conduce a una teoria dell’universo pensante («intelletto infinito»). Le famose stranezze verbali della II parte dell’Etica acquistano a questo punto tutto il loro senso; lungi dal contribuire all’oscurità dell’opera, hanno il solo intento d’instaurare un piano inedito del pensare e di portarvi il lettore che accetti di praticarlo. Crediamo pertanto che lo spinioziano non si debba tradurre, ma che occorra imparare a parlarlo (la famosa idea della mens idea corporis diventa così ben altro che un modo di dire e si dissolvono certe illusioni interpretative). Infine, questa rilettura della parte II dell’Etica fa capire, nelle due ultime parti dell’opera, il richiamo insistente alla correlazione psicofisica, ogni volta si abbia a che fare con la trasformazione individuale (aliam formam induere, in aliam formam mutare). Non solo tutte le analisi spinoziane dei fenomeni mentali, dal sogno all’amnesia, dall’allucinazione all’idea negativa, devono essere rivisitate nella prospettiva di questa nuova fisica cogitativa generale, che rifiuta di considerare sia lo spirito individuale sia il corpo come «uno Stato nello Stato», per ricollocarli nell’infinita trama causale di una Natura; ma la questione stessa dello statuto dell’idea (la nozione comune, l’intuizione di terzo genere) ritrova le sue condizioni appropriate - quelle di un problema posto prima della divisione astratta dell’epistemico dall’ontologico. La presente opera si propone quindi quattro compiti: 1 esporre il rinnovamento spinoziano della nozione di forma; 2 passare dall’individuazione corporea a quella ideale; 3 sviluppare i principi dell’idioma spinoziano che fa accedere al piano dell’intelletto infinito; 4 ricostruire la grande psicopatologia dell’Etica.
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Capitolo I
Il nuovo concetto di forma «Infatti, poiché la materia, grazie a quelle leggi,4 assume successivamente tutte le forme delle quali è capace, se consideriamo tali forme con ordine, alla fine potremo giungere alla forma di questo mondo, sicché non si debba temere alcun errore da una falsa ipotesi» [tr. it. 337].
Termina con questa frase l’introduzione al commento incompiuto del libro III dei Principi di filosofia di Cartesio, frase che mira a giustificare il ricorso a un’ipotesi arbitraria per la spiegazione delle cose. In questo libro III si passa così da una fisica generale (esposizione dei principi e delle leggi) a una fisica della realtà individuale. Questo passaggio è doppiamente deduttivo: 1. si tratta di passare dai principi alle «cose che ne derivano»;5 2. dato che la vera spiegazione è quella genetica, non si accontenta, cioè, di descrivere le cose «così come sono» ma fa vedere «come hanno origine»,6 si dovrà far leva su un secondo tipo di principi. Poiché il pensiero non può andare dalle leggi alle cose se non eseguendo, almeno fittiziamente, il movimento direttamente con le cose, e poiché in sostanza la deduzione avviene nella forma sfasata di una genesi, i principi a loro volta si sdoppiano in leggi e semi (vedremo più avanti, persino nell’Etica, l’importanza di questo sdoppiamento). Ora, quel che interessa non è l’origine: discesa o risalita, il vantaggio di ogni genesi non sta nel rivelare da dove vengano le cose, ma nel farle apparire come dei prodotti, nel mostrare il mondo come cosa derivata. Quel che importa non è tanto la verità della premessa quanto la necessità del nesso che la lega alla sua conseguenza; può anche essere fittizia, purché si ottenga di dedurne il mondo. C’è però anche una ragione positiva, di cui la frase citata non fa che riprendere alla lettera la formulazione cartesiana7 e che neutralizza, e persino giustifica, che la scelta dell’ipotesi sia indifferente: la materia, comunque, passa attraverso tutte le sue forme possibili, così che la deduzione, tenuta a questo principio dell’esaustività, quale che sia il suo punto di partenza perverrà un momento o l’altro allo stato attuale del mondo. Questo ragionamento si oppone a ogni idea di una pluralità di mondi possibili. Non ne sarà tratto in inganno Leibniz, il quale non perderà occasione per denunciare in questo argomento della trasformazione esaustiva la via, esiziale per la morale, che conduce direttamente dal cartesianesimo allo spinozismo.8 In effetti, Si tratta delle leggi di natura. Principes de la philosophie de Descartes, III, Appuhn, vol. 1, 328. 6 Ibid. 7 Cartesio, Principi, III, art. 47. 8 G. Friedmann, Leibniz et Spinoza, 153, soprattutto 156-157. 4 5
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prima di lui Spinoza aveva indubbiamente meditato a lungo sulle potenzialità della formula materia formas omnes quarum est capax successive assumit, che a molti appare, per vari aspetti, la matrice del determinismo fisico dell’Etica. Questa frase, anche solo per il suo andamento scolastico e il suo ruolo decisivo in un momento critico del meccanicismo cartesiano, conta meno per il suo significato letterale, oscuro a ben considerare, che per il tema ancora indeterminato che propone allo spirito acuto del giovane Spinoza. Questi ne aggiornerà i tre tratti salienti, di ognuno dei quali proporrà un concetto inedito, e romperà così, in nome dello stesso meccanicismo, con chi ne era stato l’iniziatore: 1. la potenza della materia (materia capax), 2. l’individuazione totale o partitiva (formas), 3 l’attuazione esaustiva, e quindi necessaria, di tale potenza (formas omnes successive assumit). Il sorgere della concezione spinoziana della Natura si salda dunque all’elaborazione di una dottrina della trasformazione. Meglio, l’elaborazione di una simile dottrina concerne tre punti capitali della critica al cartesianesimo: trascendenza della causa del movimento; inconsistenza dell’individualità fisica; fondazione malcerta dell’unicità e costanza del mondo. Infine, si delinea un’ultima direzione di pensiero: la riflessione sul metodo ipotetico di Cartesio conduce al tema della definizione genetica.
1. Traslazione simultanea: l’inconsistenza del composto cartesiano
Si è in generale d’accordo nel riconoscere in Cartesio lo statuto precario dell’individualità.9 Due, a prima vista, sembrano esserne le definizioni concorrenti: quella mediante il volume e quella mediante il movimento. Nella seconda parte dei Principi, Cartesio spiega che se di uno stesso corpo si può dire che passa dallo stato di condensazione a quello di rarefazione, ciò avviene perché il cambiamento interessa solo la sua figura e non la sua estensione; un aumento della sua estensione implicherebbe in realtà l’aggiunta «di nuova sostanza o di un nuovo corpo».10 Ossia, quel che rimane immutato è il suo volume o la sua quantità di materia: il modello è la spugna. Questa definizione è la conseguenza dell’identità di corpo ed
9 G. Lewis, che aveva dedicato al problema la sua tesi, parla di «agglomerati fragili» (L’œuvre de Descartes, 384 - cfr. anche L’individualité chez Descartes, 65); P. Lachièze-Rey di «combinazione transitoria» (Les origines cartésiennes du Dieu de Spinoza, 57); M. Gueroult, vol. 1, 543 n. 52, di «insiemi precari». Questi giudizi hanno avuto la loro prima celebre espressione in Leibniz, il quale rimprovera al meccanicismo cartesiano di pensare, col termine corpo, a un mero aggregato privo di una vera unità; tanto più che il criterio d’individuazione dell’aggregato - la traslazione simultanea, vedi il seguito - si basa su una concezione affatto relativista del movimento, che non consente di attribuirgli un soggetto. Il corpo, in definitiva, è tanto più privo di realtà in quanto il moto, che fa parte della sua definizione, non ne ha affatto. A questa duplice carenza deve porre rimedio il concetto di forza. Cfr. Remarques sur la seconde partie des Principes de Descartes. 10 Principi, II, art. 5-7.
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estensione-materia; la loro differenza è solo una distinzione di ragione, essendo il corpo la sostanza o il soggetto al quale logicamente viene attribuita l’estensione. Se l’identità di un corpo consiste nella conservazione di una stessa quantità di materia, la costanza volumetrica in quanto tale non è in grado di fornire una definizione dell’individuo, poiché ancora non sappiamo che cosa s’intende per quantità di materia. È quanto verifichiamo empiricamente: misurare la costanza di un volume nel corso delle variazioni di un corpo presuppone che quest’ultimo sia stato in precedenza distinto, individualizzato. Tutt’al più disponiamo di una definizione nominale: per corpo Cartesio non intende altro che una parte della materia. È quindi solo l’inizio della definizione reale: «Per un corpo, ovvero per una parte della materia, intendo tutto quello che è trasportato assieme, sebbene sia forse composto di molte parti, che impiegano nel frattempo la loro agitazione a fare altri movimenti.»11 Nel senso in cui, dopo Hobbes, la comprenderà Spinoza, si può vedere in questa una definizione genetica, dal momento che indica la causa del corpo, per di più non semplicemente immaginata: il trasporto simultaneo delle parti. Questa definizione, tuttavia, crea più difficoltà di quante ne risolva. Non contiene una formula che renda individuale il rapporto reciproco delle parti, in modo tale che questo rapporto possa sussistere, e l’individuo mantenere la propria identità, nonostante il mutare e il rinnovarsi delle parti. Il principio d’individuazione sta nelle parti stesse in quanto vengono trasportate insieme. La permanenza del corpo dipende da quella delle sue parti, e questa era già una conseguenza implicita del ragionamento sul volume o dell’identificazione del corpo individuale con una parte della materia: «È evidente che non si potrebbe togliere nessuna parte da una tale grandezza, o da una tale estensione, senza togliere la stessa quantità anche dalla cosa».12 Di modo che il corpo non è in fondo altro che una composizione accidentale: «Il corpo umano, in quanto differisce dagli altri corpi, è semplicemente formato e composto da una certa configurazione delle membra e da altri simili accidenti».13 Paradossalmente, per altro, più si sale nella scala degli esseri, più l’individuazione diventa incerta: il corpo organico, che di continuo scambia parti con l’ambiente (alimentazione) è quindi pressoché privo d’identità.14 «Infatti, quando parliamo di un corpo in generale, intendiamo
Principi, II, art. 5. [tr. it. vol. 2, 87]. Il cap. III di Le Monde dava già una definizione simile, anche se formulata in termini meno rigorosi: «Di passaggio si osservi che qui io prendo, e sempre in seguito prenderò, come fosse una parte sola tutto ciò che sta unito insieme e che non è in corso di separazione; e questo benché quelle parti che sono piccole quanto si voglia possano facilmente venir divise in molte altre molto più piccole: perciò un granello di sabbia, una pietra, una roccia e persino tutta la Terra potranno in seguito essere prese come una parte sola, in quanto vedremo in esse un solo movimento affatto semplice e sempre uguale» (Alquié, t. 1, 329). 12 Principi, II, art. 8 [tr.it. vol. 2, 76]. 13 Abregé des méditations, Alquié, vol. 2, 401 14 Osserviamo che in Cartesio l’organicità in quanto tale non può in alcun caso avere il valore 11
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una parte determinata della materia e, insieme, della quantità di cui l’universo è composto, sicché non potremmo sottrarne la pur minima quantità, senza per ciò stesso giudicare immediatamente che il corpo è più piccolo di prima e che non è più integro, né potremmo cambiare alcuna particella di questa materia senza ritenere, da quel momento, che il corpo non è più totalmente lo stesso o idem numero».15 Il corpo si vede quindi rifiutare esplicitamente lo statuto di sostanza, benché in Cartesio sia il nome stesso della sostanza estesa, il supporto logicoontologico dell’estensione. Pertanto, se il corpo particolare non è una sostanza, il solo supporto possibile è il «corpo in generale»,16 di cui i corpi particolari non sono oramai che i modi. Alla pluralità delle cose pensanti, per loro natura semplici, corrisponde logicamente una sola e unica cosa estesa. Ci si avvicina così a quella che sarà la concezione di Spinoza, con la sola riserva che l’estensione non è attribuita a Dio, il quale non può avere modi; poiché Cartesio concepisce i modi solo al plurale, segni della diversità e del cambiamento, sarebbe recare pregiudizio sia alla semplicità sia all’immutabilità divine (Spinoza, al contrario, introdurrà la nozione di «modo eterno e infinito»).17 Da un lato, l’estensione cartesiana, elevata al rango di sostanza unica, nonostante tutto rimane un continuo divisibile e diviso; dall’altro, è priva di potenza, di quella potenza che in Spinoza le verrà dalla sua stessa essenza (causa sui ratio). Quest’ultimo aspetto indica la via per collegare il modo all’essenziale, per reintrodurre un principio interno nel regno delle partes extra partes, salvando in tal modo il principio d’individuazione. È questa, dunque, la seconda carenza della definizione dell’individuo mediante lo spostamento reciproco delle parti: un rapporto di semplice contiguità e in definitiva d’indifferenza tra le parti, la cui unica forza di coesione è il loro stato di quiete reciproca. Il testo de il Mondo è rivelatore: l’unione è totalmente negativa,
di criterio d’individuazione poiché, dal punto di vista della natura, la finalità attribuita alla macchina non ha realtà. Come scrive Gueroult, l’orologio che si guasta «non può essere in difetto in relazione alla propria natura, perché non ha una natura» (Descartes selon l’ordre des raisons, vol. 2, 173). Quel che secondo Cartesio vale per l’orologio vale a fortiori per un qualsiasi animale. Gueroult mostra come la riduzione della «mia natura» a una macchina, quindi a un semplice modo dell’estensione, permette di scagionare Dio nel caso della malattia. Tuttavia Cartesio non può fermarsi a questa soluzione, che si basa sull’inaccettabile assimilazione del corpo umano a quello dell’animale, negando in tal modo l’unione sostanziale dell’anima e del corpo affermata in precedenza (ivi, 171-175). 15 Lettre à Mesland, 9 febbraio 1645, Alquié, vol. 3, 547 [tr. it. 1965]. G. Lewis cita anche la lettera a Mersenne del 9 febbraio 1639: «la materia sottile non si ferma mai in uno stesso corpo eadem numero... ne entra continuamente della nuova... tanta quanta ne esce» (Op. cit., 59 [tr. it. 978] ). 16 Abrégé des méditations, ibid. Si badi di non confondere il «corpo in generale», in cui con Gueroult ravvisiamo una sostanza unica, col «corpo in generale» della lettera a Mesland, che significa soltanto un corpo qualsivoglia. 17 Principi, I, art. 56.
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consiste nel fatto che la combinazione «non è in corso di separazione»; quanto al «movimento affatto semplice e sempre uguale», la sua realtà è soltanto esteriore e relativa ai corpi vicini. In un certo senso Spinoza invertirà il rapporto: introdurrà una coesione in virtù della pressione esterna dei corpi circostanti, ma soprattutto una comunicazione interna tra i movimenti, un loro concorrere - il loro produrre in comune uno stesso effetto. Questo, però, solo in un certo senso, poiché questo positivo concorrere delle parti apparirà esso stesso un fattore di coesione. In Cartesio, il modo, sprovvisto di ogni interiorità, in definitiva ha realtà solo a titolo di oggetto per lo spirito: in sé non ha realtà, né di lui si può dire che esista; il composto come tale, o l’intero, si rivela inconsistente.18 In questo senso, può anche durare e permanere per un certo tempo (la costanza del suo volume), ma resta pur sempre strutturalmente accidentale, esteriore a sé stesso, né l’unità del movimento basterà mai a unificare la pluralità irriducibile che lo costituisce. E poiché la sua realtà non è diversa da quella delle sue parti, sembra persino che il problema della realtà ci porti a un regresso infinito. L’ambiguità si rivela nella definizione stessa del corpo individuale, nella quale, contro ogni regola, il termine da definire compare anche in quello che lo definisce: una parte sono parti che si spostano insieme. Va ricordato che la diversità deriva soltanto dal movimento.19 Ma il movimento è anche ciò che combina le parti e che, di conseguenza, compie l’operazione inversa dell’iniziale frammentazione del continuo, donde la variabilità di questa diversità, la divisione indefinitamente rimaneggiabile delle entità discrete. Non intendiamo insistere sul ben noto carattere logicamente circolare della genesi del diverso in Cartesio;20 prendiamo in considerazione, invece, un testo in cui il problema della divisibilità viene associato, almeno per i termini usati, a quello dell’individuazione.
«Indubbiamente Cartesio ha detto che, per la sua organizzazione, il corpo forma un tutto e un’unità che serve da intermediario all’anima per unirsi a lui. Tuttavia, di quest’organizzazione, in quanto tale, non ammette una specifica espressione ideale, rimanendo in sostanza fedele alle esigenze del meccanicismo, che va dalle parti al tutto senza dare al tutto un suo valore unificante. In Spinoza, al contrario, nell’individuo il tutto s’impone in certa misura alle parti di cui è l’unione; esso possiede una sua legge propria d’esistenza e di sviluppo» (Delbos, Le spinozisme, 89). 19 «Riconducendo la materia all’estensione matematica omogenea, [Cartesio] sembrava senz’altro escludere dalla materia ogni principio essenziale d’individuazione; doveva sostenere che la materia, originariamente priva di ogni distinzione e specificazione di parti, riceve dal solo movimento quella varietà di cose che manifesta; tale varietà è dunque modale, non sostanziale; nella sua realtà di fondo, la sostanza estesa deve essere una. In tal modo Cartesio si apriva a Spinoza» (Delbos, Le spinozisme, 52). 20 G. Lewis cita in proposito il De ipsa natura di Leibniz: «In una massa perfettamente omogenea, indifferenziata e piena, infatti, non si origina nessuna figura o limite o distinzione di parti se non in virtù dello stesso movimento. Pertanto, se il movimento non contiene in sé nessun segno distintivo, nemmeno lo darà alla figura» (L’individualité chez Descartes, 52). 18
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«Infatti, per il solo fatto che considero le due metà di una parte di materia, per piccola che possa essere, come due sostanze complete, e le cui idee non sono rese da me inadeguate per un’astrazione dell’intelletto, concludo con certezza che esse sono realmente divisibili. Se mi si dicesse che, nonostante possa concepirle, non per questo so se Dio non le abbia unite o congiunte insieme in virtù di un legame così stretto che esse siano assolutamente inseparabili, sicché non ho ragione di negarlo, risponderei che, quale che sia il legame in virtù del quale Dio possa averle congiunte, sono certo che può anche disgiungerle, in maniera tale che, assolutamente parlando, ho ragione di chiamarle divisibili, poiché egli mi ha dato la facoltà di concepirle in tal modo» (lettera a Gibieuf, 19 Gennaio 1642 [tr.it., 1565]).
La natura dell’obiezione immaginata da Cartesio fa pensare che la divisibilità non sia pensabile altrimenti che in relazione a un’originaria divisione, alla quale Dio porrebbe rimedio mediante congiunzioni, ossia con delle combinazioni: «congiungere» e «disgiungere» caratterizzano un individuo che si compone o scompone.21 Il divisibile è ciò che può essere disgiunto perché precedentemente congiunto; non rinvia più al continuo, ma a una suddivisione in parti, che impedisce di considerare la divisione attuale come una divisione che separa termini semplici. La divisibilità è quindi il correlato del composto o «di ciò che è congiunto», che cioè viene trasportato insieme; la definizione stessa della parte di materia implica la sua divisione attuale, il che genera un’equivoca distanza tra la nozione di divisione e quella di divisibilità; in effetti, la divisione porta, in linea di principio, dal continuo al discreto, mentre la divisibilità, considerata come realtà in atto, va dal composto alla sua scomposizione possibile e diventa, quindi, sinonimo di separabile (a ciò sembra opporsi, è vero, la tesi cartesiana secondo cui la divisione non si produce necessariamente in maniera completa, ma si tratta di una tensione, o addirittura di una contraddizione del sistema probabilmente insuperabile). La tesi stessa della divisibilità rivela così di avere a fondamento la nozione del composto; rovinerebbe se questa nozione si rivelasse inconsistente. Indubbiamente Cartesio è in grado di fornirne il concetto (traslazione simultanea) ma, come si è appena visto, non solo la sua identità nel tempo è precaria, ma la realtà della sua unità può essere messa in dubbio. Di conseguenza, l’individualità, la composizione, sono alcunché di diverso da una divisione operata dall’intelletto? Se, almeno in senso logico, la nozione di sostanza sembra salva, forse il rimaneggiamento continuo cui è sottoposta la divisione attuale compromette la possibilità stessa di una predicazione; un corpo si alza, si siede, alza le spalle, prende in mano un oggetto: ma quale corpo? Quale mano? Le figure e i movimenti che vengono attribuiti al corpo sembrano vagare senza un supporto, dal momento che questo stesso supporto può venir indicato solo in termini di figura e movimento. Quale sarà, dunque, il soggetto della divisibilità?
21
Cfr. «tutto ciò che è congiunto insieme», nella definizione da Il mondo sopra citata.
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La nozione stessa di divisibilità è ben singolare. Per forza dovette apparire oscura a Spinoza, per il quale ogni potenza è in atto; da un lato egli avrebbe eliminato la divisibilità, dall’altro avrebbe sostenuto un’infinita divisione modale, opponendosi due volte a Cartesio, il quale affermava una materia realmente divisibile ma non indefinitamente divisa. Che cos’è in realtà la divisibilità senza una divisione in atto che non anticipi la separazione effettiva delle parti? Come non credere che vi sia qui una certa ambiguità concettuale? Si direbbe che Cartesio gioca sull’equivoco, quasi postulasse implicitamente un’infinita divisione reale in atto, proprio mentre concepisce la divisione in un senso diverso, quello cioè dell’ordine instabile delle composizioni-scomposizioni, in cui ciò che è diviso, pensato come «disgiunto», possa di nuovo ricongiungersi - come in realtà si presenta in natura quando diciamo di avere a che fare con dei corpi. Ma occorre proprio che questa divisione all’infinito sia reale? Non ne verrebbe accentuato il carattere artificiale dei composti? Ci si può spingere ad affermare che Cartesio ha sostenuto questa tesi? La potenzialità dovrà pure essere fondata nell’essere, avere cioè una consistenza positiva, senza per ciò stesso confondersi col passaggio all’atto che l’annulla; presuppone quindi un’originaria divisione all’infinito (che tuttavia Cartesio non ha mai formulato) e, al tempo stesso, una composizione reale che l’annulla o la compensa, sostituendole una divisione della materia in composti. È questa la genesi della divisibilità. La divisibilità dell’individuo esige in realtà che lo si concepisca come un composto. In altri termini, non c’è nulla che indichi che Cartesio abbia pensato a una divisione reale della materia: quando definisce la parte di materia, intende espressamente un composto, e anche quando precisa che persino una parte che Dio rendesse «tanto piccola che nessuna creatura avesse il potere di dividerla» sarebbe ciononostante divisibile, continua a vedervi un composto. Il problema non è, quindi, sapere se, supponendo reale la divisione si rende irreale ogni individualità, ma se la divisione modale all’infinito, che è la sua tesi tendenziale soggiacente a quelle della divisibilità infinita e della divisione non necessariamente infinita, si basi su una sufficiente consistenza del composto. Ora, se la realtà di quest’ultimo si basa su quella delle sue parti, e questa a loro volta su quella delle loro e così via, ogni realtà discreta sembra scomparire nell’infinitamente piccolo e la divisione non sembra più poter svolgersi logicamente, essendo i suoi termini privi di unità. A salvarla potrebbe essere solo l’idea di una consistenza vera di unità composite che non si risolvessero immediatamente nelle loro parti. Ma il trasporto simultaneo non è affatto in grado di fornire questo punto d’appoggio poiché, essendo soltanto l’immediatezza di un rapporto qualsiasi tra le parti, (condizioni di una possibile predicazione: il movimento e quindi la figura possono cambiare, purché le parti rimangano solidali) lascia come fondamento dell’individualità l’identità numerica delle parti. Se dunque è vero che la tesi della divisibilità non si fonda su una definizione sufficiente dell’individualità, occorre concepire la rifondazione spinoziana del principio d’individuazione come quella che salva la divisibilità infinita della materia modale. Che la parte sia sempre un composto è quanto conferma, da ultimo, 39 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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l’enunciato della definizione dell’individuo proposta da Il mondo: «...una pietra, una roccia e persino tutta la Terra potranno in seguito essere prese come una parte sola, in quanto vedremo in esse un solo movimento affatto semplice e sempre uguale».22 L’individualità viene ricondotta a un atto di sintesi la cui realtà è solo nell’intelletto. L’intelletto, certamente, non suddivide la materia in modo arbitrario, come per altro può immaginare di fare.23 Dal carattere accidentale della composizione dell’esteso deriva una conseguenza ancor più grave della corruttibilità estrema del composto: l’unità prodotta, puramente esteriore, non ha realtà nell’essere, non ha consistenza ontologica, non essenza. Aggiungiamo ancora un terzo tratto non privo di gravità: il corpo definito come «tutto ciò che viene trasportato insieme» è distinto solo in maniera negativa o estrinseca, ossia in rapporto ai corpi vicini considerati in quiete; la relatività del movimento comporta per Cartesio la relatività del corpo che si ritiene che il movimento individui. La sostanza svanisce, o piuttosto è lacerata tra il suo svanire nella pura modalità e il suo permanere ostinato come sostrato dal punto di vista del senso comune. Spetterà a Spinoza riassorbire questo divario, rimaneggiando con una sola mossa la nozione di modo e il concetto di individuo.
2. Il pezzo di cera: quantità di materia e identità
È vero che, da un altro punto di vista, la nozione di sostanza sembra conservare intera la sua validità. Come si diceva, da solo il criterio della solidarietà cinetica non conferisce al composto alcuna individualità. Ma il pezzo di cera delle Meditazioni non si distingue appunto in forza di un «invariante numerico»?24 Sopra abbiamo fatto notare che la costanza quantitativa di un corpo non poteva certo valere come principio cartesiano dell’individuazione, dal momento che lascia aperto il problema di sapere che cosa sia una quantità (o parte) di materia e, di conseguenza, si fonda sulla definizione reale fornita dall’idea di traslazione simultanea di una pluralità di parti. Ora, quest’idea lascia indeterminati, a un tempo, la natura della traslazione (velocità, direzione) e il comportamento reciproco delle parti (sempre che possano essere considerate in quiete relativamente a ciò che è immediatamente vicino). La nozione di quantità di materia si basa su una
Sottolineatura nostra. Principi, II, art. 23 [tr. it. vol. 2, 85]: «Poiché, sebbene possiamo fingere, col pensiero, divisioni in questa materia, nondimeno è certo che il nostro pensiero non ha il potere di nulla cambiarvi, e che tutta la diversità delle forme che vi si trovano dipende dal movimento locale ». 24 «L’invariante numerico costitutivo della sostanza cera è ciò che fa sì che possiamo pensarla, chiaramente e distintamente, separata dagli altri modi dell’estensione, e che, dando ragione di tutte le modalità geometriche che può comportare, mi consente di comprenderle e, al tempo stesso, di comprendere - e quindi di conoscere - la cera dalla quale esse dipendono e che rimane immutabile sotto le loro trasformazioni» (Gueroult, Descartes selon l’ordre des raisons, vol. 1, 108). 22 23
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delimitazione puramente estrinseca: se si pretende che la sua permanenza sia sufficiente a identificare un corpo, occorrerà aggiungere che, a sua volta, questa permanenza è relativa a quel che sta intorno. Dobbiamo quindi riconsiderare in questa prospettiva le trasformazioni subite dalla cera, delle quali sappiamo con certezza, per un atto dell’intelletto, che sono relative alla stessa quantità di materia. Comprendiamo in tal modo che quest’identità è relativa (diagnosi che per altro non toglie al giudizio la sua validità: relativa o no, abbiamo comunque un’idea chiara e distinta dell’identità della cera). Si tratta, in definitiva, dell’identità di un nulla: uno schema vuoto per un’individuazione casuale, una composizione aleatoria di movimenti indifferenti gli uni agli altri. E proprio di questo nulla ci viene detto che permane attraverso le alterazioni subite dalla suddetta quantità. Se dunque l’intelletto può giudicare che, sotto il cambiamento della figura, «rimane la stessa cera», questo avviene perché il trasporto simultaneo delle parti è indifferente alla loro configurazione, purché restino solidali in rapporto ai corpi vicini. Spinoza, al contrario, vi vedrebbe una trasformazione, nel senso preciso che darà a questo termine,25 ossia la sostituzione di un individuo a un altro, poiché le parti, anche se rimangono solidali, sotto l’effetto del riscaldamento hanno assunto tra loro nuovi rapporti di quiete e di movimento. Pertanto, il corpo del poeta colpito da amnesia, avendo subito un’alterazione dovuta alla malattia, stabilisce tra le sue parti relazioni nuove che definiscono un corpo inedito, non attribuibile al detto poeta.26 Indubbiamente, nel caso del corpo vivente, uno scambio continuo di parti rende impossibile, per Cartesio, assegnargli un’identità (almeno se, per il momento, ci asteniamo dal prendere in considerazione la soluzione personale che dà al problema). In gioco però non c’è questo, e possiamo anche supporre che il mutamento si produca istantaneamente, tra le stesse parti in senso numerico (come del resto fa Spinoza).27 Passiamo così da una determinazione relativa del composto a una determinazione assoluta mediante il movimento; non che il movimento sia concepito come un assoluto, ma è oramai considerato come un rapporto costante interno al composto e non più un rapporto costante tra le parti (allora) componenti e l’ambiente. Osserviamo, infine, che l’identità del pezzo di cera non si riduce alla permanenza di un’identica quantità di materia; il pezzo si conserva anche in quanto cera (permanenza specifica) - cosa che rischia di rendere difficile per Spinoza un’interpretazione in termini di trasformazione in senso stretto. La difficoltà è che quanto di essa permane è comunque un pezzo, donde l’apparenza
25 Quello, cioè, di mutamento di essenza, d’identità, di soggetto: in aliam formam mutare. Per una definizione della trasformazione, cfr. Pensieri metafisici, II, cap. 4. 26 Etica, IV, 39, sc. 27 «... intendo morto quel corpo le cui parti sono disposte in modo da ottenere tra loro un’altra proporzione di moto e quiete» (ibid. [tr. it. 1010]).
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di un doppio criterio, di un’identità equivoca espressa dalla formula «la stessa cera»: è sempre cera e nella stessa quantità.28 In realtà, la permanenza è quella di una certa quantità di cera, non di una quantità di materia in generale. Si ritiene che la spiegazione della «forma» di cera sia una certa configurazione elementare dovuta al movimento. Solo per astrazione, quindi la cera verrà separata dalla sua quantità, ossia si prenderà in considerazione la nuda materia, non qualificata.29 Sarebbe inutile chiedersi a questo punto se la configurazione è quella delle parti prese separatamente, o quella dell’insieme che essa stessa costituisce; poiché ogni parte si risolve in più parti (traslazioni simultanee), la sua figura costituente consiste nella disposizione delle sue parti. A meno di introdurre dell’equivocità nel termine figura, cosa che Cartesio espressamente non fa mai, dobbiamo concludere che la figura è ciò che individua o specifica, soltanto con una differenza di livello.30 Se la cera cambiasse figura, non rimarrebbe più cera. Un pezzo di cera è la traslazione congiunta - rispetto a un ambiente considerato in quiete - di parti definite a loro volta dalla traslazione congiunta di parti, le quali per ciò stesso costituiscono la figura o il composto cera: particelle di particelle (benché Cartesio non lo dica mai; ma, come abbiamo visto, l’incompiutezza della divisione implica che le particelle ultime, divisibili ma non divise, si sottraggano alla definizione di parti di materia). È senz’altro vero quindi 1. che per l’individuazione non basta un qualsiasi movimento e 2. che le figure differenti o i diversi stati per cui passa il pezzo di cera danno luogo ad altrettante individuazioni distinte. O ci si attiene alla definizione dell’individualità (traslazione congiunta) che si accorda con la supposta permanenza individuale del pezzo di cera, ma se ne dovrà concludere l’equivocità del concetto di figura; oppure si dovrà contestare la definizione e reinterpretare l’esperienza, cessando di confondere i livelli (non è il pezzo di cera che si conserva, ma la cera, come per altro Cartesio dice senza però sviluppare le conseguenze, ossia si conservano delle particelle di cera, di figura identica, di cui cambiano i movimenti reciproci, col conseguente cambiamento della configurazione complessiva).
28 G. Lewis, L’individualité de Descartes, 58 ha sottolineato questa difficoltà, contrariamente a Gueroult, il quale la evita, limitandosi a sottolineare i due aspetti separatamente (Gueroult, Descartes selon l’ordre des raisons, I, 113: «Nell’universo la specie cera rimane» - il fatto che si tratti di un pezzo è un problema che non c’è più). 29 Si ricordi la critica cartesiana alla «materia prima» degli scolastici: Le Monde, Alquié, cap. IV, t. 1, 345. 30 Si obietterà che talvolta la specificazione ha luogo mediante la grandezza e il movimento, senza riferimento alla figura; questo sembra riguardare i tre elementi fondamentali nell’ipotesi de Il Mondo, cap. V. Ma proprio questi elementi non possono cambiare movimento senza cessare di essere quel che sono: è ciò che fa la corruttibilità della fiamma a differenza dell’elemento fuoco. Il contatto degli elementi eterogenei incorruttibili dà luogo a forme di «corpi misti», tra i quali va annoverata la cera, che può passare per diversi stati senza distruggersi, il che richiede un terzo criterio: la configurazione elementare.
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È probabile che Spinoza abbia riflettuto a fondo su questo problema, dal momento che, a mo’ di fisica, propone una teoria generale della trasformazione (cosa che, del resto, era già l’intento del Pitagora di Ovidio quando introdusse l’immagine della cera),31 e che a proposito dell’amnesia del poeta spagnolo solleverà la questione di una trasformazione sotto l’apparente continuità della sua identità. Si avrà un ribaltamento completo della prospettiva cartesiana: lo scambio continuo delle parti, anziché minacciare l’identità dei corpi, ne sarà l’aiuto indispensabile; mentre si rivelerà illusorio il giudizio con cui l’intelletto afferma la permanenza dell’identità sotto il cambiamento delle «forme» (per riprendere il termine di Cartesio, di estensione più ampia di quello di figura). Come la cera, per cambiare «forme», non deve più decomporsi in quanto cera, lo stesso il corpo umano non deve più essere ridotto allo stato di cadavere per scambiare la sua forma con un’altra. La specie resta, non l’individuo.
3. L’individuo e la specie in Spinoza
La difficoltà, evidentemente, è che l’individuo in quanto tale non sembra costituisca a sua volta una specie, così che in qualche modo l’equivoco rimane (un’altra difficoltà è che il corpo umano non è formato da una sola specie materiale, ma di parti dure, molli e fluide; la sua specie è solo apparente). Chi potrà dircelo? Quando identifichiamo per specie due pezzi di cera, non passiamo su un altro piano? L’apparenza che suggerisce all’intelletto il giudizio non viene in realtà dal fatto che tale apparenza rimanda a un piano d’individuazione inferiore che riguarda solo le parti costituenti? Si obietterà che non è così per l’uomo, poiché in questo caso la specie deriva sia dall’organizzazione globale delle parti, sia dalla loro natura particolare (o dall’organizzazione propria di ciascuna). Proprio questo, ci pare, consente di porre in Spinoza il problema della specie in modo corretto: se l’umanità consiste in una certa organizzazione di parti, la definizione ha il merito di tener conto dell’organismo; ma, da un lato, è una definizione indifferente alla natura delle parti (quando, invece, il fegato di una scimmia non è un fegato umano), d’altra parte non si vede come il rapporto tra le parti potrebbe variare e costituire un criterio di distinzione individuale; se, per contro, l’appartenenza alla specie umana si decide sul piano delle parti stesse, il loro rapporto reciproco rimane disponibile per la definizione dell’individualità, il che non significa che diventi indifferente - è infatti comprensibile che, data la loro natura, le parti non possano stabilire che un tipo di rapporto - ma solo che il suo margine di determinazione è relativamente stretto, di modo che gl’individui non sono identici ma si assomigliano. Solo l’identità delle parti (dei tessuti, ad esempio) assicura la comunanza di specie (qui occorre certamente scendere al
31
Ovidio, Le Metamorfosi, libro XV.
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di sotto degli organi, che sono essi stessi molto compositi o organizzati, ossia composti di individui di diversa natura).32 Ci sembra, quindi, che nulla impedisca di dire che ogni individuazione è una specificazione, o che la forma è quella di una specie individuale. Certamente una simile interpretazione si scontra coi testi sulla definizione.33 Ma il problema non va preso nell’altro senso? Vista a partire dalla geometria, la definizione sembra a prima vista potere riferirsi solo alle nature specifiche, fatta eccezione per Dio, la cui essenza include l’esistenza. Si noterà 1. che Spinoza ragiona qui in funzione di un rapporto specie-individuo che presuppone, poiché il suo problema è un altro (la distinzione della sostanza e delle sue modificazioni) e non vuole urtare inutilmente il senso comune; 2. che «la definizione del triangolo non esprime altro che la semplice natura del triangolo, ma non un qualche numero determinato di triangoli», mentre si può senz’altro definire il tal triangolo, non solo come una sottospecie (isoscele, ecc.), che ancora non basta, ma anche come individuo, mediante la lunghezza dei suoi lati e il valore dei suoi angoli; 3. che se, a differenza di Dio, la figura geometrica è un semplice ente di ragione, per contro tutto lo scopo del nuovo concetto di individuo sarà appunto di rendere quest’ultimo definibile, almeno in linea di principio, mediante l’attribuzione di una proporzione. Inoltre, consideriamo bene qual è il problema sollevato da Spinoza: la definizione non include mai un numero. C’è qui un’obiezione all’idea di natura individuale o all’idea di una definizione relativa all’individuo stesso? Semplicemente, nulla garantisce che non possano esistere più individui identici; la definizione dell’individuo Spinoza - una certa proporzione costante di movimento e quiete, come vedremo - non include né il numero 1 né il numero 20. Questo equivale soltanto a dire che, nel caso di una cosa finita, si deve distinguere la sua essenza dalla sua esistenza. Perché esista un solo Spinoza occorrerà una ragione di un ordine diverso, metafisico: la causa seu ratio, Dio che produce le cose come deduce le proprietà dalla sua essenza (e non c’è nessuna necessità che la stessa proprietà venga dedotta più volte). Di conseguenza, tutto quel che si può dire è che una simile costruzione si tiene lontana dall’embriologia, sembra cioè muovere dalle parti al tutto e non dal tutto alle parti, lasciando in ombra la ragione che conferisce ad esse una natura piuttosto che un’altra. La genesi solidale delle parti dell’organismo è un problema sul quale Spinoza non si è pronunciato.34 Quest’interpretazione, tuttavia, deve far fronte a una grave obiezione. Si penserà qui alle possibilità odierne di trasfusione o d’impianto. Lettera 34 a Hudde; , I, 8, sc. 2. Questi testi mostrano che la definizione non implica alcun numero e che l’essenza di una cosa si divide numericamente solo nell’esistenza (purché questa non sia inclusa nell’essenza). 34 È vero che Spinoza, morto precocemente, non appartiene alla stessa generazione intellettuale di Malebranche e di Leibniz. Nel cap. IV certi elementi ci permetteranno tuttavia di approfondire un poco questo problema. 32 33
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Quand’anche le sue parti fossero specifiche, l’uomo propriamente detto non ci si presenta che nella loro combinazione e non può essere paragonato al pezzo di cera, quasi ricevesse la sua natura dalla specie delle sue parti. Solo la società, quindi, è paragonabile al pezzo di cera, in quanto costituito da una stessa configurazione che si ripete. Non è un caso che in Spinoza compaia lo stesso concetto di trasformazione nel caso individuale dell’amnestico e nella situazione collettiva di un popolo in rivoluzione. Questo continua ad essere lo stesso popolo? Sì, ma perché la rivoluzione fallisce, ripristinando la vecchia forma sotto il travestimento di un’altra (all’opposto, è invece un individuo nuovo quello che si presenta sotto la maschera di un famoso poeta spagnolo).35 Essendo la forma politica quell’insieme di leggi e di costumi che danno consistenza al quasi-corpo politico, il cambiamento effettivo di tale forma può solo dar luogo a un corpo nuovo, a un popolo nuovo. Potremo allora dire che rimane lo stesso popolo nel senso in cui «rimane la stessa cera»: si tratta sempre di uomo o di cera, come i despoti sanno bene; ossia dell’uomo come componente politica qualunque. Ma un corpo politico non è un uomo, anche se è composto solo di esseri umani; è un individuo, o un quasi-individuo di un ordine diverso - lo stato o le «forme» che in certe condizioni assume un certo pezzo di essere umano. E se è vero che «la natura non crea nazioni ma individui»,36 ciò avviene forse perché gli uomini si accordano per natura solo in quanto si lasciano guidare dalla ragione. Se gli uomini nascessero adulti e noi fossimo tutti dei «primi uomini», la teoria politica potrebbe risparmiarsi il veluti, diventando una parte della fisica.37 Sorge così il problema della comunanza di natura. Avevamo ipotizzato si trattasse di somiglianza, non d’identità, ossia di forme (nel senso spinoziano del termine) tra loro affini per le loro parti o le loro parti di parti, non di una sola e identica forma per tutti gl’individui, e quest’ipotesi ci portava direttamente dalla II Meditazione allo scolio sulla morte senza decomposizione. Se però l’uomo è l’omologo logico della cera e se, di conseguenza, sul piano logico un uomo è l’equivalente di una particella di cera, ci mettiamo su una diversa linea di pensiero dell’Etica, quella destinata a fondare l’idea di una «natura umana», senza di che l’impresa stessa di Spinoza non avrebbe senso. Nella mente di Spinoza, quest’idea non può significare soltanto una somiglianza nella composizione e un’identità delle parti componenti. Un certo numero di testi sembra esprimersi a favore di un’identità di natura. In questo, certamente, ha pesato l’unicità della verità: è
Trattato teologico-politico, XVIII. Trattato teologico-politico, XVII. 37 Nel Trattato politico, l’assimilazione del corpo politico a un individuo viene il più delle volte sfumata con l’avverbio veluti («come», «per così dire»); cfr., ad esempio, III, 2. Sull’uso politico dei concetti di forma e di trasformazione cfr., a mo’ di esempio, Trattato teologico-politico, XVIII, ultimo par. e Trattato politico VI, (trattiamo di questo aspetto, come del problema del «primo uomo» in Le conservatisme paradoxal de Spinoza... op. cit.). 35 36
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necessario che in tutti gli uomini l’«ordine dell’intelletto» sia lo stesso.38 Questo non comporta, tuttavia, l’identità di natura, a meno che non si definisca l’uomo mediante la ragione, in un senso del tutto finalistico: l’uomo è semplicemente quell’essere il cui corpo è sufficientemente complesso perché ad esso corrisponda uno spirito capace di lasciarsi guidare dalla ragione, ossia di accedere a un ordine fatto per l’intelletto o all’automatismo spirituale.39 Se per il momento si dà il caso che sia il solo a trovarsi in questa condizione, nulla permette di affermare che la Natura non produrrà un essere ancor più complesso, parimenti adatto alla ragione, che si manifesterà un giorno, nel corso del tempo. L’illusione di un finalismo - a meno che non sia questa una traccia residua - viene dal fatto che logicamente non può esservi nulla di superiore alla ragione; si possono solo immaginare degli esseri capaci di giungere meglio di noi al terzo genere di conoscenza o di insediarvisi agevolmente. Accade per questo a Spinoza di chiedersi se il Cristo sia veramente un uomo, anche se è necessario che lo sia, tenuto conto dell’impossibilità che una coppia di una data specie generi un essere di una specie diversa; non che possa essere un dio o il figlio di Dio, ma le sue capacità mentali straordinarie, inaccessibili a tutti gli altri uomini vissuti fino ad oggi, c’inducono quasi ad ascriverlo a una specie diversa dalla nostra.40 Un certo numero di testi, dunque, indica l’individualità, non come l’unica realtà discreta della Natura, partecipe di un ordine di integrazioni successive risalente fino alla facies totius universi senza mai incontrare né specie né generi, ma all’opposto come la divisione o il numero di una specie. Si noterà soprattutto che questi testi non dimostrano niente. La convenienza essenziale dedotta dal principio che «ciò che è causato differisce dalla propria causa proprio in ciò che ha ricevuto dalla sua causa» e dalla constatazione che un uomo non può essere la causa che dell’esistenza di un altro, si avverte soprattutto per contrasto con l’essenza divina. Presa positivamente, quindi, può essere interpretata come un criterio di specificazione, poiché sembra avere come condizione l’esistenza di un legame causale tra gl’individui (diversamente noi saremmo del tutto in rapporto di convenienza, quanto all’essenza, con la mosca o l’elefante - il che è vero, ma su un piano molto generale e astratto, quello delle nozioni comuni a tutte le cose, come ad esempio le leggi dell’urto). Il seguito del testo è però curioso: la convenienza essenziale non esclude la distinzione delle essenze, ossia il loro dar luogo a individui. Poiché questa distinzione è attribuita solo all’esistenza, sembra essere esclusivamente numerica, come se la stessa essenza, attuandosi, si ripetesse in un numero indefinito di esemplari. Già un altro testo andava in questo senso.41 Anche in quel caso la tesi dell’essenza che nell’esistenza si divide numericamente
Etica, II, 18, sc. Etica, II, 13, sc. ; V, 39, sc. 40 Trattato teologico-politico, cap. 1, § 13. 41 Etica, I, 8, sc. 2 [tr. it. 794]. 38 39
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era finalizzata alla differenza tra infinito e finito, tra esistenza necessaria ed esistenza condizionata: «Perciò… la causa per cui questi venti uomini esistono, e per cui quindi ciascuno di essi esiste, deve essere data necessariamente al di fuori di ciascuno di essi; pertanto si deve in assoluto concludere che tutto ciò della cui natura possono esistere più individui deve necessariamente avere una causa esterna per esistere». Qui il senso comune sembra coincidere con lo sforzo filosofico di fondare l’incommensurabilità di infinito e finito; in fin dei conti, infatti, non è l’indifferenza della definizione al numero che spiega l’esposizione dell’essenza alla sua eventuale dispersione effettiva (poiché nulla impedisce all’ordine naturale di produrre un individuo corrispondente all’essenza data); più profondamente, è l’esclusione dell’esistenza dalla definizione a rendere pensabile la riproducibilità dell’essenza effettiva in tanti individui quanti ne deciderà l’ordine delle esistenze finite. Ossia, poiché solo l’esistenza necessaria è unica, e anche indifferente al numero, in quanto si pone insieme con l’essenza, se questa condizione è tolta, l’essenza non è più al riparo da una divisione numerica. Ci troviamo qui in un contesto che, da un lato, è polemico, dall’altro non si occupa per il momento dell’esistenza concreta. Quando verrà il momento (nella II parte dell’Etica), Spinoza partirà dall’individuo e, come vedremo, le cose si presenteranno in modo diverso. Certamente ritroveremo, apparentemente, lo stesso dualismo di essenza come natura comune o specie («Ora, poiché possono esistere più uomini…», quando Spinoza si chiede in che consista l’essentia hominis)42 e di quella che potremo ritenere ancora la sua divisione numerica, anche se nel frattempo si sarà data la definizione dell’individuo (l’essenza del corpo di Pietro).43 Ma per l’appunto, argomentare a partire dalla pluralità empirica degli uomini per negare la sostanzialità dell’uomo, richiamando l’impossibilità di porre due sostanze della stessa natura, rende ancor più urgente la determinazione del nome uomo. Dal punto di vista metodologico Spinoza procederà in due tempi: da prima sottolineerà il fallimento delle definizioni dell’uomo fondate su una «nozione universale»; in seguito proporrà il concetto di «nozione comune». Di fronte alla nostra incapacità di dedurre l’uomo a partire dall’essenza di Dio, dobbiamo supporre che all’essentia hominis si pervenga per induzione sperimentale. Questa situazione cambia tutto: se potessimo operare tale deduzione, forse passeremmo dall’idea adeguata di certi attributi di Dio a quella di uomo in generale, ma magari scopriremmo che la deduzione ci porta direttamente a delle essenze individuali (nulla impedisce di pensare che la Natura arriverà un giorno a produrre degli esseri finiti capaci di accedere a questa deduzione e, quindi, di risolvere un problema d’interpretazione la cui soluzione sfuggiva a Spinoza stesso: «Io, infatti, non presumo di aver trovato la filosofia migliore, ma so di intendere
42 43
Etica, II, 10, sc. Etica, II, 17, sc.
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quella che è vera»44); abbiamo invece solo la possibilità di procedere mediante nozioni comuni, così che il concetto di uomo che costruiremo sarà anch’esso una nozione comune (contemporaneamente, come vedremo, Spinoza produrrà un altro tipo di legge, col nome di rapporto costante tra quiete e moto, in grado di rendere intelligibili gl’individui stessi, venendo in aiuto alla scientia intuitiva a torto ritenuta impotente, per riconciliarci forse con la deduzione – tanto che dovremo riesaminare i rapporti tra il secondo e il terzo genere di conoscenza).45 Quanto a ciò che cogliamo per mezzo delle nozioni comuni, è vero che l’esempio – se si tratta effettivamente di un esempio - della quarta proporzionale sembra indicare che in seguito siamo in grado di imparare a coglierlo uno intuito, nell’unità indivisibile della cosa stessa. Oltre all’identità del rapporto tra i termini presi due a due, l’esempio sembra far pensare – ma su questo torneremo – a una diversità individuale, sotto la permanenza specifica di uno stesso rapporto tra una variabile di moto e una di quiete. Prendiamo tuttavia le cose come Spinoza ce le presenta esplicitamente: mediante affezioni necessariamente adeguate, scopriamo empiricamente proprietà comuni al nostro corpo e a quello di altri uomini. In tal modo ci formiamo un’idea adeguata di umanità, semplice prodotto di una serie di intersezioni che definisce una cerchia di correlazioni, che è come dire i confini di una «natura» comune. Naturalmente gl’individui convergeranno sul piano di quanto hanno di comune e divergeranno in quel che li separa. Ammettiamo che la ragione sia comune a tutti gli uomini: essa li avvicina non solo in quanto, applicandosi alla ragione, gli uomini sono simili tra loro, ma anche in quanto tale esercizio fa prendere loro coscienza delle loro somiglianze. Ammettiamo di avere in comune una certa struttura affettiva determinabile in virtù di leggi; queste leggi governeranno il gioco delle nostre divergenze. Nell’insieme si dirà che gli uomini convergono quando sono sé stessi, ossia vivono ex ductu rationis, mentre divergono in quanto si lasciano determinare da cause esterne. Ma che cosa dimostra questo? Forse che la ragione costituisce la base della loro natura, in maniera tale che ciascuno, quanto più afferma la propria essenza, tanto più coincide con gli altri? Non sarà, invece, che lo sviluppo del loro potere proprio li fa partecipi di un ordine unico, impersonale, che non ha nulla di propriamente umano? Spinoza non invoca né un accordo totale né un’identità di natura, ma presenta questa formula singolare: «Infatti è utilissimo all’uomo quel che massimamente si accorda (maxime convenit) con la sua natura… cioè l’uomo».46 O si tratta di una tautologia – ma dobbiamo essere cauti, poiché molti enunciati spinoziani dànno quest’impressione – oppure la frase va
44 45
sc. 2.
Lettera LXXVI a Burgh [tr. it.298]. Vedi sotto, cap. IV. La definizione dei tre generi di conoscenza viene data in Etica, II, 40,
Etica, IV, 35, cor 1 [tr. it. 1002]. Cfr. già IV, 31, cor., dove l’accordo viene trattato in termini relativi, di più e meno. 46
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intesa dinamicamente, come fosse una definizione genetica: a produrre l’umano, che è solo un rapporto di similitudine tra individui, è l’accordo massimo tra due individui, il quale fa sì che si identifichino reciprocamente e simultaneamente come due «uomini» (essendo l’umano, come ogni denominazione di specie, soltanto il nome di un rapporto).47 L’uomo unico non esiste, l’uomo è quel che è in quanto individuo, o almeno deve attendere il suo simile per identificare, non la propria essenza, ma un insieme di proprietà comuni che gli faranno attribuire, a sé stesso e all’altro, il nome di uomo: «… l’uomo, trovata una moglie, che si accordava del tutto con la sua natura (prorsus conveniebat) conobbe che in natura non poteva darsi nulla che potesse essere per lui più utile di quella».48 Anche se l’espressione prorsus convenire, già presente nello scolio I, 17, anticipa la scelta in favore della divisione numerica dell’essenza, la sua ricomparsa in una fase avanzata dell’Etica, e per di più in un passo di forte coloritura ironica se non umoristica, le fa assumere un suono affatto diverso. Tanto per cominciare, non sembra fuori luogo supporre che nella donna vi siano rapporti di moto e di quiete sconosciuti all’uomo, anche se Spinoza non ne ha parlato (e questo per non distrarsi dal suo oggetto principale, al chiarimento del quale era perfettamente inutile la determinazione della differenza sessuale).49
Questo vale, evidentemente, per qualsivoglia specie animale, come prova lo scolio III, 57: poter individuare una libido equina presuppone che il cavallo riconosca il suo simile in quanto oggetto di godimento. È però evidente – come ricorda l’aggettivo irrationalia fin dall’inizio del testo – che il cavallo non coglie nozioni comuni in quanto tali, non forma cioè l’idea di ciò che ha in comune col suo simile. Il cavallo non possiede l’idea adeguata del cavallo; siamo noi, nel caso, ad averla. Si obietterà che parliamo correntemente del cavallo - come facciamo qui, ad esempio – in funzione di una semplice «nozione universale» che rientra nel primo genere di conoscenza (II, 40, sc. 1); ci si potrebbe chiedere, quindi, se il cavallo stesso non formi nozioni di questo genere. È delicato rispondere al posto di Spinoza, ma possiamo almeno indicare con precisione quale sarebbe stato il principio della sua risposta: tutto dipende dalla complessità del corpo e dello spirito del cavallo (secondo lo scolio II, 13, «quanto un certo corpo è più atto degli altri ad agire oppure a patire simultaneamente in una pluralità di maniere, tanto la sua mente è più atta delle altre a percepire una pluralità di cose simul». In realtà, la formazione di una «nozione universale» non è di certo un’operazione razionale, ma presuppone la capacità di immaginare simultaneamente un gran numero di immagini, di modo che l’immaginazione, trovandosi come superata dalla propria stessa potenza, non può che selezionare caratteri comuni (i quali corrispondono soltanto alla maniera identica in cui più oggetti toccano il corpo di un individuo; lo spirito è allora colpito da una somiglianza, che non basta a formare oggettivamente il concetto di una specie; cfr. al riguardo in Breve trattato, II, cap. 3, § 2, l’esempio del contadino che, non avendo mai visto le pecore del Marocco, attribuisce alla pecora in generale il carattere comune della «coda corta»). Sulla base del testo spinoziano, nulla ci permette di escludere che i cavalli, i cui corpi possiedono già una grande complessità, possano formare «nozioni universali» almeno elementari – non sappiamo però come lo stesso Spinoza avrebbe definito questa zona sfumata. 48 Etica, IV, 68, sc. [tr. it. 1034]. 49 Nel cap. IV del Trattato politico, facendo leva sull’esperienza, Spinoza ritiene di poter trarre la conclusione di una disuguaglianza di natura tra le donne e gli uomini, di modo che l’accordo tra 47
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Si tratta di isolare un nucleo comune, la libido umana50 e, in secondo luogo – si può pensare – la disposizione alla ragione. Ma soprattutto Spinoza aveva avvertito fin dalla parte I dell’Etica che «sebbene i corpi umani convengano in molte cose (in multis conveniant), in moltissime tuttavia discordano (in plurimis tamen discrepant)».51 Conferma e precisa quest’affermazione nella parte IV, quando dichiara che «gli uomini possono essere diversi per natura (natura discrepare) in quanto sono combattuti (conflictantur) da affetti che sono passioni», tanto da differire in primo luogo da sé stessi.52 A prima vista l’espressione, assai forte, natura discrepare, non sembra trovare una buona spiegazione nella successiva dimostrazione che, se la si legge troppo velocemente, può dare l’impressione che il disaccordo affettivo si spieghi soprattutto con la differenza degli oggetti e col carattere aleatorio dei loro effetti su un corpo complesso come il corpo umano.53 Questa dimostrazione ricorda anche che gli affetti passionali si spiegano con l’essenza presente delle cose esterne messa a confronto con la nostra, la quale dunque interviene a sua volta. Nell’insieme sembra di poter intendere in questo modo: la differenza di essenza tra due uomini non può manifestarsi che nella vita passionale, dal momento che queste medesime essenze, quando sono la causa adeguata di ciò che avviene nei due uomini, non possono che concordare nella condivisione della ragione. Ricordiamo infine che questo lessico – convenire, discrepare – non s’incontra solo nella parte IV a proposito della vita sociale, ma anche nella lettera 32 a Oldenburg, a proposito dei diversi componenti del sangue che, come vedremo in seguito, possono essere considerati, in una prima prospettiva, come parti di un tutto (rappresentanti qualsiasi di una stessa specie), e in una seconda prospettiva come costituente ciascuno un tutto, formato a sua volta di parti (individui di specie diversa).
i sessi, lungi dall’essere spontaneo, ha come condizione l’autorità dei secondi sulle prime. Si tratta certo di un accordo di secondo grado, o pace civile, poiché è in primo luogo di natura affettiva (libido). 50 Etica, III, 57, sc. (si veda anche, sopra, la nota 47). Si noterà l’equivoco su cui sembra giocare Spinoza, in particolare leggendo la proposizione e la dimostrazione che precedono questo scolio. Vi si tratta del disaccordo affettivo legato alla differenza di essenza tra un individuo e un altro (quantum essentia unius ab essentia alterius differt). In questo contesto non può trattarsi che di una differenza tra gli esseri umani. È questa, per Spinoza, l’occasione di sottolineare nella dimostrazione come egli ritenga il conatus un principio d’individuazione: «Ma il desiderio è la natura o l’essenza stessa di ciascuno (se ne veda la definizione nello scolio della proposizione 9). Perciò il desiderio di ciascun individuo differisce dal desiderio di un altro quanto la natura o l’essenza dell’uno differisce dall’essenza dell’altro». Continua nello scolio seguente parlando delle differenze di desideri tra le specie (il cavallo e l’uomo, ecc.). Le ultime parole si riferiscono alla differenza tra l’ubriaco e il filosofo e non vanno intese come un semplice scherzo… 51 Etica, I, Appendice. [tr. it. 832-833]. 52 Etica, IV, 33 [tr. it. 999]. 53 Stando alla dimostrazione della proposizione III, 51, alla quale rinvia la dimostrazione della proposizione IV, 33.
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Riprendiamo il nostro problema. Spinoza contrappone dunque le nozioni comuni alle nozioni universali.54 Respinge la nozione universale di uomo, derivante da un’astrazione il cui criterio è l’immaginazione distinta di «ciò soltanto in cui tutti convengono, in quanto il corpo è affetto da essi», così che una tale nozione è necessariamente relativa all’individuo che la forma, e varia da un individuo all’altro (uno sarà più colpito dalla capacità di ridere degli uomini, un altro dalla loro disposizione razionale, ecc.). Al contrario, produrre una nozione comune di uomo, che per convenzione potremo chiamare essentia hominis o anche natura humana, indubbiamente è pure un essere affetti dagli altri uomini, ma non accidentalmente e selezionando arbitrariamente un tratto, in modo relativo alla costituzione individuale di un corpo e di un’immaginazione. Viene così isolata un’idea adeguata di quel che gli uomini hanno in comune tra loro e che definisce la loro natura specifica, senza tuttavia cogliere la cosa stessa, il cui statuto rimane in sospeso: l’uomo nella sua essenza numericamente divisa nell’esistenza, ma formalmente una e specifica? Oppure l’uomo nella sua singolarità irriducibilmente individuale? Ancora una volta, solo un argomento pare in grado di impedirci di propendere per la seconda alternativa: l’idea secondo cui la ragione, identica in tutti gli uomini, costituisce anche l’essenza di ogni uomo. Spinoza, tuttavia, non considera affatto la ragione la differenza specifica dell’uomo, e abbiamo appena visto come la definizione scolastica dell’uomo come animal rationale appartenga per lui all’immaginazione, non alla ragione – anche se gli accade di respingere ai confini dell’umano tutto ciò che è privo di ragione (questo rigetto disumanizza tuttavia il bambino, cosa che non poteva certo scandalizzare il suo tempo, ma tradisce forse la complessità del pensiero spinoziano: 1. Ogni salto trans-specifico è proscritto, non solo in fatto di generazione,55 ma anche durante l’esistenza;56 2. è naturale per l’uomo nascere bambino57). Quanto alle tre definizioni dell’uomo che troviamo nell’Etica, contrariamente alla definizione di Dio, non producono un’essenza vera e propria: l’uomo è corpo e mente;58 l’uomo è desiderio, in quanto cerca di conservarsi e in quanto è determinato ad agire da un’affezione;59 l’uomo è virtù, in quanto ha il potere di agire.60 La prima formula ricorda che l’uomo è un essere mortale e non sostanziale, e che a questo titolo è solo una parte della Natura (senza dire in che cosa si distingua all’interno di questa Natura); la seconda precisa soprattutto che cosa si debba intendere per essenza e dove si debba quindi
Etica, II, 40, sc. 1 e 2. Etica, I, 8, sc. 2. 56 Etica, IV, Prefazione. 57 Etica, V, 6, sc. 58 Etica, I, 10, cor.; 13, cor. 59 Etica, I, 10, def. aff. 1. 60 Etica, IV, def. 8. 54 55
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cercarla, cioè in un certo quantum di sforzo, come per ogni parte della Natura (non determina però questo quantum, ma pone il problema di sapere se sia specifico o individuale); la terza, infine, sembra la più vicina a una vera definizione, in quanto nella Natura l’uomo per il momento è il solo essere che possa diventare attivo (in effetti, in un contesto di finitezza, questo processo può rientrare soltanto in una capacità speciale dello spirito). Vedremo tra un attimo che cosa si debba pensare di quest’affermazione. Costatiamo subito che il corpo, nell’Etica, riceve solo una definizione individuale, non soltanto perché vi si propone una definizione del corpo chiamandolo individuo, cosa ovvia per ogni filosofo, che lascia aperta la possibilità che il criterio di distinzione individuale non abbia che un significato specifico (uno stesso rapporto di quiete e moto per tutti i corpi individuali di una data specie), ma perché lo scolio sulla morte come trasformazione61 sottolinea senza ambiguità il carattere propriamente individuante del rapporto, il quale viene quindi a definire non una specie di individuo ma un’identità individuale. Ricorrendo a un’anticipazione, constatiamo inoltre che il quantum di sforzo si collega logicamente al suddetto rapporto, assumendo in tal modo anch’esso un significato individuante, com’è confermato in particolare dalla lettera 78 a Oldenburg, che fonda una tesi etica sul postulato della disuguaglianza delle essenze. Alla fine ci ritroviamo quindi di fronte al problema della ragione. In definitiva, sembra proprio che l’accordo di natura avvenga mediante la partecipazione a un ordine che non è solo nostro, la Ragione, che potrebbe consentirci di accordarci pure con un’altra specie ugualmente razionale, anche se, ciononostante, le divergenze di natura comporterebbero la formazione di comunità differenti: da un lato, a causa di una diversa strutturazione affettiva (libido) legata alla fabrica del corpo, che manterrebbe l’intraspecificità delle unioni, comandando anche un accesso e un rapporto affettivo del tutto diverso alla ragione; d’altro lato, nel caso di una differenza di complessità, a causa della flagrante diversità delle disposizioni (concretamente: l’impossibilità in cui saremmo di adattarci ai ritmi e agli stili intellettuali di una specie razionale superiore alla nostra). Ci troviamo, dunque, di fronte a due linee di pensiero divergenti, corrispondenti ciascuna a un diverso problema. L’ordine in cui questi problemi compaiono e l’orientamento generale dello spinozismo sembrano deporre a favore della seconda; non siamo certi, comunque, che le due direzioni non siano coesistite fino alla fine, come su piani diversi che Spinoza non avrebbe mai ritenuto utile fondere in uno solo. L’urgenza etica, che di fatto il suo lavoro testimonia di continuo, lo porta, checché se ne dica, a ignorare spesso come superflua l’integrazione di tutti i suoi pensieri nella coesione globale di un sistema.
61
Etica, IV, 39, sc.
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4. Comunità chimica e comunità politica
Citiamo un ultimo testo che, a partire dal pezzo di cera, ci riporta alla nostra seconda deriva spinoziana e al problema dell’univocità del concetto di figura: «Se, infatti, ad esempio, si congiungono insieme due individui di natura del tutto identica, si compone un individuo due volte più potente di uno singolo. Nulla, dunque, è più utile all’uomo che l’uomo stesso. Nulla, dico, gli uomini possono desiderare di più efficace per conservare il proprio essere quanto concordare tutti in tutto, in modo tale che le menti e i corpi di tutti compongano quasi una sola mente e un solo corpo
» (Etica, IV, 18, sc. [tr. it. 990]).
Vediamo qui come la possibilità di formare un corpo politico, o un pezzo dell’uomo, dipenda dalla capacità concreta degli uomini di arrivare ad adattarsi reciprocamente, cosa che non è data per scontata poiché ognuno, essendo titolare del proprio corpo e del proprio spirito, deve selezionare e coltivare quel che ha in sé di comune con gli altri. Questo elemento comune non è certamente il quantum di potenza che definisce la sua essenza attuale ed inerisce alla proporzione, sempre particolare, costitutiva del suo corpo; può essere più o meno potente, ma poiché l’ordine di complessità del suo corpo è lo stesso di quello degli altri corpi, il suo spirito è adatto come quello degli altri a coltivare la ragione, sia pure in misura maggiore o minore. Sotto questo aspetto gli uomini possono anche identificarsi gli uni con gli altri, dando luogo così a una specie fisica di ordine superiore. In tal modo, il lettore inizialmente crede che, nel testo seguente, sia data la specie umana, ma poi si accorge che questa dipende dal fatto che ognuno acceda alla ragione: «Nulla si può accordare con la natura di una certa cosa più degli altri individui della stessa specie (speciei); perciò
non si dà nulla di più utile all’uomo, per conservare il suo essere e godere della vita razionale, che l’uomo guidato dalla ragione».62 E quasi volesse sottolineare che, non più dell’uomo dei professori di virtù, la comunità degli uomini ragionevoli non costituisce uno stato nello stato, Spinoza termina la sua osservazione affermando che una vera educazione porterebbe gli uomini a vivere ex proprio rationis imperio, espressione che per di più, nel contesto, non è priva di risonanze politiche. Quest’ultimo problema è quello del tessuto. Era fatale che Spinoza dovesse affrontarlo, poiché, se manteniamo l’ipotesi di un’essenza propria a ciascun individuo, la questione della ripetizione della «configurazione» elementare (Spinoza dirà «forma») diverrà problematica. La lettera 32 a Oldenburg ne è la testimonianza: «Per coesione delle parti, dunque, io non intendo altro se non che le leggi o la natura di una parte si adatta (sese accomodant) così alle leggi o alla natura dell’altra, da non contrastare affatto con essa. Circa il tutto e le parti, intanto, io considero le cose come parti di un
62
Etica, IV, app. cap. 9 [tr. it. 1042].
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tutto, in quanto la loro natura si adatta a quella delle altre parti, sì da conformarsi, per quanto è possibile, le une alle altre. In quanto, invece, le cose non si accordano tra loro (inter se discrepant), ognuna di esse forma nella nostra mente un’idea distinta e dev’essere quindi considerata come un tutto e non come una parte. Ad esempio; quando i movimenti delle particelle della linfa, del chilo, ecc. si adattano gli uni agli altri nella grandezza e nella figura, così da conformarsi in tutto vicendevolmente e costituire tutti insieme quell’unico fluido che è il sangue, allora soltanto la linfa, il chilo, ecc. saranno considerati come parti del sangue. In quanto, invece, consideriamo le particelle della linfa come diverse, nella figura e nel movimento, dalle particelle del chilo, allora le concepiamo come un tutto e non come una parte» [tr. it. 168-169, con lievi modifiche].
Questo testo distingue le parti del sangue, che sono la linfa e il chilo, dalle particelle di cui queste sono composte. Dobbiamo vedervi due statuti diversi? A prima vista sembrerebbe così, poiché si suppone che i due tessuti, linfa e chilo, non abbiano la stessa natura, altrimenti non li distingueremmo; mentre la linfa è sempre linfa in tutte le sue particelle e lo stesso vale per il chilo. Non ci siamo, però, lasciati trarre in inganno dalle parole? Adattandosi l’uno all’altra, il chilo e la linfa cessano di distinguersi e non costituiscono altro che sangue. Possiamo perciò supporre che le cose stessero così anche al livello delle particelle: adattandosi le une alle altre, si accordano e costituiscono un solo individuo. Di conseguenza, considerate nel loro accordarsi, non si distinguono più; perciò Spinoza, nella seconda parte della sua analisi, può parlare di «particelle di sangue». Questo non vuol dire che divengono realmente indistinte; soltanto, sono prese in un movimento comune, e la proporzione che definisce la loro unione definisce al tempo stesso il margine della loro autonomia di movimento, cioè i limiti entro i quali il moto che esse comunicano alle altre non spezzerà la loro solidarietà. È quanto Spinoza spiega a Oldenburg e a Boyle: «Così, mentre galleggiano nel siero, le particelle di burro costituiscono una parte del latte. Ma quando il latte acquista un nuovo movimento e non tutte le parti componenti possono parimenti tener dietro a questo suo primo moto (se commodare), le particelle di burro divengono troppo leggere per comporre (componere) un liquido solo con il siero, e troppo pesanti per costituire un fluido insieme all’aria».63 Non è più quindi il caso di supporre il ripetersi indefinito di una stessa osservazione, e la denominazione di «particella», lungi dall’indicare una differenza di statuto, è relativa soltanto al nostro potere di risoluzione. Pertanto, il problema della comunità ci si fa più chiaro, ed è al tempo stesso evidente che ogni composizione è comunitaria.64 Non c’è più motivo di
Lettera 6 a Oldenburg, Appuhn, t. 4, 139-140 [tr.it. 1257]. Donde l’insistenza di Spinoza, nella sua polemica con Boyle: non c’è motivo di supporre l’eterogeneità del nitro, e Boyle deve dimostrarla. Cfr. le lettere 6 (Appuhn, t. 4, 131-132) e 13 (Appuhn, t. 4, 164) a Oldenburg. Spinoza riconosce, tuttavia, l’esistenza di corpi più complessi, come il legno. Avverrebbe lo stesso che per il sangue: si deve ritenere che le parti eterogenee, in quanto compongono il legno, trovino in sé stesse i mezzi per adattarsi od omogeneizzarsi, nelle misura in cui ne sono capaci senza decomporsi. Nel caso del nitro, si avrebbe a che fare solo 63 64
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preoccuparsi del fatto che Spinoza sembra sostituire la linfa con le particelle della linfa e il chilo con le particelle del chilo, per prendere in considerazione soltanto la combinazione delle due «specie» di particelle; infatti, in quanto le particelle si adattano tra loro, ciascuna diventa un rappresentante qualsiasi della specie delle particelle di sangue, mentre esse stesse possono considerarsi un unico e identico individuo (il che significa che, sul piano sociale, quegl’individui che siamo noi possono dirsi «uomini», in senso logico ma non in quello assiologico, solo in quanto si accordano sia per l’affetto sia per l’intelletto). Donde il tono curiosamente politico, nella seconda parte dell’analisi, della straordinaria finzione barocca del verme che si aggira nel sangue, come tra individui di cui non percepisce i legami che li stringono.65 C’è qui un po’ l’idea dello straniero che capita tra gente di cui non comprende lingua e costumi, o dell’extraterrestre che per caso scegliesse di stabilirsi in una via di Amsterdam: potrebbe solo osservare dei movimenti («calcolare come ogni particella che ne incontra un’altra viene respinta oppure le comunica parte del suo moto, ecc.»). Pertanto, «questo verme, vivendo nel sangue come noi viviamo in una certa parte dell’universo, vedrebbe una certa parte del sangue come un tutto, non come una parte, e non potrebbe sapere come tutte queste parti siano sotto il potere di un’unica e identica natura, quella del sangue, e come siano obbligate ad adattarsi le une alle altre secondo le esigenze di questa natura, affinché tra i loro movimenti si stabilisca un rapporto che permetta loro di accordarsi».
Si tratta solo, naturalmente, di un modo di parlare, che però, a ben pensarci, è pienamente giustificato. Ad occupare il ruolo del potere è la «pressione di ciò che sta intorno», come dice Martial Gueroult, ma anche l’adattamento o la natura comune, senza la quale non vi sarebbe unione e, quindi, nemmeno sangue. Come dirà il Trattato politico, «questo potere cui pensiamo deve essere misurato non solo con la potenza dell’agente, ma anche con le facilitazioni offerte dal paziente».66 Infine, mai il termine ratio si è avvicinato tanto a riunire in una sola occorrenza i suoi due significati, di rapporto e di ragione. Non soltanto ogni individualità o comunità, ossia ogni combinazione in natura è la realizzazione di
con particelle che tornano ai loro affari privati, se ci è consentita l’espressione. Avviene infatti la stessa cosa nella comunità umana: lo stato di natura è la decomposizione dell’uomo. Si capisce dunque che cosa giustifica l’uso distinto dei termini «parte» e «particella»: la differenza tra un corpo complesso e uno semplice, tra un corpo eterogeneo e uno omogeneo, è relativa soprattutto al numero delle parti in cui si risolvono. Da questo punto di vista si comprende come gli stessi uomini, malgrado la loro complessità, possano venir presi come particelle del corpo politico (per contro, una federazione di città si risolverà in parti). 65 In sé l’immagine non ha nulla si straordinario: nel XVII secolo si osservavano correntemente al microscopio «vermi» - o animaletti - di questo genere nei tessuti organici. Leibniz ne parla nella sua corrispondenza con De Bosses. 66 Trattato politico, IV, 4.
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una ragione immanente senza finalità (liberarsi spontaneo di nozioni comuni), ma inversamente la razionalità dello stato appare come inserentesi perfettamente nell’ordine naturale, con la sola riserva che, da un lato, l’età dell’oro dei poeti è improbabile e, dall’altro, che la pressione di ciò che sta intorno (che si traduce nella paura) non basta da sola a determinare la composizione del corpo politico (cioè del corpo umano stricto sensu) e che deve aggiungervisi una pressione artificiale esterna creata dagli uomini stessi, che altro non è se non il governo. Da ultimo, la ricomparsa del criterio cartesiano della figura, al termine della prima parte dell’analisi, non è certo senza significato. Ha però a che fare con un altro genere di difficoltà: in che misura si può pensare che Spinoza ponga un termine alla divisione come fa Cartesio, in che misura si possono anche assimilare le precedenti particelle ai famosi corpora simplicissima della parte II dell’Etica? È tuttavia significativo che, nella sua corrispondenza con Boyle, a più riprese Spinoza insista sul fatto che la scomposizione di un corpo in parti non sia legata a un cambiamento di configurazione di queste ultime.67 Nella situazione cartesiana in cui la figura definisce la specie, questo sarebbe un cambiamento di natura, una trasformazione in senso stretto, mentre si tratta appunto di pensare la permanenza dell’identità di un corpo nel corso delle sue composizioni e scomposizioni con altri corpi. Spinoza avrà comunque bisogno di rompere con una tale definizione, non solo - come abbiamo già visto - a causa dell’equivocità che contiene, ma perché, dato che l’adattamento di un corpo comporta necessariamente un mutamento nei suoi movimenti, occorre che la permanenza di uno stesso individuo sia pensabile malgrado il cambiamento di figura. È questo, secondo noi, il modo in cui va interpretato l’unico passo dell’Etica nel quale la nozione di figura viene usata in senso forte: Quanto maggiori o minori sono le superfici con le quali le parti di un individuo o di un corpo composto aderiscono l’una all’altra, tanto più difficilmente o facilmente possono essere costrette a mutare posizione (ut situm suum mutent) e, di conseguenza, tanto più difficilmente o facilmente può accadere che lo stesso individuo assuma un’altra figura (aliam figuram induat). Quindi chiamerò duri i corpi le cui parti aderiscono l’una all’altra per grandi superfici; fluidi, infine, quelli le cui parti si muovono l’una rispetto all’altra. (Etica, II, ass. 3 dopo 13 [tr. it. 853]).
L’esitazione del lettore nasce dalla forte somiglianza di aliam figuram induat con l’altra espressione aliam naturam induat con cui più avanti Spinoza indica la trasformazione del corpo che, secondo lui, può spiegare il suicidio (oltre al fatto che, nel linguaggio ordinario, figura e forma sono molto vicine).68 Di fatto, l’espressione non significa qui necessariamente una trasformazione o una rottura dell’identità individuale. Certamente un corpo liquido ha una
67 68
Lettera 6 a Oldenburg, Appuhn, 138 e di nuovo a 139. Etica, IV, 20, sc.
