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Italian Pages 596 [662] Year 2018
Cinema / 22
David Weddle Se si muovono… falli secchi! Vita di Sam Peckinpah Titolo originale: Sam Peckinpah: «If They Move… Kill ’Em!» traduzione di Anna De Vito © David Weddle, 1996 © minimum fax, 2018 Tutti i diritti riservati Edizioni minimum fax via Giuseppe Pisanelli, 2 – 00196 Roma tel. 06.3336545 / 06.3336553 [email protected] www.minimumfax.com I edizione: agosto 2018 I edizione digitale: agosto 2018 ISBN
9788875219970
DAVID WEDDLE
SE SI MUOVONO… FALLI SECCHI! VITA DI SAM PECKINPAH traduzione di Anna De Vito
INDICE Prologo «Cosa sta succedendo nel mio cuore?» 1 / «Oh, un altro Peckinpah nero!» 2 / L’intruso prodigio 3 / «Non si può uccidere così un ricordo» 4 / Il figlio bastardo di John Ford 5 / Moby Dick a cavallo 6 / Sulla spiaggia 7 / Il mucchio selvaggio 8 / «Immagini che non potranno dimenticare» 9 / Sotto i riflettori 10 / Nell’abisso 11 / «Non è come un tempo, ma… andrà bene» Note Ringraziamenti
a mia madre e mio padre che hanno reso possibile tutto questo
Non farmi diventare un santo, ma non sprofondarmi troppo in basso. La ballata di Cable Hogue
PROLOGO «COSA STA SUCCEDENDO NEL MIO CUORE?»
Il 1° maggio 1969 mille persone si misero in fila all’ingresso del Royal Theater di Kansas City per assistere a quella che l’ufficio pubblicitario della Warner Bros. aveva annunciato come La prima proiezione al mondo di uno dei più importanti film dell’anno! La risposta a quella pubblicità nel giornale locale fu tale che altre cinquecento persone dovettero essere respinte all’ingresso. In pochi notarono il regista del film che se ne stava fermo nell’atrio, insieme a una falange di produttori esecutivi in abito scuro, a disagio e fuori posto, con un paio di Levi’s sbiaditi, stivali da cowboy consumati e una giacca di cuoio che si abbinava perfettamente alla carnagione del suo viso profondamente segnato. E sarebbero stati ancor meno gli spettatori in grado di riconoscere il suo nome o di prestare attenzione al fatto che in Europa fosse stato salutato come uno degli esponenti più talentuosi di una nuova generazione di registi americani. Si trattava di una folla del Midwest con poco appetito per le teorie critiche intellettuali. Erano venuti per vedere un buon vecchio western fatto di sparatorie, tanta azione, brivido e buoni e cattivi immediatamente identificabili. La presenza di star come William Holden e Ernest Borgnine e il titolo Il mucchio selvaggio lasciavano intendere che si trattasse di una pellicola in grado di rispondere a queste aspettative. Ma quando quella sera le luci si abbassarono e il sipario si aprì, i buoni cittadini di Kansas City ebbero più di quanto
potessero aspettarsi, molto di più. Il disagio di fronte alla novità del film emerse già dalla primissima scena. William Holden, alla guida di una banda di fuorilegge diretti verso le aride frange di una polverosa città, si imbatte in un gruppo di bambini ridacchianti, accovacciati a piedi nudi e sporchi di terra. Quando il suo cavallo passa lì accanto, Holden volge gli occhi verso l’oggetto della loro ilarità e la cinepresa coglie un cenno di orrore e presentimento nel suo stoico sguardo. I bambini sorridono sarcastici mentre Holden sprona il cavallo, poi tornano alla loro arena in miniatura fatta di bastoncini e fango secco. All’interno, diversi scorpioni si contorcono su un formicaio in fermento. «Girali!», ridacchia uno dei bambini. Un bastone appuntito gira gli scorpioni, i cui aculei fremono spasmodicamente sotto migliaia di minuscole torturatrici rosse. Un’inquietante melodia scorre sotto le forti percussioni della colonna sonora, creando un sinistro parallelismo tra la resa degli scorpioni a un mare di rosso e il destino di Holden e dei suoi uomini. Se qualcuno nel pubblico ancora pensava che questo film sarebbe rimasto entro i comodi confini di un western convenzionale, le sue speranze svanirono con la sparatoria seguente. Mentre sta rapinando l’ufficio della ferrovia nell’arida piazza del villaggio, la banda di Holden viene presa d’assalto da un gruppo di cacciatori di taglie. Ma chi sono i buoni e chi i cattivi? I cacciatori di taglie sono abietti e spietati esattamente quanto i banditi, tant’è vero che nessuno dei due gruppi mostra il minimo barlume di colpa mentre spazza via gli innocenti che si trovano in mezzo allo scontro a fuoco. La pellicola da 70mm sembra esplodere oltre i confini dello schermo. L’azione è filmata da una vertiginosa varietà di angolazioni, alcune scene sono girate in slow motion, altre a velocità normale, per poi essere montate in sequenza alternata, cosicché il tempo sembra comprimersi e subito dopo dilatarsi. I proiettili si abbattono come granate contro petti, spalle, arti e volti, in un’esplosione di sangue e carne; i corpi sono scossi da spasmi e si contorcono; i vetri delle finestre si frantumano
lentamente, con frammenti scintillanti che piovono come cristalli di ghiaccio; cavalli e cavallerizzi crollano a terra con grazia tersicorea. No, non si trattava di un western come gli altri. Un western, anzi un film, come quello, non si era mai visto. Trenta persone si precipitarono in corridoio e fuggirono dal teatro, alcune per andare a vomitare nel vicolo adiacente. Ma la maggior parte rimase ben salda alle proprie poltrone, inorridita eppure paralizzata. «A volte guardavo le immagini con un occhio solo, nascondendomi dietro le braccia e le dita aperte per il terrore», ricordò in seguito Phyllis Jiles, una donna di poco più di vent’anni. «Ma devo ammetterlo, ero eccitata, ripugnata e allo stesso tempo attratta da quanto vedevo sullo schermo». Un altro spettatore trovò la violenza «irreale, eppure fin troppo reale». Ma la sparatoria iniziale non era che un assaggio, un picnic primaverile, se paragonata alla battaglia di due ore dopo, quando Holden e il suo Mucchio si tuffano in un combattimento suicida contro un intero esercito messicano. Armati fino ai denti, William Holden, Ernest Borgnine, Ben Johnson e Warren Oates giungono ordinatamente davanti a un arco di argilla, l’ingresso del covo del generale Mapache. «Ah!», grugnisce l’ebbro generale mentre si guarda attorno, instabile sulle gambe. «Los gringos otra vez». Un momento di pausa, l’aria che vibra come una corda di chitarra tesa fino al punto di rottura. «Che cosa volete?!», grida Mapache, agitando le grandi braccia flaccide. La risposta di Holden è calma, composta. «Vogliamo Angelo». «Ci tenete tanto». Le grosse guance sudate di Mapache si allontanano da una fila di scintillanti denti bianchi mentre il
volto del male sogghigna. «Va bene, ho deciso di accontentarvi». Come un padre buono che aiuti il suo bambino a muovere i primi passi, Mapache aiuta lo sventurato compagno del Mucchio a mettersi in piedi. Dopo essere stato trascinato per la piazza legato a un’automobile per tutto il giorno, il suo viso è rovinato e coperto di vesciche, gli occhi vitrei e spenti. Mapache sussurra un lieve incoraggiamento – «Angelito» – e usa un lungo coltello macchiato per tagliare le corde che gli stringono i polsi. Lo sguardo di Angelo riesce a mettere a fuoco i suoi amici, in piedi a tre metri da lui; le sue braccia si sollevano rigide, come quelle di Gesù sulla croce. Tenta di fare un passo, ma in un attimo il coltello di Mapache gli taglia la gola, e dallo squarcio sgorga il sangue. La reazione del Mucchio è immediata: le pistole ruggiscono, i proiettili penetrano nel petto di Mapache facendo esplodere uno schizzo rosso dalla sua schiena. Il generale cade a terra, esala grugnendo l’ultimo respiro, e subito dopo c’è un’altra pausa, estenuante. Duecento soldati messicani fissano increduli il loro leader caduto, le mani di alcuni quasi sollevate in segno di resa. «Ih ih», ridacchia Borgnine, sogghignando come una zucca di Halloween, lo sguardo infuocato rivolto a Holden per incitarlo tacitamente a scaraventarli tutti nell’abisso della morte. Dopo un’attenta riflessione Holden si gira, mira al militare tedesco in vesti prussiane, consigliere dei messicani, e fa fuoco. Il tedesco cade, l’incantesimo è spezzato, duecento messicani corrono ad armarsi e il cortile è divorato da un vortice di piombo. Corpi si accumulano su altri corpi, rovinando verso terra in slow motion o rapidamente, per poi inarcarsi verso l’alto sulle nuvole fungiformi create dalle granate. Le immagini si susseguono in un’incalzante danza di morte, ripugnante ed erotica, perversa eppure stranamente bella. Warren Oates afferra una mitragliatrice e falcia una fila di soldati che
cercano di infilarsi in uno stretto passaggio: «YEEEAAAAAAH!», strilla, folle, agonizzante, perversamente trascendente, mentre i proiettili lo colpiscono e si riversano fuori dalla sua arma. Una donna, l’amante di uno dei soldati messicani, spara a Holden alle spalle. Lui fa una smorfia, si gira ed esclama «puttana!» prima di scaricare la pistola nel suo stomaco. Oates cade all’indietro, lontano dalla mitragliatrice, morto. Holden la afferra ed esplode un’altra gragnuola di colpi, centrando scorte di esplosivo che spazzano via l’intero cortile in una serie di fragorose deflagrazioni. «Mandali all’inferno, Pike!», urla Borgnine esultante, proprio mentre un ragazzo messicano alza il fucile per sparare a Holden, questa volta fatalmente, alla schiena. Nel pubblico, Phyllis Jiles trovò l’avventata corsa del Mucchio verso la morte «stranamente esaltante… Ho provato qualcosa di simile a un orgasmo mentale». «Voglio andarmene da questo diamine di posto!», si lamentò qualcuno due o tre file avanti. Un’altra donna urlò, si alzò dalla poltrona e si precipitò fuori dal cinema. Nell’atrio, un uomo sfogava la sua rabbia sull’esterrefatto direttore di sala, mentre una donna obesa strillava in una cabina telefonica: «Corri qui, e porta anche le suore! Dobbiamo cacciare questa gente dalla città!» «Solo un pazzo la definirebbe un’opera d’arte!», scribacchiò un livido avventore sul foglio dei commenti che il pubblicitario della Warner Bros. dalle mani sudaticce aveva distribuito in giro. «Non è arte! Non è cinema! È pura, inutile follia!» «Meritereste che vi sparassero per averlo girato!», scrissero molti altri pacifisti indignati. Proprio in cima al cavernoso cinema, vicino alla porta della cabina di proiezione, il folle creatore del film, Sam Peckinpah, se ne stava tranquillamente a osservare quel caos. Al suo fianco il responsabile del montaggio, Lou Lombardo,
impallidiva di fronte ai fischi che salivano dall’oceano di persone sotto di loro. Si avvicinò all’orecchio di Peckinpah e sussurrò insistentemente: «Sam, dobbiamo andarcene da qui! Si stanno preparando a prenderci a calci in culo!» La barba grigio-castana del regista si aprì per far posto al suo enigmatico mezzo sogghigno, una smorfia che Lombardo aveva ormai imparato a conoscere durante le interminabili ore passate in sala montaggio, per tutto l’anno. «Andarcene ora?», disse Peckinpah in un rauco sussurro, gli occhi marroni scintillanti. «Diavolo, socio, mi sa tanto che li abbiamo messi tutti in fuga!» Peckinpah guardava con ironia alla rabbia di tutti quelli che erano rimasti seduti per l’intera durata del film. Era convinto che il vero oggetto della loro frustrazione non fosse lui, ma le loro stesse reazioni. «Vogliono andarsene, ma non ci riescono», avrebbe detto in seguito. «Non riescono a distogliere lo sguardo e questo li fa impazzire». Non tutti odiarono il film. Circa un quarto della platea lo adorò. Un giovane si avvicinò al regista e gli confessò che durante la sparatoria finale si era ritrovato a tifare senza rendersene conto. «Poi ho provato vergogna», aggiunse, «perché mi sono reso conto che non c’era alcuna giustificazione per il mio tifo». «Vedete», disse Peckinpah, «la gente comincia a cogliere la violenza dentro di sé, la violenza appena sotto la superficie. È in ognuno di noi, come mostra il film, sia che siamo criminali, uomini di legge, bambini (che imitano i grandi, pur essendo violenti per natura) o vecchi… La violenza generalmente comincia per una ragione, in nome di un principio da difendere. La vera motivazione, tuttavia, è un’ancestrale sete di sangue, e man mano che la battaglia prosegue le ragioni e i principi vengono dimenticati e gli uomini lottano per il piacere di lottare». Molti in quella platea di Kansas City videro dei parallelismi tra la carneficina assoluta del film e la guerra in Vietnam, che in quell’estate del 1969 stava raggiungendo
l’apice. Per altri la sparatoria evocava invece le rivolte a Watts, Detroit, Chicago, nei campus dei college sparsi per gli Stati Uniti, e i recenti assassinii di Bobby Kennedy e Martin Luther King Jr. «Per me», scrisse qualcuno sul suo foglio dei commenti, «il film dimostra semplicemente che non siamo affatto gli Americani pacifisti che pensiamo di essere». Quasi due mesi dopo, Il mucchio selvaggio fu proiettato per la prima volta per la stampa internazionale alle Bahamas. La Warner Bros. aveva organizzato un festival del cinema internazionale sull’isola di Grand Bahama per promuovere le sue più prestigiose nuove uscite per l’estate. Cinquecento giornalisti furono invitati da tutto il mondo per vedere sei film in una settimana. Tra le pellicole proiettate c’erano La caduta degli dei di Visconti e Non torno a casa stasera di Francis Ford Coppola, ma fu Il mucchio selvaggio, presentato a conclusione del festival, che accese la miccia delle controversie. «La reazione del pubblico fu estrema», ricorda Roger Ebert, critico del Chicago Sun-Times. «Alcuni lasciarono la sala. Altri chiusero gli occhi. Quando le luci si riaccesero, gli applausi si mischiarono ai fischi. E le discussioni cominciarono». «Non avrei mai pensato», si lamentò una donna con Ebert, «che avrei vissuto tanto a lungo da vedere William Holden sparare a una donna». Ma altri, Ebert compreso, ne erano rimasti affascinati. «Fu un’esperienza viscerale», ricorda. «Lo trovai bellissimo, lo trovai artistico, lo trovai grandioso nella sua visione. Mi piacque davvero molto». Alla conferenza stampa del mattino seguente le star e il produttore del film, Phil Feldman, affrontarono un pubblico indignato senza il supporto del loro regista. Peckinpah non si fece vedere. I giornalisti, furiosi, aprirono il fuoco. «Ho solo una domanda da porre», disse Virginia Kelly del Reader’s Digest. «Perché questo film è stato fatto?»
«Perché tutti sanguinano così tanto?», volle sapere un’altra giornalista. «Signora», rispose Ernest Borgnine spazientito, «ha mai visto qualcuno non sanguinare dopo che gli hanno sparato?» «Non riesco a capacitarmi di questa reazione», disse uno scosso William Holden. «Le persone sono davvero sorprese del fatto che esista violenza nel mondo? Basta accendere la tv ogni sera e si assiste alla guerra del Vietnam, a città in fiamme, rivolte studentesche. A un’infinità di violenza». «Gli stessi Borgnine e Holden sembravano piuttosto disorientati dal film», ricorda Roger Ebert. «Non era affatto il tipo di pellicola che Hollywood avrebbe prodotto cinque o dieci anni prima. E una cosa è certa: nella carriera di Holden, almeno fino ad allora, non si trova nulla di simile. Aveva lavorato con registi anticonformisti come Billy Wilder e dato prova di capacità interpretative decisamente originali in ruoli non convenzionali, ma mai nulla di simile a questo». Mezz’ora dopo l’inizio della conferenza stampa finalmente apparve Peckinpah, con uno Stetson malridotto in testa, un paio di occhiali da sole a specchio appesi al collo, una cinepresa sistemata a tracolla come un’arma da fianco. «Perché ha fatto questo film?», chiese Stuart Byron di Variety. «Cosa vuol dire? Perché tutta questa violenza?» Peckinpah alzò le spalle. «Non ho nulla da dire. Il film parla da sé». «Allora qual è il senso di questa conferenza stampa?», chiese Rex Reed, in tono aspro. Peckinpah alzò nuovamente le spalle. «È una bella domanda». Roger Ebert aveva decisamente sentito abbastanza. Si alzò in piedi. «Immagino che voi lassù abbiate l’impressione che nessuno difenda questo film. Non è così. Molti di noi credono che Il mucchio selvaggio sia un grande film. È più difficile porre domande su un film che vi piace che su uno che
odiate. Volevo solo che si sapesse: per moltissime persone questo film è un capolavoro». «Esatto! Esatto!», urlò un altro critico. Ci fu un’esplosione di applausi e cenni di apprezzamento da parte degli attori e del regista. Le reazioni fortemente contrastanti continuarono ad accumularsi man mano che le recensioni del Mucchio selvaggio iniziavano a uscire, durante le settimane seguenti. «Non c’è veramente motivo per discutere di questo brutto, inutile, disgustoso, sanguinoso film», scrisse il critico William Wolf. Judith Crist della rivista New York avvisava: «Se volete andare a vedere Il mucchio selvaggio, assicuratevi di portare con voi un sacchetto per il vomito». Tuttavia i critici del New York Times, del Los Angeles Times e del New Yorker elogiarono la genialità del film e Richard Schikel di Life concordò con Ebert sul fatto che il film fosse un capolavoro. «Sam Peckinpah è un regista attento a raccontare la verità preservando allo stesso tempo la leggenda del West americano», scrisse il Time. «Il mucchio selvaggio è la più complessa indagine di Peckinpah sulla metamorfosi dell’uomo in mito. Non a caso, è anche un esempio brutale, violento e potente dell’arte cinematografica americana… Il mucchio selvaggio contiene difetti ed errori, ma i suoi esiti sono più che sufficienti per confermare che Peckinpah, insieme a Stanley Kubrick e ad Arthur Penn, fa parte dei migliori registi americani della nuova generazione». Gli americani non hanno mai veramente saputo cosa fare con Sam Peckinpah. Persino al culmine della sua carriera, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, mentre molti critici lo salutavano come uno dei più geniali cineasti della sua generazione, un eguale numero lo condannava come misogino, sadico e addirittura fascista (per la cronaca, sosteneva
attivamente i politici liberaldemocratici). Alla fine degli anni Settanta, quando sia la sua vita che la sua arte sprofondarono in un abisso di nichilismo, il pubblico e la critica trovarono ben poco da ammirare nei suoi film, e anche i suoi più ardenti difensori lo abbandonarono. Eppure, per quanto vogliamo allontanarci da Peckinpah, scrollarcelo di dosso, dimenticarlo, non è possibile farlo. Come visioni traumatiche impresse nell’inconscio collettivo, i suoi film resistono alla nostra volontà, affondano i denti e rifiutano di andarsene. Le prime scintille del grande revival di Peckinpah si videro verso l’inizio degli anni Ottanta, poco prima che Sam morisse. Furono appiccate da un gruppetto di fanatici registi, studiosi e critici, certissimi che quel rozzo delinquente fosse il regista americano più importante degli ultimi cinquant’anni. Nel decennio seguente, questi appassionati discepoli riuscirono ad alimentare le fiamme fino a farle diventare una conflagrazione globale. Sono già stati pubblicati undici altri libri sulla vita e i film di Sam Peckinpah, quasi tutti negli anni Novanta. Nel 1993 la BBC produsse un documentario su di lui, e nel 1996 Paul Seydor ha scritto e diretto un documentario sulla realizzazione del Mucchio selvaggio, che è stato candidato all’Oscar. I film di Peckinpah continuano a fare il pienone nei cinema d’essai e nei college universitari, dove professori hanno dedicato interi corsi allo studio della sua opera. Nel 1993 il Film Festival di Amiens, in Francia, tenne una retrospettiva di nove giorni su Peckinpah dove furono proiettate tutte le sue opere – dal primissimo, rozzo Portrait of a Madonna, fino ai video rock di Julian Lennon che diresse poco prima di morire. La riscoperta dei primi sceneggiati televisivi di Peckinpah fu una vera rivelazione e l’ampiezza e la profondità della sua produzione artistica lasciarono il pubblico estasiato. Persino i critici americani hanno dovuto ammettere che Peckinpah ha ormai un certo peso nel panorama
cinematografico. Sebbene sia ancora impossibile vedere le sue versioni del Mucchio selvaggio e Pat Garrett e Billy Kid nel suo paese, questi due film, insieme a Sfida nell’Alta Sierra, sono oggi ampiamente considerati capolavori e sono diventati metri di giudizio per ogni nuovo western americano. Il suo stile di montaggio – molto imitato ma mai eguagliato – è stato il più rivoluzionario dopo quello di Sergej EjsenŠtejn nella Corazzata Potëmkin. «Nessuno, ancora oggi, sa padroneggiare l’arte del montaggio di sequenze multicamera a velocità diverse», afferma Paul Schrader. «Poteva avere cinque o sei macchine da presa accese, tutte a velocità diverse, e nella sua mente sapeva già esattamente a quale velocità dovesse andare ciascuna macchina – quale a 32 fotogrammi [al secondo], quale a 24, quale a 96, quale a 48, e come avrebbe montato insieme le riprese». Il mucchio selvaggio cambiò per sempre il modo in cui i film vengono girati e lasciò il segno su un’intera generazione di registi cinematografici: Francis Ford Coppola, Oliver Stone, Michael Cimino, Walter Hill, Alex Cox e John Milius, per citarne solo alcuni. «Basta guardare i suoi film per non avere alcun dubbio che si tratti di uno dei più grandi maestri del cinema americano», afferma Martin Scorsese. Proiezioni d’essai di Sierra Charriba, La ballata di Cable Hogue, Cane di paglia, L’ultimo buscadero, Getaway!, Voglio la testa di Garcia e La croce di ferro dimostrano che Peckinpah ha offerto ben più che una mera genialità tecnica. Aveva una visione profondamente personale, colma di temi e immagini ricorrenti che hanno ossessionato una lunga lista di artisti americani. «Ci sono altri amici più anziani in compagnia dei quali Sam Peckinpah dovrebbe sentirsi anacronisticamente a casa: Melville, Hawthorne, Twain, Hemingway, Faulkner», scrisse Kathleen Murphy su Film Comment poco dopo la morte del regista nel 1984. «Hanno tutti navigato in acque buie, dagli oceani di Moby Dick al Mississippi passando per il grande fiume dai due cuori… I nostri figli più rappresentativi sono
tutti criminali, uomini ossessionati da uno qualunque di quei grandi sogni che vengono violati o sviliti, come deve sempre accadere: che si tratti di una balena bianca o di una guerra, di una burocrazia sconfortante o dei tempi che cambiano, queste anime spezzate si contorcono per lo sdegno. Conflitti simili erompono dentro ognuno di noi, ma l’intento della narrativa americana consiste nello spingerli fuori dalla porta, trasferendoli su baleniere e zattere, in borghi spagnoli e manieri gotici del Sud, o nei western. Tuttavia è lo stile che veicola il contenuto. Questi libri e film sono narrati e descritti come drammi allucinati che non possono essere rappresentati se non nell’ultimo e fondamentale dei palcoscenici, la mente e l’immaginazione dell’autore». Sam Peckinpah proiettò i suoi drammi allucinati, le sue guerre interiori sullo sfondo del Sudovest americano: un’esistenziale terra di nessuno lungo il confine tra Texas e Messico dove la ragione e il torto, il bene e il male dipendevano da quale lato della pistola ci si trovasse o da quanto oro ci fosse in ballo. In questa landa desolata i suoi protagonisti si imbarcavano – o venivano spinti, trainati, scaraventati – in avventure alla ricerca di vendetta, ricchezza, autoaffermazione, autodistruzione e, di tanto in tanto, redenzione. Se riuscivano a ghermire quest’ultima nella sabbia cocente, ciò accadeva sempre a un prezzo terribile, alle loro stesse condizioni e lungo un percorso che erano loro a scegliere. Dio, se anche fosse stato nascosto negli infiniti recessi del cielo scolorito sopra le loro teste, non proferiva parole di conforto né inviava roveti ardenti per illuminare il cammino. La violenza erotizzata nei film di Peckinpah, la costante giustapposizione di idealismo romantico e amore per l’efferatezza, riflettono il vacillare della stessa America tra aspirazioni utopistiche e un’ossessione per la brutalità – una dicotomia cucita saldamente nel tessuto della mitologia del Selvaggio West. Peckinpah usò la cornice del western per esplorare le polarità in conflitto nella psiche americana e in se stesso. Ultimo grande regista di film western, Peckinpah era
cresciuto egli stesso in quel poco che rimaneva del Selvaggio West. Crescendo lo vide estinguersi, asfaltato dalla lava della civilizzazione, e come regista fece di quelle convulsioni mortali il suo più potente soggetto. «Il mucchio selvaggio è un film formidabile perché viene dalle viscere dell’America e da un uomo che sta cercando di tirare l’America fuori dalle sue viscere», ha scritto il regista Paul Schrader. «Il trauma di questo patriottismo da espatriati è un tema ricorrente nell’arte americana, ma mai tale pena è stata tanto evidente quanto nella vita di Sam Peckinpah. Il mucchio selvaggio è l’agonia di un uomo del West che è rimasto troppo a lungo, e al contempo è l’agonia dell’America intera». Peckinpah realizzò i suoi film non con il freddo distacco di un intellettuale commentatore, che osserva gli eventi dall’alto, bensì con l’atteggiamento supplice e sofferente di chi cerchi una via d’uscita da un pozzo. I suoi non sono i film ben strutturati e politicamente corretti di Stanley Kramer, Richard Brooks, Alan Parker o Kevin Costner, con i loro personaggi preconfezionati e le loro trame e conclusioni perfettamente concepite per lasciare il pubblico con la compiaciuta certezza che il «problema» sociale o psicologico esaminato sia stato risolto o almeno spiegato. I film di Peckinpah sono pieni di contorni irregolari, bruschi cambi di tono e imbarazzanti momenti di autorivelazione in cui il regista offre in tutta la loro nudità alcune delle sue più nevrotiche e devianti ossessioni. Il fiume dell’invenzione da lui navigato è innegabilmente ristretto. Non affannatevi a cercare protagoniste femminili nei suoi film; non ce ne sono. Sebbene non siano tutte puttane che non disprezzerebbero un buono stupro (e alcune hanno molto più spessore di quanto i suoi detrattori abbiano mai riconosciuto), le sue donne rivestono perlopiù ruoli secondari. Il punto di vista di Peckinpah è decisamente maschile. Le donne forniscono ai suoi uomini conflitto e motivazione, fungono da oggetti da amare o odiare (o più frequentemente da odiare e amare) o funzionano da coro greco che critica i limiti
autodistruttivi del cameratismo, dello spirito combattente e del codice d’onore maschili. Non affannatevi a cercare nei suoi film il ritratto di un matrimonio sano ed equamente coltivato; è stato molto più convincente nel drammatizzare il fallimento dell’amore che nel descriverne il trionfo. Non affannatevi a cercare nemmeno ritratti di famiglie unite e felici; la maggior parte dei suoi vagabondi e disadattati ha perso ogni speranza in tal senso già anni prima che li conoscessimo – come del resto lo stesso Peckinpah, al tempo in cui raggiunse lo zenit della sua arte. Ma sebbene il suo fiume fosse ristretto, scorreva profondo. Dritto al cuore. «Ciò che fa di Peckinpah un regista importante è la sua volontà di mettersi alla prova», scriveva Stephen Farber nella sua recensione di Cane di paglia per la rivista Cinema. «È fedele all’ideale tradizionale della mascolinità – il mito dell’uomo del West – eppure non si ritrae dal mettere fortemente in discussione il fascino mascolino. Il dubbio su se stessi rende Cane di paglia molto più doloroso, pertinente e coinvolgente di quanto potrebbe mai esserlo una riflessione distaccata e liberal sul tema dello sciovinismo maschile. Peckinpah è un uomo che distrugge con la propria arte le sue stesse difese, e forse i suoi film finiscono per generare più emozione di quanta sembrino capaci di contenerne. In Cane di paglia le ossessioni personali di Peckinpah si intersecano con un argomento di grande interesse contemporaneo – la disintegrazione dei concetti tradizionali di ruolo e identità sessuale. Ed è per questo che, pur con tutte le sue imperfezioni e i suoi difetti, Cane di paglia è un’opera importantissima e un film determinante per gli anni Settanta». Paul Schrader sostiene che la lezione più preziosa che abbia appreso dalle opere di Peckinpah è stata «scavare nelle tue nevrosi, scavare nelle cose di te che più temi, senza insabbiarle, ma portandole alla luce». «Vi sto mostrando i miei problemi; ovviamente, sono io quello sullo schermo», ammise Peckinpah di fronte a un intervistatore una sera tardi, quando l’alcol e la stanchezza gli fecero abbassare le difese al punto di concedersi un raro
momento di franchezza. «In un film esponi te stesso, chiunque tu sia. La cosa bella è che i miei problemi personali sembrano interessare anche altre persone… Cane di paglia parla di un tipo che scopre un paio di sporchi segreti su se stesso, sul suo matrimonio, su dove si trova, sul mondo che lo circonda… Parla della violenza che è in ognuno di noi. La violenza che oggi si sta riflettendo sulla condizione politica del mondo. Ha una funzione catartica. Qualcuno potrà provare una bizzarra, malata esaltazione alla vista della violenza, ma allora dovrebbe chiedersi: “Cosa sta succedendo nel mio cuore?”» Non si trovano che poche risposte nell’opera di Peckinpah, poche soluzioni: questo perché egli non ne trovò nessuna per sé durante la sua vita. Di fatto, la sua vita privata, come vedremo, fu spesso l’esatta antitesi di un modello di adattamento. I suoi film non offrono grandi conclusioni sul conto dell’uomo che, desideroso del paradiso, corre a tutta velocità verso l’inferno, né soluzioni per un’umanità sprofondata nella colpa, né cartine stradali che ci indichino come essere riammessi nelle nostre stesse case, liberi dal peccato. Dovremo trovare da soli il cammino per arrivarci. Ciò che i film di Peckinpah offrono è una possibilità di inserirsi nella lotta. I suoi film trascinano gli spettatori all’interno di intensi psicodrammi, dando loro la possibilità di lottare con lui e forse fare qualche scoperta. «Ho sempre pensato che facesse film su ciò che non riusciva a spiegare», dice lo sceneggiatore Gill Dennis, che sposò la figlia di Peckinpah, Kristen. «Stava facendo film su cose di cui le persone si rifiutavano di ammettere l’esistenza. Era come se dicesse: “Hai visto questo? Che ne pensi? Come si inserisce nella tua idea del mondo?”» Ken Kesey, autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo e Sometimes a Great Notion, consiglia ai giovani scrittori di non scrivere di ciò che conoscono, ma di ciò che non conoscono. «Non cercate la risposta. La risposta è sempre noiosa. Cercate il mistero».
Appollaiato sulla gru della cinepresa, in jeans sporchi e stivali malridotti, con una bandana sudaticcia legata alla coriacea testa, come un Achab semifolle, non c’era nulla che Peckinpah amasse più di guidare una compagnia di attori e tecnici nel cuore di un Messico primitivo, alla ricerca febbrile di quello stesso film che stava già girando, per catturare su pellicola un labile barlume della sua personale verità. Quando Gill Dennis chiese al regista quale epitaffio avrebbe voluto sulla sua lapide, Peckinpah rispose: «Qualcosa sul fatto che non ho mai smesso di scrutare… di cercare».
1
«OH, UN ALTRO PECKINPAH NERO!»
Nel suo ultimo periodo, Sam Peckinpah amava dare ai suoi intervistatori l’impressione che la sua infanzia fosse stata proprio come una pagina tratta da un western di Louis L’Amour. Discettava sulla durezza del crescere in un ranch di bovari nella California centrale degli anni Trenta. Raccontava storie nelle quali radunava mandrie, legava e marchiava manzi, domava cavalli imbizzarriti, cacciava cervi e controllava le trappole nell’Alta Sierra, attraversava corsi d’acqua con nomi come Coarsegold, «oro grezzo», dove vecchi prospettori brizzolati passavano ancora al setaccio la sfuggente polvere gialla; o raccontava dei saloon in selvagge e fumose città di frontiera come North Fork, dove gli uomini tracannavano bicchierini di torcibudella e risolvevano ancora le loro incomprensioni estraendo rivoltelle da sei colpi. Descriveva un’infanzia rozza, turbolenta, eppure fantasticamente eccitante. Ma solo parzialmente vera. Sam Peckinpah era figlio di uno dei più illustri avvocati di Fresno, in California. Crebbe in un ranch dallo stile suburbano, con ventiquattro curatissimi acri di proprietà come cortile di giochi. Durante la Grande Depressione, mentre migliaia di sfollati si accampavano sotto gli alberi sul ciglio della strada, al giovane Sam non mancava alcun bene materiale. Aveva una stanza da letto tutta per sé, piena zeppa di tutti i giocattoli che il suo cuore potesse desiderare. Frequentò una scuola esclusiva e quando alle superiori si iscrisse a una scuola pubblica fu subito riconosciuto come «il
ragazzo ricco», con la sua Ford Model A e i vestiti nuovi alla moda, mentre i suoi coetanei dovevano arrangiarsi con cose di seconda mano. Tuttavia, i grandi racconti che intesseva per i giornalisti non erano neppure totali montature. Il raffinato stile di vita borghese in cui era cresciuto non era che uno sviluppo recente, per i Peckinpah. Solo una generazione prima, il nonno di Sam, Charlie Peckinpah, aveva attraversato le Grandi Pianure con i suoi genitori in un carro coperto. I Peckinpah guadarono fiumi, si trascinarono attraverso deserti e paludi, si arrampicarono su pericolosi passi di montagna e resistettero agli scontri con gli indiani e i banditi. Negli anni Settanta dell’Ottocento Charlie rivendicò la proprietà di una montagna alta 1800 metri nell’Alta Sierra, a sud dello Yosemite, in California. Insieme ai suoi fratelli fondò la Peckinpah Lumber Company in un pascolo sulla sommità e nel 1885 aveva già trainato giù dalla montagna quasi diecimila metri quadri di legname. I parenti materni di Sam, i Church, erano anch’essi pionieri instancabili. Moses J. Church, prozio di Sam, scavò il primo grande canale di irrigazione della California centrale. Il Fancher Channel portava acqua dal Kings River, sulle colline della Sierra, fino alle pianure venticinque chilometri più a sud, trasformando un deserto in un fruttuoso terreno di coltura. Quando i coloni conversero a Fresno, i baroni del bestiame che volevano preservare gli spazi aperti contrattaccarono con i loro sicari. Tentarono di sparare a Moses Church tre volte, ma Moses riuscì sempre a sfuggire ai suoi assalitori. I tentati omicidi non disturbarono particolarmente Moses; sapeva che erano solo le ultime convulsioni di dinosauri agonizzanti. I baroni del bestiame erano spacciati esattamente quanto lo erano stati gli indiani Mono che avevano occupato quella terra prima di loro. Moses aveva scoperto un’arma infinitamente più potente della rivoltella o del Winchester: l’acqua. La portò dove non ce n’era. Al sopraggiungere degli anni Ottanta dell’Ottocento, più di mille miglia di canali avevano trasformato la valle in campi di grano, in vigneti, in
piantagioni di fichi, di peschi e di noci. Moses diede i natali al più grande sistema di irrigazione del mondo. Sam Peckinpah crebbe ascoltando tutti quei racconti fuori dall’ordinario sui suoi antenati, e costruendo nella sua immaginazione una visione grandiosa e idealizzata del Selvaggio West, una dimensione mitica di cui desiderava far parte ma che il tempo aveva sottratto per sempre alla sua portata. Suo nonno materno, Denver Church, visse il momento della caduta della frontiera al volgere del secolo, ma cambiò proprio come cambiavano i tempi, e si arricchì. In gioventù, era stato un cacciatore e un trapper, un mandriano e un prospettore part-time, ma nel 1895 si iscrisse a Giurisprudenza e si unì ai promettenti ranghi dei nuovi professionisti. Divenne un procuratore distrettuale, un giudice della Corte Suprema e infine un membro del Congresso degli Stati Uniti, per il distretto che comprendeva la contea di Fresno. Eppure Denver ricordava con nostalgia e rimpianto il tempo della sua giovinezza, quando un uomo poteva osservare dalla cima di una montagna la grande, continua espansione di un continente ancora non incatenato da recinzioni e cavi del telegrafo. Così acquistò un ranch sui monti della Sierra Nevada, appena oltre l’ombra della Peckinpah Mountain. Più di 1500 ettari di ondeggianti praterie – lo chiamavano tutti il vecchio Dunlap Ranch e quel nome sarebbe rimasto. Divenne il rifugio di Denver, la sua via di fuga dal ventesimo secolo, un’impolverata capsula del tempo dove il passato sembrava quasi vivere e respirare di nuovo. Ogni volta, tra un periodo e l’altro a Washington, restava lì per settimane e mesi a cacciare, piazzare trappole e occuparsi di un paio di centinaia di bovini. Anche Sam Peckinpah visse lì, quasi ogni estate della sua infanzia e molti weekend. Suo nonno, suo padre e il suo fratello maggiore gli insegnarono a cacciare, a cavalcare e a radunare le mandrie. Ebbe l’opportunità di ricreare le sue fantasie, di avere un assaggio di quel mondo perduto di cui i grandi parlavano tanto. E fu così che scoprì la crudele realtà nascosta dietro il mito romantico. I suoi antenati erano stati
uomini brutali. Dovevano esserlo per forza, se volevano costruirsi un posto in quella terra selvaggia. Se uno dei suoi ragazzi faceva qualcosa che Charlie Peckinpah disapprovava, lui non ci pensava un attimo a sbatterlo per terra con il dorso della mano. Se un cane ficcava il naso umido sulla faccia di Denver Church mentre era occupato, Denver gli dava una bella lezione, spegnendogli una sigaretta sul muso. «Così impara». La differenza tra il mito romantico e la realtà del Selvaggio West provocò reazioni complesse nel giovane Sam Peckinpah. I suoi sentimenti profondamente contrastanti verso entrambi sono ciò che dà ai suoi western un’incredibile carica emotiva. La madre di Sam, Fern, nacque da Denver e Louise Church nel 1893. Divenne una ragazza formosa, col viso rotondo della madre e spessi capelli lunghi di colore ramato. La figlia del membro del Congresso aveva molti bramosi pretendenti e la sua adolescenza fu un turbine di cene, balli e picnic. Riempì le pagine del suo diario con lunghe descrizioni degli abiti che indossava a questi eventi e giudizi sui suoi vari pretendenti. Ma dietro l’allegra facciata fu, fin dal principio, una ragazza problematica. Sua madre era quasi morta dandola alla luce e, mentre Louise era in convalescenza, Denver allattava la figlia neonata con il biberon, le cambiava i pannolini e la cullava tra le sue braccia per farla dormire. Per tutti gli anni a venire, Denver stravide e si fece in quattro per la sua preziosa «Figlioletta». La sua cieca devozione guastò la ragazza. Sviluppò un bisogno disperato di essere sempre al centro dell’attenzione, un’ossessione che l’avrebbe imprigionata per il resto della sua vita. L’immagine della fragilità di Fern che Denver aveva coltivato divenne una realtà; i diari dei suoi genitori e le prime lettere contengono continui riferimenti ai mal di testa e ai mancamenti di Fern. A diciannove anni Fern si innamorò follemente di un farmacista di Long Beach, Bob Nichols. Denver sviluppò un’immediata avversione nei confronti dell’imbroglione spacciapillole di città. Agli occhi di Denver chiunque non
cavalcasse, non cacciasse e non lo facesse con gusto era un debole, e non c’era nulla che Denver odiasse in un uomo più della debolezza. Trattava il suo stesso figlio, Earl, con freddezza e a volte con aperta ostilità perché lo credeva troppo timido. In una lunga lettera a sua figlia, Denver tentò di dissuaderla dallo sposare Nichols, ma promise di lasciare a Fern la decisione finale. «Sono sempre stato contrario ai genitori che cercano di scegliere i compagni per i loro figli – sono dell’opinione che meno si inseriscono in queste faccende, meglio è». Ma mentiva. Secondo i figli ancora viventi di Fern, suo padre agì alle sue spalle o pagando il giovane pretendente o minacciandolo, o più probabilmente entrambe le cose. Qualunque sia stato il metodo, Bob Nichols, l’amore della vita di Fern, un giorno sparì improvvisamente per non tornare mai più. Quando lo shock iniziale finì, Fern cercò di fare buon viso sostenendo che tutto era andato per il meglio, che forse lei e Bob non erano davvero fatti l’uno per l’altra. Ma quarantacinque anni dopo confessò i suoi veri sentimenti nel suo diario: «Amavo mio padre con tutto il cuore. Condividevamo una meravigliosa vicinanza e intesa. Poi fece il doppio gioco con Bob e non l’ho mai dimenticato. Non ho mai dimenticato il dolore per aver scoperto che mio padre aveva agito alle mie spalle, e per la perdita del mio amato. Gli avevo scritto e detto che lo avevo perdonato, ma il dolore ho continuato a portarmelo dentro… Papà aveva fatto lasciare me e Bob – mi dominava completamente, per cui non ho mai sentito di poter vincere in una discussione o in uno scontro. Ogni volta che discuto, sento che mi si spezza il cuore e sono presa dalle lacrime e da una confusione adolescenziale». Due anni dopo sposò David Peckinpah, che al tempo guidava una diligenza tra i paesini di North Fork e South Fork, a metà strada tra la Peckinpah Mountain e il Dunlap Ranch. Il secondo dei tre figli di Charlie Peckinpah, David era più calmo e introspettivo dei suoi due fratelli, ma affettuoso e di grande sostegno per la famiglia e gli amici. Col suo metro e ottanta, il
suo gran sorriso, i lineamenti da irlandese bruno e un senso dell’etica vittoriano, David ricordava a molti il giovane Abraham Lincoln, il suo grande eroe. A Denver Church piacque subito il suo nuovo genero. «Fisicamente quel ragazzo rappresenta alla perfezione la virilità giovanile», scrisse in una lettera a sua moglie. Non ci volle molto perché Denver Church convincesse il suo nuovo genero a seguire le sue orme intraprendendo una carriera in giurisprudenza. Il sogno americano era cambiato con l’avvento del nuovo secolo. La frontiera da conquistare non era più all’esterno, ma all’interno. Se un uomo riusciva a dar fuoco alla miccia della propria ambizione e seguire i suoi obiettivi con irremovibile determinazione, non c’erano limiti a quanto egli potesse realizzare, nulla che potesse impedirgli di raggiungere la cima di quei grattacieli che ora si innalzavano verso il paradiso nelle città di tutto il paese. Nulla poteva impedire al figlio di un taglialegna, se si fosse applicato diligentemente, di ottenere un posto nel Congresso degli Stati Uniti o persino, un giorno, alla Casa Bianca. Quando Denver partì per Washington D.C. nel novembre del 1916 per cominciare il suo terzo mandato al Congresso, David, Fern e il loro neonato Denny lo seguirono. David frequentò giurisprudenza alla National University e si mantenne lavorando come usciere alla Camera dei rappresentanti. Il 29 gennaio 1917 Denver Church annunciò che si sarebbe ritirato alla fine del suo terzo mandato. David si laureò in giurisprudenza nel 1919, superò l’esame da avvocato non molto tempo dopo ed entrò a far parte dello studio legale di Denver a Fresno. Ma Denver non durò molto nell’esercizio privato; che gli piacesse o meno, aveva la politica nel sangue e presto si candidò nuovamente come viceprocuratore distrettuale. David fece squadra con un altro avvocato, Raymond Carter. A metà degli anni Venti aveva un promettente studio legale, che trattava cause civili e penali.
Ma oramai aveva avuto modo di scoprire che dietro l’ostentata, vivace apparenza della moglie scorrevano acque torbide e agitate. Era intensamente gelosa di ogni possibile minaccia alla sua posizione sotto i riflettori, e la più grande minaccia era la madre di David, Isabelle, che Fern credeva stesse segretamente architettando la distruzione del loro matrimonio. «Siamo andati a trovare i Peckinpah ieri sera», scriveva Fern nel suo diario. «La signora P. è uscita per salutarci. Ha baciato P. D., poi me, e alla fine e a lungo Dave. Lei e Dave si comportano sempre come se fossero su un palcoscenico e dovessero lasciare un segno memorabile della loro presenza. Ebbene, di certo lo lasciano su di me, ogni volta che li vedo. Se lui fosse ancora un ragazzo, o se lei fosse una povera donna anziana, questo comportamento non sembrerebbe così stravagante. Ma lei è così grande e ha un aspetto così sano che sembra cerchi soltanto di ammaccare il gracile Dave. Lo abbraccia così forte, e mi rivolge uno sguardo che sembra sempre dire “Signorina Church, vedete? Lui è tutto mio, e il vostro posto è sicuramente di secondo piano” ecc…» Ben presto smisero di andare a trovare sia i genitori di David che i suoi fratelli. Quando i fratelli venivano a fargli visita, Fern si massaggiava la testa, sosteneva di non sentirsi bene e scompariva nella sua camera da letto. Per evitare conflitti, David cominciò a vedere sua madre di nascosto, come se fosse un’amante – o a pranzo, o uscendo prima dallo studio in modo che Fern non lo venisse a sapere. I suoi fratelli presero l’abitudine di chiamarlo in ufficio anziché a casa e di andare a trovarlo solo lì. La madre di David non veniva quasi menzionata, in casa. Lo scheletro era ben chiuso nell’armadio, insieme al tradimento di Denver nei confronti di Fern, e tutti fecero buon viso, andando avanti come se nulla fosse. C’erano altre angosciose tensioni, ad esempio la riluttanza di Fern a fare da madre a tempo pieno al loro piccolo Denny. È fuor di dubbio che volesse bene al suo bambino. Le lettere e le pagine del suo diario in quei primi anni fervono di dettagliate descrizioni del piccolo tesoro di
Fern. Ma durante i momenti meno teneri del bambino, quando piangeva o faceva i capricci, Fern lo abbandonava a David o a sua madre, e si ritirava nella sua stanza dicendo di non sentirsi bene. «Mia madre adorava i bambini», ricorda Fern Lea Peckinpah, la sua figlia adottiva. «Ma li trattava come fossero bambole. Quando si lamentavano, non riusciva a sopportarlo». Il compito di crescere il bambino rimase affidato quasi completamente a Louise e Denver. Denny restava al ranch dei nonni per lunghi periodi. Una volta fu lasciato addirittura a casa di uno dei braccianti del ranch, Carl Bushman, per un paio di mesi. «Bushman aveva sposato un’indiana Mono», ricorda Denny stesso. «Quando vennero a riprendermi sapevo parlare Mono». A Louise Church non passò inosservata la difficoltà della figlia nell’adattarsi alla vita coniugale. Nonostante Louise fosse cresciuta nella Chiesa episcopale, si convertì al cristianesimo scientista negli anni Venti e convinse anche David e Fern a unirsi a quella fede. Louise e David speravano che il cristianesimo scientista potesse aiutare Fern a guarire da molte delle sue «malattie». Fern rispondeva con grande zelo; le pagine del suo diario sono piene di elaborate lodi al Signore e ai suoi insegnamenti. Ma la nuova fede non fece che cristallizzare Fern, come una mosca nell’ambra, nel ruolo della ragazzina indifesa che dipende per la salvezza dal suo Padre Onnipotente in Cielo. Nel profondo della sua gioiosa apparenza, ribolliva la rabbia. Passarono più di otto anni tra la nascita di Denny e la seconda gravidanza di Fern. Nel 1924 il suo desiderio di avere una bambina prevalse sul terrore della maternità. Le nausee mattutine irruppero nella primavera di quell’anno e Fern rimase a letto per quasi tutti i nove mesi, troppo debilitata dalla nausea e dal mal di schiena per potersi alzare. Sdraiata tra le umide lenzuola, si teneva su di morale sognando quella bambina che avrebbe potuto presto tenere tra le braccia, pregando il suo Padre Celeste di portarle quel dono, una figlia che avrebbe amato come suo padre aveva amato lei.
Il difficile travaglio di Fern cominciò il 21 febbraio 1925. Era esausta, in affanno, quasi incurante di ciò che la circondava quando l’infermiera aprì la porta ed entrò con il piccolo fagotto. Quando vide la chiara pelle olivastra e i capelli castani, il marchio dell’irlandese bruno presente ovunque sulla nuova creatura, esclamò: «Oh, un altro Peckinpah nero!» Ma quando l’infermiera la costrinse a prendere il bimbo tra le braccia, Fern vide che aveva qualcosa di unico, di veramente unico. Gli occhi. Grandi e lucenti come i fari di una Hudson. Sembravano fissarla con una strana consapevolezza, femminea ma forte. Scatenarono in lei uno sfogo d’amore che non aveva mai provato prima. Una foto di Fern con il suo secondogenito, David Samuel Peckinpah, scattata un anno dopo, la ritrae con un grande cappello bianco dalla tesa floscia e una camicetta di pizzo, il viso più pieno, i capelli più lunghi. Un viso tondo quasi come il suo, con grandi occhi luminescenti e crespi capelli castani, sorride dalla culla delle sue braccia. Sul retro c’è una scritta con la grafia di Fern: Il nostro piccolo compie un anno oggi! Oh mio Dio, quanto è stato meraviglioso avere il nostro piccolo con noi un anno intero. Sembra sia trascorso pochissimo tempo da quando me lo portarono, tutto avvolto in una coperta rosa, con quella boccuccia che sembrava un bocciolo. Se avessi saputo quanta felicità mi avrebbe donato questo piccoletto, non avrei versato nemmeno una lacrima per la femminuccia che volevo così disperatamente. Nel 1931 Fern adottò la bambina per cui aveva tanto pregato – non avrebbe sopportato lo stress di un’altra gravidanza – e chiamò la biondina dagli occhi blu Fern Lea. Ma il suo adorato «D. Sammy», come le piaceva chiamarlo, rimase il suo preferito. Il legame tra loro era profondo. Fino ai quattro anni fecero sempre il bagno insieme. Quando Fern interruppe quest’abitudine, il bambino si ribellò rubando alcuni gioielli dalla sua camera e seppellendoli nel giardino. Ci vollero diverse settimane per trovarli.
«Ha gli occhi più belli del mondo», scrisse Fern nel suo diario nel 1932, quando D. Sammy aveva sette anni. «Non sono mai dello stesso colore – a volte un profondo blu-verde o verde-blu, a volte quasi marrone chiaro… È l’amore personificato che trabocca, la comprensione e la compassione personificate. Le lacrime scorrono da quei grandi occhi per le traversie di chiunque… Spesso non mi sento degna di essere la sua mamma. Voglio davvero fare sempre la cosa giusta per lui. Lo amo più della vita stessa. Dio mi ha dato un tesoro da amare e proteggere». Quando la famiglia faceva dei viaggi in auto, Fern insisteva che D. Sammy si sedesse tra lei e David, mentre a Fern Lea toccava il sedile posteriore. Con il passare del tempo divenne chiaro che il bambino stava riempiendo il vuoto, sia fisico che emotivo, tra Fern e suo marito, il quale passava sempre più tempo lontano da casa lavorando fino a tardi in ufficio e presenziando agli incontri delle varie organizzazioni civiche delle quali ormai faceva parte. Il 21 febbraio 1939 Fern scriveva nel suo diario: Oggi è il compleanno del mio bambino – ho avuto il mio tesoro per quattordici brevi anni. In qualche modo, ora che Denny Boy è sposato ed è andato a studiare lontano da qui, odio pensare che D. Sam stia crescendo, ben più di quanto mi capitasse con Denny. Ma non è affatto facile quando sono lontani da casa – per questo voglio che il mio piccolo resti piccolo per tanto, tanto tempo ancora. Dormiremo insieme stanotte. La sera del suo compleanno lo facciamo sempre. Sono stata in città fino al pomeriggio e mi sono dannata per trovare due (bellissime) torte al limone e il pollo cotto nel modo giusto, come lo vuole lui. Non ha voluto [altri] bambini – solo la famiglia. Il tesorino vuole sempre solo la famiglia.
Nei primi anni D. Sammy sbocciò grazie alle sue attenzioni. Sua madre gli trasmise il suo profondo, sensuale interesse per la natura e per tutte le cose legate alla terra, e il suo forte intuito visivo. La madre di Fern le aveva insegnato ad amare il giardinaggio, ma i suoi giardini avevano di gran lunga sorpassato le file di rose e viole che Louise piantava intorno al ranch a Dunlap. «[Fern] poteva toccare un rametto di legno e il giorno seguente lo avresti trovato in fiore», ricordava Sam nel 1972. «Di fronte alle case di tutta Fresno ci
sono alberi che ha piantato lei, e che ora sono alti quasi cinquanta metri». Osservandola e lavorando con lei nei suoi giardini, il giovane Sam sviluppò il suo stesso occhio per i colori e la composizione. «La madre, per sua fortuna e sfortuna, fu la figura più potente della sua vita», dice Fern Lea. «Prese da lei la sua creatività, anche se sono certa che lo avrebbe negato. Sul piano emotivo, Sam era sostanzialmente una donna. Penso che gli uomini, in linea generale, siano sistematici nel loro modo di ragionare e di raggiungere un certo obiettivo. Sam invece arrivava alle risposte in maniera emotiva – basandosi sulla sua capacità di sentire e visualizzare. Credo che questo lo imbarazzasse perché nella nostra famiglia “per Dio, gli uomini sono uomini!” Non penso si sia mai preoccupato di poter essere omosessuale, non era questo il punto, ma non voleva mostrare quel lato di sé». Nel 1937 David Peckinpah si era ormai fatto una certa reputazione come uno dei due o tre migliori avvocati di Fresno. Nel bel mezzo della Grande Depressione – quando gli sfollati del Dust Bowl affluirono in massa verso la California in cerca di lavori stagionali nelle fattorie, accampandosi sotto le querce, sul ciglio delle strade e in campi deserti per tutto lo stato; mentre le vetrine nel centro di Fresno venivano sprangate e quelli che ancora riuscivano a tirare avanti si chiedevano se ce l’avrebbero fatta a sopravvivere a un altro anno di tempi duri – David costruì la casa di famiglia su un terreno a nordest di Fresno. C’erano mandorli, albicocchi, aranci, pascoli per una mezza dozzina di cavalli e un grande fienile. Qui Fern Peckinpah creò il suo giardino più elaborato. Un ruscello artificiale, alimentato da una pompa d’acqua, scorreva tra rose, iris, lillà, viole e petunie. C’erano cascate in miniatura, minuscoli ponti e castelli. In questo paese delle favole, questo Eden prima della mela, gli scintillanti petali rossi, gialli e blu tenevano a bada le oscure correnti sotterranee e le allarmanti ambiguità della vita di Fern.
Da bambino, D. Sammy trascorse anche molto tempo in un mondo di sua creazione. La cameretta era il suo rifugio. Sul soffitto c’erano crateri provocati dal piombo, risultato di uno dei suoi esperimenti con il set del piccolo chimico. (Una formula più riuscita – principalmente aceto e soda in parti uguali – schiumò in maniera sinistra e si rivelò un efficace insetticida; lo aveva scoperto testando ripetutamente il prodotto su popolazioni locali di formiche.) Le mensole a muro ospitavano la sua preziosa collezione di «Piccoli Grandi Libri», più di trenta volumi sostenuti da reggilibri che riproducevano Pippo della Walt Disney. Moby Dick, i tre moschettieri, Ercole, Aladino e la sua lampada magica, Paul Bunyan, Pecos Bill, Icaro, Giasone e il vello d’oro, re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda – classici raccontati in una prosa semplificata per ragazzi. Li leggeva attentamente per ore, gustandosi quei mondi magici, gli eroi valorosi e le loro fantastiche avventure. Quando si stancava di leggere, ricreava le storie con soldatini di legno o immaginava se stesso nei panni di Ercole, D’Artagnan, Tarzan o Wyatt Earp, sfidando orde di malefici assalitori tutti in una volta. «Quando avevo sei o sette anni, imparai a memoria la poesia di Tennyson “La carica della brigata leggera”», ricordava Sam Peckinpah nel 1970. «Da quel momento in poi cominciai a inscenarla. A undici anni avevo ormai messo in scena la famosa battaglia ogni settimana, con un totale di cinquanta bambini. Di solito caricavamo gli uni contro gli altri con pistole a molla e spade. Prendevamo d’assalto le cime di Balaclava, senza sosta. Probabilmente non ho mai smesso». Ogni anno subito dopo il Natale Sam e i suoi amici recuperavano tutti gli alberi abbandonati del vicinato, li sistemavano per creare elaborate fortezze nel cortile e combattevano in disperate battaglie con le pistole a molla. «Sparavano pezzi di camere d’aria delle gomme; facevano veramente male se ti colpivano!», ricorda Fern Lea. L’azione era sempre coreografata da Sam. «Seguitemi, uomini, verso la vittoria!»
La maggior parte delle volte era Fern Lea – la chiamava Spuddy, «patatina», perché amava le patate – a condividere il mondo di finzione dei primi anni. A volte la ingannava, come quando riempirono d’acqua dei palloncini nell’ufficio del padre e li lasciarono cadere sul pianerottolo del retro. Sam era affascinato dalla grazia letargica con cui cadevano, come se il tempo e la gravità si muovessero a rilento, per poi accelerare di nuovo quando esplodevano contro l’asfalto. «Spuddy, ho un’idea: perché non vai giù e vedi se riesci ad acchiapparne uno al volo?» Ritrovandosi un minuto dopo fradicia, nel vialetto, con frammenti di gomma rossa che le penzolavano dalle dita ancora tese, e guardandolo lassù che si piegava in due dal ridere, Fern Lea si rese conto che dei suoi grandi occhi nocciola e della sua voce sonora non ci si poteva fidare. Ma sapeva anche essere meraviglioso. Quando Fern Lea era a letto con il mal di pancia, Sam restava in camera con lei a intrattenerla con imitazioni, facce buffe e voci distorte. «Cominciavo a ridere e il dolore si riduceva di un bel po’», ricorda Fern Lea. «Aveva un lato molto dolce, molto tenero». La sera si riunivano entrambi vicino alla radio. I genitori di solito se ne stavano nell’altra stanza, dove David leggeva una storia dal Saturday Evening Post ad alta voce a Fern. Sam si sintonizzava sul suo programma preferito: Lights Out! di Arch Oboler. «Luci spente! Luci spente!», ridacchiava a voce alta, estatica, scorrazzando per la stanza e spegnendo tutte le luci finché non restavano loro due soli, nel buio, a fissare il pallido bagliore del quadrante della radio, rapiti da «Il cuore di pollo che mangiò New York» o «La nuvola alla rovescia» che succhiava le budella delle vittime indifese. «Cosa c’è lì per terra, dottore?» «È un uomo… un uomo, ebbene sì… ed è stato girato alla rovescia!!! La pelle dentro e gli organi fuori!» «AAAAAAHHHH!!!», urlava improvvisamente Sam nell’orecchio di Fern Lea, facendola sobbalzare.
Ogni Natale David o Denny prendevano il pick-up per andare sulle montagne, tagliare un pino dai pendii innevati della Sierra e portarlo a casa. Una volta eretto sotto il ben illuminato soffitto, toccava a Sam e Fern Lea il compito di decorarlo. Sam dirigeva le operazioni in modo imperioso. Ogni lampadina, ogni pallina, ogni ninnolo, ogni decorazione doveva essere sistemata in un preciso punto, selezionato dal suo occhio attento. «Per l’amor del cielo, Spuddy, non così», la rimproverava quando cercava di lanciare una manciata di fili d’angelo. Dovevano essere applicati un filo per volta, insisteva, per ottenere un effetto ben bilanciato. Dissotterravano dalla sua cassettiera le lunghissime calze da caccia di David e le appendevano sul camino per assicurarsi un buon bottino, alzandosi poi al primo sorgere del sole la mattina di Natale per svuotarne lo strabordante contenuto sui loro letti: anacardi, bastoncini di zucchero e giocattoli con carica a molla rotolavano sulle coperte, sempre accompagnati da una cipolla o uno spicchio d’aglio – un promemoria del padre sul fatto che la loro condotta lasciasse sempre spazio al miglioramento. Quando i genitori si svegliavano, facevano tutti colazione: bacon, uova e, se a Fern andava di prepararli, dolce pane di farina integrale o spesse girelle alla cannella. Era il periodo più bello dell’anno per tutti loro. Riuscivano quasi sempre a mettere da parte le crescenti tensioni che li affliggevano per il resto dell’anno. Crescendo, però, Sam si sarebbe reso conto ben presto dei problemi tra i suoi genitori. «Si amavano», afferma Fern Lea. «Mio padre si prendeva cura di mia madre. Non credo mia madre abbia mai pagato una bolletta. Era molto buono con lei, ma a ripensarci oggi sentivo che non era una relazione alla pari. Si prendeva cura di lei e anche io mi prendevo cura di lei. Mia madre non guidava e quando lo faceva si innervosiva subito e mi diceva che il motivo per cui non guidava più era che io la rendevo nervosa… Non era cresciuta emotivamente, nessuno l’aveva aiutata in questo, certamente non mio padre… e credo che la stessa cosa sia successa a Sam: nemmeno lui è mai cresciuto».
Verso la metà degli anni Trenta, David era molto richiesto all’Exchange Club, alle Alci e alle altre organizzazioni civiche di cui faceva parte. «Era meraviglioso vedere come le persone si relazionavano con lui», afferma Susan Peckinpah, che fu adottata da David e Fern nel 1943. «Era davvero un uomo molto dinamico, carismatico. Aveva un complesso di valori molto chiari, concisi, ma che venivano fuori in una maniera talmente genuina da non offendere nessuno». Fern considerava una tortura fare da secondo pilota durante queste funzioni. Alla fine si rifiutava di andare, ma si risentiva con David perché decideva di andare senza di lei. «Oh, povera me, non è più solo mio», scriveva nel suo diario. «Conto ogni secondo in cui siamo insieme, ma questi momenti non sono il suo Rosario… Sto a casa, lo aspetto e divento triste e arrabbiata. Ieri sera è rimasto in città per mettersi in pari col lavoro, ma quando l’ho chiamato alle 19 e alle 19.30 non era lì. Alle 20 mi ha chiamato e ha detto che stava partendo proprio allora, per rientrare a casa». «Mia madre trasformava cose innocue in qualcosa di moralmente riprovevole», afferma Fern Lea. «Il più delle volte era un effetto del suo bisogno di attenzione. Sam si rivelò uguale, da adulto». Per ottenere ciò che voleva, Fern usava quello che aveva sempre sfruttato: le sue malattie. C’erano i mal di schiena, le mani e i piedi che pulsavano, gli attacchi di cuore di cui i dottori non trovavano prove mediche. E i mal di testa, sempre i mal di testa, che la paralizzavano con un dolore che sembrava spaccarle il cranio. Ma anziché ritirarsi nella sua stanza, Fern spesso insisteva a sdraiarsi sul divano nel salotto con una pezza bagnata sulla fronte e le tende chiuse, obbligando tutti in casa a starsene seduti immobili e in silenzio per non disturbarla. Se Sam o Fern Lea facevano il minimo sussurro a portata di udito, la sua pallida faccia si allungava prontamente all’insù. «Che cos’è che hai detto?», domandava con tono di voce pungente. «Era terribile, terribile!», dice Fern Lea. Quando l’incantesimo della malattia si abbatteva su di lei, David reagiva diligentemente, massaggiando le mani o le
tempie della moglie, leggendole storie dal Saturday Evening Post per non farla pensare al dolore. «Mia madre voleva che si facesse a modo suo, e la maggior parte delle volte era così», dice Fern Lea. «Quando non lo era, si faceva venire i mal di testa». «Era una persona molto, molto potente», dice Susan Peckinpah, «ma lei non si percepiva come tale. Per lei erano gli uomini ad avere il potere, ma a quei tempi alle donne non era permesso di affermare il proprio potere in modo diretto». Sam Peckinpah ereditò dalla madre il talento nel manipolare gli altri. Da adulto divenne geniale in questo, ma da adolescente detestava la severa tirannia della madre. Fern Lea ricorda una circostanza in cui la madre seguì Sam nell’ingresso quando aveva dodici o tredici anni. Lo stava sgridando per una qualche disubbidienza e, com’era sua abitudine, lo stava colpendo alla schiena. Fern Lea colse un barlume dell’espressione di suo fratello mentre le passava accanto e pensò: sarà meglio che si fermi. Se lo colpisce solo un’altra volta… Ma il giovane Sam non sfogò mai la sua rabbia davanti a sua madre, come del resto nessun altro in famiglia, e per una sola, ottima ragione: David Peckinpah lo aveva severamente proibito. E se provocato, l’amabile, piacevole David Peckinpah rivelava un temperamento violento che avrebbe potuto fare concorrenza a quello del padre, Charlie. «Ricordo una volta che si avventò su di me», racconta Denny Peckinpah. La famiglia era partita per un fine settimana sulle montagne, con la sua berlina Nash. David, Fern e Sam – che al tempo aveva quattro o cinque anni – stavano salendo verso la loro baita nella Crane Valley, lasciando Denny al Dunlap Ranch perché trascorresse del tempo con i nonni. «Mi dovevano lasciare al cancello d’ingresso, che è a sei chilometri dalla casa vera e propria, ma a quel tempo ero abbastanza grande da percorrere quella distanza senza problemi. Ero un teenager. Così si fermarono all’ingresso per farmi scendere e io ero seduto dietro. Avevo tredici o quattordici anni, o giù di
lì. Mia madre disse qualcosa sul fare attenzione mentre camminavo e io feci un qualche acuto commento su come fossi abbastanza grande da prendermi cura di me stesso. Il vecchio si allungò e mi prese per una spalla, mi sbatté contro il finestrino posteriore e mi colpì con il dorso della mano mentre scendevo. Mi disse: “Non provare mai più a rivolgerti a tua madre in quel modo!” Credetemi, non lo feci più». Anche Sam, che aveva assistito alle percosse, imparò la lezione – la imparò e le obbedì fino al giorno in cui sua madre morì, oltre cinquant’anni dopo. Se Sam e Fern Lea litigavano, e lo facevano spesso, o non riuscivano a eseguire uno dei suoi ordini, David sibilava: «Andate fuori e fatevi una bacchetta!» E così i due figli dovevano fare una lunga, solitaria, tremante camminata in giro per il ranch, e trovargli la bacchetta con cui li avrebbe picchiati. Se non riuscivano a tornare con un esemplare adatto, sapevano che il padre avrebbe mantenuto la promessa di «andare a prendermela da solo! E credetemi, non vi piacerà quella che sceglierò!» «Sono stata schiaffeggiata un paio di volte», dice Fern Lea. A volte i segni restavano visibili per giorni. «Mio padre aveva un caratteraccio quando era arrabbiato. Quando si lasciava andare era orribile… La sua rabbia, quando esplodeva, era così brutta da dare l’impressione che fosse ubriaco. Insomma, era difficile che perdesse le staffe, ma quando capitava era orribile». Denny stava semplicemente in piedi a incassare i colpi, ma Sam, a quanto pare, aveva una predisposizione al dramma. «Il vecchio lo colpiva, non c’è dubbio su questo – lo schiaffeggiava col dorso della mano – e Sam volava all’indietro e si schiantava contro il muro», ride Denny, «come se ci avesse veramente sbattuto, ma non era così ovviamente, sappiatelo. Mia madre sentiva il trambusto e arrivava alla carica dicendo: “Oh, Dave, lo hai ucciso! Lo hai ucciso!” Sam se ne stava sdraiato per terra, gustandosi la scena».
Imparò a utilizzare quella tecnica teatrale anche come metodo sicuro per reagire a sua madre. Una volta al mese Fern organizzava un tè pomeridiano a casa sua per il Friday Club, la versione femminile delle Alci e dei Massoni. I giovani Sam e Fern Lea erano terrorizzati dall’invasione periodica di tutte quelle donne dal seno prosperoso, i capelli tinti e i ricci fragili, che puzzavano di borotalco, sventolavano i loro fazzoletti di pizzo e starnazzavano come anatre troppo nutrite. Finalmente, quando Sam aveva quattordici anni e Fern Lea otto, la portò nella sua stanza e le rivelò il suo piano di contrattacco. Dopo aver giurato di mantenere il segreto, lo aiutò a procurarsi il guardaroba e gli oggetti di scena necessari. Poi, poco prima che le donne arrivassero, ammassarono tutto nel corridoio che portava al largo portico a veranda. Dovevano lavorare in fretta: un paio dei Levi’s di David e una camicia a quadri riempiti con dei giornali, un cappello a tesa larga e una zucca troppo matura come testa e un lungo, aggressivo coltello da macellaio ficcato a fondo nel petto della camicia. con il contenuto di un’intera bottiglia di ketchup spruzzato liberamente intorno per un repellente effetto finale. «Era molto attento ai dettagli», ricorda Fern Lea. «La sciarpa intorno al colletto, il cappello abbassato al punto giusto, gli stivali piazzati in un certo modo. I dettagli erano importantissimi, per lui». D. Sam fece un passo indietro per giudicare il prodotto finale, annuendo saggiamente: sì, sarebbe servito allo scopo. Al suono dell’arrivo delle prime ospiti, spensero le luci del corridoio e si ritirarono nella camera di Sam, lasciando la porta giusto un po’ socchiusa e aspettando, tra risatine e sudori freddi, l’inevitabile momento in cui la madre avrebbe condotto le nuove ospiti a fare un tour della casa. «Oh, che elegante lastricato, Fern!», disse una delle donne mentre si avvicinavano alla trappola esplosiva. «E questa è la camera di Fern Lea». Il gruppo era davanti alla porta del corridoio, ormai. Sam e Fern Lea si strinsero l’uno all’altra, soffocando il bisogno di ridere.
«Oh, è adorabile, Fern! Semplicemente adorabile!» «E qui è dove D. Sammy…» Il clic del pomello che gira, la porta che si apre cigolando e una luce grigia che si irradia sull’orribile figura ferita. «AHHHH! Oh! Oh, mio Dio!» I due bambini scorrazzarono nel buio della camera di Sam, rotolando senza fiato sul pavimento, e ridendo così forte da farsela quasi addosso. Il giovane Sam moriva dalla voglia di lasciare l’orbita protettiva di sua madre ed entrare nel mondo del padre, del fratello maggiore e del nonno, Denver Church. Il Dunlap Ranch per D. Sam, che divorava romanzetti western con autentica voracità, era una visione paradisiaca. Guardava i suoi vecchi occuparsi del bestiame in stivali di cuoio, sovrapantaloni e Stetson consumati; inalava il fumo di legna, il sudore e la polvere del bosco; guardava i lazo roteare in aria lenti e senza peso, poi guizzare intorno alla testa di un manzo e tendersi e vibrare. Beveva con gli occhi la cruda, grezza sensualità di tutto ciò. La sera vicino al camino nella baita di suo nonno – dove ribolliva sempre un’enorme pentola di fagioli, cipolle, patate e carne di cervo – ascoltava gli uomini raccontare dei vecchi tempi. Di come i Peckinpah e i Church avessero attraversato le pianure e si fossero ritagliati degli imperi nelle nuove terre. Di come la famiglia di Denver cacciasse cervi alla maniera indiana: squadre di urlatori spingevano il cervo verso la fila di fucilieri, che a sua volta passava le carcasse a chi le avrebbe eviscerate e pulite. Un giorno avevano ucciso almeno un centinaio di cervi in quel modo. Sedeva rapito nella crepitante luce arancione e gialla del fuoco mentre i braccianti di Denver – «il selvaggio» Bill Baker, Bill Dillon e Ed Klippert – raccontavano storie di fughe di bestiame, di disperati salvataggi a cavallo in tempeste di neve, guadi di fiumi, incontri di wrestling e pugilato (Baker si era battuto con il famigerato «Strangolatore» Lewis sul ring, e bastavano le sue orecchie a cavolfiore a provarlo). Ascoltava
le loro storie di scherzi elaborati, come quella volta in cui Dillon si ritrovò in coppia con un aiutante stupido, che lavorava svogliatamente se non lo riprendeva ogni minuto. Così Dillon si tolse l’occhio di vetro dall’orbita sinistra, lo mise su un palo della recinzione proprio davanti al ragazzo e disse: «Oggi ti tengo d’occhio». E quel ragazzo lavorò come un dannato fino a sera. Ascoltava il modo in cui parlavano di pistole – calibro, lunghezza della canna e marca – amorosamente, con riverenza, con uno slancio quasi erotico. E ascoltava come questi uomini, che puzzavano di aglio, tabacco, sudore di cavallo e whisky, raccontavano le loro storie, assaporando quei peculiari idiomi, ritmi, metafore: «Non incontrerai mai un uomo più parlone di “Segugio” Benson». «Be’, puoi baciare il culo del gatto nero di mia sorella!» «Quel ragazzo puzzava così tanto da far vomitare un topo di fogna!» E mentre ascoltava, prendeva forma nella sua testa una visione del West americano. Non il West così come era stato, ma il West che questi uomini avevano reinventato – i loro ricordi e la loro fantasia filtravano tutte le ore di noia, di lotte infruttuose, di fallimenti e disperazione finché tutto ciò che restava erano pepite di ilarità, suspense e grande avventura. Un West dove gli uomini cavalcavano liberi su destrieri al galoppo, senza vincoli dettati da sorelle, mogli o madri nevrotiche. Una grande terra dove gli uomini potevano respirare a fondo e bere il magico elisir della libertà – il whisky – che li portava ad azzuffarsi, andare a puttane e volerne ancora. Una terra dove si coglieva quanto di più pericoloso, di più estremo ci sia nella vita; e quando ebbe davanti agli occhi questo Eden di soli uomini, volle disperatamente farne parte. Ma sgattaiolare dal cancello del giardino e colmare la distanza tra fantasia e realtà si rivelò una prova non facile, poiché scoprì quasi subito che quel sogno era stato concepito dalla sua mente. Aveva appena cinque, forse sei anni quando gli fu permesso di guardare il suo primo raduno al Dunlap Ranch.
Tutti i trecento capi di bestiame erano stati accalcati nei recinti per la marchiatura e l’etichettatura auricolare. D. Sammy era in piedi sullo steccato del recinto principale, la faccia rossa e gli occhi che gli brillavano mentre i ferri sibilavano contro i fianchi sinistri dei manzi, riempiendo l’aria dell’odore di peli bruciati e pelle ustionata. Muoveva il pugno con entusiasmo, perdendo quasi l’equilibrio mentre Bill Dillon lottava per avvicinare l’orecchio di un manzo alla lunga lama del suo coltello. «Tagliagli le orecchie, Bill! Tagliagli le orecchie!», urlava il bimbo esultante. Dillon premette la lama, il manzo gemette e il sangue schizzò in direzione di D. Sammy. Il bambino si fece bianco come il gesso e cadde all’indietro come un albero abbattuto. A circa sessant’anni di distanza suo fratello Denny ancora ride al ricordo della scena. «La cosa gli fece passare la voglia di assistere alla marchiatura per un bel po’». «Sembrava che tra i miei genitori, fin dal principio», afferma Fern Lea, «ci fosse un accordo tacito in base al quale Denny era il figlio di mio padre e Sam il figlio di mia madre. Sam era il preferito di mia madre, ma la cosa triste è che lui non voleva essere il preferito di mia madre, bensì di mio padre». La stessa Fern riportò quelle tacite alleanze in una pagina del suo diario: Denny è tutto affari. David quasi tutto affari. Sammy quasi tutto sentimento e io quasi tutta sentimento ed emozioni. Queste sono le qualità che ci governano.
Poiché Denny era stato più o meno cresciuto dai nonni, aveva subito quasi completamente l’influenza di Denver Church. Quando aveva sette anni, Denver gli faceva recitare passaggi dagli scritti di Robert Ingersoll, dalla Bibbia o dai discorsi politici di Denver stesso. Criticava la sua dizione, la sua capacità oratoria, i gesti e la postura. Sebbene Denny covasse il desiderio di diventare architetto, scrittore o
fotografo, il suo destino era stato deciso da suo nonno e suo padre prima ancora che finisse la scuola elementare. Si sarebbe unito allo studio legale di famiglia, sarebbe entrato in politica e avrebbe dato ulteriore lustro al loro clan. Quando D. Sammy aveva quattro anni, Denny ne aveva tredici e cantava, legava e radunava il bestiame e cacciava cervi con gli altri uomini nelle colline sopra il Dunlap Ranch. Ma gli uomini non sapevano cosa farsene dei bei capelli castani, delle lunghe ciglia, dei lineamenti quasi femminei e dei grandi occhi nocciola di Sam, che sapevano fissarti con una calma intensità. «Quel ragazzino ha qualcosa», ammise David con sua moglie, non senza disagio, «che ti ispira a volerlo difendere dal mondo». Denver Church non era invece affatto turbato da una simile inclinazione. Leggeva l’introspezione come passività e riteneva la sensibilità una debolezza. E come aveva fatto con suo figlio, rispose a entrambe con disprezzo. Betty Peckinpah, una ragazza di Palo Alto che sposò Denny nel 1937, lo scoprì a sue spese alla sua prima visita al Dunlap Ranch. Denver Church la guidò in un’escursione sulle colline circostanti e le mostrò come disporre una trappola, proprio come gli aveva insegnato suo padre. Il giorno seguente le diede una carabina calibro .22 e le disse di andare a controllare le trappole. Quando si imbatté in un procione ancora vivo che lottava per liberarsi dalla morsa di quei denti d’acciaio, Betty lasciò cadere la carabina e ridiscese la collina in lacrime. «Non fui mai perdonata per questo», afferma amaramente, facendo notare che il vecchio non si era minimamente sforzato di prepararla a ciò che avrebbe potuto trovare. Vide quello stesso astio rivolto al giovane Sam. «[Denver] se la prendeva spesso con Sam perché a Sam piaceva leggere. Aveva sempre amato leggere. L’idea di Denver invece era che, se volevi essere un vero uomo, dovevi uscire a cavallo, fare escursioni o cose del genere. Mi dispiaceva sempre molto per Sam quando gli veniva fatta una lavata di capo perché non era fuori, quando avrebbe potuto
andarsene sulle montagne. Denver aveva un sarcasmo devastante. Era uno degli uomini più sarcastici che avessi mai incontrato. Aveva la lingua tagliente, e sia Denny che Sam la ereditarono». Una volta, su a Crane Valley, dove i Church possedevano alcune baite, a Sammy era stato dato un rastrello per aiutare gli altri a spazzare le foglie cadute. Aveva tre anni. Quando Denver usò la sua lingua tagliente contro il bambino perché lavorava troppo lentamente, D. Sammy si arrabbiò in maniera peculiare. Il viso divenne rosso acceso, prese un forcone lì vicino, quasi più alto di lui, e partì alla carica, costringendo il nonno a una ritirata strategica. David e Denny intervennero, riuscendo alla fine ad allontanare il forcone. Quel giorno fu una specie di vittoria per Sam perché, sebbene il nonno avrebbe continuato a riservargli sane dosi di sarcasmo negli anni a venire, gli aveva anche concesso un certo riluttante rispetto. Più avanti nel tempo a Sam Peckinpah sarebbe piaciuto dare agli intervistatori l’impressione che da giovane fosse stato un perfetto cowboy. In realtà la sua esperienza consisté in occasionali raduni di pochi capi di bestiame da un campo recintato all’altro e in una partecipazione a un rodeo per juniores a Bass Lake, con tanto di epilogo drammatico. Fu disarcionato da due vitelloni, atterrando entrambe le volte sullo stesso quadrato di terra sporca. «Mi alzai e dissi: “Ok, messaggio ricevuto!”», ammise a Garner Simmons. Sapeva cavalcare abbastanza bene, ma non aveva mai avuto una vera affinità con cavalli e bestiame. Era la caccia che amava. Vi si lanciò con passione e sotto la rigida supervisione di Denver Church avrebbe imparato a seguire le tracce e a sparare come un indiano. Cominciò con i ratti. «Belli grossi», ricorda Fern Lea. Sam li braccava da solo nel fienile e nelle mangiatoie del nonno, costringendo sua sorella a tenergli la torcia mentre lui prendeva la mira e sparava con la sua calibro .22. Sviluppò un occhio freddo e distaccato e imparò a puntare i roditori in fuga prima di schiacciare il grilletto.
