Spazi che contano. Il progetto urbanistico in epoca neo-liberale 8868435403, 9788868435400

L'attacco al riduzionismo funzionalista negli anni settanta veniva portato avanti entro almeno due differenti angol

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Spazi che contano. Il progetto urbanistico in epoca neo-liberale
 8868435403, 9788868435400

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Serie «Critica del progetto» diretta da

Cristina Bianchetti

Comitato scientifico: Luca Orte!li Gabriele Pasqui Paola Viganò Mirko Zardini

Cristina Bianchetti

SPAZI CHE CONTANO

Il progetto urbanistico in epoca neo-liberale

DONZELLI EDITORE

Il volume è stato pubblicato con il contributo dd Dist, Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Terrirorio del Politecnico di Torino

© 2016 Donzelli editore, Roma Via Mentana 2b

INTERNET w-ww.donzelli.it E-MAIL [email protected] ISBN 978-88-6843-540-0

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SPAZI CHE CONTANO

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Indice

1. p.

7

Riduzioni Confutazioni 3. Territori in crisi 1.

15

2.

19 n.

1.

32

2.

35 39 42 47 III. 51

Il patriottismo della Costituzione e il suo disfarsi Intimité, extimité, public 3. Urban intcriors 4. La potenza pubblica dell'interno 5. Un umanesimo scamificato e astratto 6. Devozioni ed ex-voto

2.

61 65 69 72

IV.

85 91 94 97

Corpi e spazi. La redistribuzione dell'egemonia simbolica del pubblico 1.

55

82

Familiare ed estraneo. I giochi destrutturati della condivisione La città: un corpo fatto di individui Ribaltamenti di gerarchie e valori 3. Giochi minuti e inediti teologismi 4. L'aggressività a fondamento del noi 5. Self Building City 6. Differenziali, progetti e politiche

27

77

Nuovi funzionalismi. Introduzione

Sovranità e conflitto. Il deflagrare dei diritti Storie (quasi) dimenticate Repéchages 3. Desideri e diritti 4. La de-singolarizzazione delle preferenze 5. Bundle of rights 6. Legittimazioni 1.

2.

v

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v. 103 108 110 113 117

Bianchetti, Spazi che contano

Spazi che contano. Nota conclusiva Il progetto in epoca neo-liberale Conseguenze c principi 3. Ancora realismo? 4. Spazi che contano 1.

2.

Indice dei nomi

VI

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SPAZI CHE CONTANO

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Questo saggio articola una traiettoria di riflessione e di studio che ha dato corpo a due volumi precedenti: Urbanistica e sfera pubblica (Don­ zelli, 2008) e Il Novecento è davvero finito. Considerazioni sull'urbanisti­ ca (Donzelli, 2011). Il libro è cresciuto intorno alla stessa urgenza di ri­ pensare l'urbanistica nella società contemporanea. Gli argomenti attraverso i quali sviluppo, nelle pagine seguenti, una critica al funzionalismo nel progetto urbanistico sono stati messi a fuoco in occasioni differenti. Mi fa piacere ricordare: lo studio condotto per Swiss National Science Foundation in occasione di un periodo di sabba­ tico di cui ho usufruito nel 2012; la lezione magistrale al Festival della Fi­ losofia di Modena nel settembre 2013; la progettazione collegiale del ciclo di seminari Traiettorie di ricerca in campo urbano, promosso dal Dist (Po­ litecnico di Torino) e dal DAStU (Politecnico di Milano) nella primavera del 2016. Essi traggono anche spunti da due ampi progetti di ricerca che mi hanno impegnato negli ultimi cinque anni, i cui esiti sono nei volumi collettanei Territoires partagés (MetisPresses, 2015), Territories in Crisis. Architecture and Urbanism Facing Changing in Europe Govis, 2015). A queste ricerche ho lavorato insieme a numerosi laureandi, dottorandi e col­ leghi delle università di Torino, Milano e Losanna. Sono grata a tutti colo­ ro che hanno condiviso con me queste esperienze o hanno partecipato al­ le loro discussioni. Così come a coloro che dall'interno del Politecnico di Torino, della Fondazione Braillard Architectes di Ginevra e dell'École Polytechnique de Lausanne le hanno rese possibili. Il titolo del libro è un riferimento esplicito alla tradizione del pensiero femminista (che non ho mai molto amato) e all'attenzione che essa ha avu­ to al rapporto tra soggetti, corpi, azioni, pratiche. Lesa, agosto 2016

C. B.

VII

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L'urbanistica non può essere pratica acquiescente: essa non che rimane­ re continuo esercizio radicale critica sociale. Bernardo Secchi, 2005

può di

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1.

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Nuovi funzionalismi. Introduzione

Negli anni ottanta, nella calma della grande bonaccia che tutto stava cambiando, il progetto urbanistico inseguiva i temi di quello che, per Manfredo Tafuri, era un nuovo realismo. Dismissioni, pe­ riferie, territori agrari, piccoli centri, nuove densità, infrastrutture, paesaggi. È sufficiente sfogliare la raccolta degli editoriali pubblica­ ti da Bernardo Secchi o Vittorio Gregotti su «Urbanistica» e «Ca sabella» per capire come da un tema si passasse a un altro, cercan­ do di cogliere superficie ed essenza dei fenomeni, ridisegnando l'o­ rizzonte della discussione, tornando su alcune idées fixes. Un nuo­ vo realismo: ce n'è uno per ogni stagione, si potrebbe dire. E per ogni attitudine. Filosofica certo, ma anche letteraria, come mostra­ no le tante sfumature del «racconto onesto» che Goffredo Fofi ha raccolto dapprima su «Lo Straniero» e poi pubblicato in un libro: quasi un'elegia delle buone ricostruzioni romanzate o delle inchie­ ste che hanno l'ambizione di misurarsi col presente'. Negli anni ot­ tanta anche gli urbanisti sentivano la necessità di un racconto one­ sto, di un nuovo realismo che si contrapponesse alle finzioni im­ maginifiche o alle restituzioni burocratiche. Bisogno che ha gene­ rato una sorta di coazione a ripetere narrazioni, descrizioni, letture al fine di domesticare e rendere familiare (in un certo senso, meno pericolose) le situazioni di città e territori in rapida trasformazione. Situazioni sentite come manchevoli, traumatiche. Nuovo realismo da contrapporre a finzioni immaginifiche: è qui la radice della «teo­ ria della modificazione» che si vuole debitrice a Miche! Butor. Chi ha letto Conrad sa che le bonacce preludono a un radicale muta­ mento. Dentro la bonaccia degli anni ottanta non solo il territorio, c

1 G. Fofi (a cura di), Il racconto onesto. 60 scrittori, 60 ri�poste) Contrasto, Roma 2015.

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ma anche il progetto, ha subito una mutazione profonda. Per il va­ riare delle tecniche e delle pratiche professionali, delle più com­ plesse procedure politico-amministrative, oltre che per il fonda­ mentale cambiamento della città, delle sue popolazioni e delle sue forme diproduzione. Vi sono molti modi per misurare la mutazio­ ne e, sebbene l'esercizio della critica non sia poi così frequente, si è dato, in questi anni, più di un tentativo per riposizionare il proget­ to nel cambiamento. Non è intenzione di questo saggio tratteggiare un passaggio, ma descrivere un punto di arrivo che vede, ancora oggi, il progetto co­ me la principale "forma di immaginazione e impegno concreto nel­ la costruzione della città»2• Una forma positiva, ancorché debole. Forse forte non lo è stata mai, neppure quando la combinazione di sapere politico e sapere tecnico escludeva le forme più sgrammati­ cate e moralistiche. A ben guardare, il progetto non era forte nep­ pure allora. E non lo è oggi. Nondimeno rimane capace di contri­ buire all'adeguamento e alla trasformazione di un vasto capitale na­ turale, spaziale, infrastrutturale e al sentimento di appartenenza a una comunità locale. Paola Viganò discute, nel saggio citato, le re­ toriche e gli argomenti mossi «contro» il progetto urbanistico, per mostrarne la necessità. Io vorrei fare in questo saggio un'operazio­ ne diversa, seppure nella stessa direzione difensiva: discutere i rischi che il progetto corre, innanzitutto quello di finire entro le maglie di un nuovo funzionalismo. Il termine in sé non ha nulla di sbagliato. La stagione eroica del funzionalismo, quella del movimento mo­ derno, è stata una grande stagione in cui si è ridefinita una diversa sensibilità nei confronti del mondo fisico e si è messa in atto una ri­ cerca complessa e ambiziosa di soluzioni rispondenti a bisogni e de­ sideri di una società che stava rapidamente diventando più libera, più ricca, più emancipata. Il funzionalismo moderno affonda le sue radici nelle ricerche condotte sulla distribuzione degli spazi interni agli alloggi nei tardi anni venti; costruisce la sperimentazione del­ l'Existenzminimum; è un laboratorio per provare e riprovare a comporre edifici in complessi capaci di formare moderni tessuti ur2 P. Viganò, Della possibilità di un progetto, in Italia 1945-2045. Radici, condizio­ nì, prospettive, a cura di S. Munarin e L. Velo, Società italiana degli urbanisti, Donzel­

li, Roma 2016, pp. 147-57.

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Nuovi funzionalismi. Introduzione

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bani. Più avanti sarà idealizzazione della tecnologia nella versione «revisionista inglese» degli anni sessanta, quella di Banham, Price, Archigram'. O, in Francia, diventerà programmazione nel senso di Jacques Allégret e Miche! Steinebach: premessa necessaria al dispie­ garsi consapevole di architettura e urbanistica4• Si sovrapporrà, am­ biguamente e non senza contrasti, all'engagement etico prima che politico, dell'Atelier d'Urbanisme et d' Architecture1• «Réinventer l'habiter du plus grand nombre>>6 ha significato ripensare, da capo, l'impatto dell'architettura sulla vita quotidiana in una società di massa. Una tale ambizione non poteva reggersi se non entro un ri­ mando a disegni politici e sociali ampi e alla convinzione, euforica e traumatica, che il benessere potesse crescere indefinitamente. Per lungo tempo il funzionalismo è stato il fronte più interessante della ricerca in architettura: un traguardo, non un ripiego. Lo stigma che la parola si porta dietro è in realtà legato alle tante riduzioni che ne sono state fatte e al consolidarsi, nel tempo, di una cattiva fama.

1. Riduzioni. È necessario cercare di capire meglio cosa è riduzione funziona­ lista oggi. Possono essere individuate alcune piste, strettamente in­ trecciate e qui richiamate per generalità. In primo luogo la riduzione funzionalista rimanda a un potere impersonale che ridisegna i comportamenti. Rimanda alla fiducia in sistemi gerarchicamente strutturati e bene organizzati, cui sono conferiti supremazia logica e maggiore efficienza in virtù della loro gerarchia e del loro ordine. Un potere «esercitato da autocrati bene 3 P. Eisenman, Post-functionalism, in «Oppositions•>, autunno 1 976, 6, pp. I-III, ora in Id., Inside-Out. Scritti 1963-1988, trad. it. di M. Baiocchi e A. Tagliavini, Quodlibet, Macerata 2014, pp. 141-6, qui p. 143. 4 J. Zetlaoui-Léger, L 'Aua et la programmatìon urbaine, in Aua. Une architecture de l'engagement. 1960-1985, sotto la direzione di J.-L Cohen e V. Grossman, La Dé­ couverte, Paris 2015, pp. 204-7. 5 Cohen - Grossman (sotto la direzione di), Aua. Une architecture de l'engagement cit., p. 7. " M. Eleb, Réinventer l'habiter du «plus grand nombre», in Cohen - Grossman (sotto la direzione di), Aua. Une architecture de l'engagement cit., pp. 52-62, qui p. 52.

