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ROBERTO PANI – SAMANTA SAGLIASCHI NICA E PSIC
OTERAPIA P SICOA
Sette e superstizione
NALITICA
Sette e superstizione
Perché le sette sono così diffuse? Perché molte persone sono superstiziose e credono nella magia, nell’occultismo? La dipendenza da setta e da superstizione sembra in aumento e raffigura una pericolosa società nichilista, che induce il soggetto con scarsa coesione del Sé a cercare, in modo compulsivo, di dipendere al fine di enfatizzare il bisogno urgente di appartenenza che la setta con regole rigide offre totalmente; oppure spinge l’individuo a cercare rifugio nelle pratiche superstiziose e parasuperstiziose. Gli autori – attraverso l’esemplificazione di casi clinici e i dati emersi dalle loro ricerche – si soffermano sul fenomeno della suggestione e delineano le tecniche d’intervento psicoterapeutico più adatte, come lo psicodramma psicoanalitico, affinché il dipendente possa migliorare la sua situazione.
Un bisogno compulsivo di dipendenza
Roberto Pani – Samanta Sagliaschi
COLOGIA CLI
ISSN 2037-9374
COLLANA DI PSI
ROBERTO PANI, specialista e professore di Psicologia Clinica presso l’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna. Insegna Psicologia Clinica e Psicoterapia breve. Membro European Federation for Psychoanalytic Psychotherapy, Società Italiana di Psicodramma Analitico-Coirag. www.robertopani.com SAMANTA SAGLIASCHI, psicologa, perfezionata in Criminalistica medico-legale, dottore di ricerca in Psicologia, è giudice onorario del Tribunale di Sorveglianza di Torino. Insegna Strumenti per la formazione professionale nel Corso di Laurea in Educatore sociale e culturale della Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Bologna, sede di Rimini.
COLLANA DI PSI
COLOGIA CLI
ISBN 978-88-491-3508-4
€ 11,00
CB 4856
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Collana di Psicologia Clinica e Psicoterapia Psicoanalitica diretta da
Roberto Pani www.robertopani.com
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© 2011 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna
Tutti i diritti sono riservati. Questo volume è protetto da copyright. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in ogni forma e con ogni mezzo, inclusa la fotocopia e la copia su supporti magnetico-ottici senza il consenso scritto dei detentori dei diritti.
Pani, Roberto Sette e superstizione. Un bisogno compulsivo di dipendenza / Roberto Pani, Samanta Sagliaschi. – Bologna : CLUEB 2011 124 p. ; 24 cm. (Collana di Psicologia Clinica e Psicoterapia Psicoanalitica diretta da Roberto Pani) ISBN 978-88-491-3508-4
CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com
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INDICE
Introduzione ...................................................................................................
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Capitolo 1. Il fenomeno del settarismo .......................................................... 1. I gruppi settari ............................................................................................. 2. Le sette sataniche ......................................................................................... 3. La dipendenza patologica dalla setta ............................................................ Il caso di Leo ............................................................................................... 4. La suggestione e la manipolazione della mente ............................................ 5. Suicidi-omicidi collettivi e condotta criminale ............................................. 6. Disaffiliazione del succube e costruzione del Sé ........................................... 7. Le caratteristiche di personalità del suggestionatore .....................................
11 11 17 30 40 42 51 54 57
Capitolo 2. Pratiche magiche e superstiziose .................................................. 1. L’occultismo ................................................................................................ 2. La credenza nella stregoneria ....................................................................... 3. La superstizione compulsiva ........................................................................ Il caso di Eva ...............................................................................................
63 63 67 70 81
Capitolo 3. Tecniche d’intervento nelle compulsioni da setta e da superstizione 1. Dal bisogno di dipendenza al desiderio di autentica autonomia ................... 2. Lo psicodramma psicoanalitico .................................................................... Il caso di Gaia .............................................................................................
85 85 89 92
Capitolo 4. Il potere della superstizione ......................................................... 1. Il nostro studio ............................................................................................ 2. Risultati e riflessioni ....................................................................................
95 95 96
Capitolo 5. La superstizione dell’abbronzatura .............................................. 1. Premessa ...................................................................................................... 2. Tan addiction .............................................................................................. 3. La ricerca: identikit del tan addicted ............................................................
103 103 104 108
Riferimenti bibliografici .................................................................................
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Introduzione
Perché in tutte le società, e non solo in Italia, le sette sono così diffuse? Perché molte persone – anche quelle che si dichiarano atee – sono superstiziose, appaiono attratte dalla magia, dall’occultismo? Assistiamo al proliferare di veggenti, maghi, medium, guaritori, santoni, guide spirituali, fondatori e capi di sette, ecc. che promettono di risolvere i problemi che affliggono le persone. La cultura dell’occulto appare statisticamente, ma anche giornalisticamente, in aumento e sembra portare con sé azioni violente connesse a riti di invocazione al diavolo che culminano persino con suicidi e omicidi. Non mancano, infatti, episodi di cronaca nera che vedono protagonisti individui che uccidono in nome di Satana. In alcuni casi si tratta di persone affette da disturbi psichiatrici e dipendenti da sostanze, che possono suscitare e accrescere stati deliranti e allucinatori. Persone di età varia si rivolgono a maghi e operatori esoterici con la speranza di risolvere problemi affettivi o di salute, per chiedere protezione o per superare le difficoltà quotidiane. Esiste un vasto mercato di prodotti di indefinibile natura che hanno valore soltanto perché l’acquirente appare sensibile a credenze superstiziose. Ad esempio, in commercio spopola il dispositivo Power Balance (bracciali, collane, adesivi), un ologramma ritenuto un amplificatore naturale di stati di energia positiva, che ridurrebbe lo stress, aumenterebbe l’equilibrio, il benessere, la concentrazione, la forza, la flessibilità, la resistenza, la tonicità. Molti consultano astrologi, leggono oroscopi, gettano il sale dietro alle spalle, evitano i gatti neri, ecc. sostenendo di non crederci, ma di cautelarsi. Nella maggior parte dei casi l’attività del suggestionatore si insinua nel sistema mentale di una persona in occasione e in concomitanza di uno stato di disagio, di sofferenza, di fragilità la cui espressione di dolore genera instabilità, incertezza e angoscia (ad esempio, in seguito alla perdita di una persona cara, a una malattia, a delusioni affettive, al licenziamento, ecc.) e apre la strada ad abusi psicologici, sessuali, ricatti, estorsione di denaro. Nello specifico una setta presenta precise peculiarità: proselitismo, adescamento del futuro seguace, brainwashing, asservimento totale dell’adepto al capo carismatico e all’intera setta, tant’è che risulta tutt’altro che semplice uscire da un gruppo settario. Centrale nelle tematiche oggetto del nostro lavoro appare il fenomeno della suggestione, che si riferisce all’esercitare influenza su un’altra persona al fine di indur-
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Introduzione
la ad aderire automaticamente e in modo egosintonico1 a una certa credenza, idea o azione. Useremo sovente questo termine al posto dell’abusato termine inconscio, che per Freud si contrapponeva al conscio sostanzializzando entrambi i termini e creando alcune spiegazioni rimaste teoricamente ambigue (Fossi, 2003; Klein, 1976; Peterfreund, 1983). La suggestione ipnotica risulta spesso una conseguenza di un bisogno del soggetto di immaginare all’interno del proprio campo psichico un potere esercitato da un altro, in modo da vivere direttamente l’illusione di essere guidato e quindi anche protetto da qualcun altro che appare munito di grande potere, autorevolezza e autorità. In questo modo un soggetto diventa sensibile alle istruzioni verbali di un altro, o all’effetto di alcune droghe. Vi sono poi le influenze create manipolando le aspettative di un individuo, incidendo sul modo in cui esso interpreta ciò che avviene nel suo contesto in maniera conforme all’aspettativa generale. Tra le nuove forme di dipendenza comportamentale (dipendenza da gioco d’azzardo, da shopping compulsivo, da sesso, da internet, da sport, da lavoro) (Pani, Biolcati, 2006; Pani, Sagliaschi, 2008a, 2008b, 2009, 2010a) potremmo far rientrare la dipendenza da sette e da superstizione. La condizione di debolezza di alcune persone aumenta il rischio di dipendenza, perlopiù senza distinzioni di situazione culturale ed economica. I dati statistici evidenziano che l’82% dei giovani mostra interesse per religioni differenti da quella di appartenenza, il 76% si sente ammaliato da magia, esoterismo, ecc., il 62% crede che l’occultismo e pratiche simili servano a contrastare la solitudine (Cantelmi, Cacace, 2007). Ogni individuo sarebbe spinto in modo naturale alla ricerca di socialità e di identità gruppale al fine di rinforzare il senso di Sé2. Pensiamo che la diminuzione del senso di Sé e d’identità possa condurre al bisogno, più o meno patologico, di essere suggestionati. Una scarsa coesione del Sé induce a cercare in modo parossistico l’appartenenza settaria o il rifugio in pratiche superstiziose. Con superstizione intendiamo riferirci a ogni atto al quale si attribuisce il potere misterioso 1 Con egosintonico intendiamo riferirci a un automatismo psicologico che, per tale motivo, viene dato come scontato dal soggetto poiché non viene né visto, né percepito con chiarezza. L’oggetto estraneo diventa parte del soggetto Ego, cioè entra nel campo psichico del Sé senza un’autentica pensabilità né dell’oggetto, né dell’accadimento. Assomiglia a quel che Freud chiamava oggetto, processo e atto inconscio, nel senso di non appartenente alla coscienza, anche se una sorta di percezione di ciò che avviene rimane presente nello psichismo e spesso viene messa a parte o obliata, ma mai cancellata. L’egosintonia indica, però, che gesti e azioni sono diventati un tutt’uno con la persona e quindi annulla la coscienza critica, cancella la visuale tridimensionale di Sé, dei propri comportamenti. Spesso in una famiglia gli atteggiamenti dei figli assomigliano talmente tanto a quelli dei genitori (ad esempio, nella voce e nella mimica espressiva) che tutte le persone esterne alla famiglia se ne accorgono, eccetto i protagonisti della famiglia. L’identificazione introiettiva e proiettiva dei figli può essere tanto intensa e automatica che l’adesione a certi atteggiamenti può essere completamente non avvertita. 2 Usiamo il Sé con la esse maiuscola, distinguendolo dal sé con la esse minuscola, per riferirci con il primo all’unità sintetica e strutturale che si costituisce nel bambino al momento del riconoscimento allo specchio, cioè a un’immagine che crescerà a partire dalla sensorialità per poi coniugarsi con il funzionamento psichico. Il senso di Sé connota il senso della propria identità, di quello che ci appartiene differenziandolo da ciò che non ci appartiene.
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Introduzione
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e irrazionale di favorire un evento positivo o di scongiurarne uno negativo (ad esempio, indossare un indumento particolare o portare con sé un oggetto portafortuna). Le compulsioni da setta e da superstizione sono in aumento e delineano una pericolosa società nichilista. Le persone, a nostro parere, avrebbero desiderio di esprimere le loro emozioni, ma si sentono inadeguate e hanno paura di essere protagoniste del palcoscenico della loro vita psichica e reale perché non si sentono di padroneggiarla; non possono accettare una siffatta responsabilità, sebbene abbiano molto bisogno dell’attenzione virtuale degli altri e soccombano quando si trovano davanti a un pubblico reale o virtuale. Tale ambivalente bisogno di qualcosa di indispensabile, ma anche di gigantesco, nel momento in cui si vivono nel palcoscenico reale o virtuale della vita, seppur cercato per ottenere conferma di amore, fa temere di essere sopraffatti e quindi di essere schiacciati. Si può spiegare meglio pensando a Lacan (1966) quando descrive la madre arcaica dalla quale il soggetto dipende e che come immagine primitiva rimane permanente ed egosintonica nell’adulto, cioè una madre vissuta come parte fantasmatica sentita nel proprio interno psichico in modo ambivalente, presente ma non visibile. Da tale madre il neonato dipende in modo assoluto come, seguendo la metafora di Lacan, un neonato di coccodrillo all’interno della bocca della madre dipende in modo assoluto dalla stessa genitrice. Se la bocca materna venisse chiusa, il neonato invece di essere protetto, verrebbe ucciso. Costatiamo per questo nella clinica che molta gente, nel momento in cui vorrebbe esprimere con una certa libertà le proprie emozioni, cade in preda al panico, all’angoscia e, insieme con essa, anche a un senso di crollo del Sé. Non potendo esprimere quel che sente, a causa di una fragilità del Sé che il più delle volte porta il segno di un passato poco convincente, si sente senza bussola e disorientata, si abitua alla rinuncia della propria spontanea ricerca del senso delle cose. Le persone perdono così anche l’educazione e la fiducia utile a battersi per qualcosa che sarebbe per loro importante raggiungere. Sperimentano soltanto un bisogno urgente di riempire un vuoto che aumenta man mano, si vedono meno protagoniste della loro vita. Inoltre, più cercano di saturare la noia dell’esistenza, più sono spinte compulsivamente a riempire il vuoto con elementi beta (Bion, 1962), cioè con atti di coazione a ripetere che includono le sostanze stupefacenti e si allargano a comportamenti che non richiedono solo sostanze o che le escludono, ma alimentano eccitazioni, anche su base neuroendocrina, come la pornodipendenza, condotte cleptomaniche, piromaniche e tante altre. Il meccanismo stesso si cronicizza: la macchina del nulla conduce alla coazione a ripetere, a un copione di vita che si rinforza senza fine estromettendo la vita e cercando la dipendenza sempre maggiore. Il nulla rappresenta l’anima del bisogno tanto urgente quanto consumistico di riempire qualcosa di Sé. Ci occuperemo della nascita delle sette, della dipendenza da queste tipologie di gruppo e dalla superstizione che sonnecchia strisciando, del bisogno di sentire di appartenere a qualcosa che conti, che offra un’identità a volte mai sentita. Delineeremo la tanoressia, o sindrome compulsiva da abbronzatura, come uno dei tanti esempi di parasuperstizione e, di conseguenza, come una tendenza superstiziosa.
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Introduzione
Inoltre, in questo lavoro, attraverso la presentazione di due nostre ricerche – seppur non sofisticate – il lettore potrà scorgere una rappresentazione della società odierna con riferimento alle credenze e alle condotte superstiziose. I casi, delineati a scopo esemplificativo, provengono dalla pratica clinica di Roberto Pani.
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Capitolo 1
Il fenomeno del settarismo
1. I gruppi settari Al fine di comprendere i processi di affiliazione e disaffiliazione a una setta riteniamo utile accennare brevemente alle basilari peculiarità del gruppo in cui tali processi hanno luogo. Pensiamo innanzitutto al gruppo come all’insieme di due o più individui interagenti vis à vis, che si percepiscono come appartenenti a un’unità durevole nello spazio e nel tempo e che condividono almeno uno scopo comune (Gergen, Gergen, 1986; Di Maria, Lo Verso, 2002). Come afferma Lewin (1951), quel che costituisce l’essenza di un gruppo è l’interdipendenza tra i suoi membri. All’interno del gruppo ciascuno ricopre uno specifico ruolo, riguardo alla posizione rivestita; il concetto di posizione richiama anche come una persona vive se stessa all’interno di uno spazio gruppale, cioè la propria prospettiva sentita rispetto agli altri; c’è quindi chi gode di una posizione elevata e chi usufruisce invece di una posizione minore. Le norme disciplinano la condotta dei membri. L’appartenenza a un gruppo può limitare la libertà individuale, poiché i gruppi impongono al loro interno il rispetto delle regole che permettono al resto del gruppo di conseguire i propri obiettivi (Brown, 1989; Quaglino, Casagrande, Castellano, 1992). L’assimilazione delle norme implica l’accettazione esterna o compliance, l’accettazione interiorizzata (ogni membro risulta motivato a osservare le norme ritenendole proprie) e l’accettazione basata sull’identificazione (le norme in senso eteronomo non vengono considerate poiché nel soggetto prevale una relazione profonda con un agente influenzante, sviluppa un forte attaccamento verso di lui e aspira a diventare simile al suo modello) (Kelman, 1961). La fermezza delle norme del gruppo garantisce la sopravvivenza del gruppo stesso, e per la tutela di questa in alcuni casi si possono allontanare i membri devianti. La coesione tiene unito il gruppo affinché i membri possano sopportare le influenze esterne che possono disgregarlo (Festinger, 1957). Quando il gruppo raggiunge una specifica stabilità psicologica, possiamo dire che gli individui passano dalla singolarità a un noi cosicché il gruppo sviluppa la “mente gruppale”, nella quale si potenzia il complesso delle abilità singolari realizzando qualcosa che nessun singolo di per sé sarebbe stato in grado di rendere concreto (Bion, 1961). Alcuni studi (Asch, 1956) hanno dimostrato come le persone siano molto condizionate dalle opinioni del gruppo nelle proprie condotte e nelle proprie percezioni. Possiamo considerare che, da un punto di vista psicosociologico, la famiglia può essere intesa come un noi composto di due persone che sentono di costruire una coppia. La coppia può essere sentita come la somma di due individui che rimangono
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Capitolo 1
tali nella famiglia per sempre, oppure come un’unica entità sentita al plurale. Questa seconda accezione offre ad alcune coppie, specialmente quando nascono molti figli e molti parenti sono presenti nella famiglia allargata, un vissuto condiviso, da parte di un membro o da entrambe le parti della coppia, di una generalizzazione e dell’appartenenza a un clan. Molte persone si sposano non tanto per l’amore derivante dalla scelta del singolo, ma per la spinta che inconsciamente e/o in modo egosintonico porta il soggetto a credere in buona fede di avere fatto una scelta individuale, mentre è stato il clan a influenzare profondamente la scelta. L’individuo ama non tanto la persona che ha eletto come sposo, quanto il clan al quale appartiene. Le ragioni per le quali alcune persone sentono nella coppia l’unica fonte di vita e di amore, rispetto a chi invece sceglie senza accorgersi l’appartenenza a un clan familiare, sono complesse. Ad esempio, un figlio unico che è nato in una famiglia poco numerosa e povera tende a investire fortemente nell’altro vedendo in questo il tutto di cui ha bisogno. Chi nasce in una famiglia numerosa, che funziona con grande cooperazione e collaborazione, tende a mantenere questo schema e il suo amore per il partner potrebbe essere sentito come la somma di tutti gli interlocutori interiorizzati scaturenti dal clan. L’origine della parola “setta” deriva dal latino seco (taglio) e sequor (seguo, da cui seguace) e si riferisce a un gruppo che si è separato da un altro maggioritario o che segue una specifica dottrina o un leader. Aristotele, ad esempio, era a capo di una setta e le lezioni che svolgeva al mattino erano esoteriche, vale a dire dedicate agli studenti, diversificate da quelle pomeridiane aperte a chiunque ne desiderasse fruire. In realtà, a prescindere dall’etimologia, usiamo la parola setta per denotare un’entità maligna capeggiata da un suggestionatore che schiavizza i suoi adepti, a livello fisico e psicologico, per raggiungere i suoi scopi annientatori a danno del singolo e della società. Il termine inglese sect denota scuole religiose contrastanti con la dottrina ufficiale, mentre il vocabolo cult viene usato per riferirsi a un movimento collettivo volto al controllo mentale (Vernette, 1997). Tra gli abituali scopi all’origine di una setta vi sono l’arricchimento del capo setta e il reperimento di fondi. La setta sarebbe un’organizzazione socioreligiosa che si fonda per separarsi da una tradizione religiosa consolidata e sarebbe caratterizzata da (Pace, 1997): – distacco da condotte reputate normali in uno specifico contesto sociale; – ricerca di comportamenti di vita che evidenzino la radicalità della scelta religiosa che si vuole attuare; – formazione di un nuovo principio di autorità; – modificazione dei confini di una determinata credenza religiosa. Le sette, secondo Pace (1997), potrebbero ripartirsi in: – sette terapeutiche, nelle quali il leader viene creduto in possesso di specifici poteri di guarigione psichica e fisica; – sette mistico-religiose, si orientano verso forme di spiritualità orientale; – sette ascetico-intramondane, si connotano per l’interventismo nel mondo; – sette radicali, respingono il mondo e si ispirano a ideali ascetici di purificazione. Un esempio può essere offerto dalla Carboneria che fu fondata a Napoli su valori patriottici e liberali; è la più nota tra le società segrete che sorsero nell’Ottocento. Il nome Carboneria derivava dal fatto che i settari dell’organizzazione avevano trat-
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to il loro simbolismo e i loro rituali dal mestiere dei carbonai. I Carbonari (personaggi come Silvio Pellico, Piero Maroncelli, Ciro Menotti, Giuseppe Mazzini) aspiravano soprattutto alla libertà politica e a un governo costituzionale. Affiliandosi alla setta sapevano di dover affrontare rischi mortali, dal momento che gli ideali di libertà potevano essere realizzati solo attraverso cospirazioni, e che, se si veniva arrestati, la polizia infieriva con la tortura per conoscere i nomi degli affiliati. Come in ogni società segreta, chi si iscriveva alla Carboneria non ne doveva conoscere tutte le finalità fin dal momento della sua adesione (Fusco, 2010). Ci sembra utile citare alcuni indicatori di pericolosità che un gruppo settario potrebbe avere per i membri e la collettività (Di Marzio, 2010): 1) il raggiro amorale per “catturare” nuovi affiliati; 2) il controllo eccessivo esercitato dal gruppo sui diversi aspetti della vita degli adepti, repressione dell’autonomia; 3) agli adepti è precluso l’accesso ai mass media o ad altre fonti informative. Le restrizioni possono riguardare persino la censura della posta personale; 4) l’indottrinamento induce i seguaci all’isolamento sociale e all’alienazione dai non membri; 5) il proselitismo interno contrasta con ciò che avviene all’esterno; 6) il convincimento che le leggi dello Stato non sono valide per il gruppo poiché il “leader”, avendo un potere divino, è al di sopra della legge; 7) la violenza viene esaltata e giustificata; 8) gli adepti che tentano di lasciare il gruppo subiscono minacce da parte degli altri membri o dal capo setta, vengono obbligati a ripensarci o vengono addirittura tenuti prigionieri. Chi abbandona il gruppo viene reputato un nemico e, pertanto, viene sottoposto a molestie e abusi. Scopriamo che sono identificabili diversi gradi di settarismo (Rapporto della Commissione della gestione del Consiglio nazionale, 1999; Schmid, 2003): 1) ci si sente particolari; 2) è presente la sensazione di essere migliori degli altri; 3) si sente di appartenere al gruppo migliore, al quale tutti dovrebbero aderire; 4) gli adepti si sentono i custodi della verità divina; 5) le altre persone devono essere evitate; 6) inizia la separazione dal mondo e dal sistema sociale, per i seguaci solo la setta ha il diritto di vivere sulla terra; 7) megalomania della setta, mania di persecuzione verso l’esterno, delirio di onnipotenza; 8) furore collettivo omicida. Precisiamo che quando nel gruppo avvengono discussioni in modo libero siamo in presenza di un basso grado di settarismo; viceversa, quando vengono soffocati il libero dibattito e la disapprovazione, il gruppo si trova ai gradi superiori del condizionamento operante sugli individui. Se dall’esterno giungono retroazioni negative (rischiose per la stabilità interna della setta), gli adepti verranno isolati da estranei pericolosi per fare in modo che le informazioni non giungano a loro. Pensiamo, ad esempio, ad alcune sette (come il Tempio del Popolo, il Movimento per la Restaurazione dei Dieci Comandamenti di Dio) protagoniste di omicidi-suicidi di massa che si trovavano isolate fisicamen-
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Capitolo 1
te e psicologicamente dal resto del mondo. Al fine di comunicare unicamente retroazioni positive, molto spesso, vengono incrementate le pratiche di proselitismo proprio perché la venuta di nuovi adepti incoraggia i membri a continuare nella “missione”. Negli adepti possono svilupparsi xenofobia, paura degli estranei, paranoia (Di Marzio, 2010). La relazione adepto-suggestionatore fa rivivere, nell’adepto, il desiderio infantile di ricevere cure materne e, nel suggestionatore, la tendenza a fornire “cure” all’adepto. Potremmo paragonare tale relazione al legame di attaccamento e separazione tra madre-bambino. Il suggestionatore diviene chi nutre, mentre l’adepto diventa chi si fa nutrire (Smith, 1992). Pertanto, sia l’adepto, sia il suggestionatore tenterebbero di soddisfare il bisogno dell’altro. Sin dalla nascita la relazione di attaccamento genera un suo corrispettivo operativo nel mondo mentale, con la conseguenza che l’attaccamento sicuro implica una rappresentazione adattiva dell’individuo, della realtà e del rapporto tra di essi poiché fondato su una base sicura, di fiducia nel mondo e sicurezza di sé. Al contrario, nell’attaccamento insicuro si costruisce una rappresentazione problematica, disadattiva di sé, della realtà e del rapporto tra di essi (Bowlby, 1988). Sottolineiamo che, analogamente a quanto accade nell’attaccamento insicuro ambivalente (bisogno di verificare la vicinanza del caregiver, segnalando l’esigenza di stabilire un contatto mediante una richiesta affranta o altri richiami all’attenzione o di aiuto, o con condotte di stretta vicinanza fisica) (Ainsworth et al., 1978), l’equilibrio emotivo va incontro a delle oscillazioni: il soggetto (l’adepto) non è sicuro della disponibilità del caregiver (suggestionatore) in caso di bisogno. L’insicurezza provoca angoscia di separazione, il soggetto tende a rimanere aggrappato al genitore e manifesta ansia durante l’esplorazione del mondo circostante. Si tratta di una condotta riconducibile a modalità comportamentali discontinue da parte della madre: da un lato fornisce sostegno al figlio, dall’altro minaccia di abbandonarlo allo scopo di esercitare controllo su di lui. L’adepto sente il bisogno di essere nutrito di convinzioni e affetto, e inizia a dipendere dalla setta che glieli fornisce; in altre parole nell’immaginazione dell’adepto si configura una relazione idealizzata che lo riporta a un rapporto ideale con la madre, forse promesso incautamente da certe madri nel momento di soddisfazione che sperimentano quando sentono piacere nell’abbracciare i loro bambini piccoli, o a profondersi in tanto orgogliosi quanto narcisistici atteggiamenti di compiacimento che esaltano l’esistenza dei loro piccoli. Tale gioiosità è espressa però in maniera espulsiva come manifestazione urgente di un bisogno orale delle madri stesse. In sostanza queste madri frettolose, spesso non autentiche (Winnicott, 1965), esauriscono il loro bisogno nel momento stesso del loro agire gli impulsi affettuosi. Quando il bambino raggiunge l’età di fanciullo tale esaltazione scompare. Il bambino grande, diventato preadolescente o adolescente, pur avendo percepito nel passato il vuoto psichico presente nella madre, si è illuso al tempo stesso di essere amato e sente ora il bisogno di portare avanti le illusioni al fine di conservarle in se stesso. Un’ipotesi consiste nell’immaginare un modello simile sul quale questi adepti ricostruiscono una relazione con la setta. L’adolescente o l’adulto adepto si affida alla setta e i suoi fini acquistano sempre più valore al punto che le sue finalità divengono la motivazione essenziale della sua vita, che non avrebbe più senso lontano dalla setta e dal suggestionatore. Si instau-
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ra nell’adepto il “Sé ombra” in cui la persona appare del tutto dipendente dal suggestionatore. L’adepto diviene dipendente dal suo stato di sottomissione, mentre il suggestionatore d’altro canto diventa dipendente dalle sue condotte suggestive (Zablocki, 1998). Se prendiamo in esame gli obiettivi delle sette, distinguiamo (Barresi, 2006): – ordini religiosi con riti pubblici; – culti carismatici con una guida carismatica a livello spirituale e materiale; – culti ufologici; – culti provenienti dalle religioni orientali; – società terapeutiche; – società rivoluzionarie, politiche, utopistiche con aspirazione a rovesciare l’ordine precostituito di riferimento; – gruppi satanici; – gruppi di purificazione mediante la fratellanza, l’amore, l’amicizia; – gruppi di potere economico e politico; – gruppi di trasgressione con riti a base di droghe, sesso estremo e violenza; – società iniziatiche che utilizzano rituali per praticare l’esoterismo. I piercing e i tatuaggi costituiscono riti di iniziazione per invitare i giovani a fare parte di un culto tribale; talvolta riproducono immagini blasfeme, sataniche, esoteriche. In passato e ancora oggi, presso alcune popolazioni, il tatuaggio assume una componente magica e scaramantica, funge da amuleto contro gli spiriti malvagi, i pericoli e i malanni, serve a propiziare gli spiriti benigni (Gnecchi Ruscone, 1996). Il simbolo, il tatuaggio impresso sulla pelle rappresenta un marchio di distinzione, diventa il sommozzatore dell’inconscio, il Sé personale dell’individuo (Casadei, 1997). Il soggetto tatuato afferma se stesso, la propria identità personale o di gruppo. I giovani di oggi scelgono sempre più un linguaggio che ha conseguenze permanenti sulla naturale configurazione del corpo. I disegni sono ormai apprezzati soprattutto per le loro qualità ornamentali ed estetiche, ma permane il ricordo delle loro valenze magiche e terapeutiche. Presso le subculture giovanili si assiste a un’esposizione violenta e aggressiva del corpo che porta a usare il corpo stesso come veicolo per manifestare la propria identità e appartenenza. Il mezzo per esprimere significati si è trasferito al corpo, per segnalare con maggiore forza e durata la propria identità; il motivo impresso sulla pelle sembra essere ancora la rivelazione perenne di qualcosa di sé e un inno alla diversità e alla libertà, all’interno di un’identità che sfugge o è stereotipata (Salvioni, 1996). Ai nostri giorni tali rituali sembrano unicamente correlati alla noia (Maggini, Dalle Luche, 1991), cioè all’angoscia che ne deriva, al non sentirsi e alla mancanza di senso d’identità, quella progettuale. L’Ego non è a capo del Sé, i giovani esasperati non si percepiscono liberi e in grado di autogovernarsi. La manipolazione della pelle in modo indelebile e irreversibile rappresenta una modalità per esprimere i conflitti; la maggior parte del disagio e della sofferenza psichica viene espressa dal giovane mediante il corpo, luogo di espressione e di comunicazione di conflitti profondi. Forare il corpo riconduce alla simbologia appartenente al buco, lo spazio sacro, la rappresentazione della paura, del vuoto, lo sprofondare nell’ignoto. È un mettere alla prova i propri timori, uno sperimentare la propria resistenza al dolore fisico, allo scopo di rinnovarsi. Coesistono processi di
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identificazione con modelli idealizzati, di imitazione nel gruppo di coetanei, di ricerca individuale di un miglioramento di vita, di critica e di opposizione alla società, di malessere profondo; coesistono, altresì, la volontà di trasgressione e la necessità di un riscatto esistenziale (Pietropolli Charmet, Marcazzan, 2000). Questo bisogno di riconoscimento, di appartenenza e di differenziazione si esprime con evidenza proprio nel campo delle scelte in apparenza puramente estetiche delle quali dotarsi per soddisfare il bisogno di sentirsi a posto con se stessi e in pace con gli altri. Il corpo diventa il significante di Sé e della propria storia, si fa mappa, supporto materiale su cui incidere e marchiare tratti o esperienze significative come l’ingresso in una setta. Sia il tatuaggio, sia il piercing hanno come oggetto di riferimento in prevalenza il Sé del soggetto, rispetto al quale assolvono funzioni di rispecchiamento e di sostegno identificatorio. Il tatuaggio, a differenza del piercing, va a imprimersi in una zona più profonda del Sé. Esso ha una forte valenza simbolica, permette all’individuo di identificarsi con le suggestioni proposte dal potere evocativo e immaginativo del disegno. Il tatuaggio porta sulla superficie del corpo la parte di Sé, la iscrive sotto la pelle e la rende immortale. Proprio per il suo carattere permanente, il tatuaggio pone in primo piano una componente basilare della dimensione intrapsichica, specialmente nel corso dell’età dello sviluppo, vale a dire quella del cambiamento e del tempo. La scelta di farsi un tatuaggio o un piercing risulta indotta da stimoli provenienti dall’esterno, riguardanti i bisogni di comunicazione e di socializzazione con i coetanei. Il fine consiste nel riuscire a ritagliarsi uno spazio nella considerazione degli altri; chi non è in grado di distinguersi dalla mischia diviene invisibile, non nasce come individuo sociale. Di conseguenza, viene portato all’esterno, sulla superficie del corpo tutto quello che può servire a proteggere l’individuo dall’anonimato, costituendo così un guscio che protegga il Sé fragile, insipido (Pani, Ferrarese, 2007). Tali soggetti investono, quindi, in pratiche rivolte a manifestare la propria esistenza come persone autonome ricorrendo ad agiti sacrificali e masochistici. L’indelebilità dei tatuaggi e in parte dei segni lasciati dai piercing può costituire un ulteriore segno di attrattiva verso queste pratiche, specialmente se si sta andando alla ricerca di un segno che trasmetta parti essenziali e importanti del proprio Sé. Piercing e tatuaggi possono pertanto avere una funzione di comunicatori sociali immediati e non verbali, sanciscono l’appartenenza, fanno sentire simili, accomunati, complici; viceversa, possono servire a distinguersi, a differenziarsi assumendo un significato trasgressivo, un segno di ribellione, una modalità di consacrare l’appartenenza a un sottogruppo, a una setta che si distingue da una normalità connotata negativamente. Il dolore insito in tali pratiche aggiungerebbe valore, potrebbe rappresentare una prova, una dimostrazione di forza e coraggio e, talvolta, sembra ricercato per sé (Pietropolli Charmet, Marcazzan, 2000). Il corpo tatuato e bucato regala al soggetto l’illusione di esserci; il tatuaggio e il piercing costituiscono difese dall’angoscia dell’invisibilità sociale, sono richieste di riconoscimento, rappresentano un bussare allo sguardo dell’altro per chiedergli uno sguardo di ritorno, un cenno di assenso o di dissenso; l’importante è che qualcuno si accorga della nascita di un nuovo soggetto sociale (Pani, Sagliaschi, 2008b).