Poi fu il turno delle trote nel Fine Gold Creek. Denver gli mostrò le profonde buche in cui si nascondevano, e come attirarle ad attaccare un’esca. Un giorno D. Sammy rientrò con tredici o quattordici trote, raggiante d’orgoglio. Denver lo guardò con espressione accigliata. «Be’, spero che ti piacerà mangiarle». Sam mangiò trote per una settimana e imparò la lezione: si uccide per alimentare lo stomaco, non l’ego. Poi arrivarono le quaglie. Denver mandò fuori il ragazzo con un fucile e due proiettili e disse: «Torna con due quaglie o non tornare affatto». Sam imparò a «innaffiare» gli uccelli spruzzando una quantità di pallettoni contro lo stormo prima del loro decollo, uccidendone così due o tre alla volta. Denver lo aveva imparato quando non era che un povero, sporco ragazzo della Napa Valley, e cacciare era una necessità, non certo uno sport. Poi arrivarono i conigli, i procioni, le volpi e le linci. «Ricordo che mio nonno voleva che io avessi spirito d’osservazione», rivelò Sam a Simmons. «“Dove sei andato? Cosa hai visto? Dove hai attraversato il recinto? Descrivi cosa hai visto lì”[…]Mi faceva dire tutte quelle cose perché quando andavi a caccia da solo nell’High Country lo spirito di osservazione faceva la differenza tra riuscire a tornare all’accampamento e morire di fame nei boschi. Mi faceva dire ogni cosa, e se non ci riuscivo mi prendeva a calci in culo. Un bel colpo di stivale del giudice bastava e avanzava». La stessa prodigiosa memoria che permetteva a Denver di recitare lunghi passi delle Scritture gli permise anche di dare forma a una mappa mentale incredibilmente dettagliata dei 1500 ettari che possedeva a Dunlap. Conosceva la collocazione esatta di ogni albero, troncone, alberello e roccia sulla sua proprietà. Sapeva dove si nascondevano i cervi e in quali direzioni sarebbero fuggiti se stanati da una particolare selva. «Straordinario», dice Ed Klippert. Nelle vesti di caposquadra del ranch negli ultimi anni Trenta, fu in innumerevoli occasioni testimone della memoria fotografica di Denver in azione. «Era quasi incredibile».
La caccia ai procioni era la più disgustosa. Appena i cani avevano costretto il procione ad arrampicarsi su un albero, uno dei cacciatori saliva e lo tirava giù scuotendo i rami. Se un cane era «attaccabrighe», come il vecchio Tom di Denver, seguiva una feroce lotta. In un ruscello o in uno stagno il procione avrebbe anche potuto avere la meglio, balzando sulla testa del cane, forse addirittura affogandolo. Ma nella maggior parte dei casi il cane alla fine lo afferrava per la pancia e lo scuoteva fino alla morte, con la pelliccia e il sangue che schizzavano ovunque. La trasformazione dei segugi da cuccioli affettuosi in cerca di amore e approvazione a bestie che roteano gli occhi, incuranti di tutto ciò che non sia il gusto del sangue nelle loro fauci, affascinava il giovane Sam. Alla fine mandò a prendere in Kentucky un segugio marrone e nero che addestrò da solo. E poi, infine, arrivò il cervo. La preda più grande e un rito di passaggio. Sam aveva quattordici anni quando Denny lo portò sulle Sierras vicino al «vecchio Chetwood». Sam aveva la carabina Winchester calibro .32 della madre che sparava proiettili di grosso calibro e aveva un rinculo pazzesco. Nel tardo pomeriggio Denny lo condusse su un promontorio scosceso e gli disse dove posizionarsi. Lasciò Sam stretto al fucile e si spostò più su tra gli alberi. Cinque minuti dopo Denny stanò un grande esemplare di cervo maschio e sparò per aria. L’animale cominciò a correre e balzò a gambe tese giù dalla montagna in direzione di Sam. Denny aspettò lo sparo. Aspettò ancora, ma non sentì altro che il sottile vento freddo che correva tra gli aghi di pino. Alla fine si decise a scendere. Trovò Sam dove lo aveva lasciato, a occhi spalancati e col fiato corto. «Che è successo?», chiese. «Non lo so», rispose Sam, sputando fuori le parole una dopo l’altra. «Gli ho svuotato contro la mia pistola, ma non l’ho preso». Denny guardò per terra, vicino ai piedi del fratello. Lì giacevano sparpagliate le cartucce, tutte inesplose. Scosse la testa. Febbre da cervo. Preso dall’eccitazione D. Sam aveva
inserito ed estratto i proiettili senza spararli, senza nemmeno accorgersi di non aver premuto il grilletto. Ma più tardi quel giorno, tornando all’accampamento, stanarono un altro cervo. Stavolta il dito di D. Sam trovò il grilletto e l’animale sobbalzò, crollando a terra con un tonfo. Il giorno seguente, mentre la luce scompariva veloce dietro i picchi rocciosi e la neve cadeva pesantemente dal cielo, ne prese un altro. Quando il pesante proiettile della carabina sbucò dall’altro lato dell’animale, un bocciolo cremisi apparve sul candido manto nevoso. Sinistra, eppure stranamente bella, l’immagine lo avrebbe perseguitato molto, molto a lungo. Nella caccia seguente, il suo terzo cervo gli fornì invece una nuova prospettiva, come riportò in seguito Sam a Garner Simmons. «Era in cima a una scogliera, a un centinaio di metri da me. Nevicava. Io stavo camminando. Sgattaiolai attorno a un larice e lo colpii al collo. Quando mi avvicinai per vedere dove fosse, lo trovai mezzo appeso oltre il crepaccio, ma ancora vivo. Mentre mi accostavo, mi guardava con un misto di paura e rassegnazione, e avrei voluto dirgli “mi dispiace” perché davvero non volevo ucciderlo. Mi ero fatto prendere dalla caccia. Ma non c’era nulla che potessi fare se non tirare via le sue zampe posteriori dal crepaccio e sparargli un proiettile in testa per porre fine alle sue sofferenze. Fatto questo, mi inginocchiai nella neve accanto alla carcassa per eviscerarla e mi ritrovai incapace di controllare le lacrime. Avevo una tale connessione con quell’animale. Avrei fatto qualsiasi cosa per vederlo correre di nuovo. Ma quando cacci veramente c’è tra l’uomo e ciò che uccide per mangiare un rapporto strettissimo. È difficile spiegarlo a chi crede che la carne spunti direttamente al negozio di alimentari, o a quei tipi che partono e sparano a qualsiasi cosa si muova, per procurarsi un trofeo. Ho pianto per quel cervo con più tormento di quanto ne abbia mai provato nella vita. Era il tramonto e la neve cominciava a scendere giù più copiosa. È stato uno dei momenti più straordinariamente commoventi della mia esistenza».
Fu una reazione per la quale Denver Church avrebbe probabilmente avuto ben poca empatia. «Se devi piangere, vattene via adesso!», tuonò contro Fern Lea che lacrimava alla vista della marchiatura auricolare del bestiame. Era stato obbligato a reprimere quei sentimenti dentro di sé molto tempo prima, pur di sopravvivere. Anche David Peckinpah sarebbe stato uno spettatore scomodo, per quello sfogo emotivo. D. Sammy aveva completato il suo rito di passaggio e guadagnato la tacita approvazione degli uomini che torreggiavano su di lui, ma nel far questo aveva dovuto imparare a nascondere certi segni di «debolezza». Da adulto avrebbe mostrato pochissima tolleranza verso gli altri, e quello spiacevole riflesso sul viso di un dipendente o della sua progenie spesso lo trasformava in un bullo spietato. Si era guadagnato il suo posto tra gli uomini, ma il prezzo era stato alto. Nei decenni seguenti, Sam Peckinpah avrebbe parlato con nostalgia dei suoi anni d’infanzia. «È stato il periodo più bello della mia vita», disse a Garner Simmons nel 1973. «Non ci sarà mai un altro periodo come quello». Tuttavia, in momenti più intimi, rivelò spesso un altro punto di vista. Camille Fielding, un’amica stretta di Sam per molti anni, ricorda un incontro nei primi anni Settanta al Broken Bit, un ristorante di proprietà di Denny nel paese di montagna di Oakhurst, a giusto una ventina di chilometri dalla vecchia fattoria Dunlap. A un certo punto, lei e Sam si ritrovarono da soli a un tavolo a guardare fuori verso i campi di lupini perenni. «Deve essere stato meraviglioso crescere qui da bambino», disse una Camille sognante. «No, affatto», scattò Sam, sorprendendola per la secchezza della sua risposta. Dopo un attimo di esitazione, diede sfogo ai suoi sentimenti. «Era così triste mentre raccontava di quando, da ragazzino, ha imparato a cavalcare», ricorda Camille. «Di cosa ci si aspetta che tu sia per sopravvivere in quell’ambiente. Non potevi cadere e farti male, dovevi alzarti e andare avanti. Tutt’altra cosa rispetto a ogni altra infanzia. Cadevi, volevi piangere e tuo padre non te lo permetteva. Ti colpiva, se
piangevi. È una cosa da incubo, e lo sentii dalla sua stessa bocca. Fa male cadere da un cavallo e non avere nessuno che si alzi per aiutarti. “Rimonta in sella!” Un ragazzino. Non poter piangere, mostrare dolore. Credo che molta della sua rabbia derivi da questo». «Sam non fu mai accettato come lo era stato Denny», dice Betty Peckinpah riferendosi agli uomini della famiglia. «David non era così apertamente ostile, ma non riuscì mai a concepire le ambizioni teatrali di Sam, il suo desiderio di scrivere. Per me, la vera tragedia di Sam è stata passare tutta la vita cercando di essere accettato da quella famiglia. L’atteggiamento da macho… non apparteneva a Sam. Lo era, ma non gli apparteneva. Era il suo modo per cercare di guadagnarsi l’approvazione della famiglia. Passò la vita a cercare di farlo e questo lo lacerò dall’interno. Non ottenne mai quell’approvazione. E per questo divenne una delle persone più tristi che io abbia mai conosciuto». Fu il periodo più bello e il più brutto. Come spesso ha dichiarato lo stesso Peckinpah, «tutto è sempre un misto». I ricordi radicalmente differenti sulla sua infanzia riflettono una profonda ambivalenza, nella quale i sentimenti di attrazione e repulsione per il mondo di sua madre e quello di suo padre e suo nonno crearono un tiro alla fune interiore che tentò disperatamente di risolvere per tutta la sua vita. Fu questo a portarlo al teatro e al cinema, e a dare alla sua opera la potenza letale che tutti conosciamo. La combattività con cui D. Sammy affrontava i maschi più grandi della sua famiglia si fece notare presto anche nelle scuole statali di Fresno. Joe Bernhard conobbe Sam nel cortile della scuola elementare quando lui aveva sei anni e Sam nove. «Mi stavo facendo pestare a sangue dal secondo più grosso della classe, quando sento una voce dire piano: “Va bene, basta così”. Era Sam, che mi tolse il tipo di torno». Molto presto Joe cominciò a prendere lezioni di boxe dall’amico più grande – Sam gli svelava trucchi che aveva a sua volta imparato da H.D. Waddle, un detective privato che aveva lavorato per suo padre; ex agente della polizia stradale,
Waddle aveva combattuto nella lega dilettanti della polizia. «Devi piantare il piede quando piazzi colpi forti», diceva Sam a Bernhard con aria di grande autorevolezza. «Sam era piccolo per la sua età», dice Bernhard. «Anche lui era stato preso di mira e picchiato». Don Levy ricorda il primo giorno di allenamento di football alla Fresno High. Lui, Sam e un gruppetto di altri magrolini, goffi ragazzi del secondo anno avevano deciso di fare i provini per entrare in squadra. Il coach dalle spalle larghe fischiò bruscamente. «Ok, gente», urlò ai nuovi arrivati. «State per affrontare le forche caudine!» Come uno stormo di galline nervose, gli scolaretti dalle gambe ossute si radunarono tutti insieme. Non avevano idea di cosa fossero le forche caudine ma, dal modo malevolo in cui quei senior cavernicoli li guardavano e ridevano, sapevano che non si sarebbe trattato di una vagonata di risate. «Peckinpah, alzati e vieni qui!» Il più magro del gruppo si fece avanti con la sua uniforme strappata e macchiata d’erba. Una dozzina di mastodontici senior era disposta in riga, a intervalli regolari, lungo la linea del campo di fronte a lui, e tutti sorridevano come tigri dai denti a sciabola. Il coach sbatté un pallone da football sullo stomaco del ragazzo. «Vedi quel palo laggiù? Devi provare ad arrivare lì. Vediamo fin dove arrivi. Pronto?» Lo stridulo fischio risuonò ancora e il ragazzo magrolino e vestito di stracci schizzò come una pallottola dalla carabina di sua madre, la testa abbassata, l’elmetto di cuoio proteso davanti a sé come un ariete, dritto nello stomaco del primo mastodontico gigante. Il senior si piegò come un coltello a serramanico e crollò a terra senza fiato. Il resto della squadra rimase a guardare incredulo mentre il coach gridava: «Dannazione, Peckinpah, non sei tu a dover placcare lui! Hai tu la palla!»
Sam diede un calcio all’erba con la sua scarpa rattoppata, facendo il finto tonto – «Ah, ho capito, scusate» – mentre Levy e gli altri ragazzini cercavano di nascondere i sogghigni. Quella di quel giorno fu una grande conquista per i piccoletti, mentre Sam imparò il valore di un colpo basso – un grande livellatore che avrebbe adoperato di frequente negli anni successivi. «Il suo coraggio sfiorava quasi la stupidità», ricorda Bernhard. «Sam era pronto a lottare con chiunque. Ricordo che una volta si batté con un tipo molto più grande di lui. Era stato inchiodato, ma poi all’improvviso Sam ebbe un’esplosione di forza, si liberò e lo pestò a sangue. Mi raccontò in seguito che credeva che il tipo gli avesse sputato addosso. In realtà, quel che era accaduto è che il naso del tipo stava sanguinando. Stava sanguinando su Sam». Le ragazze che andavano a scuola con lui hanno ricordi decisamente diversi. «Caro Sam», scriveva Doris Roullard nel suo annuario del quinto anno, «se tutte le ragazze del mondo vivessero oltreoceano, che gran nuotatore saresti!» Una sua ex compagna di scuola ricorda D. Sammy come un bellissimo ragazzo dagli occhi grandi e sempre ben vestito. Era il ragazzo ricco, ma non uno snob. Andava sullo skateboard con gli altri ragazzi e giocava a «calcia il barattolo» nelle calde sere d’estate. «Gli piaceva disegnare, soprattutto aeroplani, e scrivere storie. Erano spaventose, piene delle più orribili, sanguinose descrizioni. Noi urlavamo e scappavamo via, ma lui ci richiamava per farcene ascoltare ancora. Era molto descrittivo». Eppure gli altri ragazzi notarono qualcosa di diverso nel loro compagno. Un senso di estraneità, di intima solitudine che non potevano penetrare. Quando non si esibiva per loro, si isolava spesso. Agli incontri pre-partita si sedeva generalmente da solo e raramente andava alle feste. Joe Bernhard ricorda che Sam passò una «Settimana d’Inferno» colma di umiliazioni per entrare in una delle confraternite delle superiori. Però, non appena fu accettato, abbandonò.
«Era un ragazzo molto sensibile», conferma un’ex compagna di scuola. «Teneva tutto per sé. Non aveva mai avuto amici stretti come noialtri. Se ne andava sempre in quel ranch. Il padre lo faceva lavorare, lo tenevano impegnato». I film divennero il suo santuario. Il sabato sera in centro, a Fresno, al Kinema e allo State Theatre, si immergeva nei meravigliosi mondi che si dipanavano sul gigantesco schermo bianco. C’erano le spericolate imprese epiche di Errol Flynn: Captain Blood, I seicento di Balaklava, La storia del generale Custer e Robin Hood, con le ampie riprese dalla gru del regista Michael Curtiz, le mitiche ombre, i fulminei duelli infarciti di battutine sfacciate. E ovviamente i western, sempre i western. Harry Carey, Tim McCoy, Ken Maynard, Buck Jones, William Boyd – tutti hombres impavidi, schietti e indomabili. Earlene Heafey, cugina di Sam, lo ricorda mentre si esercitava a montare in stile Tom Mix in groppa alla vecchia Nellie, il cavallo di famiglia, nella baita a Crane Valley. Saltava da una roccia vicina sulla groppa di Nellie e la spronava a una rapida fuga. A undici anni vide La conquista del West e si innamorò dell’interpretazione di Jean Arthur del personaggio di Calamity Jane. Sua nonna distrusse brutalmente le sue fantasticherie quando gli fece casualmente notare che lei e Denver avevano conosciuto la vera Calamity durante il loro viaggio tra le Grandi Pianure negli anni Novanta dell’Ottocento. Sam non poté non chiedere come fosse. «Era una sporca ubriacona e puzzava… e tuo nonno passava troppo tempo con lei». Al terzo anno delle superiori realizzò che non doveva per forza restare un membro del pubblico, un osservatore passivo di quell’elusivo regno di fantasia, bensì poteva entrare a farne parte. Sam fece un provino per una parte nella recita scolastica e la ottenne. Con il ruolo dell’editore del giornale nel melodramma/giallo The Late Christopher Bean arrivò addirittura a portare sul palco una scena di lotta e aiutò a coreografare colpi e cadute. All’insegnante piacque talmente
che lo scritturò per un’altra produzione, Out of the Frying Pan into the Fire. La sua famiglia non sapeva come reagire a quella novità. Il padre avrebbe voluto che si unisse al club di dibattito, il Fresno High School Senate, come avevano fatto sia lui che Denny. Era una buona preparazione per la facoltà di giurisprudenza. «Cos’hai addosso… trucco?», chiese inorridita Fern Lea quando lo vide rientrare un giorno dalle prove. Ma lui quasi ignorò quella domanda, concentrato su se stesso e in preda a una strana eccitazione. Tom Mullins, il migliore amico di Sam alle superiori, ricorda: «Fu subito preso dal teatro. Avevamo un’insegnante di spagnolo, la professoressa Gunderson. Un giorno Sam entrò in classe con una pistola finta presa dal dipartimento di Teatro. Se la puntò alla tempia e disse: “Sono stanco della vita!” Preme il grilletto e… BANG! si accascia a terra. Ve lo dico, la Gunderson per poco non crepò d’infarto!» Sviluppò un debole anche per qualcos’altro, quell’anno: le ragazze. Marie Selland, quando era matricola, ricorda di averlo visto una mattina in segreteria. Era in ritardo, come tutti gli altri presenti, ma chissà come Sam riuscì a incantare la segretaria dietro il bancone, convincendola a lasciarlo andare. «Aveva una storia. È stata una piccola performance. Stavo dietro di lui e pensavo: Dio, quant’è carino!» Ma dovettero passare altri cinque anni prima che Marie riuscisse ad avere un appuntamento con lui, perché era molto richiesto. Tutte le ragazze volevano quel figlio di avvocato dagli occhi sognanti e i capelli castano chiaro, l’abbigliamento curato e una Ford Model A (comprata per lui da David) con la quale sfrecciava per le strade di Fresno. «Riusciva ad attaccare bottone con una tipa al drive-in, in un negozio, ovunque, e nel giro di poche ore se le portava sul sedile posteriore della sua auto», racconta ammirato Tom Mullins. «Io non ci sarei mai riuscito. Erano tutte sue. Quando
arrivò al college era ormai un diavolo di donnaiolo, è tutto quello che posso dire!» Avendo osservato gli ultimi sviluppi nella vita del figlio, David Peckinpah trovò prudente introdurre una nota cautelativa, e così ordinò a D. Sam di presenziare al processo di un altro adolescente, un suo assistito. L’accusa era di abuso sessuale su minore. «Il ragazzo fu condannato», ricorda Denny. «E non voleva pagare a papà la sua parcella di ottocento dollari. Disse che era troppo e, dopotutto, aveva perso… Papà gli disse: “Avresti dovuto pensarci prima di montare in macchina e cercare di infilarti tra le sue gambe”». A quel tempo, Fresno era ancora un paesino relativamente piccolo che preservava i valori conservatori del Midwest. Molti compagni di Sam avrebbero trovato scioccante che un padre costringesse il figlio ad assistere a una causa per abuso sessuale, oltretutto su minore. «La gente pensava che fosse un po’ duro per una persona così giovane», ricorda Walter Harpain, un vecchio vicino di casa. Quando anni dopo Sam parlò dell’esperienza a Garner Simmons, il suo tono aveva del filosofico: «[David Peckinpah] pensava che avrei compreso meglio quanto fosse complesso tentare di affermare una verità e tenersi lontano dai guai». Ma una delle sue fidanzate del tempo afferma che in realtà l’evento ebbe un impatto traumatico su di lui. «Lo colpì molto duramente. Aveva gli incubi. Rimase scioccato, era un ragazzo molto sensibile». Forse era stata più la sua teatralità a conquistare la compassione della ragazza, ma è comunque da notare quanto spesso scene di stupro si ripresentino nei suoi lavori da regista – sempre traumatiche e inquietanti, e generalmente con un osservatore passivo di sesso maschile presente, fisicamente o psicologicamente, che si scopre impotente davanti all’evento. David potrebbe aver trascinato suo figlio minore in tribunale per un altro motivo. Sperava ancora, nonostante tutte le dimostrazioni contrarie, che D. Sam potesse iscriversi a Giurisprudenza e unirsi allo studio di famiglia. D. Sam
presenziò a diversi processi del padre e seguì i procedimenti con grande interesse, ma le lezioni che imparava non erano esattamente quelle che aveva in mente suo padre. «Mio padre», ricordò in seguito Sam, «credeva nella Bibbia come letteratura e nella legge. Era un’autorità e tutti crescemmo con la convinzione che non potesse mai sbagliarsi su niente». Ma seduto lì in tribunale, D. Sam vedeva come suo padre usasse il suo fascino genuino alla Abe l’Onesto e un’abile manipolazione dei fatti per convincere la giuria di qualcosa che era essenzialmente non vero, come David fiutasse i pregiudizi di ogni singolo giurato e si esibisse per loro. Una volta accettato un cliente, David si batteva per lui a qualunque costo e a proprie spese se necessario – anche se il cliente era colpevole, come poteva accadere. Utilizzava ogni trucco possibile per vincere. Questa lealtà era ammirevole, certo, ma non era altrettanto importante sapere a chi la si stesse concedendo? «Me ne stavo lì seduto ad ascoltare», ricordò in seguito Sam, «e poi cominciai a chiedermi […] “È possibile che il bene possa portare al male?”» Le performance di David Peckinpah in tribunale erano famose in tutta Fresno. Parenti e amici venivano a vedere i suoi processi per puro intrattenimento. Utilizzando una varietà di sottili tecniche teatrali – movimenti delle mani, inflessioni, pause drammatiche e sguardi significativi – creava un’atmosfera di suspense che teneva i giurati col fiato sospeso. Utilizzava vecchi trucchetti – come bombardare un testimone con domande provocatorie e farlo rispondere prima che l’altro avvocato potesse opporre obiezione – con abile competenza. «Nel momento più intenso del conflitto sapeva essere devastante, questo soprattutto quando affondava il colpo con un sorriso e una battuta», ricorda un vecchio collega. «In piedi, calmo accanto al banco della giuria, prima di dire qualcosa che avrebbe sbaragliato il suo avversario con un contorno di fragorose risate, si passava il palmo della mano sul mento e una volta completato il movimento era ormai entrato nel personaggio e pronto a mandare il pubblico in delirio».
Le sessioni di D. Sam in tribunale non furono di grande aiuto per smorzare la sua vena selvaggia. «Non era una persona molto dolce e rilassata», afferma Walter Harpain. «Aveva bisogno di azione. Aveva bisogno che accadesse qualcosa. Non era tipo da starsene a guardare mentre il mondo andava avanti. Assolutamente no. Se accadeva qualcosa, lui voleva farne parte». Era ormai di routine per lui uscire da scuola a pranzo per andare con la sua Model A allo Stillman Drugstore. Lì comprava una bibita gassata, leggeva riviste e guardava le ragazze per il resto del pomeriggio. Ma le bibite non bastavano a placare la sua sete. Alla fine, giunse il momento per un altro rito di passaggio. Per anni aveva ascoltato i racconti dei cowboy al Dunlap sulle loro epiche sbronze – sbornie lunghe tre, quattro giorni o addirittura una settimana. Bill Dillon si ubriacava così spesso nei saloon locali che i baristi si tenevano in forma a forza di caricare il suo corpo inerme sul suo carro. Davano uno schiaffo ai cavalli e quelli lo riportavano al trotto fino alla sua baita. Sam ascoltava il modo in cui quegli uomini parlavano della «bevanda bruna»; una strana passione infiammava le loro voci e, quando descrivevano la folle foga di picchiarsi e andare a puttane, di cantare e ridere che questo liquido provocava in loro, sentiva muoversi qualcosa di potente, di mistico. Un weekend Sam e due suoi amici salirono fino a una vecchia baita abbandonata nel territorio di Dunlap per accamparsi. Nei sacchi a pelo avevano ogni tipo di liquore che erano riusciti a sgraffignare. Solo a Ed Klippert, caposquadra del ranch, Sam rivelò il loro piano. «Senti, non dirlo agli altri, ma andiamo alla vecchia baita di Charlie DeLong per ubriacarci! Non mi sono mai ubriacato in vita mia!» «Passai di lì», ricorda Klippert. «Dio, avevano tutto l’immaginabile. Avevano mischiato tutto ed erano impazziti come un gruppo di Comanche! Sam cadde nel camino come se volesse darsi fuoco. Vi assicuro, non avevo mai visto un casino simile. Non lo dimenticherò mai. Quella fu la prima
volta che il vecchio Sam si ubriacò e, vi dirò, diede in escandescenze. Ma col tempo cominciò a piacergli». Sam trascorreva le sue serate al drive-in della zona. Pearl Harbor era appena esplosa in fiamme, era arrivata la guerra, ma sembrava ancora lontana ed eccitante, come in quei film di Errol Flynn. Aveva messo fine alla Depressione e la gente aveva di nuovo qualcosa in tasca. I ragazzi che non erano ancora abbastanza grandi per essere chiamati alle armi o arruolati per rendere il mondo un luogo sicuro per la democrazia avevano parecchio tempo da perdere. Non c’erano più montagne da attraversare, fiumi da guadare, né terreni da coltivare o alberi da abbattere, nessuna ricchezza materiale da desiderare che non avessero già. Perciò trovarono nuove occasioni di avventura facendo corse in macchina sulle strade asfaltate in piena notte, giocando a giochi pericolosi, facendo conquiste sul sedile posteriore della loro auto tra gli argini dei canali di irrigazione, bevendo Coca-Cola corretta con l’alcol del loro vecchio o scolandosene direttamente un po’ da bottiglie procurate da qualche tipo del college. Ma una notte tutto giunse a una brusca fine: la notte in cui D. Sam fu sorpreso a sgommare con il pick-up Hudson del padre in un campo vicino. Per mesi era sgattaiolato fuori dal garage subito dopo che i suoi genitori si addormentavano. Era più potente della sua Model e lui voleva a tutti i costi andare più veloce. David Peckinpah capì così che era giunto il momento di un’azione drastica. D. Sam fu messo in castigo per un mese. I suoi voti erano calati fortemente e aveva dimostrato di non avere affatto l’ambizione e la disciplina del fratello maggiore. Fu deciso che D. Sam sarebbe stato spedito a frequentare l’ultimo anno all’accademia militare San Rafael, una rinomata scuola privata a nord di San Francisco dove le famiglie dell’alta e media società mandavano i figli problematici o indesiderati. Un cambio d’ambiente e una buona dose di disciplina marziale avrebbero raddrizzato il ragazzo, sperava suo padre.
L’accademia allestiva uno spettacolo impressionante durante il giorno di visita dei genitori. C’erano caserme divise in singole camere da letto per ogni studente, aule, una palestra, un refettorio, campi da tennis, un campo da calcio e una piazza d’armi. Le attrezzature erano pulite, l’erba accuratamente tagliata, le uniformi dei ragazzi sgargianti e lucenti mentre marciavano ben ordinati in plotoni e venivano passati in rassegna. Ma dietro la facciata, la scuola non era che una farsa – tutto fumo e niente arrosto. «Il nostro comandante, il maggiore Nichols, non aveva chissà quale formazione», ricorda John Breed, un ex allievo del San Rafael. «Era un ex autista che era stato nominato maggiore nella Guardia Nazionale. Uno dei professori era un ex rivenditore di auto usate, un altro un ex carcerato a San Quentin. L’insegnante di musica era un alcolista, un altro un omosessuale che fu cacciato quando organizzò una festa per i ragazzi e tentò di rimorchiarne uno». Gli istruttori dell’accademia sapevano fare solo una cosa: dettare regole. I cadetti imparavano le basi della marcia, del saluto, come rivolgersi agli ufficiali e l’etichetta militare. La notte solo i gradi più elevati potevano fumare nelle camerate. L’alcol e le ragazze non erano permessi. «Sam odiava andare lì», ricorda Marie Selland, la sua prima moglie. «Eppure mi diceva che gli aveva fatto bene. Mi faceva impazzire la sua convinzione che queste terribili, spiacevoli esperienze fossero in qualche modo un bene per lui». Si trattava di un concetto su cui David Peckinpah si era soffermato molto: le avversità formano il carattere. Resistendo alle difficoltà, raccogliendo le sfide che la vita vi riserva, diventerete più forti – questa la predica che ripeteva ai suoi figli, spesso usando come esempio la parabola di Giobbe, il suo brano preferito della Bibbia. Se anche pensava che le restrizioni del San Rafael gli facessero bene, questo non impedì a Sam di ribellarsi a esse.
Stimava l’autorità, ma non la rispettava. «Sam non era esattamente il classico militare», ricorda Breed. «Si prendeva gioco delle convenzioni militari, del dover indossare l’uniforme, eccetera. Lì c’era un grande campo. Se infrangevi le regole, dovevi marciare per pomeriggi interi intorno al campo, con la carabina in spalla. Potevi ritrovarti a camminare intorno al campo per giorni. Ricordo che a Peckinpah accadeva spesso. Molte volte mi trovavo giusto dietro di lui. Credo che non piacesse particolarmente ai padroni della scuola. Generalmente si capiva chi era tra i favoriti e chi no. I favoriti ricevevano incarichi in veste di tenenti e capitani. Peckinpah non andò mai oltre il soldato scelto. Proprio non riusciva a tollerare tutte le cazzate di quel posto». Quando si diplomò Sam ottenne la discutibile menzione d’onore per aver ricevuto più note di demerito in un solo anno di ogni altro cadetto nella storia dell’accademia. La notte, spente le luci, scivolavano fuori dalle finestre delle camerate e zigzagavano attraverso gli umidi campi erbosi facendosi strada verso la piccola cittadina di San Rafael. Si procuravano qualche birra, flirtavano con le ragazze del posto o andavano a vedere un film in uno dei due cinema. Fu probabilmente durante una di queste escursioni notturne che vide per la prima volta Alba fatale. Fern Lea ricorda come ne parlasse con grande eccitazione durante una delle sue visite a casa. Per la prima volta, si era trovato di fronte a un diverso tipo di western. Nulla a che vedere con i giochetti alla Tom Mix di cui si era ormai stancato. Nessun cappello da quaranta galloni, nessuna rivoltella a sei colpi d’argento o cavalli che facevano tutto tranne forse portare al proprio padrone il giornale della sera. Qui c’era una coppia di veri cowboy – Henry Fonda e Henry Morgan – in logori abiti sbiaditi, che cavalcavano verso una cittadina desolata e indurita dal sole. E la storia – c’era una vera storia, non una raccolta casuale di inseguimenti e sparatorie. Andava più a fondo. È facile capire perché il film affascinò tanto Peckinpah. Una sete di morte si annida tra gli annoiati abitanti della remota cittadina. Spinti dalle voci su un omicidio, si
trasformano in una folla di cani rabbiosi e impiccano tre uomini innocenti. Lo scontro tra il padre tiranno che capeggia il linciaggio e il calmo figlio costretto a prendervi parte rispecchiava i conflitti più intimi di Sam. «Lo farai!», ordina il padre quando suo figlio esita a far spostare i cavalli da sotto gli uomini al cappio. «Non avrò una femminuccia che porta il mio nome. Farai la tua parte». In seguito si scopre che i tre uomini erano innocenti, e il padre chiude suo figlio fuori casa. Il ragazzo urla dietro la porta chiusa contro l’uomo che ora odia: «Ho visto la tua faccia! Era il volto di una bestia omicida e depravata! …Non sei contento di avermi costretto a venire, padre? Non eri orgoglioso di me? Cosa si prova ad aver generato una femminuccia, maggiore Tetly? Ti fa temere che ci sia anche in te qualche debolezza che gli altri possano scoprire e di cui possano sparlare? Apri la porta, maggiore, voglio vedere la tua faccia! Voglio sapere come ti senti adesso!» E la risposta di suo padre da dietro la porta che li separa: il rumore di uno sparo. Era un western ma anche molto più di un western: quel film parlava a qualcosa di inesprimibile che Sam custodiva nel profondo della sua anima. Ne fu totalmente assorbito, nell’oscurità di quel cinema. Dopo che anche lei lo ebbe visto, chiese a Fern Lea se avesse notato come il viso di Henry Fonda era nascosto dal cappello di un altro tizio mentre leggeva la lettera di uno degli impiccati. Aveva notato come quel dettaglio aveva impedito che la scena divenisse troppo sentimentale e strappalacrime? E come il cane attraversa la strada polverosa da sinistra a destra nella scena iniziale, quando Fonda e Morgan arrivano in città, e poi da destra a sinistra quando se ne vanno nella scena finale? Come questo coronasse l’intera storia, in un certo senso chiudendo il cerchio? Agli occhi del governo degli Stati Uniti, D. Sammy non era più il piccolo tesoro di Fern ma un uomo fatto e cresciuto, abbastanza grande da morire per il suo paese. Alla San Rafael
i ragazzi restavano svegli la notte per ascoltare i bollettini sulle battaglie che infuriavano in Europa e nel Pacifico meridionale. Si chiedevano a voce alta come avrebbero fatto a resistere al fuoco nemico, segretamente preoccupati di farsela sotto e scappare. Ma la questione sembrava ancora ipotetica. Sapevano di poter morire, ma la morte sembrava distante e astratta. «Nessuno pensava davvero alla brutalità della guerra», dice John Breed, «a causa della propaganda. Secondo il cinegiornale, tutti erano degli eroi». Ben più forte della paura era la viscerale scarica di eccitazione. Ora almeno c’era un posto dove andare, nuovi mondi da scoprire oltre le coste del Pacifico che avevano fermato i loro antenati quasi un secolo prima. Un altro ricordo delle visite a casa di Sam durante quell’ultimo anno spicca nella memoria di Fern Lea. Un giorno si trovò da sola nel salotto con suo fratello, che con il suo metro e ottanta di altezza risultava imponente. La guardò con i suoi grandi occhi nocciola e all’improvviso si mise a recitare una poesia di Edna St. Vincent Millay: La mia candela brucia da ambo i lati; Per tutta la notte non durerà; Ma amici miei, ah, persi e, oh, ritrovati – Che incantevole luce che fa.
«Sono io, Spuddy», disse, quasi in un sussurro. «Questo accadrà a me». Nel 1943 la macchina da guerra americana funzionava ormai a pieno regime. Mai prima nella storia una sola nazione aveva sprigionato una tale potenza di fuoco. I servizi armati contavano quindici milioni di uomini e donne. Durante le adunate in Michigan, California, Pennsylvania, Mississippi e New England sfilarono quell’anno 29.497 carri armati, 85.898 aerei e sedici milioni di tonnellate di stazza in navi. La produzione industriale degli Stati Uniti era più del doppio rispetto a quella delle potenze dell’Asse messe insieme. In meno di due anni e mezzo lo splendente colosso americano
avrebbe ridotto il Reich millenario di Adolf Hitler e l’impero del Sol Levante di Hirohito in frantumi. Il sentimento antibellico era stato forte prima di Pearl Harbor. La maggior parte degli americani sentiva di essere stata coinvolta con l’inganno nella prima guerra mondiale, quando sui campi di battaglia 116.516 ragazzi erano stati uccisi, 204.002 feriti e molti erano tornati senza braccia o gambe o con gli occhi e i polmoni talmente danneggiati dall’iprite da essere condannati a passare il resto delle loro vite nelle cupe celle degli ospedali per veterani. Quando tutto finì, molti dovettero ammettere di non aver mai pienamente compreso la vera causa della guerra. Ma questo devoto isolazionismo si dissolse con la nuvola di fumo generata da otto navi da guerra abbattute e tre cacciatorpedinieri affondati nelle acque di Pearl Harbor. L’attacco a sorpresa da parte del Giappone accese la sete di sangue dell’America. Stavolta almeno si trattava di una causa giusta, una «guerra buona» contro nemici giustamente visti come cattivi e «disumani»: i soldati nazisti e il pericolo giallo. Selvaggi come quelli affrontati nelle battaglie sul fiume Washita e a Little Bighorn. Ci fu un solo voto al Congresso contrario alla dichiarazione di guerra dopo l’attacco giapponese. Per il 1942 tutti gli uomini di sana e robusta costituzione – Repubblicani, Democratici, membri del Ku Klux Klan e comunisti tesserati, figli di mezzadri e agenti di cambio – erano ormai corsi ai centri di reclutamento per arruolarsi. Denny Peckinpah, da poco laureatosi in giurisprudenza, si arruolò nella Marina. David Peckinpah voleva arruolarsi anche lui, ma a quarantotto anni era troppo vecchio. Fece la sua parte invitando i militari delle basi vicine a trascorrere le feste e i weekend a casa sua. Due giorni prima del suo diciottesimo compleanno Sam surclassò sia suo padre che suo fratello arruolandosi come volontario nel Corpo dei marines degli Stati Uniti, la più grande forza armata che il paese avesse da offrire. «Sam sentiva di essere il piccolo della famiglia», spiega Fern
Lea. «Voleva mettersi alla prova. Entrare nei marines era il modo per farlo». Prima andò a Flagstaff, in Arizona, in una prima versione del Corpo di addestramento degli ufficiali di riserva, poi al centro addestramento reclute di Parris Island, nel South Carolina. Se aveva trovato autoritaria la disciplina militare del San Rafael, il suo arrivo sull’isola deve essere stato un grande shock. Non aveva nulla a che vedere con l’omonima «Ville Lumière». «Il modo in cui gestivano le cose psicologicamente a Parris Island era affascinante», dice Craig Carter, un ex marine che aveva combattuto nello stesso battaglione di Sam più o meno per lo stesso periodo. Per i piantagrane come Peckinpah, gli istruttori delle reclute avevano escogitato molte innovative tecniche di correzione del comportamento. Una tra le preferite era quella di caricare il «saputello» con due borsoni e farlo correre in cerchio intorno al plotone. Se cominciavi a cedere, un bel calcio mollato dallo stivale numero 44 dell’istruttore ti avrebbe rimotivato. Dovevi correre, correre, correre in cerchio finché non mollavi. Non meno efficace era far stare lo «scansafatiche» con un fucile da quattro chili sopra la testa finché non barcollava e lo abbassava: meglio però che non lo posasse a terra, o sarebbe stato nella merda. L’istruttore gli avrebbe ordinato di arrampicarsi su un albero e cantare: «Sono un gran coglione, puoi cercare tra le brande. Non troverai mai un coglione più grande!» E intanto il plotone gli lanciava pietre addosso. Marciavano per ore, in cadenza. Cosa fa crescere l’erba? Il sangue! Il sangue! Il sangue! Se una recluta inciampava e cadeva, nessuno si fermava; gli marciavano sopra. Se i membri del plotone non riuscivano a sfilare la cinghia del loro fucile durante il presentat-arm, l’istruttore li conduceva verso un’area spianata e urlava: «Va bene, signorine che non sanno usare le cinghie, vediamo cosa combinate con il cemento!» E faceva loro colpire il cemento per quindici o più minuti, finché
i loro pugni non erano pieni di lividi e tagli. Se tutto il resto non andava a buon fine, c’era sempre il metodo piss and punk: trenta giorni in cella a pane e acqua. E andò così dalle prime luci dell’alba alle dieci della sera per dieci interminabili settimane. Alcuni non resistettero. Altri ebbero dei crolli nervosi, e schizzavano fuori dalle brande in piena notte urlando passi della Bibbia. Altri ancora diventavano catatonici, guardando fisso nel vuoto come in trance. Quelli che sopravvivevano a questo processo logorante venivano gradualmente riplasmati fino a dar vita a degli uomini nuovi; i civili morivano e rinascevano come marines. «A volte la nostalgia, la solitudine diventeranno quasi insopportabili», avrebbe scritto Sam Peckinpah in una lettera a suo figlio quando Mathew si arruolò nei marines quasi quarant’anni dopo. «L’Arma non è l’ultimo anno di scuola. Non è un gioco. È uno stile di vita – e il suo scopo precipuo è consolidare il fatto che un marine è il miglior combattente del mondo. I tuoi sottoufficiali e ufficiali avranno il corrispettivo del potere assoluto su di te. Proveranno a spezzarti, ma mentre tentano di farlo ti daranno delle lezioni – su come salvare il tuo culo e quello del tuo compagno, su come uccidere con efficienza, su come imparare. Quando uscirai, proverai l’orgoglio di essere un Marine…» Le dieci settimane di Sam erano trascorse. L’ultimo giorno era arrivato. «Gli istruttori delle reclute entrarono nella caserma e dissero: “Forza, vermi, fuori in strada!”», ricorda Craig Carter. «Così ci precipitammo in strada nel giro di tre minuti. Nessuna arma, nessuna cintura. Arrivarono – eravamo in settantotto – e i tre istruttori avevano una scatola. Una cerimonia che risale ai tempi dei dannati Romani. Vennero e ci diedero i nostri emblemi del Corpo dei marines. Noi ci togliemmo i piccoli berretti cachi – li chiamavano letteralmente “tagliapiscio” – e mettemmo l’emblema nel buco che c’era. L’istruttore disse: “Ora siete dei marines”. Ci lasciarono stare lì in posizione di riposo per abituarci alla cosa. Ciascuno dei settantotto accettò l’informazione a suo modo.
Era la prima volta che ci veniva concesso di comportarci da singoli individui». Marciando fuori da Parris Island, incrociarono un gruppo di nuove reclute con i capelli lunghi, che indossavano ancora i loro abiti civili. «Pensai tra me e me: io ero così?», ricorda Carter. «Tutto quel processo psicologico aveva funzionato su di me. Mi ero integrato. Avrei sradicato i cancelli dell’inferno se me lo avessero chiesto». Dopo Parris Island, Sam andò alla scuola per aspiranti ufficiali alla base di Camp Lejeune, nel North Carolina. Uno squilibrio tiroideo – una patologia di cui soffriva dall’infanzia – lo portava ad addormentarsi durante le lezioni, ma non c’è dubbio che trovasse il curriculum di tattiche, strategie e gerarchia militare stimolante. Il Corpo dei marines raggiunse la tardiva conclusione che non fosse tagliato per il ruolo di ufficiale. Nell’estate dal 1945 fu tolto dalla scuola e rimandato alla base di Camp Pendleton, da dove sarebbe salpato per l’Estremo Oriente. Gli uomini della famiglia Peckinpah dovevano ormai chiedersi se D. Sam avrebbe mai combinato qualcosa, e probabilmente se lo chiedeva lui stesso. Nell’estate del 1945 l’America si stava preparando per l’ultima grande battaglia della guerra: l’invasione del Giappone. Un totale di 767.000 uomini furono selezionati per invadere la prima isola, Kyushu. Se si fosse verificato lo stesso tasso di vittime americane di Okinawa, 268.000 fra loro sarebbero morti o rimasti feriti. Dunque, secondo i pronostici, per invadere tutte e quattro le isole principali, almeno un milione di americani sarebbe dovuto morire. Ma poi, un gigantesco miracolo. Il 6 e il 9 agosto, gli Stati Uniti piantarono due scioccanti semi radioattivi a Hiroshima e Nagasaki. In un paio di battiti d’occhio oltre 120.000 persone morirono. Cinque giorni dopo lo sgancio della seconda bomba, il Giappone si arrese. Quando il soldato semplice Sam Peckinpah salpò dal porto di San Diego nel settembre del 1945 non fu certo per le spiagge di Kyushu, Shikoku e Hokkaido, ma per la Cina, dove
alla prima divisione dei marines era stato affidato l’incarico di disarmare 630.000 soldati e civili giapponesi, e spedirli a casa. Venti giorni dopo la nave da trasporto truppe si fermò nel porto di Taku nel Mar Cinese Orientale. Fu come atterrare su un remoto, strano pianeta; pochi marines erano mai stati più lontani di un centinaio di miglia dalle loro città natali. Craig Carter ricorda di essersi sporto dalla ringhiera della nave mentre entrava a Taku. Centinaia di sampan arrivarono dalla costa per incontrarli, con i loro piloti che parlavano in uno strano dialetto acuto che sembrava un disco suonato al contrario e sventolavano cose – bracciali, kimono di seta, ciotole di ottone – da vendere ai marines. A Taku salirono a bordo di una processione di LCT che li portarono sulla terraferma, lungo il fiume Hai Ho fino a Tangku. A Tangku salirono su dei treni che li condussero 130 chilometri più all’interno fino a Tientsin. Una città che allora contava circa tre milioni e mezzo di persone, quasi delle stesse dimensioni della Chicago del tempo, Tientsin era a ridosso delle sponde del fiume Hai Ho ed era il punto di convergenza di diverse linee ferroviarie, il che la rendeva il cuore della Cina settentrionale. Il battaglione di Peckinpah (il secondo) fu alloggiato in una vecchia scuola giapponese nella periferia della città. Oltre 600.000 giapponesi sarebbero stati evacuati nel corso dei tre mesi seguenti, via treno e camion attraverso Tientsin, e poi con le LST dal porto di Taku. I marines che militarono con Sam Peckinpah in Cina lo ricordano come un tipo piacevole e alla mano. Era magro, scolpito, la faccia da ragazzino ora controbilanciata da grandi baffi. Era un compagno amichevole ma silenzioso, riluttante a partecipare alle chiassose buffonerie delle camerate. «Era un ragazzo tranquillo», afferma Leo Cardarelli. «Ci guardava come se fossimo pazzi. Sembrava un tipo molto attento. Lo prendevamo in giro per il suo nome con giochi di parole: «Picche a Peckinpah che picchia e pecca».
Leggeva molto – il Time e libri di cui gli altri non avevano mai neanche sentito parlare. «Leggeva libri di cui ignoravo l’esistenza», dice Mike Fitzgerald. «Non sapevo nemmeno chi fosse [F. Scott] Fitzgerald. E lui mi diceva che aveva letto quasi tutti i suoi libri». Ma una volta conosciuto meglio, Sam rivelava un lato più deciso. Fitzgerald ammazzava spesso il tempo discutendo di politica della Cina postbellica con Sam. «Era molto acuto. Molto polemico. Aveva sempre dei buoni argomenti». Nella foga di uno dei loro scontri, Sam cacciò improvvisamente un pezzo di carta dal suo bauletto, si alzò e lo lesse come se fosse una proclamazione ufficiale. «Fitzgerald, non capisci niente!», annunciò prima di accartocciare il foglio. La maggior parte dei soldati evitava i lavori in cucina come la peste; le lunghe, calde ore in un’unta cucina rendevano il turno di guardia quasi allettante. Sam, al contrario, fece molte pressioni pur di avere l’incarico di pulire i forni e gli enormi fornelli a benzina. Il ruolo aveva i suoi benefici, che però si era creato da solo. «Avevo il mio mercato nero personale», spiegò dopo. «Vendevo benzina rettificata ai cuochi dei ristoranti di Tientsin. Benzina e sigarette». Sebbene la loro missione ufficiale fosse quella di disarmare e rimpatriare i giapponesi, divenne subito chiaro ai marines che il governo li stava usando anche per sostenere il regime nazionalista di Chiang Kai-shek. Quando i giapponesi avevano invaso la Cina nel 1937, i nazionalisti e i comunisti di Mao Tse-tung unirono le forze contro di loro. Ma ora, sconfitti gli invasori, le due fazioni avevano ricominciato a scontrarsi. L’inchiostro sui trattati di armistizio si era a malapena asciugato quando cominciò la guerra fredda. La Russia e l’America stavano cautamente posizionando i loro pezzi sulla scacchiera del terzo mondo. E Washington decise che gli Stati Uniti non potevano permettersi di lasciare che i comunisti prendessero il controllo della nazione più popolosa al mondo. I marines furono posizionati su ponti strategici, lungo le principali linee ferroviarie che collegavano Tientsin, Peiping e Chinwangtao e intorno alle miniere di carbone, vitali per
l’economia cinese. I marines occuparono virtualmente la città portuale di Tsingtao e tennero a bada i comunisti finché non fu possibile far transitare le truppe nazionaliste verso l’interno. Grandi riserve di armi e munizioni sottratte ai giapponesi furono consegnate alle forze di Chiang e intanto l’America faceva del suo meglio per mostrarsi come una disinteressata potenza neutrale nel conflitto tra le due fazioni cinesi. Inizialmente sembrò che il piano funzionasse; i nazionalisti consolidarono la loro presa sulla Cina settentrionale. Fu un bene che i marines fossero alloggiati nei vecchi consolati britannici a Tientsin e Peiping. Per oltre un secolo gli inglesi, i francesi, i tedeschi e i giapponesi si erano contesi la preminenza in Cina, sia per mezzo di strategiche «sfere di influenza» che di aperte conquiste. Ora che i francesi e gli inglesi erano esausti, sembrava che l’America potesse finalmente prendersi la torta tutta per sé. Se avessero vinto i nazionalisti, sarebbe stato possibile tornare ai bei vecchi tempi in cui potenze straniere controllavano il commercio cinese attraverso una serie di mandatari – capi militari, commercianti, politici locali. Solo che stavolta sarebbe stato Zio Sam a muovere i fili. Negli Stati Uniti i media illustravano l’incipiente guerra civile come una battaglia tra le atee orde rosse di Mao Tsetung e i nobili combattenti per la libertà di Chiang Kai-shek. Invece, per i marines in Cina, le due realtà non erano così nettamente definite. «Avevamo nazionalisti tutto intorno a noi», ricorda Craig Carter. «Vedevamo come gli ufficiali trattavano i loro uomini. Gli ufficiali nazionalisti vivevano in città. Non andavano nemmeno sul campo di battaglia con le loro truppe. Vivevano come capi militari». Centinaia di migliaia di contadini cinesi furono obbligati a unirsi all’esercito nazionalista, ma pochi volevano combattere. Mentre i loro generali passavano in rassegna soldi e scorte sgraffignate, loro erano mal equipaggiati e malnutriti. «Fummo attaccati da una pattuglia a motore sulla strada tra Tientsin e Peiping», ricorda Carter. «Il New York Times lo descrisse come un attacco comunista. In realtà, si trattava di
nazionalisti affamati. Volevano rubare le armi e la benzina per rivenderle in cambio di cibo». Anche i comunisti erano altrettanto a corto di provviste, ma disponevano in abbondanza di un elemento cruciale che mancava ai nazionalisti: l’idealismo, il sogno di un mondo migliore. Nel 1945 e 1946 molte delle battaglie furono condotte per munizioni, cibo, carburante e armi depositate in centinaia di località sparse nella Cina settentrionale. Alcune di queste cose erano state lasciate dai giapponesi, altre erano nuove spedizioni, foraggiate dalle Nazioni Unite e dal piano Marshall. I marines finirono a far la guardia a buona parte di queste, trovandosi perciò sotto attacco, molto spesso da parte dei comunisti. Ci furono un po’ di brutte schermaglie, ma mai più di mezza dozzina di marines restava uccisa nelle singole azioni. Generalmente i comunisti battevano in ritirata ai primi segni di dura resistenza. «Nella maggior parte dei casi non erano che mosse per sondare», afferma Carter, «ci stavano mettendo alla prova. È una vecchia regola militare quella di non perdere mai il contatto col proprio nemico». Durante i primi mesi in Cina, i marines si trovarono in difficoltà nel proteggere tutte le linee ferroviarie e le scorte di munizioni; paradossalmente, dovettero chiedere aiuto ai giapponesi. Fu chiesto ai presidi giapponesi di restare armati e di mantenere il controllo sui centri ferroviari e le città strategiche per evitare che cadessero nelle mani dei comunisti, e i soldati giapponesi furono messi di guardia fianco a fianco con i marines. «Era strano», dice Mike Zownir, un marine che aveva combattuto a Okinawa. Sam Peckinpah fu messo di guardia su molti treni che collegavano Tientsin e Peiping. La maggior parte delle corse fu movimentata – lunghi, lenti, caldi viaggi, contadini cinesi e i loro bagagli stipati in ogni centimetro di spazio libero, alcuni addirittura appollaiati sui tetti delle carrozze. Di tanto in tanto i comunisti, o qualche altra fazione, sparavano contro il treno in corsa e un proiettile infrangeva un
finestrino, vibrava attraverso la carrozza e fuoriusciva dall’altro lato. A volte i marines rispondevano al fuoco alla cieca, incapaci di identificare gli assalitori nell’indistinta campagna. Il più delle volte i comunisti non volevano davvero tentare di fermare il treno; era come un gioco, due eserciti annoiati che sparavano a casaccio l’uno sull’altro. Ma il gioco poteva avere conseguenze letali, come scoprì Sam il giorno in cui un proiettile squarciò un finestrino e trapassò il passeggero cinese che sedeva lì accanto, uccidendolo sul colpo. Peckinpah la definì in seguito «una delle più lunghe frazioni di secondo» della sua vita. Quando un altro proiettile si schiantò contro la carrozza, tutti si buttarono a terra. «Ricordo il momento in cui mi accasciai e mi sembrò lunghissimo…», ricordò in seguito Sam. «Notai che il tempo si era come dilatato». Aveva scoperto l’istante eterno. Trovava affascinante come un momento traumatico si distendesse, come ogni dettaglio sensoriale si amplificasse e ogni movimento si prolungasse – come nel momento più vicino alla morte si sentisse tutto più intensamente, perfino con una bizzarra sorta di euforia. Questi combattimenti, però, furono piuttosto rari nei primi mesi trascorsi dai marines in Cina, un’eccezione più che la regola, e la libertà a Tientsin e Peiping offriva ampie compensazioni. Per un po’ sembrò il ritorno dell’età dell’oro prima della guerra, quando il servizio in Cina era considerato il miglior incarico cui un marine potesse aspirare. Centinaia di saloon delineavano le strette, tortuose strade di Tientsin e Peiping. Spaziavano da sale cocktail all’americana a spogli bugigattoli dove un’asse non ammobiliata poggiata su un paio di barili fungeva da bar. La birra Five Star era la miscela più popolare. C’erano anche champagne e tantissima vodka russa. Nelle bettole si rischiava di ingerire letali miscugli fatti in casa. «Alcuni erano invecchiati quattro giorni», dice Craig Carter. «Altri non erano che alcol metilico puro colorato con creosoto o infusi al tabacco per farlo somigliare al whisky americano. L’alcol ti faceva ubriacare e poteva ucciderti. Gli agenti inquinanti che i
cinesi aggiungevano in quella roba per farla sembrare whisky, scritto proprio wysky, ti avrebbero certamente ucciso». Quasi altrettanto abbondanti e facili da acquistare erano le donne. La povertà disperata dopo anni di guerra facilitava la cosa. «I ragazzi offrivano sigarette in cambio di pompini», dice Carter. «Qualsiasi barista, qualsiasi sbirro poteva procurarti una donna», dice Tom Dowlearn. «Erano dappertutto». C’erano Emigrate Bianche provenienti dalla Russia, scultoree mancesi, euroasiatiche dalla pelle olivastra e un’abbondante scorta di quindicenni e sedicenni, snelle, slanciate e dalle curve sinuose. Praticamente a Tientsin se ne potevano trovare di tutti i tipi nel maestoso emporio della carne «La Casa dei Diecimila Coglioni», così ribattezza dai marines per assonanza con il palazzo d’estate, «Il Monastero dei Diecimila Buddha». Se lo stabilimento aveva un vero nome, gli americani non lo conoscevano. Il diroccato e decadente edificio a sette piani fu frequentato da una serie di eserciti: quello giapponese, quello francese, quello inglese. Per quanto ne sapevano, poteva anche risalire ai Mongoli. «Entravi, salivi le scale e vedevi ragazze senza mutande», ricorda Tom Dowlearn. Le stanze erano tenuamente illuminate da piccole lampadine tremolanti e puzzavano di sulfureo fumo di carbone; l’intonaco aveva le bolle e si sfaldava dai muri e dal soffitto. Peckinpah era perfettamente a suo agio nei bar e nei bordelli di Tientsin. Erano il paradiso maschile che aveva tanto sognato sedendosi vicino al camino del nonno quando era piccolo – tutte le bevute, le donne e le scazzottate che un uomo potesse desiderare. Ma quella sua attrazione scaturiva da qualcosa di più della semplice opportunità di lasciare spazio libero al proprio Es. In quei fatiscenti saloon e in quelle anguste camere da letto si nascondeva qualcosa di oscuro e disperato, una visione della vita agli sgoccioli. Tra i soffocati gemiti carnali, le nude palpate, trapelava insieme al fumo di
carbone un fetore di morte. Nemmeno gli arti lisci e snelli di una sedicenne potevano allontanarlo, e con l’avvicinarsi del 1946 l’olezzo diventava sempre più forte. «Una volta io e Peckinpah ci trovavamo in un bordello quando i nazionalisti cominciarono a battere alla porta», ricorda Mike Fitzgerald. Le truppe nazionaliste generalmente irrompevano in posti del genere armati e buttavano giù le porte. Noi eravamo in questa stanza, loro si misero a picchiare alla porta e noi aprimmo. Cercavano spie». La guerra civile si stava scaldando e allo stesso tempo si ampliava sempre di più la distanza tra l’immagine creata ad arte da Stars and Stripes dei nazionalisti come difensori della democrazia e la realtà a cui assisteva la maggior parte dei marines. Esecuzioni pubbliche e torture delle spie divennero uno spettacolo abituale. «Le esecuzioni avevano luogo il sabato mattina», ricorda Fitzgerald. «Li legavano con una corda e gli sparavano». Leo Cardarelli assistette a una decapitazione pubblica. «Chiang Kaishek e i suoi soldati lo facevano spesso. Decapitavano la gente per un furto, per qualsiasi cosa. Quella in particolare avvenne in un recinto. Mi ci trovai per caso, c’era anche un altro gruppo di ragazzi. Mi innervosì molto. Fecero semplicemente inginocchiare il tipo e lo colpirono con una stramaledetta spada… Non voglio vederli mai più. Erano dei bastardi. Chiang Kai-shek non era altro che un dittatore». L’effetto che questo caos morale ebbe su alcuni marines fu ancora più inquietante. Le vite cinesi cominciarono a essere svalutate esattamente come la loro moneta e in alcuni americani risalì presto in superficie una brutalità latente. «Credeteci o no, avevamo degli idioti sui treni», dice Dowlearn, «che cacciavano le rivoltelle per vedere quanto arrivassero vicini a colpire quei poveri coolie che lavoravano nei campi». Peckinpah raccontò a un intervistatore della rivista Life nel 1972: «Un altro marine mi disse – si vantò con me – di aver scaraventato una donna cinese sul marciapiede e di averla
stuprata, di aver sbattuto la sua testa contro l’asfalto e di averla lasciata incapace di muoversi, dopo aver finito con lei. Io ero stato praticamente adottato da una famiglia cinese, per cui decisi che lo avrei ucciso. Uscii, rubai una pistola, una pistola russa, e mi offrii di vendergliela. Sai, la mentalità del souvenir. Quando gliel’avessi venduta, lo avrei ucciso. Gli avrei messo la canna della pistola proprio sotto il mento e avrei sparato. La sera prima del nostro incontro lo incontrai ed era completamente cieco. Aveva bevuto del whisky andato a male. Se non fosse stato per questo, sarei in prigione ora». Provocato da un atto di barbarie, era arrivato a un pelo dal commettere un’ulteriore barbarie. Doveva sentirsi in colpa perché non aveva ucciso l’aguzzino o perché lo aveva desiderato? Le certezze morali impartitegli da suo padre al tavolo da pranzo, le semplici distinzioni tra ciò che era giusto e sbagliato non potevano più essere applicate. La guerra buona era diventata cattiva e nessuno aveva ben capito come e perché. Quando il suo battaglione si spostò a Peiping nella primavera del 1946, Sam Peckinpah smise presto di accompagnare i suoi commilitoni nelle loro uscite per alcol e donne. Aveva cominciato a interessarsi allo Zen e a fare amicizia con una ragazza cinese di buona famiglia. Il suo nome inglese era Helen. «La conobbe giusto prima di tornare in America», dice Marie Selland, la sua prima moglie. «Era una giovane comunista, molto interessata alla politica. Perse completamente la testa per lei. Odiava il fatto di doverla lasciare. [Ai membri delle forze armate era proibito sposarsi con i cinesi. Sam chiese un congedo a Peiping ma gli fu negato.] Parlava inglese molto bene. Avevano molto di cui parlare. Lui aveva una sua fotografia e non era affatto come ci si aspetterebbe che fosse una delle donne di Sam. La foto raffigurava una giovane, bellissima donna cinese, ma con grandi occhiali e una felpa pesante, con l’aria molto seria». Parlava della visione marxista delle persone che stavano subentrando ai loro oppressori, di far fuori tutti gli imperatori e i signori della guerra, di una terra in cui tutti potessero vivere
in armonia e fratellanza. Non lo convertì. Il marcato credo individualista dell’Occidente americano gli era stato inculcato troppo nel profondo perché potesse mai sviluppare il desiderio di diventare un anonimo membro di una collettività, e aveva ormai visto troppo del lato oscuro della natura umana per credere sinceramente che un’utopia potesse nascere dalle mani dell’uomo. Ma il sogno, la disperata brama di un mondo migliore, quelle cose le comprendeva. Dalla Casa dei Diecimila Coglioni alle braccia di una madonna marxista, dai signori della guerra e gli squadroni della morte ai comunisti con il loro sogno di redimere la specie umana, passando per i contadini che non chiedevano nulla più di una possibilità di sopravvivenza… Sam Peckinpah lasciò la Cina alla fine del 1946 senza tacche sulla sua pistola, né medaglie sul petto, e con il solo grado di caporale sulla manica. Eppure rientrò a Fresno con una visione che si era espansa ben oltre i confini della Peckinpah Mountain e del Dunlap Ranch, e vessato dalla sconcertante doppia natura insita in lui e nei suoi simili.
2
L’INTRUSO PRODIGIO
Sam Peckinpah era partito per la Cina nell’autunno del 1945 da ragazzo e tornò un anno dopo da uomo. Ma come gli altri cinque milioni di militari che tornarono a casa in quell’anno, non aveva ancora idea di cosa volesse fare nella vita. Sapeva, però, quello che non voleva fare: iscriversi a giurisprudenza e praticare la professione con suo padre e suo fratello. Tuttavia, nel giro di qualche mese un capriccio della sorte, o forse un paio di belle gambe, lo condusse verso il lavoro della sua vita. Le gambe erano quelle di una piacente giovane bionda, Marie Selland. Sarebbe diventata il suo primo, grande amore. Il secondo grande amore, però, si dimostrò da subito un temibile rivale: la sedia da regista. Cominciò la professione agli albori della più innovativa ed eccitante era che Hollywood avesse vissuto dalla nascita dei film muti. Una piccola scatola elettronica diede il via alla rivoluzione. Mandò in frantumi la struttura hollywoodiana del potere e permise a un’intera nuova generazione di registi di irrompere tra le crepe. Un decennio dopo avrebbero ridefinito il cinema americano. Quando D. Sammy tornò nel 1946, l’umore della famiglia fu inizialmente estatico. Il 28 novembre Fern scrisse nel suo diario: «È quasi la mezzanotte del primo Ringraziamento dopo la guerra e il mio cuore è colmo di gioia e gratitudine e io mi sento così umile e grata. È stato bellissimo guardare i volti sorridenti mentre eravamo tutti raccolti intorno al tavolo ad aspettare che David tagliasse il tacchino di dieci chili. Sammy
[…] sembrava così felice lì, all’altra estremità del tavolo, tra le sue due bellissime cuginette. Tutte e tre le ragazze erano davvero graziose e, oh, è stato un giorno meraviglioso!» Ma dopo che l’euforia iniziale si fu esaurita, riadattarsi si dimostrò difficile per Sam. Dopo tutto quello che aveva visto e vissuto, non era facile tornare ai calmi confini della vita domestica. Sua madre e suo padre avevano proibito il fumo e l’alcol in casa. Lui e Denny avevano sviluppato un certo appetito per entrambi durante il servizio e Sam cominciò a seguire suo fratello maggiore sulle cascate vicino Bass Lake, dove gli amici di Denny – i fratelli Williams – possedevano un nightclub, il Timber Room. Offriva alcol a volontà, slot machine e tutta l’azione che un marine di rientro dalla Cina potesse desiderare. «Babe Williams gestiva il posto», ricorda Denny. «Aveva una faccia da bambino, ma era uno tosto. Ricordo che una notte ci fu una rissa sulle scale esterne che conducevano al club. Babe prese la testa di questo tizio e cominciò a sbatterla sui gradini. Sbatteva la sua testa e urlava: “Io sono il capo, figlio di puttana! Io sono il capo!”» Inutile dire che Fern Peckinpah non approvava. Alla vigilia del capodanno del 1947 scrisse nel suo diario: «Prima di partire non gli interessava nulla delle cascate e di tutto quello che c’è lì intorno, ma ora è completamente disorientato, povero bambino! […] Quattro anni fa, quando è andato via da casa, era uno dei più bravi ragazzi della zona, con quei modi eccellenti in ogni cosa che faceva… Cerco di non abbattermi troppo, ma di capire ed essere positiva. Non è affatto facile perché non riesco a fare a meno di ricordare i suoi bellissimi occhi annebbiati dall’alcol, i passi incerti e i discorsi sconclusionati tra le lacrime. Di tutte le persone che amo al mondo, Sam è l’ultima che riesco a credere di aver visto in simili condizioni. È così difficile da accettare!» Quell’inverno il college di Fresno organizzò una raccolta fondi per carnevale. Crearono un percorso con giochi di freccette, indovini, gare di «addenta la mela» e un varietà ispirato ai meravigliosi anni Novanta dell’Ottocento, prodotto dai membri del dipartimento teatrale. Quella notte, anziché
andare alle cascate, Sam vagò lungo quel percorso, ritrovandosi allo spettacolo. Una robusta ragazza dai capelli ramati suonava a un pianoforte verticale un motivetto della Tin Pan Alley mentre un’altra, con lunghi capelli biondi raccolti e gambe ancora più lunghe ricoperte di seta nera, cantava «She May Have Seen Better Days». La cantante aveva zigomi alti e tratti decisi e spigolosi. I grandi occhi nocciola erano caldi e malinconici, con un’intelligenza triste che non rispecchiava i suoi anni; eppure allo stesso tempo sembravano distanti, come uno strano animale che puoi fissare e fissare senza mai coglierne realmente la natura. Le lunghe braccia sottili e le dita si muovevano nell’aria mentre cantava, in modo forzato e innaturale, eppure in qualche modo magnetico. Ma alla fine furono le gambe – quei polpacci e quelle cosce slanciate e dalle curve sinuose che si estendevano verso le corte frange del suo vestito – a conquistare il cuore e gli ormoni di Sam. «Marie aveva un corpo stupendo», ricorda Marian Dysinger, la ragazza al piano verticale. «A Sam bastò una sola occhiata a quelle gambe irresistibili. Disse in seguito di non aver mai davvero apprezzato Marie finché non la vide in quello spettacolo, e che non gli restava altro da fare che provare a conoscere meglio quel bel paio di gambe». Si conoscevano da anni, avevano frequentato la Fresno High insieme, ma non si erano scambiati più che brevi cenni nei corridoi. Anche Marie Selland veniva da un’illustre famiglia di Fresno. Suo padre, Art Selland, era un agente di cambio di successo, membro dell’Exchange Club e del consiglio scolastico, e più tardi sarebbe diventato il sindaco della cittadina. La famiglia viveva in una bellissima casa coloniale di due piani a pochi isolati dal campus. Come Sam, anche Marie aveva partecipato alle recite scolastiche, ma il suo non era un mero flirt nei confronti del teatro, bensì un amore travolgente. Cominciò a recitare in quarta elementare. A scuola stavano studiando la Cina e ogni studente doveva presentare un progetto sul tema – carte topografiche, relazioni orali o scritte, grafici a torta, eccetera.
Marie e i suoi compagni decisero di creare una commedia su una famiglia americana in visita in Cina. I suoi amici interpretavano gli americani, mentre Marie impersonava tutti i personaggi cinesi, dalla giovane e timida contadina all’anziana signora dai piedi fasciati. Da quel momento, recitare divenne la sua ossessione. Trascorreva infinite ore insieme ai suoi amici in cortile a inventare recite basate su miti greci o altri soggetti storici che studiavano in classe. Al penultimo anno prese la sua prima vera lezione di recitazione. Non solo aveva una parte in quasi tutti i saggi scolastici, ma fondò un club teatrale insieme ad altri studenti. Si incontravano a casa di uno di loro dopo scuola e organizzavano e inscenavano le loro produzioni. Alle superiori cominciò a fumare e si esercitava per inalare con il polso piegato, allo stesso modo sofisticato del suo idolo del tempo, Bette Davis. Interpretò una madre di famiglia tedesca in Letters from Lucern, un’opera teatrale ambientata in una scuola svizzera per ragazze durante la seconda guerra mondiale, e fu Kitty Duvall, la prostituta dai sogni infranti in The Time of Your Life di William Saroyan. Il teatro offriva a Marie una via di fuga dall’intensa timidezza e dalla tendenza all’autocritica che spesso la inibivano nei contesti sociali; libertà di esprimere tutte quelle emozioni che teneva normalmente nascoste ai suoi coetanei, per scivolare nella pelle di un’altra persona e vedere il mondo attraverso occhi diversi. Fece un tour in Massachusetts con una compagnia teatrale dopo essersi diplomata nell’estate del 1945, quindi, in autunno, si iscrisse alla Fresno State, dove un piccolo dipartimento di Teatro prosperava sotto la direzione di John W. Wright. Suo padre supportava le sue ambizioni artistiche, ma sua madre Cecilia riteneva che la figlia perdesse il suo tempo. «Sai che alla fine dovrai sposarti e avere dei figli, quindi perché prenderti tanto disturbo?»
«No!», rispondeva una Marie infuriata. «Non lo farò mai!» Anni dopo, leggendo i diari di sua madre, Marie scoprì che anche Cecilia aveva recitato come protagonista nelle recite scolastiche e aveva avuto un’autentica passione per il teatro finché non era rimasta incinta ed era di conseguenza stata costretta a sposarsi. «I suoi sogni morirono», dice Marie. «Quindi forse voleva preservarmi dal restare anch’io delusa come lei. Non c’era posto per i sogni sul teatro, nel mondo di mia madre». Ma ora il mondo era cambiato, o così sembrava. Durante la guerra milioni di donne erano andate a lavorare in fabbriche e uffici nel fronte interno o in uniforme oltremare. Avevano dimostrato di essere capaci quanto gli uomini, se non di più, e sembrava che le barriere di genere, fino ad allora rigidamente definite, stessero crollando, aprendosi a nuove possibilità. Perché non diventare un’attrice se era quello che volevi? Dove stava scritto che eri condannata dalla nascita a una vita di cucina, pulizie e cambi di pannolini? Marie divenne presto una star alla Fresno State – una talentuosa, versatile attrice capace di interpretare ruoli da protagonista o di coprire un’infinità di parti, ognuna diversa dall’altra. «Tutti pensavamo che Marie fosse speciale», afferma l’ex compagno di scuola T. Elton Foreman. «Era l’attrice della Fresno State – quel tipo di persona che non ti colpisce particolarmente in un contesto sociale, ma che sul palco prendeva letteralmente vita». «Aveva una grande capacità di concentrazione e intensità», dice uno dei suoi insegnanti al college, Howard Campbell. «Riusciva a farsi prendere dal personaggio e diventare quel personaggio mentre era sulla scena». Nel privato era «signorile, eterea, insomma, una Desdemona», dice un altro ex studente, Jim Baker. «Era una pre-hippie, con lunghi capelli biondi che raccoglieva in trecce. Indossava vestiti lunghi e un po’ demodé: una pre-beatnik addirittura».
«Era un’anticonformista», dice l’ex compagno di scuola Dick Lewis. «Le cose materiali non la interessavano affatto. Sarebbe tranquillamente andata in giro scalza per la Fresno State. Anche Sam era così. Se mai due persone sono state fatte l’una per l’altra, quelle erano Sam e Marie». Marie si era appena lasciata con il suo ragazzo quando Sam la vide nel varietà sui meravigliosi anni Novanta. Qualche giorno dopo, una ragazza che Sam frequentava propose a Marie un’uscita a quattro con loro e un amico di Sam che aveva appena terminato il servizio militare. Non serve chissà quale intuito per capire da chi fosse partita la proposta. Marie accettò e i quattro andarono insieme in uno dei ritrovi locali del campus per cena. La chimica fu potente e immediata. «Io e Sam attaccammo discorso», ricorda Marie e, con grande sgomento dei loro rispettivi compagni, «la conversazione continuò per tutta la serata. Parlammo di libri e poesie. Era incredibilmente preparato. Dio, era così insolito trovare una persona come lui. Parlammo di Rupert Brooke, un poeta che scrisse durante la prima guerra mondiale. Parlammo di Steinbeck. A Sam piaceva moltissimo». Cadde subito nell’incantesimo. I capelli di Sam si erano scuriti e li aveva tagliati corti, con l’effetto di assecondare l’affascinante disegno del suo cranio. I baffi che aveva fatto crescere in Cina erano stati rimodellati fino a diventare una sottile linea alla Clark Gable sul labbro superiore. «Era uno degli uomini più belli che avessi mai visto. Aveva l’aria di un poeta. Adoravo i suoi sentimenti per le montagne e la natura. Probabilmente rifiutavo di vedere gli intimi conflitti che si portava dentro, un rifiuto che durò per molto tempo». Da quella sera divennero inseparabili. Sam poteva essere più preparato sulla letteratura, ma Marie conosceva il teatro. Attraverso di lei Sam riscoprì i semi della sua antica passione, piantati durante le recite scolastiche e mezzo dimenticati nella lunga onda che dall’accademia militare San Rafael lo aveva portato nei marines e in Cina. Marie parlava continuamente
della recitazione e dei suoi drammaturghi preferiti. Più la voce e i gesti di lei erano animati dall’eccitazione, più lui sentiva il suo stesso battito accelerare, e cominciò a lasciarsi andare a pensieri che non avrebbe mai preso sul serio prima di allora. «La loro relazione era diventata la favola di tutto il college», dice l’ex compagno di scuola George Zenovich. «Stavano sempre insieme. Lei aveva un’enorme influenza su di lui». «Erano semplicemente raggianti quando erano insieme», ricorda Fern Lea. «Si tenevano sempre per mano, si toccavano sempre. Era palese quanto fossero innamorati». Quando Marie tornò alla Fresno State a febbraio per cominciare il secondo semestre, Sam la seguì. Si iscrisse a un corso di storia – una concessione verso suo padre, che ancora sperava in un suo passaggio a giurisprudenza. Fece una concessione anche a sua madre. Le promise che avrebbe smesso di bere. «Fremo di gioia e voglio ricordare questo giorno per sempre», scriveva Fern nel suo diario. «Negli ultimi cinque mesi ci sono stati dei momenti piuttosto brutti da affrontare, ma ora sono finiti. Credo in lui al 100%». Fu il primo anello di una lunga catena di promesse infrante che si estese lungo tutta la sua vita. Per il momento, comunque, i suoi genitori erano contenti e quando Sam arrivò al primo giorno di corsi alla Fresno State lo fece in una Jeep di seconda mano che gli aveva comprato suo padre. Ma anziché seguire i corsi di storia, premette per essere ammesso a un corso di regia teatrale tenuto da Howard Campbell – un giovane docente progressista che Mary idolatrava. «Non volevano ammetterlo», ricorda la donna. «Non aveva mai studiato teatro e quello era un corso avanzato. Tuttavia aveva molti crediti universitari [accumulati seguendo corsi alla Arizona State mentre era nei marines] per cui alla fine lo ammisero, ma gli altri studenti lo guardavano dall’alto in basso».