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coesione minore di uno duro (cfr. la forza di quiete cartesiana), ma qui Spinoza prepara di fatto l’interpretazione del corpo umano, del quale si dirà in seguito che è composto di corpi duri, molli e liquidi, e in particolare la comprensione della sua capacità estrema di subire affezioni. In tal senso la dottrina della memoria viene anticipata con un postulato che dice che «quando una parte fluida del corpo umano è determinata da un corpo esterno a spingere spesso su un’altra parte molle, modifica la superficie di questa (eius planum mutat) e vi imprime come certe vestigia del corpo esterno che spinge».69 Occorre dunque dissociare la figura dalla forma e non fare più dipendere da essa l’individuazione. Che fare allora del pezzo di cera? Anche Spinoza ha proposto il modello di un corpo che rimane il medesimo attraverso il cambiamento delle sue «forme» nel senso della Seconda Meditazione. Il suo modello, potremmo dire, è il pezzo di salnitro. Boyle ritiene che il salnitro messo a contatto col fuoco si scomponga, poiché si ottengono due corpi di natura differente che sembrano provare che è alcunché di eterogeneo, spirito di nitro (parti volatili) e sale fisso (parti fisse). Per parte sua Spinoza è del parere che lo spirito di nitro costituisca da solo il nitro, o salnitro, e che la loro differenza di peso sia attribuibile solo a un’impurità che la deflagrazione ha separato. Lo stesso corpo è passato semplicemente da uno stato a un altro, in quanto le stesse particelle hanno mutato la loro quiete in un movimento rapido e questo cambiamento è sufficiente a spiegare le differenze qualitative constatate (sensazione di puntura anziché di freddo, il corpo diventato infiammabile). Com’egli aggiunge, è la stessa differenza che c’è tra il ghiaccio e l’acqua. Si riotterrebbe il salnitro (redintegratio) facendolo tornare allo stato solido, per mezzo di un altro corpo capace di fermare il movimento delle sue particelle.70 Il criterio implicito, almeno se nel 1663 Spinoza lo possedeva già, è che le particelle conservano tra loro lo stesso rapporto, continuano a trasmettersi i loro movimenti secondo la stessa proporzione (non solo, ma continuano ad essere trasportati insieme; è il criterio estrinseco). Ci si chiederà, evidentemente, che cosa possa significare questa costanza nei casi di quiete completa. Nell’Etica, la definizione dell’individuo sembra non escluda questo passaggio dalla quiete al movimento, a meno che questa definizione con una sola non ne proponga due, una per i corpi perfettamente duri, le cui parti sono in quiete reciproca, l’altra per i corpi molli o fluidi, le cui parti sono in movimento le une rispetto alle altre. Ne verrebbe l’enunciato seguente: i corpi si uniscono per formarne uno solo quando sono in quiete reciproca, e rimangono uniti se, cominciando a muoversi, si comunicano i loro moti secondo
Etica, II, post. 5 dopo 13 [tr. it. 855-856]. Lettere 6 e 13 (l’esempio del ghiaccio e dell’acqua si trova nella seconda lettera, Appuhn, t. 4, 168). Come scrive P.-F. Moreau, «là dove Boyle vede una scomposizione, Spinoza individua una continuità» (Spinoza, l’expérience et l’éteernité, 270). 69 70
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un certo rapporto costante.71 In questo caso il salnitro conserva la sua natura di salnitro, cioè la sua individualità, anche sotto l’azione del fuoco, e si constata che la conservazione della sua identità non dipende per nulla dalla configurazione delle sue parti; ugualmente, a rigor di termini, si può immaginare il corpo di un uomo immobile, anche se quest’immobilità è solo esteriore e apparente. Se non si accetta quest’interpretazione, si otterrà lo schema seguente: esistono due grandi categorie di individui, quelli duri, che non conoscono nessun divenire e nessuna specie di affettività, e quelli molli o fluidi, che possono cambiare figura e superficie e quindi variare pur conservando i rapporti che li costituiscono. È evidente che l’universo stesso non è duro: nel caso dell’uomo resterebbe da chiedere a Spinoza come concepisca l’accordo delle parti dure con le altre… Logicamente, dunque, la considerazione della figura (o della configurazione) scompare lasciando il posto a quella della forma, ridefinita in termini di movimento. Alla figura viene negata al tempo stesso ogni realtà fisica: è solo un ente di ragione. Viene così evitato l’equivoco irritante dovuto in definitiva alla differenza tutta soggettiva, o affettiva, tra visibile e invisibile. Il tessuto appare perciò rientrante in una logica comunitaria, e il problema si pone in termini identici nella chimica, nella medicina e nella politica; la sola differenza sta nell’adattamento reciproco, che a volte avviene ad opera di una determinazione tutta esteriore (questo vale in una certa misura per la politica, in quanto le comunità umane concrete si basano su una somiglianza affettiva di natura passionale), a volte, idealmente, ad opera di una determinazione interna (il divenire attivo di ogni componente). Si vede bene che cosa si guadagna passando così dalla figura alla forma, ma sembra anche che si perda qualche cosa. La figura sembrava almeno assicurare una natura, mentre la forma, avendo come solo criterio il movimento e la quiete, la velocità e la lentezza, sembra incapace di differenziare del tutto delle essenze. Ma è sempre la stessa illusione: credere di avere nella figura un elemento ultimo, mentre la forma impone un regresso all’infinito. Da una parte, come abbiamo visto, la figura non è che una configurazione di figure, almeno in linea di principio (Cartesio può arrestare il regresso infinito solo con l’insostenibile artificio di una divisione incompiuta). D’altra parte, la forma non ha perciò nulla che sia meno determinato della figura; al contrario, essa presenta il vantaggio di porre un vero rapporto sintetico tra le parti, così che, per scoprire la natura della cosa, non occorre più retrocedere (anche se, analiticamente, il rapporto individuante s’instaura tra rapporti che, a loro volta, ecc.). Si obietterà: in che modo la forma è capace, da sola, di fondare le differenze qualitative empiriche? Basta la differenza numerica, ossia la serie dei numeri razionali? È chiaro che quella composizione complessa che è un individuo concreto, soprattutto se è organico, richiede la considerazione ulteriore di un’integrazione ordinale.
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Il lemma 7 sembra andare nella direzione di quest’interpretazione.
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Per questo è possibile individuare nozioni comuni proprie, salvando così la pertinenza del nome di specie: gl’individui hanno in comune, per prima cosa, il loro grado di complessità. Quel che qui potrebbe indurre in errore e spingere a concludere che il criterio è insufficiente è l’apparente uguaglianza di complessità tra, ad esempio, i mammiferi superiori; non si vede più che cosa fondi la molteplicità delle diverse comunità, quella degli uomini e quella dei cavalli. Il fatto è che si considera il tutto, non la complessità delle parti. Nel nostro caso, il corpo umano contiene in sé individui come la mano o il cervello, il cui livello di complessità è senz’altro superiore a quello dei loro omologhi nel corpo del cavallo. È il senso del postulato secondo cui «il corpo umano si compone di moltissimi individui (di diversa natura) ciascuno dei quali è assai composto»,72 che spiega la superiorità affettiva e in definitiva intellettuale dell’uomo. Come si vede, se un individuo è definito da un rapporto semplice, la comunità specifica di cui fa parte rimanda all’infinità dei rapporti soggiacenti che il suo rapporto implica. Spinoza non cerca l’espressione matematica di quest’implicazione, poiché proprio la possibilità di considerare l’insieme delle parti come un tutto e di attenersi, di conseguenza, a un rapporto semplice è la testimonianza dell’individualità del composto. Rimane, nondimeno, una dipendenza, la possibilità, cioè, che una decomposizione parziale si porti dietro la decomposizione del tutto. Donde un certo dualismo che permane tra l’individuo e la sua comunanza di specie, l’impossibilità di includere l’uno e l’altra in una stessa formula, che farebbe dell’individuo una specie in accordo con certe altre, ossia con certi altri individui. È interessante constatare che a impedire la sintesi è la stessa nozione di individualità, come viene qui pensata. Infine, per concludere su questo insieme di questioni difficili, sottolineiamo il punto che resta forse quello che più resiste all’integrazione nel pensiero spinoziano, poiché coincide anche con un punto di tensione tra due linee di pensiero che abbiamo definito sopra: la permanenza del salnitro, non qui e ora come specie di un pezzo preciso e individuale, ma come struttura chimica reperibile e ripetibile.73 Quest’aporia è evidentemente un argomento forte a favore dell’interpretazione specifista del rapporto di quiete e movimento che costituisce l’individuo, anche se quest’interpretazione si scontra con l’orientamento generale del pensiero di Spinoza in senso etico, ossia nel senso della considerazione dei rapporti propri di ciascun individuo. Ancora una volta non possiamo rimproverare a un pensatore di
Etica, II, post. 1 dopo 13. Dice bene Gueroult: «Se certi agenti possono effettivamente arrivare a distruggere scomponendola, nell’universo la specie cera rimane» (Descartes selon l’ordre des raisons, vol. 1, 113). Nello stesso modo Spinoza, cercando, è vero, un’immagine per far capire la divisione modale e non reale della materia, scrive: «l’acqua, in quanto è acqua, si genera e si corrompe; ma, in quanto sostanza, non si genera né si corrompe» (Etica, I, 15, sc. [tr. it. 804-805]. 72 73
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essere andato direttamente verso quel che è importante, di aver lasciate in sospeso parti secondarie del suo pensiero e di non aver tentato o non aver avuto il tempo – ma quale pensatore ha tempo per questo? – di coordinare le sue elaborazioni locali o giustificate localmente. Quel che piuttosto ci colpisce e su cui vorremmo oramai mettere l’accento, è il movimento vivo con cui un pensiero si orienta e modifica progressivamente il senso di certi suoi concetti cruciali, lasciando che si dispieghi e liberando – si potrebbe dire – la loro forza aforismica, in un campo di operazione nuovo. È questo, in forma eminente, il caso del concetto spinoziano di «rapporto di quiete e movimento».74 Dobbiamo però tornare preliminarmente, un’ultima volta, a Cartesio, per precisare a che punto era la nozione di «forma» nel momento in cui Spinoza se ne appropriò.75
5. Che cosa diviene la nozione di forma in Cartesio
Pur avendo rifiutato le «forme sostanziali», Cartesio continuò a servirsi del termine forma nel senso che ad esso davano gli scolastici, ma subordinandolo a una spiegazione meccanicista.76 La forma è sinonimo di natura o essenza,77 l’uso che se ne fa è ampio e in definitiva un po’ vago: a volte s’intende le specie dei corpi (dagli «elementi» ai «corpi misti» di cui si parla in Il Mondo), a volte le qualità o i modi che questi corpi possono assumere attraverso i loro mutamenti (come la grandezza e la figura della cera, ma anche le qualità sensibili che le attribuiamo, come colore, suono, sapore, aspetto tattile, odore). Più interessante è notare come Cartesio ricorra a due modi di descrivere il divenire della natura, le continue ridistribuzioni della materia: poiché ogni divisione deriva dal movimento, questo è all’origine sia delle forme che delle figure, le quali ultime contribuiscono per altro all’emergere delle prime.78 Per questa ragione Cartesio può anche pretendere di riassorbire questo dualismo, che corrisponde tendenzialmente a quello di specie e
74 Per forza aforismica intendiamo la sovrabbondanza di senso di un’espressione che, senza esaurirsi in un’unica interpretazione o definizione, ne suscita di nuove, occupando il pensiero alla maniera di un tema problematico. 75 Su questo punto il rapporto di Spinoza con Bacone ci sembra del tutto secondario (non per questo la ridefinizione baconiana della forma in termini di «schematismo» è meccanicista, né ha come oggetto l’individuo). La rielaborazione spinoziana della nozione di forma ha luogo, invece, in funzione delle prospettive e delle difficoltà del pensiero di Cartesio (non intendiamo per questo dire che derivi dal cartesianesimo). 76 «… tutte le forme dei corpi inanimati possono essere spiegate senza che a tal fine sia necessario attribuire alla loro materia altro che il movimento, la grandezza, la forma e l’organizzazione delle sue parti» (Il Mondo, cap. V, Alquié, vol. 1, 338 [tr. it. 46]). In altri termini, la forma, o le qualità, non spiega niente; è lei che deve essere spiegata. 77 Meditazioni, Alquié, vol 2, 471 (a proposito del triangolo). 78 Il Mondo, Alquié, vol. I, rispettivamente cap. V, 339-341 e cap. VI, 346.
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individuo, dichiarando l’identità della quantità di materia con la forma o essenza: «Ma anch’essi79 non devono trovare strano se suppongo, per quanto riguarda la materia da me descritta, che la quantità non differisca dalla sua sostanza80 più di quanto il numero differisce dalle cose numerate, e se considero la sua estensione, ossia la proprietà di occupare spazio, non come un accidente, ma come la sua vera forma e la sua essenza; poiché essi non potrebbero negare che non sia molto facile concepirla in questo modo» (Il Mondo, cap. VI, Alquié, vol. 1, 348 [tr. it. 52-53]).
Ha un’aria provocatoria vedere Cartesio insistere, e in modo più generale in tutto il paragrafo da cui è tratto questo passo, sulla facilità di un’idea che forse è proprio la più difficile, anche per lui stesso. Certamente, a partire dalla riduzione della materia all’estensione e della forma ai modi di essa, la conclusione s’impone senza difficoltà. Ossia, se non si è in malafede, è facile arrivare a vedere la difficoltà, che il testo tradisce chiaramente. Indubbiamente, è possibile proporre un’interpretazione povera: l’essenza o la forma della materia in generale consiste nell’estensione. Ma quel che conta è considerare qui la quantità (o la divisione dell’estensione-materia): se la materia non ha altra forma che l’estensione, la sua divisione ha come conseguenza una divisione della forma - come diremmo, se l’espressione non fosse scandalosa dal punto di vista della logica scolastica. L’elemento logico in cui si suddividono oramai le forme non è altro che l’estensione, la quale si divide secondo quei modi che sono il movimento e la quiete, la figura e la grandezza. Mai Cartesio è stato tanto vicino a ridurre la forma al modo ed a farne una determinazione immanente dell’estensione, e quindi tendenzialmente individuale, anziché partire dalle qualità per produrne la genesi meccanicista, secondo il suo atteggiamento abituale, giustificato del resto dall’operazione polemica che deve svolgere. Indubbiamente siamo ancora lontani da Spinoza, non solo perché, come si è visto, la determinazione inconsistente ed estrinseca del modo inteso come individuo dovrà essere corretta col concetto di «rapporto di quiete e movimento», ma perché Spinoza, criticando la concezione cartesiana dell’estensione, ridefinirà quest’ultima con l’espediente della sua attribuzione a Dio e del principio della causa seu ratio, che darà fondamento alla dignità ontologica del modo. A questo prezzo il composto materiale poteva ridiventare essenziale: non, come negli scolastici, perché una forma specifica determina la propria materia (la composizione ilemorfica), ma perché le divisioni stesse della materia - o dell’estensione sostanziale in quanto è modificata con una modificazione eterna e infinita - determinano una ripartizione formale (composizione immanente).
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Il filosofi scolastici, sostenitori dell’aristotelica «materia prima». Presa qui nel suo senso ordinario o chimico.
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Capitolo II Il concetto di «rapporto di quiete e movimento» e la sua polisemia È noto che del «rapporto di quiete e movimento» Spinoza ha proposto formulazioni concettuali diverse. Schematicamente: nel Breve trattato si tratta di un rapporto tra il movimento e la quiete,1 mentre l’Etica pensa a un rapporto di quiete e di moto tra le parti;2 infine, come abbiamo visto, la definizione vera e propria è divisa, richiamandosi a volte a un rapporto di quiete tra le parti, senza per altro usare quest’espressione, a volte invece a un rapporto costante, secondo cui corpi diversi si comunicano reciprocamente i loro moti.3
1. Il rapporto tra il movimento e la quiete (Breve trattato)
Trattandosi della prima formula, possiamo ritenere, con Alexandre Matheron,4 che Spinoza intenda un certo rapporto tra la quantità totale del moto e la quantità totale di quiete che interessa un individuo? Si spiegherebbe così la proporzione di 1 a 3, indicata a titolo di esempio nel Breve trattato. La prima difficoltà di quest’interpretazione è che suppone una duplice costante, quella delle quantità e quella del rapporto, laddove Spinoza non pensa che a una soltanto. Inoltre, il significato fisico della formula sembra perciò molto cartesiano: forza di quiete come principio interno di coesione, forza di movimento come forza applicata al corpo da una causa esterna. Il rapporto definirebbe in tal modo la velocità necessaria per riuscire a muovere un corpo o la lentezza richiesta per arrestarlo,5 e potrebbe essere la prova di una reinterpretazione della fisica cartesiana già avvertibile nei Principi (le quantità di moto e di quiete sono tra loro in rapporto reciproco inverso e definiscono i limiti di variazione della velocità).6 Donde l’apparenza di una duplice costante: di fatto, tutto si riduce a un’unica quantità il cui rapporto esprime una sola proprietà. Non si esce, evidentemente, dalla concezione cartesiana della «parte di materia» e il rapporto che si concepisce tra la quiete e il moto sembra un rapporto esterno, tra un corpo e altri corpi.
Breve trattato, II, Prefazione, nota, § 12 e 14. Etica, II, 13, lemma 5; IV, 39. 3 Etica, II, 13, def. e lemma 6 (dove compare il termine quiete). 4 A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, 39-40. 5 Cosa che Spinoza illustra con l’esempio della pietra, Breve trattato, II, cap. 19, § 18. 6 Cfr. André Lécrivain, Spinoza et la physique cartesienne, vpl. 2, 177. 1 2
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Il Breve trattato, tuttavia, non si ferma qui. Anche supponendo che l’indivi-duo sia definito da una quantità, compare pure una seconda proprietà. Benché nel Breve trattato la corrispondenza tra l’anima e il corpo sia ancora esitante, affermata e insieme smentita, stiamo all’ipotesi che l’anima sia in grado di muovere gli «spiriti animali» e di esercitare quindi il suo potere sul corpo solo se gli spiriti conservano una sufficiente quantità di moto detta «abituale»; questo non accade più quando ne lasciano troppa al resto del corpo,7 così che il loro movimento viene troppo diminuito, come accade negli stati di esaurimento (dopo aver corso molto) o d’inedia (che, come vedremo, è l’opposto della necessaria rigenerazione del corpo in virtù dell’alimentazione – il che spiega perché nell’Etica Spinoza tratti insieme il suicidio e l’anoressia); o quando, inversamente, il moto degli spiriti è cresciuto troppo, effetto comunemente prodotto dall’alcool. Diminuzione e accrescimento: si tratta ogni volta non di una semplice variazione, ma di una variazione eccessiva. Troppa quiete o moto degli spiriti animali, eccesso di lentezza o eccesso di velocità: un sano rapporto tra spirito e corpo esige il rispetto di una certa proporzione, ossia di un margine di variazione intorno a una costante ideale. Ciò equivale a dire - anche se la cosa è solo implicita – che la quantità di movimento può variare in un senso o nell’altro rispetto a un certo limite. È ciò cui pensa Spinoza quando propone il suo esempio: il corpo può venir sottoposto «a mutamento incessante, ma non così grande da uscire dalla proporzione di 1 a 3».8 Il rapporto non designa quindi l’equilibrio tra due quantità, ma l’ampiezza di un’oscillazione: il rapporto tra un massimo e un minimo di movimento, e «se altri corpi agiscono sul nostro [corpo] così violentemente che la proporzione di moto di 1 a 3 non possa rimanere, si ha la morte».9 Se torniamo ai nostri due esempi, vediamo che il corpo e l’anima ritroveranno i loro «spiriti» sia mediante l’assorbimento di alimenti che apporta loro il moto perduto, sia aspettando in qualche modo il rallentarsi dei suddetti spiriti (i giorni successivi all’ubriachezza). Esaurimento ed eccitazione sono i due modi in cui l’uomo non controlla più il suo corpo, e questo duplice limite si esprime nei termini di una proporzione appropriata tra moto e quiete. Ma Spinoza va oltre, e lo fa perché i limiti lo interessano, sia quelli dell’inedia sia quelli dell’ubriachezza. Non soltanto non ha mai condannato l’alcool, ma ne ha sempre apprezzato e persino raccomandato l’uso, a condizione che il consumatore conosca i propri
7 Non pensiamo si tratti qui, come pensa A. Matheron, di un gioco di compensazione, in cui una delle parti perde movimento mentre le altre ne acquistano. Non si capirebbe più il fatto che la corsa non possa durare indefinitamente né che l’inedia conduca alla morte. Non può che trattarsi di una diminuzione globale della quantità di moto che, come indicano le osservazioni della prefazione, può oscillare tra quei limiti di cui il «rapporto di quiete e moto» è la definizione stessa; cfr. Breve trattato, II, Prefazione, nota XII.2 Etica, II, 13, lemma 5; IV, 39. 8 Breve trattato, II, Prefazione, nota XII [tr. it. 132].4 A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, 39-40. 9 Breve trattato, II, Prefazione, nota XIV [tr. it. 132].
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limiti (il rapporto individuale definito dalla lentezza e velocità massime che il corpo può tollerare).10 Come Platone, come lo stesso Pascal, sembra preoccuparsi di tale giusta misura: non c’è nessun motivo di privarsi di alcool, poiché la sua assunzione è un rimedio contro la tristezza e la malinconia (anche se resta una passione, non confrontabile con quel rimedio che sarà l’unione intellettuale col Dio-Natura); e tuttavia, nell’universo delle possibilità umane, l’ubriacone sta agli antipodi esatti del filosofo.11 Soffermiamoci un poco su questo problema, che è quello dei limiti entro i quali un corpo può essere mosso senza decomporsi. Nella spiegazione delle passioni ereditata da Cartesio, la tristezza viene spiegata con uno stringimento del cuore in senso proprio, la cui percezione è per l’anima fonte di tormento. Spinoza si chiede: «Ora, che cosa apportano le medicine o il vino? Con la loro azione allontanano questi spiriti dal cuore e fanno spazio di nuovo; percependo la qual cosa, la mente trova sollievo. Questo consiste in ciò: il pensiero infondato del male è orientato in altra direzione dalla diversa proporzione di moto e quiete che il vino produce e cade su qualcosa in cui l’intelletto trovi più soddisfazione».12 La tristezza viene allontanata a costo di un vero mutamento d’identità (la malinconia certo scompare perché si genera uno stato di gioia, ma soprattutto perché non si è più la stessa persona, e questo può spiegare l’oblio legato all’ubriachezza anche leggera, un oblio non necessariamente accompagnato dalla perdita dei ricordi, ma dal loro allontanamento, da un loro disinvestimento – ritroveremo più avanti quest’originale problematica della memoria a proposito del poeta e del bambino). Nella misura in cui è ancora possibile un rallentamento degli spiriti, questo mutamento è solo temporaneo e si spiega con un movimento degli spiriti di un’intensità cosi insolita, da instaurare molto provvisoriamente col resto del corpo una nuova proporzione di quiete e moto (siamo qui obbligati un poco a «barare», cioè a prendere l’espressione in un senso che il Breve trattato sembra ancora ignorare – forse però stiamo toccando un campo di problemi in cui il pensiero di Spinoza era al lavoro e tendeva a superare lo stato in cui si trovava una dottrina che, anche nelle annotazioni posteriori, vediamo quanto a quell’epoca fosse lacunosa). Alla lunga il rimedio non è sostenibile, poiché consisterebbe nel tentare di mantenere artificialmente la nuova identità sistemandosi per quanto possibile sul confine dell’antica. Dopo tutto, se veramente i vapori del vino potessero combinarsi col corpo esistente, si potrebbe pensare che è comparso un individuo nuovo – un composto nuovo – mediante la trasformazione del prece-
10 Cfr. non solo la nota del § 14 dello stesso capitolo, ma anche l’inizio del cap. 20 con la nota 2, dove Spinoza non fa differenza tra il vino e la medicina (testo citato sotto, p. 54), lo scolio IV, 45 dell’Etica e, infine, la lettera 72 a Schuller, dove accetta premurosamente la consegna di mezza botte di birra (la Vita di Spinoza di Colerus ne registra un consumo assai moderato). 11 Etica, III, 57, sc. 12 Breve trattato, II, cap. 20, § 2, n. 2 [tr. it. 177].
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dente; ma se l’assorbimento ha per parte sua come limite la malattia, è perché il vino e il corpo non trovano tra loro sufficienti intersezioni o elementi comuni per adattarsi reciprocamente. In questo caso l’alcoolismo si presenta meno come una trasformazione che come un lento decadimento verso la morte – un po’ come la rivoluzione (ma una rivoluzione assai speciale, per innesto o importazione). Il cambiamento d’identità è illusorio: cercare salvezza nel suo ritorno o abbandonarsi a quello è dimorare nell’anticamera della morte. Veniamo all’inedia. Sarebbe superficiale attenersi all’osservazione che Spinoza predica pure la moderazione e traccia un’immagine del Goloso che non ha nulla da invidiare a quella dell’Ubriacone. In primo luogo è quest’ultimo ad essere contrapposto al filosofo, non quello (quel che abbiamo appena detto ne fornirà la ragione, che apparirà più chiaramente nel cap. VIII). D’altra parte il cibo non tossico non ha certo gli effetti antidepressivi dell’alcool, ma in compenso è un alimento. L’inedia è l’altro limite del rapporto individuale e conduce quindi anch’essa alla morte. Al di là di queste ovvietà, ecco forse a che cosa mira Spinoza: anche l’inedia comporta, prima della morte, la formazione precaria e non durevole di un individuo diverso. Per effetto di trasformazioni dovute al digiuno? Certo, lo scolio IV, 20 dell’Etica stabilisce un legame tra anoressia e trasformazione, ma quest’ultima vi appare più come una causa che come un effetto. Resta che, nell’interpretazione di Spinoza, l’anoressia non è né un desiderio di morire, impensabile, né un desiderio di gustare gli effetti dell’inedia, come accade in certi digiuni; si potrebbe dire che è, invece, il desiderio del corpo d’inedia, di un nuovo corpo che non ha bisogno di cibo, e che coincide perfettamente con l’idea della comparsa, nello stato d’inedia, di una proporzione nuova di quiete e moto, che conferisce una nuova identità, evidentemente insostenibile, all’individuo. È indubbio che quest’identità è ancor più precaria di quella che si cerca con l’assunzione di alcool: è semplicemente contraddittoria, chimerica, poiché nessun corpo è esente dall’imperiosa necessità di rigenerarsi continuamente – forse in definitiva una metamorfosi del sogno di un impero in un impero. L’interpretazione biologica della definizione dell’individuo, la sola che interessi a Spinoza, si conclude con la sua trasformazione: anziché con una quantità costante, abbiamo a che fare con una quantità variabile che oscilla intorno a una costante e che non può superare una certa ampiezza di variazione, col pericolo di far cessare l’oscillazione e di non potere più riavvicinarsi alla costante. La costante ha quindi la funzione di norma, non di valore assoluto; definisce uno stato di equilibrio, mentre i limiti stabiliscono l’ampiezza massima dello squilibrio sopportabile da un corpo. Che cosa, in definitiva, definisce l’individuo? La norma dell’equilibrio o la diversa capacità di sopportare uno squilibrio? Spinoza tenderà sempre più a comprendere la differenza individuale in termini di capacità affettiva. Certamente, il criterio che definisce a un tempo l’equilibrio (forza di quiete) e il margine di trasgressione possibile è lo stesso : la quantità, non solo la quantità relativa necessaria a una causa esterna per muovere o immobilizzare il corpo (una certa quantità di movimento per una certa quantità di quiete e 66 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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una certa quantità di quiete per una certa quantità di movimento, dove di volta in volta la stessa quantità è intesa nei due sensi), ma l’azione richiesta per scomporlo (aumentare il suo moto fino a una distanza irreversibile dal suo stato di quiete). Il senso delle nozioni non è lo stesso nei due casi. Infine, ne deriva forse un terzo senso: il riposo come affaticamento.13 Spinoza non dice che la fatica richiede il riposo, ma dice che è riposo. In altri termini, non ha senso dire che dobbiamo riposarci; dobbiamo, al contrario, badare che il nostro corpo recuperi movimento, e questo non può accadere se non alimentandolo (donde, come abbiamo visto, l’equivalenza tra il corridore esausto e l’uomo in stato d’inedia). «È proprio dell’uomo sapiente, dico, ristorarsi e ricrearsi con cibi e bevande moderate e piacevoli…».14 L’invito del senso comune a «riposarsi» ha comunque un senso: essere in accordo con sé stessi, non oltrepassare un limite letale, quasi potessimo cambiare arbitrariamente la proporzione di quiete e moto vitale per il nostro corpo, in altre parole trasformarci. L’Etica menziona di sfuggita il riposo del sonno.15 Si tratti di alimentazione o di sonno, il moto e la quiete sono i due momenti di un ciclo o di un’alternanza.16 Oscillazione intorno a due poli estremi, posizione di equilibrio, ciclo; sono questi almeno, nel Breve trattato, tre tipi di rapporto tra quiete e movimento. Conviene forse approfondire ulteriormente il secondo (quiete come equilibrio).17
13 «Infatti, dopo aver mosso per un lungo tempo i nostri spiriti, sentiamo di essere stanchi: il che non è altro, in verità, che una quiete prodotta da noi negli spiriti» (Breve trattato, II, cap. 20, terza obiezione [tr. it. 180]). 14 Etica, IV, 45, sc. [tr. it. 1015]. In Spinoza il concetto di alimentazione è molto esteso; vi rientrano tutti i piaceri del corpo. Vedi sotto. 15 Etica, III, 2, sc.: «Nam cum corpus somno quiescit, mens simul cum ipso sopita manet..» [«Infatti, quando il corpo riposa nel sonno, la mente resta sopita con esso…» tr. it. 901]. 16 La Vita di Spinoza del pastore Colerus ci dà un’idea di come Spinoza «amministrasse» - poiché si tratta pure, in un certo senso, di un problema economico – il proprio rapporto di quiete e movimento, inteso come un ciclo essenziale e personale: «Nel tempo in cui rimaneva in casa non disturbava nessuno; vi trascorreva la maggior parte del suo tempo tranquillamente nella sua stanza. Quando gli accadeva di sentirsi affaticato per essersi impegnato troppo nelle sue meditazioni filosofiche, scendeva per rilassarsi, e parlava con le persone della casa di tutto ciò che poteva servire a una conversazione ordinaria, anche di inezie. A volte gli piaceva fumare la pipa, oppure, quando voleva distendere lo spirito un po’ più a lungo, cercava dei ragni che faceva combattere tra loro o delle mosche che gettava nelle ragnatele, e stava poi a guardare la battaglia con un tal piacere che a volte scoppiava a ridere» (Pleiade, 1520). Stupisce che Lucas dia un tutt’altro giudizio: «Oltre a non essere di costituzione molto robusta, la sua grande applicazione contribuiva ulteriormente a indebolirlo; e poiché non c’è nulla che smagrisca quanto le veglie, i suoi malesseri erano diventati quasi continui, a causa di una febbricola maligna che aveva contratto nel corso delle sue meditazioni» (Vie de Spinoza, Pleiade, 1555). Il più vicino alla concezione spinoziana della vita non è certo l’agiografo. 17 Cfr., ad esempio, Breve trattato, II, cap. 26, § 2-5: il vero riposo consiste nel fatto che la vita abbia recuperato l’elemento che le è proprio. Possiamo comprenderlo come un punto fisso per i nostri movimenti (acquietamento, acquiescentia)?
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Senza questo significato di equilibrio non si comprenderebbe l’importanza del concetto di acquiescentia né l’importanza della pace – la vera pace implica la libertà – come finalità interna o immanente del corpo politico; quest’ultimo non perviene alla forma se non dotandosi delle istituzioni che assicurano la pace civile, ossia la conservazione dello stesso corpo politico. Ritroviamo qui la stessa problematica: la costante (concordia) non è un valore assoluto, contrariamente a quanto credono i sostenitori della monarchia assoluta, che all’ordine pubblico sacrificano volentieri la libertà, fonte di contrasti e relativi disordini.18 Spinoza mostra che, da un lato, così s’instaura una pace falsa, dall’altra che la pace vera ha come condizione la tolleranza delle differenze individuali. Dove ritroviamo il tema della convergenza: questa non potrà mai essere totale, data la distinzione essenziale degl’individui, o meglio potrà realizzarsi solo in funzione di quel che gl’individui hanno di comune (un’affettività comune, ma anche una comune aspirazione razionale a vivere insieme), e si chiama convergenza totale solo quella sufficiente perché gl’individui possano avvicinarsi e unirsi formando così un solo individuo; quando cioè le differenze non sono tanto rilevanti che le rinunce reciproche con cui gl’individui arrivano ad accordarsi li dissuadano dall’unirsi, perché significherebbero la rinuncia a sé stessi. Chi si sforzasse di formare una comunità a costo di rinunciare a quel che egli è, essendo troppo esigua la convergenza, avrebbe un comportamento suicida; ugualmente, non ha senso preferire la compagnia delle bestie, alla quale solo i melanconici possono abbandonarsi.19 O meglio, la sola logica che possa ancora guidare, dall’esterno, un comportamento simile è la seguente: «Se invece si trova tra individui tali che non si accordano con la sua natura, difficilmente potrà adattarsi a essi (sese accomodare) senza un suo grande mutamento (magna ipsius mutatione)».20 L’accomodatio, come nelle lettere 6 e 32, designa il processo con cui si scopre una convergenza e, di conseguenza, è resa possibile un’unione: si tratta evidentemente di un problema di comunità, come conferma, qualche pagina dopo, l’allusione ai devoti che vanno a vivere tra gli animali.21 In breve, la comunità dei suicidi è il limite di ogni comunità – la Trattato politico, VI, 4. Etica, IV, 35, sc.; 37, sc.1; appendice, cap. 13. A rigore, Spinoza definisce la malinconia un affetto consistente in una diminuzione generale del potere di agire del corpo, contrariamente al dolore, che interessa solo una parte di esso. Nell’Etica, tuttavia, a più riprese, erige la malinconia a tipo (alla fine della prefazione della IV parte e nello scolio della proposizione 35 della stessa parte). Si tratta dunque di una costituzione affettiva durevole, persino irreversibile, di quelle che Spinoza considera nello scolio III, 51: cioè un ingenium, nato dal modo in cui un corpo, data la sua natura, ha vissuto i suoi incontri, lasciando che nell’immaginazione si formasse un certo ordine. Il suicida, per parte sua, è definito come colui che è vinto dal potere insuperabile della cause esterne. Si possono considerare le due definizioni come esprimenti la stessa condizione, ora descrittivamente (malinconia), ora geneticamente (anoressia o suicidio). 20 Etica, IV, appendice, cap. 7. 21 D’altra parte si noterà un punto comune tra la falsa pace assolutista e l’improbabile frequentazione sociale dei bruti: il non poter parlare. Poco prima di occuparsi dello stato, Spinoza 18 19
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comunità dei trasformati. I due significati del termine quiete – lasciando da parte il senso ciclico – compaiono chiaramente nell’Appendice del Breve trattato, dove Spinoza enuncia una teoria della sensazione che conferma le sue osservazioni precedenti.22 Perché, contro il senso comune, sembra si chiami in ogni caso «dolore» la sensazione, se non perché segnala uno squilibrio del corpo? Chiamiamo equilibrio quella proporzione di moto e quiete che conferisce al corpo la sua esistenza e identità. Spinoza sembra vedere nella quiete e nel moto due realtà differenti («Così, se una di queste due modificazioni, il moto o la quiete, muta…»); di fatto, il seguito del testo li presenta in proporzione inversa l’uno rispetto all’altra, così che possiamo considerare il corpo come definito da una certa velocità normale. Si eviterà, tuttavia, l’accostamento con i corpora simplicissima della dottrina che verrà più tardi, i quali, per la loro stessa semplicità affatto astratta, sono definiti indubbiamente dalla loro velocità, ma ad ogni urto cambiano natura e identità senza mai separarsi (possono solo combinarsi). Perciò, allorché il corpo rallenta il proprio movimento (tendenza alla quiete), l’anima sente freddo; quando al contrario lo accelera (tendenza al movimento), sente caldo. Seguiamo Martial Gueroult quando evoca di sfuggita l’importanza medica della costante termica per gli animali a sangue caldo, in quanto definisce la norma della loro salute, e i tentativi frequenti nel XVII secolo di rendere conto dei fenomeni di calore mediante il moto.23 Il corpo umano può oscillare accidentalmente intorno a questa norma; il problema è stroncare la febbre prima che raggiunga un livello insopportabile per il corpo, o che il corpo stesso raggiunga una velocità che ne minacci la coesione. In tutti i modi la sensazione è potenzialmente mortale; come Spinoza osserva, essa consiste nel fatto che la proporzione di quiete e moto del corpo viene «modificata» dagli oggetti esterni;24 ogni morte, ogni decomposizione in fondo non sono che una sensazione un po’ troppo forte. Si vede d’altra parte che, a meno di un’assurdità, l’uso in senso fisiologico del concetto inizialmente fisico comporta tendenzialmente la sua ridefinizione come rapporto di quiete tra le parti.25 Nella stessa direzione si muove anche l’Etica: dapprima il rapporto viene interpretato come un rapporto che s’instaura tra le parti del corpo anziché tra il corpo stesso e quelli esterni, che possono sia rallentarlo
sottolinea che «il principio di cercare il nostro utile insegna a stringere rapporti di amicizia con gli uomini, non con i bruti» (Etica, IV, 37, sc. 1). 22 Breve trattato, appendice II, § 15-16. 23 Gueroult, vol. 2, appendice V, 557. 24 Breve trattato, II, cap. 20, n. 4. Cfr. anche II, Prefazione, nota XIII. 25 Si noterà anche che Spinoza, per sua ammissione soggetto a febbri croniche, accetta di sottoporsi alle cure della medicina vigente, ma ritiene i salassi meno efficaci di un regime alimentare (lettera 28 a Bouwmeester); abbiamo visto in precedenza il legame che pone tra le variazioni di movimento del corpo e l’assunzione di cibo. Infine, nello scolio sul suicidio, ricorda come le febbri diano occasione a deliri (lettera 17 a Balling), cosa che va forse accostata alle «cause esterne occulte dispongono l’immaginazione e colpiscono il corpo, facendogli assumere una natura
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che accelerarlo (la seconda idea, lungi dal sopprimere la prima, viene piuttosto a complicarla); d’altra parte, si passa da un’interpretazione fisica della costante di quiete e moto a un’interpretazione medica in termini di salute.26 Per questo non vediamo alcun motivo di isolare su questo punto, coma fa Gueroult, il Breve trattato da quanto insegna l’Etica; certo, la teoria delle sensazioni non è ripresa, ma nulla indica che venga sconfessata; al contrario essa prefigura la deriva in senso medico del concetto di «rapporto di moto e quiete».27 Su due punti, almeno, questa teoria lascerà tracce nell’Etica. Il primo è l’idea di una rottura dell’equilibrio, non dell’intero corpo relativamente alla norma che lo definisce, ma tra le sue diverse parti. Freddo e caldo sono sensazioni generali che si spiegano per uno scostamento dalla norma. Quando invece riceviamo un colpo sugli occhi o sulle mani, il moto viene trasmesso solo a una parte del corpo, perciò il dolore è locale, e sarà differente a seconda che il colpo viene dato col ferro o col legno. In certo modo quest’idea sembra opporsi alla comunicazione del moto tra le parti, in base alla quale, nell’Etica, sembra venga sempre concepita la conservazione dell’individuo nella sua forma, nonostante le sue variazioni parziali; vedremo in seguito che cosa sia opportuno pensare in proposito. Osserviamo semplicemente che Spinoza vi opporrà sempre gli affetti che rimandano a un’affezione globale del corpo (melancholia/hilaritas) e quelli che si spiegano con un’affezione locale (dolor/titillatio):28 può accadere che una delle parti sia più colpita delle altre o che tutte siano ugualmente colpite. Come si vede, questo caso di squilibrio non comporta necessariamente la tristezza. Spinoza insisterà, tuttavia, sui rischi di un simile squilibrio e sulla necessità vitale di badare a che sia mantenuta, per quanto possibile, un’uguaglianza affettiva tra le parti del corpo, spingendosi perfino a giustificare il dolore – un caso non costituisce un’abitudine - quando si tratti di riportare all’equilibrio una parte eccessivamente stimolata (dovremo commentare questo aspetto). Non si può quindi pretendere che la teoria sia stata semplicemente abbandonata; com’è giusto, le cose si sono complicate. Così conclude Spinoza: «E di nuovo, se la mutazione che avviene in una parte è una causa che riconduce il corpo alla sua precedente proporzione, da ciò deriva la gioia che chiamiamo riposo, attività piacevole e contentezza».29 Non sarebbe possibile rivelare meglio di così la polisemia – non l’equivocità – della nozione di quiete. Senza dubbio si penserà qui alla nozione aristotelica di quiete connessa alla natura del corpo, come se il dualismo del moto violento (tristezza) e del moto naturale (gioia) venisse a sovrapporsi a una concezione de-
diversa, contraria alla precedente». 26 Etica, IV, 39. 27 Cfr. Gueroult, vol. 2, appendice VII, 562. Stranamente, quando evoca la medicina degli equilibri termici (557), non fa riferimento al Breve trattato; la sua allusione sembra sorgere dal nulla… 28 Etica, III, 11, sc. 29 Breve trattato, appendice II, §16 [tr. it. 204].
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cisamente nuova del moto e della quiete; sia pure in una maniera affatto inedita, Spinoza si ricollega all’idea di una natura propria di ciascun corpo. Questa teoria della sensazione presenta infine un ultimo aspetto degno di nota: collega la sensazione a un problema di concordanza o di combinazione. La differenza tra il buono e il cattivo si spiega con un rapporto tra rapporti, ossia col rapporto tra la proporzione di quiete e moto che ci costituisce e quella del corpo che ci colpisce.30 È questo il secondo punto sul quale l’Etica conserverà tracce della teoria, quando per l’appunto si tratterà di spiegare l’origine dei valori e la loro relatività. «Ad esempio, se il movimento che i nervi ricevono dagli oggetti rappresentati per mezzo degli occhi giova alla salute, gli oggetti dai quali è causato sono detti belli…».31 La sensazione di gradevolezza, spiega quindi il Breve trattato, deriva dal fatto che «siamo mossi nel modo più proporzionato».32 In altri termini, i due rapporti, anziché scontrarsi, si coniugano o si accordano. Come ci dice Spinoza, è questo il caso del vino, o di qualcuno che ci fa il solletico. Tenendo conto di quel che abbiamo concluso sopra, l’esempio del vino indica tutta la fragilità di un simile accordo, dal momento che con questo corpo ci accordiamo solo assai parzialmente, minime. L’accordo non è mai totale, nemmeno con coloro che definiamo nostri «simili», l’accordo delle proporzioni è sempre questione di dosaggio, prudenza o di consumo ragionevole.33 Comunque, contrariamente a quanto lasciava supporre il testo della seconda appendice, non ogni sensazione è dolore; anzi, siamo quasi tentati di far corrispondere, termine a termine, alle affezioni ora globali ora locali dell’Etica la contrapposizione di caldo e freddo da un lato e la contrapposizione delle sensazioni gradevoli o sgradevoli dall’altro. Non presenta comunque alcun interesse cercare di unificare forzatamente una serie di osservazioni indubbiamente sistematiche, che però formano
30 Sottoscriviamo il commento di Filippo Mignini: «I sentimenti di piacere e dispiacere, dai quali il desiderio è determinato, sono dunque a loro volta prodotti dalla naturale convenienza o discordanza della struttura del corpo conosciuto con la struttura del corpo conoscente. Perciò il piacere non dipende, in quanto tale, da alcuna conoscenza, affermazione o negazione, ma solo dal naturale e meccanico accordo degli equilibri di moto e quiete costituenti il conoscente e il conosciuto, secondo il corso e l’ordine della Natura» (Korte Verhandeling / Breve trattato, commento, p. 676-677; un’altra formulazione a p. 693).27 Cfr. Gueroult, vol. 2, appendice VII, 562. Stranamente, quando evoca la medicina degli equilibri termici (557), non fa riferimento al Breve trattato; la sua allusione sembra sorgere dal nulla… 31 Etica, appendice [tr. it. 832]. 32 Breve trattato, II, cap. 19, §15, n. 4 [tr. it. 175]. Correggiamo su questo punto la traduzione di Appuhn con quella italiana di Mignini, che si basa per altro su una lezione più illuminante, assai diversa da quella adottata da Appuhn: «Dunque, quelli dai quali siamo mossi nel modo più proporzionato (secondo la proporzione di moto e quiete di cui consistono) sono per noi i più piacevoli; invece, quanto più si allontanano da questa proporzione, [sono] i più spiacevoli» (sottolineatura nostra). La sensazione, quale viene pensata qui da Spinoza, si avvicina molto a una combinazione, un’unione, ossia all’emergere di un individuo nuovo. Viene qui spontaneo pensare alla problematica generale dell’amore del Breve trattato (ad esempio, II, cap. 5).
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ancora soltanto una dottrina lacunosa; possiamo tutt’al più prendere atto di tendenze strutturali e di idee convergenti. In questo abbozzo che, ricordiamolo, precede di poco la redazione dell’Etica, quel che resta degno di nota è quest’ambivalenza della sensazione: ora fattore di decomposizione, poiché non c’è sensazione che non causi un sia pur minimo squilibrio del corpo o non lo allontani dal suo punto di quiete; ora fattore di combinazione, poiché la differenza sensibile è talvolta ampiamente compensata dal riconoscimento fisico di un accordo. Questo vuol dire che, in quanto sensazione, il piacere contiene comunque un minimo di dolore? L’impossibilità di rispondere positivamente a questa domanda è quanto c’impone, secondo noi, la sostituzione della coppia freddo-caldo (squilibrio nel senso della quiete o del movimento) con quella di malinconia-ilarità (diminuzione o aumento del potere di agire di un corpo, in quanto sia affetto in tutte le sue parti). Ricapitoliamo i quattro sensi del moto e della quiete: 1. un senso relativo, strettamente fisico (una certa quantità che definisce il corpo determina per ciò stesso l’azione per muoverlo se è in quiete o per immobilizzarlo se è in movimento); 2. un primo senso biologico, che definisce un doppio limite (quiete eccessiva, moto eccessivo); 3. un secondo senso, fisico-biologico, che ne deriva, ma questa volta normativo (le variazioni della quantità, la differenza di moto tra le sue parti che un corpo tollera, rispetto alla sua posizione ideale di quiete); 4. infine, un ultimo senso esclusivamente biologico, ciclico (alternanza di moto come dispendio e della quiete come affaticamento).
2. Rapporto di quiete e moto tra le parti (Etica)
La novità introdotta dall’Etica a questo proposito è duplice: da un lato, l’idea di una comunicazione del moto tra le parti, dall’altro l’estensione della nozione di individualità all’universo modale come totalità materiale, già sostenuta nella lettera 22, mediante la quale vengono ad essere affermate contemporaneamente una norma per la salute dell’individuo e la necessità che questa salute sia una realtà essenzialmente compromessa. Essere una parte della materia, come diceva Cartesio, o essere una parte della Natura, come dice ora Spinoza, significa non soltanto essere noi stessi composti, ma dovere in ogni momento combinarci con altri corpi che non hanno atteso noi per formarsi e per i quali può essere del tutto conveniente decomporci. Di conseguenza entriamo già nella sfera etica, dove la salute dipende in primo luogo dalla nostra disposizione a comprendere che il mondo non è fatto per noi, che i movimenti degli altri non smettono certo di ostacolare i nostri senza doversi adattare ai nostri. Se poi spontaneamente ognuno tende a farsi di sé l’immagine favolosa di un «primato dell’uomo», nel quale si riassumerebbe l’intero creato, tutto il nostro compito – persino ogni educazione – sta nell’imparare a sentirci di nuovo parte
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della natura.34 Perciò il lettore non è sorpreso di trovare a questo punto il problema dell’accomodatio: «Da ciò deriva che l’uomo è sempre necessariamente sottoposto alle passioni, segue l’ordine comune della natura, obbedisce a esso e, per quanto esige la natura delle cose, vi si conforma (accomodare)».35 D’un tratto s’impone la dimensione inseparabilmente medica ed etica della concezione dell’individualità. Questi due aspetti si riveleranno profondamente solidali. Il primo di questi aspetti, quello per cui l’individuo è definito dalla proporzione costante secondo cui le sue parti si comunicano reciprocamente i loro moti, è rivolto senz’altro contro Cartesio. Per essere veramente fondata, l’identità dell’individuo non deve più dipendere dall’identità numerica delle sue parti: «Le parti che compongono il corpo umano non competono all’essenza dello stesso corpo se non in quanto si comunicano a vicenda i loro movimenti secondo un certo rapporto… e non in quanto possono essere considerate come individui senza relazione al corpo umano».36 Questo enunciato contiene di fatto due idee distinte. Per un verso, le parti del corpo umano lo costituiscono solo nella misura in cui si accordano reciprocamente, componendo così uno stesso individuo. Si osserverà subito che l’individuo non obbedisce alla logica dei tessuti, valida tanto per il sangue quanto per la società. L’organismo è una comunità? Certamente è necessario che le parti convengano, ma non per questo avranno mai la condizione di rappresentanti qualsiasi dell’organismo stesso, cosa che varrebbe loro il nome di «particelle»; al contrario, le parti sono caratterizzate dalla diversità delle loro funzioni, e questo spiega la complessità affettiva del corpo.37 È questa, in definitiva, la distinzione concettuale che giustifica l’uso con significato differente dei termini parte e particella. Le parti del corpo umano sono forse esse stesse composte di particelle, ma non sono esse stesse particelle. L’organismo non è una comunità, ma che altro è allora? È composto, come tutto l’universo, di parti eterogenee, le cui reciproche convergenze passano per la vicendevole distruzione? L’universo, almeno, giustifica la sua individualità con le nozioni universali comuni, secondo l’espressione di Gueroult: le leggi generali della trasmissione del moto, dette anche dell’urto, cui soggiacciono tutti i modi dell’estensione.38 Lo scolio I, 15 dell’Etica può anche essere letto come anticipazione del commento alla tesi dell’individualità dell’universo; cerca di dimostrare
Etica, I, appendice; III, prefazione; IV, 2-4; 68, sc. Etica, IV, 4, cor. [tr. it. 979]. 36 Etica, II, 24, dim. [tr. it. 864-865]. 37 Etica, III, 2, sc. (rapporto tra fabrica e functiones); IV, appendice, cap. XXVII (rapporto tra la diversità degli officia e la disposizione a venir affetto). 38 Etica, II, lemma 2 dopo 13 («Tutti i corpi convengono in alcune cose»); 37-38 col corollario. 34 35
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l’indivisibilità della sostanza corporea o estensione, condizione della sua attribuzione a Dio, ma quando l’argomentazione comincia a ruotare intorno alla questione del vuoto, sembra che si scivoli insensibilmente, per il fatto stesso di ragionare per assurdo, dall’estensione assolutamente indivisibile, non suddivisa, a quella modificata, le cui parti devono essere rigorosamente solidali – come prepara e giustifica l’immagine dell’acqua. In realtà, fino a quel momento, Spinoza aveva confutato la suddivisione dell’estensione («Pensano anzitutto che la sostanza corporea, in quanto sostanza, consti di parti… questi argomenti si fondano soltanto sulla supposizione che la sostanza corporea sia composta di parti»); ora, invece, non tratta soltanto della sua divisione reale («se la sostanza corporea si potesse dividere in modo che le sue parti fossero realmente distinte…»). L’argomentazione è la seguente: se la materia si dividesse realmente, la connessione delle sue parti non impedirebbe affatto la possibilità di un annientamento separato di una di esse, il che creerebbe il vuoto. A questo punto compaiono delle formule che c’interessano: «E perché tutte si devono adattare (aptari) in modo tale che non si dia vuoto?… Poiché dunque in natura non si dà vuoto (su questo altrove), ma tutte le parti devono concorrere (concurrere) in modo tale che non si dia vuoto, ne segue anche che esse non possono distinguersi realmente». Capiamo perché Spinoza ha parlato subito dell’impossibilità di divisione della sostanza precisando «in quanto sostanza»; infatti, se è vero che per l’intelletto la quantitas è infinita, una e indivisibile, per l’immaginazione astrattamente è composta di parti. Da ciò non si trarrà la conclusione che per Spinoza i corpi concreti sono irreali, dal momento che la divisione modaliter corrisponde ad affezioni reali della sostanza; ad essere immaginaria non è la divisione modale ma quella reale. È la seconda volta39 che Spinoza richiama l’attenzione del lettore sulla distinzione tra la sostanza e la modificazione, che è una distinzione nell’essere, tra «ciò che è in sé ed è concepito per sé» e «ciò che esiste in altro, per mezzo del quale è anche concepito», e non una distinzione tra essere e non essere.40 Come vedremo in seguito, l’errore viene dall’immaginare troppo facilmente i modi come delle sostanze, non dal nostro attribuire loro un’esistenza distinta. Tutto in realtà dipende da quel che intendiamo per distinzione, e sarà compito della dottrina dell’individualità mostrare come l’esistenza distinta sia compatibile con una connessione reale che impedisca il vuoto. In sostanza, nello scolio I, 15 il lettore non sa ancora nulla degl’infiniti modi che dovranno permettere l’articolarsi dell’individuo con la divisione, mentre Spinoza gli presenta in anticipo la facies totius universi: «la materia è ovunque la stessa e… in essa non si distinguono parti se non in quanto la concepiamo affetta in modo diverso (diversimode)».41 La connessione necessaria dei modi, l’adattamento senza fessure
In base al secondo scolio I,8. Etica, I, def. 3 e 5 [tr. it. 787]. 41 Cfr. per un confronto, la lettera 78 a Schuller: «Il volto di tutto l’universo pur variando in 39 40
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delle parti della materia concepite come modalmente distinte portano direttamente alla concezione dell’universo come individuo. Torniamo allo statuto dell’organismo. Secondo la regola già messa in luce, per quanto eterogenei siano, i corpi compongono l’universo in quanto hanno tra loro convergenze minime. Questo fa dell’universo un individuo d’eccezione, che si stacca dagli altri non soltanto perché li integra in sé tutti, ma perché la regola della minima convergenza che ne assicura l’identità permette di superare la contraddizione di un soggetto contenente determinazioni contrarie, o di un individuo composto di parti non soltanto differenti ma contrarie le une alle altre.42 Il corpo umano non può essere un caso come questo: non è il corpo in generale (nel senso in cui ne parlava Cartesio, con la sola differenza che ora lo si pensa secondo il principio dell’individualità modale, sia pure eterna e infinita, non più secondo quello della sostanza), è invece un certo corpo e, di conseguenza, la convergenza reciproca delle sue parti non può essere solo quella che tutti i corpi hanno tra loro. D’altro canto le sue parti rimangono eterogenee, senza per questo essere contrarie le une alle altre. Se così non fosse, sarebbe una chimera, simile a quegli «animali mostruosi che si comporrebbero di due nature – come un animale che sia insieme uccello e cavallo e cose simili, le quali non possono aver luogo nella natura, che troviamo diversamente costituita».43 L’organismo in generale – non c’è infatti motivo di riservare quest’espressione esclusivamente al caso dell’uomo – o, almeno, l’organismo sufficientemente complesso, è l’altra singolarità nella serie degl’individui. In Spinoza non si trova da nessuna parte un concetto che corrisponda pienamente44 a questa singolarità; la sua logica della convergenza non consente di pensare come l’eterogeneo, in quanto eterogeneo, cooperi e non sia sinonimo di contrarietà. Non stupisce quindi che i soli testi che fanno menzione dell’organicità in quanto tale – ossia della fabrica corporis – registrino l’ignoranza dei medici e il carattere aberrante delle concezioni fondate sull’armonia.45 Che altro modello esiste al di fuori di quello della comunità? Spinoza non ha
infiniti modi, rimane tuttavia sempre lo stesso» [tr. it. 1494]. 42 «Le cose in tanto sono di natura contraria, cioè in tanto non possono essere nello stesso soggetto, in quanto l’una può distruggere l’altra. Dimostrazione. Se infatti potessero accordarsi tra loro o essere simultaneamente nello stesso soggetto, allora si potrebbe dare nello stesso soggetto qualcosa che potrebbe distruggerlo, il che (per la proposizione precedente) è assurdo» (Etica, III, 5 e dim.) [tr. it. 905]. 43 Breve trattato, I, cap. 1, n. 3 al § 7 [tr. it. 95]. 44 In seguito vedremo tuttavia un certo abbozzo di formulazione concettuale dell’organismo. 45 Etica, I, appendice; III, 2, sc. Secondo F. Duchesneau il bersaglio è soprattutto Galeno. Duchesneau mostra come Spinoza, bel lungi dal far propria la concezione cartesiana dell’organismo, elimina quel che questa conteneva ancora di finalismo. Non pone, però, il problema dell’eterogeneità degli organi. Cfr. Modèle cartésien et modèle spinoziste de l’être vivant: Cahiers Spinoza, 2, 267 e specialmente 283-285.
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scelta; occorre far entrare per forza le due grandi eccezioni nella logica generale della composizione: l’universo, grazie all’idea di convergenza minima; l’organismo complesso, insistendo piuttosto sulla trasmissione regolare dei movimenti tra le parti (dopo la scoperta di Harvey della circolazione del sangue, questo problema è in primo piano nelle ricerche meccaniciste dell’epoca).46 D’altra parte, lungi dal compromettere l’identità numerica del corpo umano, il continuo ricambio delle parti ne diventa la condizione. È un’inversione spettacolare: laddove Cartesio era costretto a richiamare alla riscossa la vecchia dottrina scolastica dell’anima forma del corpo, riservandola al solo caso dell’uomo, Spinoza, per il quale ogni essere, in una misura o nell’altra, è animato,47 trova la soluzione in un concetto inedito di forma, valido per tutti i corpi. Mettiamo a confronto le due soluzioni. Cominciamo con quella di Cartesio: «Quando, però, parliamo del corpo di un uomo, non intendiamo una parte determinata della materia, né una parte di grandezza determinata; intendiamo, invece, soltanto tutta la materia che è unita insieme con l’anima di quest’uomo, di modo che, anche se questa materia cambia e la sua quantità aumenta o diminuisce, riteniamo che sia sempre lo stesso corpo, idem numero, fintantoché rimane congiunto e unito sostanzialmente alla stessa anima. Crediamo anche che questo corpo sia tutto intero, fintantoché ha in sé tutte le disposizioni richieste al fine di conservare tale unione. Non v’è nessuno, infatti, che non creda che abbiamo gli stessi corpi che abbiamo avuto fin dalla nostra infanzia, benché la loro quantità sia aumentata di molto e benché, secondo l’opinione comune dei medici e senza dubbio secondo verità, non vi sia più in essi alcuna parte della materia che c’era allora ed essi non abbiano più neppure la stessa figura. Sicché, se essi sono eadem numero, lo sono perché sono informati dalla medesima anima» (Cartesio, lettera a Mesland, 9 Febbraio 1645, Alquié, vol. III, 547-548 [tr. it. 1965]).
Vediamo ora quella di Spinoza, come sempre più lapidaria: «Se in un corpo o individuo composto da più corpi, alcuni vengono separati dagli altri e, simultaneamente, altrettanti corpi della stessa natura subentrano al loro posto, l’individuo conserverà, come prima, la sua natura, senza alcun cambiamento della sua forma. Dimostrazione. Infatti (lemma 1) i corpi non si distinguono in ragione della sostanza e ciò che costituisce la forma dell’individuo consiste (per la definizione precedente) in una unione di corpi; ma questa (secondo l’ipotesi), pur avvenendo un continuo mutamento di corpi, viene conservata; dunque l’individuo conserverà la sua natura quale era prima, tanto rispetto alla sostanza quanto rispetto al modo» (Etica, II, lemma 4 dopo 13 e dim. [tr. it. 853]).
Il nuovo significato concettuale del termine forma risulta dall’andamento di questa dimostrazione, col suo rinvio alla definizione dell’individuo,48 che sposta 46 Lo scolio IV, 39, per illustrare l’idea che l’identità del corpo dipende da un certo rapporto in cui avviene la comunicazione dei movimenti, non alla sola comunicazione in quanto tale, sottolinea che il persistere della circolazione del sangue è del tutto compatibile con una trasformazione. 47 Etica, II, 13, sc. 48 Come conferma anche la dimostrazione del lemma 6.
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per intero nel campo dell’individualità il vecchio ordine sinonimico della natura dell’essenza e della forma ripreso da Cartesio, il quale a sua volta l’aveva ricevuto dalla scolastica. Certamente, l’unione dei corpi vi era definita, lo s’è visto, sia come lo stato di quiete di questi corpi gli uni rispetto agli altri, sia come il rapporto costante secondo cui si comunicano i loro moti; ma ogni volta che Spinoza userà il termine forma, si riferirà esclusivamente a questo rapporto costante, che chiamerà anche «rapporto di moto e quiete».49 La definizione completa sarà data solo più tardi, quando Spinoza avrà bisogno di porre l’accento sul concetto di forma, quando cioè comincerà a pensare la salute, la malattia e la morte in termini di trasformazione: «Ma la forma del corpo umano è costituita dalla proporzione con la quale le sue parti si comunicano a vicenda i loro movimenti (per la definizione che precede il lemma 4 che vedi dopo la prop. 13 della parte II). Pertanto, le cose che procurano la conservazione del rapporto di moto e quiete che le parti del corpo umano hanno tra loro, conservano la forma del corpo umano…» (Etica, IV, 39, dim.).
Se ora torniamo al confronto tra le due soluzioni, vediamo che differiscono anche per le loro conseguenze. Gueroult ha fatto notare che in Cartesio il corpo muore una volta venuta meno la sua unione con l’anima che gli dà la forma, mentre in Spinoza, al contrario, lo spirito cessa di esistere allorché la forma del corpo si spezza.50 Si deve però considerare anche un’altra conseguenza: nella versione cartesiana, la semplicità immutabile dell’anima assicurava l’identità dei corpi, qualunque cambiamento questi ultimi avessero subito. Questo non vale più per Spinoza, per il quale la forma del corpo non è più un’istanza trascendente, indifferente al suo divenire, e si deve quindi cercare di determinare in che misura il divenire del corpo sia compatibile con la salvaguardia della sua identità. Si è colpiti, e all’inizio anche stupiti, di veder interpretare la perdita della vista come un mutamento di essenza, mentre per Cartesio il corpo rimane idem numero qualunque amputazione subisca.51 Inoltre, a proposito della crescita dei bambini, Spinoza solleva il problema della trasformazione in senso forte,52 mentre nel testo citato Cartesio aderisce esplicitamente alla dottrina tomista. Spinoza si chiede, infine, che cosa ne sia di un uomo che, in seguito a una grave malattia, perda la memoria, e non esita a concludere che ha cambiato identità, ossia che il suo corpo si è trasformato e, di conseguenza, anche il suo spirito.
49 Etica, II, lemmi 5, 6 dopo 13, come lo scolio che segue questi lemmi; 24, dim.; IV, 39, dim. È quanto conferma a contrario il lemma 7, che menziona la quiete, ma non fa parola della forma. 50 Gueroult, vol. 2, appendice n. 6, 559. 51 Lettera 21 a Blyenberg. 52 Etica, V, 39, sc. Questo scolio mescola stranamente il lessico del perfezionamento con quello della trasformazione, trasgredendo all’avvertimento dato al riguardo dalla prefazione della IV parte. Fornisco un commento di questo punto in Le conservatisme paradoxal de Spinoza…, op. cit.
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Proprio nella proposizione che prelude alla formulazione del nuovo concetto di forma, Spinoza, infatti, sostituisce l’anima forma del corpo con lo spirito idea del corpo.53 Quest’idea, già documentata nelle tarde annotazioni del Breve trattato, ha come conseguenza che lo spirito, anziché garantire l’identità del corpo, vede la propria identità esposta alle sue vicissitudini.54
3. Interpretazione dei quattro lemmi sulla conservazione della forma
Il cambio delle parti è, beninteso, il primo degli aspetti in cui un corpo può variare senza perdere la propria identità (lemma 4). In ciò si manifesta il profondo legame tra i due aspetti della nuova versione del «rapporto di moto e quiete»: comunicazione tra le parti ed estensione del concetto all’universo intero. In virtù di una sola decisione, infatti, il continuo rinnovarsi del corpo cessa di essere un’obiezione alla sua identità, pensata oramai al livello della struttura razionale delle sue parti, e diventa la condizione della sua conservazione, ossia di una quasirigenerazione.55 Beninteso, lo scambio materiale svolge questa funzione solo se, a sua volta, soddisfa a una condizione: l’identità di natura di quel che si scambia.56 Questo rinvia al problema di cui ci siamo occupati in precedenza: i candidati alla sostituzione (attenendosi alla logica del tessuto o della comunità, Spinoza parla al plurale), che non possono essere identici strictu sensu ai corpi che sostituiscono, devono tuttavia avere con essi una sufficiente comunanza d’essenza e, quindi, un potenziale di adattamento sufficientemente simile, da poter partecipare a loro volta alla comunicazione regolata dei movimenti che caratterizza l’individuo di cui entrano a far parte. Quel che conta in materia è il riferimento a una posizione (loco), la quale rinvia all’ordine in cui avviene la comunicazione totale dei movimenti: l’organismo è una città in cui ogni comunità ha il suo posto, non per viverci ignorando le altre ma, al contrario, per comunicare (che un organo costituisca un ghetto e si avrà la morte della città nella sua identità attuale). Mai Spinoza è stato tanto vicino a una definizione genetica dell’organismo: la fabrica del corpo, o la sua struttura, si spiega in termini dinamici col modo in cui diversi corpi si comunicano i loro moti rispettivi secondo una certa proporzione. È la proporzione che spiega la struttura o viceversa? Diversa struttura, diversa
Etica, II, 13. Breve trattato, II, prefazione, nota, IX-XIV. Riserviamo al cap. IV il problema di sapere in che misura la trasformazione dello spirito debba essere interpretata come una conseguenza di quella del corpo. Si tratta del problema della forma propria dell’idea – o dell’esse formale – dell’idea, in una filosofia che afferma l’identità dell’ordine delle cose e di quello delle idee. 55 «Per conservarsi, il corpo umano ha bisogno di moltissimi altri corpi dai quali viene continuamente quasi rigenerato (continuo quasi regeneratur)» (Etica, II, post. 4 dopo la prop. 13). 56 Vi si aggiungeranno due altre condizioni, che saranno esaminate in seguito: simul (nello stesso tempo) e totidem (in ugual numero). 53 54
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proporzione: le due si presuppongono reciprocamente; ci è anche possibile credere all’abbozzo di una definizione genetica, perché l’esistenza o meno di una comunicazione secondo una proporzione è la ragione di ogni struttura, ossia il criterio che la differenzia da un semplice aggregato, per usare un termine di Leibniz.57 Questa formula non può essere invertita, poiché la proporzione è già un concetto, mentre la struttura – come si è detto in precedenza – a priori è solo un guscio vuoto. In un certo senso, la quasi-rigenerazione è solo una parola, poiché l’alimento non è la causa dell’esistenza attuale del corpo, anche se contribuisce al suo mantenimento; essa invita fastidiosamente a confonderla con la «creazione continua», come l’interpreta per altro Spinoza, un’idea che proviene da tutt’altro complesso, quello della causa essendi, del perseverare, ossia del conatus. Certamente, per la conservazione servono le due cose, sforzo e alimento, la cui congiunzione – lo sforzo di alimentarsi – è anche un criterio di separazione tra ragione e follia. L’importante, in Spinoza, è che l’uomo scopra di essere un tutto e, insieme, una parte, individuum e pars Naturae. Il concetto di forma è ciò che permette, a un tempo, di dare consistenza all’individuo, superando l’aporia cartesiana, e di chiarire il nesso indissolubile di un’individualità con altre individualità.58 Si trova qui la ragione della deriva del concetto di rapporto di quiete e moto nel senso di un rapporto tra le parti: la nozione di scostamento da una posizione ideale di quiete cambia senso per effetto della scomparsa di ogni riferimento a una quantità precisa di moto. Da una parte, questa posizione non va più assimilata a una norma, ma a un grado massimo di convergenza tra le parti (quiete, nel senso preciso del termine, delle parti le une rispetto alle altre), così che lo scostamento non misurerà più il margine di oscillazione morbosa di una quantità di moto tra due limiti, bensì la maggiore o minore tolleranza del corpo in fatto di divergenza
Questo non accade in Cartesio, la cui sola risorsa è sottolineare la qualità della sistemazione, esponendosi, per questo motivo, all’accusa di finalismo, formulata nella Prima parte dell’Etica. Cfr. Passioni dell’anima, art. 30, dove l’unità dell’organismo è definita dalla «disposizione dei suoi organi, talmente collegati gli uni agli altri…». Questo testo, tutto sommato, non si concilia bene con la lettera a Mesland commentata sopra. Nemmeno, però, la contraddice formalmente: vi si dice che l’amputazione rende «difettoso» il corpo, non certo numericamente diverso. Ricordiamo che la difettosità è per Spinoza il criterio finalistico per eccellenza. È vero che Spinoza, all’inizio dello scolio IV, 39 sembra far dipendere il cambiamento del rapporto da un cambiamento della disposizione; ma è questa un’obiezione? È chiaro che il primo non è possibile senza il secondo; per contro – ed è la sola cosa che qui vogliamo dire – esso appare come la sua ragione, la sua ratio, che rende intelligibile il fatto che la disposizione sia inoltre una sistemazione, una solidarietà positiva delle parti. 58 Ètienne Balibar sottolinea l’uso che viene fatto del postulato della quasi-rigenerazione nella dimostrazione della proposizione IV, 39. Cfr. È. Balibar Individualité et transindividualité chez Spinoza, in P.-F. Moreau (a cura di), Architectures de la raison. Mélanges offerts à Alexandre Matheron, Fontenay/ Saint-Cloud 1996, 40. 57
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delle parti. Dall’altra, e per ciò stesso, una tale ridefinizione della costante e dell’oscillazione porta paradossalmente a irrigidire l’identità, secondo «una logica del tutto o niente», come la definisce Ètienne Balibar.59 Acquistando un margine di variazione, l’individuo vede al tempo stesso la sua identità perdere ogni elasticità. La quantità che, nel Breve trattato, definiva in sostanza l’individuo, poteva ancora variare e in questo senso si esprimeva nella forma di un rapporto; ora, invece, il rapporto che definisce immediatamente l’individuo determina al tempo stesso un margine di variazione di quest’ultimo, rimanendo esso stesso stabile. Che posto rimane per la condizione di malattia? A volte si hanno variazioni di un corpo in equilibrio (salute), a volte variazioni squilibranti cui non corrisponde alcun concetto di malattia, ma solo quello della morte. Nell’Etica, alla salute non si contrappone la malattia ma la morte, come dice severamente la proposizione IV, 39, seguita dalla sua dimostrazione. Con ciò la malattia sembra relegata nel campo in cui si trova la chimera, ossia di quegli stati, non improbabili ma contraddittori e non durevoli in cui, come si dice, l’individuo è tra la vita e la morte. È evidente, dunque, che nell’Etica la rifondazione del concetto di rapporto di movimento e quiete si accompagna a una drammatizzazione, come testimonia a suo modo il prologo del Trattato dell’emendazione dell’intelletto. In che cosa, tuttavia, questo paradosso non è una contraddizione? Se chiediamo in che misura la variazione non comporta a sua volta uno squilibrio, la risposta di Spinoza si colloca evidentemente nella spazio tra azione e passione. Il lemma seguente, il quinto, non fa ancora menzione del caso di divergenza tra le parti. Afferma che la crescita non è incompatibile con la conservazione della forma. Potrebbe essere un modo di chiudere in anticipo il dibattito aperto dallo strano scolio V, 3960 - ma leggiamo con prudenza. Risulta che la contabilità non è esente da condizioni: occorre che l’aumento sia proporzionato. Ancora una volta, per pensare la variazione, occorre scendere al livello delle parti;61certamente non come se l’individuo dovesse la propria natura a quella delle parti, ma perché la sua conservazione è pensabile solo al livello della struttura relazionale che lo costituisce (donde la condizione posta immediatamente alla contabilità). Se quindi avessimo a che fare solo con una certa quantità di materia, il suo aumento equivarrebbe ipso facto alla sua trasformazione; ma se le parti aumentano, se cioè crescono i movimenti che esse si comunicano – pensiamo qui alla forza muscolare – rispettando la stessa proporzione, l’identità del corpo resta
59 Ivi. 41, a proposito della proposizione IV, 39, che in realtà pensa la malattia solo nell’alternativa secca tra conservazione (salute) e distruzione (malattia). 60 Cfr. sopra, n. 52 61 Come scrive È. Balibar, «l’identità di ogni individuo (il fatto di rimanere “lo stesso” e quindi “lui stesso”) si spiega con la costanza di una proporzione a un livello determinato. Le sue variazioni o trasformazioni, invece, si spiegano con la costanza di una proporzione a un altro livello» (ivi, 40). Evidentemente l’autore usa qui il termine trasformazione nel suo significato ordinario.
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immutata. Colpisce l’astrattezza di un simile processo, anche se per la medicina dell’epoca era la regola:62 la crescita reale di un bambino non è proporzionata (se si confronta la crescita della testa con quella dei piedi). Eppure le sue parti continuano a comunicarsi i loro movimenti; è questo il dilemma che doveva condurre Spinoza a interrogarsi, contrariamente alla lettera di Cartesio a Mesland e contro il tomismo, su un eventuale cambiamento d’identità nel corso della crescita; si noterà, d’altronde, che lo scolio V, 39 fa corrispondere alla crescita del corpo un cambiamento della proporzione nella mente.63 In sostanza, il corpo non solo si rigenera, ma cresce (e all’epoca non si dubita che la crescita dipenda dall’alimentazione).64 Eppure il totidem del lemma 465 sembra contraddire il lemma 5, come se la disuguaglianza della sostituzione, in un senso o nell’altro, dovesse minacciare l’integrità dell’individuo. In un caso ritroviamo indubbiamente il tema dell’inedia: se non recupera la quantità di moto richiesta, il corpo s’indebolisce; a segno che, come anticipavamo sopra, questa condizione dell’uguaglianza irrigidisce singolarmente la dottrina del Breve trattato, soprattutto se vi si aggiunge la condizione della simultaneità (simul, sempre nel lemma 4); stando alla lettera del testo, si dovrebbe concludere che un digiuno, anche temporaneo, comporta la dissoluzione della forma. Nell’altro caso, l’eccesso alimentare provocherebbe ugualmente la dissoluzione. Rachitismo e obesità diventano, dunque, impensabili, ma quel che per il momento c’interessa è la difficoltà di conciliare i due lemmi, ossia il carattere negativo dell’ingrassare con quello positivo del crescere (poiché i corpi che si
62 Questo vale per l’ingrassamento come fenomeno malato,in cui aumentano solo il grasso e la carne, mentre ossa, nervi e vene conservano le loro dimensioni. Cfr. S. Dupleix, La physique, in Corps de philosophie, parte III, cap. 14, la cui ultima edizione rivista dall’autore è del 1640. 63 «In questa vita, dunque, siamo spinti soprattutto a far sì che il corpo dell’infanzia si trasformi, per quanto la sua natura consenta e vi sia disposta, in un altro che sia atto a moltissime cose e si riferisca a una mente che sia più consapevole di sé e di Dio e della cose, e in modo tale che tutto ciò che si riferisce alla sua memoria o immaginazione sia difficilmente di qualche importanza rispetto all’intelletto, come ho già detto nello scolio della proposizione precedente» (sottolineatura nostra) [tr. it. 1083]. 64 Cfr. S. Dupleix, op. cit., il quale dice di attenersi alla «dottrina dei medici» secondo cui l’alimento conserva nel corpo animato un umore chiamato «umido radicale», che conserva il calore naturale. Nel corpo giovane questo calore naturale è in ebollizione, donde il grande appetito, che comporta un’alimentazione superiore alla quantità richiesta per conservare l’umido radicale e spiega la crescita. I medici, tuttavia, sono obbligati a porre una «giusta quantità naturale», senza la quale ogni cosa nel mondo crescerebbe all’infinito, di modo che, passata una certa età, l’eccesso alimentare diventa nocivo. La morte si avvicina allorché, non riuscendo più l’alimento a ripristinare l’umido radicale che va perduto (l’equivalente della rigenerazione continua di cui parla Spinoza), il calore naturale del corpo comincia a diminuire. 65 «Se in un corpo o individuo composto di più corpi, alcuni vengono separati dagli altri e, simultaneamente, altrettanti corpi della stessa natura subentrano al loro posto, l’individuo conserverà, come prima, la sua natura, senza alcun cambiamento della sua forma» (sottolineatura nostra) [tr.it. 853].