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2. Le sette sataniche Scrittori come Goethe, Dostoevskij, Baudelaire hanno seriamente considerato l’esistenza di Satana. Il termine satanismo (culto reso a Satana) si riferisce a ciò che è subordinato all’azione di Satana, o consacrato all’antagonista di Dio, o invaso dal suo spirito. La versione greca della Bibbia denominata dei Settanta traduce Satana con Diabolos (= chi divide e corrompe); nel Nuovo Testamento il diavolo rappresenta un’entità attiva, intraprendente, astuta, collerica, violenta e viene identificato da Gesù come Beelzebul (principe dei demoni); nell’Apocalisse il diavolo diviene il dragone, l’antico serpente. Lo stereotipo di Satana ci riporta al periodo egizio, dove il modello più antico del principe delle tenebre veniva identificato in Seth (3200 a.C.), ritenuto l’archetipo della consapevolezza di sé, dell’ampliamento della vita e della rinascita interiore dell’essere. Nel periodo prossimo al declino dell’impero romano, Satana veniva raffigurato come Pan, dio greco del terrore, diventando perciò il diavolo. Quindi, Seth e Satana indicavano il male e la negatività dai quali occorreva tenersi distanti (Stanzione, 2010). Possiamo ritenere il satanismo una forma di religiosità che predica la ribellione a Dio e pratica il culto dello spirito del male (Fiori, 2000). Il culto satanico può essere considerato un culto idolatrico che alcune persone rendono a Satana; i cultori di Satana, nei loro riti, possono ricorrere a pratiche magiche e divinatorie, sovente unite a illusorie osservanze. Più nello specifico il culto satanico sarebbe una forma di superstizione idolatrica. Il termine superstizione inerisce a ogni peccaminoso abuso del culto dovuto unicamente al vero Dio. Differenziamo il culto superstizioso conferito erroneamente al vero Dio tramite un culto falso (non consono alle regole delineate dalla Chiesa con l’autorità di Dio), o mediante un culto superfluo (utilizzo abnorme di cerimonie strambe), e il culto superstizioso offerto ai falsi dei con alcune tipologie di pratiche superstiziose (Mastronardi, De Luca, Fiori, 2008): – l’idolatria (culto divino prestato a una creatura). Il culto divino viene rivolto all’immagine di una falsa divinità, a un idolo, ritenendolo Dio o con il convincimento che esso possegga un potere divino, oppure viene rivolto ad altre creature (ad esempio, forze della natura); – la magia. Volontà di generare conseguenze esteriori relazionandosi con spiriti extraumani. Il mago e chi a lui si indirizza invocano l’ausilio di una creatura allo scopo di ottenere benefici spirituali e materiali; – la divinazione. Presunzione di conoscere accadimenti futuri legati al caso o alla libertà umana. Tra le pratiche divinatorie annoveriamo la chiromanzia (lettura della mano al fine di conoscere il carattere e lo stato fisico e psichico di un individuo), la cartomanzia (predizione del futuro attraverso le carte), la negromanzia (evocazione dei morti a fini divinatori), l’oniromanzia (interpretazione superstiziosa dei sogni), la nechiomanzia (osservazione della salma, specialmente in putrefazione, tendini, ossa per predire il futuro; ma anche prassi divinatoria fatta mediante oggetti che hanno avuto contatto con il cadavere), l’antropomanzia (sacrificio umano allo scopo di leggere il futuro tramite l’osservazione degli ultimi istanti di vita della vittima). Le Sacre Scritture vietano sia la magia, sia la divinazione, rappresentanti entrambe una sorta di superstizione;
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– la vana osservanza. Per conquistare il benessere fisico e mentale, per provocare danni alle cose e alle persone vengono impiegati parole magiche, talismani (possiedono una forza attiva contro il male), amuleti (hanno una funzione protettiva), gesti di scongiuro (ad esempio, toccare ferro, fare le corna). Dal punto di vista dei satanisti, il satanismo può essere ritenuto sinonimo di individualismo, egoismo, ostilità verso ciò che intralcia il conseguimento del piacere; l’uomo costituisce l’unica divinità e Satana il simbolo da adorare; il satanista non deve pregare perché deve badare da solo a se stesso (Buonaiuto, 2005; Stanzione, 2010). Secondo il grado di coinvolgimento psicologico e sociale potremo trovare (Mastronardi, De Luca, Fiori, 2008): – gruppi pubblici, organizzazioni sociali (ad esempio, il Tempio di Set, la Chiesa di Satana) non opposte alla legge, ma a favore di una fratellanza mistificante e servile; – soggetti dilettanti, soggetti affetti da disturbi psichici che ricorrono al satanismo come pretesto per “razionalizzare” tematiche demoniache tratte da libri, musica rock, cinema; – complotto segreto nazionale, al quale prenderebbero parte persone di potere e avrebbe anche legami internazionali; – gang criminali, associazioni a delinquere formate da satanisti violenti. Soffermiamoci ora sulle tipologie dei culti satanici. Del Re (1994) identifica le persone che appartengono all’occultismo e al satanismo: – satanisti tradizionali, individui di età diverse che si associano a organizzazioni basate sull’adorazione di Satana e praticano rituali stabiliti. Questi satanisti possono arrivare a compiere reati (ad esempio, l’abuso rituale dei bambini); – satanisti occasionali o sperimentali, si tratta perlopiù di adolescenti che usano Satana come pretesto per comportarsi in un determinato modo quando sono in gruppo. Si caratterizzano per il comune interesse rivolto a morte, magia, canzoni dissacratorie, simboli dell’occulto, esternazione della loro ideologia mediante tatuaggi, vestiario bizzarro. Possono arrivare a commettere atti criminali (vandalismo, sacrifici di animali); – satanisti autonomi, soggetti sociopatici e/o criminali privi di sensi di colpa appartenenti a piccoli gruppi che motivano le loro azioni malvagie attribuendole al volere del diavolo; – sciamani isolati, messaggeri di entità soprannaturali che devono trasmettere un messaggio nel mondo dei vivi. Questo sciamanesimo si mescola allo spiritismo fondato sull’esistenza e nelle manifestazioni degli spiriti, spesso irrompe nel satanico e nel criminoso; – mansonisti (fedeli di un Satana incarnato), soggetti di ogni età che seguono la dottrina di un “leader” tipo Charles Manson, il quale – tramite manipolazione mentale e droghe – esercita notevole influenza sugli affiliati inducendoli a commettere reati in nome del bene del gruppo; – pagani e neopagani, persone che utilizzano riti contenenti pochi elementi satanici, seguono le tradizioni del paganesimo di origine druidica e i punti di riferimento sono le divinità nordiche;
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– congreghe lilithiane, nell’immaginario satanista Lilith (il buio-del-buio) necessita di sangue e dolore più di Satana; in questi covi la trasgressione è totale perché si ritiene che solo il male peggiore sia in grado di soddisfare la dea Kalì (nella mitologia indiana è la dea distruttrice). Con Introvigne (1990) individuiamo i satanisti: – psicotici, presentano forme psicopatologiche; – anticristiani, imitano la messa cattolica e profanano l’eucarestia; – baphomettisti, adorano Satana come Signore della terra raffigurato dall’idolo Baphomet (diavolo visto come una creatura metà umana e metà ariete); – selvaggi, legati al mondo della droga, credono di incontrare il diavolo durante i loro viaggi mentali; – sadomasochisti e sesso orgiastici, dediti a pratiche eterosessuali/omosessuali; – razionalisti, usano il satanismo per rendersi liberi dalle superstizioni cristiane; – carismatici, credono che Satana sia la guida indispensabile per sottrarsi al mondo crudele per colpa di Dio; – tradizionali, operatori dell’occulto che su richiesta dei clienti attuano filtri d’amore, fatture, lettura di carte, ecc.; Introvigne descrive, inoltre, alcune categorie di satanismo: – satanismo occultista, accoglie la visione del mondo tracciata dalla Bibbia, collocandosi dalla parte del diavolo; – satanismo acido, il culto di Satana è un’attenuante per atti immorali (abusi sessuali e psicologici, orge, ecc.); – satanismo razionalista, ritiene Satana l’emblema del Male e vede il mondo come anticristiano, immorale ed edonista; – luciferismo, idolatra Lucifero o Satana. Ancora, Barresi (2006) distingue il satanismo: – religioso, l’affiliato crede in modo assoluto alla divinità infernale verso la quale manifesta totale devozione; – ludico, il soggetto si avvicina al culto più per gioco che per convincimento religioso; – schizofrenico, il seguace aderisce al culto secondo una modalità psicopatologica; – acido, gli adepti sono in genere adolescenti facenti uso di droghe e alcol; – sessuale, il culto satanico diviene un mezzo per esternare le proprie pulsioni sessuali. In relazione al fatto che i seguaci di un culto satanico pratichino il satanismo con altre persone o da soli, potremo avere (Barresi, 2006): – satanisti di gruppo o organizzati. Alcuni individui condividono con altri il loro credo; i vincoli di adesione risultano sovente molto forti. Possono essere suddivisi in satanisti a) carismatici (soggetti aventi molto carisma che fondano il gruppo satanico assumendo il ruolo di leader); b) tossicodipendenti (si associano a un gruppo satanico al fine di assumere droghe che verrebbero date nel corso delle celebrazioni di alcuni riti satanici); c) parafilici sessuali (individui che “regolarizzano” le proprie perversioni sessuali aderendo a un gruppo satanico); d) ludici (adolescenti o adulti che si divertono con le pratiche sataniste. Per gli adolescenti diviene un modo per accostarsi al mondo del sesso al-
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ternativo, per gli adulti assume una connotazione goliardica); e) egotici (professano un credo satanico sprezzante nei confronti della collettività e fondato sul potenziamento delle proprie virtù fisiche e sessuali); – satanisti intermedi. Si tratta di persone che talvolta praticano il culto da sole, talora in gruppo; – satanisti solitari o disorganizzati. Sono soggetti che non si associano ad alcun gruppo satanico, esercitano il loro culto segretamente e in autonomia nelle loro abitazioni. Questa categoria può includere i satanisti a) solitari reali (a volte senza famiglia, professano il loro credo intimamente e non esternamente); b) professionali (maghi professionisti, operatori dell’occulto, ciarlatani che diventano ricchi suggestionando clienti imprudenti e ingenui, speculano sulla credulità di chi pensa di risolvere i problemi attraverso la magia); c) ludici (adolescenti che giocano a fare i satanisti con formule magiche acquisite mediante testi sull’occulto); d) egotici (individui che in solitudine professano un culto satanico denigratorio verso la società e basato sull’incremento delle proprie potenzialità fisiche e sessuali); e) deliranti schizofrenici/ebefrenici (psicotici che immaginano divinità infernali alle quali asservirsi). Se consideriamo le più profonde motivazioni, i satanisti possono essere classificati in (Mastronardi, De Luca, Fiori, 2008): – purificatori, agiscono al fine di riparare la negatività raccolta dal genere umano; – propiziatori di controllo sulla vita e sulla morte, operano per fortificare la stima di sé anche a scopo dimostrativo sugli adepti; – ingrazianti la divinità, al fine di assumere il potere indispensabile al controllo sociale; – ringrazianti la divinità stessa, con la finalità di ringraziare la divinità dopo che questa si sia manifestata; – orgiastici, prologo e/o vertice di rituali erotico-religiosi di edonismo e fecondità anche ricorrendo all’uso di droghe; – alla ricerca di approvazione gruppale, in genere siamo in presenza di persone introverse che desiderano essere accettate; – trasgressori transgenerazionali, cercano modalità comportamentali perverse ed estreme; – sensations’ searcher, tentano di vivere forti sensazioni, con o senza droghe; – connotati da proposito di procurarsi materiale umano da impiegare a fini rituali, procacciano liquidi e tessuti biologici, ossa, organi per la preparazione di filtri vari e cerimonie; – omicidi seriali per guarigione, il satanismo può spingersi fino al crimine. Ad esempio tra le popolazioni del Corno d’Africa vi è la convinzione che uccidendo una vergine, succhiandone il sangue e reiterando il rito a intervalli di tempo regolari, sia possibile guarire da determinate malattie. Dobbiamo però distinguere il satanismo degli adulti dal satanismo giovanile. Il satanismo degli adulti include gruppi che hanno una continuità dottrinale, rituali, capi identificabili, sedi, alle volte anche pubblicazioni. Il fatto che i capi siano adulti non esclude che, talvolta, alle attività possano partecipare anche minori. Il satanismo giovanile (definito anche satanismo acido per la sua frequente associazione
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con la droga) risulta formato da gruppi di minorenni (rarissima la presenza di qualche adulto), privi di una continuità organizzativa e rituale e di contatti con i gruppi del satanismo organizzato, che mettono in scena rituali satanici selvaggi o semplici sotto l’influsso di film, fumetti, programmi televisivi e di una certa subcultura musicale. In genere i loro rituali tipici includono sacrifici di animali (molti gatti neri scompaiono ogni anno in Italia: vengono sacrificati durante riti satanici), atti sessuali accompagnati dalla rottura di un crocefisso o di un altro simbolo cristiano, profanazione di chiese e di cimiteri. Ci sono poi i pervertiti sessuali che, senza credere né a Dio né al diavolo, si servono di pretesti e mascherate sataniche per attirare giovani ingenui nelle loro attività. Non dimentichiamo i pervertiti feticisti che entrano in contatto con criminali per ottenere ossa trafugate in cimiteri e, nei casi più gravi, parti del corpo di persone assassinate. Infine, in alcuni ambienti della criminalità organizzata si celebrano riti magici, talora con incantamenti o filastrocche, dove si nomina il demonio, come scongiuri in funzione propiziatoria per il successo delle imprese criminali. In questi riti rientra talvolta l’uso di parti del corpo di nemici uccisi e di sangue (Introvigne, 1997; Lo Verso, 2010; Petersen, 2009). Ci sembra che in alcune di queste distinzioni settarie, comprese talune con caratteristiche delinquenziali, si possa trovare un comune denominatore psicodinamico: si tratta di perversi psicopatici le cui strutture di personalità, essendo assai labili individualmente, trovano nel gruppo al quale riescono ad appartenere un’ipotetica sponda di rinforzo stabile e illusorio come risposta al loro senso di identità, che è senza bussola (de Polo, 2007). La loro esplosiva aggressività mischiata al perverso gusto del macabro, del malvagio, del cadaverico, del sacrificio rituale offre una falsa forza psichica che conferma l’esistente. Avviene quel che Sigmund Freud e, in seguito, la figlia Anna con L’Io e i meccanismi di difesa (1936) chiamavano “formazione reattiva” e “trasformazione nel contrario”: se io provo odio per il mio fratellino che è appena nato, ma questo è un guaio per i miei genitori e non va bene che io sia cattivo, allora trasformo il mio odio in grande amore per il mio fratellino. Nel caso degli adepti, anziché la morale, entra in gioco il senso di Sé e della propria identità: quel che il mondo crede che esista, Dio buono, noi crediamo che non esista. Se A è = A, noi crediamo che sia invece = NON-A. Non si tratta realmente di energia sessuale (come voleva Freud), energia che si attiverebbe in questi soggetti perché a livello biofisiologico gli elettroni circolanti nel nostro corpo non sarebbero in grado di accendere nemmeno una lampadina, ma di pura iper-maniacalità paranoica o parafrenica dovuta ad affetti mancanti o distorti. In tal modo gli adepti, appropriandosi di un’etica religiosa, proprio rovesciandola nel suo contrario, se ne impadroniscono automaticamente dando un senso morale alla loro vita perversa. È come se il pensiero del seguace fosse il seguente: io prendo atto che Dio esiste e predica il bene, ma lo contesto e credo al demonio che più male produce, più dimostra di essere potente, e io sarò al suo fianco. Il mondo è cattivo ma io più male faccio, più sarò forte e potente, così sento di esistere. Quali sono le origini del satanismo? In Francia, intorno al 1680, alla corte di Luigi XIV Catherine La Voisin e alcuni sacerdoti cattolici rinnegati celebravano messe nere (collegate a riti sessuali-orgiastici) a favore di certe dame di corte che invocavano il diavolo per ottenere benefici materiali. In Italia, nel XVIII secolo,
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venivano celebrate messe nere all’ombra della Massoneria (Maggioni, 1997). In Inghilterra, nel XVIII secolo, nasceva un satanismo ludico e anticlericale tra i libertini della Società di San Francesco. Nel XX secolo, in Inghilterra, Aleister Crowley (1875-1947), il mago nero, produceva scritti e rituali ai quali si uniformano il satanismo del XX secolo e quello contemporaneo. Crowley viene ritenuto il padre del satanismo moderno; tra i suoi interessi spiccano la droga e la magia sessuale che congiungono erotismo ed esoterismo. Egli fondò a Cefalù l’abbazia di Thelema in cui praticò la magia, fu anche imputato di eseguire sacrifici umani e quindi fu espulso dal regime fascista. La filosofia di Crowley può essere sintetizzata con “fai ciò che vuoi”, ossia la superbia dell’uomo di vivere senza limiti e senza regole e diventare Dio (Wilson, 1987; Zoccatelli, 1998). Negli Stati Uniti, nel 1961, Anton Szandor LaVey (1930-1997), il Papa nero, fonda dapprima il Magic Circle e, in seguito, nel 1966, fonda la Chiesa di Satana che si presenta come un’istituzione religiosa che si limita a divulgare la sua dottrina satanica senza commettere reati (LaVey, 1969). Con LaVey possiamo parlare di un satanismo razionalista in cui Satana diventa il simbolo di una visione del mondo anticristiana ed edonista. Nel 1975 Michael Equino fonda il Tempio di Set; con Equino possiamo invece parlare di un satanismo occultista o tradizionalista in cui si accettano i precetti basilari della Bibbia, pur schierandosi dalla parte opposta (Introvigne, 1996; Stanzione, 2010). Sembra che nel satanismo odierno siano confluiti rituali di origine afroamerindiana. I culti afroamerindiani sono noti per i riti di magia nera (dai poteri diabolici e con fini malefici), soprattutto quelli vudu (termine sinonimo di stregoneria, maleficio in relazione ai culti afroamerindiani diffusisi con l’importazione di schiavi neri nell’America centrale e meridionale). Inoltre, il credo delle tribù amerindiane si fonda sull’animismo-feticismo ed è caratterizzato dallo sciamanismo, fenomeno religioso peculiare della Siberia e dell’Asia centrale i cui sciamani possiederebbero poteri ultraterreni (Burzio, 1998; Canova, 1985; Del Zotti, 1976; Lattuada, 1989). Nel mondo esistono numerose sette sataniche (Boschetti, 2008; Gatto Trocchi, 1994; Introvigne, 1994). Tra le sette sataniche internazionali citiamo la Chiesa di Satana di LaVey (1969) con adepti anche in Italia. Il satanismo rappresenta un fenomeno vincolato dal segreto al quale gli adepti devono scrupolosamente attenersi. Alla base dei principi dei satanisti vi sarebbe l’idea che la legge morale e l’etica condivisa siano condizionamenti sociali da distruggere perché d’ostacolo all’esplicazione dei poteri magici di dominio sugli altri (Gatto Trocchi, 2005). Tra i rituali legati al satanismo ricordiamo la messa nera che rappresenta la dissacrazione della messa cattolica (vengono recitate le preghiere, come il Padre nostro, al contrario a significare il desiderio di capovolgere i valori cristiani; vengono usate ostie consacrate precedentemente rubate), l’invocazione dei demoni, il cerchio magico, il patto con Satana il cui fine è di ricevere dal demonio beni e vantaggi materiali e il prezzo del debito sarà pagato al momento della morte o in un altro momento scelto dal diavolo (Stanzione, 2010). Notiamo che spesso i riti satanici e le messe nere terminano con orge nelle quali dominano il sesso patologico e la violenza.
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Citiamo alcuni crimini sanguinari (satanismo criminoso) perpetrati nel nome di Satana, dietro ai quali c’è l’ombra dei gruppi settari. Nell’agosto 1969 l’attrice Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, venne uccisa nella sua casa di Beverly Hills, insieme con alcuni amici, dai seguaci del satanista Charles Manson che aveva creato una sorta di movimento chiamato The Family (i seguaci includevano sbandati, vagabondi, studenti in cerca di emozioni, ecc.). Due giorni dopo i criminali entrarono nell’abitazione di un uomo d’affari, che uccisero insieme alla moglie. Gli omicidi erano stati preceduti, accompagnati e seguiti da orge rituali e assunzione di stupefacenti (Sanders, 1971). Da quell’epoca in tutto il mondo molti sono stati gli omicidi dettati da ragioni simili. Più recentemente nel giugno 2000, in provincia di Sondrio, a Chiavenna, tre ragazze (una di sedici anni e due di diciassette anni) uccisero, con diciannove coltellate, la madre superiora dell’Istituto Immacolata di Chiavenna, dopo averla attirata di notte in un sentiero buio e isolato del parco con un falso pretesto. Scoperte e arrestate dai carabinieri dopo tre settimane, dissero inizialmente che il loro intento era di fare un gioco al fine di combattere la vita tediosa; in seguito dichiararono di aver voluto compiere un sacrificio a Satana. Dalle indagini emersero aggiuntivi particolari circa la passione delle ragazze per l’esoterismo, i simboli diabolici (come la croce rovesciata significante il capovolgimento dei valori del cristianesimo e il numero 666, numero biblico dell’Anticristo) e il rock satanico, alcuni riti satanici attuati dalle omicide nel periodo precedente l’assassinio della suora (Mariani, 2006; Murgia, Di Chio, 2005). Il gruppo Bestie di Satana, nato nella seconda metà degli anni Novanta, venne identificato nel 2004. Composto di giovani della provincia di Varese, si rese responsabile di efferati delitti e induzione al suicidio sotto l’influsso di droghe in assenza di tipici simboli satanici, benché gli adepti condividessero una specie di mentalità parasatanica (satanismo acido). I rituali a base di sostanze psicotrope, assunzione di minime quantità di sangue, incisioni sulle braccia sembrano avere avuto la funzione di aumentare la coesione del gruppo e la sua chiusura verso il mondo circostante. I criminali avrebbero ucciso e indotto al suicidio al fine di portare all’assoggettamento i componenti della setta (Mastronardi, De Luca, Fiori, 2008; Moroni, 2006; Offeddu, Sansa, 2005). Fin dal 1987 si ipotizza che i delitti del mostro di Firenze iniziati nel 1968 siano omicidi rituali di tipo occulto-satanico-esoterico, perpetrati da una misteriosa lobby di origine toscana (Cecioni, Monastra, 2002; Filastò, 2005; Gariani, 2003; Lavorino, 1994; Medail, 1987; Spezi, 1983). Il fondatore della setta Bambini di Satana, con sede a Bologna, e altre due persone nel 1996 furono arrestati con le imputazioni di associazione per delinquere finalizzata a violenza carnale, ratto a scopo di libidine e violazione di sepolcri. Ricordiamo che se un soggetto si professa satanista o costituisce un’organizzazione votata al satanismo non risulta perseguibile legalmente, salvo che violi la legge. Tra i reati commessi dai satanisti tradizionali annoveriamo la violenza sessuale, l’occultamento di cadavere, il vilipendio, il sequestro di persona, la circonvenzione d’incapace, la truffa, l’induzione, l’estorsione, il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione. Spesso si tratta di eventi che non vengono denunciati perché la vittima prova vergogna e teme ritorsioni. La condotta criminale dei satanisti soli-
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tari è sovente connessa a specifiche mode e culture musicali. I satanisti che agiscono in gruppo possono commettere crimini come gli atti sessuali con minori, la violenza di gruppo, furti di oggetti sacri e ostie consacrate, traffico di organi, vilipendio di cadavere, vilipendio delle tombe, sottrazione di cadavere, istigazione al suicidio, omicidio. In genere la scena dei delitti si presenta multiforme, secondo i riti celebrati. Con Sini (1993) possiamo ritenere la musica come ricerca del ritmo vitale, un incanto capace di superare i limiti di uno spazio convenzionalizzato, di un tempo sociale fatto di un progresso dal quale i giovani si sentono tagliati fuori. Da molto tempo parte della musica è stata associata non all’incontro di un luogo interiore nel Sé, ma all’uso di ogni tipo di droga, all’ideologismo settario, quello che illude con la sua appartenenza suggestiva allo scopo di vincere il timore delle relazioni. La musica rock è stata spesso accusata di contenere in alcune canzoni messaggi nascosti (messaggi subliminali rovesciati consistenti nella registrazione di una frase al contrario che rappresenta un inno a Satana; e messaggi bifronti nei quali brani del testo normale, se letti al contrario, possono celare frasi racchiudenti messaggi opposti al senso generale del testo, non individuabili in un ascolto convenzionale del brano) di contenuto satanico (Climati, 1996; Cosco, 1996; Salin, 2006). Sono molti i gruppi che invitano al nichilismo, alla violenza, al culto del diavolo (Di Nola, 1994). Citiamo, ad esempio, il primo riferimento al mondo satanico che appare sulla copertina del disco Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles (1967) in cui risalta l’immagine di Aleister Crowley, padre del satanismo moderno; la canzone Tops (Vette) dei Rolling Stones (1981) conterrebbe la frase “I love you, said the devil” (Ti amo, disse, il diavolo); One Vision (Una visione) dei Queen (1986) nasconderebbe la frase “Oh, my sweet Satan, I’ve been sabba” (Oh, mio dolce Satana, ho visto il sabba) (Baroni, 1997). Se si ascolta al rovescio la frase And the Voices of those who stand looking inclusa nel disco dei Led Zeppelin si sente I’ve got to live for Satana. I Led Zeppelin sono tra i primi gruppi rock a utilizzare simboli satanici sulla copertina di un disco. I Kiss si chiamano così perché la sigla è formata dalle iniziali delle parole Kings In Satan Service; ricordiamo che i kings sono i ministri ordinari del culto di Satana. In questo modo la setta satanica si confesserebbe, anche se utilizzando un modo cifrato (Balducci, 1991; Casillo, 1996) (Benvenuto, 2000). L’album Antichrist superstar di Marilyn Manson (1996) contiene molti riferimenti simbolici alle discipline occulte; l’artista è stato anche accusato di avere ispirato con le sue canzoni azioni violente e suicidi da parte di alcuni suoi fan (ricordiamo, ad esempio, la strage alla Columbine High School in Colorado nel 1999 e l’omicidio di Chiavenna del 2000 ad opera di tre ragazze, precedentemente citato, i cui diari riprendevano in modo ossessivo parti dei brani del rocker americano) (Aa.Vv., 1999). Il giovane inizialmente si appassiona alla musica, in un secondo momento sente il bisogno di saperne di più, di conoscere i testi delle canzoni e di accostarsi a una filosofia di vita trasgressiva. Dalla ricerca sul web di pagine riservate a cantanti di rock satanico si rischia di passare alla ricerca di pagine dedicate a sette, a newsgroup frequentati da esoteristi e satanisti. Il ragazzo può così arrivare a contattare, anche tramite posta elettronica, una setta. La setta rappresenta per il giovane una forma di trasgressione, una vita spericolata.
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Il New Age, come accade con il rock satanico, utilizza la musica per diffondere le sue idee; si tratta di una corrente di pensiero in cui convivono diverse religioni, filosofie e pratiche esoteriche. Molte persone non sanno in cosa consista, lo vivono inconsapevolmente assimilandone i comportamenti e le ideologie (Ferrarotti, 1999; Vernette, 1990). La musica, pur empia, dissacrante, traumatica e trasgressiva, funziona nei giovani come un’immissione di purezza che si infiltra nel reale, ciò che noi umani possiamo modificare quando siamo attivi e desiderosi di cambiamenti. Infatti, per Lacan (1961) il reale corrisponde a una realtà che ci circonda, modificabile con le nostre azioni, in contrapposizione al NON-Io di Freud, inteso come realtà esterna in generale e non modificabile. La musica con la sua lirica spesso assordante e disarmonica avvicina i giovani all’amore e può vincere provvisoriamente il vuoto della loro anima. La musica nei giovani può condurre all’intimità dell’assoluto, al distacco dal pieno (Dorfles, 2008); ma, una volta che tale sensazione di libertà svanisce, ecco che ritorna il senso del pieno, dell’inutile, dell’ingombro che non fa respirare, elementi beta come afferma Bion (1962). Quando questi giovani si liberano di questo ingombro, lo rigettano all’esterno, all’interno di Sé ritorna il vuoto e da questo nasce il bisogno compulsivo di consumare e quindi di dipendere da oggetti non significanti, ancora elementi beta, materiale indigeribile perché privo di senso, considerato tanto ingombrante quanto inutile. Allora i giovani entrano nel giro del gruppo dei bulli, o creano gruppuscoli settari e le ragazze spesso si abbandonano alla suggestione della superstizione e del potere fittizio. Oltre a non sottostimare il potere comunicativo delle canzoni, occorre prestare attenzione anche a film, telefilm, fumetti che – se usati in modo sbagliato – possono rappresentare il primo passo di un avvicinamento al mondo dell’esoterismo. Alcuni telefilm come Buffy, Streghe, trasmettono falsi messaggi che fanno credere a chi li guarda che la magia possa risolvere tutti i problemi. Telefilm come X-files concentrati su fenomeni paranormali, satanici possono offrire ai giovanissimi un messaggio di sfiducia, di rinuncia a confidare in qualsiasi valore che potrebbe contribuire a portare al nichilismo, alla cultura del nulla. Il canale di diffusione del satanismo, in particolare tra i giovani, è rappresentato da internet, dove si trovano infinite pagine create da sette o da satanisti isolati per divulgare le proprie ideologie e creare comunità virtuali di appassionati del genere. Alcuni siti osannano in modo esplicito forme criminali (violenze sessuali, omicidi, suicidi, ecc.) che possono adescare individui suggestionabili e con profili di personalità a rischio (depressi, sadici, ecc.). L’argomento delle sette sataniche viene trattato in alcune pellicole cinematografiche. Nel film Rosemary’s baby (1968), di Roman Polanski, Rosemary (Mia Farrow) e il marito Guy Woodhouse (John Cassavetes), attore a inizio carriera, vivono in un elegante palazzo newyorkese. Rosemary rimane incinta (fecondata a sua insaputa) e il marito comincia ad avere ruoli più importanti. Tutto va per il meglio, ma con il tempo la tranquillità di Rosemary degenera in paranoia, in allucinanti incubi notturni, ossessionata dall’idea che qualcuno con un enorme potere stia tramando su di lei e sul suo bambino. Gli strani accadimenti che avvolgono lo stabile e la pressante invadenza dei suoi sempre più misteriosi vicini, i coniugi Roman e Minnie Ca-
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stevet, convincono la donna di essere vittima di una setta satanica nella quale il marito è entrato a far parte. In Devil’s prey (2001), di Bradford May, nel bel mezzo della notte, lungo una strada piuttosto isolata, un gruppo di teenager rientra dopo una festa, e incidentalmente investe una ragazza. I ragazzi non sanno che questo sarà il minore dei loro guai, infatti la ragazza è in fuga da una pericolosa setta mascherata chiamata The Shadows, che la vuole sacrificare durante un rito segreto. Anche i cinque ragazzi diventano un nuovo bersaglio e, nel tentativo di fuggire alla pericolosa setta, cercano di raggiungere la cittadina più vicina. Nel film La setta (1991), di Michele Soavi, Myriam (Kelly Curtis) insegna in una scuola di Francoforte. Un giorno investe accidentalmente un anziano, sentendosi in colpa lo soccorre e lo porta a casa sua. L’uomo, che si comporta in modo insolito, le svela di essere il sacerdote di una setta che attende la nascita dell’Anticristo. Myriam è la predestinata a partorirlo. Violentata da uno strano animale, Myriam si ritrova incinta mentre attorno a lei nessun orrore viene risparmiato. Pensiamo che per ridimensionare o risolvere la diffusione delle varie pratiche sataniche sarebbe importante incominciare un lavoro di collaborazione tra i sistemi educativi (famiglia, scuola, università, strutture culturali, ecc.) al fine di sensibilizzare alla pericolosità del fenomeno e rafforzare il senso di appartenenza a una comunità caratterizzata dal dialogo, dall’ascolto e dall’accoglienza. Nell’adolescente la crisi d’identità e la ricerca di sicurezza possono indurlo ad avvicinarsi alle sette. L’insicurezza, l’assenza di valori di riferimento, la crisi di valori, la caduta dei valori familiari, la mancanza di sintonizzazione emotiva dei genitori con i loro bisogni profondi, la sfiducia verso le istituzioni porta a cercare il rifugio nell’edonismo, nel consumismo, nella cultura del corpo, nella ricerca di sicurezza attraverso rapporti gratificanti. Da questi sentimenti negativi origina l’attaccamento al provvisorio. I giovani credono di trovare nel mondo satanico e occulto un alleato per risolvere i problemi e si avvicinano con fiducia a esso, arrivando a compiere riti sacrileghi (ad esempio, furto di ossa nei cimiteri, di ostie consacrate) e persino assassinii come sacrificio da offrire a Satana. Molti giovani ammirano la natura trasgressiva di Satana, si lasciano sedurre da una vita all’apparenza libera e senza regole; si tratta però di una libertà che conduce a una nuova schiavitù (Stanzione, 2010). I giovani non sanno rispondere al perché stanno male. Il presente appare un calderone dove tutto è possibile e niente sembra esserlo realmente. Sono immersi in un mondo che promette di seppellire l’ansia, cioè quel senso di non avere una bussola di orientamento, ma si ritrovano in un vuoto senza nome, uno spazio dove le persone sprofondano. Spesso il bisogno di dipendere da qualcosa sembra necessario per sopportare il vuoto che si è impadronito di loro. Per questa ragione il punto nucleare di queste dipendenze, con o senza droghe, rimane il bisogno e la ricerca stessa dei giovani di qualcosa da cui dipendere. Gli interlocutori interni sono personaggi che, privi di un volto, si sono trasformati in persecutori e dominatori dell’Ego. I giovani vivono prevalentemente inconsistenza, deserto, assenza di valori o punti di riferimento. La ragione strumentale in realtà si utilizza soltanto a vantaggio della tecnologia; la tecnologia sofisticata illude le persone per poi deluderle, ma non risolve nei giovani il senso dell’esistenza, la latitanza dei sentimenti. Non c’è più arte del vivere consistente nel rico-
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noscere le proprie capacità e nell’esternarle secondo misura, né eu-daimon…a (realizzazione felice), non c’è progetto e non c’è promessa. Da terra madre si passa alla materia indifferente, dalle stelle alla polvere cosmica. La terra promessa che Platone aveva attivato nelle menti con il mito della biga alata era fatta di tensione verso l’idealità, oggi di un bieco ideologismo superstizioso. Il mondo interno sembra dominato da un interlocutore perturbante, l’ospite inquietante (Galimberti, 2007), che Nietzsche (1885-1887), chiama nichilismo (i valori supremi perdono ogni valore). Il vuoto interiore non si colloca tra bianco e nero, tra Dio e il mondo, ma tra il senso della totalità, l’onnipotenza magica del pensiero e l’implosione del nulla. Ogni contesto spazio-temporale viene annullato. Tutto assomiglia a un deserto infinito. Inoltre, senza il fine non troviamo il senso. Si studia con motivazioni solo utilitaristiche, troneggia un’educazione finalizzata alla sopravvivenza e dove appare implicito che ci si deve salvare da soli facendo leva sul Sé gonfiato a gigante e l’onnipotente delirio di autosufficienza, che annulla ogni sentimento e affievolisce i legami sociali e affettivi. Tra adolescenti si stabilisce un rapporto contrattualistico a causa del quale genitori ed educatori si sentono costretti a giustificare continuamente le loro scelte: un rapporto egualitario che annulla i ruoli. Tutti divengono amici diffidenti e non autentici, ma i figli rimangono soli perché non si sentono contenuti, né compresi nel senso della rêverie descritta da Bion (1962). I genitori, sentendosi sganciati dal rapporto con i figli, scelgono di diventare duri, rigidi, severi, oppure si trasformano difensivamente in seduttori per colmare la loro incapacità di ascoltare, comprano oggetti riparatori. Che cosa significa quel che Freud chiamava situazione edipica? Come incontrare il proprio padre nel senso di conoscerlo con autenticità, confliggere con lui, ma in seguito potere essere altro da lui, diventare cioè protagonista di una vita propria? Ciò non significa ignorare, ma al contrario sentire di avere dentro di Sé un ospite gradito che offre sicurezza, dignità, coraggio di esprimere le emozioni, nonché il disagio, le difficoltà del vivere. Freud’s last session (L’ultima seduta di Freud), l’interessante atto unico di Mark St. Germain in scena a New York nell’agosto 2010, rappresenta l’incontro di C.S. Lewis con Freud. Il regista immagina il dibattuto e reale incontro, ricco di valori, che il famoso scrittore ebbe con un Freud ormai morente. Come vecchio padre pessimista e scientista, Freud riesce a trasmettere attraverso alcuni tra i propri disvalori su Dio, la religione, la vita e la morte, l’incesto, l’omosessualità, pensieri dissacranti che però agli occhi di Lewis funzionano come pensieri sui quali ben riflettere per uscire dalla propria tradizionale ingenuità. Lewis è grato a Freud e viceversa. Freud da pessimista, probabilmente influenzato dalla propria imminente morte della quale era consapevole, è felice di avere avuto modo di comunicare, anche se per poco più di una lunga seduta, con un famoso scrittore inglese che, a sua volta, quasi come un figlio, gli ha trasmesso ottimismo e gli è stato di stimolo per pensare. Nei giovani, invece, i rapporti umani sono stati trasformati in rapporti contrattuali; hanno ucciso la famiglia all’interno della quale sarebbero state elaborate le ritualità, che rappresentano per i ragazzi un tutt’uno con la prerogativa di un tempo ormai passato di digerire le dipendenze infantili. Non avviene la separazione dal feticcio grigio, statico e amorfo dell’altro, di quel padre-madre che si presenta come persona preclusa all’introiezione dentro di Sé di un interlocutore utilissimo, ricco di risorse e di suggerimenti. Pertanto, l’autorevolezza non esiste più, ma esiste l’au-
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torità della polizia che sostituisce l’Edipo mai incontrato, controlla la rabbia nel quartiere e allo stadio, contiene il disordine e la violenza piena di rituali tanto superstiziosi quanto demenziali. La noia si è intrecciata con la bestialità. L’analfabetismo mentale si è fuso con l’ottusità e con il rituale nel quale la scissione superstiziosa e autosuggestiva tra bene e male, come aveva anticipato la Klein (1963), viene mantenuta perché in questi giovani non c’è evoluzione. L’azione patologica che fa sentire protagonisti gli spettatori, quando ovviamente non lo sono, diventa una buona occasione per esistere e uscire dal buio del vuoto e della non esistenza, un’occasione per esprimere eccitazione noradrenalinica, adrenalinica e dopaminica. Nei giovani rimangono tanti bisogni urgenti che debbono incontrollatamente essere appagati: anoressia, bulimia, compulsioni da gioco d’azzardo, internet come mezzo virtuale e magico, second-life, atti vandalici sui muri e sui monumenti cittadini, cleptomania, piromania, bullismo, stupri, fanatismo incontrollato negli stadi. Progetti e desideri, aspirazioni e passioni vengono dimenticati nel buio della notte. Quel che domina ovunque è rappresentato dall’insicurezza abbracciante le droghe per alimentare le emozioni ormai spente, che senza l’uso di sostanze appaiono incontrollabili. Infatti, le droghe eccitano mentre il soggetto si trova in uno stato dormiente, cosicché i giovani si illudono di controllare allo stesso tempo proprio quelle emozioni che spaventano quando sono troppo libere, ma che ciascuno vorrebbe padroneggiare con libertà. Tuttavia, il soggetto non può permettersi di muoversi con disinvoltura perché non si fida di Sé. Egli non può essere protagonista diretto, ma solo artificialmente, pena ansie persecutorie, fantasmi paranoidi. Autostima e auto-accettazione sono necessarie per incoraggiare i giovani ad avere progetti per il loro futuro e che attraggano con passione. L’autostima non ha a che fare con la presunzione, se non per il fatto che la sua mancanza genera atteggiamenti boriosi, onnipotenti, da bulli perché il Sé sentendosi debole e ferito cerca di autoripararsi con elementi fittizi, artificiali, inventati e sterili. Chi non è consapevole del fatto che l’apprendimento dipende non tanto dalla buona volontà quanto dall’autostima? Gli educatori possono domandarsi cosa sia più conveniente rinforzare, incoraggiare in una persona. Autoaccettazione significa che il Sé appare a se stesso abbastanza robusto tanto da tollerare alcune frustrazioni inevitabili. Queste frustrazioni non costringono i soggetti a perdere la stabilità dell’identità nella loro vita, cosicché non cambia il senso di Sé in se stessi. Non possiamo pensare di istruire se non viene consentito contare sul senso di una sorta di stabilità interna, in qualche modo già costruita. Se il proprio Sé appare fragile e incompleto per l’età mentale, stare vicino a questi soggetti potrà favorire la guarigione dei loro buchi psichici. Se il mondo familiare non facilita l’interiorizzazione, il giovane si allontanerà dal reale e continuerà a sognare a occhi aperti. Una frustrazione troppo pesante schiaccerebbe l’intero Sé perché non permetterebbe di cogliere il senso che le cose hanno per il soggetto e la punizione inferta o autoinferta potrebbe funzionare come una di-versione, cioè una versione alternativa, come un gioco che è reversibile e apre altre possibilità e alternative. Pinocchio, benché amato e desiderato dal padre, appare afflitto perché è pur sempre di legno e vorrebbe essere di carne, e prende la strada cattiva, schiaccia il grillo parlante, ma alla fine ritrova i valori e gli affetti promulgati dal padre. Gli educatori non dovrebbero considerare il soggetto unicamente come un organismo da curare o come
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un ragazzo che deve istruirsi, ma nel suo insieme umano funzionante come corporeità ed educazione psicosociale. In questo modo possono emergere valori, risorse, giocosità, divertimento, valorizzazione di Sé, creatività, desideri e passioni, quindi emozioni, identificazioni sui modelli, proiezioni di attrazioni, ma anche dolori, disagi, impotenza e frustrazioni (Galimberti, 2007). L’imprevedibilità rappresenta la sensazione degli uomini primitivi che non conoscevano il mondo nel quale stavano vivendo. La nostra sensazione è simile perché non percepiamo congruenza tra il senso civile al quale ci siamo abituati e certi atti giovanili che non sappiamo se chiamare patologici tanto ci sono estranei, come gli omicidi dei genitori, degli amici, che si svolgono inaspettatamente e senza una ragione – anche nel nome di Satana. Ci sembra accada qualcosa che faccia pensare a comportamenti dissociati. La dissociazione, infatti, rimanda a una parte del Sé suddivisa in una sede all’interno della quale alcuni fantasmi sono protagonisti dello spazio mentale, mentre tutto il resto del Sé funziona normalmente (Pani, Parisoli, 2001). I ragazzi vanno a scuola, svolgono i loro compiti, si comportano stranamente in famiglia, ma i genitori pensano che siano coerenti con i comportamenti degli altri ragazzi, poi vi sono exploit improvvisi, agghiaccianti e psicopatici. Questi individui non abituati a esprimere le emozioni, compressi nella loro arida razionalità, conoscono la tecnica sessuale come pura fisiologia del piacere, usano l’ecstasy come rinforzo e il consumismo per vincere la noia e il vuoto di una solitudine che sembra un misto di smarrimento e di assenza di partecipazione alla vita; non si sentono in alcun modo protagonisti attivi con desideri e progetti. La forza d’animo che oggi chiamiamo resilienza si riferisce in realtà alla forza del sentimento che trasforma il negativo in positivo. Pensiamo che dovremmo impiegare tutta la vita per contattare maggiormente parti più autentiche di noi stessi, cioè del proprio/nostro Sé per sentirci a casa nostra, per sentire che c’è armonia con quello che sentiamo, con quello che facciamo. In realtà i giovani aspettano di essere traghettati verso il mondo, ma si attendono che qualcuno, qualche interlocutore sognato, derivante dai genitori o chi per loro, li porti fuori dal guscio illusoriamente protettivo, come sosteneva la Mahler (Mahler, Pine, Bergman, 1975), e aspettano il canto delle sirene di Ulisse. Alcuni giovani non sono mai nati e non accettano di nascere. L’illusione li imprigiona, sognano di essere salvati e che il mondo sia un paradiso. Non si accorgono che più scappano dal mondo reale alla culla dell’illusione, maggiormente diventa dolorosa la loro vita. Questo dolore potrebbe essere lenito solo all’inizio e provvisoriamente dalla droga, dalle compulsioni, dalla ricerca di nuove dipendenze, come sette e superstizione. I giovani escono di notte come demoni inquieti alla ricerca di non si sa che corpi viventi senza meta, tormentati dall’inaccettabile realtà inerente alla società che non li riconosce di giorno; di sera vanno a imbrattare i muri della città per dire a se stessi che esistono, al fine di scaricare l’invidia sociale vandalizzando ciò che è fuori di loro per essere appartenenti agli oggetti che devastano, per vincere la noia, il disorientamento, il vuoto. Creano tribù, sette, gruppi senza nomi o con nomi vandalici, diventano bulli, teppisti di strada o da stadi per testimoniare in modo perverso un urgente bisogno di appartenenza; in realtà tali azioni compulsive sono finalizzate a vincere il disagio, che invece aumenta inesorabile. Ci sembra utile ricordare che l’emancipazione giovanile, agli inizi degli anni Sessanta, ha condotto ad alcune regole che eliminavano il limite:
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– tutto è possibile; – la famiglia è una camera a gas; – la scuola è una caserma; – vietato vietare, la legge è strumento di sopraffazione; – il pazzo non è malato, ma solo diverso e soffre perché non accettato nella sua diversità; – il tono dell’umore si cambia con gli psicofarmaci; – la tossicodipendenza è un diritto per chi soffre, il tossico è una vittima; – la scienza non riconosce l’uomo, ma l’organismo; – l’uomo non è libero, bensì è determinato dalla biologia e dalle scoperte su di lui; – la tecnica sostituisce le capacità dell’uomo; – le comunità sono i conventi di una volta; – si uccide anche senza movente, per noia, per emozionarsi (come le tre ragazze che uccidono la monaca in nome di Satana). I giovani sembrano privi di nessi cognitivi, di una mente emotiva capace di elaborare i conflitti. Se le menti non sanno più elaborare e le parole non esprimono più le emozioni, le comunicazioni prendono la strada dell’azione patologica, di omicidi o suicidi. I soggetti cominciano a sentire un deserto emotivo tra genitori e scuola, mostrano visi rigidi e rabbuiati; il sole tramonta e risorge senza che loro se ne accorgano, sono privi di progettualità. Come afferma Volpi (2004, p. 178), «la nostra è una filosofia di Penelope che disfa incessantemente la sua tela perché non sa se Ulisse ritornerà». Pensiamo che i giovani affrancati dall’illusione di una meta da raggiungere diventino nomadi. Come asserisce Nietzsche (1885), si aderisce al mondo come a una dimora perché è pieno di accadimenti finché questi esistono e non annoiano, oppure si anticipa frettolosamente il senso svalorizzandolo per non viverlo mai nella sua verità autentica che spaventa o annoia. I giovani dopo avere rinunciato alle mete della vita, a dominare il tempo e poi al senso delle cose, si rivolgono al destino che è indecifrabile. Per questo i soggetti cominciano a diventare superstiziosi, si uniscono in club sostenuti da un senso magico e fittizio, creano sette mistico-religiose fondate su una pura eccitazione del momento. Il nomadismo sembra rappresentare una tendenza che va verso un gioco che ricerca illusioni per evitare di sapere se esisterebbe un progetto. Il nomadismo sembra una fuga dal fare sicuro; domandarsi significherebbe cadere negli abissi dai quali potrebbe non esserci ritorno o reversibilità. Le certezze che puntellavano la psiche, ad esempio le verità della scienza che apparivano un tempo come sicurezze, si dimostrano per i giovani in continuo cambiamento non più equivalenti al senso di una fede, ma spesso fonte di incertezza. I giovani allora si sentono de-territorializzati, senza un confine contenitivo, privi di una legalità certa. In questo modo sono impediti nello specchiarsi nell’altro, trovano l’altro come diverso da Sé. 3. La dipendenza patologica dalla setta Con dipendenza patologica intendiamo una condizione sindromica connotata dalla ricerca reiterata del piacere derivante da una sostanza, da una condotta, da un og-
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getto, associata all’abuso, al disagio clinicamente significativo dell’astinenza e della messa in atto compulsiva malgrado le possibili conseguenze negative. Similmente alle droghe, i comportamenti di dipendenza generano stati soggettivi di piacere, euforia, modificazioni dello stato di coscienza che costituiscono la motivazione basilare che sostiene la condotta di dipendenza (Caretti, La Barbera, 2005). La dipendenza può erompere da qualsiasi potente esperienza la cui sensorialità ha il fine di ridurre l’ansia, il dolore o comunque stati emotivi negativi tramite una riduzione della coscienza o un’elevazione della soglia di sensibilità. Di conseguenza, tutte le esperienze efficienti nell’attenuare il dolore potranno essere fonte di dipendenza (Peele, 1985). La persona diventa schiava (il termine inglese addiction deriva da addictus = condotta mediante la quale un soggetto viene reso schiavo) di un’unica soluzione nel tentativo di fronteggiare la sofferenza psichica. La condotta di dipendenza ingloba l’illusione di fare qualcosa per affrontare e superare le difficoltà della vita quotidiana (McDougall, 2002). I comportamenti di dipendenza sono accompagnati dal craving, che si riferisce a un desiderio incontenibile verso la sostanza o la messa in atto del comportamento d’abuso generante la perdita del controllo e azioni dirette alla soddisfazione del desiderio, pur alla presenza di ostacoli e pericoli. Le tossicodipendenze e le nuove dipendenze o dipendenze comportamentali sono caratterizzate da (Griffiths, 2002; Potenza et al., 2002): – compulsività, incapacità di resistere all’impulso di attuare il comportamento; – craving, sensazione crescente di tensione prima dell’inizio del comportamento; – sollievo o piacere durante l’attuazione del comportamento; – percezione di perdita del controllo; – persistenza della condotta malgrado le conseguenze negative; – astinenza, sindrome fisica e psichica consistente nella comparsa di una specifica sintomatologia a causa dell’impossibilità di attuare il comportamento; – tolleranza, progressiva frequenza dei comportamenti dipendenti e incremento degli stimoli diretti ad attivare la condotta. Le dipendenze comportamentali, analogamente alla dipendenza da sostanze, provocano gravi conseguenze a livello (Caretti, La Barbera, 2009, 2010): – emotivo. Segnaliamo la repressione delle emozioni e dei sentimenti, l’incapacità di gestirli, insorgono sentimenti negativi (senso di colpa, vergogna, perdita dell’autostima, depressione); – cognitivo. Sono presenti convincimenti disfunzionali relativamente a se stessi, agli altri, alla condotta dipendente, distorsioni sul modo di pensare (ad esempio, mentire, negare), problemi di attenzione (ad esempio, assenza di concentrazione, intromissione di pensieri); – sociale. Possono esserci difficoltà relazionali con familiari, colleghi di lavoro, amici, conoscenti che possono condurre a un progressivo isolamento; – economico. Si manifesta sovente una diminuzione del patrimonio familiare a causa delle spese inerenti alla condotta dipendente o la perdita del lavoro a motivo dei comportamenti compulsivi che ostacolano l’attività lavorativa. Diversi studi neurofisiologici (Coventry, Constable, 1999; Goodman, 2008; Grant, Brewer, Potenza, 2006; Koob, Bloom, 1998; Koran et al., 2002; Nava, 2004;
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Volkow, Fowler, Wang, 2004) hanno evidenziato che anche le condotte compulsive non derivanti da sostanze sarebbero capaci di generare attivazione fisiologica (arousal), alterazioni dei sistemi dopaminergici e serotoninergici. Inoltre, contesti e stimoli connessi ai comportamenti compulsivi, come la dipendenza da setta, potrebbero acquisire caratteristiche incentivo-motivazionali anomale concorrendo al mantenimento di condotte compulsive disfunzionali (Robinson, Berridge, 1993). Alcune ricerche hanno dimostrato la frequenza di situazioni di polidipendenza, cioè la compresenza nello stesso soggetto di una o più dipendenze da sostanze e comportamentali, e di cross-addiction, vale a dire il passaggio da una dipendenza a un’altra nel corso della vita di un individuo (Caretti, La Barbera, 2005; Lejoyeux, McLoughlin, 2000). Nella dipendenza da setta, ad esempio, si può riscontrare una comorbilità con disturbi d’ansia (disturbo ossessivo-compulsivo), disturbi dell’umore, disturbi di personalità (disturbo dipendente di personalità), altri tipi di dipendenza (da sostanze) (Albano, Gulimanoska, 2006). Sebbene si diversifichino riguardo all’oggetto della dipendenza, le condotte additive sembrano essere un tentativo disfunzionale di osteggiare l’affiorare incontrollato di esperienze traumatiche infantili (abuso psicologico e/o fisico, trascuratezza emotiva) attraverso una sintomatologia post-traumatica (disturbi somatici, collera, ecc.), che la persona può tentare di bloccare rifugiandosi in stati mentali dissociati dalla coscienza ordinaria ricorrendo alla condotta additiva, in cui l’oggetto esterno ricopre il ruolo di regolatore degli stati affettivi (Caretti, La Barbera, 2009). L’utilizzo compulsivo di una sostanza, di un oggetto, di un comportamento sembra strettamente connesso all’incapacità di gestire l’ansia di separazione da caregiver non sufficientemente buoni (Winnicott, 1965), manchevoli di sintonizzazione affettiva (Stern, 1985), dotati di scarsa empatia verso i bisogni del bambino privandolo di esperienze di condivisione emotiva fondamentali per l’acquisizione della capacità di regolazione emotiva e delle immagini inerenti all’esperienza della separazione (Taylor et al., 1997). Il protrarsi dall’età infantile di esperienze di attaccamento in ambiti familiari non responsivi, indifferenti alle richieste di vicinanza fisica ed emotiva del bambino, impedisce al piccolo di interiorizzare relazioni positive fondamentali nei processi di individuazione, autonomia del bambino e della sua capacità di fronteggiare le esperienze di separazione dalla madre senza ricorrere all’oggetto esterno (Bowlby, 1969, 1973). La condotta di dipendenza può lenire provvisoriamente lo stress psichico e svolgere una funzione materna che la persona non è in grado di garantire a se stessa. La dipendenza sostituisce l’oggetto transizionale dell’infanzia avente la funzione di facilitare la rimodulazione del legame di dipendenza verso la madre (Winnicott, 1971). Tuttavia, le condotte additive sono strategie destinate a fallire perché costituiscono tentativi somatici e non psicologici di dare un sollievo momentaneo (McDougall, 1989). Il dipendente tenderebbe a reiterare compulsivamente esperienze relazionali negative risalenti alla prima infanzia, che hanno ostacolato la capacità di sapere regolare i propri stati emotivi mediante il loro riconoscimento e la loro elaborazione psichica. Alla base dell’addiction ci sarebbe l’assenza di una rappresentazione mentale della madre alla quale potere fare ritorno quando ci si sente in pericolo e ci si sente minacciati da forti emozioni (ad esempio, rabbia, vergogna, delusione, ecc.). Il soggetto, da bambino, è in grado di mentalizzare tali emozioni solo mediante comportamenti regolatori autodiretti (ad
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esempio, autostimolazione di parti del proprio corpo per regolare i propri stati emotivi negativi alla presenza di una madre non responsiva) (Tronick, 1989) e nelle età successive tramite la relazione compulsiva che si sente costretto ad attuare, contro la sua volontà, con la sostanza, l’oggetto o la condotta dipendente. L’addiction avrebbe una funzione autoterapica che consentirebbe alla persona di scambiare la sofferenza incontrollabile e incomprensibile con qualcosa di controllabile e comprensibile (Khantzian, 1993). Inoltre, il dipendente impiega inadeguatamente la dissociazione (funzione adattiva) allo scopo di sfuggire da esperienze affettive intollerabili e devastanti; la dissociazione, non più al servizio dell’Io, diviene una situazione patologica ripetuta mediante le condotte della dipendenza compulsiva (Goldberg, 1999; Van der Kolk, McFarlane, Weisaeth, 1996). Ricordiamo che fu Janet (1889) a parlare di dissociazione per riferirsi a stati di frammentazione dell’esperienza psichica tipici delle psicosi. Il fine dell’attività mentale, secondo l’autore, sarebbe quello di adattarsi all’ambiente mediante la sintesi personale. In condizioni di normalità le esperienze sarebbero integrate in modo automatico (automatismi attivati da idee e associati a emozioni) in schemi cognitivi preformati nei quali raggiungono senso e organizzazione. La dissociazione sarebbe uno stato in cui la persona subisce un’alterazione più o meno momentanea delle normali funzioni integrative (memoria, identità, percezione dell’ambiente circostante, coscienza). I principali sintomi dissociativi sono l’amnesia (incapacità di ricordare un significativo periodo trascorso), la derealizzazione (sensazione di distacco dall’ambiente), la depersonalizzazione (sensazione di distacco da se stessi, dalle proprie emozioni), l’alterazione dell’identità (cambiamento nel ruolo o nell’identità del soggetto, associato a cambiamenti comportamentali osservabili dagli altri) e la confusione dell’identità (sensazione d’incertezza su chi si è) (Steinberg, 2000; Steinberg, Schnall, 2001). La dipendenza patologica costituisce una fuga reiterata dalla realtà psichica tramite la sollecitazione di stati alterati della coscienza (Allen, 1993; Classen, Spiegel, Koopman, 1993; Putnam, 1995; Steinberg, 1995). Esistono dissociazioni permanenti. Dopo avere subito eventi traumatici (ad esempio, una violenza, uno stupro, un abuso prolungato), il soggetto separa l’evento dalla coscienza collocandolo in una parte del Sé e sigillando questa parte dal resto, senza mai dimenticarlo realmente. Tale parte di Sé sopravvive e spesso non conosce l’altra e viceversa (Pani, Parisoli, 2001). Nel dipendente dalla setta si creerebbe un’esperienza dissociativa transitoria, a volte anche permanente, che gli consentirebbe di uscire al momento dalla sua realtà allo scopo di risolvere uno stato di disagio costante e di percepirsi in maniera più positiva. Tramite la sensorialità scaturente da un’alterazione dello stato di coscienza ordinario, l’individuo diverrebbe in grado di migliorare l’immagine di sé, incrementare l’autostima e la sicurezza. La creazione di stati alterati di coscienza avrebbe una finalità difensiva e integrativa nella relazione con la realtà; ciononostante, se questa funzione instilla una forma di dipendenza a discapito del rapporto con la realtà, si genera uno stato dissociativo patologico: la parte modificata di coscienza si comporterà come un’identità mentale autonoma dalla personalità complessiva, incapace di controllare la parte “altra” (Lesieur, 1984). Tali esperienze di sottrazione del Sé dalla realtà ordinaria vengono definite da Steiner (1993) “rifugi della mente”, vale a dire luoghi mentali, condotte ripetitive nelle quali ci si rifugia quando si
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vuole scappare da una realtà angosciosa e inaccettabile. Tutto diviene permesso e possibile, trionfa il senso del magico e dell’onnipotenza. L’aderenza alla setta può rispondere all’esigenza di comprensione e affetto che il soggetto privo di alternative pensa di trovare solo nella setta. Infatti, agli inizi, essa adempie a tale bisogno: i componenti anziani della setta “somministrano” affetto al nuovo affiliato (love bomb). Viene fatto credere al soggetto che ai fini della sopravvivenza occorre non lasciare il gruppo (Introvigne, 1990). Partecipare alle attività della setta è indice di benessere, nel tempo diventa un bisogno; interrompere la frequenza ai riti della setta genera nel seguace problematiche emotive e disagio psichico. Le norme della setta modificano lo stile di vita dell’adepto che agisce secondo i precetti del gruppo. Alla setta e al suo “leader” vengono attribuiti poteri divini. L’adepto si aspetta dal suggestionatore prodigi sempre maggiori e il suggestionatore si aspetta dai suoi seguaci sacrifici e prove di dedizione sempre più impegnativi. Le persone decidono di affiliarsi a una setta per avere un obiettivo da conseguire e una missione da compiere; per superare il disagio della solitudine attraverso un più accentuato senso di comunità; per il bisogno di liberarsi dalle limitazioni della condizione umana e potenziare il Sé con l’ausilio di un’“entità superiore”; per la necessità di abbattere la sofferenza e il senso di inadeguatezza generanti incertezza e paura tramite soggetti che si pensa siano in possesso di poteri divini (Di Marzio, 2010). L’altro, la setta, diviene per il dipendente un oggetto esclusivo e nutriente. L’idea di sé è quella di un soggetto bisognoso incapace di contribuire al proprio sostentamento, così si affida al suggestionatore alla ricerca di un magic helper che lo guidi e del quale assimilare la presenza, le competenze e la forza. La figura del magic helper ci rimanda alla concezione psicoanalitica di oggetto idealizzato. Dal punto di vista di Freud (1914) il processo di idealizzazione inerisce all’attribuzione all’oggetto della perfezione che il bambino conferiva inizialmente a se stesso, operazione psichica adeguata al bisogno di pensare che esista qualcuno (i genitori) che può proteggere dai pericoli della vita. Secondo la Klein (1957, 1963) la creazione di un oggetto idealizzato patologico servirebbe da un lato a proteggere dagli oggetti persecutori (angoscia paranoide), dall’altro rassicurerebbe dal timore di avere distrutto con la propria aggressività l’oggetto buono (angoscia depressiva). L’oggetto idealizzato proteggerebbe dai nemici e rassicurerebbe rispetto alla distruttività. Kohut (1971, 1977) sostiene che l’oggetto-Sé idealizzato ha la funzione di sviluppare, conservare e rinforzare il polo degli ideali, un componente della struttura psichica avente il compito di guidare la condotta e regolare gli affetti. Il bisogno eccessivo di accudimento, l’insicurezza nelle proprie risorse e nelle proprie capacità, l’inabilità di assumersi responsabilità caratterizzano il dipendente da setta. Il dipendere da un agente influenzante per avere gratificazioni pone in balia degli obiettivi, del controllo e del potere altrui; l’atteggiamento di sottomissione porta a trovarsi coinvolti in rapporti di sfruttamento e abuso (Caretti, La Barbera, 2005). Riferendoci alla prospettiva psicoanalitica di Freud (1905) potremmo trovare connessioni tra la dipendenza e lo stadio orale dello sviluppo psicosessuale. Infatti, l’esagerata gratificazione o la frustrazione dei desideri di questa fase instaurerebbero una fissazione cosicché, da adulta, la persona orale-dipendente si assoggetterà agli altri al fine di essere
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nutrita e sostenuta. La persona che dipende da un’altra (suggestionatore) per la propria sopravvivenza fisica e psicologica, durante l’infanzia, non ha potuto sviluppare una struttura psichica adeguata a causa dei fallimenti empatici dei suoi oggettiSé (Kohut, 1984). Il ricorso a condotte dipendenti, come la dipendenza da setta, costituirà uno strumento di gratificazione dei desideri e un mezzo per difendersi dall’angoscia mediante una condotta perlopiù passiva nei confronti di situazioni e persone dalle quali può venire gratificata o frustrata. Potremmo ipotizzare che il dipendente non abbia superato la dipendenza verso le cure genitoriali ricevute; i caregiver, molto probabilmente, erano figure che trattavano il bambino come un oggetto inutile e di scarso valore, oppure erano figure intrusive e ipercontrollanti-autoritarie che hanno comunicato al soggetto come l’autonomia vada evitata perché pericolosa e maturare e differenziarsi sia un tradimento nei confronti dei genitori. Il bambino impara ad affidarsi sempre agli altri astenendosi dal raggiungere l’autonomia. Da adulta, la persona tenderà a cercare solo all’esterno fonti di accudimento e sicurezza e rimarrà in attesa di ricevere da qualcuno il supporto di cui ha bisogno, assumendo anche il ruolo di vittima. Quindi, l’unico modo per conservare il legame diviene quello di dipendere dalla setta, crescere e individuarsi vuol dire perdere l’amore materno (suggestionatore) (Benjamin, 1996). In sintesi, potremmo affermare che il dipendente da setta manifesta un forte bisogno di ricevere sostegno, guida e approvazione dagli altri; si percepisce impotente e inattivo mentre ha la convinzione che la setta e il suo capo, ai quali si sottomette, siano potenti e in grado di gestire le situazioni (Bornstein, 1993). Il dipendente si comporta in modo masochistico (condotta ascrivibile a una relazione traumatica con la madre, oggetto primario) (Kernberg, 1995), tollerando anche la sofferenza nella speranza di ottenere un qualche bene superiore (McWilliams, 1994). Galanter (1989) sostiene che un individuo entra a far parte di un gruppo e vi rimane, anche se esposto a grandi sacrifici, per una motivazione che l’autore definisce “effetto sollievo”. La distanza dal gruppo crea angoscia e l’effetto sollievo rinforza il persistente coinvolgimento e l’accondiscendenza alle regole; di conseguenza, la devianza viene condannata e il conformismo gratificato. Da una parte distinguiamo l’adepto intendendolo come una vittima di un condizionamento coercitivo, reso possibile dal fatto che come soggetto ricerca nella setta risposte risolutive ai propri profondi bisogni di dipendenza. Succube è invece chi non si rende conto di essere adepto, è un soldato; la struttura del Sé mantiene la fusione primitiva del Sé bambino con le figure genitoriali. Il seguace manifesta un minimo di Sé costruito, non vede l’ora di aderire a un gruppo e dipendere da qualcun altro, manifesta un bisogno di appartenenza. Le emozioni si esprimono attivando interlocutori interni che parlano all’Ego (estensione psichica del sistema nervoso centrale). Il Sé nel suo complesso, guidato dall’Ego, ha infatti necessità di dare voce ai propri desideri, sia corporei sia psichici; le emozioni rappresentano il linguaggio e la voce del Sé (ad esempio, quando si sente in colpa o prova vergogna ha la possibilità di rivelare agli altri lo stato d’animo). Questo è costruttivo per sé e per gli altri ai quali ci si mostra trasparenti. Perché il Sé non può esprimersi in molte persone? Il Sé in molte personalità disturbate è paragonabile al mettersi a urlare in un luogo e temere inconsciamente che le pareti crollino perché non si è in grado di sostenere l’urlo e, quindi, inevitabilmente cadrebbe il contenitore. Le emozioni trop-
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po intense potrebbero fare crollare il contenitore. Le persone hanno paura di esprimere emozioni in pubblico, ad esempio in palcoscenico, perché la struttura del Sé precipiterebbe. Nella setta le persone hanno bisogno di un corpus rappresentato dalla comunità alla quale appartengono, dell’ideologia suggestiva dalla quale dipendono, indicante un Sé fragile che le costringe a cercarsi un corpus più grande che le protegga. Riteniamo, a questo punto, sia utile approfondire i concetti metapsicologici che concernono la funzione del Sé (Pani, 2007). Innanzitutto delineiamo brevemente la letteratura più importante in relazione al Self. La Jacobson (1954) sostiene come le iniziali relazioni vengano internalizzate e come le figure che hanno dato vita ai primi rapporti siano trasformate dalle prime esperienze affettive in oggetti. Questi costituiscono il mondo interiore del soggetto e il Sé medesimo. L’autrice descrive quindi il Sé come l’insieme delle rappresentazioni interiori che costituiscono l’individuo. Lo sviluppo della persona è caratterizzato dalle prime relazioni d’oggetto e dagli oggetti che si costituiscono entro il Sé. Nel pensiero di Winnicott (1957, 1958, 1971) inerente allo sviluppo affettivo sono rilevanti i concetti di autentico e falso Sé. Il Sé autentico inizia a formarsi a partire dagli stadi precoci dello sviluppo per assumere una costituzione sempre più complessa in coincidenza con la maturazione graduale delle strutture nervose e combacia con il nucleo autentico del soggetto, con la creatività, con la capacità di essere se stesso, con il sentimento di realtà. Le radici del Sé non autentico sono invece rinvenibili nel processo difensivo con il quale il bambino asseconda le richieste materne troppo frettolose e ansiose, o troppo rallentate, o assenti. Quando il conformarsi alle pressioni dell’ambiente implica un impoverimento del Sé autentico, l’integrità della personalità può essere minacciata. Pertanto, l’assenza di responsività dell’ambiente rappresenta l’elemento traumatico che ostacola un adeguato sviluppo dei processi maturativi e integrativi. Spitz (1958) ritiene che la formazione del Sé, cioè del nucleo della personalità, passi attraverso l’interazione costante con gli oggetti del mondo esterno e con la loro rappresentazione mentale. La vita affettiva permette di dare coscienza al Sé. Qualora, nel corso dello sviluppo individuale, si registrassero carenze o deprivazioni, potrebbero innescarsi evoluzioni di tipo patologico. Guntrip (1968) ha postulato un Sé, un centro direzionale interno a ogni individuo, un vissuto d’integrità della propria esistenza che è favorito, o ostacolato, o modellato dall’esperienza relazionale. Secondo Hartmann (1939), mentre l’Io costituisce la parte che interagisce con le altre istanze psichiche, il Sé delinea il prodotto delle interazioni con gli oggetti significativi e con i propri oggetti interni. Nel pensiero di Kohut (1971, 1977) il Sé rappresenta il nucleo originario e centrale della personalità il cui sviluppo coincide con la progressiva modificazione di bisogni disattesi infantili che producono un onnipotente egocentrismo; questo si accentua in età matura come problema del Sé, cioè un disturbo narcisistico della personalità. Il Sé, alla nascita, ai fini della sopravvivenza dipende dalla relazione diadica con la madre. Il bisogno dell’oggetto, alla nascita, costituisce un bisogno vitale al quale la madre può corrispondere con un rapporto empatico che assicura la sopravvivenza fisica del bambino e sostiene la sua crescita psicologica, infondendo un
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senso di valore. Questo pone le basi per un potenziamento del Sé del piccolo che assume le forme del Sé grandioso. Di conseguenza, l’elemento fondamentale della formazione del Sé grandioso risiede nella possibilità che il bambino ha di trovare nella figura materna la conferma della propria unicità, la sensazione di onnipotenza necessaria per lo sviluppo. Appare chiaro come, secondo l’autore, le prime componenti del Sé traggano origine dalla relazione con l’oggetto-Sé materno per poi emanciparsi gradatamente da stati di fusione e condurre al consolidamento di un Sé nucleare e di tutte le altre strutture psichiche connesse al funzionamento dell’Io. Quando il Sé grandioso non risulta integrato nella personalità adulta e continua a sottrarsi al controllo dell’Io genera gravi alterazioni della personalità, impedisce la realizzazione concreta della persona. Bion (1962) descrive le tre concettualizzazioni riguardo all’apparato psichico intendendole tra loro connesse. Nella prima egli si riferisce alla dinamica delle preconcezioni innate insature, cioè a quegli schemi innati di relazioni tra il Sé e oggetti del mondo esterno, come il rapporto pene-vagina e bocca-seno. Tali schemi di preconcezioni guideranno le esplorazioni del bambino, il quale cercherà di saturarle, seguendo, ad esempio, l’incontro della propria bocca con il seno della madre e altri. Il punto di vista che riguarda questa rappresentazione dell’incontro è per noi centrale, sia dal punto di vista teorico che clinico. Dagli incontri più primitivi sensoriali, che possono includere le condizioni della vita fetale, derivano alcuni imprinting che nell’essere umano sono trame aperte a nuovi incontri e a nuove possibilità di introiettare nuove rappresentazioni somatiche e, in seguito, mentali ricavate dalle esperienze significative. Nella seconda concettualizzazione Bion considera la relazione contenuto-contenitore. Per l’autore pensare significa stabilire relazioni tra oggetti, e la relazione fondamentale è quella tra contenuto e contenitore. La madre che accudisce il figlio piccolo lo contiene e lo aiuta a pensare attraverso la propria funzione a, restituendogli gli elementi b, cioè il materiale grezzo, indigeribile sotto forma di elementi a, predigeriti, pronti per essere pensati o sognati. Nella terza concettualizzazione bioniana la funzione a aiuta a elaborare gli elementi percettivi ed emotivi grezzi, tanto ingombranti quanto inutilizzabili (elementi b), che come tali non possono essere pensati, perché appunto non sono mentalizzabili. Gli elementi b sarebbero comunque espulsi dal bambino, dal quale sono sperimentati come disagio e, pertanto, cercherebbe di liberarsene con atti impulsivi. Il bambino, ad esempio, manda un segnale di fame. Se la preconcezione insatura viene saturata immediatamente, significa che la madre lo accontenta subito porgendogli il seno. Se i segnali del bambino non vengono accolti, in altre parole la preconcezione non viene saturata subito, egli può allucinare la presenza del seno allo scopo di tollerare l’angoscia e appagare il bisogno. A questo punto il bambino comincia a pensare l’oggetto seno come mancante, cosicché il pensiero nasce dall’assenza. Tale allucinazione, però, proprio perché non ancora in contatto con il reale, potrebbe essere efficace solo temporaneamente, in seguito il seno vero dovrebbe sostituire quello fantastico. Nel caso l’intervallo di tempo tra attesa-soddisfazione sia troppo lungo, o vi sia scarsa tolleranza costituzionale all’angoscia, il bambino si difenderebbe scaricandola all’esterno, operazione che nel linguaggio di Bion significa proiettare fuori gli elementi b. La rêverie materna diventa allora necessaria. In quest’ultimo caso il compito della madre dovrebbe essere quello di elaborare gli elementi b attraverso
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la propria funzione a, al fine di restituire al figlio gli elementi scaricati, ora depurati dell’angoscia e delle parti intollerabili. Questi elementi depurati (elementi a) possono essere pensabili e, quindi, anche sognabili. La madre, nell’usare la funzione a, in un certo senso sogna essa stessa gli elementi espulsi. Ci sembra che Bion consideri questo schema fondamentale in tutte le relazioni umane. Più propriamente, infatti, il riferimento alla madre dovrebbe essere esteso all’ambiente di accudimento e poi a contesti più ampi. Tra le varie relazioni c’è anche quella analitica. La rêverie dell’analista consiste nella capacità di recepire le comunicazioni verbali e preverbali del paziente, nell’elaborarle (funzione a) e restituirle allo stesso paziente. Ferro (2008) denomina alcune forme di rêverie come un flash o a corto metraggio, e altri tipi di rêverie/costruzioni a lungo metraggio. Paragoniamo tali flash a scene modello che hanno la caratteristica della visibilità e regalano una lettura sensoriale e concreta (Lichtenberg, 1989), quindi utile per la meta-comunicazione con il paziente; al tempo stesso, ricaviamo dalle evocazioni del paziente i vari teatri che la sua mente sembra farci conoscere e che ipotizziamo si siano formati grazie a incontri significativi, introiettati dall’Ego, come espressione del sistema nervoso centrale. Consideriamo l’Ego il regista che abita e dirige il Sé come struttura somatopsichica e rappresentazione della propria immagine individuale Pensiamo, in aggiunta a quanto teorizza Bion riguardo alle esperienze degli incontri primitivi del neonato, che una sorta di struttura somatopsichica complessa che non corrisponde all’Ego, ma che dall’Ego sarebbe fondamentalmente governata, rappresenta la nostra concettualizzazione del Sé. Tale struttura si costruisce lungo il corso degli anni, mentre l’Ego, come equivalente psichico ed estensivo del sistema nervoso centrale, funziona come il regista che organizza e progetta l’organismo umano nel suo insieme di corpo-mente. Assomiglia al capo di un’amministrazione composta di altri personaggi interiorizzati. Freud (1923a), ad esempio, descriveva l’istanza del Super-Io, l’ideale dell’Io e dell’Io ideale, ma vedeva anche come interlocutori dell’Io le pulsioni e le normative della realtà esterna. Uno di noi ha ipotizzato in varie occasioni (Pani, 2009; Pani, Carnevali, 2010a) che tali istanze, definite interlocutori (intesi come personaggi interiorizzati), siano più numerose di quelli che Freud descrive e che corrispondano alla molteplicità di emozioni aventi il colore affettivo ed emotivo di certi specifici incontri. Tali esperienze di incontro vengono subito incorporate nel Sé, ovviamente solo le esperienze sensoriali e psichiche significative sia a livello corporeo, sia mentale. Per Bion (1962), ad esempio, il seno materno o il suo sostituto genera la realizzazione di un primo Sé primitivo. Ipotizziamo che, in seguito, il Sé sia destinato a rafforzarsi grazie a vari eventi come l’autoriconoscimento allo specchio (Lacan, 1966), ma anche quando il bambino comincia a camminare e altresì in virtù dei successivi importanti incontri con situazioni che generano feedback psicosociali. Gli incontri significativi con le varie persone reali saranno, in un secondo tempo, opportunamente mentalizzati. Pensiamo che tutti gli incontri sensoriali e mentali significativi siano dunque teatralizzati nel Sé. In altre parole, come già accennato, l’Ego (sistema nervoso centrale) costituisce il regista all’interno di un tale mondo psichico edificato da tante scene che risuonano internamente come se si potessero vedere. Immaginiamo queste scene visibili come collegate e ordinate in modo so-
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vrapposto verticale su tanti piani, che rappresentano scene emotive e affettive contestualizzate in base all’evoluzione degli incontri primari e secondari. L’Ego si trova quindi a dovere dialogare con personaggi-suggeritori che intervengono in suo aiuto, oppure altri che possono evocare esperienze abbandoniche o persecutorie e rendergli la vita psichica difficile sino alla patologia schizoparanoide o depressiva. Pensiamo, inoltre, che la costruzione dei personaggi psichici assimilati dal mondo interno avvenga secondo il principio di assimilazione e accomodamento (Piaget, 1926). Ad esempio, un’immagine della figura maschile si edifica lentamente all’interno del Sé quando all’immagine introiettata del padre si assimilano altre figure maschili (parenti, maestro elementare, insegnante delle scuole secondarie, ecc.) e poi si accomodano. Alcune impronte di queste figure troveranno un comune denominatore che il Sé raccoglierà come prioritarie assimilandole e accomodandole di continuo alla trama primitiva, quella ereditata dall’incontro con il padre originario. Un aspetto giudicante e severo del padre originario, ad esempio, troverà nel vissuto del Sé un riscontro selezionato nelle altre figure maschili, pur essendo magari assai differenti. Riteniamo che inizialmente una somma di esperienze arcaiche e in un secondo tempo, mano a mano che le vie nervose saranno mielinizzate, le scene degli incontri significativi con figure maschili si intreccino e si rinforzino in un senso o in un altro, fino a quando divengono stabilmente dei riferimenti interni, a volte anche pensabili. Tale concetto è prossimo a quanto suggerisce anche Bion (1962) riguardo al bambino quando sperimenta una preconcezione insatura e il piccolo cerca l’incontro con il seno e poi con altri oggetti. Paragoniamo allora il Sé a una struttura, come se fosse un edificio, perché possiede una fisicità e una corporeità (Ferrari, 1992). Ipotizziamo che all’interno della struttura siano impresse epoche, teatri come piani situazionali, costruiti grazie ad altrettanti incontri significativi. I numerosi teatri interni, che si edificano durante lo sviluppo, possono sorgere nel tempo di un flash oppure costruirsi in diversi anni. Tali situazioni, che funzionano come contesti e set teatrali (McDougall, 1989), sono caratterizzate a livello psichico da personaggi che agiscono in tutti noi come voci interiori aventi il potere di influenzare l’Ego. Si creano delle connessioni e dei dialoghi tra l’Ego e i vari personaggi, i quali suggeriscono azioni, sgridano, assolvono, avviliscono per vergogna, creano amarezza, rancore e malinconia, insomma bersagliano l’Ego influenzando di conseguenza l’intero Sé attraverso un’infinità di stati fisiopsichici, emozioni e sentimenti. L’Ego recepisce le interferenze positive e negative dei vari personaggi interiorizzati nel passato e non dimentica i teatri della mente nei quali gli interlocutori-personaggi sono stati protagonisti. Ritornando alla sensorialità, alcuni stimoli-guida (Bick, 1968), cioè stati sensoriali (odori, sapori, musiche, ecc.) derivanti da particolari incontri, hanno il potere di evocare angoscia o stati di benessere come se fossero film già visti, oppure sceneggiati del mondo interno prodotti nel passato arcaico o recente. Tali sceneggiati emotivi hanno una loro luminosità, coloritura, senso propriocettivo, di secchezzaumidità, caldo-freddo, di stati sensoriali gelatinosi, di solidità, di morbidezza, sofficità, durezza, asprezza graffiante, pungente, ecc. Ipotizziamo con Mancia (2004) che all’inizio della vita fetale alcune esperienze del corpo, basate sui vari incontri con gli oggetti, rimangano impresse o fissate in
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modo simile all’imprinting di molti mammiferi e altri animali nella memoria implicita. Ci riferiamo alle funzioni emotive e affettive dell’amigdala che abita il sistema limbico, l’area sinistra frontale dell’encefalo deputata agli affetti, alle emozioni e non solo. Alcuni incontri e contatti dell’Io con sensazioni vive, forse sollecitate anche dai neuroni specchio (Mancia 2004), favoriscono empaticamente le identificazioni introiettive e proiettive dei sentimenti, le cui situazioni-cornici che attorniano certe scene emotive centrali non sono mai state rimosse, proprio perché non sono mai state memorizzate a livello cognitivo. In altre parole, a quel punto, pensiamo che la mente sia in grado di intervenire per aiutare il corpo che, appesantito da stimoli stressanti, tenderebbe ad ammalarsi o a eclissarsi come corporeità inesistente (Ferrari, 1992). La mente interviene per elaborare situazioni più o meno traumatiche, o comunque intossicanti per l’organismo. Grazie all’aiuto del sistema nervoso centrale evoluto e mielinizzato l’Ego può rafforzarsi, alimentando un circolo virtuoso, tramite l’operare psichico che assorbe e svolge funzioni adatte all’organismo secondo le proprie capacità. La psicoterapia psicoanalitica all’interno di uno spazio-tempo circoscritto attualizza eventi del passato nel qui e ora delle sedute, ed è in grado di promuovere l’elaborazione dei fantasmi trasformandoli in fantasie scorrevoli e nutritive come metaforicamente il plasma scorre lungo arterie, vene e capillari per nutrire i tessuti del corpo. Tale trasformazione corrisponde alla funzione a della quale ci parla Bion (1962), cioè equivale al tentativo di trasformare gli elementi grezzi indigeribili del pensiero in elementi utilizzabili e fertili. Accedendo anche attraverso il transfert ai personaggi perversi abitanti il Sé, quelli introiettati come distruttivi che influenzano l’Ego, la psicoterapia psicoanalitica non dovrebbe puntare tanto alla consapevolezza, cioè al passaggio dall’inconscio al conscio, dall’Es irrazionale all’Io razionale, al Super-Io morale, come voleva Freud, ma mirare alla metabolizzazione delle esperienze nelle quali i fantasmi predominano nel Sé e bloccano le alternative del pensiero, la libertà di questo e la sua creatività. Quando i personaggi che influenzano l’Ego sono agglutinati tra loro (Bleger, 1966, 1967), l’Ego non può più sentire fluire nel suo Sé le fantasie che scorrono e nutrono la mente, ma deve fronteggiare fantasmi statici e congelati in casa propria, vale a dire all’interno di un Sé troppo intossicato. L’Ego si rivela impotente e gira a vuoto attraverso la ripetizione di copioni che rappresentano le stesse compulsioni patologiche. Le fantasie sono diventate fantasmi statici e persecutori e il contatto dell’Ego con loro e il reale diventa troppo difficile. Come abbiamo ipotizzato, le compulsioni – come la dipendenza da setta – possono essere usate per trovare una soluzione difensiva immediata proprio perché eccitante (Pani, Sagliaschi, 2010a). Il caso di Leo Circa dieci anni fa, Leo, ventiseienne, era venuto da me per chiedere aiuto psicologico. Aveva problemi di attacchi di panico e di insicurezza e, in particolare, questi sintomi si manifestavano alla presenza della gente che lui vedeva realmente o quando sentiva di essere guardato. Ad esempio, entrava in un negozio per comperare il
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pane oppure le sigarette e aveva la forte impressione di essere scrutato, come se gli altri si accorgessero della sua insicurezza e del suo essere impacciato. Mi confessò, con il procedere delle settimane, di essersi unito – due anni prima della psicoterapia – a un gruppo di circa nove ragazzi e tre ragazze, tutti più o meno coetanei, che condividevano il gusto del macabro. Vedevano spesso film del terrore, usavano vestirsi in modo punk con distintivi e amuleti che rappresentavano teschi, armi, casse da morto, ecc. I ragazzi, incluso Leo, avevano tatuato sul braccio sinistro l’immagine di una figura incappucciata con una falce che rappresentava l’iconografia della morte. Spesso i giovani si trovavano per escogitare qualche scorribanda distruttiva, ad esempio incendiaria. Leo si sottraeva materialmente da atti criminosi, ma se ne vergognava. Riusciva, però, a imbrattare i muri della città con le bombolette per scrivere in nero frasi mortifere. Trovava i suoi compagni coraggiosi e, per via della loro anarchia, si sentita unito a loro. Mi appariva come se mantenesse la posizione di un seguace e non di un succube o di un adepto, nel senso che non aderiva automaticamente alla loro perversa ideologia, piuttosto fingeva di crederci. Forse aveva bisogno di convincere se stesso di crederci per sentire di avere una famiglia forte sulla quale contare. La madre era morta di cancro pochi anni prima ed era una donna molto ansiosa e possessiva. Leo era stato trattato in modo molto privilegiato rispetto alle due sorelle maggiori perché, come unico maschio, era stato preferito anche dal padre. Crescendo, Leo si era sentito trascurato da entrambi i genitori poiché il padre, preso dal lavoro, non dedicava tempo al figlio e la madre dimostrava di averlo idealizzato perché, a sua volta, si sentiva trascurata dal marito, sempre più assente. Forse l’uomo si era anche costruito un’altra vita affettiva con un’altra donna senza mai parlarne in famiglia. La madre, sperimentando l’abbandono, chiedeva al figlio di essere quell’uomo che lei aveva a suo tempo visto nel marito, ma Leo era molto diverso dalle aspettative e manifestava grande fragilità, sia nel carattere, sia nella personalità. Leo cercava a quel punto di ritrovare un senso d’appartenenza, ma questa sensazione che rassicurava la sua identità stava sempre più scomparendo. Pur di ritrovare tale illusione originaria, Leo si sarebbe unito a una banda di vandali, che per sentire di contare nella vita aveva trovato il modo di farsi valere devastando, distruggendo e provocando incendi. L’ideologia accompagnante le loro azioni mi fece pensare che questo gruppo di aggregati assomigliasse a una vera e propria setta di teppisti, che si stava spalleggiando e compiva azioni distruttive in nome del male, come se questa categoria immorale della mente perversa fosse stata da tutti loro reificata e contasse come una sostanza. In nome del male loro facevano danno e, pertanto, si sentivano esistenti e importanti perché professavano il male e inneggiavano alla morte. Cominciarono ad aggredire sessualmente donne anziane e più le cose che facevano producevano disgusto in loro stessi, più, compiendole, si sentivano forti e capaci. Leo fingeva di essere uno di loro, ma si asteneva dalle azioni, anche se a volte era costretto a fingere meno per non sentirsi scoperto. Le sue idee erano concordi con quello che gli altri professavano, ma il suo comportamento era solo parzialmente imitativo.