«Prima o poi tutti ci avevamo provato con Marie», dice Dave Parker, un ex membro del dipartimento teatrale di Fresno. «Poi arriva questo intruso, nemmeno studente di teatro, e Marie si innamora di lui. Tutti lo guardavamo con disprezzo. Era ovvio che non potesse avere alcun talento». Per le prime settimane Sam si sedette in fondo e osservò, partecipando raramente alle discussioni di gruppo. Alcuni compagni leggevano questa reticenza come apatia. Sembrava assolutamente calmo, quasi disinteressato. Ma sotto la facciata, la sua mente lavorava furiosamente, assorbendo le parole del docente, studiando tutte le possibilità che queste suggerivano. «Howard Campbell era molto intellettuale, molto cerebrale», ricorda Marie, «ma anche molto interessante. Era uno di quegli insegnanti che ispirano davvero nuove idee. Ci fece conoscere moltissimi drammaturghi che non avevamo mai letto, francesi e italiani – Pirandello in primis. Ci fece capire che non dovevamo pensare solo a dire la nostra battuta e a fare un’interpretazione. Dovevamo esplorare il personaggio. Leggevamo Stanislavskij, Boleslavs’kyj. Ci insegnò a cercare il personaggio, a cercare la verità in un’opera». Come primo compito, ogni studente doveva dirigere una piccola scena. Sam reclutò due attori e cominciò a lavorare a un estratto dalla versione teatrale di Uomini e topi. Si svolgeva in un fienile. Lennie, il gigante ritardato, ha involontariamente ucciso un cucciolo e sta cercando di seppellirlo sotto una balla di fieno quando viene scoperto dalla seducente ma pericolosa nuora del proprietario del ranch. Nel corso della scena, la ragazza invita Lennie ad accarezzare i suoi lunghi capelli biondi: «Qui, tocca qui. Tocca proprio qui e senti quanto sono morbidi». Incapace di controllare l’ondata di passione, Lennie finisce per strangolarla. Lennie sarebbe stato il primo di molti innocenti omicidi ad apparire nei lavori da scrittore e regista di Peckinpah. Nei suoi copioni per il cinema e la televisione ne appaiono continuamente: uomini-bambini, incapaci di capire e inserirsi nel complesso e corrotto mondo che li circonda, e che pure
nascondono anch’essi il seme demoniaco della violenza. «Credo che Sam pensasse questo di sé», dice Marie. «Che non fosse mai al posto giusto, che in qualche modo non fosse “inserito”, che fosse una cosa a parte. È sempre stato una persona molto sola, anche in mezzo agli altri». William Walsh, l’attore che interpretava Lennie, ricorda vividamente il modo in cui Peckinpah lo diresse. «Fino a quel momento alla Fresno State ci avevano insegnato a recitare come fosse una ripetizione meccanica. A tutti veniva proposto di interpretare un dato ruolo con la stessa identica impostazione, lo stesso ritmo e la stessa intonazione vocale, per cui tutti alla fine recitavano e suonavano alla stessa maniera». Ma Peckinpah aveva ascoltato molto attentamente il consiglio di Campbell di optare per un nuovo approccio, e moriva dalla voglia di provarci lui stesso. «La mia esperienza con Sam fu completamente diversa da qualsiasi cosa avessi mai fatto prima», dice Walsh. «Ti dava libertà d’azione. Avrei potuto fare la scena diversamente a ogni prova e non gli sarebbe importato, anzi ti incoraggiava a farlo. Ricordo che la sua regia era a ruota libera. Il mio cucciolo non era che il mio maglione giallo appallottolato. Cominciammo a usarlo un paio di giorni prima di fare la scena per il corso. Continuavo a dire: “Dobbiamo trovare qualcosa di meglio. Nessuno ha un peluche o qualcosa del genere?…” E Sam continuava a ribattere: “Non ti preoccupare, se prepariamo bene la scena nessuno riderà quando tirerai fuori il maglione giallo”». Qualcosa negli occhi penetranti di Peckinpah spense le proteste di Walsh; qualcosa nell’ipnotica cadenza della sua voce bassa rese, all’improvviso, terribilmente importante compiacere quell’uomo. «Non so come fece. Non so come mi condusse a tanto. Continuava a dirmi che io e lui sapevamo che quello era un maglione, ma Lennie no. Lennie sapeva che quello era un piccolo animale e, se Lennie sapeva questo, anche il pubblico lo avrebbe saputo. Mi ero rivolto all’oggetto tenendolo fuori dalla vista del pubblico e guardandolo. Quando poi me lo
portai in grembo perché potessero vederlo, sapevano già che si trattava di un animale e reagirono come se avessero visto il corpo spezzato di un piccolo animale. Cioè, funzionò. Fu questione di un attimo, e pensai: Dio mio, come abbiamo fatto a riuscirci?» «Fu notevole», dice Mary. «Tutti ne restarono colpiti. Non riuscì solo a tirare fuori le emozioni dall’attore, usò anche la luce delle due finestre sul fondo di quella piccola zona del palco. Nel tardo pomeriggio, da una di quelle finestre filtrava una luce particolare, quando il sole colpiva un certo punto. Sam la usò in un modo impressionante. C’erano solo un paio di sedie lì sul palco spoglio, ma vidi il fienile dove si trovavano, vidi il cucciolo. Ero là. Fu un momento indimenticabile per il teatro. Era solo un esercizio accademico, non aveva avuto alcun tipo di preparazione. È per questo che fu così straordinario e ci irritò tutti a morte, soprattutto gli uomini». Dopo la scena Sam si mostrò entusiasta: continuava a commentare ogni dettaglio fino allo sfinimento. L’infatuazione fu istantanea e continuò fino al giorno della sua morte. Cominciò a leggere opere teatrali una dopo l’altra, seguendo i consigli di Marie, di Howard Campbell e dei suoi compagni: Čechov, Brecht, Shaw, Saroyan e, soprattutto, Williams. Le opere del giovane drammaturgo furono una vera rivelazione per lui. Lo zoo di vetro era andato in scena a Chicago per la prima volta solo l’anno prima. Come Arthur Miller, che avrebbe presentato Morte di un commesso viaggiatore a Broadway due anni dopo, Williams apparteneva a una nuova generazione di drammaturghi che erano andati oltre il crudo realismo di Eugene O’Neill. L’audace combinazione, da parte di Williams, di una messa in scena espressionista, un dialogo carico di lirismo e acuti dettagli psicologici creò un poetico iperrealismo che accese l’adrenalina nell’immaginazione di Peckinpah. E ovviamente il tema e i personaggi dello Zoo di vetro gli suonavano familiari. La madre manipolatrice e maniaca del controllo, Amanda; suo figlio, Tom, che desidera fuggire dai
soffocanti confini della loro casa, ma è torturato dal senso di colpa per la sua slealtà nei confronti della famiglia; e Laura, emotivamente instabile, storpia, troppo delicata, troppo diversa per trovare il suo posto in questo mondo. «Si identificava molto in Tom», sostiene Marie, «tormentato dal passato […] il suo vagare privo di radici […] il rapporto con la madre». Tom era in un certo senso una rielaborazione sofisticata e complessa dell’eroe western: un solitario che incarnava i dissonanti impulsi del maschio americano, attirato dalla sicurezza della casa e della famiglia eppure allo stesso tempo insofferente e desideroso di allontanarsene. Mentre gli altri studenti del suo corso di regia si accontentavano di informali prove generali di piccole scene, per il suo successivo progetto Sam si accinse a rivedere e riscrivere Lo zoo di vetro per portarlo sul palco del dipartimento teatrale come dramma in un atto. «Credo di aver imparato da Williams più che da chiunque altro», avrebbe detto in seguito. «È indubbiamente il più grande drammaturgo americano. Mi ha sempre toccato nel profondo… Credo che tagliare Lo zoo di vetro mi abbia insegnato molto di più di qualsiasi altra cosa abbia mai fatto». Prendere del materiale già esistente e riscriverlo sarebbe diventato il suo più grande talento da scrittore. Nella sua carriera televisiva e cinematografica avrebbe creato poche storie dal nulla, ma in compenso avrebbe sfoggiato un certo genio nel trasformare del materiale mediocre in qualcosa di straordinario. Dava nuova forma ai personaggi e al dialogo e modificava leggermente le scene e la struttura finché la visione, lo stile e per ultima la storia divenivano sue. Tutto ciò ebbe inizio con Lo zoo di vetro. Il prodotto finale sbalordì ancora una volta i suoi compagni. «Fu immediatamente palese che aveva un talento incredibile», dice Dave Parker. «La sua disposizione scenografica era sbalorditiva. Aveva una sensibilità per l’arte scenica e per tirare fuori certe interpretazioni dagli attori – un talento da Broadway».
All’improvviso il semestre finì. Era volato in un soffio, e Sam si trovò a dover affrontare tre mesi d’ozio a casa. Quella prospettiva gli procurava un’intollerabile sensazione di claustrofobia. Quando un paio di amici gli dissero che si stavano dirigendo a sud per frequentare un corso estivo alla National University of Mexico a Città del Messico, colse al volo l’opportunità di andare con loro e si offrì di accompagnarli con la sua Jeep. «Gli riusciva difficile vivere a casa dopo l’esperienza nei marines», afferma Fern Lea. «Non poteva far fronte a tutte le regole e le restrizioni. Il Messico era la sua occasione per scappare via». Non era nemmeno arrivato che subito i suoi amici lo abbandonarono in cerca di altre avventure, così si trovò da solo nella brulicante città sull’altopiano, armato di un’infarinatura di spagnolo imparato al liceo e già semidimenticato. Eppure, come in Cina, conoscere e stringere amicizia con le persone non fu per lui un problema. Sam riconobbe immediatamente un’incredibile somiglianza tra i contadini che vivevano nei labirinti delle baracche tutto intorno a Città del Messico e quelli di Tientsin e Peiping. Anche i messicani avevano dovuto sopportare una lunga serie di conquistatori – dagli Aztechi agli spagnoli, ai francesi, agli americani, ai loro stessi federales. Fu qui che Sam lesse la saga di John Reed sulla rivoluzione messicana, Insurgent Mexico, per la prima volta. Reed aveva l’acume per i dettagli del giornalista e la passione del poeta. Metteva vividamente a contrasto i sogni pastorali di Pancho Villa con le sue azioni sanguinose; descriveva eloquentemente la brutalità e la capricciosa crudeltà di entrambe le parti nella guerra, il caldo cameratismo e il romantico idealismo che univa i ribelli e che li spinse alla fine verso la vittoria. Peckinpah rimase affascinato dalla rivoluzione quanto lo era stato Reed stesso. In fin dei conti, il Messico era spacciato esattamente come la Cina, ma per qualche breve anno era sembrato quasi che la catena della tirannia fosse stata spezzata; per un limitato periodo tutti avevano creduto che fosse davvero possibile cambiare il mondo, alterare la natura
dell’uomo e salvare la specie umana da se stessa. Migliaia di persone avevano dato la vita per questo sogno. Il fatto che il sogno fosse irraggiungibile non faceva che rendere il sacrificio ancor più nobile, secondo il cinico/romantico punto di vista di Peckinpah. Il Messico e la sua lotta per la redenzione avrebbero serpeggiato continuamente nei suoi film per la tv e per il cinema, e avrebbe fatto da scenario principale della sua sceneggiatura per Viva! Viva Villa! e dei suoi film Sierra Charriba, Il mucchio selvaggio e Voglio la testa di Garcia. Peckinpah si trovava benissimo in questa terra di consunte piramidi azteche e fatiscenti haciendas spagnole, chiese cattoliche barocche e bordelli allo stesso tempo sciatti ed eleganti. Era una terra di irresistibili opposti. Quel popolo viveva la vita spontaneamente. Ballavano, bevevano, combattevano, facevano l’amore e uccidevano con frenesia; le loro imprevedibili emozioni passavano in un istante dalle lacrime e dalla tenerezza a una furia omicida. Questa terra a sud del confine fu a lungo una mecca per gli scrittori. Ambrose Bierce sparì per sempre nelle sue profondità durante la rivoluzione di cui Reed scrisse la cronaca. Gli autori della beat generation – Jack Kerouac, William Burroughs, Allen Ginsberg e Neal Cassady – fecero tutti dei pellegrinaggi lì più o meno nello stesso periodo di Peckinpah; il capolavoro di Malcolm Lowry, Sotto il vulcano, fu pubblicato quell’anno. «Il Messico ha sempre significato qualcosa di speciale per me», avrebbe detto Sam in seguito. «La mia esperienza messicana non è mai finita». Le lezioni che frequentò all’università furono insignificanti; le più importanti esperienze formative, Peckinpah se le trovò da solo. Dopo il libro di Reed cominciò a leggere le opere maggiori di Shakespeare. Sviluppò una grande affinità con gli imponenti ma anche imperfetti eroi dell’inglese. Ossessionati dal senso di colpa, combattuti tra impulsi bassi e nobili, destinati a tragiche fini – e quando alla fine cadevano, c’era grandezza in quella rovina. I racconti terminavano spesso in orge fatte di spargimenti di sangue e
distruzione, corpi inermi sulla scena, eppure ci si sentiva elevati, esaltati. Verso la fine dell’estate si unì a una compagnia teatrale indipendente e lavorò come assistente regista in una produzione di Joan of Lorraine di Maxwell Anderson. «Gli piacque molto quell’esperienza», dice Marie. «Il suo desiderio di fare carriera nel teatro si consolidò lì. Divenne molto, molto interessato a perseguirlo». Quando tornò a Fresno in autunno, trovò finalmente il coraggio di mettere suo padre di fronte alla realtà: non aveva mai seguito i corsi di legge e avrebbe cambiato corso di studio, perché puntava a una vita nel teatro. La notizia di certo non fece piacere a David Peckinpah, ma la prese bene. Sam ricordò in seguito: Fece a pezzi una delle copie della sua collezione di [Robert] Ingersoll. Ricordo che fece una citazione, una citazione di Ingersoll sul teatro come carriera: «Shakespeare è l’oceano intellettivo che tocca le rive di tutta la conoscenza». Mio padre disse: «È questo che vuoi fare?», e io dissi: «Sì, è quello che farò». E lui «Allora fallo». Mi incoraggiò e mi supportò. Disse che pensava mi sarebbe stato utile avere una formazione legale come alternativa [una frase che aveva usato per allontanare Denny dai suoi sogni di diventare scrittore]. Ma io avevo passato così tanto tempo ad ascoltare conversazioni sul diritto – cos’è giusto e cos’è sbagliato – e cominciavo ad avere le mie idee in merito.
Il supporto di David Peckinpah nei confronti del figlio non vacillò mai, ma allo stesso tempo non capì mai davvero questo strano desiderio del figlio. Era, comunque, già un miglioramento. Sam ora aveva uno scopo; almeno aveva smesso di vagare senza meta. «Papà credeva che Sam sarebbe finito a insegnare teatro da qualche parte in un’università o in un liceo», dice Fern Lea. «Almeno si sarebbe guadagnato da vivere. Nessuno aveva mai pensato che Sam potesse arrivare a lavorare nel cinema». Le sorprese di Sam per i suoi genitori non erano ancora finite. Tornando dal Messico quel settembre, la Jeep si guastò. La lasciò a una stazione di servizio in Arizona per farla riparare e tornò a Fresno in treno. Quando fu il momento di andare a riprenderla un paio di settimane dopo, chiese a Marie
di accompagnarlo. «Mia madre era via al mare con le mie sorelle, altrimenti non mi avrebbe mai lasciato andare», ricorda Marie. «Ero sola a casa con papà, che disse: “Be’, non ci sono problemi, credo. Ma lascia un biglietto a tua madre e spiegaglielo”». La giovane coppia partì in treno, recuperò la Jeep di Sam in Arizona e, senza dirlo a nessuno, si diresse a Las Vegas per sposarsi. «Passammo la luna di miele in un motel a Cucamonga e mangiammo hamburger come cena di nozze», ricorda Marie. «Mi diede un anello d’argento lucido che aveva preso in Messico come fede nuziale; in seguito ci fece incastonare uno smeraldo e due diamanti. Disegnò la composizione lui stesso». Quando tornarono a Fresno, tennero il matrimonio segreto. Sia i Peckinpah che i Selland sentivano che un matrimonio era nell’aria, ma nessuna delle due famiglie si aspettava che avesse già avuto luogo. Fu deliziosamente romantico per la giovane coppia, che sgattaiolava di nascosto per vedersi, legata da un’unione segreta. «Sam fu il mio primo amore», afferma Marie con palpabile malinconia a decenni di distanza, «ed era tutto meraviglioso». Ci si sarebbe aspettati un certo astio tra Marie e Fern Peckinpah; dopotutto, la giovane, snella bionda aveva sottratto a Fern il suo prezioso D. Sammy. Ma Marie riuscì a conquistare la signora Peckinpah fin da subito. «Mamma avrebbe voluto disprezzare Marie, ma non poteva», spiega Fern Lea. «Marie era così buona e gentile con lei. Restava seduta per ore ad ascoltare mia madre lamentarsi. Mamma non poteva non amarla». Marie notò delle tensioni in casa Peckinpah. Notò un’inusuale vicinanza tra Sam e sua madre, nonostante le crescenti incomprensioni degli ultimi anni. Spesso i due sparivano in un’altra stanza per ore e ore per una delle loro conversazioni a cuore aperto, una tradizione che sarebbe continuata ancora per molti anni. Il segreto sul loro matrimonio durò cinque giorni, ma poi i Selland, arrendendosi all’inevitabile, iniziarono a parlare di organizzare un grande matrimonio per la coppia. Marie
ricorda: «Sam cominciò a innervosirsi, così decidemmo che dovevamo dirglielo. Aspettammo una riunione di famiglia dai Peckinpah. David preparò una delle sue solite colazioni: costolette d’agnello, salsicce, uova, pancake. Cibo a volontà. Io e Sam nascondemmo un biglietto tra le costolette. Mamma ne chiese un’altra ed ecco il biglietto. Le sorelle [di Sam e di Marie] erano felici, i genitori erano sotto shock. Mio padre era segretamente sollevato – nessun costoso matrimonio in vista per il momento. L’unica delusione per lui derivava dal fatto che aveva sempre desiderato vedermi scendere le scale di casa con indosso l’abito da sposa». Quel pomeriggio stesso, Mary preparò il suo corredo e la coppia si trasferì nella piccola baita all’estremità della distesa di dieci ettari dei Peckinpah. (In passato era stata affittata ai braccianti.) C’erano due stanze: una cucina-salotto con un fornello a legna e una stanza da letto con un albicocco fuori dalla finestra. C’era un portico con un lavatoio e una vista sulle vigne tutte intorno. Avrebbero vissuto lì per la parte rimanente dell’ultimo anno alla Fresno State, mentre il comodino di Sam diventava sempre più alto grazie a una vulcanica catasta di libri. Conrad, Hemingway, Thoreau, Faulkner, Dickens, libri di scienza, volumi sulla storia della Cina e dell’antica Grecia. La Poetica di Aristotele pose le basi della sua scrittura drammaturgica e Sam divenne un grande sostenitore della teoria del filosofo per cui il grande teatro fornisce al pubblico una catarsi attraverso la quale espiare il proprio dolore, la propria rabbia e la propria paura. Dopo i greci, fu il turno dei francesi: Lo straniero e La peste di Albert Camus, A porte chiuse, Le mosche e Il muro di Jean-Paul Sartre. Dalle macerie di una Parigi postbellica era nata una nuova filosofia, l’esistenzialismo, che rigettava ogni concezione di Dio, del Paradiso e ogni preesistente codice di condotta o morale. Non esiste nulla di giusto o sbagliato a priori, non c’è bene e male, sostenevano Camus e Sartre. L’universo è assurdo e senza senso, una terra desolata dello spirito dalla quale ogni essere umano deve ricavare il proprio significato e la propria moralità. I francesi articolavano
pensieri che stavano evolvendo in Sam sin da quando aveva presenziato per la prima volta ai processi del padre da ragazzo; pensieri che si erano consolidati in Cina e in Messico. Accanto a tanto esaltante materiale c’erano mucchi di scadenti polizieschi e western. «Sam era un lettore insaziabile», dice Marie. «Per tutta la nostra vita ha letto libri e discusso al riguardo, parlato di opere teatrali, visto film, spiegato cosa andava e cosa no, esaminato le opere che avremmo voluto usare. Io sarei diventata un’attrice famosa e lui un famoso regista». Alla Fresno State quell’autunno, Sam recitò in commedie oltre che dirigerle. Ebbe una mezza dozzina di ruoli secondari nelle produzioni del principale teatro del college. Interpretò un uditore nella Famiglia Antrobus di Thornton Wilder e il reporter del giornale Chick Clark in My Sister Eileen. Era ormai stato accettato dal gruppo. Insieme a Marie si univa spesso agli altri compagni da Pancho, uno dei ritrovi preferiti vicino al campus. Oppure caricavano tante persone quante riuscivano a farne entrare nella jeep di Sam e partivano il sabato per andare a sciare al Badger Pass o, con l’avvicinarsi dell’estate, al fiume Kings per nuotare, crogiolarsi al sole e bere birra. La domenica mattina convergevano tutti verso la stazione radiofonica del campus per la «Striscia a fumetti del Fresno Bee in onda!» Radunati intorno ai microfoni, alteravano le voci per dare vita a Dick Tracy, Dagwood, Blondie e alla piccola orfana Annie. C’erano effetti sonori, segnali musicali; piano piano questo portò a vere e proprie produzioni di thriller, mystery e sitcom originali. «Certo, ci divertivamo parecchio il sabato sera, e la domenica mattina non eravamo nella nostra forma migliore», ricorda l’ex studentessa di teatro Wanda Dove. «Ricordo che in particolare Sam, a volte, aveva i postumi di una sbornia. Si sdraiava per terra col microfono e diceva le sue battute, sai, “per tutte le lucertole!”» Ovviamente, non aveva rispettato il voto d’astinenza per molto. «Bevevamo tutti a quei tempi», dice Marie. «Ci
sembrava naturale, era la cosa più normale da fare. Nessuno pensava male per questo». Ma i suoi amici notarono la volubilità di Sam. A volte si ritirava improvvisamente dietro quei magnetici occhi nocciola e nessuno poteva immaginare a cosa stesse pensando. Quando una volta Dave Parker cominciò a sfotterlo dietro le quinte prima di una rappresentazione di Elizabeth the Queen, gli occhi di Sam divennero di ghiaccio. «Non parlerei così se fossi in te», disse a denti stretti. Atterrito dall’improvvisa ferocia, Parker indietreggiò. «Sam era un enigma per tutti, indipendentemente da quanto bene e da quanto a lungo lo conoscessi», afferma Marian Dysinger. «Era come un caleidoscopio. Lo spettacolo variava a seconda del momento in cui avresti portato il tubo all’occhio. Sembravano esserci più fazioni in guerra, dentro di lui». «Quando beveva impazziva come un cavallo», dice Jim Baker. «Una volta, ricordo, era una giornata molto calda e l’avevamo passata intorno alla piscina di un hotel lì a Fresno. Avevamo bevuto molto. Stavamo parlando, poi si alzò e mi buttò in piscina. Era divertente, ma c’era anche un senso di pericolo quando era ubriaco. Sam non pesava che sessantacinque chili circa, ma era atletico e molto forte, forte in modo esplosivo, come solo le persone atletiche possono essere. Afferrava cose, le sollevava e pensavi: Dio, chissà se ci riesce! L’ho visto sollevare oggetti ai limiti dell’impossibile, per un ragazzo del suo peso». Come attore Peckinpah aveva un carisma grezzo e molti dei suoi ex compagni ricordano come sapesse rubare impudentemente la scena. Ma la regia restò il principale interesse di Sam. Non voleva essere costretto su un palco a seguire le direttive di qualcun altro. Voleva essere lui ad avere il controllo, a portare la sua visione sul palcoscenico, piuttosto che aiutare qualcun altro a realizzare la sua. Per il corso di regia avanzato, a Howard Campbell venne un’idea innovativa: perché non portare in scena una
produzione completa e permettere a ogni studente di dirigere una singola scena? «Ho sempre pensato che se hai un teatro universitario devi far imparare agli studenti a essere sia attori che registi», spiega l’ex docente. Campbell scelse Un tram che si chiama Desiderio di Williams. Si era rivelato un enorme successo a Broadway proprio quell’anno, segnando delle nuove frontiere con il suo schietto approccio alla sessualità, in particolare tra persone dello stesso sesso. Williams aveva aperto la porta a un’intera gamma di soggetti prima considerati tabù. La porta si era forse aperta a Broadway, ma non ancora a Fresno. J.W. Wright, il canuto patriarca del dipartimento di Teatro, aveva avallato il progetto senza aver mai letto l’opera. Nonostante la divulgazione che c’era stata su scala nazionale, non era a conoscenza del suo contenuto. Un giorno, poco prima del debutto della produzione, Wright passò in teatro per assistere alle prove. Pochi minuti dopo uscì a passo pesante, rosso dalla rabbia. Wright cercò di cancellare la produzione. Non gli era mai piaciuto il giovane Campbell, con tutte quelle sue fandonie sul metodo psicologico o quello che era. Ma Campbell, con gli studenti saldamente al suo fianco, convinse Wright a trovare un compromesso. La produzione fu relegata al laboratorio teatrale sotterraneo per una rappresentazione privata anziché pubblica, e alcuni dei passaggi più espliciti sarebbero stati tagliati. Fu solo la prima di una lunga lista di battaglie che Sam Peckinpah si trovò a combattere contro persone di potere che volevano castrare un suo copione o film. Nonostante ciò, Campbell continuò a spingere per poter dare più opportunità alla regia ai suoi studenti. Sosteneva la sua idea che si dovesse dare loro la possibilità di dirigere alcune delle rappresentazioni portate in scena nel teatro principale del dipartimento. Fino ad allora tutte le produzioni principali erano state dirette dai docenti. Campbell voleva dimostrare che non poteva esserci occasione di apprendimento più grande di quella che si sarebbe realizzata permettendo agli
studenti più talentuosi di mettere in scena una produzione completa per un vero e proprio pubblico. Wright alla fine cedette. Agli studenti sarebbe stato concesso di dirigere due delle quattro produzioni principali di quell’anno. Appena la decisione fu annunciata, gli studenti cominciarono a dimenarsi per trovare opere che si potessero presentare. Marie Peckinpah era fra questi. «Volevo dirigere un’opera inglese su due uomini legati da un’amicizia eccezionalmente intima, tanto da far pensare a qualcosa di più», dice Marie. «Ma Campbell mi fece cambiare idea perché Wright non avrebbe mai e poi mai approvato. Così esitai nel trovare qualcos’altro che volessi fare, e nel frattempo Sam ottenne l’approvazione per la sua produzione». Sam fece una scelta politicamente sicura: Guest in the House di Hagar Wilde e Dale Eunson, un gradevole thriller psicologico di grande successo a Broadway nel 1942. La trama racconta di una giovane ragazza presa in casa da una felice famiglia tutta americana. Ma sotto la vivace facciata della ragazza si nasconde una psicopatica. Comincia ad avvelenare le menti di tutti i membri della famiglia, mettendoli uno contro l’altro; alla fine dell’opera l’armonia è stata distrutta e il nucleo familiare ridotto al caos. Di certo la vena sovversiva della storia aveva affascinato Peckinpah, ma la trama e i personaggi non si elevavano mai dal livello di un melodramma. Sam ottenne il via libera per cominciare le prove nel novembre del 1947. Al debutto dello show, la seconda settimana di dicembre, divenne il primo studente nella storia della Fresno State a dirigere una rappresentazione nel teatro principale del college. I servizi di tutti i dipartimenti erano stati messi a sua disposizione e li aveva usati molto bene. La produzione ebbe un ottimo impatto sulla sensibilità da Midwest del pubblico di Fresno. «Fu un ottimo spettacolo», afferma Marian Dysinger che recitò nella rappresentazione. «Sam era un bravissimo regista… non uno facile. Ti spingeva a non accontentarti mai. Aveva idee ben precise su ogni personaggio ed era meticoloso
nel puntare su qualcosa finché non diventava come lo voleva lui». «Aveva occhio», sostiene il direttore tecnico della produzione, Merlyn Burriss. «Raramente si dava a uno studente una responsabilità così grande. Aveva un sesto senso per i tempi teatrali e per i movimenti sulla scena. Sapeva creare quadri [nell’avanscena]. Potevi stoppare l’azione in qualsiasi momento, e la composizione sarebbe sempre stata buona. Non è una cosa che si trova facilmente in tutti i registi». A questo sforzo Sam fece seguire in primavera una produzione più personale nel piccolo laboratorio teatrale. Dutch Courage era un soggetto originale, scritto da un veterano di guerra. Mai prodotto prima, si focalizzava su un gruppo di soldati americani che prendono servizio nelle rovine dell’Europa postbellica. Richiamava fortemente l’esperienza di Sam in Cina e fu la prima di molte altre sue esplorazioni della psicologia e della società militare. Don Levy era l’altra star della regia della Fresno State. Magro e goffo, con un talento per la commedia, divenne il secondo studente a dirigere un’opera, My Sister Eileen, nel teatro principale. Levy aveva visto Guest in the House e lo aveva trovato «buono». Ma Dutch Courage lo fece impazzire. «Era molto duro. Non c’erano giri di parole. Il protagonista, Jack Grady, non aveva mai recitato prima. Interpretava un sergente ed era un piccolo, miserabile bastardo. Vidi la rappresentazione e pensai: questo Peckinpah è bravo!» Levy scritturò Sam per il ruolo di Chick Clark in My Sister Eileen e durante l’allestimento della produzione divennero amici. Levy aveva intenzione di andare alla University of South California in autunno per specializzarsi. Avevano un buon dipartimento di Teatro gestito da William DeMille – fratello di Cecil – che aveva diretto opere a Broadway e film a Hollywood nell’era del muto. Una specializzazione in teatro ti assicurava una carriera da professore; avere DeMille come mentore poteva aprirti le porte di Hollywood.
«Sam era così bravo col teatro, non mi era mai passato per la mente che potesse darsi al cinema», dice Marie. «Ma i film li aveva sempre avuti in testa; il cinema lo interessava molto». Sam e Marie andavano a vedere le ultime uscite di Hollywood in centro a Fresno quasi ogni fine settimana. Ci furono tre film in particolare, durante i primi due anni dal ritorno dalla Cina, che ebbero un forte e duraturo effetto su di lui: Sfida infernale, Il fiume rosso e Il tesoro della Sierra Madre. Alba Fatale era stato il primo film ad accendere in lui la consapevolezza che i western potessero essere molto più che eroi dal cappello bianco, bruni antagonisti e trame da romanzetto. Cominciava ora a capire che i leggendari cowboy del suo paese, i baroni del bestiame, i fuorilegge, gli uomini dei monti, i capi indiani e gli ufficiali di cavalleria includevano in sé le caratteristiche di una genuina mitologia americana, che aveva in sé la grandezza e la complessità delle tragedie greche e shakespeariane e poteva costituire un terreno altrettanto fertile per l’esplorazione dei misteri dell’umana esperienza. John Ford, il regista di Sfida infernale, aveva già forgiato una visione mitica che rifletteva lo stato corrente delle cose. La sua cinepresa ritraeva classiche composizioni di uomini e donne bianchi che attraversavano il meraviglioso, sterile paesaggio del West. Le sue storie raccontavano come questi coloni avessero superato le minacce poste da indiani, fuorilegge e dal loro stesso, egoistico desiderio di colonizzare quelle terre difficili. I suoi film incarnavano l’idealismo dell’America postbellica. Arricchitosi grazie alla vittoria nella Guerra Giusta, il paese ora aspirava a trasportare il proprio destino manifesto oltremare, verso la Corea e poi il Vietnam. L’America stava diffondendo il verbo della democrazia ai barbari, portando la civiltà ai selvaggi. Nel Fiume rosso, Howard Hawks unì La tragedia del Bounty con Edipo e ottenne una visione molto più oscura della conquista del West. John Wayne – piatto, imponente eroe per centinaia di scadenti programmatori della Repubblica – fu trasformato in una figura dall’ambizione e dall’ego contorti,
messa in competizione con il dinoccolato, sensibile discepolo del metodo Montgomery Clift. Un mandriano nevrotico come un beatnik costringe l’archetipico eroe di questo genere a uscire allo scoperto, e mostra la contorta patologia che si nasconde dietro la sua solida mascella quadrata. E poi, la visione di John Huston degli americani alla deriva a sud del confine, Il tesoro della Sierra Madre. Non la visione del Messico tipicamente fasulla e retrograda di Hollywood, perché il film era stato davvero girato in loco. Huston seppe cogliere l’essenza di un paese. Si riesce quasi a sentire l’odore dei fagioli rifritti, del dolce, appiccicoso gel per capelli applicato sulla testa di Bogart dopo una capatina dal barbiere, di urina stantia e di sudore nelle stamberghe. E la lotta nel bar tra Bogart, Tim Holt e Barton MacLane non era esattamente una leggera danza di bottiglie allo sbando, sedie distrutte e pugni e cadute eseguiti con grazia. I colpi erano goffi, artificiosi, poco sincronizzati, misti a indecorose ginocchiate all’inguine e respiri affannosi. Gli «eroi» facevano gruppo contro MacLane, combattevano sporco, combattevano per vincere, e non mostravano il minimo segno di rimorso. Erano i dettagli, i piccoli, autentici dettagli che Huston sapeva catturare con la cinepresa, che davano vita al film, ti risucchiavano nello schermo e ti lasciavano girovagare per un po’ nel mondo dei personaggi. I film li aveva decisamente in testa. Ma se a quel punto della sua vita aveva già in programma una carriera a Hollywood, non ne parlò mai. Forse temeva le occhiate al cielo e i sospiri esasperati di famiglia e amici; forse temeva di ipotizzare a voce alta che un semplice ragazzo di Fresno potesse davvero farcela nella Terra del Loto. Quali che fossero le sue speranze segrete, le mise in valigia insieme alle sue montagne di libri e opere teatrali. Nell’autunno del 1948 lui e Marie lasciarono la piccola baita nella proprietà dei suoi genitori e abbandonarono Fresno, stavolta per sempre, in direzione di Los Angeles. Presero un appartamento a Rimpau Boulevard, non lontano da Crenshaw, per trentacinque dollari al mese. Costruito sopra un
garage, era piccolo ma arieggiato e con un pavimento in legno massello. Lo riempirono con arredi di seconda mano e un completo di tavolo e sedie appartenuti a Denver e Louise Church. Marie ottenne un lavoro con la May Company al centro di Los Angeles. Con i guadagni di lei, il sussidio per veterani di Sam e gli assegni di suo padre, riuscivano a cavarsela. Quando Sam cominciò a frequentare i corsi alla USC a settembre, Marie non andò con lui. Qualcosa era impercettibilmente cambiato quando la sua opera era stata scartata alla Fresno State e Sam era andato avanti con Guest in the House. Dapprima sua maestra, poi partner di pari livello, ora era stata relegata al ruolo di eterna seconda. Senza mai decidere apertamente di farlo, era diventata una moglie e seguace leale, esattamente ciò che aveva giurato a sua madre che non sarebbe mai accaduto. Non sembrò un problema, all’inizio; non era pienamente cosciente di quanto stava accadendo. Qualsiasi seme della discordia esistesse, era ben sopito e di lentissima fioritura. A novembre Marie scoprì di essere incinta. «Volevo tanto dei figli», dice Marie. «L’ho sempre voluto, anche quando sognavo di diventare la migliore attrice al mondo. Anche Sam voleva dei figli. Fu meraviglioso durante la gravidanza. Tutte le volte che sono rimasta incinta è stato sempre molto, molto premuroso, e cercava di essere d’aiuto. Era un marito che badava molto alle apparenze. Non dimenticava mai di dirmi che mi trovava bellissima. Fisicamente era amorevole e affettuoso come sempre». Sam aveva scambiato la sua jeep per una Buick a due porte che guidava ogni mattina fino alla USC e parcheggiava di fronte a una pensioncina nel campus, dove Don Levy e un altro laureato della Fresno State, George Pappas, dividevano una stanza. I tre frequentavano i corsi della mattina insieme, si recavano nella stanza di Levy e Pappas per pranzo e poi tornavano ai corsi nel pomeriggio. «Marie preparava il pranzo per tutti», ricorda Levy. «Quella ragazza sapeva fare un buonissimo sandwich con cetriolo e peperoni».
Tra un boccone e l’altro si concedevano anche qualche mano di poker – «Giocavamo per pochi spiccioli; Sam la prendeva sul serio, come ogni cosa», dice Pappas – e si lamentavano delle carenze del dipartimento teatrale della USC. Non era esattamente come se lo aspettavano. L’università si trovava nel quartiere storico di West Adams – che un tempo era stato la zona più snob a ovest della città; ora però le ville vittoriane stavano già andando in rovina e venivano suddivise in camere da affittare, mentre i ricchi partivano per i più verdi pascoli di Beverly Hills e Brentwood. La USC era stata un piccolo, quasi oscuro college privato prima della guerra. Ma il ritorno di milioni di veterani bramosi di raccogliere i frutti del G.I. Bill cambiò tutto. Il college, prima prerogativa dei ricchi, era diventato improvvisamente alla portata della classe media. I campus di tutto il paese furono inondati da milioni di nuovi studenti (le iscrizioni al college su scala nazionale salirono da 1.155.000 nel 1944 a 2.616.000 nel 1948). Alla USC le iscrizioni quasi raddoppiarono in soli due anni, passando da 8500 nel 1944 a 19.034 nel 1946. Impreparata a questo assalto, la USC accatastò i nuovi studenti in alloggi di fortuna. Il nascente dipartimento teatrale era relegato in una qualche vecchia stalla e il teatro di facoltà era stipato nel «Vecchio College» – un antico palazzo vittoriano che aveva ospitato l’intera università quando fu fondata nel 1880. Un paio di grandi produzioni teatrali venivano presentate ogni anno al Bovard Auditorium, costruito nel 1921, con 1600 posti a sedere e un sistema di luci e audio relativamente moderno. Ma la stragrande maggioranza degli spettacoli del dipartimento teatrale avevano luogo al Touchstone, un teatro da 150 posti che era stato l’auditorium originale del Vecchio College. «Era un edificio vecchio e strano», afferma Rory Guy, un ex compagno di Sam alla USC. «Le colonne portanti stavano proprio nel mezzo della platea, ostruendo la visuale sul palco, che peraltro era molto stretto». Il pavimento di legno aveva delle crepe, il dietro le quinte era minuscolo, la consolle delle luci si regolava con vecchi dimmer. Il budget per gli
spettacoli oscillava tra il minimo e l’inesistente, il materiale di scena era tenuto in un vecchio magazzino in un’altra parte del campus. Il direttore del dipartimento, William DeMille, aveva seguito suo fratello Cecil in California nel 1914. Aveva avuto un discreto successo nei film muti, dirigendo piccoli, intimi, acuti drammi psicologici che erano l’antitesi degli spettacoli barocchi di Cecil. Ma gli spettacoli grotteschi vendevano più delle verità dolenti, sul mercato hollywoodiano, e William DeMille non si staccò mai dall’ombra del fratello. Quando arrivò il cinema sonoro la sua carriera cadde definitivamente in declino e alla fine degli anni Quaranta il suo ruolo di direttore del dipartimento teatrale della USC non era che l’ultima fermata sulla strada verso l’anonimato. DeMille portò ai suoi studenti un bel carico di conoscenze sull’aspetto pratico della produzione teatrale ed esigeva in cambio da loro un atteggiamento estremamente professionale. Ma, dal punto di vista estetico, apparteneva a un’era ormai passata. Il suo approccio alla recitazione era analitico. Sosteneva che il compito dell’attore fosse trasmettere le intenzioni del drammaturgo attraverso movimenti, intonazioni vocali e gesti plateali precisamente calcolati. L’idea che qualcosa potesse essere lasciato al caso, che si potesse dare spazio alla spontaneità o che gli attori potessero contribuire a dare nuovi livelli di complessità e significato ai personaggi attraverso le loro interpretazioni – come suggerito dal metodo, in cui gli attori credevano fermamente – era sconosciuta, se non addirittura ripugnante per «Poppa» DeMille. Le rappresentazioni che sceglieva di dirigere per le grandi produzioni del dipartimento nel Bovard Auditorium erano tutto fuorché sorprendenti e innovative: Sessanta lettere d’amore, Alla fine dell’estate, State of the Union. «Facemmo Quando il giorno verrà dopo che la minaccia nazista aveva cessato di esistere», dice Rory Guy. «Abbiamo fatto Joan of Lorraine di Maxwell Anderson. DeMille cercava di fare qualcosa di appena uscito a Broadway. Abbiamo fatto
pochissimo materiale classico. Non credo che abbiamo mai portato in scena una sola opera di Shakespeare per tutto il periodo che sono stato lì». E a DeMille proprio non piacevano i nuovi drammaturghi che invece tanto colpivano Levy e Peckinpah. «Al professor DeMille piacevano le opere con una trama chiara, un inizio, una parte centrale e una fine», riporta un altro ex studente della USC, Marvin Kaplan. Le piccole volpi di Lillian Hellman era una delle sue opere preferite. Le forze del bene e del male erano molto ben definite; è chiaro chi sono i buoni e chi sono i cattivi. Le vie di mezzo non facevano per lui». «DeMille faceva innervosire Sam perché non amava Saroyan, e pensava che Williams non rispecchiasse affatto la definizione di drammaturgo», disse un altro docente di teatro alla USC, James Butler, a Paul Seydor nel 1977. «Per cui Sam era sempre in lotta per questo». DeMille diresse praticamente tutte le grandi produzioni del dipartimento. Tutti gli studenti del dipartimento lavorarono per lui, chi nel cast chi nello staff tecnico. «DeMille conosceva tutti gli studenti del suo corso», dice Adele Cook, «e sapeva come dirigere ognuno di loro a seconda della rispettiva personalità». Peckinpah imparò qualcosina dal vecchio, come la disposizione scenica e l’importanza di dare a ogni attore, indipendentemente dall’importanza della sua parte, una caratterizzazione completa affinché il mondo all’interno del proscenio avesse la consistenza della realtà. Ma Sam fece propri anche alcuni dei tratti meno ammirevoli di DeMille. «DeMille era molto caustico, molto sarcastico e incredibilmente acuto», sostiene Adele Cook. «Selezionava qualcuno di cui non avesse particolare necessità e lo distruggeva per dimostrare a tutti che poteva farlo: in questo modo tutti gli altri si correggevano immediatamente per non essere i prossimi». La sindrome del capro espiatorio. Allen Schneider, John Ford, William Wyler e Henry Hathaway erano
esperti fruitori di questa tecnica di tortura. Col tempo, anche Sam l’avrebbe applicata con eguali capacità. Ma nel 1948 e 1949 Sam teneva a freno la lingua e tremava come tutti gli altri quando DeMille urlava. Appendeva luci, posizionava i fondali, preparava gli oggetti di scena, truccava e dava agli attori le battute. Faticare sotto un supervisore come DeMille conferì a Sam un risvolto di grande professionalità che gli era mancato alla più accomodante Fresno State. C’erano anche altri docenti. DeMille aveva portato al dipartimento Reginald Lawrence, uno scrittore di New York che aveva avuto qualche successo a Broadway, per insegnare scrittura teatrale. Lawrence enfatizzava i rudimenti della drammaturgia: la struttura in tre atti, la necessità di un protagonista forte per trascinare l’azione e di un conflitto crescente che portasse a una crisi e infine a un climax. L’interesse di Sam verso la scrittura cresceva sempre di più, ma a essa non arrivò facilmente. Chiudersi da solo in una stanza con di fronte il bagliore del foglio bianco sembrava offuscare la creatività della sua mente. Non riusciva, a differenza di altri compagni – Jack Gariss, Art Buchwald e Rory Guy – a completare un’intera sceneggiatura dall’inizio alla fine. Ma come aveva fatto con Lo zoo di vetro, seppe rivedere e scrivere materiale aggiuntivo alle opere che diresse, alterandole lievemente finché la visione diveniva tanto sua quanto dello sceneggiatore. Il docente con cui Sam instaurò un vero rapporto fu James Butler, un giovane laureatosi anch’egli alla USC. Era diventato insegnante solo un paio di anni prima, ma aveva già apportato enormi cambiamenti. La più grande innovazione di Butler fu la fondazione di un Teatro Sperimentale alla USC, che permetteva agli studenti di scegliere delle opere e produrle nel fatiscente teatro del Vecchio College. I budget striminziti imponevano scenografie e luci minimaliste, ma in cambio gli studenti avevano l’occasione di provare praticamente tutto quello che volevano. Era un teatro fatto di puro istinto, ed
eccitante da morire. Il numero delle produzioni salì alle stelle e così pure l’entusiasmo degli studenti. Gli spettacoli comprendevano Una domanda di matrimonio di Čechov, Ways and Means di Noël Coward, l’Edipo re e un mucchio di opere originali degli studenti. «Butler ci lasciò briglia sciolta nel Teatro Sperimentale», dice Marvin Kaplan. «Ricordo che Phil Goodman fece From Morn’ till Midnight, un’opera impressionista. Quello che facevamo spaventava a morte Butler, eppure ci lasciava fare; mettevamo sottosopra il dipartimento». La cruda energia degli spettacoli guadagnò presto popolarità nel corpo studentesco e le file al teatro del Vecchio College si allungavano sempre di più; ci furono ben presto i tutto esaurito, e a centinaia di persone doveva essere rifiutato l’ingresso. Nel mezzo di questa frenesia creativa, Sam Peckinpah non era la star come invece gli era accaduto alla Fresno State. Era messo in ombra da tempestosi attori come Kaplan e Joe Flynn e drammaturghi in erba come Art Buchwald, che scrisse No Love Atoll, una divertente parodia di South Pacific. Il prodigio alla USC era Jack Gariss, un erudito fumatore di pipa con una conoscenza enciclopedica della letteratura e del teatro. «Jack era espansivo, l’uomo più colto che avessi mai incontrato», afferma Rory Guy. «Era un lettore rapido, gli bastava uno sguardo per cogliere il senso di una pagina, anche con il materiale più denso, e poteva finire un pesante tomo in un’ora. Incredibile». Gariss scrisse e diresse una serie di sue opere originali per il Teatro Sperimentale e divenne un fulcro creativo attorno al quale gli altri studenti orbitavano. Sam sviluppò uno stretto rapporto con Gariss ma, in realtà, sembrava più lui un protetto di Gariss che viceversa. «Gariss era il motore di tutto», dice un altro ex studente, Don Stoutenborough. «Il leader nei gruppi di dibattito. Era la crème de la crème, eravamo sicuri che avrebbe vinto il Nobel già a trentacinque anni». Sam, invece, non partecipava molto ai dibattiti, ma più che altro osservava, tenendo per sé i suoi commenti mentre gli altri studenti strepitavano in cerca di attenzione, ed era
contento di restare sullo sfondo agli incontri sociali le poche volte che ci andava. Ma chi lavorò con lui nelle rappresentazioni che diresse al Teatro Sperimentale comprese subito che in quello smilzo, quasi infantile, bellissimo, introverso giovane c’era molto più di quanto potesse apparire. «Un tipo affascinante, davvero interessante», dice Don Stoutenborough, che interpretava un italiano gaudente in una produzione di Cecè di Pirandello diretta da Peckinpah. «Era enigmatico, c’era sempre qualcosa di distante in lui, non sapevi mai davvero cosa pensasse di te. Dicevo a tutti:“Ehi, dovete vederlo, qui abbiamo un vero regista se vi piace recitare”. E a me piaceva, era la mia passione. Sam scandagliava le emozioni e ti portava a fare lo stesso. Ho lavorato con tantissimi registi, ma nessuno ha il suo tocco. Aveva un modo di fare le cose inquisitorio, sensibile, ma allo stesso tempo virile. Usava toni strani. Parlava in maniera imperscrutabile, eppure l’attore diceva “sì, ho capito!” Riconoscevano la genialità, come una sorta di religione». «Se ti guardava, il resto del mondo scompariva perché i suoi occhi ti risucchiavano», afferma Adele Cook, che lavorò con Peckinpah alla USC. «Non avevano nemmeno le pupille, erano un’immensa, unica piscina. E quando ti guardava e gli stavi parlando, avevi la sua completa attenzione. Il mondo semplicemente si faceva da parte; non esisteva nient’altro al di fuori delle cose ridicole che stavi dicendo in quel preciso momento. Era una sensazione esaltante». James Butler restò colpito dal lavoro del giovane regista. «Era uno di quei giovani che avevano un’ardente ambizione di farsi spazio nel teatro», riferì Butler a Paul Seydor nel 1977. «Ogni tanto ti capitano studenti così… Era affamato e motivato come nessun altro al mondo. La conversazione verteva sempre su Williams e Saroyan. Ne era ossessionato». Peckinpah e Levy spinsero molto per avere una serata dedicata agli atti unici di Saroyan al Teatro Sperimentale. Butler si batté per loro e alla fine riuscì ad abbattere le remore di DeMille sul drammaturgo. «Saroyan ci ispirava», ricorda Levy, «come nessun altro scrittore, a parte Williams. A
William DeMille non piaceva affatto. “Non c’è trama! […] Folle!” Ma noi perseverammo. Sam fece Hello Out There, il più grande atto unico di tutti i tempi, e io feci My Heart’s in the Highlands in cui interpretai anche il protagonista». A quel punto Sam e Don Levy erano diventati amici inseparabili. Fu l’unica amicizia dei tempi del college che Sam conservò fino ai suoi ultimi giorni di vita. Erano in un certo senso una strana coppia: Levy, ultraintellettuale, impacciato fuori, conservatore dentro, e Sam, l’ex marine, cacciatore di cervi, gran bevitore, che agiva più secondo l’istinto che secondo la testa. Ma da un altro punto di vista, era un’accoppiata tutt’altro che strana. «Credo Sam sapesse che ci tenevo a lui, che mi piaceva veramente, che ero davvero fiero di lui», dice Levy. «C’era un forte legame tra noi. Ero come il fratello nerd. Pensavo fosse un grandissimo regista, uno dei migliori mai esistiti. Mai esistiti! Sam pensava fossi il più grande attore al mondo […] un’opinione che sembra essere morta con lui […] Credo che a Sam piacesse giocare a fare il duro, la maschera che indossava sempre, ma io vedevo oltre la messinscena e lui vedeva le mie insicurezze. Vedevamo l’uno le insicurezze dell’altro. Sam si vedeva come un outsider. Sentiva quanto io fossi consapevole che era sempre alla ricerca di qualcosa, sempre alla ricerca di qualcosa…» Quell’anno alla USC ci fu un festival dei film di Charlie Chaplin, tutte le più grandi pellicole mute: Il monello, La febbre dell’oro, Il circo, Luci della città, Tempi moderni. Sam, Marie e Levy li videro tutti. L’archetipico outsider di Chaplin – questo strano alieno dalla faccia bianca con una bombetta malconcia, scarpe piatte e larghi pantaloni consunti, sempre alla ricerca del suo posto in questo strano mondo ostile, sempre alla ricerca lungo la sua metaforica strada, ma senza mai trovare casa – Peckinpah si rivedeva senza dubbio in lui. Luci della città lo lasciò sbalordito. Il finale temerariamente ambiguo di Chaplin in cui il barbone reincontra la ragazza cieca a cui ha fatto recuperare la vista con i soldi che aveva rubato per l’operazione. Lei che ride di fronte al patetico
spettacolo di quell’uomo che cammina trascinando i piedi per la strada davanti al suo negozio di fiori, senza riconoscerlo finché non gli offre un’elemosina – una moneta e un fiore per il suo bavero – e sente il familiare tocco delle sue dita. «Lei?», chiede, sbalordita. Non è l’affascinante, giovane milionario che aveva sempre immaginato. Lui annuisce, sapendo in quel momento di averla persa per sempre, eppure sperando che non sia così. «Ci vede adesso». «Sì», annuisce lei, «ci vedo». Quel finale con un disperato primo piano di lui, un dito sbilenco portato alla bocca come un bambino impaurito, gli occhi scintillanti come un gatto nel buio mentre l’immagine va in dissolvenza verso il nero. Sam restò seduto, incapace di muoversi quando le luci si riaccesero. Era più di un film, più che arte; Chaplin gli aveva offerto un bellissimo e orribile barlume di verità, una prospettiva sull’animo umano. «Credo debba esserci una separazione tra Chiesa e Stato», avrebbe in seguito detto del lavoro di Chaplin. «La sua visione è così unica e magnifica che sarebbe ridicolo elencarlo insieme a registi che credo lavorino in un altro mondo». Aveva ormai rinnegato la religione dei suoi genitori, il cristianesimo scientista. A molti di quelli che lo conoscevano sembrava cinico riguardo alla vita e al resto dell’umanità, e in buona parte lo era davvero. Ma sotto il cinismo bruciava ancora il vecchio ardore; aveva solo rimpiazzato una fede con un’altra. Il teatro, la sua arte, era diventato più di una vocazione professionale; era assurto al rango di una ricerca spirituale e la sua devozione era quasi religiosa. Nonostante tutti gli eccessi edonistici degli anni seguenti, in un suo modo bizzarro restò castamente devoto a quella nuova fede e consacrò la sua vita a essa. Ma questo nuovo risvolto fanatico non fu subito evidente nell’estate del 1949, quando il suo primo anno alla USC volgeva al termine. La vita sembrava leggera, quasi spensierata nell’arieggiato appartamento di Rimpau Boulevard. Sam e Levy si esercitavano con le loro imitazioni di Chaplin – la camminata a papera, il bastone roteante – e
creavano numeri slapstick che facevano ridere Marie così tanto che doveva tenersi la pancia e le mancava il respiro. Era bella grossa, adesso, e quando Sam pressava il palmo contro il suo ventre nudo riusciva a sentire il bambino muoversi. Il giorno in cui Marie entrò in travaglio – il 30 luglio 1949 – Sam era tutto fuorché calmo e composto. «Era nel panico», ricorda Marie. «Aveva davvero grossi, grossi, grossi problemi con qualsiasi cosa fosse fisicamente dolorosa. Lo facevano entrare di tanto in tanto mentre ero in travaglio, ma la maggior parte del tempo restò nella sala d’attesa. C’era un altro tizio lì che continuava ad aprire la porta per controllare sua moglie. Sam poteva sentire i lamenti e le urla. Impazzì. Disse al tizio: “Chiudi quella maledetta porta!” Non riusciva a sopportarlo». Era una bambina. Dopo averla vista per la prima volta dal vetro del nido, Sam entrò nella camera di Marie raggiante. «È la bimba più bella del nido, lo dicono tutti!» La chiamarono Sharon. Cinque giorni dopo la portarono finalmente a casa nel loro minuscolo appartamento. «La prima volta che dovette occuparsi da solo di lei fu quando aveva tre settimane», dice Marie. «Andai al supermercato. Quando tornai, la sentivo piangere mentre salivo le scale. Aprii la porta e lo vidi seduto sulla sua sedia proprio di fronte alla porta, con l’aria di chi è pronto al suicidio. La teneva in braccio e lei aveva questo pannolino – aveva provato a cambiarle il pannolino – questo pannolino che era incredibile! Era la cosa più assurda che avessi mai visto! Gli avevo mostrato come cambiarla, ma non penso lo avesse mai fatto prima. La presi e dissi: “Oh mio Dio!”» L’arrivo di Sharon aggiunse un nuovo carico di responsabilità sulle spalle di Sam. Abbandonò l’idea di completare la sua tesi di master per quell’autunno e cominciò a cercare disperatamente lavoro. Jack Gariss aveva già lasciato la scuola e ottenuto un lavoro per Cecil B. DeMille come scrittore nei Dieci comandamenti. Viveva a Huntington Park, a sudest di Los
Angeles, vicino a una piccola comunità teatrale che allestiva rappresentazioni nell’auditorium di una scuola superiore. La struttura era ben lungi dall’essere maestosa, ma il teatro aveva una buona reputazione e si era guadagnato alcuni premi e molte recensioni entusiastiche per le sue produzioni. Il regista in sede li aveva recentemente lasciati, disse Gariss a Sam, e la direzione del teatro stava cercando un rimpiazzo. Era la sua occasione per lavorare da professionista. Sam fece domanda e, grazie alle brillanti raccomandazioni di Butler e Gariss, fu assunto battendo altri quarantuno candidati, tra cui molti che venivano da Harvard e Yale. I Peckinpah prepararono le loro poche cose e si trasferirono a Whittier – un tempo una piccola cittadina ma ora in rapida crescita, mentre miglia e miglia di quartieri andavano a rimpiazzare gli odorosi aranceti nella periferia della città. Case economiche per rispondere alla domanda senza precedenti del boom postbellico, costruite una dopo l’altra e quasi incollate, ognuna con piantine leggermente differenti o con un minimo dettaglio estetico dal valore squisitamente simbolico, tanto per differenziarle l’una dall’altra. Come molti compratori di case, i Peckinpah richiesero un prestito grazie al G.I. Bill, che permetteva loro di comprare la «casa dei sogni» senza spendere niente al momento dell’acquisto, ma con minime rate mensili. Il sogno americano era ormai alla portata di chiunque avesse combattuto nella Guerra Giusta. Era una casa molto carina. Un trio di alberi d’arancio era stato risparmiato a scopo panoramico: uno si trovava nel giardino davanti e due sul retro, dove c’era un grande prato. C’erano tre stanze da letto e una «finestra con vista» (l’ultima moda) nella «zona pranzo», che regalava loro un panorama sul cortile dei vicini, a neanche cinquanta metri da loro. Marie si rivoltò contro la squallida uniformità di quei prati così attentamente curati e di quei cespugli modellati ad arte, rifiutandosi di fare qualsiasi lavoro di giardinaggio, una linea di pensiero che Sam fu più che felice di appoggiare. Molto presto un’impressionante varietà di erbacce spinose cominciarono a crescere fuori controllo, fornendo un perfetto
habitat da giungla a molte specie di insetti, rettili e roditori. Ai loro sconcertati vicini sembrava quasi di trovarsi accanto la famiglia Addams, ma per Sam e Marie quella casa aveva un tocco di blando e caldo «vissuto». Sam non avrebbe comunque avuto molto tempo per dedicarsi al giardinaggio. Lavorava dalle sedici alle diciotto ore in teatro, allo stesso tempo come produttore e regista. Il contratto con il Teatro Civico di Huntington Park prevedeva che dirigesse cinque rappresentazioni solo quell’anno, con un salario di trecento dollari per ciascuna. Poiché quella cifra non era abbastanza da poterci vivere, continuò ad accettare assegni occasionali da suo padre per far quadrare i conti. Sam abbozzò una lista di rappresentazioni che avrebbe voluto dirigere e la sottopose al direttivo per la loro approvazione. I membri del direttivo, a loro volta, avevano già delle proprie idee. Il teatro aveva sempre inaugurato la stagione con uno stucchevole vecchio melodramma, The Drunkard, in cui gli attori recitavano deliberatamente in modo esagerato per strappare risate; e i musical di Broadway erano anch’essi tra i favoriti del pubblico. Al signor Peckinpah dispiaceva prendere in considerazione qualcosa su questo genere? La cosa gli dava sui nervi, ma strinse i denti e contrattò, accettando alcune delle loro scelte e ottenendo l’approvazione per qualcuna delle sue. Concesse loro South Pacific, e loro gli concessero Lo zoo di vetro. Durante i suoi due anni al Teatro Civico diresse anche Piccola città, Il signore resta a pranzo, The Silver Cord e Arsenico e vecchi merletti: più regie di quante ne avesse fatte alla Fresno State e alla USC messe insieme, confezionate in cinque spettacoli consecutivi il primo anno e in altrettanti il secondo. Supervisionò l’allestimento delle scene, la preparazione delle luci, selezionò il cast e lo staff tecnico, organizzò il programma di produzione, controllò la stampa dei programmi, la pubblicità e la promozione. Per assicurarsi il giusto talento sia sopra che dietro la scena, attinse a molti dei suoi ex colleghi della Fresno State e della USC. Presto ebbe
un’esile ma appassionata compagnia di repertorio che lavorava fino a tardi per pochi centesimi. «Aveva davvero la capacità di creare un’atmosfera per cui tutti volevano proprio lavorare con lui», dice Marie. «Imparò moltissimo, a Huntington Park. Sebbene la scelta delle rappresentazioni fosse affidata al direttivo, ciò che Sam ne faceva era totalmente affar suo. Aveva una mente davvero originale, come era evidente dal modo in cui guardava al materiale che gli veniva dato. Fece un ottimo lavoro con quelle commedie. Mise in scena Il signore resta a pranzo [di Kaufman e Hart]. Anche se ne erano già state fatte un miliardo di produzioni, quella che creò lui fu veramente divertente». Tra le produzioni preferite di Sam c’era una commedia in cui un giovane impostore si infiltra in una casa di riposo travestito da settuagenario. Sam assunse degli anziani dilettanti di Huntington Park per interpretare alcuni ruoli e adoperò dei trucchetti comici che Lola Owensby, un’amica del tempo, ricorda bene. «Questi vecchietti se ne stavano seduti su una panchina a bere da una bottiglia. Gli aveva detto di passarsi la bottiglia, di continuo, e la cosa divenne una specie di farsa. Ognuno beveva un sorso dalla bottiglia, poi toccava al suo vicino di fila. Se la passavano l’un l’altro fino a farla tornare al primo, ma l’ultimo della fila continuava ad aspettarla e a cercare di prenderla, senza mai riuscirci finché gli altri non la finivano. Era una scena divertentissima». Il numero della bottiglia sarebbe poi diventato un piccolo momento comico nel Mucchio selvaggio, con Warren Oates nei panni del fuorilegge che non riesce a ottenere la sua parte. L’ultima produzione di quell’anno, Arsenico e vecchi merletti, fu tra quelle di maggior successo. Nessuno però se lo sarebbe aspettato, quando le prove cominciarono. Sam credeva di avere una bomba tra le mani. La star dello spettacolo, una vergine irremovibile, era sexy quanto uno sgombro surgelato. Alla fine, una sera dopo le prove, Peckinpah raggiunse il suo protagonista maschile, Rory Guy, e ringhiò: «Non funziona, è troppo fredda. Ecco il piano: devi sedurre la ragazza. Devi farlo con lei. Mi offrirò di dare un passaggio a casa a entrambi,
stasera. A metà strada finirò la benzina e vi lascerò da soli mentre raggiungo a piedi una stazione di servizio… Quando sarò di ritorno, voglio che lei non sia più vergine!» «Sapevo che non sarei mai riuscito a sedurla; era una vergine di ferro, se mai ne era esistita una», dice Guy. «Ma non era contraria a qualche bacio e qualche coccola». «Voi due sedetevi dietro», disse Peckinpah mentre si metteva al volante. A metà strada verso casa di lei, l’auto cominciò a borbottare. «Maledizione!», imprecò Sam mentre accostava. «Non posso crederci, Marie ha dimenticato di fare benzina oggi!» Marciò via nella notte in cerca di una stazione di servizio, lasciando la coppia in macchina. «Credo ci stessimo baciando da tre minuti, al massimo cinque», dice Guy, «quando Sam fu di ritorno! Fece finta di mettere la benzina, poi salì in macchina. Ero perplesso! Credevo sarebbe stato via quindici, venti minuti o mezz’ora. Ripartimmo». Non appena ebbero lasciato la ragazza, Peckinpah si girò e fissò in modo significativo il suo attore. «Allora?» «Allora? Sei stato via tre minuti!» «E allora?», ripeté Peckinpah, continuando a fissarlo. «Sam, non hai mai sentito parlare di preliminari?» L’esercizio doveva aver funzionato comunque, perché lo spettacolo si aggiudicò una recensione entusiastica sul giornale locale e fu il trionfo della stagione. «Sapeva gestire benissimo la farsa», dice Marie. «E questo mi fa star male. In seguito si è concentrato su questa cosa dei western, che certamente faceva parte dei suoi sogni più grandi. Era ovviamente qualcosa di molto importante per lui, la parte della tua vita che hai davvero a cuore. Ma faceva un ottimo lavoro anche in molti altri generi, era capace di tanto altro ancora». Tra una produzione e l’altra, la vita nella casa di Whittier trascorreva felice. Sam era per la maggior parte del tempo un
padre dolce e attento nei confronti di Sharon, sebbene ci fossero sprazzi occasionali di quello spaventoso temperamento ereditato dal padre e dal nonno. La casa arredata in modo sommario era abbellita da qualche tocco esotico: una ballerina kabuki di porcellana e una collezione di stampe su legno giapponesi regalategli da un amico. «In quei giorni Sam era bello, magro e atletico», ricorda Lola Owensby. «Vestiva perlopiù in modo informale, ma bene. Indossava soprattutto pantaloni casual. Marie aveva i capelli lunghi e biondi e un bellissimo, ampio sorriso. Aveva l’aria sempre un po’ allampanata, ed era uno spirito libero. Ricordo che alla fine dell’isolato c’era un’area giochi, attraversata da un sentiero. Il vento che soffiava, una bellissima giornata, e lei che correva giù per quel sentiero, e c’era un albero lì con un ramo sporgente e doveva abbassarsi in fretta per non prenderlo. Lei era così, libera». Un’altra amica, Nanette Flynn, ricorda un Ringraziamento trascorso con i Peckinpah nella casetta a schiera. Andammo lì e pensai: be’, ceniamo un po’ presto ma le due va bene come orario. Arrivammo e non avevano ancora nemmeno messo a cuocere il tacchino. Mangiammo alle dieci o alle undici, quella sera. Non sono mai stata così affamata in tutta la mia vita! Credo fossero solo naif, non avevano realizzato che ci sarebbe voluto un po’ più di trenta minuti. Sam era come un rilassato giocatore di tennis: scomposto, giovane, appassionato, pieno di idee e innamoratissimo di sua moglie. Marie era come una precoce figlia dei fiori. Pensavo: cavolo, sono così liberi e comprensivi l’uno con l’altra, non è fantastico? Non li disturbò nemmeno un po’, dover aspettare nove ore per mangiare. Sam lo accettò con grande eleganza. Io sarei stata un fascio di nervi. Mangiammo tutto il sedano, parlammo un sacco e ridemmo un sacco.
Quell’estate Sam andò ad Albuquerque per occuparsi della programmazione estiva, poi tornò in autunno per il suo secondo anno ad Huntington Park, stavolta con un salario schizzato a cinquecento dollari a spettacolo. Con un’entrata annua di 2500 dollari era quasi in grado di mantenersi da solo, ma per l’estate seguente era già pronto a trasferirsi di nuovo. Suo padre e suo fratello avrebbero voluto che restasse ad Huntington Park, dove gli era stato offerto un ulteriore
aumento, ma aveva ormai messo gli occhi su una nuova frontiera: la televisione. Insieme alle Buick, le Chrysler, le Chevrolet e le Ford che sbucavano dalle catene di montaggio negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, arrivarono anche quindici milioni di scatole con dentro un tubo, che portarono per la prima volta immagini in movimento nelle case degli americani. All’inizio non fu che una goccia. Ne avevano una solo i bar locali o le famiglie più ricche del quartiere. I vicini si riunivano intorno alla luce bluastra di queste scatole per vedere l’apertura dell’ottantesimo Congresso degli Stati Uniti, il discorso del presidente Truman sullo Stato dell’Unione e le World Series. Gli onnipotenti studios cinematografici che avevano governato l’intrattenimento americano per quasi mezzo secolo ignorarono l’«aggeggio» definendolo una moda che sarebbe scemata in uno, massimo due anni. Nel 1951 le strade di tutto il paese il sabato sera si svuotavano perché tutti correvano a casa a vedere Sid Caesar in Your Show of Shows; le presenze al cinema diminuirono del 20-40% in città con stazioni tv e oltre trecentottanta cinema chiusero in tutto il paese. Era ormai diventato chiaro anche ai pallidi e preoccupati magnati del cinema che la tv era arrivata per restare. Agli sceneggiatori, registi e attori che erano lì durante questa nuova alba sembrò di rivivere il periodo dei film muti. I colossi non avevano ancora strangolato il nuovo mezzo con i tentacoli della burocrazia e i metodi di produzione a catena di montaggio. Molti dei primi studi televisivi erano gestiti da imprenditori indipendenti. Poiché nessuno aveva ancora davvero capito il potenziale della tv, nessun sistema standardizzato era ancora stato imposto a chi creava il «prodotto». Questo prima dell’invenzione delle videocassette, quando gli spettacoli erano trasmessi in diretta. Come le produzioni del Teatro Sperimentale della USC, si trattava di intrattenimento ad hoc. I costi di produzione erano ridotti all’osso, le riprese rudimentali, ma l’energia creativa divampava.
Giovani scrittori come Paddy Chayefsky, Rod Serling e Reginald Rose, che non erano riusciti a sfondare a Hollywood o a Broadway, trovarono nuovo terreno fertile in cui il loro talento poteva sbocciare. E a salire a bordo con loro c’era tutta una nuova generazione di registi. Inciampavano e imprecavano contro l’attrezzatura rudimentale, impallidivano per l’orrore provocato dagli errori dei loro attori in diretta davanti a milioni di spettatori, ma finirono con l’amare la spontaneità e l’eccitazione del mezzo. Svilupparono un’audacia, un’inclinazione a gettare al vento cautela e convenzioni. John Frankheimer, Arthur Penn, Martin Ritt, Franklin Schaffner, George Roy Hill, Stanley Kubrick, Robert Altman, John Cassavetes (prima come attore, poi come regista) e (un po’ dopo) Bob Rafelson – tutti si fecero le ossa con il nuovo mezzo. Nel giro di quindici anni questi ribelli avrebbero creato alcuni dei più stupefacenti e provocatori film mai prodotti da Hollywood. Alle loro fila si unì nel 1951 Sam Peckinpah. Nel giro di un decennio avrebbe dimostrato di essere uno fra i più distinti membri di questa notevole generazione, ma difficilmente lo stesso Sam avrebbe osato ipotizzare un futuro simile per se stesso quando si candidò come fattorino per la società affiliata alla ABC a Los Angeles nel 1951. Fu scartato, ma poco dopo ottenne un lavoro – con l’aiuto del suo vecchio amico della Fresno State, Jim Baker – come macchinista alla KLAC-TV a Los Angeles, una delle 108 stazioni tv che erano spuntate in tutto il paese nei tre anni precedenti. L’atmosfera tra gli impiegati alla stazione televisiva era elettrica. Erano pionieri di una nuova frontiera e tutto sembrava possibile. «L’insieme delle persone che lavorava lì era curioso», dice Rudy Behlmer, un ex membro dello staff della KLAC. «C’erano persone che venivano dal teatro, dal cinema, da ogni sentiero della vita. È impossibile trovare uno staff tecnico di questo tipo, oggi. Loro la vedevano come un’opportunità. Entravi nel giro sapendo che, se anche cominciavi maneggiando le scenografie, se avevi qualcosa da offrire ed eri ambizioso saresti riuscito a risalire la china».
«Si facevano più lavori», dice Jerry Tamblyn, un ex direttore artistico della stazione. «Non era insolito che un aiuto regista o un addetto al materiale di scena prendessero il controllo dello spettacolo se un regista abbandonava. Era tutto molto libero. Tutti andavano a pranzo o a cena insieme dopo gli spettacoli; era come una famiglia». Ci volle un altro anno prima che un cavo coassiale fosse issato per tutto il paese, rendendo possibili per la prima volta trasmissioni su scala nazionale. Fino ad allora i grandi spettacoli di New York – Texaco Star Theater di Milton Berle, Your Show of Shows di Sid Caesar, Toast of the Town di Ed Sullivan – dovevano essere registrati su cinescopi e spediti in California per essere visti solo giorni dopo. I cinescopi erano macchine da presa che riprendevano le immagini da un monitor; la qualità variava da bassa a orribile. Questo lasciò una nicchia nei mercati locali per le stazioni indipendenti, che potevano fornire programmi di buona qualità in diretta. Piuttosto che riprodurre tracce sfocate di vecchi film di serie B e repliche, come avrebbero fatto un decennio dopo, le stazioni indipendenti produssero un’impressionante gamma di programmi originali. Non erano ancora stati sviluppati sofisticati studi demografici e indici d’ascolto, per cui se un’idea sembrava vagamente interessante i responsabili della stazione la mandavano in onda e vedevano se prendeva piede. Come nel periodo di Mack Sennett, una troupe veniva spedita a coprire interessanti eventi locali. Il risultato era una stravagante accozzaglia di varietà trasmessi in diretta nei salotti di tutta Los Angeles tra le sei del pomeriggio e mezzanotte. (La stazione restava inattiva nei restanti orari, senza trasmettere nemmeno un monoscopio.) Negli anni in cui Sam lavorò lì, l’offerta d’intrattenimento della KLAC comprendeva spettacoli di varietà come Family Night with Horace Heidt e Hollywood Palladium, con band popolari nelle vesti di ospiti; programmi musicali come The Liberace Show, Leo Carillo’s Dude Ranch, Tex Rittern’s Western Cavalcade e Piano Playhouse; sitcom come Life with Elizabeth con Betty White; un quiz televisivo
prodotto da Irwin Allen, che avrebbe in seguito guadagnato fama per i suoi film catastrofici pieni di grandi star come Inferno di cristallo; e una pletora di telefilm polizieschi, soap opera e serie antologiche da mezz’ora interpretati da Jane Wyatt, la giovane Natalie Wood, il principe delle tenebre dell’infanzia di Sam, Arch Oboler, e un serraglio di altre personalità di Hollywood in salita o in discesa lungo la scivolosa scala del successo. «Erano tempi incredibili, perché era come il teatro dal vivo, ma un teatro intimo; potevi avvicinare la cinepresa a tuo piacimento», dice Jerry Tamblyn. «Non era come nel cinema. Sceglievano attori che potevano recitare una scena in una sola ripresa e far sembrare che gli errori non fossero errori. Nel cinema allestivi la scena, la giravi e la rifacevi ancora e ancora. Poiché venivo dal teatro, trovavo la televisione molto più entusiasmante». «Al tempo non eravamo ostacolati dai sindacati come sarebbe successo in seguito», afferma Don Forbes, il direttore della programmazione che assunse Sam Peckinpah. «Se decidevo che volevo fare una cosa, potevo fare più o meno quel che volevo; ero libero di sperimentare con la luce, con il modo in cui volevo girare una scena. Un anno scrissi, produssi e feci la narrazione di uno spettacolo di Natale, cosa che non riuscirebbe facilmente oggi». La KLAC era all’avanguardia dal punto di vista dell’innovazione tecnica. I cameramen allo studio di Cahuenga Boulevard adattavano una vecchia pellicola muta da 35mm girata a mano in un cinescopio, ficcando pellicole da 3500 metri nella vecchia macchina da presa in modo da poter registrare spettacoli da un’ora o da mezz’ora senza dover ricaricare. «I portapellicole avevano un diametro di circa un metro», ricorda l’ex impiegato della KLAC Jim Hobson. «La pellicola era pesantissima, almeno qualche centinaio di chili; dovettero mettere un motore nella bobina ricevitrice, un motore nella bobina debitrice e un motore nella cinepresa». Il risultato fu che la KLAC ebbe il primo cinescopio del paese, capace di una risoluzione molto più alta rispetto a quella dei
cinescopi da 16mm che le reti inizialmente usavano. «Di tutti gli studi televisivi del paese, la KLAC aveva le luci migliori», dice Hobson. «Tutti gli altri usavano riflettori e luci al neon. Lo studio era equipaggiato con luci a ponte e lampade da film». Appena usciti dal college, Behlmer, Hobson e Baker erano così eccitati all’idea di trovar spazio nel nuovo mezzo, anche se come macchinisti, che la notte quasi non riuscivano a dormire. Per questa ragione, Baker rimase decisamente sconcertato quando, trovato un lavoro per Peckinpah, scoprì che quest’ultimo non condivideva il suo stesso entusiasmo. «Non gliene fregava niente», dice Baker. «Quando era il momento di spostare delle scenografie pesanti, non lo trovavi mai. Se ne stava sempre nascosto nella bottega degli allestimenti. In effetti, mi causò qualche problema. Mi dicevano: “Sei tu che hai portato qui quel coglione!” Lo ritrovavo in qualche angolo a scrivere, oppure al telefono». Le possibilità della televisione allettavano Sam, ma spazzare e trascinare fondali in giro per 22,50 dollari alla settimana dopo aver diretto i suoi spettacoli ad Huntington Park per due anni lo allettava meno. La sua mente aveva bisogno di stimoli creativi, per cui invece di cercare di impressionare i suoi superiori mostrando uno zelo per il lavoro di fatica, rubava ogni momento che poteva per restare da solo con una matita e un taccuino giallo. «Stava insegnando a se stesso a scrivere», racconta un altro ex impiegato della KLAC, John Langdon. «Scriveva con una matita, in stampatello. Seguiva le proprie viscere, l’istinto. Aveva tanto coraggio intestinale. Grattava fuori le parole. Non ho mai avuto l’impressione che potesse avere un’ispirazione che gli impedisse di scrivere abbastanza velocemente. Avevo l’impressione che usasse l’artigianalità e costruisse i suoi copioni. Spezzettava i romanzi d’azione/western, i tascabili, per scomporre gli elementi della storia. Girava una storia secondo la quale Beethoven, quando si scoprì che prendeva frammenti di musica dagli altri, avrebbe dichiarato: “Questo è
il mio modo di scrivere”. Sam diceva invece che quello era il suo modo di imparare». Il romanziere William Burroughs avrebbe più tardi reso popolare questa tecnica. Tagliando le singole scene di una narrazione standard, era possibile muoverle e giustapporle in modo da scoprire nuovi modi di raccontare la stessa storia. Da regista, Peckinpah avrebbe usato continuamente questo approccio con i suoi tecnici del montaggio, spingendoli costantemente ad «andare oltre», a scoprire approcci non ortodossi e non cronologici per le sequenze. Sotto la sua supervisione, tagliavano scene e personaggi e separavano pezzi d’azione all’interno di una sequenza per creare un intenso livello di azioni parallele di modo che tre, sei, anche una dozzina di cose sembrassero avere luogo contemporaneamente. I primi, rudimentali passi verso il suo inconfondibile stile li mosse in angoli nascosti della bottega degli allestimenti della KLAC. Non tutto il lavoro da macchinista era tedioso per Sam. Spingere su e giù il sedile a molla di un carro, appena fuori dalla portata della cinepresa, in modo che Tennessee Ernie Ford desse davvero l’impressione di cavalcare in una qualunque direzione mentre cantava le sue canzoncine smielate da cowboy valeva bene qualche risata. Idem sedersi a bordo ring per Wrestling Workout. Dava le battute per le interruzioni pubblicitarie – «e ora la parola al nostro sponsor, l’integratore vitaminico Thytol!» – e cercava di contenere le risate davanti ai balletti vigorosi di fenomeni pituitari come «il dottor Lee Gable, l’ipnotizzatore del wrestling!» che mandava al tappeto i suoi avversari con la sua «trance anestetizzante zombie!» E se un compito richiedeva creatività, l’atteggiamento di Peckinpah cambiava radicalmente. Don Forbes usò Sam come assistente per un paio di spettacoli che diresse negli studi. «Era molto, molto creativo – le sue idee, il suo approccio, i suoi suggerimenti su come articolare lo spettacolo, l’allestimento, la regia, tutto, insomma». Forbes restò così colpito da affidare a Peckinpah la responsabilità degli oggetti di scena per molti
spettacoli e aumentare il suo salario a 87,50 dollari alla settimana. John Langdon ricorda che Sam era «molto organizzato» come addetto al materiale scenico. Ma la maggior parte della sua energia era ancora riservata alla scrittura e al tentativo di mettere su qualche produzione indipendente che mostrasse il suo talento ai potenti agenti di Hollywood. Le telefonate che faceva nel retro della bottega degli allestimenti non erano di natura sociale. «Era sempre interessato a fare qualcosa di diverso da quello per cui era stato assunto, cioè trasportare le scenografie», dice Rudy Behlmer. «Aveva sempre qualcosa che stava preparando o facendo o a cui stava lavorando o che sperava potesse vendere a qualcuno. Aveva una grande abilità nel mettere qualcosa in moto. Seppur di indole calma, era estremamente motivato. Al tempo non era affatto un carattere esuberante; non era pieno di sé, non dava mai quell’impressione. In qualsiasi affare si mettesse, non dava mai la sensazione di voler sopraffare qualcun altro con giochi pirotecnici di parole. Lo faceva sempre con una voce dolce». «Di ogni persona con cui entrasse in contatto si chiedeva sempre come potesse essere usata», dice Jim Baker. Uno dei migliori accordi ottenuti da Sam fu la possibilità di avere accesso al teatro Music Hall di West Los Angeles. Convinse la direzione della KLAC, che affittava la struttura per The Liberace Show, a lasciarglielo una sera per una rappresentazione teatrale di due atti unici di Tennessee Williams, 27 Wagons Full of Cotton e Hello from Bertha. Lo spettacolo attrasse un pubblico di circa un centinaio di persone – amici della USC e della KLAC. «Procedeva molto, molto bene», dice John Langdon. Ma nessuno allungò a Sam un bel contratto perché lo firmasse. Contemporaneamente, anche altri impiegati della KLAC stavano lanciando progetti propri. Visto che i due teatri di posa erano attivi solo sei ore al giorno e inattivi per le altre diciotto, il direttore dei programmi Don Forbes fu così generoso da dare agli aspiranti registi la possibilità di usare gratuitamente
gli spazi e l’attrezzatura nelle ore libere. Jim Hobson, John Langdon, Rudy Behlmer e Jim Baker cominciarono tutti a sperimentare. Era un’occasione d’oro, come riconobbe subito Peckinpah. Fece da assistente ai progetti degli altri; guardava, faceva domande, sviluppando lentamente una conoscenza del nuovo mezzo. Usando le cineprese multiple dello studio e il mixer nella cabina di controllo, che spostava l’immagine da una cinepresa all’altra secondo il volere del regista, era possibile girare uno spettacolo di mezz’ora in un’unica ripresa. Le cineprese preposizionate catturavano l’azione in campi lunghi, campi medi e primi piani e al termine di una sola revisione si aveva un cinescopio completamente montato. Jim Hobson non faceva che giocare con le innovazioni tecniche, spingendosi sempre oltre ed esplorando nuove possibilità. Ideò un pezzo – girato direttamente su pellicola – in cui le cineprese, le luci e i microfoni dello studio si muovevano con un sottofondo di musica classica, cadendo, affondando e piroettando in un «balletto» di oggetti animati. «Rudy Behlmer interpretava il direttore d’orchestra», ricorda Hobson. «Rudy, a un certo punto, dà una battuta in levare e un enorme faro cade al rallentatore dalla sua cavità, schiantandosi contro il pavimento e riducendosi in milioni di pezzi che rimbalzano a un metro di distanza». Lo sguardo di Sam si illuminò quando vide il filmato. «Come diavolo hai fatto?» Voleva sapere a che velocità lo avesse girato, e discussero a lungo degli effetti che si potevano ottenere girando a diverse frequenze. Non ci mise molto a partorire un progetto cinematografico tutto suo, che si sarebbe occupato di alcune questioni rimaste in sospeso alla USC. Per terminare la sua tesi di master abbandonata, Sam propose di dirigere un atto unico in teatro alla USC e poi portare in scena lo stesso pezzo per la televisione alla KLAC. Lo scopo, disse Peckinpah ai suoi relatori, era quello di provare la realizzabilità di tali produzioni per la televisione educativa, che era ancora agli albori. Butler ci vide invece una motivazione meno disinteressata. «Onestamente credo lo abbia fatto per entrare nell’industria
cinematografica», disse in seguito a Paul Seydor. Ciononostante, Butler approvò il progetto e nell’estate del 1953 Sam ci si era già buttato a gran velocità. Scelse come soggetto un’altra opera di Tennessee Williams, Portrait of a Madonna. L’aveva vista in scena insieme a Don Levy un paio d’anni prima al Las Palmas Playhouse, con Jessica Tandy nel ruolo della protagonista, supportata da Vincent Price. Orson Welles, Rita Hayworth e Edmond O’Brien erano alcune delle star in platea quella sera, ma la loro presenza impallidì di fronte all’incantesimo della performance di Tandy, che le valse una standing ovation alla chiusura del sipario. L’opera era incentrata su una zitella pazza del Sud nel giorno in cui i dottori della casa di cura arrivano a prelevarla dal suo polveroso appartamentino, perché le sue deliranti farneticazioni disturbano gli altri inquilini del palazzo. Lucretia Collins è combattuta tra il suo profondo conservatorismo cristiano e i suoi desideri sessuali inconsci. Questo conflitto si manifesta nei suoi ricordi allucinatori di un ragazzo di cui era stata innamorata, ma che poi aveva sposato un’altra donna Come Amanda Wingfield in Lo zoo di vetro, Lucretia Collins racchiudeva dei parallelismi con la madre di Sam, che ancora piangeva il suo amore perduto, Bob Nichols, un fantasma che diveniva sempre più idealizzato ogni anno che passava. E poi c’era il dissidio interiore di Lucretia tra la fedeltà all’ideale di castità della sua chiesa e i suoi impulsi carnali. Fern Peckinpah disse una volta a sua figlia Susan che quando, durante la pubertà, il seno cominciò a svilupparsi, avrebbe voluto tagliarselo via. Eppure quando andava a trovare Sam a Hollywood era affascinata dalle pratiche sessuali libertine dei nativi. Susan ricorda l’imbarazzata descrizione di una coppia di omosessuali che Sam indicò in un ristorante locale. «Sammy ha detto che uno fa la femmina e l’altro il maschio. Ci pensate?» Come un camaleonte, l’immagine di Fern Peckinpah continuava ad apparire nei lavori di Sam, ogni volta con una
sfumatura leggermente diversa, ma essenzialmente a partire dalla stessa ossatura. Nelle vesti di Amanda Wingfield e nelle altre sue incarnazioni, appare manipolatrice, minacciosa, colpevole. Ma qui, per la prima e ultima volta, Sam la avvolse in una luce di profonda pietà, concedendosi di sentire l’intera «tragedia personale» della sua vita. Provarono la rappresentazione nella prima settimana di luglio allo Stop Gap Theater della USC. Nuovo spazio performativo derivato da un vecchio garage nel campus, era a malapena più adeguato della struttura del Vecchio College. William C. White, ora professore associato alla scuola di teatro della USC, realizzò le luci per lo spettacolo e ricorda Sam durante le prove: «Stava sempre in piedi; non era uno di quei registi che restano seduti sulla sedia. Stava in piedi di fronte al palco con le braccia conserte, incredibilmente concentrato. Voleva sempre rilavorarci. La cosa più importante per lui era che sul palco accadesse qualcosa a livello emotivo ogni secondo. Le luci venivano curate molto attentamente. Il set era molto dettagliato, ogni cosa al suo posto. Aveva fatto molte ricerche. Confidavamo che ce l’avrebbe fatta, si intuiva dal grande interesse che nutriva per la sua arte». Marie interpretava Lucretia. In passato, quando avevano lavorato insieme, le cose non erano andate molto bene. Sam, che dava tanta libertà agli altri attori, permettendo loro di esplorare le sfumature dei rispettivi personaggi, diventava ansioso con Marie e dirigeva ogni suo gesto e inflessione. Ma stavolta fece un passo indietro e le diede un po’ di respiro. «Eravamo in sintonia sui temi in gioco», dice Marie. «È stata un’esperienza meravigliosa, molto entusiasmante per entrambi perché per Sam fu la prima volta che girava qualcosa». Il 27 luglio, dopo aver portato in scena l’opera davanti a un pubblico allo Stop Gap, Peckinpah trasferì l’intera produzione, i set e tutto, alla KLAC. Quando la stazione terminò le trasmissioni, all’una di notte, Sam, i suoi attori e la sua troupe – reclutati tra la USC e la KLAC – trasportarono le scenografie e gli oggetti di scena in uno dei due teatri di posa e
cominciarono a sistemare le luci. Ci volle fino alle nove del mattino per mettere tutto al posto giusto. Gli attori furono vestiti, truccati e controllati sotto le luci e fu testato anche il livello audio dei microfoni. Sam aveva programmato attentamente ogni singolo movimento di macchina e istruito gli attori sulle loro posizioni sceniche, per favorire le riprese anziché fare il contrario. Nella cabina di controllo Rudy Behlmer era al mixer, spostando le riprese da una cinepresa all’altra alle battute prestabilite, in modo che l’intera rappresentazione potesse essere passata al cinescopio in una sola prova. La dettagliata descrizione che Peckinpah fece nella sua tesi delle inquadrature, delle lenti usate, della sistemazione delle luci, della disposizione scenica dimostra quanto meticolosamente avesse progettato la produzione e quanta competenza tecnica avesse acquisito lavorando alla KLAC. Gli attori, i set e gli oggetti di scena dovevano essere fuori dallo studio per l’una del pomeriggio, quando la stazione avrebbe ripreso le sue trasmissioni. Ciò diede loro il tempo necessario per un paio di prove soltanto prima del girato vero e proprio, che cominciò alle 11.45 e finì alle 12.06. «Il limite di tempo era assurdo», ricorda Rudy Behlmer. «L’unica ragione per cui la KLAC concesse a Sam quello spazio era proprio che avrebbe fatto dentro e fuori in pochissimo tempo. Il principale pensiero di Sam era riuscire a farcela». Il risultato finale fu una delusione, ma molto educativa. L’interpretazione di Marie, così efficace di fronte a un pubblico dal vivo allo Stop Gap, risultò affettata e melodrammatica sotto l’intimo sguardo delle cineprese. Era un problema che aveva perseguitato gli attori di teatro fin dalla nascita del cinema, ma era la prima volta che Sam ci si imbatteva e se ne assunse la responsabilità. Scrisse nella sua tesi: «Se la recitazione degli attori in generale – e della signorina Collins in particolare – sembra esagerata per lo schermo televisivo è a causa dell’incapacità del regista di
modificare adeguatamente le sfumature delle interpretazioni nel passaggio dal palcoscenico alla televisione». Scoprì anche che le sue cineprese posizionate con tanta cura avevano dato al film un ritmo impacciato. La selezione delle riprese è stata troppo cauta. Numerose opportunità di copertura con il girato delle macchine due e tre sono state ignorate. Questo a causa di due fattori. La prima ragione è che tutte le riprese sono state preselezionate durante le prove. Il regista riponeva molta fiducia nella teoria della preselezione. Tuttavia, in fase di visione diventava evidente che un eccesso di tecnica scenica aveva condizionato la selezione delle riprese. La maggior parte delle riprese indicavano una frenetica attività sul palco nel tempo scenico. Di conseguenza, il ritmo e il tempo della produzione televisiva era lento e per questo meno efficace rispetto alla versione teatrale. In generale, ogni ripresa era buona, ma l’intimità dello schermo televisivo, con il suo spazio di visione tremendamente ridotto, richiedeva un uso più vario e fantasioso della cinepresa.