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uniscono beneficiano per ciò stesso di un sovrappiù di forza per conservarsi). O Spinoza è ancora legato a una concezione della posizione di tipo immaginativo, ossia materiale (figura o superficie con determinate dimensioni) più che strutturale; oppure, e in definitiva è lo stesso, pensa a una quantità fissa di moto, che ci riporta alla sua dottrina precedente in una versione irrigidita. La crescita diventa allora impensabile: tutto avviene come se il corpo dovesse raggiungere la sua forma o almeno perfezionarne l’attuazione, come in un ragionamento di tipo scolastico. Per contro, il lemma 5 invita chiaramente a comprendere la nozione di posizione in termini strutturali. Si capisce, tuttavia, il motivo di quest’aporia, la stessa che porta la medicina a postulare una «giusta quantità naturale»: l’esperienza mostra che un corpo non cresce indefinitamente, ma perviene allo stadio di maturità. Si vede quanto l’infanzia (corpo in crescita) e l’età adulta (corpo pervenuto a maturità) siano difficili da pensare. Lo conferma anche la teoria del conatus: si suppone che alla forma corrisponda un certo quantum di potenza («essenza attuale»), così che la nuova somma delle potenze parziali, in conseguenza dell’aumento del numero delle parti, dovrebbe normalmente significare una trasformazione. Contro quest’aporia Spinoza introdurrà, a partire dalla III parte dell’Etica, appoggiandosi espressamente sul lemma 5, il concetto di accrescimento della potenza di agire, che corrisponde alla determinazione variabile dello stesso quantum.66 Questo implica tuttavia tutta una rivalutazione della nozione di alimento, dove si ritrova l’idea di oscillazione di una quantità di moto entro dei limiti (soglia inferiore della potenza di operare dell’orecchio, ad esempio, se questo non ascolta mai musica, soglia ottimale se la musica gli trasmette la quantità di moto che permette l’esercizio di tutte le sue capacità).67 La rigenerazione non si esprime più, quindi, in termini di scambio di parti materiali, ma di comunicazione di movimento. Come sottolinea Ètienne Balibar, in una concezione dell’estensione che distingue le parti materiali solo come modi del moto e della quiete (benché il dualismo compaia anche nell’idea stessa di comunicazione del moto tra le parti), i due linguaggi, quello corpuscolare e quello ondulatorio, sono fino a un certo punto equivalenti.68 Ancora una volta la dimostrazione della proposizione IV,
Etica, III, def. 3; post. 1 con relativa osservazione.60 Cfr. sopra, n. 52 L’esempio della musica si trova nello scolio IV, 45 dell’Etica; lo stesso ragionamento viene fatto a proposito di tutte le attività che contribuiscono a sviluppare una disposizione del corpo. Evidentemente, poiché il corpo deve essere esercitato in modo uguale in tutte le sue parti, anche consumo di musica, come quello di ogni attività sensibile, non deve essere eccessivo. 68 «L’idea di un “flusso d’ingresso e di uscita” che autorizza una rigenerazione continua dell’individuo è di origine epicurea e corrisponde a un linguaggio corpuscolare. Il fondo della questione è che Spinoza sviluppa un’idea della causalità che oltrepassa o integra i punti di vista corpuscolare e ondulatorio, ciascuno dei quali costituisce solo un’immagine parziale, e dunque inadeguata, della realtà. Naturalmente le “parti costitutive” possono essere immaginate sia come pezzi di materia, sia come movimenti parziali o componenti di movimenti anch’essi materiali, così come i movi66 67
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39 è rivelatrice, in quanto lega la conservazione del rapporto di quiete e moto tra le parti al mantenimento della disposizione del corpo a venir affetto in modi diversi. È un modo di privilegiare lo stato di moto rispetto a quello di quiete: un corpo conserva la coesione tra le sue parti mantenendole in movimento – e con ciò mantenendo sé stesso. Per questo la formula «rapporto di moto e quiete», usata all’inizio della dimostrazione, trattandosi di far intervenire l’affettività, scompare a vantaggio della sola comunicazione dei movimenti secondo un certo rapporto. Anche la nozione cartesiana di quiete reciproca sembra appena tollerata da Spinoza: non consente di pensare un’unione intrinseca delle parti. Probabilmente la tollera per rimanere in accordo con l’esperienza: l’orecchio non viene sempre stimolato, e tuttavia conserva la sua forma; quanto all’organismo intero, è probabile che non conosca lo stato di quiete completa (ma solo uno stato di moto lento). Avremmo il caso di un corpo assolutamente duro, mentre Spinoza esclude la durezza assoluta.69 In una prospettiva più fisiologica, ci si può anche chiedere se la quiete completa non sia lo stato di cadavere, a differenza dalla situazione illustrata col caso del poeta amnestico, nel quale le parti si comunicano i loro moti secondo una proporzione diversa. In effetti, anche se in questa situazione Spinoza usa l’espressione «rapporto di moto e quiete», non si vede come potrebbe differenziarsi il rapporto di quiete reciproca: la disposizione potrebbe certo variare, ma si ricadrebbe allora nelle carenze della definizione estrinseca, strettamente fisica.70 Combinando le due formulazioni del suo concetto di rapporto, Spinoza è in grado di pensare le variazioni della potenza di agire rispettando la condizione
menti possono essere “scambiati” o “ripartiti” al pari dei pezzi di materia. Su questa base, mi sembra, andrebbe posta di nuovo la questione del carattere “metaforico” o “concettuale” di tutta la spiegazione» (È. Balibar, Individualité et transindividualité chez Spinoza, n. 15, 45-46). 69 Come fa notare Gueroult, vol. 2, 166, facendo riferimento all’assioma 3, dove i corpi duri, molli e fluidi non si distinguono tra loro che per la maggiore o minore facilità o difficoltà con cui le loro parti si muovono le une rispetto alle altre. 70 Ad esempio, il marinaio di Cartesio, che forma un solo e identico individuo col suo orologio relativamente al loro spostamento solidale sul ponte della nave, potrebbe benissimo cambiare posto al suo orologio, ad esempio prendendolo dalla tasca per leggervi l’ora. Tutto questo, dal punto di vista di Spinoza, è solo cadavere: disposizione affatto esteriore della parti che non hanno alcun rapporto le une con le altre e che il minimo accidente può distruggere (un malore dell’ufficiale che, camminando, lasci cadere l’orologio). Cfr. Principi, II, art. 31. In definitiva, il giovane Cartesio sembra molto più vicino a Spinoza: «mentre scrivo, nel medesimo istante nel quale i singoli caratteri si delineano sulla carta, comprendo non soltanto che la parte inferiore della cannetta si muove, ma che in questa non può esserci nessun anche minimo movimento, senza che nello stesso tempo sia ricevuto in tutta la cannetta; e che tutte quelle varietà di moti sono disegnate nell’aria anche dalla parte superiore di essa, quantunque io non concepisca che qualcosa di reale trapassi dall’uno all’altro estremo. Chi invero reputerà che la connessione tra le parti del corpo umano sia minore di quella tra le parti della cannetta, e che cosa si può escogitare di più semplice ad esprimere ciò?» (Regulae, regola XII, trad. Alquié, vol. I, 138-139 [tr. it. vol. 1, 57]).
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di un quantum invariabile di potenza (tranne nel caso del bambino, donde il problema della trasformazione..). Questa condizione gli consente di giocare, nonostante tutto, su un certo scarto tra il linguaggio delle parti (la cui quantità non può variare senza un mutamento del quantum corrispondente di potenza) e il linguaggio dei movimenti (la stessa parte, definita con un rapporto e non con una quantità, può essere più in quiete o più in movimento: variazioni della potenza di agire). In verità potremmo chiederci se Spinoza non mantenga un’equivocità analoga a quella che abbiamo trovato in Cartesio a proposito della nozione di figura: tra i moti che costituiscono un corpo e quelli che esso compie. Ma passare dalla quantità al rapporto ha appunto la funzione di evitare una tale equivocità – per questo la concezione dell’alimentazione che si afferma nelle parti III e IV dell’Etica si allontana da quella formulata dal lemma 4 della II parte, con la reinterpretazione delle questioni di quantità in base a considerazioni di equilibrio. L’arcaismo, potremmo dire, del lemma 4 si riconosce dal fatto che non vi si fa riferimento al concetto di rapporto.71 Veniamo ora ai lemmi 6 e 7 che fissano il margine di divergenza reciproca delle parti. Sono i più difficili, e non è privo di un certo umorismo il fatto che ogni volta Spinoza creda di poter fare a meno di dare spiegazioni e persino dimostrazioni, dicendo semplicemente: «Per se patet…», «Patet…».72 Il lemma 6 enuncia la possibilità di variazioni dinamiche delle parti le une rispetto alle altre, a condizione che continuino a comunicarsi gli stessi moti secondo lo stesso rapporto di prima. Benché non abbia un seguito in quanto viene poi nel testo, il suo significato si chiarisce in funzione del postulato 5 sul corpo umano: prepara la spiegazione fisiologica della memoria.73 In effetti, dal momento che si tratta del cervello, le tracce mnestiche si spiegano, non direttamente come l’effetto di un corpo esterno che agisce sul nostro, ma indirettamente, in quanto un corpo esterno determina una parte fluida del corpo (gli spiriti animali che
Come fa notare Gueroult, vol 2, 169. Richiamiamo schematicamente le diverse letture di questi due lemmi: movimento delle membra e spostamento locale, per Martial Gueroult (vol. 2, 184); variazioni interne e variazioni esterne per Alexandre Matheron, (Individu et communauté chez Spinoza, 44); flessibilità e motilità, per Pierre Macherey (vol. 2, 151); movimento specifico per organo e sinergia locomotorie e di posizione, per François Duchesneau (Modèle cartésien et modèle spinoziste de l’être vivant: Cahiers Spinoza 2, 278). In una prospettiva un po’ diversa, Gilles Deleuze (Spinoza et le problème de l’expression, 190) ed È. Balibar (Individualité et transindividualité chez Spinoza, n. 15, 45) vi vedono soprattutto la ripartizione variabile di moto e quiete tra le parti, la compensazione del mutato movimento di una parte col cambiamento di movimento equivalente di un’altra. 73 Ricordiamo che un postulato non si basa su una dimostrazione; non c’è quindi da stupirsi dell’assenza di un rimando al lemma 5. Stupisce piuttosto che Spinoza, all’inizio della parte III, senta il bisogno di appoggiare il suo primo postulato su enunciati precedenti, in particolare sui lemmi 5 e 7 della parte II. 71 72
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circolano nei nervi) a venire ad urtare spesso una parte molle (il cervello o una delle sue parti), il che significa, da un lato, che questo movimento non era necessario in base alla legge di composizione interna del corpo, ma anche, d’altra parte, che altri moti – o «affezioni» - trasmessi dall’esterno, avrebbero determinato incontri interni differenti. Il lemma ha quindi questo senso: poiché il corpo è una parte della Natura e non un impero in un impero, le sue parti ricevono movimento non solo le une dalle altre, ma anche dal mondo esterno (lasciamo da parte per ora la questione se l’origine del movimento sia puramente esterna); il moto ricevuto al livello di una parte si propaga attraverso il corpo da una parte all’altra, secondo una proporzione che deve rimanere la stessa; esistono movimenti che diremo violenti, perché disturbano o addirittura annullano questa proporzione, scompaginando il corpo. Si dovrà quindi riesaminare che cosa significhi in queste condizioni il termine proporzione o rapporto. Cominciamo col vedere il lemma 7. La sua formulazione è oscura, a causa soprattutto dell’espressione sive versus hanc, sive versus illam partem moveatur: «Un individuo così composto conserva inoltre la propria natura, sia che si muova nella sua totalità sia che resti in quiete sia che si muova verso questa o quella parte, purché ciascuna parte conservi il proprio movimento e lo comunichi alle altre come prima» (Etica, II, lemma 7 dopo 13 [tr. Guerinot, che qui differisce da quella italiana]).
Che significa che il corpo si muove verso questa o quella parte di sé? Per questo i commentatori sono unanimi nell’interpretare partem come un corpo esterno qualsiasi, cha fa concludere all’idea di un moto locale del corpo nel suo insieme. A noi la cosa non sembra chiara. Prima di tutto, l’idea di un movimento interno verso una parte o l’altra figura nel lemma precedente e non ha quindi in sé nulla di assurdo. Inoltre, l’uso che viene fatto del lemma 7 nello scolio che segue non rimanda ad alcun moto locale d’insieme ma, al contrario, a movimenti differenziati delle parti le une rispetto alle altre. Ciò rivela come i commentatori abbiano un solo torto, quello di essere incompleti. Se anche, infatti, il lemma riguarda relazioni esteriori tra corpi distinti – quindi dei moti locali – i corpi che qui vengono considerati esterni gli uni agli altri altro non sono che le parti del corpo umano, così che i termini individuum e pars vanno intesi come parti del corpo umano; senza dirlo, qui Spinoza anticipa il contenuto dello scolio, cioè che le parti costituenti il corpo umano sono esse stesse degl’individui. Tuttavia, l’oscurità del testo proviene in parte dalla tendenza del lettore a cercare una comprensione immediata di questi lemmi sul piano della fisiologia umana, mentre Spinoza sta ancora parlando di individui qualsiasi che, nella sua logica ignara dell’embriogenesi, possono anche essere quelli di cui è composto il corpo umano. Letto però alla luce dello scolio che lo segue, il lemma 7 rivela di star parlando, come il lemma precedente, del movimento reciproco delle parti del corpo, senza che in questo vi sia ridondanza, poiché affronta il tema dal punto di vista della conservazione di queste stesse parti e non più di quello della conserva85 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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zione del corpo nel suo insieme; è anche il solo di questi quattro lemmi che non termini col ritornello «l’individuo conserverà parimenti la sua natura, senza alcun mutamento di forma». Il suo senso è quindi di mostrare che la conservazione della forma del corpo è compatibile col fatto che le parti che lo costituiscono conservano la loro, continuando così ad essere diverse per natura, dal momento che questa differenza è la chiave della ricchezza affettiva del corpo: «Se adesso ne concepiamo un altro, composto da più individui di natura diversa, troveremo che esso può essere affetto in parecchi altri modi, conservando nondimeno la propria natura. Infatti, poiché ciascuna sua parte è composta da più corpi, ciascuna parte (per il lemma precedente) potrà dunque, senza alcun mutamento della sua natura, muoversi ora più lentamente ora più velocemente e, di conseguenza, comunicare i suoi movimenti alle altre parti ora più velocemente ora più lentamente» (Etica, II, 13, scolio che fa seguito ai lemmi [tr. it. 855]).
L’importante, in questi due lemmi, non è quindi che una parte comunichi sempre lo stesso movimento a un’altra parte, ma che la comunicazione globale del movimento abbia luogo sempre secondo lo stesso rapporto. Sta qui la differenza, ad esempio, tra un organismo e un orologio; indubbiamente le rotelle di quest’ultimo si comunicano sempre i loro movimenti secondo lo stesso rapporto, ma senza la minima variazione delle une rispetto alle altre. È giunto il momento di porre il problema dell’interpretazione di questa legge della comunicazione: dobbiamo intenderla nel senso di una ripartizione variabile della stessa quantità o, che è la stessa cosa, di una compensazione necessaria di una variazione con un’altra? A prima vista non vi si vede nessun altro senso, soprattutto al livello di quell’individuo che è l’universo nella sua totalità. Ma allora, dov’è la differenza fondamentale rispetto alla concezione cartesiana, che in queste condizioni sembra perfettamente traducibile? La verità del modello dell’ingranaggio, come del resto dei modelli del disco rotante, del pendolo composto e della leva, che ispirano l’interpretazione di Gueroult, non sta tanto nel legare le parti le une alle altre mediante una comunicazione di movimenti che non può variare, quanto di mostrare la proporzionalità dei movimenti quando si compongono. Pertanto, il movimento che una rotella dentata trasmette a una più grande può certo variare d’intensità in base alla velocità di rotazione che le si imprime, ma il rapporto tra la sua velocità di rotazione e quella della rotella maggiore, cui essa trasmette un movimento variabile, rimarrà sempre costante. Lo stesso vale nel caso della leva, come già mostravano le Regulae; nel caso più complesso del pendolo composto, i movimenti delle parti (o dei pendoli semplici) possono variare, ma rimangono sempre proporzionati gli uni agli altri per effetto dell’asta che li collega. Questa struttura è anche trasferibile all’universo intero, purché ci si innalzi, come fa Gueroult, alla concezione grandiosa di «un gigantesco pendolo composto, il cui ritmo eterno è assolutamente non sregolabile, per il fatto di non poter subire nessuna azione perturbatrice proveniente dal di fuori», a differenza dai pendoli composti che lo compongono, i quali continuano a interagire e, di 86 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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conseguenza, a comunicare alle loro parti dei movimenti che non si spiegano con le loro rispettive leggi.74 Questo modello ha soltanto il difetto di essere irenico: come avevamo già messo in evidenza, nella scala di complessità crescente degl’individui c’è una cesura, poiché l’universo intero, per non essere una chimera le cui parti si divorerebbero tra loro, un po’ alla maniera in cui Bayle immagina il Dio di Spinoza, deve rientrare nella logica di una convergenza minima, che non è quella degl’individui che si compongono e scompongono al suo interno. Si tratti di ingranaggi, di leve o di pendoli, quel che conta non è ottenere un modello dell’universo, ossia in fondo una metafora, ma di enucleare il concetto di una proporzionalità di movimento tra le parti. La trasposizione fisiologica non presenta difficoltà, se non altro perché i movimenti degli animali dotati di arti obbediscono alla logica della leva. Si vede bene, quindi, che senso abbia la condizione della conservazione di una proporzione: non che il tal moto sia compensato dal tal’altro o che il tal movimento in un punto sia compensato dalla tale quiete in un altro, che resterebbe una cosa molto astratta, ma che l’intensità del movimento di una parte non oltrepassi mai la soglia oltre la quale non potrebbe più trascinare con sé il resto del corpo secondo la proporzione richiesta; come avviene, ad esempio, se il corpo viene spinto in avanti in maniera così forte e improvvisa che il capo non è in grado di seguire, o se il capo si mette a girare in modo tale che gli occhi non sono in grado di compiere il movimento compensatorio che permetterebbe loro di continuare a vedere o fissare un certo oggetto.75 Sono queste le condizioni generali in cui ci pare debbano essere interpretati i lemmi sull’individualità (in particolare quelli sulla crescita).
Gueroult, vol. 2, 175. La stessa idea a p. 177: «Ovunque nella materia la vita non è che l’accordo di ritmi diversi, adattati e legati in un solo ritmo». Come però sottolinea Gilles Deleuze, nella Natura «si sposano o s’impongono dei ritmi» (Spinoza. Philosophie pratique, 166). Non si tratta di pensare un disordine o un disaccordo universale, ma un ordine totale compatibile con trasformazioni parziali, ossia «il volto di tutto l’universo (facies totius universi) che, pur variando in infiniti modi, rimane tuttavia sempre lo stesso» (lettera 64 a Schuller [tr. it. 1494]). È anche la conferma della frattura tra i due tipi di nozioni comuni, o tra gl’individui che compongono la Natura e la Natura stessa in quanto «unità per composizione», secondo l’espressione di Deleuze (ivi, 155-156): mentre il lemma 7 spiega come le parti di un individuo particolare conservino le loro nature rispettive, anche se il movimento delle une verso le altre è variabile, alla condizione tuttavia di una proporzione costante, l’individuo universale, invece, vede le sue parti trasformarsi di continuo le une nelle altre, come afferma la prefazione della III parte dell’Etica che commenteremo più avanti. Non avendo insistito su questa singolarità dell’individuo totale e non avendo quindi posto con sufficiente forza il problema dell’articolazione immediata della permanenza e del cambiamento, Gueroult si condanna a una descrizione statica che, per sua propria ammissione, deve molto a Leibniz, e che lo porta a vedere nella gerarchia delle forme spinoziane una «trasposizione dell’aristotelismo», «un aristotelismo senza Aristotele» (vol. 2, 176). 75 Se ci è consentito un anacronismo, questo varrebbe anche per l’evoluzione delle specie. Quando si dice, ad esempio, che il processo di ominizzazione passa attraverso un raddrizzamento del corpo, senza il quale il capo e il suo cervello non avrebbero potuto continuare a crescere, si 74
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4. Lo statuto della malattia nell’Etica
Ricapitoliamo. La dualità semantica del concetto di «rapporto di moto e quiete» del Breve trattato, - senso fisico (quantità di moto-quiete) e senso fisico-biologico (ampiezza della variazione tra moto e quiete in questa quantità) – viene superata nell’Etica a favore di un rapporto invariabile tra le parti, secondo il quale queste si comunicano i loro moti variabili. Questa posizione presenta innegabili vantaggi, ma rappresenta anche un irrigidimento sul principio di non contraddizione, che sembra non lasciare più spazio alle diverse condizioni di malattia, schiacciate sotto l’alternativa brutale di salute o morte. D’altro canto, tuttavia, Spinoza sembra rimaneggiare la sua teoria della sensazione, sostituendo alla coppia freddo-caldo quella di malinconia-ilarità, in funzione del nuovo concetto di aumento e diminuzione della potenza di azione del corpo, rientrante ora in una logica non della contraddizione ma della gradazione: la morte è il minimo, la salute il massimo. Inoltre, la promozione di questo nuovo concetto – che al tempo stesso è la definizione dell’affetto – ha trovato conferma nel corso dell’analisi dei quattro lemmi. Dobbiamo vedere ora più da presso come le variazioni della potenza di agire si combinino con la costanza del rapporto. L’idea mediatrice è quella di equilibrio o, più esattamente, di uguaglianza, una reinterpretazione assai speciale di un luogo comune della medicina ippocratica e galenica. Si direbbe che Spinoza lavora con due strumenti concettuali: l’identità tendenziale di essere ed essere affetto e la differenza di tutto e parte. In tal modo, il corpo è sano 1° se viene costantemente rialimentato (curiosamente, il quarto senso di moto e quiete del Breve trattato, quello di un ciclo o di periodi alterni, sembra abbandonato – un altro lato dell’irrigidimento), a condizione tuttavia di concepire l’alimento in maniera originale, meno come una protesi naturale che, previa accomodatio, entri a far parte del corpo, che come un combustibile che permetta a questo corpo di esercitare le sue capacità o di essere in atto, come se la morte significasse la progressiva cessazione dell’attività (la struttura si dissolve disattivandosi);76 2° se le sue parti sono
vuol dire con ciò che questo cambiamento è la condizione necessaria perché la testa possa continuare a comunicare i suoi movimenti al resto del corpo in modo proporzionato. Ma evidentemente la proporzione è indotta a cambiare – e in tal caso abbiamo a che fare con una di quelle magnae mutationes (Etica, IV, appendice, cap. 7) mediante le quali i corpi possono continuare ad adattarsi gli uni agli altri - quando uno o più di essi sono cresciuti non solo per dimensioni ma anche per complessità, ossia hanno cambiato forma essi stessi. Si ha dunque a che fare con una trasformazione di trasformazione – forse la chiave sia dell’ontogenesi che della filogenesi (anche se stiamo andando oltre quanto i testi ci dicono). 76 È questa, sembra, la ragione per la quale Gilles Deleuze sottolinea con tanta insistenza che la disposizione a venir affetto viene «attuata sempre». Al tempo stesso è l’indice di quest’identità e del problema di rigidità che l’accompagna, che è veramente risolto solo sul piano dello spirito, grazie alla distinzione tra azione e passione (il nostro attuale potere di venire affetti non impedisce
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alimentate e ricevono affezioni in modo eguale, poiché l’eccessiva ricerca dell’utilità di una parte avviene a detrimento dell’utilità del tutto (la salute si chiamerà allora hilaritas, in opposizione alla «sollecitazione», titillatio, intesa nel senso di eccitazione che dà godimento). Quest’ultima espressione – ricerca eccessiva, ecc. - è solo una parafrasi delle circonlocuzioni cui ricorre di solito Spinoza per parlare del sesso (almeno quando non preferisce, al contrario, il particolare crudo): «L’ilarità (hilaritas)… è la gioia che, in quanto si riferisce al corpo, consiste in questo, che tutte le parti del corpo sono affette in modo uguale (pariter), cioè… che la potenza di agire del corpo è aumentata o favorita in modo che tutte le sue parti raggiungano l’una rispetto all’altra la stessa proporzione di moto e quiete; perciò (per la proposizione 39) l’ilarità è sempre buona e non può avere eccesso» (Etica, IV, 42, dim. [tr. it. 1011]). «L’ilarità, che ho detto essere buona, è più facilmente concepita che osservata. Invero, gli affetti dai quali siamo combattuti ogni giorno si riferiscono di solito a una certa parte del corpo affetta più delle altre, e perciò essi hanno generalmente un eccesso, trattenendo la mente nella considerazione di un solo oggetto a tal punto che essa non riesce a pensare ad altro. E sebbene gli uomini siano soggetti a più affetti, e siano rari quelli che sono combattuti sempre da un solo e medesimo affetto, non mancano tuttavia coloro ai quali un solo e medesimo affetto aderisca con pertinacia. Vediamo, infatti, che gli uomini sono talvolta affetti da un solo oggetto al punto che, sebbene questo non sia presente, credono tuttavia di averlo davanti: quando ciò accade a un uomo che non dorme, diciamo che delira o che è folle; né sono considerati meno pazzi quelli che ardono d’amore e che sognano notte e giorno soltanto la loro amante o la loro meretrice, suscitando di solito riso. Però, quando l’avaro non pensa ad altro che al guadagno o al denaro e l’ambizioso alla gloria ecc., non sono considerati pazzi, perché sono solitamente molesti e stimati degni di odio. In realtà l’avarizia, l’ambizione, la libidine ecc. sono specie di delirio, sebbene non vengano annoverate tra le malattie» (Etica, IV, 44, sc. [tr. it. 1013]).77
Il primo di questi due testi è importante in quanto combina i concetti di potenza di agire e di rapporto costante di moto e quiete tra le parti. Il secondo, in quanto definisce che cosa debba intendersi per malattia, sottolineando la necessità di aumentare l’estensione di questo concetto. L’insieme documenta la reinterpretazione spinoziana della nozione di alimentazione: vi si scontrano senza che siamo separati da ciò che possiamo).Questo porta Deleuze a distinguere un’ispirazione fisica da una etica (Spinoza et le problème de l’expression, 197-205; Spinoza. Philosophie pratique, 136). 77 La fine dello scolio è un po’sconcertane, in quanto evoca due figure, quella dell’avaro e dell’ambizioso, le cui ossessioni sono meno chiaramente collegate con una parte del corpo. Ciononostante, considerato nella sua integralità, questo scolio è altrettanto esemplare di quello della proposizione IV, 39 (sulla morte come trasformazione). Sarebbe fruttuoso un suo studio stilistico, che mostrerebbe come Spinoza rinvii, per mezzo di periodi con proposizioni lunghe e un po’ ridondanti, il riferimento all’ossessione sessuale, per poi perdersi, passando dall’ossessione all’allucinazione e, di qui, a figure che rappresentano uno slittamento rispetto al suo argomento iniziale. La logica che governa lo scolio si avvicina a quella della conversazione o del pensiero per tentativi: una coerenza percepita confusamente che si esplora mediante spostamenti successivi.
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la minima precauzione il piano fisiologico e quello etico – oppure corporeo e mentale, come se ogni malattia fosse psicosomatica, non nel senso dell’iscrizione corporea di eventi psichici, della determinazione delle condizioni del corpo ad opera di quelle dello spirito, ma nel senso per cui ogni malattia sarebbe al tempo stesso psichica e somatica. Spinoza, infatti, non distingue tra malinconia e indebolimento generale del corpo. Si direbbe che per lui esistono due malattie, quella parziale e quella generale, ossessione (squilibrio nel conto dei piaceri a favore di una parte) e malinconia (tristezza che si rapporta ugualmente a tutte le parti). La seconda è un deficit generale di alimentazione, cui conviene por rimedio con quella che Spinoza descrive come un’alimentazione equilibrata, in un testo in cui la salute è al tempo stesso saggezza e dove la «ri-creazione», sinonimo di rigenerazione, è molto vicina a una ricreazione: «È proprio dell’uomo sapiente, dico, ristorarsi (reficere) e ricrearsi (recreare) con cibi e bevande moderate e piacevoli, con profumi, con la delizia di piante verdeggianti, con gli ornamenti, con la musica, con gli esercizi ginnici, con gli spettacoli teatrali e con altre cose simili, delle quali ciascuno può fruire senza nessun danno altrui. Il corpo umano è infatti composto da moltissime parti di diversa natura che hanno continuo bisogno di nuovo e diverso alimento, affinché il corpo sia ugualmente pronto a ciò che può seguire dalla sua natura e, quindi, anche la mente sia altrettanto atta a intendere più cose insieme» (Etica, IV, 45, sc. [tr. it. 1015]).
Il requisito della parità alimentare-affettiva si spiega con l’esigenza di conservare il rapporto fisiologico delle parti tra loro: la conservazione di questo rapporto fa tutt’uno, quindi, col mantenimento delle capacità del corpo. Stando a questa logica, tuttavia, la non alimentazione di un organo, in particolare dell’organo sessuale, che ci si può stupire venga dimenticato in un programma di alimentazione la cui regola pressante è l’uniformità e l’esaustività, dovrebbe tradursi nella sua atrofia. Forse è questa, alla lettera, l’idea di Spinoza: indubbiamente i nostri organi sono sempre alimentati, la loro disposizione ad essere affetti è sempre assecondata – ora però in modo grossolano, ora in modo raffinato (solo in quest’ultimo caso si mantengono in atto in tutta la loro complessità). Si tende qui a passare da una variazione quantitativa a una qualitativa. L’orecchio, senza musica, sente indubbiamente i rumori della strada e delle conversazioni, ma si tratta di un uso insufficiente che ne mette a rischio la complessità. Lo stesso dicasi per l’odorato: gli odori abituali non bastano, occorre anche esercitare il naso mediante profumi. Ogni organo di senso ha quindi il proprio bisogno, che si deduce dalla complessità della sua struttura. La stessa cosa vale per gli organi motori. Questo sembra voler dire che la conservazione della forma del corpo dipende dalla conservazione della forma delle sue parti – una singolarità che pare si debba anch’essa spiegare con quella dell’organismo nella serie degl’individui, ossia col suo «essere composto di un gran numero di parti di natura differente», che cioè si compongono in quanto differenti. Sarebbe così possibile che un individuo regredisse parzialmente a una minore complessità relativamente a una sua parte, per un processo di 90 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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atrofizzazione dovuto a insufficiente esercizio. Proprio questo punto di vista delle parti fornisce forse lo spazio logico necessario per pensare la malattia, o almeno la salute imperfetta. Da un altro punto di vista, però, la complessità stessa del corpo è minacciata dalla titillatio egemonica di una delle sue parti: «La potenza di un tale affetto può essere tanto grande da superare le altre azioni del corpo… e da aderire così pertinacemente a esso da impedirgli di poter essere affetto in molti altri modi».78 Questi due punti di vista sono complementari: ora è il difetto di alimentazione di una parte a indurre un’atrofia parziale del corpo, ora al contrario l’eccesso, e tutto il corpo è minacciato di atrofia. Per questo, in fin dei conti, conviene astenersi dall’esercitare una parte se si scopre che la sua alimentazione è subito eccessiva. D’altro canto, si ha uno sdoppiamento dell’alimentazione: o Spinoza ritiene che mangiare e bere interessano solo il ventre, il che è improbabile, oppure distingue implicitamente tra una rigenerazione materiale e una affettiva, di cui tutto il suo pensiero tende ad affermare l’identità. Questa distinzione appare ancor più nettamente se si nota che il punto di vista dell’affetto si riferisce al rapporto di moto e quiete,79 il che non avviene per l’aspetto materiale.80 Si vede chiaramente, infatti, che la conservazione dell’individuo, una volta che questo sia stato ridefinito in base a una regola di proporzionalità dinamica tra le sue parti, non può più dipendere solo da un equilibrio quantitativo, anche se in fin dei conti ogni malattia è di tipo anoressico (il malato si nutre solo per paura, superando il disgusto):81 inoltre, il rapporto come tale richiede di essere conservato, ma non può esserlo se non attraverso la continuazione della comunicazione dei movimenti, la quale, nelle condizioni dell’esteriorità fisica, richiede sempre un apporto dell’ambiente. Certamente l’alimentazione nel senso ordinario – bere, mangiare – è passibile di due interpretazioni: assimilazione di parti nuove che sostituiscono quelle perdute per escrezione e sfregamento; impulso dato a un certo tipo abituale di concatenamento dinamico attraverso il corpo. L’alimentazione in senso affettivo è dunque ciò che permette al corpo di evitare per quanto possibile lo stato cadaverico di quiete assoluta di cui parlavamo sopra. Interviene qui la considerazione della parità. L’alimento ideale sarebbe quello che mobilitasse tutte le parti del corpo; il cibo è indubbiamente quello che più gli si avvicina. In assenza di un alimento simile, occorre diversificare la nostra alimentazione, come Spinoza ci invita a fare. Di qui la problematica dell’equilibrio che, come mostra il complesso che va dalla proposizione IV, 42 allo scolio della proposizione 45 citato sopra, è il punto più oscuro, quello su cui Spinoza è quanto
Etica, IV, 43, dim. [tr. it. 1012]. Cfr. sopra la dimostrazione della prop. IV, 42. 80 Cfr. il lemma 4 precedentemente commentato. 81 Etica, IV, scolio del corollario. 78 79
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mai saltellante, sfuggente. Il lettore è obbligato a pensare a ipotesi apparentemente stupide o grottesche: bisogna intendere che la sovralimentazione affettiva degli organi sessuali significa uno squilibrio fisiologico comportante il cambiamento del rapporto individuante? Sì, certamente, e l’ossesso, alla lettera, non è più lui stesso, come dice del resto il linguaggio corrente. Ma si può prendere sul serio un’idea simile? Non si oppone formalmente al contenuto di altri testi? Non è meglio almeno sfumarla, complicarla? Per finire, osserviamo soltanto il ruolo che in questo edificio teorico fragile ha il disgusto. Il disgusto è un dolore, senza dubbio, ma un dolore specifico, che sopraggiunge invece e al posto di un piacere. È il capovolgersi del piacere in dolore. Spinoza parla a due riprese di questo collegamento diretto tra i contrari in due testi molto vicini tra loro. All’austerità dei principi di vita calvinisti, che si spiegano solo con l’invidia, egli contrappone la regola di «godere (delectari) per quanto possibile»; ma subito aggiunge: «non certo fino alla nausea (nauseam), perché questo non è prender diletto».82 Qualche riga sopra aveva affermato che «il piacere può avere eccesso ed essere cattivo; il dolore, invece, può essere buono nella misura in cui il piacere, o gioia, sia cattivo».83 Come è concepibile, in una psicologia complessa come quella di Spinoza, che un certo piacere possa contenere della tristezza, così l’idea che il dolore possa dirsi in qualsiasi misura buono a prima vista sembra smentire tutto lo spinozismo. La dimostrazione, tuttavia, giustifica il paradosso: «Inoltre il dolore, che è invece una tristezza, in sé solo considerato non può essere buono (secondo la proposizione 41). Ma poiché la sua forza e il suo incremento sono definiti dalla potenza della causa esterna comparata con la nostra (secondo la proposizione 5), possiamo concepire infiniti gradi e modi di questo affetto (secondo la proposizione 3). Possiamo perciò concepirlo come tale che possa inibire il piacere in modo che non abbia eccesso e, in tanto (per la prima parte di questa proposizione) far sì che il corpo non sia reso meno atto ad agire. Sotto tale riguardo il dolore sarà dunque buono» (Etica, IV, 43, dim. [tr. it. 1012]).
Questo dolore speciale che impedisce l’eccesso di piacere, non è forse il disgusto stesso? Si obietterà che il disgusto si spiega a sua volta con l’eccesso; in tal caso rimangono solo spiegazioni che rimandano alla flagellazione o alla mortificazione, che sembrano assai estranee al pensiero di Spinoza. La nostra ipotesi è che il disgusto è certamente l’affetto legato all’eccesso, ma che per ciò stesso lo interrompe. Si direbbe si tratti di un segnale che ci avvertirebbe della minaccia che grava sulla proporzione che regola i movimenti del nostro corpo, e di conseguenza sulla nostra identità; ma questo linguaggio finalista non può essere adatto. Le ultime parole della III parte dell’Etica, proprio prima della definizione degli affetti, spiegano come a proposito dello stesso
82 83
Etica, IV, 45, sc. [tr. it. 1015]. Etica, IV, 43 [tr. it. 1012].
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oggetto la nostra valutazione possa e debba cambiare, perché sia necessario che il piacere si trasformi in nausea. Ogni valutazione positiva di un oggetto, infatti, misura il suo possibile contributo alla nostra salute. Un corpo esterno è buono per noi in quanto ne abbiamo bisogno (criterio dell’utile). Per questo lo sforzo o il desiderio sono sempre la misura di una carenza, e pure per questo la rigenerazione è altrettanto continua del nostro sforzo (donde l’apparente somiglianza, segnalata sopra, col tema della creazione continua). Se la nostra potenza è desiderio, è perché siamo parte della Natura, chiamati a rigenerarci di continuo, tanto che il desiderio non cessa mai di morire e di rinascere come la Fenice: muore in quanto formiamo un tutto, rinasce in quanto questo tutto è solo una parte della Natura. La distanza tra gusto e disgusto (fastidium), detto anche noia (taedium), è l’intervallo di tempo necessario al corpo per venire in aiuto di una proporzione individuante che è stata alterata. Noi non cambiamo veramente le nostre valutazioni; sarebbe così se ci trasformassimo; in realtà noi ci limitiamo a formarci di nuovo, forse a riformarci, ossia a riportare il corpo alla sua proporzione costante: alimentarsi è un po’ come era, secondo Machiavelli, il dittatore romano, il quale riportava periodicamente lo stato al suo principium, come dire alla sua forma.84 Ma allora, perché nel caso del malato nel quale s’insedia il disgusto, le valutazioni cambiano davvero? Proprio perché allora, almeno temporaneamente, il suo corpo obbedisce a una diversa proporzione di quiete e moto tra le sue parti. Possiamo quindi concludere: l’irrigidimento dell’Etica sulla questione del rapporto non rende impossibile una teoria della malattia, ma ne offre una nuova, grandiosa e drammatica. A partire dalla III parte, tutta l’Etica è una teoria del conflitto e dell’intimo dissidio dello spirito. Non stupisce che questa teoria, che si appella allo sviluppo di una vera medicina,85 proponga a sua volta un concetto di malattia esprimibile in termini di conflitto. Questo concetto, tuttavia, non lo enuncia, ma si limita a lasciarne trasparire negl’interstizi le prime luci. La malattia non è altro che la condizione di un malato che porta in sé la morte, ossia anche che porta in sé un altro essere vivente, in grado o meno di vivere, contrario a lui. La malattia è anoressia e questa, a sua volta, rientra nella stessa spiegazione della condizione del suicida,86 per il fatto che il mio corpo, avendo cambiato proporzione, non ha più la stessa norma di conservazione, così che non posso più aver piacere per ciò che mi conservava – e che ciononostante continuerebbe a conservarmi. Si vede bene, infatti, che contemporaneamente la norma della conservazione è rimasta la stessa e che il malato, col non alimentarsi, rischia semplicemente di dissolversi. Questo non è però sempre vero: la «guarigione» del poeta spagnolo non è una riforma ma una trasformazione, e la decomposizione cadaverica, la requies aeterna di un corpo le cui parti non si
Trattato politico, X, 1. Etica, V, prefazione. 86 Etica, IV, 20 sc. 84 85
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comunicano più movimento, è solo il caso particolare di un processo generale di trasformazione. Tutto dipende dal fatto che le parti siano in condizione di continuare a comunicarsi i loro moti secondo un rapporto costante, magari anche diverso. In altri termini, tutto dipende dalla natura della malattia. D’altra parte, «le cose in tanto sono di natura contraria, cioè in tanto non possono essere nello stesso soggetto, in quanto l’una può distruggere l’altra»;87 e «se nello stesso soggetto si destano due azioni contrarie, dovrà necessariamente prodursi un mutamento (mutatio) o in entrambe o in una sola, fino a cessare di essere contrarie».88 La malattia nel senso drammatico del termine è crisi e decisione: tra la vita e la morte, come diciamo comunemente, e per questo non può durare. Non più di un istante? O non più di un’infanzia? O di una vita? Rileggiamo lo scolio V, 39 : «… qui si deve osservare che noi viviamo in continuo mutamento e che ci diciamo felici o infelici a seconda che cambiamo in meglio o in peggio. Chi passa infatti dalla condizione di neonato o di bambino a quella di cadavere si dice infelice; al contrario, si attribuisce a felicità aver potuto percorrere tutto lo spazio della vita con la mente sana in un corpo sano» [tr. it. 1081-1082]. Le variazioni della potenza di agire sono delimitate ai loro confini estremi dalla morte e dalla salute; ogni vita è quest’oscillazione mai risolta tra la vita e la morte, che caratterizza pure la tensione del desiderio o dello sforzo di permanere nel proprio essere e che, all’occorrenza, può accentuarsi prendendo la forma di contraddizione invivibile e tuttavia vissuta. L’intera esistenza in un istante logico, un istante concreto uguale a una vita, ripetizione di un «ciò non può durare»… È dunque tempo che rivolgiamo la nostra attenzione al conatus.
Etica, III, 5 [tr. it. 905]. Come osserva P. Macherey (Hegel ou Spinoza, p.209), basta togliere quest’impossibilità per avere il concetto hegeliano del soggetto. Il rapporto hegeliano con la malattia ne deriva di conseguenza. 88 Etica, V, ass. 1 [tr. it. 1055]. 87
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Capitolo III Estensione e conatus (potenza e causalità) Il corpo è una parte della Natura in due sensi. Abbiamo visto il primo, quello di essere un individuo, definito da un certo rapporto secondo il quale le sue parti si comunicano i loro movimenti. Spinoza dice però anche che «la potenza dell’uomo, in quanto si esplica per mezzo della sua essenza attuale, è una parte della potenza infinita, cioè dell’essenza di Dio o natura».1 Questo vale anche per ogni «cosa singola». Siamo così passati al registro della cosa, che rinvia come sua definizione a un’essenza. Questo secondo enunciato non risale dalla parte al tutto (dall’individuo meno complesso all’individuo universale formato dalla Natura), ma discende - non certo dal tutto, poiché parte da ancor più in alto, bensì dall’unico indivisibile (la Natura naturante) alle parti che ha tuttavia senso attribuirgli (la Natura naturata). Tutto questo costituisce il processo di riconcettualizzazione col quale la nozione di modo passa da Cartesio a Spinoza. Grazie al concetto di forma, l’individuo ha acquistato una realtà sicura pur rimanendo un modo, ossia una realtà che non si può concepire né in sé né per sé. Questi temi sono ben noti e non è il caso di riesporli: Cartesio riconosceva certo la dipendenza reciproca delle parti di materia, l’esteriorità secondo cui un corpo è sempre determinato, e d’altra parte la continuità logica dello spazio, così che l’individuo era potenzialmente un modo di una sostanza equivalente alla materia intera (ridotta all’estensione); ma d’altra parte, date le discontinuità relative e temporanee introdotte nell’estensione-materia dal movimento, oltre che per ragioni di altra natura (la teologia della creazione), Cartesio sovrapponeva al discorso del modo quello della sostanza, intesa nel senso subordinato di ciò che può essere concepito in sé e per sé (soggetto), senza poter sussistere per sé; e la sua incapacità di fondare realmente l’individualità materiale tendeva a ridurre la considerazione della sostanza a un atto semplice dell’intelletto, indipendente dalla realtà del divenire fisico.2 La cosa, per Cartesio, non poteva essere che una sostanza e, in definitiva, solo l’estensione totale godeva di tale statuto. Al contrario Spinoza crea il mostro filosofico dell’essenza del modo: fa del modo una cosa singola e, reciprocamente, della cosa singola un modo. Ora, ciò che rende possibile l’idea di essenza del modo non è soltanto il concetto di forma individuale, anche se questo fornisce già una legge che afferma per ciò stesso l’intelligibilità di ogni modo dell’estensione. È semmai l’idea di
Etica, IV, 4, dim. [tr. it. 978]. Rimandiamo qui all’esposizione di Gueroult, vol. 1, appendice X, 529-556, in particolare 540-544. 1 2
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causa seu ratio, per la verità doppia: da un lato, la sostanza produce i suoi modi, invece di subirli come il soggetto degli scolastici, producendoli quindi come suoi effetti; dall’altro, la sostanza produce i suoi effetti nella maniera in cui si comprende, quindi come altrettante proprietà, col che l’idea di modo può essere conservata completamente.
1. La potenza dell’essenza
Per questo occorreva che la sostanza fosse dotata di potenza, in altre parole che la potenza non fosse più separata dalla sua essenza. È ciò che sta alla base dell’idea di causa seu ratio: l’identità dell’essenza e della potenza, non nel senso che la potenza sarebbe l’essenza dell’essere (un’ontologia volgare della potenza) ma, inversamente, nel senso che l’essere possiede potenza solo in virtù della sua essenza, nemmeno nella misura della sua essenza, quasi si trattasse di una facoltà distinta o aggiungentesi ad essa, ma come la potenza dell’essenza.3 Di conseguenza, se si poteva considerare l’estensione totale come sostanza, non era il caso di collegarla a un soggetto distinto da essa, detentore di una potenza che le conferirebbe il moto dall’esterno. Ma l’estensione stessa doveva trovare in sé la potenza di produrre i movimenti che avvengono in essa. Questo equivaleva certo a rifiutare l’estensione cartesiana, originariamente in quiete, ma in maniera diversa da Leibniz, concludendo non dalla forza viva alla sostanzialità dei corpi, ma dalla potenza dell’estensione una e indivisibile alla sua suddivisione modale,4 e soprattutto non distinguendo più tra la potenza di Dio e la potenza dell’estensione.5 È degno di nota che nello stesso momento, cioè subito dopo Cartesio, due filosofi abbiano riabilitato, ciascuno a suo modo, la nozione di forma per darle un significato individuale, collegarla alla nozione di conatus e sviluppare un concetto originale di trasformazione. Ma per salvare la religione, secondo Leibniz conveniva non ridurre tutta la potenza a quella delle sostanze; in tal modo manteneva distinte in Dio l’essenza dalla potenza, come mostra il calcolo o il gioco sui mondi possibili cui Dio si dedica al momento di creare.6 Non poteva innalzarsi all’idea di una potenza dell’essenza, poiché questa avrebbe comportato il carattere necessario di ogni cosa, la negazione della creazione in nome di una produttività immanente dell’estensione stessa, il legame di natura
«La potenza di Dio è la sua stessa essenza» (Etica, I, 34 [tr. it. 825]. «Credo di aver già abbastanza chiaramente mostrato che quel che tu chiedi, ossia se possa essere dimostrata a priori la varietà delle cose a partire dal solo concetto dell’estensione, è impossibile. E perciò la materia è stata definita male da Cartesio per mezzo dell’estensione; ma deve essere necessariamente spiegata mediante un attributo che esprima un’essenza eterna e infinita» (lettera 83 a Tschirnhaus [tr. it. 1503-1504]. 5 «L’estensione è un attributo di Dio, ovvero Dio è cosa estesa» (Etica,II, 2 [tr. it. 837]. 6 Cfr. Leibniz, Réfutation inédite de Spinoza, 31. 3 4
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essenziale tra Dio e le sue creature, oltre a due altre conseguenze insostenibili, la responsabilità di Dio e la divinizzazione delle creature (per questo, come ha mostrato Friedmann, Leibniz ebbe sembra abbastanza malafede da confondere Cartesio con Spinoza in modo da screditare Cartesio e misconoscere Spinoza).7 La conseguenza è il nesso tra il diritto della forma individuale e la parte di potenza, tra il rapporto costante con cui le parti di un corpo si comunicano i loro movimenti e lo sforzo con cui questo stesso corpo, per quanto sta in lui, conserva il proprio essere.8 Questo sforzo o questa parte di potenza definiscono l’essenza attuale del corpo, ossia l’essenza non in quanto è contenuta (virtualmente) nell’estensione, ma in quanto qualche cosa segue da essa. Ritroviamo qui, al livello della cosa singola o del mondo finito, l’idea profondamente originale della potenza dell’essenza. Come dice Spinoza, «le cose non possono altro se non ciò che segue necessariamente dalla loro natura determinata»,9 e questo spiega anche che la cosa si sforza di perseverare «per quanto è ad essa possibile» e sempre «nel suo essere».10 Con la sua estrema ricchezza, questa dimostrazione della definizione dell’essenza attuale rilancia le nostre analisi precedenti su tre punti: il legame tra lo sforzo e il rapporto; il problema dell’alimentazione affettiva e della conservazione del rapporto; la questione del composto dal punto di vista della potenza (unione dei conatus).
2. Dalle forme finite alla forma infinita; lo statuto della trasformazione
Fare lo sforzo di conservarsi – abbiamo visto – è avere un bisogno, essere continuamente obbligato a compensare il processo di dissoluzione della forma. Soltanto, ancora non potevamo sapere da dove provenisse questo sforzo che sembrava nascere come per miracolo, quasi per la fortunata disposizione di uno strumento che viene a sostenere una forma, in sé stessa impotente, perché tenuta insieme, come dice Gueroult, dalla sola «pressione di ciò che sta intorno». Ora vediamo meglio che cosa si deve pensare: una potenza che si spiega con la forma stessa, la potenza della forma o dell’essenza (insistiamo ancora: non l’essenza come potenza, ma la potenza come essenza). Ciò di cui un corpo è
7 «Spinoza dice (Etica, I, prop. 16): “Dalla necessità della natura divina devono discendere delle infinità di modi infiniti, ossia tutto ciò che può rientrare in un’intelligenza infinita”. Si tratta di un’opinione molto errata e, sotto una forma diversa, si tratta dell’errore suggerito da Cartesio: che cioè la materia assume successivamente tutte le forme» (Leibniz, Réfutation inédite de Spinoza, 30-31). 8 Quel che qui diciamo del corpo, Spinoza lo dice in generale della cosa singola o finita che, secondo l’attributo del Dio-Natura secondo cui la si considera, non soltanto è un corpo, ma un’idea ecc. Delle idee in quanto cose si parla nel capitolo seguente. 9 Etica, III, 7, dim. [tr. it. 905-906]. 10 Etica, III, 6 [tr. it. 905].
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capace, infatti, sono sempre certi movimenti, certi effetti: dare un pugno sul tavolo, ad esempio, «una virtù che si concepisce mediante la struttura del corpo umano».11 Ora, «per virtù e potenza intendo la stessa cosa. Cioè (secondo la proposizione III, 7) la virtù, riferita all’uomo, è la stessa essenza o natura dell’uomo, in quanto ha il potere di fare certe cose che si possono intendere mediante le sole leggi della sua natura».12 Queste leggi, che non sono quelle della Natura in generale (nozioni comuni universali) ma quelle della natura di una cosa, nel nostro caso del corpo umano, possono avere un solo significato: indicano il rapporto costante di quiete e moto che determina l’identità di un corpo, consentendo certe connessioni di moti e non altre, certi gesti e non altri – connessioni e gesti che un altro corpo non potrebbe compiere. La potenza del corpo umano non ha quindi nulla di misterioso, e fa tutt’uno con l’insieme delle sue disposizioni. Soltanto, noi abbiamo la tendenza a considerarlo una macchina o un cadavere privo di una fonte di movimento, che sembra un’energia venuta necessariamente da altrove: il corpo è pronto per funzionare, ma non c’è il movimento, così che noi dissociamo potenza e disposizioni. Al contrario, se l’estensione stessa è potenza, non possiamo più dire che il movimento viene totalmente dall’esterno, poiché la causa esterna esigerebbe a sua volta un’altra causa esterna e la serie, col suo regresso all’infinito, non potrebbe chiudersi che alla maniera di Leibniz, ponendo una causa prima esterna al mondo. La serie, invece, pur formando un intreccio infinito, si chiude su sé stessa, poiché il movimento proviene da ciascuna delle parti – che devono quindi essere dette parti di potenza e non solo parti di materia.13 Il corpo stesso, dunque, riceve movimento ma anche ne comunica, e quello che comunica non si riduce mai a quello che riceve.14 Per questo anche lo sforzo cessa se, temporaneamente o meno, cambia la forma, il che trova conferma nel fatto che la malattia, per Spinoza, è al tempo stesso anoressia (o quello che comunemente chiamiamo
Etica, IV, 59, sc. [tr. it. 1027]. Etica, IV, def. 8 [tr. it. 976]. 13 Cfr. in particolare Trattato politico, II, 2-3. Non torneremo qui ad esporre la celebre tesi dell’identità della potenza di Dio e della potenza delle cose, che prende le distanze tanto dall’occasionalismo (tipo Malebranche) quanto dal dualismo (tipo Leibniz). L’uso della nozione di parte di potenza, implicita in Spinoza, è legittima a condizione di tenere in considerazione la differenza interna alla Natura (naturante/naturata), come appare all’inizio del cap. XVI del Trattato teologicopolitico. 14 Come scrive P.-F. Moreau: «Nell’universo ci sono delle cose che agiscono e producono. Si limitano a trasmettere un urto iniziale, rimanendo nel loro fondo inerti? No, per questo la concezione cartesiana dell’estensione è inammissibile. Le cose, di fatto, possiedono un automovimento (la “vita”), e questo automovimento è la presenza di Dio in esse – oppure, Dio non è altro che questa potenza di movimento che troviamo nelle cose, quando ci si mette a considerarla per sé stessa» (Spinoza, 74). 11 12
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«perdita dell’appetito»). Detto questo, si capisce anche come il corpo, finché si trova nella sua forma, consumi il movimento che produce e, di conseguenza, debba continuamente immagazzinarne per conservare la propria forma. Non ci sono dunque due causalità, una esterna e l’altra interna, ma vediamo come il movimento venga sempre emesso dall’interno, benché s’immagazzini sempre dall’esterno. Quel che continua a circolare e a scambiarsi attraverso le forme è la materia stessa o la potenza, con la conseguenza di continue scomposizioni e ricomposizioni anche minime; senza questo, torneremmo all’antico dualismo di materia e forma e non comprenderemmo più che le forme non sono immutabili. Come dice il testo seguente, il gioco del mantenimento dell’individuo nella sua forma è al tempo stesso quello della trasformazione: «le parti del corpo umano (post. 1) sono individui assai composti, le cui parti (lemma 4) possono essere separate dal corpo umano conservando questo tuttavia la sua natura e forma, e possono comunicare i propri movimenti (assioma 1 dopo il lemma 3) agli altri corpi secondo un’altra proporzione».15 Sono sempre individui che transitano da un individuo a un altro, sia che presentino sufficiente convergenza da adattarsi a un rapporto nuovo, sia che il loro proprio rapporto sia così alterato da liberare certi individui inferiori i quali, a loro volta, si combineranno secondo il rapporto suddetto, mentre gli altri o vivranno di vita autonoma, o faranno parte di un individuo maggiore o si scomporranno a loro volta ecc. Per questo, alla fine, la potenza di agire della Natura, sempre identica a sé stessa, si confonde con «le leggi e le regole della natura, secondo le quali tutte le cose avvengono e si mutano da una forma all’altra (secundum quas omnia fiunt, et ex unis formis in alias mutantur)».16 Questa formula non è un luogo comune e solo apparentemente è un’eredità del metamorfismo all’antica, tipo quello del Pitagora di Ovidio. Soprattutto non dice che le cose cambiano forma, un’assurdità del genere della chimera;17 e il poeta spagnolo amnesico non ha cambiato forma, non è lui ad essere amnesico, dal momento che la forma composta attualmente dalle parti che erano quelle del suo corpo è la forma di un corpo nuovo. Quella formula non dice soltanto che il mondo cambia e che certe forme passano mentre ne compaiono altre. Il paradosso è che essa afferma delle trasformazioni, poiché il gioco reciproco delle forme assicura la sparizione delle une e la comparsa di altre. Non c’è una materia che circolerebbe da una forma all’altra, ritornando alla sua primitiva indifferenza per rendersi disponibile a una formazione nuova; la circolazione è quella delle forme stesse, forme liberate dalla decomposizione di una forma o entranti a far parte della composizione di un’altra. Per Spinoza la materia è curiosamente smaterializzata; è costituita solo di
Etica, II, 24, dim. [tr. it. 865]. Etica, III, prefazione [tr. it. 896]. 17 Cfr. infra, cap. VII. 15 16
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forme alle prese le une con le altre.18 Di qui anche la strana risposta a Oldenburg nella quale, all’impossibilità di una pluralità di sostanze aventi lo stesso attributo, si obietta la pluralità degli uomini. «Ti prego, amico mio, di considerare che gli uomini non sono creati, ma solo generati, e che i loro corpi esistevano già da prima sebbene formati in altro modo (alio modo formata)».19 Spinoza esprime qui in una forma inevitabilmente paradossale, quindi esposta ai peggiori controsensi,20la conseguenza dell’indivisibilità dell’estensione, come indica senza ambiguità, la ripresa di un argomento che nell’Etica viene opposto alla concezione cartesiana della materia: se la divisione dell’estensione-materia fosse reale, sarebbe concepibile l’annientamento isolato di una parte, il che è assurdo e per di più in contraddizione con la negazione del vuoto.21 La tesi di una pluralità di sostanze subordinate create da Dio porta direttamente a quest’assurdità, e la sua negazione bene intesa comporta un’altra tesi molto delicata da formulare, poiché reintroduce inevitabilmente, almeno a parole, un certo ilemorfismo. Pertanto, l’estensione di cui un corpo è formato non compare né scompare: è materia per trasformazioni, così che tutte le parti del corpo, o almeno le parti delle sue parti o le parti di parti di parti ecc., sussisteranno sia individualmente sia contribuendo a formare un nuovo individuo. Il corpo preesisteva (o anche, si precedeva) nella sua materia, dunque, non nella sua forma, come dice la formula alio modo formata. E tuttavia il corpo è quello che è in virtù della sua forma, come del resto per Aristotele, così che la formula è insostenibile per Spinoza come lo è per un filosofo scolastico. Non però nello stesso modo: poiché la forma spinoziana non si distingue più dalla materia, occorre malgrado tutto sostenere che i corpi stessi erano in precedenza alio modo formata, anche a rischio di eccitare immaginazioni superstiziose. L’uso del termine modus prende qui tutto il suo senso: permette di riassorbire lo scarto tra distanza apparente di materia e forma e loro identità reale; è il solo termine che possa rendere intelligibile la trasformazione dell’identico. Siamo precisi. I diversi stati per cui passa la facies totius universi non la
Per questo non ha molto senso rilevare, come fa Gueroult, un «primato della forma», per poi concludere a un aristotelismo meccanicista (vol. 2, 176-184). Non basta registrare l’eliminazione della finalità, occorre prendere atto anche di quella della materia. Che rimane allora di Aristotele? In definitiva Spinoza è più vicino al metamorfismo adattato al gusto del tempo dai poeti del tardo Rinascimento, benché prenda nettamente le distanze da esso, che non a una tassonomia delle forme per la quale provava solo ripugnanza. 19 Lettera 4 a Oldenburg [tr. it. 1246]. La presenza del termine modus è evidentemente degna di nota: nell’Etica Spinoza accosta volutamente l’uso corrente e quello tecnico del termine. Bernard Pautrat ha tentato di farlo risultare nella sua traduzione, traducendo uniformemente con «maniera». 20 Per un caso di controsenso, quello di W. Meijer, cfr. la n. 4 di Appuhn, vol. 4, 364. 21 Etica, I, 15, sc. Per il commento a questo scolio cfr. sopra. 18
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trasformano: «pur variando in infiniti modi, rimane tuttavia sempre la stessa».22 Di essa Spinoza non dice alio modo formata, ma infinitis modis variet: unica ed eterna, fa tutt’uno con l’ordine delle cose finite, ma queste esistono solo nella durata disponendosi di conseguenza nella successione, così che di quella si dice che «varia» o cambia stato (vedremo per contro perché le modificazioni della sostanza non implicano che questa varii). Al tempo stesso, e forse più prudentemente, gli accade di attribuire queste infinitae variationes non all’universo intero, ma alle sue parti.23 E certamente l’universo intero non è capace di variazione nello stesso senso degl’innumerevoli individui che contiene, poiché, non avendo nulla fuori di sé, non ne è affetto. Per lo meno, solo in un altro senso Spinoza può dire, come abbiamo visto, che la sostanza è diversimode affecta: l’affezione non è qui che azione pura, non mista di azione e passione, ed è un’affezione della sostanza ad opera di sé stessa, che non implica alcuna specie di variazione. Questi testi si scaglionano tra il 1661 e il 1675 ma sono la testimonianza di un problema persistente che possiamo formulare così24: trovare alla trasformazione un posto tra l’identità invariabile dell’ordine naturale (Forma totale) e le forme periture che si concatenano secondo quest’ordine e al suo interno; tra l’indivisibilità dell’estensione e le sue mutevoli modalità. Abbiamo già notato quest’anomalia: le parti dell’universo si trasformano; l’universo stesso, quindi, non è un organismo poiché la sua identità non lo lega a nessuna fabrica. Se è vero che, non essendo sottoposto ad alcun «flusso di entrata e uscita»,25 l’universo non deve rigenerarsi, il problema della trasformazione si pone al posto di quello della rigenerazione: la stessa estensione o materia, ma altre forme. Indubbiamente la soluzione sta nella distinzione dei modi suggerita da Cartesio, ma da lui non concettualizzata in maniera sufficiente. La soluzione non cancella tuttavia il paradosso, quando si cerca di formularla dal punto di vista di una cosa o di un corpo, e questo paradosso, in fondo, non esprime altro che la nostra solidarietà e identità di sostanza con tutte le cose. «La materia è ovunque la stessa…»:26 per la verità, il problema della trasformazione – o almeno la sua prima metà – nasce quando ci ricordiamo che l’universo non è soltanto un ordine e una connessione di corpi discreti, ma che questi ultimi si distinguono solo modalmente e rimandano al continuo indivisibile dell’’estensione o materia; in altri termini, quando comprendiamo che l’individuo totale è Dio stesso in quanto modificato-affetto allo stesso tempo secondo un’infinità di modi (modificazione mediata eterna e infinita, quella con
Lettera 64 a Schuller [tr. it. 1494]. Lettera 32 a Oldenburg; Etica, II, scolio del lemma 7 dopo 13. 24 Se ignoriamo l’altra parte della difficoltà, cioè il rapporto dell’universo in quanto tale con la durata. 25 Per riprendere l’espressione di È Balibar, Individualité et transindividualité chez Spinoza, 40. 26 Etica, I, 15 – cfr; sopra il commento a questo scolio. 22 23
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cui Spinoza riteneva di superare il fossato cartesiano tra l’infinito e l’indefinito). Abbiamo qui solo la prima metà del problema poiché, pur disponendo ora oltre che delle forme anche di una materia una e identica a sé stessa, ancora non sappiamo perché l’esistenza di queste forme sia inseparabile da trasformazioni. La seconda metà è indicata dalla formula cartesiana successive assumit: pensare la trasformazione esige che si articoli, non solo l’infinito con l’indefinito, ma anche l’eternità con la durata. Perché le forme devono esistere successivamente, mentre derivano tutte insieme dalla natura estesa di Dio, che è affetta eternamente della loro solidarietà reciproca? Ci si presentano due risposte la cui conciliazione non è immediata; la natura del finito e la natura del corpo. «La durata è la continuità indefinita dell’esistenza».27 È una vera definizione genetica, il tentativo sublime di generare il «tempo»; anziché rifarsi a un ordine o a una condizione cui l’esistenza finita sarebbe sottoposta esteriormente, Spinoza crede possibile dedurre la durata dalla stessa finitezza (donde l’importanza di distinguerla dal tempo). Come l’eternità fa tutt’uno con l’esistenza necessaria, la durata c’è solo in virtù della limitatezza stessa delle cose finite; la loro essenza non include l’esistenza e s’iscrive nell’esistenza solo come sforzo, ossia come tendenza a continuare. Perché solo come sforzo e come continuazione? La definizione ha tanto contenuto implicito che la sua lettera sembra tautologica. Generare la durata è spiegare perché certe esistenze sono sforzo e continuazione; la ragione sta nella limitazione reciproca di tali esistenze. Di conseguenza, a durare, cioè a morire, sono solo le cose solidali che sono concepibili solo come dipendenti le une dalle altre. Per contro, una cosa che non ha un fuori non deve continuare, la sua esistenza non è durata ma attività pura. Riprendiamo ora la definizione: «continuazione indefinita dell’esistenza» significa che la nostra essenza non dice quando moriremo – ed è normale che non lo dica, perché «la definizione di qualunque cosa afferma, ma non nega, l’essenza della cosa stessa»;28 siamo destinati a morire, non in virtù della nostra essenza, ma perché non siamo che una parte della Natura e «non si dà cosa singola in natura, della quale non se ne dia un’altra più potente e più forte; ma qualunque sia data, se ne dà un’altra più potente dalla quale quella può essere distrutta».29 Spinoza non si è mai chiesto perché tutti i corpi possibili non vengono all’esistenza nello stesso tempo; egli pone da una parte l’universo concreto, dove i corpi si sforzano, nel contatto gli uni con gli altri, dovendosi difendere e alimentare; dall’altra, la causa seu ratio, che detta la regola dell’esaustività o dell’esaurimento, nel duplice senso della produzione di ogni esistenza, e di ogni esistenza per una sola volta. Sono le due facce della dottrina dell’universo della lettera 32: determinazione reciproca della parti sotto il dominio di una potenza
Etica, II, def. 5. [tr. it. 836] Etica, III, 4, dim. [tr. it. 904]. 29 Etica, IV, ass. [tr. it. 976] 27 28
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infinita che non è altro che l’autoaffermazione della Natura. Queste due facce si combinano nel dittico della Natura a un tempo naturante e naturata.30 Le esistenze si limitano reciprocamente, non compaiono una a una, in fila indiana, ma sempre inserite in una trama attualmente infinita, e poiché la limitazione attualmente reciproca è dinamica (gli sforzi alle prese gli uni con gli altri), lo stato della trama attualmente infinita non può durare. In Spinoza non vediamo un’altra linea di ragionamento; mai prende le cose a partire dall’universo o dal modo infinito, per dimostrare che deve durare. L’universo stesso non dura, infatti, poiché non c’è un limite che determini la sua esistenza come continuazione. Non dovremo allora parlare di continuazione infinita? Nella misura in cui gli accade di parlare di variazione del tutto anziché delle sue parti, Spinoza sembra orientarsi verso un’idea del genere. Questa, nondimeno, è contraddittoria, essendo l’eternità il solo modo d’esistenza conforme all’illimitatezza. Anche degl’infiniti modi si dice che esistono necessariamente (eternità).31 L’ordine e la connessione delle cose determinano queste ultime a passare, ma l’ordine stesso non passa. Ci attende una piccola difficoltà che dovremo ancora affrontare; sembrerebbe che la durata si spieghi tanto con la natura dei corpi quanto con quella del finito in generale. A prima vista si direbbe che l’ordine dei corpi, tutto esteriore, differisca dall’ordine delle idee, in quanto «l’intelletto non è, come il corpo, soggetto agli eventi»;32 così che le idee contengono durata solo in quanto i loro oggetti esistano in atto.33 In definitiva, il corpo è il modello di ogni cosa finita? Comunque sia, abbiamo ora l’altra metà del problema della trasformazione: la solidarietà dei conatus, la dipendenza reciproca di affermazioni eterogenee o contrarie, che impone un divenire alla materia. Questo divenire non si spiega con una qualche costrizione dello spazio (quantità determinata di materia), poiché l’universo è attualmente infinito, ma con la dinamica relazionale delle forme e dei modi. È curioso che la finitezza imponga così all’ordine che la governa un infinito nei due sensi, nello spazio e nella durata; ma va da sé che l’infinito, in quanto si dispiega anche nella durata, non sia meno attuale che se si dispiegasse solo nello spazio – poiché, ripetiamolo, l’universo stesso non dura. Riprendiamo. Ho motivo di dire che il mio corpo esisteva prima sotto altre forme, poiché alla lettera è formato di forme che non gli appartengono: queste non portano la sua firma, che consiste solo nella legge cui esso le assoggetta.34
Etica, I, 29, sc. Etica, I, 21-23. 32 Lettera 37 a Bouwmeester [tr. it. 1393]. 33 Etica, II, 8, cor. 34 Secondo un testo già citato, «le parti che compongono il corpo umano non competono all’essenza dello stesso corpo se non in quanto si comunicano a vicenda i loro movimenti secondo un certo rapporto (definizione dopo il lemma 3) e non in quanto possono essere considerate come individui senza relazione al corpo umano» (Etica, II, 24, dim. [tr. it. 864-865]). 30 31
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In questo senso, le tracce d’ilemorfismo sono solo un’apparenza. Sbaglio, però, se mi ritengo autorizzato per questo a pensare – o a prestare a Spinoza l’idea – che il mio corpo esisteva; la sua forma, lei, non esisteva. Questa estrapolazione è possibile solo a condizione 1° di immaginare che questa forma, attraverso la decomposizione, si diffonda in altri corpi e sopravviva così, a seconda delle forme successive in cui s’incorporano le parti separate del mio; 2° di misconoscere completamente la rigenerazione continua cui soggiace un corpo che esista in atto (le parti staccate del mio corpo portano così poco i segni della mia identità, che anche quando lo costituivano, non cessavano di rinnovarsi senza che perciò il mio corpo si trasformasse); 3° di passare sotto silenzio il concetto spinoziano di forma e di intenderla nel senso di un’anima, in sé stessa incorruttibile, legata alla porzione di materia che si è scomposta. Fu questo il passo compiuto un giorno da Leibniz, in una celebre nota, presa dalle sue conversazioni con Tschirnhaus; «Credit quandam transmigrationis Pytagoricae speciem (segue una parola illeggibile). Omnium mentes ire de corpore in corpus».35 Trattandosi di un pensatore come Leibniz, o anche come Tschirnhaus, non privi di talento, è interessante cercare dove ha inizio il malinteso e come abbia potuto formarsi un simile controsenso. Al centro c’è la dottrina dei modi, che Leibniz non può ammettere e che di conseguenza non comprende. Prendendo motivo dal concetto d’intelletto infinito, accusa Spinoza di resuscitare un’Anima del mondo incompatibile con l’individualità delle anime particolari; basandosi inoltre probabilmente sulla tesi dell’indivisibilità, afferma che quest’ultimo «ha creduto che non sussista mai altro che un solo corpo, anche se questo può trasformarsi».36 Forse si è chiesto come l’apparente dissimmetria
35 Citato da G. Friedmann, Leibniz et Spinoza, 370, n. 2 di p. 103.In un altro testo Leibniz richiama invece la tesi dell’anima idea corporis contro un autore – Wachter – che attribuisce a Spinoza la dottrina della metempsicosi. Cfr. Réfutation inédite de Spinoza, 33. 36 Réfutation inédite de Spinoza, 33.Per il riassorbimento delle anime particolari nell’Anima del mondo, cfr. ivi, 29-30, ma soprattutto le Considérations sur la doctrine d’un esprit universel unique, dove il nome di Spinoza compare due volte, a p. 220 e a p. 228. Si noterà in particolare questo passo: «E se s’immagina che lo Spirito universale sia come un Oceano composto di un’infinità di gocce, che ne sono staccate allorché animano un qualche corpo organico particolare, ma si riuniscono al loro Oceano dopo la distruzione degli organi, ci si forma ancora un’idea materiale e grossolana, che non si addice affatto alla cosa e s’invischia nelle stesse difficoltà di quella del soffio…» (226-227). Due osservazioni: 1° Leibniz passa sotto silenzio non solo la molteplicità dei modi finiti che compongono l’intelletto infinito, ma anche la modificazione eterna e infinita che costituisce questo intelletto e che impedisce di confonderlo con Dio considerato nella sua potenza assoluta di pensare (in queste condizioni, conclude, Dio non è più che una specie di sciame di api). 2° Christiane Frémont (p. 231, n. 7) ha certo ragione di richiamare che l’immagine dell’oceano viene dagli stoici e che Bayle la usa nel suo articolo del Dictionnaire su Spinoza, ma occorre insieme sottolineare che a quella data – 1702 – Leibniz ha letto l’Etica da tempo e non ha potuto non essere colpito e scandalizzato dall’uso che Spinoza fa di quest’immagine nello scolio della prop. I, 15, a proposito dell’indivisibilità della materia. Perciò le due parti della critica non sono che una sola critica, tanto
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tra l’intelletto eterno e infinito e l’esistenza temporanea degli spiriti fosse conciliabile con la tesi dell’identità dell’ordine e connessione o «parallelismo» (vedremo nel prossimo capitolo che cosa se ne debba pensare). Ma soprattutto Spinoza sostiene che «le essenze formali delle cose singole, ossia dei modi, sono contenute negli attributi di Dio»;37 in altri termini, che la materia porta in sé le essenze di tutti i corpi, anche di quelli che non esistono attualmente. Quest’affermazione della presenza virtuale di ogni forma nella materia, unita alla dottrina dell’individualità (composizione-scomposizione), ha forse condotto Tschirnhaus a tradire il ricordo dei suoi scambi con Spinoza, sotto l’influsso di un pensatore come Leibniz, per altro così restio a concepire la morte del corpo e quella dell’anima.
3. Autoaffermazione ed esteriorità
Possiamo ora tornare al problema del bisogno. Se leggiamo la dimostrazione III, 7, comprendiamo che quest’ultimo non era che la forma astratta e negativa in cui si presentava il conatus, finché ne possedevamo solo una definizione nominale e non genetica. A questo punto possediamo invece questa definizione reale, che collega lo sforzo di perseverare con lo sforzo di fare (agere conatur) e quest’ultimo al rapporto necessario che unisce un’essenza, una volta posta, alla deduzione delle sue proprietà, il che richiama l’ultimo enunciato della parte I dell’Etica: «non esiste alcuna cosa dalla cui natura non segua qualche effetto». Questo conferma l’origine interna o piuttosto immanente del movimento di cui parlavamo nel paragrafo precedente, introducendovi anche un elemento nuovo: lo sforzo con cui una cosa si conserva non è altro che la sua autoaffermazione. L’esercizio o l’alimentazione affettiva con cui un corpo mantiene la sua forma è in primo luogo l’affermazione di tale forma. Si obietterà che non c’è differenza; è invece proprio la differenza tra il malato che si nutre solo per timore di morire e il sano che si nutre perché in tal modo accresce il suo piacere di vivere, tra una vita passata a meditare la morte e una dedicata alla meditazione della vita.38 Un corpo ricerca l’esercizio, non perché la sua integrità è minacciata, ma perché è esso stesso questo esercizio; è comprensibile che, se le parti del corpo «hanno bisogno di continuo e vario alimento, affinché tutto il corpo sia ugualmente atto a tutto ciò che può seguire dalla sua natura»,39 alimentarsi è produrre degli effetti. Il che conferma ancora una volta la coincidenza di movimento interno
più che Leibniz ha sempre tenuto conto di questo rapporto che, proprio nelle Considérations è il primo a chiamare «parallelismo». 37 Etica, II,8. 38 Etica, IV, 63, sc. 67. 39 Etica, IV, app. cap. 27 [tr. it. 1048].
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e apporto esterno. Essere una parte della Natura è vivere il paradosso di aver bisogno del mondo per affermare la propria natura, come l’orecchio che non è nulla senza un rumore, un suono o un’armonia.40 Così che la forma è pienamente quello che è solo in relazione con l’esterno: il rapporto individuante non ha realtà che nel rapporto; una forma è inseparabile da incessanti trasformazioni, composizioni, scomposizioni, ricomposizioni cui sottopone ciò che le sta intorno o cui è sottoposta essa stessa, non solo perché è necessario prelevare, cogliere, assimilare i diversi alimenti ed esporsi di continuo all’aria, agli urti e alle intemperie, ma perché occorre inoltre inserirsi in insiemi più grandi e accordarsi di continuo con altre forme o parti della Natura (per formare una società, un ambiente ecologico, ecc.).