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Il lavoro psicoterapeutico lo aiutò a restituirgli il senso di appartenenza, benché solo parzialmente. Riuscì a trovare altri tipi di frequentazione grazie a una ragazza, alla quale sentiva di piacere. Trovò in me il padre che si era allontanato da lui, giacché io avevo fiducia in lui e nella sua intelligenza che veniva da me spesso stimolata. La sua dipendenza settaria e dal gruppo manipolativo diminuì dopo cinque anni di sedute monosettimanali.
4. La suggestione e la manipolazione della mente Consideriamo come sette vere e proprie quei gruppi aventi il fine di distruggere psichicamente gli adepti per poterli indurre all’adesione incondizionata mediante la manipolazione mentale (Fillaire, 1994). Alcuni autori distinguono il controllo/plagio mentale dal lavaggio del cervello. Possiamo considerare il controllo/plagio mentale come un processo volutamente preparato e designato allo scopo di spezzare l’individualità e l’autonomia dell’individuo e sostituirle con una nuova personalità, rispecchiante il credo e l’ideologia professate dal leader carismatico o dal gruppo di appartenenza. Nel lavaggio del cervello le persone sanno perfettamente chi è il loro nemico e le tecniche di condizionamento sono attuate contro la volontà del soggetto, utilizzando sovente modi brutali come le sevizie fisiche. Nel plagio la vittima non riconosce il suo nemico poiché questi si presenta come il suo migliore amico, promettendogli il suo aiuto nella ricerca e nel conseguimento del benessere e della verità (Stanzione, 2010). Secondo Taylor (2004) il brainwashing costituisce un fenomeno sociale e politico, una forma estrema di condizionamento. Si annida in tutti i settori: religione, politica, comunicazione di massa, ambienti militari, ecc., e può essere applicato attraverso strumenti progressivi e dolci, che vanno dalla pubblicità all’informazione, oppure strumenti aggressivi e violenti, come la coercizione e la tortura. Ognuno, nella visione dell’autore, può diventare vittima di un condizionamento imposto, finalizzato a cancellare e riscrivere credenze, convinzioni e rinsaldate certezze. Nel 1950, sul Miami Daily News, Edward Hunter usò per la prima volta la metafora “lavaggio del cervello” per riferirsi a suggestionatori capaci di attirare le persone nelle loro organizzazioni mediante tecniche di persuasione in grado di mutare la loro personalità lasciandole senza volontà e libertà, inducendole ad adottare credenze e pratiche che normalmente avrebbero respinto (Introvigne, 2002). Si trattava, in origine, di un sistema di persuasione usato per liberare la mente dei cinesi dalle vecchie credenze e convertirli agli ideali e ai programmi comunisti. Tre erano le fasi del processo di persuasione coercitiva (Faustini, 2010; Schein, 1961): – scongelamento, con il quale mettevano in dubbio tutti i loro principi, fino al punto di volerli abbandonare. Il decongelamento consiste nell’attacco all’Io dell’individuo al fine di destabilizzare il senso d’identità, la percezione di Sé e della realtà circostante attaccandolo nei suoi basilari punti di riferimento (valori, affetti) e nelle sue fondamenta psicologiche. L’obiettivo è di demolire l’Io della persona instradando una profonda crisi d’identità. Si tratta di una fase che disorienta la vittima rendendola maggiormente esposta alla suggestione di un
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nuovo sistema di valori, facendole sentire l’urgente bisogno di nuove sicurezze. Il suggestionatore ricorre a reiterati attacchi fisici ed emotivi, all’umiliazione sfruttando il senso di colpa, l’esaurimento sensoriale e la deprivazione; – modificazione, aveva luogo quando il prigioniero cominciava a intravedere i lati positivi nell’ideologia comunista e a mettersi sulla scia di altri che l’avevano accettata. Il cambiamento costituisce per la vittima l’unica via di uscita dall’incubo emotivo generato dallo scongelamento. Per raggiungere la “salvezza” l’individuo deve mostrare di avere assorbito la filosofia imposta; sovente gli viene richiesto di ripudiare il precedente sistema di valori, le passate lealtà ideologiche; – ricongelamento, consisteva nel convincerli della bontà delle nuove idee che così venivano accettate definitivamente. Per farli sentire più sicuri li mettevano in condizione di preparare la loro difesa, nel caso fossero stati attaccati. Così preparati, difficilmente avrebbero potuto lasciarsi influenzare da altri che avessero messo in discussione la nuova posizione nella quale si erano adagiati. Mediante il ricongelamento la persona viene spinta alla completa identificazione con il nuovo sistema e a riconoscere in esso il suo ruolo rendendo la nuova vita dell’adepto la sola possibile affinché divenga doloroso e destrutturante per lui qualsiasi tentativo di discostarsene. Ci sembra di potere affermare che queste persone manifestino fortemente il bisogno di essere suggestionate, di essere dipendenti da qualcosa, un qualcosa che può essere rappresentato dalla setta. A Parigi, alla fine del Settecento, trionfava il pensiero di Mesmer sul magnetismo animale, una forza gravitazionale che penetra in tutti i corpi viventi e che poteva essere suscitata e controllata a fini psicoterapeutici. Le pratiche ipnotiche e guaritrici di Mesmer, sviluppate dapprima a Vienna, possono essere ritenute semiocculte (Thuillier, 1988). Liebault (1823-1904) e Bernheim (1837-1919) usavano l’ipnotismo come tecnica di suggestione per curare le nevrosi. Charcot (1825-1893) (tra i suoi allievi ricordiamo Janet e Freud) sosteneva l’affinità tra evoluzione degli stati ipnotici ed evoluzione dell’isteria. Freud ottenne conferma da Charcot sui grandi effetti che potevano produrre l’ipnotismo e la suggestione. Egli rivisitò l’ipnosi con il concetto di suggestione, mettendo definitivamente in crisi il concetto di nevrosi come malattia del sistema nervoso. Infatti, tramite la suggestione ipnotica, fu possibile creare nei soggetti sani delle condizioni simili a quelle di individui nevrotici. Risulta allora chiaro come la nevrosi non potesse più essere considerata una malattia necessariamente organica (Breuer, Freud, 1892-1895; Freud, 1888-1892). Benussi (1925) si dedica allo studio della suggestione e dell’ipnosi intesi come mezzi di analisi psichica reale, vale a dire come strumenti atti a scomporre le funzioni e i processi psichici dalla loro unità funzionale globale per poterli meglio studiare e analizzare nei loro rapporti di interdipendenza. Nell’ottica di Musatti (1949) possiamo ritenere normale un individuo che presenta un livello di suggestione ridotto, viceversa quando i livelli di suggestione sono eccessivi ci troviamo di fronte a un soggetto patologico che sembra domandare di essere suggestionato, come chi ricorre all’uso di droghe. Alcune donne, ad esempio, cercano di essere suggestionate dall’uomo. Originariamente cercano l’uomo
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cosiddetto testosteronico o mascolino per sentirsi protette, anche se oggigiorno non serve più per continuare la stirpe. Anticamente tale sentimento delle donne di sentirsi protette aumentava la femminilità e migliorava forse la procreatività. Al contrario, l’uomo meno testosteronico, più femmineo, affettato, raffinato consente alla donna di sentirsi alla pari. Queste simmetrie di atteggiamenti nella società del ventunesimo secolo possono realizzarsi indipendentemente dall’identità di genere e sessuale. In ambito psicoanalitico, ci troviamo d’accordo con il pensiero di Fossi (2003, pp. 124-148) quando afferma: Anche quando diciamo che uno specifico intervento agisce tramite la suggestione, in realtà non facciamo altro che descrivere una condizione, stabile o momentanea, che si caratterizza per la disponibilità del soggetto ad accettare acriticamente quanto gli viene suggerito da qualcuno… In base alla suggestione, il paziente accetta quanto detto dal terapeuta senza sottoporlo ad alcuna critica, anzi andando talvolta contro a quanto è facilmente dimostrabile.
Alcuni autori ritengono che l’affiliazione a una setta si verificherebbe mediante un processo patologico e sarebbe sintomo di un disturbo (Clark, 1978). Shapiro (1977) arrivò a parlare di una malattia definendola “cultismo distruttivo”. Secondo Langone (2000) il lavaggio del cervello inerisce a una particolare tipologia di conversione, nella quale il mutamento di personalità dell’adepto avviene tramite una forma di manipolazione scorretta ad opera del gruppo. Hood et al. (1996) sostengono che le tecniche impiegate per modificare le credenze nelle persone (ad esempio, controllo e isolamento totali, senso di colpa e umiliazione, debilitazione e prostrazione fisica) non hanno mai avuto un effettivo successo e, quando ciò è avvenuto, l’effetto si è rivelato solo momentaneo. Il DSM-IV-TR (APA, 2000) annovera il disturbo dissociativo atipico per riferirsi ai disturbi nei quali la manifestazione preponderante è un sintomo dissociativo (ad esempio, un’alterazione delle funzioni usualmente integrate della coscienza, memoria, identità o percezione dell’ambiente). Gli esempi includono stati di dissociazione che si manifestano in persone sottoposte a periodi di persuasione coercitiva prolungata e intensa (ad esempio, lavaggio del cervello, ricondizionamento del pensiero, ecc.) (Pani, Parisoli, 2001). In slang americano il termine mindfucking (fottere la mente), pur avendo un’accezione volgare, evidenzia l’aspetto violento e intrusivo delle tecniche suggestive che possono: – mettere il soggetto in condizioni di asservimento psicologico, affettivo, economico, sessuale verso altre persone; – portare la persona a dipendere mentalmente da altri individui abbandonando i legami familiari, amorosi, amicali e a sostituirli con persone del gruppo per divenirne risorsa e strumento; – trasformare il soggetto indipendente e critico in un automa aderente a un’ideologia estranea prima del processo di indottrinamento. Il mindfucking si riferisce a un processo di influenza mentale avente lo scopo di cambiare, in parte o del tutto, la percezione che il soggetto ha di se stesso e/o della realtà. Le tecniche di suggestione e di influenza più efficaci e radicali sono capaci di
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generare modificazioni inconsapevoli e durature e chi le subisce le reputa volontarie, partecipa cioè al proprio condizionamento eludendo ogni resistenza. In un processo di mindfucking chi condiziona assedia chi viene condizionato, in una relazione priva di una scappatoia. Per comprendere meglio le forme di condizionamento mentale possiamo pensare al vampiro Dracula che vive succhiando il sangue degli uomini, alla sua relazione con la vittima che cede alle sue adulazioni e al suo abbraccio, pur percependo la fine distruttiva della resa. Nel processo di mindfucking, mirante all’annullamento fisico e mentale della vittima, si verifica una situazione analoga che si basa sull’adesione fanatica all’identità e ai dettami del suggestionatore da parte del soggetto la cui mente si concede volontariamente al volere altrui (Re, 2009). Ogni gruppo settario presenta proprie credenze, proprie metodiche e tecniche persuasive, propria struttura di potere, propri modi di esercizio di controllo mentale dei membri. Insomma, ciascun gruppo settario adotta specifiche dinamiche per manipolare gli adepti e garantirsi la loro obbedienza (Langone, 1992). Di conseguenza, le sette non sono tutte uguali, anche se sostanzialmente condividono due obiettivi: reclutare adepti e raccogliere denaro. Vi sono – come vedremo – alcune strategie di plagio, adottate praticamente da ogni gruppo. Il reclutamento avviene mediante tecniche di avvicinamento (uso di test di personalità e questionari vari per incuriosire l’individuo puntando sul desiderio di apprendere qualcosa in più di sé) e tecniche di vendita (libri, conferenze, corsi di riscoperta emotiva, crescita spirituale per purificarsi e giungere a nuova vita). Singer e Lalich (1995) individuano i metodi di reclutamento applicati dai gruppi di condizionamento: – somiglianza. I suggestionatori tentano di mostrare elementi di unione con le vittime, come hobby, predilezioni, passioni, ecc.; – bombardamento d’amore. Al potenziale seguace vengono riservati conforto, attenzioni, affetto allo scopo di eliminare qualsiasi pregiudizio e critica e suscitare sensi di colpa per possibili sospetti iniziali. Inoltre, il soggetto si trova nella posizione di chi ha ricevuto un trattamento di favore e tende ad affiorare la naturale tendenza a ricambiare in qualche modo ciò che si è avuto; – stabilire relazioni. Giochi di gruppo, sport, dialoghi volti allo scambio di informazioni personali sono metodi impiegati per instaurare legami emotivi e affettivi con gli altri membri della setta. La condivisione disgrega le palizzate difensive della vittima verso la setta introducendola così nel gruppo. Hochman (1990) ritiene che alcuni individui rinuncino alla propria vita lasciandosi indottrinare da una setta a causa dei seguenti fattori: – miracolo. I nuovi seguaci si sentono attratti dalla natura soprannaturale professata dal culto (ad esempio, il potere di vedere il futuro, dialoghi con i defunti, una lucentezza maggiore, ecc.) che consente di distaccarsi dalle delusioni della vita ordinaria; – mistero. Il segreto rappresenta un metodo per suggerire la presenza di rilevanti significati, quando in verità la realtà è ingannevole e si propone lo sfruttamento degli adepti; – autorità. Al capo setta vengono riconosciute qualità come intelligenza, cultura, forza morale, fisica, mentale. Allo scopo di mantenere e rinforzare l’auto-
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rità, i seguaci possono essere minacciati di espulsione e abbandono, sottoposti a umiliazioni, punizioni mentali o fisiche, confessioni sulle proprie debolezze. Durante la fase di proselitismo e la fase di indottrinamento dei seguaci le sette ricorrono a mezzi studiati scientificamente per aggirare le difese dei soggetti irretiti, spingendoli all’obbedienza totale, imponendo all’adepto un percorso organizzato in tre punti (Mastronardi, De Luca, Fiori, 2008): 1. isolamento dell’adepto. Allontanamento del seguace dalla famiglia e dal contesto sociale affinché perda qualsiasi punto di riferimento (isolamento); senso di superiorità per troncare tutti i legami precedenti; deresponsabilizzazione da ogni incombenza; soppressione della privacy per arrestare l’esame personale; love bombing (bomba di affettuosità) connotato da vicinanza emotiva, affetto, cure, attenzioni indirizzate alla vittima per rinforzare il senso di appartenenza al gruppo; induzione di dipendenza finanziaria attraverso l’assegnazione al gruppo dei propri beni; per l’adepto l’unica realtà accessibile diviene quella della setta. Già Lilly (1956), basandosi sullo studio di alcuni scritti autobiografici di esploratori polari, concluse che l’isolamento costituisce di per sé uno stress potente generante reazioni come superstizione, affettività esagerata per qualsiasi essere vivente. In mancanza di elementi con i quali definire la realtà circostante, l’individuo tende a proiettarvi i fantasmi che emergono dal suo inconscio (paure, ricordi, incubi dimenticati); quindi l’attività mentale, normalmente connessa alla realtà, si indirizza verso la fantasia; 2. indottrinamento dell’adepto. L’adepto viene sottoposto a letture difficilmente comprensibili, viene indotto a rifiutare i valori ai quali credeva, viene incoraggiato a ubbidire, ad adeguarsi al sistema gerarchico e al progetto misterioso della setta, a conformarsi all’abbigliamento per contraddistinguersi dagli altri, a utilizzare preghiere, canti, formule ripetitive dirette a ridurre il senso critico. Si arriva a un’acritica accettazione degli ordini imposti dal capo carismatico, al rigetto totale della società. Il controllo sociale include forme di condizionamento che un gruppo attua verso i soggetti che lo compongono al fine di garantire la conformità dei singoli alle aspettative del gruppo e il rispetto dei ruoli associati allo status riconosciuto ai membri. È ciò che si definisce influenza sociale (Aronson, 2008). In un processo di condizionamento l’influenza sociale viene impiegata come forma di rinforzo nella fase di indottrinamento. L’individuo, dopo un periodo di isolamento, o strappato ai precedenti legami affettivi, viene inserito in una cerchia di persone che hanno già aderito alla nuova ideologia. Egli riceverà con gratitudine i contatti affettivi con il nuovo gruppo e sarà bendisposto ad accettarne il controllo sociale. Il gruppo trasmetterà o rinforzerà in lui i concetti e i modelli interpretativi della realtà appartenenti al programma e lo status che il nuovo sistema gli conferisce. Il soggetto assorbirà i dettami associandoli alla sensazione di riconoscimento del suo “nuovo” Io. Il controllo sociale rappresenta un fattore basilare per il mantenimento nel tempo degli effetti del condizionamento; chi non aderisce al sistema di valori professato verrà identificato come un nemico da tenere lontano (Re, 2009). In uno specifico contesto sociale le persone tendono a diventare come vengono etichettate in relazione a discen-
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denza, classe sociale, forme di credenza come la superstizione. In seguito all’etichettamento (Becker, 1963) il soggetto sarebbe forzato a comportarsi e a diventare quel tipo di persona. Si tratta di un meccanismo che può essere impiegato nel modificare la percezione di sé di un individuo e nell’uniformarlo a tali parametri di condotta; 3. mantenimento dell’adepto. Per inibire la ribellione il seguace viene sottoposto ad attività fisica prolungata, privazione del sonno, insufficiente regime dietetico per creare affaticamento e impedirgli di riflettere e coordinare osservazioni e critiche. La debolezza fisica permette altresì al suggestionatore di cogliere il soggetto in uno stato di debolezza idoneo per avanzare richieste di tipo mentale; l’utilizzo di un linguaggio criptico e di un gergo apposito sono metodi per fornire importanza al sistema stesso, per ridefinire la realtà e per rendere difficoltosa la comunicazione con l’esterno (locuzioni come “a noi non è dato capirlo” bloccano ogni tentativo di approfondimento o critica preservando i dettami del culto da dubbi e critiche). Il suggestionatore si serve della deresponsabilizzazione per sconfortare iniziative personali, della continua pressione psicologica da parte degli altri seguaci per eludere incertezze e ripensamenti, dell’induzione di senso di colpa e paura di punizione qualora affiorassero perplessità. I canti e le nenie contribuiscono a creare un clima suggestivo di più intensa recettività psicologica evitando qualsiasi dissenso. La persistente ripetizione di gestualità predefinite rende spontaneo e consueto ciò che prima era inusuale, estraneo o persino sgradito. Assumere le condotte richieste viene associato alla ricompensa e alla riduzione della sofferenza fisica e mentale. L’adesione al nuovo culto colma lo spazio lasciato vuoto dalle convinzioni precedenti; la sensazione dolente di avere tradito il proprio passato viene anestetizzata dal convincimento di essere diventati parte integrante di qualcosa di grande e infallibile (Lifton, 1989). Agli adepti viene presentata una carriera colma di opportunità e traguardi ascensionali, stimolando in ognuno il bisogno di autoaffermazione narcisistico; fare sentire i seguaci sempre nelle condizioni di dovere crescere rappresenta un vincolo per legarli alla setta. Il soggetto viene condizionato dagli altri membri a rimanere nel gruppo mediante l’impossibilità di salvezza al di fuori della setta. In alcuni casi le sette possono ricorrere anche all’uso dell’induzione ipnotica, alla somministrazione di farmaci psicotropi e droghe allucinogene che indeboliscono le capacità di resistenza all’indottrinamento, le identità culturali e le facoltà difensive. Per mantenere l’unità del gruppo e fortificare la fedeltà, gli adepti vengono indotti al proselitismo affinché ripetano verso nuovi potenziali affiliati le proprie dichiarazioni di fede e di adesione alla setta. Inoltre, il capo setta spinge l’adepto a tranquillizzare le famiglie e i conoscenti in merito alla propria situazione, dicendo loro di avere scelto di restare nel gruppo di propria volontà e di essere libero nelle decisioni; questo consente al soggetto di contenere eventuali pressioni esterne e, nel contempo, di rafforzare verso di sé la convinzione di essere padrone delle proprie azioni. Reso del tutto indifeso e suggestionabile dalle tecniche fisiche e di persuasione psicologica, il soggetto può essere manipolato, destrutturato e ristrutturato secondo la volontà del capo setta.
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La strategia impiegata dalla setta per reclutare nuovi adepti è quella di sedurre il futuro affiliato. Inizialmente la setta si presenta come un mondo aperto, cordiale, in grado di dare protezione, sostegno e sicurezza; si mostra interessata a varie problematiche societarie. Una volta affiliato, il soggetto viene direttamente a contatto con la realtà della setta, trovandosi immerso nella manipolazione mentale iniziata nella fase dell’adescamento. La manipolazione della mente si regge fondamentalmente su tre costituenti (Fillaire, 1994): – il suggestionatore, il guru della setta avente il delirante convincimento di possedere doti profetiche. Egli accoglie il nuovo seguace promettendogli pace e serenità; – l’ideologia della setta secondo la quale l’adepto sarà portato a mutare via via il suo sistema di vita adeguandosi ai dettami della setta; – il gruppo agisce in particolare a livello affettivo facendo credere all’individuo di essere amato e al sicuro. Ne consegue che per l’adepto esisterà solo il gruppo e ciò che gira intorno a esso. Cialdini (1984) descrive alcune strategie di influenza usate dalle sette: – principio della reciprocità. Di fronte a un’offerta è istintivo sentirsi legati da un vincolo di reciprocità che induce a offrire in cambio qualcosa di valore analogo. Tuttavia, la reciprocità può venire sfruttata per vincolare le persone. In una setta, dopo che è stato definito il differente valore delle offerte in relazione alla gradazione di poteri nella struttura, la figura dominante o il suggestionatore potrà ottenere molto (beni materiali e immateriali) donando in cambio pochissimo; – principio di scarsità. Presentare come unica via o esclusiva occasione l’adesione al gruppo settario costituisce un metodo di persuasione che conserva la sua efficacia indipendentemente dall’oggetto offerto. Riguarda il medesimo espediente attuato nell’adescare nuovi iscritti a corsi vari che promuovono il miglioramento della vita, il raggiungimento della verità, ecc.; – principio di autorità. È fondamentale per i manipolatori che gli individui da condizionare individuino senza indugi come autorità i soggetti preposti al loro condizionamento. Maggiore è il livello di condizionamento, tanto più elevato deve essere il livello di autorità del capo setta; – principio dell’impegno regolare. L’assunzione di un impegno appare estremamente condizionante per l’adepto che viene indotto dalla setta a rinunciare a rapporti familiari, amicali, carriera professionale per dedicarsi soltanto alla missione richiesta, talvolta anche attraverso il versamento di denaro per il sostentamento della missione; – principio del consenso. Le scelte vengono facilmente influenzate dalle preferenze espresse da persone che si stimano. I membri di una setta, privati di modelli di riferimento e isolati dal resto del mondo, verranno spinti con facilità a scelte stabilite dalla setta. A questo proposito Ofshe e Singer (1986) ci ricordano che un programma di riforma del pensiero si propone di a) mantenere il soggetto inconsapevole del processo e dei suoi obiettivi, b) creare un senso di paura, ansia, insicurezza e dipendenza, c) depennare le precedenti consuetudini della persona, d) instillare nuove abitudini e condotte, e) controllare l’ambiente in cui l’individuo vive, f ) fissare il tutto in un sistema che dia apparenti motivazioni e giustificazioni ostacolando qualsiasi critica;
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– principio di gradimento. Il condizionamento appare più efficace se viene attuato da persone gradite che, ad esempio, si mostrano amichevoli, condividono gli stessi interessi e le medesime esperienze, esprimono apprezzamenti. La setta diventa la famiglia biologica del seguace che reprimerà la sua identità, interromperà i rapporti con i familiari e con l’esterno e verrà sottoposto a repressioni affettive e sessuali. Etichettare come malati, maligni, nemici pericolosi gli individui che non aderiscono alla setta consente di tenere isolata la vittima qualora entrasse in contatto con soggetti non condizionati, dal momento che ogni altro modo di pensare e vivere sarebbe ritenuto un inganno, un errore (Lifton, 1989). Il suggestionatore diviene la persona che deve essere amata sopra ogni cosa ed esercita un potere totalitario sull’affiliato intromettendosi, a volte, anche nei legami matrimoniali accordandoli e sfasciandoli. L’adepto si esclude man mano dalla vita sociale, culturale, economica comportandosi come gli viene ordinato a causa della paura di esclusione dalla setta che fa leva sul senso di colpa. Al fine di espiare le sue debolezze (avarizia verso la setta, mancanza di fede) l’adepto è disposto a tutto pur di non essere emarginato, soprattutto psicologicamente, dalla setta: viene spinto a confessarsi e le confessioni più intime possono venire registrate e in seguito utilizzate contro di lui. Si tratta di uno strumento di controllo, paragonabile a una violenza psicologica, operato di frequente dalle sette. Non sottovalutiamo poi lo sfruttamento economico, le estorsioni alle quali vanno incontro gli adepti. Il capo setta consiglia i seguaci su eventuali donazioni e lasciti a favore del gruppo e di se stesso per avere il totale controllo, spirituale e materiale, sui fedeli (Fillaire, 1994). Sottolineiamo che spesso vengono reclutati anche minorenni, perlopiù parenti degli affiliati. Le sette condizionano le persone attraverso il controllo mentale (controllo della condotta, delle emozioni, del pensiero, dell’informazione) durante l’affiliazione e la permanenza (Hassan, 1991; Lifton, 1989; Singer, Lalich, 1995). Il suggestionatore può condizionare i seguaci a violare la loro sfera personale. La coercizione può far leva sulla paura che può permanere anche dopo la disaffiliazione dalla setta. In alcune circostanze l’agente influenzante determina nell’adepto un’identificazione: il soggetto ubbidisce al “leader” che si presenta come una persona fuori dal comune e con poteri eccezionali non perché ne ha timore, ma perché si sente come lui, pensa e agisce come lui. Il totale condizionamento impedisce però all’individuo di riconoscere la sua assoluta dipendenza e il completo assoggettamento. Il “fedele” crede di comportarsi liberamente ma non è così. La manipolazione mentale genera cambiamenti dell’identità personale trasformando la struttura emotiva e cognitiva della persona, fino a creare una specie di nuova personalità all’“altezza” del suggestionatore. Due esempi ci permetteranno di comprendere la pericolosità delle azioni di suggestionatori senza scrupoli. Secondo quanto riportato dai giornali, nel 2009, a Vicenza, una quindicenne pensava di potere entrare in contatto con l’anima del papà appena scomparso, ma l’amicizia sorta via internet con un sedicente stregone si è trasformata in un incubo lungo un anno in cui la minorenne ha subito abusi sessuali continuati mascherati da riti e iniziazione a sfondo esoterico. Fragile, succube dell’uomo, spaventata
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all’idea di disobbedire, sottoposta a un protocollo di iniziazione che prevedeva una scaletta settimanale di prestazioni sessuali ordinate e gestite – secondo quanto le fu fatto credere – da una triade di spiriti che il falso stregone sosteneva albergassero in lui e che pretendevano attenzioni sessuali di volta in volta sempre più perverse. Durante l’edizione del telegiornale del 15 giugno 2010 apprendiamo che, a Trapani, un sedicente “mago” di cinquant’anni è stato arrestato con l’accusa di estorsione e violenze sessuali in seguito alla denuncia di un uomo che, per quindici anni, si è sottoposto alle sue ridicole cure. Le vittime si rivolgevano a lui, anche telefonicamente, per problemi di salute o per mandare via il malocchio. Gli servivano pochi gesti sulla pancia, sulle ginocchia e sulla testa dei clienti per scacciare il malocchio invocando persino l’aiuto della Madonna. Dopo avere convinto decine di uomini e donne in difficoltà di avere poteri speciali contro eventuali fatture malefiche, queste si sottoponevano alle sue sedute di guarigione. La truffa portava al “guaritore” regali, denaro, servizi che andavano dalle pulizie di casa ai rapporti sessuali. Per chi si rifiutava di saldare la seduta scattavano le minacce; chi non avesse rispettato la volontà del presunto guaritore sarebbe stato vittima di conseguenze malefiche; il “mago” prospettava terribili ritorsioni di un’entità soprannaturale di cui soltanto lui – secondo le sue parole – esternava la volontà. Zablocki (1997, 1998) sostiene che la dipendenza e la passività dell’adepto deriverebbero da caratteristiche relazionali e per questo comprensibili attraverso l’attenta valutazione della funzione del suggestionatore e dell’ambiente sociale nel quale ha luogo la relazione. Nella visione dell’autore il lavaggio del cervello sarebbe un processo di conversione che include l’affiliazione, i mutamenti nello stile di vita, la disaffiliazione e la disillusione. La paura connessa alla disaffiliazione non permette all’individuo di pensarsi fuori dalla setta. La disaffiliazione ha delle ripercussioni sulla stabilità del gruppo settario, poiché lasciare la setta implica troncare la relazione con il suggestionatore e non sottostare più alle sue regole. Al fine di eludere questa possibilità il suggestionatore agirebbe per rendere ardua l’uscita dell’adepto in crisi (ad esempio, suscitando terrore per la vita fuori dalla setta). Le caratteristiche di personalità del soggetto influenzano l’efficacia del condizionamento mentale. Pensiamo non esista una tipologia di persone “a rischio tecniche plagiatarie” poiché chiunque può trovarsi ad affrontare una fase delicata della propria vita (esperienze di perdita, depressione, ecc.) (Climati, 2004). I fattori che predispongono l’adesione a un culto possono essere il venire meno dei valori e delle sicurezze familiari, la disillusione della società, la delusione delle relazioni affettive, l’affermazione della cultura della droga, la debolezza emotiva, il timore del futuro, il ridotto impegno della Chiesa, l’incremento della cultura dell’occulto, il bisogno di bilanciare i propri vissuti d’inferiorità con un vicario complesso di potenza, l’attrazione per eventi orgiastici comportanti bisogni di dipendenza interpersonale, la fuga dalle responsabilità e dagli impegni sociali, il bisogno di sostituti genitoriali appaganti (Mastronardi, 2005; Petersen, 2008). Nelle organizzazioni, come le sette, il decremento del potere volitivo può riguardare un cambiamento (Spaltro, De Vito Piscicelli, 1990): – progettato e partecipato, implicante uguale distribuzione di potere e determinazione reciproca dell’obiettivo in entrambe le parti;
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– indottrinante, presume sbilanciata distribuzione di potere di tipo monocratico e determinazione intenzionale dell’obiettivo (come carcere, scuola, ecc.); – da interazione spontanea, distribuzione equilibrata del potere in senso policratico e interazione reciproca e non prestabilita dall’obiettivo. Il cambiamento genera esiti benefici senza ruoli definiti; – da pressione sociale, legato alla dipendenza gerarchica interdipendente (ad esempio, relazione insegnante-allievo). Se associato alla premeditazione siamo in presenza di un cambiamento partecipato e indottrinante; – tecnocratico, il soggetto tecnocrate si sente il protagonista assoluto e non accetta di essere uno dei protagonisti; – coatto, fa leva unicamente sui rapporti di forza senza considerare il consenso altrui. Ne consegue che il rapporto di potere risulta squilibrato in senso monocratico con premeditazione unilaterale e con determinazione non reciproca dell’obiettivo; – casuale, include quello che la conoscenza può conseguire. Il cambiamento viene suscitato senza premeditazione e senza reciproca determinazione dell’obiettivo; – emulativo, chiaro rapporto gerarchico-carismatico tra superiore e subordinato. Il cambiamento avviene tramite l’identificazione dei subordinati verso figure carismatiche dei superiori. Molti santoni e imbonitori profetizzano la fine del mondo. Dal canto loro, le sette usano questi stessi argomenti per irretire gli ingenui e reclutare nuovi adepti, spesso condotti fino alla morte (Abgrall, 1999). La setta diviene parte integrante della definizione del Sé; la persona percepisce se stessa come espressione della setta e reputa naturale l’obbedienza alle credenze e ai principi del gruppo (Re, 2009). Come sostengono Zimbardo e Andersen (1993), il mind control rappresenta uno strumento per alterare condotte, emozioni e pensieri. Pensiamo che il sistema educativo, nell’ambito familiare e nelle istituzioni preposte, rappresenti lo strumento d’élite nell’assunzione o nel rifiuto di modificazioni culturali e sociali. La famiglia ricopre un ruolo basilare nel mantenimento del sistema di valori vigenti, trasmettendo ai figli valori e norme di riferimento. Potrebbe essere utile introdurre nei programmi scolastici corsi informativi sul condizionamento mentale, in particolare in relazione alle sette, per rendere i giovani capaci di riconoscere gli approcci manipolativi. 5. Suicidi-omicidi collettivi e condotta criminale Ricordiamo alcuni casi di omicidi, suicidi e altri reati compiuti all’interno di gruppi settari. Nella Guyana (Sudamerica), nel 1978, i seguaci della setta del Tempio del Popolo seguono fino alle sue estreme conseguenze il credo del reverendo Jim Jones. Di fronte alle pressioni del governo americano, che intende mettere fine al regime di terrore e alla follia del reverendo, Jones ordinò l’omicidio di alcuni funzionari governativi e l’omicidio-suicidio di oltre novecento seguaci; ad adulti e bambini venne somministrato un liquido letale, il cianuro (Brannon, Morlang, 2002). Si parlò
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di grande potere carismatico del reverendo, della tipologia di adepti (si trattava soprattutto di persone povere, prive di istruzione), ma ciò che influì perlopiù su tale tragedia fu il fatto di vivere estraniati dal resto del mondo e l’assenza di punti di riferimento esterni e la presenza di persuasiva riprova sociale (Cialdini, 1984). Nel 1993 a Waco, in Texas, un’ottantina di seguaci della setta davidiana vengono trovati morti insieme al loro capo David Koresh, dopo un lungo assedio da parte dell’FBI. Nel 1995, nei sotterranei della metropolitana di Tokio, viene diffuso da alcuni membri del movimento religioso Aum Shinrikyo, fondato da Shoko Asahara, un gas nervino che provoca dodici morti e più di cinquemila intossicati (Lifton, 1999). Nel 1997 a Rancho Santa Fe, in California, avviene il suicidio di massa della setta Heaven’s Gate del fondatore Marshall Herff Applewhite (Do) e una trentina di adepti (Winston, 2000). Tra il 1994 e il 1997 ripetuti suicidi collettivi hanno riguardato la setta dell’Ordine del Tempio Solare, con oltre settanta morti in Svizzera, in Canada e in Francia (Mayer, 1996). Nel 2000, a Kanungu, in Uganda circa ottocento adepti di una setta apocalittica ugandese, il Movimento per la Restaurazione dei Dieci Comandamenti di Dio, si sono dati fuoco dopo avere cantato e suonato per molte ore nella loro chiesa (Wessinger, 2000). La possibilità di predizione di condotte violente o suicidarie nelle sette religiose risulta limitata; la condotta criminale precedente rimane il più attendibile criterio per valutare la sua pericolosità sociale (Cavanaugh, Rogers, 1981). Tuttavia, riportiamo i principali indicatori di rischio di suicidi collettivi o manifestazioni violente (Bromley, Melton, 2002; Di Fiorino, 2001): – dipendenza assoluta dal suggestionatore; – precedenti atti di violenza, tollerati e accettati dal gruppo; – diminuzione dell’autonomia di scelta; – percezione delirante persecutoria della realtà; – temi di complotto; – procurarsi illegalmente armi. Non sottovalutiamo poi la potenziale pericolosità per il singolo e per la collettività di alcuni gruppi come la Chiesa di Scientology che respinge il sostegno psicologico e la cura di qualsiasi disturbo mentale (Laggia, 2009), la Christian Science che disapprova persino le anestesie, i Testimoni di Geova che rifiutano le trasfusioni (Pollina, 1996). Soffermiamoci sul legame tra satanismo e terrorismo. In riferimento alla tragedia americana dell’11 settembre 2001, sembra che alcune persone abbiano parlato del volto di Satana visibile nelle fotografie del fumo che usciva dal World Trade Center di New York. Secondo il filosofo Vico (1971) la civiltà evolve nel pensiero analogamente al bambino che, diventando adulto e maturo, acquista una capacità di riflettere meno ingenua e più sofisticata. All’inizio della civiltà i meccanismi di difesa della società assomigliano a quelli più infantili, ad esempio sono di tipo animistico come sostiene anche Piaget (1926). Per un lungo periodo della storia gli dei sostituivano le spiegazioni scientifiche che avrebbero illuminato le conoscenze; ad esempio, il
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fenomeno del vento si identificava con il dio Eolo, Nettuno spiegava la forza e le leggi del mare, e così via. Janet (1889) contestava a Freud il concetto di rimozione e lo sostituiva con quello di dissociazione, che si sarebbe attivato in modo primitivo nelle pazienti isteriche e in altri pazienti a causa di una realtà psichica penosa. Melanie Klein (1957) aveva immaginato che il primo meccanismo di difesa primitivo del neonato fosse schizoparanoideo per la stessa ragione. Similmente agli uomini primitivi, di fronte alla realtà sensoriale e minacciosa – come sostiene anche Freud in Totem e tabù (1912-1913) – la prima organizzazione della mente del soggetto consiste nel fare lo splitting, la separazione magica in due parti di una realtà intera. Questo significa che, dinanzi alla difficoltà di padroneggiare ciò che non si conosce e che risulta complicato e perturbante, la scissione si presta a ridimensionare la drammacità inerente alla gestione di quello che è inspiegabile: una causa immaginata determina l’effetto sperimentato, ma non spiegabile. La superstizione nasce quindi dal bisogno di credere che la potenza legata a un fenomeno sconosciuto sia causata in modo deterministico da una forza equivalente, che produce e nella quale rientrano tutte le cose esistenti e non spiegabili diversamente. Ad esempio, il male causa la guerra, la morte, l’invidia, la gelosia, o meglio è una forza disgregante, mentre il bene sembra essere una forza aggregante. Osservando i riti religiosi, a partire dalla preistoria, le nostre società hanno da sempre creduto ingenuamente alla scissione del mondo esterno come governato da due forze opposte. Empedocle di Agrigento pensava che fuoco, terra e acqua fossero le sostanze che avrebbero spiegato l’esistenza del mondo conosciuto e che lo facessero funzionare. Negli anni della Magna Grecia del sesto e quinto secolo a.C. la filosofia si fondeva con la superstizione. Tali superstizioni sarebbero scomparse con il trascorrere dei secoli (Rossetti, Santaniello, 2004). Già il filosofo greco Protagora, primo umanista dell’antichità, riconobbe il bisogno proiettivo della mente. Egli affermava che l’uomo è la misura di tutte le cose in natura, di quelle che esistono in quanto esistono e viceversa, ma come gli uomini dalla pelle scura pensano al loro dio con la pelle scura e il naso camuso, così i cavalli, se avessero le mani per disegnare, dipingerebbero (in modo suggestivo) il loro dio con la testa di cavallo e con il muso e gli zoccoli; tutti gli altri esseri viventi farebbero altrettanto (Schiappa, 1991). Anche la nostra civiltà protende ad attenuare il dualismo tipico del pensiero suggestivo che, insieme al pensiero illusorio, tenderebbe a imbrogliare il reale e la realtà esterna per addomesticarla alla comprensione della mente umana. Ciononostante, la superstizione continua a esistere nelle menti di coloro che, pur essendo evoluti (ad esempio laureati) in molti settori conservano in una piccola parte di se stessi l’ingenuità infantile. Un interlocutore interno alle persone suggerisce che esiste una via più corta della scienza per ottenere garanzie di sicurezza; e così un individuo in preda alla disperazione per una malattia incurabile si illude, rivolgendosi alla chiromanzia o a un guaritore che indirizza verso una via superstiziosa. In questa accezione la superstizione trova un equivalente nella stessa impotenza umana. Il terrorismo è anch’esso un fenomeno suggestivo e legato all’impotenza: esso ci riporta ai fantasmi antichi che albergano la nostra mente. La minaccia dei kamikaze rom-
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pe in noi tutti il criterio secondo il quale consideriamo il valore della vita e sconvolge ogni quadro di riferimento della nostra esistenza. Ritorna il perturbante di cui parlava Freud (1919), ritorna la scissione tra causa ed effetto. La causa ridiventa onnipotente, mitica, primitiva e per questo più minacciosa dello stesso pericolo reale. Dietro ogni affollamento di gente possono esserci il male e la morte. Attraverso l’addestramento le reclute di alcuni gruppi combattenti vengono indotte con il condizionamento mentale a detestare un determinato nemico e a portare a termine operazioni complicate. La religione viene utilizzata come mezzo di motivazione, indottrinamento e reclutamento. Nell’Asia meridionale esistono scuole di fanatismo religioso, propedeutiche all’adesione ai gruppi terroristici, dove si avviano alla dottrina i bambini per imprimere in loro lo spirito di sacrificio necessario in seguito. Viene insegnato loro che la vita è vera solo dopo la morte, diventano martiri con le loro missioni suicide, per essere ricordati come eroi della causa. Gli incentivi all’arruolamento nei gruppi terroristici possono essere spirituali, emotivo-esistenziali, sociali, politici, economici. Il reclutamento effettivo ha luogo tramite adesione spontanea, in genere dovuto all’esempio di amici o parenti. Pertanto, l’ingresso in una rete terroristica è affine all’ingresso in una setta: i soggetti, spinti da incentivi diversi, vengono addestrati fisicamente e mentalmente alle ideologie del gruppo (Re, 2009). Il satanismo religioso consiste in chiese e gruppi organizzati con differenti credenze sataniche. Sono numerosi i siti internet diretti alla diffusione delle ideologie, al reclutamento di adepti, alla fornitura di materiali per riti satanici; esistono persino stazioni radio su internet che si prefiggono di propagare la filosofia satanica. Secondo le dichiarazioni di superstiti e vittime di crimini questi gruppi sarebbero coperture per azioni criminali. I satanisti tradizionali sarebbero impegnati in attività criminali (rapimento di bambini, pornografia infantile, omicidio rituale con mutilazioni, incesto, violenza sessuale, violenza rituale, incendio doloso). Le pratiche religiose racchiuderebbero sacrifici umani e animali, riti di sangue, rituali sessuali sadici allo scopo di glorificare Satana. I satanisti sedicenti tali usano l’occultismo per giustificare la loro condotta criminale. Non possiamo considerarli dei veri credenti dal momento che il loro obiettivo non è il culto satanico spirituale, bensì il conseguimento di una gratificazione attraverso l’attività criminale, l’acquisizione di un potere personale, di un introito materiale. Molti atti criminali possono essere riconducibili all’influenza mediatica (film, musica, web) del satanismo. I crimini che possono essere compiuti dai satanisti della subcultura giovanile includono atti vandalici, violenza scolastica, mutilazione di animali, profanazione di tombe, talvolta omicidi (ricordiamo il già citato caso della suora uccisa a Chiavenna da tre ragazze che avevano formato un proprio gruppo satanico) (Perlmutter, 2001). 6. Disaffiliazione del succube e costruzione del Sé Quando l’addicted, o spesso un suo familiare, chiede aiuto, la dipendenza non rappresenta solo un problema psicologico, bensì un problema esteso che sta compromettendo le diverse sfere di vita del soggetto (familiare, professionale, sociale).