Negli anni seguenti avrebbe applicato queste lezioni a oltranza. Da quando si laureò al periodo dei suoi grandi film, raramente programmò le riprese in anticipo. Arrivava sul set solo con un’idea generale di come voleva girare una scena. Come John Huston, lasciava che gli attori provassero finché la scena non cominciava a prendere forma, e solo dopo decideva dove piazzare le cineprese. E per non restare a corto di materiali, riprendeva ossessivamente da angoli diversi ogni minimo dettaglio interno alla scena, così da disporre di elementi a sufficienza con cui giocare in sala montaggio. Questo approccio mandava in apoplessia i produttori ossessionati dalla programmazione e faceva navigare i suoi tecnici del montaggio in un mare di celluloide, annaspando in cerca della terra ferma. Ma ciò conferì ai suoi film uno stile incredibilmente sfaccettato e dinamico, riconoscibile all’istante e diverso da quello di ogni altro regista. Visto oggi, a più di quaranta anni dalla sua creazione, il cinescopio di Portrait of a Madonna è indubbiamente lento, crudo, interpretato in maniera esasperatamente teatrale – eppure curiosamente commovente. Ovviamente grande merito va a Williams; l’opera avrebbe avuto un grande impatto anche se fosse stata semplicemente letta da imperturbabili dilettanti intorno al tavolo della cucina. Ma non si tratta solo delle
parole di Williams. Un accento di genuino tormento penetra nei movimenti e nell’intonazione sovraccarica di Marie, e l’obiettivo di Peckinpah la isola in lunghi primi piani che evocano la sua alienazione da chi le sta intorno. In successive interviste, Peckinpah avrebbe discettato rapsodicamente sui libri di Robert Ardrey, incoraggiando i giornalisti a dipingerlo come un dogmatico darwinista che celebrava la brama dell’uomo per la dominazione più selvaggia, e in un certo senso lo era davvero. Tuttavia la sua cinepresa si sofferma continuamente su coloro che hanno fallito nella competizione imposta da «una società che non ha spazio per i deboli». «Se questo mondo è destinato ai vincitori, cosa c’è per i perdenti?», si chiede Robert Preston in L’ultimo buscadero. Una parte di Peckinpah fremeva per la natura spietata e competitiva della vita e celebrava chi si lanciava completamente nella lotta. Ma un’altra parte di lui era perplessa e inorridita dalla spietata realtà dell’animale umano e non riusciva a ricondurla agli ideali cristiani che aveva rifiutato, ma di cui il suo sangue non si era ancora completamente disfatto. «Sam era un idealista», dice Don Levy. «Non ho mai conosciuto un idealista che non fosse in pena». Portrait of a Madonna valse a Peckinpah qualche riconoscimento come regista. Dopo il suo completamento, riprese e montò un segmento di film per The Betty White Show, e un pilota di dodici minuti per una serie per bambini che riadattava favole classiche. In quest’ultima, l’uso di luci e set espressionisti e di un montaggio più sofisticato – primi piani e campi lunghi erano più fluidamente integrati e c’era anche una sequenza di montaggio – dimostrava che la sua tecnica era molto cresciuta dai tempi di Portrait of a Madonna. Il progetto seguente fu un atto unico su Michelangelo scritto dall’ex compagno della USC di Sam, Jack Gariss. Sam provò e allestì la produzione in una zona vuota della bottega
alla KLAC, sperando di persuadere la direzione a trasmetterlo come un dramma di mezz’ora. «Sam aveva previsto tutto ed era pronto», ricorda Don Stoutenborough, uno dei membri del cast. «Aveva già in mente tutte le angolature, tutte le interpretazioni, e noi pensavamo: sarà straordinario! Questa roba sarà eccezionale, non vediamo l’ora di metterla su pellicola!» Ma quando Peckinpah riuscì finalmente a convincere un produttore della KLAC a vederne una performance, l’uomo fece pollice verso. La sconfitta pesò molto a Sam. «Si era dannato per impressionare questo tipo verso il quale non aveva il minimo rispetto», dice Stoutenborough. «Questo tipo era un piccolo funzionario di produzione di un game show. Se non avesse dovuto impressionarlo, Sam lo avrebbe ignorato completamente. Era arrabbiatissimo. Disse: “Fantastico! Questi siamo noi, il talento, e questo è lui, l’insignificante su cui dobbiamo fare colpo!”» I J.W. Wright, aveva scoperto, non esistevano solo alla Fresno State, neanche lontanamente. L’esperienza guastò la sua permanenza alla KLAC. Sam disse a Garner Simmons che aveva avuto una discussione con un dirigente della stazione tv che gli aveva detto che non lo pagavano per pensare, ma per fare quello che gli veniva chiesto. «Così gli dissi», ricordava Peckinpah, «che se era così, poteva prendersi quel dannato lavoro e ficcarselo nel culo!» Ma altre volte, in anni più recenti, Sam disse ai giornalisti che era stato licenziato dalla stazione televisiva per essersi rifiutato di indossare una cravatta mentre lavorava sul set di The Liberace Show. E poi c’è un terzo aneddoto, ancor più colorito, su come lasciò la stazione, raccontato dal cognato, Walter Peter, che sposò Fern Lea nel 1954. Come racconta Walter, Sam stava girando alcune pubblicità per un rivenditore di auto usate locale. «Amici, venite a vedere il vecchio H.J. Caruso! Qui alla Caruso Motors il nostro motto è servizio amichevole e prezzi molto, molto bassi!» Le pubblicità venivano trasmesse
in diretta e spettava a Sam dare le battute a Caruso quando era in onda. Nelle pause tra una pubblicità e l’altra, il caloroso sorriso di H.J. Caruso si tramutava nel ringhio di una tigre dai denti a sciabola, e l’uomo si divertiva a distruggere verbalmente i membri della troupe. «Sam lo odiava dal profondo del cuore», ricorda Walter. «E alla fine decise: che cazzo! Quando giunse il momento di avvertire il tipo che era in onda, Sam se ne restò lì come un Buddha per trenta secondi. E così ecco il rivenditore di fronte a milioni di spettatori mentre si gratta le palle e urla alla troupe: “Coglioni pigri! Vi ho detto di muovere il culo!” Sam poi lo avvisò, ma con trenta secondi di ritardo. Il giorno seguente arrivò al lavoro e il rivenditore gli disse: “Sei licenziato! Sei fuori!”» È possibile che una o anche tutte le storie sopracitate siano vere. Di certo, come vedremo, Sam commise atti di ribellione ben più oltraggiosi nel corso della sua carriera. La KLAC aveva così tanti programmi e pubblicità che venivano girati in diverse location per tutta la città, che è possibilissimo sia stato cacciato da The Liberace Show o esiliato dalla concessionaria di H.J. Caruso continuando a lavorare in altri programmi. È allo stesso modo possibile che nessuna delle storie sopracitate sia vera. Raggiunta la luce della fama internazionale, Peckinpah fabbricò molti eroici aneddoti che ne alimentarono la leggenda di fiero anticonformista del Selvaggio West, capace di disarcionare il sistema hollywoodiano. Ne raccontò in abbondanza, per cui pochi giornalisti si scomodavano a mettere in questione la veridicità di tali storie – tutti i soggetti coinvolti avevano da guadagnarci. Nessuno degli ex impiegati della KLAC intervistati ricorda gli incidenti di cui sopra. Marie ricorda che il lavoro di Sam alla stazione si ridusse gradualmente man mano che trovava incarichi altrove e che non terminò con alcuno scontro drammatico.
Ma Jim Baker ricorda bene che Sam era percepito come un tipo problematico, e di aver cercato di convincerlo a tenersi il lavoro con la KLAC. «Gli ho detto che doveva mettersi in riga e volare basso perché la televisione sarebbe stata la nuova grande scoperta. A lui non fregava niente, mentre per me era un’occasione d’oro. Voleva fare film e io lo trovavo pazzo da legare. A quel tempo la convinzione era che il cinema fosse spacciato, mentre lì avevamo una cosa completamente nuova, eravamo giovani e potevamo fare quello che volevamo. L’industria cinematografica stava per chiudere i battenti, controllata solo da una manciata di persone. Ma per Sam il cinema era il mezzo per raccontare storie per eccellenza e la televisione non lo sarebbe mai stata. Dalla prospettiva di oggi, credo che avesse ragione». Il tipo di storie raccontate dal cinema stava cominciando a cambiare in seguito a un flusso di film radicalmente nuovi che arrivavano dall’estero, soprattutto dall’Europa e dal Giappone, prodotto di una nuova generazione di registi che non avevano paura di guardare ai film come a una forma d’arte e di rischiare con stili innovativi e spigolosi e soggetti tabù. Dalle lacere rovine dell’Italia e della Francia postbelliche arrivarono crudi pezzi di neorealismo in bianco e nero come Sciuscià, Ladri di biciclette e Giochi proibiti. Film semplici su persone comuni e sulla loro lotta per sopravvivere, spogliati di qualsivoglia trucco, filtro, ricca musica di sottofondo e tre strati di technicolor; semplici, elementari racconti di sopravvivenza. E poi c’erano i registi che avevano stili notevolmente idiosincratici – Akira Kurosawa, Federico Fellini, Ingmar Bergman – che i giovani critici francesi cominciavano a chiamare «auteurs»: autori di film, tanto meritevoli di considerazione artistica quanto i romanzieri, i pittori e i compositori. I magnati del cinema americano inizialmente giudicarono la teoria ridicola, ma poi impazzirono letteralmente quando essa cominciò a prendere piede nel loro stesso paese, nel corso del decennio successivo.
Sam e Marie andarono a vedere tutti i nuovi film stranieri; Sam li divorava voracemente. Rashomon di Kurosawa – la storia di uno stupro e di un omicidio raccontata da quattro diversi punti di vista – metteva in luce tutta la falsità, il tradimento e l’illusione insiti nella razza umana, accendendo però alla fine un barlume di speranza, quando un taglialegna trova un bambino abbandonato e, decidendo di adottarlo, scopre di essere capace di pietà e amore disinteressato. Un piccolo film intimista che catturava l’intero spettro dell’esperienza umana entro i suoi esili confini. Peckinpah avrebbe in seguito detto in un’intervista che era «la pellicola più raffinata mai realizzata». A esso Kurosawa fece seguire I sette samurai, uno splendido film epico che si rifaceva alla mitologia dei western americani e alle tragedie di Shakespeare filtrando tutto attraverso la singolare visione del regista. Il montaggio di Kurosawa delle sequenze di battaglia lasciava senza fiato. In alcuni combattimenti con la spada i samurai trafitti cadevano a terra al rallentatore. Questo conferiva un’angosciante tocco di poesia alle loro morti, come la lampada in caduta di Hobson, eppure l’effetto era scioccante. Lo slow motion era stato bruscamente ritagliato nell’azione, non integrato. Come EjsenŠtejn nello studiare i primi casi di utilizzo dei primi piani e dell’azione parallela da parte di D.W. Griffith, le rotelle nella testa di Peckinpah cominciarono a girare. C’era una maniera più efficace di ritagliare insieme inquadrature a velocità variabili affinché la parte al rallentatore e il normale girato scorressero insieme in un continuum dinamico? Ma Sam non era affascinato solo dalla tecnica di Kurosawa. Nei Sette samurai un gruppo di mercenari accetta di salvare un villaggio di contadini dagli assalti dei banditi. Vincono la battaglia, ma mentre gli insanguinati sopravvissuti guardano i contadini ritornare ai loro campi, dimentichi già dei loro oppressori e dei loro salvatori, capiscono che sono proprio i contadini gli unici veri vincitori. Giorno dopo giorno piantano e si occupano del raccolto, danno alla luce i loro figli, seppelliscono i loro morti; perseverano, sopravvivendo a ogni
ondata di conquistatori, che sono prima o poi sconfitti dai successivi. Era un’osservazione che Sam aveva fatto lui stesso e di prima mano, anni prima in Cina e in Messico. I sette samurai fece sì che la sua mente si aprisse a nuove possibilità. «Vorrei essere capace di creare un western come quelli che fa Kurosawa», avrebbe detto in seguito a un intervistatore. I film europei e le opere di Tennessee Williams e Arthur Miller cominciarono a cambiare anche il volto dei film di Hollywood. Nuovi giovani registi come Elia Kazan e Fred Zinnemann portarono sul grande schermo drammi schietti e socialmente impegnati come Il mio corpo ti appartiene, Da qui all’eternità, Fronte del porto e Un tram che si chiama Desiderio di Williams, con l’ausilio di un gruppo di attori seguaci del metodo, borbottanti e dallo guardo sfuggente, le cui nevrosi emergevano chiaramente dalle magliette macchiate e dalle giacche di pelle consumate. Perfino i western avevano cominciato a cambiare. Prima che John Ford avesse la possibilità di completare la sua classica trilogia cavalleresca, un nuovo sottogenere aveva fatto la sua comparsa: il western per adulti. Romantico avventuriero, Mezzogiorno di fuoco, Lo sperone nudo, Johnny Guitar – film che usavano il genere come veicolo per criticare la società americana contemporanea, per sondare gli impulsi nevrotici e addirittura psicotici che pulsavano veloci sotto l’idealismo e il fanatico buonismo degli anni Cinquanta. Il preferito di Sam tra questi film era Il Cavaliere della valle solitaria. Nella regia di George Stevens vedeva una grandiosa visione che richiamava quella di Kurosawa, pur senza eguagliarla appieno. Una scena in particolare lo catturò. «Sto dicendo che il vostro grande Jackson era feccia. Lui, Lee e tutti gli altri sudisti… Anche tu», sibila un Jack Palance vestito di nero al colono Elisha Cook Jr. con un ghigno da cobra. Cook abbocca all’amo. «Sei un inutile, bugiardo yankee!»
«Dimostralo», sussurra Palance tra i bianchi denti. Cook cerca goffamente di afferrare la sua pistola. La rivoltella con il calcio di madreperla di Palance esce dalla fondina in un istante. Si ferma per un attimo, ancora sorridente, assaporando il momento e lasciando che in Cook penetri l’orrore prima di premere il grilletto. BANG! – risuona nella prateria come la frusta di Satana. Cook sobbalza in aria e vola all’indietro, le spalle scivolano in una pozza di fango e sterco di cavallo. Appena il suo cadavere si ferma – indistinguibile dal letame che prima sovrastava – si sente il verso di un uccello, simile a un canto, alto e dolce. «Uccidere sembrava una cosa divertente ad Apacheland», avrebbe detto Peckinpah in seguito. «La violenza non era mostrata bene. Sparavi un colpo e tre indiani cadevano a terra. Ma quando Jack Palance sparò a Elisha Cook Jr., le cose cominciarono a cambiare». La svolta di Sam verso il cinema non arrivò grazie ai pezzi grossi della KLAC o di Hollywood in generale che avevano visto le sue rappresentazioni o film sperimentali; arrivò invece, in modo del tutto appropriato, da Fresno e da suo fratello maggiore Denny, che lavorava sempre allo studio di suo padre nel Brix Building in centro. Denny spiega: Ero stato il responsabile della campagna di Pat Brown nella contea di Fresno durante le elezioni per il procuratore di Stato. Vinse con una percentuale più alta a Fresno che in qualsiasi altra contea dello stato. Ci avevo tenuto a parlargli di Sam e delle sue ambizioni. Pat disse: «Allora, quando sarà pronto, fammi sapere e vedrò cosa posso fare per dargli una mano con l’industria cinematografica» […] Sam sentiva finalmente di aver imparato tutto il possibile lavorando alla KLAC, perciò organizzai un incontro tra di noi a Santa Barbara. Pat doveva presenziare a un’assemblea dei procuratori distrettuali che si teneva proprio lì. Sam portò il suo curriculum e tutte quelle cazzate. Pat lo portò nella sua stanza d’albergo e restarono a parlare per quarantacinque minuti. Poi Pat uscì e chiamò Walter Wanger al telefono.
Uno fra i personaggi più coloriti di Hollywood, Wanger aveva lavorato come produttore o produttore esecutivo pressoché ovunque: Paramount, Columbia, Universal, RKO e MGM. Aveva prodotto Ombre rosse e Lungo viaggio di ritorno
di John Ford e Il prigioniero di Amsterdam di Alfred Hitchcock. Poi sparò all’inguine all’agente di sua moglie. Aveva colto i due (Jennings Lang e Joan Bennett) in un abbraccio poco platonico. Wanger passò quasi quattro mesi in prigione. Uscitone, voleva fare della sua esperienza un film e tornò in sella producendo Rivolta al blocco 11 per la Allied Artists (formalmente conosciuta come Monogram), uno studio di serie B specializzato nella produzione di film a basso costo. Quando Wanger rispose, Brown disse: «Walter, ricordi quel film che volevi girare alla prigione di Folsom? Penso si possa fare, nessun problema. Senti, ho qui un giovane amico di nome Sam Peckinpah che vorrebbe entrare nel giro della cinematografia. Se riuscissi a trovargli un posto nella tua produzione, sono sicuro che darà il massimo… Okay, splendido, glielo dico». Brown riattaccò, si rivolse a Sam e disse: «Be’, sei dentro. Farai un paio di centinaia di dollari, vedrai il tuo nome sullo schermo e questo è tutto. Da lì in poi dovrai cavartela da solo».
3
«NON SI PUÒ UCCIDERE COSÌ UN RICORDO»
Se mai un uomo si è trovato al posto giusto nel momento giusto, quello è stato Sam Peckinpah. Avrebbe seguito un percorso circolare dai film alla televisione, per poi tornare di nuovo ai film, ma era come se ogni passo fosse predestinato a compiersi esattamente al momento giusto. Il primo passo lo pose sotto la guida di un mentore con un temperamento che combaciava perfettamente con il suo. Il successivo lo riportò alla televisione proprio quando il grande boom del western aveva creato un’enorme necessità di sceneggiatori che scrivessero dialoghi autentici e fossero immersi a fondo nella mitologia del Selvaggio West. Se gli dei gli riservarono questa incredibile catena di eventi fortunati, non fu per carità. C’era un prezzo da pagare, anche molto alto. Sam, frastornato dalla rapida ascesa al successo, ci avrebbe messo parecchi anni per notarlo. Marie, invece, lo capì sin dal principio, sebbene fosse impossibilitata quanto lui a invertire quel senso di marcia. Mentre la carriera di Sam schizzava verso l’alto, il padre David vedeva la sua andare in fumo. In trent’anni di attività si era creato un’irreprensibile reputazione come uno dei maggiori avvocati di Fresno. Era un Repubblicano, non un Democratico come lo era stato suo suocero Denver Church, ma come Denver era popolare sia tra i nababbi che tra i comuni cittadini. Membro prominente delle più importanti organizzazioni civiche della città, con amici al municipio e nelle grandi aziende agricole che controllavano la politica
nella San Joaquin Valley, sapeva dove erano i fili e come muoverli. Così, quando il Partito Repubblicano cominciò a cercare candidati che li aiutassero a ottenere la maggioranza al congresso nel 1952, non ci pensarono due volte a puntare sull’alto, smilzo David Peckinpah dal viso alla Abe l’onesto. «[David] fu chiamato dal presidente Eisenhower», ricordò in seguito Sam, «a candidarsi per il Congresso». La mente di David doveva essere tornata a Washington D.C. nel 1917, a quel giorno in cui restò di fronte all’appena eretto Lincoln Memorial a pensare quanto in alto potesse arrivare il figlio di un boscaiolo con la necessaria motivazione e perseveranza. Eccola finalmente, un’occasione per seguire le orme del vecchio Denver e, chissà, magari anche sorpassarlo. A cinquantasette anni non era esattamente di primo pelo, ma aveva ancora davanti a sé quindici, venti anni buoni. Tutto il tempo. Tornò a casa dal lavoro presto, quel giorno, impaziente di dare la notizia a Fern. Probabilmente non si era minimamente fermato a considerare come avrebbe reagito sua moglie. La sua eccitazione era tale che sarebbe stato inconcepibile non condividerla. Ma mentre le parole rotolavano fuori dalla sua bocca un po’ alla rinfusa, riconobbe immediatamente il suo errore nel vedere i muscoli della faccia di Fern tendersi, le mani dalle lunghe dita fluttuare nervosamente verso le tempie, gli occhi accendersi repentinamente di paura e rabbia. «Mia madre era la persona più egoista che abbia mai conosciuto», dice Fern Lea. «Non pensava ad altro che a se stessa e ai suoi bisogni. Non si fermava mai a prendere in considerazione cosa potesse desiderare mio padre». Già sconvolta dalle ore che David trascorreva in ufficio, in tribunale e con le varie organizzazioni, Fern vide questa nuova opportunità come una catastrofica minaccia. Innescò le sue paure di abbandono più profonde». «Ci fu una riunione di famiglia», ricorda Sam, «e [Fern] disse [a David]: “Se accetti [di candidarti al Congresso] ti
lascio”. Così non lo fece e se ne pentì». David accettò la battuta d’arresto con riservato stoicismo. Aveva giurato davanti a Dio di restare fedele a sua moglie in salute e in malattia, nella gioia e nel dolore, per il resto della loro vita. Non voleva, non poteva venir meno a quell’impegno. Ma sotto la maschera dell’imperturbabilità, la decisione lo divorava. Una sera, durante una discussione, Fern Lea disse al padre: «Non credo che tu ami veramente la mamma». David non si contenne. «Come osi! Non dire mai più una cosa del genere!», urlò, colpendo ripetutamente le braccia alzate di sua figlia e lasciandole lividi che rimasero per giorni. L’idolo dell’infanzia di Sam era stato ridimensionato. Non sopportava le manie di controllo di sua madre e la tensione tra loro si sviluppò ulteriormente. Le bevute aumentarono in frequenza e dosaggio; Marie sembrava ignorare volutamente i campanelli d’allarme. Quando un amico le chiese cosa avrebbe fatto per aiutare suo marito con il suo problema di alcolismo, fece la faccia meravigliata e chiese: «Quale problema?» Fern, ovviamente, disapprovava nel modo più fermo e cercò di esercitare ancora una volta la propria autorità su D. Sammy. In visita alla casa di Whittier, un giorno vide Marie usare del vino per cucinare e perse le staffe, minacciando di interrompere i versamenti di denaro che lei e David facevano regolarmente per aiutare la giovane coppia. Nel suo diario, Fern ricordò in seguito di aver detto a Sam: «Preferisco spendere quel denaro per dare del latte a un bambino oltreoceano piuttosto che per quello per cui lo spendete voi!» Lo scatto d’ira fu seguito da scuse e dall’ennesimo impegno all’astinenza da parte di Sam, impegno che ovviamente non aveva alcuna intenzione di mantenere. In una visita a Fresno qualche anno dopo, Sharon – che al tempo aveva sei anni e la stessa precocità del padre alla sua età – andò da Fern e le chiese candidamente, «Tu bevi whisky?» «No», le rispose la nonna severamente.
«Il mio papà beve whisky». Fern sorrise, glaciale. «Non lo fa». Sharon annuì con pari ostinazione. «Sì che lo fa». «No, non lo fa». Quando se ne andarono, Sam – che era rimasto in silenzio durante lo scambio – si infuriò con sua figlia. «Hai detto a mia mamma che bevo!» Quando Sharon reagì con un misto di shock e confusione, lui scosse la testa con occhi furenti. «Sapevi cosa stavi facendo!» Il loro rapporto divenne ancora più teso con la morte di Denver Church. Il vecchio cacciatore aveva avuto una serie di ictus nei primi anni Quaranta, quando Denny e Sam erano partiti per la guerra. Il primo gli aveva lasciato un braccio quasi paralizzato e così fu costretto a vendere tutto il bestiame e trasferirsi insieme a Louise dal Dunlap Ranch in un piccolo appartamento a Fresno, su Chestnut Avenue. Ma Denver non avrebbe abbandonato l’Alta Sierra senza combattere. Sebbene la sua patente fosse stata revocata, sgattaiolava comunque spesso nel suo pick-up e partiva per le colline, di solito con David, Denny o Ed Klippert al suo fianco, perché la guida dell’ex membro del Congresso non era più quella di una volta. Ma intorno al 1950 anche camminare era diventata una sfida e le gite a Dunlap non erano più possibili. «Si muoveva molto cautamente», racconta Marie. «Ricordo che un giorno cercava di uscire dall’auto e aveva problemi. Sam tentò di aiutarlo e lui lo spinse via violentemente. Sam ne rise, ma sapevo che lo aveva ferito. Denver non permetteva mai a se stesso di accettare aiuti esterni». Più la salute calava, più la rabbia del vecchio cresceva. Nei suoi ultimi momenti, costretto a letto e incapace di muoversi, non gli restava che quella. «Costruirono una gabbia intorno al letto», ricorda Ed Klippert. «Era diventato aggressivo. Non era lucido, aveva completamente perso la testa. Gli misero accanto un’infermiera ventiquattro ore su ventiquattro, ma la signora Church [Louise] non osava
avvicinarsi troppo. Denver si aggrappava ai suoi vestiti o a qualsiasi altra cosa e non li lasciava andare. Una o due volte, le strappò quasi i vestiti di dosso. Era come un animale selvaggio». Il vecchio Denver combatté fieramente, ma alla fine la morte ebbe la meglio, nel febbraio del 1952. Le sue estese terre nelle contee di Fresno e Madera furono divise tra i suoi tre figli, ma fu Fern a ereditare il Dunlap Ranch. «Non pensavo che Denver lo avrebbe lasciato a lei», dice Ed Klippert, che aveva gestito il ranch negli ultimi anni. «Pensavo lo avrebbe lasciato ai due ragazzi, ne ero convinto. Credevo davvero che Sam e Denny si sarebbero aggiudicati quel posto». Probabilmente Denver aveva dato per scontato che successivamente Fern avrebbe lasciato la terra ai suoi nipoti. Dopotutto, entrambi i ragazzi erano praticamente cresciuti lì, dove avevano imparato a cavalcare, a cacciare e a sparare bene come il loro nonno. Sam poteva avere sentimenti contrastanti verso quelle distese d’erba e querce, ma aveva pescato la sua prima trota proprio lì, nel fiume Fine Gold, sparato al suo primo cervo e plasmato quelle vivide associazioni con il West americano che avrebbero permeato la sua vita e le sue opere da regista. Era, in un certo senso, una terra sacra. Ecco perché quando Fern voltò le spalle al ranch e lo vendette a uno sconosciuto, senza nemmeno dare a Denny e a Sam la possibilità di comprarlo per loro, il colpo fu così terribile. «Stavano cercando di procurarsi i soldi, così lei affrettò la vendita per assicurarsi che non lo comprassero», dice Ed Klippert. Fern sosteneva di volersene sbarazzare a causa dei tanti dolorosi ricordi legati a esso ora che il padre non c’era più. Ma i suoi figli sospettavano che, come sempre, ci fossero oscuri motivi nascosti. Forse era il suo modo di vendicarsi finalmente del padre, ora che lui era al sicuro nella tomba, per la storia di Bob Nichols. Tradimento per tradimento. Forse stava eliminando Denny perché lo vedeva, con crescente diffidenza e animosità, come un alleato di David contro di lei e come un
rivale che aveva usurpato il suo posto di favorita del padre. Nei suoi ultimi mesi costretto a letto, Denver aveva costantemente cercato il suo Denny Boy, l’unico che sembrava ancora riconoscere. Forse Fern si stava scagliando contro tutti loro, tutti gli uomini da cui si era sentita tradita, ingannata e controllata. Aveva trovato un punto debole ed era proprio lì che li avrebbe attaccati. «Ricordo che Sam stava per ore al telefono con Denny a parlarne», dice Marie. «Era allibito e molto, molto ferito. Non riusciva a capire come sua madre avesse potuto farlo». Un amico stretto di Sam ricorda che parlò con lui della perdita del Dunlap Ranch anni dopo. «Era un posto che aveva amato da bambino, e quando fu venduto fu come se gli avessero tolto metà della sua vita. Era pieno di rabbia per come la madre aveva gestito la cosa». Le cose non sarebbero mai più state le stesse tra Fern e il suo adorato D. Sammy. I loro discorsi a cuore aperto finirono e il muro che, a giudizio della madre, il figlio aveva eretto al ritorno dalla Cina era diventato così alto ormai che non riusciva più a spiare oltre. «Penso sia una situazione dove ci si aspetta che tu ami l’altro, e in effetti è così», dice Susan Peckinpah a proposito del rapporto tra suo fratello e sua madre. «Ma non sopporti quello che rappresenta. Penso che questi fossero gli elementi, e che non facessero che trasformare in peggio il loro rapporto». A un anno dalla morte di Denver, Louise – la pioniera dalla volontà di ferro, che cavalcava, pascolava le greggi, sparava col fucile e non retrocedeva davanti a nessun animale – appassì e morì anche lei. Le persone e la terra che avevano dato a Sam Peckinpah una viva connessione con la frontiera americana non c’erano più; l’ultimo collegamento rimasto era invisibile, profondamente nascosto nelle pupille dei suoi grandi occhi. Nel 1934 Denver Church aveva scarabocchiato una poesia sulla sua Alta Sierra nell’album di famiglia.
Un’angosciante premonizione degli eventi che sarebbero accaduti nelle due decadi seguenti. Lasciatemi restare su questo pendio – Ricordi cari al cuore mi chiamano; nella quiete della sera cascate d’acqua risuonano. Ma un mutamento rattrista lo spirito; casa e focolare non ci son più – né mai più quella famiglia felice che per il Vecchio Nido andava su e giù. Nido di gioventù, gioia e bellezza, nel mio cuore sei ogni dì; che la casa sia abbattuta, che la stalla sia distrutta – non si può uccidere così un ricordo. Il Dovere han seguito entrambi, all’ombra o nel sole conducono le loro vite; via cavalli, cani, pascoli – canoe spiaggiate e pistole arrugginite. Il crepuscolo avanza come sempre. Su tutto un fulgore si diffonde, risplende sulle cime a Occidente dalla luna colta tra le fronde.
A Los Angeles, Walter Wanger non sembrava molto entusiasta di dare a Sam Peckinpah il lavoro promesso nella sua nuova pellicola. Sam si presentò nell’ufficio di Wanger, uno sciatto bungalow nel piazzale della Allied Artists, situato nell’area più squallida di East Hollywood. «E lì dovetti aspettarlo – per tre giorni, otto ore al giorno», disse Sam a Garner Simmons. «Credo sperasse che me ne andassi. Alla fine l’ho battuto perché ero determinato ad avere un lavoro nel film». Fu un’altra telefonata da parte del procuratore generale Brown, più che la persistenza di Sam, che gli fece finalmente ottenere un colloquio. «Per allora avevo memorizzato tutta la laurea honoris causa [di Wanger] della Darthmouth appesa al muro,
una cosa interessante, visto che nell’attesa stavo leggendo The Disenchanted di Budd Schulberg». Wanger passò Peckinpah al regista del film, Don Siegel, con la raccomandazione di assumerlo come assistente di produzione. Ora Sam si trovò ad attendere in una stanza ancor più sciatta, cercando di concentrarsi sulla pagina con l’orecchietta del suo romanzo, ma leggendo sempre la stessa frase. Il signor Siegel era fuori, ma sarebbe tornato da un momento all’altro. Ogni rumore di passi proveniente dall’esterno gli faceva rizzare i peli sulla nuca. Don Siegel aveva scalato i ranghi alla Warner Bros., dove era diventato capo della sezione editoriale e preparato sequenze di montaggio per due dei più grandi idoli di Sam, i registi d’azione Michael Curtiz e Raoul Walsh. Ora, a quarantadue anni, dirigeva film per la AA in quindici/venti giorni. Siegel aveva un grande talento nel trarre il massimo profitto da budget e tempistiche ristretti. Usando location reali, comparse prese dalla strada e luci minimaliste, dava un senso di cruda realtà ai suoi film. Essendo stato un tecnico del montaggio, Siegel sapeva come girare in maniera economica e come tagliare il girato in sequenze d’azione mozzafiato, che risaltavano sullo schermo. Nel giro di qualche anno si sarebbe guadagnato un folto seguito tra i critici europei, che lo reputavano un vero auteur. I film di Siegel ruotavano inevitabilmente su personaggi solitari ed emarginati in contrasto con la società americana; Siegel guardava ai solitari con empatia, mentre considerava la società contro cui si battevano colma di un’ostilità patologica. Sul piano estetico e caratteriale, Sam Peckinpah non avrebbe potuto chiedere un mentore migliore. Quando Siegel finalmente arrivò e invitò Sam nel suo ufficio, tra i due scoccò quasi istantaneamente una scintilla. «Lo studiai», ricordò Siegel in seguito, «osservai il suo entusiasmo, il senso del divertimento… Mi piaceva la sua educazione e mi piaceva la sua ardente ambizione». Dopo venti minuti di conversazione, Siegel alzò le spalle e disse: «Non ho mai lavorato con un galoppino».
«Cosa significa?», chiese Sam. «Be’, un galoppino è uno pronto a partire per prendere delle cose. Sai, stuzzicadenti, caffè, ragazze, qualsiasi cosa». «Ragazze?» Gli occhi di Peckinpah si illuminarono. «È il lavoro per me!» Fu assunto come direttore dei dialoghi – un eufemismo per l’assistente personale del regista – per cento dollari alla settimana. Qualche giorno dopo si trovò insieme alla troupe di Rivolta al blocco 11 nell’ufficio di Warden Heinze, nella prigione di Folsom. La Warner Bros. aveva appena finito di girare un film lì con dieci giorni di ritardo, per cui il direttore della prigione non fu esattamente entusiasta nel trovarsi di fronte altra gente di Hollywood. Quando Siegel gli disse che avrebbero girato tutte le scene in sedici giorni, il direttore rispose, senza nemmeno alzare gli occhi dalle sue scartoffie: «Stronzate!» Siegel cercò di riprendersi da questo inizio imbarazzante presentando il resto della troupe – il direttore della fotografia, il direttore artistico, l’attrezzista e per ultimo il suo smilzo direttore dei dialoghi. Il direttore della prigione, che aveva continuato a firmare fogli, all’improvviso alzò la testa per guardare Sam e la sua espressione si illuminò. «Sei imparentato con i Peckinpah di Fresno?» «Sì, signore», rispose Sam con calmo orgoglio, «sono la mia famiglia». «Sono i giudici e gli avvocati?» «Sì, signore». «Sei mai stato sulla Peckinpah Mountain?» «Caccio lì da quando ero bambino». La grossa faccia del direttore si aprì in un largo sorriso. Si alzò, fece il giro della scrivania e tese la mano a Sam. «È un vero piacere conoscerla, signor Peckinpah». Fece un cenno verso Siegel e la troupe. «Ci si può fidare di loro?» «Sì, signore».
Il direttore mise paternamente un braccio sulla spalla di Sam e lo condusse, passando davanti agli altri, fuori dall’ufficio nell’ingresso. «Se dovessi avere un problema, o aver bisogno di aiuto, o ti servisse un consiglio, vieni pure a cercarmi personalmente». «Eravamo esterrefatti», ricordò in seguito Siegel. «Non ci eravamo mai imbattuti nel mistico nome dei Peckinpah. Decisi che ne avrei scoperto il significato». Siegel mise alla prova il carattere del suo giovane assistente affidandogli l’incarico di scritturare comparse e ruoli minori. «Sam, vorrei che uscissi a trovarmi venticinque caparbi, tenaci, rozzi uomini che interpreteranno i nostri prigionieri. Li useremo ogni volta che vogliamo. Ricorda, devono avere la faccia da galeotti. Vai». «Domani tornerò con un gruppo di uomini», disse Peckinpah con un veloce cenno. «E il giorno dopo», ricordò Siegel, «arrivai sul set e eccolo lì, il gruppo di uomini più rozzo, tenace e dall’aspetto temibile che avessi mai visto. Pensai: in confronto, i prigionieri di Folsom sembrano delle femminucce». Sam imparò bene la prima lezione. In futuro avrebbe dato pepe ai suoi film con persone prese direttamente dalle strade delle città e delle location in cui avrebbe girato. I volti segnati, gli occhi spenti e le voci monotone diedero ai film una palpabile parvenza di realtà, palesemente assente nelle produzioni in studio. Siegel era un supervisore non facile sul set, ma Sam era abituato ai supervisori non facili; aveva vissuto nella loro ombra tutta la vita e imparato a prosperare nelle relative dinamiche. Quando i sedici giorni volsero al termine, il rapporto tra lui e Siegel non era semplicemente quello tra principale e impiegato. Come era stato Denver Church nell’Alta Sierra, Siegel divenne il maestro e la guida di Sam in un’eccitante nuovo paesaggio, spingendo e incitando il giovane amico a raggiungere il massimo delle proprie abilità.
Avrebbero lavorato ancora insieme in quattro pellicole nei seguenti due anni e mezzo: Dollari che scottano, I cadetti della terza brigata, L’invasione degli ultracorpi e Delitto nella strada. «Trovavo Peckinpah davvero brillante e pensavo che avesse un intuito innato», disse Siegel a Garner Simmons. «Per questo lo ficcavo di proposito in cose che sapevo gli avrebbero creato dei problemi, perché sapevo anche che avrebbe imparato, dovendo trovare una soluzione. E non ci metteva mai molto. Gli dicevo quindi di leggere il copione e immaginare come lo avrebbe realizzato e poi di guardare cosa avevo fatto io. Gli dissi che all’inizio avrebbe pensato che la mia versione fosse migliore, ma che molto presto sarebbe stato vero il contrario». Peckinpah avrebbe detto in seguito che da Siegel aveva imparato tutto. Cosa fare, cosa non fare […] Finii per capire quanto poco ne sapevo sul cinema, sulla natura umana e sulla sopravvivenza […] Brutalmente onesto, mi trascinava nell’ufficio di un direttore di produzione scontento, trovava la fonte del problema e riprendeva a fare lavate di capo – generalmente, il mio. Don ha una grande rabbia, una grande ironia e un grande senso dell’umorismo. (Ho sperimentato la prima qualità e ho sentito parlare delle altre due.) Ma devo dire che era così gentile da non ridere apertamente mentre mi guardava correre avanti e indietro a dire cazzate e sbagliare tutto (mica facile) […] Un appassionato, scrupoloso artigiano, era maniacale nella sua battaglia contro la stupida autorità degli studios. Era ed è costantemente meravigliato dall’idiozia della nostra industria, pur restando deliziato dalla sua competenza e professionalità.
Tratti che Sam avrebbe in seguito rispecchiato. Ex membri delle troupe dei film di Siegel ricordano come Sam cominciasse a presentarsi sul set con quello stesso stile quasi western che il suo regista apprezzava. Le ingannevoli maniere dolci di Siegel nascondevano un sarcasmo tagliente che si riversava con effetti devastanti sui membri della troupe più negligenti e sui produttori più invadenti. I funzionari della Allied Artists impararono presto a tenersi a debita distanza da quest’uomo così sottilmente intimidatorio, lasciandolo libero di girare le scene a modo suo, non loro. Il suo riverente, attento direttore dei dialoghi notò che questo stile di comando
si confaceva anche alla propria reticente natura, e lo incamerò per un futuro utilizzo. L’allievo imparava in fretta. «Era il mio “mecenate”», disse Peckinpah. «Mi faceva lavorare, mi faceva impazzire e mi faceva pensare. Finalmente [un giorno] mi chiese come posizionare la cinepresa; per una volta mi feci trovare pronto e lui seguì la mia idea». Un altro giorno Peckinpah fermò Siegel sul set e gli chiese di dare un’occhiata a una scena che avrebbero dovuto girare il giorno seguente. Siegel capì cosa aveva notato Sam. I dialoghi erano piatti, la tensione drammatica inesistente – non funzionava. «Sam», disse Siegel, «perché non giochi un po’ con la scena e, quando sei soddisfatto, non me la fai leggere?» Peckinpah mise da parte la scena e gli mostrò un altro mucchio di fogli. «Ci ho già giocato, signore». «La lessi», ricordò in seguito Siegel. «Era eccellente. Aveva tensione, significato, aveva logica e senso dell’umorismo. Per cui ringraziai Sam e gli dissi di sistemarla e inserirla nel copione. Lui si girò e andò per la sua strada e io pensai: non resterà con me a lungo perché questo giovane è destinato a essere un regista, e uno dannatamente bravo”». Il penultimo film a cui Peckinpah lavorò con Siegel, L’invasione degli ultracorpi, del 1956, divenne immediatamente un classico della fantascienza, ed estese la reputazione del regista a livello internazionale. Surreale allegoria della lotta dell’individuo contro le pressioni conformiste della società che lo divora, precedette Il rinoceronte di Eugène Ionesco di due anni buoni. Siegel volse le restrizioni di budget a suo vantaggio con un rado stile ellittico che accrebbe l’intensità angosciosa del film. Il piccolo, dormiente paesino di Santa Mira è trasformato in una visione da incubo dell’America degli anni Cinquanta in cui gli abitanti – infettati da baccelli «alieni» – cominciano tutti a camminare e parlare alla «I like Ike», come tanti zombie. Sam era il direttore dei dialoghi e interpretò diversi piccoli ruoli nel film. «Peckinpah, l’uomo dalle mille facce»,
ricordò in seguito. «Ero anche una controfigura nel film. Fatemi pensare. Ero un lettore del contatore, un uomo nel baccello, un membro della pattuglia». E riuscì a ottenere una piccola parte anche per Marie, nel ruolo della moglie infettata del proprietario di una stazione di servizio. Cosa Sam abbia riscritto, se qualcosa ha riscritto, per L’invasione degli ultracorpi è diventata una piccola controversia dei nostri tempi. Spinto sotto i riflettori dopo l’uscita del Mucchio selvaggio, Peckinpah disse ai giornalisti che il suo primo lavoro di scrittura era stato per questo film. Siegel gli aveva dato due settimane per ripulire un po’ il copione. Questa affermazione provocò una furiosa protesta da parte dello sceneggiatore ufficiale del film, Daniel Mainwaring, il quale sostenne che Peckinpah stava cercando onori che non gli spettavano. Nel corso degli anni Siegel vacillò tra l’appoggiare ora la versione di Peckinpah, ora quella di Mainwaring. Ma una lettera scritta da Marie alla sorella di Sam, Fern Lea, il 6 aprile 1955, poco dopo l’inizio delle riprese, conferma l’ampia riscrittura di Peckinpah. [Sam] ha ricevuto il copione del prossimo film a cui doveva lavorare [che è esplicitamente spiegato essere L’invasione degli ultracorpi più avanti nella lettera]. Lo abbiamo letto, ci è piaciuta molto l’idea, ma non il copione in sé. Perciò Sam scrive una critica dettagliata e la porta a Don. TENSIONE! E non dice quello che pensa del copione soltanto a Don, ma anche al produttore (Wanger). REAZIONE FREDDA! Comunque, per farla breve: alla fine ha convinto Don a fargli tentare una riscrittura ed è stato assunto gli ultimi dieci giorni prima della produzione per riscrivere un bel po’ del copione. Inutile dire che eravamo eccitatissimi per questa assunzione come sceneggiatore. Per questo eravamo piuttosto impegnati a casa a scrivere e battere a macchina, scrivere e battere a macchina…
Siegel parlò benissimo di Peckinpah ad altri registi della Allied Artists, e i servizi di Sam furono ben presto molto richiesti. Sostenne in seguito di aver lavorato in tre anni a quindici film come direttore dei dialoghi – una cifra astronomica, ma non inconcepibile vista la generale breve durata delle riprese delle produzioni Allied Artists.
Oltre ai cinque con Siegel, ci sono altri tre film a cui Peckinpah lavorò sicuramente in quei tre anni: Wichita e L’alba del gran giorno, entrambi diretti da Jacques Tourneur, e I sette ribelli, diretto da Charles Marquis Warren. L’ultimo – con Raymond Massey nel ruolo del messianico/maniacale abolizionista John Brown – fu il primo tentativo della AA di entrare nelle produzioni di serie A. Warren fu subito impressionato dal suo nuovo assistente, come ricordò poco prima di morire nel 1990: «Sam provava con gli attori mentre io definivo le riprese con l’operatore. Notai che aveva fatto un lavoro eccellente con loro, a volte fin troppo buono. Giravamo una scena, dicevo “stop”, e prima che potessi aggiungere se era buona o no, Raymond Massey si girava e diceva: “Com’era, Sam?” Lì ero io il grande regista, ma anziché chiedere “com’era, signor Warren?” si rivolgevano a lui!» Venne invitato alle sue prime feste di Hollywood, agli incontri nella casa in collina di Warren dove Alan Ladd, Susan Hayward e altri ospiti illustri si sedevano intorno al pianoforte a coda mentre Warren suonava un infinito repertorio di musica classica, pezzi swing e canzoni di Broadway. Roba esaltante per un ragazzino di Fresno. «Si metteva seduto in un angolo e ascoltava», dice Warren. «Silenzioso, mite, piccolo Sam. Gli dicevo: “Non vuoi ballare? Lo fanno tutti”, e lui: “No, sono felice così”». Socializzare con le star e con chi muoveva i loro fili stava avendo un certo effetto su di lui. Avvertiva le prime inebrianti folate di potere e voleva, più che mai, sedersi sulla sedia ora occupata da Warren, Tourneur e Siegel. La ricerca e il raggiungimento di quell’obiettivo lo avrebbero cambiato in modi che non avrebbe mai potuto prevedere. A casa, tuttavia, la vita sembrava semplice e modesta come sempre. Il più grande cambiamento fu la location. Sam e Marie ne avevano avuto abbastanza della muffa suburbana rappresentata da Whittier. Mentre lavorava ancora alla KLAC, aveva venduto la casa a schiera e comprato un pezzo di terra
con un capanno Quonset, in alto sulle colline sopra Malibu, per 6000 dollari. Non era San Simeon, solo un cilindro di metallo non verniciato con un mucchio di cespugli di sommacco selvatico come panorama. Ma l’interno sorprendentemente spazioso era suddiviso in tre stanze da letto, un salotto e una cucina; c’era elettricità e acqua corrente ricavata da un pozzo. I visitatori erano spesso sconcertati dalla sua essenzialità, ma Sam e Marie sentivano di aver trovato il loro piccolo pezzo di paradiso, un rifugio felice lontano dalla società fatta con lo stampino di L.A. Sul retro c’era un grande giardino – se così vogliamo chiamarlo, visto che per tutto il tempo che visse lì Sam non piantò nemmeno un filo d’erba. Davanti, un patio di legno a forma di L si affacciava sui verdi contorni delle colline erbose che discendevano verso il lucente Pacifico blu. In quegli anni, prima che orde di agenti immobiliari la divorassero, Malibu era davvero un paradiso, inviolato quasi come al tempo in cui gli indiani Chumash vi avevano dimorato, un secolo prima. Di mattina i cervi brucavano sui pendii intorno, e la notte branchi di coyote guaivano e ululavano come demoni. Camminando per gli irti canyon, Sam e Marie scoprirono formazioni rocciose surreali, gorgoglianti ruscelli e anche una o due cascate. Era l’Alta Sierra con vista sull’oceano. La città di Malibu in sé consisteva in poco più di un molo per la pesca e una manciata di motel e ristoranti (il più popolare dei quali era il Sea Lion, con la sua gabbia di mascotte strillanti). C’era la Colonia, un ammasso di vecchie case sul mare adiacenti a una minuscola laguna dove il Malibu Creek sfociava dalle Santa Monica Mountains in vorticosa schiuma. Un tempo era stato una via di fuga esclusiva per le star dei film muti e i nababbi di L.A.; c’era stato un progetto negli anni Venti per dragare la laguna e costruire un piccolo porto vicino alle case. Il crollo del ’29 aveva fatto morire il progetto e da allora la Colonia era caduta in miseria divenendo cibo per i vermi. Sam si innamorò dell’atmosfera funky, baciata dal sole, e sarebbe rimasto legato a quella comunità
fino alla fine dei suoi giorni abitando in una serie di case sul mare e anche in una roulotte malridotta. Altre due figlie si erano unite alla famiglia – Kristen nel novembre del 1953 e Melissa nel 1956. Forti tracce di entrambi i genitori erano, ovviamente, evidenti in tutte e tre le ragazze. Sharon e Melissa somigliavano più alla madre; il viso magro di Kristen aveva una notevole somiglianza con quello di Sam. Sharon era testarda e pronta a sfidare l’autorità, talmente simile al padre sotto questo aspetto che i due si sarebbero scontrati innumerevoli volte negli anni a venire. Kristen sembrava più calma, ma aveva gli occhi penetranti del padre e il suo intelletto. Melissa era la più dolce, e aveva ereditato l’atteggiamento etereo di Marie. Al capanno Quonset la famiglia cominciò a prendere con sé dei cuccioli. In breve tempo divenne il Parco Zoologico Peckinpah, con un totale di cinque cani (compreso il weimaraner di Sam, Rita, con cui andava a caccia), tredici gatti (incluso uno omosessuale e uno un po’ «lento», che continuava a sbattere la testa contro la porta sul retro nel tentativo di entrare da una gattaiola rimossa da tempo) e una capra. Quando dei visitatori entravano nel parcheggio, l’intero zoo arrivava abbaiando, miagolando e belando i propri saluti. Sam decise che ci voleva una recinzione per contenere la mandria. Quando vide una pila di legname abbandonato a Rambla Pacifico, lui e il suo vicino lo presero d’assalto, di prima mattina. Presto la Grande Muraglia di Peckinpah fu cominciata. «Sam non sapeva fare nessun tipo di lavoro manuale, perciò aver costruito quella recinzione era qualcosa di cui andava molto fiero perché l’aveva fatta con le sue mani», dice Marie. «Ma era una mostruosità! Non vedrete mai una cosa del genere in vita vostra!» Per quanto riguarda gli interni del capanno, non c’era pericolo che fossero presi d’assalto dai fotografi di una qualche rivista di interior design. La sorella di Sam, Fern Lea, aveva sposato Walter Peter, un ragazzo della Pennsylvania, nel 1954. Alto un metro e novanta, con novantacinque chili di muscoli duri come roccia, Walter nutriva un innato amore per
la musica classica, i liquori e il «nonsense». Lavorava a Los Angeles come agente di cambio alle prime armi e guadagnava a malapena il necessario per il piccolo appartamento in cui viveva con Fern Lea, a Santa Monica. Con Sam andò d’accordo dal primo momento; Walter e Fern Lea andavano al capanno Quonset quasi tutti i fine settimana, ma Walter ricorda ancora lo shock che ebbe la prima volta che vi mise piede: «Era un disastro! Pile di libri, vestiti, qualsiasi cosa, sparsi per tutto il salotto e le stanze da letto. E la cucina: piatti da lavare da almeno due o tre giorni… Libri dappertutto; Sam aveva sempre un sacco di libri, di tutti i tipi, copioni, radunati tutti insieme in un mucchio». In estate, Sharon e Kristen trascorrevano ore a fare pallette in una «piscina di fango» che i genitori avevano creato per loro. Una volta ogni tanto Sam ripuliva i cespugli di sommacco da foglie e rami secchi; poi insieme costruivano grandi fortini con pali e coperte. Quando arrivava il Natale, Sam e Marie univano le forze per portare lo spirito delle feste alle loro figlie. L’albero non veniva decorato fino alla Vigilia, dopo che le ragazze erano andate a dormire. Poi Sam e Marie restavano in piedi tutta la notte per ricoprirlo di decorazioni e fili d’angelo e per applicare neve artificiale alle finestre. All’alba il capanno Quonset era diventato un paesaggio invernale. Alla Vigilia di Natale del 1955, Sam arruolò suo cognato per un progetto speciale. I due trivellarono il tetto del capanno Quonset per sistemarvi dei campanelli da slitta, e li collegarono a una carrucola nascosta. Dopo la cena di Natale, Sam suggerì con naturalezza di uscire a vedere le stelle. Nella fredda aria della sera, posò teneramente una mano sulla spalla di Sharon, che allora aveva sei anni, e con l’altra indicò il Grande Carro, la costellazione di Orione e altre meraviglie celesti. Mentre lui faceva questo, Walter tese furtivamente le braccia e tirò la carrucola. Gli occhi di Sam si spalancarono, scrutando febbrilmente nel cielo. «Cos’è? Lo sentite? Sono le campane della slitta! Guardate, guardate, eccolo là! Vedete la slitta? Vedete le renne?»
«Sam era esaltato dal fatto di averglielo fatto credere sul serio», ricorda Walter. «Era eccitatissimo, come fosse lui il bambino». Molti amici del periodo della USC – Jack e Jeanette Gariss, Mike e Nancy Galloway – salivano al capanno Quonset nei fine settimana, insieme a nuovi amici della Allied Artists, come il segretario di edizione Frank Kowalski e sua moglie. Giocavano a bridge e bevevano vino o birra mentre Miles Davis faceva risuonare la sua «Kind of Blue» dal mobiletto di legno che ospitava il fonografo. Ma c’erano tempi, quando la bottiglia di vino era vuota, in cui le grandi pupille di Sam si appiattivano e diventava velenoso come Denver Church. Fern Lea restò scioccata la prima volta che assistette a uno di questi episodi. «Urlava, insultava, aggrediva. Non lo avevo mai visto così prima. Fu talmente cattivo con me che mi misi a piangere. Ce ne andammo subito. Chiamò il mattino dopo per scusarsi, era veramente pentito. Disse: “Credo di aver un po’ esagerato”. Gli dissi: “Sam, come ti stai riducendo? Mi fa più male quello che stai facendo a te stesso che quello che hai fatto a me”. Se avesse avuto buon senso avrebbe smesso di bere allora». Sam si incontrava ancora con alcuni vecchi amici della KLAC per partite di poker occasionali in città. Una notte giocarono per quattro ore di fila, in cui Sam continuò a bere per tutto il tempo. Non sembrava ubriaco, ma improvvisamente si offese per un commento di Rudy Behlmer e sobbalzò in piedi imprecando. «Sam si scagliò contro Rudy», ricorda John Langdon. «Io e un altro tipo afferrammo Sam, ma riuscimmo a malapena a bloccarlo tanto era atletico e forte. Urlò contro Rudy: “Forza, io sono pronto!” Rudy lo guardò e gli chiese: “Ma fai sul serio?”» Negli anni del capanno Quonset, però, con ancora così tante possibilità davanti a loro, i momenti belli avevano più peso di quelli brutti. La sera, dopo aver cenato, bevuto, giocato a Monopoli, trascinavano le poltrone graffiate dal salotto al patio in legno e si godevano il luccichio blu e argento della
luna, bevendo in quell’aria fresca e insaporita dalla salvia e dalla coda di topo sulle colline. Molto più in giù, la grande distesa del Pacifico brillava come mercurio e lungo l’ampio lembo di sabbia bianca si potevano distinguere le flebili luci gialle della Colonia. Una sera, seduto lì con il vecchio amico della Fresno State George Zenovich, Sam fece un cenno in direzione delle luci della Colonia e disse: «Un giorno avrò una casa laggiù, Zeno». Nel 1955 la CBS decise di spostare la sua serie radiofonica di successo Gunsmoke in tv. In cerca di un produttore-regista che si occupasse della serie, fecero un’offerta a Don Siegel. Ma Siegel voleva restare nel campo del cinema e, dopo averci pensato bene, rifiutò. La rete si rivolse allora a un altro regista della Allied Artists, Charles Marquis Warren. Siegel pensava che il programma avesse del potenziale: passò alcuni dei copioni radiofonici che gli erano stati dati a Sam, suggerendogli di provare a scriverne uno per la serie. Peckinpah si sistemò un pomeriggio sul patio del capanno Quonset a leggere il dramma radiofonico; un’ora dopo era in piedi e camminava su e giù, raccontando entusiasticamente a Marie le storie che aveva letto. Ecco qualcosa che poteva veramente fare, una serie ambientata a Dodge City, nel cuore del Vecchio West – una città di saloon, ragazze da balera, chiassosi cowboy ubriachi e pistoleri letali. Se Peckinpah non fosse stato in grado di scrivere un copione per questo show, allora non sapeva scrivere affatto! Gunsmoke era frutto della mente dello scrittore John Meston, dottore in Lingue alla Oxford University (con titoli di studio anche a Dartmouth e a Harvard) che aveva scritto la maggior parte degli show radiofonici. I testi di Meston offrivano una cupa, ironica visione del West americano. I buoni cittadini di Dodge City erano spesso intolleranti, avidi e pronti a scagliarsi contro i deboli e i «diversi». Ciò che rendeva accettabile questo ritratto della frontiera americana alle orecchie del pubblico era l’eroe dello show, lo sceriffo Matt Dillon, una sagoma di cartone fatta di tutti i
tradizionali luoghi comuni dei film di serie B: Dillon era un fiero crociato dalla mira infallibile che si batteva per la verità, la giustizia e lo stile di vita americano. Raramente al centro delle prime storie di Gunsmoke, Dillon generalmente spariva per «affari fuori città» all’inizio dello show e stava via abbastanza per permettere al conflitto tra i degenerati paesani di raggiungere un punto di crisi. Poi riappariva giusto in tempo per sparare ai cattivi con la sua calibro .45 a canna lunga e per pronunciare una sequela di facili banalità che riaffermavano i valori americani – valori che quasi nessuno degli abitanti di Dodge City incarnava se non quando lo sceriffo gli teneva una pistola puntata alla tempia. Ciò dava allo show la rassicurante parvenza di un lieto fine, sebbene il mezzo fosse tanto cinico quanto la visione dell’umanità che celava. Prima dell’uscita di Gunsmoke nell’autunno del 1955, i western televisivi non avevano offerto che i vecchi cliché dei film di serie B. Roy Rogers, Gene Autry, Hopalong Cassidy, il Ranger solitario e Cisco Kid imperversavano sul piccolo schermo con i loro cappelli a tesa larga e i loro completi paillettati, impegnati nelle stesse sciocche corse a cavallo e sparatorie che avevano dominato il genere dai giorni di Tom Mix. Gunsmoke innovò tutto questo. Il western «per adulti» sbarcò sul piccolo schermo. La serie trattava temi importanti: il pregiudizio razziale, l’amore non corrisposto, la vendetta autodistruttiva, la gelosia ossessiva, l’avidità. Ogni settimana un problema sociale o psicologico era presentato da grandi guest star, portato a un climax violento, poi spiegato o ponderato da Dillon o dal coro greco del cast fisso – il vice Chester Goode; Kitty Russell, l’attraente ostessa del Longbranch Saloon; l’irritabile Doc Adams. Paragonato al resto dell’offerta di western in tv, lo show si presentava fresco e sofisticato e il pubblico rispondeva in maniera entusiasta. Nella prima settimana di messa in onda, Gunsmoke entrò in quarantaduesima posizione nell’indice d’ascolto Nielsen; la seconda settimana balzò alla ventiduesima e per la terza era già schizzato in prima posizione.
Peckinpah era ancora in buoni rapporti con Charles Marquis Warren, così prenotò immediatamente un appuntamento con il produttore-regista sulla location della nuova produzione in Melrose Boulevard, negli studi Paramount. «Sam venne da me e disse: “Capo, posso provare a scriverne uno?”», ricordò Warren. «Gli dissi: “Puoi, ma a tuo rischio e pericolo”». Il che significava che se a Warren non fosse piaciuto il prodotto finale, avrebbe potuto rifiutarlo senza dare a Sam neanche un soldo per la sua fatica. Sam accettò con entusiasmo e Warren gli diede tre dei testi radiofonici di John Meston, chiedendogli di preparare l’adattamento di quello che gli piaceva di più. Quasi tutti i copioni prodotti in quella stagione erano adattamenti dei testi di Meston. Lo stesso Meston era disponibile a farlo, ma la CBS temeva che sapesse scrivere solo dialoghi radiofonici – «Toh, se quella non è la signorina Kitty che esce dal Longbranch! Guarda che bello scialle rosso indossa!» – per cui furono assunti degli sceneggiatori per trasformare i dialoghi dei drammi radiofonici in azione, le parole in immagini. Per il suo primo tentativo, Sam scelse di adattare un testo di Meston intitolato «Queue», che parlava di un immigrato cinese perseguitato da un trio di estremisti di Dodge City; gli dava la possibilità di sfruttare la sua personale conoscenza del Vecchio West e della Cina. Convertì il minuscolo locale lavanderia nel seminterrato del capanno Quonset in uno studio improvvisato dove si rinchiudeva lontano da amici e famiglia. Era il primo copione che avesse mai provato a scrivere. Aveva fatto molta esperienza nei film di Siegel, ma non fu comunque facile. «Era un incubo perché io odio scrivere», disse Sam in seguito. «Soffro le pene dell’inferno. Non riesco a dormire e mi sembra di morire ogni minuto. Alla fine, mi chiudo da qualche parte il più lontano possibile da una pistola e mi metto sotto, senza più fermarmi. Sono sempre stato in mezzo a scrittori e ho sempre avuto amici che scrivevano, ma non avevo mai realizzato che dannata angoscia implicasse. Però, era un modo di entrare in quel mondo». Ci vollero tre mesi di
maledizioni, pugni sulla scrivania, fogli strappati, matite spezzate, ma alla fine emerse dalla sua tana con un copione completo (o meglio, una pila di pagine scarabocchiate che Fern Lea batté a macchina per lui) abbastanza buono da raggiungere lo scopo. Charles Marquis Warren stava lavorando diciotto ore al giorno – «la pressione era insostenibile» – perciò quando Sam gli consegnò il suo copione, lo affidò alla segretaria. «Peggy, puoi leggerlo per me? Se è buono, fammi sapere». Quando tornò in ufficio il giorno seguente, la sua segretaria aveva il copione in mano. «Be’», chiese, «che ne pensi?» «Signor Warren, lo legga». «Mi piacerà?» «Lo legga». Lo fece. «Diavolo, era molto ben scritto», ricordò Warren. «Stavo ricevendo copioni da tantissimi tizi che si vantavano di essere autentici sceneggiatori western. La maggior parte non aveva mai nemmeno visto un cavallo. Cercavano di scrivere nel loro gergo, «qual buon vento, gringo!» Dio, erano pessimi. Ma i dialoghi di Sam erano frizzanti, puliti e pieni di espressioni originali. E sapeva moltissimo sul Vecchio West, piccoli dettagli come il tipo di strumenti di carpenteria che si usavano a quei tempi. Gli avevo detto di inserire quelle cose non facendone parlare ai personaggi ma calandole nel contesto della scena. Diede al suo copione un senso di autenticità. Imparava in fretta. Non dovevo mai insegnargli una cosa due volte e qualche volta insegnava qualcosa lui a me». Subito Peckinpah capì che la televisione, come il cinema, era principalmente un mezzo visivo. Ogni volta che poteva usava l’azione anziché i dialoghi per rendere il senso della storia, per cui le sue scene erano più dinamiche che statiche. E quando i personaggi parlavano, le loro parole suonavano fresche, idiosincratiche… realistiche. Sparse persino in questo primo copione si trovano battute per le quali Sam sarebbe poi diventato famoso: «Sei umile quanto un’ape impazzita!» Il
cattivo della scena era un prototipo per un personaggio che sarebbe riapparso nei lavori di Peckinpah: un pazzoide predicatore che farnetica sui mali del peccato e sul piacere di servire Gesù, ma che è sconvolto dalla sua stessa brama animale per il sesso e il sangue. Warren acquistò il copione di Sam per 900 dollari e diresse lui stesso l’episodio. Lo show è invecchiato male nei trentotto anni dalla sua prima messa in onda. La trama è formulaica e prevedibile. La regia da manuale di Warren non aiuta. Ma era pari, se non addirittura superiore, ai copioni presentati dagli altri scrittori in quella prima stagione. Peckinpah vendette presto un altro copione e poi un altro ancora. Tra il 1955 e il 1957 avrebbe venduto circa dieci episodi di Gunsmoke per 900 dollari l’uno, quasi il doppio della cifra che si pagava per altre serie. Erano tutti adattamenti dei testi radiofonici di John Meston; Warren lasciò a Sam piena libertà di scelta nell’incredibile repertorio che Meston aveva sfornato nei primi anni Cinquanta. La scrittura cominciò a diventare più facile e veloce. «Alla fine riuscivo a produrne uno in circa otto ore», disse Peckinpah in seguito. «Otto ore, voglio dire, dopo le venti in cui stavo sdraiato a raccogliere le idee». Non scriveva a macchina. Preferiva invece scribacchiare su qualsiasi foglio di carta si ritrovasse tra le mani – a volte direttamente sul retro delle pagine dei testi radiofonici di Meston, nella sua quasi indecifrabile scrittura da gallina che le y al contrario e le imprecisioni di ortografia facevano somigliare alla grafia dei cowboy semi-incolti che popolavano le sue storie. In seguito affidava le disordinate pagine a diverse dattilografe alle sue dipendenze – Fern Lea o vecchie amiche della USC come Adele Cook, Nancy Galloway e Gay Hayden. «Poi scoprì il dittafono e la vita divenne meravigliosa per Sam perché poteva parlare tutta la notte», dice Hayden. «Dettava come se stesse leggendo il copione – le riprese, tutto. Era molto grezzo, molto lungo e sconnesso. All’inizio si dilungava, ovviamente, perché non voleva fermarsi per tornare
indietro; non era così che ragionava. Veniva fuori un unico flusso di coscienza. Dopodiché tagliava. Riscriveva tutto. Non riusciva a tenersi a freno. Avrebbe scritto per sempre se qualcuno non gli avesse portato via il copione». «Montare scene era uno dei più grandi talenti di Sam, sia su carta che su pellicola», dice Nancy Galloway. «Era molto interessante guardarlo studiare un copione e tagliare. Poteva arrivare a essere spietato nel rivedere sia il suo materiale che quello altrui. Era sempre interessante vedere come arricchiva e snelliva un copione». I guadagni erano ottimi, come del resto il prestigio di scrivere per uno degli show di maggior successo in tv. Ma c’erano anche delle frustrazioni. Peckinpah infarciva i suoi teledrammi di dettagli autentici. Molte delle sue sceneggiature erano veri e propri racconti. Eppure i produttori di Gunsmoke sistematicamente riscrivevano le bozze che consegnava per renderle più accessibili al grande pubblico. Molti dettagli che illustravano la crudeltà e la disinvolta brutalità della vita di frontiera, le sconcertanti incongruenze e i risvolti antisociali dei suoi personaggi venivano levigati prima che lo show arrivasse sullo schermo. Ma oltre ai loro aspetti più rudi, i personaggi perdevano anche molta della loro umanità. L’indorato prodotto finale garantiva di non offendere nessuno, ma raramente era toccante o forte quanto il copione originale di Sam. La descrizione della violenza in Gunsmoke, in particolare, minava la verosimiglianza del dramma. Colpite una, due, anche tre volte, le vittime non versavano la minima goccia di sangue; non si contorcevano in agonia, non gli saltava neppure un bottone della camicia. Cadevano semplicemente a terra come se il tuono della rivoltella di Dillon li facesse sprofondare in un sonno tranquillo. Va detto che i produttori dello show dovevano vedersela con i censori della rete, che facevano costanti pressioni perché nello show ci fossero quanto meno sangue e brutalità possibili. Una violenza non violenta. Il cavaliere della valle solitaria poteva aver cambiato il volto della violenza sul grande
schermo, ma nelle piccole, lucenti scatole piazzate nei salotti di tutto il paese era ancora «una cosa divertente ad Apacheland». Per Sam era esasperante dover guardare o essere costretto ad apportare di persona questi «miglioramenti» al suo lavoro. Aveva cominciato a scrivere perché lo vedeva come un trampolino di lancio verso la regia; la sua esperienza con Gunsmoke lo convinse ulteriormente che la sedia del regista era il vero fulcro creativo del cinema. Girovagava per il set guardando le riprese della maggior parte dei suoi copioni, osservando come i registi lavoravano con gli attori, il direttore artistico, il costumista, dove posizionavano la cinepresa, come illuminavano i set e orchestravano l’azione. Notava cosa facevano bene e, quasi altrettanto spesso, cosa facevano male. Peckinpah decise di adattare molti testi di Meston in cui c’erano personaggi che avevano «qualcosa che non andava» nella testa. Pazzi, ritardati, tormentati da vere e proprie allucinazioni – una galleria di cenciosi outsider non sbarbati che vagavano senza meta in un mondo che non ha posto per loro. Il più amato tra questi fu «Cooter». Cooter è il nome di un ritardato che vaga per le strade di Dodge City, facendo lavori bizzarri in cambio di elemosina. La sua menomazione mentale è il risultato di un traumatico atto di violenza. Nel copione ha una lunga cicatrice su un lato della faccia, provocata da una vecchia ferita di proiettile. «Sa di essere diverso dagli altri», dice Doc Adams, «ma non sa cosa farci». Un giocatore d’azzardo del posto assume Cooter come guardia del corpo nel tentativo di intimidire lo sceriffo Dillon, il quale sospetta che il baro stia derubando i cowboy del posto delle loro sudate paghe. Il giocatore, Sissle, dà a Cooter una fondina e una calibro .45 carica e subito l’ometto si pavoneggia per Dodge City come un ragazzino che gioca a fare il pistolero. Ma è un gioco mortale. Peckinpah suggerisce che il mero possesso di un’arma può risvegliare istinti violenti, anche in un uomo-bambino come Cooter.
Nel copione, Peckinpah descrive la conversazione tra Cooper e Dillon la prima volta che lo sceriffo, Doc e Chester lo vedono con indosso la pistola: Cooter: «Ho ucciso quel vecchio cane grigio stamattina. Al primo colpo, per giunta. Ci sono andato molto vicino. Quello grigio che ride sempre di me». Cooter ringhia come un cane in faccia ai tre uomini e attraversa la strada.