4. L’unione dei conatus
Infine, la dimostrazione della proposizione III, 7 indica che una cosa si sforza «o da sola o insieme alle altre». Si tratta di un’allusione sia alla comunità che gl’individui possono formare, sia alla comunità di cui sono formati essi stessi; in altri termini, preannuncia il seguito sociale della IV parte,41 ma invita anche a pensare ogni sforzo individuale come il prodotto della combinazione di più sforzi. Donde l’impressione superficiale che sulla composizione individuale Spinoza faccia due discorsi, uno meccanicista, quello che abbiamo studiato e che fa leva su una concezione esterna della causalità («la pressione di ciò che sta intorno»); l’altro dinamico, che fa appello a un principio interno (l’individuo stesso come causa), poiché «per cose singole intendo le cose che sono finite e hanno un’esistenza determinata. Ché, se più individui concorrono in una sola azione in modo tale da essere tutti insieme causa di un solo effetto, li considero tutti, sotto questo riguardo, come una cosa singola».42 È chiaro che la possibilità di combinarsi non può essere conosciuta in anticipo e che il composto non si forma per una convergenza intenzionale delle sue parti; la genesi della combinazione rinvia quindi a un concatenamento di cause esterne, in altri termini agl’incontri dovuti al caso (dal punto di vista locale della cosa che si trova in uno degli snodi del caso, di cui essa non domina l’intreccio). Non si vede, tuttavia, come la convergenza delle parti di potenza potrà formare un’unità più che meramente «oggettiva» (nel senso scolastico). In che modo pensare in termini meccanicisti il processo puramente anonimo e passivo dell’accomodatio, il riconoscersi di nozioni comuni e soprattutto il combinarsi delle parti eterogenee dell’organismo?
Etica, I, app. «Agli uomini è utilissimo stringere relazioni d’amicizia e legarsi con quei vincoli per mezzo dei quali formino tutti un’unità…» (Etica, IV, app. cap. 12 [tr. it. 1043]). 42 Etica, II, def. 7 [tr. it. 836]. 40 41
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La «cooperazione» rischia di non essere che un antropomorfismo, e l’individuo di perdere di nuovo l’unità che credevamo di avergli assicurato. Da questo punto di vista, oltre al fatto che, nella dottrina dell’individuo formulata nell’Etica, il primato del moto sulla quiete è una sconfessione della cartesiana «forza della quiete», sembra che solo la comunicazione proporzionale dei movimenti sia in grado di fornire un criterio. Questo vuol dire che l’unione dei conatus esiste solo nell’idea od oggettivamente, per il fatto che la convergenza delle parti è solo una coincidenza – un caso persistente grazie alla «pressione di ciò che sta intorno»? Come sarà possibile parlare di un conatus? Comunicazione secondo proporzione e convergenza: perché i due concetti possano corrispondersi e costituire due letture dello stesso processo, occorre che l’unità di potenza sia altrettanto consistente dell’unità di movimento. La soluzione allora è implicita nella definizione citata e rinvia alla causa seu ratio, al ribaltarsi della coppia causa-effetto sull’altra essenzaproprietà, così che il concorrere delle cause nella produzione di un unico effetto non può non essere l’attuazione di un’essenza. Si nota infatti che la divisione causale può essere solo una divisione tra individui;43 ma occorre inoltre che l’unità dell’effetto garantisca quella della causa, sia pure complessa. La possibilità di decifrare l’effetto come la deduzione di una proprietà o l’espressione di un’essenza fonda in ultima istanza l’unità del conatus. In apparenza una simile soluzione ha solo un senso fisiologico: non si vede come il moto di un mobile basterebbe a costituire un individuo a partire da forze diverse che si esercitino su di lui (ad esempio, la molla che lo aziona, il vento che lo frena, ecc.). Il torto sarebbe però qui di considerare come un effetto unico ciò che è solo una somma di effetti. Questo contro-esempio mostra bene l’interiorizzazione del rapporto di causa ed effetto compiuta da Spinoza. L’effetto non è mai esterno alla sua causa, ma la esprime e per questo è sempre la manifestazione di un’essenza, l’esercizio di una disposizione, il segno di una persistenza nell’essere. L’ordine causale, tutto esteriore, si rovescia in un ordine di elementi interni, a condizione di vedere che questi elementi interni si fanno e si disfano, secondo la logica della trasformazione. Il rovesciamento avviene persino necessariamente, senza di che il concatenamento non sarebbe più causale, ma rinvierebbe a una causa prima esterna.44 In realtà, che cosa nel concatenamento causale è esteriore?
Etica, I, 28. Raggiungiamo così Pierre Macherey: «La pressione di ciò che sta intorno, che fa stare insieme tutti gli esseri corporei e fa della natura la loro forma globale d’individualità, è la concatenazione infinita delle loro determinazioni causali. L’esteriorità di questo concatenamento viene interpretata dall’immaginazione sulla base della finzione astratta di una esteriorità, che esisterebbe in sé indipendentemente da ciò che essa determina; ma si deve comprendere invece che essa non è nulla “al di fuori” di ciò che determina. È il concatenamento delle cause transitive ad essere in sé stesso, se così si può dire, un concatenamento nell’esteriorità. Non c’è quindi nessun bisogno di supporre una realtà esterna alla natura per comprendere che è essa stessa sottoposta a una determinazione esteriore, che è quella stessa degli esseri che la compongono» (Hegel ou Spinoza, 220-221). 43 44
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In primo luogo il fatto che nell’estensione l’effetto prodotto da una causa non esprima una proprietà della sua causa (una certa disposizione di un corpo) senza ripercuotersi anche su qualche cosa d’altro (identità dell’effetto e dell’affezione, del potere di essere affetto e di produrre affezioni), come quando, ad esempio, do un pugno sul tavolo o quando assimilo il cibo. Quel che è esteriore è quindi il rapporto delle cause tra loro e non quello della causa con l’effetto, poiché l’effetto stesso si sdoppia in effetto di ed effetto su. Donde, in secondo luogo, il concorrere degli effetti, o di quelle che Spinoza chiama le «circostanze», che non va confuso col concorrere delle cause. Si tratta dell’incontro di linee causali distinte, ciascuna delle quali produce il proprio effetto; la disposizione del vento che sposta una tegola facendola cadere dal tetto; disposizione di un uomo a camminare sulla via ed a rispondere a un invito.45 Il risultato è un cadavere, ossia la scomparsa di una forma molto complessa, in quanto vengono liberate forme meno complesse, che fino a quel momento sottostavano alla legge della prima. Il corso naturale delle trasformazioni si spiega con la dipendenza reciproca delle forme, animata dall’interno dall’auto-affermazione infinita della Natura, una dipendenza reciproca di cui vediamo ora i due sensi: gioco dell’amore e gioco del caso.46 È questo il cammino percorso dalle nozioni di forma e di modo, affinché, la formula Materia formas omnes quarum est capax successive assumit prendesse un senso spinoziano che all’inizio non aveva assolutamente, qualunque cosa ne abbia detto Leibniz.
45 46
Etica, I, appendice. In quanto, secondo Spinoza, l’amore in generale è amore dell’alimento. Cfr. Etica, III, 59, sc.
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Capitolo IV Che cos’è una fisica del pensiero? «Né per altra ragione ho detto che Dio è causa, ad esempio, dell’idea del cerchio solo in quanto è cosa pensante, e del cerchio solo in quanto è cosa estesa, se non perché l’essere formale dell’idea del cerchio non può essere percepito se non per mezzo di un altro modo di pensare come sua causa prossima e questo stesso a sua volta per mezzo di un altro e così all’infinito. Sicché, fino a quando le cose sono considerate come modi di pensare, dovremo spiegare l’ordine di tutta la natura o connessione delle cause mediante il solo attributo del pensiero; e in quanto sono considerate come modi dell’estensione, l’ordine di tutta la natura deve essere anche spiegato mediante il solo attributo dell’estensione; e lo stesso intendo per gli altri attributi» (Etica, II, 7, scolio [tr. it. 841-842]). Quando il lettore dell’Etica ha assimilato il nuovo concetto di forma, sviluppatosi nell’ambito e nella prospettiva di una scienza dei corpi, non può evitare di essere colpito, e per un momento smarrito, per la frequenza, nella teoria della mente e della definizione, dei termini forma, formari, formale, formalitas, si tratti dell’Etica o del Trattato sull’emendazione dell’intelletto. In particolare, nel contesto della II parte dell’Etica , stupisce l’uso apparentemente scolastico di questi termini, poiché fa da cornice al passo in cui Spinoza dà al termine forma un significato nuovo e decisamente meccanicista; dapprima, nella proposizione 10, si tratta della «forma dell’uomo», espressione usata come sinonimo di «essenza dell’uomo»; in seguito, nella proposizione 15, dell’«essere formale della mente umana», in questo caso dell’idea del corpo! Nel primo caso l’intento di Spinoza sembra chiaramente protrettico e anche polemico; secondo una prassi che gli è abbastanza abituale, comincia dando l’impressione di ricorrere a una nozione tradizionale, famigliare al lettore, per meglio sovvertirne in seguito il senso, immergendo così brutalmente il lettore in un clima intellettuale nuovo. Un’arma simile è in verità più efficace che non insediarsi d’acchito nel nuovo, presentando al lettore prevenuto dei concetti che costituiscono una novità, i quali non potranno che rimbalzare sul muro delle convinzioni in vigore. Spinoza, invece, sceglie abiti rassicuranti per rivestire personaggi dai costumi scandalosi e farli entrare nell’ambiente della buona società. Il procedimento è destabilizzante e quasi comico, poiché il destinatario vede i suoi punti di riferimento venirgli meno, trovandosi condotto a sua insaputa in contrade che preferiva ignorare. C’è qui certamente un’arte tutta spinoziana della maschera e della metamorfosi, che certo si esprime in primo luogo nella definizione di Dio in cui la formula sive Natura compare tardi nell’Etica , ma che raggiunge il livello del capolavoro nelle definizioni del capitolo III del Trattato 109 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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teologico-politico (governo di Dio, aiuto interno ed esterno di Dio, scelta di Dio, fortuna). La si potrebbe dire una strategia della chimera, poiché l’effetto viene ottenuto solo se la nozione che viene sovvertita conserva malgrado tutto il prestigio del suo antico significato. E senza dubbio ha contribuito non poco a quella collera che si abbatté sullo spinozismo a partire dalla fine del XVII secolo, diffondendo l’immagine di un pensatore fraudolento, le cui grandi tesi altisonanti non sarebbero che giochi di prestigio. Nel caso in questione, la domanda concerne i predicati corretti che convengono alla nozione di forma hominis. Retrospettivamente, si capisce che si trattava soprattutto di interrogarsi sulla natura stessa o sulla validità di ciò che si cercava – su che cosa potesse legittimamente significare il termine forma. Questo termine si vede ora privato di tutto il suo significato scolastico tradizionale; non solo la forma prende un senso individuante, ma diventa immanente all’estensione. Nel secondo caso (esse formale), quindi, a meno di un’equivocità totale attribuibile solo a negligenza o a un’incomprensibile provocazione, non può più trattarsi solo di riconoscere la distinzione di origine cartesiana tra la consistenza formale e quella rappresentativa (oggettiva) dell’idea. In realtà, non si può scartare l’ipotesi che la dottrina dell’individuo o della forma possa applicarsi anche ad attributi diversi dall’estensione, benché la definizione faccia riferimento all’estensione. Affermando l’immanenza della forma all’estensione, la dottrina suggerisce pure un’autonomia nell’organizzazione del pensiero; si potrebbe quindi supporre che, mediante la considerazione dell’esse formale dell’idea, Spinoza intenda ora estendere il concetto di forma all’ambito del pensiero. A sostegno di questo c’è immediatamente un argomento forte: l’«essere formale» dell’idea è definito, a sua volta, un composto. «L’idea che costituisce l’essere formale della mente umana non è semplice ma composta di moltissime idee»1 Sorge tutto un complesso di questioni: 1. Si può parlare di una problematica dell’individuazione cognitiva? 2. Nel caso, che legame avrebbe col tema del conceptum formari del Trattato sull’emendazione e in che misura sarebbe possibile individuarvi una problematica generale della formazione del pensiero? 3. Come pensare, quindi, un gioco di composizioni e scomposizioni mentali autonome non dipendenti dall’oggetto, ossia una causalità interna al mondo delle idee, che si sottragga alla metafora meccanicista attinta al mondo dei corpi? 4. Tutto questo si accorda da un lato con l’identità di ordine e connessione tra cose e idee e dall’altro col concetto dello spirito idea del corpo? Che fine fanno l’unità del conatus, che a prima vista sembra garantita dallo spirito, e la trasformazione individuale (il poeta amnestico), dove il primato sembra spettare al corpo?
Etica, II, 15 [tr. it. 856]. Per Gueroult la cosa sembra non presentare alcun dubbio: la precisione della def. II, 7 (delle cose singole), scrive, «è comprensibile chiaramente per i corpi, anche se Spinoza concepisce pure l’anima come un individuo composto di tante idee quanti sono i corpi che compongono il corpo di cui essa è l’idea (cfr: prop. 15)» (vol. 2, 25). 1
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In definitiva, questo complesso di questioni si muove in due direzioni: 1. il tema del conceptum formari e la sintesi che vi si manifesta (teoria della definizione genetica), 2. la presa in considerazione in Spinoza di un campo di trasformazioni mentali (la teoria dell’idea in quanto realtà esistente, in quanto spirito). È il problema generale del materialismo di Spinoza. Non certo nel senso che esisterebbe solo la materia e che l’anima stessa e le idee sarebbero corpi (il materialismo volgare nella sua forma semplice); l’eterogeneità degli attributi, la ripresa della distinzione reale cartesiana tra cosa estesa e cosa pensante bastano a eliminare quest’ipotesi. Non possiamo però evitare di chiederci in che senso e in che modo si componga un’idea. Il pensiero ha leggi di composizione sue proprie, o invece i rapporti tra le idee sono di ordine meccanico? In questo secondo caso si potrebbe rimproverare a Spinoza di confondere corpo e spirito, di attribuire a quest’ultimo tutto ciò che spetta al primo e, di conseguenza, di creare solo una metafora (materialismo volgare di tipo sofistico). Il problema riguarda di fatto l’idea di un materialismo integrale, che non accordi il primato alla materia intesa come estensione, ma presenti gli attributi come altrettante materie per formazioni e trasformazioni di un certo genere, materie che si rivelerebbero per altro identiche le une alle altre.2 Se Spinoza, nella lettera 64, dà un solo esempio di modo infinito mediato, la facies totius universi, non è forse perché questa si esprime contemporaneamente in tutti gli attributi? Dopo aver avanzato l’idea che nella fisica spinoziana la materia sia stranamente assente, quest’ipotesi può sorprendere. Con quell’idea volevamo però dire soltanto che era eliminato ogni dualismo e che non aveva senso continuare a parlare di materia se non sul piano della sostanza («la materia è ovunque la stessa...»), mentre sul piano dei modi i rapporti sono solo tra le forme («le leggi e le regole della natura, secondo le quali tutte le cose avvengono e si mutano da una forma all’altra, sono ovunque e sempre le stesse...»). In definitiva l’estensione è materia in quanto è potenza, potenza che si confonde con l’autoaffermazione della propria essenza nel dispiegarsi delle sue proprietà, ossia nella produzione necessaria, perché illimitata, di tutte le forme di cui la natura è capace; l’estensione è materia anche perché le forme si nutrono le une delle altre, costituendo un infinito dinamico in atto che trae il proprio divenire dal suo fondo stesso, è il dispiegarsi di una potenza assoluta secondo un ordine di determinazione reciproca. Indubbiamente si deve dire che il pensiero è sostanzialmente ovunque lo stesso, ma che sul piano dei modi non esistono che menti o idee; è quel che non
Non c’è contraddizione in questo. Richiamiamo che la distinzione degli attributi, per il fatto di essere di natura espressiva e non numerica, è non di meno fondata nell’essere. Gli attributi sono le forme oggettive (nel senso moderno) in cui si esprime la sostanza unica, non le forme soggettive della nostra conoscenza di essa. Per questo esse sono per l’intelletto (il solo a percepire la differenza di espressione) e, al tempo stesso, della sostanza (in quanto l’espressione rientra oramai nell’ontologia). Cfr. Etica, II, def. 4 e 6; 10, sc. 2
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capisce De Vries, per il quale, dalle idee si può solo risalire a una facoltà vuota.3 Sollevare il problema dell’essere formale delle idee è al tempo stesso accostarsi all’attributo del pensiero inteso come materia. A questo punto ci si imbatte nel problema dei rapporti formali tra idee. I nostri due compiti - stabilire che cosa significhi formare un concetto e quale sia la natura dei rapporti formali tra idee (le leggi e regole naturali permanenti secondo cui, per ipotesi, le idee esistenti si generano e sono destinate a passare da una forma a un’altra) - per la verità sono quasi tre. L’indagine sulla formazione del concetto incontra sulla sua strada, infatti, la questione della composizione rappresentativa e si prolunga in una genesi della concezione fantasmatica della trasformazione, con la quale Spinoza lotta di continuo. È l’altro versante dell’oblio apparente del modo infinito mediato dell’attributo pensiero nella lettera 64: il rapporto tra l’intelletto infinito e l’ordine delle idee delle cose esistenti (vanno distinti? - il problema della realtà dell’inadeguato).
1. Il problema dello statuto dell’idea infinita
Che si debba prendere in considerazione l’idea nel suo essere formale e in tal modo metterla in rapporto con un campo di produzione autonomo analogo a quello della fisica, ossia che si debba concepire una fisica cogitativa che avrebbe le sue leggi proprie e non sarebbe il semplice calco metaforico della fisica dei corpi, è quanto afferma la lettera posta in esergo, subito dopo aver definito l’universo esteso: Per quel che concerne lo spirito umano, ritengo che anch’esso sia una parte della natura; affermo, infatti, che nella natura esiste un infinito potere di pensare che, in quanto infinito, contiene in sé, oggettivamente, l’intera natura, i cui pensieri procedono nello stesso modo (eodem modo) della natura che ne è certo l’ideato. Affermo inoltre che lo spirito umano è questo stesso potere, non in quanto è infinito e coglie la natura per intero, ma in quanto è finito e percepisce soltanto un corpo umano, di maniera che io concepisco lo spirito umano come una parte di un qualche (cuiusdam) intelletto infinito» (lettera 32 a Oldenburg).4
Questo testo è interessante per la luce che getta sul problema dei modi infiniti del pensiero e in particolare sullo statuto dell’idea infinita di Dio. In effetti, questa infinita potenza di pensare che contiene obiettivamente la Natura corrisponde nell’Etica5 all’«idea infinita di Dio». 3 Lettera 9 a De Vries. Torneremo più avanti su questa lettera, che pone un problema d’interpretazione. 4 Rimaneggiamo completamente la traduzione dello Appuhn, che in questo caso è imprecisa [in questo caso, anziché riportare come di consueto la traduzione Mignini, si traduce la versione di Zourabichvili] 5 Etica, II, 8.
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Spinoza può chiamare intelletto l’idea di Dio così come definisce idea la mente,6 con la differenza che in Dio, essendo assente ogni genere di passione, intelletto e mente coincidono. Inoltre, nello stesso modo in cui l’universo esteso era la combinazione di un’infinità di corpi essi stessi composti, così l’intelletto infinito è la combinazione dell’infinità delle idee, a loro volta composte, di tali corpi.7 Sembra tuttavia che l’idea infinita di Dio, concepita come potenza infinita contenente oggettivamente la Natura, abbia perciò più lo statuto di attributo che di modo infinito; è uguale all’estensione, quasi fosse essa stessa tutto il pensiero. Su questo punto Spinoza pare piuttosto equivoco, poiché, mentre l’ens cogitans infinitum, che «può pensare infinite cose in infiniti modi», è Dio stesso,8 questo infinito plurale sembra rinviare già all’intelletto infinito come a una modificazione equivalente all’universo esteso.9 Dio come soggetto dell’intelletto e come oggetto dell’idea: sono due maniere diverse di affrontare lo stesso problema, quello dell’articolazione della sostanza e dei modi. Quest’articolazione, si sa, si chiama Natura. In questo passo, quel che conta è la scelta del termine Natura: l’idea infinita di Dio, detta anche intelletto, ha come oggetto Dio in quanto causa, in altre parole gli attributi (Natura naturante), ma anche e di conseguenza gli effetti, o affezioni, che ne seguono (Natura naturata).10 Si tratta dell’idea della Natura completa o del legame modi-sostanza, e per questo la II parte dell’ Etica è orientata a una logica del tipo Deus quatenus, la cui funzione è di togliere ogni oscurità a questo rapporto che in apparenza trasgredisce la dualità di uno e molteplice, di semplice e composto. In breve, per ricollegarsi al senso comune che attribuisce a Dio un intelletto, ossia la capacità di avere l’idea di ogni cosa, occorrerà che Spinoza si metta a parlare lo strano gergo dell’«in quanto». Per ciò stesso si rivelerà tutta la distanza che continua a separare la concezione spinoziana dell’intelletto infinito dalle concezioni consuete: questo intelletto non è «divino» nel senso che avrebbe come soggetto Dio, ma nel senso che esprime l’essenza di Dio (sotto l’attributo pensiero). Sembra imporsi una conclusione: l’universo mentale costituito dallo spirito totale, puro intelletto, è composto di spiriti, cioè di idee di cose esistenti, idee che sono dette esistere esse stesse, ossia durare.11 A questo livello tra poco porremo la questione del loro divenire e delle loro trasformazioni. C’è però una difficoltà su cui dobbiamo soffermarci. Per concepire quest’idea
Etica, II, 11-13 e lo scolio. Etica, II, 15, dim. 8 Etica, II, 1, sc. [tr. it. 837]. 9 Come testimonia la parentesi della proposizione I, 16. 10 Etica, II, 4 e dim. 11 Etica, II, 8, cor. 6 7
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di Dio o della Natura, Spinoza deve complicare lo statuto dell’attributo pensiero. Prendiamo la proposizione II, 8 dell’Etica: «Le idee delle cose singole, ossia dei modi non esistenti, devono essere comprese nell’idea infinita di Dio come le essenze formali delle cose singole, ossia dei modi, sono contenute negli attributi di Dio».
Perché non dire che queste idee sono contenute anch’esse, nella loro essenza, nell’attributo loro proprio (il pensiero)? Il fatto è che, come precisa nel corollario, Spinoza considera il problema dal punto di vista dell’esse obiectivum delle cose che non esistono. Queste, per due aspetti, non sono il nulla: esistono come pure essenze nell’attributo loro proprio ed esistono come oggetti nell’idea infinita di Dio. In compenso, dal punto di vista dell’idea o del suo esse formale, la dualità è meno intelligibile. Scrive Spinoza: earum esse obiectivum, sive ideae. Occorre dunque intendere che quando una cosa non esiste, la sua idea (o la sua mente) è compresa a un tempo nell’attributo pensiero e nell’idea infinita, il che non significa nulla, a meno di identificare le due cose. Ora, c’è un aspetto per il quale possiamo percepire quest’identità senza tradire minimamente lo statuto dell’attributo né quello dell’idea come modo infinito, ed è di comprendere che tutte le idee, anche quelle attualmente non esistenti, sono incluse come idee esistenti (o menti) nell’ordine e connessione costituenti l’intelletto infinito o idea di Dio, così come sono comprese come essenze formali di idee nell’attributo pensiero. Notiamo di passaggio che Spinoza ha manifestamente di mira la possibilità concreta di avere l’idea vera di una cosa non esistente, il che, tenuto conto della sua concezione della conoscenza, implica che questa cosa, a differenza di una finzione, possieda un’essenza e che sia possibile avere un’idea di questa essenza. Uno scultore in legno, ad esempio, concepisce in anticipo la statua che farà esistere in seguito.12 Com’è possibile avere l’idea di una cosa che esiste solo nella sua essenza? Come rappresentarsela quale sarebbe se esistesse? Essendo l’essenza di questa cosa contenuta nell’attributo senza il quale non potrebbe venir concepita, una volta che si possieda il concetto o l’idea adeguata di questo attributo, a partire da esso si potrà formare il concetto della cosa.13 Detto altrimenti, l’idea di ogni cosa finita è una proprietà deducibile per principio dall’idea infinita di Dio e questo, dal momento che si parte da esempi comuni come quello del progetto dell’artigiano, sembra portarci direttamente al terzo genere di conoscenza. Spinoza riteneva l’idea adeguata di una casa elaborata dall’architetto un esempio di conoscenza di terzo tipo? Per ora non possiamo affrontare l’argomento. Osserviamo soltanto di passaggio perché la formazione dell’idea di cosa non esistente non equivalga al suo venire all’esistenza come spirito nella durata: negativamente, perché l’idea
12 13
Riflessioni metafisiche, I, cap. 2. Etica, I, 8, sc. 2; II, 40, sc. 2.
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di una cosa esiste o dura solo se esiste o dura la cosa stessa;14 positivamente, perché in questo caso si è formato il concetto della cosa nella sua essenza e non in quanto essa dura,15 il che significa che la si possiede obiettivamente, mediante una rappresentazione dell’intelletto. Occorre dunque che la cosa sia contenuta oggettivamente nell’idea infinita di Dio come lo è formalmente nel suo proprio attributo o - detto con una formula equivalente - che la sua idea sia compresa in questa stessa idea di Dio come lo è nell’attributo pensiero. Ora dobbiamo però aggiungere: formare il concetto o l’idea della cosa è in qualche modo separare l’idea da sé stessa, scegliendo il suo oggetto per farne l’oggetto della mia idea senza toccare il suo essere formale, il quale verrà ad esistere e a durare nel momento assegnatogli dall’ordine e connessione delle idee identico all’ordine e connessione delle cose. Per questo, come vedremo, possiamo costruire veramente la cosa nel pensiero (oggettivamente) senza che ciò equivalga a produrla realmente (formalmente).
2. L’illusione dello sdoppiamento (il rapporto dell’essenza con l’esistenza)
Consideriamo le cose da un altro lato. Se, nell’Etica, dell’idea di Dio si dice che contiene16 oggettivamente le idee delle cose, questo contenere va oltre l’ambito delle idee delle cose esistenti al quale sembra restringerlo la lettera 32, per estendersi alle idee delle cose non esistenti (sottinteso: che possono esistere e quindi un giorno esisteranno, con la tacita esclusione da parte di Spinoza di quel che rientra nel fittizio). Quelle idee non sono riducibili a pure essenze di idee, contenute come d’obbligo nell’attributo pensiero fintantoché non esistono; o meglio, lo sono, ma solo sotto l’aspetto del loro «essere formale», mentre sembrano beneficiare di un’esistenza secondaria in quanto «essere oggettivo» delle cose di cui sono le idee, ma che non esistono più o non ancora. Molti commentatori hanno ammesso quest’esistenza a due fasi dell’idea, come hanno ammesso a volte un’esistenza separata delle essenze, dimenticando che queste hanno senso solo a titolo di essenze di cose e non di cose esse stesse.17
Etica, II, 8, cor. Per questo Appuhn ha ragione contro tutti gli altri traduttori quando interpreta l’espressione equivoca ut per se concipi possint con «La loro essenza, in effetti, < quella delle modificazioni non esistenti> è nondimeno contenuta in un’altra cosa mediante la quale si può pensarla» (Etica, I, 8, sc. 2 - sottolineatura nostra). 16 Per Spinoza continere e comprehendere sono termini sinonimi, come testimoniano la prop. II, 8 e il suo corollario presi insieme. 17 Gabriel Huan, in un libro per altro brillante e ingiustamente dimenticato, Le Dieu de Spinoza, interpreta così i modi infiniti immediati come il piano ontologico delle essenze, i modi infiniti mediati come il piano ontologico delle esistenze. Sorge allora inevitabilmente una domanda che 14 15
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A nostro parere, è questo un modo di compiacersi di quegli «enti verbali» che lo stesso Spinoza si premurava di denunciare, senza contare che non ha senso separare in questo modo le due metà inseparabili dell’idea. In realtà la chiave sta in quel «non più o non ancora» in base al quale diciamo che le idee esistono o non esistono, un criterio affatto relativo alla nostra situazione nell’ordine infinito della Natura. Ad esempio lo stesso Spinoza, che nel momento in cui redige l’Etica è un caso di realtà esistente, non lo è più in relazione a noi. In relazione a Dio, per contro, è evidente che queste distinzioni sono nulle, poiché implicano la durata. L’uomo Spinoza non perde il suo posto nell’universo, né sul piano fisico né su quello mentale, poiché per universo si deve intendere non lo stato presente del mondo, ma una trama complessa e infinita di cause finite che, data la limitazione reciproca che le caratterizza, si svolge in una durata infinita. Per questo le cose singole, quando entrano nella durata, continuano tuttavia ad essere «contenute negli attributi di Dio» - e ciò si suppone valga anche per le loro idee, contenute nell’idea infinita di Dio, sia che esistano sia che non esistano.18 Che altro significa questo se non che Dio non produce né essenze né esistenze ma cose, infinita infinitis modis come dice la proposizione I, 16,19 che si sdoppiano in essenze ed esistenze solo dal punto di vista tutto relativo che è quello della finitezza? La proposizione I, 25, secondo cui «Dio è causa efficiente non soltanto dell’esistenza, ma anche dell’essenza delle cose», in base al suo scolio rinvia in realtà alla proposizione I, 16. Ora, questo rinvio non è comprensibile che in base alla definizione dell’attributo, che stabilisce una distinzione di ragione tra l’essenza e l’esistenza. Va precisato che questa distinzione non ha nulla a che vedere col fatto che l’essenza di Dio includa la sua esistenza, ma rinvia invece a un’operazione dell’intelletto («Per attributo intendo ciò che l’intelletto percepisce di una sostanza come costituente la sua essenza»). Indubbiamente le cose finite non includono un’essenza necessaria; ciò non vuol dire affatto che possano non
Spinoza non si è mai posto: perché occorre che le essenze esistano anche nello spazio-tempo? Huan dà la sola risposta possibile, che non è un controsenso ma semplicemente senza senso: era possibile, era logicamente concepibile (31). Benché a volta abbia parole dure per Huan, Martial Gueroult riprende per l’essenziale quest’interpretazione dei modi infiniti e distingue «l’essenza della cosa singola esistente nella durata», conosciuta «mediante l’immaginazione secondo i rapporti di tempo», e «l’essenza eterna della cosa singola, oggetto dell’intelletto puro che, per definizione, è senza rapporto col tempo» (vol. 2, 334). Gilles Deleuze si spinge più avanti di tutti nella reificazione dell’essenza: «le essenze hanno un’esistenza o realtà fisica» che fa tutt’uno col loro essere causate (Spinoza et le problème de l’expression, 176). - Bernard Rousset, per contro, è uno dei pochi a sottolineare che l’essenza «non è un altro essere che potrebbe godere di un’esistenza immutabile e necessaria contrapposta all’essere contingente e perituro, ma è la definizione propria dell’essere in questione, fosse anche contingente e perituro» (La perspecive finale de l’ Étique et le problème de la cohérence du spinozisme, 29). 18 Etica, II, 8, cor. 19 Infinita va inteso qui come infinite cose.
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esistere, poiché Dio, producendole, con uno stesso atto è la causa efficiente della loro essenza e della loro esistenza. Esistenza non necessaria significa solo che certe cose non esistono per la loro stessa natura, tanto che la loro essenza può essere concepita come un’essenza che rimanda a una cosa per il momento inesistente;20 ma questo è possibile proprio perché queste cose sono limitate, finite e non possono esistere che per effetto di una determinazione esterna, ossia nella durata. La separazione dell’essenza e dell’esistenza è relativa alla durata e non ha senso che in essa e per essa (non per questo diciamo che dal punto di vista dell’eternità l’esistenza delle cose finite divenga necessaria nello stesso senso di quella della sostanza - questo punto si chiarirà progressivamente). Osserviamo il testo di Spinoza: non vi si contrappongono mai un regno delle essenze e uno delle esistenze. Vi si tratta solo di essenze di cose, ora contenute ora attuali,21 di cose esistenti in quanto contenute o in quanto durano.22 É la stessa alternativa espressa due volte. Dal punto di vista di Dio le forme sono tutte attuali, o meglio non vi sono che forme; dal punto di vista della cosa finita, le forme in atto sono poca cosa al confronto di quelle, passate o future, il cui concatenamento attuale è gravido (per parlare come Leibniz). Se è vero che per Spinoza non c’è potenza che non sia in atto, occorre però precisare: sub specie aeternitatis. Dal punto di vista della durata, infatti, non solo certe cose sono destinate a perfezionarsi, ma l’universo stesso si presenta come una materia ricca di forme in potenza. Esistente o no, ciascuno di noi resta sempre compreso negli attributi di Dio; non vediamo nulla che giustifichi l’idea di un’uscita dagli attributi.23 Non c’è che una produzione, e «tutto ciò che è, è in Dio».24 Come la cosa non si sdoppia in due entità a seconda che esista o non esista,
Al contrario, la cosa la cui esistenza è necessaria ha una natura tale che «non può essere concepita se non come esistente» (Etica, I, def. 1). 21 Etica, II, 8 e III, 7. 22 Etica, II, 8, cor. 23 Gilles Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, 195, invoca «una posizione esterna, fuori dell’attributo», che corrisponde a una «forma d’esteriorità propriamente modale». Non si può dargli torto quanto all’emergere di un ordine di esteriorità sul piano dell’esistenza dei modi. Ma, da un lato, non ci pare che dall’esteriorità reciproca si possa concludere a un’uscita fuori dell’attributo (il solo argomento è il testo precoce delle Riflessioni metafisiche, I, cap. 2); non vediamo nemmeno che interesse vi sia a farlo; d’altra parte, come abbiamo mostrato, l’ordine di tipo esteriore che caratterizza l’esistenza dei modi include quelli attualmente non esistenti, il che porta a relativizzare o, al contrario, ad assolutizzare - ma le due cose si equivalgono - l’appartenenza agli attributi. Gueroult, non nel commento alla prop. II, 8 e relativo corollario ma nel suo studio comparativo delle concezioni cartesiana e spinozista dell’estensione, sviluppa una tesi un po’ caricaturale: per Cartesio le parti o modi sono «nella sostanza e non fuori di essa», mentre in Spinoza la sostanza «respinge la parti fuori di sé» (vol. 1, 550). L’analisi è certo convincente, ma l’uso che vi si fa dei valori spaziali di dentro e fuori si scontra troppo con l’idea d’immanenza. 24 Etica, I, 15. 20
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così non c’è nemmeno una doppia esistenza dell’idea; come abbiamo già intravisto e più avanti approfondiremo, c’è solo la possibilità che uno spirito finito formi l’idea di una cosa non esistente. Cominciamo dunque lo studio della Natura pensante, per individuare le linee di una logica del pensare.
3. La tesi dell’identità reale dell’idea e del suo oggetto, e le sue ambiguità
L’idea presenta un duplice aspetto: è un certo modo di pensare ma, a differenza dagli altri modi di pensare che sono «gli affetti dell’anima», possiede la caratteristica di avere un oggetto (ideatum) del quale fornisce la rappresentazione. Benché questa sia l’intenzione di un oggetto, non c’è mezzo di distinguerla dall’esse formale dell’idea, quasi la rappresentazione avesse bisogno, come avviene nella pittura, di un supporto, ossia di una materia che in questo caso sarebbe tutta mentale. L’esse objectivum è detto, infatti, della cosa stessa, esterna all’idea e da questa rappresentata. Malgrado ciò, si dirà che può esistere obiettivamente, ossia nel pensiero, anche una cosa non esistente: questa, in tal caso, è l’oggetto di un’idea. Non è lo stesso sul versante dell’idea; si distinguerà, certo, l’idea dal suo oggetto, ma si suppone che quest’oggetto sia fuori di essa, così che il confine non corre all’interno dell’idea: questa, nel suo essere formale, non è altro che una rappresentazione. Se Spinoza esige di prendere in considerazione l’idea nel suo essere formale, è perché non crede che l’accordo esterno tra essa e il suo oggetto basti a fondare la sua verità; l’idea deve anche essere «adeguata», ossia, fatta astrazione dal suo rapporto con l’oggetto, deve possedere tutte le denominazioni intrinseche dell’idea vera (l’adeguazione non si riferisce più al rapporto ideaoggetto ma a quello causa-effetto). Si distingueranno quindi rappresentazioni distinte e rappresentazioni confuse, idee prodotte dall’immaginazione o dall’intelletto ecc. La scienza dell’idea adeguata non è altro che una scienza della rappresentazione, e il Trattato sull’emendazione dell’intelletto non è il suo studio sistematico. Cartesio faceva un uso ambiguo della realtà oggettiva, attribuendola a volte all’idea, pensando che le idee si distinguano tra loro per il loro oggetto e per il grado di realtà che questo afferma in esse: così le idee delle sostanze «partecipano per rappresentazione a un numero maggiore di gradi di essere o di perfezione» che non le idee dei modi.25 Per Spinoza, al contrario, le idee sono per se stesse affermazioni e non possono quindi essere paragonate a immagini o a quadri, come faceva Cartesio, poiché l’immagine è l’effetto di una cosa esterna sull’occhio
25
Meditazioni, III, Alquié, vol. 2, 438 [tr. it. 43]
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e sul cervello.26 Sono concetti, che in quanto tali rimandano a una potenza o attività dello spirito, anche se questa potenza di agire può essere al suo livello più basso: anche il peggiore degl’ignoranti forma dei concetti (Spinoza distingue con la massima cura la formazione fisica dell’immagine dalla formazione mentale del concetto, donde la sua diffidenza nei confronti della percezione).27 Questo duplice aspetto dell’idea o della rappresentazione mette la fisica cogitativa davanti a una temibile difficoltà: le idee si connettono le une alle altre secondo una regola di causalità autonoma valida per ogni attributo,28 e al tempo stesso il loro connettersi è lo stesso di quello delle cose (Spinoza si premura di esprimere questa situazione nei due sensi, perché non si sia tentati di credere che riconosce un primato alle cose).29 A dire il vero, quest’identità della connessione è facile da cogliere intuitivamente e non è una tesi astratta, come di solito si crede; soltanto è paradossale, ossia urta l’interpretazione comune della dualità di corpo e spirito. É quest’interpretazione, invece, ad essere astratta, in quanto non può in alcun modo pretendere di essere desunta dall’esperienza, che pone un rapporto di esteriorità tra l’idea e il suo oggetto, immaginando cioè l’oggetto fuori dell’idea. Se però ci si rende conto che, per sperimentare la distinzione delle cose, lo spirito non esce da sé stesso, si potrà interpretare, ad esempio, una passeggiata per strada, indifferentemente come un concatenarsi di cose o come un concatenarsi di idee, e si comprenderà che proprio questo corrisponde all’esperienza comune. Spinoza pone come assioma che «noi abbiamo le idee delle affezioni del corpo»,30 così che non accade nulla al nostro corpo che non abbia contemporaneamente il suo corrispettivo ideale: la stessa realtà è appresa fisicamente e mentalmente. Certamente vedremo che per certi aspetti questa tesi è difficile da sostenere. Già il carattere «intenzionale» dell’idea sembra inclinare la bilancia dalla parte del corpo, come se questo attirasse a sé lo spirito. L’ordine delle idee riproduce quello delle cose o delle cause, per il fatto stesso che le idee sono delle rappresentazioni e benché quest’ordine sia anch’esso causale e le idee che connette siano le cose stesse considerate sotto l’attributo pensiero. Verosimilmente, occorre combinare una genesi formale con una genesi obiettiva: un’idea non ha come causa solo un’altra idea, ma il concatenamento causale stesso sembra modellarsi, senza reciprocità, su quello delle cose o delle cause (corpi, idee, ecc.).31 Apparentemente Spinoza lo riconosce quando definisce la memoria; questa, in effetti, «non è altro che una certa concatenazione di idee che implicano la natura delle cose Etica, II, 43, sc.; 49 con dim. del cor., e sc. Etica, II, def. 3 (le idee sono concetti dello spirito che quest’ultimo forma - format - in quanto cosa pensante) con la relativa spiegazione; 48, sc. (le idee non sono immagini come quelle che si formano - formantur - nell’occhio e nel cervello, bensì concetti dello spirito). 28 Etica, I, 28. 29 Etica, II, 6, cor.; 7. 30 Etica, II, 13, dim. (riformulazione dell’ass. 4). 31 Spinoza parla indifferentemente di «cose» o di «cause»: II, 7; 9, dim. 1 e 2; 19, dim., ecc. 26 27
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che sono fuori del corpo umano, concatenazione che nella mente avviene secondo (secundum) l’ordine e la concatenazione delle affezioni del corpo umano». D’altro canto, commentando l’ultima parte di questa definizione, distingue questa concatenazione seconda dalla «concatenazione delle idee che avviene secondo l’ordine dell’intelletto, con il quale la mente percepisce le cose mediante le loro cause prime e che è lo stesso in tutti gli uomini».32 Le idee possono dunque connettersi seguendo ordini diversi, l’ordine esterno delle affezioni del corpo e l’ordine interno dell’intelletto, e tutto avviene come se l’equilibrio fosse ora interiorizzato dallo spirito: i pesi non sono più l’ordine e connessione delle cose da un lato e l’ordine e connessione delle idee dall’altro, bensì, all’interno della mente stessa, l’ordine delle affezioni del corpo e l’ordine dell’intelletto, rivali l’uno dell’altro nell’imporre una legge alla mente. L’etica consisterà precisamente nel cercare di rovesciare l’equilibrio al fine di «ordinare e concatenare le affezioni del corpo secondo un ordine conforme all’intelletto»;33 in ogni uomo la concatenazione delle idee è guidata in parte dall’intelletto, in parte dalla memoria, e il compito è di far crescere la parte intellettuale a spese dell’altra.34 In proposito è significativo che la parte V dell’ Etica inizi con una proposizione che non fa che enunciare di nuovo, ma in senso inverso, l’identità delle due concatenazioni, escludendo così ogni primato: le affezioni del corpo si connettono secondo (prout) le idee. Comunque stiano le cose, Spinoza evoca comunque «l’esistenza presente della mente» in termini di dipendenza (pendere) nei confronti dell’esistenza presente del corpo che quella avvolge.35 Pertanto, la fisica del pensiero appare subito più complessa e fragile di quella dei corpi. I corpi si concatenano secondo un ordine invariabile che si esprime nelle leggi della trasmissione del moto; le idee, invece, possono concatenarsi secondo l’ordine delle affezioni del corpo, che Spinoza chiama anche «ordine comune della Natura», oppure secondo l’ordine dell’intelletto. Il primo ordine è quello in cui il corpo, e di conseguenza la mente, incontrano le cose. Quest’ordine, del tutto esteriore alla natura propria del corpo, e per questo motivo detto comune, non può apparire alla mente che fortuito, accidentale, più disordine che ordine, così che la mente, quando ne è vinta e si affida ad esso come al solo ordine possibile, può persino concludere alla confusione di un caos di tutte le cose.36
Etica, II, 18,sc. [tr. it. 860].Cfr. anche III, def. aff. 4, spiegazione. Etica, V, 10 [tr. it. 1061]. 34 Etica, V, 20, sc.; 38, sc.; 39, dim. e sc. 35 Etica, III, 11, sc. [tr. it. 909]. 36 Il termine «vinta» rimanda allo scolio IV, 20. Se dobbiamo credere alla confessione contenuta nella lettera 30 a Oldenburg, Spinoza sembra aver conosciuto personalmente questa condizione, che è quella della malinconia (e, in maniera diversa, anche la «malattia mortale», evocata come un’esperienza personale all’inizio del Trattato sull’emendazione dell’intelletto, ne è forse la testimonianza). Per essere più precisi, questo sentimento di caos o di confusione definisce in Spinoza un momento di crisi, di cui il meno che si possa dire è che non ne uscì vinto. La credenza nel caos è il rovescio 32 33
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La mente, scrive Spinoza, in questi casi è «determinata dall’esterno» anziché essere «determinata dall’interno».37 Ma, tenuto conto del duplice principio della distinzione formale e dell’identità reale dell’idea e della cosa, è concepibile questa determinazione esterna della mente in virtù dell’incontro fortuito con le cose? É possibile che Spinoza si sia a tal punto contraddetto infrangendo i requisiti minimi di una fisica cogitativa?
4. Lineamenti di una fisica cogitativa
Modificando un poco un concetto di Deleuze, potremmo dire che Spinoza propone di instaurare un «piano d’immanenza» del pensiero, così come Galileo e Cartesio avevano contribuito a instaurarlo per l’estensione. É noto che le facoltà - intelletto, volontà - sono escluse dalla nuova logica dello spirito come altrettante illusioni da dissipare e, se si conservano gli stessi nomi di intelletto e di immaginazione (o di memoria), è solo per designare diversi regimi della mente, degli ordini differenti secondo cui possono connettersi le idee; dietro le idee non c’è più nulla che assomigli a un supporto o a una coscienza - a una sostanza - cui vengano attribuite. Spinoza riconosce che l’idea ha un oggetto, ma rifiuta di considerarla come fosse essa stessa un oggetto presentato dall’esterno alla mente. La conseguenza ben nota è che la mente dev’essere pensata sul piano delle sole idee. Ci sono solo idee, la mente stessa ha la consistenza dell’idea, e questo «piano d’immanenza» sembra corrispondere all’intelletto infinito introdotto fin dall’inizio del De Mente. Di qui, immediatamente due questioni: 1. Questo intelletto infinito, attribuibile a Dio, è soltanto l’ordine delle idee adeguate, o comprende anche l’insieme delle idee formate da noi, comprese quelle inadeguate? 2. Non occorre ammettere modi di pensare diversi dall’idea, ossia tutto ciò che corrisponde alla denominazione corrente di «affetti dell’anima»?38 Spinoza dovrà dunque mostrare, da un lato che si tratta di un solo e identico ordine (a questo scopo esporrà la logica del Deus quatenus, che permette di articolare i due punti di vista, dell’eternità e della durata); d’altra parte, che l’affetto può e deve essere derivato dall’idea (che significa meno un’intellettualizzazione
o il correlato di quella, finalista, che immagina l’uomo come uno stato nello stato; è la delusione di constatare che la Natura non è fatta per noi, quando invece noi non possiamo impedirci di pensare che dovrebbe esserlo (ossia che dovrebbe conformarsi alle leggi della nostra natura). Cfr. a questo proposito il Trattato politico, II, 8 e sotto, cap. VII. 37 Etica, II, 29, sc. Cfr. anche la lettera 37 a Bouwmeester e l’ambiguità della formula: «l’intelletto non è, come il corpo, soggetto agli eventi». In realtà, si tratta di contrapporre due regimi dello spirito, e poco dopo Spinoza riconosce che «le restanti percezioni... dipendono in larga parte (maxime pendere) dalla fortuna» [tr. it. 1393]. 38 Etica, II, ass. 3.
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della psicologia che un profondo rimaneggiamento della concezione dell’idea).39 Dunque, ci sono solo idee, tra le altre l’idea che la stessa mente è. Tuttavia, diciamo comunemente che abbiamo o che la nostra mente ha idee. Che cos’è un’idea che ha un’idea? In altri termini che logica Spinoza sostituirà a questa rappresentazione triviale dell’avere? Spinoza definisce la mente un’idea composta, le cui parti sono le idee delle parti del corpo di cui essa è l’oggetto. Ora, noi abbiamo queste idee per il fatto che la mente percepisce le affezioni del corpo. In certa misura ciò equivale a dire che la mente ha l’idea del corpo e che è quest’idea, non essendo essa stessa nient’altro che il pensiero in atto di ciò che accade al corpo. Al corpo, però, accade di continuo qualche cosa di nuovo - urti, alimentazione. Se «sentiamo» tutto questo, è perché nella nostra mente si formano contemporaneamente le idee di queste affezioni, o piuttosto perché queste affezioni del corpo sono al tempo stesso affetti dello spirito.40 Le idee che ha la mente cambiano quindi di continuo. Tentiamo ora di trasporre tutto questo in una logica della composizione delle idee. Nel caso di un urto, il corpo incontrato modifica la superficie di una delle parti del corpo (nel caso il cervello), imprimendovi la propria traccia. In senso stretto, quindi, dovremmo concludere che si modifica, cambia, l’idea che abbiamo di questa parte - o idea del cervello - non che ci si presenta una nuova idea. Spinoza sostiene tuttavia che a ciascun modo in cui il corpo viene affetto corrisponde un’idea.41 Può farlo, proprio perché la parte che subisce l’affezione porta la traccia del corpo che la produce, così che l’idea corrispondente «deve implicare la natura del corpo umano e, simultaneamente, la natura del corpo esterno»:42 le variazioni dell’idea del cervello sono al tempo stesso «idee che abbiamo dei corpi esterni».43 Il fenomeno della traccia consente così di spiegare questa situazione paradossale in cui, in un certo senso e nella misura in cui è possibile esprimersi così, abbiamo delle idee senza esserle, come se in questo caso la logica della composizione venisse infranta. Tuttavia non lo è, poiché avere una traccia non equivale ad assorbimento, e il nostro corpo non diventa il corpo da cui riceve l’urto; al tempo stesso la mente non diventa la mente della cosa incontrata né l’idea di questo corpo esterno, ma include il suo oggetto. Che l’idea includa oggettivamente i corpi esterni che producono affezioni in quello di cui è l’idea è il dato essenziale, perché questo ci fa intravedere la conseguenza, curiosa ma necessaria, che la nostra mente è in rapporto con altre menti. Per il tramite del corpo? Ma perché occorrerebbe che i rapporti intermentali
Donde la doppia definizione dell’affetto all’inizio della III parte dell’Etica. Etica, II, 16. 42 Ibid. [tr. it. 856]. 43 Etica, II, 16, cor. 2 [tr. it. 857]. 40 41
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si spiegassero su un piano diverso dal loro? Evidentemente c’imbarazzano, da un lato, la convinzione comune che solo la parola, le espressioni del viso, i trasalimenti del corpo informino indirettamente (e quindi in via congetturale) il nostro spirito di quanto accade a un altro, dall’altro la nostra prevenzione illuminata contro ogni idea di telepatia. In materia, però, c’è molta confusione, poiché la saggezza apparente condivide con l’ignoranza il non potersi rappresentare il rapporto tra gli spiriti altrimenti che alla maniera metaforica di un contatto o di una trasparenza reciproca. Se togliamo a queste immagini quel che hanno di chimerico (la confusione della natura estesa con quella pensante) e comprendiamo, da un lato, che un’idea è limitata solo da un’altra idea e, dall’altro, che la mente stessa è idea, non vi sarà più nessun ostacolo ragionevole a concepire un rapporto diretto tra gli spiriti. Quale sarà l’espressione dell’alimentazione nella mente? Se quest’ultima è solo la sostituzione di parti di natura simile, non c’è ragione che la mente ne sia interessata, se non nella misura in cui l’alimentazione obbedisce al ciclo del bisogno, all’alternanza di mancanza e sazietà; intravediamo come l’idea diventi desiderio o si sforzi, quanto il corpo, di perseverare nel suo essere proprio di idea.44 Lo spirito non forma dunque un’idea nuova, e la crescita del corpo, pensata in termini soltanto quantitativi, dà luogo solo a una sempre maggior affermazione della stessa idea.45 Tuttavia il problema si porrebbe se la mente fosse indotta a formare l’idea di una nuova parte del corpo, o al contrario ad affermare una nuova idea che escludesse quella di una parte perduta. Questo significherebbe che la mente stessa integra una parte in più nella propria composizione. Si presentano tre questioni: non abbiamo motivo di chiedere donde venga quest’idea nuova, se è vero che niente nasce da niente? Lo stesso composto ne è solo modificato o ne è trasformato? E come affermare nella mente l’esclusione di una parte del corpo se non formando un’altra idea del corpo? Per la prima, le considerazioni precedenti sul rapporto tra le menti suggeriscono già gli elementi per una risposta. Per la seconda, non potremo proporre niente se prima non avremo posto il problema dell’individuazione del composto mentale. Venendo invece alla terza, arriviamo forse al motivo per cui Spinoza, in una lettera a Blyenberg, interpreta la perdita della vista come un cambiamento di essenza.
A partire dalla proposizione III, 9 dell’Etica, Spinoza applica alla mente il concetto di conatus. Sarebbero qui possibili sviluppi sull’ipocondria e, in maniera generale, sulla distanza variabile tra ciò che è utile al corpo e la rappresentazione che la mente ha di tale utilità. Per questo, oltre ad appagare la sete e la fame, occorre anche lottare contro la malinconia, idea di un corpo infinitamente sminuito. 45 Etica, III, 11 e sc.[tr. it. 835]. Principi della filosofia di Cartesio, II, ass. 2: 44
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5. Trasformazione mentale e ipotesi sull’amnesia
Dico dunque in primo luogo che la privazione non è l’atto del privare, ma soltanto una semplice e pura carenza, che in sé stessa è niente. É senza dubbio soltanto un ente di ragione o un modo di pensare che formiamo quando confrontiamo tra loro le cose. Diciamo, ad esempio, che il cieco è privato della vista perché lo immaginiamo facilmente come vedente, sia che tale immaginazione sorga dal fatto che lo compariamo con gli altri che vedono, sia che confrontiamo la sua condizione presente con la passata, quando vedeva. E se consideriamo quest’uomo con tale criterio, ossia confrontando la sua natura con la natura degli altri o con la sua passata, allora affermiamo che la vista appartiene alla sua natura e pertanto diciamo che egli ne è privo. Ma quando si considera il decreto di Dio e la sua natura, non possiamo affermare di quell’uomo, più della pietra, che è privo della vista, perché in quel tempo la vista non compete a quell’uomo più di quanto competa alla pietra: a quell’uomo non appartiene altro ed è suo soltanto ciò che l’intelletto e la volontà divina gli hanno conferito. (lettera 21 a Blyenbergh, sottolineatura nell’originale [tr. it. 1367-1368]).
Questo testo si ricollega a quelle esperienze di pensiero di cui Spinoza forse non controlla tutte le conseguenze (un altro esempio sarebbero le risposte che dà a Tschirnhaus a proposito della pluralità degli attributi). Per lo meno è un testo decisivo per il modo in cui argomenta il suo giudizio sulla trasformazione. Una lettura troppo rapida darebbe l’impressione che dalla privazione di una delle capacità del corpo Spinoza inferisce la sua trasformazione. Tentando di ricostruire il suo ragionamento, cercheremmo di conciliare la perdita della vista con l’instaurarsi di nuovi rapporti tra le parti ancora in grado di comunicarsi i loro movimenti. Dal punto di vista della dottrina questo non sarebbe errato, ma sarebbe un non vedere che il testo, lungi dal non fornire una ragione, ne propone una di un ordine affatto diverso. In realtà, la trasformazione viene spiegata sul piano mentale: l’idea di un corpo non vedente non può essere la stessa di un corpo che vede. Non è questione di modifica: non può essere numericamente la stessa idea. Solo la negazione, ossia il pensiero di una privazione consente di stabilire una continuità tra le due idee, ma questo pensiero è solo un ente di ragione che, anziché affermare un’identità, parte dal confronto tra due idee distinte. Ed è giocoforza che le idee siano due, dal momento che una contraddice l’altra: se l’idea di un uomo vedente rimanesse la stessa dopo la sua perdita della vista, conterrebbe una contraddizione. Si obietterà che la contraddizione è solo parziale e che quest’uomo non è definito dalla sua vista. Ma se quest’uomo ha un corpo che vede, la vista appartiene alla sua essenza come una proprietà deducibile da essa; infatti, «dico che compete all’essenza di una cosa ciò che, dato, la cosa è necessariamente posta; tolto, la cosa è necessariamente tolta».46 Ecco dunque che
46 Etica, II, def. 2 [tr. it. 834]. Lo stesso rapporto è formulabile, naturalmente, in termini di causa ed effetto (cfr. I, ass. 3). Cfr. anche Principi della filosofia di Cartesio, II, ass. 2: «Ciò che può essere tolto da una cosa, rimanendo questa integra, non costituisce la sua essenza; invece, ciò che, tolto, toglie anche la cosa, costituisce l’essenza di questa». [tr. it. 290].
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cosa dice la lettera a Blyenbergh: il cieco non è lo stesso uomo di prima, poiché la sua mente, in quanto è oramai l’idea di un corpo cui manca la vista, non è più la stessa. Questo argomento suggerisce due osservazioni: 1. il carattere necessariamente sintetico dell’idea (studieremo questo aspetto nel prossimo capitolo, a proposito della definizione genetica), 2. lo statuto problematico dell’amnesia. A proposito di quest’ultimo punto, è noto il tema dei dolori allucinatori dell’amputato, ad esempio in Cartesio; niente di simile in Spinoza, al contrario; o meglio, per un pensatore che la logica del suo ragionamento conduce a legare la sottrazione di una parte del corpo a un mutamento della mente - e quindi del corpo - questo fenomeno esige una spiegazione speciale e difficile. Proponiamo un’ipotesi, inevitabilmente rischiosa, che si basa sull’argomento seguente: nel caso del poeta dello scolio IV, 39, la nuova proporzione di quiete e movimento s’instaura tra le stesse parti del corpo (secondo il testo ma anche perché, in caso contrario, la sostituzione non sarebbe spiegabile e sarebbe illusoria).47 Non è dunque il caso di pensare che queste parti, per effetto di non si sa quale urto generale, siano indotte a subire un rimaneggiamento delle loro superfici che elimini ogni traccia precedente; o piuttosto, dal momento che l’ex poeta ha dimenticato la «sua» vita passata, possiamo credere che ciò avvenga per una parte del suo cervello, ma non per quella in cui sono iscritte le associazioni del linguaggio, poiché non ha perso l’uso della sua lingua materna.48 Le dimensioni della cancellatura dipendono dalle situazioni, ossia da quanta violenza sia stata esercitata sui corpi da altri corpi. Perciò possiamo, anzi dobbiamo, pensare che la mente si trasformi senza che sia annientata del tutto la memoria e che in una mente che non è più la stessa rimangano tuttavia dei ricordi. A sostegno di questa conseguenza c’è anche un argomento un po’ diverso: l’idea del corpo è mutata, ma è composta sempre delle stesse idee, poiché il corpo si trasforma conservando le stesse parti. Questo fa pensare che l’idea del corpo non è la somma delle idee di cui si compone, cioè un insieme qualsiasi ben poco diverso da una collazione, ma una certa concatenazione, modificabile, di queste idee (sapendo che qui dobbiamo parlare sul piano dell’intelletto e non dell’immaginazione, con cui di solito la mente si rappresenta il suo oggetto secondo il modo in cui le parti del corpo si producono reciprocamente affezioni,
Cfr. infra, cap. VII. É tuttavia indubbio che, se c’è trasformazione del corpo, c’è anche trasformazione della mente (come afferma già il Breve trattato, II, prefazione, nota); non capiamo che cosa autorizzi Rivaud a parlare di un’alterazione «che non comporta tuttavia la distruzione della personalità» ed a concludere a delle «apparenti lacerazioni dell’individualità» (La physique de Spinoza, in Chronicon spinozanum, vol. 4, 38). La ripetizione crediderit, credit è una base assai fragile che, per quanto grande sia la prudenza di Spinoza, non basta a capovolgere il senso iniziale dello scolio IV, 39. Tuttavia non viene nemmeno invocata. La supposta follia dell’ex poeta amnesico, poi, permette a Rivaud di evitare il problema. 47 48
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comunicandosi i loro movimenti). Otteniamo quindi quest’idea straordinaria, ma stimolante e promettente, secondo cui, nella mente trasformata di un uomo, si aggirano dei ricordi che non lo riguardano o che non può riconoscere come suoi. Si spiegherebbe così in maniera spinoziana l’allucinazione dell’amputato, donde proviene un senso di privazione che lo mette in disaccordo con se stesso, poiché il ricordo si collega a una natura che non è più la sua. Ma allora - ci si chiederà - perché alla sua nascita lo spirito non trova in sé ricordi di altre esistenze individuali alle quali partecipavano le parti del suo corpo? Abbiamo visto nel capitolo precedente in che senso Spinoza poteva scrivere che i corpi degli uomini «esistevano già da prima sebbene formati in altro modo». Ora previene la domanda affermando che «non può avvenire che ci ricordiamo di essere esistiti prima del corpo, poiché non è possibile che nel corpo se ne dia alcuna traccia», e collocando subito la nostra eternità su un piano diverso da quello della memoria.49 L’impossibilità rinvia evidentemente al fatto che, se la materia del nostro corpo non gli appartiene in proprio e gli preesiste alio modo, questo corpo non è una combinazione di parti già presenti in Natura (un braccio, una testa... come nella visione di Empedocle), ma una combinazione di combinazioni: il nostro cervello, unico supporto organico della memoria, si è formato insieme con noi, integrando particelle o comunità di tessuti nel momento stesso in cui queste si componevano integrando particelle formate che esistevano precedentemente in altri individui. Forse è venuto il momento di spingerci fin dove ci è consentito sul problema dell’embriologia o della composizione del corpo umano - un problema sul quale, come abbiamo visto, Spinoza è stato attento a non avventurarsi. Come rivedremo nell’ultima sezione del presente capitolo, uno scolio dell’Etica richiama la necessità di un seme.50 In questo modo Spinoza sottolinea che, in base al legame di natura che unisce un effetto alla sua causa, da una forma non può nascerne un’altra qualsiasi: non si può derivare un uomo da un cavallo né viceversa. Ciononostante il carattere essenziale e deduttivo del nesso causale non garantisce la comunanza di essenza tra la causa e l’effetto; nemmeno spiega come si formi il seme, né evidentemente come la forma umana del bambino preesista nei genitori. Un punto è certo: Spinoza non poteva optare che per il preformismo. Non meno certo è un secondo punto: il suo preformismo non poteva essere lo stesso di Leibniz, per il quale la forma è contemporanea alla creazione e non è composta. In Spinoza c’è il problema della formazione del seme nel corpo a partire da elementi che non hanno forma umana (ricordiamo che il corpo deve la sua natura non a quella delle sue parti ma al rapporto che le unisce); come spiegarla senza il finalismo? Infine, senza troppi rischi a proposito dello sviluppo, possiamo far presente un terzo punto, anche se si tratta del maggior paradosso:
49 50
Etica, V, 23, sc. [tr. it. 1071]. Etica, I, 8, sc.
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il corpo dell’uomo si forma contemporaneamente alle sue parti, addirittura contemporaneamente alle parti delle parti. L’ordine gerarchico delle integrazioni è simultaneo, almeno per i livelli più elevati. Tornando all’amnesia, è probabile che un caso principalmente interessasse Spinoza, dato che riguarda ogni uomo, quello del rapporto dell’adulto col bambino che è stato (cosa che l’avrebbe condotto a sconvolgere il discorso tradizionale sulla crescita e, con un accenno ragionevolmente reticente, ad avanzare l’idea di una trasformazione corporea).51 Forse ha persino esitato tra due versioni. All’inizio quella di un’amnesia infantile precoce, legata allo sviluppo di nuove facoltà sia mentali che corporee (marcia, linguaggio, ragionamento, secondo gli esempi dello scolio V, 6), dove la perdita quasi totale dei ricordi si spiegherebbe bene con l’ampiezza del cambiamento subito dal cervello.52 In seguito quella di un’amnesia diversa, che separerebbe non più il bambino dal poppante che è stato, ma l’uomo adulto dalla sua infanzia, e compatibile con la conservazione dei ricordi: ricordo la «mia» infanzia, ma non sono più quello che l’ha vissuta e i miei ricordi mi sono come estranei, nella misura in cui lo sguardo che rivolgo ad essi non è quello del soggetto che li ha vissuti; in questo senso il vissuto dell’infanzia è perduto irrevocabilmente, benché del mio corpo di bambino conservi le tracce le cui idee stanno ancora nella mia mente come in una terra d’esilio, strappate alla loro antica comunità (qui il modello migliore sarebbe quello dei ricordi collettivi dell’esilio in patria di un popolo cui una rivoluzione riuscisse veramente a dare una forma politica nuova senza soffocarlo sotto la barbarie della Solitudine). Qui non c’è nessuna nostalgia, poiché il nuovo soggetto può guardare al suo passato solo con uno sguardo perplesso e incredulo: «E se questo sembra incredibile, che cosa diremo dei bambini? Un uomo di età avanzata crede la loro natura tanto diversa dalla propria da non potersi persuadere di essere mai stato bambino, se non formulasse riguardo a sé tale congettura a partire dagli altri».53 Questa seconda amnesia, affatto diversa da quella della prima infanzia, in quanto consiste soprattutto in un mutamento soggettivo, è il presupposto implicito di quest’osservazione del Trattato teologico-politico, la sola in tutta l’opera di Spinoza che faccia riferimento ai pregiudizi dell’infanzia, contrariamente a Cartesio che non perde un’occasione per richiamarli: «... e sebbene sin dalla puerizia io sia stato imbevuto delle comuni opinioni sulla Scrittura, non ho potuto alla fine non ammettere queste cose».54 Non sono che ipotesi la cui verifica oltrepassa i confini del presente lavoro. Osserviamo soltanto che il passaggio dall’infanzia all’età adulta è in apparenza il caso inverso di quello del cieco o dell’amputato: l’adulto si è liberato di una
Etica, V, 39, sc. Sarebbe la versione dello scolio V, 39 dell’ Etica. 53 Etica, IV, 39, sc. [tr. it. 1010]. 54 Trattato teologico-politico, cap. IX, Appuhn 182 [tr. it. 592]. 51 52
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privazione. Poiché tuttavia il problema logico è lo stesso - quello del nulla di pensiero rappresentato da questa «idea» di privazione - era necessario che Spinoza fosse indotto a riconsiderare il rapporto con l’infanzia. La nostra convinzione è che, conformemente alla sua massima, Spinoza non si sia associato alla tradizionale deplorazione dell’infanzia, ma abbia cercato al contrario di comprenderla, benché sembri sfidare la ragione separandoci da noi stessi. In tal modo intendeva riconciliare la filosofia con l’esperienza comune, che ritiene l’infanzia «una cosa naturale e necessaria».55
6. Lo statuto della sensazione
La definizione della mente come idea composta delle idee del corpo si scontra, com’è noto, con un’obiezione del senso comune: è possibile dire che un uomo ha coscienza del suo sangue o del suo cervello (e non soltanto che ha la coscienza astratta di avere un cervello, in forza di una congettura per analogia desunta dalla dissezione dei cadaveri)? La risposta spinoziana è necessariamente affermativa, benché l’idea abbia un’idea assai confusa di tali parti. Aggiungiamo in primo luogo che non siamo tenuti ad avere le idee delle parti del nostro sangue (chilo, linfa), ancor meno delle particelle che le compongono, poiché il corpo è composto solo di certi individui che stringono tra loro rapporti cinetici costanti, e non degl’individui di cui a loro volta sono composti questi ultimi secondo rapporti che sono loro propri. Questi individui sono duri (ossa, cranio) molli (carne, nervi, cervello) e fluidi (sangue, «spiriti animali»). Aggiungiamo inoltre che le sensazioni e le percezioni non sono altro che le idee di ciò che accade al nostro cervello. Il fatto che lo spirito sia un simile composto pone tuttavia certi problemi che occorre chiarire: lo statuto della sensazione e il principio d’unità o d’individuazione dello spirito. Sappiamo già che le percezioni non sono idee che verrebbero ad aggiungersi alle idee delle parti del corpo per combinarsi con esse, perché fanno tutt’uno con esse, o almeno con quelle di certe parti molli (cervello). Su questo punto Spinoza sta col senso comune: poiché le nostre ossa ricevono poche affezioni, le sentiamo poco; un osso può solo spezzarsi, il che non lo modifica ma lo scompone. Si può tuttavia supporre che non esistano parti assolutamente dure, e che quindi la sensazione non sia mai nulla. In altri termini, le ossa hanno poco spirito, ma ne hanno tuttavia un po’ più della pietra, e già nel XVII secolo si insiste volentieri sulla plasticità delle ossa del bambino.56
55 Etica, V, 6, sc. Quest’interpretazione, accompagnata dalle necessarie analisi a proposito della memoria, è sviluppata in Le conservatisme paradoxal de Spinoza..., cit. 56 Cartesio, d’altra parte, vi vede una condizione della crescita e della nutrizione e, in definitiva, della vita; cfr. La description du corps humain, III, Alquié, vol. 3, 827-828.
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Qual è ora lo statuto della sensazione?57 Colori, suoni, odori, e insieme piacere e dolore, sono fatti della mente o del corpo? «Noi sentiamo (nos sentimus) che un certo corpo è affetto in molti modi».58 Che significa questo nos? Non si direbbe che Spinoza ha voluto mettere da parte il problema o che, perplesso, si è accontentato di un’espressione aporetica? Sarebbe vano invocare qui l’unione della mente e del corpo, che in Spinoza non è un fatto ma solo una parola, poiché non si tratta di due cose da unire, ma di due espressioni di un solo e identico evento.59 Sarebbe però altrettanto assurdo ricorrere a quest’identità per dichiarare la sensazione al tempo stesso corporea e mentale (chimera). Il problema è sapere se la sensazione è l’espressione corporea o mentale di uno stesso processo. Osserviamo che nemmeno l’animale costituisce un criterio, dal momento che Spinoza, che gli attribuisce la sensazione,60 gli riconosce anche una mente.61 Una sola risposta sembra possibile: Spinoza fornisce il principio di una descrizione del correlato fisico della sensazione, ma la sensazione stessa è mentale.62 Certamente il suo uso del termine «immagine» (imago) è equivoco, ma su questo punto si è dato la pena di spiegarsi: in senso stretto il termine dovrebbe riferirsi a quelle tracce che i corpi esterni imprimono sul cervello tramite gli spiriti animali, poiché l’assimilazione dell’idea a un’immagine lascia intendere che la sua causa è l’oggetto che rappresenta;63 per non andare contro l’uso corrente, tuttavia, si chiameranno ugualmente immagini le idee delle affezioni corporee che rappresentano corpi esterni, «anche se esse non riproducono le figure delle cose».64 In Spinoza, quindi, l’«immaginazione» designa sempre un certo registro di produzioni mentali. Ora, se la sensazione non fosse omogenea al ricordo, la spiegazione della memoria si rivelerebbe illusoria; scivolerebbe surrettiziamente dal piano del corpo (immagine attuale) al piano delle idee (immagini delle cose passate). Per questo, subito dopo aver sottolineato che userà imago nel
Etica, II, ass. 4 [tr. it. 836]. Com’è sua abitudine Spinoza ritiene preferibile conservare il termine, pur proponendone una definizione che ne snatura completamente il senso; cfr. Etica, II, 13, sc. 60 Etica, III, 57, sc.; IV, 37, sc. 1. 61 Etica, II, 13, sc. 62 Questo è vero fin dal commento ai Principi: il «sentire» è riferito all’intelletto (I, 12, cor.; e 21, dim.) e le Riflessioni metafisiche precisano che «immaginare non è altro che sentire le tracce che si trovano nel cervello a causa del movimento degli spiriti» (I, cap. 1, Appuhn, vol. 1, 338 [tr. it. 344]). La cosa è chiara anche nel Breve trattato: «Infatti assumete che il corpo sia unito con la mente secondo la comune dottrina dei filosofi, tuttavia il corpo non comprende mai né la mente diviene estesa» (II, cap. XVI, § 3, n. 2 [tr. it. 163]). Nel XVII secolo questa divisione è ammessa da tutte le filosofie che respingono la concezione scolastica della sensazione secondo il principio cartesiano della «distinzione reale». Non è ammessa invece da Hobbes il quale, negando ogni realtà diversa dal corpo, contro questa concezione argomenta in modo diverso. 63 Etica, II, ass. 5; 48, sc. Per l’uso nel senso stretto cfr. V, 1. Cfr. anche II, 49, sc. (le immagini sono movimenti dei corpo), e III, 2, sc. (le immagini sono affezioni del corpo). 64 Etica, II, 17, sc. [tr.it. 859]. 58 59
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senso di una produzione mentale, Spinoza designa col termine rerum imagines le rappresentazioni sonore e visive, la cui associazione, conservatasi, spiega la formazione del linguaggio.65 La validità di quest’interpretazione è attestata da testi diversi. Così, il nos dell’assioma 4, che a prima vista sembrava tanto vago, si chiarisce con l’assioma che segue, «noi non sentiamo né percepiamo nessuna cosa singola oltre i corpi e i modi di pensare», che non ha senso che riferito all’idea di corpi e all’idea di idee; si chiarisce anche col corollario della proposizione 13, «da qui segue che l’uomo consta di mente e di corpo e che il corpo umano, così come lo sentiamo, esiste», che rimanda la sensazione del proprio corpo all’esistenza di un’idea del corpo inseparabile da esso. Infine, la ragione più forte sta nella stessa distinzione di pensiero ed estensione. Se «essere affetto» si dice tanto del corpo quanto della mente,66 nel corpo questo fatto si esprime in termini di movimento,67 nella mente in termini di sensazione. Come potrebbe essere altrimenti se i corpi non sono che moto e quiete, velocità e lentezza, secondo la prima proprietà che si deduce dall’attributo estensione? Perciò, malgrado le apparenze, Guerinot ha in certo modo ragione di tradurre «affectus» con «sentimento», scelta che prova la volontà di distinguere l’affectus (mentale) dall’affectio (corporea) ed ha contro di sé solo l’incapacità o il rifiuto di Spinoza di trovare un terzo termine per designarne l’identità:68 è una prova della sua comprensione del testo.69 Rimane l’uso del termine nella famosa formula finale: «sentiamo e sperimentiamo di essere eterni».70 Non si tratta di un uso atipico. Da un lato, la frase che segue riferisce espressamente la sensazione alla mente; dall’altro, si tratta ancora del proprio corpo, donde la somiglianza formale con l’assioma della II parte (nos sentimus). Questa volta, però, noi sentiamo il nostro corpo sub aeternitatis specie, con una conoscenza del terzo genere.71
7. L’unità della mente
La mente non è una collezione d’idee, ma si compone a partire da una tale collezione: è essa stessa una idea. Per poterlo affermare, non occorre un principio
Etica, II, 18, sc. Etica, III, def. 3. 67 Etica, II, ass. 1 dopo 13. 68 Cfr. la prima definizione dell’affetto, all’inizio della parte III dell’Etica. In assenza di un terzo termine, Spinoza utilizza nella definizione affectus come termine generico, e affectus animi allorché il termine rischierebbe di essere ambiguo. Nelle ultime tre parti dell’Etica il termine affectus viene usato correntemente in un senso esclusivamente mentale, e in tal caso si distingue dall’affectio. 69 Contrariamente a Gueroult, ci pare, per il quale il sentimento resta «incluso nella sfera del corpo e delle sue affezioni» (vol. 2, 138). 70 Etica, V, 23, sc. 71 Cfr. sotto, cap. VI. 65 66
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d’individuazione analogo a quello dei corpi, anche se non definibile in termini di quiete e movimento? Si può dire che Spinoza costruisce l’unità della mente? La nozione stessa viene introdotta nella proposizione II, 11, là dove si afferma che l’essenza – o forma – dell’uomo è costituita da certe modificazioni degli attributi di Dio, senza che noi sappiamo ancora quali.72 A permettere a Spinoza di «darsi» la mente è l’assioma 2, secondo il quale «l’uomo pensa». Si è spesso notata la distanza tra questo assioma e l’ «Io penso» cartesiano, ma occorre aggiungere che questa differenza si esprime vistosamente nel modo in cui Spinoza interpreta il suo assioma: «L’essenza dell’uomo (secondo il corollario della proposizione precedente) è costituita da certi modi degli attributi di Dio; cioè (per l’assioma 2) da modi di pensare…».73 A tutta prima si ha l’impressione che Spinoza ripeta il gesto cartesiano: il pensiero si dà prima del corpo, è oggetto di una certezza immediata; tuttavia, anche la sensazione del proprio corpo è innalzata al rango di assioma, e si sa che nella domanda spinoziana il dubbio è assente, essendo il segno totalmente negativo di una «fluttuazione dell’anima». In verità, quel che è decisivo in quest’interpretazione dell’assioma è che, anziché darsi d’acchito l’unità del pensiero sotto forma di un soggetto espresso grammaticalmente in prima persona, Spinoza parte da una molteplicità di modi di pensare. La formula «l’uomo pensa» è d’altra parte la prova di un ribaltamento completo, non solo in quanto cancella l’Io, ma anche perché ripristina l’uomo, che Cartesio aveva subito messo da parte («Che cosa, dunque, ho io creduto dapprima di essere? Senza difficoltà, ho pensato di essere un uomo. Ma che cosa è un uomo…?»).74 Anche Cartesio sembra partire da una molteplicità («Ma mi arresterò piuttosto a considerare qui i pensieri, che nascevan prima da sé stessi nel mio spirito…»),75 per tentare di determinare che cos’è un uomo, ma i due procedimenti non si equivalgono. In Spinoza la ricerca dell’essenza dell’uomo s’inserisce senz’altro in un ordine metodico: 1. si dimostra che non consiste in una sostanza ma in modificazioni, 2. ci si chiede quali siano queste modificazioni. Che cosa fa, da parte sua, Cartesio nella II meditazione? I suoi pensieri lo orientano verso l’idea che lui, l’uomo, sarebbe costituito da un corpo, concepito come una macchina, corpo la cui essenza, non certo l’esistenza, è oggetto di una conoscenza certa (ne dà una definizione mediante la figura, che Spinoza non potrà che respingere). Ma al richiamo al dubbio della meditazione precedente si accompagna nel testo un fatto notevole, poiché la strada, per altro senza sbocco, della definizione dell’uomo mediante il corpo a partire da una molteplicità anonima di pensieri viene immediatamente sostituita da un io: «Ma io, chi sono io…». È come un nuovo inizio: la ricerca non riparte
Etica, II, cor. Etica, II, 11, dim. [tr. it. 846]. Sottolineatura nostra. 74 Descartes, Meditations, II, Alquié, 416 [tr. it. 28]. 75 Ibidem, 417 [tr.it. 28]. 72 73
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più da pensieri dati ma dall’Io, e con ciò la domanda «che cos’è l’uomo?» scompare, per lasciare il posto all’unica domanda: «chi sono io?». Meglio non si sarebbe potuto sfuggire alla domanda sull’unità del pensiero ed evitare di fare dell’Io un problema, come sembrava richiedere la domanda iniziale. Partendo dall’Io e definendolo come pensiero, Cartesio può concludere senza difficoltà all’unità di «una cosa che pensa» e, come si sa, solo in seguito ritroverà la pluralità dei pensieri dati: «E che cos’è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente. Certo non è poco, se tutte queste cose appartengono alla mia natura».76 È stata così posta una sostanza pensante, che potrà far apparire tutti questi pensieri come modi, ma sarà un senso tutto diverso quello in cui Spinoza qualificherà come modi questa pluralità: dopo aver mostrato, cioè, che l’uomo non può essere una sostanza e aver concluso che la sua essenza deve essere costituita da tale pluralità. Avendo iniziato con la lezione di Cartesio, il lettore tende a ridurla a due soli modi, anima e corpo, e il seguito del testo sembra confortarlo in questa intuizione, che sfocia effettivamente nell’affermazione di un corpo e dell’idea di questo corpo. Soltanto, qui il lettore prende per un assioma ciò che sarà solo un risultato o un insieme di proposizioni dedotte. Spinoza non parte dall’unità del soggetto pensante ma vi arriva, e la strada che ve lo conduce è notevole. Ripercorriamola. Attribuendo la molteplicità dei modi di pensare a «uno stesso individuo», l’assioma 3 contiene in germe il problema dell’unità della mente.77 È degno di nota che Spinoza non dica: «a una stessa mente», e che la ricerca di quel che è lo spirito umano lo porti appunto a cercare che cosa sia un individuo, per produrlo a partire dalla molteplicità («Quando alcuni corpi… diremo che quei corpi sono uniti tra loro e che tutti insieme compongono un solo corpo o individuo, che si distingue dagli altri per questa unione dei corpi»).78 Questo assioma 3, sempre basandosi sulla dimostrazione della proposizione 11, sembra contenere anche il principio della soluzione, ossia il primato dell’idea su tutti gli altri modi di pensare. Non è questa un’illusione? Il ragionamento di Spinoza sembra strano, come provano le divergenze di traduzione. Citiamo Guerinot: l’essenza dell’uomo è costituita da certi modi di pensare, «dei quali l’idea di tutti (secondo l’assioma 3) è anteriore per natura ed, essendo data, fa sì che gli altri modi (quelli a cui l’idea è anteriore per natura) debbano esistere nello stesso individuo (secondo lo stesso assioma). Perciò, quindi, ciò che costituisce l’essere dello spirito umano è in primo luogo un’idea».79 Parrebbe un
Ivi, 420-421 [tr. it. 30-31]. Dopo aver fatto leva sull’assioma 2, la dimostrazione della proposizione II, 11 rimanda all’assioma 3. 78 Etica, II, def. dopo 13 [tr. it. 852]. 79 Etica, II, 11. Sottolineatura nostra. 76 77
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gioco di bussolotti, facilitato nel testo latino dall’assenza dell’articolo. Che cosa, in effetti, autorizza la maggior parte dei traduttori, che di solito optano per l’articolo definito (la mente umana, il corpo umano, ecc.), a tradurre con un’idea, quando si tratta evidentemente dell’idea in senso generico? Probabilmente il richiamo all’assioma 3 («devono esistere nello stesso individuo»). Quest’ultimo, tuttavia, non risolve niente, e su questo punto dobbiamo essere grati a Bernard Pautrat, che è il solo a proporre: l’idea. In altri termini, l’assioma sembra contribuire a risolvere il problema della natura dello spirito umano, ma non quello della sua unità; cosa normale, visto che la domanda riguardava appunto la natura dello spirito umano. Di fatto, dobbiamo risalire indietro nel testo, tornando alla controversa espressione «quorum omnium (per Axiom. 3 hujus) idea natura prior est». I traduttori, per analogia con l’assioma citato, capiscono che l’idea in senso generico viene prima di tutti gli altri modi del pensiero intesi come gli altri generi. Solo Guerinot interpreta l’espressione come un complemento sostantivo: l’idea di tutti questi modi (anziché come un partitivo). Se fa questo, è probabilmente perché ha capito che in questa dimostrazione era presente sotto sotto il problema dell’unità, e che per poter dire «un’idea» al termine del ragionamento, occorreva aver tradotto all’inizio «l’idea di tutti questi modi», come il latino autorizza a fare. Gli altri traduttori non si preoccupano affatto di questo passaggio brusco dal generale al particolare, linguisticamente impercettibile in latino, ma che assomiglia a un errore elementare di logica. Se si leggono i commenti, sembra che la posizione implicita di Martial Gueroult e di Pierre Macherey sia quella di vedervi solo un falso problema, ritenendo senz’altro che l’unità sia data o acquisita in partenza nel titolo stesso (De Mente) della II parte e nell’assioma che parla dello «stesso individuo». Come direbbe Leibniz, perché uno spirito possa essere trattato come una cosa, occorre vederlo fin dall’inizio come una cosa. Il problema però non riguarda questo presupposto, che è evidente. La risposta è nota in partenza; cerchiamo invece la soluzione che permette a Spinoza di fondarla razionalmente, così come fonda razionalmente l’unità del corpo mediante la sua definizione dell’individuo. Prendiamo le cose per l’altro verso e chiediamoci se la definizione dell’individuo può considerarsi generica e quindi valida per ogni tipo di individualità, fosse pure quella mentale. I due precedenti usi del termine, all’inizio della II parte, lo fanno pensare.80 Spinoza, tuttavia, definisce solo ciò che è composto di corpi, non di idee, e poiché il moto è una proprietà dell’estensione, nulla ci consente di estrapolare la definizione, immaginando che le idee possano essere governate dalle stesse leggi dei corpi; sarebbe una pseudo-fisica cogitativa, una fisica corporea della mente, metaforica o illusoria. Per contro, abbiamo motivo di chiederci perché Spinoza non fornisca un’analoga definizione per quell’individuo spirituale che
80
Etica, II, def. 7 e ass. 3.