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intenzionati, consigliati da tecnici esperti>>'. Autocrati benevoli, certo, depositari di una buona tecnica, di buone regole. Un ampio dibattito si è sviluppato recentemente sul carattere autocratico del­ l'Unione europea8• Entro questo dibattito l'Europa è parsa princi­ palmente una democrazia regolativa piuttosto che istituzionale. I suoi maggiori successi sono stati individuati nella protezione del cittadino, attraverso il rule of law applicato regolarmente dalla Corte di giustizia europea e alla protezione del consumatore, attra­ verso politiche di regolamentazione del mercato, della concorrenza e dell'antitrust. Due aree tipiche di una forma di potere impersona­ le che assumono veste oggettiva: il potere della legge e del mercato. Entro questo sfondo, praticato anche in modo eccessivo e spro­ porzionato, il potere si impone al soggetto dall'esterno, come qual­ cosa cl�e sovrasta, esclude, respinge, censura o protegge. Qualcosa cui ci si appella, o contro cui, al più, ci si oppone quando mostra il suo volto estraneo, rigido, inutile. Per certi versi, l'Europa ha sapu­ to ridare vita a una grande utopia del XVIII secolo e alle sue aber­ razioni: quella di un potere impersonale identificato nelle leggi e nel mercato, abdicando ad altre utopie, a partire da quella fondamen­ tale dell'organizzazione di una sfera pubblica e della formazione di una società civile, coerente e solidale. Rosanvallon è una delle voci più interessanti entro questo dibattito, capace di coglierne le nu­ merose contraddizioni. Prima delle quali, la celebrazione di un po­ tere impersonale in una fase di personalizzazione del potere'. Il di­ battito sulla tecnocrazia europea è durato qualche tempo. Poi le difficoltà nel fronteggiare le grandi migrazioni, le vicende del ter­ rorismo islamico e l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione hanno aperto quesiti più radicali sul significato stesso dell'Europa e sulla sua capacità di comporre interessi e valori. Ad alimentare il dibattito sulla tecnocrazia è anche una diffe­ rente pista che si sviluppa in modo deciso, da un po' di tempo, at7 W. Easterly, La tirannia degli esperti. Economisti, dittatori e diritti negati dei po­ veri, trad. it. di F. Galimberti, Laterza, Roma-Bari 2015, p. 9. 3]. Habermas, Nella spirale tecnocratica. Un'arringa per la solidarietà europea, trad. it. di L Ceppa, Laterza, Roma-Bari 2014.

�P. Rosanvallon, La politica nell'era della sfiducia, trad. it. di A. Bresolin, Città aperta, Troina 2009; Id., La société des égaux, Seuil, Paris 2011. 8

------- Nuovi funzionalismi.

Introduzione' --------�

torno ai temi della quantificazione di fenomeni sociali. È il ritorno di attenzione alle ragioni della statistica e al ruolo che la misurazio­ ne gioca nel produrre l' «autorité cles faits>>10• Effetti di dominazione, si sarebbe detto tempo fa, a mezzo di valutazioni quantitative e com­ parative. Diversi studiosi stanno riflettendo su questo punto. Supiot nel suo ultimo corso al Collège de France affronta la gouvernance par !es nombresu, riprendendo il testo seminale di Desrosièrs su la politique des grands nombres12• Altri ritornano sul ruolo della rap­ presentazione statistica nella costruzione dello Stato13• Altri ancora sugli intrecci tra statistiche e pratiche critiche", immaginando traiet­ torie eversive o emancipative di una governamentalità neo-liberale che può mobilitare, a proprio uso, indicatori e statistiche15• Queste traiettorie sono oggi ben documentate, in particolare in Francia, dove la diffusione delle problematiche di ispirazione foucaultiana costituisce la robusta cornice entro la quale sono analizzate le rela­ zioni tra rappresentazione statistica e azione politica16• A un secondo livello, quello urbano, la riduzione funzionalista richiama la Ville Garantie", ovvero lo spazio generato dall'infittir­ si di indicatori, standard, certificazioni, carte etiche di tutti i tipi che, con la pretesa di proteggere diritti individuali, definiscono da capo comportamenti e spazi. Ovunque si moltiplicano i dispositivi volti a garantire un buon uso dello spazio. La misura torna a esse10

I. Bruno, E. Didier, J. Prévieux (sotto la direzione di), Statactivisme. Comment lutter avec des nombres, La Découverte, Paris 2014, p. 5. " A. Supiot, La gouvemance par !es nombres. Cours au Collège de France (20122014), Fayard, Paris 2015. A. Desrosières, La politique des grands nombres. Histoire de la raison statistique, 12

La Découverte, Paris 1 993. 13 E. Didier, En quoi consiste l'Amérique? Les statistiques, le New Dea! et la démo� cratie, La Découverte Paris 2009. L Boltanski, Della aitica. Compendio di sociologia dell'emancipazione, trad. it. di F. Peri, Rosenberg & Sellier, Torino 2014, pp. 198 sgg.; Id., Quelle statistique pour quel­ le critique, in Bruno, Didier, Prévieux (sotto la direzione di), Statactivisme cit., pp. 33-50. Bruno, Didier, Prévieux (sotto la direzione di), Statactivisme cit. 16 M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Course au Collège del France 19771978, Gallimard-Le Seuil, Paris 2004. 1 7 M. Breviglieri, Une brèche critique dans la «ville garantie>>? Espace intercalaires et architecture d'usage, in Le Quartier des Grottes/Genève. De la difference urbaine, a cura di E. Cagato Lanza, L Pattaroni, M. Pinaud, B. Tirone, .MetisPresses, Genève 2013, pp. 21n6. 14

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re dispositivo di riduzione della complessità. La fiducia si affida agli indici. La qualità è assicurazione di qualità. Anche sul piano delle politiche, si può ormai ragionare su un periodo abbastanza lungo di sperimentazione portata avanti da agenzie di monitoraggio, mec­ canismi premiali, indicatori di standard tesi a superare gli «assetti arrugginiti» delle vecchie regolazioni". Hanno funzionato queste sperimentazioni? O hanno ingigantito le procedure burocratiche, rinvigorito vecchie razionalità strumentali, sollecitato nuove astu­ zie per eludere il sistema degli indicatori, eroso la fiducia nell'etica professionale? Come la Ville Garantie sta assieme all'enfasi, che og­ gi pare irriducibile, su spontaneismo, relazioni interpersonali, for­ me di corresponsabilità, partecipazione? La densità normativa va nello stesso verso dell'innovazione sociale? Difficile a dirsi, densità normativa è innanzitutto moltiplicarsi di prescrizioni e divieti e questo tocca il progetto e la sua critica, en­ trambi sempre più frequentemente affidati a regole: poche-tante; puntuali-generali; igieniste-morfologiche. Un giudizio positivo se le regole sono rispettate. Negativo, altrimenti. Le Grand Urban Rules di Alex Lehnerer" è tra gli esempi più chiari delle tante contraddi­ zioni del nuovo funzionalismo urbano. La città inventata di Averu­ ni è l'espediente retorico e narrativo per raccontare il codice di una città ideale. La sua conformazione è esito di un set di regole selezio­ nate da un gruppo di esperti e scelte.dai residenti perché ritenute di pubblico interesse. Come in un gioco di società, queste regole lavo­ rano sia individualmente, sia in modo integrato; valgono per sé e valgono assieme; sono regole igieniche (aria, luce, ombra, rumore, tepore); morfologiche (continuità, altezza degli edifici, diversità dei fronti); percettive (visibilità, chiusure, fondali, emergenze); defini­ scono compatibilità o incompatibilità, usi e loro aggregazioni, tra­ sferimenti di diritti, comportamenti, materiali. Regole di un gioco moralista tra visività ed evidenza, concretezza, lucidità e chiarezza, economia, geometria e leggerezza. A evitare vischiosità e indistinto. Ma tutte queste regole di cui si dice essere in grado di collegare città fisica e città sociale (e che sono desunte da casi di città reali) non so13 A. Bagnasco, La questione del ceto medio. Un racconto del cambiamento sociale, il Mulino, Bologna 2016, p. 203. 1� A Lehnerer, Grand Urban Rules, nai01 O Publishers, �otterdam 2013.

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no intese come costrutti sociali. Cioè come prodotti di qualche pro­ cesso e di un luogo. Sono prescrizioni buone in sé e, in quanto tali, esportabili, il che fa intendere che abbiano ovunque gli stessi effetti. Ovvero siano neutre rispetto alla situazione in cui si applicano (a evitare, appunto, vischiosità e indistinto). Così lo spazio che la re­ gola disegna è uno spazio passivo, disponibile, indefinitamente mal­ leabile. Neppure sfiora l'idea che, applicando «buone regole, in si­ tuazioni diverse, queste generino effetti differenti: anche le situazio­ ni sono considerate equivalenti e tale è considerata la società. O, per dirla altrimenti, si riducono i gradi di libertà di scelta, entro un set di opzioni definite. La riduzione funzionalista è sottovalutazione del­ la varietà, non predittività degli usi. Sottovalutazione dell' «adatta­ mento» come meccanismo che permette alla città di funzionare; del­ la «sregolazione"; della «familiarizzazione>> tra individui e spazi che deriva dalle forme d'uso parziali, inventive, distorte". La città reale funziona perincoerenza e temporalità. La riduzione funzionalista non riesce a intercettarle. Non riesce a trattare gli scarti tra cambia­ menti d'uso, attribuzione d'uso, usi effettivi, usi mancati. Né la con­ dizione di sospensione, se non come condizione di migliore funzio­ namento e non come espressione del fatto che, come dice Pier Lui­ gi Crosta, la città non ha bisogno di funzionare tutta assieme (al contrario di quanto stabilisce la rinvigorita metafora del grounding metabolisrn, retta da imperativi di autosufficienza)". In altri termini, una riduzione funzionale può essere anche intesa come un tratto di un più ampio processo di «de-urbanizzazione»" che rimanda a un presunto, quanto ambiguo, concetto di ordine generando il suo in­ verso: ovvero una debolezza e una fragilità di cui le regole dissecca­ te di Lehnerer sono agenti, quanto lo sono la frammentazione, la crisi della coabitazione, l'isolamento, il tracciamento difensivo dei confini, la desertificazione degli spazi. 10

Temi. sviluppati da Pier Luigi Crosta, Antonio Tosi, Carlo Donolo. 21 D. Ibaiiez - N. Katsikis (a cura di), Groundìng Metabolism, Harvard University Press, 'Cambridge 2014; V. Guallart, Geologics. Geography JnfOrmation Architecture, Actar, Barcelona 2008; Id., The SelfSufficient City, Actar, Barcelona 2012; V. Guallart L. Cappelli (a cura di), Se![Sufficient City. Envisioning the Habitat ofFuture. 3'J Ad­ vanced Architecture Contest, Actar, Barcelona 201 O. A. Tosi, Prefazione, in P. Conino, La città imprevista. Il dissenso nell'uso dello :,pazio urbano, Elèuthera, Milano 2003, pp. 7-14. �

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C'è poi un terzo piano che riguarda il riduzionismo funzionali­ sta di cui è fatto oggetto l'individuo. Oggi che si torna a insistere su temporalità e varietà dei processi, che si celebrano le iniziative a pic­ cola scala, effimere, temporanee, evanescenti, informali, non auto­ rizzate, illegali, che si traducono i saggi di Colin Ward o si torna a riflettere su pratiche inclusive ed eversive del fare architettura23, per­ ché parlare di riduzionismo funzionalista? Qui è il trattamento del­ l'individuo a essere in gioco, la sua riduzione (la riduzione delle sue intenzioni, desideri, patologie, turbamenti, angosce, azioni) a una condizione: muoversi in bicicletta, camminare, giocare, ammalarsi, invecchiare e poco altro. Tutto dell'individuo è inquadrato in atti­ vità più o meno sane, più o meno terapeutiche. Trainato dall'osses­ sione della salute e del benessere, c'è un ritorno, quasi positivista, al­ la riduz ' ione di problemi ordinari in termini e concetti medici24• A questo livello, attraversato da una sorta di estetismo gestuale, ritroviamo le figurine che animano tanti progetti urbani. Progetti di spazi pubblici, ma non solo. Si capisce bene questo punto confron­ tando i gesti grossolani intercettati da Jan Gehl nello spazio pub­ blico e il raffinato disegno di Ishigami quando immagina un group home, traendo ispirazione dalla tradizione giapponese delle case condivise da anziani. Invece di affidarsi al new urbanisrn edulcora­ to di Sun City e dei tanti villaggi per popolazione àgée, riscritti in toni pastello, allusivi di un ridisegno pop25, Ishigami sembra ripro­ porci una improbabile e ironica New Babylon per soggetti affetti da demenza senile che, della New Babylon situazionista, mantiene spaesamento, accumulo e forza". Se nel primo caso è evidente la trasformazione del soggetto nella sua parodia, nel secondo, è una 23 C. Ward, Architettura del dissenso. Forme e pratiche alternative dello spazio ur­ bano, ed. it. a cura di G. Barella, trad. it. di G. Barella e A. Brambilla, Elèuthera, Mi­ lano 2016; G. Barasi (a cura di), The Other Architect. Another Way of Building Archi­ tecture, CCA-Spector Books, Montreal 2015. "" G. Borasi - M. Zardini, Demedicalize Architecture, in lmpeifect Health. The Me­ dìcalization ofArchitecture, a cura di G. Barasi e M. Zardini, CCA-Lars Muller Publi­

shers, Montréal 2012, pp. 15-37. ::; D. Simpson, Young-Old. Urban Utopias of an Aging Society, Lars Miiller Publi­ sher, Zurich 2015; A. E. Kerçuku, Aging Territoris, dissertazione di dottorato in Ur­ banistica, Scuola di architettura Iuav di Venezia (bozza 2016). 16 J. Ishigami, How Small? How Vast? How Architecture Grows?, Are and Rève Centre d'Architecture, Bordeaux 2013, n. 52. 12

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Nuovi funzionalismi. Introduzione