Questa scena fu eliminata dalla versione finale perché ancora una volta i produttori ambivano a rendere Cooter più «empatico» – un semplice innocente che viene manipolato dal baro corrotto. Ma questa volta l’intensità del teledramma di Peckinpah rimase intatta, soprattutto grazie al giovane attore scritturato per la parte, Strother Martin. Martin colse non solo il pathos del personaggio – la sua solitudine, il bisogno di integrarsi e la commovente ingenuità – ma anche la perversa vena di violenza nascosta dietro il suo atteggiamento infantile. Alla fine Cooter si rivolta contro il giocatore d’azzardo che lo aveva armato e gli spara uccidendolo. Incapace di comprendere appieno ciò che ha fatto, Cooter si sgancia la fondina e la lascia insieme alla pistola sulla schiena del cadavere. «È meglio se la tiene lei la pistola, signor Sissle. Vede, non lavorerò più per lei». E si allontana giù per la strada buia, con il passo strascicato e le braccia penzolanti di un bambino di cinque anni. «Non lo segue, signor Dillon?», chiede Chester. Dillon scuote la testa. «No, non andrà lontano, Chester… Lo prenderò presto. Gli abbiamo già fatto abbastanza male, per oggi». Diretto da John Stevenson, fu uno show di prima qualità, il migliore tra tutti gli episodi scritti da Sam per Gunsmoke e quasi al livello di alcuni che avrebbe diretto per The Westerner un anno dopo. A Strother Martin l’episodio piacque a tal punto da richiederne una copia personale per proiezioni private. Sam, a sua volta, rimase così colpito dall’interpretazione dell’attore che lo invitò a cena al capanno Quonset. Aveva così, senza
ancora saperlo, reclutato il primo membro della sua compagnia di repertorio, il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah. Lo strepitoso successo di Gunsmoke e il debutto in tv di un’altra serie western per adulti in quello stesso anno, Le leggendarie imprese di Wyatt Earp, diedero il via a un assalto al genere. Nel 1954 andarono in onda diciassette show western; nel 1959 il numero era salito a quarantotto. Nessun altro genere nella storia, eccetto la sitcom, ha dominato le onde radio pubbliche come fecero i western negli ultimi anni Cinquanta. Carovane verso il West, Cheyenne, Have Gun Will Travel, Tales of Wells Fargo, Bat Masterson – consistevano tutte in trentanove episodi all’anno, girati nei teatri di posa di Hollywood e nei ranch sulle Santa Monica Mountains, nell’entroterra di Malibu. Le colline erbose e i canyon boschivi intorno al capanno Quonset di Sam scoppiettavano di spari e tremavano alla carica di cavalli e bestiame. I grandi studios cinematografici, che avevano inizialmente sdegnato «la scatola idiota», avevano ora deciso che «se non puoi batterli, unisciti a loro!» e cominciarono a sfornare show per soddisfare il famelico appetito di quel figlio bastardo. Le serie girate su pellicola soppiantarono presto quelle girate dal vivo o su nastro; la qualità dell’immagine era migliore, il montaggio più semplice e più preciso, i risultati più pratici. Era come se gli anni Venti e Trenta, in cui Hollywood produceva migliaia di western da due rulli (venti minuti), fossero tornati. E i nuovi show per la televisione erano girati con le stesse tempistiche massacranti e lo stesso budget ridotto dei vecchi due rulli. La maggior parte erano filmati in soli tre giorni, alcuni in due e mezzo. La Universal, la Warner Bros. e la 20th Century Fox applicarono tutte dei collaudati metodi da catena di montaggio per sfornare il «prodotto». Per tutti i figli del baby boom – che allora avevano nove, dieci e undici anni – questa fu l’epoca d’oro della televisione. Indossato il gilet in similpelle, gli stivali da cowboy esageratamente ricamati e lo Stetson di feltro, si accovacciano dietro i divani nei salotti con pistole giocattolo, scambiandosi
colpi con i cattivi sullo schermo azzurrino del loro Zenith. Era un’epoca d’oro anche per gli attori che potevano cavalcare, indossare cinturoni e sparare da una rivoltella o un Winchester con facile sensualità. Steve McQueen, Clint Eastwood, Richard Boone, James Garner, Robert Culp, Charles Bronson e James Coburn sono solo alcuni tra i molti che trovarono sparando qua e là il loro posto sotto le luci della ribalta, nel corso di quegli anni. Nel tempo di una stagione televisiva, Sam fu catapultato dal ruolo di sconosciuto direttore dei dialoghi a quello di giovane scrittore tra i più richiesti della televisione. Verso la fine degli anni Cinquanta, stava scrivendo per una serie di altri show, tra cui Trackdown, Tales of Wells Fargo, Have Gun Will Travel, Tombstone Territory, Boots and Saddles e Man with a Gun. Per The 20th Century Fox Hour realizzò un adattamento del classico western per adulti Romantico avventuriero di Henry King che fu candidato come miglior western della stagione 1956-57 dalla Writers Guild of America. I suoi servizi erano talmente richiesti che dovette addirittura affidare alcuni dei copioni a dei ghost writer – vecchi amici della USC e della Fresno State, tra cui Don Levy. Uno degli show per cui Peckinpah scrisse fu Broken Arrow; nel 1957 e 1958 vendette ai produttori cinque copioni. La serie era ispirata all’omonimo film del 1950, che a sua volta era tratto dal romanzo di Elliott Arnold Fratello di sangue. Si trattava di un nobile tentativo di sovvertire l’immagine stereotipata degli indiani come diavoli urlanti e di documentare le numerose sofferenze inflittegli dall’uomo bianco. Ma lo show televisivo fu fatalmente condizionato dal budget ridotto e dalle tempistiche imposte dalla 20th Century Fox, che non aiutavano certo l’ispirazione. Ogni episodio veniva girato in due giorni e mezzo o tre e lo studio faceva pressioni su troupe e cast perché finissero almeno un episodio e mezzo o due alla settimana. I copioni di Peckinpah per questa serie non erano neanche lontanamente buoni come quelli che scrisse per Gunsmoke. Avevano la qualità di un prodotto di serie. Ma nel 1958 lo
show rappresentò un altro trampolino per la sua carriera. Dopo due anni e settantadue episodi Broken Arrow chiudeva le trasmissioni e Peckinpah era stato incaricato di scrivere l’episodio finale, «The Transfer». (Sam lo ha ripetutamente chiamato «The Knife Fighter» durante le interviste, ma si trattava in realtà di un copione precedente.) Nell’ultimo episodio, Jeffords dice addio al suo «fratello di sangue», Cochise, e si allontana a cavallo per aiutare nell’opera di «pacificazione» degli Ute, un’altra tribù scesa sul sentiero di guerra. Dopo che Peckinpah ebbe ultimato il teledramma, il coproduttore dello show, Elliot Arnold, gli chiese se volesse dirigerlo. «Cristo, sapevano che morivo dalla voglia di dirigere», ricordò Sam in seguito. «Non dovettero chiedermelo una seconda volta». Trattandosi dell’episodio finale, né lui né i produttori avevano nulla da perdere. Ma per Sam era il grande momento, il primo vero lavoro da regista. Ai suoi occhi la scrittura non era stata che un mezzo per giungere a questo fine. La sua importanza divenne evidente quando arrivò sul set il primo giorno di riprese e vi trovò un centinaio di attori e tecnici, tutti in piedi con aria assente, in attesa di istruzioni sul da farsi. Per raccontarla senza troppi giri di parole, Sam impostò le prime tre riprese, poi si scusò, andò nel bagno degli uomini e vomitò l’anima. Micheal Ansara, che interpretava Cochise, ricorda: «Sam faceva molto affidamento su di me e su John Lupton. Ci chiedeva cose e noi cercavamo di aiutarlo come potevamo. Gli tiravo il pizzetto [Sam si faceva crescere la barba e se la tagliava in continuazione] e gli dicevo: «Non preoccuparti, piccolo Sam! Andrà tutto bene!» E così fu. Fece un lavoro fantastico. Fantastico per gli standard di Broken Arrow. Il meglio che si possa dire della prima fatica professionale di Peckinpah è che non fu peggiore degli altri episodi della serie. Quando Jeffords lascia il suo posto di agente indiano viene rimpiazzato da un despota da manuale e i Chiricahua si ribellano ben
presto. Sam mostrò un talento nel posizionare le cineprese per le sequenze d’azione e, in una scena in cui gli Apache razziano l’agenzia, un telo viene tirato via da un ammasso di scorte rivelando una mitragliatrice e una squadra di soldati pronti a maneggiarla. Non era che un primo assaggio grezzo – molto grezzo – dello scontro tra la banda di Pike Bishop e i soldati del generale Mapache che Sam avrebbe girato circa dieci anni dopo. E nella scena finale, quando Cochise e Jeffords prendono strade separate, Peckinpah riuscì a ottenere il barlume di un’emozione autentica dalle sue due star. Ma la maggior parte delle scene di battaglia sono orribilmente guastate dall’evidente discrepanza tra le truppe dell’Unione che sparano da dietro delle rocce illuminate dall’ustionante sole di un vero canyon, e gli Apache accovacciati dietro massi di cartapesta in uno studio illuminato a giorno. La cosa meno autentica che si fosse mai vista. Nessun fulmineo talento divampò dagli schermi tv della nazione quando lo show andò in onda quella primavera: nessun segno visibile di un genio in embrione. Ora però Sam era un regista oltre che uno scrittore, con un agente – Peter Sabiston – e un responsabile commerciale – Bob Schiller – per gestire le sue sempre maggiori finanze. Negli anni Cinquanta tre produttori indipendenti – Jules Levy, Arthur Gardner e Arnold Laven – unirono le forze, fondarono una loro compagnia e firmarono un accordo con la United Artists per realizzare film a basso budget che la UA avrebbe distribuito. I film – Vice Squad, con Edward G. Robinson; Down Three Dark Streets, con Broderick Crawford; Supplizio, con Paul Newman nella sua prima apparizione sullo schermo – furono tutti girati in quindici-venti giorni, con un costo che andava dai 350.000 ai 400.000 dollari. Generalmente incassavano poi il doppio al botteghino. «Ero molto, molto amico di Levy, Gardner e Laven», afferma Joe Mazzuca. «Mi hanno fatto cominciare nell’ufficio di smistamento posta, poi mi hanno nominato segretario di edizione e, alla fine, regista. Con Levy, Gardner e Laven spendere soldi era un delitto capitale. Preferivano tenere i
budget contenuti, molto, molto contenuti. Non gli interessava educare il pubblico o lanciare dei messaggi, semplicemente sapevano per cosa la gente era disposta a pagare il biglietto. Avevano davvero una prodigiosa abilità in questo. Era solamente business per loro. Jules Levy era l’affarista del gruppo; era lui a stringere accordi con gli agenti per le proprietà, eccetera. Arthur Gardner era il riservato amministratore e Arnold Laven la forza creativa. Diresse tutte le loro pellicole». L’affarista Levy aveva una sua tecnica per fare soldi facili con proprietà «calde»: prima pensava al titolo del film, qualcosa che avesse abbastanza verve per catturare le persone e attirarle in un cinema. Da bravo imbonitore, Levy sapeva che il cittadino medio in realtà giudica un libro dalla copertina e un prodotto dal suo slogan. Nel 1956 gliene venne in mente uno che, ne era certo, avrebbe avuto successo: Custer’s Last Stand. Levy registrò il titolo alla Writers Guild, come aveva fatto con dozzine di altri che giacevano nei suoi archivi, in attesa di una sceneggiatura che ne rispettasse il potenziale. Fortuna volle che un romanzo, The Dice of God, fosse pubblicato subito dopo; narrava gli eventi che portarono alla fatidica battaglia di Custer, concentrandosi più sugli uomini ai suoi ordini che sul generale stesso. Levy si accaparrò subito i diritti per portarlo sullo schermo e Arnold Laven cominciò la ricerca di uno sceneggiatore per l’adattamento. L’agente di Sam inviò alcuni dei suoi copioni per Gunsmoke. Laven li lesse, ne restò impressionato e fissò un colloquio con lo scrittore trentunenne. «Ricordo ancora quando incontrai Sam», racconta Laven. «C’era qualcosa in lui, un fuoco negli occhi, un certo atteggiamento. Aveva carisma, uno sfacciato carisma da macho, molto virile, e allo stesso tempo era un tipo che apprezzava le cose belle». A Laven piacquero le opinioni di Peckinpah sul libro e su come aveva intenzione di adattarlo, cosa avrebbe cambiato e cosa no. Il 5 novembre 1956 Peckinpah fu ingaggiato per scrivere il copione, con un salario di 500 dollari a settimana.
Il lavoro di Sam sul copione si estese per un periodo di quattro mesi e mezzo, interrotto sporadicamente da copioni per la televisione che continuava a elaborare a parte. Jules Levy e Arthur Gardner se ne tennero a distanza mentre Arnold Laven, che avrebbe poi diretto il film, lavorò a stretto contatto con Sam man mano che le pagine terminate arrivavano all’ufficio di produzione, nei vecchi Hal Roach Studios a Culver City. «Era chiaro che avevamo fatto la scelta giusta», dice Laven. «Il libro era scritto in maniera molto modesta, ma Sam ci stava dando una riscrittura di prima qualità. Scriveva lentamente, ma il lavoro aveva qualcosa di meraviglioso che da allora è arrivato a rappresentare la cifra di molti western: quella sottile sensazione di sciatteria e sporcizia». La sceneggiatura di 154 pagine di Peckinpah, terminata il 20 marzo 1957, è il lavoro di un giovane scrittore che lotta per sviluppare temi e personaggi complessi nel contesto di una tragedia epica. È già ben visibile il suo interesse per come le passioni, le ossessioni e le ambizioni degli individui possono influenzare il corso della storia. Ma il copione dimostra anche che Peckinpah aveva ancora tanto da crescere. Aveva già padroneggiato uno show di mezz’ora, ma non era ancora così esperto da costruire un film intero, sebbene molti dei punti deboli della sceneggiatura potrebbero essere stati concessioni alle richieste dei suoi produttori. I primi due terzi della sceneggiatura si svolgevano con la tipica prevedibilità dei film di cavalleria. Ma nella parte finale del copione gli elementi che interessavano davvero Peckinpah passavano in primo piano: l’azione si fa più stringente, l’interazione tra i personaggi più intensa. Sebbene Custer non sia il protagonista, è una figura cruciale che mette in moto gli eventi, e gli altri personaggi si arrestano ripetutamente per riflettere sulle sue motivazioni, la sua moralità e la sua potenziale pazzia. Custer affascinava Sam: un Achab del Selvaggio West che guida una banda di mezzosangue, disadattati e tre volte perdenti in un pericoloso viaggio verso il proprio Armageddon; un vanesio, egocentrico cacciatore di
gloria che si avvolge nella bandiera, ma che in realtà non cerca di liberare null’altro che il suo ego. Peckinpah descrive l’esaltato assalto di Custer al villaggio indiano di Little Bighorn come il gesto di un megalomane, ma allo stesso tempo cerca di catturare il brivido della battaglia che portò il Settimo Reggimento a seguire Custer nell’abisso. Peckinpah conosceva fin troppo bene, grazie al tempo passato nel Corpo dei marines, i numerosi paradossi del soldato professionista. Anche lui aveva sentito l’oscura attrazione per una vita sul filo del rasoio, perché era quello il contesto nel quale esperire la vita all’estremo, e vivere più intensamente. Non poteva non ammirare quegli uomini che cavalcavano verso la disfatta con tanta eleganza, personaggi che, come scrisse nella sua tesi di master, «andavano incontro al loro destino con coraggio e dignità». The Dice of God fu la sua prima, zoppicante esplorazione di temi su cui sarebbe ritornato con ricercatezza e abilità di gran lunga maggiori in Sierra Charriba, Il mucchio selvaggio e La croce di ferro. (Dopo aver assunto Peckinpah, Levy scoprì che i diritti per il suo titolo originale, Custer’s Last Stand, erano già in possesso di un’altra compagnia di produzione. The Dice of God sarebbe infine uscito come Doringo!) La sceneggiatura non era venuta fuori facilmente. Sam aveva imprecato e sudato per ognuna delle 154 pagine. Ci aveva messo due mesi per buttar giù le prime cinquanta, e subito dopo tutto il suo duro lavoro rischiò quasi di andare perduto. Era la Vigilia di Natale del 1956 quando Sam e Marie videro dalla finestra del capanno Quonset del fumo e delle crepitanti fiamme gialle su una collina distante. Gli incendi boschivi erano frequenti sulle Santa Monica Mountains, soprattutto dopo che i caldi venti di Santa Ana avevano soffiato dal deserto del Mojave in autunno, trasformando l’erba alta e il chaparral in friabili ramoscelli. L’incendio appariva però piccolo e lontano, e colti dalla consueta eccitazione con cui affrontavano quella giornata magica fecero presto a buttarsi ogni preoccupazione alle spalle.
I nuovi incarichi avevano arricchito considerevolmente il conto in banca di Sam e per la prima volta lui e Marie avevano il denaro necessario a far le cose per bene. Alla Vigilia spese un occhio della testa per un albero gigante, così alto che dovette tagliarne un metro e mezzo per farlo entrare nel capanno. La mattina seguente Kristen e Sharon si svegliarono trovandosi davanti l’imponente albero coperto di decorazioni di ogni forma e dimensione, e mucchi di regali sotto i suoi rami. Dopo anni di risparmi mentre il fratello Denny si comprava un ranch in espansione, completo di piscina e pascoli per cavalcare i cavalli, sembrava finalmente che anche D. Sammy si stesse realizzando. Le bambine ridacchiavano di gusto mentre svuotavano le calze e strappavano in mille pezzi la carta dei regali. Venti caldi e secchi soffiavano forte quel giorno. I vigili del fuoco locali erano preoccupati; erano passati quattordici anni dall’ultimo grande incendio sulle Santa Monica Mountains, per cui c’era moltissima legna secca e ricrescita di piante. Se qualcuno avesse distrattamente gettato una sigaretta accesa, quelle colline si sarebbero infiammate come carbone zuppo di combustibile. Le più grandi paure di tutti si realizzarono alle due di pomeriggio del 26 dicembre, quando un incendio divampò nel Newton Canyon. I venti che si incanalavano attraverso il canyon alla velocità di quasi cento chilometri all’ora fomentarono le fiamme fino a far loro raggiungere un’altezza di circa settantacinque metri. All’alba avevano bruciato quasi sei chilometri, fino al mare. Scintille e tizzoni in fiamme fluttuavano lungo la Pacific Coast Highway, dando fuoco a molte case nella Colonia di Broad Beach. I vigili del fuoco si diedero da fare per mobilitare le loro forze, ma ormai la corrente di fuoco era tale da risucchiare tutto a un’eccezionale velocità, e loro non disponevano di mezzi sufficienti a fermare o deviare il suo percorso; lingue di fuoco si espandevano verso le colline e i canyon contigui e il governatore Goodwin Knight fu costretto a dichiarare Malibu area disastrata.
La mattina del 27 dicembre Sam guardò fuori dalla finestra del capanno Quonset; a nord le fiamme erano visibili a una sola collina di distanza, lambendo l’erba e gli arbusti appassiti. «Se si espande oltre quel dorsale, dobbiamo andarcene da qui», disse. Ma durante la giornata sembrò che i venti e i pompieri riuscissero a tenere il fuoco lontano da loro. Sam e Marie tirarono un significativo sospiro di sollievo. Quel pomeriggio Sam andò nel suo studio nel seminterrato, a scribacchiare sulla malandata scrivania sotto una spoglia lampadina, portando il generale Custer pagina dopo pagina sempre più vicino alla rovina. Marie non si sentiva bene e si stava riposando nella sua camera; anche Kristen stava facendo un pisolino. Sharon era sola in salotto quando le sembrò di sentire il clacson di un’auto. Come sua abitudine, si arrampicò sul mobile del bagno per guardare fuori dalla finestra. Rimase ammutolita. Come uno strano liquido giallo, le fiamme correvano giù per il pendio della collina più vicina… dritte verso la casa. Arrivavano da sud, non da nord, dove le stavano aspettando. «Papà! Papà! Corri! Il fuoco!», urlò. Sam balzò fuori dalla porta del seminterrato che si apriva direttamente sul cortile e fu accolto da un fumo che stava già appesantendo l’aria intorno al capanno. I suoi occhi scattarono verso la tanica di propano che si era sempre ripromesso di allontanare dalla casa, poi verso la giungla di sommacco che circondava il muro a nord. Erano seduti su un barilotto di dinamite, ed entro qualche minuto il fuoco avrebbe bloccato la loro via di fuga. Il seguito della storia si svolse come un film a velocità accelerata. Marie, mezza svestita, afferrò Kristen, che indossava solo le mutandine. Mentre sua madre scendeva i gradini verso la loro station wagon, la bimba di soli tre anni apriva lentamente gli occhi ancora pieni di sonno; poi li spalancò, alla vista del fuoco che si espandeva dappertutto. Si infilarono tutti in macchina. Sam e Marie si guardarono con lo stesso pensiero in testa: Melissa! Poi si ricordarono che si era fermata a dormire da Walter e Fern Lea a Santa Monica.
Sam partì a tutto gas verso Rambla Pacifico, per poi dirigersi verso il Malibu Canyon. «I cuccioli di Simbo!», gridò Sharon. Ma Sam tenne il piede sull’acceleratore e attraversò il Malibu Canyon verso l’oceano, rassicurando sua figlia che gli animali sapevano come sopravvivere in un incendio. Riuscirono ad arrivare al Malibu General Store, dove erano riunite anche altre famiglie costrette ad abbandonare le loro case. Restarono insieme e guardarono impotenti le fiamme che divampavano sulle colline. Fu solo allora che Sam si ricordò del copione – due mesi di agonia andati in fumo. «Aspettate qui, devo tornare indietro!», disse a Marie a denti stretti mentre rimontava in auto. «Non dimenticare i cuccioli di Simbo e i gatti!», gli urlò Sharon. Gli ci volle mezz’ora per risalire fino al capanno Quonset. I funzionari dello sceriffo e i vigili del fuoco stavano chiudendo le strade, per cui dovette fare il giro largo. Quando arrivò al capanno, il fumo era denso e le fiamme laceravano l’erba, avvicinandosi al sommacco. Sam irruppe nel seminterrato e afferrò la sceneggiatura e altri suoi copioni televisivi. Poi, nell’esaltazione allucinata dovuta al panico, pensò a Marie al General Store, mezza svestita, e corse in camera per prendere dall’armadio il vestito verde di seta che era riuscito a comprarle grazie alla loro nuova agiatezza. «Tenni addosso quel vestito per una settimana!», ricorda Marie. Simbo, il meticcio di famiglia, e Rita, il weimaraner di Sam, erano venuti incontro all’auto di Sam e rimasero lì ad aspettarlo finché non uscì dal capanno. Sam aprì la portiera dell’auto e vi buttò dentro i copioni e il vestito. I cani saltarono a bordo subito dopo. Solo tornando verso il Malibu Canyon si ricordò dei cuccioli. La famiglia trascorse un paio dei giorni seguenti a casa di Jack Gariss a Reseda, aspettando che il fuoco si placasse. Quando finalmente cessò, le fiamme avevano decimato sessantacinque case e trasformato cinquecento chilometri
quadrati di colline erbose in una terra desolata nera come il catrame. Sam mandò Marie e le bambine a casa dei suoi genitori a Fresno e David Peckinpah – sempre presente in tempi di crisi – venne giù con Harold Waddle, un detective privato che aveva lavorato con lui in tribunale. Guidarono per Rambla Pacifico con Sam, per valutare i danni. Non occorreva un occhio esperto per farlo. Tutto quel sommacco e il propano avevano reso il capanno Quonset un inceneritore. Camminavano in punta di piedi per la struttura crollata alla ricerca di resti salvabili, ma tutto era stato distrutto. «Tutto ciò che restava erano masse liquefatte di argenteria e vetri», dice Fern Lea. Il peggio per Sharon furono gli animali. Tutti i gatti, tranne uno, erano scappati o morti. L’unico sopravvissuto emerse dal riarso panorama, ma con ustioni alle zampe tali che morì dopo qualche giorno. Trovarono le ossa dei cuccioli di Simbo tutte raggruppate dove si trovava la loro cuccetta. Papà le aveva mentito; aveva preferito salvare i suoi copioni. Per fortuna Sam aveva un responsabile commerciale in grado di rimettere insieme i pezzi. Malibu era stata dichiarata area disastrata, il che qualificava Sam per un prestito a interessi calmierati: con quello e le sue crescenti entrate poteva costruire una vera casa sul sito del capanno Quonset o vendere quella proprietà e trasferirsi più vicino all’acqua. Nel frattempo, affittò una casetta sulla spiaggia vicino al Malibu Sea Lion. Sam e Marie organizzarono un «book party» più o meno una settimana dopo il trasloco. Amici della Fresno, della USC, della KLAC e dell’ambiente cinematografico e televisivo di Sam si ammassarono nella piccola casa, ognuno con un libro, da Tolstoj a Zane Grey. Non riuscì a rimpiazzare la vecchia collezione, ma fu un ottimo inizio; oltretutto, al ritmo con cui Sam comprava libri, la famiglia ne sarebbe presto stata sommersa.
Il lavoro continuava ad arrivare in massa. Mentre stava ancora ultimando dei copioni per la tv, gli capitò tra le mani un altro incarico da sceneggiatore. «Stava cominciando a girare la voce che io fossi uno scrittore molto in voga», disse Peckinpah a Garner Simmons. «Per cui Frank Rosenberg, un mio buon amico e persona dall’enorme talento, mi diede un libro da leggere, The Authentic Death of Hendry Jones, di uno scrittore di nome Charles Neider. Il libro mi piacque molto, così mi fu chiesto di trarne una sceneggiatura. Lo feci e mi pagarono, credo, 3000 dollari [la cifra esatta fu 4000], un compenso adeguato ai tempi. Impiegai sei mesi a scriverlo. La maggior parte del tempo lo impiegai a metterlo insieme. Scrissi le ultime novanta pagine in nove giorni». L’opera di Neider era una versione romanzata degli ultimi giorni di Billy the Kid, in cui William Bonney era stato rinominato Hendry Jones e l’azione spostata dal territorio del New Mexico alla California del Nord. Rinarrando la famosa storia, Neider esplorò la differenza tra realtà e mito e cercò di mostrare la vita del pistolero così com’era realmente: dispendiosa ed emotivamente desolata, un percorso che poteva solo portare a un epilogo sanguinoso. Peckinpah restò affascinato dal libro – come lo era sempre stato dalla leggenda stessa di Billy the Kid – e ancora più colpito dal modo in cui la prosa di Neider dilatava il momento di un semplice sparo, catturando ogni dettaglio, sfumatura percettiva e riflessione dell’uomo morente per esplorare l’orrore e il mistero ultimo della morte. Tuttavia, l’adattamento di Peckinpah rivela che il suo punto d’interesse differiva da quello di Neider. Ristrutturò la trama e creò molte nuove scene che plasmarono la narrazione in modo da rispecchiare la sua interpretazione della storia di Billy the Kid. Quando divenne un regista cinematografico, Peckinpah fu spesso elogiato (e altrettanto spesso condannato) dalla critica per la sua demitizzazione del western americano. Questo fu, in realtà, un grave errore di interpretazione del suo lavoro. Il chiaro scopo di Neider era quello di demitizzare una leggenda cardine del Selvaggio West. Nel suo adattamento, Peckinpah
conservò molti dei dettagli più cupi del romanzo, ma inserì anche molti elementi mitici nella storia. Usò una quantità di dettagli realistici per dare vita al suo universo immaginario. Ma i suoi più grandi western – Sfida nell’Alta Sierra, Il mucchio selvaggio e Pat Garrett e Billy Kid – sebbene oscuri, complessi e intensamente angoscianti, sarebbero stati tutti delle tragedie mitiche. Nel suo adattamento di The Authentic Death of Hendry Jones, plasmò i personaggi di Kid e Pat Garrett – chiamato da Neider Dad Longworth – in archetipi che rispecchiavano le polarità in conflitto all’interno del maschio americano. Kid è l’incarnazione della gioventù selvaggia, avventata nella ricerca della gratificazione del momento e incurante del dolore che infligge agli altri e a se stessa. Dad è quella stessa gioventù divenuta mezza età, che scopre il bisogno di stabilità, di diventare parte di una famiglia e di tenersi un lavoro rispettabile. Ma rinunciare alle gioie ormonali della gioventù per le soffocanti comodità della vita domestica non è facile per la maggior parte degli uomini americani. Quando Dad uccide Kid alla fine della storia, ciò che sta uccidendo è la sua stessa giovinezza, e la potenza del racconto deriva dalla presenza di un pubblico maschile capace di riconoscere di aver fatto o essere pronto a fare la stessa cosa per avere accesso a una vita di stabilità e maturità. La differenza tra il libro e l’adattamento di Sam è che Neider minimizza questi temi e si concentra invece sulla cadente realtà dietro il mito; Peckinpah esplora ed espande i temi, ma conserva molti dei brutali dettagli di Neider per dare al mito dei frastagliati contorni di autenticità. Ultimato il 3 ottobre 1957, l’adattamento di Sam di The Authentic Death of Hendry Jones mostra un grande miglioramento dal punto di vista della fattura artigianale rispetto al copione di The Dice of God, ultimato appena sei mesi prima. Lunghi brani di antefatto sparsi per il romanzo di Neider sono abilmente convertiti in scene concise, e anticipati nella trama per chiarire i rapporti tra i personaggi e preparare il conflitto centrale. Già al secondo tentativo, Peckinpah aveva
imparato a padroneggiare la sceneggiatura cinematografica. Frank Rosenberg adorò il prodotto finito e lo sottopose a Marlon Brando per sapere se fosse interessato a interpretare il ruolo di Kid. Un paio di settimane dopo Peckinpah ricevette una telefonata. Brando aveva letto e adorato il copione, spiegava Rosenberg, e voleva incontrarlo per discutere di alcune ulteriori modifiche. Sam riattaccò, con la testa frastornata come se vi risuonasse un segnale di occupato. Brando, il solo e unico Marlon Brando, aveva adorato il suo copione! Per circa tre settimane, Peckinpah e Brando si videro quasi tutti i giorni. Parlavano del copione per ore e visionavano film western insieme. «Sam era al settimo cielo», dice Marie. «Era certo che Brando avrebbe fatto un lavoro fantastico con il suo personaggio». Una sera Brando telefonò e invitò Marie a una proiezione – stavano per produrre un altro western. Pensando che si trattasse di Sam che ne faceva l’imitazione, Marie lo prese in giro a sua volta: «Be’, sai, ho le bambine di cui devo occuparmi, è terribilmente impegnativo. Se solo avessi qualcuno che mi aiutasse a occuparmi di loro, forse potrei». E gli attaccò il telefono in faccia. Rise e si scusò quando in seguito Sam le disse che era veramente Marlon al telefono. Fu divertente e allo stesso tempo non lo fu, perché quell’incidente fu il primo campanello d’allarme della tensione che stava crescendo tra i due. Marie si ritrovò spesso sola in casa per badare alle bambine mentre Sam correva a casa di Marlon o all’ufficio di Rosenberg. Stava vivendo un’esperienza creativa incredibile, stava vedendo i suoi sogni più nascosti diventare realtà, mentre lei affogava in un mare di pannolini. Era stata in qualche modo declassata da partner creativa a domestica e babysitter. All’inizio non le era pesato rinunciare alla carriera da attrice per avere dei figli, ma ora cominciava a mancarle terribilmente e, riflettendo su questo nel corso del suo matrimonio, arrivò a capire che c’era stata un’altra ragione per il fatto di essersi tirata indietro davanti alla prospettiva di una carriera. «Credo di aver
inconsciamente realizzato molto presto che era meglio non competere con Sam, che aveva bisogno di essere lui la luce preponderante». Brando disse a Sam di aver trovato il regista perfetto per il progetto, un ventinovenne di nome Stanley Kubrick che aveva lavorato come regista di seconda unità nella prestigiosa serie televisiva Omnibus e si era guadagnato un grande consenso da parte della critica per il thriller Rapina a mano armata nel 1956 e per un violento film antibellico, Orizzonti di gloria, che era appena uscito. Anche Peckinpah trovava Kubrick una scelta entusiasmante e il suo morale raggiunse vette ancora più elevate quando il regista firmò il progetto. «Una sera eravamo a casa e Sam ricevette una telefonata», dice Marie. «La sua voce era molto eccitata perché era Marlon. Uscii dalla stanza, tornai poco dopo e Sam stava semplicemente seduto sul letto a fissare il vuoto. Gli chiesi cosa fosse successo e lui mi disse che Kubrick aveva voluto inserire un suo scrittore nel progetto per rilavorare al copione. Sam era stato licenziato, da un momento all’altro era finita. Ne fu devastato». The Authentic Death of Hendry Jones parlava di un vecchio amico che tradisce l’altro; Brando aveva appena dato a Sam la sua prima pugnalata alle spalle hollywoodiana. Alla fine anche Kubrick sarebbe stato licenziato da Brando e una serie di sei altri registi e sette scrittori si sarebbero succeduti prima che Brando dirigesse lui stesso il film, I due volti della vendetta. Nel prodotto finale non c’è quasi traccia del copione originale di Peckinpah. (Nella versione di Brando, Kid uccide Dad Longworth e conquista la ragazza.) «Credo ci siano due mie sequenze nel film, ma non mi sono state accreditate», ricordò Sam in seguito. In effetti, gli fu negata persino la possibilità di visionare il copione finale. «Marlon lo ha rovinato», disse Sam. «È un attore incredibile, ma a quei tempi doveva essere per forza l’eroe, e non è questo il punto della storia. Billy the Kid non era un eroe. Era un pistolero, un assassino a tutti gli effetti».
Peckinpah avrebbe dovuto aspettare altri quindici anni prima di avere un’altra possibilità di lavorare sulla leggenda di Billy the Kid. Nel frattempo, Levy, Gardner e Laven lo avevano chiamato. Avevano qualche problema a trovare finanziamenti per The Dice of God, ma volevano parlargli del pilota di una nuova serie tv western. Sam andò in auto fino agli uffici della produzione a Culver City e ascoltò attentamente Jules Levy spiegargli l’idea di base. Aveva avuto una trovata per una serie di sicuro successo; l’avrebbero chiamata The Rifleman. Cosa ne pensava Sam? Peckinpah si schiarì la voce e si mosse nervosamente sulla sedia. Disse che gli sembrava promettente, ma qual era la trama? Ecco il problema, spiegò Levy. Avevano incaricato prima uno scrittore, poi un altro, di creare un teledramma che rispondesse al titolo di Levy, ma entrambi i copioni facevano schifo. Altri produttori avrebbero gettato la spugna, ma non Jules Levy. Sapeva di avere qualcosa di grosso tra le mani con The Rifleman, e che si trattava solo di trovare lo sceneggiatore giusto. «Aspetta un attimo», disse Sam, «ho una storia… Ho una storia a casa che ho scritto un po’ di tempo fa. Credo possa funzionare». «Okay», disse Levy, «portala». Il copione a cui Peckinpah si riferiva si intitolava The Sharpshooter. Narrava di un esperto cecchino che arriva in una strana città e si iscrive a un concorso di tiro a segno per guadagnare un po’ di soldi. Alcuni cittadini lo riconoscono, visto che è famoso in tutto il territorio per le sue abilità. Scommettono tutti i loro soldi su di lui, ma il corrotto oste del saloon, che ha il controllo sulla città, ha puntato forte su uno dei suoi scagnozzi. Proprio prima che arrivi il turno del tiratore scelto, l’oste indica con un cenno i suoi uomini armati e suggerisce all’esperto di sbagliare se ci tiene alla salute. Essendo in minoranza, il cecchino è costretto a mancare il bersaglio al round finale e cavalcare via, lontano dalla città, umiliato.
«E così finiva la storia», dice Arnold Laven. «Non diversa dal tipo di storia che Sam avrebbe usato in The Westerner, mettendo il cinismo e il realismo dello sguardo in contrasto con l’immagine romantica del West. Ne adorammo la scrittura, ma il finale, non avremmo mai convinto nessuno sponsor a finanziare un finale come quello, nel 1958. A dire il vero, non so se ne convinceremmo uno nemmeno oggi – mettendo in scena un protagonista che non ha il coraggio tipico del West, il coraggio di battersi per ciò che è giusto». Così a Laven venne un’idea per rendere il pilota più commerciale. «Se inserisci un ragazzo, dai al tiratore un figlio e gli dai una ragione per iscriversi al concorso – diciamo che vuole i soldi del premio per pagare la caparra su un ranch per lui e suo figlio – e se poi a rischio fosse la vita del figlio piuttosto che quella del tiratore, sfido chiunque in televisione a dire che dovrebbe mettere in pericolo la vita di suo figlio solo per dare una lezione ai cattivi. La sua decisione di mandare all’aria il concorso è perfettamente giustificata». Peckinpah reagì con entusiasmo alla proposta di revisione – almeno in apparenza. «È un’idea grandiosa!», disse, e subito si preparò a riscrivere il copione. Sicuramente dietro suggerimento di Laven, Sam aggiunse anche una sparatoria finale in cui, incapace di vivere con la vergogna di aver perso il concorso di proposito, il tiratore, Lucas McCain, marcia per la strada principale della città, roteando il suo Winchester in posizione da sparo e spingendo le porte del Last Chance Saloon per una sparatoria finale con la banda di cattivi. Li elimina tutti e sei senza procurarsi neanche un graffio. Era puro melodramma alla Zane Grey con in più la vena sentimentale dell’amore di un figlio per il suo papà, buttata in mezzo per attenuare la confusione. Levy, Gardner e Laven sapevano che avrebbe venduto benissimo negli stati centrali dell’America e lo stesso Sam dovette ammettere con se stesso di avere una naturale propensione per queste fesserie. Il ragazzo che si eccitava per le buffonate di Tom Mix e Ken Maynard nei cinema del centro di Fresno era ancora vivo e vegeto dentro di lui.
Ma ciò che rende il pilota di The Rifleman unico e affascinante è il modo in cui Peckinpah è riuscito a instillare nella storia riferimenti molto personali, che le conferiscono un forte e genuino sfondo emotivo. Prendiamo ad esempio la scena d’apertura: Lucas McCain e suo figlio, Mark, cavalcano attraverso una collina erbosa fino a raggiungere l’ombra di una grande quercia. Guardano in basso verso la valle, dove del bestiame sta pascolando. È il panorama della giovinezza di Peckinpah, le ondeggianti colline della California centrale, a sud di Yosemite. «Be’», dice McCain, «è un nuovo paese pieno di possibilità, figliolo». Il ragazzo si volta per guardare la collina dietro di loro. «Non guardarti indietro», dice McCain, «siamo arrivati troppo lontano». Mark abbassa gli occhi sul pomello della sua sella. «Non stavo proprio guardando indietro, stavo solo ricordando». Lo stoico viso di McCain esprime qualcosa di doloroso e inespresso, ma subito si riprende. «Che ne dici di cominciare da qui?» Mark sorride, sollevato. «D’accordo!» Cavalcano verso la valle e arrivano a una bianca fattoria vuota con un comignolo in pietra e una staccionata pericolante. A fianco, un cartello: In vendita Dunlap Ranch 1600 ettari Rivolgersi al giudice Hanavan North Fork
McCain scende da cavallo, prende un pugno di quell’erba a stelo lungo e la annusa. «Come ti sembra questa fattoria?», chiede a Mark.
Mark, allontanando col suo pony delle bestie randagie dal giardino, risponde: «Mi sembra bella!» McCain sorride calorosamente. «La trovo bella anch’io. Bene, allora, credo che siamo arrivati abbastanza lontano». Anche il ragazzo sorride e grida: «Bene!» Sam stava ricongiungendosi nella finzione con ciò che aveva perso per sempre nella realtà. E stavolta, la seccante presenza di una donna che potesse un giorno vendere il ranch era stata cancellata – sebbene non senza uno sguardo all’indietro, pieno di rammarico. Ora erano solo loro due, padre e figlio, nel loro paradiso da cowboy. Ma Lucas McCain si sarebbe rivelato una creazione stranamente schizofrenica; ora un idealistico padre perfetto – forte, resiliente, paziente come maestro, saggia e confortevole guida nei tempi di crisi – ora un assassino assetato di sangue. Quando veniva «spinto al limite» (cosa che accadeva in ogni episodio), scatenava un Armageddon umano, ammassando cadaveri più velocemente di un plotone d’esecuzione in America centrale. Si trattava di una visione caricaturale delle polarità insite nel padre di Sam, David, polarità che Sam stesso aveva ereditato. «Era un copione incredibile», dice Arnold Laven, «anni luce migliore di qualsiasi altra cosa sul mercato». L’agenzia William Morris, che rappresentava Levy, Gardner e Laven e fu pioniera nel vendere film e progetti tv al di fuori della propria cerchia di talenti, diede il copione del pilota di The Rifleman a un altro cliente, Dick Powell, capo della Four Star Productions. La Four Star – fondata da Powell, Charles Boyer e David Niven e con Ida Lupino come padrona di casa – produceva serie drammatiche antologiche come Four Star Playhouse e I racconti del West, che presentavano un nuovo western di mezz’ora ogni settimana. Powell portò il copione di The Rifleman a Tom MacDermott, un funzionario della Benton & Bowles, una delle più potenti agenzie pubblicitarie di New York. Era ancora l’era in cui un solo sponsor comprava tutti gli spazi pubblicitari di un particolare show, finanziandone così la produzione. La
maggior parte dei grandi sponsor si affidavano a compagnie pubblicitarie come la Benton & Bowles per scegliere una serie vincente – il che rendeva le agenzie pubblicitarie, non le reti, i veri potenti della televisione. Un funzionario pubblicitario di alto livello come MacDermott (che aveva individuato lo sponsor per Make Room for Daddy) poteva ottenere la messa in onda di un nuovo programma in brevissimo tempo. Nel caso di The Rifleman, ci volle meno di un mese. MacDermott lesse il copione, lo adorò, gli affiancò Procter & Gamble come sponsor e tre settimane dopo Arnold Laven stava dirigendo il pilota per I racconti del West della Four Star. Prima ancora che il pilota andasse in onda, MacDermott aveva già comprato lo show come serie fissa. Oggi, con strati kafkiani di burocrazia che soffocano il processo decisionale delle maggiori reti, è impensabile che uno show possa passare dal concepimento alla messa in onda in così poco tempo. «La storia di The Rifleman non è probabilmente più notevole di qualsiasi altra cosa sia accaduta prima o dopo in televisione», dice Arnold Laven. Laven scritturò Chuck Connors – un ex giocatore di baseball – per il ruolo dell’alto protagonista dalla mascella pronunciata e Johnny Crawford per il ruolo del figlio, Mark. A Laven venne in mente un trucchetto speciale per il Winchester del Rifleman: una tacca nella maniglia d’armamento che gli avrebbe permesso di sparare e ricaricare quasi simultaneamente, sparando fuori i colpi alla velocità di una mitragliatrice. The Rifleman raggiunse subito il secondo posto negli indici d’ascolto Nielsen e vi restò per la maggior parte della stagione. In tutta l’America, i bambini trascinavano riluttanti genitori nei negozi di giocattoli e li obbligavano a sganciare verdoni per un originale Winchester alla Lucas McCain, completo della tacca per lo sparo automatico sulla maniglia d’armamento. «Ricordo che Sam mi chiamò nel suo ufficio una volta», dice Robert Heverly, uno scrittore che avrebbe lavorato alla
successiva serie di Peckinpah, The Westerner. «Disse: “Bob, ho scritto il Rifleman che è andato in onda la settimana scorsa… È in prima posizione nel paese… prima posizione in tutto il mondo!”» Ora i soldi cominciavano davvero a piovere. Sam era stato pagato 1900 dollari per il pilota e l’accordo con Levy, Gardner e Laven per quella prima stagione prevedeva che scrivesse dei copioni – un totale di sei, sui 1500 dollari l’uno, a seconda che usasse o meno collaboratori – e facesse da consulente per la storia, il che significava sviluppare copioni insieme ad altri scrittori. Per il suo contributo personale alla creazione dello show, avrebbe avuto il 7,5% dei profitti netti, più 125 dollari a episodio, che lo avesse scritto lui o meno. Improvvisamente si trovò risucchiato negli infernali orari continuati di una serie televisiva. Per la prima stagione furono prodotti quaranta episodi. Sam non ebbe problemi a reclutare una scuderia di scrittori; tra di loro due vecchie conoscenze della Fresno State, Don Levy e Jack Curtis, e una nuova scoperta, Bruce Geller, un laureato di Yale che aveva già venduto alcuni copioni prima di entrare nell’orbita di Sam. Durante la prima stagione, in cui Peckinpah svolse un importante ruolo creativo, gli episodi di The Rifleman si susseguirono come capitoli di un’unica storia. I personaggi crescevano e i rapporti continuavano a evolversi; gli eventi dei primi episodi influenzavano gli sviluppi degli episodi seguenti. Ciò andava contro la tipica formula degli show televisivi a episodi, in cui i conflitti sono presentati all’inizio e completamente risolti un’ora o mezz’ora dopo, alla fine del segmento, senza mai più menzionarli. Creare ogni episodio come un’unità a se stante permette alle stazioni di ritrasmetterli in qualsiasi ordine senza perdita di continuità, ma il risultato è che i personaggi fissi della serie diventano stereotipi statici con un monotono corredo di atteggiamenti e risposte a ogni data situazione. Peckinpah spinse per un approccio più ardito. Aveva concepito lo show come la storia in continua evoluzione «di un ragazzo [Mark] che avanza verso l’età adulta scoprendo
piano piano in cosa consista». Ma Levy, Gardner e Laven spingevano con altrettanta forza nella direzione opposta. Volevano che lo show restasse all’interno dei confini di un western televisivo standard. All’inizio Sam si accontentò di una vittoria parziale, inserendo un tocco sottile qui, una sfumatura ironica lì. Ma col tempo i continui compromessi avrebbero cominciato a consumarlo. I copioni scritti da Sam sono pieni degli stessi riferimenti personali che avevano aiutato il pilota a trascendere dal melodramma: la città più vicina si chiama North Fork; la fattoria di McCain viene bruciata dagli scagnozzi di un barone del bestiame avido di terre, riprendendo l’esperienza di Moses Church; McCain tira su il morale a suo figlio raccontandogli una versione western della storia di Giobbe, uno dei brani della Bibbia preferiti da David Peckinpah, che lo recitava spesso ai suoi bambini in tempi di crisi; Mark passa una notte nella natura selvaggia, come Denver Church aveva costretto il piccolo D. Sammy a fare, e così il ragazzo supera la sua paura del buio e delle creature che vi abitano. E ci sono molti esempi di classici dialoghi alla Peckinpah: «Dovrai avvicinarti molto di più se vuoi che quel colpo valga a qualcosa»; «Non lo compri né con l’oro, né con l’argento, né con il bronzo»; «Se quei ragazzi si sono addormentati e hanno lasciato che il gregge si disperdesse, appenderò le loro pelli al muro usando i loro denti come chiodi». Sono presenti anche gli archetipi di Peckinpah, che prendono lentamente forma nelle vesti di veri esseri umani. Il predicatore mezzo pazzo riappare in «The Baby Sitter», questa volta col nome Wood Bartell, un incredibile fanatico che gira il West predicando l’astinenza, la sopportazione e la gloria nel trascendere gli ignobili piaceri della carne. Ma nella grassa mano destra porta una lunga, fallica frusta che fa schioccare sulle carni malate dei «malvagi». (Ama particolarmente farla schioccare sulle ballerine mezze nude.) In un altro episodio, «The Marshal», ci vengono presentati i fratelli Shelton, i primi di molti rabbiosi scagnozzi
– i fratelli Hammond e Gorch, T.C. e Coffer, Taggart e Bowen, Hedden, Venner e Scutt – che avrebbero trottato fra i paesaggi di Peckinpah in cerca di carne fresca. Quando l’addetto dell’hotel chiede agli Shelton di registrarsi, Andrew sghignazza: «Non siamo tipi che scrivono!» Prima che McCain li faccia fuori nel momento culminante dello show, riescono a ridurre il saloon della città a una catasta di legno e vetri infranti due volte, non azzuffandosi con altri ma tra di loro. Peckinpah era affascinato dalla perversa vitalità di questi personaggi e profondeva su di loro molta più attenzione e umanità di quanta ne avesse riservata alla figura cardine di Lucas McCain. Aveva cominciato a infrangere gli stereotipi del western televisivo introducendo cattivi che erano più complessi, interessanti, addirittura empatici degli eroi dalla mascella quadrata che li freddavano. Sam fece molte pressioni su Levy, Gardner e Laven per dirigere qualche episodio di The Rifleman. Il suo unico lavoro da regista accreditato era un orribile episodio di Broken Arrow. Per mostrare loro di cosa fosse capace, proiettò il cinescopio di Portrait of a Madonna nell’apposita sala degli studi; i «Pep Boys», come li chiamava Sam a loro insaputa, restarono così impressionati da dargli una possibilità. Arnold Laven si offrì di aiutare Peckinpah a prepararsi per il suo primo episodio. Laven non era un artista, ma un artigiano esperto. I suoi episodi di The Rifleman, con inquadrature e montaggio dinamici, si muovevano come una saetta e rendevano Gunsmoke fiacco e artritico al confronto. «Parlammo della copertura e di come attaccare una scena, di come la prima ripresa sia sempre un’introduzione a come si svilupperà la scena», dice Laven. «L’idea era di dargli una struttura e uno schema visivo, scena per scena, cosicché potesse finire il lavoro di quel giorno essendosi preparato mentalmente a ciò che voleva realizzare. In televisione non c’è tempo per lasciare che gli attori esplorino una scena prima di scegliere le inquadrature. Bisogna scegliere le inquadrature in anticipo e poi far muovere gli attori in favore di camera.
Sentivo, mentre gli dicevo queste cose, che la sensibilità di Sam le stava filtrando. Non seguì i miei suggerimenti alla lettera, perché ovviamente aveva le sue idee». Il primo episodio di The Rifleman diretto da Peckinpah fu «The Marshal», che introdusse il personaggio interpretato da Paul Fix nel cast fisso, e R.G. Armstrong, Warren Oates e James Drury in ruoli minori. Oates, ex marine, veniva da una città di minatori di carbone in Kentucky; Armstrong era cresciuto in una fattoria in Alabama; Drury veniva da un ranch in Oregon. Tutti, come Peckinpah stesso, avevano dei legami personali con l’America rurale. Conoscevano la gente che viveva nei ranch e nelle fattorie americane, dai proprietari ai braccianti – come camminavano, parlavano, mangiavano, odiavano e amavano. Conferirono ai loro ruoli un’autenticità e una cruda emotività che Sam seppe tessere sapientemente nei suoi film. La compagnia di Peckinpah cominciava a consolidarsi; Armstrong e Oates sarebbero apparsi di nuovo in The Westerner e in altre quattro pellicole di Peckinpah, e Drury si sarebbe unito a loro in Sfida nell’Alta Sierra. La crescita di Sam come regista si dimostrò notevole già al suo secondo show televisivo. Aveva studiato attentamente i suggerimenti di Laven: «The Marshal» ha lo stesso rassicurante e saldo ritmo che caratterizza i lavori del suo maestro, con in più un tratto distintivo immediatamente riconoscibile. «L’episodio di The Rifleman di Sam ha un’intrinseca violenza di fondo», afferma Laven. «Tutti gli episodi della serie sono pieni di violenza, tizi che sparano a chiunque si trovino davanti, ma la rappresentazione cui si ricorreva era quella tipica del western televisivo: non era violenza di strada, non era violenza vera. C’era qualcosa di irreale quando il tiratore sparava a tre persone, c’era uno schema all’interno del quale restava. Ma Sam rese tutto molto più letale, molto più palpabile, molto più reale. Ed era spiazzante per The Rifleman, non rifletteva esattamente il genere dello show». La maggior parte dei registi erano soddisfatti di girare un episodio di una serie e passare al compito seguente senza
guardarsi troppo indietro in sala montaggio, ma Peckinpah seguiva i suoi show per tutto il processo di postproduzione. Aveva lavorato brevemente come assistente montatore alla CBS nei primi anni Cinquanta, quando cercava di staccarsi dalla KLAC, per cui aveva familiarità con la Moviola e con il tagliare il nastro. Guardava i tecnici mettere insieme il suo The Rifleman, annotava le decisioni che prendevano e ne chiedeva il motivo, poneva domande giudiziose e dava i propri consigli. «Sam sembrava una persona molto determinata, molto, molto informata per essere nuovo del settore», dice Mike Klein, che lavorò come assistente montatore per The Rifleman e in seguito in molte altre pellicole di Peckinpah. «Quando vidi qualche suo lavoro da regista, sentii davvero che aveva talento e che sarebbe arrivato molto lontano in questo settore. Mi piaceva soprattutto il modo in cui usava la cinepresa. I registi di The Rifleman stavano appena cominciando a familiarizzare con gli obiettivi zoom. Sam li usava molto bene quando voleva davvero porre l’accento su qualcosa; zoomava fino ad avere un primo piano di Chuck Connors. Si vedeva la differenza negli episodi di Sam. Era un uomo estremamente creativo». I soldi di The Rifleman insieme ai pagamenti dalla compagnia assicurativa, il prestito a bassi interessi per l’assistenza ai disastrati dopo l’incendio del capanno Quonset e i profitti della vendita della proprietà su cui giaceva il capanno, finalmente fruttarono a Sam abbastanza denaro per pagare la caparra di una casa del valore di 40.000 dollari nella Colonia di Malibu. Poteva essere sbiadita dal sole, colpita dal vento, infestata da termiti, ma aveva finalmente ottenuto la sua casa sulla spiaggia. Le porte sul retro del numero 97 nella Colonia si aprivano su una vasta spiaggia bianca e una distesa di mare azzurro che brillava nei giorni di sole come una cromatura lucida. Gli effetti corrosivi di smog, acque di scolo e fughe tossiche erano lontani ancora due decenni; i Peckinpah ora vivevano proprio nel centro del paradiso californiano. Come quasi tutte le altre case, la numero 97 era stata costruita negli anni Trenta. Dopo tre decenni di sole, vento e
aria salata, sembrava quasi che potesse bastare un terremoto di media portata a farla crollare al suolo. Ma dopo il capanno Quonset, quella casa sembrava quasi una reggia. C’era un camino in salotto e portefinestre che davano sulla spiaggia, un barbecue in muratura e un piccolo appartamento per gli ospiti che Sam convertì nel suo ufficio. Si sarebbe rinchiuso lì a volte per giorni, producendo sudati copioni, con Marie che gli portava i pasti e gli teneva lontane le distrazioni del mondo esterno. Per le bambine, all’inizio, la Colonia era un paradiso in terra. Trascorrevano i lunghi pomeriggi assolati sfidandosi l’un l’altra a fare il salto più alto dalla torretta del bagnino, scavando tunnel nella scogliera di arenaria e costruendo labirintiche case con teli da mare e sedie sdraio. La Colonia era un paradiso anche per gli adulti, all’inizio. Sam non perse tempo prima di dedicarsi agli sport acquatici. Cominciò con il body board, poi comprò una tavola da surf di balsa lunga tre metri, e pagaiava maldestramente verso la vorticosa schiuma per accogliere il peggio che l’oceano volesse scagliargli contro. In seguito avrebbe mostrato il suo grande entusiasmo a Walter Peter nei confronti del brivido dato dall’hang ten, dallo shoulder surfing, dal 360°, dal «Paul Stroud», dall’entrare «nella stanza verde». «L’unico problema era che», dice Walter Peter, «lo avevo appena visto dimenarsi lì fuori un paio di minuti prima, e non corrispondeva esattamente a quanto mi stava descrivendo». Poi Sam scoprì le immersioni e un nuovo universo della caccia gli si aprì davanti agli occhi. Al posto della rivoltella aveva adesso un fucile subacqueo, al posto dei cervi colpiva pesci persici, halibut e murene. Le acque smeraldo di Malibu pullulavano di vita in quegli anni – tonni, pesci Garibaldi, centinaia di acciughe che nuotavano insieme in banchi come coltellini svizzeri, barracuda, sarde, delfini, foche e leoni marini, squali azzurri, squali leopardo e, occasionalmente, grandi balene bianche o grigie. Sam, Walter e Norman Powell, direttore di produzione alla Four Star, presero lezioni di immersione da uno stuntman, Paul Stader, controfigura di
Lloyd Bridges nella serie tv Avventure in fondo al mare. «Sam era coraggioso, ma non era un bravo sub», dice Stader. «Se la cavava, ma era meglio non lasciarlo andare in acque profonde; non era abbastanza forte come nuotatore». «Ricordo che passeggiavo sulla spiaggia lì alla Colonia», dice l’attore Brian Keith, «e vidi questa casa e Marie fuori con un’altra signora ad accendere il fuoco, poi arrivò Sam che usciva dall’acqua con una grande aragosta in mano». Marie faceva un barbecue con il pesce e l’aragosta, preparando l’abalone a tranci o in zuppa, oppure tagliandolo sottile e marinandolo con aceto e cipolle. Il ricordo di questi pasti sulla spiaggia fanno ancora venire l’acquolina in bocca alle giovani Peckinpah. Ma con il passare del tempo, la loro vita da cartolina cominciò a ingiallirsi e ad accartocciarsi ai bordi. Sam beveva quasi ogni sera, ormai, e si ubriacava pesantemente quasi tutti i weekend. Walter Peter, Frank Kowalski, Norman Powell e altri ospiti si riunivano lì il sabato e la domenica e l’alcol forniva loro un esplosivo propellente per vertiginosi voli di pura follia. Sam acquistò uno dei primi stereo giunti sul mercato e con esso un registratore di effetti vocali. Continuava ad alzare al massimo il volume dell’apparecchio così da dare l’impressione che un treno merci, un jet o la 500 miglia di Indianapolis rombassero nel suo salotto. «Lo metteva a ripetizione, ancora, ancora e ancora», dice Marie. «Pretendeva che ogni nuovo ospite provasse quell’esperienza. Stavo diventando matta!» Walter era lo scienziato della situazione, sempre pronto alla sua rampa di lancio: il frullatore. Faceva fare alle lame un suono lamentoso e versava in bicchieri che gli venivano porti famelicamente dinamici margarita alla fragola, banana e pesca. Le lame del frullatore tagliavano instancabili nelle ore mattutine finché il numero delle vittime disseminate per il salotto era scioccante. Quando tutti i «detriti» erano stati spazzati via, non ne restavano che tre. Sam, Walter e Frank stravaccati sulle sdraio intorno al barbecue sul retro. Walter faceva le imitazioni di generali tedeschi travestiti, liberando
acuti fischi e il suo grido di battaglia, «Penso che stiamo vincendo!», prima di scoppiare in un coro d’opera spaccavetri. Nel frattempo Sam e Frank affinavano le loro imitazioni di Bela Lugosi, ripetendo la loro battuta preferita di Dracula all’infinito, come un mantra: «Assscoltateli! I figli tella notte! Quale tolce musssica emettono!» Ma sempre più spesso c’erano scatti di rabbia che lasciavano chi vi assisteva in uno stato di tremante confusione. Melissa, che al tempo aveva quattro anni, aveva imparato a riconoscere l’atmosfera nell’istante in cui il padre entrava nella stanza. Se era di cattivo umore sapeva che era meglio andarsene o mimetizzarsi con l’arredamento. «Quando urlava, per me, non era neanche remotamente spaventoso come quando era moderatamente arrabbiato e parlava tra i denti», dice. «Mi sembrava più sinistro perché riuscivi a percepire la rabbia che cresceva dentro di lui, ma che non fuoriusciva». Melissa odiava lasciarsi tagliare le unghie perché dopo l’operazione le punte delle dita le formicolavano e la cosa le dava la pelle d’oca. Per questa ragione Marie gliele lasciava tenere lunghe e questo faceva infuriare Sam. La minacciava sempre di tagliargliele con un coltello e un giorno le prese la mano e urlò: «Va bene, Marie, dammi un coltello!» Melissa scoppiò a piangere. Gliele tagliò con un paio di forbici, invece, ma la bambina pianse comunque per tutto il tempo. Non andò mai oltre lo sculacciare le sue figlie a mano aperta sul sedere, ma c’erano momenti in cui andava a un passo dal trascendere. «Cominciò a essere violento con una delle bambine una volta, mentre la sgridava», dice Marie. «Non ricordo con quale. Intervenni e si fermò subito. Si era spaventato, penso. Smise di bere per qualche giorno ed era dispiaciuto, ma poi ricominciò a bere». A uno dei barbecue sulla spiaggia, la «follia pura» prese una svolta improvvisamente allarmante. Il frullatore era in moto dal primo pomeriggio ed era ormai sera, le stelle cominciavano a spuntare sopra il lembo di sabbia dietro la casa e sulle schiumose onde oltre di essa. Walter e Frank
Kowalski scelsero Sam come vittima di uno dei più vecchi scherzi da liceo mai esistiti: Frank faceva parlare Sam mentre Walter sgattaiolava dietro di lui e si metteva gattoni, sulle mani e sulle ginocchia. Senza preavviso, Frank diede a Sam uno spintone. I suoi piedi scivolarono e cadde pesantemente a terra. Frank e Walter ridevano fragorosamente mentre Sam si alzava, sputando sabbia. Sotto gli occhi allibiti di tutti, si scagliò contro Kowalski a pugni chiusi. I due lottarono e indietreggiarono sulla sabbia fino a sbattere contro un lato della casa e rompere una finestra. I vetri volarono ovunque. Robert Culp, che era lì quel giorno, assistette alla fine della lite. «Sam, che aveva sangue dappertutto, stava rientrando in casa e Frank lo seguiva dicendo: “Sam, dai, non capisci, io ti voglio bene, amico, ti voglio bene!” Sam lo mandò a quel paese e se ne andò in camera sua, con Marie che lo seguiva, e credo che io e mia moglie a quel punto battemmo in ritirata. Basti sapere che l’alcol girò molto quella sera e nessuno di noi si sentì male, credo, eccetto Sam». Ma il vizio di Sam non era l’unica fonte di tensione. Erano passati tre anni dall’ultimo lavoro di Marie come attrice, in una scena di due minuti con un paio di battute nell’Invasione degli ultracorpi. Sam era felice di lanciarle occasionalmente qualche osso – voleva darle un paio di piccole parti in The Westerner – ma scoraggiava qualsiasi ambizione a una carriera seria. A poco a poco, dal punto di vista di Marie, l’aveva manipolata fino a farle assumere il ruolo di domestica. Nonostante la sua cultura, la sua sensibilità artistica e la sua raffinatezza, credeva ancora – come suo padre e suo nonno – che il posto di una donna fosse in casa, per rendere il marito felice e occuparsi dei figli. Quando Sam partì per una delle sue battute di caccia lunghe dieci giorni, proibì a Marie di uscire per cena o per altri eventi sociali, spiegando che «lo avrebbe fatto preoccupare». Fern Lea trovava la sua ipocrisia oltraggiosa. «Sam, ne sono sicura, lo avrebbe negato, ma il modo in cui trattava Marie era lo stesso in cui mia madre trattava mio padre: manipolatorio,
possessivo. Mamma non sapeva come dare e ricevere nel matrimonio, come sedersi e parlare dei bisogni dell’altro per risolvere le cose. Non lo imparò mai e non lo fece nemmeno Sam. E neanche Marie, se è per questo». Sam si era sempre preso gioco del falso fascino e della pretenziosa vistosità di Hollywood, e sosteneva ancora di provare disprezzo per l’«industria» e la società che promuoveva. Era lì per l’arte, non per un palazzo a Beverly Hills con sala di proiezione privata, campo da tennis e piscina. Voleva creare grandi pellicole, non semplicemente film, gli interessava la qualità del suo lavoro, non le cene da Chasen, le colazioni al Polo Lounge e le feste a Mulholland Drive. Ma Marie aveva notato come, a poco a poco, la città lo avesse cambiato. Prima le feste a casa di Charles Marquis Warren, poi da Brando e ora nelle case di dozzine di persone che nemmeno conosceva. Persone che morivano dalla voglia di conoscere l’affascinante giovane scrittore che aveva creato The Rifleman. Una folla di sfavillanti sconosciuti che si accendevano in luminosi sorrisi come se avessero premuto un pulsante nelle loro teste. Sorrisi che spegnevano di nuovo nell’istante in cui scoprivano che non eri «nel giro», che eri un nessuno, una casalinga che una volta alla Fresno State recitava; riponevano subito il fascino e si risparmiavano per qualcuno che valesse la pena, scusandosi gentilmente per andare a «ricaricare» i loro martini. Marie temeva questo tipo di relazioni, ma Sam insisteva per andare a quelle feste, sostenendo di averne bisogno per crearsi i contatti giusti – i contatti erano il mezzo per ottenere un nuovo lavoro, venire a sapere di una proprietà interessante, incontrare qualcuno che poteva darti una mano a salire il prossimo gradino sulla scala del successo. Divenne improvvisamente importante che Marie indossasse l’abito giusto quando uscivano – niente più vestiti alla Mother Hubbard – e, quando rientravano dalle feste, non faceva che criticarla. «Non socializzi mai. Cristo Santo, perché non parli un po’ con le persone?» «Ma Sam, non conoscevo nessuno».
«E quindi? Attacca discorso. Parla di un film che ti è piaciuto, parla del tempo, dannazione, ma attacca discorso. È chiedere troppo?» Alla fine riuscì a sostenere una conversazione a una festa. Parlò con un importante sceneggiatore per due ore. Ma al posto della lode che sperava avrebbe avuto al ritorno a casa, Sam le disse: «Perché cavolo sei rimasta a parlare con quello tutta la sera? Non sai variare? Vai in giro, parla con persone diverse. Si chiama socializzare». «Bramava così tanto fare colpo su queste persone», dice Marie con una secca risata. «Lo trovavo… disgustoso». Marie aveva lo stesso approccio lassista nei confronti delle pulizie domestiche che aveva già dimostrato nel capanno Quonset. Periodicamente le prendeva la mania della pulizia e la casa brillava per circa una settimana prima di ricadere nel suo naturale stato di scompiglio. A Sam non sembrava importare quando vivevano al capanno Quonset, ma alla Colonia, con Robert Culp, Brian Keith, Chuck Connors, Levy, Gardner, Laven e altre personalità di Hollywood che passavano di lì per cena, cominciò a lamentarsi amaramente. Era stanco di tornare ogni giorno in un porcile. Era chiedere troppo, dopo aver passato sedici ore allo studio, che al suo ritorno ci fosse almeno del dannato ghiaccio nel freezer? Ma cosa diavolo faceva a casa tutto il giorno, allora? La reazione di Marie, secondo gli amici, era di tipo passivo-aggressivo. Più Sam si lamentava, più lei batteva la fiacca. Appena trasferitisi, Marie aveva cominciato a riarredare la casa. Rifece il salotto, ma poi il progetto si estinse. L’ingresso non ebbe più una carta da parati, la fossa biologica dell’appartamento per gli ospiti non fu mai riparata. In qualche modo, tutto ciò era simbolico. La casa non fu mai completata e poco dopo il trasloco le cose cominciarono a disintegrarsi. A Sharon mancava il capanno Quonset. Era stata felice lì. A un certo punto disse al padre: «Non è triste che il capanno sia bruciato?»
Sam rigettò il pensiero con una brusca risposta. «Oh, l’erba del vicino è sempre più verde». Quando Melissa aveva diciotto mesi, Marie notò che sua figlia era diventata letargica e che le sue ghiandole linfatiche erano gonfie. La portò da uno specialista in otorinolaringoiatria che scoprì che la testa della bambina era rigonfia in alcuni punti. Poteva essere un tumore al cervello, poteva essere leucemia, presumeva, e mandò Melissa all’ospedale di Santa Monica per accertamenti. Alla fine le fu diagnosticata una rara malattia delle ossa che impediva ad alcune placche del cranio di svilupparsi in maniera corretta. Il dottore temeva inizialmente che potesse essere letale, poi decise che non lo era, e Melissa fu messa sotto cortisone per arrestare lo sviluppo della malattia. Nei tre anni seguenti, Melissa sarebbe andata all’ospedale in tre diverse occasioni, restando lì ogni volta dai cinque giorni alle tre settimane. Marie andava ogni giorno a far visita a sua figlia, a consultare i dottori, a sedersi al suo capezzale per leggerle le storie, a portarla in giro per i corridoi sulla sedia a rotelle, a prepararla per la notte con la sua copertina speciale e un paio dei suoi giocattoli preferiti. «Il peggio accadeva non appena arrivavo», dice Marie, «perché scoppiava subito a piangere e piangeva, piangeva, piangeva per almeno un’ora. Credo fosse arrabbiata di dover stare lì». Ma Sam non andò mai a far visita alla figlia minore, nemmeno una volta. Quando Marie tornava a casa dalle visite, la metteva sotto torchio. «Cos’ha detto il dottore? Qual è la prognosi? Gli hai chiesto se ci sono altre cure che possiamo tentare?» Alla fine Marie scoppiò. «Perché non ci vai tu stesso, se vuoi saperlo?» Sam distolse lo sguardo e borbottò: «Non ci riesco». «Chiede di te. Cosa dovrei dirle?» «Non posso andare. Non sopporterei di vederla così».
«Quando Melissa tornò a casa dall’ospedale, la accolse con grande calore», ricorda Marie, «ma poi tornò a ignorarla. Quando dovette tornarci di nuovo, mi diede un libro di Mary Baker Eddy, la scientista cristiana, e insistette perché mi sedessi a leggerlo. Ne lessi qualche pagina e mi arrabbiai talmente che glielo lanciai contro. Non si arrabbiò, al contrario reagì timidamente. Ne rimasi molto sorpresa». Il matrimonio stava soffocando entrambi ed entrambi cominciarono a cercare sollievo altrove. Marie lo trovò nei suoi vicini – i Taylor, i Littlejohn e i Klein. Si incontravano per barbecue sulla spiaggia, feste per i bambini o, sempre più spesso, per cene a casa di Marie. «Sam tornava tardi dallo studio, esausto», dice Fern Lea, «e si ritrovava la casa piena di persone. Non aveva modo di rilassarsi e distendersi». Dopo tre gravidanze, Marie aveva preso qualche chilo e i suoi capelli biondi si erano scuriti, ma le gambe erano ancora armoniose e i suoi grandi occhi nocciola e le maniere cordiali attiravano ancora molti uomini, sia sposati che celibi. Prese lezioni di immersione da uno dei suoi vicini – Sam non glielo avrebbe mai insegnato – e il fatto di padroneggiare quello sport le iniettò nuova autostima nelle vene. Non era completamente inutile, dopotutto. Non ci furono infedeltà sessuali, ma per la prima volta la possibilità fece capolino. Come creatore di una serie tv di successo, con il suo ufficio sul terreno della Four Star, Sam Peckinpah non aveva problemi a trovare giovani, affascinanti attricette desiderose di andare a letto con lui. Alle donne piaceva molto questo giovane regista-sceneggiatore con piccoli baffi eleganti e occhi stranamente penetranti. Come ai tempi della scuola, si vedeva subito che era un fighetto. Fumava con un lungo bocchino smaltato di nero e poteva indossare un plastron o un berretto senza sembrare minimamente stupido. C’era una forte aura di mascolinità intorno a lui, l’inconfondibile odore di un uomo sulla strada del successo. Soldi, case, auto veloci e conquiste sessuali – questi erano i parametri della virilità a Hollywood, proprio come sparare a un cervo da quattro punti o attaccare un manzo lo erano a Dunlap.
«Una volta io e Sam stavamo girando in macchina a L.A.», dice Don Levy, «e mi dice: “Sai, Don, non sono mai stato infedele a Marie quando era in città”. Pensai: “Mio Dio, che razza di strana giustificazione è questa?”» Nancy Galloway, una delle dattilografe di Peckinpah a quel tempo, ricorda: «Un sabato mattina stavamo lavorando al copione di The Rifleman da soli nello studio. Probabilmente Sam aveva bevuto troppo la sera prima perché iniziò improvvisamente a tremare in maniera incontrollabile. Cominciai davvero a preoccuparmi di dover chiamare l’ospedale. Disse: “È il senso di colpa che mi si ritorce contro”. Lo superò, ma fu un momento terribile. Credetti davvero che mi sarebbe collassato addosso. Mangiammo della frutta che sembrò essergli d’aiuto, e non menzionò mai più l’accaduto». Andare a caccia nell’Alta Sierra gli offriva l’unico sollievo duraturo dalle complicazioni domestiche: un’occasione per sbollire, per lasciarsi alle spalle le frustrazioni di casa e Hollywood. Ogni autunno partiva per l’Alta Sierra con i «Walker River Boys» – suo padre, suo fratello Denny e un gruppo di avvocati e giudici delle contee di Fresno e Madera, così chiamati perché avevano cominciato a cacciare come gruppo lungo la foce est del River Walk, nelle Sweetwater Mountains a nordest della California. A metà anni Cinquanta, i loro terreni di caccia preferiti erano le Shell Creek Mountains fuori da Ely in East Nevada. (Le colline intorno la vecchia distesa di Dunlap erano state battute in lungo e in largo molto prima.) Per i successivi vent’anni i Walker River Boys si sarebbero lasciati la civiltà alle spalle per una settimana o dieci giorni ogni autunno; divenne un apprezzato rituale, una delle grandi ossessioni di Sam accanto al cinema. Walter Peter fu iniziato alla tribù poco dopo aver sposato Fern Lea. Lavorando come agente finanziario a Los Angeles, Walter non riusciva ancora a far quadrare i conti, per cui per i primi anni fu Sam a pagare le spese dei suoi viaggi. «Ovviamente quei viaggi significavano moltissimo per Sam», dice Peter. «Cominciava a parlarne già a metà estate. “Pensi di
riuscire a venire quest’anno?” Diavolo, il viaggio sarebbe stato a ottobre o novembre. La mia prima volta Sam e io cacciammo insieme. Mi prese sotto la sua ala perché ero un acerbo novellino». Lasciarono il campo base a più di millecinquecento metri di altitudine e ne salivano altrettanti per seguire i cervi fino ai picchi più alti. Walter studiava il modo nel quale Sam si muoveva tra gli alberi, con pazienza, lasciando scorrere i suoi grandi occhi avanti e indietro lungo il terreno. Sam, per usare le parole di Ben Johnson, «cacciava come un indiano». «Sam mi fece notare una cosa che gli aveva insegnato suo nonno», riporta Peter. «Mi disse: “Ti rendi conto che a ogni passo che fai la tua prospettiva cambia? Fai un passo, guardi, fai un altro passo e il tuo punto di vista cambia”». Cambiamenti radicali di prospettiva, lo stesso evento visto da un vertiginoso numero di inquadrature diverse – questa sarebbe diventata la firma di Peckinpah nella regia. Più tardi quello stesso giorno, mentre il sole tramontava dietro la vicina sommità, Walter stanò un cervo da tre punti e Sam lo colpì. Quando finirono di eviscerare l’animale e di issarlo su un albero per recuperarlo il giorno dopo, si era fatto buio e avevano ancora un paio di chilometri da fare per rientrare all’accampamento. Ci misero quarantacinque minuti e quando arrivarono era buio pesto. «Sam è contento, ha preso un gran bel cervo», riporta Peter. «Ma quando arriviamo, il vecchio, Dave Peckinpah, è furioso. “Hai preso questo novellino e lo hai tenuto con te fin dopo il tramonto! Poteva rompersi una gamba e tu…” Ne disse di tutti i colori a Sam per almeno venti minuti, mezz’ora. Gli tolse uno strato di pelle e poi gli tolse pure il secondo. Non usava parolacce. Diceva: “Non è così che ti ho cresciuto!” Sam sapeva che non aveva fatto una cosa intelligente e non osò dire neanche una parola. Tenne il capo basso e incassò. Non mi viene in mente nessun’altra volta in cui Sam abbia abbassato il capo. Quando Dave finì, fu tutto. Non fu mai più detto niente».
Sam prese ben più che dei cervi nei calanchi del Nevada. Altrettanto da acquolina in bocca era l’opportunità di visitare ogni saloon e bordello malfamato che si trovava sulle asfaltate strade della Highway 6 nella loro corsa lungo il paese. Questi locali servivano camionisti e cowboy locali ed erano, secondo Walter Peter, «luridi, scadenti e oscuri. Ma avevano un certo fascino, davvero». Pavimenti di legno, bassi soffitti in stagno, tela cerata sui tavoli, le mura spoglie di ogni decorazione eccetto forse un mimeografo con il calendario delle partite di football del liceo locale o foto sbiadite di dimenticati cavallerizzi ai rodei. Con la giusta dose di whisky, si poteva quasi credere di essere tornati nel Selvaggio West. Qui finalmente i muscoli delle spalle e del petto di Sam si rilassavano; poteva respirare più profondamente, più facilmente e più liberamente. Marie, le bambine e Hollywood erano a migliaia di chilometri e a centinaia di anni di distanza. Era perso, beatamente perso. Spesso queste soste «per ricaricare le armi» duravano giorni. Ci davano dentro con il jukebox, se il posto lo aveva, giocavano a poker e scambiavano vecchi racconti con i veterani. A turno svenivano, si accasciavano su un tavolo o direttamente per terra; si svegliavano ore dopo, si riavvicinavano al bar e ricominciavano subito a bere. Se David Peckinpah li accompagnava in uno dei bar, non era che per un solo drink prima di ritornare in California. Ma non rimproverava più i suoi figli per le loro bevute. Avendo perso la speranza di contenere la loro sete di liquore e di imporre loro un basso profilo molto tempo addietro, ignorava la cosa dicendosi che «i ragazzi si comportano da ragazzi». Ma ai bordelli – il Green Lantern, il Big Four, il Bobbie’s Buckeye – non si sarebbe mai avvicinato. «Non necessito dei loro servizi», diceva David seccamente, allontanandosi dal resto della compagnia mentre, festosi, i suoi compagni di viaggio irrompevano dalle porte principali. «Ci si conosceva meglio», dice Walter Peter. «Loro ci conoscevano e si fidavano di noi perché ci siamo ritrovati lì ogni anno per quasi vent’anni. Arrivavi lì, ti sentivi a tuo agio,
avevi voglia di divertirti e, cavolo, lo facemmo molte volte. Molte volte succedeva questo: arrivavamo verso l’una di notte, ci sentivamo piuttosto bene e chiudevamo il locale. Nessuno poteva entrare; riservavamo tutto il locale solo per i Walker River Boys». David Peckinpah partì per l’ultima volta con loro nell’autunno del 1960. A sessantacinque anni, ma ancora snello come a venti, era stato recentemente nominato giudice dell’Alta Corte della contea di Madera. Dopo aver preso il loro cervo quell’anno, Sam e Denny riuscirono finalmente a convincere il padre ad avventurarsi all’interno del Green Lantern. «Entra giusto per un drink; vedrai che ti piacerà». «Va bene, un drink, ma nulla di più». Una volta dentro, andarono spediti verso il bar. Denny e Sam presentarono una delle ragazze a David e le dissero che era un giudice dell’Alta Corte. I suoi occhi orlati di mascara si spalancarono. «Davvero?» «Sì, signora», replicò David, imbarazzato ma anche attratto. «Wow, cazzo!», esclamò la ragazza, girando intorno al bancone e sedendoglisi in grembo. «È la prima volta che sono dall’altra parte del banco insieme a un giudice, un sacrosanto giudice!» «David rise, la battuta gli piacque moltissimo», dice Peter. «Prese forse giusto un drink forte e un ginger ale, o qualcosa del genere. Non si ubriacò, ma si godette il cameratismo». Fu un bel momento. Persino il vecchio riusciva a liberarsi di tutte le costrizioni in quei saloon di alta montagna. Forse per la prima volta in assoluto, David sembrò più un amico che una figura autoritaria, qualcuno con cui puoi scherzare, qualcuno che puoi guardare negli occhi invece che dal basso verso l’alto, qualcuno da amare anziché da rispettare e temere.
4
IL FIGLIO BASTARDO DI JOHN FORD
Sam aveva ora la casa nella Colonia che prima osava solo sognare. Creatore di una serie di successo, era ormai considerato da tutta l’industria uno dei registi-sceneggiatori più talentuosi della televisione. Soldi e offerte fioccavano. La strada era spianata davanti a lui. Ma non appena cominciò ad afferrare i suoi sogni, questi cominciarono a sfuggirgli dalle dita. Ben più grandi trionfi professionali lo attendevano nel decennio in arrivo, ma mai più provò l’ingenuo ottimismo ed entusiasmo degli anni Cinquanta, quando la sua carriera aveva cominciato a prendere il volo. Negli anni seguenti, ogni trionfo sarebbe stato macchiato da una tragedia personale, dai ricordi di tutto ciò che aveva perso lungo il percorso. Eppure, paradossalmente, fu proprio l’accatastarsi nell’arco dei tre anni seguenti di una serie di tragedie personali a dargli il crudo materiale che gli permise di passare da abile artigiano ad autentico artista. Fu l’inizio di un’affascinante e spesso agghiacciante danza tra la sua vita e la sua arte che, accelerando nel tempo, avrebbe reso i due elementi indistinguibili l’uno dall’altro. Nella primavera del 1959, il rapporto tra Peckinpah e i produttori di The Rifleman era diventato incredibilmente teso. I compromessi a cui era entusiasticamente sceso nei primi anni dello sviluppo della serie lo rendevano frustrato e nervoso ora che gli ascolti e la fama della serie avevano preso il volo.