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è la mente; è evidente che non basta più rispondere presupponendolo e che la lettura di Guerinot è l’intuizione di una vera difficoltà. È però accettabile sul piano della dottrina? Lo esclude il seguito del testo, definendo la mente mediante l’idea del corpo, non dell’idea dei modi di pensare che la costituiscono solo secondariamente. Non possiamo nemmeno vedervi un presentimento dell’idea mentis introdotta nella proposizione 21, poiché questa è definita idea ideae, come idea di una cosa semplice e non di una collezione di cui assicurerebbe l’unità. Sembra perciò che Guerinot abbia pensato allo scolio della proposizione 21: lo stesso concetto riceve inoltre un terzo nome, forma ideae, che riecheggia l’esse formale dell’idea definito da un composto. Senza dubbio la forma della mente è un’idea, ma questa, essendo molto composta, è un individuo, termine che compare per altro nello scolio: (secondo la proposizione 13) «La mente e il corpo sono un solo e medesimo individuo». Che significa questo richiamo? La proposizione 13, dalla quale si desume l’unità numerica del corpo e della mente, afferma che «l’oggetto dell’idea che costituisce la mente umana è il corpo, ossia un certo modo dell’estensione esistente in atto e niente altro». Non si deve comprendere, dunque, che l’unità della mente, o la sua individualità, rimanda all’unità del corpo del quale essa è l’oggetto? Non si tratta di un’unità oggettiva? Nella prospettiva di una fisica cogitativa immanente, una conclusione simile sarebbe certamente deludente. Ma soprattutto è aberrante: l’essere formale dell’idea si trova ad essere definito dall’essere oggettivo della cosa che essa rappresenta, quando invece Spinoza intende per forma ideae l’idea in quanto questa «venga considerata come un modo di pensare, senza relazione con l’oggetto».81 La difficoltà è che nell’Etica non troviamo altra via d’uscita che questa soluzione contraddittoria. Lo scolio II, 13 è sintomatico della difficoltà; vi si vede Spinoza aderire, almeno nei termini, alla tesi cartesiana, secondo la quale il grado di realtà dell’idea dipende dal grado di realtà del suo oggetto, di cui s’è visto che tutta la sua dottrina è una confutazione.82 A questo problema si ricollega quello dell’interpretazione, da parte dello stesso Spinoza, della passività della mente come dipendenza esterna dalla condizione dei corpi, quasi che la mente e il corpo fossero due cose distinte di cui l’una sarebbe in grado di essere causa dell’altra; eppure, fin dalle prime righe dell’Etica, viene detto che la mente non ha un fuori, se non quello costituito
Etica, II, 21, sc. È eloquente il silenzio dei commentatori su questo aspetto dello scolio, che tuttavia giustifica l’inserimento di un De natura Corporum nel bel mezzo del De Mente. Giustamente Gueroult (vol. 2, 144) ricorda l’origine cartesiana del ragionamento, senza però sottolineare quanto sia in contrasto a ciò che sviluppa per altro la II parte dell’Etica usando l’espressione «idea adeguata». Quanto a Pierre Macherey (vol. 2, 120-121), nella sua parafrasi la reversibilità dell’uguaglianza tra corpo e mente, che il testo maltratta, viene ripristinata come se nulla fosse (beninteso, nel suo complesso la dottrina gli dà ragione). 81 82
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dalle altre menti.83 Possiamo presagire che la dipendenza esterna sia un’illusione generata dalla stessa passività, in quanto venga immaginata come la dipendenza da una cosa diversa dal pensiero, e che occorrerà, non negarla, ma reinterpretarne il senso all’interno del pensiero stesso. Comunque stiano le cose, lo scolio II, 13 ribadisce che «per determinare in che cosa la mente umana differisca dalle altre e in che cosa sia superiore alle altre, ci è necessario conoscere la natura del suo oggetto, cioè, come abbiamo detto, del corpo umano»; la forma – sembra – s’inferisce dall’oggetto, e questo pare confermi la proposizione 14 sull’essere formale dell’idea, che desume la complessità di quest’ultima da quella del corpo di cui è l’oggetto. Ci rimane allora un’ultima possibilità: cercare a monte di questa dualità della forma e dell’oggetto che interiorizza quella dell’idea e della cosa – ricordando che, se l’idea corrisponde alla cosa o la rappresenta, è perché l’idea è la cosa e per questa via ha anch’essa una realtà in quanto idea (esse formale). Fidiamoci dell’insistenza di Spinoza, non a definire un’individualità dello spirito accanto a quella del corpo, ma a ribadire l’identità numerica della mente e del corpo. L’espressione «un solo e medesimo individuo»84 discende dallo scolio della proposizione 13, che traduce in termini di unione di mente e corpo il concetto di mente come idea del corpo, al pari della variante dell’assioma 4 («il corpo umano, così come lo sentiamo, esiste») che ne è il corollario e che ricorreva alla nozione di individuo dicendolo «animato», qualunque esso fosse: ogni individualità è il dispiegarsi di un’esistenza simultaneamente sul piano corporeo e su quello mentale (donde l’affermazione che i bruti sentono). «Un solo e medesimo individuo»; attraverso lo scolio II, 7 il testo rimanda alla proposizione I, 16, cioè alla produzione delle cose. Questa proposizione, che afferma che dalla necessità della natura divina discendono infinita infinitis modis, in quanto l’infinità delle sue affezioni o proprietà si moltiplica per l’infinità degli attributi, viene così chiosata nello scolio I, 7: «il modo dell’estensione e l’idea di questo modo < che, come sappiamo per l’assioma 3, è a sua volta un modo del pensiero> sono una sola e medesima cosa (una eademque res)». Infinita, come facevamo notare sopra, va inteso, senza possibilità di equivoci, come l’infinità delle cose, ognuna delle quali esprime per principio la natura divina in un’infinità di attributi diversi (questa conseguenza, che Tschirnhaus spinge Spinoza a trarre, evidentemente rimette in causa l’idea che noi saremmo semplicemente costituiti di una mente e di un corpo).85 Ora, quell’unum est idem individuum rinvia evidentemente a questa una eademque res.86
83 Etica, I, def. 2: «Così un pensiero è determinato da un altro pensiero. Ma il corpo non è limitato dal pensiero né il pensiero dal corpo» [tr. it. 787]. 84 Etica, II, 21, sc. 85 Cfr. la lettera 65 di Tschirnhaus a la risposta di Spinoza nella lettera 66. 86 Le due espressioni figurano d’altra parte fianco a fianco nello scolio II,21.
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La conseguenza è che l’unità della mente, a monte della dualità espressiva che ci definisce, è fondata nell’individualità della cosa prodotta da Dio come una delle sue innumerevoli proprietà. È questa, crediamo, la sola soluzione che si offriva a Spinoza, nell’Etica, per risolvere il problema dell’unità della mente sull’unico piano su cui si possa porre correttamente, quello della forma dell’idea. In base al principio generale della fisica del pensiero, non è quindi l’oggetto a dare alla mente la sua unità o che fa di essa un individuo: «L’essere formale delle idee riconosce come causa Dio in quanto è considerato soltanto come cosa pensante e non in quanto si esplica mediante altro attributo. Cioè, le idee tanto degli attributi di Dio quanto delle cose singole non riconoscono come causa efficiente gli stessi ideati, ossia le cose percepite, ma Dio stesso in quanto è cosa pensante» (Etica, II, 5 [tr. it. 839].
Non potremo spingerci oltre su questo argomento se non esaminando preliminarmente la teoria della definizione, così come viene esposta nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto e nella corrispondenza. Riconosciamo quindi che il De Mente è segnato da una tensione tra l’impossibilità, apparente ma mai chiarita, di spiegare il composto mentale o la forma dell’idea altrimenti che in base alla complessità corrispondente del proprio corpo, e l’affermazione di un’unità individuale più profonda della dualità del corpo e della mente, che garantisce l’unità formale di quest’ultima. Rientra nel campo segnato da questa tensione la strana formulazione della proposizione II, 4, che attribuisce la produzione delle cose non più alla Natura divina nella sua assoluta infinitezza ma all’idea di Dio, come se un’idea potesse essere la causa delle cose, come se gli oggetti dipendessero questa volta dall’essere formale delle idee contenute nell’idea di Dio e come se le cose derivassero formalmente dal loro esse objectivum prodotto su un piano del tutto mentale.
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Capitolo V Parlare in spinoziano Esplorare il campo della fisica del pensiero è solo un gioco gratuito, un capriccio di commentatore? Si direbbe che Spinoza ne pone le basi, o almeno ne enuncia la possibilità teorica, senza tuttavia impegnarvisi né costruirne le categorie.1 Forse, però, in questo caso siamo vittime delle prevenzioni di una falsa razionalità: lo spettro della chimera rinasce di continuo. Non immaginiamo una fisica cogitativa altro che metaforica, e crediamo di fare una grande battaglia denunciandola; in realtà rimaniamo prigionieri della sua immagine, esitando sul significato stesso che va dato all’«essere formale dell’idea». E se, invece, Spinoza avesse tentato di pensare questa fisica, di farne materia per l’intelletto? La dimostrazione della proposizione II, 11 che abbiamo commentato sopra è seguita da un corollario che Spinoza pensa bene di accompagnare con un avvertimento (che citiamo nella sapida traduzione di Pierre Macherey):2 «Qui, senza dubbio, i lettori si attaccheranno e cominceranno a immaginare una quantità di cose che faranno perdere loro un’enormità di tempo; per questa ragione, li prego con insistenza di venire avanti con me a passo lento e di non pronunciare su queste cose nessun giudizio prima di aver letto tutto fino in fondo» (Etica, II, 11, scolio).
In un certo senso quest’invito varrebbe per qualsiasi testo filosofico e, senza dubbio, ha realmente una portata generale, poiché mette in piena luce la natura del discorso filosofico, invitando a considerarlo per quello che è (idea ideae). Spinoza, infatti, ha appena insegnato al lettore i rudimenti di un codice che oramai verrà usato in numerose dimostrazioni del De Mente: «Da ciò segue che la mente umana è parte dell’intelletto infinito di Dio. Perciò, quando diciamo che la mente umana percepisce questo o quello, non diciamo altro se non che Dio, non in quanto è infinito, ma in quanto si esplica mediante la natura della menta umana, ossia in quanto costituisce l’essenza della mente umana, ha questa o quella idea; e quando diciamo che Dio ha questa o quella idea non soltanto in quanto costituisce la natura della mente umana, ma in quanto ha, insieme all’idea della mente umana, anche l’idea di un’altra cosa, allora diciamo che la mente umana percepisce la cosa in parte, ossia inadeguatamente» (Etica, II, 11, corollario [tr. it. 847]- sottolineatura nostra).
1 Stando allo scarso seguito della proposizione II, 15 che, secondo la trama ricostruita da P. Macherey, vol. 1, 297, compare una sola volta. 2 Macherey, vol 2, 108.
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In effetti è possibile che i lettori si attacchino, ma in genere accade che si stacchino. Qui, infatti, più che un codice, che è sempre possibile tradurre, i lettori devono assimilare una lingua, astratta e scostante, senza la quale tuttavia la dottrina non è formulabile. Ogni vero spinoziano sa che le meraviglie iniziano proprio qui – come se tutto l’edificio dimostrativo del pensiero dell’immanenza, costruito nella I parte, cominciasse improvvisamente a funzionare, diventando una pratica o un pensiero in atto. Spinoza passa da un discorso De Deo a un discorso De Mente, ossia anche dall’idea alla sua forma. È questa una delle tradizionali difficoltà dell’Etica: l’idea di Dio è, da una parte, ciò che Spinoza produce mediante la definizione di Dio (essenza), le dimostrazioni della sua esistenza (inclusa nell’essenza) e la deduzione delle cose (proprietà che derivano dall’essenza); dall’altra, è un momento di questa deduzione, una modificazione infinita di Dio, che nella II parte si rivela come contenente tutte le menti, a cominciare da quella che ha preteso formarla. È necessario che si tratti sempre della stessa idea e che si manifesti così l’intenzione di Spinoza: reinserire il movimento gnoseologico nell’ordine ontologico. Sul piano obiettivo l’idea di Dio è quella di un essere assolutamente infinito3 ma, su quello formale, è descritta come un intelletto infinito. Chi possiede, ossia chi è, l’idea di Dio? Nessun altro che Dio stesso, naturalmente, ma Dio in quanto sorge la sua idea, la quale ha per oggetto tutta la sua potenza di esistere e di agire e per forma tutta la sua potenza di pensare: dal punto di vista formale o ontologico, l’idea di Dio s’identifica con una produzione infinita di effetti di pensiero che sono altrettante idee o menti. Ora pensare l’idea di Dio – e non più Dio – è l’oggetto di quella che, sulla base della lettera 32 a Oldenburg, noi chiamiamo la fisica cogitativa. Perciò, dice Spinoza, dobbiamo metterci a parlare questa lingua nuova che, in omaggio a Gérard Lebrun, chiameremo «lo spinoziano».4
1. Che cosa significa «avere» in spinoziano
Lo spinoziano è in primo luogo la legittimazione del linguaggio dell’avere. Dire «Dio ha un’idea»5 non significa altro che Dio sviluppa una delle sue proprietà, produce un effetto che deriva dalla sua natura, produce in sé stesso un’affezione in un modo determinato. Un’idea è una proprietà di Dio e in questo senso l’avere raggiunge l’essere, coincide con esso (possiamo tuttavia presagire che non sarà esattamente lo stesso per una mente finita, poiché le idee di quest’ultima sono lungi dall’essere sempre solo proprietà della sua natura). Da questo punto di vista, «avere un’idea» sembra soprattutto avere il significato di percepire, un
Etica, I, def. 6. Cfr. le ultime parole di La patience du concept: «Qui ci si è soltanto esercitati a parlare l’hegeliano». 5 Ad esempio, Etica, II, 9, cor.; 11, cor. 3 4
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verbo che conserva qui la sua pertinenza nella misura in cui esprime il rapporto con un oggetto: l’oggettività dell’idea. Qualcuno potrebbe allora pretendere che l’esattezza esige si dica che Dio è le sue idee, non che le ha, se non in quanto è anche le idee delle sue idee, che percepisce perciò anche come oggetti. Ma non è così; a rigore, in effetti, abbiamo tutte le ragioni di dire che Dio ha delle idee, poiché si dice anche che una cosa ha delle proprietà, le possiede, si riferiscono o sono attribuite ad essa, nella misura in cui derivano dalla sua essenza. Il registro dell’avere, come rapporto di appartenenza non accidentale ma essenziale, conserva tutta la sua legittimità, e per questo lo spinoziano lo comprende nella sua grammatica: l’idea (mente) formata è la proprietà dell’idea (mente) che la forma. Che altro significa questo se non che noi spiriti finiti non possiamo dire lo stesso di noi, e che, a rigore, delle nostre idee abbiamo solo quelle adeguate? Che dire allora delle altre? Che le abbiamo senza averle? Che le abbiamo solo nel senso comune del termine? Privo dell’univocità, lo spinoziano mancherebbe di consistenza… Quest’ipotesi non tiene conto di un’altra regola di grammatica, quella della composizione: le nostre idee inadeguate non discendono soltanto dalla nostra essenza, ma sono chiamate così perché noi ne siamo solo la causa parziale. Le abbiamo, anche se inadeguatamente; ci appartengono soltanto, sono parte della nostra mente ma provengono in parte da altre menti (se sento il canto di un uccello, la mente dell’uccello partecipa al formarsi della mia sensazione, poiché il suo canto è una proprietà che si deduce dalla sua natura di uccello). In Spinoza la proprietà non è incerta: ogni idea (mente) è proprietaria esclusiva di tutte le sue idee; immaginare uno sconfinamento sarebbe credere alle chimere, alla possibilità che la stessa idea partecipi contemporaneamente a due idee (sia percepita da due menti). Tuttavia, nella misura in cui Dio ha idee solo in quanto si modifica nell’idea che ha di sé stesso (intelletto infinito), rientra a sua volta nella logica compositiva. In spinoziano ogni soggetto è un composto; ogni rapporto di avere o di proprietà è partitivo. Comprendiamo perciò che Spinoza, malgrado le apparenze, non mantenga affatto l’idea di uno sguardo panottico, come se l’idea di Dio, in quanto intelletto, potesse sorvolare sé stessa: l’unità formale dell’idea di Dio è quella di un composto, ossia Dio possiede una certa idea solo in quanto quest’idea partecipa del tutto. Comprendiamo anche perché l’avere divino sia necessariamente adeguato: l’idea di Dio non lascia fuori di sé nessun’idea e, di conseguenza, è la sola causa possibile delle sue parti (Dio, quindi, ci conosce, benché noi non conosciamo noi stessi). Riassumendo, nel composto infinito non ci sono che composti che si determinano reciprocamente senza compenetrarsi.
2. Composizione delle idee: la definizione genetica
Dev’essere possibile esprimere in spinoziano il prodursi della trasformazione, come cioè un composto si dissolva e come se ne formino altri. Si tratta della 139 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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scomposizione di un’idea o analisi, e della combinazione di altre idee o sintesi. Ogni spirito che compare nel mondo in un dato momento della durata è una certa sintesi di idee che, in quanto tali, non gli appartengono in proprio; gli appartengono solo in quanto vengono sintetizzate. In proposito è molto preziosa la teoria della definizione genetica, che ci costringe a fare una deviazione attraverso il Trattato sull’emendazione dell’intelletto. In quest’opera il metodo è definito idea dell’idea; si tratta dunque già di considerare l’idea dal punto di vista della sua forma o del suo essere formale (oggetto dell’idea dell’idea). L’idea dell’idea ha come oggetto la forma dell’idea. Al riguardo Spinoza dice che «non si dà idea d’idea se prima non si dà idea»,6 che sembra già rientrare nello stesso dilemma dell’Etica: l’anteriorità della cosa rispetto all’idea di cui questa è l’oggetto. Come nell’Etica, tuttavia, l’implicazione dell’oggetto non è causale e la causa dell’idea sarà cercata su un piano strettamente cogitativo (definizione genetica). Per questo il Trattato va alla ricerca di «ciò che costituisce la forma del vero (formam veri)».7 Per questo, inoltre, il carattere riflessivo dell’idea non spiega niente: l’idea non è certamente la causa della sua duplicazione obiettiva in un’altra idea, così che quella che chiamiamo comunemente «coscienza di sé» rimanda, in Spinoza, a uno stratificarsi nella mente di piani di pensiero distinti, o a differenti piani nella stessa mente.8 Si noterà infine che, lungi dall’avere l’aria di condividere la concezione cartesiana della relatività del grado di realtà dell’idea a quello del suo oggetto,9 l’equivalenza senza privilegi tra il confronto degli oggetti e il confronto delle forme viene espressa qui senza la minima ambiguità: «il rapporto tra due idee è lo stesso del rapporto tra le essenze formali di queste idee»;10 o ancora «l’idea si comporta oggettivamente nello stesso modo in cui il suo oggetto si comporta realmente».11 Non, quindi, perché Dio è l’essere
Trattato sull’emendazione dell’intelletto, Appuhn, § 38 [tr.it. 38]. Ivi, § 41. 8 Ci si rifaccia alle pagine decisive di Pierre Macherey, vol. 2, 201-202, con relativa nota: «Sorprende questa deduzione della coscienza o idea dell’anima come una pura forma, rivolta a un contenuto che è a sua volta una forma, tanto si scosta dalle concezioni correnti della coscienza
La nozione di individuo esprime qui il sovrapporsi nell’essere umano di più modi di determinazione della sua natura, che vanno considerati equivalenti proprio nella misura in cui è impossibile confondere i piani su cui quei modi si collocano, poiché corrispondono a registri di realtà che si sviluppano simultaneamente senza che i loro elementi interferiscano tra loro» 9 Questa concezione ricompare solo alla fine, nel § 70. 10 Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 28 (§ 38 della traduzione Koyré qui usata). 11 Ibid. Quest’ultima forma, tuttavia, potrebbe sembrare ambigua. Lo è solo se si dimentica che l’essere oggettivo in senso stretto riguarda la cosa reale in quanto oggetto dell’idea. Pertanto, benché l’idea possa essere vista sotto due prospettive, nel suo collegamento con altre idee (piano formale) e nel suo accordo con le cose (piano oggettivo), sarebbe erroneo concluderne una sorta di bilateralità, che sarebbe ancora chimerica e ci riporterebbe all’illusione di un supporto «materiale» dell’idea. Questo equivoco è presente talvolta nei testi di Cartesio (Seconda meditazione e Risposte ad Arnaud) ma non in quelli di Spinoza, e il lettore deve capire che nella sua forma l’idea è 6 7
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più perfetto il metodo che opera a partire dall’idea di Dio è il più perfetto, bensì perché l’idea di Dio è formalmente la più perfetta delle idee. Possiamo formularlo diversamente, dicendo che il dato che fornisce la norma del vero non può essere altro che l’idea: il requisito di una data idea vera rivela l’autonomia del campo del pensiero (il pensiero non può in alcun caso partire dal corpo, ma solo da un’idea adeguata del corpo; è quanto l’Etica dirà col concetto di «nozione comune»). Di qui, infine, l’indifferenza del vero nei confronti dell’esistenza della cosa rappresentata. Lo studio del vero e lo studio della forma dell’idea si confondono, così che è lo stesso parlare della «forma del vero» o della «forma di un pensiero vero».12 Quest’attenzione rivolta esclusivamente al piano formale autorizza qualche finzione provvisoria,13ma soprattutto conduce Spinoza a fare della finzione il suo principale strumento pedagogico: «Per svolgere questa indagine, osserviamo qualche idea vera, il cui oggetto sappiamo con la massima certezza dipendere dalla nostra capacità di pensare, non esistendo in natura».14 Di qui il ricorso alla definizione genetica quale la concepiva Hobbes. Precisiamo subito che nel Trattato sull’emendazione lo studio di questo tipo di definizione viene certo dopo la teoria della finzione. Spinoza aveva enunciato le condizioni alle quali la mente può, senza danno, «fingere», «forgiare», «figurarsi» (fingere), ma non aveva trattato di un eventuale uso metodologico della finzione e, soprattutto, la condizione era che la deduzione non parta da una prima finzione.15 Se la finzione è per natura confusa, come può ora vedervi un’idea vera? È importante stare attenti ai termini che vengono usati, in particolare all’uso differenziato dei verbi fingere e formari.16 Finché si trattava della sola finzione, l’idea di formazione non compariva affatto; ora, dopo essere stata prefigurata col tema della forma del pensiero vero, la troviamo accanto alla finzione. Se la definizione
una rappresentazione: il metodo non è lo studio di chissà quale aspetto non rappresentativo dell’idea, ma lo studio della rappresentazione considerata nei suoi caratteri interni o determinazioni intrinseche. Questo equivale a dire che non si occupa della corrispondenza tra la rappresentazione di una cosa e la cosa stessa, o tra l’esistenza obiettiva e quella formale della cosa. D’altra parte, in Spinoza l’eventuale studio di questa corrispondenza non ha più senso, in forza dell’identità della connessione delle cose e della connessione delle idee: quello che fin qui veniva pensato come un disaccordo tra la cosa e l’idea è oramai concepito, sul solo piano cognitivo, come il disaccordo tra una causa e un effetto (il caso in cui la causa non contribuisce che parzialmente alla produzione dell’effetto). 12 Ivi, § 41. 13 Quella di una cosa senza legami, per mostrare che anche la sua idea sarebbe senza legami (§ 28); quella dell’idea vera di una cosa inesistente, per mostrare che se ne potrebbero dedurre altre idee vere senza che per ciò occorra alcun contatto extramentale con le cose. 14 Ivi, § 72. Come si vede, questa frase non è scritta in linguaggio spinoziano, che è apporto esclusivo dell’Etica. 15 Ivi, § 39. 16 Al contrario di Appuhn, Koyré non rispetta mai questa distinzione capitale. Salvo errore, il testo di Spinoza presenta una sola eccezione nel § 68.
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è al tempo stesso vera e arbitraria, è perché il fatto che finga una causa non le impedisce in alcun modo di formare un concetto: «Ad esempio, per formare (formandum) il concetto di sfera fingo (fingo) a piacere una causa, ossia che un semicerchio ruoti intorno al centro e che dalla rotazione nasca, per così dire, la sfera. Certamente quest’idea è vera e, benché sappiamo che in natura nessuna sfera è mai nata così, questa è tuttavia una percezione vera e un modo facilissimo di formare il concetto di sfera» (Trattato sull’emendazione dell’intelletto, Appuhun, § 41 [tr. it. § 72, 32-33]).
Qual è allora la differenza tra un concetto formato e una finzione? Che cosa fa la verità dell’uno e la falsità dell’altro? Non basta rispondere che la buona definizione è quella che riferisce la cosa alla sua causa prossima; rimane da precisare che cosa si richieda per produrla. Così, in senso assoluto, l’affermazione della rotazione del semicerchio intorno al suo asse è una «percezione falsa», poiché questo movimento non è una proprietà deducibile dall’essenza del semicerchio e non viene indicata nessuna possibile causa di questo movimento; si afferma di una cosa (il semicerchio) «alcunché, che non è contenuto nel concetto che dello stesso abbiamo formato (formavimus)». La stessa percezione diventa invece vera se «è unit[a] (juncta) al concetto della sfera o al concetto di una qualche causa che determina tale movimento». La congiunzione vel, che spesso in Spinoza significa un’equivalenza, qui è difficile da interpretare; a prima vista si direbbe che il concetto di sfera è indicato a titolo di causa finale. Senza dubbio il buon senso ci fa capire che la proposizione «il semicerchio ruota intorno al suo asse» deve essere accompagnata da un’altra proposizione che indichi una causa efficiente («perché c’è vento, ecc.»). Così, però, perdiamo completamente di vista l’intenzione primitiva di produrre una definizione genetica della sfera. Occorre dunque prendere l’altro membro dell’alternativa: uniamo l’idea del movimento del semicerchio intorno al proprio asse al concetto della sfera. Ma non è questa una petizione di principio, dal momento che stiamo cercando di ottenete proprio il concetto della sfera? Quel che Spinoza esprime come può è la necessità di un atto di sintesi:17 non tra il movimento del semicerchio e la sfera, ma tra il movimento e il semicerchio, sotto l’egida del concetto di sfera, che determina il semicerchio a muoversi in quanto causa formale.18 Ora per quanto paradossale questo possa sembrare, la petizione di principio si evita solo pensando questa sintesi obbedendo alla legge della sfera, come il movimento stesso che la genera e non come uno sforzo separato e un po’ misterioso della mente.19 Il movimento stesso opera la sintesi: porta la mente da un soggetto logico
L. Brunschvicg, Spinoza et ses contemporains, 28-29. M. Gueroult, vol. 1, 174. 19 Cfr. Alexandre Matheron: «il risultato non è altro che l’attività stessa: è semplicemente la struttura che si dà dispiegandosi; in questo senso è in lei com’è da essa concepito (Individu et communauté chez Spinoza, 12). 17 18
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(il semicerchio) a un altro (la sfera); non è più quell’accidente che veniva collegato indebitamente al soggetto mediante un illegittimo giudizio sintetico, ma è la forma stessa in divenire. Si è talvolta rilevato, implicitamente o meno, un’analogia con la dottrina dell’individuazione dei corpi; il concetto di sfera è ottenuto mediante una combinazione semplice di moto (rotazione del semicerchio) e di quiete (l’asse fisso);20 il movimento, poi, in quanto operante la sintesi, sembra proprio assumere il senso figurato di un progresso della mente, mentre la differenza tra vero e falso, che dipende dal fatto che il movimento si compia o non si compia, sospinge il soggetto in un divenire che lo trasforma oppure gli rimane estraneo.21 Potrebbe essere, questo, un motivo, non per applicare al pensiero le regole della ragione, ma per concepire un modo infinito immediato che sia l’equivalente cogitativo del movimento e della quiete, qualche cosa come l’ipsum intelligere invocato nell’Etica per caratterizzare la natura dell’idea (così come si direbbe che il corpo è movimento e quiete), e che corrisponde abbastanza bene all’intellectus absolute infinitus con cui lo stesso Spinoza designa questo modo.22 Non crediamo in effetti che ci si debba affrettare a vedere in quest’espressione l’intelletto infinito dell’Etica: dovrebbe qui metterci in guardia la nozione di infinità assoluta, riservata abitualmente alla definizione di Dio. Forse si tratta di un modo unico del comprendere, di un principio di distinzione, così come il moto è principio di divisione. Si potrebbe certo costruire un’obiezione associando la dimostrazione della proposizione I, 21 (dove Spinoza ragiona sui modi infiniti immediati a partire dall’idea di Dio) alla proposizione II, 4 (sull’unicità dell’idea di Dio); ma sarebbe un puro piacere di obiettare che non porterebbe da nessuna parte. Al contrario, la nascita della cosa dal movimento e dell’idea da un corrispondente atto di sintesi che produce un’idea distinta (o semplice) non rafforzano la nostra congettura, nella misura in cui, nell’Etica, il modo infinito immediato è la causa prossima di quello mediato? Pertanto, l’universo corporeo si genera a partire da tutte le combinazioni possibili di moto e quiete, quello cogitativo a partire da tutte le combinazioni possibili del comprendere.23
A. Matheron, ivi, 13. L. Brunschvicg, op. cit., 29: «Il passaggio dall’errore alla verità avviene mediante una sintesi; in questa perpetua sintesi l’intelligenza manifesta la sua attività e la sua efficacia
Così definita, la nozione di una sintesi continua concilia l’identità stabilita da Spinoza tra l’intelligenza e la verità con l’esistenza dell’errore, che ne sembrava la negazione. Essa permette di comprendere come accade che l’uomo s’inganni, e come questo fatto si spieghi col moto e la quiete dell’intelligenza, non con le condizioni del mondo esterno; spiega come, all’interno stesso della mente, si produca l’errore in quanto errore - se così posso dire - trasformandosi così in verità; come infine il pensiero si sviluppi senza uscire da sé stesso» (op. cit., 29). Si riconosce qui un tema caro a Brunschvicg. Ancor più che la «trasformazione» del falso nel vero, quel che tuttavia ci sembra interessante è il passaggio da una forma concettuale a un’altra, al tempo stesso genesi e trasformazione. 22 Etica, II, 43, sc.; lettera 64 a Schuller. 23 Il secondo corollario I, 32 dell’Etica ci sembra vada in questo senso. 20 21
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Ci si obietta che quest’idea riguardante il pensiero è oscura? Rispondiamo che non è più oscura quella riguardante l’estensione (ricordiamoci del cerchio cartesiano in materia di divisione). Innalzando il pensiero alla dignità di attributo uguale all’estensione, Spinoza l’ha sempre concepito come un continuo modalmente divisibile, come una materia cogitativa indeterminata. Inoltre, pensare il movimento e la quiete del semicerchio secondo la legge formale della sfera non è che evocare i termini in cui, nella lettera a Oldenburg, Spinoza trattava il rapporto tutto-parte . Le sintesi successive – il punto che genera la linea, la linea in movimento il piano, il piano in movimento il corpo – costituiscono un ordine progressivo di integrazioni analogo a quello dei corpi, al tempo stesso individui (cose singole) e parti di individui più complessi. Tutte rimandano alla «formazione assoluta»24 di un’idea semplice, indivisa e infinita – la quantità – a partire dalla quale si formano idee che la «determinano» e che possono comporsi solo «a partire da altre idee»,25 anche se al proprio livello ciascuna può essere considerata semplice, esattamente come un individuo può essere considerato un tutto e, al tempo stesso, parte di un altro tutto;26 infatti «l’idea vera è semplice o composta di idee semplici».27 È chiaramente riconoscibile qui il passaggio dalla sostanza (la quantità infinita, come nell’Etica)28 al modo infinito immediato (moto e quiete) e di qui al modo finito mediato (l’universo). L’ordine genetico così ottenuto rimane tuttavia fittizio e connette solo gli oggetti della geometria, che a rigore non sono essenze di cose.29 Il procedimento comunque non è falso, come potrebbe esserlo invece quello che considera la linea «composta» realmente di punti, la superficie di linee e il corpo di superfici;30 contrariamente a questa costruzione illegittima dell’estensione, che ha come premessa la divisione reale implicante il vuoto, la definizione genetica procede a una formazione dinamica dei concetti (come quello di linea, generato a partire da un punto in movimento, non da una giustapposizione di punti). Tale procedimento è inoltre in grado di fondare la geometria, che non è la fisica: non ottiene dei corpi ma delle figure, assimilabili forse a nozioni comuni.31 È evidente, quindi, che questo ordine è al tempo stesso arbitrario e statico, anche se il pensiero vi si muove attenendosi alle proprie analisi e sintesi. La geometria ha un interesse metodologico o propedeutico: esercita la mente
Cfr. l’espressione formet absolute (Trattato sulla emendazione dell’intelletto, § 64). Ivi, § 64-65. 26 Ivi, § 41. 27 Ivi, § 46 [tr. it. § 85, p. 59]. 28 Etica, I, 15, sc. 29 Cfr. la lettera 50 a Jelles; lettera 83 a Tschirnhaus. Questi testi sono però posteriori alla redazione del Trattato. 30 Ibidem. 31 Cfr. Gueroult, vol. 2, 422. 24 25
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a considerare le cose «sotto una certa forma di eternità».32 Per questa via la mente non perviene ancora alle cose stesse, ossia al piano ontologico della composizione cogitativa. È questa, indubbiamente, una delle critiche più gravi che Spinoza abbia mai fatto a Cartesio: avere ridotto la materia all’estensione concepita come lo spazio della geometria e, correlativamente, di aver costruito una fisica interamente ipotetica. All’inizio del nostro primo capitolo abbiamo visto come il commento ai Principi si concludesse con una costruzione: si trattava di « prendere un’ipotesi a piacere», un procedimento che Spinoza illustrava con un esempio di definizione genetica (la costruzione della parabola, per la quale è possibile «supporre una causa diversa a piacere»). Questo procedimento si giustificava solo in virtù della convergenza di tutti gli ordini ipotetici e si fonda sulla necessità che la materia passi per «tutte le forme che può ricevere». Il necessitarismo di Cartesio era dunque l’espediente filosoficamente costoso che aveva il compito di far convergere l’ordine delle cose e l’ordine delle idee. Si avverte chiaramente che il necessitarismo di Spinoza è di tutt’altra natura: esclude la deducibilità ad libitum della forma presente del mondo, solidale in fondo con l’idea di creazione contingente, poiché l’inevitabile correlato ontologico di questa tesi è la possibilità di produrre lo stesso mondo in modi diversi. Spinoza mostrerà che diversi ordini dello stesso mondo non possono essere pensati logicamente che come mondi diversi, e questo, in virtù di un ben inteso legame della causa e dell’effetto, porta all’assurdità del politeismo (a meno di credere che l’ordine sia indifferente all’essenza, come nella concezione sostanzialista della creazione delle cose in Cartesio – benché quest’ultimo, come abbiamo visto, tenda esso stesso a ridurre l’esteriorità del legame tra il creatore e la sua creazione…).33 Occorre quindi prendere le mosse da Dio stesso, ossia dedurre le cose nel loro ordine reale e non fittizio, donde la dichiarazione del Trattato sull’emendazione dell’intelletto: «Invece, in vista dell’ordine e affinché tutte le nostre percezioni siano ordinate e unite, si richiede che indaghiamo, quanto prima possibile – e la ragione lo esige – se esista e qual natura abbia un qualche ente che sia causa di tutte le cose, affinché la sua essenza oggettiva sia anche causa di tutte le nostre idee. Allora la nostra mente, come abbiamo detto, riprodurrà in massimo grado la natura» (Trattato sull’emendazione dell’intelletto § 57 [tr. it. § 99, p. 64]).
Diremo allora che Cartesio, se non è stato un fisico, è stato almeno un pedagogo? Nemmeno; abbiamo visto che il metodo era tanto più perfetto in quanto partiva dall’Ente più perfetto, causa prima di tutte le cose; in questo senso, s’identifica con la filosofia o la stessa fisica. Inoltre, poiché «la retta via
32 33
Trattato sulla emendazione dell’intelletto, § 67 Etica, I, 33 con la sua dimostrazione.
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dell’apprendere consiste nel formare pensieri da una qualche definizione data»,34 occorrerà definire Dio stesso e prendere sul serio questa nozione di causa sui, che nel Trattato sull’emendazione è ancora solo un modo di dire:35 nell’Etica il concetto o l’idea di Dio sarà la causa formale della sintesi infinita degl’infiniti, un movimento col quale il pensiero produce l’ens absolute infinitum che è la sua definizione.36 Notiamo inoltre l’evidente rapporto tra la composizione delle nozioni nella definizione genetica e la composizione delle parti nell’individuazione corporea: l’effetto prodotto dalla causa composita, o col concorso di individui, non si distingue da questo stesso concorso. Il senso comune vi vedrebbe una cooperazione finalizzata, con un fine esterno, alla maniera in cui, secondo il ragionamento contrattualista, ci si unisce per meglio difendersi dalle fiere. Al contrario, venendo a conoscere la dottrina della definizione genetica e della forma fisica individuale, ci si accorge che Spinoza vede la cooperazione stessa come un effetto – una finalità in qualche modo immanente (naturalmente, questo ha le sue ripercussioni sulla teoria politica). Infatti, l’effetto prodotto dalle parti, quando queste si comunicano i loro movimenti secondo un rapporto costante, è l’individuo che con ciò stesso esse formano. In maniera analoga, il definito è la sintesi stessa delle parti definenti, o anche la sua causa formale, non finale; le nozioni componenti non si uniscono per produrre quell’effetto che sarebbe la definizione, ma lo producono in virtù della loro stessa sintesi.37 L’affermazione dell’identità di metodo e filosofia significa che la riflessione sulla forma dell’idea, o idea dell’idea, rientra essa stessa nell’essere; significa, in altri termini, che è conoscenza dello stesso ordine delle idee o che la formazione dei concetti nell’intelletto coincide con la loro formazione reale. L’intelletto come
Trattato sulla emendazione dell’intelletto, § 50 [tr.it. § 93, p. 62]. Ibidem. 36 Etica, I, def. 6 e prop, 1 = 11 per la sintesi. 37 È interessante accostare la seconda parte della definizione di «cosa individuale» dell’Etica alla concezione hobbesiana. Questa definizione, richiamiamolo, è universale; vale per qualsiasi attributo e in particolare per i modi del pensiero e per quelli dell’estensione («Ché, se più individui concorrono in una sola azione in modo tale da essere tutti insieme causa di un solo effetto, li considero tutti, sotto questo riguardo, come una sola cosa singola», II, def. 7 [tr. it. 836]). Consideriamo ora la definizione che della causa dà Hobbes nel De corpore, cap. VI, 202-203, a mo’ di preludio a un’argomentazione sul metodo generativo: «La causa è la somma o aggregato di tutti questi accidenti, sia nell’agente che nel paziente, in quanto concorrono a produrre l’effetto indicato». Perciò, la causa della luce si compone della fonte luminosa, della trasparenza del mezzo e di un’appropriata disposizione degli organi recettori; questi tre «accidenti» concorrono alla produzione di un solo e identico effetto, la luce. Ancor meglio, la fonte emette un movimento, il mezzo lo mantiene fino agli occhi, i quali lo trasmettono al cuore. In breve la produzione della luce è la trasmissione di un movimento, una composizione di moti (nel caso, l’alterazione del movimento vitale). Nella definizione genetica si hanno quindi due momenti: un effetto di analisi, per censire gli accidenti o circostanze che concorrono (ricerca della causa) e un effetto di sintesi, consistente nell’«addizione» e «composizione» delle loro azioni rispettive (produzione dell’effetto). 34 35
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ricettacolo interiore e soggettivo tende quindi a scomparire davanti all’ «automa mentale» senza dentro e senza fuori,38 e si capisce come il Trattato possa già invocare l’intelletto infinito e contenere i primi balbettii di linguaggio spinoziano: «Giacché, se appartiene alla natura dell’ente pensante formare pensieri veri o adeguati, come sembra a prima vista, è certo che le idee inadeguate sorgono in noi soltanto da questo, che siamo parte di un qualche ente pensante, alcuni pensieri del quale costituiscono la nostra mente in modo intero, altri solo in parte» (§ 41 [tr.it. § 73, p. 54]).
Prima di venire alle particolari difficoltà di questo idioma (difficoltà che, come vedremo, riguardano l’apparente sdoppiamento dell’idea in idea del termine e idea di relazione), chiediamoci se il Trattato si pone anche al livello delle trasformazioni cogitative. Evidentemente no, dal momento che ci invita a distogliere l’attenzione dalla «serie delle cose individuali e mutevoli» per non prendere in considerazione che l’ordine dal quale soltanto si possono inferire le essenze di queste cose, ossia la «serie delle cose fisse ed eterne».39 Spinoza avanza una prima ragione: la nostra incapacità di abbracciare la moltitudine infinita delle cose e la moltitudine infinita delle circostanze «in» una sola e identica cosa. Ma subito ne invoca una seconda: quando anche ne fossimo capaci, la cosa non avrebbe importanza, poiché «l’esistenza di queste cose non ha alcun nesso con la loro essenza». In altri termini, non coglieremo mai l’essenza della cosa per mezzo della sintesi del tutto esteriore delle circostanze che sono «in» essa e che decidono solo della sua esistenza. Al contrario, occorre cercare di abbordare la cosa dall’interno, deducendola per quanto è possibile dalle «cose fisse ed eterne». A questo punto, però, il testo rivela un certo imbarazzo. Si profilano due rapporti, due derivazioni: 1) da queste cose fisse derivano le essenze «intime» delle cose; 2) dalle loro leggi deriva la serie delle cose mutevoli. Si direbbe quasi che le serie sono tre: quella delle cose fisse, quella delle essenze e quella delle esistenze. Il testo tuttavia parla solo di due, quella delle cose fisse e quella delle cose esistenti, manifestando il suo rifiuto di ipostatizzare le essenze; queste non esistono fuori delle cose esistenti alle quali vengono attribuite, ma si deducono dalle cose fisse. Se, a rigore, si vede come si può discendere dalle cose fisse alle essenze, si avrà un solo ordine, quello delle «verità eterne»; non si vede affatto come abbia origine il mutamento, e il rapporto delle cose con le leggi che governano il loro divenire è totalmente estrinseco. Per la verità, l’eterogeneità dell’essenza rispetto all’esistenza rimane un postulato, e il corrispondente sdoppiamento delle cose fisse e delle loro leggi ha l’aria di un espediente. Spinoza ha quindi una frase rivelatrice, sia del suo imbarazzo sia della direzione in cui va cercato il senso di tutto il paragrafo: «Anzi, queste cose singole mutevoli dipendono tanto intimamente ed essenzialmente
38 39
Trattato sulla emendazione dell’intelletto, § 46 Ivi, § 57 ; sottolineature nostre [tr; it; § 100, pp. 64-65].
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(per dir così) dalle cose fisse, che senza di esse non possono esistere né essere concepite». È già riconoscibile il rapporto tra la sostanza e i suoi modi, con la differenza che qui i modi dipendono da una molteplicità, come dice anche, alla fine del paragrafo, l’espressione «cause prossime di tutte le cose». Curiosamente, inoltre, l’espressione «cosa singolare» si applicherà anche alle cose fisse; si comprende quindi come la singolarità venga attribuita alla cosa esistente solo dalla sua definizione (la cosa esistente veniva vista dall’esterno sotto l’aspetto di una molteplicità di circostanze), e che il senso della dipendenza è questo – una definizione genetica. Resta solo da unire le due metà del modo: non solo di essere concepito mediante un’altra cosa, ma di essere in un’altra cosa. L’esistenza ritorna surrettiziamente nelle ultime righe del paragrafo, per chiedere di venir legata più strettamente e più direttamente all’essenza, e non solo con l’espediente dell’inerenza delle leggi alle cose fisse. Questa confusione è il segno di una tensione, di un’aporia in via di soluzione, che non ha ancora trovato la sua formula. L’interpretazione di Victor Delbos è convincente:40 «Che cosa sono dunque queste cose fisse ed eterne che permettono alla deduzione di cogliere le essenze delle cose particolari? Nel pensiero di Spinoza possono solo essere gli attributi e i modi infiniti. Così le leggi del moto spiegano la generazione mediante l’estensione dell’innumerevole varietà delle figure e quindi dei corpi particolari; pensando al ruolo di principi comuni di spiegazione delle cose particolari che svolgono questi attributi e questi modi infiniti, si può dare loro il nome di universali; in sé stessi, però, sono singolari, poiché non sono questa o quella qualità generale; sono ciascuno una realtà costituita da una natura assolutamente unica ».41 Solo su un punto si può completare Delbos, quello della dualità della cosa e della legge. Il testo del Trattato parla delle «leggi che sono iscritte in esse come nei loro veri codici». Se andiamo fino in fondo a questo pensiero, la cosa stessa è un codice di leggi, consiste in una legislazione. Il progresso dell’Etica sta proprio qui: dall’universo intero al più piccolo individuo, tutto è cosa singolare, ossia legge esprimibile come un rapporto costante di quiete e moto. La dualità dei punti di vista, intrinseco ed estrinseco, rimane irriducibile, ma non è più interpretata come una frattura insostenibile tra essenza ed esistenza, come dimostra il conatus, definito l’essenza in atto, ossia l’essenza inserita nella durata, anche se non dipendente da essa. Diventa allora impossibile mantenere le due serie del Trattato e quel tanto di trascendenza che comportava: mancanza di connessione tra essenza ed esistenza, esteriorità del
40 È anche il parere di Alexandre Koyré; cfr. la sua edizione del Trattato sull’emendazione dell’intelletto, 112, n. 100. 41 Victor Delbos, Le spinozisme, 103.
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rapporto tra le leggi e le esistenze. Rimane una serie soltanto, che va dalle cose infinite alle cose finite. Soffermiamoci sull’espressione «cose finite» o «limitate»: in senso stretto questo concetto esiste solo al plurale, poiché una cosa ne esige un’altra, almeno che la limiti. Ora questa finitezza deve rientrare nell’essenza, non nel senso di una negazione, dal momento che l’essenza non fa che porre la cosa, ma nel senso per cui la definizione della cosa esige una causa prossima che la faccia comunicare col concatenamento totale della cose finite. Nel concetto, «finite» rimanda ai rapporti, «cose» ai termini tra i quali s’instaurano i rapporti. Per questo motivo l’essenza va pensata sul piano stesso dell’esistenza, come quell’istanza senza la quale non potrebbero aver luogo i rapporti (o quelle che il Trattato chiamava «circostanze»). Reciprocamente, la relatività dei termini fa sì che le essenze siano in atto solo in quanto «sforzo», conatus. Spesso si ricorda che in Spinoza la potenza è sempre in atto; questo dovrebbe premunirci dal vedere nell’«essenza attuale» un’espressione indebolita dell’essenza, come se questa si trovasse improvvisamente fuori del suo elemento proprio. In verità, l’essenza non ha altra dimora che l’esistenza; nella sua eternità è esattamente l’interiorità del mutamento. Abbiamo detto che nell’Etica c’è una serie soltanto. Intendiamoci: si tratta della produzione univoca delle esistenze, dal primo modo infinito fino alla totalità delle cose finite. In un certo senso c’è quindi anche una seconda serie: la prima sarebbe l’ordine generale della produzione delle cose; la seconda, al suo interno, l’ordine della produzione indipendente delle cose finite. Nel Trattato le leggi potevano apparire distinte dalle cose, poiché Spinoza pensava a quelle che formula la fisica, ad esempio la legge della trasmissione del moto, ma nell’Etica queste non sono che le proprietà comuni a tutti i modi di uno stesso attributo, mentre si richiamano altre leggi, quelle cioè della natura di una cosa. Se è fondata questa polisemia di leggi interne e costitutive e leggi esterne comuni, lo si deve al rapporto tutto-parte, come risulta dalla lettera a Oldenburg. Le leggi dell’urto non fanno altro che esprimere il rapporto costante di moto e quiete che definisce l’universo, e senza dubbio lo esprimono analiticamente: lungi dal definire l’universo, ne enunciano alcune proprietà. Per produrre la definizione genetica dell’universo esteso, occorrerebbe poterla costruire partendo dalla sua causa prossima – il movimento e la quiete in quanto tali. Non è urtante dare in questo modo il primato all’essenza attuale che, dopo tutto, non è che la manifestazione dell’essenza? No, è la manifestazione della cosa, e l’essenza non esiste mai fuori della cosa. E la proposizione II, 8? Sopra abbiamo visto che il suo senso era che le essenze, concepite separatamente dall’esistenza come possibili oggetti di un’idea, si riferiscono al punto di vista della durata. Dal punto di vista dell’ordine totale, tutte le cose esistono in atto, eternamente, ma al loro posto. Se ora ci chiediamo che cosa diventano l’analisi e la sintesi nella dottrina della maturità, vediamo subito la difficoltà di far coincidere l’ordine dell’intelletto, o automatismo mentale, cha va da una definizione a un’altra definizione, da un’essenza a un’altra, con quest’ordine delle composizioni149 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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scomposizioni che corrispondono alle composizioni-scomposizioni dei corpi e che sembrano essere di un ordine affatto diverso. Ad esempio, vediamo bene come scomporre l’idea di un corpo umano nelle idee delle sue parti. La scomposizione concreta di un certo corpo, invece, richiama una scomposizione mentale che sembra di un ordine diverso. Tuttavia, quella concreta è quest’ultima; i manuali di anatomia elencati nell’inventario della biblioteca di Spinoza, i corsi di anatomia seguiti da De Vries su suo consiglio espongono solo nozioni comuni, ossia quel che c’è di comune in tutti i cadaveri sezionati dal loro autore. Queste dissezioni, inoltre, differiscono molto dall’ordine in cui si svolge concretamente una scomposizione, che è sempre individuale; lo prova il fatto che il cadavere interessa l’anatomista solo finché assomiglia a un organismo vivente. E se può accadere che l’anatomista si occupi della scomposizione concreta, lo farà solo allo scopo di enucleare nuove nozioni comuni. Che interesse può avere, infatti, una scomposizione o una in più? Torniamo quindi malinconicamente alla conclusione del Trattato: se anche potessimo conoscere quest’ordine, a che ci servirebbe? Non saremmo ricondotti allo scoraggiamento del prologo – vana et futilia, sempre la stessa cosa? Almeno, ora siamo in grado di individuare un totale controsenso. In effetti, se conoscessimo quest’ordine, non avremmo alcun bisogno di ripiegare sull’armamentario predittivo delle nozioni comuni; percepiremmo direttamente il mondo come una logica della singolarità. Passando dal Trattato all’Etica, infatti, l’ordine infinito delle esistenze concrete ha cambiato natura: non è più lo svanire di tutte le cose nell’infinito delle circostanze; è l’esterno di un’infinità di interni. Questo si chiama beatitudine suprema, che forse è stata goduta solo da Cristo.42 Per lo meno, quest’ideale dell’automa spirituale è notevolmente estraneo alla classica parola d’ordine cristiana: rientrare in sé stessi. La questione della possibilità per un intelletto umano di aver accesso a quest’ordine di cui concepisce solo in astratto la possibilità, ossia di farsi uguale almeno in parte all’intelletto infinito, è quella del terzo genere di conoscenza e dello statuto dell’uomo nei confronti di Dio. Queste due questioni verranno affrontate quando sarà il momento. Il problema della fisica cogitativa ha un’aria affatto astratta, anche se sappiamo in teoria che questa fisica è il solo pensiero concreto… Eppure, nell’Etica , la sua comparsa coincide con lo spostamento dell’interesse filosofico, richiamato nel capitolo precedente, da un punto di vista «fisico» nel senso ordinario del termine a un punto di vista medico ed etico. Per vedervi più chiaro, occorre che impariamo prima un po’ di spinoziano.
42
Trattato teologico-politico, cap. IV.
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3. Abbozzo di una grammatica dell’idea
La fisica cogitativa può essere chiamata «metodo» nel senso nuovo e rigoroso che Spinoza dà a questo termine: studio formale dell’idea, si tratti di quell’idea composta che è la nostra mente o delle idee di cui si compone, a loro volta composte, non essendo di genere diverso da essa. Malgrado le apparenze, Spinoza si è spinto molto avanti nell’esposizione di una fisica cogitativa, anche se per questo ha dovuto mettersi a parlare una lingua strana che è, per così dire, una logica formale, purché con questo termine intendiamo un’espressione ontologica; parlare della forma dell’idea, infatti, è parlare dell’idea stessa, in altri termini della cosa. Rimettiamoci per quanto possibile sul piano dell’immanenza del pensiero. Non ci sono che idee, che vuol dire anche menti, che si compongono, si scompongono, si trasformano le une nelle altre. Non dobbiamo distinguere tra essere e avere; parlando in spinoziano dobbiamo solo disfarci dell’abitudine di concepire le idee come immagini e la mente come uno sguardo. Pertanto, l’esperienza mentale ordinaria, o il punto di vista di ciascun’idea, la sua soggettività, la sua interiorità, non hanno più il carattere di un dato originario: si tratta di produrli. Per questo non possiamo accontentarci di tradurre gli enunciati spinoziani, come fanno di solito i commentatori andando a ritroso del procedimento spinoziano. Per il principiante è certamente legittimo e rassicurante vedersi proporre delle versioni, ma la pedagogia spinoziana va in senso inverso, quello del tema: «quando diciamo che… , non diciamo altro se non che… ».43 È dunque giusta e utile la sintesi di Gueroult, che nel corollario II, 11 ravvisa la «condizione ontologica di ogni conoscenza possibile per l’anima», elencando quattro casi: percezione, non-percezione, percezione parziale, percezione adeguata. Ma si tratta di una traduzione nel linguaggio comune, mentre noi vogliamo imparare a parlare lo spinoziano.44 Si obietterà che questo linguaggio è solo quello delle dimostrazioni? L’osservazione è esatta, anche se parzialmente,45 ma non è in alcun modo
43 Etica, II, 11, cor. (testo citato sopra). Temi linguistici analoghi si trovano nelle dimostrazioni delle proposizioni 34 e 40 su cui ritorneremo. 44 È in gioco qui tutta una pedagogia del concetto. In che cosa consiste spiegare un testo filosofico? Non può voler dire tradurlo nel linguaggio comune, che è l’illusione che preclude definitivamente l’accesso ai testi filosofici. Si tratta, al contrario, di condurre il lettore o l’ascoltatore a capire la lingua in cui è scritto il testo, una lingua necessaria che al tempo stesso è il mezzo e l’effetto del pensiero che vi si esprime. In sostanza, non si tratta di estrarre dei significati, fornendo una replica del testo, ma di entrare nel movimento del senso iscritto nel testo stesso; non di uscire dal testo con una parafrasi, ma di entrarvi con un commento. 45 Cfr. le proposizioni II, 28 e 32 che preparano la dimostrazione della proposizione 36.
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un’obiezione. Infatti, 1. ci si chiede perché, per dimostrare le sue proposizioni, Spinoza ha bisogno proprio di una deviazione che passa per lo spinoziano? 2. Ci s’immagina la stranezza di un libro scritto fin dall’inizio in spinoziano, che potrebbe solo far fuggire il lettore di normale cultura alla cui salvezza è destinato, a meno che non lo stimoli a una decodificazione metodologicamente disastrosa (come quando si pretende di volgarizzare Hegel, di «tradurlo» nel linguaggio di tutti, alimentando in tal modo l’incomprensione e il risentimento per quella che appare solo come un’operazione arrogante di decodificazione arbitraria)? 3. Non scrive forse Spinoza che «gli occhi della mente, con i quali vede e osserva le cose, sono le dimostrazioni stesse»?46 In realtà, per vedere abbiamo bisogno dello spinozismo, e vedere significa parlare lo spinoziano. Finché si trattava di mostrare che esiste il piano dell’intelletto infinito, cosa che tutta la filosofia classica ammette, non occorreva questa lingua speciale, ma dacché si tratta di installarvisi, occorre vedere, e il filosofo diventa allora uno che lima le sue frasi.47 Avendo stabilito che la mente umana è l’idea di una cosa singola esistente in atto, Spinoza può concluderne che essa fa parte dell’infinito intelletto di Dio. Di qui un primo enunciato: vi sono idee che Dio ha in quanto costituisce l’essenza della mente umana (ossia, come Gueroult riassume brutalmente ma correttamente: in quanto è finito).48 Oppure, secondo una formula equivalente: in Dio si formano delle idee che si spiegano con l’essenza dello spirito umano. È la traduzione dell’affermazione volgare o corrente «la mente umana percepisce questo o quello». Questo primo enunciato si rivela ambiguo. Inizialmente va visto come la traduzione di un enunciato più preciso:«la mente umana percepisce le affezioni del corpo» che, detto in spinoziano, suona: Dio, per il solo fatto che ha l’idea del tal oggetto, sa che cosa accade ad esso;49 in quanto costituisce la natura della mente umana, Dio ha le idee delle affezioni del corpo umano.50 In questo senso si potrebbe dire che il primo enunciato è solo una parte del secondo: vi sono idee
Etica, V, 23, sc. [tr. it. 1072]. «Infatti, benché nella Prima parte abbia mostrato in generale che tutte le cose (e quindi anche la mente umana) dipendono da Dio secondo l’essenza e l’esistenza, tuttavia quella dimostrazione, sebbene sia legittima e stabilita senza rischio di dubbio, non colpisce la nostra mente come quando si conclude la medesima cosa dall’essenza stessa di una qualsiasi cosa singola che diciamo dipendere da Dio» (Etica, V, 36, sc. [tr. it. 1080]. Questa deduzione che colpisce di più, che Spinoza chiama «scienza intuitiva» perché è la sola che ci faccia accedere all’essenza stessa delle cose, parte, come si sa, dall’idea di Dio o intelletto infinito – donde il ritorno di quest’ultimo nell’ultima parte dell’Etica (V, 40, sc.) e il suo ruolo nell’elaborazione del concetto di «amore intellettuale di Dio». In generale, l’introduzione di questa lingua speciale rientra nella riforma della memoria e dell’immaginazione, definita nella prima metà della V parte dell’Etica (per il rapporto linguaggiomemoria, cfr. II, 18, sc. e 40, sc. 1). 48 Gueroult, vol. 2, 122 e 123. 49 Etica, II, 9, cor. 50 Etica, II, 19, dim. Cfr. anche II, 22, dim. e 30, dim. 46 47
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che Dio ha in quanto costituisce al tempo stesso la natura della mente umana e la natura di altre menti, proposto come la traduzione dell’affermazione corrente «la mente percepisce una cosa parzialmente o inadeguatamente».51 Potremmo dire: Dio ha l’idea dell’affezione subita da un corpo, ma quest’idea non gli giunge isolata; insieme ha l’idea della causa di quest’affezione e la connessione delle due idee costituisce un pensiero completo che si forma nell’intelletto infinito; invece, la mente il cui oggetto è il corpo che subisce l’affezione, cogliendolo solo in quanto percepisce l’affezione senza avere come oggetto anche il corpo che la produce, possiede quest’idea come un’idea isolata, come «conseguenza senza premesse».52 Questa spiegazione sarebbe indubbiamente esatta ma regressiva, poiché ripristinerebbe più o meno una dualità di piani. Dobbiamo invece capire, non che noi percepiamo parzialmente quel che Dio percepisce nella sua totalità, bensì che le nostre percezioni sono i pensieri stessi di Dio benché solo in parte, che sono pensieri parziali di Dio, che ciascuno di essi è una parte di un pensiero di Dio. Per questo non sarà sufficiente dire che le nostre idee sono adeguate quando sono in noi come sono in Dio: tutte le nostre idee sono in Dio, sono idee di Dio. La formula corretta è quindi quella di Gueroult: la nostra idea è adeguata se «nell’anima è intera come lo è in Dio»53 - ossia se è in Dio in quanto costituisce soltanto il nostro spirito. Comprendiamo quindi perché il primo enunciato sia passibile di una seconda interpretazione, del tutto opposta alla precedente, in quanto fa posto a un concetto di adeguazione e non più di non adeguazione. Di qui le nuove traduzioni cui si dedica Spinoza: non diremo più che «in noi si dà un’idea adeguata e perfetta» (enunciato comune), ma che «in Dio, in quanto costituisce l’essenza della nostra mente, si dà un’idea adeguata e perfetta»;54 e non diremo più che «nella mente umana un’idea segue da idee che in essa sono adeguate», ma che «nello stesso intelletto divino si dà un’idea di cui Dio è causa… solo in quanto costituisce l’essenza della mente umana».55 Occorre qui evitare un primo controsenso che consisterebbe nel credere che, oltre alle idee dei termini (ossia, di cose), Dio abbia anche idee di relazioni (ossia, di affezioni). Chiamiamolo controsenso della relazione. La verità è che, in forza della dottrina esposta nella parte I dell’Etica, nell’intelletto divino c’è posto solo per le cose; ora le relazioni non sono cose. In compenso, le cose si producono in relazione e non le si pensa adeguatamente che a condizione di pensarle insieme con le cose con cui sono in relazione. 51 La formulazione del secondo enunciato del corollario II, 11 che diamo qui è giustificata dalla dimostrazione della proposizione III, 1. 52 Etica, II, 28, dim. [tr. it. 867]. 53 Gueroult, vol. 2, 123. Questa formula ha tuttavia il difetto di far credere a una dualità e quindi di conservare virtualmente la trascendenza dell’intelletto divino. 54 Etica, II, 34, dim. Cfr. anche II, 38, dim.; 39, dim.; 43, dim.; III, 1, dim.; V, 40, dim. 55 Etica, II, 40, dim.
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Inoltre, una cosa non è mai data isolatamente, assolutamente, come un punto nell’universo cogitativo, e Dio non ha simultaneamente un’infinità di pensieri puntuali, indipendenti gli uni dagli altri. Possiede idee adeguate delle cose in quanto le «ha» tutte insieme: simul non significa la semplice contiguità o giustapposizione, ma una concatenazione logico-causale. Che tutte le idee sono in Dio e che esiste quindi un unico ordine della determinazione delle idee è quanto richiama la dimostrazione della proposizione II, 36, che si basa sulla tesi immanentista della prima parte dell’Etica. Essa esclude dunque l’eventuale dualismo ontologico delle idee adeguate e di quelle inadeguate, affermando che le stesse idee sono vere e adeguate in quanto siano riferite a Dio, confuse e inadeguate in quanto siano riferite a una mente singola. Sappiamo oramai che questa diversità in fatto di riferimento è la differenza tra il tutto e la parte, tra una conoscenza completa e una incompleta, come indica già il Trattato sull’emendazione dell’intelletto. Questa differenza consente di comprendere come esista – o si dia in Dio – un sapere adeguato delle idee inadeguate, nel quale le conseguenze non sono separate dalle loro premesse: in Dio si danno insieme e l’idea dell’affezione e la sua causa. In senso stretto, perciò, l’idea dell’affezione non vi è data inadeguatamente, vi è data astrattamente, dal punto di vista – separato – di una parte presa come un tutto e per questo, da questo stesso punto di vista, diventa possibile parlare di una conoscenza adeguata dell’inadeguato, che è il principio etico stesso, che va di pari passo con la presa di coscienza della parte in quanto parte. Questa conoscenza, tuttavia, avviene per mezzo di nozioni comuni (concetti di affetti):56 il piano dell’universo cogitativo propriamente detto, con la trama infinita delle sue individualità, rimane inaccessibile, e di esso non possiamo produrre che una rappresentazione generale e astratta. In che senso questa possa tuttavia essere vera e adeguata, lo si dovrà ancora esprimere e provare in spinoziano. La distinzione di un punto di vista totale e di uno parziale spiega almeno due cose. Da una parte, spiega che si possa dire che, benché nella Natura non vi siano idee adeguate e inadeguate, la mente umana è composta sia di idee adeguate che di inadeguate.57 Ciò vale in quanto quest’insieme di idee si riferisce a quello spirito singolo che è lo spirito umano. D’altra parte, la distinzione spiega come Spinoza possa osare scrivere la seguente formula acrobatica: «Perciò la conoscenza della durata del nostro corpo è del tutto inadeguata in Dio, considerato costituente soltanto la natura della mente umana; cioè (secondo il corollario della proposizione 11) questa conoscenza è assai inadeguata nella nostra mente» (Etica, II, 30, dim., sottolineatura nostra [tr. it. 869].
56 57
Etica, V, 4, dim. e cor. La dimostrazione si riferisce alle nozioni comuni. Etica, III, 3, dim.
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La conoscenza inadeguata viene qui attribuita a Dio solo per astrazione; in realtà, come spiega la frase che precede questa formula, Dio ha conoscenza della durata del nostro corpo solo «in quanto ha le idee di tutte le cose», ossia in quanto costituisce la natura non solo della nostra mente ma contemporaneamente dell’infinità delle altre menti. Questa risposta non basta ad attenuare l’impressione di un’acrobazia. Al di là dell’operazione di astrazione, come render conto dell’apparente infrazione al principio dello spinoziano dell’equivalenza di essere e avere? Ancora una volta siamo ricondotti alla relazione; il paradosso è quello di una molteplicità legata o di termini che si danno originariamente uniti da relazioni: discreti o distinti ma inseparabili, indissociabili. Questi termini fanno parte dell’intelletto divino e, a questo titolo, hanno solo una conoscenza parziale. È come dire che la conoscenza adeguata si presenta sempre composta, e per questa via torniamo al Trattato sull’emendazione dell’intelletto, ma questa volta su un piano ontologico: tutto è composizione, ossia definizione genetica; nell’universo cognitivo c’è solo un processo plurale e infinito di definizioni genetiche, alle quali devono corrispondere le analisi incessanti che permettono nuove sintesi. Si presenta tuttavia una difficoltà: non stiamo ricorrendo a composizioni relazionali che coincidono con le composizioni ideali, ricadendo quindi nel controsenso della relazione? Secondo una prima interpretazione, al rapporto di quiete e movimento, che forniva la legge della composizione di un corpo, corrispondeva l’idea – o la mente – come causa formale della sintesi delle sue parti, che non coincideva evidentemente con la causa efficiente che nel caso unico della causa sui. Ora, in virtù del concatenamento necessario delle idee le une con le altre, si delinea una seconda interpretazione: un’idea è data solo in quanto ne è data anche un’altra che ne è la causa e così via all’infinito.58 Si direbbe che alle idee composte si sovrappongono delle composizioni almeno puntuali di idee, che sarebbero i pensieri concreti e discreti di Dio.59 Chiamiamo questa visione della mente il controsenso della composizione. In effetti, la proposizione II, 9 contiene lo stesso avvertimento del testi citato in precedenza: «L’idea di una cosa singola esistente in atto ha come causa Dio non in quanto è infinito, ma in quanto è considerato affetto da un’altra idea di una cosa singola esistente in atto, della quale Dio è ugualmente causa, in quanto è affetto da una terza idea e così all’infinito» (Etica, II, 9 – sottolineatura nostra [tr. it. 843]).
Etica, II, 9. Un’affezione è una trasmissione puntuale di movimento da un corpo a un altro, che non può dar luogo a una composizione degna del nome di individuo, a meno che non s’instauri una regolarità - come nel caso della società civile; ma non è già, tendenzialmente, quello malato e mortifero dell’ubriacone con la sua bevanda o del libidinoso con la sua cortigiana? Questi casi di quasi composizione illusoria saranno esaminati nel cap. VII. 58 59
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Questo testo è un buon esempio del genio stilistico proprio di Spinoza, in quanto condensa in una stessa frase due regimi dell’infinito: l’infinito attuale (Dio «in quanto è infinito») e il regresso all’infinito, o «indefinito» secondo il termine cartesiano (Dio «in quanto è considerato…»). Una volta che la si sia individuata, la differenza è vistosa: il regresso all’infinito deriva da una maniera astratta di considerare la causalità divina come un rapporto duale indefinitamente ripetibile. Infatti, data in Dio un’idea, un’idea che Dio «ha» o che riceve come «un’affezione», non gli è data insieme soltanto un’altra idea o un’altra affezione, ma gli sono date tutte le altre.60 Non vi sono quindi tante composizioni quante sono le relazioni tra le idee, ma una sola e unica composizione universale che corrisponde all’individuo totale costituito dall’universo esteso. Ogni idea ha la sua causa prossima, ma l’universo cogitativo non è in alcun modo l’oggetto di una sintesi fatta passo passo: la sua causa prossima non può essere che il modo infinito che lo precede nell’ordine della produzione delle cose, ossia – se ha qualche fondamento l’ipotesi sostenuta sopra – l’intelletto assolutamente infinito, o l’idea di Dio in quanto essenza non ancora sviluppata, pura essenza del comprendere. In breve, l’intelletto infinito può essere visto sotto più punti di vista: 1. Dio in quanto pensa a tutto, costituendo così la natura di uno spirito infinito che è solo intelletto (positivamente, questo punto di vista è quello della conoscenza di tutte le cose; negativamente e come risultante, è quello della conoscenza dei limiti reciproci delle esistenze); 2. Dio in quanto pensa a un certo corpo umano, costituendo così la natura di uno spirito umano e contemporaneamente di un grandissimo numero di altri spiriti (questo punto di vista è quello della conoscenza di un corpo umano); 3. Dio in quanto pensa a una certa affezione di un corpo umano, costituendo così la natura di uno spirito umano e contemporaneamente quella di un altro spirito (questo punto di vista è quello della conoscenza di un’affezione). Solo la prima considerazione è concreta, tutte le altre danno prova di un’astrazione crescente, anche se fondata, nella misura in cui l’intelletto infinito è un pensiero simultaneo a tutte le cose particolareggiatamente: Dio ha effettivamente l’idea distinta di un corpo umano, di un’affezione. Solo l’eventuale quarta considerazione merita di essere eliminata: questa non preleva più il particolare, lo mutila; presenta frammenti privi di ogni concretezza in quanto non più corrispondenti a pensieri completi di Dio – ad esempio l’idea di un’affezione in quanto indica o include la propria
60 Già la dimostrazione della proposizione II, 19 estende quest’«altra idea» a «un gradissimo numero di altre idee», poiché il corpo che è oggetto dell’idea non deve soltanto essere prodotto da un altro (o da una combinazione di altri, considerati, a questo titolo, come un solo individuo: in sé stessa l’«altra idea» è già composta), ma deve essere sostenuto nell’esistenza da una quasi rigenerazione continua. Inoltre, siccome un corpo non riceve affezioni soltanto da ciò che lo rigenera, ma anche da ciò che lo aggredisce, lo mette in pericolo o lo avvelena, l’esistenza di un corpo si spiega anche con ciò che le pone un termine, ossia l’«ordine comune della Natura», di cui Dio ha conoscenza – vi abbiamo fatto allusione sopra - solo «in quanto ha le idee di tutte le cose» (Etica, II, 30, dim.).