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riflessione sui rapporti tra architettura, spazio e patologia che, at­ traverso la memoria (perduta, in questo caso), evita corto-circuiti semplificanti. Poiché la colonizzazione dell'individuo da parte del­ la patologia è una forma di de-soggettivazione radicale. Così come lo è riassumere l'abitare nel muoversi in bicicletta. L 'individuo non può essere ridotto a un'azione e le sue scelte (ad esempio spostarsi con mezzi privati o pubblici) a un bilanciamento tra costi e tempi, come bene mettono in evidenza quegli approcci che propongono «une relecture de l'individu mobilie à travers ses habitudes,27• Ov­ vero la sostituzione di un soggetto astratto con un individuo la cui azione è determinata (anche) da piccole abitudini e ripetitività del quotidiano. Torna, per questa via, un tema caro agli studi urbani: quello dell'habitus, originariamente definito da Pierre Bourdieu. Patologie, razionalità, riduzione dell'individuo a una condizio­ ne o a un'azione: capovolgendo l'affermazione di Vicente Guallart nel suo contrario, «man is (NOT) a biochemical machine,'": qualco­ sa di cui si possa apprezzare il buono o cattivo funzionamento, la difettosità o la riparazione, la razionalità o l'autosufficienza. Ma che è privo di pieghe, risvolti, angoli segreti, interiorità: già baga­ glio dell' «uomo senza qualità" di inizio Novecento. Non è un ca­ so che alle prefigurazioni biochemical si sia giunti da un percorso quasi visionario degli autori di HiperCatalunya: è la stessa spinta irrefrenabile verso dismisure, flussi, logiche globali e tecnologiche, organizzazioni su larga scala, nuove forme urbane autosufficienti e connesse. L'information society, forma estrema de!I'open society. Ma anche suo radicale travisamento nella fiducia sulla re-industria­ lizzazione tecnologica orientata alla produzione (rigorosamente lo­ cale) di energia, all'autoproduzione, ai valori ecologici e ambienta­ li. La Self Sufficient City è il frame entro il quale parte della cultu­ ra architettonica e urbanistica fonda nuovi principi della progetta­ zione spaziale, a volte puntuali e controllati, altre volte visionari e futuristi. Un'attitudine completamente compresa nell'immagina­ zione moderna29• 27 T. Buhler, Déplacements urbaines. Sortir de l'orthodoxie, Presses Polytechniques et Universitaires Romandes, Lausanne 2015, p. 18. '' Guallarr, The Se/fSufficìent City cit., p. 12. 2� Guallart - Cappelli (a cura di), Self Sufficient City cit; N. Spiller, Visionary Ar­ chitecture. Blueprints of the Modem Imagination, Thames & Hudson, London 2006.

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La riduzione funzionalista è rintracciabile almeno in queste tre diverse dimensioni, strettamente intrecciate: autocrazia, riduzione della densità dello spazio e dei processi, negazione dell'individua­ lità del soggetto e dell'azione. In queste riduzioni dei processi, dei comportamenti, degli spazi (ricondotti a una regola, a una misura, a un carattere) si rappresenta ciò che si ritiene non negoziabile30• Cosa non è negoziabile ad Anveruni? Comfort, igienismo, ecolo­ gia, qualità percettiva. È innanzitutto uno spostamento di queste barriere che la riduzione funzionalista disegna nella città contem­ poranea. Non è dunque alle vecchie polemiche sul funzionalismo moderno che il libro guarda, né al ritorno del funzionalismo (nella forma di puro programma) dell'architettura contemporanea. Ma al ritorno di un funzionalismo umanista che segna il progetto urbano contemporaneo. Umanista anche quando è esibizione muscolare di forze finanziarie. Funzionalista anche quando celebra capabilities, forze dal basso o utilizza retoriche consensuali che fanno riferi­ mento a nuovi standard, flessibilità, creativi'tà. Il rischio di cadere entro un nuovo funzionalismo umanista se­ gna una diversa stagione. Questa è l'ipotesi del libro che discute il modo in cui questa declinazione del progetto urbanistico finisce con il livellare questioni, ridurre o sciogliere snodi, trascurare la grana, minuta e contraddittoria del territorio. Ovvero rendere piat­ ti società e spazio, come nel racconto di Edwin Abbott31• Né la so­ cietà, né lo spazio sono piatti neppure negli anni della crisi che mol­ te cose ha ridotto. I territori europei mostrano continuamente que­ stioni e snodi che hanno a che fare con le ambiguità del vivere as­ sieme in una società individualizzata, con la fisicità e la corporeità dello spazio, con il deflagrare, questo sì immaginifico, dei diritti re­ lativi all'abitare e al muoversi, in un'epoca segnata dalla loro forte restrizione. Scopo di questo libro è mettere in evidenza questi sno­ di; riposizionarli alla nostra attenzione affinché essi mantengano, nel progetto, la loro problematicità. Jo C. Olmo - B. Lepetit (a cura di), La città e le sue storie, Einaudi, Torino 1995. 31 E. A. Abbott, Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni, trad. it. di M. D'Ainico, Adelphi, Milano 1966; O. de Leonardis, Nuovi conflitti a Flatlandia, in I conflitti contemporanei. Contrast� scontri e confronti nelle società del III millennio, a cura di G. Grossi, Utet, Torino 2008, pp. 5-21. 14

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2. Confutazioni. Nella prefazione alla Miseria dello storicismo, Karl Popper sin­ tetizza il suo attacco all'idea di poter predire razionalisticamente e scientificamente il corso futuro della storia in cinque concise e for­ ti proposizioni32• Potrebbe sembrare il vecchio vizio di un raziona­ lista critico, come egli amava definirsi. Se, analogamente, volessimo individuare le argomentazioni che reggono la confutazione del nuovo funzionalismo potremmo richiamarne almeno tre. Il nuovo funzionalismo non riesce a fronteggiare il sovrapporsi di familiare ed estraneo: trasforma ciò che tratta in una dimensione no­ ta, ripetibile e pertanto operabile. Tiene a bada le ombre, espunge l'e­ straneo, il non riducibile. Annulla qualsiasi familiarità (di spazi) che rimandi anche, e nel contempo, a un'alterità. Negli approcci neo­ funzionalisti lo spazio è familiare o è estraneo; circoscritto o indefi­ nito; intimo o esposto. Non è certo una novità dire che le cose stan­ no diversamentel3• L'uscita dallo spazio chiaro, inondato di luce, tra­ sparente, visibile, igienizzato non ha mai liquidato il suo contrario: la ricerca dello spazio buio, spersonalizzato, patologico, irrazionale, alienato. Nella sua persistente connotazione moralista, il funzionali­ smo è incapace di tenere conto di come noi tutti, eredi e beneficiari del Moderno, temiamo e sfuggiamo l'oscurità e, insieme, coltiviamo il desiderio di restituirle il suo potere. Si tratta di capire se questo de­ siderio potrà servire da contrappeso alla promessa di felicità dello spazio luminoso e trasparente. Ovvero se (e come) siamo in grado di superare vecchi binomi tra loro largamente imparentati: familiare ed estraneo, individuale e collettivo, domestico ed esotico, privato e pubblico. Se si vogliono usare quelle aggettivazioni, bisogna tenere conto che si tratta quasi sempre di piani largamente sovrapposti, proiettati l'uno al centro dell'altro, non disgiunti. Spesso segnati da reciproche ostilità. Lo spazio domestico è interno, familiare e nel 32 K. Popper, Miseria dello storicìsmo, trad. it. di C. Monteleone, Feltrinclli, Mila­ no 2002, p. 17. '3 A. Vidler, Ilperturbante dell'architettura. Saggi sul disagio nell'età contempora­ nea, trad. it. di B. Del Mercato, Einaudi, Torino 2006; Id., La deformazione dello spa­ zio. Arte, Architettura e disagio nella cultura moderna, trad. it. di M. Laera, Postmedia, Milano 2009.

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contempo «fondamentalmente velato», ostile, inquietante34• Esprime una potenza pubblica, considerata nel tempo nefasta o protettiva. L'introduzione della nozione di perturbante da parte di Freud35 se­ gna proprio questo movimento di de-realizzazione, confusione, in­ certezza. Ben oltre la situazione di non familiarità, non appartenen­ za. Vidler ha scritto un magnifico saggio per mostrare come il per­ turbante trovi da propria dimora metaforica» nella città16• Lo spazio pubblico è segnato, al contempo, da intimité ed extimité, dimensio­ ni opposte nelle quali ci si sottrae allo sguardo dell'altro, o lo si cer­ ca, per esibire sé stessi. Il processo di «de-singolarizzazione»37 degli spazi, delle pratiche, delle istanze, dei diritti che avviene sempre in nome di un principio di giustizia sovrastante chiarisce l'intrico tra egoismo e altruismo, anarchia del desiderio e solidarietà sociale, in­ vestimento narcisistico e interesse collettivo. Considerare le catego­ rie di individuale e collettivo, familiare ed estraneo, domestico ed esotico, privato e pubblico come non esclusive, non banalmente op­ positive, non significa depotenziarle, alternarle, sostituirle. Ma muo­ vere una dimensione di critica e di progetto diversa da quella messa in campo dall'uso univoco e separato di strumenti tradizionali qua­ li: prossimità, distanza, identità, separazione.

Il nuovo funzionalismo non riesce a trattare il corpo come canale di transito, operatore di relazioni complesse con lo spazio. Il corpo tor­ na nelle nostre discipline trainato da studi che si dicono nascere dal basso, attenti all'ordinario, alle pratiche quotidiane che vengono ca­ talogate, misurate, accolte e guidate. Soprattutto scrutate, osservate, indagate. Esattamente come accadeva per le massaie confinate nelle cucine svedesi di Kitchen Stories di Ben Hamere. O, se si preferisce, come accadeva nel metodo scientifico ispirato dai principi tayloristi di Christine Frederick che negli anni venti del Novecento diviene il 1�]. Lacan, Il seminario. Libro VII. L'etica della psicoanalisi (1959-1960), ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2008, p. 141. 35 S. Freud, Il perturbante, in Id., Opere, sotto la direzione di C. L. Musatti, IX, Bo­ ringhieri, Torino 1977, pp. 77-1 18. 30 Vidler, Il perturbante dell'architettura cit., p. 12. '7 L. Bohanski (con Y. Darré e M.-A. Schiltz), La dénonciation, in «Actes de la re­ cherche en sciences sociales», marzo 1984, 51, pp. 4-40, online in http://www.persee.fr (ultimo accesso 1 marzo 2016). "8 B. Hamer, Kitchen Stories, commedia, 92 min., Norvegia-Svezia 2003. o

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punto di riferimento, anche istituzionale, del domestic engineering39• Il kitchen work triangle produttivista, di cui Hamer si prenderà gio­ co, rimane a lungo un modello di costruzione efficiente dello spazio. Sogni di normalizzazione, meglio, incubi ergonomici della metà del secolo scorso. Come per quelle massaie, anche per gli studi orientati dal nuovo funzionalismo si riscrive il rapporto tra spazio e individuo a partire da silhouette bisognose di comfort e consolazione. Soggetti scarnificati, astratti, predefiniti nei comportamenti e nei valori. Sulle loro azioni meccaniche e ripetitive il nuovo funzionalismo costruisce il progetto. Ma l'attenzione al corpo veicola ben altro nella sua mate­ rialità fisica e psichica e si rivela uno straordinario strnmento di con­ nessione, di socievolezza, di aggregazione, capace di rovesciare fanta­ smi e silhouette. A patto di considerarlo «preso nelle pratiche». Non isolato. Quanto più il corpo interagisce con lo spazio, tanto· più lo comprende. È l'intrico delle relazioni tra corpo e spazio che rende lo spazio conoscibile e trasformabile. Gli studi sullo spazio pubblico e sulle sue forme (interiors) nella città contemporanea hanno sottoli­ neato il carattere cruciale di questo intrico. L'urbanistica, come il di­ ritto, l'economia, la filosofia'", deve fare i conti criticamente con la «scorporazione» che ha attraversato il suo campo, producendo erro­ ri evidenti. Il progetto deve tornare a mettere al centro il rapporto tra corpo e spazio, ben oltre una tradizione umanistica sempre afferma­ ta e svilita nella sostanza. Senza spaurirsi delle critiche che tacciano l'intreccio corpo-desiderio di anti-intellettualismo populista.