Il conflitto cominciò a intensificarsi seriamente quando Sam iniziò a dirigere qualche episodio in prima persona. «Il problema principale di Sam era che ci metteva troppo a creare delle piccole idee», riporta Jules Levy. «Impiegava ore a realizzare inquadrature complicate per scene che avrebbero dovuto richiedere molto meno tempo. Dovevamo far rientrare gli show in un budget di 38.500 dollari per episodio e Sam sforava sistematicamente. Questo era il motivo di tutte le nostre discussioni con lui». Persino il rapporto di Sam con Arnold Laven – il più benevolo dei «Pep Boys» – cominciò a inasprirsi quando Laven insistette nel voler smussare tutti i contorni troppo forti del copione perché rientrasse nei confortevoli confini del melodramma tv. «Molte delle cose che Sam scriveva erano troppo inquietanti per The Rifleman», dice Laven. «Non c’entravano niente con la serie. Sam e i miei partner erano come olio e acqua per quanto riguarda la personalità e molte altre cose. Per quanto i miei soci lo ammirassero e riconoscessero che Sam aveva un grande talento, non necessariamente ammiravano o si trovavano d’accordo con il singolare punto di vista filosofico di Sam. Trovava lo show più cinico di quanto lo considerassero i miei soci». Peckinpah disse in seguito a Garner Simmons: «Ho lasciato quella serie perché Jules Levy e il suo gruppo avevano preso il controllo della mia idea iniziale e l’avevano corrotta fino a farla diventare spazzatura. Non volevano che Johnny [Crawford, che interpretava il figlio di McCain] crescesse. Non volevano che fosse la storia di un ragazzo che avanza verso l’età adulta scoprendo piano piano in cosa consista». Abbandonare una serie di successo poteva sembrare avventato, ma Peckinpah era già da un po’ corteggiato da Dick Powell, capo della Four Star. Powell gli offrì di unirsi al suo ufficio e al suo staff per produrre altri episodi pilota per I racconti del West. Se uno di essi avesse preso piede, Sam avrebbe avuto una serie tutta sua. Stavolta sarebbe stato produttore di se stesso, avrebbe preso lui tutte le decisioni, senza alcun Jules Levy o Arnold Laven che si intromettesse. Il
successo o il fallimento sarebbero dipesi interamente da lui e questa era una prospettiva allo stesso tempo eccitante e terrificante. Accettò l’offerta di Powell, si dimise dal ruolo di consulente per la trama di The Rifleman e si trasferì negli stabilimenti della Four Star nella valle di San Fernando, i vecchi Republic Studios, che avevano sfornato negli anni Trenta e Quaranta centinaia di western a basso budget con John Wayne, Gene Autry, Bill Elliott e Roy Rogers. Che tipo di show voleva realizzare Sam? Senza dubbio Powell si aspettava un altro western da lui. C’erano un totale di quarantotto serie western in onda nel 1959 e in tutte apparivano pistoleri sovrumani – Matt Dillon, Lucas McCain, Wyatt Earp, Bat Masterson, Paladin – che sapevano mirare più velocemente e sparare con più precisione di qualsiasi fuorilegge al mondo, che prendevano sempre il cattivo, arrivavano all’ultimo secondo e salvavano la situazione. Potevano risolverla a pugni o a colpi di pistola con sei tizi alla volta e frustarli tutti, uscendone con non più di un taglio al labbro o una ferita di striscio da proiettile. Non erano solo Levy, Gardner e Laven – tutta la televisione stava rivolgendo quel prodotto a un target fatto di bambini di dieci anni. E se qualcuno avesse creato uno show sul West così com’era realmente, uno show su un vagabondo in sella anziché su un pistolero, un nomade terribilmente umano che vaga da una mandria all’altra? Come Bill Dillon, Bill Baker e gli altri cowboy intorno ai quali Sam era cresciuto a Dunlap. Uomini che non pensavano più in là del domani, uomini semplici a cui piaceva occuparsi del bestiame, dormire sotto le stelle, ubriacarsi, rincorrere le donne, ma che nei meandri più profondi dei loro cuori erano tormentati da una malinconia che si esprimeva di tanto in tanto in vaghi commenti sul sogno di trovarsi un posto tutto loro e sistemarsi, un giorno. Uomini che ne parlavano ma che non facevano la minima mossa per trasformare quel sogno in realtà. (Dillon morì scapolo e solo in una minuscola stanza affittata a North Fork, reso invalido da troppi calci di mulo, cadute da cavallo e dall’alcol. Da anni non riusciva più a cavalcare.)
Le possibilità infiammarono le sinapsi di Sam – una mezza dozzina di idee cominciarono a prendere forma. Il suo nuovo show non sarebbe stato su un altro pistolero, ma sulla quintessenza dell’archetipo americano: il cowboy. Avrebbe catturato allo stesso tempo l’eccitante libertà di quella vita e la disperazione che si nasconde dietro tutto lo spasso e le grida. Se il boom degli anni Cinquanta era stato il momento perfetto per l’esordio di Sam Peckinpah in televisione, la Four Star Productions si dimostrò essere il luogo ideale. Sotto la guida di Dick Powell il repertorio della compagnia crebbe da una serie antologica traballante – Four Star Playhouse – nel 1952 a un totale di tredici serie settimanali in prima serata nel 1960. Usando la serie antologica come vetrina per nuovi episodi pilota, Powell riusciva a testare gli show e a collezionare sponsor per questi ultimi. I suoi nuovi programmi si vendettero più velocemente degli hot dog in uno stadio di baseball: Trackdown, Johnny Ringo, Ricercato: vivo o morto, The Law and Mr. Jones, I detectives. In pochi anni la piccola società di produzione indipendente di Powell era diventata una rivale dei grandi studios – 20th Century Fox, Warner Bros. e Universal – nella corsa alla creazione di «prodotti» tv. Ma la Four Star era molto diversa dai grandi studios. «Dick Powell era un tipo davvero onesto», dice Frank Baur, vicepresidente responsabile della produzione al tempo. «Diede una possibilità a tantissime persone, incluso me, Aaron Spelling, Sam Peckinpah e altri. Dick amava fortemente la società, era la sua creatura. Era un incredibile stacanovista. Assumevamo tecnici che sapevano quello che facevano e avevamo a cuore i loro interessi, ci prendevamo cura di loro, li trattavamo con dignità e davamo loro opportunità. Molti venivano promossi a aiuto regista o produttore associato oppure gli veniva data la possibilità di dirigere. Avevamo un’organizzazione meravigliosa, felice, produttiva». I budget per i programmi della Four Star erano un po’ più alti della media industriale – tra i 38.000 e i 40.000 dollari a episodio. Gli show venivano girati in tre giorni anziché in due e mezzo e un intero giorno di prove era permesso prima
dell’inizio delle riprese. Era previsto anche del tempo extra per rifiniture al doppiaggio e al montaggio. «Trattavamo i nostri programmi come grandi prodotti cinematografici», dice Herschel Burke Gilbert, che compose la musica per la maggior parte dei programmi della Four Star. Di conseguenza, la compagnia riusciva ad attirare nel proprio ovile tecnici del montaggio come Bernard Burton e Desmond Marquette, direttori della fotografia come Lucien Ballard e attori come June Allyson, Robert Taylor e Gig Young, tutti professionisti di alta qualità. Fu in questo fertile bacino creativo che il talento di Peckinpah cominciò davvero a fiorire; sarebbe stata una delle collaborazioni più positive e durature che mantenne con un studio nel corso della sua tempestosa carriera. «Era fantastico», ricordava Sam nel 1978. «Lavorare con il signor Powell purtroppo ha lasciato il segno. Avevamo le migliori troupe, il miglior staff. Non sono mai più riuscito a trovare persone così». La Four Star aveva avuto un grande successo con delle serie su pistoleri dotati di particolari gadget: il fucile a fuoco rapido con la maniglia intaccata di McCain; la Winchester segata di Steve McQueen, che in Ricercato: vivo o morto poteva tenere nella fondina; il Peacemaker di Johnny Ringo che aveva una seconda canna carica di pallettoni. Seguendo la stessa teoria di Jules Levy, a Dick Powell era venuto un titolo per una nuova serie: Winchester. Se Peckinpah fosse riuscito a scrivere un copione che si adattasse al titolo, Powell era certo che sarebbe riuscito a vendere il pacchetto. Fu proprio come per The Rifleman, solo che questa volta Sam era stato lasciato a briglie sciolte su come scrivere e dirigere il pilota. Mentre cercava di creare una nuova storia, Brian Keith fu suggerito come protagonista del nuovo show. Peckinpah incontrò l’attore e la chimica fu istantanea. Figlio del caratterista e scrittore Robert Keith, Brian era alto, aveva le spalle larghe, muscoli granitici e una testa piena di ricci selvaggi. Era apparso a Broadway in Mister Roberts oltre che in un certo numero di film, tra cui i western Uomini violenti,
La freccia insanguinata, La sfida dei fuorilegge, e in una serie tv, Crusader. Trascorrendo del tempo insieme – nell’ufficio di Sam, a casa l’uno dell’altro, in vari bar sparsi per Los Angeles – Peckinpah e Keith scoprirono di avere molto in comune. Entrambi erano stati nei marines durante la seconda guerra mondiale – Keith in un periodo molto più turbolento, per tre anni dal 1942 al 1945, durante il culmine della guerra del Pacifico – ed entrambi erano cresciuti in ranch ed erano affascinati dagli uomini che vi lavoravano. «Quando ero un bambino, verso i nove o i dieci anni, intorno al 1928-29», dice Keith, «vivevamo in questo ranch in Montana vicino Fort Benton. Quasi metà dei braccianti erano indiani Piedi Neri Crow e gli altri erano persone nate lì – cowboy che guadagnavano trenta dollari al mese. Da ragazzino riesci a scoprire molto, perché sei in giro tutto il tempo, sei già lì di mattina quando sellano. Impari cose sull’abbigliamento, l’attrezzatura, il linguaggio e l’ironia, quel punzecchiare all’inglese che hanno. Così guardarli, ascoltare le loro storie sui vecchi tempi trascorsi a condurre il bestiame mi affascinava». Sam raccontava a Keith di com’era stato crescere a Dunlap, di come avrebbe voluto vivere nei tempi del Selvaggio West, il mitico paradiso virile che si era ritirato nel passato, fuori dalla sua portata. In breve tempo la socialità informale tra i due divenne impercettibilmente amicizia, poi collaborazione creativa. Il personaggio di Keith sarebbe stato un semplice vagabondo in sella come quelli che lui e Sam avevano conosciuto da ragazzi – che vaga da un lavoro all’altro, parlando di sistemarsi prima o poi, ma senza mai mettere da parte abbastanza soldi per farlo. Sam chiamò il girovago Dave Blassingame, dai nomi di suo padre e di un allevatore che viveva nella contea di Fresno quando Sam era giovane. Non avrebbe avuto che un compagno di vita – il suo cane, Brown.
Nel corso della serie, Brown avrebbe più volte fallito nel tentativo di essere all’altezza dell’eroica tradizione di Lassie e Rin Tin Tin. Esempio: Blassingame è legato e abbandonato in una capanna da un paio di accaniti tagliagole, che tra poco saranno di ritorno. Fischia per chiamare Brown, che è fuori dalla capanna. Le orecchie del cane si rizzano, balza sulle zampe, corre e salta coraggiosamente sfondando la finestra e spargendo vetri ovunque. Dave porge le mani saldamente legate. «Forza, mordi la corda!» Brown però gli gira attorno, puntando ai ben più appetitosi avanzi sul tavolo della cucina. «Saresti più utile come coperta per la sella!», sogghigna Blassingame con disgusto. Diversamente dal suo padrone, Brown non mostra il minimo barlume di rimorso per i suoi difetti. «Questo è Brown», dirà in seguito Blassingame del suo inutile compagno. «Si sveglia solo per mangiare. Non è che della pelle avvolta intorno a un appetito». L’episodio pilota della serie, «Trouble at Tres Cruces», fu girato nella primavera del 1959 e andò in onda nei Racconti del West il 26 marzo di quell’anno. Poiché sfidava il formato del tipico western televisivo di mezz’ora, nessuno sponsor piombò per agguantarlo e Sam fu costretto ad accettare altri lavori nei mesi che seguirono. Realizzò altri due episodi dei Racconti del West – il migliore in assoluto fu un meraviglioso pezzo scritto insieme a Robert Heverly, «Miss Jenny» – e un paio di episodi per una serie della NBC, Klondike. Mentre lavorava a quest’ultima, Peckinpah fece amicizia con David Levy, capo della programmazione della NBC. Sam mostrò a Levy «Trouble at Tres Cruces» e descrisse la serie che lui e Keith avevano in mente. Levy adorò l’idea e decise di mandarla in onda. Vendette la serie ai responsabili della programmazione della NBC mentre il presidente della rete Robert E. Kintner era all’estero, e fece un accordo per tredici episodi. Levy e Dick Powell diedero a Sam carta bianca sul piano creativo per sviluppare la storia come meglio credeva. C’era un solo piccolo intoppo: gli avvocati della Four Star avevano scoperto di non possedere i diritti per il titolo
Winchester. Fu chiesto a Sam di elaborarne un altro e lo trovò: The Westerner. Sam avrebbe assunto gli sceneggiatori, i registi, gli attori e i membri principali della troupe; avrebbe avuto completo controllo della scrittura, del montaggio, del doppiaggio e della colonna sonora di ogni episodio. Almeno avrebbe avuto l’occasione per mostrare a Hollywood cosa poteva fare senza intromissioni esterne. La gola gli si seccò dalla paura, sentì salire l’ondata familiare di nausea – se lo show fosse caduto con il culo a terra non avrebbe potuto incolpare che se stesso. Poi la paura fu sommersa da un’incredibile carica di eccitazione. Era arrivato il momento, come avrebbe successivamente detto spesso, di «darci dentro». Si ritrasferì in uno studio al secondo piano degli uffici amministrativi della Four Star – un locale lungo, dalle pareti spesse e dalle mattonelle spagnole, che era lì dai tempi della Repubblica – e cominciò a radunare la sua squadra di scrittura. Jack Gariss (un tempo celebrato dai suoi compagni della USC come il nuovo Orson Welles) fu assunto come story editor. I dettagliati commenti e suggerimenti scritti di Gariss aiutarono a plasmare i copioni più deboli della serie in un dramma solido. Bruce Geller, che Sam aveva assunto per scrivere un copione per The Rifleman, divenne un membro quasi fisso dello staff, creando quattro episodi originali di The Westerner e riscrivendone molti altri. Robert Heverly, che aveva scritto «Miss Jenny» insieme a Sam, diventò anche lui un membro fisso. Avrebbe scritto due episodi dello show insieme a Peckinpah e operato riscritture non accreditate su alcuni altri. Jack Curtis, un vecchio studente della Fresno State che aveva scritto un episodio di The Rifleman e uno dei Racconti del West per Sam, partorì un copione per lo show, così come fece Tom Gries, regista-sceneggiatore estremamente talentuoso che si era fatto un nome grazie a Gli uomini della prateria. Anche E. Jack Neuman, che aveva scritto per Playhouse 90 e gli episodi pilota di molte altre serie, tra cui The Lineup, contribuì con un copione originale.
Peckinpah arrivava negli studi la mattina presto e lavorava fino a tardi per riscrivere i copioni; poi, quando lo show entrò in produzione, controllava i set, guardava i giornalieri, supervisionava montaggio e doppiaggio, la colonna sonora, il casting, e conferiva con gli altri registi dello show. «La sua salute era in rovina già allora», ricorda Heverly. «La sua segretaria, Bobby Smith, doveva pregarlo perché dormisse. A volte mi chiedevo cosa lo tenesse in piedi». Cominciava ad avere gli attacchi d’ansia che lo avrebbero tormentato per tutta la vita. «Diventava così dannatamente nervoso che andava in iperventilazione», dice Heverly. Bobby Smith teneva una busta di plastica nel cassetto della sua scrivania perché Sam potesse respirarci dentro e riacquistare il controllo di sé. Ma il lavoro fu meraviglioso. Le bozze dei copioni di The Westerner conservate tra i documenti di Sam sono piene di sue note scritte a mano, il che prova che operò molte modifiche ai dialoghi di quasi tutti gli episodi. Il suo stile idiosincratico permea la serie: «La mia dieta è a base di proiettili»; «Tu, avvoltoio dalle budella sottili, dal fegato visonato, che strisci e pugnali la gente alle spalle!»; «Non sei la legge, sei un uccello che agguanta carogne!»; «È stato il discorsetto più veloce, netto, trottato e strigliato che abbia sentito da quando ho messo piede al mondo!»; «Burgundy Smith, truffatore mangia-uova, rubacani, fegato di gallina! […] Ruba il mio cane e ti faccio mangiare le tue orecchie!»; «Non mi piaci né tu, Ritchie, né quella lettiera per ratti che chiami famiglia!» Temi intensamente personali, che sarebbero riverberati attraverso il corpus dei lavori di Peckinpah, possono essere ritrovati in ogni episodio di The Westerner. La sua disillusione nei confronti del matrimonio e dell’amore romantico sono palesi in «Jeff» e nei momenti comici in cui Blassingame si incontra con l’artista del raggiro e dell’oratoria Burgundy Smith. In questi ultimi, i due competono regolarmente per le attenzioni di una giovane donna, ma il loro ardore si tramuta in disgusto ai primi segni da parte della donna di volere qualcosa
di più di una rotolata nel fieno. «Blassingame, pensa!», lo avverte Burgundy quando Dave cade nell’incantesimo di una bellezza locale e annuncia la sua intenzione di sposarla. «Mai più la gioia dell’alcol che sgocciola giù per la tua secca gola. Lei metterà fine a tutto questo. Mai più la gioia di lanciarti tra le fauci della sorte! Lei ti legherà, ragazzo, con le stringhe del grembiule e dell’aratro. Lei ti farà dire addio a tutte le tue gioie, anche alle altre donne!» Un bisogno di violenza che provoca salivazione eccessiva è il tema di «School Days», in cui una folla quasi lincia Blassingame per un omicidio che non ha commesso. Il tradimento – una moglie che assale il marito, un marito che assale la moglie, un amico contro l’altro, un uomo contro il suo cane – percorre The Westerner come il grasso sulla carne di bassa qualità. Oro, argento, dollari americani, il prezzo che un uomo è disposto ad accettare in cambio della sua anima – questo è forse il vero tema dominante in The Westerner e in tutta l’opera di Peckinpah. Nei suoi viaggi per le terre desolate del Texas e del Messico, Dave Blassingame si confronta continuamente con difficili scelte morali – tra il denaro e la lealtà a un amico, il denaro e la vita umana, il denaro e la lettera della legge, il denaro e la sacralità di una tomba. Peckinpah ha spesso detto ai suoi intervistatori che tutti i suoi drammi non erano che morality play. Ma i suoi film e i suoi show televisivi non erano banali letture su quel che è giusto e sbagliato, sul bene e il male, perché sapeva che queste demarcazioni tra bianco e nero erano illusioni. Al contrario, realizzava indagini esistenziali con un finale aperto, una ricerca di moralità in una terra in cui questa sembra essere evaporata. In ogni episodio Blassingame si confronta con una situazione difficile, ambigua, che richiede coraggiose decisioni senza la presenza di Dio o una serie di leggi sociali o valori che lo guidino. Deve scegliere chi è, per cosa si batte, con cosa può vivere e con cosa no, e attraverso le decisioni che prende definisce se stesso. Peckinpah diresse cinque dei tredici episodi di The Westerner. Gli altri segmenti erano stati affidati a importanti
registi televisivi come Tom Gries, Ted Post e Elliot Silverstein (tutti proseguiranno dirigendo poi film). La crescita di Peckinpah come regista da Broken Arrow a The Rifleman era stata sorprendente; da The Rifleman a The Westerner fece un ulteriore salto quantico. Solo Gries si dimostrò un temibile rivale; il controllo del mezzo di Peckinpah mostrava a questo punto una sicurezza quasi scioccante – tanto più se si considera che gli episodi di The Westerner venivano girati in tre giorni. Gli episodi di Sam non sembrano affatto show televisivi, ma piccoli film altamente ricercati. La parvenza così autentica di The Westerner fu raggiunta mettendo i direttori artistici, i costumisti e le troupe di ripresa, montaggio e postproduzione della Four Star sotto pressione. Peckinpah sfidava, stuzzicava e aveva scatti d’ira per spingere la sua squadra oltre gli standard della televisione media. Richiedeva che i direttori artistici e gli attrezzisti riempissero i set con molti più oggetti di scena e dettagli atmosferici di quanti ne servissero, in modo che lui potesse poi passarli in rassegna e rimuoverli uno a uno finché non aveva «riscritto» il set secondo l’immagine nella sua mente. Era fondamentalmente lo stesso approccio che aveva nei confronti della scrittura e del montaggio: raduna quanto più materiale grezzo possibile, fornisci a te stesso quanta più scelta possibile, poi gradualmente scalpella via il materiale finché non ottieni la tua scultura finita. Insisteva che i costumi degli attori fossero convincentemente invecchiati e sporchi. Blassingame non poteva entrare in città dopo aver attraversato cento chilometri di deserto indossando un completo perfettamente stirato. I saloon che frequentava non potevano essere le generiche repliche hollywoodiane di tutti gli altri western televisivi; dovevano essere realistici, così realistici che la gente a casa doveva poter sentire l’odore della birra stantia sul pavimento, l’aspro olezzo del tabacco masticato nelle sputacchiere. La ruvida sensazione di realtà dei set filtrava anche nelle interpretazioni degli attori. La più notevole fu la rappresentazione di Blassingame da parte di Brian Keith in
tutti i tredici episodi. In pappette tv come Tre nipoti e un maggiordomo e Hardcastle e McCormick, Keith avanza barcollante tra le sue scene come se fosse appena stato svegliato da un lungo sonnellino. Ma la sua performance in The Westerner è una vera rivelazione. Dà prova di un’impressionante varietà e delicatezza: strazio e disillusione in «Jeff», un uomo combattuto tra i suoi migliori e peggiori impulsi in «Mrs. Kennedy», ingenuità infantile quando si innamora di Libby Lorraine in «The Courtship of Libby». Nelle sue sottili sfumature, nella sua intrigante combinazione di forza brutale, fragilità emotiva e una tormentosa, intima malinconia, l’interpretazione di Keith rivela un talento potente quanto quello di Brando, un talento purtroppo sprecato, dopo la conclusione della serie, in una parata di progetti mediocri. I mesi di cameratismo tra Peckinpah e Keith avevano creato una sottile magia, ma a risvegliare Keith dal suo abituale stato di sonnambulismo era stato qualcosa di più del semplice cameratismo. «Molte volte Sam otteneva un’interpretazione da Keith intimidendolo», dice Norman Powell, un direttore di produzione di diverse serie. «Li vedevo spesso urlare l’uno contro l’altro. Si lasciavano andare, ed era un succedersi di urla, da una parte e dall’altra. Anche Brian era un tipo tosto. Brian cercava sempre di prevaricare Sam. Sam si tratteneva quanto poteva, ma poi gli rispondeva a tono». Nonostante tutta la stratificata minuziosità, gli episodi di The Westerner di Peckinpah non ricreano il Vecchio West «com’era davvero», ma piuttosto come lui lo aveva reimmaginato. Queste serie tv e i suoi seguenti film sono narrazioni mitiche o allegoriche, spesso dallo stile surreale. La minuziosità densa e polverosa rende questo mondo circoscritto in se stesso vivacemente credibile, ma è il mondo di Peckinpah, non quello reale. «Jeff» – diretto da Peckinpah su un copione scritto da lui e Robert Heverly – si svolge come in un sogno, le cui immagini sono nascoste dalle ombre che le coprono. Dave Blassingame giunge a cavallo in una città di confine per salvare una giovane donna, Jeff, che aveva conosciuto anni
prima, quando non era che «una mocciosa biondina» che aveva una cotta per lui. Ma gli anni lasciano il segno sulle persone. Jeff è diventata una prostituta in una topaia di saloon, bloccata in una relazione sadomasochistica con il suo dispotico pappone, che funge alternativamente da protettore e da tormentatore. Blassingame vince una brutale lotta contro il pappone e ottiene il permesso di portare Jeff via con lui. «Sei un pazzo», ansima il pappone. «E lo sono anch’io. Prendila e vattene». Ma quando Blassingame torna nella squallida camera di Jeff e le dice di raccogliere le sue cose, lei risponde che non può andare via, che il suo posto è lì. Quel perverso rapporto asseconda dei bisogni che Dave non può comprendere. «Vuoi qualcosa che qui non c’è», gli dice Jeff con occhi che si sciolgono come cera. «Vuoi qualcosa che forse non c’è mai stato». Quando Blassingame si volta per andarsene, Jeff lo segue e gli stringe un braccio. Lui si gira per guardarla e lei si sporge per depositare un tenero, casto bacio sulla guancia barbuta. Lui fa scorrere dolcemente la mano callosa lungo il pallido viso di lei, ma Jeff si allontana subito. «Sì, hai ragione», mormora Dave, «perché dovrei preoccuparmi per te?» La sua grande mano slega delicatamente il sottile fiocco che le tiene legati i biondi capelli. Lo piega con cura nel suo palmo – l’azione che contraddice le parole, che rivela la lenta, acida ustione di un amore perso per sempre. Jim Silke, che sarebbe in seguito diventato il più frequente e fidato collaboratore di Peckinpah per le sceneggiature, osserva: «Il concetto della donna in “Jeff” è quello di Sam. Aveva incontrato decine di ragazze così nei bordelli della Cina, del Messico e del Nevada. Questo episodio era probabilmente basato sulle prime, non ho dubbi al riguardo. Il tema è che l’amore è fantastico, ma a volte non basta. La concezione del mondo che Sam dipingeva nei suoi film era: non è come pensi che sarà, non è come pensavi che fosse».
L’illusione romantica di un uomo disperatamente distrutta, come un incubo da cui ci si risveglia sudati, «Jeff» dà voce attraverso le sue immagini all’intima angoscia di Sam nei confronti della disintegrazione del suo matrimonio. Marie stessa appare nell’episodio nel ruolo di una fanatica cristiana che emerge dalle lacerate ombre della città quando Blassingame arriva per adempiere la sua missione. Indossa luridi stracci, il viso smunto e gli occhi infervorati mentre incoraggia il cowboy ad avvicinarsi a Dio – e la sua identità qui si mischia con quella della madre di Sam, Fern. Alla fine dell’episodio, quando Blassingame cavalca fuori dalla città, ricurvo e distrutto, Marie emerge ancora dalle ombre e gli si avvicina. «Hai trovato la salvezza, fratello?», vuole sapere. Il viso di Blassingame è emaciato; le ombre penetrano nelle sue orbite scavate. Scuote la testa e scruta il vuoto della landa selvaggia che lo attende. «E tu?» «Sì», annuisce Marie con occhi grandi, febbrili. «L’ho trovata». Dal bordello alle loro spalle echeggia ironicamente la risata di una puttana. Dave guarda in quella direzione, poi sperona il suo cavallo verso la notte e, su un muro di argilla vicino a cui passa, un fanatico ha scritto: Stanotte un’anima si è persa. Vaga per tutta la Terra, ma non trova che vuoto.
Magistralmente realizzato, scioccante, doloroso come una ferita aperta, «Jeff» è un capolavoro minore, sicuramente l’episodio più bello della serie. Come produttore del programma, per la prima volta Peckinpah sovrintese a ogni aspetto della serie, dalla preproduzione alle date della messa in onda. Supervisionò il budget, il programma delle riprese, il casting, la selezione della troupe, il montaggio, il doppiaggio, la colonna sonora e i tempi di stampa per la giusta esposizione e contrasto. Fu con The Westerner che cominciò a radunare gli attori e i membri della troupe che avrebbero lavorato con lui per tutta la sua
carriera: gli attori Dub Taylor, Warren Oates, Slim Pickens e R.G. Armstrong, lo stuntman Whitey Hughes, l’assistente montatore Mike Klein e il direttore della fotografia Lucien Ballard. Lucien Ballard fu direttore della fotografia di tre episodi di The Westerner. Le sue immagini scure e oniriche in «Jeff» e le composizioni più definite di «Line Camp» li resero due degli episodi visivamente più d’impatto della serie. Il 16 aprile 1960, Sam scrisse a Ballard: «In primo luogo, da produttore, vorrei dirti quanto ho apprezzato il contributo che hai dato a The Westerner. In secondo luogo, da regista, voglio che tu sappia che “The Courtship of Libby” e “Jeff” sono state di gran lunga le due cose migliori che abbia mai fatto e ritengo te direttamente responsabile per questo. Vorrei che ci incontrassimo il prima possibile per parlare di progetti futuri». Ballard, che aveva cominciato come codirettore della fotografia con Joseph von Sternberg negli anni Trenta, e che aveva girato negli anni Cinquanta uno dei western di Budd Boetticher, avrebbe in seguito girato cinque film con Peckinpah. The Westerner fu per Sam una camminata sui carboni ardenti. Salì sulle fiamme come uno sceneggiatore di qualche episodio televisivo e ne uscì cineasta. La serie può essere tranquillamente qualificata come la migliore serie western da mezz’ora nella storia della televisione. Nessun contendente vi si avvicina. Peckinpah, che aveva esordito nel primo western per adulti, Gunsmoke, aveva ora portato il genere dalla dimensione pretenziosa del melodramma al nobile regno dell’arte – e lo aveva fatto in soli quattro anni. Ma la serie non ricevette grida adoranti, quando andò in onda per la prima volta il 30 settembre 1960: tutto il contrario. Il pubblico televisivo, molto semplicemente, non aveva mai visto nulla del genere prima: un programma che esplorava settimana dopo settimana temi come la prostituzione, lo stupro, l’adulterio, orribili omicidi; con un «eroe» che vacillava nei momenti di crisi, che prendeva decisioni sbagliate, che faceva baldoria e si ubriacava, che imprecava,
non conosceva ambizione e sosteneva pochi principi morali… un eroe che non sembrava affatto un eroe. Il censore della NBC, Lorne Williamson, cercava continuamente di risospingere lo show entro i confini di un western convenzionale. Note di Williamson avvisavano Peckinpah che un «eccesso» di ubriachezza, sesso, linguaggio volgare e brutalità in The Westerner non sarebbe stato tollerato. Fortunatamente Dave Levy e Dick Powell si batterono per Peckinpah e lo show riuscì a conservare i suoi contorni molto forti – le pistole tuonavano con vere cariche, i proiettili scheggiavano pali e muri con forza viscerale; quando venivano colpiti, gli uomini sbandavano all’indietro per l’impatto e le loro ferite sanguinavano in modo estremamente realistico. L’episodio d’esordio, «Jeff», conteneva addirittura l’imprecazione «dannazione» e fu una delle prime volte che fu pronunciata in una rete televisiva. Sfortunatamente al presidente della NBC Robert Kintner The Westerner non piaceva affatto, ed era risentito che Dave Levy l’avesse messa in produzione senza la sua approvazione. Di conseguenza, godette di poca pubblicità e fu relegata a una fascia oraria infelice: le 20.30 del venerdì sera, al tempo considerato l’orario «dei bambini». La concorrenza era un nuovo cartone animato targato Hanna-Barbera, I Flintstones, e uno dei programmi da un’ora che cominciavano ad apparire in tv, Route 66. Quando andò in onda per la prima volta con l’episodio «Jeff», la serie suscitò reazioni molto contrastanti, come sarebbe poi accaduto con tutta la produzione di Peckinpah da quel momento in poi. Il critico del Weekly Variety si chiedeva se Sam Peckinpah fosse diventato «pazzamente felice per aver avuto successo in un settore affollato». Il giornalista riconosceva allo show la presenza di molti talenti sia dietro che davanti la cinepresa, una sceneggiatura di qualità e una regia raffinata e creativa. Ma scrisse anche: «È un peccato che talenti tali siano stati sprecati per dare espressione a una storia
tanto sordida». Nella stessa edizione furono lodati i nuovi episodi di Il carissimo Beaver e Ozzie and Harriet per la loro comicità «salubre» e «pulita», e fu detto del primo episodio della stagione di The Rifleman che «centrava l’obiettivo». Ma James Powers dell’Hollywood Reporter scrisse: The Westerner è fatto da persone consapevoli che il tempo non ha nulla da spartire con le accelerazioni del teatro; mezz’ora, nelle giuste mani, vale esattamente quanto tre ore. È fatto da persone più interessate a raccontare una storia che a scimmiottare una formula nell’ingenua speranza che un innocente plagio li renda ricchi. Mostra ancora una volta che la scusa, frequente quando parliamo di prodotti tv, del «poco tempo» a disposizione, è solo un altro modo per dire «poco talento». The Westerner è un grande show, una serie innovativa che avrà come rivali, nelle settimane a seguire, quegli stessi standard che ha istituito… Si tratta, e ne sarete forse sorpresi, di un commovente dramma poetico (non melodramma, dramma), scritto con esperta economia e diretto e interpretato allo stesso modo.
A causa dell’avversione di Robert Kintner nei riguardi della serie, la NBC aveva ordinato di realizzarne solo tredici episodi. (In precedenza, le reti compravano generalmente un minimo di ventisei episodi, il che dava a un nuovo show la possibilità di cominciare in modo lento e crearsi un pubblico.) The Westerner non era in grado di reggere ai giochi unidimensionali dei Flintstones o di Route 66. I suoi indici di ascolto non si alzarono mai oltre il 12,4% dell’audience americana. I Flintstones arrivò al 22,5, Route 66 al 22. Gunsmoke, ancora lo show televisivo di maggior successo, ottenne un incredibile 40,3%. Non fu una sorpresa quando The Westerner fu cancellato a circa metà serie. «Robert Kintner non vedeva l’ora di cancellarlo», dice Levy. «Sapevo che era inutile discutere. Non aveva buoni ascolti. Gli ascolti stavano già diventando fondamentali. Io ero contro i sondaggi. Preferivo il prendersi cura di uno show, soprattutto se ero convinto di avere il giusto team creativo. Non ho mai voluto conquistarli con numeri e grafici di profitto. Volevo restare con loro perché credevo nella parte creativa. Mi dicevo: “Se non lo abbandoneremo, finiremo per trovare un pubblico”».
Ma l’approccio di Levy stava ormai diventando obsoleto. I giorni del vediamo-come-va stavano giungendo al tramonto. La televisione era un’«industria» multimilionaria, dominata da società, dove gli ascolti, le statistiche demografiche e il bilancio, non sceneggiatori e registi, dettavano le decisioni creative. Il giorno in cui la NBC annunciò la cancellazione di The Westerner fece anche il nome della sitcom che avrebbe preso il suo posto, Yes, Yes, Nanette, con Nanette Fabray. Peckinpah sostenne in seguito che più di mille lettere di protesta inondarono la rete in seguito all’annuncio della cancellazione dello show. Due fascicoli straripanti sono ancora oggi tra i documenti di Sam – centinaia di lettere da spettatori di tutto il paese incolleriti e indignati. Gli studenti della USC, che stavano tenendo animati gruppi di discussione sullo show, scrissero una lettera comune di protesta, e anche alcuni dei maggiori sceneggiatori della televisione – James Lee Barrett, Bruce Geller, Tom Gries, Christopher Knopf, Ellis Marcus e Gene Roddenberry – ritirarono le loro pubblicità da Variety e dall’Hollywood Reporter per piangere la scomparsa dello show. Cecil Smith, un critico di spettacolo per il Los Angeles Times, avrebbe scatenato una crociata personale per far sì che The Westerner non fosse dimenticato. Nei seguenti vent’anni lo avrebbe menzionato in continuazione nella sua rubrica come una delle più grandi serie settimanali mai apparse in tv. Ma The Westerner in effetti ebbe una seconda occasione. «Si sollevò un tale polverone quando fummo cancellati che la CBS corse da noi con un’offerta per far tornare The Westerner», ricordò tempo dopo Brian Keith. «Scoprimmo che volevano allungarlo fino a una durata di un’ora e metterlo alle 19.00. Questo significava che dovevamo ridurre il realismo e renderlo uno show per bambini – in altre parole, eliminare tutto quello che lo aveva reso un prodotto di qualità». Peckinpah e Keith si scusarono e si allontanarono un momento dalla sala dell’incontro per consultarsi. «Che ne
pensi, Brian?», chiese Sam. «Dì loro che possono ficcarselo nel culo». Sam sogghignò. «Sono d’accordo». L’attore L.Q. Jones, amico sia di Peckinpah che di Keith, osserva: «Se lo show fosse proseguito per cinque anni, entrambi avrebbero fatto un paio di milioni. Se qualcuno ti dice: “Eccoti due milioni di dollari, devi solo smorzare un po’ il tuo approccio”, e tu rispondi: “Puoi ficcarteli nel culo”, devi essere convinto di ciò che stai dicendo. Tanto di cappello a Sam e Brian, perché entrambi lo dissero». «Fu un fallimento di successo», disse lo stesso Sam. «Che io vinca, perda o pareggi, sono fiero del mio lavoro». Sam sicuramente si rese conto che, anche se la serie era stata cancellata, andava bene così. La pressione di dover produrre trentanove episodi all’anno avrebbe inevitabilmente corroso la qualità dello show. Questa dissipazione comincia già a intravedersi nell’ultimo episodio della serie, «The Painting», scritto da Bruce Geller e diretto da Peckinpah. Le prime due farse tra Burgundy Smith e Dave Blassingame – «Brown» e «The Courtship of Libby» – erano state fresche e audaci. Al terzo tentativo i succhi creativi avevano cominciato a coagularsi. C’erano ancora momenti meravigliosi, ma la trama era forzata e piena di scene riciclate da «The Courtship of Libby». In verità, Peckinpah non era fatto per essere il nuovo Dick Powell; quel compito lo avrebbe lasciato ad Aaron Spelling. Già tempo addietro aveva puntato a essere molto di più di un magnate della tv. Era tempo di muoversi verso teli più grandi, dove si raccontavano le vere grandi storie. The Westerner lo avrebbe reso possibile perché, pur essendo stato un fallimento commerciale, aveva attirato l’attenzione di molti nel settore. Ecco un talento fresco e originale, che – se ben controllato e plasmato – avrebbe potuto dare una marcia in più agli stanchi veicoli di Hollywood. Controllare Peckinpah si sarebbe rivelato molto più problematico di quanto i produttori potessero immaginare e alla fine sarebbe risultato difficile
stabilire chi stesse plasmando chi. Ma The Westerner fece sì che i produttori tornassero da lui anche molto dopo che Peckinpah si fu creato la reputazione di enfant terrible più esasperante di Hollywood dai tempi di Erich von Stroheim. Il western televisivo da mezz’ora stava già andando in estinzione come il bisonte americano quando The Westerner fu cancellato nell’inverno del 1960. L’afflusso di nuovi show da un’ora come Route 66 e la sensazione di assuefazione generata nel pubblico da troppi inseguimenti a cavallo e sparatorie stava causando un rapido calo della popolarità del genere. L’onda si ritirò velocemente così come era arrivata. Nel 1960 c’erano quarantasei western in onda; nel 1964 ne erano rimasti solo undici. Peckinpah uscì dal giro appena in tempo. Le entrate di Sam del 1960 erano ben lontane dai milioni che avrebbe guadagnato se The Westerner fosse stato un successo. Per i suoi servigi in quanto sceneggiatore, produttore e regista di The Westerner, Klondike e I racconti del West, aveva guadagnato tra l’autunno del 1959 e la fine del 1960 40.000 dollari. Era comunque una considerevole somma al tempo; Brian Keith era stato pagato 28.000 dollari per l’episodio pilota e gli altri tredici della serie. Inoltre, Peckinpah possedeva il 15% dei profitti netti di The Westerner e il 7% di quelli di The Rifleman. Il suo responsabile commerciale, Bob Schiller, aveva fondato la Latigo Productions (dal nome del canyon a Malibu dove Fern Lea e Walter Peter avevano recentemente comprato una casa), che rappresentava Sam nel rapporto con la Four Star. In questo modo poté alimentare alcuni fondi pensione e salute in cui mettere da parte centinaia di migliaia di dollari a imposizione posticipata nel corso dei successivi diciotto anni. L’aumento del flusso di denaro avrebbe dovuto portare finalmente stabilità nella sua vita, ma quando la produzione degli episodi di The Westerner cominciò, la tensione tra Sam e Marie aveva già raggiunto livelli intollerabili. La crisi ebbe luogo quando Jack Curtis arrivò da Big Sur a casa di Sam per lavorare con lui a un copione della serie.
Curtis aveva frequentato la Fresno State con Sam e Marie e voleva scrivere veri e propri romanzi; Sam lo aveva adescato per la sua scuderia in The Rifleman. Capelli rossi, alto quasi un metro e ottanta, Curtis disprezzava la tv, ma la vedeva come un mezzo per finanziare le proprie velleità narrative. Fece della guest house il suo quartier generale e divenne un ospite fisso a cena ogni sera. Curtis era attirato dai modi gentili di Marie, dai grandi occhi empatici, dall’acuta intelligenza. Non era certo una comune casalinga, bensì una donna colta con un’incredibile conoscenza del teatro e della letteratura. Marie, da parte sua, trovava nella compagnia di Curtis un piacevole sollievo. Sam ormai beveva pesantemente ogni sera – quando era a casa – e, almeno davanti a lei, sembrava sempre arrabbiato. «Una sera eravamo tutti in cucina, io, Jack e Sam», racconta Marie. «Sam era ubriaco, parlava con Jack di idee per il copione. Sam cominciò a essere aggressivo nel criticare le storie di Jack – le ridicolizzava, lo stava davvero, davvero attaccando. Intervenni dicendo: “Sam, smettila! Cosa stai facendo?”, e lui esplose. Urlò: “Be’, se ti piace tanto, puoi tenertelo!”, e uscì di casa. Gli andai dietro e lo seguii fino al vialetto dicendo: “Sam, dai, non andartene. Rientra in casa”. Ma non voleva. Salì in macchina e se ne andò. Così io e Jack restammo e finimmo di cucinare la cena. Jack continuava a dire: “Non preoccuparti, tornerà”». «Molto tempo dopo Sam mi disse», racconta Joe Bernhard, «che era andato al Malibu Inn a bere qualcosa, ci aveva riflettuto e aveva capito che forse aveva sbagliato. Perciò rimontò in macchina e tornò alla Colonia». Nella cucina del numero 97, Marie si stava confidando a cuore aperto con Jack, raccontandogli tutte le frustrazioni, il dolore, la rabbia degli ultimi mesi mentre continuava a lavorare ai fornelli. All’improvviso, le mani di Jack le afferrarono le spalle e fecero una leggera pressione. Lei gli consentì di farsi voltare verso di lui. Come in uno strano sogno, la bocca di Jack discese sulla sua. Poi, come in uno
strano, terribile incubo, sentì il rumore della porta della cucina che si spalancava. Una figura indistinta corse verso di loro. Sam colpì Marie e diede un pugno a Jack; il sangue usciva a fiotti dal naso dello scrittore. «È finita! Me ne vado!», urlò Jack mentre Marie era ancora a terra, sulla schiena, che cercava di respirare. «È stata una cosa così strana», dice Marie, ripensandoci. «Sam che arriva dalla porta sul retro in quel modo… quasi come una scena preparata». Più tardi quella notte, Marie cacciò Sam di casa. Era ancora arrabbiato quando se ne andò, ma anche scioccato da ciò che aveva fatto. Tornò il giorno seguente, dichiarandosi colpevole, ma lei si rifiutò di perdonarlo, così lui raccolse alcune sue cose e si trasferì da Joe Bernhard, che aveva un seminterrato a Laurel Canyon, nelle colline di Hollywood. Sam restò lì, senza toccare alcol, per tre settimane. Chiamò più volte Marie per dirle che era sobrio e per prometterle che se lo avesse lasciato tornare le cose sarebbero cambiate. Alla fine, lei gli permise di tornare a casa, ma quando pochi giorni dopo arrivò il weekend del 4 luglio partì con le ragazze per andare a trovare i suoi genitori a Fresno e fare il punto sul suo matrimonio in frantumi. Sam, solo e sobrio alla Colonia, riempiva le sue ore scrivendo lunghe, introspettive lettere a Marie in cui la implorava di perdonarlo e insisteva su quanto gli mancassero lei e le sue figlie. «Potremo parlare, io e te, quando non vedrò più la paura e l’incertezza nei tuoi occhi, nel tuo amore? Voglio abbattere quella paura. Voglio ricostruire quella certezza. Voglio che siamo l’uno parte dell’altra e che condividiamo una comprensione, una pazienza, un rispetto maggiori e migliori di quelli che abbiamo mai avuto… Dobbiamo smetterla di essere estranei. Ne è passato di tempo. Devi parlare con me, perché ho finalmente imparato ad ascoltare». Marie cedette. Tornò al numero 97 con le ragazze e ricominciarono a essere una famiglia. Era troppo difficile voltare le spalle a tutto ciò che avevano vissuto insieme,
troppo spaventoso considerare quanto un divorzio avrebbe influenzato le bambine, impossibile dimenticare tutto quello che avevano condiviso alla Fresno State, alla USC, nella piccola casa di Whittier, nel capanno Quonset. I barbecue del weekend ripresero e non ci volle molto prima che Sam ricominciasse a bere. Andava bene farsi un paio di bicchieri ogni tanto, si diceva, purché non perdesse il controllo come in passato. Aveva imparato la lezione. Doveva regolarsi, riconoscere quando fermarsi per non diventare così sbronzo da non riuscire a pensare in maniera lucida. Ma questo non significava che non potesse bere qualche bicchiere nel weekend, o uno o due quando rientrava a casa la sera. Con tutto quel lavoro e quella pressione, doveva distendersi di tanto in tanto. E così gli effetti sonori, il jazz, la musica mariachi e l’acuto lamento del frullatore ricominciarono. La vita riprese il suo solito ritmo e le cose tornarono a essere come prima di quella terribile notte. Ma non completamente. Qualcosa era cambiato; sia lui che Marie lo sentivano, sebbene nessuno dei due riuscisse a parlarne. Mai si sedettero per affrontare quelle introspettive discussioni di cui Sam parlava nelle sue lettere. Entrambi erano troppo spaventati da cosa sarebbe potuto venirne fuori. Avevano attraversato una porta a senso unico quella notte con Jack Curtis, e non si poteva più tornare indietro. Ai barbecue, Marie continuava a essere radiosa, era sempre la calorosa e cordiale Madre Terra per tutti i suoi ospiti. Ma nel profondo, dentro di sé, si era raffreddata. Dentro di lei c’era un blocco di ghiaccio che Sam non avrebbe mai sciolto, nemmeno con tutti i bouquet e le scuse del mondo. Perciò davano feste che duravano tutto il weekend. Gli adolescenti del posto attraversavano abitualmente la striscia di sabbia dietro la casa dei Peckinpah perché sapevano di poter trovare sempre un fusto di birra ghiacciato in mezzo a quella massa di adulti troppo ubriachi per accorgersi se si intrufolavano a prendersi qualche bicchiere. Né a Sam né a Marie
dispiacevano le folle costanti ora – li facevano sentire al sicuro. In passato, nei tempi di crisi Sam si era sempre rivolto a suo padre per avere consigli e supporto emotivo. Rispettando la regola, David Peckinpah prese un treno da Fresno per incontrare Sam e Marie separatamente e vedere se poteva fare da mediatore. Deve essere stato un ruolo difficile da interpretare, soprattutto visto che il suo stesso matrimonio era diventato piuttosto instabile in quel periodo. Nel settembre del 1959, il governatore Edmund Brown decise di premiare David Peckinpah per l’aiuto dato in un importante caso riguardante l’irrigazione della valle di San Joaquin. Peckinpah aveva sostenuto il caso presso la Corte Suprema e vinto per lo Stato della California, e per questo ora Brown voleva nominarlo giudice dell’Alta Corte di Madera County. Per anni, l’occasione mancata di correre per il Congresso aveva rappresentato un pesante macigno sul suo cuore. Ora, a sessantadue anni, si presentava un’altra opportunità, probabilmente l’ultima, di essere più che un semplice avvocato. Forse poteva ancora risalire verso l’alto fino alla Corte d’Appello. Era una nuova sfida e per giunta eccitante. Sapeva quale sarebbe stata la reazione di Fern, ma questa volta non si sarebbe lasciato ostacolare. Fern Lea si trovava in visita ai suoi genitori il giorno in cui David tornò a casa e diede la notizia dell’offerta del governatore. «Disse che gli era stato chiesto di diventare giudice, poi aggiunse: “Ma non me lo sognerei mai”», riporta Fern Lea. «In quel momento stava mentendo a mia madre. Stava preparando il terreno, voleva farla abituare piano all’idea, ma in un modo terribile. Aveva sempre paura di affrontarla direttamente su certe questioni». Fern Peckinpah scrisse nel suo diario il 30 settembre 1959: «Mi sono sentita come se il mondo fosse crollato sotto i miei piedi, quando ho cominciato a capire cosa stava accadendo. Settimane fa io e Dave abbiamo parlato della sua carica di giudice a Madera – sì, me ne ha davvero parlato. Ha menzionato gli svantaggi, l’amore per la nostra casa [la carica
richiedeva che si stabilisse in una residenza nei pressi di Madera County] e ha lasciato che mi convincessi che, dopo lunghe considerazioni, non era interessato. E poi, boom, il mondo è crollato! Per la prima volta dopo anni non ha portato a casa il giornale. Ma per caso ho sentito dell’articolo che è uscito». L’articolo rivelava che David aveva accettato la carica di giudice. Lo descriveva «giubilante» e citava la sua considerazione del nuovo lavoro come «un grande onore». Per Fern era come rivivere il giorno in cui suo padre aveva affossato il suo fidanzamento con Bob Nichols. David aveva promesso una cosa mentre nel frattempo pianificava di fare l’esatto opposto, come se i bisogni di lei non avessero alcuna importanza. Ecco tornare di nuovo quel senso di inutilità nella sua vita interamente dipendente dagli uomini. Fern minacciò David di chiedere il divorzio, ma non lo fece. Finì invece per girare avvilita per casa, crucciata e amareggiata. «Rifiutò di presenziare al suo giuramento», dice Fern Lea. «Fu odiosa con lui». Eppure non riusciva ad abbandonare la speranza che David alla fine sarebbe «rinsavito», si sarebbe dimesso e sarebbe tornato a casa da lei perché le cose potessero «tornare come prima». David prese un piccolo appartamento a Madera County per soddisfare il requisito della residenza e faceva il pendolare tra lì e Fresno. Fern si ritrovava da sola al ranch con Susan per giorni. Quando David rientrava a casa litigavano ferocemente. Fern scrisse nel suo diario: «Dopo l’amara discussione sono andata al molo ed ero isterica come non lo sono mai stata in vita mia. Per tanto, tanto tempo non sono riuscita a smettere di piangere e urlare. Sono stata esausta tutto il giorno. [La grafia diventa confusa.] C’è qualcosa che non va nella mia vista, vedo le parole doppie… Non posso continuare così. Non riesco nemmeno a camminare». E in un’altra pagina scrisse: «Dave ha dato di matto e mi ha detto esattamente cosa pensa di me. Gli occhi erano neri… oh, nerissimi, e ha detto qualcosa del tipo che io ero la persona
più cattiva che avesse mai conosciuto, lurida, egoista, morbosa, eccetera. Che avevo tutto ciò che poteva rendermi felice ma non ho saputo esserlo e non voglio che nessun altro lo sia. Che lo avevo già forse (quasi) portato ad avere un attacco di cuore e che volevo farlo fuori e che ci stavo riuscendo. Ha detto che io odiavo tutti e quando gli ho chiesto cosa volesse dire ha precisato di essere certo che io lo odiassi. Era furioso e alla fine ha detto che non voleva più parlare e se ne è andato. Sono volate molte imprecazioni… Non possiamo continuare così… Non riesco a capire come possa esserci successo tutto questo. Oh, cielo! Oh cielo, oh cielo!» Ma invece continuarono così. I due a malapena si parlavano, difficilmente riuscivano a stare nella stessa stanza, ma nessuno dei due trovò mai il coraggio di mettere veramente fine alla cosa. Lo stesso sembrava valere per Sam e Marie. A questo punto Sam stava «frequentando» alcune attricette, in particolare Mary Murphy, che era apparsa al fianco di Brando in Il selvaggio e aveva interpretato una ballerina di saloon nell’episodio «Going Home» di The Westerner. A casa beveva più che mai e Marie era il bersaglio preferito dei suoi frequenti abusi verbali. Qualsiasi cosa lei dicesse o facesse sembrava sempre sbagliata. Un amico che conosceva bene la famiglia dice: «Mi chiedo se Sam non stesse cercando di mandar via Marie di proposito, di spingerla a dimostrargli che non lo amava». Alla fine, l’evento terribile che tutti avevano previsto senza che nessuno osasse ammetterlo ebbe luogo. «Ebbi una cotta per una persona», dice Marie semplicemente. Era un vicino; intrapresero una relazione. A ripensarci più di tre decenni dopo, si rende conto che l’aveva usata come un modo per liberarsi del matrimonio, perché sapeva che quello sarebbe stato il peccato massimo, il più imperdonabile agli occhi di Sam. Era una via d’uscita passiva. Non poteva sedersi con Sam faccia a faccia e ammettere che era finita.
Robert Heverly ricorda che Peckinpah lo chiamò in ufficio un giorno e disse, inaspettatamente: «Bob, mia moglie si scopa un altro». «Eh?», fu tutto quello che Heverly riuscì a replicare. «Sì», disse Sam prosaico. «Sto cercando di averne le prove». Disse anche a Brian Keith della sua intenzione di «ottenere le prove» del tradimento di Marie. Keith non riusciva a capire per quale ragione al mondo Sam dovesse volerlo. Che importava? Se il matrimonio era finito, era finito. Perché fare una cosa tanto orribile a se stesso, e a cosa poteva servire? Ma un bisogno oscuro e ancestrale lo obbligava a farlo. I dettagli del confronto finale farebbero soffrire troppe persone ancora in vita. Sebbene non sia stato violento, è sufficiente dire che fu una brutta scena. «Fu», dice Marie, «una terribile, terribile conclusione». Le ci vollero vent’anni per allontanare il ricordo di quel confronto finale, ma alla fine ci riuscì. Sam, invece, non ci riuscì mai. Era una ferita che non poteva rimarginarsi, e che lui non avrebbe mai lasciato guarire. L’avrebbe scorticata con una fascinazione quasi morbosa fino al giorno della sua morte. Con tutti i suoi tradimenti, non aveva certo alcun diritto di sentirsi la vittima. Era l’ipocrisia del maschilista, un’ipocrisia che lui e generazioni di uomini americani prima e dopo di lui hanno condiviso. Da questo momento in poi, il tradimento sarebbe diventato un tema dominante nell’opera di Peckinpah. Spesso è nascosto dietro uno stile mascolino: Gil Westrum ha intenzione di tradire il suo vecchio partner, Steve Judd, in Sfida nell’Alta Sierra; il capitano Ben Tyreen medita vendetta contro il suo compagno d’armi, Amos Dundee, in Sierra Charriba; il fuorilegge Pike Bishop è in fuga da un vecchio membro della sua gang, Deke Thornton, ora diventato cacciatore di teste nel Mucchio selvaggio; Pat Garrett uccide il suo miglior amico e surrogato di figlio in Pat Garrett e Billy
Kid; l’agente segreto Mike Locken viene assalito a colpi d’arma da fuoco dal suo partner, George Hansen, che è passato «dall’altra parte» in Killer Elite. Diversi critici perspicaci hanno notato che, oltre la maschia spavalderia, queste storie di legami maschili che si spezzano sono raccontate con l’enfatico sentimentalismo delle tragedie romantiche. E poi ci sono le altre scene, le scene in cui una moglie o una fidanzata tradisce il suo uomo, quasi sempre sessualmente. Percorrono i film di Peckinpah come un incubo ricorrente, un ricordo traumatico che non si può cancellare, indipendentemente da quante casse di whisky Sam consumasse. L’episodio di Route 66 intitolato «Mon Petit Chow» diretto da Peckinpah (in cui appare Lee Marvin), «That Lady Is My Wife», Il mucchio selvaggio, Cane di paglia, Getaway!, Voglio la testa di Garcia e La croce di ferro – in tutti Sam avrebbe ricreato questo trauma con leggere variazioni. Queste scene gli avrebbero procurato un’eterna condanna da parte del movimento di liberazione delle donne. I suoi critici lo definirono un arrogante, borioso maschilista; alcuni addirittura dissero che era un fascista. Ciò che molti non riuscirono a riconoscere fu che queste scene erano scaturite da un profondo dolore personale. Peckinpah sapeva che erano politicamente scorrette e che metterle su pellicola sarebbe stato come piazzarsi un bersaglio sulla schiena, ma non riuscì a premere il freno. Doveva farlo; non aveva scelta. È questa spietata onestà a dare alle scene la loro inquietante e affascinante potenza, a renderle arte. Se da una parte sapeva essere sorprendentemente onesto sul grande schermo, gli riusciva impossibile esserlo nella vita reale. Nelle interviste non avrebbe mai rivelato una connessione personale con le sequenze, razionalizzandole invece con un’improbabile filosofia che non fece che fornire nuove munizioni ai suoi nemici. Per un’onesta spiegazione della sua ossessione bisogna ricorrere ai suoi film, in particolare a un breve scambio di battute in La ballata di Cable Hogue:
David Warner è seduto accanto a Jason Robards nel deserto, scrutando chilometri e chilometri di rocce, sabbia e sole. Nessun roveto ardente o cometa di Betlemme in vista, solo loro due in un assordante silenzio. «È buffo», dice Warner. «Non importa quanto tu abbia vagato, con quante donne sia stato… ogni tanto una di loro ti apre, affonda la lama dentro di te». Robards piega la testa verso il compagno. «Cosa ci puoi fare?» «Suppongo che, forse, quando muori lo dimentichi…» Melissa aveva quattro anni quando suo padre se ne andò di casa per sempre. Non sapeva fosse una scelta definitiva, ma vide quanto teso e brusco fosse suo padre mentre salutava e percepì che in qualche modo questa volta sarebbe stata diversa da tutte le altre in cui andava via per lavoro. Tutte e tre le bambine avevano sentito il rumore ovattato delle discussioni che la sera provenivano dalla camera da letto dei genitori, ma mamma e papà raramente litigavano davanti a loro, per cui era facile convincersi che non fosse nulla di grave, che la tempesta sarebbe passata presto e che tutto sarebbe tornato come ai vecchi tempi. Quando Sam se ne andò quella mattina, Marie chiamò Kristen e Melissa nella sua camera. «Vostro padre e io non andiamo più d’accordo, capita a volte», spiegò loro. «Chiederemo il divorzio, ma andrà tutto bene, lo vedrete come avete sempre fatto». Tutto qui. Le bambine uscirono nel corridoio. «Che cos’è il divorzio?», chiese Melissa. «Significa che papà non vivrà più con noi», rispose Kristen. Il viso di Melissa si fece rosso. «Stai mentendo!» Tornò correndo nella camera della mamma. Sam si trasferì all’Holiday House, un piccolo hotel con bar e piscina a qualche chilometro dalla costa. Kristen ricorda
quando lo andò a trovare lì poco tempo dopo. Mentre sedevano insieme sul divano della sua stanza in penombra, suo padre le confessò all’improvviso: «Io e tua madre abbiamo chiesto il divorzio… Tua madre probabilmente si risposerà, ma io non credo che lo farò. Non potrei affrontare tutto questo di nuovo», e cominciò a piangere. «Mi sentii molto a disagio», dice Kristen. «Sapevo che si sentiva molto solo, ma non sapevo cosa fare per rimediare, per farlo stare meglio». Anche Fern Lea andò a trovarlo all’Holiday House poco dopo la rottura e assistette a uno sfogo di dolore. «Si sedette sul divano a piangere. Diceva: “Sono così solo! Sono così solo!” Le lacrime gli rigavano il viso. Era devastato». Non fu una rottura chiara e definitiva; non avrebbe potuto esserlo, con tutto quello che Sam e Marie avevano vissuto insieme. Infatti un altro bambino – l’unico figlio maschio di Sam, Mathew – fu concepito dopo che Sam se n’era già andato dalla casa della Colonia. Quando Melissa capì che sua madre era di nuovo incinta, sperò che questo potesse significare che suo padre sarebbe tornato a vivere con loro, ma a quel punto Sam e Marie non dormivano più insieme e non lo avrebbero mai più rifatto. La casa al numero 97 fu venduta, Marie e i bambini si trasferirono in un fienile rosso convertito ad abitazione ai piedi delle colline di Malibu, e Sam affittò una casa in Bird View Drive a Point Dume, che tutti avrebbero chiamato la «Bird House». A ottobre, David Peckinpah ebbe un grave attacco di cuore e fu ricoverato. Sam e Fern Lea volarono da Fresno un sabato per vederlo. Sembrava stabile e così tornarono a Los Angeles il giorno seguente. Poi, il 30 ottobre, un coagulo di sangue si liberò nelle arterie di David e le sue condizioni divennero critiche. Sam e Fern Lea corsero all’aeroporto per prendere un altro aereo per Fresno. Lo persero, così Sam chiamò l’ospedale per informare suo fratello. Denny gli disse che non c’era più bisogno di affrettarsi perché il padre era morto. Aspettando l’aereo e durante il volo, Sam era calmo, posato e consolava Fern Lea che invece era distrutta – cercava
di essere forte per la sua sorellina come suo padre era stato forte per loro. Il codice Peckinpah. Quando entrarono in casa dei loro genitori a Fresno, Fern scoppiò in lacrime. Fern Lea e Sam la abbracciarono e baciarono, ma quegli abbracci erano impacciati e imbarazzati. Chi si sarebbe preso cura di lei, ora? Fern Lea se lo chiedeva ed era certa, non io! Il suono dei lamenti di sua madre e i borbottii disperati – «Oh, Dave non c’è più!» – la riempivano di odio e compassione. Per l’amor del cielo, sii forte per una volta! Fern non dormiva, per cui le fecero prescrivere da un medico un potente sedativo, che comunque non le consentiva di dormire più di un paio d’ore consecutive. Dopo che Fern si fu messa finalmente a letto quella sera, Sam e Fern Lea si sedettero in salotto. Sam era andato alla baita del padre e aveva trovato una bottiglia di scotch Dewar che un cliente gli aveva dato quasi vent’anni prima. Quando Denny e Sam erano ritornati dalla guerra, il vecchio l’aveva aperta, aveva riempito tre bicchierini e l’aveva saldamente richiusa. Non era più stata aperta da allora. Quella sera Sam e Fern Lea la finirono tutta. Parlarono di quelle estati di tanto tempo prima a Dunlap e a Bass Lake, la zattera che il padre li aveva aiutati a costruire con ceppi fradici, il terrore che provavano quando ringhiava a denti stretti: «Vammi a prendere una verga!», il piacere di rovistare nel suo cassetto in cerca di un paio di calzini da caccia da appendere al camino alla Vigilia di Natale, le colazioni che preparava inondando la cucina del profumo caldo, intenso, sfrigolante di uova, prosciutto, bacon, costolette d’agnello e pancake. «Sam sembrava così calmo», dice Fern Lea, «così controllato». Finalmente decisero di trascinarsi a letto. Fern Lea si ritirò nel bagno di sua sorella per lavarsi i denti. Il bagno dei genitori era adiacente e all’improvviso sentì provenire da lì un’orda di invettive. Era Sam – «Che tu sia dannato, figlio di puttana!» – che imprecava contro suo padre. «Stava rimproverando papà per essere morto», dice Fern Lea.
Poche settimane prima, David era sceso a Los Angeles per assistere alla proiezione di uno degli episodi di The Westerner. «Quando finì», raccontò Sam a Garner Simmons, «il Boss venne da me e disse: “Un po’ duro ma…”, e mi fece un cenno sorridendo e capii che ce l’avevo fatta». David Peckinpah non era un uomo espansivo, ma era riuscito a far finalmente sapere al suo figlio minore che approvava la strada che aveva scelto. Nonostante le sue ambivalenze nei confronti del padre – che erano molte e profonde – è fuori di dubbio che Sam soffrì molto per la sua morte. David era stato un pilastro di autorità e integrità nel corso della sua infanzia; quando Sam ebbe bisogno di soldi durante il college e negli anni di magra che seguirono, David glieli aveva offerti senza esitazioni; quando Marie ebbe un parto doloroso, quando il capanno Quonset bruciò, quando il matrimonio di Sam colò a picco, tutto quello che serviva era una telefonata e David era su un treno per L.A., per essere di supporto come poteva. «Aveva mani grandi», disse Sam anni dopo. «Io ho buone mani, ma lui le aveva grandi. Per supportare qualcuno e dirgli che tutto andava bene». Morto suo padre, non c’era più nessuno che gli ponesse dei limiti. Non ci sarebbe mai potuto essere un altro Boss a dirgli che si era spinto troppo oltre o che doveva darsi una regolata – o comunque nessuno che rispettasse abbastanza da dargli ascolto. «Mi chiedo come sarebbe diventato Sam se papà fosse vissuto più a lungo», dice Fern Lea. «Papà lo avrebbe preso a calci se avesse saputo che Sam faceva uso di droghe». Fern si oppose a un funerale in grande stile perché il cristianesimo scientista lo disapprovava. «Mia madre impedì che si diffondessero informazioni riguardo al funerale – a che ora fosse, per esempio – e lo disse giusto a sei, sette membri della famiglia», disse Sam in seguito. Ma i figli di Fern sospettavano che si trattasse di una persistente rabbia nei confronti del marito. «Quando mio padre morì, mia madre volle un’autopsia», dice Fern Lea. «Era
convinta che mio padre avesse avuto un serio attacco di cuore anni prima, e che quell’episodio doveva avergli procurato qualche danno al cervello: ecco perché aveva accettato la carica di giudice e aveva fatto tutte quelle cose che lei non avrebbe voluto facesse». Ora, persino nella morte, voleva tenersi il marito tutto per sé. Ma i figli prevalsero e diffusero la notizia del funerale a tutta la comunità: «I tribunali di Fresno chiusero per lutto e vennero tremila persone», ricordava Sam. «Era incredibilmente amato. Anche incredibilmente odiato, suppongo». Fern, con l’aspetto stanco e avvizzito dietro il velo nero che il necroforo aveva sistemato a un lato della bara, balbettò vuote parole per tutta la funzione. «Sam ne rideva e diceva: “Mamma stava rinchiudendo tutti gli animali nel ranch. È un miracolo se siamo riusciti ad andarcene senza essere rinchiusi anche noi!”», ricorda Fern Lea. Aldilà della battuta, covava la rabbia. La vendita di Dunlap, la campagna per il Congresso mandata all’aria, il dispiacere inflitto al padre per la carica di giudice e ora questo, l’ultima goccia. Sam cominciò a dire ai suoi amici che era stata sua madre a uccidere suo padre, che lo aveva condotto a una morte prematura con i suoi continui tormenti. «Quando morirà», ripeté più volte nei decenni successivi, «piscerò sulla sua tomba». Vide sua madre molto raramente nei restanti ventitré anni della sua vita. Quando lei lo chiamava a casa o in ufficio, i presenti notavano come la voce di Sam diventasse acuta e nervosa e come, dopo aver riagganciato, fosse agitato e di poche parole. In genere andava a trovarla dopo una delle riunioni della famiglia Peckinpah che avevano luogo in cima alla Peckinpah Mountain ogni due o tre anni. Il cugino di Sam, Bob Peckinpah, ricorda: «Un anno Sam restò una mezza giornata in più con noi lassù. Poi chiese al suo autista, Chalo, di portarlo a Fresno. Dopo che fu partito, la
moglie di Denny, Betty, si rammaricò: “Come può una donna fare questo ai suoi figli?” Ciò che Sam stava facendo era cercare di raccogliere il coraggio per andare a trovarla. Che cosa orribile da fare ai propri figli, segnarli, rovinarli per la vita. Ecco cosa successe». Coloro che, come Chalo Gonzalez, accompagnavano Sam in quei lunghi, lunghi viaggi in auto per vedere sua madre ricordano come si reggesse al bracciolo dell’auto con una presa terrorizzata, come restasse seduto in macchina di fronte alla casa a lungo, prima di trovare il fegato di andare a bussare alla porta. Eppure, quando la porta si apriva, aveva luogo una notevole trasformazione. La terza moglie di Peckinpah, Joie Gould, ricorda quando andò a conoscere con lui sua madre nei primi anni Settanta. Nel tragitto da L.A. a Fresno, Sam parlava di Fern – della stronza che era, delle terribili, meschine cose che aveva fatto. «Farà la dolce», la avvisò, «ma non lo è, non è dolce per niente, è incredibilmente pericolosa!» Continuò ad accanirsi fino al secondo in cui la madre aprì la porta. Poi, come un comico di un nightclub che passa da un personaggio a un altro, tutto l’atteggiamento di Sam cambiò. Allargò le braccia, la abbracciò e baciò, poi le presentò Joie. «Ci sedemmo in questo piccolo salotto», dice Joie, «con l’arredamento e i soprammobili perfettamente posizionati, questa stanzetta ordinata, e Sam era meraviglioso con lei – servizievole, educato, cortese. Era tutto così falso da sembrare surreale». Quando se ne andarono, non tornò istantaneamente all’ostilità ma sembrava invece ancora sotto gli effetti dell’esperienza appena conclusa. Fu man mano che si avvicinavano alla casa di suo fratello Denny che il nervosismo ritornò. Denny nutriva verso sua madre un’ostilità ancora maggiore di Sam. Poiché era socio dello studio del padre, Fern era arrivata a guardare a Denny con sospetto e ostilità, come un alleato di David e un suo nemico. Quando arrivarono da Denny, i due andarono al bar insieme, lasciando Joie sola con
la moglie di Denny, Betty. Più tardi, durante il viaggio di ritorno verso L.A., Sam ricominciò a sputare veleno su sua madre: «È una stronza, è il diavolo, quando morirà piscerò sulla sua tomba…» Era falso con sua madre o era falso con Denny? Joie non avrebbe saputo dirlo. Nel giro di un anno, nel 1960, Sam Peckinpah aveva visto disintegrarsi sia il suo matrimonio che quello dei suoi genitori; aveva perso la casa nella Colonia per cui aveva lavorato tanto, aveva perso i suoi figli, aveva perso suo padre. Le fondamenta gli erano state strappate da sotto i piedi con un unico, violento strattone, e non avrebbe mai più riacquistato l’equilibrio. Fu, a dir poco, un anno di profonda disillusione. «Se solo potesse essere come ci dicevano che sarebbe stato quando eravamo bambini», disse Sam a un intervistatore della rivista Life nel 1972. «E cosa vi dicevano?», chiese il giornalista. «Oh, sai cosa intendo…» La sua voce si affievolì. Il dolore era troppo forte per essere espresso a parole. Le persone lo avevano deluso e lui aveva deluso loro. Non puoi fidarti di nessuno, nemmeno di te stesso! Le persone smettono di amarti, tu smetti di amare loro, le persone muoiono e ti abbandonano, ti tradiscono, tu tradisci te stesso… Il lavoro era tutto quello che gli restava adesso, il suo talento l’unica cosa su cui potesse fare affidamento. Così si lanciò nella breccia con l’ardore di un fanatico. Nell’autunno del 1961 un messo della MGM si presentò all’uscio di Peckinpah con un copione. Trasalì quando lesse il titolo: Guns in the Afternoon. Il salto dalla televisione al grande schermo non era stato facile come sperava. Dopo la chiusura di The Westerner, aveva diretto l’episodio «Mon Petit Chow» di Route 66. In seguito, grazie a Brian Keith, ottenne la sua prima occasione con un vero film. Keith era appena apparso nella commedia Disney Il cowboy con il velo da sposa, con Maureen O’Hara e Hayley Mills. Quella commedia cronicamente «buffa» e «genuina»
sbancò al botteghino. Nella speranza di trarre un ulteriore guadagno dalla sua popolarità, il fratello della O’Hara, Charles FitzSimons, propose a Keith un copione per un western a basso costo che avrebbe riproposto Keith e la O’Hara nei panni dell’eroe e dell’eroina. «Il copione era pessimo», dice Keith. «Era il genere di cosa che John Ford avrebbe fatto sotto coercizione, se lo avessero corrotto con altri tre progetti che davvero voleva realizzare». Ma Keith accettò di farlo se, e solo se, FitzSimons avesse ingaggiato Peckinpah per dirigerlo. «Sapevo che Sam avrebbe saputo riscriverlo e visualizzarlo in modo da far dimenticare quanto penoso fosse». Sfortunatamente FitzSimons aveva lavorato a quel copione insieme a uno scrittore per tre anni e si era convinto di averne tirato fuori la versione finale di un capolavoro. Ingaggiò Peckinpah per avere Keith, e dunque finanziamenti, ma quando Sam gli presentò le sue prime venti pagine di riscrittura, FitzSimons le gettò in un bidone senza nemmeno guardarle. «Sam», disse, «sei stato ingaggiato per dirigere il film, non per riscriverlo». Da quel momento il rapporto tra il produttore e il regista andò solo peggiorando. La morte cavalca a Rio Bravo fu girato in ventun giorni a Old Tucson, Arizona, nel gennaio del 1961, con un succinto budget di 530.000 dollari. FitzSimmons restò al fianco di Sam sul set ogni giorno, dicendogli come allestire e girare le scene e proibendogli di dare istruzioni a sua sorella Maureen. Quando le riprese furono concluse, il produttore escluse Sam dalla sala montaggio e tagliò la pellicola lui stesso. Il risultato fu un artificioso melodramma zeppo di prevedibili colpi di scena, situazioni irrealistiche, caratterizzazioni piatte e pessima recitazione. Lo straordinario talento che risplendeva da The Westerner si accendeva a intermittenza qui e lì in piccoli, fugaci tocchi lasciati da Sam quando FitzSimons non guardava. Il film fu relegato ai cinema di seconda visione e presto scomparve, pur paradossalmente meritando delle recensioni positive per Peckinpah. I critici
rimasti rapiti da The Westerner gli avevano concesso il beneficio del dubbio e dissero che aveva preso del pessimo materiale e lo aveva reso quantomeno interessante. James Powers dell’Hollywood Reporter arrivò addirittura a definirlo un «esordio promettente». Sam si assicurò di inviare un biglietto di ringraziamento a Powers e a tutti coloro che lo avevano elogiato. Ora aveva tra le mani il copione di un altro western a basso budget. Ma stavolta era stato inviato da un giovane produttore a un grande studio che ammirava sinceramente il suo talento. Richard Lyons aveva curato due bozze di Guns in the Afternoon con due diversi sceneggiatori, N.B. Stone Jr. e William Roberts. Quando ritenne di avere finalmente una sceneggiatura valida cominciò a cercare un regista. Sylvia Hersh del dipartimento letterario della MGM gli parlò di Peckinpah e lo convinse a guardare qualche episodio di The Westerner. Lyons ne visionò uno in una sala proiezione della Metro e rimase sbalordito. «Nulla mi aveva colpito quanto quell’opera che avevo visto in mezz’ora», ricordò in seguito. Quando Sam finì di leggere il copione di Guns in the Afternoon, anche lui era eccitato. La trama era a malapena distinguibile da un centinaio di altre opere western. Steve Judd, un uomo di legge un tempo famoso caduto in disgrazia, accetta un lavoro come trasportatore d’oro da una città di miniera sulla vetta dell’Alta Sierra a una banca nel bassopiano. Sei guardie sono state uccise dai banditi durante i precedenti carichi, perciò Judd assume un ex vice sceriffo, Gil Westrum, e il suo giovane aiutante, Heck Longtree, come scorta armata. Ma anche Westrum è caduto in disgrazia e, all’insaputa di Judd, insieme a Heck ha pianificato di rubare l’oro a un certo punto lungo il tragitto. Il piano di Westrum fallisce. Judd li coglie sul fatto mentre cercano di sgattaiolare via dall’accampamento con il bottino nel bel mezzo della notte, e li lega entrambi. Westrum riesce a scappare quando Judd si addormenta ma, tormentato dal senso di colpa, segue a distanza il suo vecchio partner per tutto il giorno seguente.
Quando Judd subisce l’imboscata di un malefico quintetto di aspiranti minatori – i fratelli Hammond – che sono anch’essi alla ricerca dell’oro, Westrum cambia idea e galoppa verso la mischia, sparando all’impazzata. Uno dei proiettili degli Hammond lo colpisce e Westrum muore, ma la sua valorosa carica salva Judd e il carico d’oro, riscattando il suo onore. Ciò che rendeva il progetto intrigante era che fosse ambientato nei primi anni del ventesimo secolo, quando le automobili cominciavano a rimpiazzare i cavalli e anonimi poliziotti in divisa prendevano il posto degli sceriffi dai grandi cappelli che avevano domato il Selvaggio West. «I giorni dei cercatori d’oro sono finiti e sono arrivati quelli degli uomini d’affari», dice a Judd un banchiere dagli occhi da talpa in una delle scene d’apertura. Gli eroi erano pistoleri non più di primo pelo e fuori posto in un mondo che non aveva più bisogno di loro. Era un tema che affascinava Peckinpah e su cui sarebbe più volte ritornato nei successivi film. Lyons aveva già scritturato Joel McCrea e Randolph Scott per interpretare Judd e Westrum – due veterani imponenti ma grigi e in declino che avevano interpretato innumerevoli western, e la cui fortuna al botteghino si era affievolita ora che le nuove generazioni seguivano eroi più giovani; il loro western all’antica semplicemente non vendeva più. Il parallelismo tra le star e i personaggi che avrebbero interpretato era perfetto; un abile regista poteva trarre enorme vantaggio da quelle icone obsolete. Lyons ricevette una telefonata da Peckinpah la mattina dopo avergli inviato il copione. «Ho letto e riletto questo copione per tutta la notte», disse Sam. «È il miglior copione che abbia mai letto. Cosa devo fare per dirigerlo?» A Sam furono offerti 12.000 miseri dollari per il lavoro, ma li accettò senza esitazioni. L’inchiostro non si era ancora asciugato sul suo contratto quando Sam fece a Lyons una proposta. Poteva essere il miglior copione che avesse mai letto, ma questo non significava che non potesse essere migliorato. Voleva rifinirlo – nessun grande cambiamento
strutturale, solo pulire un po’ i dialoghi. Stavolta aveva un produttore che era disposto ad accontentarlo. Per le quattro settimane seguenti Peckinpah lavorò al copione. Fedele alla parola data, non alterò l’impalcatura di base dell’opera, perché riconosceva che la struttura concisa era il suo punto di forza. Al contrario, cominciò un intenso processo di rilettura delle scene e di rilavorazione dei dialoghi alla ricerca di nuovi strati, nuove inaspettate sfumature che rendessero la storia più realistica e personale ai suoi occhi. «Fu una completa riscrittura», dice Gay Hayden, che batté a macchina le revisioni di Sam. «Riscrisse completamente i dialoghi. Non credo sia rimasta una sola parola dei dialoghi originali». La copia di Sam del copione finale per le riprese lo conferma; è un ammasso di pagine gialle, blu e rosa che indicano intere scene che erano state riscritte. Solo qualche pagina bianca sopravvive dalla sceneggiatura originale. Come con The Rifleman, Sam infarcì la storia con oscuri riferimenti personali che pochi al di fuori della sua famiglia avrebbero identificato. Il film si sarebbe aperto sul carnevale di una piccola città, con tanto di gara tra un cavallo e un cammello per la strada principale. Sam aveva sempre frequentato con entusiasmo questi eventi da bambino a Bass Lake e a North Fork. Nomi come Madera County e Paul Staniford (un amico stretto di David Peckinpah) saltavano fuori tra i dialoghi, e Sam chiamò la città di miniera sulla sommità delle Sierre «Coarsegold» dal nome di una comunità poco più in alto di Dunlap che era davvero stata un tempo una miniera (ma non durante la vita di Sam, a dispetto di quanto affermò in molte interviste). Lo stabilimento più importante di Coarsegold divenne il Kate’s Place, un bordello dove avrebbe avuto luogo la famosa scena del matrimonio. Sam, grazie ai suoi viaggi in Cina, Messico e Nevada, poteva dire di conoscere bene il Kate’s Place e i suoi ebbri abitanti – tra cui i sifilitici fratelli Hammond. Orde di fratelli rabbiosi erano già apparse in The Rifleman e The Westerner e si sarebbero ripresentate in molti
altri film di Peckinpah. Ma fu in questa pellicola, con gli Hammond, che l’archetipo sbocciò completamente e nel modo più orribile. Endogamici, infestati da pidocchi, schiavisti, possedevano tuttavia due qualità che per Peckinpah quasi compensavano tutte le loro manchevolezze: un sorprendente senso dell’onore familiare e una selvaggia vitalità. Erano uomini lontani dall’essere domati, spezzati, imbrigliati all’aratro e alle pastoie della civiltà; uomini che, nella loro ribellione e per quanto repellenti, erano vivi. Per quanto riguarda Steve Judd, Peckinpah rilavorò i suoi dialoghi accuratamente finché il personaggio si trasformò in un ritratto mitizzato di suo padre. Mitizzato perché Judd era un David Peckinpah i cui difetti e le cui contraddizioni erano stati cancellati e che era stato rimodellato in un brillante, alto, ben piazzato padre/dio della giovinezza di Sam, l’immagine ideale che David stesso aspirava a incarnare quando si era fermato davanti al Lincoln Memorial nel 1917. Judd è un uomo dai principi di ferro, dall’integrità incorruttibile, un difensore della legge e della giustizia, un uomo ancora abbastanza grande perché la sua parola valga qualcosa. Nel tragitto verso la cima della montagna per prendere l’oro e sulla via del ritorno, Westrum si lamenta di quanto poco lui e Judd abbiano da mostrare dopo tutti gli anni di onesto servizio in difesa dell’ordine pubblico. Sono stati calpestati, presi di mira, feriti, e sono finiti più volte all’ospedale per mesi. Hanno contribuito a rendere il West un posto sicuro – come racconta la liturgia dei western di John Ford – per donne e bambini, per scuole, chiese e città dove la gente potesse sistemarsi e crescere i propri figli. E ora non sono più di alcuna utilità per quella stessa gente. Il tempo è passato, i loro vestiti si sono logorati, le suole degli stivali si sono riempite di buchi. Lo scopo implicito dell’ininterrotto monologo di Westrum è quello di cercare di preparare Judd all’idea di scappare con l’oro, così da non doverlo sottrarre al compagno con la forza. Ma il suo attacco verbale non scalfisce
minimamente i solidi valori di Judd. Judd non si era mai aspettato un trattamento speciale o ricompense per il lavoro svolto; tutto ciò che aveva sempre voluto era un salario onesto e salvaguardare il suo rispetto di sé. «Steve, sai che cosa rimane a un poveraccio quando tira le cuoia?», dice Westrum in un ultimo tentativo di incrinare la fibra morale di Judd. «I panni dell’orgoglio. E non lo riscaldano da morto più di quanto non lo riscaldassero da vivo. È questo tutto quello che vuoi, Steve?» Judd ferma il suo cavallo, guarda Westrum pensieroso, poi risponde con calma: «Tutto ciò che voglio è rientrare a casa giustificato». «Quella battuta […] parafrasava un versetto della Bibbia che avevo imparato da mio padre», disse Sam in seguito. «Era un grande studioso della Bibbia, questa è una delle cose che ricordo della mia infanzia». A metà della montagna, Judd, Westrum e Heck Longtree si fermano a passare la notte nell’isolata fattoria di un vedovo, Joshua Knudsen. Knudsen, un fondamentalista cristiano, vive lì con sua figlia, Elsa, isolata dal mondo esterno, che il padre disprezza in quanto malvagio e corrotto. Ossessionato moralista, non perde occasione per sottoporre duri giudizi e brani della Bibbia ai suoi ospiti e alla frustrata figlia. Knudsen reprime non solo i suoi desideri fisici, ma anche quelli di Elsa. Quando trova la figlia ad amoreggiare con Heck nel cortile, dopo cena, afferra il ragazzo per il colletto e i pantaloni, lo scaraventa in direzione del fienile e ordina a Elsa di rientrare in casa. «Quando imparerai ad avere un po’ di decenza?», le chiede seguendola attraverso la porta e sbattendola dietro di sé. «Stavamo solo parlando!», sbraita amaramente lei. «Il suo interesse non si ferma al parlare… Sono tuo padre, devo tenere la feccia lontano da te, proteggerti dagli uomini sbagliati».