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Negli ultimi anni, grazie anche all’attivazione di linee telefoniche e alla diffusione di internet (siti web, indirizzi di posta elettronica), sono nate molte associazioni di volontari aventi il fine di fornire consulenza, assistere e aiutare le vittime delle sette o i familiari preoccupati per l’affiliazione di un loro caro a determinate sette. In ambito cattolico, nel 1987, in Italia, è stata fondata un’associazione privata di fedeli, il Gruppo di Ricerca e Informazione Socio-Religiosa, con la finalità di sostenere le persone che si trovano a fronteggiare difficoltà familiari in seguito all’affiliazione di un congiunto ad altri gruppi spirituali (Testimoni di Geova, Chiesa di Scientology, ecc.). Ricordiamo poi l’Associazione Ricerca e Informazione sulle Sette che opera in ambito non cattolico. L’associazione FA.VI.S. (Associazione nazionale familiari delle vittime delle sette)1, costituita a Rimini nel 2000, opera a livello locale e nazionale al fine di promuovere l’informazione per la conoscenza del fenomeno delle sette a controllo mentale degli adepti. Offre tutela legale relativamente alle truffe e agli abusi di sette e santoni, dei cosiddetti operatori dell’occulto, guaritori, medium e similari, segnalando alle autorità competenti i casi lesivi dei diritti dell’individuo; promuove incontri e conferenze per diffondere la cultura della conoscenza del problema, della sua pericolosità individuale, familiare e sociale; collabora con le forze di polizia denunciando gli abusi civili e penali delle organizzazioni settarie distruttive e pericolose. Le richieste d’aiuto possono scaturire da persone preoccupate per familiari, amici coinvolti in una setta da loro ritenuta pericolosa, da adepti ancora affiliati con dubbi sulla loro affiliazione, da soggetti usciti da una setta che desiderano rielaborare la loro esperienza passata. Il condizionamento mentale si fortifica quando vengono avviate azioni di forza per obbligare il seguace a staccarsi dal suggestionatore o viceversa. Il soggetto ammaliato reputa l’accanimento contro il suo idolo un indicatore del suo status divino, della sua bontà che vengono fraintesi da chi non fa parte della setta (Di Marzio, 2010). L’abbandono della setta da parte dell’adepto può avvenire volontariamente (scelta libera) o forzatamente (costretta da agenti esterni). Nel primo caso viene meno la funzione di controllo esercitata dalla setta e il soggetto in crisi abbandona la setta perché non ne condivide più i valori e si distacca da essi; spesso avviene il distacco perché l’adepto sperimenta sin dall’inizio una situazione dissociativa e, in un secondo tempo, la parte meno suggestionabile ritorna a prevalere sull’altra. Nel secondo caso il membro della setta viene sottoposto alla deprogrammazione2, cioè viene rapito, rinchiuso in un luogo isolato e indottrinato da altri ex membri affinché si persuada ad abbandonare la setta (Galanter, 1989). In alcuni casi la disaffiliazione può derivare da un’espulsione imposta dal gruppo (Zablocki, 1998). La disaffiliazione può essere accompagnata da disillusione, un senso di estraneità in cui l’individuo inizia a percepire le azioni e le scelte effettuate nel corso dell’affilia-
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http://www.favis.org/main.html Negli anni Settanta e Ottanta, negli Stati Uniti, alcuni movimenti antisette (ad esempio, il Cult Awareness Network) ricorrevano a pratiche discutibili come la deprogrammazione per attaccare gruppi settari e costringere i membri ad abbandonare il gruppo. 2
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zione come egodistoniche, vale a dire lontane dai suoi nuovi valori e dai valori anteriori all’affiliazione. Talvolta la disillusione si presenta prima della disaffiliazione e il soggetto inizia a sentirsi in crisi e a percepire disagio psicologico. Ciononostante, il seguace può decidere di rimanere nella setta perché non trova un’alternativa sociale altrettanto protettiva e permane il senso di disorientamento. In seguito alla disaffiliazione le difficoltà che la persona incontra riguardano la sfera pratica della vita quotidiana, cognitiva, psicologico-emotiva, psico-attitudinale e socio-personale. L’ex adepto si trova a fronteggiare la sfiducia nelle proprie possibilità, una forma di dissociazione definita floating (sensazione momentanea di sollevarsi dal suolo e galleggiare nell’aria, o che eventi e oggetti circostanti siano eterei e immateriali) (Re, 2009), l’angoscia del distacco, la creazione di nuovi legami, il recupero delle relazioni interrotte con l’ingresso nella setta, o ad analizzare le condotte assunte. Pensiamo sia fondamentale che le persone si liberino dalla “pseudopersonalità settaria” giungendo al recupero del Sé e dei valori personali. Ciascun individuo affronta il processo di disaffiliazione in modo differente in relazione alle proprie capacità e alla propria storia personale (Singer, Lalich, 1995). Quando perdura nel soggetto la paura nei confronti del suggestionatore registriamo una minore capacità di fronteggiare e risolvere le problematiche e possiamo osservare molteplici forme di disadattamento. Alcuni gruppi settari rivolgono agli adepti minorenni forme di condizionamento basate in particolare sulla paura, sul senso di colpa e sull’isolamento dagli altri. Il suggestionatore viene vissuto come sostituto di un legame affettivo autentico. Il minore non è in grado di reagire a costrizioni imposte mediante ricatti affettivi e psicologici, che portano alla compromissione del benessere psicofisico del minore. Sono inevitabili le ripercussioni sul nucleo familiare, ove si originano disagio e conflitti intensi. Il modo in cui il soggetto ricostruisce e valuta la sua esperienza nella setta dipende dalle sue caratteristiche di personalità e dalle motivazioni che lo hanno indotto a disaffiliarsi dalla setta. In particolare, se il gruppo settario costituiva l’unico sostegno affettivo, la decisione di separarsene è stata presa in condizioni drammatiche con afflizione e difficoltà. La disaffiliazione viene spesso associata a numerose forme di disagio: – sentimenti di delusione e di rabbia verso la setta; – vergogna per il coinvolgimento in attività anche non cristalline durante l’affiliazione; – rifiuto dell’esperienza vissuta, percepita come estranea a sé; – vengono rinnegate la filosofia della setta e le scelte effettuate durante l’affiliazione; – ricatti affettivi e/o finanziari subiti prima di abbandonare la setta; – paure generate dal suggestionatore per persuadere gli adepti che l’allontanamento dalla setta avrebbe provocato loro ritorsioni e sciagure; – preoccupazione per parenti e/o amici ancora inseriti nella setta che si vorrebbero riportare in salvo convincendoli della pericolosità del gruppo; – desiderio di rivalsa nei confronti del suggestionatore. Alcuni disaffiliati decidono di operare attivamente nei centri d’ascolto antisette, nei centri di auto-aiuto per contrastare un fenomeno che colpisce il singolo e la
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società: la manipolazione mentale nei gruppi settari. La presenza di professionisti del campo e di persone che hanno vissuto direttamente l’affiliazione e la disaffiliazione sarebbe adeguata per attuare le strategie idonee per affrontare i differenti casi. Il gruppo di aiuto alle vittime svolge un ruolo di rassicurazione emotiva, consente al soggetto di rivivere e riflettere sulla sua esperienza passata, di uscire dal suo stato di confusione e sofferenza e di recuperare rapporti affettivi e altre occasioni di realizzazione (Di Marzio, 2010). Bisognerebbe tenere presente che, spesso, per la famiglia addossare tutta la colpevolezza a un agente esterno per l’allontanamento di un proprio caro può ricoprire una funzione consolatoria e utile per scaricare le proprie responsabilità. A nostro avviso, determinate problematiche, conflitti familiari potevano già essere presenti prima dell’affiliazione alla setta. Crediamo sarebbe fruttuoso informare, innanzitutto nelle scuole, sui pericoli insiti in alcuni gruppi settari che incoraggiano alla violenza, a commettere reati, a diffondere idee pericolose. Pensiamo sia importante aiutare il soggetto, mediante un intervento psicoterapeutico e psicosociale, a: – prendere consapevolezza dei fenomeni comportamentali dovuti alla dipendenza da setta; – mettere in discussione le sue cognizioni maladattive; – prendere coscienza dell’incapacità di individuare e regolare gli stati affettivi negativi; – considerare le problematiche che la compulsione ha generato nelle differenti aree della vita (familiare, amicale, lavorativa, finanziaria); – comprendere i meccanismi alla base della condotta compulsiva; – esplorare i suoi conflitti inconsci e favorire l’elaborazione delle esperienze traumatiche e di trascuratezza psicologica risalenti all’infanzia; – mentalizzare e regolare gli affetti e le emozioni allo scopo di usarli in modo opportuno nell’ambito delle relazioni personali (Marlatt, Gordon, 1985). Riteniamo utile l’“educazione emotiva” allo scopo di dare avvio a condotte quali l’autocontrollo, l’autoconsapevolezza indispensabili per risolvere i conflitti (Goleman, 1995). 7. Le caratteristiche di personalità del suggestionatore Sin dal passato l’uomo è ricorso all’uso di droghe per tentare di trovare una via di contatto con il divino e il soprannaturale ampliando le proprie capacità sensoriali. L’uso di determinate sostanze all’interno di gruppi a manipolazione mentale o condizionamento psicologico degli adepti, utilizzate anche all’insaputa di questi ultimi, non serve solo per raggiungere l’estasi, la trance, ecc., ma anche per permettere ai suggestionatori di tenere sotto controllo i seguaci e sottometterli. Già gli sciamani utilizzavano droghe allucinogene per raggiungere uno stato alterato di coscienza per scopi rituali. Presso alcune civiltà (ad esempio, nella Repubblica del Niger le donne della valle del Maradi praticano il culto Bori, avente episodi di possessione) possiamo ancora rilevare l’impiego di sostanze allucinogene in ambiti religiosi. La dro-
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ga può rappresentare uno strumento per favorire l’esorcismo di divinità malvagie e un mezzo di mediazione tra gli dei e l’uomo per la sua capacità di indurre stati alterati di coscienza, stati di estasi che mettono in comunicazione con gli dei, fanno vivere esperienze magiche e paranormali (Donini, 1991). Secondo la parapsicologia, la possessione avviene quando un medium, in stato di trance analogamente a uno sciamano, viene posseduto dallo spirito di un defunto o da un vivente entrando in contatto con il soprannaturale (Angela, 1983; Conti, 1989; Lewis, 1986). Le scienze psichiatriche ritengono la possessione come il convincimento delirante di essere posseduto da un altro ente (un demone, un animale, ecc.) che controlla parole, pensieri, gesti. I demoni diventano quindi un prodotto della psiche della persona, dei suoi conflitti interni e delle sue paure (Hinsie, Campbell, 1970). Fin dall’antichità (presso assiro-babilonesi, egiziani, greci, romani, incas, aztechi, maya) il male veniva considerato una possessione demoniaca ed erano presenti pratiche esorcistiche aventi il fine di espellere i demoni (Pazzini, 1951). Nel Medioevo il diavolo poteva possedere carnalmente i soggetti, assumere forme animalesche e mostruose, manifestarsi nei sogni, tentare in modo subdolo le persone. Il rimedio nei confronti del posseduto consisteva nell’esorcismo operato dai religiosi; inoltre, il soggetto malato veniva emarginato dalla società (Kemp, Williams, 1987). Nello scritto Una nevrosi demoniaca nel secolo decimo settimo, Freud (1923b) afferma che gli stati di possessione corrispondono alle nevrosi, i demoni rappresentano impulsi cattivi ripudiati derivanti da moti pulsionali (perlopiù sessuali) respinti o rimossi. La figura del diavolo sarebbe un sostituto della figura paterna avente la funzione di una fantasia paranoica diretta alla liberazione dei sensi di colpa. L’isteria potrebbe essere interpretata come possessione diabolica. Le sue manifestazioni cliniche (attacco isterico, amnesie, paralisi, stati dissociativi, ecc.) possono mimare i sintomi peculiari della possessione. La persona isterica risulta in gran misura suggestionabile, pertanto se influenzata da persone, credenze nei malefici, pratiche spiritiche, ecc. può indirizzare la sua patologia verso temi demoniaci instaurando un’isteria di conversione demoniaca (Balducci, 1988; Pazzini, 1951). Il suggestionatore ricorre a strategie, menzogne al fine di avere vantaggi personali e dare prova della propria superiorità, esercitando potere sui più deboli e ricorrendo persino a minacce e crudeltà. Possiamo quindi affermare che egli utilizza la relazione con i devoti per soddisfare se stesso, le proprie necessità e i propri interessi, persuadendo gli altri all’assoggettamento e alla dipendenza (Di Marzio, 2010). Il delirio di grandezza derivante dall’adorazione dei seguaci può portare i capi setta ad atti estremi; pensiamo, ad esempio, ai suicidi-omicidi di massa citati precedentemente. Le motivazioni secondo le quali il suggestionatore non tollera l’abbandono dei suoi proseliti e struttura relazioni patologiche vanno ricercate nella sua storia relazionale e nelle sue caratteristiche di personalità. Spesso si tratta di personalità borderline, di soggetti con disturbi schizoidi e narcisistici della personalità. Queste persone possiedono grandi capacità magnetiche e manipolative, sia nell’aspetto estetico, sia psichico. Sovente sono in malafede, ma una buona parte, quella più severa nella patologia, è in buona fede. Quando la setta viene posta sotto accusa dai gruppi antisette, il suggestionatore potrebbe reagire alla situazione critica dandosi alla fuga; questo avviene special-
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mente se è una persona che utilizza i seguaci al fine di esercitare un potere volto al conseguimento di benefici personali. Alle volte i proseliti continuano a difendere il loro “leader” conservando la fiducia in lui, anche malgrado la condanna penale e l’attestazione di inganno. Tuttavia, se il suggestionatore mentalmente disturbato è fortemente convinto del suo potere e della missione da compiere, con il contributo degli adepti cerca di mantenere viva la setta nonostante l’accanimento esterno. Se pensiamo ai casi di omicidi-suicidi di massa possiamo facilmente comprendere che il suggestionatore è disposto a tutto pur di dimostrare la propria autorità, decidendo addirittura l’autodistruzione e i suoi devoti sono pronti a ubbidire. Il capo setta tende a essere autoritario e viene spesso descritto come carismatico, è persuasivo e sostiene di avere una missione speciale, concentra su di sé la venerazione (Singer, Lalich, 1995). Il suo scopo è il potere, il piacere di esercitarlo sui seguaci deboli e sottomessi alla perversione. Il manipolatore seduce, alletta e affascina per conquistare gli altri, in genere bersagli emotivamente bisognosi e dipendenti dagli altri; individua i punti deboli delle persone e le sfrutta senza indugi celando le proprie intenzioni sotto la facciata di uno scopo nobile per la conquista di un potere personale; cerca di tenere i proseliti in condizioni di ansia e in posizione di costante sottomissione per indebolirli, ottenere ciò che desidera e non permettere loro di avere consapevolezza di quello che sta accadendo (Re, 2009). Il suggestionatore, come accennato, può essere affetto da tratti caratteriali psicopatologici (Mastronardi, De Luca, Fiori, 2008): – isteria, autosuggestionabilità in seguito a film, pratiche spiritiche, letture; – sonnambulismo isterico o epilettico (Charcot, 1887-1888); – epilessia larvata, con deliri e allucinazioni di tipo divino o demoniaco; – disturbi bipolari (sintomi di maniacalità e depressione); – nevrosi ossessivo-compulsiva con impulsi incontenibili a bestemmiare in chiesa e avere pensieri aggressivi nei confronti di figure sacre; – disturbo borderline di personalità, caratterizzato da relazioni instabili e intense nelle quali si alternano iperidealizzazione e svalutazione, paure abbandoniche, senso di vuoto, instabilità affettiva, rabbia inappropriata e intensa o perdita del controllo della rabbia, impulsività (abuso di sostanze, guida spericolata, sesso compulsivo e perverso, frenesia alimentare, shopping compulsivo), condotte autolesive e suicidarie, disturbo dell’identità (immagine di Sé e/o senso di Sé instabile in modo persistente e accentuato. Ad esempio, la persona sente di incarnare il male), scompensi nell’esame di realtà (fenomeni allucinatori, depersonalizzazione, derealizzazione) (APA, 2000; Gunderson, Links, 2008; Kernberg, 1975); – personalità narcisistica, connotata da eccessiva tendenza a riferirsi a Sé e a porre Sé al centro dell’attenzione. Sono presenti grandiosità, ambizioni incontrollate, senso di superiorità, paura di mediocrità, l’ammirazione da parte degli altri viene sentita come dovuta, vi è assenza di empatia e di interesse per gli altri, che possono essere sfruttati. I valori sono costruiti intorno alla difesa di Sé, del proprio orgoglio, della stima di Sé. Il sentimento di base è di vuoto, solitudine, assenza di significato, collera (Kohut, 1971; Maffei, 2008); – disturbi dissociativi dell’identità. Si tratta di un disturbo dissociativo che si caratterizza per la presenza, in uno stesso individuo, di più identità ben di-
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stinte in grado di assumere il controllo del proprio pensiero e della propria condotta, aventi differenti modi di percepire l’ambiente e di interagire con gli altri. Le diverse personalità presenti possono assumere alternativamente il totale controllo del comportamento, senza che la persona abbia memoria di quanto accaduto, e in molti casi le varie personalità non sono a conoscenza dell’esistenza delle altre. La dissociazione avrebbe un valore adattivo come risposta a vari traumi e sarebbe una via di fuga da una situazione altamente conflittuale. La dissociazione funzionerebbe quindi da protezione per la salvaguardia di un nucleo sano del Sé, messo a repentaglio da una situazione o da eventi traumatici (Pani, Parisoli, 2001); – stati alterati di coscienza suscitati da allucinogeni, meditazione, canti monotoni ripetuti ossessivamente, isolamento prolungato, fame, sete, insonnia protratte (Benson, Miller, Signer, 1986; Granone, 1989); – schizofrenia, con allucinazioni visive di demoni, uditive (rumori inconsueti), cenestesiche (percosse); – autoipnosi spontanea a contenuto demoniaco; – deliri depressivi, come il delirio mistico-religioso (il soggetto si crede la Madonna, Dio o un santo o sperimenta l’essenza della divinità) che può essere accompagnato da delirio di onnipotenza, megalomanico; il delirio di influenzamento o di possessione; il delirio di trasformazione corporea (delirio zooantropico connotato da un vissuto di trasformazione del proprio corpo in quello di un animale o dalla sensazione che un animale occupi il corpo o parti di esso; o delirio di demonopatia interna caratterizzato dalla convinzione che il demonio possegga e occupi il corpo); la depressione di Cotard include anche idee di enormità, di immortalità e di trasformazione corporea, deliri di dannazione e di possessione demoniaca (Dugas et al., 1985). Il soggetto sentendosi minacciato manipola l’altro. Alcune persone come il suggestionatore non sono consapevoli di cercare e “amare” per tutta la vita persone delle quali hanno unicamente bisogno, confondono la passione con l’urgenza e agiscono patologicamente attraverso acting out, fuga in avanti per mezzo di impulsi o azioni senza controllo, mancanza di riconoscimento delle emozioni, assenza di spazio per giocare al proprio interno. Potremmo affermare che l’autorità viene conferita al suggestionatore dai seguaci (Trentini, 1997). Il manipolatore non si accontenta della subordinazione degli adepti, ma da essi vuole anche il cuore (Dilts, 1996). La ricerca del potere, un illimitato bisogno di affetto e di attenzione equivalente a quello non ricevuto da bambino, spingono il suggestionatore a cercare in modo coatto il consenso per compensare la disistima che egli percepisce nei propri confronti e rimuove costantemente al fine di sopravvivere. Il mito del potere prende il posto della carenza d’identità del soggetto che, privo di un Sé interiore, è obbligato a cercare nel riconoscimento esterno – al quale non intende rinunciare – la soluzione all’angoscia. Di conseguenza, il suggestionatore – similmente al clochard – si trova a vivere di carità pubblica costretto com’è a neutralizzare con la stima dimostratagli dagli altri la totale disistima di sé, e con la dipendenza assoluta degli adepti la mancanza di indipendenza. Il manipolatore sa di essere amato per ciò che in realtà non è (Galimberti, 2009). Kets de Vries (1993) recupera il termine “allessitimia” (= non ho le parole per
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esprimere) coniato da Sifneos (1972) per denotare le persone prive di capacità empatica, incapaci di trovare le parole per descrivere i propri sentimenti, emotivamente sterili, con idee monotone, con scarsa immaginazione e carente cassa di ridondanza emotiva. Kets de Vries ingloba tra gli allessitimici i leader con aspetti narcisistici o psicopatici che presentano non tanto il controllo della situazione, bensì freddezza, distacco emotivo – indicatori di assenza di qualità umana nelle relazioni. Gli psicopatici sono egocentrici e puerili di fondo, indifferenti alle frustrazioni, incapaci di soffrire e di gioire, non provano alcun sentimento di gratitudine perché tutto sarebbe loro dovuto, non sono né empatici, né simpatici, non conoscono le relazioni ma solo la presentificazione degli altri come parte interna del campo nel quale si trovano, ma che non sanno riconoscere e con la quale non hanno relazione di condivisione. Il suggestionatore ha una visione del mondo che viaggia al limite della realtà o della paranoia. Presumibilmente le fantasticherie scoraggiate da piccolo e mantenute in età adulta risultano così elevate nella scala dei valori al punto da coinvolgere gli altri, i seguaci che desiderano uscire dal grigiore della quotidianità. Si tratta di un eureka (= ho trovato!) che si estende illuminando gli altri, avvolgendoli in filosofie deliranti, delirio a due (délire à deux) o a più persone, un multi-delirio. Allo scopo di rendere il delirio trascinante per gli altri, il suggestionatore spinge fino al punto in cui i fatti costituiscono i bisogni allucinatori e urgenti e la realtà la sua simulazione. A volte però, con la disaffiliazione degli adepti, lo stato delirante si infrange e gli altri aprono gli occhi; alla delusione collettiva si associa la violenza distruttiva del manipolatore che esprime la vendetta di un’illusione tradita (Quaglino, 1994).
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1. L’occultismo In Italia operano migliaia di occultisti e veggenti pubblicizzati anche mediante televisione, internet, giornali. Vi sono infiniti numeri telefonici a pagamento che si possono chiamare al fine di ricevere consulenze da parte di svariati indovini e veggenti. Non possiamo dimenticare la vendita di amuleti e pozioni miracolose tramite televendite e spot televisivi da parte dei vari indovini che offrono consulenze magiche, che affermano di togliere il malocchio, restituire la salute (Sanfo, 1996). La maggior parte di questi sono impostori che raggirano i non pochi “creduloni”. Spesso si tratta di truffatori che rassicurano il cliente comunicandogli che potrà pagare a risultato raggiunto o che potrà fare liberamene un’offerta; in realtà il malcapitato si troverà a dovere pagare i materiali utilizzati dal fattucchiere o dal sensitivo quali talismani, fatture, ecc.; verrà invitato alla segretezza affinché non ne faccia parola con parenti e amici. L’interruzione del legame con il mago, che gioca sulla paura e sulle debolezze altrui, implica anche la possibilità di andare incontro a ricatti, a una vendetta trasversale. Quando la medicina ufficiale non soddisfa più, entrano in scena guaritori di ogni tipo. Le infinite forme inaffidabili di medicina alternativa non si limitano a promettere una sicura guarigione, ma fanno scintillare radicali mutamenti nello stile di vita, assicurando una profonda armonia con forze naturali o entità cosmiche, contro la medicina che si pratica negli ospedali e nei laboratori medici (Abgrall, 1998). Oggi è molto diffuso anche l’interesse per il paranormale e per i poteri speciali. La maggior parte dei fenomeni che hanno luogo durante le sedute sono truffaldini o comunque generati da autosuggestione e appaiono reali ai soggetti ingenui, fragili, in uno stato di necessità (Bamonte, 2000). Chi è solo e privo di un supporto sociale potrebbe cadere più facilmente nella rete dei vari “maghi” ai quali tanti si rivolgono per cercare soluzioni e speranze nel mondo dell’occulto, instaurando con i carnefici una dipendenza psicologica ed economica. Le situazioni di crisi, le gravi malattie anche di un parente, le paure in genere dovute a varie insicurezze possono indurre le persone più fragili a ricorrere agli operatori dell’occulto. Deluse dalla medicina ufficiale e dalla religione, considerate inefficaci nel risolvere i problemi, come ultimo tentativo, esse confidano ciecamente nell’aiuto che è stato loro promesso dai “professionisti dell’occulto”. Pensiamo che, in queste persone, oltre a una modalità adottata per trovare conforto all’urgente bisogno di ricevere risposte lenenti l’angoscia depressiva, vi sia una ricerca di spiritualità in un mondo materialistico e consumistico. Offrire denaro a chi propone di risolvere problemi secondo metodi e credenze di un tempo remoto (gli antichi ri-
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medi sono sempre i migliori) risuona come più familiare. Guaritori, chiromanti, cartomanti, santoni, veggenti, fattucchiere, maghi e indovini evocano di per sé una madre buona che trova rimedio a tutto, come quando si è bambini. La madre, infatti, funziona come colei che alimenta, cura le malattie in prima istanza, prevede quel che può accadere, protegge e anticipa i bisogni, insomma intercede presso il padre e risolve tutti i problemi del piccolo, ecc. Oggi come ieri frustrazione, invidia di chi non è capace di conseguire i propri obiettivi con metodi convenzionalmente accettati, il desiderio di successo in altro modo negato, di fama, di potere sembrano essere le principali motivazioni che spingono a praticare il culto della stregoneria, della magia, dell’occultismo (De Martino, 2007; Fenoglio, 2008; Levi, 1860). Il termine “occulto” deriva dal latino occultus e delinea realtà nascoste, misteriose. Eliphas Levi, nella seconda metà dell’Ottocento, coniò questo parola per riferirsi ai fenomeni che deviano dalla spiegazione scientifica e ai rituali connessi alla magia. In realtà, però, possiamo fare risalire alla preistoria le origini dell’occultismo, quando cioè gli uomini primitivi si rivolgevano al culto al fine di ricevere vantaggi, ad esempio durante la caccia (Levi, 1860). I talismani e gli amuleti erano diffusi nelle civiltà mediterranee. Il cristianesimo si oppose alla diffusione dell’occultismo e nel Medioevo venne osteggiata la stregoneria, una forma di occultismo. Per chiarezza ci sembra utile distinguere l’esoterismo dall’occultismo. L’esoterismo inerisce alla ricerca persistente della conoscenza più elevata del trascendente; l’occultismo riguarda verità segrete, il soprannaturale, la presenza di forze demoniache o angeliche, avvenimenti concernenti forze umane che vanno oltre i cinque sensi. Nella prospettiva occultista le autorità degli inferi sono rappresentate da Satana, Lucifero, Belial e Leviathan (Stanzione, 2010) (Tab. 1). Tab. 1 – Le autorità degli inferi secondo l’occultismo. Personaggio Satana (rappresenta l’uomo contro il dogma)
Caratteristiche – Regna a sud. – Rappresenta la creazione del proprio Tutto; rappresenta il fuoco, la passione che si trasforma in desiderio e distruzione. – Il numero a lui collegato è il 6 (la Bestia); il 666 è un simbolo satanico. – Il suo colore è il rosso. – L’elemento umano con cui si manifesta è l’ira. – Lo strumento cerimoniale è la bacchetta, indicatore della volontà. – Il suo aspetto planetario è Marte o Saturno.
Lucifero (si prostra all’uomo per illuminarlo)
– Regna a est. – Rappresenta l’illuminazione. – Il suo elemento è l’aria, la verità celata a chi non sa. – Il numero a lui associato è il 9, segno di orgoglio e superbia. – Il suo colore è il blu. – L’elemento umano è la sapienza. – Gli strumenti cerimoniali sono la spada e il pugnale. – Il pianeta è Venere, pianeta della passione. – L’aspetto femminile di Lucifero è Lilith, prima moglie di Adamo. La sua manifestazione umana è l’applicazione pratica della conoscenza e il suo numero è il 2.
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Belial
– Regna a nord. – Rappresenta lo sforzo persistente di ingrandire il Tutto, rappresenta la terra. – Il suo numero è 1. – Il suo colore è il nero, il caos primordiale. – L’elemento umano è la tenacia nel proprio credo. – Lo strumento cerimoniale è il pentagramma, cioè il segreto. – La manifestazione principale è la comprensione.
Leviathan
– Regna a ovest. – Rappresenta il disordine. – Il suo elemento è l’acqua. – Il numero a lui corrispondente è il 3, il caos. – Il suo colore è il blu. – L’elemento umano è l’instabilità. – Lo strumento cerimoniale è il calice, che equivale all’acquisizione consapevole di conoscenza. – L’aspetto umano è l’uomo, il microcosmo. – Si manifesta con la realizzazione della propria deificazione.
Mentre Freud definiva l’occultismo «la marea di fango» che sale dall’inconscio, Jung (1902, 1963) ebbe interesse per i simboli esoterici occulti e i fenomeni parapsicologici (Raff, 2000). L’autore ancora ricondusse nell’ambito della «sincronicità» (coincidenza nel tempo di due o più eventi privi di correlazione causale e aventi lo stesso o un analogo significato) fenomeni come la telepatia e la chiaroveggenza (Jung, Pauli, 1955). Attraverso la descrizione di casi clinici, Jung (1902) sostenne che per i fenomeni motori inconsci (ad esempio, i movimenti automatici del tavolo) entra in causa una suggestione primaria con sensibilità presente nella coscienza, spenta nel subconscio. Si tratta di fenomeni che possono manifestarsi non solo nelle persone isteriche o con altre disposizioni patologiche, ma sono rinvenibili anche nei soggetti “normali” che non presentano altri automatismi spontanei. In tali individui, se non subentrano suggestioni contrarie, si possono avere automatismi motori di intensità più o meno elevata. In una percentuale bassa di casi i fenomeni avrebbero luogo spontaneamente, ad esempio sotto l’influenza della suggestione verbale o dell’autosuggestione. L’esempio può agire come potente suggestione. Jung spiega che, sottoponendo alcuni soggetti a esperimento, si può produrre l’automatismo se lo sperimentatore dà intenzionalmente una serie di leggere scosse al tavolino. Dopo breve tempo lo sperimentatore osserva che le oscillazioni si sono intensificate, benché i movimenti volontari siano stati interrotti. Questo esperimento dimostrerebbe che il soggetto può ricevere la suggestione senza rendersene conto, con aumento graduale dell’intensità dell’autosuggestione. Jung utilizza il termine «superpotere inconscio» per indicare quel processo automatico il cui risultato non è accessibile all’attività psichica cosciente del soggetto. Nella pellicola cinematografica Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni (You will meet a tall dark stranger) (2010), di Woody Allen, Helena (Gemma Jones), dopo essere stata lasciata dal marito Alfie (Anthony Hopkins), che se ne è andato per inseguire la perduta giovinezza, accantona la razionalità e si risolleva affidandosi ai bislacchi consigli e alle previsioni sul suo futuro di una sedicente veggente. Il film prende il
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titolo da una delle frasi che i vari cartomanti utilizzano per accontentare i loro clienti e, in modo ironico, ci racconta quanto può essere facile farsi intrappolare dalle proprie illusioni, per eludere i problemi attraverso sogni ad occhi aperti e progetti impossibili all’insegna dell’irrazionalità. Sin dal passato personaggi famosi come regnanti e politici consultano i vari sensitivi di fiducia. Ricordiamo l’interesse di Nancy Reagan per l’astrologia, Rosemary Altea autodefinitasi medium di fiducia di Bill Clinton. Non dimentichiamo l’ossessione di Hitler per l’astrologia (la previsione del futuro, tramite l’osservazione degli astri tenuta in grandissima considerazione per la scelta dei giorni nei quali attuare operazioni belliche e politiche), la numerologia e l’occulto in genere. Alcune radici ideologiche del partito nazional-socialista, l’antisemitismo nazista avevano una componente legata alla cultura esoterica che prevedeva l’avvento di una razza ariana superiore e dominatrice, trascinata da un suo illustre figlio e destinata a decidere i destini del mondo. Hitler nella ricerca di un emblema adeguato per il suo partito optò per la svastica, un simbolo pagano occulto; il simbolo del teschio delle SS aveva evidenti sfumature occulte, similmente alla scelta del castello di Wewelsburg come sede centrale e ufficiale, scena dei riti völkisch e occultisti che puntavano a decantare la razza ariana (Alleau, 1969; Galli, 1989; Howe, 1984). Esponendo l’occultismo non possiamo tralasciare la rabdomanzia, una pratica antica e misteriosa condotta dai rabdomanti per localizzare acqua, metalli, tesori nascosti, petrolio, fare piovere nel deserto con rituali magici1, perfino trovare persone scomparse, avvalendosi delle proprie percezioni, veicolate da bastoni, asticelle o strumenti vari chiamati in genere bacchette, antenne, forcelle rabdomantiche. La rabdomanzia non si fonda su alcuna legge scientifica o empirica, pertanto la si dovrebbe considerare una delle tante forme di divinazione, in cui il rabdomante si impegna a localizzare oggetti e quant’altro attraverso propri poteri occulti. Sono state proposte varie teorie al fine di spiegare perché gli strumenti rabdomantici dovrebbero reagire alla presenza di qualcosa: campi elettromagnetici o sottili influssi geologici, giustificazioni paranormali, ma anche suggestione dettata da altri presenti o da precedenti osservazioni geofisiche. La maggior parte degli scettici accetta la spiegazione secondo la quale la bacchetta si sposterebbe grazie a una forza motoria involontaria, l’azione ideomotoria appunto. La rabdomanzia ha attraversato i diversi millenni. In origine aveva finalità divinatorie: determinare il volere degli dei, predire il futuro o deliberare la colpevolezza del condannato in un processo. La rabdomanzia come praticata oggi si fa risalire alla Germania del XV secolo quando era usata per trovare metalli. La tecnica si diffuse in Inghilterra grazie ai minatori tedeschi. Nel Medioevo i radbomanti rischiarono di venire perseguitati, in quanto sospettati di avere contatti con il demonio. Nel 1662 la rabdomanzia fu dichiarata mera superstizione e venne ritenuta di origine satanica dai gesuiti. Oggi la rabdomanzia viene perlopiù considerata un fenomeno paranormale privo di riscontro scientifico (Cella, 2008; Garlaschelli, Albini, 2005; Guerzoni, 2009).
1 Nel film Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968), di Ettore Scola, Nino Manfredi interpreta Titino, lo stregone che gli uomini di una tribù divinizzano quando la fortuna lo assiste nel far piovere, dopo le sue ritualizzazioni profetiche.
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2. La credenza nella stregoneria Il termine stregoneria indica l’arte degli stregoni e delle streghe e un’operazione di magia nera attuata da uno stregone o da una strega al fine di arrecare danno o distruzione a qualcuno2. In numerose culture (ad esempio, società africane) si sostiene l’esistenza di stregoni o streghe che, ricorrendo a mezzi sovrannaturali, ordiscono azioni negative contro gli uomini; sovente le malattie vengono addossate all’intervento infausto della stregoneria. La stregoneria, conosciuta e praticata sin dall’antichità, può essere paragonata al concetto di maleficio (Ogden, 2002). Invero, nella società europea dell’ultimo Medioevo e del Rinascimento, la stregoneria, alleandosi con le forze del male attraverso formule e riti segreti, si diffonde in contrapposizione alla religione riconosciuta per legge rivoluzionandone i valori (Fiori, 2005). Alle streghe vengono conferiti poteri speciali (capacità di prevedere e influenzare il futuro, capacità di volare, capacità di trasformarsi in animali), vengono attribuite condotte devianti a livello sociale e sessuale, specifiche peculiarità dell’aspetto fisico, il contatto con demoni e spiriti, incontri esoterici nei quali verrebbero attuati omicidi rituali di bambini e cannibalismo. Dopo Agostino (354-430) la superstizione e la magia sono state considerate come conseguenza di un’alleanza con il diavolo. Insomma si polarizzava nella stregoneria tutto il male che girava in un ampio campo situazionale, si identificava nella strega o nello stregone il capro espiatorio. Secondo i teologi del Medioevo le streghe erano persone accecate da illusioni demoniache, che in realtà non possedevano i poteri che dichiaravano; dovevano essere soppresse in quanto capro espiatorio di una congiura contro il mondo cristiano; eliminando loro si toglievano pericolosi fantasmi persecutori. Ciò costituiva un’educazione e una cura sociale (Ankarloo, Clark, 2002). Le persone contrarie alla persecuzione vedevano nelle presunte streghe donne bisognose di essere curate rispetto alle loro malate rappresentazioni. I fautori dell’Illuminismo non riconoscevano l’esistenza della stregoneria e l’uccisione delle supposte ree costituiva un’iniquità (Behringer, 2002). In ambito psicologico, a partire da Freud (19121913, 1921, 1927), alla base della rappresentazione della stregoneria ci sarebbero moti pulsionali rimossi nell’inconscio e nelle streghe sarebbe presente una proiezione mirata a deviare la propria aggressività e le proprie paure. La magia rappresenterebbe un mezzo per l’appagamento dei bisogni primitivi e urgenti che si esprime nelle società primitive come effetto di un bagaglio tecnico carente. La figura della strega rovescerebbe l’immagine della donna fertile che nutre e soddisfa, rappresenterebbe la madre fallica e divoratrice della fase simbiotica, sulla quale si proiettano la libido e l’invidia. Alcune pitture rupestri e parietali risalenti all’età primitiva contengono elementi magici-religiosi. Potremmo perciò supporre che la credenza nelle streghe non viene unicamente definita da avvenimenti esterni, ma si trova nella psiche. I bambini, ad esempio, ricorrono spesso a condotte magiche al fine di dare senso al mondo circostante senza riferirsi a un sapere trascendente.