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causa senza però esprimerla. Pertanto questa serie dei diversi aspetti sotto cui può essere considerata la produzione intellettuale della Natura ci esime da un terzo controsenso, per la verità il più elementare: il controsenso della successione. È evidente che, grazie ai suoi due grandi operatori simul e quatenus, lo spinoziano è una sintassi della simultaneità differenziata. L’intelletto infinito è un’infinità di connessioni simultanee che costituiscono la visione di altrettante microdimostrazioni, o un’unica dimostrazione attualmente infinita che si confonde con l’Occhio di Dio o della Natura (questo occhio – ricordiamolo – non è quello di un Dio che guarda dall’alto la sua produzione, poiché è esso stesso un prodotto del pensiero assoluto di Dio: è l’occhio immanente del conoscere universale). Parlare lo spinoziano, ossia la lingua delle articolazioni reali dell’intelletto infinito, permette tuttavia – in quanto idea dell’idea – di far scorrere una lente su certe parti del piano visivo per renderle nitide, oppure di cambiare lente – una lente per ogni ordine di considerazioni, per ogni grado del quatenus – e di preparare così in noi, forse, le condizioni dello sviluppo concreto di un occhio del genere. Sarà questa l’altra maniera, questa volta tutta positiva, di affermare la nostra partecipazione all’intelletto divino – e un ultimo uso del quatenus: «la nostra mente, in quanto percepisce le cose con verità, è una parte dell’intelletto infinito di Dio»,61 e «la nostra mente, in quanto intende, è un modo eterno di pensare determinato da un altro modo eterno di pensare, e questo a sua volta da un altro e così all’infinito, in modo da costituire, tutti insieme, l’intelletto eterno e infinito di Dio».62
4. In che senso le nozioni comuni sono idee
Una cosa è chiara: il nostro intelletto non uguaglierà mai l’intelletto infinito. Per questo, occorrerebbe che la nostra mente fosse l’idea, non di un certo corpo, ma di tutti i corpi (senza parlare dei modi degl’innumerevoli attributi che il nostro intelletto non conosce, in quanto idea di un modo della sola estensione).63 La nostra mente può pretendere solo di essere una parte dell’intelletto infinito. Tuttavia ne forma il concetto, così come ha il concetto dell’universo esteso; inoltre perviene al comprendere, poiché ha idee adeguate e il potere di collegarle in un certo ordine. In questo senso il termine «parte» va problematizzato e si pone al centro dell’attenzione concettualizzante. Non è infatti nello stesso senso che abbiamo pensieri parziali (mutili) di Dio e che partecipiamo alla sua attività intelligente. Il problema è questo: il concetto che formiamo dell’intelletto infinito non è evidentemente l’idea dell’idea infinita di Dio così come Dio la forma; possiamo avere una rappresentazione corretta dell’attività di questo intelletto,
Etica, II, 43, sc. [tr. it. 880]. Etica, V, 40, sc. [tr. it. 1084]. 63 Lettera 66 a Tschirnhaus. 61 62
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senza perciò conoscere quest’attività nell’infinito in atto delle sue ramificazioni. Questa distinzione non è quella stabilita da Cartesio tra «concepire» e «comprendere»;64 separa una conoscenza mediante nozioni comuni che ragiona su cose qualsiasi e muove dai casi generali, dalla conoscenza effettiva che l’intelletto infinito può avere di sé stesso, ossia della trama attualmente infinita delle sue idee, che è la conoscenza delle cose nei loro nessi. Un primo compito sarà quello di capire per quale aspetto le nozioni comuni possano essere dette idee pur non avendo come oggetto delle cose, e non essendo di conseguenza esse stesse cose pensanti o pensieri. In seguito – secondo compito – vedremo come Spinoza coordini questa condizione inferiore del comprendere con la nostra partecipazione al comprendere stesso di Dio; questa coordinazione, ed essa soltanto, giustifica e fonda il richiamo a questa conoscenza di terzo genere. A prima vista questa non sembra in realtà altro che la maniera in cui Dio conosce: separata dalla sua genesi elevata, può aver solo l’aspetto di un sogno contraddittorio. Come possiamo dire di avere idee adeguate se i nostri pensieri veri non sono che concetti nel senso banale del termine, ossia pensieri generali? Ma - si obietterà - come parlare di pensieri che non siano idee? Occorre che i nostri concetti siano idee, se non si vuole che perdano ogni realtà; occorre che abbiano un ancoraggio concreto, un oggetto. Per questo la fisica cogitativa esigeva una dottrina delle nozioni comuni. Una nozione comune è l’idea di una proprietà comune almeno a più corpi. L’esposizione del concetto deve toccare due punti: mostrare in che senso sia un’idea; mostrare come tale idea sia necessariamente adeguata. Perché dei corpi possano causarsi reciprocamente affezioni occorre che abbiano qualche cosa in comune, ossia quelle proprietà che consentono di pensare le affezioni, quali sono il movimento e la quiete, la velocità e la lentezza. In questo modo le idee di queste affezioni, formatesi inadeguatamente in ogni idea di un corpo che patisce un’affezione, contengono non solo la natura del corpo che patisce l’affezione e la natura del corpo che la produce (donde l’inevitabile confusione dell’idea, dal momento che il corpo esterno viene conosciuto solo mediante il suo effetto sul corpo proprio e quest’ultimo attraverso l’effetto del corpo esterno su di lui), ma anche una proprietà comune per mezzo della quale l’affezione è possibile. L’interpretazione di Gueroult, per la quale «l’affezione del corpo in quanto comprende A non ha altro contenuto che A»65 non ci sembra sostenibile e, anzi, ci sembra un controsenso dovuto alla
Cartesio, Principi di filosofia, I, art. 19: un intelletto finito non può comprendere l’infinito, ma solo concepirlo. 65 Gueroult, vol. 2, 337. Il malinteso comincia un po’ prima nella stessa pagina, quando Gueroult spiega che, nella dimostrazione II, 39, l’affezione non ha più come causa la natura del corpo che la produce e quella del corpo che la subisce, ma la proprietà comune propria ai due corpi, dopo aver detto che quest’ultima non è comune a tutti i corpi. Non riusciamo a vedere quale po64
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confusione tra le preposizioni latine a e per, che corrispondono tutte e due alla nostra preposizione «da». Il testo della dimostrazione della proposizione II, 39 non lascia sussistere alcun’ambiguità: il corpo umano è «affetto da un corpo esterno» (a corpore externo affici) e lo è «mediante ciò che ha in comune con esso» (per id, quod cum eo habet commune).66 Spinoza, dunque, distingue tra il contenuto dell’affezione e la sua condizione di possibilità: 1. quando un corpo riceve un’affezione da un altro, ciò avviene sempre in virtù di quel che ha in comune con esso, quale che sia il grado di questa comunanza (la regola vale per le due specie di nozioni comuni, universali e specifiche); 2. non si vede come il carattere comune potrebbe da solo essere il contenuto di un’affezione, se non per mezzo di un’operazione di astrazione, come quella del fisico che ragiona su corpi qualsiasi, e che quindi viene affetto da una goccia d’acqua o da una biglia che scorre su un piano inclinato solo dal punto di vista del loro movimento. In questo senso, la teoria delle nozioni comuni enuncia le condizioni di possibilità della fisica. Tuttavia, proprio perché le enuncia, coglie il percepire fisico nel suo momento genetico, che è l’idea di un’affezione «in quanto include la proprietà A». Vanno diversamente le cose nel caso di una proposizione comune solo a qualche corpo? Traduciamo in spinoziano. Sono possibili due varianti. Una fa comparire un nuovo operatore, il tam… quam, l’altra ricorre al raddoppio del quatenus: se A è una proprietà comune almeno a certi corpi, 1. in Dio si dà l’idea di A «sia in quanto Dio ha l’idea del corpo umano, sia in quanto ha l’idea delle sue affezioni»;67 2. l’idea dell’affezione, in quanto include A, si dà in Dio in quanto Dio ha l’idea del corpo umano.68 La prima formula è paradossale, poiché per principio in Dio si dà l’idea di un’affezione solo in quanto Dio ha l’idea del corpo umano
trebbe essere il senso di una simile distinzione, a meno di condividere con Gueroult il pregiudizio dell’essenza specifica; in tal caso, evidentemente, non è più possibile invocare una causa duplice. La questione non è priva d’importanza: due esseri umani non producono forse affezioni l’uno sull’altro solo in virtù di ciò che hanno di propriamente umano? Le loro affezioni reciproche non contengono sempre una proprietà umana? In quanto parlano, certamente; ma anche in quanto si torturano, si affamano, si uccidono? Se un cavallo o un pesce non causano affezioni in un uomo come farebbero se questi fosse rispettivamente un cavallo o un pesce (cfr. III, 57, sc.), accade per contro che un uomo subisca affezioni da un altro uomo come se si trattasse di un bruto (sull’inumano, cfr. IV, 50, sc.). La risposta di Spinoza, data la dimostrazione II, 39, non presenta dubbi: l’affezione per il tramite di una proprietà comune viene presentata come un semplice caso («Supponiamo ora che…»). La parte IV dell’Etica lo conferma: «In quanto gli uomini sono soggetti alle passioni, non si può dire che si accordino per natura» (prop. 32 [tr. it. 998]); «Gli uomini possono essere diversi per natura in quanto sono combattuti da affetti che sono passioni» (prop. 33 [tr. it. 999], e in seguito, negli scoli IV, 35 e 37. 66 Anche se la frase si riferisce al caso speciale di un’affezione umana tra corpi umani, è evidente che ha una portata universale, poiché è assurdo che un corpo produca un’affezione in un altro altrimenti che mediante ciò che ha in comune con esso. 67 Etica, II, 38, dim. [tr. it. 873]. 68 Etica, II, 39, dim.
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e, insieme (simul), l’idea di un corpo esterno. Poiché due corpi non sono mai rigorosamente identici, essendo prodotti come proprietà distinte derivanti dalla natura dell’estensione, non è possibile che in Dio l’idea dell’affezione si dia solo (tantum) in quanto ha l’idea del corpo umano. Per questo si dice che nella mente umana è data interamente – e, per questo motivo, adeguatamente - l’idea della proprietà comune, e non l’affezione che è implicito che essa contenga. Ma quest’idea esiste in Dio separatamente? La risposta è no, donde la seconda formula. Le proprietà comuni esistono nella natura (o nell’intelletto infinito) solo inviluppate. Non vanno confuse con quelle proprietà della natura pensante che sono le idee, né con le proprietà di queste ultime che, in quanto parti componenti, sono anch’esse idee (così come l’idea del braccio, in quanto proprietà deducibile dall’idea del corpo umano). Una proprietà comune è sempre in inviluppo, poiché non è mai la coincidenza di due proprietà identiche. Solo un intelletto finito può essere interessato ad estrarle per quel che sono: vi ottiene una rappresentazione astratta e generale ma adeguata della Natura, ad esempio una fisica dell’estensione e una fisica del pensiero. Dal punto di vista dell’intelletto infinito, ossia della rappresentazione universale concreta, una simile operazione è assurda. Dire in assoluto che in Dio si dà l’idea di una proprietà comune, come Spinoza fa inizialmente, non è che un modo di dire, non solo perché la proprietà comune vi è data in forma inviluppata, ma perché non vi è data come un’idea in senso stretto. Le proprietà di un’idea non possono rimanere anch’esse implicite? Certamente no, altrimenti, in base alle nostre precedenti analisi, sarebbe un segnale patologico. Ma non è questo il caso della ragione o dell’intelletto del bambino? È proprio questo il problema, e perciò, come s’è visto, Spinoza è tormentato dall’idea di trasformazione. Non possiamo dire almeno che certe idee esistono solo in quanto comprese o contenute nell’idea di Dio? Ma anche a questo abbiamo già risposto: questo è vero solo dal punto di vista della durata; in compenso, l’intelletto infinito di Dio non può essere concepito né prodotto che eternamente in atto. Occorre quindi decidere: il solo modo dell’inviluppo, nell’intelletto infinito, è quello delle nozioni comuni. Così, almeno, sono fondate ontologicamente, al contrario delle figure che sono solo enti di ragione, e le loro connessioni non sono più debitrici della finzione. Occorre però andare oltre: idee, le proprietà comuni inviluppate lo diventano pienamente a partire dal momento in cui vengono prelevate dall’intelletto umano nella trama continua delle idee di affezioni. Il che ci riporta all’enunciato della fisica cogitativa già citato: l’idea del corpo o della mente «è composta di molte altre, alcune delle quali sono adeguate (secondo il corollario della proposizione II, 38), altre invece inadeguate (secondo il corollario della proposizione II, 29)».69 Certamente c’è qui un grande paradosso: la fisica
69
Etica, III, 3, dim. [tr. it. 904].
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cogitativa prevede casi di autogenerazione parziale, poiché le idee adeguate non sono alimenti e provengono dall’idea di cui sono parti componenti. Poter produrre le proprie parti, poter crescere dal di dentro, è questo il proprium dello spirito attivo.70 Nell’intelletto infinito, dunque, sono date certe idee di proprietà comuni.71 Spinoza propone pertanto un’ultima traduzione: «Infatti, quando diciamo che nella mente umana un’idea segue da idee che in essa sono adeguate, non diciamo altro (secondo il corollario della prop. 11) se non che nello stesso intelletto divino si dà un’idea di cui Dio è causa non in quanto è infinito né in quanto è affetto da idee di moltissime cose singolari, ma in quanto costituisce soltanto l’essenza della mente umana» (Etica, II, 40, dim. [tr. it. 874-875]).
5. Daccapo, delle essenze e dei lettori colpiti da strabismo
Dopo i controsensi della relazione, della composizione e della successione ne rimane un ultimo da evitare: il controsenso delle essenze. Vi abbiamo già fatto cenno nel capitolo precedente a proposito dell’illusione dello sdoppiamento. Dobbiamo ritornarvi, poiché nel momento di affrontare il terzo genere di conoscenza, il pregiudizio potrebbe aver l’aria di trovare nuove armi. L’intelletto infinito, questo «spazio mentale ideale»72 nel quale coesistono tutte le idee, non va contrapposto alla facies totius universi, di cui abbiamo detto che si esprime in tutti gli attributi secondo la differenza dell’eternità e della durata. Questo condurrebbe a sdoppiarlo, per spiegare un regno delle idee periture e un regno delle idee eterne.73 Al contrario, come l’universo esteso è in divenire sotto l’aspetto dei corpi presi in un ordine di determinazione reciproca, ma è eterno e tutto in atto in ogni sua minima parte sotto l’aspetto dell’intero concatenamento, così l’universo delle idee è in divenire sotto l’aspetto delle menti che vi si concatenano, ma eterno e tutto in atto sotto l’aspetto dell’intero concatenamento. È infatti un unico e identico universo, e Dio produce una sola serie infinita di cose, benché in un’infinità di espressioni. La logica del Deus quatenus assicura appunto l’articolazione dei due piani, dell’eternità e della durata. Di fronte al controsenso dell’essenza, c’è una sola arma cui ricorrere: la
70 Donde l’inneismo suggerito da Gueroult, che richiederebbe una lunga discussione. Cfr. vol. 2, 331. 71 Se si volesse dirlo in spinoziano, si dovrebbe farlo per mezzo di un operatore distributivo, poiché la stessa nozione comune può essere data in Dio in quanto Dio si esplica mediante un certo spirito umano, ma anche mediante un altro ecc. In effetti, una stessa nozione comune è identica in tutte le menti che la formano. 72 P. Macherey, vol. 2, 64. 73 Secondo l’ipotesi di Gueroult, che parla di un «universo delle idee-esistenze» e di un «universo delle idee-essenze» (vol. 1, 316). Cfr. anche vol. 2, 120.
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proposizione I, 16. Ad essa fa ricorso la dimostrazione del famoso enunciato che prelude alla trattazione sulla conoscenza di terzo genere: «In Dio si dà tuttavia necessariamente un’idea che esprime l’essenza di questo o di quel corpo umano sotto l’aspetto dell’eternità» (Etica, V, 22 [tr. it. 1070]).
Sarebbe errato vedervi qualche cosa di diverso dalla conoscenza qual è stata definita a partire dalla parte II: «La mente umana, infatti, è la stessa idea o conoscenza del corpo umano (secondo la prop. 13); questa idea (secondo la prop. 9) è in Dio in quanto è considerato affetto da un’altra idea di cosa singolare… Dio dunque ha l’idea del corpo umano, ossia conosce il corpo umano in quanto è affetto da moltissime altre idee e non in quanto costituisce la natura della mente umana» (Etica, II, 19, dimostrazione [tr. it. 861-862]).
L’espressione «questo o quello» (hujus et illius) non cambia niente; dal momento che si tratterà non più di individuare nozioni comuni a tutte le menti umane, ma di insistere sulla salvezza di ciascuno in particolare, Spinoza riformula l’enunciato nella prospettiva da lui voluta, ma senza cambiarne per niente il senso. Credere che, nel testo appena citato, la « conoscenza del corpo umano » non sia una conoscenza essenziale della cosa, sarebbe attenersi al’insoddisfacente dualismo del Trattato sull’emendazione dell’intelletto. È possibile credere che si tratti solo delle circostanze e che Dio si procuri una conoscenza affatto accidentale della cosa, per pensarne l’essenza solo su un piano più profondo? È possibile attribuire al genio impegnato di Spinoza un distinguo tanto formale e gratuito? Ricordiamo che in Dio le idee di affezioni sono date solo in quanto Dio costituisce l’essenza di almeno due menti contemporaneamente. Solo apparentemente la dimostrazione II, 19 conferma l’idea di una conoscenza adeguata del corpo solo per mezzo dei suoi accidenti; di fatto essa unisce all’idea di una conoscenza del corpo per mezzo dei corpi che agiscono su di lui una fisicizzazione della definizione genetica. Quest’unione è decisiva, poiché oramai la definizione genetica genera la cosa realmente e non più in maniera fittizia. Dio «ha» o «è affetto» da un’infinità di idee, che sono tutte le proprietà derivanti dalla sua natura considerata sotto l’attributo pensiero. Queste sono altrettante menti che coesistono e che compongono così un intelletto infinito. Questo intelletto, a somiglianza dell’universo dei corpi, può essere concepito in due maniere: sotto l’aspetto della durata, e in questo caso si afferma la sua permanenza attraverso infinite variazioni; in un momento dato della durata, infatti, l’intelletto infinito è composto da un certo infinito attuale che non è più esattamente lo stesso di un anno prima o di un anno dopo, poiché certi spiriti sono scomparsi, sostituiti da altri che a loro volta cederanno il posto ad altri ancora, secondo una logica di composizione e scomposizione operante su termini già a loro volta composti. Oppure lo pensiamo qual è in sé stesso, come 162 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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l’ordine infinito di tutte le idee derivanti necessariamente dal Pensiero; non è più l’infinito attuale costituito da una sezione trasversale della durata, relativa quindi a uno spirito finito, bensì l’infinito mentale attuale nella sua totalità, che abbraccia anche l’infinità della durata ma si dispiega nella simultaneità propria dell’eterno. Ancora una volta, crediamo che il controsenso sarebbe di contrapporre quest’ordine eterno a quello della durata, come potesse trattarsi di due ordini diversi; sono le stesse idee che coesistono eternamente nell’universo mentale e che si succedono sotto l’aspetto della durata. Possiamo, anzi dobbiamo, pensare, questa successione sul piano della simultaneità, in cui l’infinità delle idee si distende secondo la trama delle relazioni logico-causali derivanti dalle loro essenze. L’intelletto infinito, lungi dall’essere una disposizione statica di idee puntuali, collega quindi le sue parti secondo nessi irreversibili che le conferiscono la forma del racconto: la forma della durata vi è quindi iscritta e la rende possibile.74 Dalla natura dei termini in un momento qualsiasi del racconto deriva una certa trama di rapporti reciproci che sfoceranno in una ridistribuzione dei termini, e così via all’infinito. Se può accadere che si chieda perché un certo termine si trova in un certo punto e non in un altro (perché Napoleone non avrebbe potuto dar la caccia ai mammouth e Spinoza commentare la conquista dello spazio) è perché si separano indebitamente la deduzione infinita delle idee dal loro modo di emergere nel gioco della determinazione reciproca; separando le cose dalla loro causa prossima, non si ragiona più sulle essenze, ma sulla base di semplici «sintesi spontanee»75 operate dall’immaginazione. È inevitabile allora immaginare la produzione delle esistenze separata da quella delle essenze, come in un gioco leibniziano in cui si tratterebbe di calcolare l’ordine in cui queste ultime potrebbero connettersi le une con le altre. In verità, l’infinità delle idee deriva dalla natura pensante nel modo infinito che le contiene tutte come determinantisi reciprocamente. Un’altra variante del medesimo controsenso si ritrova in Ferdinand Alquié, quando confronta la concezione spinoziana e quella tomista delle essenze; nel tomismo – ci spiega – l’esistenza individua le essenze, mentre Spinoza concepisce le essenze come a priori individuali.76 Se, però, in Tommaso d’Aquino le essenze sono individuate dall’esistenza, è perché sono di natura specifica, mentre Spinoza, prima dell’esistenza, porrebbe delle essenze già individuali. Il ragionamento di Alquié è condotto in realtà dal punto di vista del tomismo, per il quale le essenze preesistono alle esistenze. Per contro, in Spinoza non c’è alcuna anteriorità di questo tipo, come dimostrano la proposizione I, 16 e il rifiuto di un intelletto
74 A Spinoza capita di dire che «le idee non sono altro che narrazioni o storie [tr. it. descrizioni mentali, 358] della natura nella mente» (Riflessioni metafisiche, I, cap. 6). 75 L’espressione è di Pierre Macherey, vol. 2, 195. 76 Alquié, Servitude et liberté chez Spinoza, 114.
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divino creatore.77 Andiamo oltre. La lettura dell’ultima parte dell’Etica dovrebbe dissuadere ogni lettore dal ricorrere allo sdoppiamento di essenza ed esistenza: la questione dell’eternità della mente obbliga in effetti Spinoza a una grande precisione. Prendiamo in considerazione la dimostrazione della proposizione V,23: la mente e la sua essenza non vi sono trattate come due entità distinte, ma al contrario come la stessa mente, concepita o in quanto «esprime l’essenza del corpo umano», oppure «in quanto esprime l’esistenza attuale del corpo». Nel caso il lettore non se ne sia accorto, Spinoza ripete la distinzione alla fine dello scolio: «in quanto implica l’essenza del corpo sotto l’aspetto dell’eternità» e «solo in quanto implica l’esistenza attuale del corpo». Giustamente si insiste sul motivo decisivo del Deus quatenus, ma non si considera abbastanza che la filosofia dell’immanenza implica anche una teoria della Mens quatenus, e infine persino una teoria della Res quatenus: «Le cose sono concepite da noi come attuali in due modi: o in quanto le concepiamo esistenti in relazione a un tempo e a un luogo determinati, o in quanto sono contenute in Dio e seguono dalla necessità della natura divina» (Etica, V, 29 [tr. it. 1075]).
Le dimostrazioni delle proposizioni 30 e 31 sviluppano questa teoria e specialmente il primo caso, quello in cui la mente è concepita «in quanto è eterna»:78«Concepire dunque le cose sotto l’aspetto dell’eternità significa concepirle in quanto, mediante l’essenza di Dio, vengono concepite come enti reali (entia realia), ossia in quanto, mediante l’essenza di Dio, implicano l’esistenza».79 Infine, rispetto al Trattato sull’emendazione dell’intelletto, l’assurdità della concezione strabica delle cose è dimostrata dal modo in cui ora Spinoza pensa su uno stesso piano – quello dell’intelletto infinito - le idee delle cose e le idee delle affezioni. Non si tratta più di cambiare piano, di porsi su un qualche improbabile piano delle pure essenze, un’illusione prodotta dal metodo, nella misura in cui questo si basava sulla geometria. Oramai la differenza tra la cosa conosciuta
77 Per questo non possiamo accettare nemmeno la formula di Alexandre Matheron, Remarques sur l’immortalité de l’âme chez Spinoza, in Anthropologie et politique au XVIIe siècle (études sur Spinoza), 8: «L’essenza di una cosa è il suo dover-esistere, o la proprietà di Dio di doverla produrre necessariamente». Da questa premessa l’autore fa discendere in serie tutti gli sdoppiamenti: 1. conferisce all’essenza due esistenze distinte, una «attuale», l’altra «attuale eterna»; 2. fa sua la duplicazione dell’intelletto infinito operata da Gueroult; 3. distingue l’idea in quanto anima dall’idea in quanto non è ancora un’anima ma tende a divenirla (12). Quest’idea, espressa due volte, di una tendenza all’esistenza è certamente leibniziana, ma non vediamo quali testi di Spinoza potrebbero accreditarla. Ricordiamo che la distinzione di queste due esistenze dell’essenza – se ha senso quest’espressione – è concepita solo dal punto di vista finito di una cosa che dura. 78 Etica, V, 31, dim. [tr. it. 1076]. 79 Etica, V, 30, dim. [tr. it. 1075].
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dall’interno nella sua essenza e la cosa vista dal di fuori attraverso una molteplicità di circostanze viene riferita alla coppia di passività e attività, ossia al farsi intelletto di una mente. Esistono certo due piani, che però non indicano più ordini distinti di realtà. Non si tratta più, infatti, di prendere le distanze dall’esistenza in atto: la conoscenza sub specie aeternitatis coglie le cose esistenti stesse nella loro essenza. Per la verità, tutto cambia a partire dal momento in cui si prendono in considerazione cose e non più enti di ragione; non essendo, infatti, le cose puri prodotti dell’intelletto come le figure geometriche, non possiamo conoscerle che partendo dalle affezioni che ci procurano, come abbiamo visto studiando le nozioni comuni (la questione è ora di sapere come si passa dal «secondo» al «terzo genere» di conoscenza). Perché mai tanti commentatori ritengono naturale ripristinare quei sopra-mondi di cui la filosofia di Spinoza si adopera di dissipare l’illusione? È questo mondo che si tratta di concepire sub specie aeternitatis, anche se l’eternità dei modi non è quella della sostanza. È necessario che i modi esistano perché è necessario che siano prodotti e che lo siano in un solo e medesimo atto sia quanto all’essenza sia quanto all’esistenza; ma non per questo la loro esistenza è necessaria, poiché non discende dalla loro essenza; per questo 1. i modi in generale sono eterni solo in altro (la sostanza), 2. i modi finiti sono eterni solo a titolo di parti di un modo eterno e infinito. Per comprendere questo non è necessario sdoppiare il mondo: deve bastare la logica modo-parte. Occorre non rimettere del platonismo in una filosofia che forse per prima ha tentato di abolirlo completamente.80
80 Nella lettera 56 a Boxel, Spinoza riabilita i materialisti antichi a scapito di Aristotele e Platone. Il fatto che nel cap. XIII del Trattato teologico-politico (Appuhn, 230), accanto al nome di Aristotele ricompaia quello di Platone non ha nulla di stupefacente: si tratta appunto di demistificare quei retromondi di cui gli esegeti credono di decifrare i segni nel testo biblico. Aristotele e Platone sono i due grandi sognatori della filosofia. Sulla concezione spinoziana dell’onirismo, cfr. sotto, cap. VII.
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Capitolo VI Mutazioni, eternità e morte mentali
1. In che senso la mente è eterna (e, da capo, in che senso le nozioni comuni sono idee)
Il problema della dottrina finale della «parte eterna» della mente va posta a partire dalla constatazione che tutta la mente è eterna, compresa la più piccola delle sue affezioni.1 È importante tener presente che a partire dalla proposizione V, 21 Spinoza si esprime in termini di dopo la vita presente. La formulazione diventa paradossale poiché non si accontenta più di distinguere come prima tra durata ed eternità, e nemmeno di combinarle, ma comincia a metterle in rapporto l’una con l’altra o, più esattamente, a cogliere l’una nell’altra. Se non si fa attenzione a questa nuova situazione, non si può capire come, senza essere incoerente, Spinoza possa affermare che la mente non può «distruggersi del tutto» col corpo.2 Per prima cosa, la mente e il corpo sono eterni solo in quanto partecipano all’ordine universale (modi infiniti mediati o facies totius universi). Sembrano inevitabili due conseguenze: 1. nemmeno il corpo deve «distruggersi del tutto»; 2. l’eternità della mente e del corpo coincide assolutamente con la loro durata, e per questo ognuno può cogliere, fin da questa vita – poiché non ce n’è un’altra – quel che egli è e quel che sono le cose viste con «la categoria dell’eternità».3 In queste condizioni, che cosa può significare la parte di eternità promessa da Spinoza agli spiriti che avranno saputo sviluppare in sé l’intelletto? Tutti sanno che non è l’immortalità, nel senso di una pseudo-eternità, che sarebbe il prolungamento indefinito della durata.4 Non è nemmeno l’eternità nel senso della categoria secondo la quale le cose sono comprese dalla mente e la mente da sé stessa; non si vede, infatti, perché mai una parte vi si sottrarrebbe (nell’intelletto divino, le nostre affezioni esistono per l’eternità). Tutto avviene come se a certe idee che compongono la mente non si potesse assegnare un posto nell’intelletto infinito, ma quelle lo sorvolassero per intero… Se osserviamo attentamente la dimostrazione della proposizione V, 23,
1 È già il punto di partenza di Alexandre Matheron, Remarques sur l’immobilité de l’âme chez Spinoza, op. cit., 7: «In un modo o nell’altro, tutte le cose devono presentare questo carattere». 2 Etica, V, 23 [tr. it. 1071]. 3 Per riprendere , al seguito di Matheron e P.-F. Moreau, la felice traduzione di Brunschvigc, Spinoza et ses contemporains, 123. 4 Etica, V, 23, sc.
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vediamo che, quando dice che la mente «non può distruggersi del tutto di essa rimane qualche cosa», Spinoza sta usando due registri. Questo residuo, infatti, ha senso solo se si cambia drasticamente prospettiva, passando dalla durata all’eternità (dalla mente in quanto esprime l’esistenza attuale del corpo, alla stessa mente in quanto esprime questa volta l’essenza del corpo. Dell’esistenza attuale non rimane nulla, né la mente né il corpo fanno ritorno a un «teatro più lieve» come in Leibniz. Come può Spinoza introdurre il tema di una pars aeterna dello spirito? Che altro sarebbe se non la salvezza dipinta in un trompe-l’œil barocco? Ci sembra che anche un’interpretazione come quella di Alexandre Matheron involontariamente giochi su due registri: «… quando la nostra essenza, cessando di attuarsi, si troverà ridotta alla sua solitudine eterna nel modo infinito immediato dell’estensione…».5 Non siamo lontani dal ritorno a un «teatro più lieve», e non è certo un caso che, nello stesso articolo, A. Matheron attribuisca a Spinoza un altro tratto leibniziano, complementare: la tendenza delle essenze a passare all’esistenza.6 Soprattutto, questa visione delle cose implica il punto di vista della durata: « cessando di attuarsi». Solo mettendo in parallelo l’eternità e la durata si può dire che certe idee cessano (le idee inadeguate) mentre altre rimangono, essendo destinate all’eternità. Al contrario, dal punto di vista dell’eternità, che è quello dell’intelletto infinito, le idee di affezioni, concepite inadeguatamente dalla mente, sono altrettanto eterne di quelle che la mente concepisce adeguatamente. La sola differenza è che la mente è autrice solo parzialmente delle une e interamente delle altre. Se Spinoza ha in mente un’eternità in un senso più speciale, occorre un’interpretazione diversa. Le due sole premesse di cui siamo sicuri sono: 1. il legame tra l’eternità e l’intelletto, ossia tra la parte eterna e quella intellettuale dello spirito; 2. il paradosso di un’eternità proporzionale alle prestazioni intellettuali fornite nella durata.7 Cominciamo dal paradosso. Se l’iniziare del pensiero eterno nella durata fosse un semplice modo di parlare, dovremmo ammettere di aver sempre avuto tale pensiero, non senza saperlo, ma senza che lo conoscessimo nella durata (cosa concepibile, poiché il modo di conoscenza corrispondente alla durata è l’immaginazione); il problema è che, in questo caso, per l’eternità di questo pensiero diventa indifferente che durante l’esistenza della mente sia diventato cosciente o meno. Quest’idea è in blando contrasto con la proposizione V, 39 e il suo scolio, dopo tutto ambigui, ma in drastica contraddizione con l’unicità del piano della produzione delle cose stabilita dalla proposizione I, 16, unicità
Matheron, op. cit., 15.6 Etica, V, 23 [tr. it. 1071]. In Leibniz, evidentemente, non c’è legame diretto tra i due temi, poiché nascita e morte non vanno intese «rigorosamente» ma si realizzano nell’esistenza, che presuppongono e non mettono in causa. Vedi, ad esempio, i Principi della natura e della grazia, § 6. 7 Etica, V, 39 e sc. 5 6
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dalla quale non possiamo staccarci : se un’idea è prodotta da una mente, ciò avviene quando questa mente esiste nell’ordine universale della produzione delle cose finite, e occorre ancora una volta richiamare che la pretesa eternità dell’essenza di una cosa, in rapporto alla durata limitata dell’esistenza di questa cosa, non è che il punto di vista ingannevole della stessa durata, come testimonia sufficientemente per altro il fatto che non si può evitare di immaginarla come debordante l’esistenza prima e dopo. Per la verità, l’essenza è eterna nel punto stesso del concatenamento infinito delle cose in cui la cosa esiste (cfr. la fisicizzazione della definizione genetica spiegata sopra) – così che in spinoziano, che è la lingua dell’intelletto infinito, non si parla mai di una conoscenza secondo l’essenza e di una conoscenza secondo l’esistenza. Di conseguenza, l’eternità di cui godiamo fin da questa vita è l’unica, e non ne godremo mai altrimenti da come ne godiamo attualmente (poiché non c’è vita futura più di quanto non vi sia una vita antecedente): donde l’urgenza di sviluppare quanto più possibile il nostro intelletto – la beatitudine, infatti, è adesso o mai più. Passiamo al secondo aspetto: la nostra vita viene scritta su tavole eterne, ma l’eternità parziale della mente di cui parla Spinoza va intesa in un altro senso, esattamente nel senso in cui la vita stessa della mente si svolge su due piani eterogenei, la durata e l’eternità, l’immaginazione e l’intelletto. La parte eterna è quella che comprende sub specie aeternitatis. O meglio – dato che l’illusione delle facoltà fa presto a ricomparire – la mente è eterna in quanto comprende sotto la categoria di eternità, in altri termini in quanto ha idee adeguate. Questa distanza vissuta di durata ed eternità deve iscriversi in qualche modo nell’eternità stessa. Ora, noi sappiamo in che modo vi s’iscrive: a seconda che i pensieri di Dio si danno in noi interi o parzialmente; in altri termini, a seconda che noi partecipiamo attivamente o meno al pensiero divino, potendo considerarci nella Natura produttori o autori di pensieri. In questo senso, non ci pare che per Spinoza il carattere personale dell’eternità costituisca un problema, al contrario. Più siamo eterni in questa vita, cioè nella vita, più Dio pensa attraverso di noi, ossia più partecipiamo noi stessi all’attività mentale universale. La nostra parte di soggetti pensanti acquista importanza rispetto a quella di soggetti pensati; la cosa che noi siamo, che era eterna solo dal punto di vista di Dio e della sua intelligenza, si appropria in parte di questa eternità. Concretamente, certi pensieri di Dio si chiamano Talete, Nietzsche, Einstein ecc., o forse Cristo. In breve, l’eternità della mente in Spinoza può avere un solo senso non contraddittorio: la parte eterna di una cosa finita il cui modo di esistenza, in quanto finita, è la durata; la parte eterna di un pensiero finito nella sola esistenza che possiede, anch’essa finita. Non siamo tuttavia ancora al termine delle nostre fatiche. Di che natura sono le nostre idee adeguate? Sono veramente pensieri di Dio? In altri termini, sono pensieri di cose o soltanto di proprietà di cose (nozioni comuni)? Ora, se è vero che l’universo intero cospira alla produzione di una cosa, la fisicizzazione della definizione genetica non ci impedisce irrimediabilmente l’accesso alla conoscenza delle cose stesse? È venuto il momento di interrogarci sul rapporto tra la 169 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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«ragione» e la «scienza intuitiva». Prendiamo la proposizione V, 24: «Quanto più conosciamo le cose singole, tanto più conosciamo Dio» [tr. it. 1072]. Come dice la dimostrazione, questo «è evidente», perché le cose sono affezioni degli attributi di Dio o i modi nei quali questi si esprimono8 (per la stessa ragione è ugualmente evidente che per «cose singole» si devono intendere gl’individui stessi e non le specie, il cui carattere astratto è stato richiamato in un precedente capitolo, dal momento che da nessuna parte si parla di una produzione degl’individui distinta dagli infinita infinitis modis della proposizione I, 16). Questa evidenza, tuttavia, è ipotetica, poiché ancora non sappiamo come possiamo «conoscere le cose singole». Ugualmente ipotetiche sono le tre proposizioni seguenti; si fondano solo sulla definizione del terzo genere di conoscenza, senza preoccuparsi della sua possibilità pratica. Le cose vanno diversamente a partire dalla proposizione V, 28 che affronta il problema della genesi. La sua dimostrazione , però, è oscura: lascia intendere che le idee del terzo genere possono venir dedotte da quelle del secondo genere e comporta una distinzione artificiale, tutta verbale, riservando il «chiare e distinte» alle prime, l’«adeguate» alle seconde. L’imbarazzo è evidente. Nel passaggio dalla conoscenza delle proprietà comuni delle cose alla conoscenza delle cose stesse nella loro individualità non può che esserci un salto, quand’anche questo fosse preparato da tentativi di accostarsi sempre più da presso alla cosa singola mediante generalità sempre più fini o nozioni comuni sempre più appropriate; in Spinoza non c’è passaggio al limite o species infima, e per questo, senza dubbio, si ha lo sforzo di conoscere secondo il terzo genere, non questa conoscenza stessa. La proposizione V, 29 è decisiva: «Tutto ciò che la mente conosce sotto l’aspetto dell’eternità, lo conosce non perché concepisce l’attuale presente esistenza del corpo, ma perché concepisce l’essenza del corpo sotto l’aspetto dell’eternità».
La proposizione è apodittica a causa del rinvio alla teoria delle nozioni comuni, che vengono concepite infatti sub specie aeternitatis.9 Ciò cui mira è stabilire un rapporto di condizionamento o di implicazione (ex): se comprendiamo le cose sub specie aeternitatis, è perché conosciamo pure l’essenza del nostro corpo sub specie aeternitatis. Questo rapporto verrà in seguito ulteriormente riformulato con l’operatore quatenus.10 Questa proposizione, quindi, sembra dare origine al terzo genere: il salto di cui parlavamo è possibile perché è implicito, e quindi già avvenuto nella conoscenza di secondo genere.11 Per definizione un salto
Etica, I, 25, cor. (al quale rinvia la dimostrazione V, 24). Etica, II, 44, cor. 2 (al quale rimanda la dimostrazione V, 29). 10 Etica, V, 29, dim.; 30, dim.; 31, dim. 11 Come scrive A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, 580, «nella sua forma più modesta, la conoscenza di secondo genere nascondeva implicitamente una conoscenza di terzo genere del nostro corpo e della nostra anima» (sottolineatura nostra). 8 9
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logico è irrazionale, a suo riguardo non c’è niente da dire, niente, almeno, che sia in grado di spiegarlo. Ora, realmente il terzo genere può essere dedotto, ma in nessun caso nel modo grossolano confusamente evocato nella dimostrazione della proposizione precedente. A far da guida a Spinoza è la preoccupazione della coerenza; avendo definito la mente come l’idea di un certo corpo, occorre che le sue idee adeguate siano sempre in qualche modo pensieri su questo corpo o che lo contengono. Di fatto, attraverso le nozioni comuni, la mente si innalza dal piano delle affezioni a una prospettiva ad esse estranea, comprensibile «altrettanto» (vedi l’operatore tam… quam) come puro prodotto dell’intelletto;12 correlativamente, questa prospettiva include distintamente l’essenza del corpo proprio, esattamente là dove questa non differisce più dall’essenza del corpo che produce l’affezione e non può quindi confondersi con quest’ultima.13 Quando il fisico Cartesio enuncia le sue sette leggi dell’urto, anche false, nel corso del suo ragionamento considera il proprio corpo così come gli altri sotto la categoria dell’eternità. È però evidente che la proposizione 29 va oltre. Non è possibile vi si tratti solo di una proprietà appartenente all’essenza del proprio corpo come all’essenza di ogni altro, fosse anche una proprietà specificamente umana; ne è prova lo hujus et illius della proposizione 22. Certamente si presuppone che noi possiamo formare una nozione comune di ciascuna delle nostre affezioni:14 il cerchio della ragione si stringe intorno al nostro corpo, produce i suoi effetti sul corpo come sulla mente, ma non compie ancora quel salto di cui abbiamo tuttavia appena visto che doveva essere già virtualmente compiuto. L’inferenza messa in opera nella dimostrazione della proposizione 29 non è un po’ cieca? La mente non vede quel che viene affermato, e questo è per lo meno paradossale per un presunto caso di «scienza intuitiva». Ci appelleremo a un’intuizione inconscia (il nascondiglio implicito di cui parla Alexandre Matheron)? Senza dubbio, il cerchio sempre più sistematico delle idee adeguate delle affezioni del nostro corpo non coincide mai col suo centro, non fornisce la chiave di nessun salto, ma include questo centro nella misura in cui mira ad esso. In verità, fa più che mirare ad esso, poiché innegabilmente la ragione penetra l’essenza individuale; tutto quello che la ragione vi preleva, tuttavia, è comune. Ci troviamo qui al centro della difficoltà: la conoscenza adeguata del corpo umano non presuppone forse la conoscenza integrale dell’universo (definizione genetica reale)? Le nozioni comuni non sono forse incapaci di raggiungere mai l’essenza, nella misura in cui hanno per oggetto
Come abbiamo fatto osservare, una nozione comune è un’idea data in Dio «sia in quanto ha l’idea del corpo umano sia in quanto ha l’idea delle sue affezioni» (Etica, II, 38, dim. [tr. it. 873]). 13 Una confusione richiede l’eterogeneità di almeno due termini. In quanto invece i termini comunicano in forza della loro identità, formano un’unità logica che può solo venir percepita distintamente. 14 Etica, V, 4, dim. 12
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solo proprietà comuni e non le proprietà necessariamente individuali che derivano da ogni essenza dei corpi? Si noterà che la dimostrazione della proposizione V, 30 identifica quasi il cerchio delle nozioni comuni e il nucleo dell’essenza… Di fatto, Spinoza non si permette mai di dire quel che noi, ingenuamente, ci aspettiamo: che in quanto conosciamo le cose sub specie aeternitatis,abbiamo l’idea del rapporto che costituisce il nostro corpo e del quantum di sforzo che gli appartiene. Non può evocare una sintesi del genere, perché sarebbe rompere col principio che si ottiene l’idea adeguata di una cosa solo riferendola alla sua causa prossima. Diremo allora che il concetto della scienza intuitiva è appunto un secondo schema di definizione genetica reale? «Questo genere di conoscenza procede dall’idea adeguata dell’essenza formale di certi attributi di Dio alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose».15 Ma se è vero che Dio è causa prossima delle cose singole, lo è al tempo stesso di tutte le cose!16 Se ci chiediamo quale idea adeguata degli attributi di Dio possiamo pretendere di avere e quali idee delle cose possiamo dedurne, sembra che la II parte dell’Etica costituisca da sola un elemento di risposta: vi si passa dalle nozioni comuni a tutti i corpi (leggi della comunicazione del movimento e della quiete) alle nozioni comuni proprie soltanto a certi corpi (i corpi umani). Alexandre Matheron ha descritto bene questa progressione mentale basandosi sul § 57 del Trattato sull’emendazione dell’intelletto; questa consiste in «livelli di generalità decrescente», che portano idealmente dagli attributi fino alla cosa irriducibilmente individuale. Ad ogni livello la conoscenza è intuitiva, nel senso della sintesi operata dalla definizione genetica, ma è facile vedere che le individualità ottenute sono relative al livello a cui viene operata la sintesi e si presentano come degli universali se solo si discende di un gradino, così che secondo o terzo genere di conoscenza non sono in definitiva che una questione di punto di vista.17 Alexandre Matheron precisa che lo stesso Spinoza non si è spinto molto avanti nella progressione; non propone infatti nessun carattere veramente specifico del corpo umano.18 Non si vede nemmeno bene che cosa l’autorizzi a fare dell’individuo reale il termine ultimo della serie. La conoscenza di terzo genere appare assai aporetica; non soltanto relativa ma appena abbozzata, forse interminabile, con in più il problema della conoscenza del corpo proprio nella sua essenza che rimane non chiarito. Quel che almeno è chiaro è che la conoscenza di terzo genere non ha nulla a che vedere con la conoscenza effettiva dell’intelletto
Etica, II, 40, sc. 2. È questo il senso dello scolio I, 28: Dio è causa prossima delle cose, anche se non «assolutamente», poiché queste sono prodotte attraversi i modi infiniti. 17 «Rispetto ai livelli inferiori che non ha ancora raggiunto, fa ancora la figura di conoscenza di secondo genere» (A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, 581). 18 A. Matheron, Le Christ et le salut des ignorants, cap. IV. 15
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infinito. Questa concezione è legittima solo se si la si considera inversa all’ordine di integrazione crescente degl’individui; da questo punto di vista è concepibile che si vada fino agl’individui mediante le sole nozioni comuni, poiché ad ogni livello la sintesi è già quella di un individuo. Le nozioni comuni a tutti i corpi non sono altro che l’insieme delle leggi che determinano il rapporto costante secondo cui avviene la trasmissione dei loro movimenti e che contribuiscono a definire l’individuo universale. Le nozioni comuni ai nostri corpi fanno emergere l’«uomo», che qui la biologia, ancor meglio della politica, definisce virtualmente come individuo.19 Per produrre poi la sintesi della definizione che siamo noi, occorrerebbe quindi poter individuare le nozioni comuni alle parti dei corpi e così via. Ma ad un certo punto, su questa strada non finiamo con lo smarrirci, anche se avvertivamo che è quella giusta e che non ne esiste un’altra? Non percepiamo mai un principio di sintesi o un atto di genesi. È sintomatico che Alexandre Matheron, quando vuole dare un esempio, faccia ritorno alle figure.20 La definizione genetica di un corpo singolo, infatti, è assai semplice da descrivere: è il movimento con cui diverse parti materiali si uniscono sotto l’azione di un rapporto costante in funzione di causa formale. Questa generazione rinvia in primo luogo alla «pressione di ciò che sta intorno», e in secondo luogo alla rigenerazione continua alimentata dal movimento proporzionato tra le parti, secondo l’estensione del concetto di causa prossima della dimostrazione della proposizione II, 19 vista sopra. Come si vede, non c’è motivo di cercare il modello di ogni definizione genetica reale altrove che nella definizione stessa dell’individuo, formulata dopo la proposizione II, 13. Siamo quindi condotti naturalmente all’interpretazione fisica o realista della definizione genetica dell’Etica. In definitiva, 1. è vero che tra la conoscenza di secondo genere e quella di terzo genere c’è solo una differenza di livello o di punto di vista, 2. ma se a rigore possiamo conoscere delle nozioni comuni, cioè delle proprietà, non avremo mai strumenti che permettano di sintetizzarle in un’essenza, poiché questa non è la causa finale del movimento individuale ma la sua causa formale, che non esiste fuori di questo movimento. Otteniamo almeno un risultato importante, che ci obbliga a superare l’interpretazione dello statuto delle nozioni comuni data in precedenza; non solo queste sono implicate nelle idee delle cose, non soltanto sono date nella Natura a titolo di idee in quanto formate da esseri pensanti, ma ci appaiono ora sotto un aspetto nuovo come inseparabili dalle idee. Un concetto, infatti, non è che una sintesi di proprietà (idee componenti) operata in funzione di una nozione comune che è questa sintesi stessa. Ad esempio, quel che c’è di comune alla proprietà secondo cui «i segmenti formati da tutte le linee rette che si intersecano al suo interno costituiscono i lati di angoli retti tra loro uguali»21 e «le linee,
Sull’individualità virtuale dell’uomo in quanto specie, cfr. Etica, IV, 18, sc. e sopra cap. I. A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, 581, n. 42. 21 Etica, II, 8, sc. 19 20
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condotte dal centro alla circonferenza, sono uguali»22 è l’idea del cerchio, la sola figura per la quale queste proprietà abbiano un senso, la sola essenza di cui esse siano delle proprietà. Come spiega il Trattato sull’emendazione dell’intelletto, prese in sé stesse queste affermazioni sono false; sono giudizi sintetici che vanno oltre lo stretto contenuto dei concetti in gioco. È vero che un cerchio, o meglio un disco, comprende un punto centrale, un’infinità di raggi, un’infinità di rettangoli, una circonferenza, ecc. che possono considerarsi parti di esso. Tuttavia, con la loro semplice aggregazione non si ottiene il disco, così come non si ottiene una linea mediante dei punti né una superficie mediante linee. Per dar luogo alla loro unione occorre un movimento. Le idee, quindi, sia sotto l’aspetto formale sia sotto quello oggettivo, sono nozioni comuni. Inoltre, si danno in Natura come atti di sintesi che impongono una comunanza logica a idee di natura diversa. È chiaro come si accordano i due momenti dell’interpretazione: prima abbiamo considerato la nozione comune dal punto di vista della parte, ora la consideriamo dal punto di vista del tutto. È certo che le proprietà comuni ai corpi detti «umani» non ci faranno mai conoscere nella sua essenza nessuno di questi corpi, e nemmeno costituiranno una proprietà in senso stretto di uno di tali corpi. Non è tuttavia un argomento sufficiente a concludere che la conoscenza mediante nozioni comuni non penetra nell’essenza delle cose. Quando Spinoza distingue il secondo dal terzo genere di conoscenza dicendo che uno ci fa conoscere le proprietà delle cose, l’altro le cose, solo per approssimazione riserva il nome di nozione comune al secondo genere. In realtà avrebbe dovuto distinguere tra le nozioni comuni che sono delle proprietà e le nozioni comuni che sono delle essenze, dal momento che la stessa nozione (ad esempio l’idea del mio braccio, ossia la sintesi di ciò di cui è capace) all’occorrenza entra nella composizione di un’altra (l’idea del mio corpo). L’idea del mio braccio può d’altra parte venir intesa come un giudizio sintetico, valido solo se riferito all’idea del mio corpo come causa formale. Se poi gli uomini hanno in comune molte proprietà, la sintesi umana può avvenire solo in funzione di un individuo virtuale – la società delle persone per bene, ossia dei saggi. Il famoso esempio unico che, con grande delusione del lettore, Spinoza gli propina ostinatamente, quello del quarto termine della proporzionale, da questo punto di vista riesce illuminante. Siano i quattro numeri 1, 2, 3, 6. Come tale, la loro pluralità non ha maggiore individualità di quanto non ne abbiano le prime quattro lettere della tastiera di una macchina da scrivere francese A, Z, E, R. Non compongono niente, oppure costituiscono le parti di un ens rationis solo dal punto di vista del rapporto che lega l’uno all’altro: 1 è a 2 quel che 3 è a 6. Si noterà che, presi separatamente, i rapporti di 1 a 2 e di 3 a 6 sono arbitrari, ossia esterni al concetto di ciascuno di questi numeri. Dire però che 3 è in rapporto con 6 diventa un’affermazione vera dal punto di vista dell’uguaglianza
22
Trattato sull’emendazione dell’intelletto, Appuhn, § 51 [tr. it. § 95, p. 62].
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dei rapporti come causa formale, ossia se la mente fa variare il rapporto se ne evince la funzione la cui equazione è 2x = y. Come nella definizione del cerchio, si crea una funzione a partire da un elemento fisso o in quiete (il rapporto con la sua costante 2) e da uno mobile (le variabili x e y), e il movimento avviene in funzione di un certo rapporto costante, che ne è al tempo stesso la causa formale e il risultato. Si vede bene come la necessità del rapporto sia così generata dalla sua variazione, poiché, passando dal rapporto di 1 a 2 al numero isolato 3, la mente afferma necessariamente il rapporto di 3 a 6. Ora, che cosa ci dice Spinoza? Per trovare il quarto numero si può passare per una proprietà dei numeri di una proporzione: moltiplicare il secondo membro per il terzo e dividere il risultato per il primo. In questo caso la proprietà non ci dà l’essenza (la proporzionalità); al contrario, la presuppone. In compenso, almeno per numeri semplici, «dallo stesso rapporto tra il primo numero e il secondo, che cogliamo con un solo colpo d’occhio, concludiamo quale sia il quarto»: è evidente che qui l’oggetto dell’intuizione è una nozione comune, poiché l’incognita è quel numero che avrebbe col terzo lo stesso rapporto che c’è tra il primo e il secondo. Ma nel primo caso avevamo una proprietà generale, valida per qualsiasi uguaglianza di rapporti, che non ne offriva nessuna definizione genetica: dati quattro numeri a, b, c, d, tali che a:b = c:d, si può porre bc: a = d. Nel secondo caso, invece, la proprietà è interna a una certa uguaglianza di rapporti, ossia 2x = y. Come nel lemma 5 della II parte dell’Etica, la serie può crescere aggregandosi nuovi membri, purché questi conservino lo stesso rapporto, componendo così con gli altri numeri lo stesso ens rationis. Infine si osserverà che , in tutti questi casi usiamo il termine proprietà per designare sia le parti della cosa sia le sue «proprietà», nel senso di ciò che discende dalla sua essenza; ci siamo imbattuti nello stesso equivoco tra la parte come materia e come disposizione a proposito dell’alimentazione del corpo.23 Non è dunque possibile sostenere che la conoscenza mediante nozioni comuni non riguarda l’essenza delle cose. La difficoltà, piuttosto, è che la conoscenza intuitiva delle nozioni comuni che definiscono le cose è inaccessibile a una mente finita, e tuttavia «implicita». Torniamo perciò al problema d’interpretazione posto dalla proposizione V, 29. Perché Spinoza pensa, malgrado tutto, di poter superare il punto di vista dell’inaccessibilità delle essenze? L’ostacolo è indicato: l’impossibilità di operare la sintesi dell’essenza del corpo senza conoscere l’universo nella sua totalità. Indubbiamente la medicina individua a poco a poco proprietà comuni a tutti i corpi umani: circolazione del sangue, ecc. Quand’anche tuttavia pervenisse a spiegare tutte le sue proprietà, non avrebbe comunque il mezzo di operare una sintesi se non immaginativa, ossia additiva, aggregativa. Assocerebbe le proprietà, le riferirebbe a uno stesso soggetto in una sintesi della memoria operata nella
23
Cfr. sopra, cap. 2.
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durata. Non arriverebbe a formare un concetto dell’uomo, a legare la serie delle proprietà sotto il potere di una nozione comune a tutte come causa formale. Ricordiamoci ora che il corpo e la sua idea formano un solo e identico individuo; l’unità essenziale del corpo è data all’interno della mente, immediatamente, per il fatto stesso che la mente ne è l’idea. Scrive Spinoza che l’idea che esprime l’essenza del corpo umano «appartiene all’essenza della mente umana».24 L’espressione è curiosa, ma il rimando alla proposizione II, 13 dissipa ogni tentazione di sdoppiamento: si tratta proprio dell’idea che costituisce l’essenza della mente, ossia dell’idea del corpo in quanto questo è espresso nella categoria dell’eternità. Ora la mente non percepisce altro che il suo corpo; di conseguenza, percepire l’universo mediante nozioni comuni è percepire il corpo su un piano diverso da quello delle sue affezioni, come quel corpo eterno sul quale, per così dire, sta scritta la scienza (poiché, inversamente, noi percepiamo l’universo solo percependo il nostro corpo sub specie aeternitatis e nient’altro). Senza dubbio, con le nozioni comuni fornite dall’anatomia, se ne fa un’idea troppo generale. Tuttavia, contrariamente alla sintesi delle nozioni comuni per opera della memoria appena descritta, qui l’oggetto è preso di mira senz’altro nell’unità della sua essenza, anche se questa, a rigore, non è conosciuta: l’intenzione è guidata da una nozione comune che costituisce l’essenza di una cosa singola di livello più alto. Ritroviamo il paradosso della dimostrazione della proposizione II, 19: Dio ha l’idea del corpo umano, ma non in quanto la possiede. Non fosse per il rischio di un equivoco più che di un anacronismo, in stile vagamente kantiano diremmo che la mente che ragiona, che concatena le sue idee secondo l’ordine dell’intelletto, coglie l’oggetto nella sua forma ma non nella sua materia; o, almeno, conosce la sua materia solo in quel che ha di comune con altri oggetti. Al tempo stesso, la nostra conoscenza di certi attributi di Dio non consiste soltanto nella sintesi, operata dalla memoria, di una serie incompiuta di nozioni comuni (le leggi della natura). Se così fosse, Spinoza non potrebbe definire la «scienza intuitiva» come derivante dall’«idea adeguata» di questi attributi. È evidente che la sola fisica, quella dei fisici, non basta a formare quest’idea adeguata; quest’ultima, come si è detto sopra, si forma nelle undici prime proposizioni dell’Etica, nel movimento duplice della sintesi della sostanza: quella dell’idea adeguata dell’attributo come sostanza e quella della sostanza come «essere assolutamente infinito», consistente cioè nell’infinità degli attributi. Abbiamo anche l’unica definizione genetica reale che siamo in grado di costruire, l’unica definizione che si forma nella nostra mente così come si forma realmente, proprio perché è lei che si forma, dato che nella nozione di «causa di sé» la causa formale e quella efficiente coincidono. Per questo, negli studi spinoziani, il problema di sapere se in definitiva la definizione di Dio è anch’essa sintetica a un certo momento ha avuto tanta importanza. Infatti, a differenza del centro e
24
Etica, V, 23, dim. [tr. it. 1071].
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del raggio, che possono essere dati separatamente dal concetto del cerchio come punto e segmento di retta, l’idea di causa di sé è contenuta nell’idea di sostanza al pari di quella di infinità, e quindi di coestensività di sostanza e attributo. Una prima discussione ha riguardato la questione del carattere analitico del giudizio che attribuisce alla sostanza l’essere causa sui. Un’altra ha riguardato la sintesi degli attributi. Questi falsi problemi nascono dalla confusione dei concetti di Dio e di sostanza, che pure all’inizio dell’Etica vengono definiti separatamente. Ci si vale dell’identificazione di Dio con la sostanza, che però si fonda sull’unicità della sostanza, ottenuta solo dal punto di vista di Dio come causa formale. In breve, «causa di sé», «attributo», «sostanza» sono concetti che acquistano una realtà (ossia il loro significato spinoziano) solo in funzione della sintesi nata formalmente dal concetto di Dio.25 Poiché però la causa formale all’occorrenza è anche la causa efficiente, il concetto di Dio si presenta sotto ogni aspetto come il primo, mentre i concetti «componenti» non sono che proprietà che ne derivano entro l’idea di Dio. In questo senso la polemica sullo statuto nominale o reale, ipotetico o categorico delle definizioni diverse da quella di Dio all’inizio dell’Etica, si risolve se ci si accorge che queste definizioni sono reali a condizione di intenderle al futuro anteriore. Ritroviamo qui il procedimento protrettico definito sopra: il rapporto di Spinoza col suo lettore è un legame diabolico centrato su termini che questi intende al presente della tradizione, quello al futuro anteriore della filosofia vera. Da questo punto di vista, la retorica ripetitiva delle definizioni sembra uno splendido ritornello: Per causam sui intelligo…, Per substantiam intelligo…, Per attributum intelligo…, ecc. Ogni volta l’astuzia di Spinoza ci dice: io intendo, ossia parlo in un senso eterno, non in base a quel che so dall’insegnamento scolastico.26 Concludendo, non si dà sintesi dell’idea di Dio se non dal punto di vista del progresso di un intelletto infinito; dal punto di vista reale nessun’idea è fuori dell’idea di Dio ma tutte ne vengono dedotte, l’idea di Dio è l’origine di ogni definizione genetica. Inoltre, l’idea di Dio è, in primo luogo, essa stessa un modo infinito immediato, non essendo preceduta da nessun’altra e non avendo come causa prossima che la sua causa formale o quell’affermazione pura e assoluta di cui è la definizione; in secondo luogo, è un modo infinito mediato, sintesi e analisi immanente di tutte le proprietà che ne derivano. Spinoza può quindi scrivere che la mente «esprime» l’essenza del corpo, o ancora che lo «implica»,27 e infine che «conosce sé e il corpo sotto l’aspetto dell’eternità».28 25 Nel libro di Gabriel Huan, Le Dieu de Spinoza, 43-44, si troverà un’analisi della polemica sulla questione, nata in Germania nella seconda metà del XIX secolo, in particolare sulla questione della causa seu ratio, spesso interpretata come una sintesi illegittima. 26 Cfr. Pierre Macherey, op. cit., vol. 1, 29-30: «In questo modo il discorso scolastico assume immediatamente l’andamento della conoscenza di terzo genere». 27 Etica, V, 23, sc. [tr. it. 1072]. 28 Etica, V, 30 [tr. it. 1075].
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Questa conoscenza consiste, seconda la frase già citata nel «concepirle [le cose] in quanto, mediante l’essenza di Dio, vengono concepite come enti reali, ossia in quanto, mediante l’essenza di Dio, implicano l’esistenza».29 Si direbbe che Spinoza insiste meno sul contenuto di queste cose nella loro essenza che non sull’importanza di conoscerle quatenus, in quanto cioè, non in sé stesse ma in relazione a Dio, partecipano a un tipo di esistenza che è quello di Dio stesso, ossia all’eternità come esistenza necessaria in senso stretto. È un’eternità diversa da quella di ogni cosa in quanto compare al suo posto nell’ordine universale? In un senso sì, in un altro no. Si tratta della reversibilità richiamata al termine della nostra I parte: nell’universo delle cose esistenti esistono solo essenze (anche se le essenze si definiscono le une per mezzo delle altre). La cosa più passiva, il rifiuto umano ubriaco, chiacchierone, ingordo, lubrico è pensato eternamente nella sua minima affezione. A questo titolo, la sua minima idea servile e triste è parte dell’intelletto infinito, o il frammento di una sua parte, poiché Dio non la forma costituendo solo un simile spirito. Per contro, quest’uomo partecipa ben poco all’intelletto infinito, se s’intende con ciò il soggetto pensante, ens cogitans infinitum.30 In questo senso, «eternità» va intesa a due livelli: ogni cosa è in parte cogitans, in parte cogitata. La mente dell’ubriaco è soprattutto un soggetto pensato, dal momento che tutte le sue idee gli sono suggerite da una moltitudine confusa di spiriti esterni, primo tra i quali, senza giocare sulle parole, lo spirito dell’alcool (l’idea del corpo assunto). E senza dubbio occorre che la sua mente contribuisca alla formazione di questi pensieri pietosi, dato che li ha, ma nella Natura nessuna idea o quasi è data in suo nome. Al contrario, il saggio è colui per opera del quale esistono molte idee, quegli i cui pensieri sono detti giustamente divini. Per questo gode molto più dell’ubriaco di un’eternità in senso stretto. Riassumendo, l’eternità della nostra mente consiste nell’elevatezza della sua attività; non c’è da pensare che sia altra cosa dall’eternità di cui gode il saggio e, in misura minore, ogni uomo, qui e ora. La conoscenza di terzo genere è meno l’arte delle definizioni genetiche reali, riservata al solo spirito capace di abbracciare in modo attuale l’infinito, che non una conversione formale dello sguardo, con cui la mente si abitua a considerare sempre più intensamente le cose come esprimenti dal di dentro, secondo la misura di ciascuna, l’essenza dell’attributo entro il quale l’intelletto ne concepisce l’esistenza, o come partecipi per quanto sta in esse della potenza di quest’essenza.
29 30
Etica, V, 30, dim. [tr. it. 1075]. Etica, II, 1, sc.
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2. Ritorno ai due concatenamenti e il caso dell’amore
È ora possibile affrontare la fisica cogitativa nel suo insieme e riprendere la questione lasciata in sospeso della duplice apparente legittimazione in cui è divisa la mente: concatenamento delle idee inadeguate secondo l’ordine delle affezioni del corpo e concatenamento delle idee adeguate secondo l’ordine dell’intelletto. Nell’Etica lo studio della «forma dell’idea», nel contesto ontologico che al tempo stesso la fonda e l’iscrive al centro della filosofia,31 sostituisce il metodo, esponendo gli eventi della mente in quello speciale linguaggio che li fa apparire, adeguatamente, come eventi della natura. Comprendiamo quindi come lo scontro tra i due tipi di concatenamento non rimandi a due distinte fisiche cogitative (come sembra discendere logicamente dall’arbitrario sdoppiamento dell’intelletto infinito). Certamente, la nostra vita mentale si svolge su due piani eterogenei, quello della durata e quello dell’eternità. Ma la possibilità che gli avvenimenti su uno di essi (la formazione di un’idea adeguata di uno dei nostri affetti mediante il suo collegamento con una nozione comune) abbiano una ripercussione sull’altro («l’affetto-passione cessa di essere passione appena ne formiamo un’idea chiara e distinta»)32 ci avverte che i due piani comunicano.33 La logica degli affetti dedotta nella III parte dell’Etica è un passo avanti nel campo della logica cogitativa, come annuncia per altro la conclusione della prefazione: «Dunque gli affetti dell’odio, dell’ira, dell’invidia ecc., considerati in sé, conseguono dalla stessa necessità e potenza della natura dalla quale conseguono le altre cose singole. Perciò ammettono come cause certe, mediante le quali si comprendono, e hanno proprietà determinate degne della nostra conoscenza al pari delle proprietà di qualunque altra cosa, dalla cui sola contemplazione traiamo diletto. Tratterò dunque della natura e delle forze degli affetti, come anche del potere della mente su di essi, con lo stesso metodo con il quale nelle parti precedenti ho discusso di Dio e della mente, e considererò le azioni e gli appetiti umani come se si trattasse di linee, di superfici o di corpi» [tr. it. 896].
Conformemente alle condizioni della conoscenza sub specie aeternitatis definite sopra, il metodo è duplice: 1. Spinoza parte dall’essenza dell’uomo, 2. la sua deduzione procede mediante nozioni comuni. In effetti, lo sviluppo dell’attività intellettuale della mente comporta una conversione dello sguardo rivolto alle cose. Anziché procedere a generalizzazioni immaginarie («le nozioni universali») il cui difetto è di essere al tempo stesso arbitrarie, o soggettive, e di servire da modelli astratti di specie cui si ritiene che
31 Contrariamente al Trattato sull’emendazione dell’intelletto, in cui Spinoza rimanda più volte alla filosofia - la sua -, come a un’impresa intellettuale distinta; § 29, 34, 42, n. 1. 32 Etica, V, 3 [tr. it. 1056]. 33 Non si dovrà confondere qui l’eterogeneità dei due piani con quella tra l’idea e l’idea dell’idea, analoga per certi aspetti all’eterogeneità degli attributi.
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gl’individui si conformino,34 la mente afferma, senza essere in grado di formarle essa stessa, l’esistenza di sintesi naturali individuali, ossia una cornice vuota fatta di essenze individuali, le cui compatibilità, stabilite mediante nozioni comuni, permettono di porre il soggetto virtuale di un’essenza specifica (nel caso l’essenza dell’uomo). Questa cornice vuota non è altro che la nozione comune più universale, equivalente alla produzione dell’idea adeguata delle «cose singole» in quanto cose singole: id quod omnibus commune, «ciò che è comune a tutte » e non può costituire l’essenza singola di nessuna cosa, tranne che dell’universo (il rapporto costante di quiete e moto, nel caso lo si pensi sotto l’attributo estensione).35 Ogni uomo, in quanto prodotto della Natura, possiede un’essenza singola, che non è altro che la sintesi da cui si deducono le proprietà individuali del suo corpo. Le proprietà che ha in comune con gli altri uomini non sono distinte dalle sue proprietà individuali; sono queste stesse proprietà, pensate in ciò che hanno di comune con le proprietà individuali degli altri uomini – in altri termini, in ciò che hanno di umanamente «concordante», nel senso spinoziano dell’accordo delle essenze.36 Quest’implicazione dei communia, che è uno dei significati dell’espressione «ugualmente nella parte e nel tutto» usata per definire le nozioni comuni,37 spiega l’efficacia che ha l’azione di queste ultime sul divenire individuale. Il metodo, dunque, pone da un lato le essenze, che sono altrettanti oggetti individuali = x, di cui può fornire soltanto lo schema universale, nato non da una sintesi della memoria ma da un’idea di Dio e della sua produzione necessaria: una legge comune alle parti (rapporto costante di quiete e moto se si tratta di un corpo, causa formale della sintesi se si tratta di una mente), che si esprime in uno «sforzo» (conatus). Di qui le proposizioni III, 6 e 7, alle quali si possono collegare
Donde lo «stupore» o «sorpresa» (come Pierre Macherey traduce admiratio) provata da una mente che si trovi costretta a riplasmare la sua nozione universale: è il caso dell’allevatore di cui abbiamo già parlato che, vedendo per la prima volta delle pecore del Marocco, dalla sintesi confusa della pecora che faceva fino a quel momento deve togliere il predicato «coda corta» (Breve Trattato, II, cap. 3, § 2). È come un guasto o un colpo a vuoto nel collegamento associativo; cfr. Etica, III, def. aff, 4 con relativa spiegazione. 35 Etica, II, 37 [tr. it. 872]. 36 Solo in questo senso Spinoza può porre il problema dell’umanità di Cristo (Trattato teologico-politico, cap. I, Appuhn, 37). 37 Etica, II, 37-39. Un corpo, sempre singolare o individuale, non ha parti comuni e parti proprie; quel che ha di comune con altri corpi si trova nelle sue parti come nel tutto che esse formano. In altri termini, la concordanza dei due corpi viene valutata nella sua intensità, non nella sua estensione. Ma l’elemento comune è presente in tutte le parti? Sembra così, a meno di ammettere che la differenza individuale rientri nella teratologia. Il problema dell’uomo diventato cieco va ripreso da questo punto di vista: è ancora un essere umano? La risposta logicamente è negativa, poiché questi concorda coi suoi ex- simili nel maggior numero delle sue parti ma non in tutte. Inversamente, si penserà ai trapianti animali tentati al giorno d’oggi; questi si basano su concordanze parziali (al livello di un organo) e non totali con l’animale interessato. 34
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le proposizioni 4 e 5 che le preparano. Dall’altro lato, il metodo riempie le cornici vuote ricorrendo a una determinazione per approssimazione mediante nozioni comuni, attinte alle relazioni reciproche tra le suddette cornici.38 Donde la combinazione di un’impostazione deduttiva con una empirica, addirittura empirista;39 nelle proposizioni e nelle dimostrazioni Spinoza deduce l’esperienza comune cui poi si richiama e che commenta negli scoli (l’esempio per eccellenza è il Video meliora proboque, Deteriora sequor di Ovidio, commentato da tutto il XVII secolo e anche dal XVIII – Rousseau). Gli affetti sono un dato, ma devono costituire l’oggetto di una sintesi dell’intelletto che ne produce la definizione genetica: in definitiva le idee di affetti sembrano doppiamente adeguate. Che cosa vuol dire? Spinoza mantiene la sua promessa: gli affetti sono concatenati ordine geometrico, ossia mediante una successione di definizioni genetiche. Euclide aveva fornito un metodo, tutta la sua geometria riguardava enti di ragione; ora si tratta di trasferire questa pratica nella realtà stessa. Come richiamerà ancora all’inizio del Trattato politico, Spinoza produce una geometria del reale. Non si tratta certo di sintesi reali come quelle che avvengono nell’intelletto infinito, poiché le definizioni producono solo specie affettive (l’amore, la pietà, ecc.). Ma come le nozioni comuni sono prelevate su affezioni concrete, in quanto implicite «sia nella parte sia nel tutto» delle essenze in rapporto tra loro, anche il loro concatenamento deve essere contenuto nell’universo del pensiero, sia nella sua parte sia nel suo tutto. Si possono quindi considerare le specie affettive che vengono dedotte come altrettante «proprietà della natura umana»40 il cui concatenamento dimostrativo ci fa vedere mentalmente l’uomo. Questa visione, necessariamente dinamica, svanirebbe se ci fermassimo sulla definizione di un affetto, separandola dalle sue connessioni logiche. In questo senso l’Etica è certamente la formazione del concetto della mente umana. Se è vero che un’idea concepita adeguatamente può essere composta solo di idee che ne sono le proprietà, in forza di un movimento di cui essa è la causa formale e che collega le une alle altre queste proprietà, potremo allora dire: 1. che questo movimento ha come causa efficiente o prossima Dio, la cui idea adeguata consente di porre l’essenza umana = x come causa formale; 2. che il movimento deduttivo in virtù del quale si snoda la trama logica, apparentemente analitica, dell’affettività umana è in realtà sintetica. In tal modo tutta la terza parte dell’Etica non è che il magnifico movimento di un’unica e vasta definizione genetica.
Sulla nozione matematica di differenziale per la determinazione dell’individuale, che «manca» a Spinoza, cfr. le osservazioni di André Lécrivain, Spinoza et la physique cartésienne, II, 164-165. 39 «Uno dei paradossi di Spinoza… è di aver ritrovato le forze concrete dell’empirismo per metterle al servizio di un movimento razionalista, uno dei più rigorosi mai concepiti» (Gilles Deleuze, Spinoza et le problème de l’espression, 134). 40 Trattato politico, I, 4. 38
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Si noterà che l’analisi ha luogo solo al termine, sotto forma di repertorio;41 all’ordine sillogistico dello sviluppo dimostrativo succede l’ordine del catalogo che enumera a posteriori. Ciò vuol dire che le nozioni comuni sono realmente idee adeguate solo quando vengono prodotte secondo l’ordine dell’intelletto e non quando sono oggetto di un prelievo empirico; in questo senso, il fatto che nelle idee degli uomini siano implicite nozioni comuni non vuol dire che ipso facto questi uomini le esplicitino per sé stesse. Il caso dell’amore ne è una buona illustrazione: «L’amore è una gioia associata all’idea di una causa esterna. Questa definizione espone in modo sufficientemente chiaro l’essenza dell’amore; invece, quella degli autori che lo definiscono come la volontà dell’amante di congiungersi alla cosa amata non esprime l’essenza dell’amore, ma una sua proprietà. E poiché gli autori non hanno colto a sufficienza l’essenza dell’amore, non hanno neppure potuto avere un chiaro concetto della sua proprietà, onde è accaduto che tutti hanno giudicato la loro definizione del tutto oscura» (Etica, III, def. aff. 6 [tr. it. 958]).
Questo testo induce almeno a tre osservazioni, che oltrepassano il quadro di quest’illustrazione ma conducono ad approfondire la questione della definizione genetica e del rapporto essenza-proprietà. 1. Il carattere implicito della nozione comune è testimoniato da questa comune sensibilità per ciò che è oscuro, che non è tuttavia una disposizione a formare la suddetta nozione. 2. Viene confermato che, almeno chiaramente, la proprietà non può essere conosciuta, astrazione fatta dalla sintesi essenziale che le dà il suo senso (donde la riformulazione che ne verrà data nel seguito del testo, con la decisiva sostituzione di voluntas con acquiescentia: non il desiderio di una certa cosa ma il piacere per la sua presenza). 3. L’amore è una passione filosoficamente interessante nella misura in cui assomiglia a un’idea adeguata. Non è forse comunemente il simulacro di una definizione genetica (che diventa autentica solo nel caso dell’amore di Dio, coestensivo ad ogni affezione del corpo di cui abbiamo formato un concetto chiaro e distinto, poiché in questo caso la gioia di comprendere ha come causa l’idea di Dio, o l’idea di noi stessi in quanto la nostra mente partecipa dell’intelletto infinito)? Soffermiamoci su questo punto. La definizione spinoziana dell’amore è logicamente imbarazzante, perché si può leggere in due modi: 1. poiché ogni affetto è suscitato da un’idea, si chiamerà amore il sentimento di gioia suscitato dall’idea di una causa esterna;42 2. qui però l’idea è quella di una causa, non solo di una cosa; se si vuole evitare il sofisma di un affetto suscitato dalla rappresentazione che ci facciamo della sua causa, occorre comprendere che l’amore è l’affetto nato dal giudizio causale con cui colleghiamo l’idea di una gioia provata con l’idea di una cosa esterna. Inoltre il lettore ha inizialmente l’impressione che la riformulazione adeguata della proprietà ripeta tautologicamente l’essenza: «soddisfazione in colui che ama
41 42
O di «catalogo ragionato», come dice Pierre Macherey, vol. 3, 414. Cfr. Etica, II, ass. 3: niente amore senza l’idea di una cosa amata.