«Che sarebbero tutti, no?», urla Elsa. «Tutti gli uomini sono sbagliati, tranne te!» In uno scatto di rabbia, Knudsen colpisce il viso della ragazza con il dorso della mano. Come quella di Fern Peckinpah, la possessività di Knudsen non fa che allontanare coloro che invece vorrebbe controllare. Quando Judd, Westrum e Heck ripartono, Elsa sgattaiola via a cavallo e li segue; cavalca con loro fino a Coarsegold, dove spera di trovare la libertà sposando Billy Hammond, l’unico membro del clan Hammond di bell’aspetto – ma non meno depravato dei suoi fratelli. Le due facce della medaglia rappresentate da Judd e Knudsen formavano una gestalt dei conflitti e delle ambivalenze ancora in via di deterioramento che venivano dall’infanzia di Peckinpah. «Mio padre dice che c’è solo il giusto e lo sbagliato, il bene e il male, senza vie di mezzo», dice Elsa a Judd a un certo punto. «Non è così semplice, vero?» «No», ammette Judd, «non lo è. Dovrebbe, ma non lo è». Sam fece un solo cambiamento strutturale nel copione, ma fu cruciale. Anziché far morire Westrum nella battaglia finale, scambiò le parti; Judd sarebbe morto e Westrum sarebbe sopravvissuto. Fu una mossa ispirata, non solo perché si opponeva completamente alle convenzioni del genere (il cattivo deve sempre morire per i suoi peccati), ma perché metteva a fuoco il soggetto della storia. Con pochi, veloci tratti di penna, Peckinpah aveva reso Westrum il protagonista e il virtuoso Judd l’antagonista. Il principale conflitto drammatico del film era ora centrato su Westrum, che all’inizio della storia era già caduto in disgrazia. Disilluso e al verde, ha abbandonato quei valori che prima reputava irremovibili. Judd lo ritrova mentre spenna dei provincialotti in un tiro a segno truccato di una fiera, producendosi in una parodia della sua vecchia identità. Atteggiandosi a «Oregon Kid […] Lo sceriffo di frontiera»,
indossa baffi finti e una parrucca alla Wild Bill Hickok. Nel viaggio con l’incorruttibile Judd, è costretto a riesaminare l’etica e il codice d’onore che un tempo dava senso alla sua vita. Quando tradisce Judd cercando di rubare l’oro, in realtà sta tradendo se stesso. «Era tutto chiaro», dice Judd amaramente durante il confronto con il suo ex partner, «tutte quelle chiacchiere sul vecchio dottor Franklin, sull’ingratitudine della gente, su quello che abbiamo fatto senza ricevere mai una ricompensa. Me lo sentivo nelle ossa a cosa stavi mirando, ma non volevo crederci. Continuavo a ripetermi che eri un brav’uomo, che eri mio amico». Westrum cerca di razionalizzare. «Sono soldi della banca, non tuoi». «E quello che non sanno non può ferirli», urla Judd. «Non ferisce loro, solo me!» Colpisce Westrum due volte, a mani aperte, dritto in faccia, poi lo sfida ad arrendersi. Ma Westrum non lo fa. Si sgancia il cinturone e lo lascia cadere a terra. Umiliato, nudo sotto il duro sguardo di Judd, Westrum è costretto a vedere coi suoi occhi fin dove si è spinto. È il punto di svolta, che mette in moto quel cambiamento interiore che alla fine farà cavalcare Westrum dalla parte di Judd, nella sparatoria finale. Quando il fumo degli spari si dissolve, Judd è a terra col sangue che sgorga dalle tre ferite inflitte dagli Hammond. Inginocchiandosi al suo fianco, Westrum dice piano: «Non preoccuparti. Farò tutto quanto come avresti fatto tu». Judd lo guarda, e sente tornare tutto l’affetto che ha sempre provato per il suo vecchio amico. «Diavolo, lo so, l’ho sempre saputo. Ti sei solo distratto per un attimo, questo è tutto». La morte di Judd è lo strumento per la salvezza di Westrum. Si tratta – come hanno notato altri critici – di una tragedia profondamente cattolica, intrecciata col mito western. Il tema, come Paul Seydor ha con perspicacia sintetizzato, è:
«Quale guadagno può avere un uomo dal mondo se perde la sua anima?» Questo sarà anche il tema dominante di Il mucchio selvaggio, Pat Garrett e Billy Kid e Voglio la testa di Garcia – un aspetto trascurato da molti critici, che etichettarono Peckinpah come nichilista. Quando Peckinpah consegnò il suo copione dalle pagine blu, rosa e gialle a Lyons, McCrea e Scott, aveva anche già cambiato il titolo da Guns in the Afternoon a Sfida nell’Alta Sierra. Da questa scelta si poteva già evincere il drammatico cambiamento di tono e contenuto, ma Sam era molto riservato riguardo alle sue aspirazioni per l’opera. «Se avessi cercato di parlare alla MGM del tema di base», disse in seguito, «che riguardava la salvezza e la solitudine, mi avrebbero licenziato all’istante». Non lo fecero, perché sia il produttore che il cast amavano il nuovo copione. «Gli [a Peckinpah] era stata data una gemma», disse Lyons a Garner Simmons, «ma lui sapeva come intagliarla per tirarne fuori tutta la lucentezza. Per strano che sia, molti non sanno cosa farsene di un diamante grezzo». Fu deciso dopo qualche trattativa che McCrea avrebbe interpretato Steve Judd e Scott sarebbe stato Westrum. Quando si trasferì nel minuscolo ufficio alla MGM nell’autunno del 1961, Sam aveva ottimi motivi per essere nervoso. Il proprietario di «più stelle di quante ce ne siano nel cielo», l’appariscente, sgargiante Grand Hotel degli studi cinematografici era fiero del suo approccio da produzione in serie alla cinematografia. Era una fabbrica di film dove a essere esaltato era «il sistema», non l’individuo; talenti idiosincratici venivano plasmati per armonizzarsi con gli ingranaggi della macchina, e se rifiutavano di piegarsi venivano distrutti e consegnati al deposito dei rottami. Erich von Stroheim, F. Scott Fitzgerald, Buster Keaton e i fratelli Marx sono solo alcuni fra i grandi artisti fatti a brandelli dalle fauci del leone Leo.
Nel 1960 il leone poteva essere un po’ invecchiato e con qualche dente in meno, ma aveva ancora un morso letale. Forte di 12,5 milioni di dollari di guadagni, raccolti principalmente da Ben-Hur e da una nuova edizione di Via col vento, lo studio era alla disperata ricerca di un nuovo successo. Investì diciannove milioni di dollari in un remake di La tragedia del Bounty, intitolato stavolta Gli ammutinati del Bounty, con Marlon Brando e Trevor Howard, e molti altri milioni in uno spettacolo in Cinerama, La conquista del West, in cui comparivano, be’, più stelle di quante ce ne siano… A Sfida nell’Alta Sierra fu assegnato un minuscolo budget di 800.000 dollari e un programma di riprese di ventiquattro giorni, che gli valse quasi il fondo della classifica dei ventotto film prodotti quell’anno – destinandolo a quei drive-in del sud dove si pagava un biglietto solo per due spettacoli, e dove ancora si poteva spillare qualche dollaro per vedere star in declino come McCrea e Scott. Sam, ovviamente, aveva una visione diversa del potenziale della pellicola. Louis B. Mayer e Irving Thalberg erano andati via da tempo, ma c’erano le loro controparti moderne: il presidente della compagnia, Joseph Vogel, che si occupava dei suoi affari principalmente fuori New York; il capo della produzione Sol Siegel che, come Thalberg, aveva una sensibilità più raffinata nei confronti della creazione cinematografica. Per fortuna, Siegel era favorevole al progetto, e Peckinpah aveva un buon alleato in Lyons, il quale sentiva che Sfida nell’Alta Sierra aveva il potenziale per essere più che un altro western di serie B. Per queste ragioni, a Sam fu quasi data carta bianca nella scelta del cast e degli elementi principali della troupe. Ingaggiò immediatamente Lucien Ballard come direttore della fotografia. Ballard aveva già lavorato con budget ristretti per Il cavaliere solitario di Budd Boetticher e con Peckinpah per The Westerner. Sam sapeva che Ballard avrebbe dato all’opera l’aspetto maestoso che voleva; dopo qualche pressione, Peckinpah e Ballard ottennero l’approvazione per girarla a colori in Cinemascope.
Come direttore artistico, Sam fu fortunato ad assicurarsi i servigi di uno scaltro parassita, Leroy Coleman, che avrebbe collaborato con lui di nuovo otto anni dopo per La ballata di Cable Hogue. «Il film fu praticamente un furto continuo», disse Sam tempo dopo. «Leroy Coleman andò letteralmente nel magazzino a rubare le vele degli Ammutinati del Bounty per creare l’accampamento della miniera [una tendopoli]. Al guardaroba [della MGM] pretendevano settanta dollari a camicia, perciò andammo a comprare i vestiti dalle organizzazioni benefiche per due dollari e mezzo, e tenemmo il budget basso». Con Sfida nell’Alta Sierra la compagnia di repertorio di Sam si consolidò. John Anderson, James Drury, Warren Oates, L.Q. Jones e John Davis Chandler avrebbero interpretato i fratelli Hammond e R.G. Armstrong sarebbe stato Joshua Knudsen. Tutti, tranne Chandler e Jones, avevano già lavorato con Peckinpah in televisione. Lo studio fece pressioni a Sam perché scegliesse una delle loro attricette biondo platino per il ruolo di Elsa, ma Sam rifiutò. Al contrario, scelse un’esordiente: la rossa, lentigginosa Mariette Hartley. Di soli ventun anni, dall’aspetto rustico e pulito, la Hartley si era recentemente tagliata i capelli per una produzione teatrale di Santa Giovanna. Ricorda ancora in maniera vivida il giorno in cui, trepidante, mise piede nell’ufficio di Peckinpah alla MGM. Sam aveva intrapreso un processo di reinvenzione. Via il basco, il plastron, i completi a spina di pesce e i lunghi bocchini per la sigaretta dei giorni alla Four Star. La Hartley si trovò di fronte un uomo appoggiato allo schienale della sedia, con un paio di stivali da cowboy consunti poggiati sulla scrivania e uno Stetson a tesa larga inclinato sulla punta del naso – come un Gary Cooper che fa un pisolino nell’ufficio dello sceriffo prima che il dovere lo richiami nuovamente all’azione. L’aspetto alla Norman Rockwell della Hartley non era che un’illusione. Suo padre e sua madre erano entrambi degli alcolizzati, e ora era intrappolata in un matrimonio violento con un marito nevroticamente geloso che la picchiava
regolarmente e nel modo più brutale. La dinamica combaciava perfettamente con il ruolo di Elsa Knudsen e, sebbene Sam non fosse a conoscenza di nulla di tutto questo, sembrò percepirlo immediatamente. «La connessione stabilitasi nel momento in cui ho varcato la porta era in qualche modo palpabile», ricorda la Hartley. «Sam sembrava parte della mia famiglia; mi sembrava di essere tornata a casa. Ci sono momenti nella vita in cui c’è una connessione spirituale, psichica, che puoi tagliare con un coltello, ed è sicuramente quello che ho sentito con Sam». Peckinpah le diede una scena da leggere e, quando lei terminò, si sollevò il cappello sulla fronte e disse con una franchezza da bambino: «Dio, ti trovo meravigliosa!» Dopo averla richiamata per dei provini in video, la ingaggiò. Sam fece delle prove con gli attori principali per quattro giorni – leggendo e rileggendo il copione ad alta voce, discutendo dei personaggi, delle loro motivazioni, dei sottintesi, delle parti negoziabili – prima che la compagnia si spostasse in bus verso l’Inyo National Forest nelle Alte Sierre, vicino Mammoth Lakes, poche cime a est del Dunlap Ranch e della Peckinpah Mountain… il puro High Country dell’infanzia di Sam. Nei primi quattro giorni dedicati principalmente alla fotografia, la compagnia catturò delle bellissime riprese di McCrea, Scott, Ron Starr e la Hartley che cavalcavano su e giù dalla montagna attraverso laghi azzurro cielo, luccicanti boschetti di pioppi e scintillanti file di pini. Lucien Ballard aveva insistito per portare con loro una gru Chapman e la utilizzarono al meglio per riprese che si muovevano di lato e poi salivano per seguire i cavallerizzi lungo la cresta. Il meteo dei primi giorni non avrebbe potuto essere migliore per le riprese. Il cielo di metà ottobre era terso e azzurro, la luce del sole cadeva sottile e luminosa tra le montagne boscose, ma l’aria era gelida. «C’era un freddo cane», dice Cleo Anton, il segretario di edizione del film, «e tutti avevano il parka addosso. Ma non Sam. Aveva un serape
del Messico ed era tutto quello che indossava. Era robusto, per quanto fosse piccolo e tutto nervi». Peckinpah era troppo eccitato per sentire il freddo. Il materiale che stavano creando era fantastico. Il quarto giorno completarono la prima sparatoria con gli Hammond sulla cresta battuta dal vento, con le cime dei pini che oscillavano sullo sfondo. Ma appena giunse il crepuscolo, uno spesso strato di nuvole grigie coprì il cielo e cominciò a nevicare. Sam era determinato ad aspettare che la bufera passasse, anche se avesse comportato perdere diversi giorni di riprese. Quando il tempo fosse migliorato, i picchi innevati avrebbero offerto un panorama mozzafiato. Ma il direttore di produzione Hal Polaire era preoccupato. Un semplice membro dello staff della MGM, rischiava di giocarsi il posto di lavoro, e la sua fedeltà era rivolta ai pezzi grossi nel Thalberg Building, non a un regista alle prime armi che sarebbe passato a un altro studio una volta chiusa questa pellicola. Polaire fece una chiamata alla MGM e riferì loro la situazione. Suggerì che la compagnia fosse riportata a L.A. e che il resto della pellicola fosse girato sulle Santa Monica Mountains. Il rischio di spese non previste dovute al tempo inclemente era troppo alto. La direzione non ci mise molto a prendere una decisione: la compagnia sarebbe stata riportata a casa l’indomani. L’umore di Peckinpah colò a picco. Rifiutò di salire sull’auto fornita dallo studio e preferì scendere dalla montagna sul bus insieme agli attori. Dopo una decina di chilometri la bufera passò, il sole irruppe tra le nuvole e l’afflizione di Sam si tramutò lentamente in sdegno. Rimuginò per tutte le sei ore di viaggio verso L.A., bevendo tequila e giocando a poker con gli attori. Più beveva, più si innervosiva. «Era fortemente tentato di mandarli a quel paese», racconta L.Q. Jones, «ma lo convincemmo a non farlo». Quando il bus accostò nel piazzale della MGM a Culver City, Jones mise Sam nella sua Corvette e lo accompagnò a casa. «Se non lo avessi fatto, si sarebbe schiantato in fondo a
un dirupo perché perfino allora, quando beveva, Sam non sapeva dire basta». Quando la rabbia iniziale fu scemata e tornò sobrio, la dedizione di Peckinpah verso il film ritornò. Si occupò di trovare nuove location sulle Santa Monica Mountains e sulle colline di Hollywood che potessero essere mischiate al girato di Mammoth. Il Bronson Canyon nel Griffith Park avrebbe fatto da sfondo per Coarsegold, e della schiuma di sapone spruzzata lungo i pendii e le tende dei minatori avrebbe simulato la neve. La sostituzione lo irritava, ma la sua determinazione si rafforzò. Avrebbe fatto in modo che tutto funzionasse alla perfezione, e questa volta non sarebbe stato castrato come era successo con La morte cavalca a Rio Bravo. «Cadesse pure il mondo, avrebbe fatto il film a modo suo», dice Jones. Quando le riprese ricominciarono, Peckinpah fece sfoggio di una ferocia che gettò il cast e la troupe in uno strano panico. Stavano girando l’arrivo dei fratelli Hammond a Coarsegold e la scena in cui i fratelli obbligano Warren Oates a fare un bagno. «Sam strigliava la troupe, urlava agli attori, imprecava contro la gente dei trasporti, sbraitava per i cavalli sullo sfondo», dice Jones. «Nulla funzionava. Ne parlammo, o meglio, ascoltammo Sam urlare. Riprendemmo e girammo ancora e ancora e ancora e ancora, mentre lui cercava di decidere se sarebbe stato più facile dare fuoco agli attori o alla macchina da presa». Un tecnico del suono fu licenziato in tronco per aver permesso che il microfono finisse in una ripresa. Questo scioccò la troupe, perché tutti lavoravano alla MGM da una vita. Alla maggior parte dei presenti Peckinpah sembrava impazzito, ma Jones, che avrebbe lavorato con il regista in altre sei produzioni, rilevò un metodo nella follia di Sam. Quello era il suo modo di spendere i soldi della MGM, affermando la sua influenza e il suo potere e mettendo la troupe ai suoi piedi. Glielo vidi fare film dopo film. Era sempre verso il terzo giorno che cominciavamo a darci dentro con le riprese. Il primo giorno fa in modo che tutti si dissocino da ciò che farebbero normalmente, di modo che ora siano confusi, a disagio. Poi il secondo giorno acuisce ancora un po’ quella separazione, facendo in modo che gli attori se la prendano
con la troupe e la produzione non sopporti più gli attori – e che tutti siano irritati. E il terzo giorno Sam ricomincia a mettere tutto a posto incarnando il ruolo della figura paterna, quella a cui devi necessariamente rivolgerti per risolvere i tuoi problemi. È lui che te li ha procurati, ma allo stesso tempo è lui l’unico che può liberartene. Quindi tutto si sistema e si può cominciare a darci dentro. Era una psicologia applicata estremamente acuta, quella usata da Peckinpah.
L’aveva imparata nel Corpo dei marines degli Stati Uniti. Faceva a pezzi le persone per ricostruirle in modo che non fossero più uomini della MGM, ma suoi – un’unità di combattimento resa più forte e pronta a sfondare i cancelli dell’inferno, se solo Sam Peckinpah glielo avesse chiesto. Sebbene fosse duro con gli attori, essi gli erano quasi unanimemente devoti. Sam volle che James Drury, Warren Oates, L.Q. Jones, John Davis Chandler e John Anderson mangiassero e dormissero insieme e disse loro di restare nel personaggio sia dentro che fuori dal set. «Voi siete gli Hammond», spiegò loro solennemente, «voi odiate tutti, qui!» Funzionò magnificamente. Nel film finito, non sembra affatto che gli attori stiano recitando: danno piuttosto l’idea di essersi infilati nella squamosa pelle degli Hammond. Quando Mariette Hartley si prese una cotta per Sam, lui usò la cosa per manipolarla e farle uscire le giuste emozioni nelle scene d’amore. Ben presto alla Hartley non sembrò neanche più di stare recitando. La sua «vera» vita e il ruolo sembravano fondersi insieme senza sforzo. Anche R.G. Armstrong, che interpretava il padre di Elsa fissato con la Bibbia, trovava la linea di confine tra la sua vita personale e il ruolo che stava recitando labile, se non inesistente. Non è un caso che Armstrong continuò a riapparire nei film di Peckinpah nel ruolo di un religioso psicopatico. Era una parte per la quale era letteralmente nato. Era cresciuto in una piccola fattoria vicino Birmingham, in Alabama; la madre di R.G. lo indottrinò con il cristianesimo fondamentalista dal giorno della sua nascita. «Mia madre pregava sopra di me», racconta Armstrong. «Avevo i capelli rossi. Era un segno per lei. Aveva avuto tre zii che erano stati predicatori. La sentii pregare su di me; mi offrì a Dio».
Quando crebbe, però, rifiutò la fede della madre. «Mi si spezzò il cuore. Io non accettavo l’ortodossia e lei non sapeva rispondere alle mie domande. “Devi accettarla per fede. Fede, figliolo! Dio opera in modi misteriosi!”» Divenne invece un attore e drammaturgo, e si accostò a quell’arte con lo stesso fervore che nutriva un tempo per la Bibbia; come Peckinpah, aveva scambiato la fede scelta dalla madre per un’altra. «Sento qualcosa di mistico quando salgo sul palco o mi posiziono davanti alla macchina da presa, un innalzarsi di tutto il mio essere. Non mi rendo conto che sto recitando». Eppure, negli anni seguenti, era ancora tormentato dai borbottii biblici di sua madre e dai violenti aspetti della sua infanzia che li contraddicevano. «Mio fratello Kenneth aveva due anni in meno rispetto a me. Papà era cattivo con lui. Quando avevo quattro anni, vidi mio padre picchiarlo con un ramo di pesco mentre Kevin era seduto sul seggiolone. Era il compleanno di Kenneth e voleva un pezzo della torta prima di aver finito la sua cena. Quando papà disse di no, spinse il piatto giù dal seggiolone. Papà uscì dritto verso il pesco, ne staccò un ramo e strappò via le foglie. Vidi tutta la scena. Per anni pensai di averla sognata». R.G. apparve nell’episodio pilota di The Rifleman, nel primo episodio diretto da Sam, «The Marshal», e in un segmento di The Westerner. Quando le riprese terminavano a fine giornata alla Four Star, gli attori e le troupe dei vari show si riunivano sull’altro lato della strada, nel bar Stage Door, per bere e spettegolare sull’industria. R.G. si univa a loro. Dopo quattro o cinque birre, un antico fuoco familiare gli scorreva nelle vene e all’improvviso si ritrovava in piedi su un tavolino a predicare alla folla – a citare le Scritture, a metterli in guardia dai mali dell’infuso del diavolo e a esortare la congrega a rifuggire dal peccato andando incontro alla gloria divina. Era tutto per divertimento, una scenetta per la folla – ma Peckinpah, seduto a un tavolo lì vicino, vide il fuoco negli occhi di R.G. e lo riconobbe fin troppo bene. «Sam vide la profondità della mia ostilità repressa», dice Armstrong. «Ero psicoticamente, traumaticamente rinchiuso in
me stesso, ero tagliato fuori dalla vita. Sam mi disse: “Sei un vero killer”. Riconobbe la mia lotta con la religione e la violenza che tenevo dentro. Credo che io e Sam avessimo un’affinità perché entrambi ci sentivamo come alieni in questo mondo. Non sapevamo come relazionarci con le persone. Capiva alla perfezione questo sentimento; diceva che ero un finto predicatore, cioè un potenziale killer che capiva la religione. E questo era il ruolo che Sam decise più volte di affidarmi». Nel confronto finale tra Knudsen e sua figlia – quando Elsa urla «tutti gli uomini sono sbagliati, tranne te!» – i demoni privati di Peckinpah, della Hartley e di Armstrong si intersecarono in un attimo di spaventosa violenza. Gli occhi di Armstrong gli balzarono fuori dalla tonda faccia, la bocca carnosa si addentò da sola e l’enorme mano scattò e colpì la Hartley dritto in faccia, per davvero. L’attrice cadde sulle ginocchia, piangendo senza freno. Fu un momento agghiacciante sul set. «Dovevo evocare quell’ostilità sepolta, e alla fine è esplosa», dice Armstrong. Ugualmente notevoli furono le performance che Peckinpah ottenne dalle sue due star senescenti, Randolph Scott e Joel McCrea. Sfida nell’Alta Sierra sarebbe stato il loro ultimo grido; come nella stessa sparatoria finale, il loro ultimo momento di gloria. Peckinpah non rivelò mai che il personaggio di Steve Judd era ricalcato sulla figura di David Peckinpah, ma continuò a richiamare suo padre trasversalmente nelle conversazioni – raccontando distrattamente aneddoti, cose dette da suo padre, i suoi principi, cosa avesse significato per Sam. McCrea recepì il messaggio; molto di David Peckinpah si infiltrò nella sua interpretazione. Nella scena in cui Judd coglie Westrum mentre cerca di scappare con l’oro, McCrea evoca l’imponente, retta collera divina del «Boss» in persona. Le labbra bianche e tremanti, gli
occhi decisi e lucenti quando dice all’ex partner: «E quello che non sanno, non può ferirli. Non ferisce loro, solo me!» In altre scene, rende il lato vulnerabile del personaggio con la stessa facilità. Quando a cavallo deve precipitarsi di lato mentre un’automobile sfreccia giù per la strada principale della città, quando cerca di nascondere i polsini sfilacciati della camicia e l’ipermetropia ai banchieri che lo assumono, quando cerca di nascondere la sua solitudine mentre Scott ricorda una vecchia fidanzata – inserisce sottili sentori di malinconia nel senescente pistolero. Verso metà novembre, la produzione si avvicinava all’ultima settimana di riprese. Non restava che lo scontro finale tra Judd, Westrum e i fratelli Hammond. Howard Hawks o John Ford avrebbero girato la sparatoria da una decina di angolazioni al massimo; il loro metodo era quello di coreografare attentamente l’azione all’interno di campi lunghi realizzati in maniera classica. Ciò rifletteva una sensibilità più tradizionale e conservatrice, ma era anche una tattica difensiva. Dando allo studio una quantità minima di angolazioni con cui lavorare, i registi obbligavano i produttori a tagliare le sequenze come le avevano immaginate, riducendo le possibilità che la pellicola fosse massacrata. Ma Peckinpah, che si era fatto le ossa con il mezzo televisivo, molto più veloce nelle operazioni di montaggio, apparteneva a una nuova generazione. Girò la sparatoria da una moltitudine di angolazioni, creando più, non meno, possibilità di scelta in sala montaggio – migliaia, tutte quelle che poteva. «Il mio girato è un pezzo di marmo», amava dire. «Comincio a scolpire la mia statua quando entro in sala montaggio». Probabilmente l’argilla bagnata sarebbe stata una metafora addirittura migliore, visto che Peckinpah, più chiaramente di molti altri registi, comprendeva la plasticità del mezzo. Il tempo poteva essere dilatato o ristretto, la cronologia degli eventi mischiata, l’azione rimodellata ancora e ancora finché non si otteneva finalmente la forma desiderata. Lo scontro finale fu ripreso da centocinquanta angolazioni diverse – la maggior parte attraverso una vecchia
macchina da presa Panavision del tipo con guscio, sebbene venisse utilizzata anche una Arriflex per alcuni primi piani. Campi lunghi, riprese dalla gru, zoom da campi medi a primi piani, carrellate di ognuno dei sette combattenti, primissimi piani di spari, di ciascuno dei protagonisti che viene colpito e cade a terra. Ciò che registi di una volta, come W. S. «buona la prima» Van Dyke o lo stesso mito di Sam, Michael Curtiz, avrebbero potuto girare in un paio di giorni, ne richiese a Peckinpah sei. La scena finale del film è l’addio di Scott a McCrea, che è ferito e morente. Per girarla Peckinpah scese un’angolazione inusualmente bassa – al livello degli occhi di McCrea, che a malapena si teneva su con un braccio. «Oh», brontola McCrea quando vede arrivare Ron Starr e Mariette Hartley. «Non voglio che mi vedano così… Portali via». Scott manda via la giovane coppia, poi si alza in piedi, sbattendo rapidamente gli occhi. McCrea lo guarda, strizzando gli occhi per il dolore. «Addio, vecchio». «Arrivederci», dice Scott con imbarazzo, poi si volta e va via. Rimasto solo nel cortile, McCrea crolla lentamente a terra, rivelando le vette imponenti dell’High Country sullo sfondo. «Stop», disse Sam con voce bassa e secca alla fine della prima ripresa. Alzatosi dalla sedia, si avvicinò lentamente a McCrea, evitando con cura di incrociarne lo sguardo con i suoi occhi nocciola. «Riproviamo un’altra volta. Solo stavolta, prima di morire, girati e guarda quelle montagne». McCrea annuì. Lui e Scott ripresero le posizioni iniziali e rifecero la scena. Dopo, McCrea restò con la faccia a terra nel fango, attendendo che Sam desse lo stop. Aspettava, aspettava, aspettava. Non lo aveva sentito? Doveva restare in posizione? Poi si rese conto di un sottile fruscio al suo fianco. Gettò uno sguardo e vide Peckinpah, in piedi vicino a lui. «Era perfetta»,
sussurrò. Quelle parole fecero rizzare i peli del collo di McCrea come un vento gelido. «Ce l’hai fatta». La potenza del momento fu evidente a tutti quelli che erano sul set quel giorno. «Vidi le lacrime rigare il viso di Randy Scott», ricorda Mariette Hartley. «Ero in adorazione. Non avevo mai visto nessuno recitare così». Ma fu solo quando videro il film in sala, mesi dopo, che il cast e la troupe esperirono tutto l’impatto della composizione creata da Sam. McCrea che guarda un’ultima volta quella massa di rocce e alberi che si allunga fino a toccare il sottile reame del cielo terso; un ultimo sguardo ai rocciosi picchi alberati che lui e altri come lui avevano attraversato a cavallo; alla distesa un tempo brulicante di natura selvaggia, ora recintata, contratta e morente come lui mentre si abbassa verso terra. «La glorificazione di McCrea fu esplicita, palese e sconvolgente», ha scritto Paul Schrader di quell’indelebile immagine finale. Fu una scelta ispirata, ma non veniva certo dal nulla. Fern Lea ricorda una fotografia (in seguito persa nei continui traslochi della nomade vita di Sam) scattata a David Peckinpah durante il suo ultimo viaggio nell’High Country, poche settimane prima di morire. In essa dava le spalle all’obiettivo, rendendo impossibile coglierne l’espressione mentre contemplava le cime innevate della Sierra Nevada. La produzione si concluse con quattro giorni di ritardo rispetto al previsto e una spesa di 52.000 dollari oltre il budget. Non male, considerato il fiasco di Mammoth. Ma non ci fu modo di tirare un sospiro di sollievo perché Margaret Booth – la leggendaria, cocciuta responsabile del reparto di montaggio della MGM – aveva esaminato tutto il girato non appena il materiale era arrivato allo studio, e non le era piaciuto. Alla Booth dispiacquero in particolare le assurde angolazioni della sparatoria finale. Le sembrava il prodotto di una mente caotica e disse ai suoi superiori che il film era impossibile da tagliare. (Fu la prima, ma sicuramente non l’ultima volta che fu mossa questa accusa al girato di Peckinpah.)
Per fortuna, Lyons e Peckinpah avevano ancora un alleato in Sol Siegel. Al tempo era ancora pratica comune per uno studio togliere il girato a un regista e affidarlo a uno staff di montaggio che lo avrebbe tagliato seguendo le direttive della direzione. Ma conoscendo l’insoddisfazione della Booth e la profonda fiducia di Peckinpah nei confronti del film, Siegel decise di concedere al giovane regista la possibilità di montare lui stesso il girato facendosi aiutare da un tecnico che avrebbe scelto lui stesso. Sam selezionò Frank Santillo, un tecnico della MGM che aveva lavorato per anni con Slavko Vorkapich, il leggendario genio dell’editing che aveva montato le sequenze di La buona terra, La città dei ragazzi, Mr. Smith va a Washington e un centinaio di altri film americani. Peckinpah e Santillo andarono a lavorare in un’angusta stanzetta di montaggio sepolta sotto un centinaio di altre in un edificio nella proprietà della MGM che sembrava una baracca. Passarono alla moviola migliaia di metri di pellicola e cominciarono a tagliarla e incollarla minuziosamente. «Sam passò tredici settimane nella sala di montaggio», ricordò in seguito Richard Lyons. «Non ne usciva mai; il sabato, la domenica, restava lì e tagliava ogni singola inquadratura del film». Santillo non era minimamente intimorito dal sovrabbondante girato di Peckinpah della sparatoria finale; in realtà, ne fu esaltato, perché capì che la sequenza poteva essere modellata in migliaia di modi diversi. Anziché incollare insieme intere riprese delle singole inquadrature, usò frammenti delle riprese e intrecciò la battaglia a colpi d’arma da fuoco con un montaggio espressionista. «Sapevo che anche tagliando un singolo frame il pubblico poteva trattenere qualcosa di quello che vedeva sullo schermo», disse Santillo a Garner Simmons. «Quando un tizio spara, non devi per forza far vedere che sta lì, poi prende la mira, poi spara. Molto deve essere implicito. Bang! – spara. Bang! – qualcuno viene colpito. Bang! – qualcun altro viene
colpito. Fai in modo che la sequenza si muova lasciando che sia il pubblico a riempire gli spazi. Di conseguenza, montai la sequenza e alcune riprese erano di soli sei fotogrammi [un quarto di secondo], e dissi a Sam che persino comprimendole fino a quel punto alcune sarebbero sembrate troppo lunghe sullo schermo. E lui disse: “Oh, no”. Capii che temeva che le avessi già tagliate troppo, perciò andammo nella sala proiezioni a guardare ciò che avevo tagliato e alla fine della sequenza Sam mi guardò, mi sorrise e disse: “Sai, hai ragione!” Così tornammo indietro, sfrondammo la sequenza finché non fu esattamente come la voleva Sam e alcune riprese non duravano che due frame. Sam mi ha sempre attribuito il merito di avergli insegnato la tecnica del “flash cut”». Il veloce montaggio incrociato delle diverse angolazioni risucchiava lo spettatore all’interno dell’azione. Anziché guardare lo scontro da una distanza puramente estetica, come nei film di Ford o Hawks, il pubblico si ritrovava travolto, nel bel mezzo dello scontro. La sequenza finita aveva un potere cinetico mozzafiato. Nella prima settimana del gennaio 1962, Sol Siegel proiettò un montaggio grezzo preparato da Peckinpah e Santillo. Sam non riuscì a guardarlo con lui. Aspettò invece nella sala montaggio, sudando nervosamente. Quando il film finì, Siegel chiamò dalla sala proiezione. «Hai rischiato usando questo tuo stile simpatico – e hai vinto», disse il capo della produzione. «Mi piace. Vai, fai il montaggio finale». Euforici, Peckinpah e Santillo tornarono al lavoro per finire di levigare la pellicola. Sfortunatamente, prima che potessero finire, Siegel – da tempo in conflitto con il presidente della MGM, Joseph Vogel – lasciò lo studio. Vogel decise di prendere lui stesso le redini della produzione e arrivò a Los Angeles per visionare i film che erano già quasi pronti per l’uscita. Vogel era una specie di dinosauro di Hollywood in via di estinzione: il magnate dei film all’antica. Autocratico, sdegnoso verso qualsivoglia pretesa intellettuale, convenzionalmente medioccidentale nei gusti e nei valori, non era dell’umore migliore, il pomeriggio
in cui si sistemò nella sua poltrona felpata della sala proiezioni per vedere Sfida nell’Alta Sierra. Aveva già visto altri due film della MGM quella mattina, entrambi estremamente brutti, e non era fiducioso sulle prospettive che poteva avere un western a basso budget con una coppia di attori finiti. Un salato pranzo di lavoro pesava sul suo stomaco come cemento appena versato mentre le luci si abbassavano e il film veniva proiettato sullo schermo. Peckinpah e Richard Lyons si erano posizionati qualche fila più indietro, studiando ogni minima contrazione del presidente per carpire qualche indizio sull’effetto che il film stava producendo in lui. Ebbero presto la risposta. Un lungo suono rauco riecheggiava nella sala. Sam diede un colpetto a Lyons nelle costole e sussurrò: «Che diavolo è questo rumore?» «È il presidente della società», rispose Lyons, «che russa». Sam scrutò la testa grigia di Vogel, ora ricaduta flosciamente all’indietro e borbottò: «Che mi prenda un colpo…» Vogel riuscì a tornare in sé in tempo per il matrimonio nel bordello. I suoi assistenti lo avevano indotto a credere che si sarebbe trattato di un buon film per famiglie, una cosa alla Disney. Sbatté le palpebre nel vedere una donna decisamente obesa adornata di piume viola e con un trucco stile kabuki, gli enormi seni a punta che fuoriuscivano dallo schermo mentre rideva come un coyote sotto anfetamina. «Benvenuti a Coarsegold!» «Le luci si accesero», ricordò in seguito Lyons. «[Vogel] era completamente bianco. Mi guardò e disse: “Ragazzo, tu mi disonori. È il peggior film che sia mai stato propinato al pubblico americano”». Era così brutto, continuò Vogel, che probabilmente non lo avrebbe distribuito. «Mi alzai», ricordò in seguito Sam, «e dissi che sarebbe stato un piacere per me cercarmi altri finanziatori e comprare
la pellicola… entro tre giorni, così non avrebbe dovuto distribuirla. Fui cacciato all’istante dagli studi». Per fortuna il montaggio era quasi completo e Vogel, necessitando del prodotto anche se lo trovava abominevole, diede a Lyons l’autorizzazione a doppiare il film e ad aggiungere la colonna sonora per l’uscita nelle sale. Lyons fu segretamente sollevato del fatto che Peckinpah fosse stato allontanato dalla sala montaggio; anche lui cominciava a essere stufo di come Sam distruggeva le scene finite e le rimontava nel continuo tentativo di «fare un ulteriore passo». «Se avesse fatto come voleva», disse Lyons a un intervistatore nel 1975, «Peckinpah starebbe ancora montando la pellicola questa settimana». Ma Lyons continuò a consultarsi con il suo regista esiliato e gli fece persino ascoltare, dopo il doppiaggio, il rullo sonoro al telefono, per avere la sua approvazione. Peckinpah non riuscì a supervisionare la colonna sonora, che finì per essere, nelle mani di Lyons, una delle maggiori debolezze del film. Mentre il tema principale era molto evocativo della tragedia epica veicolata dalla storia, il resto della colonna sonora era esageratamente orchestrata. Quasi ogni singola scena era accompagnata da una forte musica che doveva dire al pubblico come sentirsi. Questo eccesso rovinò molti dei momenti più significativi, come il confronto tra Knudsen e sua figlia, Elsa. Comunque, Peckinpah era fiero del prodotto finale. Molto fiero. Quando la MGM organizzò una proiezione per il cast e la troupe, a Sam fu permesso di prendervi parte e di invitare qualche ospite, come sua sorella Fern Lea, il marito Walter e Gay Hayden, che aveva battuto a macchina le revisioni al copione di Sam. Quando le luci si riaccesero dopo la scena finale di McCrea che affonda fuori dall’inquadratura, gli applausi rombarono nella sala come un terremoto. Ci furono acclamazioni, alcuni si alzarono in piedi. Fern Lea, al tempo incinta della terza figlia, corse nel bagno delle donne e scoppiò a piangere. Aveva, ovviamente, rivisto suo padre in ogni parola e in ogni gesto di McCrea.
«Sam era molto entusiasta del film», dice Hayden. «Era entusiasta all’idea di cosa prometteva, all’idea di come sarebbe stato accolto. Sembrava un essere umano felice, cosa che non avveniva spesso. Non penso di averlo mai più visto tanto felice. In seguito, credo, quando le cose funzionavano e andavano bene […] era come se avesse vinto un’altra battaglia e avesse battuto i bastardi. Ma quella sera non sapeva ancora nulla delle guerre che avrebbe dovuto combattere». La MGM organizzò un’anteprima pubblica del film in un cinema di Los Angeles. In un pubblico di 255 spettatori, 201 giudicarono il film da molto buono a notevole, 17 lo trovarono buono e solo uno lo trovò scadente. Ma questo non ripristinò la fiducia dello studio per la sua produzione. Sfida nell’Alta Sierra fu immesso sul mercato nel maggio del 1962 come film di seconda categoria, all’interno di un doppio spettacolo. Il film principale abbinatogli era I tartari, una pomposa pseudoepopea girata in Italia e Jugoslavia, con Orson Welles e Victor Mature. Gli annunci pubblicitari promettevano: «Orde assaltano la fortezza! I tartari rapiscono la Bella Vichinga! Un’orgia per festeggiare la conquista!» La promozione per Sfida nell’Alta Sierra fu inesistente. È difficile immaginare un’illustrazione più vivida della mentalità della MGM: l’epica, di qualsiasi tipo, persino malfatta, era meglio di qualsivoglia film a basso costo che puntasse sulla caratterizzazione dei personaggi. Vogel aveva architettato una profezia che ora si autorealizzava. Aveva previsto che Sfida nell’Alta Sierra sarebbe stato un fiasco e ora, grazie alla scarsa distribuzione, la MGM si stava quasi assicurando che lo fosse. Quasi. Perché c’era un jolly: i critici di New York. «Il giorno dopo uscirono le recensioni», disse Richard Lyons in seguito, «e ovviamente il News ci diede quattro stelle e il Times andò in estasi. Tutti i critici parlavano di questa piccola gemma fatta da un grande studio che non sapeva cosa aveva tra le mani. I direttori dei cinema – tutti quelli della
catena Loew – salirono sulle scalette il giorno dopo per invertire l’ordine degli spettacoli». Anche Life, il New York Herald Tribune e l’Hollywood Reporter scrissero recensioni raggianti. Newsweek lo elesse miglior film dell’anno e il Time lo inserì tra i migliori dieci. Si aggiudicò la Diosa de Plata (Dea d’argento) per il miglior film straniero in Messico, il premio della critica a Parigi, la Foglia d’argento in Svezia e il Grand Prix al Festival internazionale cinematografico del Belgio dove prevalse, tra gli altri, su 8½ di Federico Fellini. A trentasette anni, Peckinpah aveva fatto molta strada dal primo corso di regia alla Fresno State, dove lui e William Walsh avevano usato un maglione arrotolato per simulare il cucciolo morto di Lennie. Sfida nell’Alta Sierra fu un punto di svolta non solo per la carriera di Sam, ma anche per Hollywood e per l’America. Nel 1961 e nel 1962 due nuovi romanzi infiammarono la classifica dei bestseller, Comma 22 e Qualcuno volò sul nido del cuculo. Il primo, scritto da Joseph Heller, ridicolizzava brutalmente la convinzione del «giusto o sbagliato, questo è il mio paese» che aveva dominato la cultura americana negli ultimi due decenni. Comma 22 metteva in discussione la moralità della guerra – di ogni guerra, indipendentemente dalla bandiera e dai valori per i quali si combatteva – mentre l’America si stava preparando a una delle più orribili e inutili in una serie apparentemente infinita di guerre. Nel 1961, gli Stati Uniti avevano 16.000 addetti militari nel Sudest asiatico. Il primo soldato americano fu ucciso in azione in Vietnam in quell’anno. Oltre 50.000 avrebbero fatto la stessa fine nel decennio che seguì. Gli anni 1961 e 1962 portarono anche il disastro della Baia dei porci, lo scontro sfiorato tra i carri armati americani e sovietici a Berlino, la crisi dei missili di Cuba, che portò l’intero pianeta sull’orlo dello sterminio nucleare. L’assurdistico rifiuto del dovere patriottico narrato da Heller cominciava a sembrare l’unica posizione sensata da assumere. Qualcuno volò sul nido del cuculo di Ken Kesey aveva per protagonista Randle Patrick McMurphy, un eroe stile
cowboy, ubriacone, rissoso, giocatore d’azzardo. McMurphy entra in un allegorico reparto psichiatrico, come un pistolero in un saloon, per affrontare la «Capo Infermiera», una personificazione della «mietitrebbia», il complesso militareindustriale che aveva compresso un’intera generazione fino al blando conformismo di una sottile lastra di metallo. I due romanzi erano appelli alla turbolenta rivoluzione sociale che sarebbe arrivata di lì a poco. E, insieme ai tempi, anche i western americani stavano cambiando. Il tema di Sfida nell’Alta Sierra – cowboy senescenti che assistono all’agonia del Selvaggio West – sarebbe diventato uno dei preferiti di Peckinpah. Lo avrebbe esteso e perfezionato nei film successivi, raggiungendo il punto di maggior brillantezza con il capolavoro di fine decennio. Ma non fu certo l’unico a svilupparlo. Una serie di western con problematiche notevolmente simili uscirono quasi in simultanea con Sfida nell’Alta Sierra: Gli spostati del 1961, scritto da Arthur Miller e diretto da John Huston; Solo sotto le stelle del 1962, scritto da Dalton Trumbo e diretto da David Miller; L’uomo che uccise Liberty Valance, scritto da James Warner Bellan e Willis Goldbeck e diretto da John Ford. E un importante romanzo western – Monte Walsh di Jack Schaefer, l’autore di Shane – uscì nel settembre del 1963. Riguardavano tutti cowboy senescenti, incapaci di cambiare insieme ai tempi mentre il filo spinato, il telefono, le linee elettriche, le automobili e le strade asfaltate strangolavano una frontiera un tempo selvaggia e senza limiti. E tutti mostravano una profonda ambivalenza nei confronti del «progresso» che la civiltà aveva portato nel West. Gli anni Cinquanta erano finiti. Nel novembre del 1963 John F. Kennedy sarebbe stato assassinato a Dallas, in Texas, e la luccicante illusione di Camelot si sarebbe sgretolata. Era come se questi western avessero anticipato l’evento, come se i loro creatori avessero in qualche modo subodorato che l’era delle possibilità infinite e degli ideali incontaminati stava repentinamente giungendo a una conclusione e che la
tradizionale mitologia del Selvaggio West aveva già cominciato a perdere la sua rilevanza. L’uomo che uccise Liberty Valance, seppur in alcuni punti smielato in maniera imbarazzante, è indubbiamente il migliore dei tre film sopramenzionati. John Ford – un tempo il poetico predicatore del destino manifesto americano, celebratore della missione dell’uomo bianco volta a conquistare e «civilizzare» la frontiera – stava creando dalla metà degli anni Cinquanta film sempre più oscuri e ambivalenti, che rivelavano forti crepe nei principi un tempo solidi dell’anziano regista. Come Sfida nell’Alta Sierra, L’uomo che uccise Liberty Valance comincia in un West che non è più selvaggio, ma che è stato addomesticato, messo al guinzaglio e che ha imparato a non orinare in casa. I sopravvissuti dei vecchi tempi, coloro che combatterono per rendere la terra sicura per la gente, sono dimenticati, disillusi, pieni di rimpianti. L’uomo che uccise Liberty Valance era un’opera imponente, il capolavoro finale di un vecchio maestro. Ma in questo risiede la differenza cruciale rispetto a Sfida nell’Alta Sierra. Il film di Ford era un punto di arrivo, la visione evanescente, velata dalla cataratta, di una vecchia guardia. Il film di Peckinpah era un punto di partenza. Sfida nell’Alta Sierra fa scintille perché Sam aveva preso la sua tragedia personale – la morte di suo padre – e l’aveva iniettata nel più ampio contesto del mito western. In questo modo, la sua non era più una storia sulla morte di David Peckinpah, ma sulla morte di un’intera generazione di uomini e della mitologia per la quale avevano vissuto, una mitologia in cui Sam Peckinpah e la sua generazione non potevano più credere, indipendentemente da quanto avessero agognato di riuscire a farlo. Fu l’ultimo western tradizionale fatto da Peckinpah. Da questo momento in poi avrebbe pagaiato in acque più profonde e più torbide. Sfida nell’Alta Sierra era uno strano ibrido. Sembrava un western all’antica con eroi in sella e situazioni tradizionali: un’innocente fanciulla che va protetta, un ragazzo svelto ma stolto che impara i giusti valori da un veterano indurito dal suo
passato, la presa di posizione finale, una sparatoria ben delineata. I dialoghi rievocavano centinaia di western usciti prima: «Affrontiamoli a testa alta, a metà strada, come sempre»; «Non voglio che mi vedano così… Portali via»; «Addio, vecchio». Eppure, non era affatto all’antica. Il veloce, quasi subliminale montaggio nella sparatoria finale, il crudo realismo di Coarsegold, il bizzarro surrealismo del Kate’s Place, l’affetto umoristicamente nero che il regista nutriva nei confronti dei suoi cattivi – tutto sembrava unire Peckinpah alle fila dei giovani registi moderni (Stanley Kubrick, John Frankenheimer, Arthur Penn) che cominciavano a impossessarsi del mezzo. Peckinpah era un uomo che teneva un piede nel passato e l’altro nel futuro, e il suo lavoro divenne una sorta di ponte, in grado di rappresentare l’America che era stata e ciò che stava diventando. Ecco perché Sfida nell’Alta Sierra, più che ogni altro suo contendente, catturò il pubblico nel 1962, e perché Peckinpah divenne forse il più importante regista del suo tempo. Fu probabilmente poco dopo l’uscita del film che Peckinpah incontrò per davvero il vecchio maestro, John Ford, per la prima e unica volta, sui gradini del Thalberg Building alla MGM. «Fummo presentati da amici comuni», disse Sam a Garner Simmons. Se Ford ammirava il lavoro di Peckinpah, fu bravissimo a nasconderlo. Contraccambiò la stretta di mano di Sam e si complimentò con pochi, monosillabici grugniti. Non doveva essere stato facile per il vecchio cineasta, il quale aveva sicuramente compreso che la loro era stata molto più di una semplice stretta di mano. Il testimone era stato passato da una generazione alla successiva, e il nuovo decennio sarebbe stato nelle mani del giovane Sam.
L’operazione di trasporto del legname sulla Peckinpah Mountain negli anni Novanta dell’Ottocento.
D. Sammy e Fern Lea nel salotto dei Peckinpah nel 1931 (ritratto di David Peckinpah sulla mensola).
La produzione della Fresno State di My Sister Eileen (1948). Peckinpah è portato in spalla da un attore sulla destra; Marie Selland è all’estrema destra.
La famiglia Peckinpah negli anni Quaranta. Susan è sul ginocchio di David; Sammy, Fern e Fern Lea sono in piedi.
A caccia nelle Sierras nei primi anni Sessanta.
Sam e i compagni del Corpo dei marines a casa in licenza verso la metà degli anni Quaranta. Fern Peckinpah, al centro; Sam, secondo da destra.
Peckinpah dirige Brian Keith in The Westerner (1959).
Peckinpah prepara una ripresa per Sfida nell’Alta Sierra (1962).
Peckinpah corteggia Begonia Palacios sul set di Sierra Charriba (1965). «La Duena» è sulla destra.
Sul set di «Noon Wine» con Jason Robards (1966).
Al centro dello psicodramma Cane di paglia con Dustin Hoffman e Susan George (1971).
Sul set dell’Ultimo buscadero (1972) con Sharon Peckinpah, al centro, e Melissa Peckinpah, a sinistra.
Sul set di Getaway! (1972) con Joie Gould.
Peckinpah e il suo alter ego, James Coburn, riflettono sull’uccisione di Kid in Pat Garrett e Billy Kid (1973).
Con Katy Haber sul set di Voglio la testa di Garcia (1974).
Con Mathew Peckinpah sul set di Killer Elite (1975).
Peckinpah dirige la sparatoria iniziale del Mucchio selvaggio (1969).
Peckinpah dialoga con Pike Bishop (William Holden) sul set del Mucchio selvaggio.
Peckinpah alle prese con il blocco del regista durante le riprese della «battaglia del portico insanguinato» per Il mucchio selvaggio.
Peckinpah e Jason Robards ispezionano uno dei serpenti a sonagli che lanceranno sulle teste di Strother Martin e L.Q. Jones nella Ballata di Cable Hogue (1970).
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MOBY DICK A CAVALLO
Sam Peckinpah aveva seguito una parabola straordinaria: da sceneggiatore tv ad acclamato regista cinematografico in soli tre anni. Ma i tre anni seguenti lo avrebbero riportato con i piedi per terra. Finalmente gli sarebbe stata data l’opportunità di dirigere produzioni hollywoodiane ad alto budget e piene di star, ma il suo sogno sarebbe diventato un incubo. Scoprì che gli studi cinematografici ospitavano miriadi di equivalenti di J.W. Wright e William DeMille. Considerati i milioni di dollari in ballo per i film che stava dirigendo, i conflitti con loro divennero presto una lotta senza quartiere. I produttori vedevano l’ossessivo perfezionismo di Peckinpah come una forma di pazzia; lui considerava la loro mentalità capitalistica stupidamente miope. Quando il fumo si dissolse sul campo di battaglia, della carriera di Peckinpah non restavano che rovine. L’amarezza lasciata da questa esperienza alimentò un antagonismo nei confronti degli uomini d’affari che non lo avrebbe più abbandonato e che avrebbe alla fine compromesso la sua capacità di fare film. Ma al tempo Sam non poteva immaginare cosa gli riservasse il futuro. Nella primavera del 1963 la vita era bella; stava tornando a splendere il sole dopo l’oscurità del 1960. Aveva lasciato l’Holiday House e aveva affittato la Bird View House che dava sull’oceano a Point Dume, pochi chilometri a nord della Colonia. Era una casetta a schiera stile anni Cinquanta con grandi gabbiani neri dipinti sulla porta del garage, una
piscina, un’ampia cucina, un caminetto in pietra e una guest house indipendente al di sotto del pianterreno. L’arredamento era confuso: mobilio danese scelto da una delle segretarie di Sam; un disegno a carboncino di una delicata ragazza indiana che si accarezza le lunghe ciocche di capelli neri; un ferro per marchiatura arrugginito e qualche altro autentico oggetto da cowboy. Questo era quanto. Le case, i condomini, le stanze d’albergo, le baite e le roulotte occupate da Sam da questo momento fino alla fine della sua vita avevano tutte un’apparenza caotica, ingombra, come se avesse appena disfatto le valigie, non avesse avuto tempo di sistemare le sue cose e non avesse intenzione di restare a lungo – e generalmente era così. L’atmosfera era l’esatto contrario della casa arredata in cui era cresciuto. Non c’erano ciotole piene di frutta in cera, né tende drappeggiate; lo scompiglio in cui viveva era un’aperta rivolta nei confronti dei gusti soffocanti tra i quali era cresciuto. Si era comprato una vecchia Corvette grigia convertibile, come quella in cui Martin Milner e George Maharis sfrecciavano lungo il paese in Route 66. Stava vivendo la vita di un eccitante scapolo di Malibu. John Kennedy era ancora vivo; l’America aveva un attraente playboy nello Studio Ovale. Frank Sinatra, Dean Martin e il James Bond di Ian Fleming (il personaggio letterario preferito di Kennedy) erano icone mitiche, che sorseggiavano martini e seducevano donne, e che tutti gli uomini gagliardi ambivano a emulare. Per un emergente regista di Hollywood, le occasioni di realizzare le proprie fantasie erano infinite. (In un biglietto indirizzato a Peckinpah più o meno in quegli anni, l’attore James Drury gli passava il numero di una procace e disponibile attricetta – «Betty Cherokee» – con l’incitazione «Colpisci! Colpisci! Colpisci!») La parata di donne che varcavano la soglia della sua camera da letto nella Bird View era sinceramente impressionante. Sam aveva un telescopio sulla terrazza della Bird View, non certo per avvistare le balene, bensì per adocchiare giovani donne che passeggiavano sulla spiaggia
bianca. Quando ne avvistava un paio che sembravano promettenti, insieme al compare di turno prendeva un paio di vodka tonic e scendeva in picchiata dal nido dell’aquila per intercettarle. «Era fantastico a letto», dice una donna che ebbe una storia con lui in quel periodo. «Davvero, il migliore! E credetemi, ne ho avuti a bizzeffe!» Le bambine andavano a trovarlo quasi tutti i weekend. Sam comprò un Water Wiggle, un lungo e sottile tubo di gomma con una faccia buffa a un’estremità e un ugello all’altra che si attaccava a qualsiasi pompa da giardino. Quando si apriva l’acqua, il Wiggle volava in aria, ondeggiando come un serpente impantanato e spruzzando acqua in tutte le direzioni. Le ragazze ci giocavano per ore e si esercitavano a tuffarsi nella parte bassa della piscina, fuoriuscendone a fine giornata come un trio di prugne clorurate. Alcuni fine settimana, Sam faceva lavoretti in giardino con le figlie come aveva fatto un tempo con la madre. Amava piantare cose, sradicare le erbacce; in quei pomeriggi lontani dalle folle di amici sembrava quasi sereno. Ma poi suonava il telefono, una chiamata da un produttore o da uno sceneggiatore riguardo a qualche progetto al quale stava lavorando, e quando tornava dalla conversazione il suo atteggiamento era cambiato. All’improvviso era arrabbiato, urlava contro le bambine perché non sradicavano le erbacce nel modo giusto o perché non lavoravano abbastanza velocemente – sembrava che qualunque scusa potesse fare al caso suo. L’ostilità che un tempo Sam riservava a Marie era ora diretta sempre più spesso anche alle figlie. Nella foga della rabbia si ritrovava a dire a Sharon: «Sei proprio come tua madre!» La più grande fonte d’irritazione per lui era il modo in cui Marie stava crescendo le sue figlie. Aveva un approccio «laissez-faire» per quanto riguardava la disciplina, un atteggiamento noncurante sul loro impegno a scuola, e imponeva loro pochissime restrizioni e comandi. Era l’esatto
opposto del modo in cui era stato educato Sam. Lo stesso Sam, spesso occupato con il lavoro o con gli amici di bevute, era ancora meno presente come guida. Eppure ogni tanto era colto dal bisogno di affermarsi come autorità e così spesso esagerava – trasformandosi quasi nella caricatura di suo padre – e l’improvviso passaggio da un benevolo disinteresse a una rabbia dispotica terrorizzava e allo stesso tempo confondeva le bambine. Sharon, la più grande, ebbe la peggio. «Sharon era una ribelle, per cui Sam era più duro con lei», dice Fern Lea. «Era molto cattivo. Ricordo che Sharon stava mangiando qualcosa e la fece cadere per terra e Sam disse: “Raccoglilo! È così che fai a casa tua?” Era cattivo con lei davanti ad altre persone». Non che le più piccole fossero immuni dalla rabbia del padre; entrambe ebbero la loro porzione di urla e sculacciate. Ma poi c’erano gli altri momenti, quelli in cui sapeva essere meraviglioso. Come il giorno in cui Kristen si chiuse il pollice nella portiera della Corvette. Stavano lasciando Sharon a casa di un’amica a Point Dume. Sharon saltò fuori e corse sul vialetto fino all’ingresso principale. Impaziente di raggiungere la fermata successiva – il supermercato, dove il padre le comprava sempre le schifezze che sua madre le aveva proibito – Kristen si sbatté la portiera dritta sul pollice. Urlò. Sam armeggiò con la cintura di sicurezza, per un attimo incapace di sbloccarla. Finalmente liberatosi, corse dall’altra parte e aprì la portiera. Il pollice era lacerato e sanguinante. Fornendo un esempio di calma autorevolezza, Sam le avvolse la mano in una camicia da notte di Sharon lasciata nell’auto, e guidò velocemente ma con prudenza fino allo studio di un dottore del posto. «Gli facciamo dare un’occhiata per essere sicuri che sia tutto a posto», disse con naturalezza, obbedendo alla dottrina del padre per cui in una crisi bisogna sempre mostrarsi forti davanti ai propri figli. Il dottore mise Kristen su un lettino da visita e stabilì subito che ci volevano dei punti. «Non guardare, girati dall’altra parte», le consigliò Sam mentre il dottore si metteva all’opera. Sfortunatamente non riuscì a seguire il suo stesso
consiglio e la vista dell’ago e del filo che entravano e uscivano dalla carne di sua figlia gli fece venire un capogiro. L’infermiera, vedendo che stava per svenire, gli mise sotto una sedia giusto in tempo. I fan dei successivi film di «Sam il Sanguinario», del «Picasso della violenza» faranno fatica a credere che la vista di un dito tagliato potesse metterlo fuori combattimento. Ma Kristen non vi trova alcuna incongruenza. «Credo sia la classica dimostrazione del fatto che si tende a ritrarre nella propria arte ciò che ci spaventa di più nella realtà». Nel gennaio del 1962 Sam ebbe un quarto bambino – un maschio, Mathew Peckinpah – concepito dopo essersene andato dalla casa nella Colonia. Quasi un anno dopo, Sam scrisse su un foglio di taccuino giallo: «Qualunque agonia della perdita corteggiassi un tempo, la rinnego oggi. Quanto sono fortunato ad avere i miei figli, i miei quattro assi, a essere innamorato. Terrorizzato – preoccupato – colmo di un dolce piacere – meravigliato. Affacciato verso il lontano Occidente, un breve sguardo, e una mano così piccola e bella (oltre ogni descrizione) che allungandosi prende la mia e, sicura e fiduciosa, conduce entrambi attraverso porte aperte nella luce. Ridenti occhi marroni – 11 mesi di amore, lo chiamo figlio e ringrazio Dio che ha avuto il tempo di sorridermi ancora». Fu durante questo periodo che Sam cominciò a fare cospicue donazioni a Save the Children, un’organizzazione no profit che forniva supporto economico ai bambini poveri di tutto il mondo. Nel giro di sedici anni, Peckinpah finanziò un totale di diciotto bambini – sudcoreani, messicani e indiani d’America. I soldi (180 dollari per ogni bambino) servirono ad acquistare cibo, indumenti, assistenza medica e attrezzature scolastiche. Sam «adottò» quattro bambini, cioè continuò a pagare quindici dollari al mese per ognuno di loro finché non finirono le superiori. I bambini scrivevano regolarmente al loro benefattore, chiamandolo «Padre», «Padre adottivo», «Zio» o «Sam». Lo ringraziavano per il suo aiuto, gli dicevano cosa avevano comprato con le sue donazioni, raccontavano gli eventi della loro vita giorno per giorno e gli chiedevano della
vita in America, in Inghilterra, in Messico, in Jugoslavia o dovunque Sam si trovasse per girare film. Qualcuno riuscì addirittura a vedere alcuni dei suoi film e gli scrisse per dirgli quanto gli fossero piaciuti, cosa che deliziava infinitamente il papà americano. E Sam rispondeva loro puntualmente, raccontando della sua vita nomade, dei suoi figli, dei viaggi per cacciare, dei film che stava girando o di cosa cercava di dire attraverso la sua arte. Il 16 gennaio 1971 Sam scrisse da Londra a una ragazzina coreana, Un Kyong Lee: «C’è stata la neve questo Natale e mio figlio, che è venuto a trovarmi dall’America, è andato sullo slittino e gli è piaciuto moltissimo. In America, da dove vengo io, non si vede spesso la neve, per cui è stata una bellissima esperienza per lui. Mi sarebbe piaciuto poter assaggiare le deliziose gallette di riso che hai mangiato per il Ringraziamento, dovevano essere meravigliose. Anche noi abbiamo fatto una grande festa per il Ringraziamento, ma le gallette di riso non c’erano». Il 19 settembre 1974 scrisse di nuovo a Lee: «Mi spiace apprendere che tuo fratello non sta bene. Per favore, fammi sapere se c’è qualcosa che posso fare per trovargli un bravo dottore… Continua a impegnarti nel basket, ma non dimenticare che la scuola viene prima. L’istruzione è la cosa più importante che ci sia, ciò che non impari ora lo rimpiangerai per il resto della vita». Quando il fratello di Un Kyong Lee si ammalò, Sam inviò 400 dollari per pagare un’operazione di cui aveva bisogno. Quando uno dei suoi figli adottivi smise di mandargli lettere, Sam scrisse immediatamente una lettera all’associazione, preoccupato che fosse successo qualcosa al bambino, chiedendo di fare un’indagine. Mentre verso la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta la sua carriera andava consolidandosi e il suo rapporto con i figli deteriorandosi, Peckinpah finanziava un numero sempre maggiore di bambini poveri. Quando amici o
soci morivano, sosteneva un bambino povero a loro nome e in vece dei parenti sopravvissuti. Felicia Balzaretti, vedova di Juan Balzaretti, ricevette questo biglietto dalla segretaria di Sam il 9 luglio 1975: «In allegato trova una lettera da parte di Gung Doe Soo, la bambina che Sam sta sostenendo per lei in memoria di Juan. Sarebbe bello se potesse risponderle, ma se non fosse possibile, la prego di farmelo sapere: in tal caso, infatti, avvieremo noi una corrispondenza con la bambina, poiché significa molto per loro». A quanto pare la Balzaretti non ebbe tempo di rispondere alla ragazzina perché Sam cominciò a scriverle poco dopo. Quando l’afflusso di denaro si prosciugò nel 1979, aveva ormai donato più di 15.000 dollari all’organizzazione. Nel 1968 Save the Children gli conferì l’Humanitarian Fellowship Award in riconoscimento del suo generoso contributo. Sam scrisse in risposta: «È un grande piacere ricevere il… premio: tuttavia, non ritengo di meritarlo. Siamo piuttosto noi patrocinatori che dobbiamo rivolgere la nostra profonda gratitudine e il nostro apprezzamento alla vostra eccezionale organizzazione, che ci permette di essere d’aiuto ai bambini bisognosi di tutto il mondo. La Federazione sta facendo un magnifico lavoro, e sono felice di esserne una piccola parte». Non si trattava di falsa modestia. A 180 dollari l’uno, i sostegni ai bambini erano un vero affare considerato ciò che Sam otteneva in cambio: la possibilità di essere il padre ideale, generoso, attento, amorevole e libero da tutte le contraddizioni e i difetti che avevano segnato il rapporto con i suoi figli naturali. Nel 1963 i premi per Sfida nell’Alta Sierra cominciarono ad arrivare e i power broker di Hollywood iniziarono finalmente a notare il giovane regista. Jerry Bresler – un cinquantenne con il corpo a pera e un’incipiente calvizie – aveva prodotto una serie di prevedibili film d’azione (I vichinghi), trite soap opera (Il dominatore con Charlton Heston) e deboli commedie (Gidget Goes Hawaiian, Gidget a Roma). Nel 1963 ottenne un contratto multi-film con
la Columbia Pictures. Tra Heston e Bresler era nato un rapporto di amicizia sul set del Dominatore, così il produttore cominciò a guardarsi intorno in cerca di una nuova occasione per la star. Trovò così un trattamento di trentasette pagine di Harry Julian Fink (che avrebbe scritto in seguito Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!) intitolato And Then Came the Tiger! Narrava la storia di un ufficiale di cavalleria dell’Unione, il maggiore Amos Charles Dundee, esiliato in un remoto avamposto del New Mexico durante gli ultimi giorni della guerra civile, per tenere d’occhio una prigione piena di soldati confederati. Quando uno scatenato capo Apache, Sierra Charriba, elimina un’intera compagnia del reggimento di Dundee, il maggiore decide che è stanco di fare il guardiano. Mette insieme un esercito di fortuna composto da soldati dell’Unione, prigionieri confederati, tagliagole e ladri locali e va alla carica contro gli indiani. Dundee è così ossessionato dalla sua sete di vendetta da condurre i suoi uomini attraverso il Rio Grande in una marcia di quasi 4000 chilometri tra le montagne e i deserti del Messico, invischiato in una delle sue numerose rivoluzioni. I Juaristi si stanno scontrando con 70.000 soldati francesi che hanno occupato il loro paese e Dundee capisce presto di doversi battere anche con i francesi, che considerano la sua incursione una violazione del diritto internazionale. Quando dieci mesi dopo ricondurrà attraverso il Rio Grande uno sfinito gruppo di sopravvissuti, non solo avrà catturato e ucciso l’Apache, ma fronteggiato e battuto sul campo di battaglia il miglior esercito d’Europa e scolpito il proprio nome nella storia. Bresler diede il trattamento a Heston, che lo lesse e concordò sul suo potenziale. Heston era solleticato dall’idea di un gruppo di soldati dell’Unione e confederati costretti dalle circostanze a lavorare e combattere come un’unità. Aveva sempre voluto fare un film sulla guerra civile. Usando il reggimento di Dundee come microcosmo, si poteva indagare sulle dinamiche dell’evento più traumatico della storia americana. Ma per farlo serviva una mano forte che facesse da
guida, un regista d’eccezione con una visione che gli consentisse di sviluppare il trattamento appena abbozzato di Fink in una sceneggiatura doviziosamente elaborata. Se Bresler fosse riuscito a trovarlo, Heston si sarebbe impegnato nel progetto. I dirigenti della Columbia risposero con un entusiasmo anche maggiore. Parlavano di renderlo una grossa produzione, facendola uscire magari addirittura in roadshow. John Ford sarebbe stato il regista perfetto per Sierra Charriba, ma era già impegnato con la Warner Bros. per una sua colossale epopea, Il grande sentiero. Bresler però non impiegò molto a ripiegare sulla migliore seconda scelta: l’innovatore che, secondo la critica, si stava lasciando alle spalle Ford per portare il western verso un nuovo, eccitante territorio. Bresler mostrò Sfida nell’Alta Sierra a Heston negli studi. Quando le luci si riaccesero dopo i titoli di coda, Heston si girò verso il produttore e gli disse: «Usiamolo». Così le trentasette pagine di trattamento arrivarono tramite corriere alla porta della Bird View e Sam si sedette sulla lunga ringhiera e le lesse d’un fiato. La storia di un ufficiale di cavalleria bandito che si lancia alla carica nel mezzo della rivoluzione messicana scatenò la sua adrenalina. Vi riconobbe un’altra occasione per riprendere il personaggio di Custer. Nelle mani di Sam, Dundee poteva diventare un uomo che, come Custer, avrebbe cambiato il corso della storia e sarebbe stato ricordato nei libri di testo come un eroe. Ma nella realtà il maggiore non sarebbe stato spinto tanto da un sentimento di giustizia o da un ideale, quanto piuttosto dalla sua stessa spietata ambizione e da demoni corrosivi. Sam conosceva fin troppo bene quel genere di uomo. Ma al trattamento di Fink mancava questa complessità. La contorta trama dello scrittore era letteralmente un soqquadro di idee. I dialoghi erano in puro stile Louis L’Amour e in generale il copione denotava una fascinazione adolescenziale per la violenza grottesca, a un punto tale che spesso risultava divertente più che spaventoso, o ripugnante più che illuminante. Ma Sam confidava di poter persuadere,
spingere e costringere Fink a far uscire il vero potenziale della storia. Sam firmò per 50.000 dollari – oltre quattro volte la commissione di Sfida nell’Alta Sierra. Dopo i primi incontri per discutere la storia con Bresler e Heston, cominciò a supervisionare la prima bozza di sceneggiatura rielaborata da Fink nel giugno del 1963. Peckinpah voleva far salire a bordo Lucien Ballard come direttore della fotografia, ma Bresler prevalse, insistendo perché usasse Sam Leavitt, che aveva girato Il dominatore e anche Anatomia di un omicidio e 38° parallelo: missione compiuta. Allo stesso modo, la maggior parte del personale di produzione – tra cui il primo aiuto regista John Veitch, il segretario di edizione John Dutton, il costumista Tom Dawson e il direttore artistico Al Ybarra – furono scelti dallo studio, non da Peckinpah, e buona parte aveva un contratto a lungo termine con la Columbia. Sam era grato di avere talenti di quel calibro a sua disposizione, ma rendersi conto che era lo studio a tenere le redini provocò in lui delle prime, sottili tensioni. Nella prima settimana di luglio, Peckinpah partì per il Messico con i membri chiave della troupe per selezionare le location per il film. Jerry Bresler doveva ricoverarsi in ospedale per un intervento e non poté unirsi a loro – cosa che in seguito avrebbe profondamente rimpianto. Dopo aver imposto contratti ai Churubusco Studios a Città del Messico, Sam si spinse nell’interno del paese per cercare le location per il suo film. Generalmente le location vengono scelte una vicina all’altra per offrire un’ampia varietà di terreno e ridurre al minimo la necessità di grandi spostamenti da parte della compagnia. Una produzione di questa portata avrebbe richiesto centinaia di membri della troupe, attori, comparse e ronzini, più camion colmi di oggetti di scena, costumi e attrezzature. Trasportare una tale mastodontica operazione da una remota location all’altra avrebbe allungato costi e tempi delle riprese e fatto schizzare il budget alle stelle.