Il nuovo funzionalismo non riesce a misurarsi con le forme mo­ lecolari, sconnesse, micro della so·vranità e del conflitto. La sovra­ nità, sottratta per molti aspetti ai singoli, si ritrova ricacciata in quei piccoli spazi nei quali è ancora possibile esercitare una propria vo­ lontà: la famiglia, l'impresa, il (proprio) territorio. Lì riscrive il suo ordine dall'interno, nel modo astuto di de Certeau: ridefinendo piccole bolle di sovranità entro uno sfondo tecnocratico". Un pro39 C. Frederick, The New Housekeeping. Efficiency Studies in Home Management, Doubladay Page & Company, New York 1913, onlinc in https://ia802606.us.archi­ ve.org (ultimo accesso 1 1 marzo 2016). ·>0 R. Esposito, Le persone e le cose, Einaudi, Torino 2015. +l A. Sampieri, Social Protagonism in the Technocratic Spirai, in Terrùories in Cri­ sis. Architecture and UrbanismFacing Changing in Europe, a cura di C. Bianchetti e al­ tri, Jovis, Berlin 2015, pp. 148-55.

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cesso di dispersione non meno evidente di quanto non sia stato quello degli abitanti nei territori sfrangiati della città diffusa. Di­ spersione di sovranità che è anche allontanamento dai luoghi della rappresentanza tradizionale e dalla sua capacità di interpretare va­ lori generali. La forza delle micro-sovranità, nelle quali si specchia­ no interessi particolari, riposiziona le nuove forme della rappresen­ tanza all'esterno delle istituzioni. Un processo complesso che ri­ scrive da capo i temi del conflitto, del diritto, dell'organizzazione so­ ciale e territoriale. La scala micro della sovranità coesiste con quella macro delle dinamiche globali dell'economia finanziaria, delle crisi demografiche, istituzionali, ecologiche, delle ondate di migranti che sembrano rimettere in gioco tutto". Per molti aspetti rifugiarsi nello­ cale è scelta obbligata e difensiva (si pensi al «welfare dal basso»). Per altri è eSpressione più libera della strutturazione di consumi e stili di vita (si pensi all'entre nous come modello di nuove relazioni). Per altri ancora è fattore di coagulo di un conflittp che nasce sempre più frequentemente come contestazione di scelte di trasformazione del territorio: un conflitto che non mette radici, non crea blocchi so­ ciali, è pronto a emigrare da un luogo all'altro. Molto diverso dal conflitto strutturato verticalmente entro schemi oppositivi, genera­ zionali, degli anni settanta. Laddove la generazione precedente, vi­ sta come potenza della tradizione e dell'autorità, era vissuta come ostacolo alla realizzazione del desiderio. Finita quella forma edipi­ ca del conflitto, resta un antagonismo errante, difensivo, minuto, altra faccia di una condivisione, questa sì poco mobile e molto ra­ dicata. Forme diverse di sovranità. Meglio, di una micro-sovranità che non riesce a coagulare e fatica a trovare l'energia sufficiente per mettere in moto qualcosa di diverso. Ma rivendica sé stessa come diritto. Anche su quest'ordine di questioni, il funzionalismo dice poco, è poco attrezzato, non riesce a incrociare temi e dinamiche di territori che oggi ci appaiono più complicati, nei quali i singoli luo­ ghi contano di più. Ovunque le connotazioni ampie lasciano posto a visioni del mondo frantumate, a logiche molecolari, a nuove uto­ pie di nicchia. La crisi impone di acuire lo sguardo, vedere la gra­ na fine del territorio, rintracciare la dimensione molecolare del '12 M. Gandy (a cura di), Urban Constellations, Jovis, Berlin 2011; R. Esposito, Da fuori. Una jìlosofia per l'Europa, Einaudi, Torino 2016. 18

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Nuovi funzionalismi. Introduzione

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conflitto, della protezione, del diritto, del benessere, della norma, dell'eredità. Tutti e tre i piani di questa confutazione a me paiono decisivi. Non riuscire ad affrontare gli intrecci e le sovrapposizioni tra fa­ miliarità ed estraneità, tra corpi e spazi, tra sovranità e conflitto, si­ gnifica precludersi una comprensione sufficientemente precisa e ar­ ticolata di ciò che è condizione urbana oggi. Significa soprattutto li­ mitare il progetto nella sua azione: intraprendere direzioni evasive, consolatorie o, semplicemente, ideologiche. 3.

Territori in crisi.

Per le ragioni che ho richiamato, il nuovo funzionalismo è poco attrezzato a fronteggiare temi e dinamiche di territori che ci ap­ paiono più complicati a valle delle tante crisi di questi ultimi venti anni: crisi di ordine economico, ma anche demografico, ecologico, sociale e istituzionale. Le crisi restituiscono territori friabili, a gra­ na fine, segnati da fattori non facilmente ordinabili, occupati da po­ polazioni sempre meno omogenee e prevedibili nei bisogni, nei de­ sideri, nelle rivendicazioni. Roberto Esposito parla di una «densità metafisica» che la crisi riversa sui territori europei43• Condividendo a pieno il senso della sua argomentazione, non sono tuttavia certa che metafisica sia la giusta connotazione per territori segnati così duramente da nuove precarietà, esclusioni ed erosioni. Si pensi all'erosione del capitale fisso sociale urbano, agricolo, produttivo, infrastrutturale. Una parte non trascurabile di ciò che in un periodo lungo (o anche solo nel Novecento) si è depositato al suolo e lo ha costruito si è consumata nella crisi come in un pro­ cesso fisico di progressivo deterioramento. Si pensi allo svuotarsi, da dentro, dei quartieri di edilizia sociale che sono il lascito alto del Moderno. Spazi robusti, ben disegnati che traevano la loro forza, prima ancora che da sé stessi, dalla riconoscibilità e dalla forza dei gruppi sociali cui erano destinati e che ora appaiono fragili, sospe­ si, vuoti. Si pensi alle grandiplaygrounds industriali che rimangono sul terreno, a segnare un passato che spesso è dnrato solo il breve 41 Esposito, Da fuori cit., p. 5; le considerazioni che seguono rimandano alla ricer­ ca di Bianchetti e altri (a cura di), Territories in Crisìs cit.

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lasso della Golden Age. E, simmetricamente, agli scricchiolii della città fordista costruita dalla fabbrica nei suoi spazi abitativi, delloisir e non solo nei luoghi della produzione: Zingonia, San Donato, To­ rino offrono esempi di straordinario interesse dei modi in cui di­ versamente si incrina il supporto fordista. O, ancora, a tutto il te­ ma del surplus spaziale che solleva il problema di chi se ne appro­ pria e che, di nuovo, non può essere affrontato unicamente attra-. verso il riciclo e le buone intenzioni. Un grande movimento di ero­ sione, di cedimento e di fessurazione che un pensatore provocato­ re e reazionario come Finkielkraut chiamerebbe «il consumo del mondo»44• La crisi ha accelerato il consumo del mondo non solo nei territori industriali, ma anche in quelli agricoli, costieri, interni, montani, !asciandoci frammenti di un'eredità di cui non compren­ diamo � fondo carattere e consistenza. Accanto al consumo del mondo stanno processi che paiono an­ dare in direzione contraria. Si pensi al dilagare della patrimonializ­ zazione, ovvero al ridefinirsi, conflittuale o rlegoziale, di valori eco­ nomici, simbolici, relazionali". Un ridefinirsi che può riguardare quasi qualsiasi cosa: aspetti materiali, economici, culturali. Con un rovesciamento del senso comune si può sostenere che sia raro oggi trovare qualcosa che sia indisponibile alla patrimonializzazione: tutto sembra passibile di essere inteso come patrimonio, ricchezza comune, bene pubblico, eredità di tutti. In Val di Snsa si patrimo­ nializza l'antica e incerta coltivazione della canapa, nella speranza di ridefinire grumi di socialità nel luogo del più alto conflitto del nostro paese. Alla Cavallerizza Reale, a Torino, si patrimonializza un movimento antagonista ben dentro un luogo patrimonializzato dall'Unesco. A Les Grottes si patrimonializza l'eredità degli anni delle lotte urbane attraverso i riti dell'abitare in un quartiere bo-bo. Ovunque si patrimonializzano la natura, le economie e le culture del mondo rurale di nuovo reso attrattivo". Si patrimonializzano A. Finkielkraut, Noi, i moderni, trad. it. di M. Valensise, Lindau, Torino 2006, p. 5 1 . 4 5 C . Olmo, ArchitettuTa e Novecento. Diritti, conflitti, valori, Donzelli, Roma 2010; C. Andriani (a cura di), Il patrimonio e l'abitare, Donzelli, Roma 2010; L Vas­ sallo, Ilpatrimonio è l'uso che se ne fa. La lezione di Torino, tesi di dottorato in Archi­ tettura, città e design, XXVII ciclo, Università Iuav di Venezia, Venezia 2016. 41' C. Barberis (a cura di), La rivincìta delle campagne. Economie e culture del mon­ do rurale dalla povertà al benessere, Donzelli, Roma 2009; Andriani (a cura di), Il pa­ trimonio e l'abitare cit. -H

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Introduzione'

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gli usi, prima che gli spazi; si inventano eredità; si riscrive da capo l'equilibrio tra beni democratici e beni oligarchici. È ingenuo chie­ dersi perché, nelle maglie di una lunga crisi, si torni a insistere così ostinatamente su ciò di cui ci sentiamo depredati o su ciò di cui ci sentiamo eredi. Non è solo una spinta educativa e moralista a giu­ stificare il dilagare della patrimonializzazione. Né solo un conser­ vatorismo che nei territori europei ha antiche radici. Potenziamento è anche esito dei giochi minuti e destrutturati che riorganizzano l'abitare nella forma della prossimità, del volon­ tariato, del dono, dello scambio a base contrattuale. L'esibizione di un proprio modo di stare entre nous è volontà di distinzione47, pre­ sunta superiorità di minoranze, non più di reddito o di ceto. La condivisione ridisegna, in forme pulviscolari, le reti di protezione, e nel contempo restituisce luoghi minuti, ma potenti, che incrinano attraverso la loro presenza, le terre dell'abbandono, i sobborghi delle città ricche, le periferie una volta industriali, i territori agrico­ li, quelli montani'8• Un partage che ha spesso matrice antiurbana e antimoderna celebra principi di auto-organizzazione, stridenti con la fiducia tecnocratica del nuovo funzionalismo. Il progetto urbanistico si dà oggi in un territorio più complica­ to. Un territorio che tiene assieme e sovrappone (più di quanto non facesse in passato) de-valorizzazioni e valorizzazioni; potenzia­ menti e minorazioni; protocolli e comportamenti abusivi; nuovi funzionalismi e animazioni sociali; lo sfibrarsi di diritti all'abitare in prerogative, diritti, immunità e il ritorno, doloroso, dell'ugua­ glianza attraverso il diritto, posta dai migranti, dai poveri, dai sans papiers, radicata nell'idea di laicità e giustizia della filosofia dei Lu­ mi, ma anche nei principi di uguaglianza proclamata dai Vangeli. È dunque molto complicato ricomporre le tante schegge dei territori contemporanei entro le vecchie metafore". Nessuna nostalgia per gli immaginari del passato. Il loro tempo è finito, esaurito. Il pro­ blema non è restaurare l'antica potenza simbolica della crescita e dell'autonomia, ma interrogarsi su ciò che resta del progetto nel tempo della loro dissoluzione. 47 P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna 1 979. C. Bianchetti (sotto la direzione di), Territoirespartagés, MetisPresses, Genève 2015. 1� Id., Il Novecento è davvero finito, Donzelli, Roma 201 1 . f8

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Osservando, in questi stessi anni, altri processi, Boltanski parla di una «modifica in profondità della grana del mondo»". Anche nei territori europei si osserva una modifica in profondità della grana del mondo: una radicale trasformazione, dopo che trent'anni di neo-liberismo hanno forzato le relazioni economiche, sociali e di potere. Boltanski ci invita a fare attenzione a come ogni modifica della grana del mondo riproduca, da capo, differenziali e asimme­ trie di diverso genere e a come i processi di dominazione si leghino alla loro perpetuazione, nel tempo. Il riprodursi di differenziali e asimmetrie spaziali (di proprietà, di accessibilità, di mobilità, di di­ ritto) è del tutto evidente dentro la grana fine dei territori europei. I quali non solo riflettono il murare delle loro condizioni, compo­ sizioni e strutture, ma, attraverso questo mutare, questa grana fine e questa incessante complicazione, ci parlano del diverso modo in cui concepiamo diritti e doveri, immaginiamo il funzionamento delle istituzioni, riteniamo di essere parte di una collettività. Cosa resta del progetto urbanistico è la domanda che ha mosso le riflessioni contenute in questo libro, il qnale la affronta in modo parziale e tentativo, attraverso una critica al nuovo funzionalismo. Il funzionalismo rimanda a un appiattimento di snodi cruciali. Non coglie grana, inciampi, incongruità dei territori europei. Rende il progetto sottile. Lo depriva della sua sostanza cognitiva e suggesti­ va, non unicamente regolativa. È dunque opportuno uscire dalla sua prospettiva. Nelle pagine seguenti vorrei mostrare la praticabi­ lità di qualche uscita, ragionando sui tre snodi già richiamati. Sno­ di complicati che intrecciano familiare ed estraneo, corpo e spazio, sovranità e conflitto. Mettendo ancora una volta al centro (spero in maniera non scontata) forme dell'abitare, modi dello stare in pub­ blico, polverizzazione di rivendicazioni e diritti urbani. Su questa tripartizione si articola la stntttura del libro. L'intento del quale è tenere aperto uno spazio di riflessione sulle condizioni del proget­ to urbanistico contemporaneo, cercando di capire come esso si re­ lazioni con altre forme dell'agire sociale, quale contributo critico è in grado di dare, mobilitando quali conoscenze. Innanzitutto quel00

Boltanski, Della critica cit., p. 192. 22

Nuovi funzionalismi. Introduzione

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le che riguardano la città, i luoghi, le politiche. Fuori dai nessi pre­ figurati del determinismo e dell'appiattimento dei processi sociali con le loro figurine disincarnate. Prestando cura alla qualità delle passioni, intenzioni, rivendicazioni che abitano lo spazio urbano. Questo sforzo si traduce innanzitutto nel porre questioni, a volte veri e propri paradossi, che riguardano il riformularsi, nei territori contemporanei, di norme, diritti, valori". Nelle fasi di crisi e di mutamento le decisioni dipendono ancor di più dalle idee in circolazione, ed è pertanto importante occupar­ si delle idee, svilupparne di alternative, curarsi di quelle ritenute buone. La frase in esergo di Secchi suggerisce, in fondo, questa stes­ sa preoccupazwne.