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a causa (ob) della presenza della cosa amata». Tra l’essenza e la sua proprietà ben compresa c’è in realtà il rapporto della rappresentazione di una causa con una rappresentazione divenuta essa stessa la causa. Una volta plasmata questa rappresentazione, la soddisfazione è dovuta realmente all’idea della cosa: alla gioia di cui immaginiamo che la cosa è la causa si affianca la gioia che nasce dall’alimentazione di quest’immaginazione, e certamente l’alimento per eccellenza è la presenza ricorrente della cosa amata (scandita da intervalli di sazietà). Quando però la cosa amata ci si ripresenta, non proviamo solamente – né obbligatoriamente – una gioia che saremmo indotti ad attribuirle; proviamo soprattutto la gioia di essere confermati nel nostro amore. E forse per questo l’ameremo di più… Accade quindi che non sappiamo più bene se amiamo ancora o se non amiamo piuttosto l’amore, oppure se non amiamo ancora il nostro oggetto ma per il fatto che pensiamo che lui solo alimenta il nostro amore. È vero che la formulazione spinoziana è ambigua, definendo l’amore mediante una sintesi ma sembrando al tempo stesso identificarlo a una componente della sintesi (l’amore è la stessa gioia …). Ma è solo un’apparenza, poiché senza l’immaginazione di un rapporto di causa ed effetto la gioia non si chiamerebbe amore. Applichiamo piuttosto la lezione del Trattato sull’emendazione dell’intelletto: se l’amore è questa stessa gioia che per di più la mente collega all’idea di una causa esterna, ci troviamo di fronte a un’affermazione falsa, dato che non è necessario che una gioia sia accompagnata dall’idea di una causa esterna, non si dà inferenza analitica dall’una all’altra. Andiamo oltre quel che ci autorizza a dire lo stretto contenuto del concetto di gioia. La sintesi avviene dunque dal punto di vista dell’amore come causa formale, e questa gioia, che sotto un certo aspetto rimane la stessa, sotto un altro aspetto diventa la gioia-accompagnata-dall’idea-diuna-causa-esterna. Anche se la sintesi è immediata e l’esperienza della gioia è fin dall’inizio specifica, nulla cambia. Di fatto, l’idea di una cosa di cui ci rappresentiamo che è per noi causa di piacere ci fa essa stessa piacere, ed è questa la specificità dell’amore, la ragione per cui sosterremo quest’idea col massimo accanimento, anche se un giorno saremo costretti a collegare l’idea di questa cosa a un qualche dispiacere. L’importante è questo: la sintesi amorosa implica una particolare gioia, implica la specificazione immediata; questa gioia diventa allora indipendente dalla circostanza iniziale, e nel suo sforzo di autoaffermazione diventa gioia per la gioia, amore di amare. La stessa rappresentazione del piacere è piacevole. Per questo siamo tanto «soddisfatti» per la presenza della cosa amata: non è più questo il piacere che ci reca, ma quello di affermare quella che immaginiamo essere la causa del nostro piacere. L’idea della causa è diventata a sua volta causa: «La mente, per quanto può, si sforza di immaginare le cose che aumentano o aiutano la potenza di agire del corpo (secondo la proposizione 12), cioè (secondo la proposizione 13) le cose che ama. Ma l’immaginazione è aiutata dalle cose che pongono l’esistenza della cosa; al contrario è ostacolata da quelle che ne escludono l’esistenza (secondo la proposizione II, 17). Dunque le immagini delle cose che pongono l’esistenza della cosa amata fa-
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oriscono la pulsione con la quale la mente è spinta a immaginare la cosa amata, cioè (secondo lo scolio della proposizione 11) producono nella mente un affetto di gioia… » (Etica, III, 19, dim. [tr. it. 916]).
La proprietà dell’amore è quindi di gioire dell’idea di un essere di cui ci rappresentiamo che ci fa gioire. L’innamorato quindi sogna il suo piacere, poiché anche questo gli dà piacere.43 Torniamo alla comunicazione tra i due piani, che costituisce l’oggetto della prima metà della V parte. Se l’intelletto avesse altri oggetti, non comprenderemmo come la sua attività abbia un effetto sulle passioni: l’esito etico consisterebbe soltanto in una conversione con cui la mente si distoglie da certi oggetti perché ne ha scoperti altri più sicuramente – e più puramente – dilettevoli, salvo poi mostrare che questa deviazione o distacco non è di fatto che la correzione di una distrazione, con cui la mente prende coscienza della propria essenza e coincide con sé stessa recuperando la propria vera potenza. È lo schema del Breve trattato e del prologo del Trattato sull’emendazione dell’intelletto. Certamente questo schema correttivo è presente anche nell’Etica, dove però diventa secondario, nel senso che Spinoza non lavora più alla sua esposizione; qui soprattutto viene modificato, non potendo più la conversione essere intesa propriamente come un distacco, ma come un lavoro sulle nostre stesse passioni per disinnescarle. Nel Breve trattato Spinoza s’interessava già alle passioni, ma era ancora debitore di uno schema platonico-cristiano per il quale lo spirito mette in gioco la propria salvezza contro il corpo. Nell’Etica, la considerazione laconica di una «durata della mente senza relazione al corpo»44 rimanda di fatto all’emergere di un nuovo rapporto col corpo, considerato d’ora in avanti nella sua essenza, sotto la categoria dell’eternità. C’è qui per altro un nuovo esempio particolarmente notevole di pedagogia concettuale spinoziana: il tema tradizionale della vita della mente «nel durare del corpo» e «senza relazione al corpo» (Spinoza sta ben attento a non dire «prima o dopo il corpo») prende in effetti un senso nuovo quando ci si rende conto che durante corpore non significa altro che corpus, quatenus durare dicitur.45 L’etica tradizionale immagina un meccanismo per il quale le nostre passioni svaniranno da sole allorché la mente si rivolgerà esclusivamente a Dio. Questo meccanismo assomiglia molto a una petizione di principio: il sesso, l’onore e il denaro non assilleranno più la mente perché questa non vi penserà
Etica, IV, 44, sc. Etica, V, 20, sc. [tr. it. 1070]. 45 Quest’espressione non compare letteralmente nel testo, ma si desume legittimamente se, conformemente all’indicazione di Spinoza, mettiamo in rapporto il corollario II,8 («… et ubi res singulares dicuntur exixtere… quatenus… durare dicuntur…») con la dimostrazione della proposizione V, 23 («Sed Menti nullam durationem, quae tempore definiri potest, tribuimus, nisi quatenus Corporis actualem existentiam, que per durationem explicatur, et tempore definiri potest, exprimit, hoc est (per Coroll. Prop. 8, p. 2), ipsi durationem non tribuimus, nisi durante Corpore»). 43 44
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più. Soprattutto, teoricamente questa potrebbe cessare di pensarvi se fosse in grado di sopprimere ogni rapporto col corpo; il meccanismo viene annullato con la ridefinizione della mente come «idea del corpo». Non soltanto la mente continua necessariamente a produrre idee confuse delle affezioni del corpo mentre comprende le cose sotto la categoria dell’eternità, ma desiderare l’abolizione del corpo sarebbe per lei desiderare il proprio annientamento. Donde una problematica della moderazione delle passioni, non del loro sradicamento; da un lato, questo è impossibile, dall’altro le passioni sono necessarie, persino salutari, nella misura in cui sono il correlato mentale degli alimenti di cui il corpo ha continuamente bisogno. Lo spirito non afferma sé stesso senza augurarsi giuste passioni. Per questo la riflessione sui rapporti tra la mente e il corpo si conclude con l’immagine della crescita felice del bambino.46 Il problema non è quindi fuggire le passioni, ma avere potere su di esse. In proposito Spinoza svolge due idee; la prima, d’ispirazione stoica anche se rinvia a una concezione della necessità affatto diversa, è che «in quanto conosce tutte le cose come necessarie, la mente ha una maggiore potenza sugli affetti, ossia ne patisce meno»;47 la seconda è che «un affetto… è tanto più in nostro potere e la mente tanto meno ne patisce, quanto più ci è noto».48 Ritroviamo i due aspetti complementari del metodo: 1. conoscere, senza vederlo, il «nesso infinito di cause» in cui consiste l’universo,49 ossia intendere dal di dentro, mediante il legame immediato dell’idea del corpo, diventata attiva, con l’idea infinita di Dio, la struttura reale dell’universo anche senza essere in grado di coglierla nella sua concretezza attualmente infinita (la nozione comune a tutte le cose, che coincide con l’universale «cosa», diventato chiaro e distinto; sforzarsi di perseverare nel proprio essere, essere determinato nel proprio sforzo dalla pressione di sforzi estranei); 2. riempire veramente, anche se approssimativamente, il quadro vuoto così concepito col concatenamento di nozioni comuni agli uomini (conoscenza specifica dei nostri affetti uno a uno). Senza dubbio il fenomeno dell’«imitazione degli affetti»,50 che consiste nel fantasticare in qualche modo una nozione comune,51 tende in certa misura a ridurre il margine che separa, da un lato, la forma individuale e concreta di ciascuno dei nostri affetti, dall’altro la sua approssimazione mediante nozioni comuni. Infine è probabile che nel terzo genere di conoscenza52 il progresso non sia
Etica, V, 39, sc. Etica, V, 6 [tr. it. 1058]. 48 Etica, V, 3, cor. [tr. it. 1056]. 49 Etica, V, 6, dim. [tr. it. 1059]. 50 Etica, III, 27, sc. [tr. it. 922]. 51 Donde la possibilità di errore quando ci affezioniamo agli animali. Cfr. specialmente IV, 68, sc. : «… dopo aver creduto che gli animali fossero simili a lui, subito cominciò a imitarne gli affetti» (a proposito della leggenda del primo uomo). 52 Etica, V, 24, 26, 38. 46 47
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altro che la combinazione di questi due aspetti: «Quanto più tale conoscenza – cioè che le cose sono necessarie – si riferisce alle cose singole, che vengono da noi immaginate più distintamente e più vividamente, tanto maggiore è questa potenza della mente sugli affetti, come attesta la stessa esperienza».53 In effetti, la determinazione progressiva di una cosa singola si fa mediante nozioni comuni e consiste nella rivelazione progressiva delle leggi cui sottostà questa cosa. Se la mente ha un potere sugli affetti è perché in essa c’è un unico concatenamento, come Spinoza ricorda fin dall’inizio della V parte.54 Come spiegare, quindi l’eterogeneità dei due piani? A che livello è reale? Quel che la mente vive come un concatenamento casuale è in realtà un concatenamento di idee mozze, mutile e quindi tagliate fuori dalle loro connessioni reali; queste idee sono solo associate alla mente, che non possiede la ragione di quest’associazione. Nella mente ancora passiva tutto è solo inferenza arbitraria, collegamento di conseguenze separate dalle loro premesse. Per farcene un’idea precisa, basta che pensiamo ai nostri primi contatti con l’Etica: il salto delle dimostrazioni ritenute fastidiose in partenza, il collegamento delle tesi una a una, la rispettosa malafede con cui concludevamo per sentito dire alla genialità, compensando la noia e la visione della nostra stupidità col confuso piacere per questo o quell’enunciato notevole… Lo spirito confinato nell’immaginazione è come il lettore neofita davanti a un testo filosofico: finché non ha goduto delle gioie che contiene, va dritto ai risultati, poiché in termini di piacere gli sembra «sconsiderato voler rinunziare a una cosa certa per una ancora incerta».55 Non che, come direbbe Leibniz, abbiamo sotto gli occhi solo «una parte infima del quadro», confidando soltanto nell’armonia della sua composizione complessiva; non c’è alcun motivo perché il racconto immenso dell’universo mentale finisca bene, si ordini sub ratione boni; in nessun senso ha un fine, è solo il racconto necessario, il racconto delle cose così come sono e come accadono. Grazie alle nozioni comuni non siamo confinati in un orizzonte parziale, conosciamo almeno la lingua in cui il racconto è scritto e siamo in grado di combinare certi modelli di frasi. Non esistono quindi due mondi mentali ma uno solo, e la cesura è solo soggettiva: tra il mutilo e il completo, tra la successione caotica e scoraggiante delle idee confuse e l’ordine immutabile delle nozioni comuni nascosto al centro delle idee, che ci dà una comprensione approssimativa del particolare, non certo il nexus infinitus che, come in Leibniz, è dato solo nell’intelletto di Dio. Il cambiamento di piano è quindi soltanto lo stesso mondo che appare nella sua coerenza e necessità. Nella mente c’è un solo e unico concatenamento, ma poche connessioni si effettuano in senso stretto nella mente; la maggior parte implicano altre menti,
Etica, V, 6, sc. Etica, V, 1. 55 Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 1 [tr. it. § 2, p. 25]. 53 54
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donde la distinzione tra una determinazione esterna e una interna. Rimane da comprendere il processo che ne deriva, reso possibile dall’unità del piano: come la mente entri in possesso di sé e dei suoi affetti. La «potenza dell’intelletto», che dà il titolo alla V parte dell’Etica, è un vero potere di trasformazione. Abbiamo studiato la sintesi dell’amore – ora la V parte si apre con un’analisi della sua scomposizione: «Se separiamo un’emozione o affetto dell’animo dal pensiero della causa esterna e l’associamo ad altri pensieri, allora l’amore e l’odio verso la causa esterna, come anche le fluttuazioni dell’animo che sorgono da questi affetti, saranno annullati» (Etica, V, 2 [tr. it. 1055]).
Nell’Etica il verbo «unire» (jungere), decisivo nell’esposizione del concetto di definizione genetica, è d’uso frequente e sistematico. Spinoza se ne serve in particolare quando, concludendo la deduzione degli affetti, abbozza una teoria generale delle composizioni affettive: «Infatti, procedendo per la stessa via di sopra, possiamo facilmente spiegare che l’amore è unito al pentimento, allo sdegno, alla vergogna, ecc. Anzi, credo che a ognuno risulti chiaramente, dalle cose ora dette, che gli affetti si possono comporre in tanti modi gli uni con gli altri e che possono nascerne tante variazioni da non poter essere definite da nessun numero».56 Se ne serve anche ogni volta che si tratta di correlare il patire con l’agire.57 Questa proposizione V, 2 conferma a contrario il carattere sintetico dell’amore, che cioè l’amore non è l’affetto corrispondente all’idea di una cosa esterna se non è contemporaneamente l’affetto corrispondente alla sintesi di un rapporto di causa ed effetto tra la cosa e l’affetto. Si tratta ora della scomposizione dell’amore in un affetto e nel pensiero della sua causa, ossia nell’idea di un affetto e nell’idea della sua causa (altrimenti sarebbe l’amore stesso a venir separato dal pensiero della sua causa, che sarebbe assurdo). Crediamo in effetti che Spinoza non si accontenti dello schema di un legame tra un’idea e un affetto, quasi che quest’ultimo potesse staccarsi dalla prima andandosi a unire a un’altra idea. Avremmo qui una traccia anticipata di una transmigratio freudiana. Considerare gli affetti «modi di pensare» distinti dalle idee non equivale a concepirli come dei quanta liberi, indeterminati e qualsiasi.58
Etica, III, 59, sc. [tr.it. 954]. Cfr. Etica, IV, 59, sc.; V, 2; 4, sc.; 10, sc.; 12; 13. 58 Come osservano Laplance et Pontalis, art. Affect, in Vocabulaire de la psychanalyse, 12, per Freud «l’affetto non è necessariamente legato alla rappresentazione; la loro separazione (affetto senza rappresentazione, rappresentazione senza affetto) garantisce a ciascuno di essi una diversa destinazione». Freud stesso definisce il quantum di affetto «la pulsione in quanto si è separata dalla rappresentazione e trova un’espressione conforme alla sua quantità in processi che sono sentiti in forma di affetti» (Metapsycologie, 55). 56 57
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Non soltanto in nessun testo c’è traccia di un’idea simile, ma il concetto di conatus ne risulterebbe oscurato; occorrerebbe distinguere tra l’autoaffermazione delle idee e la potenza di agire della mente, e questo sdoppiamento equivarrebbe a reintrodurre la mente dietro le idee che la compongono, cioè il dualismo di materia e forma. In realtà, ci stiamo chiedendo fino a che punto Spinoza concepisca gli affetti come modi distinti dalle idee. Questa domanda è supportata da quattro ragioni: 1. la nozione di «modo di pensare» viene spesso usata da Spinoza nel senso ampio comune, senza riferimenti ontologici;59 2. se gli affetti fossero modi in senso forte, ossia cose, il problema del loro statuto si porrebbe nella definizione dell’intelletto infinito; 3. non si vede come un affetto, in quanto puro quantum, possa essere limitato da un’idea, come dovrebbe accadere normalmente se ambedue sono concepiti sotto lo stesso attributo; 4. la definizione generale degli affetti che conclude la III parte dell’Etica dice che la passione è un’idea confusa e conferma la definizione iniziale (def. 3) che sotto il nome di affetti sistemava le affezioni, ossia le immagini corporee o tracce cerebrali, e le idee di queste affezioni. Spinoza annette tanta importanza alla sua definizione generale degli affetti da dedicarvi una lunga spiegazione che ne è come un commento letterale. Vi parla in particolare per ben due volte dell’ «idea che costituisce la forma di un affetto». Di fatto, questa spiegazione stabilisce la coerenza della dottrina dell’idea con quella dell’affetto: questo non è altro che l’idea di un’affezione del corpo considerata nel suo carattere affermativo. Ora l’idea non può affermare la realtà del proprio oggetto in misura variabile senza per ciò stesso affermare sé stessa in analoga misura. L’affetto è l’idea vista sotto l’aspetto della potenza, il conatus stesso dell’idea; per questo ora si chiama «passione», ora «azione». In questo senso, all’inizio della III parte, Spinoza aveva detto che la mente agisce in quanto ha idee adeguate e patisce in quanto ha idee inadeguate.60 Gli affetti sono dipendenti dalle idee nella misura in cui ne esprimono il grado di affermazione.61 Si comprende quindi come la natura attiva o passiva di un affetto dipenda dall’idea che formiamo e, come vedremo, dall’idea che ne formiamo (idea dell’idea).62 Infine, prestare a Spinoza una concezione dell’affetto anticipatrice di Freud sarebbe attribuirgli quel che non ha mai smesso di denunciare nei suoi predecessori: la pseudodistinzione di volontà e intelletto, di volontà e idea: «Nella mente non si dà alcuna volizione, ossia affermazione e negazione, oltre a quella che l’idea, in quanto è idea, implica»; «la volontà e l’intelletto (secondo la proposizione precedente) sono una sola e medesima cosa».63 Tra l’idea e l’affetto c’è solo una differenza di
Cfr. Riflessioni metafisiche, I, 1: gli enti di ragione sono modi di pensare. Etica, III, 1. 61 Etica, III, 3 (che chiarisce l’assioma II,3). 62 Etica, V, 3. 63 Etica, II, 49 e cor. La dimostrazione di questa proposizione fa riferimento all’assioma 3, 59 60
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ragione. A questa lettura sembrano opporsi due obiezioni. 1. Se l’affetto dell’anima è l’idea di un’affezione, il rapporto che prendiamo per una sintesi è solo quello delle due essenze contenute in ogni idea di affezione, quella del proprio corpo e quella del corpo esterno; 2. nel caso dell’amore, l’idea dell’affetto separata dall’idea della sua causa è proprio quella di un quantum senza qualità. Sul primo punto è facile rispondere col Trattato sull’emendazione dell’intelletto, la cui posizione non sembra affatto smentita dall’Etica: ogni idea confusa è un composto conosciuto solo parzialmente, le cui parti non sono concepite distintamente;64 è quindi la confusione di due idee, la visione parziale di una sintesi che viene effettuata solo dal punto di vista dell’intelletto infinito e di cui la mente è solo soggetto passivo. In questo senso l’amore (o l’odio) è senz’altro la passione elementare: la duplice affermazione confusa del proprio corpo e di un corpo esterno. Sul secondo punto, se l’idea contenuta nell’affetto fosse quella della causa esterna, separandosene l’affetto si sopprimerebbe. Si tratta di fatto dell’analisi di un’idea confusa, che il Trattato sull’emendazione dell’intelletto definisce nel modo seguente: «se una cosa, composta da molte, viene divisa dal pensiero in parti tutte semplicissime, e si fa attenzione a ciascuna separatamente, allora svanirà ogni confusione».65 Che cosa può significare allora l’analisi degli affetti? Tentiamo un’ipotesi: nel caso più semplice, equivarrà a scomporre una passione sopprimendo l’idea della sua causa esterna, in modo che resti solo l’affermazione del proprio corpo – l’«affetto» in senso stretto – la quale potrà solo essere concepita distintamente (si noterà che l’analisi dell’amore, o la sua scomposizione, viene descritta come la «distruzione» di una «forma», quella dell’amore; la proposizione V, 2 e la sua dimostrazione ricorrono a una buona parte del lessico della trasformazione). Parla di questo la proposizione V, 3 quando dice che un affetto cessa di essere una passione allorché ce ne formiamo un’idea chiara e distinta? L’affetto in quanto tale è di nuovo il composto confuso, amore o odio che sia. Questa volta non si tratta più di analisi – e d’altra parte questa proposizione non è collegata alla
identificando senza ambiguità l’affetto e l’affermazione contenuta nell’idea e quest’affermazione con l’essenza stessa dell’idea (ossia il conatus). È vero che nell’espressione «haec affirmatio ad essentiam ideae trianguli pertinet, nec aliud praeter ipsam est» tutti i traduttori riferiscono ipsam a ideae, ad eccezione di Bernard Pautrat. Con ogni evidenza ha ragione quest’ultimo: all’inizio di questa parte l’essenza è definita come «ciò senza il quale la cosa non può essere né essere concepita e, viceversa, ciò che senza la cosa non può essere né essere concepito» (II, def. 2 [tr. it. 835]), ed è esattamente quel che si dice qui del rapporto tra l’affermazione e l’idea. L’aveva già capito N.A. Ivantsov, il traduttore russo dell’Etica, (Izbrannyie proizvédiéniia, vol. I, 447 – Ivantsov, tuttavia, arrivava ad omettere la traduzione di ideae, lasciando che si creasse una certa confusione tra realtà formale e oggettiva). 64 Trattato sull’emendazione dell’intelletto, Appuhn, § 39. 65 Ibidem [tr. it. 49].
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precedente – ma piuttosto di sintesi: formare l’idea adeguata di un’idea confusa. La leva etica è qui il richiamo all’«idea dell’idea», di cui nella II parte si era detto che costituiva un solo e identico individuo col suo oggetto (l’idea). Formare l’idea adeguata di un’idea confusa consiste in questo, che la stessa idea, da confusa, diventa adeguata e, di conseguenza, da passione si trasforma in azione. C’è qui un paradosso che da sola la dimostrazione non può eliminare, poiché la proposizione è ipotetica; rimane da stabilire se possiamo formarci un’idea adeguata di un affetto. La proposizione V, 4 risponde affermativamente, invocando le nozioni comuni che sono contenute in ogni idea di affezione del corpo. Pertanto, anziché analizzare il nostro affetto, individueremo quel che possiede di comune o di umano, la sua forma generale, e per questa via potremo applicare ad esso quel concatenamento dimostrativo delle nozioni comuni che è stato precedentemente costituito. Come comprendere allora che Spinoza non rinunci all’analisi e vi faccia ritorno in uno scolio che in certo modo riunisce i due movimenti? Lo scolio invita a una considerazione retrospettiva della proposizione V, 2, che appare ora in una luce quanto mai curiosa. Comprendiamo, infatti, che l’operazione non consiste, come poco fa ne formulavamo illusoriamente l’ipotesi, nell’analizzare il composto confuso in elementi distinti secondo l’indicazione del Trattato: l’analisi non è un mezzo ma un risultato, è l’effetto dell’applicazione delle nozioni comuni (che, ricordiamolo, non si fa dall’esterno, quasi fosse la proiezione arbitraria di uno schema astratto: ogni affetto singolo , individuale, contiene una nozione comune). Di fatto l’analisi coincide con l’estrazione-applicazione della nozione comune, poiché vediamo ora che essa consiste nel distruggere l’amore o l’odio identificandoli alla loro nozione comune e a legarla così ad altre nozioni comuni anziché alla stessa idea confusa di una causa esterna; è opportuno che la mente si dedichi a formare un’idea chiara e distinta di ogni affetto, «affinché, di conseguenza, lo stesso affetto venga separato dal pensiero della causa esterna e congiunto con pensieri veri».66 Trovandosi identificato alla propria specie, l’affetto individuale scompare per lasciare il posto alla sola gioia di comprendere che esso diviene, o all’affermazione finalmente adeguata della potenza della mente; per questa via giungiamo, malgrado tutto, all’ipotesi analitica, a condizione di vedere bene che il tutto (l’amore) si ritrova trasformato nella parte (l’affetto diventato attivo). Se analisi c’è, questa non è la semplice scomposizione o risoluzione di un tutto nei suoi elementi.67 La coscienza dell’affetto è lo stesso affetto in ciò che ha
Etica, V, 4, sc. Sottolineatura nostra. Non si trova uno schema logico analogo nella polemica con Boyle richiamata nel primo capitolo? Rileggiamo l’analisi di Pierre-François Moreau: «Dove Boyle vede una scomposizione, Spinoza ravvisa una continuità: uno degli elementi prodotti (lo ‘spirito di nitro’) è di fatto la stessa cosa dell’elemento originario (il nitro)… se, per Spinoza, lo spirito di nitro è la stessa cosa del nitro, ossia se non c’è né scomposizione né ricomposizione, qual è lo statuto dell’altro elemento trovato al termine della scomposizione? La risposta di Spinoza è logica: questo secondo elemento non ap66 67
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di comune e dunque separabile; non è il caso di pensare a una qualche migrazione della carica affettiva su altre idee, poiché l’idea stessa, per la sua identità con l’idea dell’idea, viene per così dire ri-formata, riformata. L’amore così muore solo in quanto passione o simulacro di definizione generica e rinasce come l’affermazione di noi stessi riferita alla sua causa interna e, di conseguenza, come amore di Dio. Questo processo sembra strano, o semplicemente verbale, solo se si dimentica che la nozione comune non è mai applicata dall’esterno a un caso di idea di affezione senza venirne al tempo stesso estratta dall’interno, poiché il principio della sua genesi è questo.
partiene alla natura del nitro, è una semplice impurità…» (Spinoza. L’expérience et l’éternité, 270-271). È chiaro che in questo ragionamento Spinoza non fa intervenire nessun’ idea di rigenerazione spirituale, come avviene nell’alchimia dove la trasformazione è ottenuta col fuoco e la separazione. Cfr. al riguardo la lettera 40 a Jelles, a proposito della faccenda Helvetius, e la lettera 72 a Schuller, in cui Spinoza, scettico sulla produzione dell ‘oro, propende piuttosto per una separazione, essendo inizialmente l’oro mescolato all’antimonio. Su questo punto è il caso di rivolgersi al commento di Charles Ramond, Qualité et quantité dans la philosophie de Spinoza, 229, che insiste con originalità sull’atteggiamento moderno e illuminato di Spinoza in questa questione: «In effetti, dal punto di vista meccanico,la mutazione del piombo in oro a priori non è affatto impossibile… - perché mai il filosofo che sa realizzare la trasformazione della tristezza in gioia rifiuterebbe la possibilità di trasformare il piombo in oro?»
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Capitolo VII Il sogno delle trasformazioni soprannaturali Da tre capitoli non abbiamo smesso di chiederci che cosa significhi per Spinoza «formare un concetto». E tuttavia Spinoza dice invece che, il più delle volte, la mente umana non forma niente, ma «forgia» o «finge». L’immaginazione popola il suo mondo - il mondo quale essa lo conosce – di entità che non esistono, ma alle quali, in misura diversa, essa crede. Il mondo dell’ignorante è diviso in varie cose, che non sono però quelle che la mente considera sub specie aeternitatis; inoltre, questo mondo è instabile e continua a suddividersi. Certamente l’universo, sempre identico a sé stesso, si confonde con la perpetua trasformazione delle sue parti: un continuo ritagliarsi di forme. L’universo stesso, però, non cambia: le trasformazioni sono regolate, obbediscono a leggi immutabili. L’ignorante, invece, vive in un mondo in cui ogni trasformazione è possibile, in cui le forme stesse non sono stabili perché ne invadono altre, si mescolano ad altre. È il mondo dell’universale confusione, quello del tardo Rinascimento o del Barocco incipiente, con cui Spinoza dice di aver rotto.1 Questa rottura definisce una «linea di demarcazione», secondo l’espressione di Pierre-François Moreau,2 tra due tipi di lettori: quelli il cui pensiero seguirà il movimento delle dimostrazioni e quelli che, non avendo altri criteri mentali che i loro pregiudizi, avanzano ossessivamente un muro di obiezioni che li sottrae alla presa del ragionamento.3 Per cercare di sgretolare questa fortezza, Spinoza usa certi stratagemmi, ma gli accade di congedarsi educatamente da questo o quell’interlocutore, quando avverte che la sua ostinazione è incurabile e diventa arroganza,4pregando senza illusioni le persone il cui giudizio è solo passionale di smettere di leggerlo5 (viene da pensare evidentemente al motto Caute, inciso sul suo sigillo personale e che, di conseguenza, sta scritto in tutte le sue lettere).
Lettera 30 a Oldenburg. P.-F. Moreau, Métaphysique de la subtance et métaphysique des formes, 14; Spinoza. L’expérience et l’éternité, 491. 3 «L’attenzione che avevo richiesto nella mia lettera precedente non ti è sembrata necessaria; e la causa è stata che tu non hai fissato il pensiero sulla cosa principale e hai trascurato ciò che importava massimamente all’argomento» (lettera 56 a Boxel [tr.it. 1476-1477]). 4 Lettera 27 a Blyenbergh («… ho desiderato un’occasione nella quale potessi pregarvi a voce e nel modo più amichevole di voler desistere dalla vostra richiesta…» [tr. it. 1389]); lettera 56 a Boxel («Infine, mio signore, mi sono dilungato più di quanto volevo; né voglio infastidirti oltre con queste cose che (lo so) non concedi, perché segui altri principi molto diversi dai miei…» [tr.it. 1479]). 5 Trattato teologico-politico, fine della prefazione. 1 2
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Spinoza delinea inoltre la figura estrema e paradossale dello scettico, questi «automi del tutto privi di mente» che «temono di ammettere che esistono».6 Non senza una certa malafede che forse trae in inganno loro stessi, dal momento che la loro vita pratica implica pure delle affermazioni, si applicano a una sorta di auto-soppressione mentale, tendendo al silenzio della non-affermazione assoluta. «Occorre in definitiva astenersi dal parlare con loro». Questo sogno di una vita sospesa non può non far pensare a quell’uomo immaginario che la sua natura predisporrebbe a «vivere meglio su una croce».7 Lo scettico non crede certo né alle chimere né alle metamorfosi, poiché non crede, o finge di non credere, a nulla. Per ciò stesso, tuttavia, nella forma della negazione che gli è propria, afferma un mondo confuso e caotico in cui esistenza e percezione sono solo abbozzi effimeri privi di forma, sogni e realtà mescolati.
1. La logica della chimera
La tendenza a «immaginare che qualsiasi forma si trasformi in qualsiasi altra»8 è legata all’ignoranza delle cose, ossia a una percezione mutila; la mente se le rappresenta separatamente dalle loro cause, incapace di produrne la definizione genetica. Per questo le trasformazioni immaginarie possono essere «repentine» (in momento);9 in un mondo di puri effetti,10 in cui i rapporti sono esterni ai loro termini e non dipendono dalla natura di questi ultimi, i cambiamenti sono di tipo associativo e non genetico. È l’universo magico delle trasformazioni senza un processo, senza un movimento che porti da un termine all’altro. Di qui due conseguenze. Da un lato, poiché in ogni istante qualsiasi forma può venir sostituita senza motivo da un’altra, non c’è nemmeno motivo perché permanga. Il legame tra l’esistenza e la forma è sciolto, la vita diventa inconsistente e indistinguibile dalla morte, a meno di postulare la permanenza del soggetto attraverso le trasformazioni, il che implica un accumulo.11 Lo spirito può
Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 31 [tr. it. § 47, p. 41]. Lettera 23 a Blyenbergh [tr. it. 1385]. Cfr. sotto, p. 221, n. 3. 8 Etica, I, 8, sc. 2 [tr. it. 792]. 9 Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 37 e 39. 10 Cfr. Gilles Deleuze, Spinoza et les trois «Ètiques», in Critique et clinique, 175: «Seguendo gli stoici, Spinoza spezza la causalità in due linee ben distinte: quella che lega tra loro gli effetti, a condizione di cogliere a sua volta quella che lega tra loro le cause. Gli effetti rinviano agli effetti come i segni ai segni: conseguenze separate dalle loro premesse». 11 Spinoza evoca «umani improvvisamente cambiati in sassi o in fonti» (Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 37). Niobe mutata in sasso continua a piangere, è insieme sasso e fonte (Ovidio, Metamorfosi, libro VI); Aretusa mutata in fonte continua ad essere una ninfa e narra lei stessa la sua trasformazione (libro V). Ovviamente, prendendo la forma umana di Cristo, Dio resta Dio, la chimera dell’uomo-Dio. 6 7
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quindi scegliere tra due visioni ugualmente deprimenti: quella dell’evanescenza delle forme e quella della loro reclusione in altre forme. D’altra parte, la sola spiegazione pensabile è quella di una causalità esterna, anch’essa incostante, senza legge, che rinvia quindi a un panteon piuttosto che a un Dio unico, a una pluralità di «reggitori» (rectores) o di «dei».12 La trasformazione immaginaria produce quindi essenze doppie, esseri polimorfi, in breve nature composte o confuse; una stessa forma si conserva sotto la sua nuova forma. In realtà, la confusione delle nature è tanto la condizione quanto il risultato. Mescolando a priori le nature, l’ignoranza non ha difficoltà a immaginare il loro reciproco intreccio. Gli elenchi di esempi dati da Spinoza contengono quindi sia chimere, sia trasformazioni: alberi parlanti e fantasmi che stanno dentro gli specchi, ma anche uomini nati da sassi o mutati in sassi e divinità trasformate in uomini e animali. Si tratta sempre della sintesi confusa di due ricordi. La sintesi è possibile perché la mente concepisce l’esistenza delle cose sotto la categoria dell’essere in generale, senza considerare le condizioni particolari dell’esistenza di ciascuna cosa, che sono in rapporto con la loro essenza propria. Ad esempio, pensando all’albero come a un ente in generale, non come a un essere fornito di una certa essenza, si può costruire la finzione di un albero parlante, facendo astrazione da tutti i suoi predicati specifici:13 invece di considerare il rapporto di derivazione che unisce le proprietà a un’essenza, ci si mette ad attribuire arbitrariamente e in modo puramente verbale predicati qualsiasi a un soggetto indeterminato.14 In base a quello che possiamo sapere, dato il momento che occupiamo nella durata universale o la nostra posizione eterna nell’universo, la proprietà di parlare si deduce solo dall’essenza dell’uomo. Ma ecco che l’attribuiamo arbitrariamente a un’altra essenza; ne risulta la finzione «che gli alberi parlano come gli uomini».15 In verità, se consideriamo le cose in modo tanto astratto e generale che le loro essenze non si distinguono, non vi sono ostacoli per nessuna finzione: mosca infinita, anima quadrata, fantasmi che vivono negli specchi. In compenso, quando prestiamo attenzione alle nature, alle essenze e alle forme, tutte le fantasmagorie svaniscono. Non possiamo più attribuire all’una i predicati dell’altra, come se le stesse proprietà si potessero dedurre da due essenze tra loro confuse, identificate assurdamente da una mente che tuttavia continua a ritenerle differenti: il rapporto ci appare contraddittorio. Per chimera s’intenderà quindi «ciò la cui natura implica una evidente contraddizione» e che perciò «non può esistere per sua natura».16 La chimera
Etica, I, app. Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 36, nota. 14 Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 39. 15 Etica, I, 8, sc. 2. 16 Riflessioni metafisiche, I, cap. 1, nota. Formulazione analoga al cap. 3. Cfr. anche Breve trattato, II, cap. 16 § 3, n. 2, Appuhn, vol. I, 123: si ha la chimera quando «uniamo nel pensiero due 12 13
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non è una cosa ma, se così si può dire, una non-cosa, una non-natura. Proviamo a definire il grifo:17 la sua testa e le sue ali d’aquila contraddicono il suo corpo di leone, così che la cosa si pone solo negandola; una parte del suo corpo non potrebbe affermarsi nell’esistenza che a spese dell’altra.18 La chimera è l’essere strutturalmente suicida,19 che cioè al tempo stesso è il non-essere.20 Per un istante Spinoza la mette in parallelo con Dio, come ciò la cui essenza, lungi dall’includere l’esistenza, al contrario la esclude. Non basta, perché la chimera non ha nemmeno l’essenza: «una chimera è solo una parola».21 Azzardiamo una proposta: poiché la metamorfosi consiste nel produrre una chimera, è in qualche modo la contraffazione fantastica di una definizione genetica. Parlando di «uomini formati tanto dalle pietre come dal seme»,22 in realtà Spinoza pone l’accento su un’eterogenesi. Di fatto, le trasformazioni repentine sono piuttosto rare in Ovidio, il quale si dedica più spesso a descrivere la transizione, il passaggio progressivo da una forma all’altra, e in particolare quel momento di grazia poetica in cui queste diventano indiscernibili. Dato che l’immaginario del XVII secolo, col suo amore per le trasformazioni, si alimenta principalmente di Ovidio, e dato anche l’interesse che Spinoza pare gli abbia dedicato, forse non è inutile soffermarsi un poco sui suoi procedimenti, in modo da chiarire di rimando l’analisi spinoziana dell’immaginario. Un sudore freddo, trovandomi così assediata, mi pervade le membra, da tutto il corpo mi cadono gocce azzurrine, e se sposto un po’ il piede, si forma una pozza, dai capelli cola una rugiada, e in meno di quanto non impieghi ora a raccontarlo, mi muto in acqua (Le Metamorfosi, V, 632-636 [tr. it. Torino, Einaudi, 1979])
Spinoza menziona il grifo nella lettera 54 a Boxel. Cfr. Etica, III, 4, dim. e 5. Inversamente, la montagna senza la valle, secondo l’esempio ripreso da Cartesio (Breve trattato, I, cap. 1), è una natura contraddittoria, perché si pratica una divisione illegittima nell’essenza. Spinoza presenta da prima le cose come se «avere una valle» fosse una proprietà dell’essenza della montagna; in seguito, però, interiorizza il legame nella stessa essenza, scrivendo che «l’essenza di una montagna consiste nell’avere una valle». 19 Spinoza spiega così a Blyenberg che la sua ipotesi di un uomo che per essenza si abbandonasse al sesso e al crimine «implica la contraddizione», e che questo equivale a chiedersi se un uomo può affermare la sua essenza impiccandosi. «Supponiamo tuttavia che possa esistere una natura simile … se un uomo vede di poter vivere in modo più conveniente legato in capo a una corda (in cruce) che seduto al suo tavolo, agirebbe da idiota se non s’impiccasse» (Appuhn, vol 4, 222). È degno di nota che nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, parlando dell’abbandono al piacere sessuale, Spinoza usi lo stesso verbo suspendere; l’intenzione infatti è la stessa, e Spinoza vuol mostrare che la scelta di una vita lubrica, cui il soggetto non può essere spinto che da cause esterne nascoste, non ha più valore del mettersi una corda al collo. 20 Riflessioni metafisiche, I, cap. 1. Appuhn, vol. 1, 337 («una chimera, un essere finto e un ente di ragione non sono degli esseri»); e cap. 3, 346 (l’impossibilità della chimera è di «essere una semplice negazione»). 21 Ivi, 346. (il confronto con Dio si trova nella pagina precedente). 22 Etica, I, 8, sc. 2. Allusione al mito di Deucalione (Ovidio, Metamorfosi, libro I). 17 18
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O ancora: Senza più nessuno si sedette tra i cadaveri dei figli, delle figlie, del marito, e s’irrigidì per il dolore. Non un capello si muove nell’aria, sul volto ha un pallore mortale, gli occhi stanno sbarrati sulle guance tristi; nulla di vivo c’è nella sua figura. Perfino la lingua – anche quella – le si congela dentro col palato indurito, e le vene perdono la capacità di pulsare. Il collo non può più piegarsi, le braccia non rispondono più, il piede non può più camminare. Anche tra i visceri tutto è pietra. Piange, però, e avvolta da un impetuoso turbine di vento è trasportata via, nella sua terra natale. Lì, confitta sulla cima di un monte, si strugge, e ancor oggi dal marmo trasudano lacrime (VI, 301-312 [tr. it. cit.])
Il primo esempio illustra uno dei procedimenti tipici delle Metamorfosi: cercare la somiglianza che consente la transizione (sudore mescolato ai capelli lunghi liquefazione fontana). Il secondo è più sofisticato: la disinvoltura comica della caduta mostra a un tempo che considerazione Ovidio abbia della metamorfosi propriamente detta e che potenza attribuisca alla poesia. La metamorfosi assume consistenza solo in forza e dentro la poesia, come l’effetto prodotto dalla metafora (qui la pietrificazione). Le Metamorfosi sono una demistificazione, una riduzione della chimera alla condizione verbale e insieme una celebrazione del potere del linguaggio – poiché la metafora ci costringe, per così dire, a immaginare l’inimmaginabile (un po’ come i Prigioni di Michelangelo23 ci obbligano a vedere la nascita impossibile della carne dalla pietra, nell’impressionante aderenza di questa a quella, come nel testo citato qui di seguito). Al tempo stesso, e per ciò stesso, i racconti di Ovidio non possiedono la gratuità di quelli dell’Ariosto, il quale cerca soltanto il meraviglioso e ottiene una fantasia verbale senza reale contenuto percettivo; rivelano l’alterazione contenuta nel dolore e nell’amore ed hanno quindi un contenuto etico.24 Ovidio crea la chimera al limite dell’immaginazione; cerca l’istante in cui, non
Museo dell’Accademia, Firenze. Il confronto tra i due autori si trova nel Trattato teologico-politico, cap. VII, Appuhn, vol 2, 151. È sintomatico che venga fatto a proposito di Orlando che cavalca l’ippogrifo (nell’Ariosto – la memoria tradisce Spinoza che fa cavalcare a Orlando Brigliadoro; in compenso, l’evocazione degli «alberi parlanti» è forse una reminiscenza dell’Orlando furioso, canto VI, strofe 27-33) e di Perseo alato che uccide la Gorgone e poi balza in groppa a Pegaso per conquistare il trofeo (in Ovidio). Il mito di Perseo è molto simile a quello di Bellerofonte che uccide la chimera, questo leone con testa di capra e coda di drago; anche Bellerofonte, infatti, cavalca Pegaso. Questi miti raccontano l’uomo che si libera del potere del mito, il sogno di essersi finalmente liberati del terrore dei sogni. Che l’eroe possa abbattere il mostro solo cavalcando un altro mostro testimonia a sufficienza questa coscienza oscura, prigioniera di ciò che vorrebbe combattere. D’altra parte, la testa mozzata della Medusa ha conservato sugli uomini tutto il suo potere, e Perseo se ne serve come di un’arma per cambiare in sasso i suoi nemici (Le Metamorfosi, libro V). L’uomo prigioniero del sogno può solo sognare di farla finita col sogno e può combattere il mito solo col mito. Niente di simile nell’Ariosto. 23 24
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più distinguibile, una forma trapassa nell’altra. Il falso movimento dell’eterogeneo ha come causa formale, anziché un concetto chiaro e distinto, la confusione delle nature, e come causa efficiente una causa finale; in questo senso la sua è la contraffazione di una definizione genetica. La sua mistificazione consiste nell’impossibile operazione di omogeneizzare i termini eterogenei; ad esempio, la pietra è seme umano solo a condizione di umanizzarsi, come in questo trapasso in cui quasi non si avverte più l’ironia: I sassi – chi lo crederebbe se non lo attestasse una tradizione così veneranda? – cominciarono a perdere la loro fredda durezza, ad ammorbidirsi a poco a poco e, ammorbiditi, a prendere forma. Quindi crebbero e diventarono di natura più tenera, e allora si incominciarono a intravedere delle forme umane, ma ancora mal rifinite, come se abbozzate nel marmo, similissime a statue appena abbozzate (Ovidio, Le Metmorfosi, I, vv. 400-406 [tr. it. Torino, Einaudi, 1979]).
Questo tema sarà trattato ancora da Ovidio attraverso il mito dello scultore Pigmalione (libro X); sotto la pretesa trasformazione si afferma un pensiero ilemorfico cui si aggiunge un fenomeno allucinatorio (l’animazione, il farsi carne della statua d’avorio). Transizione mediante l’indistinto o creazione ex nihilo a partire da una materia senza qualità, si tratta sempre di una provenienza senza provenienza, di un simulacro di causalità implicante il chimerico o la realtà fittizia del non essere, in breve l’archetipo di ogni trasformazione: «il nulla diventa qualcosa». 25 La confusione, in realtà, cancella ogni natura a vantaggio di una sopra-natura che, prendendo alla lettera l’espressione induere in aliam naturam, va intesa nel senso di una sopravveste: sempre un’altra forma sopra o sotto la forma. Nella mitologia ogni forma è potenzialmente la veste di un’altra – astuzia o sortilegio; un giovane nasconde Zeus, dei maiali nascondono i compagni di Ulisse. Tutto è possibile, dunque, e niente è necessario (donde, anche, la finzione del libero arbitrio dell’uomo, perché la coscienza che questi ha dei suoi atti è coscienza di conseguenze senza premesse, puri effetti indebitamente separati dalle cause che li determinano). Perché gli alberi o i cadaveri non potrebbero mettersi a parlare? Perché questa ninfa non potrebbe essere nostra all’istante? Perché questo giovane non potrebbe essere Zeus? E se la realtà non fosse che un brutto sogno e il sogno la realtà vera? La trasformazione soprannaturale implica che in ogni cosa vi siano tutti i semi, che tutto sia la causa prossima di tutto, che equivale a negare ogni seme e ogni causalità. Scompaiono così tutte le forme e tutte le nature, a vantaggio di un caos di proprietà vagabonde e combinabili in modo qualsiasi. Da buon allievo di Epicuro e di Lucrezio, Spinoza oppone a questo dissolversi del pensiero e
25
Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 37 [tr. it. § 58, p. 47].
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dell’essere l’assioma che «niente nasce dal nulla» o che niente è senza seme:25
Se infatti le cose potessero nascer dal nulla, vedremmo da tutto nascere tutto e niente avrebbe il suo seme: vedresti nel mare nascere uomini, nel suolo i pesci squamarsi, nati dal cielo balzare gli uccelli, gli armenti ed altri animali dovunque ora qua ora là partorire, occupare ora luoghi deserti ora terre coltive; né sempre quest’albero qui porterebbe i medesimi frutti, ma altri e diversi, ché ogni pianta darebbe ogni specie di frutto (Lucrezio, De rerum natura, I, vv. 159-166 [tr.it. Firenze, Sansoni, 1978]).
Sotto la forma non c’è mai un’altra forma né il seme di un’altra. «Uomini formati di sasso così come di seme…». Già nei Principi della filosofia di Cartesio, Spinoza spiegava che «per intendere la natura delle piante o dell’uomo la via migliore è quella di considerare in che modo, poco alla volta, nascano e si generino dai semi» e che occorreva quindi cercare di far nascere il mondo visibile a partire da un seme, sia pure fittizio.26 Era il primo uso della definizione genetica, o dell’«ipotesi» fisica secondo Cartesio. Alla permanenza delle specie Spinoza perviene non attraverso la biologia ma la logica: una cosa può produrre solo gli effetti che derivano dalla sua natura. Nel caso contrario, bisognerebbe immaginare l’unione di un dio e di una fanciulla, come per i greci, oppure quella di esseri che non hanno abbastanza proprietà comuni per subire affezioni gli uni dagli altri e desiderare di unirsi: la mixtura corporum, concorso di due cause alla produzione di uno stesso effetto – questa fusione temporanea tra due esseri che non hanno nulla in comune è qui logicamente e realmente impensabile.27 Il desiderio perverso sarebbe un nulla di
26 Su questo assioma cfr. Principi della filosofia di Cartesio, I, 7 sc. (a proposito dell’illusione del cerchio quadrato), II, ass. 1 («Il nulla non ha proprietà»); Riflessioni metafisiche, II, cap. 10 (l’ipostasi del nulla implicita nell’idea «volgare» di creazione ex nihilo si spiega con l’abitudine di concepire la generazione in funzione di una materia dalla quale la cosa proviene; vi si può vedere in filigrana una critica dell’idea rigida di creazione, che pone lo spirito davanti all’alternativa tra la nascita brusca e l’illusione primordiale del nulla-ente). Il testo di Lucrezio s’ispira a Epicuro, Lettera a Erodoto, 38. Sul rapporto di Spinoza con l’epicureismo, cfr. P.-F. Moreau, Spinoza. L’expérience et l’éternité, 495-496. 27 Principi della filosofia di Cartesio, III, Appuhn, vol. 1, 328 [tr. it. 335]. Cfr. sopra, cap. I. Non è da escludere una reminiscenza stoica. 28 Si confrontino, in proposito, le genesi di Ovidio con quelle, rudimentali, dell’Ariosto, ad esempio a quella semplice combinazione che, in definitiva, si rivela solo una combinazione verbale: «Non è finto il destrier, ma naturale/ ch’una giumenta generò d’un grifo:/simile al padre avea la
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desiderio, un’essenza chimerica che si affermerebbe solo negandosi, il sogno di un impotente. Due cose troppo diverse non possono dunque essere insieme la causa prossima di una cosa nuova individuale. Vediamo in che senso quest’idea del seme è logica: non sappiamo come la generazione avvenga, ma di una cosa siamo certi, che le generazioni non possono che essere intraspecifiche, perché un’essenza non può essere la causa prossima di una cosa con cui non condivide nozioni comuni proprie, perché un’essenza non contiene nulla che l’escluda e da cui si potrebbe dedurre un’essenza estranea alla sua. In questo senso, a proposito di quell’ente chimerico che è la ghiandola pineale, Spinoza dice: «Vorrei davvero che avesse spiegato questa unione mediante la sua causa prossima».28 Che produciamo esseri a noi simili non è stupefacente, la procreazione, invece, rimane un fatto inspiegato, un postulato.
2. Il paradosso dell’essere del non essere
La denuncia delle chimere e delle metamorfosi potrebbe sembrare banale e convenzionale, senza un vero scopo. Che potere hanno su di noi questi «enti verbali» che non hanno nemmeno una consistenza immaginaria? Come potrebbero produrre in noi affezioni? «Non si dovrà temere in alcun modo di fingere, se solo percepiamo la cosa in modo chiaro e distinto. Infatti, se ci accade di dire che gli uomini all’improvviso si trasformano in bestie, questo si dice in modo molto generale, al punto che non si dà nella mente nessun concetto, ossia idea…».29 Spinoza stesso se lo permette spesso a proposito della religione30 e della tirannide,31 proponendo all’occasione qualche pausa umoristica nell’assurdo.32 Senza dubbio, l’innocuità delle finzioni è condizionata dallo stato del nostro sapere; se però la consistenza della finzione è comunque vicina a zero, perché mai diventerebbe temibile quando confondiamo tutto? piuma e l’ale,/ li piedi anterïori, il capo e il grifo;/ in tutte l’altre membra parea quale/ era la madre, e chiamasi ippogrifo…» (Orlando furioso, canto IV, strofa 18). 29 Etica, V, prefazione [tr. it. 1053]. 30 Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 39 [tr. it. § 62, p. 48]. 31 «… pregiudizi… che da razionali rendono gli uomini bruti» (Trattato teologico-politico, Appuhn, 23 [tr. it. 432]). Implicitamente la formula si appoggia sulla definizione scolastica dell’uomo come animal razionale: i pregiudizi fanno perdere all’uomo la sua differenza specifica. Non siamo dunque lontano da quei casi estremi in cui l’uomo «trascura l’utile» e agisce contro la propria essenza, spingendosi fino a inventare delle affinità con le bestie. In Spinoza, quindi, il richiamo a una trasformazione non è un semplice modo di parlare, anche se evidentemente non si dice che l’uomo possa metamorfosarsi in un essere di un’altra specie esistente. 32 Ad esempio: «Il fine dello Stato, ripeto, non è quello di trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o in automi» (Trattato teologico-politico, XX, Appuhn, 329 [tr. it. 727]). Cfr. anche Trattato politico, V, 4; VII, 25. 33 Lettera 21 a Blyenbrgh. Cfr. sopra, all’inizio del presente capitolo
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Una volta esposta la logica delle metamorfosi, rimane ancora da spiegare il loro potere di seduzione sugli uomini. Spinoza seppe cogliere, in questo, un tratto del suo tempo, innalzato al rango di sintomo universale, facendosi, secondo l’espressione di Nietzsche, «medico della civiltà». Perché i suoi contemporanei si appassionano tanto al soprannaturale pur non credendovi?33 Di che cosa è sintomo questo? (Spinoza menziona «il desiderio che gli uomini generalmente hanno di narrare le cose non come sono, ma come vogliono averle»).34 Perché questa persistente popolarità di Ovidio, letto nelle prime classi, persino nelle scuole dei Gesuiti malgrado il divieto del Concilio di Trento? E com’è stato possibile che una religione abbia basato il suo successo sul dogma che «Dio abbia assunto (assumpserit) forma umana», affermazioni «assurde come quelle di chi mi dicesse che il circolo ha assunto la natura del quadrato»?35 Che significa credere nell’Incarnazione, se non se ne può avere nemmeno un’immagine? E che significa credere nella Resurrezione («che dei cadaveri ragionino, camminino, parlino»…)?36 Nell’atteggiamento di Spinoza nei confronti della chimera si direbbe che vi sono due momenti: uno per dire la sua assurdità e il nulla di pensiero che essa copre; l’altro per porre l’accento sulla sua pregnanza nella mente umana, sul suo potere di seduzione. Secondo le Riflessioni metafisiche la chimera non è percepita in alcun modo; l’Etica tuttavia cita il caso di un bambino che vede realmente un cavallo alato.37 L’assurdo non ha consistenza, ha consistenza la sua affermazione. Com’è possibile credere all’impossibile, dargli il proprio assenso? Pare che la mente, sul limitare dell’impotenza del non essere, abbia ancora quest’ultima risorsa… Se si leggono i testi distrattamente, si potrebbe avere l’impressione che in momenti di minor rigore Spinoza si dimentichi dello statuto verbale dell’illusione e le riconosca una consistenza immaginaria. Si veda, ad esempio, questa risposta ironica a un corrispondente che basa la sua credenza negli spettri su considerazioni estetiche: «Io dunque, per non essere troppo prolisso, chiedo soltanto che cosa contribuisca di più alla bellezza e perfezione del mondo: l’esistenza di spettri o l’esistenza di molteplici mostri, come centauri, idre, arpie, satiri, grifi, arghi e simili sciocchezze? Certamente il mondo sarebbe stato ben disposto se Dio lo avesse ornato e acconciato secondo il piacere delle nostre allucinazioni (phantasmata) e con quelle cose che ognuno facilmente immagina
34 Malebranche dedica tuttavia una digressione al lupo mannaro. Cfr. De la recherche de la vérité, tomo I, vol. 2, ultimo capitolo, 208. 35 Lettera 52 a Boxel, sugli spettri [tr.it. 1462]; Trattato politico, I, 1 sulla tendenza della natura umana alla finzione. 36 Lettera 73 a Oldenburg [tr. it. 1303]. Nelle Riflessioni metafisiche, I, cap. 3, il cerchio quadrato è l’esempio che illustra il carattere esclusivamente verbale della chimera. 37 Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 40 [tr. it. § 68, p. 51]. 38 Etica, II, 49, sc.
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e sogna (somniat), ma nessuno mai è capace di intendere!» (lettera a 54 Boxel, traduzione modificata). Quel che qui importa è il termine «sognare». L’associazione di idee e la costruzione di possibili sono i due usi normali dell’immaginazione o, per essere più precisi, della memoria (poiché la sensazione, o l’idea di un’affezione presente nel corpo, rientra stricto sensu nell’immaginazione). C’è però un terzo uso, contrario alla ragione, quando l’immaginazione conferisce alla finzione una presenza attuale. Phantasia, che gli equivalenti moderni rendono in modo sbiadito, conserva in latino il ricordo del senso greco di apparizione o di allucinazione se, come fa Spinoza, lo avviciniamo al sogno.38 Ci troviamo dunque di fronte a una doppia trasgressione nei confronti della ragione: la confusione dell’immaginario col reale e la confusione delle nature.39 Abbiamo studiato la seconda, ora dobbiamo chiarire la prima. Il senso comune c’invita a distinguere subito tra la credenza (ammettere in generale l’esistenza di spettri) e l’allucinazione (dirsi in presenza di ciò che è solo un prodotto dell’immaginazione). Come fa Boxel, è possibile credere all’esistenza di puri spiriti, senza perciò credere alla loro presenza. È la credenza per sentito dire, o fede nella testimonianza: credere alle apparizioni avute da altri, ai racconti che ne fanno, come quel borgomastro che la notte sente i fantasmi lavorare nella birreria di sua madre e il cui racconto inquieta Boxel, mentre fa sbellicare dal ridere Spinoza; o, più in generale, tutto quel che si racconta dei santi e delle apparizioni della Vergine. Senza dubbio Boxel si rappresenta i puri spiriti di cui gli si riferisce l’esistenza: divide la distanza tra noi e il cielo in regioni basse e alte, che poi riempie di «abitanti spirituali», di cui i più vicini sono corpi invisibili quasi senza massa e i più lontani le anime senza il corpo. Questa rappresentazione è, per così dire, una confessione: vi s’indovina un’inconscia allegoria della deriva dello spirito verso il nulla, per piani di confusione successiva. Dovremo presto chiederci in che misura Spinoza mantiene questa distinzione di buon senso, sembra, tra credenza e allucinazione, tra l’uomo ragionevole un po’ credulo e l’insensato prigioniero del suo delirio e delle sue visioni.
2.1 La potenza dell’impotenza: la confusione L’immaginazione non è governata dalla legge del tutto o niente, come l’intelletto. Quando Spinoza afferma che la chimera non si immagina, vuol dire che La prefazione del Trattato teologico-politico associa dapprima deliria imaginationis e somnia, poi deliria e phantasmata (rispettivamente alle pagine 2 e 3 dell’edizione del 1670). Il termine phantasmata compare anche all’inizio della lettera 52 a Boxel. 40 Questa coppia non s’identifica per intero con quella del Trattato sull’emendazione dell’intelletto tra la finzione relativa all’esistenza e la finzione relativa all’essenza, poiché la prima non comporta necessariamente l’assenso. 39
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l’unione di nature eterogenee comporta un salto e non si offre in nessun’immagine (un po’ come in Aristotele l’istante del cambiamento, che non corrisponde a uno stato del mobile, ma solo al limite tra il vecchio stato e quello nuovo);40 in materia Ovidio tenta l’impossibile. Le parti che vengono unite arbitrariamente, invece, le immaginiamo distintamente e, come fa l’Ariosto, si può sempre immaginare la giustapposizione di nature come una continuità accidentale anche se durevole41 (un po’ come il marinaio e il suo orologio in Cartesio – dove si vede che la traslazione simultanea come criterio d’individuazione può portare alle chimere...).42 Se si cerca un vero legame, lo si troverà nell’unità di un unico nome, centauro, grifo. Ancor più, la chimera merita doppiamente la sua qualità di ens verbale, in quanto il linguaggio, a differenza dall’essere, permette la fusione dei termini eterogenei: ippo-grifo, secondo il neologismo dell’Ariosto. Si obietterà che è possibile alla pittura presentare la chimera? Certo, i mostri di Jérôme Bosch sono ammirevoli; nondimeno sono giustapposizioni (una testa messa direttamente su due gambe) o indistinzioni (somiglianza di forma e colore tra un’anfora di terracotta e la groppa di un maiale).43 Bosch combina in qualche modo il procedimento dell’Ariosto con quello di Ovidio. O fa a meno della transizione, oppure la ottiene creando uno stato di confusione che, a somiglianza del movimento ovidiano della metafora descritta, rivela soprattutto il potere proprio della raffigurazione pittorica: la carne ovina e la terracotta si fondono l’una nell’altra diventando pittura, pure linee e colori (come i mostri dei capitelli romanici stanno insieme solo per l’omogeneità del loro materiale). Le fusioni di Bosch sono comiche: proprio perché sono mescolate, basterebbe un istante di empatia per provare la separazione della terra dalla carne. Insomma, sempre per confusione l’avorio diventa pelle o i capelli lo scorrere dell’acqua. Si capisce, quindi, come il nulla assuma consistenza e come l’impotenza mentale (l’ignoranza, la confusione) disponga del potere paradossale di fare l’impossibile.44 Al potere sintetizzante di uno stesso supporto artificiale l’immaginazione propone aggregati sufficientemente confusi – metafora, pittura, marmo o semplice parola. L’importante è sempre che la rappresentazione sia stilizzata e che la mente si rappresenti un tutto senza preoccuparsi delle giunture. Basterebbe infatti cercare di immaginare veramente la transizione, per accorgersi che non avviene
Aristotele, Fisica, VIII, 263b 9-25. È il caso del bambino dello scolio II, 49 di cui riparleremo in seguito. 43 Cfr. sopra, cap. I. 44 La Tentation de Saint-Antoine, Museu Nacional de Arte Antiga, Lisbona. 45 Al contrario, «dopo aver conosciuto che esisto, non posso fingere di esistere o di non esistere; neppure posso fingere un elefante che passi attraverso la cruna di un ago; né, dopo aver conosciuto la natura di Dio, posso fingerlo esistente o non esistente; la stessa cosa si deve intendere della chimera, la cui natura implica contraddizione che esista» (Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 34 [tr. it. §54, p. 43-44]). 41 42
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(Spinoza parla a più riprese di «immaginazione distinta»). Oppure – e sarebbe in parte la stessa cosa – basterebbe concepire o comprendere le due nature per distinguerle. Per questo Spinoza sottopone Boxel alla prova della predicazione: tu dici che gli spettri esistono? Cerca allora di dirmene le proprietà.45
2.2 Immaginare una negazione?
In un testo reso strano dalla sua concisione, Spinoza tuttavia ammette la possibilità di immaginare una negazione – cosa che aveva negato per la contraddizione – basandosi su un argomento apparentemente poco convincente. Occorre leggere il testo alla lettera: «Infine, poiché siamo soliti raffigurare nella nostra fantasia le immagini di tutte le cose che intendiamo, avviene che immaginiamo i non-enti in modo positivo, come de fossero enti… immaginiamo come enti tutti i modi dei quali la mente si serve per negare, quali sono cecità, estremità o fine, termine, tenebre ecc.» (Riflessioni metafisiche, I, 1, Appuhn, vol. 1, 338 [tr. it. 344-345]).46
L’interpretazione è delicata. Due i due metodi complementari che ci si presentano. 1. Tener conto della natura del linguaggio. Poiché in generale le parole non hanno senso se non per l’associazione di una sensazione uditiva e di un’altra qualsiasi, quelle che designano semplici privazioni devono essere accompagnate da un’immagine: lo stato positivo del non-vedere, ad esempio, dalla rappresentazione confusa di essere sempre nel buio; oppure lo stato positivo del non-essere-più, dalla rappresentazione confusa del vuoto e del nulla (è curioso che Spinoza dia una lista di cinque termini così ridondante da ricondursi press’a poco a questi due casi).47
Lettera 52, Appuhn, vol. 4, 286; lettera 56, 299-300. L’inizio di questo brano è difficile da rendere se non ricorrendo a una parafrasi. Il latino dice così: «Denique, cum assueti simus omnium, quae inlelligimus, etiam imagines aliquas in nostra phantasia depingere, sit, ut non-entia positive, instar entium, imaginemur» (Gebhardt, vol. 1, 234, sottolineature di Spinoza) 48 Si noterà – e questo non è privo d’importanza per quel che segue – che la spiegazione spinoziana del linguaggio presuppone che, per venire associati a dei nomi, i concetti dell’intelletto suscitino nell’immaginazione rappresentazioni correlate, alle quali corrisponde un nuovo concatenamento delle affezioni del corpo, che Spinoza chiama ordo ad intellectum, ordine conforme all’intelletto. Perciò Spinoza può parlare di «immaginazione distinta» , e per questo anche sopra abbiamo detto che è la stessa cosa dire che la mente immagina più distintamente le cose e che perviene a distinguerle con l’intelletto. Il problema non chiarito è quello dei concetti cui non può corrispondere nessun’affezione corporea, il cui oggetto non può essere immaginato: tutti i concetti che si riferiscono all’infinito o a modi diversi dall’estensione. Non abbiamo scelta: occorre pure che l’inimmaginabile sia immaginato e che la scrittura filosofica, anche nella più pura delle 46 47
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2. Prendere alla lettera il titolo del paragrafo: «Con quali modi di pensare immaginiamo le cose». In altri termini, non si tratta più dell’immaginazione in quanto condizione del linguaggio, ma in quanto potenza da questo commossa e sopraffatta. Spinoza dice che sotto queste parole immaginiamo degli enti. Pensiamo, ad esempio, alla morte, immaginata come una nuova condizione dello spirito senza il corpo. Non c’è bisogno di arrivare fino alla personificazione (entità inquietante che si aggira, entra nelle case, ghigna e compie l’opera sua); basta pensare alle rappresentazioni confuse che ossessionano la mente in preda al timore della morte, i cui soli desideri, invece di essere messi in moto dalle sensazioni della vita (mangiare per appetito), sono reazioni di terrore al pensiero della morte (costringersi a mangiare per paura di morire).48 Come si sa, tutta la filosofia di Spinoza s’ispira a questo principio: «L’uomo libero a nulla pensa meno che alla morte e la sua sapienza è meditazione non della morte ma della vita».49 L’immaginazione malata trasforma il non-vivere-più in un vivere longius, che popola confusamente dei suoi timori e speranze. I due ultimi lunghi scoli dell’Etica descrivono due orientamenti ugualmente incerti, ma affatto contrari quanto al loro tenore etico: il bambino che ha davanti a sé la vita, l’adulto la cui esistenza trova un centro di gravità solo nei fantasmi di punizione e ricompensa post mortem.50 Torniamo a questo testo laconico. Lo sforzo di immaginare le operazioni dell’intelletto porta ad ipostatizzare la privazione, e l’avverbio positive va inteso nel senso in cui si dice che una definizione «pone» la cosa; non si tratta certo dell’operazione assurda e impossibile che consisterebbe nel porre un nulla come tale. Sforzandosi di porre il nulla, la mente gli conferisce l’essere e lo sopprime come nulla. Pone un intermediario assurdo tra l’essere e il non-essere: l’essere del non-essere (339, 345), o «ente di ragione», phantasma per eccellenza.51 Donde una descrizione anticipata della corrispondenza con Boxel: «Perciò non posso meravigliarmi abbastanza degli ingegni sottilissimi di coloro che ricercarono il medio tra ente e niente, non senza grande detrimento della verità. Ma non mi tratterrò nel confutare il loro errore, dal momento che essi stessi, quando si sforzano di trasmettere le definizioni di tali affezioni, si perdono del tutto nella loro vana sottigliezza» (Riflessioni metafisiche, I, cap. 3, Appuhn, vol. 1, 345 [tr. it. 351]).
dimostrazioni, sia circondata da spettri tentatori, fortunatamente troppo confusi, e quindi troppo deboli per far concorrenza all’intelletto, ma che sanno approfittare dei momenti di fatica. 49 Etica, IV, 63, sc. 50 Etica, IV, 67 [tr. it. 1033]. 51 Etica, V, 41. sc. 52 Quando Spinoza c’invita a non confondere finzione ed ente di ragione, lo fa solo perché la finzione non sempre è una chimera: «per caso l’essere finto può essere vero» (Riflessioni metafisiche, I, cap. 1, Appuhn, vol. 1, 340 [tr. it. 346]).
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Si ritrova qui l’uguaglianza ontologica della forma con l’oggetto dell’idea: l’affermazione di uno spettro è anch’essa spettrale, evanescente, testimonianza dell’impotenza della mente ai limiti dell’annientamento (la malinconia di Amleto).52 Non che Boxel sia anch’egli uno spettro; al pari della passione che cessa di essere tale quand’è conosciuta adeguatamente, la comprensione adeguata dell’impotenza mentale, lungi dal generare gli spettri, descrive la condizione positiva anche se paradossale di una mente che sogna, di un essere in procinto di dimenticarsi, ignorarsi. Si sbaglierebbe a sottovalutare la portata della corrispondenza con Boxel; la credulità di quest’ultimo è tanto più grave in quanto proviene da un uomo dal fare ponderato, che considera i mostri mitologici, e forse anche i miracoli, delle frottole, e che sospetta che i preti siano interessati a diffondere falsi racconti di apparizioni.53 Non c’è alcun motivo di nutrire sospetti sulla stima che Spinoza gli esprime.54Boxel incarna la figura irritante e mai fuori moda dell’uomo che si dà pigramente arie di saggezza, facendo mostra di diffidare di ogni posizione drastica e che, per spirito d’imparzialità, cerca a priori la verità nel mezzo55 - senza disdegnare, all’occorrenza, di fare la lezione d’obbligo ai filosofi.56 Questa forma di oscurantismo colto e falsamente civile limita l’attività del pensiero al soppesare il sentito dire e al conseguimento di «congetture probabili».57 Lo spettro è l’essere di transizione per eccellenza: un corpo al tempo stesso affermato e negato, quindi rifiutato, quasi incorporeo, tendente al puro spirito o all’anima senza corpo. Immaginare un puro spirito in una regione anche alta è di fatto riconoscergli ancora la proprietà minima del corpo di essere in un luogo, di occupare uno spazio, fosse pure quasi puntuale. A Boxel non ripugna l’affermazione che gli spiriti trovino posto nell’estensione, che cioè dei pensieri dimorino tra corpi. In verità, Boxel oltrepassa il limite di quel che l’immaginazione
Dice Spinoza che «questi modi di pensare non sono idee delle cose né possono in alcun modo essere annoverati tra le idee» (Riflessioni metafisiche, I, cap. 1, Appuhn, vol 1, 338-339 [tr.it. 345 ]). 54 Lettera 53 (l’anticlericalismo di Boxel sembra oltrepassare i limiti dell’antigesuitismo, dopo tutto banale nell’Olanda protestante), 54 (per tentare di convincerlo, Spinoza paragona gli spettri ai mostri dell’antichità) e 56 (questa volta Spinoza paragona le testimonianze secondo Boxel degne di fede ai racconti dei miracoli della Vergine e dei santi). 55 Lettera 52. 56 Cfr. la citazione di Lavater al termine della lettera 53. Si ricorderà anche che Boxel è dottore di diritto. 57 L’arroganza antiintellettuale di Boxel esplode alla fine del secondo paragrafo della lettera 53, ricevendo una risposta educata, serena e umoristica (lettera 54). Ricompare con violenza inaudita al termine della lettera 55. Per rispetto per il suo interlocutore, questa volta Spinoza tenta un ultimo sforzo di spiegazione, osservando come sia vana la discussione quando due persone «seguono principi diversi» (lettera 56 [tr. it. 1475]). 58 Lettera 55, Appuhn, vol. 4, 295 [tr. it. 1473]. 53
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può produrre e la sua affermazione esclusivamente verbale non corrisponde più a nessun pensiero. Di qui lo sdoppiamento in due regioni con gli spettri dalla «materia molto tenue», che vale per la rappresentazione immaginaria degli spettri senza corpo: la chimera della materia vicinissima allo spirito perché priva di tutte le sue caratteristiche, essenza senza proprietà, causa non seguita da alcun effetto. L’inconsistenza mentale fa da baluardo a sé stessa, soprattutto occorre non osare precisare l’immagine – dice in sostanza Boxel – perché così ci si farebbe sfuggire la cosa - e giustamente. Lo sforzo aberrante dello spirito quando si adopera di dare uno statuto positivo a una semplice negazione, ad affermare un non-essere, si rivolta così contro di lui. È quel che fa sempre allorché vuole unire ciò che è eterogeneo; da questo punto di vista la ghiandola pineale è lo spettro per eccellenza (la spiegazione di una cosa oscura con «un’ipotesi più occulta di qualunque qualità occulta»).58 È infine il controsenso dei materialismi volgari, quelli che pensano «che si diano corpi dalla cui sola composizione derivi l’intelletto».59 Non stupisce che a poco a poco la corrispondenza con Boxel prenda la direzione del problema di Dio; Boxel crede che gli spettri, puri spiriti, siano le creature che più «assomigliano» al Creatore, ed è decisivo lo slittamento con cui, subito dopo quest’osservazione, riconosce loro un corpo minimo.60 Nel caso di Dio la transizione illusoria avviene mediante la nozione scolastica dell’«eminenza» (e di conseguenza dell’equivocità). Dio vede, intende, conosce, vuole, agisce, ma in un senso a noi sconosciuto.61 Il che equivale, se così si può dire, a immaginare Dio: darsi l’immagine di un uomo astraendo da quel che ha di umano. Spinoza ha buon gioco denunciando in questo un pensiero vuoto e una visione antropomorfica accompagnata dalla sua negazione: «Credo che anche il triangolo, se avesse la facoltà di parlare, direbbe ugualmente che Dio è triangolo in modo eminente e il cerchio direbbe che la divina natura è circolare in modo eminente».62 Mai si otterrà il divino mediante semplice innalzamento dell’umano al perfetto o al «primo degli uomini». Non c’è transizione dall’umano al divino. La teologia tomista, alla quale Boxel rimane fedele, non fa che confessare la sua concezione tutta negativa del divino; invece di dotare il suo Dio di un’essenza distinta dall’uomo, ne fa un uomo perfetto, come dire un non-uomo, un uomo cancellato. Riassumiamo: l’illusione fondamentale è l’essere del non-essere, e per giungervi l’immaginazione procede per svuotamento (lo spettro) o per innalzamento (Dio). Sono i due modi di produrre il corpo di un non-corpo o di pervenire all’indeterminato. In queste condizioni l’essere necessario non ha che la consistenza di uno spettro.
Etica, V, prefazione [tr. it. 1053]. Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 40 [tr. it. § 68, p. 51]. 61 Lettera 53, Appuhn, vol. 4, 287. 62 Lettera 53, Appuhn, vol. 4, 294. 63 Lettera 56 a Boxel [tr. it. 1477]. 59 60
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E come lo spettro è la chimera di un corpo spirituale, il Dio spettrale dei teologi e della folla è la chimera del finito-infinito. Lo spettro, infatti, è sempre una natura doppia. Don Chisciotte prende lucciole per lanterne, perché subisce la prova del disincanto e vive in un mondo che non è più quello dell’Ariosto (un po’ come Boxel, quando alla fine Spinoza gli chiede se per spettri non intenda in realtà «delle ragnatele, dell’aria e dei vapori»).63 Ma nel mondo di favola in cui crede di essere, le cose sono a un tempo lucciole e lanterne. Come lo concepisce Spinoza, l’antropomorfismo non consiste nel prendere Dio per un uomo, ma nel prenderlo per un uomo divino (gli uomini l’immaginano come un re,64 e noi crediamo che può ingannarsi).65 Il Dio del volgo è la negazione della negazione, l’essere finito meno la sua negazione: un uomo i cui poteri sarebbero illimitati. La «mosca infinita» del Trattato sull’emendazione dell’intelletto è forse uno scherzo che ha di mira i tentativi di immaginare il divino, invece di innalzarsi con l’intelletto alla considerazione di un’estensione sostanziale illimitata perché indivisibile. Possiamo definire la confusione fondamentale? Qui c’è una difficoltà, perché ne vediamo inevitabilmente due: quella della sostanza e delle sue modificazioni66 e quella del pensiero e del corpo. Spinoza mette uno accanto all’altro l’esempio della «mosca infinita» e quello dell’«anima quadrata».67 La sintesi delle due è opera di un’illusione, quella del corpo di Dio. Perché questa dualità? Forse nel concetto spinoziano di immaginazione permane un’ambiguità. Immaginare è formare le idee delle affezioni del corpo: conoscenza di primo genere o idea confusa, mutila, inadeguata. Ora l’immaginazione non è una forma di pensiero confuso perché rappresenta dei corpi, ma perché i corpi, essendo modi finiti, si limitano reciprocamente. Supponiamo che la nostra mente sia l’idea di un modo x dell’attributo X, diverso dall’estensione e dal pensiero; in tal caso la mente immaginerebbe le affezioni di x che non è un corpo. Quest’ipotesi è una realtà, poiché esiste un’infinità di attributi, anche se ne conosciamo solo due. Meglio ancora, se crediamo alla sbalorditiva anche se coerente lettera 66 di Tschirnhaus, questa realtà è la nostra, poiché ogni cosa esprime la propria esistenza in un’infinità di attributi; ciascuno di noi ha quindi un’infinità di menti che non comunicano ma che, costituendo tutte un solo e identico individuo, sviluppano gli stessi pensieri sotto modi diversi. Così, senza saperlo, noi immaginiamo ben altre cose che i corpi, perché non siamo fatti soltanto di una mente e di un corpo. Se poi andiamo fino in fondo all’ipotesi, dobbiamo ammettere che l’idea dell’idea, in quanto inadeguata, è l’immaginazione delle affezioni di un’idea, non di
Lettera 56 a Boxel, Appuhn, vol. 4, 300 [tr. it. 1479]. Etica, II, 3, sc. 66 Trattato sull’emendazione dell’intelletto, Appuhn, § 40 67 Etica, I, 8, sc. 68 Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 39. 64 65
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un corpo. Tocchiamo qui un punto sensibile del sistema: il più delle volte Spinoza riduce la nostra realtà a una mente e a un corpo (non è questa una maniera comoda di esprimersi, tenuto conto del fatto che, in pratica, non possiamo sperare di arrivare a sapere niente degli altri attributi, che non sono mondi diversi?); inoltre, come hanno mostrato molti commentatori, per il fatto della rappresentatività dell’idea l’attributo pensiero gode di uno statuto eccezionale. Quest’incoerenza, o meglio questa stravaganza che Tschirnhaus cerca di far confessare a Spinoza, è poca cosa di fronte ai concatenamenti rigorosi della dottrina etica, che è la sola cosa che interessi a quest’ultimo; perciò non merita niente più che una digressione. Questa era però necessaria per render conto dei due assi di coordinate secondo cui Spinoza pensa la phantasia.