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Mentre la magia nera viene praticata per procurare il male, la magia bianca di solito viene praticata per scopi curativi.
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Per gli antichi romani, ad eccezione di scettici come Orazio, era normale credere nella magia e venire puniti per il suo utilizzo inadeguato. Sin dall’epoca dell’impero di Diocleziano (dal 284 al 305) i maghi imputabili di malefici venivano bruciati vivi, viceversa la magia diretta al bene restava impunita. I cristiani reputavano demoniaco l’uso della magia sia a scopo benefico che malefico, pertanto sin dal tempo di Costantino II (dal 337 al 361) vigeva la pena di morte per ogni tipo di magia. Nell’alto Medioevo i maghi e i soggetti che credevano ai maghi venivano ritenuti degni di punizioni e penitenze proprio perché si trovavano in una stato di errore religioso. Nel XIII secolo Tommaso d’Aquino nella Summa contro gentiles diede l’impressione di credere che gli atti delle streghe potessero verificarsi con l’ausilio di Satana. In alcune etnie la credenza nelle streghe viene derisa, in altre struttura la vita sociale in modo imperante. La persistenza dell’immaginario stregonesco avrebbe la funzione di deresponsabilizzare; in questa prospettiva l’insorgenza di malattie inattese e inguaribili e sciagure varie sarebbero riconducibili a stregoneria, poteri magici, incantesimi, persone crudeli. In Europa, nel periodo della “caccia alle streghe”, all’incirca tra il 1430 e il 1780, numerose persone, specialmente donne, vengono processate per il reato di stregoneria; alcune vengono condannate a morte, in genere sul rogo. Il periodo di massima intensità nella caccia alle streghe si ebbe tra il 1560 e il 1630, negli anni ottanta del XVI secolo (soprattutto in Francia, Inghilterra, Austria, Ungheria, Germania, Nord dell’Italia) e tra il 1626 e il 1630. Tutti i soggetti praticanti arti magiche vennero paragonati a comuni delinquenti e accusati di eresia e di apostasia, di avere stipulato un patto con Satana, antagonista di Dio (Levack, 1987). La Chiesa insorse contro i movimenti ereticali dando vita all’Inquisizione, il cui fine era quello di occuparsi della repressione delle eresie. Estorta la confessione, al colpevole – considerato un amico del diavolo, un nemico di Dio, della Chiesa e della società – venivano fissate le pene che potevano andare dalla permanenza, anche definitiva in carcere, al rogo (Abbiati, Agnoletto, Lazzati, 1984; Alaimo, 1990; De Angelis, 1999; Troncarelli, 1983). Nel 1520, con la Riforma protestante, assistiamo al crollo delle esecuzioni di streghe. Gli ebrei vennero per molto tempo associati dalla mente cristiana alla superstizione e alla magia nera, ma raramente apparvero nei processi di stregoneria. A partire dal XVIII secolo i governi di molti paesi europei introdussero nuove leggi secondo le quali era un crimine accusare di stregoneria, o sostenere di essere una strega o uno stregone, o di essere in possesso di poteri magici. Salem, a sessanta miglia da Boston, nel Massachusetts, è nota per i processi alle streghe del 1692. La caccia alle streghe scoppiò nel 1691 dopo che alcune giovani dichiararono di essere state vittime di un maleficio. Venne istituito un tribunale per processare le streghe, che venne sciolto nel 1693. Da allora non si sono più verificati casi di stregoneria (Godbeer, 2005; Hill, 2000). Il film Agora (2009), di Alejandro Amenábar, ci riporta ad Alessandria d’Egitto nella seconda metà del IV secolo d.C. Qui l’astronoma, matematica e filosofa Ipazia (figlia del filosofo e geometra Teone) (interpretata da Rachel Weisz), ultima erede della cultura antica, viene travolta dalla crisi di un mondo, quello pagano, che non ha saputo ripensarsi, trovandosi così impreparato di fronte al nascere e al dila-
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gare di movimenti religiosi sempre più fanatici e intolleranti. Tra questi i parabolani, la setta cristiana che arriva a distruggere la biblioteca di Alessandria, dove Ipazia lotta insieme ai suoi discepoli per salvare la saggezza del mondo antico. In seguito all’accusa di empietà e stregoneria, nel 415, Ipazia viene condannata a morte dal vescovo Cirillo e viene lapidata. Nel 1766, nella satira Sogni di un visionario. Spiegati coi sogni della metafisica, Kant scrisse che non era possibile dimostrare scientificamente l’esistenza o la possibilità dell’esistenza di spiriti. Secondo la Murray (1921) la stregoneria non sarebbe stata l’espressione di un culto satanico contro il Cristianesimo, bensì un’organizzazione rituale che attestava la sopravvivenza del paganesimo pre-cristiano – religione ancora attiva nel Medioevo, in particolare nelle zone meno popolate e tra le classi sociali meno istruite. Mentre alcuni paesi non avevano mai avuto una legislazione formale contro la stregoneria, altri eliminarono i delitti di magia e sortilegio intorno all’Ottocento, in una fase storica di cambiamento sociale e politico che portò alla riforma del diritto penale. Le streghe simbolizzavano la minaccia di forze nemiche che mettevano a rischio il soggetto e il suo ambiente sociale, l’esistenza di intere comunità. Ai giorni nostri nei luoghi dove si crede alle streghe si può arrivare alla loro illegale esecuzione, come un tentativo di contrastare autonomamente il male in modo indipendente dallo Stato e dalla Chiesa. In alcune zone dell’Africa è ancora diffuso il timore nei confronti della stregoneria. Nel 1996, nella provincia settentrionale della Repubblica del Sudafrica, circa trecento persone sono state condannate per stregoneria e giustiziate dai tribunali locali. Ricordiamo ancora la caccia alle streghe in Kenya nel 2001 (Behringer, 2002). L’interesse pubblico per le streghe ha indotto a sfruttare il tema in diversi modi: sono presenti prodotti di consumo (ad esempio, il liquore delle streghe, il tè alle erbe delle streghe, ecc.), filastrocche, fiabe che accostano il potenziale ribellistico dell’infanzia ai sogni di onnipotenza, canzoni, bambole, fiction che sottolineano gli aspetti positivi e fiabeschi della rappresentazione dell’occulto e delle streghe, dalla sacerdotessa Sibilla Cumana, oracolo di Apollo ed Ecate del mondo dell’antica Magna Grecia, alle nostre attuali veggenti. Le streghe sono presenti anche in Macbeth, uno dei più celebri drammi di Shakespeare. Il mago Merlino rappresenta uno dei personaggi principali delle leggende arturiane. Nella sua biografia tradizionale sarebbe figlio di un demone e di una donna mortale che alla nascita ereditò dal padre i suoi poteri. Attraverso il film di animazione di Walt Disney La spada nella roccia (1963) conosciamo Merlino secondo lo stereotipo dell’anziano mago buono e stravagante, vestito di azzurro e dotato di cappello a punta e bacchetta magica che enfatizzano la sua capacità di cambiare forma, di prevedere il futuro. Numerose fonti medioevali forniscono di questo personaggio un’immagine differente. Merlino appare inquietante, scaltro, misterioso, addirittura diabolico (Morganti, 2008). Molte persone facilmente suggestionabili incorrono ancora al giorno d’oggi nel grave problema dell’inganno e della simulazione a opera dei “maghi” autoproducendo una seria dipendenza compulsiva. La simulazione del mago non sarebbe ne-
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cessariamente riconducibile all’inganno; potrebbe essere paragonata alla simulazione individuabile negli stati nevrotici e, pertanto, sarebbe volontaria e involontaria allo stesso tempo. Se all’inizio si manifesta in modo volontario, successivamente diviene incosciente e genera stati allucinatori. In alcuni casi si potrebbe ipotizzare che il mago inganni se stesso, come l’attore potrebbe dimenticare di recitare una parte e di uscirne fuori. Egli potrebbe simulare per ottenere l’approvazione della gente che lo va a trovare e gli offre conferme e soddisfazioni per le sue eventuali virtù; a quel punto il mago si troverebbe impigliato a sostenere un ruolo che soddisfi l’aspettativa dei “clienti”. Possiamo, di conseguenza, dedurre che la credenza del mago rifletta la credulità pubblica e soprattutto il bisogno di certe persone di dipendere in modo passivo dagli altri. La credenza nella magia è ingenua e in buona fede nella misura in cui costituisce quella del gruppo; si tratta cioè di uno stato d’animo collettivo e unanime, di un fenomeno sociale. Alla radice della magia scorgiamo stati affettivi, generatori di illusioni, risultanti dalla mescolanza dei sentimenti, delle speranze e delle apprensioni del soggetto con quelli della società. Le qualità reali che vengono riconosciute ai maghi appartengono alla loro immagine tradizionale; sono oggetto di miti, di tradizioni orali che si presentano sotto forma di racconti, leggende occupanti un posto di rilievo nella vita popolare. I poteri conferiti al mago escludono ogni dubbio sul fatto che egli riesca a rendere i servizi a lui richiesti. Potremmo quasi dire che oggi, nonostante l’elevato progresso sociale, l’opinione pubblica crea ancora il mago e le influenze che egli emana; il mago può quel che può grazie alla qualificazione sociale, grazie al bisogno compulsivo di dipendenza di alcune persone (Mauss, 1950). 3. La superstizione compulsiva Il termine superstizione implica credenze, pratiche e rituali che, a giudizio dell’osservatore, sono prive di qualsiasi presupposto empirico e religioso; comporta sempre un giudizio negativo, mirando a considerare falsi o illusori i presupposti sui quali si basa il tipo di pensiero così classificato (Fabietti, Remotti, 1997). Fin dall’antichità, nelle tradizioni e nelle credenze popolari, la superstizione ha svolto una funzione sociale determinante nella vita e nei costumi popolari nell’interpretare segni della natura o nel prevedere il futuro. Il sostantivo superstitio appare per la prima volta, nel I secolo a.C., nelle opere di Cicerone (nel De divinatione condanna la superstitio); l’aggettivo superstitiosus si rinviene, all’incirca tra il 254 e il 184 a.C., nelle opere di Plauto. Sembra che questo termine venisse associato a profezie e divinazioni. I romani erano convinti di avere un destino stabilito dagli dei e pensavano fosse indispensabile conoscerlo in anticipo. Poco alla volta la superstitio venne a indicare forme rituali non romane o false, oppure le devozioni ossessive alle pratiche di culto (ad esempio, quelle offerte dai genitori al fine di assicurarsi che i loro figli non morissero prematuramente). I greci usavano il termine deisdamonia (superstizione) per indicare i rituali eccessivi celebrati per paura infondata dei poteri spirituali (Bailey, 2007). La superstizione non implica la credenza o il ricorso alla magia, ma molte pratiche magiche possono essere considerate superstiziose. La magia è stata spesso de-
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finita come l’invocazione umana di poteri demoniaci in opposizione alla volontà divina e diretta a sovvertire la stabilità della società cristiana. Attualmente la magia viene ancora concepita come opposta alla religione. Nell’antichità erano diffuse pratiche magiche e divinatorie. Nella Roma tardo imperiale si poteva ricorrere all’aiuto del soprannaturale anche per fini banali (ad esempio, per ritrovare un oggetto smarrito); le arti magiche venivano praticate da maghi professionisti benché ci fossero anche maghi incompetenti. La maggior parte delle culture antiche credeva nella presenza di esseri spirituali (daimones per i greci, daemones per i romani), che potevano rivelarsi pericolosi, ai quali rivolgersi per ricevere aiuto e protezione tramite cerimonie o formule verbali. Presso i greci erano presenti sacerdoti esperti in cerimonie magiche-religiose aventi altresì il ruolo di interpreti di sogni, indovini; altri vati, reputati loschi, erano spesso vagabondi che si facevano pagare per i propri servizi (Ciraolo, Seidel, 2002; Dickie, 2001; Janowitz, 2001). Anche in Mesopotamia e nell’antico Egitto esistevano in gran quantità rimedi, contro-incantesimi, rituali protettivi e di purificazione per avere dalla propria parte le forze divine e spirituali. Nel mondo antico la magia veniva usata, ad esempio, per colpire i nemici, per fare innamorare qualcuno o farlo disinnamorare, per obbligare o reprimere o controllare la volontà o le azioni di un individuo, per obbligare i testimoni in tribunale a rilasciare una specifica testimonianza. Le popolazioni antiche solitamente consideravano pratiche magiche i riti religiosi delle culture straniere. Con l’ascesa del cristianesimo, dal primo Medioevo all’anno Mille, giungiamo a una divisione più netta tra pratiche religiose (evocazione del potere divino) e pratiche magiche (ciò che emanava dal potere del demonio ritenuto malvagio); queste ultime venivano condannate come superstiziose, all’inizio moralmente e in seguito anche legalmente. Ricordiamo a questo riguardo l’Admonitio emesso da Carlo Magno nel 789, nel quale venivano vietate tutte le forme di magia, pena la condanna a morte. Nel basso e tardo Medioevo (1000-1500) gli scopi per i quali si ricorreva a forme di divinazione e incantesimi magici erano quelli della guarigione, dell’evitamento di malattie, della protezione da eventuali danni. Chiromanzia, astrologia, alchimia (trasformazione di materiali), negromanzia (divinazione mediante l’evocazione degli spiriti dei morti già nota nell’antichità) costituirono aree della magia di grande interesse in questo periodo. Le autorità della Chiesa incrementarono le condanne delle pratiche magiche. I pensatori occulti e i maghi rinascimentali tentarono di articolare in modo più chiaro di quanto fosse mai stato fatto il legame tra le proprietà occulte e la natura, il potere delle forze astrali e la presenza di spiriti angelici e demoni nel mondo. Tuttavia, la maggior parte delle persone continuò a interagire con la magia, come nei secoli precedenti, affidandosi a incantesimi tramandati dai genitori per guarire da malattie, allontanare la sfortuna, proteggersi da magie maligne. In alcuni casi potevano rivolgersi a indovini e guaritori. Nel corso del XVI e XVII secolo le pratiche magiche erano influenzate dagli sconvolgimenti religiosi della Riforma protestante e della correlativa Controriforma cattolica più che dalle correnti intellettuali dell’epoca. Per i protestanti tutti i riti e le cerimonie della Chiesa vennero etichettati come superstiziosi. Si diffuse la tendenza ad attribuire poteri a Martin Lutero e ad altri capi protestanti; ad esempio, si credeva che le raffigurazioni di Lutero e gli oggetti da lui toccati o usati fornissero protezioni magiche. Nel XVIII secolo le principali autorità dell’Illumini-
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smo giudicavano qualsiasi forma di magia come insensata e illusoria superstizione, incapace di fornire esiti reali e limitante l’evoluzione dell’uomo. Già dal XVIII secolo tra le classi medie e alte della società britannica era diffusa la passione per società, confraternite, circoli magici e occulti. Tra questi citiamo un’importante e nobile congrega, la Massoneria, che solo in rari casi sviluppò rituali deteriori che spesso riprendevano l’immaginario e il simbolismo alchemico, mistico, ermetico, cabalistico, ma rimane fondamentalmente una società ricca di valori sani; la confraternita dei Rosacroce, presumibilmente fondata nel XV secolo, era invece costituita da un gruppo di maghi rinascimentali che volevano attuare una riforma sociale e spirituale ispirata ai dettami dell’ermetismo e di altri principi occulti e magici. Nel XIX e nel XX secolo le persone hanno continuato a ricorrere a incantesimi e sortilegi vari affidandosi a indovini, guaritori, stregoni, impostori che hanno continuato a praticare il loro mestiere. Nel XIX secolo, in particolare tra le classi medie cittadine, segnaliamo un grande interesse per lo spiritualismo, cioè per la credenza nei fantasmi e nella capacità di alcuni soggetti di comunicare con gli spiriti dei defunti. I riti spiritualisti, diffusi ancora oggi, vengono celebrati nella forma di una seduta nella quale un gruppo di persone si raduna in una stanza buia appositamente preparata alla presenza di un medium che comunica con gli spiriti dei morti (Bailey, 2007). Sin dall’antichità l’uomo si è preoccupato di scoprire l’interna dinamica della vita e, anche quando non credeva in alcun Dio, si convinse che una forza misteriosa governasse le cose del mondo e le indirizzasse verso un fine imperscrutabile e forse anche apparentemente illogico, ma deciso e immutabile. I greci chiamarono questa forza fato e la ritennero superiore persino alla volontà degli dei. La superstizione spinge a osservare tutto quello che avviene intorno, compresi gli accadimenti più futili con la finalità di prevedere il futuro. Per i greci tutto dipendeva dal fato, sommo e immutabile; ciononostante il fato sapeva attendere quelli che s’ingraziavano qualche dio. Da qui il desiderio di conoscere il futuro, per scongiurare o ritardare gli eventi nefasti, interpellando oracoli e interrogando indovini, oppure cercando di interpretare i propri sogni, da soli o con l’aiuto di un oracolo. Nel mondo romano non si principiava alcuna attività importante, sia pubblica che privata (ad esempio, l’indizione di una guerra, un viaggio all’estero, un matrimonio), senza prima prendere gli auspici sull’azione da intraprendere. Tra secondo Ottocento e primi del Novecento si diffondeva la pratica dello spiritismo. Fiorivano sette neomistiche che formulavano e divulgavano nuovi rituali magici (Oppenheim, 1985). In questo periodo, in Francia, prevaleva un’interpretazione della religione di tipo psicopatologico; ad esempio, il misticismo veniva categorizzato come una forma di isteria. Frazer (1996) sostiene che le nostre maggiori istituzioni civili sembrano fondate sul buon senso. Nelle società primitive tali istituzioni si sarebbero imposte a partire da credenze che noi condanneremmo perché scaturite dalla superstizione e, quindi, sarebbero illogiche. In realtà, nessuna istituzione basata unicamente sulla superstizione può rivelarsi duratura. Secondo l’autore, in determinate razze e in determinate epoche, la superstizione ha fortificato: a) il rispetto del governo (soprattutto monarchico) cooperando all’istituzione e al mantenimento dell’ordine sociale. Presso alcuni popoli il ruolo del governo
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si è trovato agevolato dalla credenza che i governanti o i re, i faraoni nell’antico Egitto o gli imperatori nell’antica Roma investiti per diritto dagli dei, possedessero un potere magico e sovrannaturale derivato dagli spiriti o dai fantasmi ai quali i governati non potevano opporsi. La diffusa concezione africana della divinità dei re era presente già nell’antico Egitto, dove venivano considerati dei in vita e in morte. Nella Grecia omerica i capi e i re erano ritenuti divini o sacri; b) il rispetto della proprietà privata contribuendo a garantire la sicurezza della sua fruizione. Ad esempio, in Polinesia imporre il tabù su una cosa voleva dire dotarla di un’energia magica che la rendeva inaccessibile a tutti, tranne che al suo possessore. Pare che gli antichi greci ricorressero alle maledizioni come modalità efficace e poco dispendiosa di proteggere la proprietà privata. In molte società la paura connessa alla superstizione ha operato come un incisivo deterrente dal furto; ad esempio, i Wanika dell’Africa orientale sospendono alle porte della loro capanna zucche decorate dal baobab per tenere lontani i ladri; c) il rispetto del matrimonio favorendo una maggiore osservanza delle regole della morale sessuale, tra le persone sposate e tra quelle non sposate. I nativi di Nias, un’isola a ovest di Sumatra, credono che le grandi piogge siano provocate dalle lacrime di un Dio che piange quando si commette fornicazione o adulterio; la morte sarebbe la punizione per tali delitti. Presso molte tribù è presente la convinzione che le infrazioni alle leggi del matrimonio, l’incesto, vengano puniti dagli spiriti facendo andare male il raccolto, la caccia e la pesca e portando altre sventure non soltanto ai colpevoli stessi ma all’intera comunità; d) il rispetto della vita umana concorrendo ad assicurare felicità e sicurezza. La superstizione che ha assunto questo ruolo è stata soprattutto la paura dei fantasmi, in particolare dei fantasmi delle persone defunte. Gli antichi greci pensavano che l’anima di un uomo appena ucciso fosse infuriata con l’assassino e non gli desse tregua; l’omicida diventava egli stesso oggetto di paura per la comunità a causa dello spirito pericoloso che lo inseguiva. Per numerose tribù selvagge la credenza nell’immortalità dell’anima ha rappresentato una delle principali cause di spargimento di sangue, generando uno stato di guerra costante tra tribù vicine che non avevano il coraggio di fare pace nel timore di offendere gli spiriti dei morti. Tra i cinesi è diffusa l’idea che esistano gli spiriti aventi il potere di punire le offese e premiare la gentilezza in ogni evento della vita per indirizzare il destino; di conseguenza, i cinesi si mostrano devoti nei confronti dei fantasmi, degli spiriti dei morti per assicurarsi il loro aiuto, allontanarne la collera e la vendetta; e) il rispetto dell’incesto. Un forte maleficio sarebbe scattato di fronte a tale infrazione di tabù, come nel caso di Edipo, ripreso per questo da Freud (19121913) in Totem e tabù. Non trascuriamo la considerazione secondo la quale la superstizione, in linea con quanto afferma Frazer (1996), ha portato dei vantaggi alla società, dotando i deboli, gli illetterati di una motivazione di buona condotta.
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Nel passato alcune tribù primitive e selvagge di varie zone del pianeta quando uccidevano seguivano la superstizione secondo la quale l’ucciso perdendo con la morte la sua forza sarebbe stato costretto inevitabilmente a cederla all’uccisore che, in base alla superstizione, l’avrebbe potuta incamerare, cosi come il fuoco bruciando cedeva il calore a chi, infreddolito, era vicino. Si narra che Cavallo Pazzo avesse strappato il cuore del comandante Custer, ucciso a Little Big Horn nella famosa battaglia del Montana nel 1876, al solo scopo di nutrirsi del coraggio dell’uomo eroe, morto impavido. Si tratta di un esempio di magia per contagio, vale a dire la pratica di impadronirsi di una parte del corpo appartenuta a un altro per acquisire potere su di lui (Frazer, 1925). Numerose persone sono superstiziose e lo sono indipendentemente dalla loro razza, cultura, classe sociale o professionale. Troviamo le superstizioni in tutte le popolazioni del mondo e in un’ampia varietà di forme. Pensiamo, ad esempio, ad alcuni atleti professionisti come l’ex campione del basket Michael Jordan che durante le partite ha indossato per tutta la carriera biancheria intima di colore blu, o come il golfista Tiger Woods che nei tornei indossa sempre una maglia rossa, l’hockeista Bruce Gardiner che prima di entrare sul ghiaccio immerge sistematicamente il bastone di hockey nell’acqua dei gabinetti. Nel 1965 il ciclista Felice Gimondi vinceva il Tour de France portando alla caviglia una cordicella benedetta da un frate di un convento delle sue valli bergamasche, e se alla fine della corsa vento e pioggia e polvere si erano mangiati la canapa lui entrava in crisi. Durante il campionato mondiale di calcio 2010, in Sudafrica, è balzato alla cronaca l’oracolo Paul, il polpo indovino del parco acquatico di Oberhausen, in Germania, che – secondo gli esperti – con i tentacoli prediceva il futuro scegliendo il cibo in cassettine contraddistinte dalle bandiere delle squadre ai mondiali. I pronostici del polpo erano considerati con molta attenzione dai fan. I giocatori d’azzardo hanno spesso dei complessi rituali personali derivati da quella particolare attività che è stata rafforzata da un colpo di fortuna (Benhsain, Taillefer, Ladouceur, 2004; Gaboury, Ladouceur, 1989). La superstizione si accorda di frequente con il gioco del lotto, del superenalotto e affini nel quale la fiducia dei giocatori nel destino e nella sua benevolenza o malevolenza raggiunge le punte più elevate. Si può citare il caso dei numeri ritardatari nel gioco del lotto, che vengono ampiamente segnalati dai media con l’indicazione che siano i numeri aventi maggiori probabilità di venire estratti, cosa che va contro le leggi del calcolo delle probabilità. In casi del genere le credenze superstiziose vengono rivestite di credibilità attraverso il riferimento improprio a leggi matematiche e scientifiche. Inoltre, parecchie professioni hanno il loro sistema di superstizioni, in particolare quelle con un notevole elemento di rischio, di incertezza o di paura sono più esposte alla superstizione (come soldati, marinai, attori di teatro). Potremmo ipotizzare che là dove il caso e le circostanze non sono integralmente controllati dalla conoscenza, quando l’ambiente diviene meno controllabile, la persona ha probabilità superiori di ricorrere al magico. Rimane valida la considerazione secondo la quale la fragilità umana cerca di dipendere da una forza che può proteggere, anche se l’illusione il più delle volte arreca danno. Determinati oggetti o animali che vengono considerati mal auguranti in un luogo, in un altro sono dei portafortuna. Ad esempio, la civetta è considerata di cattivo auspicio per i partenopei, viceversa viene usata dai britannici come monile da
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porre a ogni angolo della casa. La medicina popolare presenta un’estesa serie di credenze, usanze e pratiche alle volte bizzarre o addirittura assurde (Di Genova, 2007). Credenze e superstizioni condizionano non solo il nostro agire, ma anche le nostre tavole. Ogni nazione e ogni regione possiede credenze connesse ai prodotti agricoli della zona e alle influenze dei popoli che nel passato hanno occupato il territorio. Scegliere di cibarsi di determinati alimenti può corrispondere anche a un rituale scaramantico. Si pensa che mangiare un piatto ben preciso in un momento dell’anno (come le lenticchie nella notte di San Silvestro) favorisca la buona sorte e la prosperità economica. Questi gesti sono funzionali anche all’unità del gruppo; la condivisione del cibo congiunta alle doti propiziatrici di un particolare alimento crea momenti di forte condivisione tra le persone. A porre il cibo al centro di rituali che si alternano durante l’anno sono sia la tradizione religiosa, sia quella pagana. Un esempio dell’utilizzo del cibo con significati legati alla fede è l’ostia durante la celebrazione eucaristica cristiana. L’ostia, prodotto farinaceo il cui gusto ricorda il pane, simboleggia il corpo di Cristo e cibarsene significa unirsi al divino. L’ostia e il vino, bevuto dal sacerdote, consentono di compattare il gruppo di fedeli intorno alla chiesa, unendoli in un rito importante e sacro. Per quel che concerne il consumo di certe vivande da parte dei credenti, vi sono pietanze proibite e altre di buon auspicio. Un particolare alimento può influire sulla vita delle persone sia consumandolo, sia astenendosene. L’esempio più significativo di ciò è l’osservanza dei digiuni, praticati anche in altre religioni (come il ramadan islamico); la chiesa cattolica impone al credente di rinunciare al consumo della carne durante il periodo di Quaresima. Abbiamo delineato alcuni dei molteplici e non trascurabili effetti della cucina legata alle credenze. Osserviamo ancora che, nel corso del tempo, si affievolisce la consapevolezza dell’origine della tradizione e resta il semplice gesto propiziatorio. Diventare superstiziosi non è difficile; è sufficiente per qualche fortuita casualità incorrere in una situazione positiva o negativa dopo avere fatto una certa azione, ad esempio consultato l’oroscopo, e convincersi che tra le due condizioni ci sia un rapporto di causa-effetto, per il quale l’uno diventa strettamente dipendente e legato all’altro. Il contesto della superstizione risulta cioè formato da due elementi indipendenti: da una parte c’è la persona che ripete lo stesso atto, dall’altra c’è l’evento atteso il quale si verifica un certo numero di volte, alcune delle quali saranno coincidenti con il gesto superstizioso. Queste poche volte saranno scambiate come prova dell’esistenza di una relazione di causa-effetto. Sembra esserci un errore nel processo di apprendimento che, normalmente, ci fa trovare le vere relazioni di causaeffetto nella realtà che ci circonda (Beck, Forstmeier, 2007). Al fine di comprendere meglio il fenomeno citiamo la datata, ma ancora valida, ricerca di Skinner (1948) sulla superstizione nel colombo. Il ricercatore, usando come soggetti sperimentali alcuni colombi, ha studiato una situazione nella quale, a intervalli prestabiliti per periodi di cinque secondi, veniva somministrato del becchime come rinforzo positivo. Egli osservò che quando a un colombo capitava di ricevere, per caso, del becchime (un premio) quel colombo tendeva a ripetere il comportamento che stava attuando durante l’arrivo del premio. Questo aumentava le probabilità che il premio (senza regolarità, ma con frequenza) gli giungesse ancora al momento giusto. In sintesi, così ingannato (o potremmo dire autoingan-
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nato), il colombo tendeva a interpretare l’arrivo del premio come l’effetto del suo speciale comportamento. L’uccello si comportava come se esistesse una relazione casuale tra il suo comportamento e la presentazione del cibo. Skinner, mediante questo modello sperimentale, aveva ottenuto colombi che, per superstizione, manifestavano comportamenti bizzarri, come sbattere le ali, allungare e ritrarre il collo, fare un giro su se stessi, tutto in funzione dell’ottenimento del premio. In altre parole, quei comportamenti portavano bene. Il lavoro di Skinner ci consente, perciò, di capire come nasce la superstizione. Associando, erroneamente, l’ottenimento del premio al comportamento eseguito immediatamente prima si stabilisce l’esistenza di un’illusoria, falsa relazione di causaeffetto tra due eventi in realtà tra loro indipendenti. Secondo questa prospettiva di psicologia comportamentistica la superstizione rappresenterebbe, quindi, un errore di funzionamento all’interno di quel meccanismo rilevatore di causalità che è presente in ogni specie animale. Un dato avvenimento può essere ritenuto dalle persone superstiziose come una prova indubitabile dell’intervento di forze occulte, mentre nello stesso tempo viene tacciato come pura coincidenza dallo scettico. L’evento è il medesimo, ma differente è il modo di pensarlo e valutarlo. La superstizione rappresenta un errore di razionalità. La persona sa che la sua decisione non ha alcuna base razionale, ma preferisce affidare la propria vita a un rito spirituale e magico proprio perché non è legato alla ragione e consente un grado di libertà dalla fredda e difficile ragione, i cui schemi imprigionano l’ingenuità dell’infanzia, piuttosto che affrontare la realtà. Ad esempio, portare sempre un anello in ogni occasione importante (esame, colloquio di lavoro, ecc.) non può certo fare male; ci sono situazioni nelle quali la superstizione sembra non essere dannosa. A molti piace l’idea di avere un portafortuna e quando sono in difficoltà si aggrappano a tali alleati nell’illusione che possono cambiare la loro vita. Tuttavia, se riflettiamo attentamente, scopriamo che la persona superstiziosa viene comunque limitata: il giorno che si troverà per caso di fronte a un imprevisto importante e non avrà l’anello, si convincerà che sicuramente tutto andrà male. Osserviamo la differenza che sussiste con il rito magico. Nel rito scaramantico il soggetto non ha certezza del suo operato, mentre nel rito magico questa certezza irrazionale esiste. Ad esempio, se venerdì 17 non esco di casa perché sono certo che, se lo facessi, mi succederebbe qualcosa di spiacevole, non sto ubbidendo a un rito scaramantico, ma piuttosto a un rito magico. Nella magia il livello di razionalità risulta minore, quasi azzerato, rispetto alla generica superstizione (Gatto Trocchi, 1996). Se la persona è convinta che il venerdì 13 è un giorno nefasto, ciò potrà determinare il suo comportamento in quello specifico giorno, rendendola più ansiosa, agitata e incerta; pertanto, la più elevata media di incidenti in quel giorno può essere una conseguenza del suo convincimento (autoesaudimento della profezia) (Näyhä, 2002). Ci sono superstizioni che potremmo definire personali: si tratta di credenze e pratiche che i soggetti adottano per conto proprio, senza comunicarle ad altri. Per fare un esempio di superstizione personale, possiamo pensare a un individuo che con il tempo si convince di avere uno specifico numero propizio senza essersi mai interessato di numerologia; oppure ha un colore, o un giorno, o un luogo che reputa fasto o nefasto; oppure esegue determinati atti rituali per evitare un pericolo o per
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garantirsi il successo in un progetto. Determinate azioni possono rappresentare un segno specifico che ci si aspetta per decretare se un certo esito è destinato a essere propizio (ad esempio, se riesco ad arrivare al semaforo prima che diventi rosso, riuscirò a realizzare il mio sogno). Anche se sarebbero restii ad ammettere i loro rituali privati, diversi individui sono convinti dell’efficacia dei loro oracoli; altri non prendono sul serio i loro gesti ascrivendoli a futilità, ma continuano a compierli (Read, 1920; Jahoda, 1969). La superstizione sembra scaturita dalla fragilità umana nei confronti di tutto ciò che è ignoto e inspiegabile; da qui nasce la paura, l’angoscia e il senso dello smarrimento. Si va alla ricerca, perciò, di una motivazione apparentemente razionale di eventi considerati soprannaturali. La confusione tra causalità e casualità risulta legata al fatto che è forte la tendenza a prestare attenzione alla presenza delle associazioni, dimenticando gli svariati casi dell’assenza, quando cioè i due eventi avvengono indipendentemente. A trarci in inganno è proprio il differente peso che si attribuisce a presenza e ad assenza. Numerose persone invocano il “porta male” in relazione a un evento, a un oggetto, ecc. pur non avendone avuto alcuna esperienza diretta. Ci appare chiaro che la trasmissione culturale non è da sottovalutare, sono presenti superstizioni condivise socialmente e accettate. Piaget (1926) ha dimostrato che il bambino passa attraverso stadi di pensiero magico e animistico (l’animismo si riferisce all’attribuzione di coscienza alle cose). Ad esempio, se batto con il mio pugno su un tavolo e chiedo al bambino di un anno di età che cosa succede al tavolo, lui mi risponderà che il tavolo sente male. I bambini sono fondamentalmente conservatori, hanno paura dell’imprevisto e, di conseguenza, cercano di controllare la realtà per evitare che essa cambi. Questo spiegherebbe i comportamenti superstizioni dell’infanzia. Il modo più semplice, per la mente infantile, è quello di fare qualcosa, di compiere azioni che dovrebbero allontanare imprevedibilità e incertezza. Piccoli esorcismi (come fare attenzione a non pestare le linee tra due lastroni della pavimentazione stradale, non salire il primo gradino di una casa con il piede sinistro, ecc.), in qualche caso, possono perdurare anche negli adulti, a volte sotto forma di riti innocenti, a volte di riti ossessivi che hanno alla loro radice forme di insicurezza e di paura. Nella vita adulta, durante intensi stati d’ansia o preoccupazioni per uno specifico desiderio, è possibile il ripetersi del magico infantile. Tra gli esempi riportati da Piaget citiamo il conferenziere costretto dal nervosismo a recarsi in un certo luogo per essere certo che la sua conferenza andrà bene; o ancora l’uomo, mentre attende con impazienza che la moglie consumi la sigaretta prima di uscire, inizia a succhiare impetuosamente la pipa per farla finire più velocemente. La superstizione, insomma, rimanderebbe a un aspetto infantile della mente umana e alla sua modalità di valutare la realtà. Farebbe parte di noi, e come tale si dovrebbe comprendere e quindi accettare come una manifestazione collaterale dell’“irrazionale necessario”. Purtroppo, però, questa tendenza a credere ignorando il contributo di una spiegazione razionale viene di frequente strumentalizzata per fini e interessi discutibili: astrologia (Neuburg, 2009), gioco del lotto, solo per fare alcuni esempi (Mainardi, 2001). Adorno (1951) ha ipotizzato che la debolezza dell’Io – noi aggiungiamo del senso di fiducia nel proprio Sé – sia una delle cause basilari dell’attaccamento alla superstizione.
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Uno dei primi psicologi a interessarsi intensamente di superstizione fu Lehmann (1898) che, analizzando quelli da lui definiti “stati magici della mente”, giunse a decretare la superstizione come una forma di errore di percezione, di memoria (dimenticanza selettiva) in base al quale si scelgono e si citano come conferma i fatti che si conformano alla predizione, mentre gli altri vengono trascurati e dimenticati. Com’è noto nel linguaggio di Freud (1901), nell’inconscio, inteso come un contenitore della persona, potrebbe albergare un pensiero crudele, prodotto da una pulsione mortifera, anche un desiderio di morte, diretto verso un’altra, spesso una persona consciamente amata (ambivalenza delle pulsioni); esso potrebbe trasformarsi in una premonizione di morte della persona amata; oppure la colpa generata da un tale desiderio ignobile potrebbe portare a un’aspettativa di punizione anticipatoria che si esprime nella nozione superstiziosa di una sfortuna incombente sulla persona amata. Nel descrivere la superstizione dell’uomo dei topi, dipendente dal pensiero ossessivo (onnipotenza dei suoi pensieri, sentimenti o desideri), Freud (1909) la attribuisce a una risposta a urgenti bisogni interiori. Le credenze e le pratiche superstiziose sarebbero quindi radicate nei processi mentali inconsci dell’uomo; la superstizione in quanto parte integrante dell’apparato mentale sarebbe suscettibile di emergere in determinate circostanze. Ricordiamo che Allport (1937) elencò la superstizione tra i tratti comuni, ponendola accanto a maturità emotiva, originalità e onestà. Un’indagine di Adorno e collaboratori (1950) stabilì che un ambiente familiare dispotico e arbitrario predisporrebbe all’accettazione di credenze superstiziose. Ono (1987) dell’Università Komazawa di Tokio preparò una stanza con un tavolo sul quale erano fissate tre leve. Sulla parete di fronte al tavolo c’era un contatore collegato a un computer programmato per farlo scattare a intervalli prestabiliti. Alcuni studenti furono scelti per partecipare a questo esperimento allo scopo di guadagnare più punti, senza spiegazioni su come fare. Nessuna azione degli studenti poteva in alcun modo attivare il contatore, ma loro non ne erano stati informati. Molti partecipanti svilupparono diversi comportamenti, come arrampicarsi sul tavolo, picchiare sul muro, sul contatore o saltare continuamente fino a toccare il soffitto. Il recente studio di Whitson e Galinsky (2008) evidenzia come l’aumento dello stress e la perdita del controllo della propria vita (ad esempio, per delusioni lavorative o amorose, problemi di salute, ecc.) favorisca paranoia e pratiche superstiziose. Secondo gli autori, per le persone sarebbe necessario avere in mano le redini della propria vita e quando il controllo viene meno, ciascuno cerca di ripristinare la situazione tramite una sorta di ginnastica mentale. La sensazione di insicurezza creerebbe spesso un bisogno viscerale di ordine, anche di un ordine soltanto immaginario. La superstizione non rimane un fattore isolato dalla nostra mente, si tratta di un modo tanto arcaico, semplicistico quanto elementare e infantile di relazionarsi con il mondo. In quanto tale risulta sensibile alle pressioni psicologiche. Il soggetto molto stressato può reagire anche con un aumento delle pratiche superstiziose nel tentativo di darsi una spiegazione sul perché la sorte lo perseguiti con eventi negativi. Ci basti pensare a persone che credono di avere subito il malocchio, poiché incapaci di elaborare e di riconoscere la propria incapacità e impotenza di affrontare le difficoltà della loro situazione.