'1 C. Bianchetti, Crumbling Territories. Rules, Rights and Values, in Bianchetti e al­ tri (a cura di), Tem'tories in Crùis cit., pp. 9-19.

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SPAZI CHE CONTANO

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Familiare ed estraneo.

I giochi destrutturati della condivisione

La riflessione sulla città come forma dell'esperienza degli indivi­ dui ha permeato l'urbanistica della seconda metà del Novecento, de­ clinandosi in modi diversi. L'immagine di individui che si aggirano liberati per le vie del mondo, compiendo scelte e prendendo deci­ sioni all'interno della propria sfera personale ha rafforzato la con­ vinzione che la città fosse un corpo fatto di soggetti che si concepi­ scono come singoli, che rivendicano il diritto di esprimere sé stessi, prendere parola, distinguersi, muoversi liberamente in microsfere di autonomia soggettiva. I territori che questi soggetti abitano sono, per convinzione comune, quelli della diffusione degli anni novanta, segnati da un' orizzontalità, nella quale è sempre più difficile reperi­ re tracce di differenziazione simbolica. Letti come espressione di quella «cultura del narcisismo» che diviene segno dell'epoca'. L'individualizzazione è destinata a rimanere tra noi'. Così la città diffusa, almeno in Europa. Ma l'idea della città come corpo di individui è in larga parte una semplificazione. Su questo sfondo orizzontale è sempre più evidente la presenza di individui che ri­ vendicano la scelta di non giocare più da soli', di stare entre nous prima che nella società. Cerchie ristrette entro le quali si stabilisco­ no robusti legami orizzontali tesi a ridisegnare le forme dell'abita­ re, del produrre, del proteggersi. Fino a generare, nei casi estremi, 1 C. Lasch, La cultura del narcisismo. L'individuo in /t.tga dal sociale in un'età di di­ sillusioni collettive, trad. it. di M. Bocconcelli, Bompiani, Milano 1995. Z. Bauman, La società indivìdualizzata. Come cambia la nostra esperìenza, trad. 2

it. di G. Arganese, il Mulino, Bologna 2002. 3 R. Putnam, Bowling Alone. The Collapse and Revival ofAmerican Community, Simon&Schuster, New York 2000. 25

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forme contemporanee di antiurbanesimo, giocate a mezzo di rela­ zioni che prendono la forma seducente della prossimità, del volon­ tariato, del dono e si reggono sulla convinzione che far da sé, in pic­ coli gruppi, in cerchie ristrette, renda le proprie azioni più ambi­ ziose, più sostenibili e di maggiore qualità. La condivisione riven­ dica lo stato felice in cui «il più povero dei pescatori rema con remi d'oro», per dirla con (un insolitamente ottimista) Nietzsche. Dove l'oro, la luce del sole al tramonto, indica i beni fondamentali della vita, il vivere bene4• Tra la presunta indifferenza dell'individualismo e la presunta superiorità morale delle minoranze si gioca il nuovo abitare. La pri­ ma fatta di abitudine ed estraneità. La seconda pervasa da un' osses­ sione di purezza che si dice centrata sul mondo, ma che bada in­ nanzitutto a sé stessa. Di questa tensione si connota l'abitare con­ temporaneo: di una stridente e troppo facile opposizione tra le ra­ gioni dell'individuo e quelle del piccolo gruppo, il narcisismo del singolo e quello dell'entre nous, l'estraneità e la familiarità, l'inno­ vazione sociale e la protezione ridisegnata alla piccola scala. Se «la ville est toujours la ville de quelqu'un»5, quel quelqu'un è forse, meno di quanto non sia stato ieri, un individuo singolo. Coleman è il sociologo che più di altri, nella sua monumentale opera, ha affrontato il tema degli attori collettivi che agiscono en­ tro contesti di individualizzazione, assolvendo le funzioni in altri tempi svolte dalle famiglie o dalle comunità locali. Per lui le società del futuro saranno sempre più segnate da queste figure e dalla loro capacità di ridisegnare capitale sociale': piccole e grandi utopie coo­ perative in cui individui destinati alla solitudine si impegnano in un mutuo soccorso. Ciò che Coleman prefigura si traduce in un invi­ to a prendere la questione sul serio. Il che non significa, come cer­ cherò di dire, un'adesione ingenua alle virtù della condivisione. ,, F. Nietzsche, la Gaia Scienza, in Id., Opere, ed. it. diretta da G. Colli e M. Mon­ tinari, Adelphi, Milano 1965, pp. 196-7, cit. in C. Sini, Del viver bene. Filosofia ed eco­ nomia, Jaca Book, Milano 2015, p. 30. 5 M. Roncayolo, con]. Lévy, T. Paquot, O. Mongin, P. Cardinali, De la ville et du citadin, Parenthése, Marseille 2003, p. 52. 1']. S. Coleman, Fondamenti di teoria sociale, trad. it. di G. Ballarino, il Mulino, Bo­ logna 2005; A. Pizzorno, Discussione di >, XVIII, 2013, Communal Urbanism; «Espaces et Sociétés)>, III, 2006, 126, Les lieux des liens sociaux; «Lotus», 2013, CUI, Capability in Architecture; «LotUs», 2014, CLIII, Commons. 1' I riferimenti sono tratti dalla ricerca contenuta in Bianchetti (sotto la direzione di), Territoires partagés cit.

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bandonati, nei quali si riposizionano forme radicali di comunitari­ smo, costruite su un «altro modo di possedere>>36, retaggio di eco­ nomie ritenute, fino a qualche tempo fa, arcaiche e che oggi si am­ mantano del tentativo di re-incastrare la solidarietà nella società; fattorie abitate da «nuovi contadini» che si richiamano all'auto-sus­ sistenza, alla decrescita, a un severo ecologismo, impegnati ad al­ ternare workshop e feste quasi pagane, permacultura e attività edu­ cativa; comuni dai tratti vagamente hippies che ricordano per alcu­ ni aspetti il nomadismo libertario americano degli anni cinquanta che affascinavano J. B. Jackson nel deserto americano"; multicolo­ ri colonizzazioni, da parte di associazioni artigiane, artistiche, cul­ turali, dei tessuti compatti di matrice ottocentesca delle maggiori città e)lropee, che di quei tessuti invadono cortili, piani-terra, pas­ saggi, retri, magazzini. I costi bassi dei terreni, la facilità dell'inse­ diarsi sono presupposto all'incursione del partage. Così come gli usi sospesi, condizione necessaria dei tanti giardini condivisi, ovunque nelle città europee, a riempire qualsiasi spazio interstiziale, conten­ dendolo alle popolazioni marginali. Pionieri, nuovi contadini, nuovi montanari, vecchi squatter: ovunque la condivisione riscrive il rapporto tra sociale e pubblico, riverniciando in modo seducente e attrattivo vecchie nominazioni; ovunque dilata l' extimité, ben oltre il soggetto individuale, renden­ do palese il desiderio di comunicare un mondo condiviso nel qua­ le è lecito esibire, insieme ad altri, il proprio sé. Reinventando, nel­ lo spazio, forme sempre diverse di quel movimento che, con una certa sottigliezza, è stato denominato «socialisation par frotte­ ment»38. Con forte immaginazione, qualche attimdine visionaria e un certo gusto della fiction. Nel co-housing, nelle fattorie e nelle borgate montane riabitate, stare entre nous è innanzimtto stare con chi si sceglie, senza che la vicinanza sia l'esito implicito di politiche sociali o di mercato. È la 36 P. Grossi, Un altro modo dipossedere. L 'emersione di forme alternative di pro­ prietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè, Milano 1977. ·'7 J. B. Jackson, Discovering the Vernacular Landscape, Yale University Press, New

Haven-London 1984. 38 F. de Singly, Lìbres ensemble. L'individualisme dans la vie commune, Nathan, Paris 2000, p. 20.

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rivendicazione della libertà di scegliere come vivere, con chi vive­ re e non solo dove vivere. Abitare tra vicini, cooperare, avviare nuovi servizi e nuove imprese, produrre servizi in epoca di crisi del welfare: gli obiettivi sono specifici e ben delineati. Ma il primo obiettivo è la stessa relazione sociale (il «capitale, di Coleman), ri­ sultato di un forte investimento affettivo. Prima che condizioni abitative, servizi e merci, la condivisione produce vicinanza, con­ vivialità, reciprocità, fiducia, comunanza. Beni «particulièrement valorisés dans un monde de la singularité""· Come Rosanvallon, in molti sostengono che queste dense relazioni permettano di «faire societé»40 all'interno di uno sfondo che rimane ineludibilmente in­ dividualista. Visione forse troppo fiduciosa, poiché l'ispessirsi dei tessnti relazionali può certo definire «nuovi urbanesimi" (forme germinali di un modo più libero, decentrato, polimorfico di [aire société), ma anche forme antiurbane che si muovono in direzione contraria: grumi di una secessione dalla città e dalla società che so­ no un vero e proprio «movimento di ritirata,41• Fuori da metafore belliche, la condivisione è piuttosto una riformulazione di un noi che avviene grazie all'articolarsi di un loro. Un movimento che, al pari dell'individualismo su cui rifletteva Tocqueville, contiene ger­ mi importanti di indifferenza e contrasto.

3.

Giochi minuti e inediti teologismi.

Nonostante la vaghezza lessicale, la tirannia dei valori" e dei modi di vita43, e nonostante tutte le diffidenze che si possono nu­ trire per le alleanze, inquietudini, paure e memorie messe in comu­ ne, è utile osservare da vicino l'entre nous, ovvero il ridefinirsi di re­ lazioni elastiche che, sempre più numerose, intercorrono tra indiw

Rosanvallon, La société des égaux cit., p. 375.

" Ibid.

41 J. Donzelot,De la sécession chez le moderne, in J. Donzelot - M.-C. Jaillet, La nou­ velle question urbaine, Puca, Paris 2001, pp. 95-100; A Sampieri, Antiurbanisme con­ temporaine, in C. Bianchetti (sotto la direzione di), Territoires partagés cit., pp. 37-59. '' C. Schmitt, La tirannia dei valori. Riflessioni di un giurista sulla tirannia dei va­ lori (1960), ed. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2008, '3M. Hunyadi, La tyrannie des modes'de vie, Le bord de l'eau, Lormont 2015.