3. Sognare ad occhi aperti
Gli spettri sono sogni, dice a Boxel Spinoza. Ma chi sogna? Solo il testimone delle apparizioni? Anche di Lavater, che si basa su racconti, Spinoza dice che sogna…68
3.1. Don Chisciotte e i rabbini
In un altro modo, l’interpretazione della Scrittura rientra il più delle volte nel sogno e si nutre di chimere: a) la doppia chimera di una Scrittura ordine geometrico demonstrata69 e di una teologia che prende il posto della filosofia,70 poiché, invece di distinguere filosofia e teologia, ragione e Scrittura, mostrando che l’una ha come oggetto la verità e l’altra l’obbedienza, le si mescola discutendo su quale delle due debba sottomettersi l’altra – e ogni volta Spinoza parla di «sogno» o di «finzione»; b) la chimera del profeta col corpo di uomo ma lo spirito sovrumano – ancora sogno;71 la chimera della conciliazione dei testi, che porta ad «adattare i luoghi chiari agli oscuri,i corretti ai difettosi e nel corrompere così i sani con i putridi».72 Infine, sogno e finzione degli esegeti della Scrittura: «i rabbini, infatti, delirano del tutto».73
Fine della lettera 54 a Boxel. Trattato teologico-politico, XV, Appuhn, vol. 2, 249 e 255. Secondo il cap. I, 36 la critica è rivolta in particolare a Maimonide. 71 Ivi, 254. Spinoza spiega come i teologi, in un ultimo soprassalto prima della pazzia, nonostante tutto, nella loro lotta contro la ragione fanno appello alla ragione (256). Come Nerone con Seneca, la convocano per il suo suicidio. 72 Ivi, I, 32. 73 Ivi, X, 199 [tr.it. 609] 74 Ivi, IX, 181 [tr.it. 591] 69 70
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Poniamo che il Trattato teologico-politico stia all’esegesi come il Don Chisciotte sta ai romanzi cavallereschi: questi profeti che sono ritenuti dei superuomini o dei filosofi sono solo uomini molto comuni, quelle che sono considerate apparizioni sono solo allucinazioni. Più in generale, i rabbini percorrono a gran passi la Bibbia come Don Chisciotte la terra, prendendo ogni parola, ogni frase come una cosa meravigliosa: «Nel tentativo di sciogliere queste evidenti contraddizioni, ciascun commentatore inventa (fingit) tutto quello che può, secondo le forze del suo ingegno (ingenii)»,74«attribuiscono (affigunt) alla Scrittura tutto ciò che loro piace».75 Il testo subisce allora una metamorfosi: ne divinizzano la lettera,76arrivano ad «adorare come parola di Dio idoli e immagini, ossia la carta e l’inchiostro».77 Maimonide, ad esempio, è la somma di tutte le chimere: crede nell’accordo di tutti i profeti, nel loro statuto di filosofi, ma soprattutto ritiene che la Scrittura non abbia il suo senso in sé stessa, che equivale a dire che il suo testo non ha natura o forma propria e, correlativamente, che «ciascun luogo della Scrittura ammettesse sensi differenti e persino contrari».78 Donde «suppone infine che ci è lecito spiegare, secondo le nostre preconcette opinioni, le parole della Scrittura, distorcerle e negare, mutandolo a piacere (in aliam mutare), il senso letterale, sebbene del tutto perspicuo ed esplicito».79 Questo mondo della licenza interpretativa assomiglia molto al caos mitologico in cui ogni predicazione è possibile, dove «ogni forma si muta in qualsiasi altra». Questo mondo non è solo quello di Maimonide, ma quello dei rabbini in genere, così che le due opposte confusioni della Scrittura e della verità s’incontrano: «si inventano (fingunt) molte altre cose. Ma se fossero vere, direi senz’altro che gli antichi Ebrei ignoravano completamente la propria lingua e l’ordine del racconto, né riconoscerei alcuna regola d’interpretazione della Scrittura: sarebbe lecito inventare ogni cosa come piace a ognuno (sed ad libitum omnia fingere liceret)».80 Al contrario Spinoza si dedica a fissare il testo, a metterne in evidenza le vere alterazioni che ha subito, mostrando ad esempio come l’evoluzione dei costumi abbia potuto indurre a «cambiare la stessa Scrittura» (Scripturam ipsam mutare)81 mutando certe parole per pudibonderia. Insiste sulle differenze di epoca, sulle differenze di temperamento degli autori, sulla diversità delle lezioni,82allo scopo di
75 Ivi, X, 198 [tr.it. 608] (testo latino, 133). È degno di nota che «lo sforzo con cui ogni cosa cerca di permanere nel proprio essere» diventi qui lo sforzo con cui ogni commentatore cerca di conciliare le contraddizioni: il desiderio è diventato chimerico. 76 Ivi, X, 199 [tr.it. 608] (testo latino, 134). 77 Ivi, X, 198; XII, 220-221. 78 Ivi, XII, 218 [tr. it. 623]. 79 Ivi, VII, 154 [tr. it. 563]. 80 Ivi, VII, 156 (testo latino 101) [tr. it. 567]. 81 Ivi, IX, 181 (testo latino 120-121) [tr. it.591]. 82 Ivi, 185 (testo latino 124). 83 Ivi, la varietas lectionum è il motivo conduttore dei capp. VII e IX.
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ripristinare l’immagine vera di un testo eterogeneo di cui è assurdo cercare l’unità globale, ma di cui conviene individuare le unità parziali.83 Interviene sull’uso senza regole della metafora, mostrando dov’è legittimo e dove no.84 In sostanza Spinoza combatte la tentazione di fare della Scrittura stessa una gigantesca chimera; la sua è un’operazione che vuole distinguere. Ora, nel caso della Scrittura, dove si trova la linea di demarcazione di cui parla P.-F. Moreau, quella che potrebbe farci lasciare il mondo confuso dell’universale corruzione del senso per un mondo stabile in cui un testo ha un senso che si può stabilire? Spinoza osserva che si può trasformare un testo, non una lingua: «Nel nostro metodo, siamo costretti a supporre come incorrotta almeno una tradizione dei Giudei – ossia il significato delle parole della lingua ebraica, che da loro ricevemmo… Giacché a nessuno poté mai venire in mente di mutare (mutare) il senso di qualche termine, mentre non di rado si poté mutare il senso di qualche discorso. La prima cosa è anche difficilissima a farsi: chi tentasse infatti di mutare (mutare) il senso di qualche parola, sarebbe costretto insieme a rispiegare, considerando l’ingegno e la mente di ciascuno, tutti gli autori che scrissero in quella lingua e usarono quella parola nel suo significato ammesso, ossia a corrompere quel senso con la massima cautela. Il volgo, inoltre, conserva la lingua insieme ai dotti; ma solo i dotti conservano i libri e il senso dei discorsi. Possiamo pertanto facilmente concepire che i dotti abbiano potuto mutare o corrompere (mutare vel corrumpere) il senso del discorso di qualche libro rarissimo, che ebbero in loro potere, non però il significato delle parole di una lingua. Si aggiunga che se qualcuno vuol mutare (mutare in aliam) il significato di qualche parola a cui è abituato, non senza difficoltà potrà in futuro, nel parlare e nello scrivere, rispettare questo suo proposito. Per questa e per altre ragioni siamo dunque facilmente persuasi che a nessuno poté venire in mente di corrompere qualche lingua, ma che spesso si poté corrompere il pensiero di qualche scrittore, mutando il senso dei suoi discorsi o interpretandoli falsamente» (Trattato teologico-politico, VII, 146-147, testo latino 91-92 [tr. it. 554-555]).
Si comprende meglio pertanto il progetto e la redazione di un Compendio di grammatica ebraica. Da un lato, ancora una volta il tema dell’amnesia accompagna logicamente quello della trasformazione: «il tempo vorace cancellò dalla memoria degli uomini quasi tutte le frasi e i modi di dire peculiari alla nazione ebraica».85 D’altra parte «grammatica» è il nome di una fisica linguistica, dal momento che non c’è nessuna ragione di non trattare un testo come una cosa naturale
Ivi, VIII, 170. Ivi, VI, 130 (a forza di prendere il testo alla lettera e di ignorare le metafore consuete della retorica ebraica, si leggono miracoli dove non ce ne sono); VII, 141 (esempio d’interpretazione metaforica legittima, in un capitolo in cui Spinoza combatte il metodo permissivo di Maimonide); XIII, 214 (i filosofi optano per la metafora quando il testo sembra loro irrazionale, e per la letteralità quando si tratta di cose incomprensibili): XV, 250-254 (discussione del metodo di Jehuda Alpakhar, rabbino che si oppone a Maimonide bandendo ogni interpretazione metaforica, tranne in caso di contraddizione interna). 86 Ivi, VII, 147 [tr. it. 555]. 84 85
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soggetta a certe leggi (Spinoza si richiama due volte alla linguae Hebraicae constitutio et natura).86 Fino a un certo punto possiamo persino giocare a paragonare un testo a un individuo, a sua volta formato di più individui, ecc. È vero che, a differenza di un corpo, un testo si risolve in elementi assolutamente semplici e incorruttibili, lettere e accenti (esattamente come la geometria, che parte dal punto).87 Questa fisica è vicina all’atomismo antico.88 Vengono poi i nomi, individui a corruzione o a trasformazione lenta. Sono composti più o meno complessi e la grammatica fa l’inventario dei diversi modi in cui un nome può cambiare forma (sia sul piano morfologico, sia su quello semantico).89 I sostantivi, infatti, esistono solo nelle frasi, esattamente come le cose singole che esistono solo in relazione con altre. Per questo, non comparendo in molte frasi e non conoscendo gli usi da cui dipende il loro senso, certe parole rimangono oscure, come idee mutile destinate a rimanere tali: le frasi della Scrittura non sono che brandelli di un testo attualmente infinito, da cui un tempo si potevano estrarre tutte le nozioni comuni costituenti i significati, ma che oramai ci sfuggono poiché oggi l’ebraico è una natura morta.90 Per Spinoza, insistere sul ruolo dell’uso nella formazione del senso delle parole è una maniera affatto moderna di introdurre nella semantica la definizione genetica. Si osservi in particolare la definizione spinoziana del nome: «Per nome intendo una parola con cui significhiamo o indichiamo una cosa che cade sotto l’intelletto (aliquid, quod sub intellectu cadit). E poiché a cadere sotto l’intelletto sono sia cose, i loro attributi, i loro modi e le loro relazioni, è facile riunire le specie dei nomi».91 L’espressione è simile a quella che, nell’Etica, si riferisce alla produzione delle cose:«tutte le cose che possono cadere sotto un intelletto infinito».92 Non intendiamo sostenere un parallelo assurdo, ma fare soltanto un accostamento che s’impone: la specificazione dei nomi riflette la struttura ontologica delle cose, delle loro proprietà e delle loro affezioni,93 così come
Ivi, VII, 147 e 149 (testo latino 92 e 94-95). Compendio di grammatica ebraica, cap. I-IV. 89 Cfr. Lucrezio, De rerum natura, I, vv. 196-187: «tu pensa piuttosto che a cose infinite/ siano infiniti elementi comuni/ come a molte parole vediamo/ comuni le lettere…».[tr.it. Firenze, Sansoni, 1978]). 90 Certo, Spinoza sottolinea che «in ebraico tutti i nomi sono indeclinabili» (Compendio di grammatica ebraica, cap. IX, 100). Intende dire che la loro forma non cambia, anche se può avere casi formati con l’aggiunta di preposizioni. Ciononostante parla anche di «declinazione di sostantivi» (cfr. il titolo del cap. IX). Per le variazioni semantiche di una stessa parola, cfr. Trattato teologicopolitico, II, 147, il caso del termine ruagh. 91 Trattato teologico-politico, VII, 147 (frase citata sopra). 92 Compendio di grammatica ebraica, cap. V, 66 (testo latino 17/303). 93 Etica, I, 16 [tr. it. 805]. 94 Non diciamo soltanto che li rispecchia, perché le parole, nella loro suddivisione, nel loro genere e il loro significato, rimangono legate al primo genere di conoscenza. Ad esempio, perché il termine è femminile? (cfr. Compendio di grammatica ebraica, cap. VII, 79). 87 88
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l’intelletto infinito esprime le cose, le loro proprietà e le loro affezioni. Come abbiamo indicato nel cap. IV, l’intelletto infinito costituisce un immenso testo da cui si possono estrarre frasi, benché abbiano il loro senso completo solo nel contesto attualmente infinito dell’universo cogitativo. Queste frasi, mettendo in rapporto almeno due idee, raccontano adeguatamente quel che accade alle cose: «le idee non sono altro che narrazioni o descrizioni mentali della natura».94 Per questo Spinoza, per ripristinare il testo nella sua forma o nelle sue forme, ha bisogno di una grammatica dell’ebraico, così come, per concepire l’universo del pensiero nel suo essere formale, deve inventare lo spinoziano. Nel Trattato teologico-politico, l’operazione di tornare alla natura del testo è sostenuta da un intento insieme politico e metafisico. Politico, perché «quasi tutti spacciano le proprie finzioni (commenta) per parola di Dio, né fanno cosa affatto diversa dal costringere il prossimo, con il pretesto della religione, a pensarla come loro».95 Metafisico, perché la rappresentazione confusa del testo biblico è legata a una rappresentazione altrettanto confusa di Dio e della Natura. Si tratta del problema del miracolo. La tesi di Spinoza, paradossale per i comuni credenti, è che credere ad avvenimenti che si scostano dall’ordine naturale «ci farebbe dubitare di Dio e di ogni cosa», «dubiteremmo di ogni cosa e saremmo condotti all’ateismo».96 Il ragionamento è semplice: 1. poiché l’intelletto e la volontà di Dio sono una sola e identica cosa, è lo stesso dire che comprende o che agisce: produce le cose pensandole, e le pensa producendole; 2. le verità o decreti discendono dalla sua natura; 3. queste verità o decreti sono le leggi della natura, immutabili, quindi, come la natura divina;97 4. queste leggi sono le nozioni comuni, solo a partire dalle quali si può conoscere l’essenza di Dio, quella di un essere necessario;98 5. tutti i mutamenti, per quanto spettacolari (odio improvviso degli egizi per i giudei, il mare che si apre, un bambino che si rianima, una giornata di lunghezza anomala) sono conformi a queste leggi;99 6. i «miracoli» designano avvenimenti che superano la nostra comprensione, non eventi soprannaturali; 100 se le leggi della natura, o nozioni comuni, potessero essere cambiate, tutto non sarebbe che caos, e finiremmo in uno scetticismo generalizzato;101 8. questo implicherebbe un dualismo che contrapporrebbe la potenza della Natura, depositaria delle proprie leggi, alla natura di Dio, «potenza capace di mutarle» - una concezione
Riflessioni metafisiche, I, cap. 6, Appuhn, vol. i, 352 [tr. it. 360]. Trattato teologico-politico, VII, 137 [tr. it. 544]. 97 Ivi, VI, 123 [tr. it. 530]. 98 Ivi, VI, 119. 99 Ivi, VI, 121. 100 Ivi, VI, 126-127 e 129. 101 Ivi, VI, 123. 102 Ivi, VI, 121 e 123. 95 96
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della potenza divina al tempo stesso chimerica (re o vitello d’oro) e vicinissima al politeismo (dei visibili, deboli, mutevoli, eventualmente sottomessi a un Dio invisibile).102 Prendere la finzione per la realtà e così sognare è quel che fanno anche i profeti. Questi sogni paradossali non hanno però nulla a che fare con Maimonide né coi rabbini, poiché i profeti «immaginavano le cose rivelate con la massima vividezza, come di solito accade in stato di veglia, nella percezione degli oggetti».103
3.2 I sortilegi dell’ignoranza (banalità dell’allucinazione)
Forse ci si chiederà che cos’abbiano a che fare con l’immaginazione questi deliri esegetici. Certamente i rabbini, facendo della lettera del testo un feticcio («carta sporca d’inchiostro», dice Spinoza), compiono l’interessante operazione di ridurlo a un corpo, riempiendolo di una presenza divina. Quando però lo spirito falso di un Maimonide cerca invano di trovare nella Bibbia le «fandonie di Aristotele»,104sarebbe il caso di parlare di un sogno tutto intellettuale: che visione potrebbe mai corrispondere a questa passione di razionalizzare un testo che non ha un contenuto teorico? Non è un’allucinazione dell’intelletto? Il campo della finzione non oltrepassa quello dell’immaginazione? Nozioni simili hanno diritto di cittadinanza solo nelle pause di sogno della lettura, non nel pensiero di Spinoza. Allora, dov’è l’unità tematica del «sogno ad occhi aperti»? Perché avvertiamo che si tratta di una cosa diversa da un trucco retorico? Balbettiamo una prima risposta: «ciascuno ha giudicato intorno alle cose secondo la disposizione del proprio cervello, o piuttosto ha preso le affezioni dell’immaginazione per le cose stesse».105 Indubbiamente gli abbagli di Maimonide si spiegano con la passione, che lo predispone a trovare nei profeti la ragione – ma non è questo che cerchiamo. Immagina forse che stiano ragionando? Risposta arbitraria e puerile. Quale sarebbe l’idea interessante, secondo i testi di Spinoza? Se il linguaggio è il ricordo complesso e stratificato di un insieme di immagini associate (immagine sonora più un’immagine qualsiasi, insieme all’equivalente di quest’associazione nella mente: l’idea di un’affezione sonora più l’idea di un’affezione qualsiasi), è evidente che il senso che circola nella parola e nella frase è al tempo stesso una circolazione di immagini. Il sogno di Maimonide è la deriva psichedelica di una mente dedita alle fantasmagoria della metafora scatenata,
Ivi, VI, 117-118, 124, 130. Ivi, II, 51 [tr. it. 460]. Cfr. anche III, 340: «Immaginare certe cose ad occhi aperti (oculis apertis) con la stessa vivacità che se le si avesse davanti a sé» (Gebbhardt, vol. III, 252). 105 Ivi, I, 36: Spinoza rimprovera giustamente a Maimonide di non ammettere il «sogno ad occhi aperti» di certi profeti. 106 Etica, I, appendice [tr. it. 832]. 103 104
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sotto l’assillo di un solo desiderio: che la Scrittura sia razionale. Maimonide usa il linguaggio come una droga per ottenere le sue visioni, quelle di una Scrittura razionale. Osserviamo ora come si sviluppa il tema. Vigilando somniare ha l’aria di una contraddizione in termini, un po’ come l’infans adultus degli scoli IV, 39 e V, 6. Spinoza, tuttavia, non ha il gusto delle chimere e non si spaventa per un’eventuale indistinzione tra la veglia e il sogno. Sotto la sua penna l’argomento cartesiano106 diventa una sorta di accessorio comico, il racconto di una stupida disavventura destinato a mettere sull’avviso chi non si preoccupa di sapere come si distingua il vero dal falso e che un giorno potrebbe inciampare nello scetticismo; è completamente scomparsa la dimensione metodica del dubbio.107 L’eventualità barocca che la vita sia sogno non ha in Spinoza il carattere di una questione filosofica, come in Cartesio e più ancora forse in Pascal108 e in Leibniz:109 può solo essere il sintomo di una mente malata. Basta richiamare le premesse, per sentire quanto siamo lontani dal clima delle Meditazioni: «uno che sogna può ben pensare di essere sveglio; ma uno che ora è sveglio non può mai pensare di star sognando».110 «Sognare ad occhi aperti» è semplicemente un’idea falsa. Nella misura in cui ogni rappresentazione implica l’affermazione o la posizione del proprio oggetto,
107 Cfr. Cartesio, Meditazioni, I e VI: quando sogniamo, la certezza di essere desti sembra dello stesso ordine di quella dello stato di veglia. L’assenza di indizi probanti che consentano di distinguere la veglia dal sogno porta all’imbarazzo: «… ed il mio stupore è tale da essere quasi capace di persuadermi che io dormo» (Meditazioni, I, sottolineatura nostra [tr. it. 21]). Cartesio poi radicalizza il dubbio: «Supponiamo, dunque, ora di essere addormentati…». Cfr. anche La recherche de la vérité, Alquié, vol. 2, 1190 dove Cartesio, richiamandosi ai commenti barocchi, fa dire a Eudosso: «Come può essere certo che la sua vita non è un continuo sogno…?». La mente non si libera dell’imbarazzo che ricorrendo alla veracità divina (peggio per gli atei, come si vede nell’ultima frase delle Risposte alle terze obiezioni). Si noterà che l’indiscernibilità della veglia dal sonno non è in Cartesio materia d’inquietudine. Gli piace sognare: «… dopo che il sonno ha fatto a lungo passeggiare il mio animo nei boschi, nei giardini e nei palazzi incantati, dove provo tutti i piaceri immaginati nelle favole, mescolo senza accorgermene i sogni del giorno con quelli della notte…» (lettera a Guez de Balzac, 15 Aprile 1631 [tr. it. 195]). 108 Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 33. 109 Pascal, Pensées, Lafuma, n. 131, Brunschvicg, n. 434. 110 Leibniz, lettara a Foucher, 1675 (tesi della certezza morale dell’esistenza del mondo). Cercando ragioni che possono portare al dubbio, Leibniz è meno sensibile alle proposte cartesiane (l’argomento dell’illusione del sogno e il contro-argomento dei nessi delle apparenze) che non alla finzione di uno stratagemma in grado di indurre a prendere, non il sogno per la realtà, ma la realtà per un sogno («Ora, se realtà è stata presa per un sogno, che cosa impedisce che una visione sia presa per una realtà?»). Con ciò si avvicina molto a Calderon: l’uomo trasportato ubriaco nella dimora del califfo, che si sveglia nel «paradiso do Maometto» prima di «essere ubriacato di nuovo» e «ricondotto dov’era stato preso», assomiglia molto al Sigismondo de La vita è sogno. Cfr. anche Nuovi saggi sull’intelletto umano, IV, cap. 2, 328-329. 111 Breve trattato, II, 15, 3 [tr. it: 160].
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solo un’altra rappresentazione, che sia data contemporaneamente ed escluda tale oggetto, impedisce alla mente di trovarsi in sua presenza. Nel caso in cui il nostro corpo è affetto da un corpo esterno, l’affermazione della presenza di quest’ultimo è una verità, anche se è inadeguata (vediamo il sole come se fosse a soli 200 piedi da noi). Nel caso invece in cui venga riattivata una vecchia rappresentazione, combinata o no con altre, tutto dipende dal fatto che sia accompagnata da una rappresentazione che esclude la presenza del suo oggetto. Ad esempio, leggiamo un racconto continuando a ricevere affezioni dal mondo esterno; basta, però, che le rappresentazioni suscitate dal racconto diventino così forti da prevalere sulle idee delle affezioni presenti, perché l’oggetto del racconto, come accade a don Chisciotte, imponga la sua presenza o la sua pseudo-esteriorità, malgrado le affezioni attuali (come sottolinea Gueroult, è semplicemente una questione di forza).111 Come nel sonno, la percezione dell’ambiente si affievolisce. Di conseguenza, alla rappresentazione non si aggiunge nessun atto, anche se Spinoza dice talvolta che «l’idea falsa suppone l’assenso».112 L’allucinazione è piuttosto una sottrazione: l’idea rimane sola, senza protezione. Spinoza disegna le tre grandi figure del ragazzo (nell’oscurità?), dell’ossesso e del mitomane: «… concepiamo un ragazzo che immagini un cavallo alato e non percepisca nient’altro. Poiché questa immaginazione implica l’esistenza del cavallo (secondo il corollario della proposizione 17) e il ragazzo non percepisce alcunché che tolga l’esistenza del cavallo, egli contemplerà necessariamente il cavallo come esistente, né potrà dubitare della sua esistenza, sebbene non sia certo di essa. Questo lo sperimentiamo quotidianamente anche nei sogni… Infatti, cos’altro è percepire un cavallo con le ali se non affermare le ali del cavallo? Ora, se la mente non percepisse nient’altro che il cavallo alato, lo contemplerebbe come a sé presente e non avrebbe alcuna ragione di dubitare della sua esistenza, né alcuna facoltà di dissentire; a meno che l’immaginazione del cavallo alato non sia unita a un’idea che tolga l’esistenza dello stesso cavallo o a meno che la mente percepisca che l’idea del cavallo alato, che essa ha, è inadeguata, e allora o negherà necessariamente l’esistenza dello stesso cavallo o dubiterà necessariamente di essa» (Etica, II, 49, scolio). «Vediamo, infatti, che gli uomini sono talvolta affetti da un solo oggetto al punto che, sebbene questo non sia presente, credono tuttavia di averlo davanti: quando ciò accade a un uomo che non dorme, diciamo che delira o che è folle; né sono considerati meno pazzi quelli che ardono d’amore e che sognano notte e giorno soltanto la loro amante o la loro meretrice, suscitando di solito riso. Però, quando l’avaro non pensa ad altro che
112 Gueroult, vol. 2, 211-212: quando un’idea scaccia la precedente, «quest’eliminazione non è dovuta alla sua verità ma alla sua maggior forza». Ancora a p. 210: «In questo modo si vede come il processo che genera quella che chiamiamo l’allucinazione, fenomeno raro e anomalo, non sia né raro né anomalo ma comune, poiché non è altro che lo stesso processo da cui risulta la percezione: che il corpo rappresentato sia presente o assente, la rappresentazione è la stessa e nasce dallo stesso meccanismo. Psicologicamente, dunque, non c’è nessuna differenza tra l’allucinazione e la percezione». 113 Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 40 [tr. it. § 66, p. 50].
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al guadagno o al denaro e l’ambizioso alla gloria ecc., non sono considerati pazzi, perché sono solitamente molesti e stimati degni di odio. In realtà l’avarizia, l’ambizione, la libidine ecc. sono specie di delirio, sebbene non vengano annoverate tra le malattie» (Etica, IV, 44, scolio). «Da ciò vediamo accadere facilmente che l’uomo valuti sé stesso e la cosa amata più del giusto e, al contrario, valuti la cosa odiata meno del giusto. Questa immaginazione, quando riguarda l’uomo stesso che si valuta più del giusto, si chiama superbia ed è una specie di delirio; infatti l’uomo sogna a occhi aperti (oculis apertis somniat) di potere tutto ciò che insegue con la sola immaginazione e che perciò contempla come reale. E di questo esulta fino a quando non riesce a immaginare ciò che ne esclude l’esistenza e delimita la potenza del suo agire» (Etica, III, 26, scolio).
L’esempio del cavallo alato è casuale, o Spinoza ha un motivo per menzionare una chimera? Si noterà che, nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, tutti gli esempi di idee false sono chimere: credere a divinità che abitano i boschi, le raffigurazioni o gli animali; credere che l’intelletto abbia come causa prossima certi corpi; credere alla vita dei cadaveri; credere che Dio possa ingannarsi. È evidente che Spinoza sceglie di proposito le produzioni dell’impotenza mentale, di cui il ragazzo è una delle figure (benché, come si dice, abbia la vita davanti a sé). Sta qui forse l’intesse maggiore e la genialità del criterio spinoziano del falso: l’assenza di un’altra percezione che escluda l’esistenza dell’oggetto,113 la semplice privazione di conoscenza.114 Questo criterio permette di comprendere come la peggiore oscurità abbia ancora le sue chiarezze, di una confusione estrema ma di grande intensità, suscitate dall’angoscia che mantengono per contraccolpo, impedendo ogni vera lucidità e costringendo la mente a uno stato di perpetuo ondeggiamento: la chimera del mescolarsi di speranza e paura, dell’ondeggiare dell’immaginazione.115 Il testo sul cavallo alato dice che basterebbe un piccolo progresso cognitivo per dissipare il sogno, contrariamente ai casi dell’ossesso e del mitomane la cui immaginazione lavora su dei possibili; in un universo mentale popolato quasi esclusivamente di effetti, le peggiori confusioni hanno campo libero, almeno temporaneamente. Spinoza sa che l’immaginazione dei ragazzi in giovane età è vicina all’allucinazione, e che un certo mago uscito da un libro, il cui ritorno notturno provoca il risveglio, sta proprio lì, presente nell’oscurità, fintantoché mancano gli strumenti cognitivi per convincersi dell’improbabilità di una simile presenza e per cacciarla volontariamente, concentrando la propria attenzione
Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 40. Etica, II, 35. 116 «Ma spesso finiscono in situazioni così difficili da non poter formulare nessun piano d’azione e, di solito, per amore dei beni incerti della fortuna, oscillano miseramente tra la speranza e il timore, così il loro animo è, quasi sempre, incline a credere qualunque cosa…» (Trattato teologico-politico, prefazione). Vedi anche Etica, III, 17, sc. e 18, sc. 1 e 2. 114 115
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su qualche cosa d’altro, come fa lo stesso Spinoza uscendo dall’incubo che descrive a Balling.116 I bambini, come gli animali, possono vivere solo in questo terribile mondo allucinatorio in cui le chimere si combinano con le metamorfosi; gli animali sviluppano quell’«esperienza vaga»117 che dà loro irrazionalmente i riferimenti pratici o le concatenazioni sensorio-motorie di cui hanno bisogno per perseverare nel loro essere in simile contesto; anche i bambini sviluppano quest’esperienza vaga, a cui si ferma la maggior parte degli uomini, ma hanno davanti a sé la prospettiva delle «nozioni comuni», per mezzo delle quali potranno progressivamente liberarsi dall’allucinazione – sempre che l’educazione non guasti tutto – e sottrarsi a questo mondo di terrore come da un brutto sogno. Ogni ricordo, e ogni finzione in quanto è composta di ricordi, sono potenzialmente allucinatorie. Nella loro repressione Spinoza vede il criterio per distinguere tra veglia e sonno; la memoria è così segnata col marchio della tristezza. I ricordi sono allucinazioni domate. Sembra anche spingersi oltre: il desiderium, «rammarico», «nostalgia», è definito come un conflitto tra due ricordi che si escludono; si direbbe che la memoria divori sé stessa. Alimentarne il culto equivale ora ad aprire la porta al dilagare delle allucinazioni, ora a vivere sotto il regime dell’affermazione contrastata: «Quando ci ricordiamo di una cosa, come abbiamo detto sovente, per ciò stesso siamo disposti a considerarla con lo stesso affetto che [nutriremmo] se la cosa fosse presente; ma questa disposizione, o pulsione, durante la veglia è per lo più inibita dalle immagini delle cose che escludono l’esistenza di ciò che ricordiamo» (Etica, III, def. aff. 32, spiegazione [tr. it. 965]).
3.3 La confusione delle cose e delle affezioni e il sogno del libero arbitrio
In verità, una duplice constatazione ci obbliga a concludere che la vita mentale dell’ignorante non è in definitiva che un perpetuo sogno da sveglio. Si tratta in primo luogo dell’abbaglio fondamentale, per il quale ogni uomo «ha preso le affezioni dell’immaginazione per le cose stesse».118 Le prime idee
«Questa immagine spariva in massima parte quando, per ricrearmi con altra cosa, fissavo gli occhi su un libro o su qualcos’altro; ma non appena distoglievo gli occhi da questo oggetto, posandoli senza attenzione in qualcosa, mi appariva la stessa immagine dello stesso etiope con la stessa vividezza e ripetutamente, fino a che, poco a poco, scomparve intorno alla mia testa» (Lettera 17 [tr. it. 1333]). 118 Sull’«esperienza vaga», cfr. Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 15. Poiché Spinoza, contro Cartesio, ammette che «le bestie sentono», e poiché sentire significa formare le idee delle affezioni del corpo, non c’è motivo di credere che abbia potuto rifiutare alle stesse bestie la conoscenza di primo genere, immaginazione o memoria che sia. 119 Etica, I, appendice [tr. it. 832]. 117
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che abbiamo sono le idee delle affezioni del nostro corpo; la cosa di cui la mente pone l’esistenza, perché il suo corpo subisce attualmente un’affezione da un altro corpo, non è questo stesso corpo, benché non sia priva di rapporti con esso, ma un misto confuso della natura di questo corpo e di quella del proprio. Si deve anche ammettere che «le idee che abbiamo dei corpi esterni indicano più la costituzione del nostro corpo che la natura dei corpi esterni».119 In questo senso l’abbaglio sostituisce una chimera alla cosa – e per questo Don Chisciotte è fratello di tutti noi. Attribuiamo a un’essenza proprietà che sono solo le idee dei diversi stati per cui passa il nostro corpo quando subisce un’affezione dalla cosa. Ora non tutti gli uomini sono affetti in maniera simile da una stessa cosa, né lo stesso uomo in diversi momenti del giorno o della sua vita. Inoltre, le cose conosciute col primo genere di conoscenza sono instabili e proteiformi, non hanno un’essenza fissa: sono affezioni. Un giorno ci affascinano e il giorno dopo ci deludono: non sono più le stesse. Brutte per uno, belle per l’altro,120hanno altrettante nature variabili quanti sono i corpi che causano in esse affezioni, poiché i corpi immaginati esistono sempre solo in altri corpi. La loro natura ne implica sempre almeno un’altra, non si avvolge in un’affezione senza che questa si avvolga in un’altra:121 ritroviamo lo sconfinamento delle forme che caratterizza l’universo delle trasformazioni sovrannaturali. Non per niente il fondo dello spirito è delirio, caso, caos mitologico. Quando Spinoza evoca le illusioni dei sensi, questo luogo comune della filosofia, non lo fa per rivelarci ancora una volta che i sensi c’ingannano. L’interessa solo il contenuto positivo dell’idea falsa, che permane anche quando abbiamo appreso la verità, perché a modo suo è anch’esso una verità: è necessario che continuiamo a percepire il sole a duecento piedi da noi, perché quest’immaginazione è legata al modo in cui il sole produce affezioni sul nostro corpo.122 Quando diciamo che guardiamo il sole, diamo questo nome a un’affezione del nostro corpo e proiettiamo fuori di noi, alla distanza di duecento piedi, un oggetto che è la confusione di due nature.123 Spinoza non prosegue invano nella sua illustrazione: «Così, quando i raggi del sole, cadendo sulla superficie dell’acqua, vengono riflessi verso i nostri occhi, lo immaginiamo come se fosse nell’acqua, benché ne conosciamo la vera posizione».124 L’esperienza può anche farci un po’ uscire dal mondo
Etica, II, 16, cor. 2. «Il sole indurisce l’argilla e fa fondere la cera, il cavallo non è lo stesso per il guerriero e per il contadino», scrive Gilles Deleuze riferendosi specialmente allo scolio II, 18, in un testo in cui propone una tassonomia delle affezioni che chiama «segni scalari»: indicativi (sensazioni), astrattivi (nozioni universali), imperativi (cose prese per dei fini), ermeneutici (cose sensibili innalzate al soprasensibile e viceversa). Cfr. Spinoza et les trois «Ethiques», in Critique et clinique, 173-174. 122 Etica, II, 16. 123 Etica, IV,1 124 Etica, II, 35, sc.; IV, 1, sc. 125 Etica, IV, 1, sc. Sottolineatura nostra. 120 121
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illogico degli effetti, insegnandoci certi nessi causali (in questo caso quello tra il sole in cielo e il suo riflesso), ciò non toglie che noi continuiamo a forgiare, pur senza credervi, le nostre chimere (un sole nell’acqua). L’altra constatazione è quella, ben nota, dell’illusione del libero arbitrio. Qui c’interessiamo solo al modo in cui il tema del sogno interviene a tre livelli nell’argomentazione di Spinoza: il sogno nel senso comune del termine, il sonnambulismo e il «sogno ad occhi aperti».125 Il ragionamento parte da una premessa implicita, senza la quale non potrebbe funzionare: il significato comune del termine sognare e la distinzione non meno comune che ne deriva tra veglia e sonno. Può anche far leva sull’esperienza del sogno;126più in generale, tutto il Trattato teologico-politico si richiama a questo significato corrente, per applicarlo in senso peggiorativo agli esegeti della Scrittura. Sognare è aderire a finzioni, è l’esperienza dell’illusione. Nella distinzione che fanno, gli uomini, però, vanno oltre, ed è questa la seconda premessa, esplicita: il sogno è al tempo stesso la negazione del libero arbitrio127 e l’illusione di esso.128 Nessuno dubita del carattere automatico del sogno; Spinoza tuttavia contesta che questa constatazione indubitabile possa anche servire a distinguere la veglia dal sonno. Si allontana quindi dal senso comune, che a torto immagina che la veglia sia governata da una logica diversa da quella del sogno, e ammette implicitamente due tipi di decreti (o decisioni, decreta) di natura diversa, gli uni liberi, gli altri onirici.129 Occorre dunque concludere paradossalmente alla loro indistinzione logica, che non sopprime per questo la loro differenza, poiché rimane valido il primo criterio, quello del carattere allucinatorio del sogno. O almeno, la confutazione del primo criterio comporta che si attenui il secondo: durante il sonno non emergiamo dal sogno; durante la veglia ne emergiamo parzialmente o solo qualche volta. Non è che non vi sia differenza,
126 I testi sono: Etica, II, 49, sc.; III, 2, sc.; lettera 58 a Schuller. Per uno studio d’insieme dello scolio III, 2, il solo testo che riunisca i tre aspetti indicati, cfr. P.-F. Moreau, Spinoza. L’expérience et l’éternité, 523-532. 127 «Questo lo sperimentiamo quotidianamente anche nei sogni…» (Etica, III, 2, sc. [tr. it. 892]). «… domando loro se l’esperienza non insegni anche, viceversa, che se il corpo è inerte, anche la mente è simultaneamente incapace di pensare. Infatti, quando il corpo riposa nel sonno, la mente resta sopita con esso né ha la capacità di pensare come quando è sveglia» (Etica, III, 2, sc. [tr. it. 900-901]). 128 «… non credo che vi sia qualcuno che ritenga di avere, mentre sogna, il libero potere di sospendere il giudizio sulle cose che sogna e di far sì che non sogni le cose che sogna di vedere» (II, 49, sc. [tr. it. 892]); «Tuttavia mi appello alla coscienza di colui che ha sperimentato, fuori da ogni dubbio, che nel sogno non ha il potere di pensare che vorrebbe e che non vorrebbe scrivere; né, mentre sogna di voler scrivere, che ha il potere di non sognare di voler scrivere» (lettera 58 a Schuller [tr. it. 1485]). 129 «Ma quando sogniamo di parlare, crediamo di parlare per libero decreto della mente…» (Etica, III, 2, sc. [tr. it. 903]). 130 Ibidem.
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ma gli uomini mescolano alla differenza che vedono un’altra differenza che fantasticano: il libero arbitrio come sogno di un confine. La vera frontiera passa altrove, tra gli stati di autentica veglia, da un lato, e quelli ipnotici (il sogno del dormiente) e ipnoidi (sogno da svegli) dall’altro, tra due automatismi, uno attivo in cui l’intelletto impone all’immaginazione il suo ordine, l’altro passivo in cui l’immaginazione segue l’ordine consueto della natura. Sarebbe errato, quindi, pensare che il «sogno ad occhio aperti» sia solo una metafora; di fatto, ridefinita rigorosamente, la contrapposizione del sogno e della veglia non coincide esattamente con quella tra il ciclo fisiologico del sonno (stato di relativo riposo) e la veglia (stato di relativo movimento).130 «Quelli che credono, pertanto, di parlare o di tacere, o di fare alcunché per libero decreto della mente, sognano a occhi aperti (oculis apertis somniant)».131 Per arrivare a questa conclusione drastica, è stato necessario che nel frattempo Spinoza introducesse la figura del sonnambulo. Che ruolo ha esattamente il sonnambulo nello scolio III, 2? A un primo livello, indubbiamente, è l’esempio contrario con cui Spinoza obietta a coloro che credono che i movimenti del corpo richiedano una decisione dello spirito; se dormendo il sonnambulo fa quello che non oserebbe mai fare da sveglio, è perché il suo spirito non ha dato ordini al suo corpo. Questo non vuol dire tuttavia che la mente del sonnambulo sia vuota di pensieri; l’espressione in somnis significa tanto «dormendo» quanto «sognando», e la potestas cogitandi (o excogitandi) opera in maniera diversa che nello stato di veglia.132Il sonnambulo pensa e agisce, senza che tra le due cose vi sia un legame causale. Spinoza passa poi alla questione del libero arbitrio: è vero, come sembra che ognuno di noi faccia l’esperienza, che se vogliamo parliamo e se non vogliamo non parliamo? Umoristicamente Spinoza contrappone a questa un’esperienza contraria: «di certo le cose umane andrebbero in modo assai più felice se fosse indifferentemente in potere dell’uomo tanto tacere quanto parlare». Segue poi una serie di esempi di impulsi e di atti vigili che gl’interessati credono volontari, mentre nessuno dubita della loro determinazione dall’esterno: il poppante che desidera il latte, il bambino che sotto l’impulso della collera vuole vendicarsi, l’uomo di temperamento pauroso che sceglie la fuga, quello che delira come fosse posseduto, infine l’uomo che rivela segreti sotto l’effetto dell’alcool (Spinoza lascia intendere che potrebbe prolungare molto la lista di questi casi evidenti). L’esempio del poppante è quello inizialmente meno chiaro ma più affascinante: ignaro di ogni cosa, ancora non distingue il piacere dal bisogno e crede per forza di desiderare il latte perché è buono, mentre lo ritiene buono perché il latte è adatto ai bisogni del suo organismo. A questo punto Spinoza ricava per induzione
Su questo ciclo, cfr. sopra, cap. II. Ivi, ultima frase [Etica, III, 2, sc. (tr. it. 903)]. 133 Cfr. lettera 58 ed Etica, III, 2, sc. 131 132
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la sua famosa tesi: se gli uomini, in generale, hanno il sentimento di essere liberi di fare o non fare una cosa, se hanno la convinzione di agire in virtù di decisioni volontarie, è solo perché ignorano le cause che le determinano. L’esempio del poppante riecheggia l’enunciato dell’Appendice della I parte: «tutti gli uomini nascono ignari delle cause delle cose», pur essendo consapevoli dei loro impulsi e dei loro atti, che si rappresentano perciò come liberi, arbitrari, esenti da ogni necessità (per questa via, come indica Spinoza, l’argomento razionale e l’insegnamento dell’esperienza si trovano a coincidere).133 In generale dunque gli uomini sono esseri che agiscono sognando: sono dei sonnambuli. Se si fa attenzione al testo, il nesso è implicito ma indiscutibile; Spinoza descrive l’uomo ebbro come il sonnambulo: il primo dice quel che da sobrio non direbbe mai, il secondo fa quello che da sveglio non farebbe mai. A prima vista «sognare a occhi aperti» potrebbe sembrare l’inverso del sonnambulismo; in quest’ultimo caso si dorme e si agisce; in realtà le due cose coincidono perché nei due casi si tratta di agire sognando. L’equiparazione dei due casi è il segno della relativizzazione del ciclo fisiologico dal punto di vista dell’ambito di validità della nozione di sogno. È un rovesciamento completo del senso comune: nasciamo tutti sonnambuli, pratichiamo normalmente un sonnambulismo diurno, al quale alcuni di noi ne aggiungono uno notturno. In queste condizioni l’etica consiste, se così di può dire, nel diventare vigilambuli.134 Da un lato l’illusione consistente nel prendere le nostre affezioni per le cose stesse e, dall’altro, l’illusione del libero arbitrio convergono verso il grande sogno ad occhi aperti di un universo finalizzato. Esteriorizziamo nelle cose i rapporti che abbiamo con esse, prendendo per loro qualità reali l’effetto che ci fanno, così che la reificazione dei rapporti è al tempo stesso una relativizzazione della realtà: le cose, giudicate buone o cattive in sé stesse, diventano intenzioni nei nostri confronti. Ha inizio quindi un dialogo con l’invisibile e il sonnambulismo umano culmina nei gesti del culto.135 Questo dialogo corrisponde alla finzione dualista delle due potenze di cui abbiamo parlato sopra, Dio-re e natura scatenata. Tutto viene perciò trascinato in un unico delirio:
134 Per la verità, quel che qui si dimostra non è tanto l’assenza del libero arbitrio, quanto la necessità di credere in esso. La confutazione propriamente detta della volontà libera richiede altri strumenti e comincia con lo scolio della proposizione I, 17: è assurdo che, data una causa, non ne segua alcun effetto. Ogni potenza è necessariamente in atto. 135 Prendiamo a prestito questo termine a Gilles Deleuze, che lo usa in tutt’altro contesto, dandogli un significato diverso, ma per designare in modo simile una forma di automatismo attivo che non sarebbe quello del sogno. Cfr. Francis Bacon. Logique de la sensation, 35 e soprattutto Cinéma 2. L’image-temps, cap. 7. 136 Etica, I, appendice.
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«Ma, mentre cercavano di mostrare che la natura non fa nulla invano (cioè che non sia ad uso degli uomini), sembra che non abbiano dimostrato se non che la natura e gli dei delirano come gli uomini» (Etica, I, appendice [tr. it. 828]). «Così forgiano finzioni infinite e interpretano la natura in modi mirabolanti: come se tutta la natura fosse preda della loro stessa follia» (Trattato teologico-politico, prefazione [tr. it. 428]).
L’illusione del libero arbitrio è strettamente legata all’operazione di sostituire alla Natura una Sovranatura, non solo nel senso di un super-uomo – un impero nell’impero – ma nel senso di un mondo in cui le leggi possono in ogni momento venir trasgredite, nel senso infine per cui ogni singola natura è solo il rivestimento di un’altra e in quanto natura, quindi, si dissolve. Il nesso è questo: libero arbitrio e metamorfosi sono i sogni di uno spirito interessato solo agli effetti e che ignora il modo in cui si producono. La sconnessione tra l’effetto e la causa produce, da un lato, l’illusione di una causa che può rimanere senza effetti (la volontà libera); dall’altro, l’illusione di effetti senza causa o, che è lo stesso, di effetti che possono venire da qualsiasi causa (la metamorfosi scatenata). È il mondo del possibile o della contingenza, in cui la metamorfosi è sempre presente, connessione arbitraria degli effetti, vita in cui ci si può aspettare ogni cosa, come nell’Orlando furioso. L’uomo è malato del possibile, malato di credere che ad ogni istante può accadere ogni cosa, che l’essere viene dal nulla e che Dio può fare l’impossibile. La vita dell’ignorante non è che un lungo sogno, alimentato dalle droghe della religione, da cui emerge solo in rari momenti. Anche la politica, in quanto consiste nell’unire gli uomini mediante comuni passioni,136 non è che l’arte di accordare solo un poco i sogni gli uni agli altri, di far sì che gli uomini abbiano gli stessi sogni, di suscitare una memoria e un sogno collettivi. Sotto questo aspetto, l’imitazione degli affetti è una sorta di sonnambulismo collettivo: fuggire perché si vedono gli altri fuggire, abbozzare un movimento riflesso della mano e del corpo vedendo qualcuno che si scotta la mano, e obbedire per osmosi ai comandi di sonnambuli qualificati, sognatori professionisti riconosciuti come interpreti di sogni,137 durante gli uffici religiosi.138 Nell’insieme, questo contesto è il più adatto all’attività del sapiente, il quale non sogna ad occhi aperti, ma veglia con gli occhi della mente. Comprendiamo meglio ora perché al filosofo interessino le trasformazioni soprannaturali e in che senso Spinoza possa essere detto medico della civiltà. Lo è in tre modi: 1. per la sua diagnosi (chimere e metamorfosi sono il fondo stesso del nostro pensiero); 2. per la sua denuncia dei divulgatori dei falsi rimedi che mantengono la malattia (i preti, venditori di stupefacenti, curano gli
Etica, IV, 37, sc.; Trattato politico, VI, 1. Sui preti come deliranti «interpreti della Natura e degli dei» cfr. in particolare la prefazione del Trattato teologico-politico. 139 Etica, III, def. aff. 3, spiegazione. 137 138
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uomini col sogno); 3. per il suo realismo terapeutico (ossia la salute mediante la conoscenza, mediante il pensiero veramente vigile; oppure la salute degl’ignoranti, partecipazione al dominio passivo di sé stessi per osmosi coi profeti, questi sonnambuli virtuosi – una salute avversata dall’influsso del sonnambulismo clericale;139 se gli uomini, infatti, non possono uscire dai loro sogni, che almeno i loro sogni li portino a obbedire, e a non farsi più del male con questi visionari paradossali che mettono il sogno al servizio della «vera vita»).
Trattato teologico-politico, II, 51: «Ogni certezza profetica si basava dunque su tre cose: 1. i profeti immaginavano le cose rivelate con la massima vividezza, come di solito accade in stato di veglia, nella percezione degli oggetti; 2.i profeti avevano il segno; 3. i profeti, infine, ed è la cosa più importante, avevano l’animo rivolto esclusivamente al giusto e al buono». Cfr. ugualmente l’Annotazione III, 340 [tr. it. 740] a proposito della pseudo- sovrumanità dei profeti: «ed è ugualmente umano che qualcuno, ad occhi aperti, immagini qualcosa come se fosse davanti a lui». 140
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Epilogo Avvolgere e morire Non dobbiamo confondere la mutazione dell’affetto, che è la formazione di un’idea adeguata nella mente, con le trasformazioni del campo cogitativo, che sono le stesse dal campo dell’estensione, anche se espresse nell’attributo pensiero (scomposizione-ricomposizione). C’è qui un complesso di difficoltà che dobbiamo almeno cercare di formulare chiaramente prima di concludere. A partire dal nostro capitolo IV abbiamo cercato di precisare fin dove Spinoza si era spinto nello studio della forma dell’idea o del pensiero considerato nella sua realtà di cosa. In primo luogo, la teoria della definizione genetica descrive inizialmente un processo di formazione fittizia (da distinguere dal processo in cui si crea una finzione). In secondo luogo, questa teoria viene reinterpretata da Spinoza in senso ontologico: sintesi e analisi costituiscono l’individuazione propria delle idee o la loro formazione reale, così come le loro trasformazioni le une nelle altre (composizione-scomposizione). L’insieme del processo costituisce l’universo cogitativo detto «intelletto infinito». In terzo luogo, queste idee sono tutte assimilabili a nozioni comuni, nella misura in cui la loro essenza consiste nella legge della sintesi delle loro parti («causa formale»). In quarto luogo, se non possiamo uguagliarci all’intelletto infinito e comprendere le sintesi concrete delle cose, almeno la nostra mente conosce delle comunità, ossia cose reali singole concepite dal punto di vista delle loro parti (in proposito, sviluppare una conoscenza dell’uomo è inseparabile dall’affermazione implicita di un’individuazione dell’umanità come tale, ossia di una comunità universale degli uomini «dabbene»). La mente sviluppa questa conoscenza comune dell’individuale, formando almeno la definizione autogenetica di Dio e affermandosi in quanto cosa singola, mano a mano individua le nozioni comuni implicite nelle idee delle sue affezioni; tanto che il secondo e il terzo genere di conoscenza sono inseparabili l’uno dall’altro. In quinto luogo, la mente ha perciò il potere di trasformare i suoi affetti. Il punto nevralgico di tutta la costruzione è evidentemente lo statuto ontologico dell’idea confusa o inadeguata. Spinoza crea una sintassi filosofica che gli permette di pensare sullo stesso piano di realtà l’idea adeguata e quella inadeguata e di fondare la mutazione dell’una nell’altra. L’abbiamo chiamata «lo spinoziano»: il suo operatore principale è l’avverbio quatenus, gli operatori secondari simul, tam… quam e tantum. Questa sintassi è riconoscibile dalla sua doppia regola di sinonimia: 1. «avere» = «conoscere» = «costituire l’essenza di una mente» = «ricevere un’affezione» (sinonimie dell’infinito); 2. «avere» = «essere» = «essere in» (sinonimie del finito). Questi concatenamenti sinonimici hanno senso solo in funzione dell’uso 225 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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corretto degli operatori. La strepitosa coerenza di questa logica non impedisce, tuttavia, che nascano dei problemi. 1. La tendenza spinoziana a scivolare inavvertitamente dalla materia al movimento, dalla parte alla proprietà, dall’alimentazione all’affezione, in virtù dell’impossibilità di esistere senza produrre effetti, ha il suo equivalente nel campo discosto della fisica cogitativa; sembra proprio che l’idea costituente la mente perda certe idee che la compongono e ne acquisti altre, così come il corpo di cui è l’idea perde vecchie parti e ne acquista di nuove. Ora, a meno di cadere nella metafora, ci pare che i rapporti dell’idea con le idee che fanno parte di essa non possano essere diversi da quelli dell’essenza con le proprietà che se ne deducono; questo, del resto, vale già per il corpo, tenuto conto dello scivolamento ricordato sopra. Pertanto, una proprietà non si aggiunge né si toglie impunemente: Spinoza afferma che la cecità acquisita è una trasformazione. I risultati della fisica cogitativa ci portano perciò a porre di nuovo domande alla fisica dell’estensione: questo rapporto che definisce il corpo come la causa formale dell’unione dinamica delle parti non è al tempo stesso la sintesi dell’essenza con le sue proprietà? Quest’identità è suggerita, come s’è visto, dalla concezione immanentista dell’estensione: la determinazione esterna (causa efficiente) delle parti a comunicarsi i loro movimenti secondo una legge interna (causa formale) può essere interpretata altrettanto bene come la sintesi dei conatus. Per questo, senza rischio di estrapolazione, nella definizione dell’individuo riconosciamo, non solo una definizione genetica, ma la definizione genetica per eccellenza. L’espressione fabrica corporis richiama manifestamente le due maniere di vedere. 2. L’idea di un’affezione del corpo è al tempo stesso debordante e debordata. Debordante, perché comprende più che l’oggetto di cui è l’idea; debordata, perché non è che la parte percepita dalla mente di un pensiero che si forma nella Natura. Spinoza racchiude queste due caratteristiche in un’espressione a prima vista paradossale: mutilata et confusa.140 Non c’è un semplice rapporto di causa ed effetto, poiché il rapporto è sempre quello, reciproco, di due cause. Per questo il rapporto causale deve essere considerato sotto due aspetti distinti: a) il rapporto delle due cause tra loro (due idee che si limitano reciprocamente), b) il rapporto delle due cause con l’effetto che deriva in maniera disuguale da ciascuna di esse. Ora, per poter eseguire unilateralmente la deduzione, occorrerebbe che la mente «avesse» l’idea di questo corpo esterno, mentre non «ha» che l’idea che è essa stessa, quella cioè del proprio corpo. In spinoziano, non è vero che abbiamo idee di cose esterne; equivarrebbe ad affermare la trasmigrazione, poiché la nostra mente sarebbe l’idea di corpi differenti; e sarebbe anche affermare una chimera, poiché mantenere l’unità della mente vorrebbe dire che questa è l’idea di una cosa che assomma più nature. Noi abbiamo sempre solo l’idea del nostro corpo; ora, però, si formano in noi idee che non possono venirne dedotte, perché implicano
141
Etica, II, 35.
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idee che non abbiamo. Tradotto in spinoziano,suona: dato che tutte le nostre idee possono solo essere le parti dell’idea unica che «abbiamo». Sappiamo che Spinoza enuncia il paradosso seguente: la mente conosce il corpo…, ossia non lo conosce. Abbiamo dunque l’idea che noi stessi siamo, ma l’abbiamo solo in forma mutila, poiché quest’idea è composta di idee che non sono deducibili da essa soltanto. Perché la mente «abbia» veramente l’idea che «ha», ossia perché la nostra mente formi un’idea adeguata del corpo, occorrerebbe che ne producesse la definizione genetica, il che implicherebbe che avesse idee che non ha – quelle, infinite di numero, che concorrono alla sua generazione e alla sua continua rigenerazione. Spinoza dà ragione della genesi reale delle idee di affezioni spiegando che Dio ha l’idea di un’affezione in quanto «costituisce l’essenza» di due menti o «ha» contemporaneamente due idee – quelle, naturalmente, delle due cause dell’effetto prodotto. Al riguardo occorre guardarsi da un possibile controsenso, quello di credere che l’intera idea sia l’idea di un effetto reciproco, ossia l’idea di due affezioni, e che sia formata logicamente da due menti. Si sarebbe allora indotti a sospettare Spinoza di aver portato la chimera al livello dell’intelletto infinito. Quest’ipotesi è assurda per due ragioni: a) la costituzione doppia è in realtà un’astrazione ben fondata, un prelievo locale su una costituzione mentale attualmente infinita – poiché Dio costituisce una mente solo in quanto costituisce al tempo stesso tutte le altre, cioè un intelletto infinito; b) questo equivarrebbe a oggettivare le relazioni e ad attribuire parti comuni sia alle menti che ai corpi. Le menti, migrando da prima di corpo in corpo e rivelandosi in seguito idee di chimere, sarebbero ora idee siamesi di corpi siamesi. Ma Dio non ha idee di relazioni, o piuttosto le relazioni sono sempre duplici e oggetto di due idee e, a questo titolo, parti rispettive di ciascun termine della relazione. 3. Comprendiamo così anche perché sarebbe inutile chiedersi se il terzo genere di conoscenza consista nell’«avere» idee diverse delle cose individuali; oltre all’assurdità dell’ipotesi, non vi si guadagnerebbe niente poiché non faremmo che assumere altre vite passive. In realtà, il terzo genere di conoscenza consiste nel saper affermare nella loro esteriorità rispetto a noi le cose che in precedenza non venivano distinte da stati del nostro corpo, comprendendo al tempo stesso il nesso interno che le lega tutte tra loro come parti o proprietà della stessa Natura. Donde il paradosso finale del concetto della mente come «idea del corpo»: «Tutto ciò che la mente conosce sotto l’aspetto dell’eternità, lo conosce non perché concepisce l’attuale presente esistenza del corpo, ma perché concepisce l’essenza del corpo sotto l’aspetto dell’eternità».141 In buona logica, poiché la mente rimane radicalmente idea corporis, le idee adeguate delle altre cose debbono essere idee di parti o di proprietà dell’essenza del nostro corpo. Non che gli altri corpi siano parti del nostro; al contrario, è il nostro che scopre di far parte, insieme con gli altri, di uno stesso universo infinito. La verità è che noi concepiamo
142
Etica, V, 29 [tr. it. 1074].
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adeguatamente gli altri corpi a partire (ex) dal nostro pensato adeguatamente – e questo, ancora una volta, ci rimanda alle nozioni comuni e prova la profonda solidarietà tra il secondo e il terzo genere di conoscenza. 4. Abbiamo insistito molto sulle formazioni, composizioni o sintesi; ma come avvengono nell’intelletto infinito le analisi? In altri termini, come muore una mente? Come si dissolve l’idea del corpo le cui parti cessano, contemporaneamente, di comunicarsi i loro movimenti secondo il rapporto di quiete e moto che definisce un certo individuo? La mente muore perché costretta al compito impossibile di formare proprietà contraddittorie, perché indotta ad attribuirsi predicati che la negano; l’idea del corpo viene progressivamente colonizzata da idee che escludono l’esistenza del corpo e che vengono dedotte da essa negandola.142 Se si accetta un’illustrazione volgare, potremmo distinguere quattro modi in cui la mente può sviluppare le sue proprietà: a) essere l’Unico e le Sue Proprietà, padrone assoluto in casa propria (Dio o la natura), b) godere di proprietà autenticamente comuni (la comunità libera degli uomini razionali e «dabbene» che hanno idee adeguate), c) affermare per quanto possibile la proprietà privata di ciascuno in un insieme diviso da barriere infime (coabitazione passionale e forzata di uomini dalle idee confuse), d) essere proprietari solo di una montagna senza valle (la solitudine declinante dell’uomo che cavalca chimere in un ambiente che opprime). Rileggiamo la frase imbarazzata sul suicidio: «o, infine, perché delle cause esterne latenti dispongono la sua immaginazione e modificano il suo corpo in modo che egli assuma un’altra natura contraria alla prima, la cui idea non possa darsi nella mente (secondo la proposizione III, 10)».143 Tutto considerato, al di là del carattere contraddittorio, impensabile e quindi impossibile del suicidio, che ne è il significato generale, ci pare vi sia un solo modo di intenderla: il suicidio è l’affermazione ultima di una mente che sta per morire. La mente rifiuta un’idea che in lei non può aver posto: quella di un nuovo corpo, e per questo vuole la morte di questo corpo, la soppressione del suo oggetto e in questo modo, anche se inconsciamente, il suo proprio annientamento. Per la verità, ci è talmente impossibile desiderare di trasformarci, che la mente, sentendo venire la morte, ossia l’affermazione di un’idea diversa al posto di quella che essa è, interrompe il processo di trasformazione del corpo (come non introdurre nella trasformazione un minimo di durata, come abbiamo dovuto fare sopra per pensare la malattia? – una durata che la politica ci fa vedere trascinarsi fino alla nausea, nella decadenza interminabile di stati che continuano a considerarsi stati). Perché il corpo si trasforma? Perché la mente sente crescere in sé un’immaginazione estranea, concatenamenti mnestici che provocano una reazione di stupore per sé stessi? Spinoza presenta questa trasformazione del corpo come il correlato di una pressione esterna esercitata sull’immaginazione. In effetti, «nessuno, dunque,
143 144
Etica, III, 10. Etica, IV, 20, sc. [tr. it. 992].
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se non vinto da cause esterne e contrarie alla sua natura, tralascia di appetire il proprio utile, ossia di conservare il proprio essere». Spinoza considera questa vittoria, non come una distruzione, ma come un asservimento estremo: uno stravolgimento contro natura del conatus (quello stesso che sogna il tiranno del Trattato politico, evocato per altro in questo scolio).144 Immagino cose tali che nasce in me il desiderio di suicidarmi. Occorre che mi sia reso abbastanza estraneo a me stesso perché quest’io da suicidare mi appaia come un altro. L’originalità di Spinoza è profonda: non è un nuovo io, suicida, che ammazza quello vecchio, ma è invece l’io che permane a vedersi costretto ad affermare quel che non può affermare – la crescita in lui di una soggettività nuova – e che per questa ragione la nega con tutte le sue forze. Tra l’inizio e la fine dello scolio il progresso è immenso: Spinoza fa all’inizio un’enunciazione che non ha senso, essere vinto, addomesticato e non distrutto, dalle cause esterne, diventare non un’altra cosa ma la cosa di un altro, una differenza infima che non può durare. Poi, dopo vari giri, viene al dunque e dà un senso a quel che non ne aveva: se non è possibile che l’uomo cerchi di cambiare forma, vuol dire che conserva fino all’ultimo ciò che muore, uccidendo quel che giunge di nuovo. 5. Tuttavia, ci trattiene un’ultima domanda, suscitata dallo studio dell’affetto e dalla questione del suicidio. Nella sintesi amorosa la mente afferma una cosa esterna coma la causa della propria gioia, dunque di un acquisto di realtà. Essa lega l’affermazione di sé all’affermazione di un’altra cosa, si afferma solo affermando un’altra cosa. Lo spirito non si trova sul punto di affermare l’altro da sé o di affermare sé stesso come un altro? Lo spirito non muore in queste confusioni? Non dobbiamo allora riprendere il problema del duplice avvolgimento dell’idea inadeguata, chiedendo in che misura lo spirito non ne avvolga un altro? L’etica non consiste forse, a contrario, nel districare le forme che sconfinano le une sulle altre? La parte IV dell’Etica propone uno studio «della servitù umana»: il vecchio motivo può ricevere un senso nuovo solo se il corpo non è più la prigione dell’anima e se solo un’idea può limitare un’altra idea.145
Trattato politico, IV, 5. Etica, I, def. 2. Tutte queste domande vengono affrontate in Le conservatisme paradoxal de Spinoza…, op. cit. 145 146
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Conclusione
È Spinoza che, prima di Leibniz, reintroduce in filosofia la nozione di forma, screditata dopo Cartesio (capp. I-III). I due non lo fanno nello stesso modo, benché sembra che partano dallo stesso problema: l’aporia dell’individuazione nella fisica cartesiana. Ambedue reagiscono alla concezione passiva e statica dell’estensione in Cartesio; fanno appello a un conatus che ciascuno a suo modo collega alla rinnovata nozione di forma. Il vecchio concetto scolastico è lontano, superato; Leibniz ha un bel richiamarsi alla «riabilitazione delle forme sostanziali», sa bene che la sua riflessione sulla forza ne rinnova il significato. Per lui, tuttavia, la forma deve rimanere sostanziale, un’istanza metafisica: ciò che individua il composto, ciò che ne fa una cosa diversa da un semplice aggregato, è ancora un’anima. L’originalità di Spinoza è di infrangere l’enunciato tradizionale dell’«anima, forma del corpo», da un lato col concetto di una forma essa stessa corporea, immanente all’estensione; dall’altro col concetto della «mente, idea del corpo»; la sua differenza da Leibniz sta dunque nell’elaborazione di un concetto meccanicista della forma; ciononostante questa conserva uno statuto metafisico (per la sua coincidenza col concetto di modo e per la determinazione del conatus come «essenza attuale»), che però non implica più la concezione di un piano distinto da quello dei corpi, come avveniva per la scolastica (contrapposizione materia-forma) e come avverrà di nuovo in Leibniz. Dal punto di vista della storia della filosofia, la reintroduzione della nozione di forma, che si lega alla critica della fisica cartesiana e documenta il senso della disponibilità nuova di una nozione un tempo legata alla scolastica, segna l’inizio del post-cartesianesimo. In Spinoza la forma si determina nell’estensione come «rapporto di quiete e movimento» tra parti che sono forme esse stesse (cap. II). Per un verso il concetto assume un senso fisiologico, medico, persino politico anziché fisico: norma immanente di salute, sul piano individuale pone il problema della convergenza o della comunità; inoltre pone quello della morte pensata come trasformazione (decomposizione che lascia libere le parti, o forme di un livello inferiore, per ricomposizioni diverse, ossia composizione delle stesse parti secondo un differente rapporto). Di qui i quattro paradossi del suicidio (com’è possibile che una forma non affermi sé stessa?), della perdita della vista (come ammettere un vizio della forma?), dell’amnesia (in che modo una forma potrebbe succedere a un’altra senza avere una propria genesi?) e dello sviluppo del poppante (in che modo una forma può sopportare un simile cambiamento?). Per un altro verso, questo stesso concetto porta a un mondo di forme e di trasformazioni (composizioni/ scomposizioni/ricomposizioni) dal quale è scomparsa ogni idea di materia; e se, nel rapporto con una potenza sempre in atto, rimane possibile parlare di materia, è solo nel rapporto dei modi (o forme) con gli attributi, non solo dal punto di 231 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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vista della durata (certe forme, in un certo momento, sono soltanto contenute dagli attributi), ma anche soprattutto dal punto di vista dell’eternità (l’universo, forma totale, è il processo regolato delle trasformazioni che, in ciascun attributo, esprime una potenza infinita). Nulla impedisce, perciò, di parlare di materialismo integrale o assoluto (capp. IVVI) che non è l’estensione metaforica del campo di applicazione dell’estensione agli altri attributi, ma consiste nel concepire ciascun attributo come la materia specifica di un campo di formazioni e trasformazioni autonome (immanentismo). Lo stesso Spinoza si richiama a una teoria dell’idea o della mente vista sotto l’aspetto del suo «essere formale», ossia a quella che abbiamo chiamato una fisica cogitativa immanente che, grazie al concetto di «idea del corpo», si sottrae all’alternativa di concezione chimerica (idea = corpo) e concezione oggettiva (l’idea come rappresentazione). Non che Spinoza prenda in considerazione un pluralismo di materie irriducibili e parallele; in Spinoza c’è un solo mondo, un solo processo, una sola produzione, ma questo mondo, questo processo e questa produzione si dispiegano su un’infinità di piani di espressione autonomi di cui fanno parte l’estensione e il pensiero. Siamo quindi stati indotti a riprendere lo studio del concetto di «intelletto infinito», concentrando la nostra attenzione su due punti. Da un lato sulla tentazione dello strabismo interpretativo, che consiste nel risolvere i problemi e nell’allentare il pensiero con sdoppiamenti – il più grave, che sta all’origine di tutti gli altri, è ai nostri occhi l’ipostasi dell’essenza (confusione dei punti di vista dell’eternità e della durata, incapacità di vedere il loro combinarsi in un universo cogitativo unico). Per questo la fisicizzazione della definizione genetica ci è apparsa un processo decisivo nella formazione del sistema spinoziano; non si tratta di minimizzare il ruolo dell’essenza; al contrario, intendiamo solo mostrare come Spinoza, mediante il concetto di forma, rafforzi quel ruolo, dandone al tempo stesso una lettura rigorosamente immanente – quel che potremmo chiamare un essenzialismo immanente. D’altra parte, l’elaborazione di un linguaggio filosofico forniva la propria logica a questa fisica cogitativa, ossia lo strumento con cui pensarla; di essa abbiamo abbozzato la grammatica, costruita sui suoi principali operatori (primo tra i quali il ben noto quatenus), sul senso nuovo di «avere» e su un uso speciale della sinonimia (cap. V). Infine, la fisica cogitativa così fondata consentiva di prendere in considerazione su un piano formale immanente un gioco di composizioni, scomposizioni e ricomposizioni analogo a quello dell’estensione, rendendo così possibile un’analisi immanente – ossia formale – dei paradossi precedentemente sollevati, tra cui quello della morte mentale (amnesia) (cap. VI). A questo punto (cap. VII) eravamo in grado di fissare il quadro di una polemica e di una problematica della trasformazione, ossia di comprendere perché il processo infinito e regolato delle trasformazioni modali naturali, combinato con la produttività infinita dell’essenza espressa dagli attributi, così come la «Natura naturata» si combina con la «Natura naturante», compaia oscuramente 232 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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alla coscienza di ogni uomo e in gradi diversi come questo mondo malinconico, insieme ambiguo e discontinuo, provvidenziale e deludente, in cui tutto è possibile e tutto è fatto per me. In proposito la forza di Spinoza era quella di convincerci che abbiamo un bel non credere più – o non credere più molto – alle meraviglie e alle metafore; il nostro mondo mentale continua ad avere la struttura di un mondo mitologico. L’età barocca diventava così il caso esemplare di una patologia universale. Era il paradosso di una potenza dell’impotenza, o del «sogno ad occhi aperti»; il sonnambulismo come condizione umana ordinaria. Erano così poste le premesse per un’«etica».
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Bibliografia
Vengono qui riportate solo le opere citate
1. Opere di Spinoza
a) Testi originali Spinoza Opera, ed. Carl Gebhardt, Heidelberg, Carl Winter, 1925, riedizione 1972. b) Traduzioni Œuvres, trad. fr. Charles Appuhn, Paris, Garnier-Flammarion. Abregé de grammaire hébraique, trad. fr. Joël Askénazi e Jocelyne AskénaziGerson, Paris, Vrin, 1968. Court traité, trad. italiana di Filippo Mignini (Korte Verhandeling / Breve trattato), L’Aquila, Japadre, 1986. Étique, trad, fr. A. Guérinot, ripubblicata Paris, Ivrea, 1993; trad. fr. B. Pautrat, Paris, Le Seuil, 1988; trad. russa N.A. Ivantsov, in Izbrannyié proizvédiénia (Opere scelte), Mosca 1957. Traité de la réforme de l’entendement, trad. fr. Alexandre Koyré, Paris, Vrin, riedizione 1994. Traité politique, trad. fr. Pierre-François Moreau, Paris, Répliques, 1979.
2. Studi su Spinoza
a) Biografie Colerus, La vie de B. de Spinoza, in Spinoza, Œuvres complètes, Paris, Gallimard, La Pleiade, 1954, 1507-1556. Lucas, La vie de B. de Spinoza par un de ses disciples, ibid., 1540-1556. b) Studi sul pensiero di Spinoza F. Alquié, Servitude et liberté selon Spinoza, CDU, Les Cours de Sorbonne. È. Balibar Individualité et transindividualité chez Spinoza, in P.-F. Moreau (a cura di), Architectures de la raison. Mélanges offerts à Alexandre Matheron, Fontenay/ Saint-Cloud 1996, ENS Éditions, 1996. 235 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Indice dei nomi
Alpakhar J., 211. Alquié F., 163. Appuhn Ch., 174, 180, 189, 195, 196, 197, 199, 200, 204-209, 213, 235. Arioste (l’), 25, 197, 199, 203, 208. Aristotele, 9, 87, 100, 165, 203, 214. Bacon F., 60. Balibar E’., 79-80, 82-84, 101, 235. Bayle P., 87, 104. Bosch J., 203. Boyle R., 54, 56-57, 190. Brunschvicg L., 142-143, 215. Colerus, 65, 67, 235. Delbos V., 30, 37, 148, 235. Deleuze G., 7, 11-12, 14, 17, 19, 84, 87-89, 116-117, 121, 181, 194, 219, 222, 236. Descartes R., 9, 28-29, 33-34, 36-37, 40, 42, 59, 131. Duchesneau F., 75,84, 235. Dupleix S., 81. Empedocle, 126. Epicuro, 198-199. Frémont Ch., 104. Freud S., 26. Friedmann G., 33, 97, 104. Galeno, 75. Galileo G., 121. Guérinot A., 29, 85, 130, 132-134. Gueroult M., 28, 34, 36, 40, 42, 55, 59, 69-71, 73, 77, 83-84, 86-87, 95, 97, 100, 110, 116-117, 130, 130-134, 142, 144, 151-153, 158-159, 161, 164, 216, 236 Harvey W., 76. Hegel G. W. F., 7, 94, 107, 138, 152. 237 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Hobbes Th., 35, 129, 141, 146. Huan G., 30, 115, 116, 177, 236. Ivantsov N. A., 189, 235. Koyré A., 140-141, 148, 235. Lachièze-Rey P., 30, 34. Lebrun G., 27, 138. Lécrivain A., 63, 181, 236. Leibniz G. W., 10, 15, 23, 31, 33-34, 37, 44, 55, 79, 87, 96-98, 104-105, 108, 117, 126, 135, 163-164, 168, 186, 215, 231. Lewis G., 34, 36-37, 42. Lucas, 67, 235. Lucrezio, 198-199, 212. Macherey P., 12, 26, 28, 84, 94, 107, 133-134, 137, 140, 161, 163, 177, 180, 182, 236. Maimonide M., 209-211, 214-215. Malebranche M., 44,98. Matheron A., 63-64, 79, 84, 142-143, 164, 167-168, 170-173, 235-236. Meijer W., 100. Michelangelo, 197. Mignini F., 8, 29, 71, 100, 112, 235. Moreau P.-F., 28-29, 57, 79, 190, 193, 199, 211, 220, 235-236. Nietzsche, 14, 23-24, 26, 169, 201. Ovidio, 25, 43, 99, 181, 194, 196-199, 201, 203. Pascal B., 10, 65, 215. Pautrat B., 100, 133, 189, 235. Platone, 9, 65, 165. Pontalis J.-B., 187. Ramond Ch., 191, 236. Rivaud A., 125, 236. Rousseau J.-J., 181. Rousset B., 116, 236. Tommaso d’Aquino (San), 163.
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Finito di stampare nel mese di aprile 2012 da Digitalbook, Città di Castello (PG)
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