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La capacità di credere nell’irrazionale costituirebbe comunque un vantaggio per la sopravvivenza della specie umana perché preserverebbe dalla disperazione e dall’angoscia di fronte a circostanze difficili o impossibili da risolvere. Pensiamo a certe categorie di persone (piloti di aerei, minatori, ecc.) esposte a gravi rischi di calamità professionale o fisica che potrebbero tendere a essere più superstiziose di altre che non corrono rischi del genere (Jahoda, 1969). La superstizione, nella giusta misura, potrebbe essere un modo per affrontare una vita imprevedibile (Mainardi, 2001). Consideriamo anche come determinate malattie cancerose vengano affrontate con un coraggio inaspettato grazie, ad esempio, alla fede religiosa, ma in alcuni casi anche grazie alla superstizione e a buoni auspici, sogni illuminati e colorati che promettono bene, ecc. Alcuni studiosi (Foster, Kokko, 2009) hanno utilizzato un modello matematico al fine di dimostrare che ogni superstizione si tramanda e permane nella cultura popolare finché il rapporto costi-benefici resta favorevole, vale a dire per tutto il tempo in cui credere conviene rispetto ad accettare i rischi che l’eventuale rapporto causa-effetto comporta. A favorire la permanenza di certe credenze nella vita dell’uomo contribuirebbe però anche il nostro cervello, secondo quanto sostiene Shermer (2002). Invero, secondo l’autore, il cervello umano funzionerebbe come una macchina che immagazzina dati e li mette costantemente a confronto, creando in base all’esperienza connessioni e significati non sempre coerenti con ciò che vediamo in natura. Per fare un esempio da una prospettiva nettamente cognitivistica, A non appare sempre legata a B; quando non lo è, in molti individui, questa discordanza non viene registrata dal cervello. Shermer ritiene, pertanto, che questo processo sarebbe la fonte dei pensieri magici e delle superstizioni. La ricerca di Damisch Stoberock e Mussweiler (2010) ha dimostrato che superstizioni semplici, come avere con sé oggetti portafortuna o incrociare le dita, possono migliorare le prestazioni fisiche e cognitive delle persone. In tutti gli esperimenti i partecipanti hanno ottenuto risultati migliori alla presenza degli amuleti. L’aumento dei livelli di autoefficacia, derivante dall’utilizzo di un portafortuna, porterebbe a un aumento significativo nella definizione degli obiettivi e nella determinazione/persistenza al conseguimento di essi. Il portafortuna conferirebbe ai soggetti la fiducia necessaria per puntare più in alto e la forza per continuare a provare; inoltre la convinzione, tuttavia lieve, che ci sia qualcosa (in questo caso l’oggetto) che “aiuta” consente di abbassare la tensione nervosa. Le superstizioni permetterebbero di vivere l’illusione di controllo all’interno della paura di vivere in un mondo casuale; costituirebbero un fattore di motivazione per la mente che alimenterebbe il pensiero positivo, il quale spingerebbe il corpo e la mente a mettere in atto performance migliori. La superstizione, i rituali, gli oroscopi, gli amuleti, i portafortuna, le catene di Sant’Antonio sono espedienti sui quali è possibile scaricare o meglio spostare il merito o la colpa di avvenimenti, slegandoli dal proprio contributo o dalla propria volontà. La superstizione, pur illogica e irrazionale, può essere utile a rassicurare, a confortare durante un esame, un colloquio di lavoro, ecc. poiché consente di allentare l’ansia dalla quale la persona si sente invasa quando si trova ad affrontare un determinato compito o vive una specifica condizione (Vyse, 2000).
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Alcuni studi neurofisiologici connessi con portafortuna, amuleti, sortilegi (Brugger, Graves, 1997; Brugger, Taylor, 2003) hanno ipotizzato dei collegamenti tra lievi attività neuronali anomale (un alterato funzionamento dell’area dell’ippocampo e del lobo temporale) e un’eccessiva credenza nelle condotte superstiziose e nei fenomeni paranormali con una tendenza ad associare facilmente un evento esterno a un particolare comportamento. La triscaidecafobia si riferisce alla paura irrazionale del numero 13, legata alla superstizione. In diversi contesti il numero 13 viene considerato di cattivo augurio. Solo per citare alcuni esempi, il tredicesimo piano di alcuni edifici viene chiamato diversamente (come 12b o 14 saltando il 13), rimozione talvolta operata anche per numeri civici e di interni, stanze di hotel, ecc., alcune compagnie aeree non inseriscono sui loro mezzi la fila numero 13, passando direttamente dalla 12 alla 14 (Dawkins, 1986). La parascevedecatriafobia riguarda la paura persistente, ingiustificata e anormale del venerdì 13 (paura diffusa nei paesi anglosassoni). La tetrafobia riguarda la paura del numero 4, superstizione molto diffusa nei paesi dell’Asia orientale come Cina, Corea, Giappone, Taiwan nelle cui lingue la parola che indica il quattro ha un suono simile alla parola morte. In questi Paesi, nelle costruzioni di grattacieli, ospedali, ecc. i piani con questi numeri vengono spesso saltati (Havil, 2007). La superstizione può divenire uno stile di vita perché, in alcuni soggetti, può influenzare ogni scelta, ogni condotta. In certe persone il comportamento superstizioso si cronicizza in un comportamento costante e permanente e così produce dipendenza e compulsioni che incidono negativamente sulla vita affettiva, lavorativa e sociale. Il dipendente è alla ricerca continua di un insieme di riti concatenati allo scopo di portare a termine la giornata nel migliore modo possibile. La superstizione portata all’eccesso (pensiero magico) include una componente ossessiva e una componente compulsiva. Le ossessioni sono costituite da pensieri, idee, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti che creano paura, disagio ed emozioni sgradevoli; vengono percepiti dalla persona come al di fuori del controllo, fastidiosi, intrusivi, insensati. Le compulsioni costituiscono la risposta alle ossessioni e si riferiscono alla coazione a ripetere determinati rituali, azioni mentali o cerimoniali privati, a compiere ripetutamente gesti scaramantici (APA, 2000). Il compulsivo assegna ai rituali il potere di placare la sua ansia e di rassicurarlo in situazioni di presunto pericolo. Lo scaramantico patologico può, ad esempio, ritenere che alcuni numeri siano sfortunati e dopo averne visto uno incluso nella sua lista nera manifestare agitazione finché non neutralizza la sfortuna avvistando una cifra propizia. In altre circostanze può temere che scrivere, pronunciare un dato termine o compiere un specifico atto possa causare catastrofi o incidenti mortali; pertanto può cancellare, riscrivere o deporre l’oggetto appena afferrato per riprenderlo subito dopo. Un esempio di dipendenza da credenze magiche. Il commendatore Gervasio Savastano, il protagonista di Non è vero… ma ci credo, commedia teatrale scritta da Peppino De Filippo nel 1942, è un industriale napoletano, prigioniero della superstizione. Regola la sua giornata a seconda degli incontri o degli avvenimenti fausti o infausti che gli si presentano. Gli episodi che lo vedono protagonista sono imperniati sul tormento della superstizione che non esiste, ma che diventa metodo di
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vita, una lotta disperata per combattere i colpi sinistri della sorte, del destino e della sfortuna, mediante gli scongiuri. Citiamo infine la comica pellicola cinematografica che vede protagonista Totò, e nella quale sono rinvenibili gli effetti delle credenze e delle superstizioni popolari. Nell’episodio La patente del film Questa è la vita (1954), tratto dalle novelle di Pirandello pubblicate nel 1911, un menagramo esige che gli venga ufficialmente riconosciuta la capacità di portare sfortuna. Rosario Chiarchiaro (interpretato da Totò) viene scacciato dal banco dei pegni perché considerato uno iettatore. I superstiziosi temono gli influssi della malasorte da lui apportati e, al suo passaggio, fanno i più svariati segni scaramantici (fanno il gesto delle corna, toccano ferro, ecc.). Il protagonista chiede al giudice di ottenere una patente di iettatore con la quale pretende di essere pagato per evitare i suoi malefici. In questo modo, sfruttando la superstizione popolare, Chiarchiaro desidera farsi giustizia imponendo una tassa che nessuno al suo passaggio rifiuterà di pagare pur di stornare il malocchio da sé, al fine di vendicarsi dei suoi persecutori mediante il rovescio delle parti. Nell’ideologia della iettatura, così come fu elaborata da alcuni illuministi napoletani, alla ragione umana riformatrice e pianificatrice della vita sociale viene contrapposta la figura dello iettatore come soggetto che inconsapevolmente e sistematicamente fa andare sempre le cose di traverso, immette il disordine sul piano morale, sociale e naturale della realtà (De Martino, 2001). «Quando credi nelle cose che non puoi capire, esse ti fanno soffrire. La superstizione non è la soluzione» – cantava Stevie Wonder (1972) in Superstition. Il caso di Eva Eva, avvocato di trenta anni, mi aveva consultato a causa di certi comportamenti ossessivi che le sembrava stessero aumentando in lei. Un anno prima che si mettesse in contatto, lei stessa aveva lasciato il fidanzato dopo due anni di fidanzamento perché l’uomo aveva un brutto atteggiamento nei confronti di Eva e comunque non aveva intenzioni serie nei suoi confronti. Era stato certamente un dispiacere per lei, ma mi sembrava che la storia non l’avesse coinvolta molto. Mi pareva che Eva, dopo avere iniziato con me una psicoterapia finalizzata a comprendere certe ossessioni, non sapesse dove andare nella sua vita. Aveva studiato giurisprudenza dopo avere superato l’esame di maturità classica con il massimo dei voti e in tal modo aveva superato gli esami all’Università. Poi aveva superato in prima battuta l’esame per l’avvocatura. I suoi genitori l’avevano sempre seguita e condotta in modo che Eva fosse sempre una brava bambina e una brava ragazza in ogni circostanza. Il perfezionismo della paziente era però aumentato e appariva chiaramente che, a quel punto, Eva vivesse solo per non deludere le attese dei propri genitori. Durante le sedute mi poneva un’infinità di domande inerenti a certi dubbi che crescevano come funghi dopo un temporale. In realtà non si trattava di domande per le quali ci sarebbe stata una risposta. Mi chiedeva come rispondere a tono all’avvocato titolare dello studio legale perché l’aveva trattata, a suo indeciso parere, un po’ male, oppure se andare a fare un viaggio con un’amica con la quale le sembrava di avere litigato, non sapeva se questa amica le fosse simpatica o antipa-
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tica e, pertanto, la decisione le sembrava difficile e così via. Con il passare delle settimane emerse che Eva manifestava le sue ossessioni anche attraverso la superstizione. Si lamentava di questa insicurezza e di questi dubbi persecutori. Non attraversava la strada se era passato un gatto nero, non si sentiva di andare in studio quando camminando le capitava di non collocare il piede perfettamente all’interno delle mattonelle del pavimento dei portici di Bologna. In questo caso era come se si fosse rotto qualcosa dentro di lei, che le avrebbe portato male almeno per quel giorno e così lei doveva cambiare strada. Teneva molto in considerazione i segni zodiacali, le accadeva di fare promesse e vincolanti fioretti; tutti insieme creavano in lei una rete che la costringeva a continue rinunce e a rimanere in circuiti senza uscita. Le ossessioni che si traducevano lentamente in superstizioni facevano comprendere il meccanismo che agiva nel mondo interno di Eva: la giovane donna era sempre stata condotta dai genitori lungo una vita fatta di doveri, che lei aveva seguito senza discutere e senza opporsi. I genitori, naturalmente a fin di bene, desideravano che Eva crescesse con sani principi, che andasse bene a scuola e si creasse una propria indipendenza. Spesso la madre comunicava alla figlia, anche in età adulta, che se non fosse stata brava le sarebbe capitato qualcosa di sgradevole. Tali messaggi facevano sentire a Eva che il destino sarebbe potuto accanirsi su di lei. I genitori non dovevano essersi resi conto che il messaggio, assorbito da Eva, andava al di là del contenuto cosciente al quale si riferivano in buona fede. Si trattava di paracomunicazioni che lanciavano illusioni d’amore. I messaggi non avevano a che fare con il contenuto, ma piuttosto con la relazione con la figlia. Il pensiero implicito di Eva, del quale non era cosciente, avrebbe potuto essere di questo tipo: se voi mi seguite così da vicino significa che continuerete a guidarmi sempre nella vita. La vostra presenza diventa un modello di vita per me poiché immagino che vi sarà sempre una bussola a guidarmi. Se mi abbandonaste, io non sarei in grado di proseguire da sola. Mi sembrava che questa situazione negativa si stesse attuando in Eva proprio attraverso le ossessioni, che in un primo tempo funzionavano come espressioni parossistiche di un perfezionismo evocante la presenza dei genitori: vedete quanto sono brava, proprio come quando voi mi chiedevate di esserlo, anzi sono diventata più brava, ancora di più, ma voi dove siete, perché siete scomparsi? Poiché metaforicamente nel mondo interno di Eva questi genitori, in particolare la figura materna, non si manifestavano alla paziente, lei continuava a sperimentare solitudine e abbandono. Ho ipotizzato a Eva, e con lei condiviso consapevolmente, l’osservazione secondo la quale l’atteggiamento superstizioso potesse rappresentare per la paziente un tentativo di concretizzare maggiormente, attraverso nuovi parametri di riferimento, le sue angosce, non essendo le ossessioni sufficienti come difese a tale scopo. Eva doveva evocare doveri che in passato le facevano sentire la presenza della famiglia, attenta ai propri bisogni e dove lei era al centro di questo interesse. Lavorando su questo materiale riuscimmo a fare parecchia strada. La mia presenza rassicurava la paziente consentendole di sostituire alcuni punti di riferimento fondamentali, che ovviamente si riferivano alla famiglia di origine. Inoltre, ogni
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superstizione veniva analizzata nel suo significato protettivo; ad esempio se le mattonelle dei portici non venivano centrate con il piede, Eva poteva sperimentare di essersi sbilanciata e di essere fuori posto, con il rischio di crollare nella vita e nei propri progetti. Poteva però rendersi conto che non sarebbe certo crollata e che noi, come coppia psicoterapeutica, avremmo fatto ugualmente la nostra strada. Con il procedere delle sedute il senso di appartenenza del quale Eva si sentiva deprivata ritornò gradatamente senza dovere ricorrere alla famiglia interna, perduta nella sua mente, ma che in realtà riusciva a vedere da altri punti di vista riguardanti le persone in quanto tali.
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Tecniche d’intervento nelle compulsioni da setta e da superstizione
1. Dal bisogno di dipendenza al desiderio di autentica autonomia Le persone che si affiliano alle sette ci sembrano spinte dal bisogno molto pronunciato di appartenenza, che coincide con la necessità di instaurare una condizione di vicinanza con altre persone e di cercare l’affiliazione a un gruppo. La vicinanza dell’altro avrebbe il fine di limitare l’ansia. L’origine di questo bisogno può essere ricondotto all’attaccamento infantile inerente alla necessità presente alla nascita di stabilire un legame con il caregiver (Bowlby, 1988). Secondo Maslow (1970) il bisogno di appartenenza originerebbe da un diffuso individualismo, dalla frustrazione generata dalla crisi della famiglia, dai processi di urbanizzazione selvaggia, dalla conflittualità generazionale. Per un adulto il bisogno di affiliazione diviene attaccamento reciproco, vale a dire il bisogno di una qualche forma di contatto umano. Le persone cercano la vicinanza degli altri per il piacere di scambiare affetti, per divertirsi, per sentirsi meno sole. Tuttavia, quando sono molto bisognose di questo continuo contatto e di questa vicinanza, significa che vi è una dipendenza perché stare soli, anche per poco tempo, diventa per alcuni soggetti insopportabile. Non sopportano se stessi e spesso si disprezzano. La fiducia di base e l’autostima raggiungono livelli minimi e questi individui debbono sentirsi confermati da un gruppo che abbia una propria configurazione d’identità. Queste persone che consideriamo molto fragili cercano il gruppo come un contenitore e non come costituito da singole persone con le quali stabilire un rapporto individuale; cercano appoggio e protezione perché hanno bisogno di conferme o di approvazione. Di conseguenza, il Sé costituisce l’esito di un processo dinamico, di una continua ristrutturazione tra la validazione che gli altri ci rimandano della nostra separatezza, individualità e autonomia e la nostra elaborazione socio-cognitiva che risente del nostro bisogno di affetto, di ricevere cure, conforto e protezione. Il corpo media lo sviluppo socio-psico-biologico dell’individuo, poiché tale sviluppo si fonda sulla corporeità. Le persone che sono dipendenti da setta o superstizione sono suggestionabili con estrema facilità e sentono il loro corpo come se fosse separato dallo psichico. Questo Sé diviso in due parti esaspera la loro insicurezza e aumenta il bisogno compulsivo di dipendere in modo assoluto dalla setta o di vivere di suggestioni superstiziose. Soffermiamoci brevemente sul valore della corporeità con l’aiuto del pensiero di Ferrari (1992). L’ipotesi di Oggetto Originario Concreto (il corpo in senso fisico e le sensazioni derivanti dal corpo) rappresenta una modalità iniziale di funzionamento psichico nella quale la fisicità e la sensorialità non sono ancora in grado di
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integrarsi in una mente incapace di processi simbolici, ma ne configurano il primo dato oggettuale: nel pensiero di Ferrari costituisce la fase dell’UNO. Lo sviluppo neuronale e la presenza di un adulto significativo (rêverie materna capace di favorire la metabolizzazione delle esperienze, anche frustranti, del bambino) consentono l’Eclissi dell’Oggetto Originario Concreto, cioè un progressivo sviluppo di funzioni mentali che possono contenere e dare senso alle violente emozioni scatenate dalle diverse sensazioni corporee: per l’autore costituisce la fase del BINO. Anzieu (1985) nella sua teorizzazione dell’Io-pelle indica anche il corpo come primo contenitore. Il corpo (contenitore-pelle) rappresenta la prima parte del Sé; con la sua superficie epidermica esterna e interna viene vissuto come un involucro contenente oggetti fisici e psichici. Esso diventa il regolatore di quello che può entrare e uscire. Tutto ciò serve a differenziare il me dal non-me. Com’è noto anche la Bick (1968) e la Tustin (1981), seppur in modo non esplicito, giungono a considerare l’involucro fisico come un’esperienza primaria di contenimento. Intendiamo il corpo come uno spazio comunicativo che ha bisogno e desiderio di esprimersi teatralmente nel momento in cui apre il contatto verso l’esterno e si crea un approccio rapido per interfacciarsi con il mondo; il reale rappresenta un punto d’appoggio del Sé corporeo (Lacan, 1966). Senza la corporeità lo psichico non potrebbe dare valore al mondo. Il corpo contrae abitudini abitando il mondo, in uno spazio che non lo ignora e in cui può sentirsi tra le sue cose che raccontano il suo vissuto, dove conoscere e riconoscere, può cioè sentirsi a casa, presso di Sé (Galimberti, 1983). Pensiamo che la corporeità rappresenti un’entità di sensazioni, sentimenti, emozioni, di intreccio dei potenziali contatti, di rapporti e relazioni. Dal nostro corpo conquistiamo lo spazio circostante, facciamo sorgere la curiosità e il nostro senso di esistere. Si tratta di svuotare un mondo interiore ingombrato dal senso del vuoto e del pieno, una sostanza psichica percepita come inutile che genera disagio e dal cui miscuglio il soggetto si sente soffocare. Molti soggetti compulsivi, cioè non dipendenti da sostanze ma da comportamenti reiterativi e stereotipati, impulsivi senza controllo, sono condannati a sopravvivere solo per consumare e alimentare bisogni che a loro volta promuovano avidità di possesso. Il corpo è svalorizzato e ridotto a unità meccanica che deve solo essere appagata fisicamente. Possiamo renderci conto che per queste persone il corpo non è quella cosa anatomica che artisticamente e anatomicamente Michelangelo disegnava. Dal punto di vista medico il corpo viene visto nel mondo mediante quella cosa che ha distribuito lo spazio, il tempo e l’ordine del senso. Si tratta quindi di un corpo comunitario, dove ha luogo la circolazione dei simboli, dove ogni singolo corpo trova in tale circolazione il suo logo più che la sua identità. I singoli corpi rappresentano la zona in cui si esprime il senso e cui i singoli prendono parte come anelli della società, dove circola quell’ordine simbolico di ciò che esiste perché si muove e si vede. Fin dalla nascita il corpo del bambino entra in contatto con molti altri corpi, è cullato da molte mani, posto di fronte a numerose immagini parentali, identificato con tanti altri bambini, in uno scambio infinito di legami e influenze. In questo senso il corpo appare subito come un rapporto sociale, che valica la divisione tra materia e spirito, tra corpo biologico e realtà del-
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l’anima connotante il nostro consueto modo di pensare, che non conosce l’ambivalenza simbolica (Galimberti, 1983; Pani, Sagliaschi, 2010a). Vediamo invece alcuni individui girovagare nel mondo in forza di un’euforia e di un’ipomaniacalità attivata ed estratta dai bisogni urgenti e maniacali di riempire il vuoto mentale e psichico, perché mente e corpo sono scissi nel Sé. Appartenere a una setta in modo conformistico diventa per questi soggetti il guscio protettivo, ma appiattisce il singolo sugli altri impedendogli di sentire individualmente la radice dei propri desideri. Se le persone sono sovrastate dai bisogni urgenti, la noia come attesa inattiva del nulla si impadronirà di loro creando il vuoto e il nichilismo, ovvero la passività. Le illusioni vengono pertanto deluse inesorabilmente, il Sé si destruttura verso una mancanza del senso di identità. I soggetti vanno in cerca di una qualche dipendenza, in questo caso la setta o la superstizione. Il vuoto, diventando padrone del Sé, induce disperatamente l’individuo a cercare l’oggetto da cui dipendere per sempre. Questo è un atteggiamento assoluto e mortifero; riguarda il silenzio del deserto, il buio del cosmo, la storia che è inghiottita dal passato, il non-senso, il contenitore di Sé che è rimasto vuoto. Gli interlocutori interni che normalmente mediano i desideri e la ricerca dell’Ego nel bene e nel male, alimentandone le idee e la consapevolezza, nonché l’azione, vengono meno e lasciano isolati e soli nell’infinità cosmica. Nei compulsivi da setta e superstizione le relazioni sociali non si percepiscono più. Quindi, i soggetti cercano nuove illusioni per ottenere di restare più delusi di prima, non sentono più la loro carne, la loro corporeità che dovrebbe essere abitata di affetti, che invece sono assenti. Non si deprimono nemmeno, non si sentono, si isolano per non sentirsi più soli. Sosteniamo che non ci sia nulla di più devastante della delusione in età infantile. Tale tipo di frustrazione allontana la speranza e distrugge i piccoli e scarsi punti di riferimento del bambino. Spesso le frustrazioni rinforzano i desideri dell’uomo, anche giovane, purché certi valori interiorizzati si siano un po’ stabilizzati. Se così non è, rischiamo di perdere la bussola che orienta la vita, similmente al faro per un navigante. La depressione porta inevitabilmente alla noia, ma poi dalla depressione si ritorna alla noia che è, a questo punto, molto più severa di prima perché rappresenta il nichilismo. Pensiamo che la progettualità, soprattutto nei giovani, sia in generale assente, eccetto per pochi fortunati che all’interno della famiglia, della scuola e delle frequentazioni varie hanno trovato tanta ricchezza di sentimenti e tanta coerenza di pensiero da sentirsi vivi e liberi di scoprire il mondo sconosciuto che, in parte, avevano già interiorizzato. Il simbolo, usato come esempio di vitalità umana e di curiosità creativa, innovativa è rappresentabile nella figura di Ulisse (Pani, Sagliaschi, 2010b). Ricco di un mondo interiore offerto dagli affetti familiari della sua Itaca, Ulisse è un instancabile esploratore oltre che un eroico patriota. Dopo la guerra con Troia non rinuncia alla ricerca del nuovo e dello sconosciuto, si fa legare all’albero della nave per ascoltare, ma non cedere, ai misteri della vita come il canto irresistibile delle sirene, poi sconfitte dal più potente canto di Orfeo. L’isola dei Ciclopi, come quella della maga Circe, non lo fermano nella ricerca del mistero della vita. Divenire autonomi in modo autentico significa essere consapevoli che la realtà non è troppo pericolosa o minacciosa e che può essere controllata, modificata e uti-
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lizzata in relazione alle proprie esigenze. Questo comporta accettazione di Sé, autostima, percezione degli altri non come possibili dominatori e suggestionatori, ma come persone con le quali è possibile instaurare relazioni paritarie, senza eccessivo disagio o superbia, disponibilità a sperimentare una varietà di ruoli, senza considerare i vari tentativi come troppo rischiosi o del tutto vincolanti, possibilità di gestione della propria aggressività, con capacità di sublimazione ed elaborazione. Possiamo cercare di comprendere meglio cosa vuol dire diventare autonomi ricorrendo a una metafora. Immaginiamo di entrare in un appartamento buio dove si odono delle voci. Chi avviciniamo viene codificato nel nostro mondo interno. Raggiungere un’autentica autonomia implica divenire padroni dell’appartamento abbandonando i fantasmi del passato per impossessarsi dello spazio interno, similmente a un cieco che all’improvviso riprende a vedere. La psicoterapia psicoanalitica dovrebbe funzionare come spazio transizionale di scioglimento e di integrazione tra il passato e il presente-futuro progettuale e dovrebbe aiutare a scongelare parti del Sé mal funzionanti o bloccate producendo stimoli alternativi. All’interno di uno spazio-tempo circoscritto, che consenta di attualizzare eventi del passato nel qui e ora delle sedute, è opportuno favorire nel paziente un processo di metabolizzazione dei fantasmi intossicanti troppo prevalenti nel Sé. Occorre trasformare i fantasmi in fantasie che scorrono e che diventano nutritive e possono produrre movimento. Oltre all’interpretazione del transfert, è utile che lo psicoterapeuta sia in grado di riconoscere di essere vissuto in quel particolare modo, cioè in quel personaggio che il paziente evoca. Il terapeuta, pur non colludendo con i bisogni del paziente, diverrà lentamente l’interprete agendo con azioni terapeutiche di complicità che valorizzino le risorse autentiche. Egli propone personaggi alternativi non conformistici, spesso quelli odiati dal paziente, vale a dire quelli che producono nuovi punti di vista al Sé colmo di vissuti dolorosi del passato. Com’è noto la resilienza (resilience) consiste nella capacità di alcuni individui di cooperare con lo stress e in certe situazioni catastrofiche. Corrisponde a un fattore protettivo rispetto a un fattore di rischio, nel senso che possiamo aspettarci da certe persone che reagiranno bene a eventi particolarmente difficili per via di certe loro caratteristiche di duttilità e flessibilità, che inducono a trasformare gli aspetti negativi quasi in una risorsa utilizzabile. Ad esempio, certe famiglie che oggettivamente hanno offerto a un figlio pochissimo, per non dire nulla, vedono il bambino crescere sano e piuttosto saggio. È come se piccole risorse nascenti da non si sa cosa riuscissero a sollevare l’organismo perché gli eventi negativi vissuti, mischiati a quel minimo di risorse incamerate, costituiscano uno stimolo che diventi inversamente proporzionale al desiderio di riuscire a sopravvivere. Le parti perverse, nel caso dei pazienti compulsivi, dovrebbero essere trasformate in risorse. Deve in tutti i modi essere evitata la situazione asimmetrica secondo la quale il paziente immagina di dovere imparare qualcosa da un insegnante. La cura consiste nel proporre un modello di fiducia che valorizzi le emozioni e le fantasie spontanee. Tali sentimenti dovrebbero vitalizzarsi e consentire al paziente di muoversi con maggiore disinvoltura in un pavimento solido. Lo psicoanalista raccoglierà il materiale che emerge, restituendo un significato utilizzabile per il paziente.
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La psicoterapia con i dipendenti da setta e da superstizione tende a trovare atti di valenza terapeutica verso quei fantasmi che bloccano le alternative del pensiero, la libertà di questo e la sua creatività. In realtà la consapevolezza nel compulsivo non porta ad alcun miglioramento effettivo perché, come i dipendenti da sostanze, anche loro si curano da soli, anche se in modo inadatto e perverso; per entrambi, nella migliore delle ipotesi, la consapevolezza potrebbe aiutare a occuparsi in seguito di se stessi cercando prima o poi una cura. In altre parole, la consapevolezza o anche la coscienza può indurre il paziente a sapere cognitivamente di certi propri limiti, potrebbe mettere una pulce nell’Io per allontanarsi un po’ da una posizione troppo egosintonica rispetto al proprio Sé. Al soggetto è interdetto il sentire, mentre sarebbe opportuno offrire spazio all’ascolto del Sé che esiste e che cerca di prendersi sul serio nell’unica dimensione dell’esistenza che possiede. Trattando i pazienti seriamente compulsivi risulta importante creare in loro possibili e graduali alternative a un personaggio ostinatamente introiettato come fisso. L’obiettivo di tale atto di cura ad hoc è di promuovere un dialogo alternativo al copione del passato del paziente, al fine di trasformare i bisogni onnipotenti e urgenti in uno spazio di ascolto nel quale si armonizzino e si recuperino i desideri autentici. Il paziente dovrebbe considerare la propria vita come l’unica che possiede, tenere in considerazione che tale vita rimane tuttavia limitata perché solo all’interno di certi tempi è possibile realizzare alcune aspirazioni. Il dipendente da setta e da superstizione rivela, infatti, una dissociazione tra due parti all’interno del Sé: una di queste è dominata dai fantasmi infantili del passato, mentre l’altra è visibilmente cosciente del danno che si procura con il comportamento compulsivo e ne soffre nella condizione adulta. 2. Lo psicodramma psicoanalitico1 Pensiamo che lo psicodramma psicoanalitico possa essere uno strumento efficace nel trattamento delle persone dipendenti da sette e da superstizione. Rispetto ad altre tecniche di gruppo, lo psicodramma analitico si sviluppa su due piani: espressione verbale e presentificazione o gioco drammatico; potremmo dire che il gioco psicodrammatico mostra e consente di elaborare parallelamente le rappresentazioni del mentale e del corporeo. Lo psicodramma psicoanalitico, ponendo corpo e azione in scena e cioè al centro dell’osservazione per se stessi e per gli altri che osservano, si propone un cambiamento attraverso proposte e modelli di scene interne alternative che si attualizzano in tutto il gruppo, sebbene in modi differenti, in ciascun partecipante. Il piccolo gruppo attiva dei meccanismi del funzionamento psichico, stimola dei fenomeni identificatori. La pratica dello psicodramma consente la costruzione del campo relazionale emotivo proprio mediante la tecnica del gioco e permette di mettere nuovamente in funzione la rêverie (Bion, 1961). Le qualità emotive della relazione madre-bambino si riproducono cioè anche all’interno di un gruppo psicoterapeutico tra i partecipanti e lo psicoanalista.
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Segnaliamo il sito internet http://www.psicodrammaanaliticocentrobologna.com
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Negli anni Venti, a Vienna, Jacob Levy Moreno inventò il metodo dello psicodramma, basato sulla spontaneità creativa e sul concetto dei ruoli che è possibile sperimentare nell’ambito di un teatro terapeutico. Un direttore teatrale di gioco sollecita i partecipanti volontari a rappresentare, senza preparazione, scene che reputano rilevanti per loro. Dopo la prima fase di riscaldamento, il direttore teatrale di gioco si allontana dalla scena, ma può intervenire in ogni momento. Un personaggio ausiliario aiuta lo svolgimento della seduta. Nella fase finale il gruppo condivide l’accaduto. Non vi è interpretazione, ma unicamente il sentire del conduttore che guida la seduta. Il fine dello psicodramma consiste nella rivelazione a se stessi, agli altri e tramite gli altri delle modalità di essere ignote o non visibili dei protagonisti. La tecnica di Moreno si avvale dell’improvvisazione, dei cambi di ruolo e si propone di generare reazioni di tipo catartico per l’intensità della drammatizzazione. Moreno si oppone alla prospettiva psicoanalitica freudiana sostenendo l’efficacia dell’azione nella trasformazione dei ruoli nei quali il soggetto è vincolato, e non il lavoro psichico di elaborazione dei modi di funzionamento del mondo psichico della persona rivolto alla risoluzione dei conflitti interni e a una modificazione comportamentale. Lo psicodramma di Moreno, detto classico, si distanzia dalla psicoanalisi tradizionale per il rifiuto dell’esistenza della separazione tra inconscio, preconscio e conscio (Moreno, 1946), la ripartizione dell’apparato psichico di Freud (1915), vale a dire della prima topica dello psichismo. Moreno intende soprattutto lo psicodramma come catarsi; in altre parole, senza saperlo, Moreno con la sua tecnica teatrale ritorna ai primordi della psicoanalisi quando Breuer e Freud in Studi sull’isteria (1892-1895) ipotizzavano che l’abreazione o catarsi, attraverso il metodo del talking cure o chimney sweeping (spazzacamino), potesse liberare le pazienti dall’intoppo traumatico. Negli Stati Uniti Moreno incontra una cultura che favorisce l’espansione e la notorietà delle tecniche prodotte dallo psicodramma, la ricerca di libertà, lo spirito pioneristico. Lo psicodramma inteso in tal modo non sembrava a molti psicoanalitico, ma solo un gioco teatrale comportamentistico che aiutava momentaneamente a liberarsi e ad attenuare le angosce e le penosità della vita. In Francia, lo psicodramma moreniano diviene psicoanalitico con i lavori teorici e di training di Lebovici, Diatkine, Kestemberg, Kaës, Anzieu e dei coniugi Lemoine. Lo scopo dello psicodramma psicoanalitico non riguarda più la catarsi o abreazione, la metabolizzazione dei fantasmi inconsci. Anzieu (1956) ha proposto un modello del gruppo costruito sull’affinità con il modello del sogno. Infatti, il gruppo – come il sogno – permetterebbe l’elaborazione immaginaria dei desideri inconsci infantili. Il lavoro funziona per libere associazioni individuali che circolano nel gruppo disposto a cerchio, sulla via di realizzazione immaginaria e di difese contro l’angoscia che suscitano nell’Io realizzazioni del genere. Kaës (Kaës et al., 1999) aggiunge che il gruppo rappresenta una modalità di realizzazione del desiderio inconscio che pretende il raggruppamento dei sognatori del gruppo. Lo psicodramma psicoanalitico messo a punto dai Lemoine (1972) è un metodo di psicodramma analitico in gruppo che non interpreta il transfert anche se lo psicoanalista ne tiene conto, ma ascolta il senso delle associazioni psichiche di gruppo, lavora su di un partecipante che su uno sfondo di gruppo mette in scena il suo problema personale mediante i personaggi ausiliari da lui scelti a tale scopo.
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Lo psicodramma contiene la scelta di una tematica di gioco e la designazione degli interpreti della scena, il gioco e l’elaborazione che ne segue. I personaggi della scena si coinvolgono nell’azione fondata sul fare finta, ossia sul “come se”. Questo tipo di esecuzione permette una forte identificazione introiettiva e proiettiva da parte dei partecipanti del piccolo gruppo (in genere composto di otto-dieci persone). Nello psicodramma il momento della scena rappresenta un passaggio tramite l’azione che consente l’espressione delle emozioni, una messa in contatto con altri e un’elaborazione psichica comune con significative e importanti ricadute individuali che dovrebbero consentire buone introspezioni intrapsichiche. Come afferma Kaës (Kaës et al., 1999), gruppo, gioco e parola definiscono lo spazio del preconscio nello psicodramma psicoanalitico. Come funziona un gruppo di psicodramma psicoanalitico? Ai partecipanti del gruppo viene chiesto di non incontrarsi fuori dal gruppo, che si riunisce una-due volte alla settimana con sedute di un’ora e mezza ciascuna. Non vengono fissati i temi da trattare e la consegna che viene data ai partecipanti stimola la libera espressione. A un certo punto dell’ascolto di un episodio o di un sogno lo psicoterapeuta dà il via alla rappresentazione di una scena che si svolgerà nello spazio interno al cerchio del gruppo (Chiavegatti, 1989; Croce, 1985). L’analista (possono essere presenti due psicoterapeuti che si alternano nella funzione di conduttore e osservatore) interviene riguardo alle associazioni del gruppo dove i partecipanti seduti in cerchio vengono invitati a dire quello che pensano, propone una situazione da rappresentare, aiuta a costruire i giochi, può doppiare il protagonista dando voce al preconscio. Questo significa che chi doppia offre un suggerimento estremamente utile alla persona che gioca; quest’ultima può ascoltare una nuova possibilità e alternativa pensabile, una nuova potenzialità non sfruttata. Chi doppia o suggerisce, identificandosi con chi gioca, riesce a dare voce a un suo interlocutore interno che sino a quel momento non si era attivato. A volte lo psicoterapeuta trattiene il giocatore e lo invita a esprimere a caldo i sentimenti nei panni di chi ha appena interpretato; tale sforzo sancisce eventualmente nel giocatore ciò che ha potuto cogliere di introspettivo nell’attimo della scena. Questo monologo si chiama assolo. Quando si svolge una scena, chi gioca mette in azione il proprio corpo e sceglie i personaggi della sua vita tra i componenti del gruppo. Il partecipante che sceglie fa rappresentare qualcuno al compagno di gruppo e ciò implica un investimento transferale; il compagno che viene scelto riflette sulle proprie somiglianze con il personaggio che rappresenta. Dopo il gioco, le persone che hanno partecipato alla scena parlano, sovente associando ricordi personali; a sua volta la drammatizzazione evoca ricordi, sentimenti, associazioni negli altri partecipanti. Il gioco viene mantenuto su un piano simbolico e immaginario, i partecipanti non possono toccarsi durante la rappresentazione e sono invitati a mimare i comportamenti accaduti identificandosi, ma anche esprimendo il loro dissenso che emerge dal comportamento emotivo. Si evidenziano possibili alternative che rendono il copione originario più flessibile. Il setting viene caratterizzato dal gioco e dalla messa in gioco, dai doppiaggi e dall’assolo. Nella messa in gioco risulta pertanto rilevante la possibilità di attribuire un nuovo significato, nuove possibilità future a quanto viene giocato, sia nell’individuo sia nel gruppo (Pani, 2007; Pani, Carnevali, 2010b; Pani, Miglietta, 2006). Come
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sostiene Winnicott (1971), il gioco facilita la crescita, conduce alle relazioni di gruppo e nello psicodramma rappresenta un ponte tra fantasia e realtà. La capacità di usufruire del gioco origina nella relazione primaria tra caregiver e bambino, costituisce uno spazio potenziale che guida verso il giocare insieme in un rapporto. Lo psicodramma si prefigge di mettere in grado i soggetti di riappropriarsi della capacità di giocare e di mentalizzarla; il gioco diviene uno strumento che facilita l’espressione degli affetti, rappresenta un’espressone più diretta dell’inconscio del paziente. Lo psicodramma come terapia rivolta ai dipendenti da sette e da superstizione: – offre l’opportunità di nuove alternative grazie al gioco, ai doppiaggi, all’assolo, come se fosse possibile sentire perlomeno altri punti di vista e uscire dal copione che, come in tutti i dipendenti compulsivi, tende a ripetersi in modo continuo e stereotipato; – offre l’opportunità di osservare le proprie interazioni interpersonali disadattive e di modificarle o di impararne di nuove; – accresce i comportamenti che migliorano la qualità della vita incrementando le competenze comportamentali, l’efficacia interpersonale, l’autogestione e la tolleranza dell’angoscia, la regolazione emotiva; – contribuisce a fare sentire meglio i pazienti e a migliorare la loro autostima; – fornisce un ambiente interpersonale sicuro e contenitivo che permette un graduale processo di maturazione; – consente la comprensione e l’approfondimento di sé; – permette di modificare atteggiamenti e comportamenti disadattavi, risolvere conflitti o sviluppare nuovi modi di realizzare un soddisfacimento; – aiuta a stabilire nuove capacità di condivisione, attaccamento; – favorisce lo sviluppo di nuove capacità di pensiero e concettualizzazione; – diventa un mezzo per guardarsi e lasciarsi guardare, che può condurre alla scoperta di nuovi significati; – facilita l’apertura alla parte sconosciuta di sé che emerge a un contatto più diretto con le emozioni e con il corpo. Il soggetto può rapportarsi a momenti della propria esperienza in modo interrogativo riattivando lo sviluppo di parti di sé rimaste cristallizzate; – rende possibile identificarsi con gli altri mantenendo il senso della propria identità; – rinforza il Sé, il dialogo interiore, allo scopo di fare sentire l’individuo più padrone in casa sua. Il caso di Gaia Nel gruppo del lunedì quella sera era emersa dalle libere associazioni e dai vari racconti una tematica che riguardava la casualità, la fatalità, la fortuna-sfortuna, in sostanza non solo ciò che non dipende da noi, ma che dipende da qualcuno in grado di confezionare un sortilegio per danneggiarci. La maggior parte del gruppo dubitava di questo potere magico, ma Gaia fece un certo racconto.