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vidui e gruppi, nelle quali gli individui si associano e si dissociano per le ragioni più disparate, intersecando e sovrapponendo interes­ se individuale e benessere sociale. Protagonisti sono soggetti dotati quasi sempre di un buon capita­ le culturale che permette loro di immaginare e intraprendere proget­ ti non scontati e stabilire relazioni segnate da una certa libertà. La lo­ ro azione si dà entro condizioni che avremmo detto strutturali: rior­ ganizzazione di basi e disponibilità economiche, ma anche sommo­ vimenti profondi che mettono in crisi il modello tradizionale di con­ vivenza fondato sulla famiglia nucleare. Una famiglia che oggi è sem­ pre più piccola per la riduzione della natalità e la maggiore presenza di profili monoparentali, di single o anziani soli. E sempre più mobi­ le per ragioni di lavoro, di cura o assistenza. Nell'epoca dell' «evapo­ razionè del padre»+> i vincoli che tengono insieme il modello della fa­ miglia sono sottoposti a forti tensioni. I piccoli gruppi che si orga­ nizzano per stare entre nous mettono in sceJ;la la provocazione della caduta della famiglia classica, celebrando forme allargate di convi­ venza tra individui diversi per età e provenienza. Costoro trovano, negli spazi limitati dell'abitare condiviso, il modo di esercitare una forma di micro-sovranità, in una fase in cui la sovranità si disloca in sfere sovranazionali e nei poteri finanziari, lontano dallo Stato, dal Parlamento, dagli enti locali. Fuori dai mo­ delli compatti e coesi della regolazione fordista, i giochi sono mi­ nuti, destrutturati e ben radicati nei luoghi4': sobborghi ricchi di città ricche, aree dure, compromesse e abbandonate della dismis­ sione, terreni agricoli che hanno perso valore o possibilità di pro­ ciurlo, periferie consolidate, luoghi simbolicamente potenti della città europea, tessuti compatti di matrice ottocentesca. La condivi­ sione va dove c'è possibilità di andare. Dove gli spazi sono poco presidiati, nascosti, residuali; gli usi sospesi, interrotti; i luoghi tem­ poraneamente in attesa; dove vi sono enclave di proprietà pubblica. Lì costruisce località, come direbbe Appadurai": spazi densi di re­ lazioni, e di valori, difficilmente riducibili a una dimensione «piat44 M. Recalcatì, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del pa­ dre, Feltrinelli, Milano 2013. 4' Faccio riferimento alla ricerca Territoìres partagés cit. 46 A. Appadurai, Modemìtà in polvere, ed. it. a cura di P. Vereni, Meltemi, Roma 2006.

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ta». Spazi che contano anche se in modo controverso, non consola­ torio e conciliante come si potrebbe pensare osservando l'uso del­ la vegetazione spontanea o gli ingombri di arredi domestici che or­ gogliosamente e sbracatamente decorano questo diverso abitare. Nei territori europei la condivisione produce scostamenti, mi­ nuti e ripetuti. Piccole variazioni di intensità. Scarti, in forza dei quali alcuni luoghi diventano più importanti di altri, poiché lì si in­ scrive un mutamento di valori economici e simbolici: è messa in scena l'opposizione alla città moderna. Attraverso queste minute, ma potenti scosse, si incrinano i racconti lineari: quelli luttuosi del declino delle terre abbandonate, come quelli consolatori della rige­ nerazione. E si rendono inservibili le immagini della città alle qua­ li fanno ancora riferimento la cultura progettuale e la discussione pubblica (che pure alla condivisione si è affezionata): la città multi­ polare, la città arcipelago, la città diffusa, quella organicista o il suo rovescio, la città balcanizzata. Immagini che non riescono a inter­ cettare le energie minute, insistenti e a loro modo forti della condi­ visione, la cui osservazione richiede un ribaltamento di prospettiva: l'abbandono di prese d'assieme e un'attenzione minuta agli scarti, alle fratture, ai limiti; al susseguirsi episodico di spazi densi di rela­ zioni e scambi, e spazi !aschi e rarefatti; al particolarismo di obiet­ tivi, ruoli e identità che nella stessa città costruiscono mondi diver­ si e divergenti. Alle logiche elitarie, esclusive, da club, delle gated communities, alle gerarchie piramidali e oppositive che distinguono centro e periferia, città compatta e sprawl, luoghi di degrado e luo­ ghi di conservazione; alla linearità, o all'isotropia si sostituisce nn pullulare di eccezioni. In questo senso la condivisione è energia centrifuga, sgretolamento di principi unitari. La lunga e lenta stratificazione del territorio europeo è stata concepita e raccontata come «permanenza delle sue tracce fondati­ ve>>". Non c'è bisogno di tornare al grande racconto del territorio agrario'", la cui pregnanza è stata completamente soverchiata dal­ l'incerta letteratura di paesaggio negli anni novanta, esasperando e annacquando la sua robusta angolazione. Nella storia aspra del paesaggio agrario di matrice marxista, come nel paesaggismo con47 Gregotti, Lezioni veneziane cit., p. 120. 43 E. Sereni, Stotia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari 1974. 37

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temporaneo, accomodante, olista e comprensivo, le singole situa­ zioni sono riconosciute come apprezzabili, a patto di poter essere collocate entro un medesimo grande sfondo (nei due casi, ovvia­ mente, assai diverso). La differenza tra luoghi è apprezzata se può essere composta entro un macrocosmo che ne rivela la permanen­ za delle tracce fondative: uno sconfinato grembo materno che tut­ to accoglie, modifica e oscuramente preserva. Ogni luogo è sempre posto «sulla curvatura della Terra>>, direbbe Moresco, intendendo che è dentro un universo complessivo. Qui la faccenda è diversa. La condivisione è a ridosso del terreno, dentro i luoghi. Vale per sé. Qui e non lì. Qui, contro quel che c'è lì. Diffida dell'avvicinamen­ to di situazioni territoriali diverse, del loro evaporare in un senso di voragine organica. È ben piantata laddove esercita una sua micro­ sovra�ità, il suo limitato potere entro logiche di prossimità. È in questi luoghi che recupera spazio d'azione, capacità e potere di de­ cisione sul quotidiano. Trattare progettualmente i territori della condivisione senza ca­ dere nella condiscendenza non è semplice. La dimensione molecola­ re dello stare entre nous è attraversata da una sorta di inedito teolo­ gismo: espressione moralista e un po' arrogante della critica all'abi­ tare moderno e alle sue perpetue inadempienze. Esprimendo un' op­ posizione, spesso radicale, alla società contemporanea, alla commer­ cializzazione e mercificazione della cultura e dell'abitare, la condivi­ sione si pone come posizione antiprogressista, diffidente non solo nei confronti della società individualizzata, ma anche del liberalismo. Ridisegna l'appartenenza a una città che non è più quella moderna49, funzionale, con i suoi ordini definiti: capace di riflettere in modo tra­ sparente conflitti, valori, diritti. La città evocata dalle forme della condivisione è l'opposto. Perché rifiuta l'idea di stare in uno spazio esito di interazioni multiple tra individui che operano entro quadri di significato unitari (confliggenti o egemoni). E perché non è nep­ pure città. Le tante azioni puntuali promosse da associazioni, coo­ perative, nuclei più o meno stabili, coesi e protetti stanno entre nous, 4� C. Bianchetti, Lieux et droìts, report, Swiss National Science Foundation, pro­ gramme International Co-operation, Decision IZKOZ1_144577, 2012; Id. (sotto la dire­ zione di), Territoires partages cit.; C. Bianchetti - A. Sampieri, Condivisione e città, in «il Mulino>>, 2014,

4, pp. 594-602.

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prima che nelle istituzioni, nel sociale o nella città. In altri termini, gli spazi della condivisione ci dicono che la città moderna è cosa del passato. La stessa mitografia più potente, il legame tra polis e de­ mocrazia, perde forza. Questo punto è decisivo. L'abitare in piccole cerchie, en tre nous, entre voisins mette in scena una provocazione: quella di una nuova urbanità che avviene fuori dalla polis. Secondo alcuni la rifonda. Secondo altri, semplicemente, la nega. In questa messa in scena teatralizza il modo costrittivo e formalizzato della città degli individui, dell' orizzontalità priva di differenziazione simbolica. La rende visibile e palese. Costruisce un accesso a una condizione ce­ lata dalla sua ordinarietà. Per questo possiamo dire che, nonostan­ te il folklore, la leggerezza e la vanità, nonostante dichiari una pro­ pria estraneità alla politica, alle istituzioni e, qualche volta, alla so­ cietà, l'abitare entre nous assume un carattere politico, ponendosi come scandalo dell'abitare moderno: «rivelazione di un piccolo pezzo di reale»50• 4. L 'aggressività a fondamento del noi. Trattare i territori della condivisione non è semplice, si è detto. Il termine può apparire frivolo, ecumenico, consolatorio. Un rife­ rimento lessicale troppo evocativo, troppo vago. E indubbiamente è scivoloso, per quanto ormai celebrato da tutti. Rimanda ai legami sociali, ma li presuppone comunque solidali, sottovalutando il loro essere forti o deboli, convergenti o divergenti, esclusivi o aperti. Contiene in sé il presupposto che vi sia accordo tra coloro che co­ stituiscono un gruppo territoriale, ovvero che le decisioni di un gruppo di individui sufficientemente piccolo, conducente una vita in comune, non siano controverse'1• La condivisione rimanda agli usi popolari (non era Gavroche a utilizzare il chez nous per parlare della strada?)52• Rimanda alla solidarietà che prende sovente le sem'"Uso i termini di A. Badiou, Alla ricerca del reale perduto, ed. it. a cura di G. Tu­ sa, Mimesis, Udine 2016, p. 12. 51 P. L. Crosta, Osservazioni sull'Advocacy Planning, in > r. L'umanesimo di oggi poco ha a che fa­ re anche con i principi della tradizione moderna in architettura, quegli stessi che permettevano a Aldo van Eyck di affermare l'ur­ genza di una ricerca che fosse «a constant rediscovery of constant human values translated into space»55• Un'impronta umanista (sep­ pure diversamente declinata) aleggia ad esempio sull'identificazio­ ne tra spazio pubblico e spazio della strada. I testi e gli autori sono noti: Kevin Lynch di The lmage of the City; Bernard Rudofsky di Streetfor People; Gordon Cullen di Townscape; Appleyard, Lynch e Myer di The View from the Road; ancora Donald Appleyard di Livable Street fino alla circolazione in lingua inglese, alla fine degli anni Òttanta, del fortunato Life between Buildings di Jan Gehl. E il testo seminale: The Death an d Life of the Great American Cities di Jane Jacobs". Voci diverse, che segnano la riappropriazione dello spazio pubblico urbano da parte dell'uomo attraverso i riti dello stare in pubblico. Oggi le cose sono ancora più semplici di quanto non fossero allora: pochi imperativi a vantaggio di pedoni, ciclisti e quartieri animati. La sostituzione della figura del cittadino è com­ piuta. Sfumata, esattamente come è sfumata la nozione haberma­ siana di spazio pubblico. L'una corollario dell'altra. E a poco val­ gono i rimpianti''· Cosa significa affermare la centralità dell'uomo nei manuali di urban design, tutti (ancora) giocati su aspetti morfologici, percet-14 H. Lefebvre, Humanisme et urbanisme. Quelques propositions, in Id., Du rural à l'urbain, Anthropos, Paris 200P, pp. 1 53-7, qui p. 153. " A. Van Eyck, The Child, the City and the Artist. An Essay on Architecture. 'The In-between Realm, in Aldo van Eyck Writings, a cura di V. Ligtelijn e F. Strauven, Sun,

Amsterdam s.d. (ma 1962), I, p. 130. K. Lynch, The lmage of the City, The Mit Press, Cambridge 1960; B. Rudofsky, St�uts far People. A Primer far Americans, Doubleday & Co., Garden City 1969; G. Cullen, Il paesaggio urbano. Morfologia e progettazione (1961 ), trad. it. di R. D'Agosti­ no, Calderini, Bologna 1976; D. Appleyard, K. Lynch, J. R. Myer, The Viewfrom the Road, Mit Press, Cambridge 1964, online in http://web.mit.edu; D. Appleyard, Livable Streets, University of California Press, Berkeley 1981;]. Gehl, Life between Buildings. Using Public Space, trad. ing. diJ. Koch, Van Nostrand Reinhold, New York 1987;J. Ja­ cobs, The Death and Lìfe ofthe Great American Citìes, Penguin, London 1994. 57 Roncayolo, con Lévy, Paquot, Mongin, Cardinali, De la ville et du citadin cit. 06

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Corpi e spazi. La redistribuzione dell'egemonia simbolica del pubblico

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tivi, visuali, e temporali? E ridefinire su di essa il progetto dello spazio pubblico? Sono in molti a tornare a osservare gli individui nello spazio pubblico, con attenzioni da entomologo. E a costrui­ re, su queste minute osservazioni, nuovi cataloghi di azioni pos­ sibili, aprendo un comodo varco a un funzionalismo non diverso da quello della metà del secolo sorso. Questo non deve sorpren­ dere: già la migliore critica architettonica degli anni settanta riba­ diva come «il funzionalismo non è altro che una fase tarda di umanesimo», non una sua alternativa, ribadendo la vicinanza, quasi il confondersi dei due piani". Come avviene quando le azio­ ni di progetto (assemblare, disperdere, integrare, accogliere, segre­ gare, aprire, delimitare) sono riferite alla grammatica delle azioni di un soggetto scarnificato, astratto, che si muove in modo asso­ lutamente prevedibile. E il problema diventa «reconquérir !es rues>>: ovvero togliere macchine, mettere persone; limitare rego­ lamenti, moltiplicare la paccottiglia suifrontages, nuovo suolo sa­ cro dell'abitare contemporaneo. E tutto ciò in nome dell'armo­ nia, dell'estetica, dell'igiene, della sicurezza, della tranquillità. Appellandosi alle colte visioni strutturaliste di Habraken per le­ gittimare la riduzione della velocità oraria a 30 chilometri all'ora. Il successo degli eco-quartieri ha moltiplicato le sciocchezze u­ maniste/funzionaliste59. Il principale errore del nuovo funzionalismo umanista è la vista corta: voler mettere al centro l'uomo, ma nel contempo ridurlo al­ la sua parodia. Osservare unicamente il modo anonimo, disincar­ nato del suo stare in pubblico. Non interrogarsi sul modo in cui es­ so rende lo spazio liscio, anche quando ha i caratteri della magnifi­ cenza laica o religiosa, contemporanea o antica. In altri termini, l'errore del nuovo funzionalismo umanista è vedere solo un lato del problema e ritenere, secondo una vecchia formula neo-liberista di successo, che non vi siano alternative. Questa posizione ha oggi grande successo. Si può solo obiettare che appiattisce, gli uni sugli altri, spazi che sono pubblici in modo diverso60• Eisenman, Post-Junctionalism cit. Soulier, Reconquérir !es rues. Exemples à travers le monde et pistes d'acàons, Ulmer, Paris 2012. Dewey, Comunità e potere cit. "�

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6. Devozioni ed ex-voto. Lo spazio pubblico è uno spazio smagliato, lacerato per il flus­ so continuo di tensioni. Ma questo non si ritrova nei tanti manuali che ne vorrebbero orientare il trattamento. Pervasi dagli stessi ri­ chiami alla virtù della densità, diversità, permeabilità; alle necessità di organizzare centralità e accessibilità; ad avere attenzione ad aspetti ecologici, protezione e comfort; alla percezione, alla leggibi­ lità; agli attori, ai saperi ordinari, alle collaborazioni intra-discipli­ nari e alle pratiche partecipative. Quella che abbiamo chiamato una nuova formazione discorsiva dichiara la sua connotazione neo-li­ berista. Immutata come una litania e consolatoria nella pretesa di costruire buoni principi. Entro un atteggiamento che (nobilitando­ ' lo) si potrebbe dire da bricoleur. Un bricoleur che usa senza trop­ po riguardo l'enorme letteratura novecentesca sullo spazio pubbli­ co. Mobilita Sennett, Lynch, Jacobs, Simmel, Deleuze e Guattari, Lefebvre, Eco, Bourdieu, Bauman. Accetta tutto, non respinge nulla: nomadismi, eterotopie, spazi dei diritti e spazi voluttuosi, ritmi della vita quotidiana e catalizzatori di energie e intelligenze. ' Costruisce un racconto intossicato di sé stesso; mappe concettua­ li soccorrevoli e ospitali; genealogie di innegabile plasticità. Se l'in­ tento è fornire buoni principi (ma per quali progetti?), la povertà delle uscite è esemplare. Come costruire una leggibilità dello spazio pubblico, cercando di fare i conti con un soggetto che non è predefinito nei suoi com­ portamenti nello spazio come vorrebbe il funzionalismo di Jan Gehl? Non ci si può certo affidare a Jane Jacobs e Kevin Lynch. Non solo perché costoro hanno in mente il plot ufficiale del pub­ blico novecentesco, come è ovvio che sia. Ma per la loro fiducia nel­ la possibilità di creare un nuovo ordine simbolico, una nuova «im­ magine della città», un orientamento, una gerarchia, intesa come fattore fondamentale della buona pianificazione. Sono veramente posizionati altrove rispetto allo spazio pubblico contemporaneo. Sennett, Lynch, Jacobs, Simmel, Deleuze e Guattari, Lefebvre, Eco, Bourdieu, Bauman usati come ex-voto. È difficile ricostruire da qui un diverso campo di lavoro che potrebbe, in modo più mo­ desto, partire da alcune semplici posizioni, recuperando un po' di

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Corpi e spazi. La redistribuzione dell'egemonia simbolica del pubblico

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quelle scritture provvisorìe e sperimentali che non trovano più spa­ zio tra codici funzionalisti ed ex-voto novecenteschi. Un diverso campo di lavoro sullo spazio pubblico potrebbe partire da posizio­ ni che chiariscano come nella città contemporanea questo sia sem­ plicemente privo di uno statuto speciale. Lo spazio pubblico non è un tema a sé, se non per amministrazioni e promotori immobiliari necessitati a legittimare il proprio fare. Non è confinato nei cosid­ detti luoghi centrali che costruivano una parte importante dei pia­ ni urbanistici e della loro legittimazione. Né è confinato in nn va­ lore definito una volta per tutte, sia pure esso la civicness, come nel­ la città moderna. E uno spazio privato della sua durata. E non è per tutti''. Non celebra la fissità, ma l'occasione. È attraversato da cor­ pi, movimenti, intenzioni, progetti che possono andare d'accordo o configgere (la scarsa durata del gardening è la divertente ed esem­ plare rivincita degli usi marginali contro le ossessioni ecologiste). Permette l'intimité, ma, analogamente, altre forme di relazione. Gli urban interiors torinesi aiutano a capire come lo spazio pub­ blico della città contemporanea sia più che mai complicato da pra­ tiche contraddittorie, mentre è oggetto di una formazione discorsi­ va pacificata, costruita entro un umanesimo astratto che nulla ha da invidiare al vecchio funzionalismo contro cui si scaglia. Provare a trattare il mutamento dello spazio pubblico senza rimanere intrap­ polati nelle implicazioni di vecchi e nuovi umanesimi, o di concet­ ti buoni per definizione, è una sfida altissima. Da questo punto di vista lo spazio pubblico, nel suo carattere equivoco e semantica­ mente indeterminato, rimane il grande campo di battaglia sul qua­ le giocare la nozione stessa di città. Come lo è stato nel Moderno, seppure ormai tutto ci distanzi dal Moderno. Per questo nuovo campo di battaglia la nuova formazione discorsiva non è di grande utilità. Anzi, lavora contro. Disegna il progetto dello spazio pub­ blico come il più democratico, il più duttile, il più capace di ri­ spondere alle aspettative di tutti. Si riduce a una sorta di pubblicità progressista che le forze economiche, prima ancora che quelle cul­ turali e disciplinari, fanno del proprio sviluppo tecnologico e pro­ duttivo. Utilizzando retoriche umaniste, trasformando il progetto per lo spazio pubblico nell'espressione di un'improbabile arcadia 1'1 Bianchetti, Il Novecento è davvero fìnito cit.; Id., Un pubblico minore cit. 73

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logo-ludìca, dove sì sta bene, sì è più giusti e sostenìbili. La polve­ re dorata del patrimonio culturale e della città creativa ne sono par­ te. Come il vago aroma delle «qualités immatérielles de confort, de protection et d'embellìssement»", fino alla ricerca di una nuova estetica urbana che, vista da vicino, non è nuova affatto. Il territo­ rio che questa formazione discorsiva disegna è quello della garan­ zia e della simulazione. Garanzia nel confronto dell'accordo con un pubblico e una cultura disciplinare dominanti. E simulazione di ri­ schi già passati e neutralizzati. Lo spazio pubblico non comporterà più traumi. Gli accordi sono pienamente ristabiliti. Una formazio­ ne segnata da conservatorismo e restaurazione, mascherati da nuo­ vo umanesimo e attenzione ecologista. A disegnare un progetto che esprime pochi dubbi e non interrompe i rapporti con l'ambiente, il ceto, la culmra delle trasformazioni urbane. Nuota secondo cor­ rente e con buona lena.

"' Da Cuhna - Guinand (sotto la direzione di), Qualité urba�·ne cit., p. 20. 74

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IV.

SPAZI CHE CONTANO

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Sovranità e conflitto. Il deflagrare dei diritti

Cosa succede allo spazio costruito per rispondere a un diritto quando viene meno la narrazione sulla quale il diritto si regge?' Come si ridefiniscono sovranità e conflitto una volta tramontata la trasparenza tra società e spazio che reggeva lo stesso impulso lefebvriano verso il diritto alla città, a sua volta, e malgré soi, ra­ dicalizzazione delle più idealistiche trasparenze del Moderno? Nella città contemporanea si riformula il fondamentale rappor­ to tra spazio e diritti in un movimento caotico di spinte e contro­ spinte. Da un lato ha sempre meno forza l'insieme di diritti riven­ dicati e conquistati nei trent'anni gloriosi del dopoguerra, anch'es­ si «fatti sociali costruiti nello spazio>>2• Dall'altro, la compattezza (un po' artificiale) del droit à la ville si scompone in minuscole, in­ numerevoli schegge che fanno slittare il significato stesso de d'usa­ ge plein et entier>> della città' da espressione di appartenenza a una comunità politica a rivendicazione di posizioni e principi indivi­ duali o di piccoli gruppi: desideri e valori soggettivi; preferenze; principi di solidarietà, ospitalità, partecipazione; immunità; azioni appropriazione di spazi. I nuovi diritti paiono disegnare un univer­ so permeabile, irriducibilmente pluralistico che ogni richiamo a una dimensione universale fatalmente impoverisce, come nelle fa­ vole ideologiche. Dall'altro ancora, un processo di de-singolarizza­ zione delle rivendicazioni, dei desideri, delle preferenze. Non c'è solo il deflagrare di quella totalità che ha peso, di cui siamo eredi. 1 S. Rodotà, Il diritto dì avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 93. 2 A. Bagnasco, Fatti sociali formati nello spazio. Cinque lezioni di sociologia urba­ na e regionale, Franco Angeli, Milano 1994; P. Grossi, Prima lezione di diritto, Later­ za, Roma-Bari 2003. 1 H. Lefebvre, Le droit à la ville, Anthropos, Paris 20093, p. 133. 75

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Non solo rimozione e scomposizione. Ma un riaggregarsi e rag­ grumarsi dei desideri e dei valori soggettivi, rivendicato in nome di un miglior vivere. Si potrebbe ironizzare sui diritti e i desideri del «deviante me­ dio» di Enzensberger e sull'esilarante, beffardo ritratto che egli ne fa'. Ma correremmo il rischio di trarre in modo troppo frettoloso dalle sue figure grottesche l'ideologia dei nuovi diritti che osservia­ mo nei territori contemporanei: un'ideologia incentrata su una sempre maggiore libertà di scelta dell'individuo e poco interessata, ma anche poco attrezzata, a misurarsi con il suo limite. Soprattut­ to correremmo il rischio di non vedere come in queste rivendica­ zioni minute e divergenti si riformulano da capo le domande poste all'urbanistica e al suo progetto. E, più radicalmente, i rapporti tra competenza e rappresentanza, tra urbanistica e società. Il confronto di due casi inavvicinabili (quello di un ghetto nero degli anni sessanta a Chicago e quello di .un quartiere bo-bo a Gi­ nevra degli anni duemila) non ha il senso della provocazione: al contrario aiuta a riconcettualizzare alcuni tratti del mutare della questione dei diritti relativi all'abitare. Da un lato un luogo pove­ ro, con una storia di declino che la popolazione tenta di contrasta­ re, dall'altro una sorta di villaggio dentro la severa e ricca città di Ginevra, in un quartiere segnato da occupazioni e rivendicazioni che risalgono agli anni settanta e ottanta. Da una parte lo spazio du­ ro del ghetto, dall'altro quello morbido dell'eco-quartiere che si può sovrascrivere con facilità, anche grazie al fatto che la proprietà del suolo e degli edifici in questo caso è quasi per intero pubblica. E ancora, da una parte l'ideologia della riforma nel bel mezzo del­ la Golden Age, il diritto (di tutti) a dire la propria sulle trasforma­ zioni del quartiere e il diritto (di ciascuno) a continuare a vivere do­ ve vive. Dall'altro la continua rivendicazione di diritti d'uso, pote­ re, privilegi, immunità che riscrivono profondamente lo spazio, i suoi valori economici e simbolici, contribuendo a modificare inces­ santemente la distribuzione del capitale fisso tra i diversi gruppi so­ ciali. In entrambi i casi è lo spazio che dà visibilità ai diritti5, li met4 H. M. Enzensberger, Mediocrità e follia. Considerazioni sparse, trad. it. di E. Pic­ co, Garzami, Milano 1991, p. 175. 5 N. Irti, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto,. Laterza, Roma-Bari 2001. 76

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Sovranità e conflitto. Il deflagrare dei diritti

te in scena, li teatralizza e ne definisce le condizioni di possibilità, Ne accoglie o ne impedisce la realizzazione, pone resistenza o fa­ vorisce il loro dispiegarsi,

L Storie

(quasi) dimenticate,

Woodlawn è, negli anni sessanta, un quartiere nei pressi dell'U­ niversità di Chicago, adiacente al campus: il prototipo del quartiere nero, sovraffol!ato e disorganizzato, Un'ampia e oblunga parte di città, dai confini incerti, nella quale risiedono 150 000 persone, un quarto delle quali vive grazie a sussidi pubblici, Nel contempo, «il più importante ed imponente esperimento,6 di quell'insieme ambi­ guo e poco strutturato di pratiche che si sarebbero poi ascritte al­ l'Advocacy Planning: una vicenda esemplare delle controversie e dei conflitti urbani nella Golden Age, ricostruita da Charles E. Silber­ man, giornalista ed economista che ha insegato alla Columbia, oc­ cupandosi di conflitto sociale e criminalità. Silberman ha costruito dettagliatamente, nella forma di un grande racconto, la vicenda di Woodlawn, Vicenda segnata da un rapido processo di declino che pare inarrestabile, fino a quando alcuni esponenti della comunità lo­ cale (tre pastori protestanti e un prete cattolico) si rivolgono a Saul Alinsky per provare a frenare l'aggravarsi della situazione, Alinsky è il personaggio principale del racconto di Silberman: figura controversa, specialista nel creare organizzazioni locali, fer­ mamente convinto che i poveri possano risolvere gran parte dei lo­ ro problemi se qualcuno dà loro occasione e mezzi necessari e che, in ogni caso, hanno diritto di decidere da soli come vivere e con chi vivere, ma che per questo debbano avere il potere di farlo, Alinsky si pone fuori dal modello assistenziale americano, ammette di esse­ re un agitatore, di spingere le situazioni fino al conflitto, aiutando le persone a dichiarare convinzioni, paure, necessità e bisogni, Lo scopo del suo lavoro è promuovere forme di organizzazione in gra" C. E. Silberman, Crisi in bianco e nero, trad. it. di F. Commisso e C. M. Bersano, Einaudi, Torino 1 965, p. 348; Crosta, Osservazioni sull'Advocacy Planning cit., p. 15; P. Davidoff, Pluralismo sociale e pianificazione di parte, 1 965, in L 'urbanista diparte.