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In un gioco di psicodramma analitico, al quale io la invito a ripetere una scena, la paziente trentacinquenne si appresta ad accendere un fuoco con incenso e mirra in un piccolo forno di ghisa giapponese. Lo scopo di questa azione consiste nel fare uno scongiuro contro una sua presunta amica, che avrebbe per invidia impedito a Gaia di essere amata da un uomo che alla paziente piaceva e del quale si stava interessando da qualche tempo. Nella scena era presente il fratello maggiore Giovanni, che per caso aveva assistito alla scena mentre si apprestava a uscire da casa. Gaia, ancora studentessa del Dams, viveva con il fratello che lavorava a Bologna. Il fratello, persona molto concreta, non poteva credere ai propri occhi nel vedere che la sorella stava inveendo davanti all’incenso che bruciava, lanciando imprecazioni contro l’amica, facendo con le mani le corna in segno “iettativo”. Le domandò se fosse impazzita e chiese che cosa stesse facendo. Gaia confessò le sue impressioni e la quasi certezza sull’amica, ne nacque una discussione nella quale Gaia non si sentì compresa e si arrabbiò con il fratello. Nel gioco Gaia interpretò prima se stessa (role-playing), poi nel reverse-playing si mise nella posizione del fratello Giovanni. Si accorse di esagerare nel pensare che l’amica, per quanto invidiosa, ricorresse a tale cattiveria. Alcuni doppiaggi da parte dei partecipanti suggerirono che la fiducia verso se stessa avrebbe consentito meno diffidenza verso l’amica: ti pare che una persona si prenda la briga – disse un partecipante – di consumare tanto tempo per fatture contro di te perché sarebbe un po’ invidiosa e al solo scopo di danneggiarti? Tu ti attribuisci troppa importanza agli occhi degli altri. Così questo doppiaggio mise l’accento anche sull’egocentrismo di Gaia, che la paziente sentì. In seguito avrebbe associato che l’egocentrismo forse derivava dall’avere avuto poco spazio nella sua famiglia per essere ascoltata e presa sul serio in molte dolorose circostanze, che successivamente Gaia avrebbe ulteriormente raccontato. Alla fine della seduta, dopo un’ora e trenta minuti, feci emergere come il sentirsi fragile per varie ragioni personali possa condurre a trovare dei capri espiatori che fungano da cause esterne, in alternativa a vissuti dolorosi interiori. Inoltre, il ricorrere al sortilegio poteva fare aumentare negativamente il senso della propria magica onnipotenza, e questo non avrebbe certo giovato alla vita di ciascuno di noi.
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1. Il nostro studio1 La superstizione indica la tendenza di una persona ad associare a un determinato oggetto, a una situazione o a un avvenimento il potere di condizionare la vita futura, in termini di fortuna o di sfortuna. Le credenze di natura irrazionale possono influire sul pensiero e sulla condotta di vita dei soggetti che le fanno proprie, specialmente la credenza che gli eventi futuri siano influenzati da particolari comportamenti, senza che vi sia una relazione causale. Le superstizioni sono diffuse in tutto il mondo, talvolta vengono ritenute parte del patrimonio culturale, oppure vengono viste come qualcosa di insignificante ma curioso. In alcune zone, ad esempio in Africa, le superstizioni possono influenzare notevolmente la vita delle persone. Difatti numerose superstizioni nascono principalmente dalla paura degli spiriti dei morti o di spiriti di qualsiasi natura; ciò che accade viene interpretato come un tentativo di questi spiriti di mettersi in contatto con i vivi attraverso una minaccia, un avvertimento o una benedizione. Inoltre, molti soggetti cercano di curarsi o di prevenire le malattie ricorrendo a usanze ancestrali, allo spiritismo e alle superstizioni. Goethe affermava che «la superstizione è la poesia della vita», di sicuro rappresenta un universo popolato di ombre e credenze millenarie, ma anche di improbabili amuleti e rimedi ai quali le persone ricorrono contro le incognite della realtà e i rischi del vivere. Nonostante la maggiore istruzione, i progressi della scienza e i media, la superstizione sopravvive ancora oggi. Le credenze che hanno accompagnato la storia dell’uomo sin dai suoi inizi hanno offerto sempre una via di fuga verso una presunta maggiore sicurezza, dando l’illusione di potere schivare un evento sfortunato comportandosi in un modo piuttosto che in un altro. Le superstizioni, che non scompaiono, ma si aggiornano, sono in contrasto con la ragione, le ricordano i suoi limiti e, contemporaneamente, stendono una rassicurante rete di significati su tutto ciò che sfugge al nostro controllo (Niola, Moro, 2009). La ricerca che presentiamo si è posta l’obiettivo di rilevare le credenze e i comportamenti a carattere superstizioso in persone appartenenti alla popolazione generale italiana. Destinatari dello studio sono stati 560 soggetti (50% maschi e 50% femmine) con un’età compresa tra i 15 e i 90 anni (età media = 41 anni), reperiti presso strutture pubbliche, residenti nelle regioni del nord, del centro e del sud Italia. Il 31%
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Ringraziamo Chiara Mello e Giulia Piva per avere contribuito alla raccolta dei dati di ricerca.
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Capitolo 4
del campione ha conseguito la laurea, il 29% è in possesso del diploma di scuola media superiore, il 28% del diploma di scuola media inferiore e il 12% della licenza elementare. Il 56% svolge un lavoro dipendente, il 27% un lavoro autonomo, il 15% è studente e il 2% non svolge attualmente alcuna attività lavorativa. Il 70% degli intervistati ha dichiarato di essere credente, mentre il 30% ha asserito di non esserlo. Tra questi credenti il 90% si dichiara cattolico. Per la raccolta dei dati abbiamo utilizzato il Superstition Influence On Life Style Questionnaire da noi ideato (Pani, Sagliaschi, 2010c). Si tratta di uno strumento semplice e di veloce compilazione (circa dieci minuti). Il questionario risulta composto di due parti: una sezione di informazioni generali che raccoglie i dati socioanagrafici dei soggetti, e una sezione sul comportamento superstizioso con domande a scelta multipla dove chiedevamo di rispondere barrando la risposta ritenuta più significativa. 2. Risultati e riflessioni Il 35% degli intervistati dichiara di essere superstizioso (fig. 1).
superstizioso 35%
non superstizioso 65%
Fig. 1 – Superstiziosi e non superstiziosi.
Quando si parla di superstizione sentiamo spesso dire “non è vero, non ci credo, ma mi cautelo, non si sa mai…”. A questo riguardo, l’80% dei soggetti che afferma di non essere superstizioso indica però almeno una superstizione tra quelle indicate nel questionario. La superstizione più diffusa risulta essere “rompere lo specchio” seguita da “un gatto nero che attraversa la strada”, “sale versato”, “passaggio di un carro funebre”, “passare sotto la scala”, “venerdì 17” e “13 a tavola”. In queste circostanze quasi tutti gli interpellati fronteggiano la sfortuna mediante
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un’azione scaramantica (ad esempio, fare le corna, toccare ferro, toccare le parti intime, gettare il sale caduto dietro alla schiena) “per consuetudine, ma non perché ci credano realmente” – precisano. Questo sembra attestare che i gesti scaramantici non sono solo effettuati da pochi superstiziosi, ma fanno parte del bagaglio culturale più di quanto noi crediamo. Toccare ferro è uno dei gesti più diffusi sin dall’antichità, perché a questo metallo venivano attribuite proprietà magiche e difensive molto potenti. Anticamente il ferro era un nome con cui veniva indicata la spada. Mettere mano al ferro, dunque, rappresenta la preparazione alla difesa dai pericoli, in questo caso dalla sfortuna. In altre culture si usa toccare legno, invece del ferro, con riferimento al legno della croce che potrebbe così portare la protezione divina. Un tempo il sale era un bene molto prezioso e versarlo era un grosso danno, e questo ha fatto sì che nella tradizione si associasse alla sfortuna. Inoltre, nelle guerre era usanza dei vincitori cospargere sale sul terreno dei vinti. Prenderlo e gettarselo alle spalle significherebbe trasformare la sconfitta in vittoria e diventare vincitori. Oggi in pochi saprebbero dire perché il numero 17, essere in 13 a tavola, il fatto di passare sotto una scala, o il colore viola, ecc. sono ritenuti portatori di sfortuna, eppure quasi tutti, se possono, li evitano automaticamente o almeno li esorcizzano con qualche gesto scaramantico. Tuttavia, anche in questo caso pochi sanno perché quei gesti avrebbero un effetto protettivo contro la sfortuna. Ogni scaramanzia non sarebbe altro che un retaggio di antiche credenze popolari, spesso di derivazione religiosa, che sono però fondate su un senso storico, logico e spiegabile. Ad esempio il numero 17 è ritenuto sfortunato perché ricorderebbe il giorno della crocifissione di Gesù Cristo, inoltre in numeri romani il 17 era scritto XVII, che anagrammato compone la parola VIXI, che in latino significa vissi, ovvero non vivo più, sono morto. Essere in 13 a tavola viene considerato un presagio di tradimento e di morte poiché durante l’ultima cena a tavola erano in 13 e poco dopo Gesù venne tradito e ucciso. Una scala appoggiata a un muro forma un triangolo, il simbolo di Dio, e passare dentro il triangolo porterebbe sfortuna dal momento che significherebbe volere accedere alla condizione divina ed entrare nello spazio di Dio. Il colore viola è temuto dagli artisti, perché nel Medioevo, durante la Pasqua (il cui colore religioso è il viola), venivano apposti dei drappi di colore viola sulle finestre delle chiese, e in quei giorni venivano vietate tutte le forme di rappresentazioni teatrali pubbliche nelle piazze e nelle strade delle città, per rispetto della passione di Gesù, cosicché gli artisti di strada, non lavorando, pativano la fame. Il pane poggiato al contrario sulla tavola viene considerato di male auspicio sin da tempi lontani, perché in periodi di carestia il pane e il grano erano beni preziosi ai quali portare rispetto. Nell’antico Egitto il gatto era ritenuto sacro, ma nel Medioevo scade ad animale diabolico. I gatti neri, infatti, furono identificati con il satanico e, per questo motivo, cacciati e uccisi. Rompere uno specchio, o una qualsiasi superficie riflettente, è considerato come recare danni a se stesso, visto che in esso è riflessa la propria immagine. Si pensa che fossero i romani ad attribuire a questo danno la durata di sette anni, prima di poter essere annullato (Briguglio, 2008; Di Nola, 2006; Jeanguenin, 2007; La Paglia, 2006). Tornando all’analisi dei dati emersi, osserviamo che il 30% dei cattolici si è dichiarato esplicitamente superstizioso. Come possiamo notare la pratica magica è se-
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guita, molto più di quello che si potrebbe pensare, anche tra coloro che si professano cattolici. La parola di Dio e la Chiesa condannano ogni superstizione perché pone l’uomo che aderisce a tale credenza in contrapposizione con la fede, con il vero culto dovuto a Dio e con la fiducia che si deve riporre in lui. Ciononostante pare che molti cattolici oggi siano inclini ad atteggiamenti superstiziosi. Il 15% delle persone regolarmente praticanti crede anche nell’astrologia e il 12% si è rivolto a maghi o ha assistito a sedute spiritiche. La stessa fede in Dio, in alcuni casi, diviene motivo di superstizione: ad esempio, rosari, mai usati per pregare, vengono appesi in bella vista agli specchietti delle auto o nelle camere da letto come degli oggetti beneauguranti; le immagini dei santi vengono usate come dei veri e propri portafortuna che mescolano fede e superstizione. A questo riguardo citiamo un sondaggio del 2009 commissionato da una compagnia di assicurazioni online a Nextplora che ha chiesto agli italiani quanto siano scaramantici e a quali gesti o oggetti siano soliti ricorrere prima di affrontare gli spostamenti in auto. Il risultato della ricerca ha messo in evidenza come persistano tra chi guida tanti gesti e oggetti scaramantici. Il cornetto rosso sarebbe protagonista indiscusso dietro lo specchio retrovisore delle auto che circolano nel sud Italia, insieme ai santini; nel settentrione per la maggioranza dei casi si tende a tenere accanto un oggetto personale, come ad esempio una foto dei familiari. Venerdì 17 (superstizione della tradizione italiana) (Malossini, 2009), laddove possibile, i superstiziosi preferiscono rinviare la partenza, oppure ci sono persone che partono portando con sé il proprio portafortuna. Ogni giorno, prima di partire molti consultano l’oroscopo o si fermano o rallentano all’attraversamento di un gatto nero. In generale evidenziamo che tra i soggetti superstiziosi del nostro campione, il 9% afferma di sentirsi molto legato alla superstizione, fatto che influenza la sua vita quotidiana (fig. 2).
influenza la vita quotidiana 9%
non influenza la vita quotidiana 91%
Fig. 2 – Legame con la superstizione.
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Soprattutto tra gli studenti intervistati, sarebbe diffusa l’usanza di utilizzare dei portafortuna (come amuleti, talismani) in circostanze particolari (ad esempio per sostenere un esame), ma – seppur in piccola percentuale – non manca chi porta sempre con sé dei portafortuna (magari come portachiavi) o vi ricorre in situazioni ritenute stressanti, difficili o pericolose. Semplici oggetti legati alle tradizioni delle varie culture per un motivo o per un altro hanno acquisito forti valori simbolici: quadrifoglio, ferri di cavallo, dadi, animali come coccinelle, elefanti, tartarughe. Ci sono poi oggetti che per ogni singola persona possono rappresentare un portafortuna e acquisire un valore particolare: pupazzi, peluche, ecc. Traspare la pratica di preservare la propria incolumità a fronte di aspetti del quotidiano oscuri, aggrappandosi alle probabili occasioni di protezione offerte da oggetti e riti scaramantici. Il compito dei portafortuna sarebbe di garantire serenità e pace ai loro possessori, allontanare da sé e dalle persone care ogni forma di malattia e malignità. Il 30% dei partecipanti ha dichiarato di consultare regolarmente gli oroscopi per conoscere il futuro ed essere aiutato a effettuare delle scelte, il 60% – pur non credendoci – asserisce di consultarlo a volte per passatempo o per curiosità, il restante 10% non consulta mai l’oroscopo. Il 25% si protegge dal destino avverso tramite la cartomanzia (8%), l’astrologia (7%), la chiromanzia (5%), l’oniromanzia (4%), la negromanzia (1%). Al presente il 15% del campione asserisce di rivolgersi con regolarità a cartomanti (5%), ad astrologi (5%), a chiromanti (5%) solitamente per ricevere consigli/sostegno/avvertimenti. Non mancano coloro che si rivolgono a numerologi, maghi di varia natura, dei quali le televisioni private sono invase, che si definiscono capaci di prevedere i numeri che saranno estratti dalla data di nascita dell’interessato, dalla decifrazione di un evento, dall’interpretazione di un sogno. Un solo interpellato dichiara di praticare la magia e sostiene di essere arrivato a queste pratiche attraverso amici che lo hanno condotto a queste frequentazioni. L’essere umano, per sua stessa natura, ha bisogno di credere in qualcosa e abbiamo potuto constatare che il fenomeno risulta perlopiù circoscritto alle classi sociali meno elevate. Questo dato conferma alcune ricerche (Gorer, 1955; Hoggart, 1972) svolte in passato nelle quali le credenze superstiziose sono state osservate più comunemente nei gruppi con reddito più basso e declinavano man mano che il reddito cresceva. Non è facile ammettere di essere superstiziosi, ma molti lo sono, pur negandolo perché viene ritenuto sconveniente per una persona intelligente cadere vittima di credenze superstiziose. La superstizione sembra riguardare le persone appartenenti a entrambi i sessi. Abbiamo però rilevato che le donne sembrano eseguire rituali in maniera più rigorosa degli uomini, questi ultimi subirebbero invece indirettamente l’influenza della superstizione. Ad esempio, se un gatto nero attraversasse la strada, le donne tenderebbero a cambiare tragitto, mentre gli uomini proseguirebbero il loro cammino ma la volta successiva eviterebbero quel percorso. Il 25% dei giovani interpellati crede in una o più superstizioni vissute solitamente come supporto e mezzo per superare una scarsa fiducia in sé, angoscia, paura dinanzi a esami o ad altre difficoltà della vita. Le nuove generazioni in qualsiasi contesto vivano sembrano fornire nuove e curiose interpretazioni delle antiche superstizioni, che vengono mescolate a scaramanzia e credenze personali. La socialità
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della superstizione, mantenuta da religione e cultura popolare, viene personalizzata in maniera creativa permettendo di perpetuare una forma di comunicazione sociale nella trasmissione dell’informazione, rinnovando e rinforzando in modo nuovo esorcismi e manie culturalmente condivise. La superstizione in questo senso diviene una manifestazione infantile di una tendenza al controllo sulla realtà, l’espressione di una condotta irrazionale insita nell’uomo, che come tale può diventare necessaria. Questa constatazione non vuol dire che i giovani di oggi siano meno superstiziosi dei loro genitori o dei nonni. Si tratta di altre forme di superstizione che rientrano nello schema normale dell’adolescenza e della prima età adulta, periodo in cui il soggetto sente il bisogno di staccarsi dal modo di pensare e di credere dei propri caregiver. Le nuove forme di superstizione che attraggono i giovani sono loro suggerite dalla musica, da internet, dal cinema, dalla moda e si discostano dalle superstizioni contadine dei loro avi affacciandosi al mondo dell’esoterismo, e spesso anche della violenza (Jeanguenin, 2007). Le persone residenti nelle regioni meridionali, in particolare le persone un po’ avanti negli anni, sentono maggiormente le usanze e le credenze superstiziose rispetto alle persone provenienti dal centro-nord della penisola. Per quale ragione i rituali eseguiti per scaramanzia, specialmente per allontanare la sventura, sono diffusi soprattutto nell’Italia meridionale? Nell’antichità la paura dell’ignoto, le condizioni precarie e la povertà hanno rappresentato per le popolazioni contadine un limite, un ostacolo che impediva di reagire alla sorte avversa. Di conseguenza, troviamo nelle tradizioni rupestri una specie di esorcismo che consente alle popolazioni afflitte di andare avanti in modo più sicuro. Il convincimento che alcuni tipi di rituali opportunamente creati per le diverse occasioni potessero sconfiggere ciò che la ragione umana o la quantità di beni disponibili non era in grado di fare, divenne una verità contro il potere nefasto della malasorte. Perciò, la più intensa presenza di superstizione nell’Italia meridionale potrebbe essere attribuita a una maggiore debolezza verso i poteri forti (Andrini, 2006). Inoltre, non possiamo dimenticare che le regioni meridionali sono state invase da culture diversificate (fenicia, araba, spagnola, turca) che hanno influenzato gli usi e i costumi di queste zone rendendole multiculturali. Invero, alcuni gesti scaramantici avrebbero una connotazione straniera che le popolazioni del mezzogiorno, per motivi storici e sociali, hanno assunto come proprie. Con il passare del tempo, tramite l’immigrazione, alcune abitudini scaramantiche si sono estese in luoghi con caratteristiche differenti dai luoghi di origine. Altre condizioni che possono giustificare il mantenersi di pratiche superstiziose, aventi una funzione protettiva, sono la precarietà dei beni elementari della vita, l’incertezza delle prospettive future, la pressione esercitata sulle persone da parte di forze naturali e sociali non controllabili, la carenza di forme di assistenza sociale, l’angusta memoria di condotte razionali efficaci con le quali contrastare i momenti critici dell’esistenza. Le pratiche superstiziose andrebbero perciò ricondotte all’insicurezza della vita quotidiana, all’influenza della negatività, al riflesso psicologico di “essere agito da” con i relativi rischi psichici. La superstizione permetterebbe, quindi, di affrontare in modo protetto la potenza del negativo nella storia (De Martino, 2001). Possiamo considerare la superstizione come un riflesso della paura di essere in balia di forze ostili che si pensa di poter neutralizzare in tale modo. Spesso le persone
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possono essere vittime di collegamenti inconsci tra l’utilizzo di oggetti comuni della vita quotidiana e avvenimenti negativi che sono capitati; se poi questi avvenimenti siano avvenuti più di una volta, l’ansia viene sfogata nell’attribuire azione nefasta a oggetti, numeri, azioni, ecc. La superstizione alimenta nelle persone la dipendenza da qualcosa e quando essa non è più sufficiente, si può facilmente scivolare nell’esoterismo o nell’occultismo. La superstizione e i gesti scaramantici rappresentano un punto di riferimento del Sé, tendono ad allontanare l’imprevedibilità della realtà cercando di stabilizzare i meccanismi e le dinamiche attraverso un rituale tranquillizzante e personalmente pacificatorio. Nonostante la sua natura sociale e limitativa, la superstizione presenta una sua essenza individuale e liberatrice, in cui l’individuo ha la libertà di credere o di crearsi un proprio rituale superstizioso. La personalizzazione del credere e nel manifestare il proprio atto superstizioso può sfociare nella patologia instaurando una dipendenza compulsiva.
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1. Premessa Crediamo che la dipendenza da gruppi settari, evocanti qualcosa di mitico, finisca per collegarsi alla superstizione, o meglio a forme di parasuperstizione. Come abbiamo visto, la superstizione coinvolge il mitico, una forma di grandiosità primitiva e infantile che, usando rituali (ad esempio, un gatto nero mi ha attraversato la strada e, pertanto, cambio tragitto), evoca una potenza della quale il soggetto è ovviamente privo. La potenza, tanto magica quanto illusoria, conduce a una dipendenza dall’onnipotenza dell’atto compulsivo. Consideriamo allora che anche altre dipendenze siano forme di parasuperstizione nelle quali gruppi di persone, a causa di una moda del momento, si prodigano per appartenere a uno stile che nasce dal nulla, per conformarsi a un leader che vi ha aderito per motivi futili. Ad esempio, pensiamo ad alcune giovani donne che si nutrono di alcol e superalcolici diventando completamente o quasi anoressiche per dimagrire; si tratta di uno stile compulsivo di dipendere da chi ha lanciato questo demenziale sistema al fine di dimagrire, o meglio di creare l’eccitazione maniacale di essere anoressiche. In questo capitolo proponiamo un altro esempio di tendenza superstiziosa (credenza che può influire sul pensiero e sulla condotta di vita delle persone): la tanoressia, che negli ultimi tempi è diventata per alcuni individui compulsivi – tra questi molti giovani – un’altra tra le tante dipendenze di tendenza che fa cool. Si è creato, non solo in Italia, un bisogno impellente di essere abbronzati a qualunque costo. Ci sono persone che si sottopongono a vere e proprie torture con le lampade solari, almeno tutti i giorni, sino a tre volte il giorno; si recano in saloni diversi perché sarebbero dagli stessi gestori messi in guardia per la dannosità dei raggi uva sulla pelle. Ci troviamo di fronte a soggetti abbronzatissimi, similmente agli africani con la pelle scura. La pelle si disidrata e nel giro di pochi mesi compaiono rughe e lesioni di vario tipo che sono irreversibili. Questa parasuperstizione assomiglia a tante altre precedentemente citate, indica che la relazione tra causa ed effetto è distorta, come accade del resto in tutte le superstizioni. Origina da un intenso bisogno di appartenere al gruppo di chi è abbronzatissimo; si basa su un mito e sull’appartenenza a chi è riuscito a farne parte. L’effetto è autodistruttivo perché conduce a non pochi svantaggi. Da sempre il sole rappresenta per l’uomo, a livello psicofisico, un’importante fonte di benessere. Il sole, nelle giuste dosi, ha un effetto positivo sulla pelle, sulle ossa (fonte principale di vitamina D), sulla psiche; possiede un potente effetto antinfiammatorio. Quindi, il sole preso a piccole dosi, negli orari giusti e con l’op-
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portuna protezione, può avere effetti terapeutici sulla nostra pelle e benefici sull’umore. Nell’arco dei secoli il cambiamento culturale e dei costumi ha influenzato anche le modalità di esposizione al sole. Nell’Ottocento e nei primi anni del Novecento erano noti gli effetti benefici del sole nella terapia della tubercolosi, e il sole costituiva un rimedio naturale contro il rachitismo. Sono fiorite le località balneari più esposte al sole e quasi totalmente prive di alberi, habitat ideale per i bagni di sole. Si era ancora ben lontani dal conoscere i pericoli derivati da un’esposizione esagerata ai raggi solari. Un atteggiamento diverso fu poi assunto per ragioni di carattere sociale. Infatti, il pallore, la pelle diafana, erano considerate caratteristiche aristocratiche e la pelle eccessivamente abbronzata era prerogativa delle persone che lavoravano la terra o facevano comunque lavori umili sotto il sole. Negli anni Ottanta si diffonde il boom dell’abbronzatura come segno distintivo da esibire e ostentare: assistiamo alla rapida crescita di centri di abbronzatura intensivi, al mercato di creme superabbronzanti, di specchi solari. In questi ultimi anni pare essersi imposta un’abbronzatura selvaggia accompagnata da maggiore inquinamento radioattivo dovuto alla progressiva rarefazione dello strato di ozono atmosferico, che accentua i rischi dell’esposizione solare e di conseguenza aumenta l’incidenza delle patologie correlate (macchie, ustioni, eritemi, invecchiamento precoce della pelle, tumori cutanei). Oggi, comunque, si registra ancora un basso livello di attenzione nei confronti degli effetti nocivi degli ultravioletti (Barrow, Barrow, 2005; Cokkinides et al., 2002; Cokkinides et al., 2009). La tanoressia, o sindrome compulsiva da sole, è una new addiction che colpisce milioni di italiani ossessionati dall’abbronzatura, senza la quale vivono una situazione di disagio profondo. La compulsione a esporsi esageratamente ai raggi solari, rappresenta una nuova forma di dipendenza equivalente a quella generata da droga, alcol, ecc. (Rawe, 2006) e che espone al rischio di tumori cutanei. Alcuni studi (Veierød et al., 2003) hanno reso evidente che l’utilizzo del solarium, a qualunque età, aumenterebbe del 55% il rischio d’insorgenza del melanoma. Certe persone hanno un bisogno ossessivo di apparire sempre abbronzate e se ciò non accade entrano in ansia e non si sentono sicure di sé. Tono dell’umore, autostima e senso di benessere diventano allora proporzionati all’abbronzatura. 2. Tan addiction Il termine tanorexia risulta composto da tan (in inglese significa abbronzatura) e orexia (dal greco orexis = appetito) ed è stato coniato da alcuni ricercatori texani che, nel 2005, su un esiguo numero di casi, hanno descritto questa new addiction, ossia la dipendenza da abbronzatura o sindrome compulsiva da sole1. Gli autori del-
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Ricordiamo che la tanofobia, un disturbo opposto alla tanoressia, si riferisce a un’eccessiva paura associata all’esposizione al sole. L’avversione al sole sembra colpire soprattutto le persone adulte in-
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la ricerca hanno osservato che, a diversi livelli di coinvolgimento, il 79% dei 145 soggetti intervistati presentava comportamenti che suggerivano la presenza di una dipendenza o una predisposizione a svilupparne una. In particolare il 26% degli intervistati, selezionati per la loro abitudine a esporsi al sole sulla spiaggia, presentava segni evidenti di questo disturbo compulsivo (Warthan, Uchida, Wagner, 2005). Si tratta di un disturbo che oggi appare in forte aumento e si riferisce a un abuso compulsivo di esposizione ai raggi solari (Poorsattar, Sab, Hornung, 2007). Descriviamo le principali caratteristiche della sindrome compulsiva da sole: – dispercezione corporea, vale a dire incapacità di vedersi come si è realmente. Similmente alla persona anoressica che non si vede mai abbastanza magra, la persona tanoressica ritiene di non essere mai sufficientemente abbronzata, un eccesso che porta alla dipendenza da abbronzatura; – il piacere per una pelle abbronzata diventa per il tanoressico una vera ossessione; – ostilità verso le creme con la protezione solare, tendenza a esporsi al sole il più possibile, ignorando del tutto le regole per una corretta esposizione; – ansia e disagi psichici piuttosto intensi se il soggetto non può stare abbastanza al sole o frequentare i solarium. I tanoressici sono molto più esposti ai rischi derivanti da un’incontrollata esposizione solare come le ustioni, i melanomi e l’invecchiamento cutaneo. Alla base dell’abbronzatura compulsiva possiamo individuare: sentimento d’insicurezza del Sé corporeo, scarsa fiducia in se stessi, incapacità di accettare la propria immagine, problemi affettivi gravi e desiderio inconscio di danneggiarsi. La motivazione che trasforma un piacere in una necessità incontrollabile sarebbe alla base di un bisogno di auto-gratificazione. La nostra cultura ha inciso sull’acquisizione di questa abitudine. A questo proposito pensiamo al messaggio abbronzato = VIP che viene reiterato dai mass media. La moda spinge ad assimilare l’immagine della buona salute, se non addirittura della bellezza, con l’abbronzatura. Tutto questo nonostante la campagna informativa sui pericoli dell’eccessiva esposizione al sole, con particolare riguardo all’aumento di tumori cutanei come melanomi ed epiteliomi. Nel caso dei melanomi l’aumento dell’incidenza legata all’esposizione risulta conseguente a esposizioni saltuarie e intense, nel caso invece degli epiteliomi il fattore determinante è rappresentato dall’esposizione costante e prolungata. A prescindere dalle modalità di esposizione, ciò che accomuna l’aumento dell’incidenza di entrambi sarebbe imputabile all’elevato inquinamento radioattivo attuale. Per quale ragione molte persone, pur informate sui rischi che corrono, insistono ad abusare del sole e tendono a esporsi in fasce orarie nelle quali le radiazioni ultraviolette (UV) sono più dannose? Come accennato, la moda è capace di condizionare le scelte e i comportamenti degli individui, in tutte le fasce di età. Non è da sottovalutare anche il condizionamento culturale sollecitato, in particolare negli an-
torno ai cinquant’anni di età che temono l’insorgere di tumori della pelle, e si proteggono in maniera ossessiva o evitano del tutto di esporsi. La rinuncia ai benefici del sole può portare alla carenza di vitamina D, a disturbi dell’umore come la depressione, a una maggiore incidenza di tumori.
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ni sessanta, da tante canzoni aventi titoli che facevano riferimento al sole e risaltavano il legame tra abbronzatura e fascino (“Abbronzatissma”, “Sei diventata nera”). Tralasciando gli effetti negativi e quelli positivi relativi all’esposizione alle radiazioni ultraviolette, soffermiamoci sul senso di benessere, sull’aumento della performance fisica e sulla sensazione di miglioramento del tono dell’umore che si accompagnano all’esposizione prolungata agli UV. Levins et al. (1983) hanno individuato, dopo irradiazione da UV, un incremento della produzione di endorfine cutanee. Uno studio di Kaur et al. (2006) ha evidenziato una riduzione dell’intensità del dolore somatico. Sembra inoltre che le variazioni stagionali dell’irraggiamento influenzano l’umore nei soggetti normali e nei soggetti affetti da patologia depressiva (Heckman et al., 2008; Rao et al., 1992). Da un recente studio (Mosher, Danoff-Burg, 2010), svolto su 421 studenti universitari, dei quali 229 ricorrevano con regolarità a lettini solari, è emerso che circa il 35% mostrava segni di dipendenza patologica dall’abbronzatura. Alla base della spinta ad abbronzarsi ci sarebbe il desiderio di ottimizzare il proprio aspetto fisico, di rilassarsi, di migliorare l’umore e la socializzazione. I soggetti a rischio individuati manifestavano i sintomi dell’astinenza come sentirsi colpevoli durante le sedute oppure non riuscire a smettere con i trattamenti abbronzanti, pur volendolo. I risultati suggeriscono che il trattamento di ansia, depressione e disturbi dell’umore può essere fondamentale per ridurre il rischio di cancro della pelle tra coloro che sono dipendenti dalle lampade abbronzanti. Quando un comportamento, ormai generalizzato, si converte in alcuni soggetti in una manifestazione patologica? Qual è il limite tra chi nell’abbronzarsi rivela una naturale e attenta cura di sé e invece chi denota un ossessivo desiderio di sole? In un sondaggio commissionato dall’IRDEG (Istituto di Ricerca e Cura Dermatologia Globale) (Cagnoni, 2010), al fine di indagare la frequenza del disturbo nella popolazione italiana, sono stati estratti a caso dagli elenchi telefonici della rete nazionale seicento soggetti tra i sedici e i sessanta anni. Anche se può interessare entrambi i sessi e tutte le età, la dipendenza da abbronzatura sembra riguardare particolarmente le donne con un’età compresa tra i venticinque e i cinquantaquattro anni, con una pelle di base già scura, perlopiù magre, fumatrici, con un profilo scolare medio. Risiedono maggiormente al nord Italia nelle aree metropolitane, e amano esporsi al sole per più di sei ore il giorno, comprese le più calde, senza creme protettive, ma solo con intensificatori di abbronzatura, fanno lampade UV in inverno ma anche in estate. La tanoressia coinvolgerebbe circa il 20% della popolazione, mentre in quasi sei italiani su dieci esisterebbe una forte propensione ad abusare dei raggi solari. Un soggetto su tre considera esagerati gli allarmi lanciati dagli esperti, uno su quattro ritiene che l’esposizione alle lampade abbronzanti non costituisca alcun rischio; il 20% accetta il rischio di un aumento delle rughe; il 17% accetta anche di correre rischi maggiori, pur di ottenere un’abbronzatura soddisfacente. Il sole in definitiva li fa star bene perché attiva i circuiti del piacere nel cervello e aumenta i livelli di endorfine e di serotonina, aumenta la sicurezza di sé, migliora il tono dell’umore e riduce lo stato d’ansia. Queste persone sembrano spinte dal bisogno ossessivo di apparire sempre abbronzate; se ciò non accade sperimentano ansia e insicurezza. Il tono dell’umore, l’autostima e il senso di benessere sono direttamente proporzionali al livello di ab-
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bronzatura e alla continua esposizione al sole, o artificiale con le lampade senza precauzioni, a qualunque ora del giorno e qualche volta a prescindere dalla stagione in corso. Non vedendosi mai abbronzati, i tanoressici hanno un basso livello di attenzione nei confronti dei pericoli dei raggi UV, dannosi per la pelle a breve e a lungo termine (invecchiamento cutaneo precoce, lesioni pretumorali sulla pelle), e preferiscono qualche ruga in più o la comparsa di tumori della pelle all’aspetto non abbronzato, per loro inaccettabile. Questa overdose di sole cui ambiscono è dovuta al fatto che il sole va ad attivare loro i circuiti del piacere. È stata osservata una relazione tra luce, tono dell’umore e produzione della serotonina e della dopamina. Nelle persone affette da tanoressia l’esposizione al sole diminuirebbe l’ansia e migliorerebbe l’umore. In numerosi casi è stata osservata una predisposizione neurobiochimica da carenza di serotonina. È noto che non conosciamo scientificamente se tale carenza sia una conseguenza di una depressione psichica o viceversa. Qualcuno (ad esempio, Cagnoni, 2010) sostiene – ma noi non siamo d’accordo – che potrebbe esserci alla base una predisposizione ereditaria di tipo compulsivo, cioè nell’ambito della stessa famiglia sarebbe una caratteristica facilmente trasmissibile. Per la cura di questi pazienti ci sembra consigliabile una psicoterapia individuale e/o di gruppo (ad esempio, lo psicodramma psicoanalitico). Sarebbero altresì utili, nel caso in cui il paziente potesse accettarli, farmaci ansiolitici e antidepressivi, che modifichino la spinta all’addiction, rallentando l’ossessione per l’abbronzatura a tutti i costi, limitando il bisogno esasperato del soggetto di esporsi al sole e, di conseguenza, gli effetti dannosi sulla pelle. Riteniamo importante comprenderne l’aspetto psicologico, nel senso di intendere con tale comportamento una manifestazione di segnale di angoscia. Ai fini di limitare il danno, potrebbero essere usate, nel frattempo, anche creme con filtro chimico protettivo, melatonina come antiossidante e vitamine E, D, C e fattori di crescita. Gli interventi farmacologici e psicoterapeutici dovrebbero avere, a nostro avviso, i seguenti obiettivi: – autorivelazione di Sé; – apprendimento di strategie e delle difficoltà ad applicarsi su di Sé, aumento dell’introspezione (attraverso il working through, consistente nell’avviare un processo di elaborazione che, all’interno di Sé, consenta le connessioni tra piani e contesti situazionali guidati da un senso ancora sconosciuto e inutilizzato, allo scopo di sentirsi autonomi e armonici con se stessi); – aiutare il soggetto a costruire all’interno di Sé quel senso di sicurezza che permette di rinunciare al bisogno coercitivo della dipendenza, attraversare con fiducia il mondo esperienziale, prendere consapevolezza dei motivi che hanno portato alla dipendenza; – confronto e relatività per abolire il senso onnipotente di assolutismo con il quale vengono valutate le cose reali; – migliorare l’ottimismo; – chiarificazione delle situazioni; – sviluppare l’autoaffermazione; – interpretazione della propria soggettività; – migliorare la visione delle alternative nelle situazioni difficili;
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– prevenire le ricadute mediante l’identificazione degli stimoli attivanti e dei sintomi, apprendere le strategie di evitamento delle ricadute; – comprendere il processo di dipendenza ed esserne consapevoli; – strutturazione dell’autostima, formazione e potenziamento del Sé autentico con il suo significato e assunzione di responsabilità delle proprie azioni. 3. La ricerca2: identikit del tan addicted Lo studio che presentiamo ha coinvolto 320 soggetti italiani (56% femmine, 44% maschi) appartenenti alla popolazione generale e residenti nelle diverse regioni del nord, del centro e del sud della Penisola. L’età varia da un minimo di 18 a un massimo di 64 anni, con un valore medio di 37 anni. A ciascun partecipante è stato somministrato il Tan Influence on Life Style Questionnaire (Pani, Sagliaschi, 2010d) mirato a valutare l’influenza che l’abbronzatura riveste sulla vita delle persone. La compilazione del questionario ha richiesto mediamente dieci minuti. I dati sono stati raccolti tra maggio e settembre 2010 in differenti strutture pubbliche. In generale abbiamo osservato che, per la maggior parte delle persone interpellate (70%), abbronzarsi appare come un concetto collegabile al senso di benessere (“una sensazione di piacere fisico per l’aumento di endorfine, serotonina, melatonina”). L’abbronzatura rappresenta anche un segno distintivo, una fonte di relax e un modo per accrescere l’autostima, infondere sicurezza. Abbiamo potuto costatare che circa il 15% del campione sembra rientrare nella sindrome compulsiva da abbronzatura. Ripercorrendo in sintesi i risultati possiamo provare a tracciare il profilo del dipendente da abbronzatura. Il tanoressico sembra essere in prevalenza di sesso femminile (anche se la percentuale maschile ci appare non sottovalutabile), con un’età media di trenta anni; appartiene a un livello sociale medio; risiede nelle regioni del centro-nord; presenta un fototipo3 medio. Durante i mesi estivi ricorre quotidianamente e costantemente all’esposizione solare (anche nelle fasce orarie più calde della giornata, tra le ore 11 e le ore 16) e tende a non proteggersi con creme solari; nel periodo invernale, invece, frequenta con regolarità i solarium. Pur di non rinunciare ad abbronzarsi, il tan addicted si dichiara disposto a correre dei rischi (quali invecchiamento cutaneo, comparsa di dermatiti). Benché ammetta che dovrebbe ridurre l’esposizione al sole a causa della riconosciuta dannosità, dichiara che al risveglio mattutino vorrebbe subito prendere il sole o usare sistemi di abbronzatura; confessa di trascurare alle volte i propri impegni pur di andare ad abbronzarsi. La persona che manifesta il bisogno patologico di abbronzarsi ritiene che il colore abbronzato della sua pelle esprima un senso di robustezza. Inoltre, l’abbronzarsi con2
Ringraziamo Serena Brintazzoli per avere contribuito alla raccolta dei dati di ricerca. Per chiarezza, ricordiamo che il fototipo può essere: I (carnagione molto chiara con efelidi, capelli biondo-rossi, occhi chiari); II (carnagione chiara, spesso con efelidi, capelli biondi o castano chiari, occhi chiari); III (carnagione bruno-chiara, capelli castani, occhi chiari o scuri); IV (carnagione olivastra o scura, capelli castano scuro o neri, occhi scuri); V (carnagione bruno-olivastra, capelli neri, occhi scuri); VI (carnagione nera, capelli neri, occhi scuri). 3
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dizionerebbe la sua vita perlopiù positivamente e spesso, quando è impensierita o preoccupata per qualcosa, si espone al sole o ricorre a sistemi di abbronzatura per rasserenarsi o calmarsi. Abbiamo rilevato che i familiari dell’addicted manifesterebbero una minore tendenza ad abbronzarsi rispetto al soggetto compulsivo. Notiamo che, allo stesso modo del dipendente da sostanze, il tanoressico conosce i rischi della sua condotta ma non riesce ad astenersene. Può succedere che, in alcuni casi, la tanoressia si intrecci con disturbi d’ansia, con l’abuso di alcol e droghe, con il tabagismo. Pensiamo sarebbe importante diffondere una corretta cultura dell’esposizione al sole, della prevenzione e della sensibilizzazione sui pericoli e sugli effetti negativi dell’eccessivo e prolungato uso dell’abbronzatura, sia solare sia artificiale (Hill et al., 2009; Maguire-Eisen, Demierre, 2005).
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