Ruolo sociale del tecnico e partecipazione popolare nei processi di pianificazione urbana, a cura di P. L. Crosta, Franco Angeli, Milano 1983, pp. 192-209. 77

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do di ottenere qualche miglioramento ai fini di moltiplicare solida­ rietà e fiducia degli abitanti verso sé stessi. Alinsky fonda, negli an­ ni trenta, la Industriai Areas Foundation, formalmente un istituto di beneficienza, in realtà un attore capace di organizzare comunità locali in difficoltà, con ottimi legami accademici e politici. A Chi­ cago, attraverso la Industriai Areas Foundation, promuove l'istitu­ zione di un nuovo soggetto: The Woodlawn Organization (Two), che associa poco meno di una novantina di gruppi, tra cui tredici chiese, tre associazioni industriali, club, circoli, gruppi sociali. Fon­ data nel 1960, la Two diviene rapidamente una presenza importan­ te nel dibattito politico della città: attraverso azioni destinate a ren­ dere più trasparente l'acquisto a credito e contrastare ruberie e sfruttamento, innesca un conflitto continuo su molti temi: si occu­ pa de) commercio locale, delle abitazioni, dell'istruzione, fino al de­ stino urbanistico dell'intero quartiere. Woodlawn è oggetto dei progetti di espansione dell'Università di Chicago. È per far fronte ad essi e al declino incipiente del quartiere che gli esponenti della comunità locale si sono rivolti ad Alinsky. Two assumerà alcuni urbanisti per contrastare sul piano tecnico i progetti dell'università e riuscirà a bloccare il processo di riqualifica­ zione. Alla fine del lungo racconto di Silberman, il quartiere «è an­ cora un bassofondo colpito dalla povertà, infestato dalla criminalità, ma un bassofondo pieno di speranze che ha trovato il modo di ele­ varsi da sé. La maggior parte dei problemi che rendono Woodlawn quel che è - il numero alto di disoccupati, l'insufficienza scolastica, la disorganizzazione familiare, le malattie, la crisi degli alloggi - non possono essere risolti dalla sola organizzazione locale [ . . . ]. Il più grande contributo della Two è quello più sottile: dare ai residenti di Wooldlawn un senso di dignità che li rende disposti a farsi aiutare>>'. Di questa vicenda sono molti gli aspetti che vale la pena sottoli­ neare in rapporto alla ripresa attuale di attenzione verso l'Advocacy Planning e, più in generale, verso ogni approccio teso a favorire capabilities in contesti difficili. Innanzitutto quelli che Silberman chiama aspetti ideologici: l'organizzazione punta a un conflitto la cui posta in gioco è il potere. «Diversamente dai filantropi o dalle ani­ me buone che si prendono cura dei poveri per dovere di carità, gli 7 Silberman, Crisi in bianco e nero cit., p. 376. 78

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advocates si occupano dei poveri perché ritengono che questi ne ab­ biano diritto>>8• Il problema non è l'affinamento di politiche a van­ taggio dei poveri, o le false uscite dell'assistenza previdenziale di cui Silberman evidenzia il carattere sostanzialmente paternalista (per cui i poveri devono essere meritevoli, gli assistenti avere un atteggia­ mento poliziesco e il coinvolgimento essere freddo e distante). Sa­ rebbe interessante un confronto con le posizioni mosse da un'altra riformista, duramente critica nei confronti dell'idea di beneficienza, Jane Addams. Fuori dall'aura di santità che l'ha circondata, oscu­ randone tratti del pensiero radicale e fittamente intrecciato con l'o­ rientamento pragmatista nordamericano. In fondo, la Hull House è stata una delle istituzioni più importanti di Chicago alla fine del XIX secolo'. In ogni caso, il problema non è assistenziale, ma ri­ guarda, più semplicemente e direttamente, la distribuzione del po­ tere. In nome di una maggiore equità, o perlomeno della possibilità di esercitare un maggiore controllo sul proprio ambiente, da parte di coloro che lo abitano. In poche parole, «i neri, come ogni altro gruppo, possono essere assistiti in un solo modo: dando ad essi i mezzi per aiutarsi da soli». La questione delle minoranze non sarà dunque risolta fintanto che essi non avranno potere10• Il corollario è una critica radicale della pianificazione come esercizio del potere della classe dominante e, più in generale, della burocrazia. Entro questa impostazione lo spontaneismo è visto con molta cautela: per muovere azioni efficaci si ritiene indispensabile una ro­ busta infrastruttura organizzativa, ben strutturata e articolata, in grado di creare coesione, agevolare l'azione, muovere il conflitto. Soprattutto rendere credibili gli obiettivi e combattere l'apatia: «il più grave problema» di uno slum nero. Per organizzarsi, la gente deve uscire dallo stato di inedia, ma per riuscirei deve avere la pro­ va che qualcosa può cambiare in meglio. La mediazione ha un ruo­ lo cruciale ed è portata avanti da figure che sono e si definiscono «professionist(i) dell'organizzazione», che lavorano su commessa, 8

Crosta, Osservazioni sull'Advocacy Planning cit., p. 17. Addams, Donne, immigrati, governo della città. Scritti sull'etica sociale, ed. it. a cura di B. Bianchi, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2004. C. E. Silberman, Fuori dall'apatia. L'esperimento di Woodlawn, cit. in Crosta (a cura di), L'urbanista di parte cit., pp. 1 12-29, qui p. 1 15. 9 J.

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ispirandosi al modello della professione legale e individuano i loro clienti in gruppi definiti su base territoriale. Nell'esperienza statu­ nitense degli anni sessanta, gli advocates sono «professionisti attivi nelle agenzie governative, nelle università, nel giornalismo, nel­ l'amministrazione della giustizia, nell'assistenza sociale, attivisti dei movimenti ci·vil rights, nei sindacati>>. Figure diverse che agiscono in modo spregiudicato, spesso attirando critiche provenienti da di­ rezioni opposte. Così accade ad Alinsky, al quale libera! e conser­ vatori rimproverano di costruire la propria azione in modo auto­ cratico, di usare tecniche efficaci solo in tempi brevi, di fondare l'organizzazione sul conflitto e avere una preoccupazione paranoi­ de per il potere; mentre gli vengono contestati, dal fronte opposto, alleanze interclassiste, l'assenza di una vera ideologia rivoluziona­ ria, az'ioni a vantaggio del sistema11• Non si capiscono le questioni che questa vicenda solleva (peral­ tro contrastanti e ambigue, come sostiene çrosta nell'articolo cita­ to )12, se non la si colloca nel contesto del riformismo americano dei primi anni sessanta, teso a dare un volto benevolo allo strapotere dello Stato, con qualche vantaggio per larghe fasce di popolazione povera. L'Advocacy avrà, per alcuni anni, un certo successo, come orientamento volto a coniugare un maggior benessere con una con­ dizione di maggiore equità e di riconoscimento di diritti. Entro cioè quell'impostazione libera! che individuava nei professionisti, piut­ tosto che nei politici, coloro che potevano fronteggiare in modo ef­ ficace situazioni critiche di ordine sociale. Il problema da contra­ stare era quello, drammatico, della lotta alla povertà, nella convin­ zione che un'intera categoria di cittadini (gli indigenti) non fosse tutelata a sufficienza e che la legislazione fosse, nell'insieme, inca­ pace di farlo. Ovvero che i poveri poco sapessero dei loro dirittiD L'Advocacy viene giocata in questa cornice pluralista definita dalla contrapposizione tra interessi diversi e giunge ad essere richiamata pubblicamente, come pratica virtuosa, da Robert Kennedy in un discorso tenuto proprio a Chicago nel 1964. Senza collocare l'azio­ ne degli advocats nella stagione della guerra alla povertà, dei civil 11 Crosta (a cura di), L'urbanista di parte cit., pp. 93-4. 1z Id., Osservazioni sull'Advocacy Planning cit., pp. 19, 16. Ibid., p. 17. 1·1

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rights e dall'ideologia liberai (cioè ben dentro la Golden Age), se ne

comprendono poco i caratteri. Si tratta, come si è detto, di storie piene di contraddizioni. La principale ha sicuramente a che fare con la presupposta capacità da parte di qualcuno (advocate o urbanista) di definire la gerarchia dei bisogni su cui fare leva e, soprattutto, individuare quelli passibili di essere oggetto di conflitto e di politiche. Gli advocates hanno una posizione neutra nei confronti dei bisogni: difendono il diritto dei loro clienti a far sentire la propria voce, non interessa loro la so­ stanza della rivendicazione, consapevoli che la vittoria sarà decre­ tata dai rapporti di forza. Ribadiscono pertanto la necessità di una negoziazione che avvenga contrapponendo in modo palese e fran­ co i diversi valori politici e sociali presentiH. Il dibattito sul ruolo del tecnico (pianificatore o advocate), ripor­ tato e commentato da Crosta in L'urbanista diparte, mostra bene le sfumamre e le contrapposizioni che costruiscono la discussione sta­ mnitense negli anni delle amministrazioni Kennedy e Johnson: met­ tersi dalla parte del cliente, delle istimzioni, di sé stessi o della disci­ plina; essere collaboratore, consigliere, difensore; usare tecniche di­ scorsive, organizzative, direttive, di mobilitazione o di conflitto; avere maggiori o minori probabilità di successo. Alternative ridise­ gnate entro idee diverse non solo dei processi della pianificazione, ma di una società che è interpretata come plurale, contrastata e fon­ damentalmente iniqua. In Europa, nei primi anni sessanta, le cose vanno in modo diverso, fuori dai duri conflitti e dalle spinte genero­ se del riformismo americano, dentro lo snodo che il riformismo eu­ ropeo immagina di poter costruire tra politiche e conoscenze tecni­ che. Nel nostro paese, la vicenda dell'Ilses è solitamente ritenuta esemplare di un'intera stagionen. L'Ilses è il tentativo di costruire un'infrastrutmrazione tecnica sofisticata per il trattamento (politico) dei nuovi problemi generati dallo sviluppo, compresi quelli della marginalizzazione e della povertà. Avrà importanti conseguenze sulla specializzazione dei saperi, sui legami tra discipline, sulla for1'1 Davìdoff, Pluralismo sociale e pianificazione di parte cit., p. 192. 15 A. Pizzorno, P. L. Crosta, B. Secchi, Competenza e rappresentanza, a cura di C. Bianchetti e A. Balducci, Donzelli, Roma 2014; C. Nicosia, L 'Ilses oltre l'Ilses. Un esperimento riformista (mancato?) e le sue eredità culturali, dissertazione di dottorato in Governo e progettazione del terriorio, Politecnico di Milano, 2016.

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mazione di una élite. Meno sui problemi per i quali era stato istitui­ to". E avrà una vita breve, come tutti sanno. Solo alcuni torneranno a ribadire (ma siamo ormai dopo il 1968) il carattere politico, non tecnico della definizione dei bisogni generati dallo sviluppo e la ne­ cessità di distinguere «), CLIX, 2016. 1" P. V. Aureli, Architettura e controrivoluzione. Oma. I Grand Projets e l'architet­ tura della città postfordista, in Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfi­ namenti, a cura di D. Gentili e E. Stimilli, DeriveApprodi, Roma 2015, pp. 320-34. 106

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