Ma questo sembrava preoccupare poco Sam mentre selezionava una serie di luoghi remoti distesi lungo tutto il territorio del Messico centrale, dalla città mineraria di Durango, nel nord, al rovente Guerrero Desert a sudovest di Città del Messico e alle tiepide acque di Rio Balsas, dove Sam decise di ambientare la battaglia finale con la cavalleria francese. «Sam, come tutti i registi, si faceva prendere dall’eccitazione per la storia che stava per raccontare», dice John Veitch, che aveva lavorato come aiuto regista sia di John Ford che di George Stevens. «Da perfezionista qual era, voleva luoghi diversi per ogni scena. C’era una progressione temporale [nella storia] e sentiva che lui e gli attori sarebbero stati più a proprio agio in luoghi diversi e che più si fossero spostati nel profondo Messico, meglio sarebbe stato». Quando Peckinpah tornò agli studi della Columbia ed espose le location che aveva scelto, Jerry Bresler restò inorridito. Tuttavia, non volendo inimicarsi un regista determinato che si era già guadagnato la fiducia della sua star, Bresler accettò il piano di Sam. Peckinpah si era fatto le ossa con la televisione e i film a basso costo. Sapeva come lavorare in fretta; forse sarebbe riuscito a recuperare il tempo perduto in quei grandi spostamenti. Inoltre, persino Bresler doveva ammettere che dalle bozze realizzate dall’artista Jim Silke le location sembravano fantastiche. Poi arrivò la prima di una lunga serie di crisi. Harry Julian Fink consegnò il copione che aveva prodotto mentre Sam era via. Una sceneggiatura conta in media dalle 110 alle 140 pagine, e ogni pagina equivale all’incirca a un minuto sullo schermo. Il copione di Fink, che copriva solo un terzo della linea generale della trama che lui e Peckinpah avevano sviluppato, contava 163 pagine. Man mano che la sua lettura del tomo di Fink progrediva, il disappunto di Sam si tramutava in rabbia. Il 13 settembre 1963 scrisse a Fink: «Per dirla francamente, sono sconcertato… nessuna società di produzione e nessun regista
potrebbe o vorrebbe mai girare il tuo copione… non voglio avervi alcuna parte». L’inizio delle riprese fu fissato per il 1° dicembre. La società aveva una star, i membri chiave della troupe, le location, ma nulla che sembrasse neanche lontanamente una sceneggiatura realizzabile. Ci voleva un’azione drastica. Innanzitutto, Bresler fece spostare la data d’inizio al 6 febbraio, il termine ultimo possibile considerato che Heston sarebbe stato impegnato con le riprese di Il tormento e l’estasi subito dopo Sierra Charriba. Un ulteriore ritardo e avrebbero perso la loro star e i finanziamenti per il film. Successivamente, Bresler ingaggiò un nuovo sceneggiatore, Oscar Saul, che aveva scritto l’adattamento cinematografico di Un tram che si chiama Desiderio di Williams. Peckinpah e Saul avrebbero passato al setaccio il materiale di Fink e avrebbero tentato di mettere insieme un copione. Il dipartimento ricerche della Columbia aveva fornito loro un’enciclopedia di undici volumi sulla guerra civile. Peckinpah e Saul la lessero attentamente insieme a un faldone pieno di citazioni di vari filosofi sulla natura e sul senso della guerra. Una di Immanuel Kant fornì il tema sottinteso di Sierra Charriba. «La guerra non richiede alcun motivo particolare; sembra insita nella natura umana; passa addirittura per atto di grandezza al quale si è spinti per il solo amore della gloria e per nessun altro motivo». «Quando scendi in battaglia, gli ideali vengono dimenticati», rielabora il concetto Saul. «C’erano molte cose nel copione che riprendemmo in seguito su quanto fosse più facile per gli uomini andare in guerra che assumersi delle vere responsabilità, come costruirsi una casa e accudire una famiglia. Ciò che Sam voleva mostrare con Sierra Charriba, e che poi ribadì con grande successo nel Mucchio selvaggio, era il desiderio di morte nascosto dietro il mito western. I suoi protagonisti erano tanto pronti a morire quanto a bersi una birra». L’idea di base del film cominciò ad assumere il giusto rilievo: più Dundee guida i suoi uomini nelle profondità del
Messico alla ricerca degli Apache, più la loro patina di civiltà si sgretola; alla fine diventa impossibile distinguerli dai selvaggi a cui danno la caccia. Mesi dopo, quando Peckinpah inviò una copia della sceneggiatura completa a R.G. Armstrong (che avrebbe interpretato un altro folle predicatore nel film, tuonando nel mezzo delle scene di battaglia con un fucile e una Bibbia in mano: «Onnipotente è la mano del Signore»), l’attore lo chiamò e gli disse: «Sam, questo è Moby Dick a cavallo!» «Cavolo, R.G.», ringhiò Sam, «tu e Oscar Saul siete gli unici che se ne rendono conto!» Il copione non era altro che un assalto frontale alle romantiche epopee a cavallo di John Ford. Puntualmente nei film di Ford le disparate personalità che compongono un reggimento si uniscono in nome di ideali comuni, di una visione condivisa. Ma i soldati di Dundee saltano uno alla gola dell’altro a ogni svolta: giocose lotte con i coltelli diventano duelli letali; un bigotto del sud insulta un soldato nero dividendo il resto degli uomini e portando l’unità a un passo dal massacrarsi da sola; e Dundee e il suo comandante in seconda, il capitano Tyreen, sono sempre a un pelo dallo spararsi a vicenda. Tuttavia, sebbene Peckinpah e Saul fossero capaci di sviluppare un ricco mix di personaggi, scene ed elementi tematici, non riuscirono a comporli in una storia solida. La prima metà del copione metteva in moto l’azione con abilità e grande stile, ma poi la trama cominciava a incespicare, ricadendo su complicazioni superficiali – interessi amorosi scontati, digressioni belliche con le truppe francesi – che portavano la narrazione a una brusca frenata senza esplorare fino in fondo quei conflitti drammatici che erano stati presentati con tanta perizia. Saul sapeva che erano nei guai e cercò di convincerne Peckinpah. Ma Sam – debole nella strutturazione della storia e sopraffatto dall’estesa logistica della produzione – scosse
semplicemente la testa e rispose: «Funzionerà, ti stai preoccupando per niente». «Sam era così istintivo: se una cosa non era tra le pagine, credeva di poter trovare l’oro direttamente sul set», dice Saul. «A volte accade, ma molto più spesso no. Quello fu l’inizio dei problemi tra Sam e Bresler. Jerry era un produttore partecipativo, era molto bravo. Ma Jerry era comunque un produttore, e con questo voglio dire che teneva sempre un occhio sul budget e l’altro su una trama lineare. Non gli interessava innovare, anche perché quando fai il pioniere ti ritrovi improvvisamente sull’orlo di un precipizio e non puoi che andare a fondo. Questo capita ai pionieri». Nel frattempo, con la data d’inizio sempre più incombente, Peckinpah aveva una miriade di altri problemi cui far fronte, ad esempio completare il cast. Richard Harris firmò per la parte del comandante in seconda di Heston, un ufficiale dei Confederati ed ex compagno a West Point, il capitano Benjamin Tyreen. Jim Hutton, James Coburn, Michael Anderson, Warren Oates, Ben Johnson, L.Q. Jones, Slim Pickens, John Davis Chandler e Dub Taylor ottennero le altre parti principali. Poi, solo due giorni prima che la compagnia si trasferisse in Messico per cominciare le riprese, arrivò il disastro. Bresler chiamò, la voce acuta e tesa: aveva brutte notizie. Sol Schwartz, capo della produzione alla Columbia, era stato sostituito da Mike Frankovich. Dopo aver rivalutato la propria posizione rispetto a Sierra Charriba, la nuova amministrazione decise che il progetto non meritava un budget eccessivo o una distribuzione in roadshow. La pellicola sarebbe stata declassata a western standard e il suo budget di 4,5 milioni di dollari ridotto a tre milioni. Per fare questo, era necessario sottrarre quindici giorni ai settantacinque inizialmente previsti dal programma delle riprese. Gordon Stulberg, al tempo direttore esecutivo dello studio, spiega le ragioni del dietrofront della Columbia: «Guardando le statistiche dell’industria, è evidente come la metà degli anni Sessanta costituisse il nadir dell’economia
cinematografica in termini di botteghino. Partendo dal 1954 e seguendo l’andamento dell’industria fino al 1969 circa, il numero dei cinema negli Stati Uniti cala da 28.000 a 21.000 – una flessione di circa il 30%. E, cosa ancor più importante, le presenze calano da circa 1,1 miliardi all’anno a 900 milioni. Stiamo parlando di una flessione di quasi il 12,5% nel numero di biglietti venduti. L’industria venne scossa da quanto stava accadendo agli incassi. Ogni società in quegli anni stava ricontrollando attentamente quanto spendeva per i propri film». Persino l’epico Il grande sentiero di John Ford ne subì le conseguenze. La Warner Bros. lo declassò da un’uscita in roadshow a pellicola standard. Ma Sam Peckinpah, incurante di queste tendenze economiche dominanti, prese la riduzione del budget come un tradimento personale di magnitudine assoluta. Bresler, trovatosi nel mezzo, tentò di rassicurare da una parte i pezzi grossi dello studio e dall’altra il suo regista dalla testa calda. A Peckinpah disse: «Lascia fare a me, me ne occuperò io» – sottintendendo che una volta nel vivo delle riprese avrebbe convinto la Columbia a concedere loro un po’ di tolleranza. A Frankovich sussurrò: «Nessun problema, guarda, farò in modo che Sam tagli il copione mentre giriamo. Doveva essere rivisto comunque. Taglieremo delle scene, semplificheremo, e in questo modo ridurremo i giorni di riprese». Così la produzione andò avanti con una nube di illusioni che incombeva sia sui dirigenti della Columbia che sul regista del film. Avendo già cominciato a diffidare del suo produttore, Peckinpah aveva preso autonomamente una decisione. Pensava che una volta cominciate le riprese e quando i pezzi grossi della Columbia avessero visto il suo girato, avrebbero cambiato idea di colpo e rimesso i loro soldi sul film. Era, come ammise in seguito lui stesso, una convinzione pericolosamente ingenua. La decisione più saggia sarebbe stata «dire loro tutto senza equivoci… che tipo di film avevo
in mente, piuttosto che dare per scontato che mi avrebbero lasciato fare di testa mia». Quando il 6 febbraio a Durango, in Messico, le riprese cominciarono, Peckinpah partì all’attacco usando la stessa strategia alla Parris Island di scomposizione e riassemblaggio della troupe che aveva usato per Sfida nell’Alta Sierra. Jim Silke, uno scrittore e grafico che aveva fatto amicizia con Sam dopo averlo intervistato per la rivista Cinema, si ritrovò arruolato per la campagna. Prima che la compagnia partisse per il Messico, Sam aveva fatto abbozzare a Silke il progressivo deterioramento dei costumi di ogni personaggio man mano che si addentravano nel profondo Messico all’inseguimento degli Apache. Poi, pochi giorni prima dell’inizio delle riprese, l’artista ricevette una telefonata agitata da Durango. Sam odiava i costumi, stava licenziando «procuratori di stracci» a destra e a manca e voleva che Silke prendesse immediatamente un aereo per raggiungerli e rimediare alla situazione. Ore dopo si trovò su un aereo diretto a sud. Silke disse in seguito a Garner Simmons: «Il mio problema fu ricreare i costumi per le comparse messicane. Il tipo che se ne occupava era bravo – o almeno credevo lo fosse – ma non era tagliato per questo lavoro». Gordon Dawson, il figlio ventiseienne del responsabile del reparto costumi della Columbia, fu un altro rinforzo inviato a sud del confine. Aveva esordito nella produzione come umile assistente, lavorando nel seminterrato degli studi per invecchiare i costumi degli attori prima che venissero inviati in Messico. La maggior parte delle persone avrebbe trovato questo lavoro angosciosamente noioso, ma il giovane Dawson lo trovava stranamente eccitante. Divenne ossessionato dal suo compito, al quale si dedicava giorno e notte. «Mi piaceva moltissimo e inventai nuove tecniche per invecchiare le cose con fiamme ossidriche, colla e filo». Quando Peckinpah vide il risultato finale disse: «Portatemi qui la persona che l’ha fatto».
«Peckinpah mi spaventava a morte», dice Dawson, «e non ero certo l’unico – tutti erano terrorizzati da lui, perché licenziava gente a destra e a manca. Gli armaioli non avevano portato abbastanza munizioni a salve, le pistole non andavano bene, si inceppavano. Sam faceva sparare interi caricatori, nelle prove e non. Quelli del suono erano nei guai da quando il tecnico aveva dovuto far interrompere le riprese perché il suono non andava bene, e si era ritrovato sotto tiro per il resto del film. Sam mise talmente in imbarazzo un cameraman di nome George Nogle che il tipo non lavorò più. Tremava così tanto che non poteva più lavorare. Sam gridava e urlava, era davvero feroce sul set, semplicemente terribile. Non aveva nemmeno bisogno di urlare, in realtà: poteva ridurti a brandelli con un dannato sussurro, facendoti pure piegare per sentirlo». Quando George Stevens seppe in seguito di tutte le persone che Peckinpah aveva licenziato da Sierra Charriba (un totale di quindici) commentò seccamente: «Sembra stesse cercando di fare un buon film». Ma vedendo Peckinpah dirigere per la prima volta, Jim Silke capì che le maniere da sergente istruttore urlante di Sam non erano che una facciata. Dietro di essa, quell’uomo era spaventato a morte. «Era sopraffatto, perso e terrorizzato, assolutamente terrorizzato. Si ubriacò pesantemente prima che cominciassimo a girare e mi afferrò e mi disse che ero il solo sul set di cui si fidasse. Poi afferrò Mario Adorf [uno degli attori] e gli disse la stessa cosa. Fu così che cominciammo». Peckinpah continuò a bere pesantemente quasi tutte le sere, terminate le riprese. A causa del caos in cui Sam aveva gettato la società e del suo ossessivo perfezionismo per i dettagli, la prima settimana di riprese procedette lentamente. Questo sarebbe diventato uno schema ricorrente nella maggior parte delle successive produzioni di Peckinpah: Sam partiva sempre lentamente, procedendo a tentoni alla ricerca del giusto tono, sforzandosi per mettere a fuoco ogni singolo personaggio, le loro relazioni e i loro conflitti. Jerry Bresler stava producendo un altro film nello stesso momento ad Acapulco – una sdolcinata soap opera, Strani
Amori (o Strani Rumori, come sarebbero arrivati a chiamarla deridendola i rudi membri della compagnia di Sierra Charriba). Era costretto a volare avanti e indietro tra le due produzioni e si perse così i primi giorni di riprese di Sierra Charriba. Quando Bresler arrivò finalmente a Durango e vide i pochi progressi che erano stati fatti, andò nel panico e cominciò a stare col fiato sul collo di Peckinpah, commentando il suo allestimento e le sue inquadrature. Sam rivolse uno sguardo elettrico al suo produttore. Bresler era uno spettacolo comico, lì col suo completo a tre pezzi nel mezzo del desolato deserto messicano – un calvo pinguino sperduto e lontano da casa. «Jerry», mormorò Sam con una voce secca quanto un torrente cosparso di rocce, «non girerò un solo centimetro di questa pellicola finché non te ne vai dal set». Poiché ogni secondo sprecato gli costava migliaia di dollari, Bresler non aveva altra scelta che obbedire. Peckinpah aveva vinto un’importante schermaglia, ma quando la compagnia si spostò nella successiva location a Durango, una settimana dopo, per cominciare a girare la sequenza in cui Dundee e i suoi soldati occupano un villaggio messicano, il regista cominciò chiaramente ad annaspare. I film, certo, sono girati senza rispettare la sequenza cronologica, e le scene nel villaggio hanno luogo nel bel mezzo della storia, precisamente nel punto in cui il copione comincia a essere più sfocato. Peckinpah alla fine se ne rese conto e cominciò a riscrivere dialoghi febbrilmente con l’aiuto di Charlton Heston, Richard Harris e Jim Silke. Girava e rigirava le scene, sperando di trovarvi in qualche modo un senso. «Sam cominciò la sequenza del villaggio e non faceva che girare, girare, girare», dice Silke. «Non sapevamo cosa stavamo facendo. Per capirci, nessuna di quelle riprese è nel film finito. Ma fece la stessa cosa nel Mucchio selvaggio. La scena del villaggio nel Mucchio selvaggio andava avanti per quarantacinque minuti nel primo montaggio, poi tagliò, tagliò, tagliò finché non arrivò alla versione che esiste ora. Questo è il
suo modo di procedere. Non sa davvero cosa sta cercando finché non lo trova. Sam si perdeva sempre nel secondo atto, non sapeva davvero in cosa consistesse. E va bene, perché devi perderti per trovare la tua strada, cosa ancor più vera quando si lavora con la narrazione. Solo che ti costa milioni di dollari, quando stai realizzando un film. Coppola lo fece con Apocalypse Now e gli costò trentuno milioni di dollari». A Jerry non fregava un cazzo dei punti spirituali della ricerca creativa. Dal suo punto di vista, aveva un pazzo alla guida di una produzione fuori controllo. Bresler spiegò in seguito la sua versione della storia a Garner Simmons: «Stavo cominciando a preoccuparmi su più livelli: i costi gonfiati per via della lunghezza, la relazione tra i personaggi di Dundee e Tyreen e il ritmo delle riprese. Parlai con Sam alla fine di un giorno di riprese […] Il nostro incontro si concluse con un mio ultimatum: se non avesse accettato di cambiare i suoi metodi, avrei suggerito un cambio di regista. Da quel momento in poi ci trovammo ai due poli opposti». Sfortunatamente per Bresler, i dirigenti della Columbia non sostennero la sua minaccia. «La Columbia aveva un atteggiamento strano», disse Bresler a Simmons. «Era eccitata dal girato di cui aveva potuto prendere visione. Si trattava di una trappola, però – e ci erano caduti. È essenziale vedere le scene singole come parte di un tutto e non solo in quanto scene. Ne restarono così intrigati che uno dei dirigenti parlò di far uscire la pellicola in 70mm». Un’ulteriore ragione dello «strano» atteggiamento degli studi era che le maniere nervose, assillanti di Bresler irritavano la Columbia quasi quanto Peckinpah. «Jerry Bresler era un uomo zelante, scrupolosissimo quanto ansioso, non solo con Sierra Charriba, ma con ogni film di cui si occupò», afferma Gordon Stulberg. «La storia che si diffuse negli studi era che Jerry aveva avuto uno scontro con Peckinpah così duro che svenne. Crollò letteralmente svenuto ai piedi di Peckinpah!»
Negli uffici e nei corridoi dello studio in Gower Street riecheggiavano le risa mentre la storia veniva ripetuta con dettagli amorevoli e sempre più coloriti. Ma nel giro di qualche settimana le risate si trasformarono in un silenzio morboso. A quel punto, dopo un mese di riprese, Sam era già in ritardo di dieci giorni sul programma, e 600.000 dollari oltre il budget. Persino i pezzi grossi degli studi dovettero ammettere di avere un bel problema per le mani. Una serie di dirigenti della Columbia volarono in Messico e si fecero strada tra spinosi cactus fino al punto in cui Peckinpah aveva posizionato le sue macchine da presa – le facce rosse e madide di sudore sopra soffocanti colletti di seta, riempiendo di sabbia i risvolti dei pantaloni fatti su misura, graffiando sulle rocce le lucide scarpe italiane. Dopo essersi fermati alla periferia del set, strizzarono gli occhi verso la figura a torso nudo, con la bandana in testa, appollaiata su una gru a ringhiare ordini alla troupe che scorrazzava sotto, e si asciugarono i visi con fazzoletti monogrammati chiedendosi quale fosse la maniera migliore per prendere al lazo quell’enfant terrible. Peckinpah ascoltò le loro velate e poi spudorate minacce con la stessa indifferenza mostrata a Bresler, poi mugugnò, costringendoli a piegarsi per sentire: «Signori, se volete che questo dannato film sia finito, perché non mi fate tornare al lavoro e girate alla larga?» Charlton Heston era impressionato dal coraggio di Peckinpah, ma dubitava della sua capacità di giudizio. «Ho lavorato con Orson Welles, con cui Sam ha moltissimo in comune, in primis l’antipatia ricambiata nei confronti della gente d’ufficio, che in un certo senso li distrusse entrambi», dice Heston. «Condividevano questa quasi patologica antipatia verso chiunque avesse un grande ufficio al di sopra del pian terreno. Non ho idea del perché. Il mio rapporto con entrambi fu piuttosto intenso, ma breve. Orson sapeva incantare anche dei maledetti uccelli. Sicuramente sapeva che le persone da incantare più di tutte sono quelle che hanno i soldi, perché se non ti danno i quattrini non puoi fare i film. Doveva saperlo,
sicuramente lo sapeva, lo saprebbe anche un bambino. Ma cocciutamente si rifiutava di comportarsi di conseguenza. Li disprezzava pubblicamente. Insomma, non è bene. E Sam, che non aveva lo stesso fascino di Orson, ovviamente era ancor più nella cacca». Alla fine, Arthur Kramer, vicepresidente degli affari creativi per la Columbia, si presentò sul set. Era stato inviato da Frankovich con l’ordine di sollevare Peckinpah dal suo incarico. Ma lo studio si trovò sotto scacco matto quando Heston intervenne, come la star ricordò in seguito nel suo libro The Actor’s Life: «La trovavo un’idea orrenda. A parte il talento di Sam, credevo anche nella regola per la quale non si cambia mai un cavallo a metà corsa». Se Peckinpah non fosse rimasto nel film, non ci sarebbe stato nemmeno Heston. Il resto del cast seguì a ruota la star: Richard Harris, L.Q. Jones, R.G. Armstrong, Warren Oates, Ben Johnson e Slim Pickens minacciarono tutti di andarsene se Peckinpah veniva licenziato. Con due terzi del film già pronti, la Columbia si trovò aggirata: poteva dire addio ai due milioni di dollari già spesi per il film o rischiare il tutto per tutto sperando che Peckinpah tornasse dal Messico con un prodotto vendibile. Non avevano scelta. Buon giocatore di squadra, Heston era sopraffatto dal senso di colpa per aver usato quel tipo di potere che normalmente aborriva. Come atto di espiazione, si offrì di cedere 200.000 dollari del suo salario alla Columbia. Gli studi colsero al volo l’occasione, e così la star finì per girare quel film quasi gratis. Heston non fu l’unico. Anche Sam accettò di restituire 35.000 dei suoi 50.000 dollari di salario, con l’erronea convinzione che questo gli avrebbe fatto avere un maggiore controllo nelle fasi di montaggio e postproduzione. In principio, la loro vittoria contro gli uomini in giacca e cravatta diede a cast e troupe un’elettrizzante scarica di energia. Avevano fatto il culo alla Columbia! Poi la realtà prese il sopravvento e nauseanti boli si formarono nelle loro viscere. Per ora si erano messi nelle mani di Peckinpah.
Peckinpah non dava molte indicazioni agli attori. Quando una scena non gli piaceva diceva loro di rigirarla e di «farla diversamente, questa volta». Gli attori cominciarono a capire che, anziché analizzare le ragioni e lo sviluppo dei personaggi, Peckinpah aveva forgiato una realtà parallela a quella della storia. Come Dundee, era diventato ossessionato dalla sua ricerca e, come gli uomini di Dundee, gli attori lo seguivano. L’esperienza a Durango fu abbastanza negativa. Restarono lì per un lungo mese, girando sei giorni alla settimana dall’alba al tramonto, a volte anche durante le gelide notti. Sito di una delle più grandi prigioni di massima sicurezza del Messico, la città vantava un commercio di droga in rapida ascesa, pronto a rispondere ai voraci appetiti dell’America, agli albori dei ritmati anni Sessanta. Tutti gli uomini che passeggiavano per strada o che affollavano bar e bordelli portavano con sé una pistola, o come minimo dei coltelli. «Ogni notte qualcuno veniva accoltellato per strada», dice Forrest Wood, uno dei vocal coach del film. Un mandriano messicano assunto per badare ai cavalli della compagnia fu ucciso a colpi di pistola, una notte. A sentire la gente del posto, la causa era stata una lite per una donna. Altri due membri della troupe messicani subirono la stessa sorte in uno dei bordelli della città, e Peckinpah e il direttore della fotografia Sam Leavitt se la squagliarono da un bar una sera quando cominciò una sparatoria. Da Durango la carovana di camion e roulotte serpeggiò verso sud (per quel viaggio sarebbero stati consumati 15.000 litri di diesel), attraverso Città del Messico fino al paese della canna da zucchero, dove le ceneri delle piantagioni piovevano da cieli neri, poi ancora oltre, nella grande brace del Guerrero Desert, dove persino i cactus si rinsecchivano sotto il sole battente. I fiumi, il Tehuixtla e il Rio Balsas, erano più freddi, ma così inquinati dagli scarichi che gli attori e le controfigure dovevano farsi stappare naso e orecchie dalle infermiere dopo
essersi tuffati in quelle acque. E poi c’erano gli insetti: migliaia di moscerini e zanzare grandi quanto pipistrelli vampiro e pronti a lasciare il segno. Solo gli indiani Yaqui e Peckinpah sembravano non essere importunati da quelle sanguisughe. A poco a poco, film e realtà divennero inspiegabilmente intrecciati. I membri della troupe non stavano più interpretando il ruolo dei soldati di cavalleria; erano soldati di cavalleria. E proprio come i personaggi del film, cominciarono a crollare uno dopo l’altro sotto il peso di quel viaggio senza fine. «Le condizioni primitive, il caldo e gli straordinari spogliavano tutti delle loro maschere e le vere identità e nevrosi di ognuno venivano fuori», sostiene Gordon Dawson. E, come nel film, gli obiettivi più frequenti di quella rabbia trattenuta erano i colleghi. Jim Hutton stava gironzolando sul suo cavallo un pomeriggio e si avvicinò troppo a Peckinpah. Sam balzò, afferrò una pistola caricata a salve che teneva in una fondina sulla sua sedia da regista e cominciò a sparare per terra, poi in aria. Il cavallo di Hutton si impennò e lo disarcionò. Alla fine di un’altra giornata cast e troupe si dimenavano per catturare una ripresa del tramonto. Appollaiato su una gru, Sam disse a Heston di guidare le truppe della cavalleria giù per la collina, venendo al trotto verso di lui. Heston lo fece e alla fine della ripresa si voltò e chiese: «Come andava, Sam?» Peckinpah lo guardò in cagnesco. «Faceva schifo. Dio Santo, andavi troppo piano!» «Sam, mi hai detto di farli scendere al trotto», disse Heston, riconducendo già le truppe sulla collina, perché sapeva di avere tempo solo per un’altra ripresa. «Col cazzo che l’ho detto», urlò Peckinpah mentre l’altro indietreggiava. «Maledetto bugiardo!» In un empito di adrenalina, Heston fece fare un’inversione al suo cavallo, estrasse la sciabola e caricò contro il suo tormentatore.
Peckinpah urlò all’operatore della gru: «Azionala! Azionala! Cristo santo, azionala!» Quando il cavallo di Heston tuonò sotto di lui, la sciabola mancò di un soffio il didietro dei pantaloni di Sam. «Non penso che lo avrei mai investito, figuriamoci colpito con la sciabola», dice Heston, «ma ero davvero incazzato. Però, vedi, se l’era cercata. Era un regista dall’atteggiamento asfissiante, petulante. Andavo d’accordo con lui, ma… Credo sia come stare con una ragazza che proprio non sopporti, e che però trovi attraente. Finisci per chiederti: “Che ci faccio con questa stronza? Perché sono qui alle tre del mattino?”» Quando arrivarono al momento della battaglia sul fiume, il ritmo di Peckinpah aveva accelerato a rotta di collo. Sam diede alle venticinque comparse ingaggiate per il film tutta l’azione che potessero gestire. Non appena riuscivano a uscire dal fiume e indossare nuove uniformi, rimontavano a cavallo e cadevano di nuovo, ripetendo otto-nove scene al giorno. Peckinpah filmò il combattimento con più macchine da presa, alcune delle quali riprendevano ad alta velocità per catturare l’azione al rallentatore. Kurosawa aveva usato riprese in slow motion per I sette samurai e lo stesso aveva fatto H.G. Clouzot in Vite vendute; ora Sam voleva spingersi oltre la semplice prassi di inserire scene al rallentatore in mezzo all’azione a velocità normale. Come, non lo sapeva ancora, per cui semplicemente girò centinaia di metri di azione in slow motion, sperando di trovare un modo di intrecciarla con il resto della sequenza in fase di montaggio. Più e più volte le controfigure cadevano dalle selle sugli argini fangosi, ruzzolavano nel fiume stagnante, guidavano i loro cavalli alla carica verso lo scoppio di esplosioni programmate che facevano volare a terra sia fantino che animale. Ma nessuno si lamentava. Le controfigure richiesero una piccola fortuna che la Columbia fu costretta a sborsare, in quei cinque giorni che impiegarono per girare la battaglia. La carica della cavalleria
francese attraverso il fiume, appena venti secondi di film, costò 13.000 dollari. Mentre continuava a girare caduta dopo caduta, con tutti i venticinque uomini che piombavano in acqua, alcuni così lontani sullo sfondo che a malapena si vedevano, divenne palese che Sam stava usando quella sequenza per prosciugare i soldi dello studio. «Sam aveva lo studio in pugno», dice L.Q. Jones. «Aveva vinto la battaglia contro di loro e ora voleva il suo bottino, e parte di esso consisteva nello stare col fiato sul collo di Bresler. Ma uno studio non si può veramente battere perché hanno sempre l’ultima parola lì dove conta, e cioè nel montaggio finale e nella distribuzione. Sam sapeva che le persone da incantare erano quelle con i soldi ed è proprio per quello che non le incantava. E loro sapevano che lui lo sapeva». Jones tentò di ragionare con il suo amico. «Capisco perché vuoi mandare a puttane la Columbia», gli disse, «non mi sfugge affatto. Ma così non mandi a puttane la Columbia, mandi a puttane Sam Peckinpah! Non te ne rendi conto?» Sam annuì seccamente e disse a denti stretti: «Sì, ma la farò pagare a Bresler, quella testa di cazzo!» Il 30 aprile 1964, le cineprese si fermarono. Le riprese di Sierra Charriba erano state completate con quindici giorni in ritardo rispetto al programma e superando di 1,5 milioni di dollari il budget. Sam era rientrato quasi esattamente nel budget e nel programma delle riprese previsti in origine per l’uscita in roadshow. Era questa l’intenzione di Peckinpah fin dall’inizio? C’era stato per tutto quel tempo un metodo nascosto dietro la follia? Nessuno a parte il regista poteva dirlo con certezza. Non ci fu una festa di fine riprese, nessun saluto sentimentale, come avveniva per la maggior parte delle produzioni di Hollywood. Gli smunti sopravvissuti del purgatorio di Peckinpah si dispersero e si diressero oltre confine senza guardarsi indietro. Charlton Heston aveva i suoi
abiti civili già pronti sul set e balzò «fuori dal costume dentro i vestiti prima che la polvere dell’ultima ripresa si posasse». Corse all’aeroporto e fu su un aereo per Los Angeles in poche ore. Anche James Coburn si lanciò subito in fuga – veloce! prima che Sam decida di rigirare qualcosa! – mormorando mentre si affrettava verso l’auto in attesa: «Ci vediamo, figlio di puttana!» Solo uno tra loro non mostrò alcun entusiasmo all’idea di ritornare nella terra dei fast food, delle autostrade, dei centri commerciali, dei quartieri in espansione. Perché, all’insaputa di quasi tutti nella produzione, Sam Peckinpah coltivava ora un’altra passione, violenta e pericolosa quasi quanto quella per Sierra Charriba. Tutti sogniamo di essere di nuovo bambini, anche i peggiori fra noi… forse i peggiori più di tutti… Diciannovenne, Begonia Palacios era già una star affermata in Messico quando il suo agente, Lanca Becker, le propose un’audizione per un ruolo in Sierra Charriba. Aveva cominciato la sua carriera a tredici anni come ballerina di flamenco. Un anno dopo girava già il mondo con la compagnia di flamenco di Carmen Amaya. I grandi occhi scuri, l’esile naso all’insù, i tratti tipicamente castigliani e l’ampia figura formosa la fecero presto risaltare rispetto alle altre ragazze della compagnia. Passò velocemente al cinema e apparve in molti film messicani. Per questo motivo Begonia fu piuttosto irritata quando lesse il copione di Sierra Charriba e vide quanto fosse piccola la sua parte. (Avrebbe interpretato la ragazza del villaggio di cui un giovane soldato, Ryan, che matura nel corso della storia, si innamora.) Ma Becker e la madre di Begonia sconfissero la sua resistenza. Si trattava di un grande film americano con un cast di stelle internazionali. Anche se la parte era piccola, quella visibilità avrebbe fatto tantissimo per la sua carriera. «Sam Peckinpah è un grandissimo regista americano», disse Becker, aggiungendo con un sorriso allusivo «ed è anche molto affascinante!»
Quando arrivò nell’ufficio di Peckinpah nei Churubusco Studios, Begonia trovò la sala d’attesa piena di altre giovani attrici che si presentavano per la sua stessa parte. Un ulteriore colpo al suo orgoglio; la pressione cominciò a salirle. Finalmente, fu accompagnata a conoscerlo. Seduto a una grande scrivania, scarabocchiava su un blocchetto di carta, e senza nemmeno scomodarsi ad alzare lo sguardo mentre lei entrava, disse bruscamente: «Come ti chiami?» Lei glielo disse. Con gli occhi fissi sui suoi scarabocchi, Sam chiese: «Com’è il tuo inglese?» «Non parlo inglese molto buono». «Molto bene», la corresse senza guardarla. Le ribolliva il sangue. Marciò fuori dal suo ufficio qualche minuto dopo, facendosi strada tra le altre attrici che intasavano la sala d’attesa. Quell’uomo, quanto lo odiava! E per questo restò completamente scioccata un paio di settimane dopo, quando il suo agente la informò che Peckinpah voleva lei per la parte. Non l’aveva nemmeno guardata più di tanto durante il colloquio. Ma ancora una volta Becker e sua madre prevalsero: era il giusto passo per la sua carriera, l’opportunità per diventare una star di Hollywood. Durante i primi giorni sul set Begonia lo osservò, alto sulla sua gru a ringhiare ordini alla troupe sottostante. «Forza, muoviti, dannato figlio di puttana!» Osservava il triste, panciuto produttore dare suggerimenti imbarazzanti e sentiva Peckinpah rispondergli: «Fanculo! Vattene dal mio set!» Non le piaceva. Era cattivo, inclemente, un po’ tiranno. Poi il nuovo oggetto dell’interesse di Peckinpah divennero i capelli di Begonia. Non gli piaceva il loro colore, non era l’aspetto che aveva in mente per il personaggio. Così la parrucchiera li tinse di una tonalità, poi di un’altra, poi di un’altra ancora. Non gliene piaceva nessuna. Le fece tingere i capelli tre volte in un giorno e ogni volta la rispediva indietro a provare di nuovo. Alla fine Begonia non poté più sopportarlo. Marciò contro di lui, si trascinò come una
lucertola verso la sua sedia da regista e lo affrontò. «Senta, signor Peckinpah, deve decidere quale colore di capelli le piace! Basta tinture, mi sta rovinando tutte le radici!» Le labbra sottili di Sam si posizionarono stranamente a metà tra un sorriso e una smorfia. Arrabbiato o divertito, Begonia non avrebbe saputo dirlo. «Okay», le disse, scrutando un punto lontano all’orizzonte. «Ci penserò». Ogni fine settimana c’era una festa. Il cast e i membri della troupe si riunivano nella casa affittata da Sam o in un ristorante del posto; si rideva e si scherzava molto e il giovane Julio Corona era sempre pronto con il suo sorriso da Stregatto e la sua enorme chitarra. «C’erano questi lunghi tavoli», racconta la moglie di Jim Silke, Lyn, che andò a trovarlo sulla location. «Lydia e Chuck Heston erano lì e c’erano molte altre persone. Sam si girò verso Begonia – non credo la conoscesse bene al tempo, ma lei era una ballerina di musica spagnola – e le disse: “Vai a ballare per loro”. E lei si lanciò in questa incredibile danza spagnola sul tavolo, con la gonna alzata e le bellissime gambe che calciavano e volavano, e tutti esultarono. Sam lo adorò, ne adorò l’innocenza e il fuoco». All’improvviso Begonia notò un drastico cambiamento nell’atteggiamento di Peckinpah nei suoi confronti. Ogni volta che arrivava sul set, le faceva sempre trovare una sedia speciale ad attenderla. Era galante, premuroso. «Hai bisogno di qualcosa? Una bibita? Qualcosa da mangiare? Fammi sapere se hai sete». Ormai ogni mattina quando entrava nella sua roulotte trovava un mazzo di fiori freschi, ma senza biglietto. Ne era colpita, perché a Durango non crescevano fiori. Ma comunque Sam non le piaceva. Poi, un pomeriggio in un luogo remoto, il suo stomaco si contorse dalla fame. Non era però affamata al punto di mangiare il cibo del catering; preferiva il digiuno al botulismo. Poi vide dei bambini del posto vestiti con stracci polverosi che mangiavano dei burritos stracolmi. Sembravano deliziosi.
Andò da uno di loro e gli chiese dove li avevano presi. «El señor Peckinpah nos lo compró!», rispose il bambino con un sorriso unto. Questo la fece fermare un attimo a pensare, per la prima volta, a quel regista che se ne stava sopra di lei, segnato dalle intemperie sulla sua gru da ripresa. Il primo giorno di riprese aveva indossato un bellissimo serape sul set. Quando qualcuno si complimentava con lui, rispondeva con occhi scintillanti d’orgoglio che era appartenuto a suo padre. Seppe in seguito da uno dei membri della troupe che lo aveva regalato a un piccolo contadino. Questo la sorprese incredibilmente. In quell’uomo c’era qualcosa in più di quanto desse a vedere. Sam cominciò a chiederle di uscire a cena con lui, la sera. La zia di Begonia era andata con lei sul set per proteggere la sua reputazione e tenere lontane sgradevoli influenze. «La zia era dura come la roccia», dice Jim Silke. «Era venuta anche lei per badare a Begonia. Begonia era quella che portava i soldi alla famiglia, un bene di grande valore». Ogni sera quando uscivano, Sam pregava la zia di Begonia di lasciargli vedere la ragazza da solo. «Solo per qualche minuto, la prego». La donna scuoteva il capo. «No, señor Peckinpah. Non posso». «Sam sembrava un pesce lesso, perdio», dice L.Q. Jones. «Era proprio da lui. Sam parlava chiaro, diceva qualsiasi cosa a chiunque senza provare il minimo imbarazzo. Ma con Begonia non penso riuscisse a dire ciao senza balbettare. Inventava scuse per andare insieme a Warren Oates, o insieme a me, a parlare con Begonia della sua parte. Per quale motivo dovevamo parlare con lei della sua parte? Nelle sue sequenze noi non c’eravamo nemmeno! Voleva solo starle intorno e parlare con lei e non lo avrebbe fatto senza qualcuno che lo proteggesse se lei lo avesse sopraffatto. Così, eccoci lì». «Tutti presagirono un finale infelice quando lui si innamorò di lei», afferma Senta Berger. «Quello che, ai miei occhi, gli serviva non era una ragazza affettuosa e sincera
come Begonia. Gli serviva qualcuno che stesse al suo passo, che capisse la sua professione, capisse le sue paure, capisse la sua personalità testarda; qualcuno di forte, qualcuno con una vita propria, un’artista». Poi un fine settimana Sam invitò Begonia a una festa nella casa che aveva affittato nella location del momento. C’era quasi tutto il cast e la troupe. Julio suonava la sua chitarra e tutti cantavano con lui, urlando e ridendo, ognuno abbracciato a un altro. All’improvviso Sam si girò verso di lei e le prese le mani, stringendogliele così forte che le venne quasi da urlare. Gli occhi di lui brillavano come quelli di un animale notturno. «I suoi occhi», ricorda Begonia quasi trent’anni dopo quel momento, cercando di trovare le parole per esprimere l’effetto che producevano. «Guardavano oltre, nella tua testa, nella tua mente, come se ti leggesse i pensieri». Senza preavviso, si chinò e la baciò, velocemente, castamente sulle labbra, poi la lasciò e si rigirò verso Julio e gli altri. Quando Begonia terminò tutte le sue scene nel film, lui le chiese di restare; aveva un’altra scena che stava scrivendo per lei. Quando gli disse che non poteva perché aveva firmato un contratto per un altro film che stava giusto per cominciare, si innervosì moltissimo. «Non sei molto professionale!» «Sam», gli spiegò, «ho un altro show da fare, è così che mi guadagno da vivere!» «Va bene», la respinse. «Vai allora! Vai pure! Vai pure! Vai!» E così Begonia se ne andò. Poi un giorno, settimane dopo, mentre stava ancora lavorando all’altro film a Città del Messico, qualcuno bussò alla porta della sua stanza d’hotel. Aprì e se lo trovò davanti. Un brivido la percorse, e capì che le era mancato. «Bego», le disse piano, con le spalle abbassate che tradivano la sua ansia nonostante l’incredibile sforzo di sembrare calmo. «Sono venuto a dirti che sto lasciando il Messico. Ho finito il mio film, torno in America». I suoi occhi si chinarono per un momento, poi si alzarono per incontrare di nuovo quelli di lei. «Mi mancherai. Voglio che tu venga a
trovarmi in California. Voglio che tu veda la mia casa a Malibu. Voglio che tu veda come vivo». Così, quando terminò il suo film, Begonia ci andò – portandosi la zia dietro, ovviamente. Vide la Bird View con la sua spettacolare vista su Zuma Beach, la distesa di argento, verde e blu dell’oceano e le isole che aleggiavano all’orizzonte come nuvole viola. Andarono a mangiare in un ristorante del posto nel pomeriggio e Sam pregò nuovamente la zia di avere l’opportunità per restare da solo con Begonia. Alla fine, prendendosi la grande, semplice testa tra le mani, la donna cedette. «Va bene, venti minuti. Ma se non tornate entro venti minuti, vado alla polizia!» Come un ragazzino libero per le vacanze estive, Sam prese la mano di Begonia e la condusse nella sua nuova Porsche argentata. La portò sulle colline, sopra un asciutto promontorio erboso che offriva una vista ancor più panoramica dell’oceano, mentre l’acqua rifletteva i raggi del sole come un migliaio di luci lampeggianti. La fece sedere sul cofano dell’auto, le prese di nuovo le mani con quella stretta violenta, la fissò nei suoi occhi grandi e le disse piano: «Bego, vuoi sposarmi?» Le sembrò quasi che la voce di qualcun altro montasse su dalla sua gola, prendendo il controllo della sua bocca: «Sì… sì, lo voglio». E poi la baciò per la seconda volta. Di ritorno alla sede della Columbia, la guerra di Sam contro Bresler entrò nella sua seconda fase, e stavolta era lo studio, non Peckinpah, ad avere il coltello dalla parte del manico. Il 1 maggio 1964 Charlton Heston segnò nel suo diario: «Sono andato alla Columbia e [Arthur] Kramer mi ha fatto una vivida autopsia di Sierra Charriba. Ho la sensazione che Bresler sia quasi disposto a far fallire il film, anche solo per giustificare i suoi timori su Sam». La Columbia incaricò il suo miglior tecnico del montaggio, William Lyon – vincitore di due Oscar, aveva
montato Da qui all’eternità, Picnic ed era stato un consulente per Il ponte sul fiume Kwai – e due assistenti, Don Starling e Howard Kunin, per visionare gli oltre diecimila metri di pellicola girati da Sam in Messico. Seppur molto competenti, questi uomini erano stati scelti senza l’approvazione di Peckinpah ed erano fedeli allo studio, non a lui. Un regista più diplomatico avrebbe provato a portare i tecnici del montaggio dalla sua parte, ma Peckinpah si sentì nuovamente tradito e ne risultò un’atmosfera di antagonismo. «Bill Lyon era pronto ad andarsene ogni giorno», dice Howard Kunin. «Sam non sopportava che Bill fosse un anziano tecnico con i capelli bianchi, sebbene Bill potesse fargli mangiare la polvere. Non sembrava metterci molto sforzo, ma sapeva davvero come lavorare sul ritmo e sui dialoghi». Kunin trovava Peckinpah un bullo impossibile – esigente, volubile e aggressivo. Ma doveva ammettere che il tipo aveva talento. Sam spinse per un montaggio rapido in alcune scene – come l’esecuzione da parte di Dundee di un disertore, O.W. Hadley – e il risultato fu sorprendentemente positivo. Ma il tentativo di Peckinpah di integrare il girato al rallentatore nelle sequenze di battaglia si rivelò meno riuscito. «Sam usò la tecnica del rallentatore molto bene nei suoi ultimi film, ma a quel tempo aveva ormai capito come farla funzionare; aveva girato le scene con l’idea di come sarebbero venute fuori», dice Howard Kunin. «In Sierra Charriba non fece che accumulare selvaggiamente metri di pellicola, senza la minima idea di come avrebbe usato il girato. Sam tentò molte, molte cose per farlo funzionare. Abbiamo addirittura fatto un’intera versione al rallentatore della battaglia francese, del combattimento corpo a corpo. Non gli piacque nemmeno quella. Semplicemente non funzionava». Bresler e Peckinpah si scontrarono furiosamente sulle scene di battaglia. Le crude inquadrature di uomini centrati dai proiettili e tutta quella profusione di sangue erano troppo per il produttore di Gidget Goes Hawaiian. Peckinpah voleva risucchiare il pubblico nel film, portarlo in una marcia forzata
con Dundee e i suoi uomini, fargli esperire insieme ai soldati sullo schermo non solo l’orrore della guerra ma anche la perversa eccitazione che ne deriva. A Bresler sembrava il prodotto della stessa mente malata e sadica che aveva imparato a conoscere in Messico. Il contratto di Peckinpah gli garantiva il diritto di fare un primo montaggio del film e di mostrarlo in due anteprime pubbliche. Dopodiché lo studio poteva togliergli il film di mano e montarlo come gli pareva. Sam ripose tutte le sue speranze nelle anteprime. Le reazioni del pubblico lo avrebbero vendicato; non appena lo studio avesse capito che la sua versione funzionava, avrebbe richiamato Bresler e lui ne sarebbe uscito vincitore – se al pubblico fosse piaciuto. Sfoltì il film fino a farlo durare due ore e quarantun minuti, ma sentiva di essere stato troppo zelante in alcuni tagli e voleva riaggiungere dieci minuti di pellicola. Se le anteprime fossero andate abbastanza bene, forse la Columbia avrebbe riconsiderato la possibilità di far uscire il film in roadshow. Con il grosso del lavoro fatto, cominciò a pensare alla colonna sonora – l’ultimo montaggio mancava sia di musica che di effetti sonori. Poi un’ulteriore bomba si schiantò su Sierra Charriba: all’insaputa di Sam, Bresler portò il montaggio incompleto del film a New York e lo mostrò a un gruppo di espositori (proprietari di catene di cinema). Il verdetto, spiegò Bresler di ritorno a Hollywood al suo esterrefatto regista, era negativo. Il film è troppo lungo, disse Bresler, deve essere ridotto massimo a due ore. Perciò ora lui, Bresler, e i tecnici del montaggio avrebbero «attentamente e giudiziosamente» provveduto. E le sue due anteprime? chiese Peckinpah, con il cuore che gli martellava nel petto. Un’anteprima era appena stata fatta, rispose Bresler a occhi bassi, e aveva detto loro tutto quello che avevano bisogno di sapere. Il 3 settembre 1964 Sam spedì una lettera a Mike Frankovich, capo della produzione, e a Arthur Kramer, vicepresidente degli affari creativi per la Columbia: «Credo fermamente che il film debba essere mostrato in anteprima
nella sua versione di questa lunghezza, con i tagli e le sequenze aggiuntive che ho richiesto. Se non funzionano – se non piacciono al pubblico, ovviamente non avremo altra scelta se non rimuoverle. Ma rimuoverle prima per poi dire che potremmo reinserirle in una seconda anteprima per me non ha molto senso». Quando Sam arrivò allo studio con Begonia qualche giorno dopo, la guardia al cancello d’ingresso lo fermò. «Mi dispiace, signor Peckinpah, ma non posso lasciarla passare», disse rigidamente. Sam non era più un impiegato della Columbia Pictures. Il nome sul suo parcheggio riservato era già stato ridipinto; gli oggetti personali che erano nel suo ufficio si trovavano per terra, nella guardiola, dentro una scatola di cartone. Non poteva fare altro che sedersi e aspettare mentre Bresler e i tecnici effettuavano un’operazione chirurgica radicale. Intere scene e sequenze – soprattutto quelle che indugiavano sulle sfumature del personaggio di Dundee, sui demoni che lo muovevano e sui suoi dissidi interiori – furono sradicate dal film; altre rimasero, ma con significative decurtazioni, in particolare nelle scene di combattimento. Via tutte le riprese al rallentatore e quasi tutte le crude ferite di proiettile, freccia o sciabola. «Tagliarono l’80% della violenza e resero il tutto molto piacevole ed eccitante», ricordò in seguito Peckinpah. «Ma le vere sanguinose, terribili cose che accadono agli uomini in guerra furono tagliate dal film, cosa che per me era imperdonabile». Complessivamente, furono rimossi venti minuti di film (i pezzi grossi della Columbia avrebbero in seguito sottratto altri sette minuti). Bresler stesso stimò che tutta la pellicola avanzata dopo il montaggio ammontava a circa 500.000 dollari in costi di produzione. Il risultato finale fu disperatamente frammentato e in alcuni punti incoerente. I personaggi sembravano agire senza essere mossi da alcuna motivazione, conflitto, rapporto personale, e alcuni punti della trama sembrava fossero stati messi in moto senza mai arrivare veramente a destinazione; nell’ultima mezz’ora la storia
crollava come un castello di carte in un’accozzaglia di scene arbitrarie. Lo stesso Bresler riconobbe di aver ritagliato dei buchi della dimensione di un teatro di posa nella narrazione e cercò di tapparli inserendo una voce narrante. Tornando all’idea iniziale di Julian Fink secondo cui la storia si sarebbe sviluppata come una serie di pagine di diario, il soldato di cavalleria Ryan divenne la guida per il pubblico nella contorta devastazione di Sierra Charriba. Lo strumento si rivelò pietosamente inadeguato. Gli enormi buchi narrativi e le caratterizzazioni dei personaggi principali erano riassunti in paragrafi di tre-quattro frasi che non aggiungevano che confusione. Peckinpah non vide il devastante risultato fino alla prima proiezione pubblica del film all’Egyptian Theatre di Hollywood Boulevard, il 5 febbraio 1965. Charlton Heston, James Coburn, Jim Silke e molti altri del cast e della troupe si intrufolarono nelle ultime file per vedere cosa avevano prodotto tre mesi di agonia a sud del confine. Jerry Bresler, opportunamente, era fuori città. La proiezione fu un disastro. Nell’ultima mezz’ora i colpi di scena incoerenti e la musica incongrua suscitarono risate tra il pubblico. «Uscimmo dall’Egyptian e Sam era incredibilmente rigido», racconta James Coburn. «Cercò in tasca la sua pinta di whisky e tremava così tanto che la fece cadere e schiantare sul marciapiede. Mia moglie gli mise una mano sulla spalla e disse: “Sam, Sam, stai calmo, caro, è solo, è solo, solo un film. Lo so, ci sentiamo tutti così ma, Dio, non farti del male”. Lo calmò un po’, ma era… Se Jerry Bresler fosse stato lì in quel momento, lo avrebbe sicuramente ucciso». Va però detto che Sierra Charriba, pur nel suo stato frammentato, non fu un completo fallimento. La fotografia (nonostante alcuni discutibili abbinamenti di colori che probabilmente Peckinpah avrebbe eliminato se avesse potuto supervisionarli in postproduzione) è quasi sempre stupenda. La macchina da presa di Leavitt cattura la vasta terra desolata esistenziale di un paese di confine con panoramiche su asciutte
pianure erbose, deserti di cactus irregolari e montagne cosparse di rocce, con inquadrature mozzafiato del reggimento di Dundee che cavalca lungo le creste e attraverso tempeste di luccicante polvere argentata. La ricchezza di dettagli per cui Sam aveva spinto tanto è evidente ovunque – l’odore di uomini non lavati, di carne di cavallo sudata, di grasso di maiale e fagioli fritti si diffonde oltre lo schermo. Le interpretazioni, fatta eccezione per quella di Senta Berger, sono eccellenti. E la prima metà del film, soprattutto, è ricca di scene realizzate con grande potenza. Ma nonostante questi sprazzi di genialità, il film era un completo caos. Peckinpah disse in seguito: «Sierra Charriba è stata una delle cose più dolorose che mi siano mai successe. Fare un film è… non so… te ne innamori. È una parte di te e quando la vedi mutilata e fatta a pezzi è come perdere un figlio o qualcosa del genere». La Columbia sperava ancora che tutti quei timori riguardo alla produzione si rivelassero infondati. Lo studio trattò Sierra Charriba come la sua uscita più prestigiosa per la primavera del 1965. Ma le centinaia di migliaia di dollari spesi in pubblicità e promozione si rivelarono inutili. Le recensioni del film furono devastanti. La reputazione di Sam con i critici – che aveva instancabilmente corteggiato con biglietti di ringraziamento e lettere adulatorie, da The Westerner passando per La morte cavalca a Rio Bravo e Sfida nell’Alta Sierra – stava andando in fumo davanti ai suoi occhi. Newsweek, che aveva proclamato Sfida nell’Alta Sierra il miglior film americano del 1962, non mostrò alcuna pietà nei confronti di Sierra Charriba: «Pensate alle cascate di Yosemite o ai suicidi dalla cima dell’Empire State Building o a meteoriti che sfrecciano in basso verso la Terra e avrete un’idea del declino della carriera di Sam Peckinpah. Sierra Charriba, il suo terzo film, è un disastro». Il ragazzo d’oro era diventato di un ottone ossidato. Il suo tentativo di ridefinire il cinema western e di ribaltare i topoi
del genere era fallito miseramente. Sierra Charriba incassò un disastroso milione e mezzo nel suo primo anno di uscita; la Columbia previde ottimisticamente che alla fine avrebbe fruttato 2,5 milioni di dollari, ma anche se quella cifra fosse stata raggiunta lo studio avrebbe recuperato poco più di metà delle spese. Sam non restò fermo a incassare i pugni. Scrisse metodicamente lettere a ogni critico importante e spiegò la sua versione della storia. La sua campagna sortì qualche effetto, soprattutto quando Sierra Charriba arrivò in Europa. Già a conoscenza di come la Columbia avesse mutilato il film, i critici inglesi diedero a Peckinpah il beneficio del dubbio e definirono Sierra Charriba un film brillante sebbene fatalmente danneggiato. In principio, Sierra Charriba costituì una seria battuta d’arresto per la carriera di Peckinpah; sarebbe presto diventato evidente fino a che punto lo fosse. Ma sul lungo raggio, Sam riuscì a volgere la sconfitta a suo vantaggio. Negli anni seguenti, avrebbe detto ai giornalisti che prima che la Columbia lo facesse a pezzi, «Sierra Charriba era un buon film, forse il miglior film che abbia mai fatto». Era il genere di racconto di cui i critici della politica degli autori si cibavano avidamente: un altro artista di buon senso schiacciato dalla macchina di Hollywood. Come Rapacità di Von Stroheim e L’orgoglio degli Amberson di Orson Welles, Sierra Charriba divenne uno dei leggendari capolavori perduti del cinema. Con Sierra Charriba, Sam compì la sottile ma critica transizione da giovane promessa a leggenda vivente – l’enfant terrible che cavalca dal Selvaggio West per prendere il comando della gerarchia di potere di Hollywood; l’eccentrico genio che riuscì a scagliare qualche pugno prima che gli togliessero la sua opera d’arte e la maciullassero. Quella versione dei fatti fece vendere moltissime copie a riviste e giornali e aiutò Peckinpah a diventare uno di quei rari registi – come Alfred Hitchcock e Orson Welles – che erano tanto conosciuti dal pubblico quanto le star che comparivano nei loro film.
Ma in verità Sierra Charriba non sarebbe stato il capolavoro di Peckinpah, e nemmeno un grande film, se la Columbia gli avesse affidato il montaggio finale. La sceneggiatura di Saul e Peckinpah presenta la storia completa come Sam la girò. È a tratti geniale – in particolare nella prima metà – ma non raggiunge mai il suo potenziale completo, crolla nella terza parte e resta di molto inferiore a Sfida nell’Alta Sierra, Il mucchio selvaggio e molti altri suoi film. In un certo senso, però, Peckinpah non si stava autoilludendo quando disse che Sierra Charriba sarebbe stato un capolavoro, perché sentiva quel tipo di film bruciare dentro di lui, in cerca di una via d’uscita. Aveva provato a portarlo sullo schermo con Sierra Charriba e fallì. La forma che avrebbe dovuto prendere era ancora amorfa, non era ancora riuscito a farsene un’idea chiara. Ma ci sarebbe arrivato, un giorno. Quando Sam fu bandito dalla sede della Columbia nell’autunno del 1964, aveva già firmato un redditizio contratto multifilm, di nuovo con la MGM. Il suo primo incarico fu la regia di Cincinnati Kid, per il produttore Martin Ransohoff. Tratta dal romanzo di Richard Jessup, la storia era piuttosto esile – una chiara rielaborazione dello Spaccone con il poker five card stud al posto dei tavoli da biliardo. Steve McQueen avrebbe ripreso la parte di Paul Newman nelle vesti del novellino che sfida il vecchio maestro, e Spencer Tracy avrebbe rimpiazzato Jackie Gleason nel ruolo del senescente campione che accetta la sfida del ragazzo e lo bastona sonoramente nella scena finale. Ransohoff, che aveva messo insieme il progetto, faceva parte di una nuova razza di produttori indipendenti che era emersa dalle macerie delle vecchie fabbriche di film. Con i cambiamenti nell’industria, gli studi si stavano liberando delle ultime vestigia del sistema di produzione seriale. La maggior parte dei magnati di un tempo non c’era più – il regno del terrore di Harry Cohn alla Columbia terminò con la sua morte nel 1958; Jack Warner presidiava ancora la sua sede a Burbank, ma se ne sarebbe andato nel giro di un paio d’anni.
Mentre la produzione diminuiva da trenta-cinquanta film all’anno per studio a circa una dozzina, anche il libro paga degli attori, degli sceneggiatori, dei registi e dei tecnici fu riadattato. Gli artisti venivano scritturati per contratti multifilm più piccoli, o per film singoli. Anziché avere un esecutivo a sviluppare un’intera serie di film per un dato anno, la maggior parte dei prodotti erano forniti da produttori indipendenti come Ransohoff, che acquistava i diritti, ingaggiava gli artisti e supervisionava le produzioni, che venivano poi fatte uscire con il logo dello studio. I nuovi produttori indipendenti non erano uomini fedeli alla società; erano imprenditori energici, veloci nel parlare e nel chiudere contratti. Ransohoff aveva cominciato producendo spot televisivi a New York con la sua società, la Filmways. Ottenuto un grande successo, trasferì i suoi uffici in California, dove fece jackpot con un nuovo show televisivo, The Beverly Hillbillies, e una scia di spinoff che lo portarono a un contratto come produttore per la MGM. Ransohoff forse conosceva poco gli aspetti artistici della creazione cinematografica (o addirittura proprio delle basi), ma la sua astuzia da venditore gli diceva che i film dovevano offrire qualcosa di nuovo e sorprendente se volevano attirare gli spettatori fuori dai loro salottini attrezzati di tv. Per più di un decennio gli studi cinematografici avevano combattuto la piccola scatola elettronica. Avevano portato in guerra un’ampia gamma di armi miracolose – Panavision, Vistavision, Cinemascope, suono stereo, 3D, persino la SmellO-Vision, ma continuavano a perdere terreno negli incassi. Nel 1965 la loro posizione era retrocessa da una ritirata a una completa rotta. Alcuni editorialisti avevano addirittura cominciato a congetturare sui giornali che i film potessero fare la fine dei varietà e morire tutti insieme. Nuovi, scaltri imprenditori come Ransohoff diedero un’occhiata al mercato e cominciarono a inventare nuove strategie. Mentre gli ingressi al cinema per vedere film americani erano costantemente calati dal 1945, la percentuale di biglietti venduti per film stranieri era aumentata del 5%. La
maggior parte dei film stranieri erano nel vecchio formato a schermo stretto, in bianco e nero e con sottotitoli difficili da leggere. Qual era dunque il loro fascino? Non affettate inquadrature e simbolismi del cavolo, convenne la nuova generazione di produttori, bensì sesso, cruda violenza, linguaggio schietto e situazioni mature. Si pensi alle smodate orge in La dolce vita di Fellini, alla scena di stupro brutalmente esplicita in La fontana della vergine di Bergman, all’esuberante dissolutezza in Tom Jones di Tony Richardson. Questi film rendevano le pellicole americane interessanti quanto l’omelia della domenica. Irma la dolce, Intrigo a Stoccolma, Schiavo d’amore, Uno sparo nel buio, Cleopatra e L’uomo che non sapeva amare erano solo alcuni dei film di metà anni Sessanta che sfidarono gli standard di decenza imposti dal codice della Motion Picture Association of America (MPAA). Negli anni Trenta e Quaranta la MPAA aveva proibito i baci a bocca aperta, i baci tra coppie sposate su un letto matrimoniale – anche completamente vestiti – e severamente limitato la profondità delle scollature. Si era battuta per moderare i contenuti sessuali dei film americani durante gli anni Cinquanta (eliminando, ad esempio, qualsiasi riferimento all’omosessualità negli adattamenti per lo schermo di Un tram che si chiama Desiderio e La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams). Ma verso la fine del decennio l’associazione cominciò a perdere il controllo quando i produttori capirono di poter raccogliere ottima pubblicità battendosi contro la MPAA per i contenuti espliciti delle proprie pellicole. Sia che le scene di nudo restassero, sia che fossero tagliate, la controversia garantiva che milioni di spettatori si affollassero nei cinema nella speranza di cogliere un assaggio di Elizabeth Taylor o Richard Burton senza vestiti. Ransohoff si gettò avidamente nella mischia con la sua produzione del 1963, Tempo di guerra, tempo d’amore, una commedia militare sulla seconda guerra mondiale scritta da Paddy Chayefsky e diretta da Arthur Hiller. La produzione si guadagnò la prima pagina di Variety quando la MPAA cercò di
bloccare le riprese di quattro scene di nudo. (Le donne che si svestivano nel film erano menzionate nel copione come «ragazza nuda senza nome uno, due e tre».) Ransohoff disse al reporter di Variety: «Nell’industria odierna, il codice è antiquato. Stiamo perdendo mercato perché permettiamo che le pellicole straniere offrano nudi integrali realizzati in modo artistico, ma noi non possiamo perché il codice ci deruba della nostra creatività… Preferisco avere un buon film che fa cinque milioni di dollari che uno pessimo che ne fa undici. Mi preoccupa molto l’integrità creativa delle mie pellicole». Questo promotore delle arti figurative fece poi predisporre dei comunicati stampa sull’alterco e li inviò ai giornali di tutto il paese, facendo concludere al New York Times: «A Hollywood è credenza diffusa che il signor Ransohoff abbia attaccato il codice per ottenere pubblicità per il suo film e perché pensa che i nudi aiuteranno gli incassi della sua pellicola». L’articolo del Times, ovviamente, procurò esattamente la pubblicità che Ransohoff stava cercando. Prima che Tempo di guerra, tempo d’amore uscisse, scese a un compromesso con la MPAA e tagliò qualche inquadratura da una delle scene. Quando Ransohoff cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di un regista per Cincinnati Kid, il suo coproduttore John Calley lo convinse a vedere Sfida nell’Alta Sierra. Lo fece e ne rimase impressionato. «Trovavo che Cincinnati Kid avesse qualcosa di western», dice Ransohoff, «e sentivo che Sam gli avrebbe dato proprio quel tocco. Mi intrigava ricreare una sparatoria con un mazzo di carte; Cincinnati Kid era quasi un western romantico». Sam non si fece illusioni sul materiale. Non era né Shakespeare né Tolstoj, ma i soldi non erano male – 67.750 dollari – e ne aveva bisogno dopo aver rinunciato a gran parte del suo salario per Sierra Charriba. Se fosse riuscito a fare di Cincinnati Kid un concreto successo commerciale, questo gli avrebbe fatto guadagnare l’opportunità di fare un film tutto suo.
Ma quando Sam si installò in uno dei sontuosi bungalow sul terreno della MGM – prima riservato a star del calibro di Clark Gable, Greta Garbo e Buster Keaton – cominciò ad avere dei ripensamenti su Cincinnati Kid. Gli sembrava di aver firmato per essere il capitano del Titanic. Non c’era una sceneggiatura, solo un trattamento di novantasette pagine di Paddy Chayefsky, che a Sam non piaceva. Una serie di scrittori – Frank Gilroy, Ring Lardner Jr. e Charles Eastman – fu ingaggiata per dare corpo a quel testo e trasformarlo in un copione, ma tutti consegnarono solo bozze a metà, piene di colpi di scena artificiosi e personaggi piatti. Ransohoff non restava in città più di qualche giorno ogni volta, prima di ripartire per New York, Parigi o qualche angolo remoto del mondo alla ricerca del prossimo affare di successo. Peckinpah finì con il prendere le scene migliori dalle varie bozze e metterle insieme per creare una sceneggiatura su cui si potesse lavorare. Martin Ransohoff pensava che il fulcro della storia fosse il triangolo amoroso da soap opera che gli altri sceneggiatori avevano creato sotto la sua supervisione. (Kid è diviso tra l’amore per una «brava» donna e il desiderio verso una «cattiva».) Ma con suo grande dispiacere, Peckinpah cominciò ad allontanare il focus da questo tema e a concentrarsi di più sul duro paesaggio in cui Kid viveva (New Orleans durante la Depressione), sulla spietatezza della sua professione e sugli effetti che essa aveva sulla sua personalità. Disse addirittura al suo produttore che voleva girare in bianco e nero. «Lo avevo avvisato che non volevo totale realismo. Volevo qualcosa che fosse liquirizia, popcorn», dice Ransohoff. «Doveva essere una sparatoria con mazzi di carte, con grandi personaggi in un’ambientazione meravigliosa». Sam, da parte sua, trovava i suggerimenti di Ransohoff sui colpi di scena, sullo sviluppo dei personaggi e sui dialoghi «assurdi, immaturi e senza senso», e glielo disse. Il conflitto si acuì quando cominciarono a scegliere il cast per i ruoli principali. Spencer Tracy si ritirò dal progetto
perché la MGM si rifiutò di pagargli quanto chiedeva, così Edward G. Robinson prese il suo posto. Sam concordava sul fatto che Robinson fosse un buon rimpiazzo, ma era dispiaciuto di aver perso Tracy. Poi arrivò Ransohoff con le sue proposte per i due ruoli femminili principali: Sharon Tate – una giovane attrice che aveva sotto contratto e sotto le sue lenzuola – e Ann-Margret. Le due voluttuose ragazze dei sogni nei ritmati anni Sessanta erano perfette per il film «ghiacciolo» che Ransohoff voleva produrre, ma orribilmente sbagliate per il film che Peckinpah aveva in mente. Sam diede voce alle sue obiezioni su entrambe le attrici con un sarcasmo pungente. Ransohoff fece un passo indietro sulla Tate, accettando di ingaggiare invece Tuesday Weld – una scelta di poco migliore – ma si rifiutò di rinunciare a AnnMargret. Il rapporto tra produttore e regista peggiorò rapidamente. Ora, ogniqualvolta i due uomini si trovavano insieme nella stessa stanza, la tensione si condensava sulle pareti e sul soffitto. E più il giorno di inizio riprese si avvicinava, più Peckinpah diventava agitato per l’incompletezza del copione (Terry Southern era stato coinvolto per un’ulteriore, affannosa riscrittura) e il generale stato di confusione della produzione. Sam non era l’unico che cominciava a innervosirsi. Ransohoff e Calley stavano iniziando a nutrire seri dubbi sull’equilibrio emotivo di Peckinpah. Ransohoff aveva ricevuto numerose telefonate da parte di Jerry Bresler che gli riempiva la testa di terrificanti storie su Sierra Charriba e lo incoraggiava a non affidare le redini del suo film a quel pazzo. Le riprese cominciarono il 3 novembre. Il quarto giorno la compagnia si trasferì sul set di una stanza d’hotel all’interno di un teatro di posa della MGM per girare una scena che Terry Southern aveva scritto sotto la supervisione di Ransohoff. In essa un giocatore d’azzardo, interpretato da Rip Torn, doveva prendere accordi al telefono per organizzare un’importante partita di poker. Il copione descriveva esplicitamente come, durante questa conversazione, Torn dovesse massaggiare il
fondoschiena di una «ragazza mezza nuda che giace sdraiata sul letto leggendo un libro intitolato Il potere della resa». Alla fine, la ragazza doveva urlare: «Oh Dio, non lo sopporto!» Peckinpah cominciò a girare la scena alle sei del pomeriggio e lavorò fino a tarda notte facendo ripetere agli attori dialoghi e azione più volte. Man mano cominciava a eliminare gli elementi per lui meno rilevanti. Prima fu tolto di mezzo il vibratore, poi il manganello, poi tutte le battute della ragazza, infine la sua biancheria intima, lasciandola completamente nuda sotto una pelliccia. Ransohoff era nel nord della California a supervisionare un altro film che stava producendo, Castelli di sabbia. John Calley era sul set di Cincinnati Kid a controllare i lavori per il suo socio e quel che vide non gli piacque affatto. Calley restò deluso dalla scomparsa del vibratore, allarmato da tutto il tempo che Sam stava impiegando per girare una semplice scena espositiva, e turbato dal cambiamento di tono che essa stava subendo. «Facemmo le undici di sera, se non mezzanotte», ricorda Calley. «Sam girava e rigirava la scena, perdendo tempo con quello strano aspetto aggiuntivo del film. Il film così come lo stava girando non aveva alcun senso». Sam continuò a fare le fusa alla ragazza con una voce morbida e ipnotica mentre provavano l’azione. Alla fine, la macchina da presa fu posizionata non davanti alla ragazza, ma dietro; quando si tolse la pelliccia e si infilò nel letto, la sua nudità era percepita più che effettivamente vista. «Sam le stava tirando fuori qualcosa di veramente triste», dice Jim Silke, che era sul set quella sera. «Lei non faceva niente, non diceva niente. Se ne stava semplicemente lì… Sam sapeva cosa voleva. Il fulcro della scena non era la nudità di lei, bensì l’espressione di Rip Torn. Era chiaro che non gliene fregava niente, della ragazza. Ci si era divertito, l’aveva usata e ora aveva finito con lei». Peckinpah terminò le riprese verso mezzanotte, soddisfatto di aver catturato su pellicola qualcosa di straordinario. «Mi sembrava una ripresa incredibilmente
buona», ricordò in seguito. Aveva trovato il tono giusto e sentiva di aver finalmente in mano la chiave del film. Nel frattempo, John Calley era tornato nel suo ufficio e aveva chiamato Ransohoff nel nord della California. «Faresti meglio a riportare il culo qui!», disse Calley. «Abbiamo un grosso problema». Il giorno seguente Sam girò una scena di inseguimento tra le stazioni di smistamento del centro di Los Angeles, che avrebbe avuto luogo all’inizio del film finito: Kid scappa da un paio di giocatori di carte, convinti che li abbia ingannati. Peckinpah aggiunse allo sfondo dell’inseguimento uno sciopero di ferrovieri che culminava in una vera e propria rivolta. L.Q. Jones, che interpretava uno degli inseguitori, ricorda: «Quella rivolta contava duecento persone. Facemmo in un pomeriggio ciò che normalmente richiederebbe a un buon regista di un grande film almeno una settimana. Fu fantastico. Lotte, fiamme, auto che si ribaltano, moto che scivolano – non era ingiustificato, serviva a rinforzare l’ambientazione temporale durante la Grande Depressione». A fine giornata Sam rientrò allo studio con il suo direttore della fotografia, Philip Lathrop. «Be’, penso che abbiamo abbastanza materiale», disse dopo un lungo, pensieroso silenzio. «Più tardi andiamo nel backlot, prepariamo un paio di pareti e facciamo dei primi piani». Quando arrivarono allo studio, Peckinpah scese dall’auto e disse: «Ci vediamo lunedì». Lathrop annuì e si avviò verso il reparto fotografia. Non appena varcò la soglia, il caporeparto gli si avvicinò e disse: «Lunedì non lavori». «Significa che sono stato licenziato?», chiese Lathrop. «Tu no, il regista sì». Mentre Sam era su una gru da ripresa tra le stazioni di smistamento, Ransohoff e Calley erano in una sala proiezioni
alla MGM a rivedere il girato dei primi quattro giorni. Ransohoff era inorridito da ciò che vedeva. «Era cupo, grigio e desolante. Io cercavo di fare un film di alto livello. Questo film doveva essere un ghiacciolo. La MGM aveva una visione molto chiara, sapevamo cosa volevamo creare e mi stavano pagando e contavano su di me per farlo, ma non credevo che Sam remasse nella stessa direzione. Chiudere significava perdere 500.000 dollari. Avevamo un cast di stelle e nessun regista. Credetemi, non fu una scelta fatta con leggerezza. Ero molto deluso perché mi ero messo in una brutta posizione per Sam. È stato molto imbarazzante per me». «Ho fatto tre film con Martin Ransohoff e l’ho trovato un gran rompipalle in tutte e tre le occasioni», dice lo sceneggiatore-produttore E. Jack Neuman. «Non poteva sapere se il primo girato di Cincinnati Kid fosse buono o meno. Non sapeva proprio come si facesse, a giudicare un film». Il lunedì seguente Peckinpah e il suo agente furono convocati nell’ufficio di Ransohoff. Poco prima dell’ora dell’appuntamento, Calley corse al reparto allestimenti della MGM e prese un caschetto da boxe della Everlast. Infilandosi nell’ufficio di Ransohoff qualche minuto prima che Sam arrivasse, lo mostrò al produttore dicendo: «Tieni, Marty, penso sia meglio che tu lo metta». Ransohoff rise nervosamente. Entrambi avevano sentito di un incidente avvenuto pochi giorni prima nella sede della MGM: Sam aveva preso a pugni il suo amico Frank Kowalski nel mezzo di un’accesa discussione e lo aveva mandato all’ospedale. Quando la segretaria di Ransohoff annunciò all’interfono l’arrivo di Sam, il produttore mise il caschetto nell’ultimo cassetto della sua scrivania e disse: «Digli di entrare». Con grande sorpresa e sollievo dei due produttori, tutto filò liscio. «Fu un incontro di cinque minuti», dice Ransohoff. «Dissi: “Sam, semplicemente non mi piace il film. Non è questo il film che voglio fare”. Non c’era nulla di personale, non ero arrabbiato con lui. Ero deluso. Mi ero esposto per lui. Mi era capitato di rimpiazzare un regista tre o quattro volte su
quarantacinque film prodotti nella mia carriera. Succede, ma non è mai una bella cosa. Non ci fu nessuno psicodramma, volevamo semplicemente fare un cambiamento». «Sam fu molto sportivo», dice il coproduttore John Calley. «Si alzò, strinse la mano a tutti e se ne andò». Ma il peggio doveva ancora venire. Ransohoff andò dai giornali di settore e annunciò con tono moraleggiante le motivazioni dell’esclusione di Peckinpah dal film. Il risultato fu un articolo nell’edizione del 9 dicembre di Variety che diceva, tra l’altro: «I problemi di Peckinpah a quanto pare sono stati originati dalla decisione di girare una scena di nudo che non era prevista nel copione, ma che il regista ha scritto di sua iniziativa. Secondo le testimonianze, lo scorso venerdì ha liberato il cast principale ed è rimasto a girare la scena di nudo usando una comparsa». Quando lesse l’articolo, Sam rimase a bocca aperta. L’audacia di Ransohoff era incredibile. Lo stesso uomo che aveva fatto pubblicità alla sua precedente produzione grazie a delle scene di nudo, ora gridava all’oltraggio con la stessa autorità morale del predicatore Billy Graham. E quei reporter senza cervello sembrava ci fossero cascati con tutte le scarpe! L’editorialista Sheilah Graham scrisse: «Concordo con la decisione di Marty Ransohoff di sostituire il regista Sam Peckinpah in Cincinnati Kid. Il nudo sta chiaramente spingendosi troppo in là se un regista, Sam, gira una scena di nudo per il proprio puro piacere. In primo luogo, perché dovrebbe condividere la decisione; in secondo luogo, perché non ha alcun diritto di sprecare i soldi di chi comanda». Nessuna delle persone presenti sul set la sera in cui Sam girò la scena nella camera d’hotel – né il direttore della fotografia Philip Lathrop, né il dialoghista Jim Silke, né il direttore di produzione Austen Jewell – ricorda la scena come lo scioccante momento pornografico descritto da Ransohoff. Tutti confermano la versione di Peckinpah secondo cui, sebbene la ragazza fosse nuda sotto la pelliccia, l’immagine
impressa sulla pellicola era sfuggente, e l’erotismo sottinteso più che esplicito. Quando il responsabile commerciale di Sam, Bob Schiller, incontrò Ransohoff per ottenere che il salario di Peckinpah fosse interamente pagato, le motivazioni delle accuse per la scena di nudo divennero chiare. «Dissi a Ransohoff: “Okay, ora che si fa? Come la mettiamo con la paga? Tu sei nel film e ora lo stai cacciando. Che intenzioni hai per quanto riguarda il suo compenso?” Ransohoff disse: “Be’, stiamo ancora valutando”. Io dissi: “Che significa, che state valutando?”, e lui: “Stiamo valutando se ha violato la clausola del contratto relativa alla depravazione morale”». Schiller e gli avvocati di Peckinpah rifiutarono qualunque accordo di compromesso, e alla fine Sam ricevette il salario che gli spettava, senza decurtazioni. Norman Jewison lo sostituì alla regia e due settimane dopo ricominciò a girare il film da zero. Ora le riprese erano a colori, con Tuesday Weld e Ann-Margret che vagavano in una Depressione dai colori pastello, con le loro voluttuose pettinature anni Sessanta. Sam sarebbe rimasto nel suo bungalow alla MGM per un altro anno, grazie a un accordo di sviluppo lucrativo concluso prima della catastrofe di Cincinnati Kid. Ma lo studio rifiutò di trovare finanziamenti per uno qualunque dei copioni da lui sfornati con Jim Silke. Quando il suo contratto scadde, si ritrovò in mezzo a una strada. Il telefono smise di suonare, e se era lui a chiamare non riceveva risposta. Di alcuni studi non gli era permesso nemmeno di varcare i cancelli. Il disastro di Sierra Charriba, seguito dal licenziamento e dalla pubblica condanna di Ransohoff, aveva distrutto la sua credibilità. La sua promettente reputazione stava ora precipitando dritta sulle rocce. Newsweek scrisse nel suo pungente necrologio della carriera di Peckinpah: «Come urlano i personaggi dei fumetti mentre cadono da un dirupo: “Aaaaah!”» «La reputazione di ribelle di Sam cominciò a diffondersi», disse John Veitch, che sarebbe poi diventato capo della produzione alla Columbia. «Non fece nulla per impedirlo. Molte persone, credo, cominciarono a preoccuparsi
che avesse un problema. Mi chiamavano per chiedermi di lui e io dicevo: “Non è vero”. Una volta che sei etichettato come difficile, la cosa brutta è che le voci si diffondono e tutti fuggono via spaventati. Si comincia probabilmente con il capo dello studio che dice: “Be’, non vogliamo rischiare con lui”. O qualche attore che dice: “Be’, mi sembra di capire che è problematico. Non so se voglio lavorare con lui”. O un agente che cerca di spingere uno dei suoi clienti e dice: “Be’, sai, io ho un regista che rispetta i programmi, non causa problemi. Perché procurarti un grattacapo?” Tutte queste persone nella filiera sono spaventate di invischiarsi con lui e così la sua reputazione si diffonde, spesso in modo assolutamente ingiusto». Ai semplici conoscenti Sam sembrò prendere quell’esilio professionale «da vero uomo». Se lo scrollava di dosso stoicamente e continuava a sfornare sceneggiature, sperando di trovarne una abbastanza buona perché potesse fungere da biglietto per rientrare nel gioco. Ma quelli più vicini a lui sapevano che era stato un duro colpo. «Ne fu completamente distrutto, e per molto tempo», dice L.Q. Jones. «A fargli più male di qualunque altra cosa fu la voce che Sam facesse film lascivi, e che di lui non ci si potesse fidare. Nessuno lo assumeva e non poteva fare film. Be’, è come dire a un predicatore che non può andare in chiesa. Quella era la chiesa di Sam. Per cui che cosa fai? Cadi in pezzi: ed è proprio quello che successe a lui».
6
SULLA SPIAGGIA
All’alba di una delle epoche più eccitanti per il cinema americano, Sam Peckinpah si trovava seduto a bordocampo. La maggior parte dei suoi contemporanei stava finalmente ottenendo la propria grande occasione e verso la fine degli anni Sessanta quella nuova generazione di registi proruppe con alcuni tra i più audaci e innovativi film mai giunti a Hollywood. C’erano un certo numero di fattori convergenti che diedero origine a questa seconda epoca d’oro, e il più importante di tutti fu lo sconvolgimento interno della società americana. La guerra del Vietnam era diventata una brutta ferita aperta. Il presidente Lyndon Johnson era stato eletto per il suo primo mandato dipingendo l’avversario repubblicano Barry Goldwater come un pericoloso falco che voleva espandere il ruolo militare dell’America nel Sudest asiatico. Dopo l’elezione, quando era sembrato che il Vietnam del Sud stesse per capitolare contro il Nord, Johnson incrementò le truppe armate facendole arrivare nel 1967 da 16.000 a 464.000. La guerra costava ora ai contribuenti due miliardi di dollari al mese, ma la corruzione del governo vietnamita spillava il 40% degli aiuti americani. I bombardieri statunitensi polverizzavano villaggi e facevano saltare in aria giungle col napalm nel Vietnam del Sud e lungo il confine cambogiano. I B-52 rilasciavano i portelli del vano bomba sopra Haiphong Harbor, le basi militari intorno Hanoi, quindi sopra la città e la
sua periferia, mietendo numerose vittime tra i civili. Le troupe televisive erano nel mezzo dello scontro a fuoco e ogni sera al telegiornale delle 18 venivano somministrati agli americani la visione e l’ascolto dei feriti, degli ustionati, dei menomati, dei morti. La benevola utopia degli anni Cinquanta raccontata da Il carissimo Billy e l’immagine che gli americani avevano di se stessi come i bravi moralisti che si impongono per la libertà, la verità e la giustizia in tutte le nazioni del mondo erano ormai completamente e irrecuperabilmente infrante. Le proteste pacifiste esplosero nei centri d’arruolamento, nei campus dei college e sul prato della Casa Bianca. Nel marzo 1966, 20.000 dimostranti pacifisti sfilarono in corteo lungo la Fifth Avenue di New York, mentre altre migliaia marciavano a Washington, nel Midwest, in California. Nell’ottobre 1967, 50.000 attivisti pacifisti si riunirono al Lincoln Memorial, marciarono attraverso il Potomac e presero d’assalto il Pentagono urlando oscenità mentre si lanciavano contro file di soldati e agenti federali di guardia all’edificio con le baionette. I dimostranti furono colpiti alla testa con i calci delle pistole e i manganelli e 250 furono arrestati, tra cui il romanziere Norman Mailer. La guerra non era l’unico tema a scatenare proteste e rivolte sul fronte interno. I leader dei diritti civili afroamericani erano stanchi di vedere i propri seguaci vessati con mazze, lacrimogeni e proiettili nel Profondo Sud, e frustrati dal persistere delle disparità tra l’America bianca e quella nera. Ulteriori leader militanti erano sopraggiunti, come Stokely Carmichael, premendo per un’aperta rivoluzione contro i bianchi. «Ci hanno insegnato a uccidere [in Vietnam]», diceva Carmichael. «Ora la lotta è negli Stati Uniti. Non abbiamo altra scelta che usare un’aggressiva violenza armata per entrare in possesso di terre, case e negozi nelle nostre comunità e per avere il controllo della politica di quelle stesse comunità». E verso il 1966 e il 1967 sembrava che quella rivoluzione fosse a un passo dall’esplodere. A Watts, un quartiere povero della Los Angeles meridionale, le diffuse rivolte portarono a
due morti e a venticinque feriti. Le rivolte sconvolsero anche Chicago, New York, Cleveland, Boston e Buffalo. Quattromila uomini della Guardia Nazionale furono chiamati a Chicago per contenere l’agitazione; anche le truppe federali dovettero essere schierate nel Mississippi e 4700 paracadutisti furono inviati a Detroit dal Presidente Johnson per fermare le rivolte afroamericane che avevano collezionato trentotto morti e 150 milioni di dollari di danni. «Sembrava di stare a Berlino nel 1945», disse poi il sindaco di Detroit Jerome P. Cavanagh. Qualcosa era andato orribilmente storto in America, e nessuno sapeva dire come fosse successo. Mentre il vecchio sogno americano esalava l’ultimo respiro, un nuovo gruppo di visionari riempì il vuoto con una caleidoscopica alternativa. Ken Kesey e la sua banda dei Merry Pranksters giravano per la nazione su uno scuolabus dipinto di mandala, lanciando scintille che accesero roghi da costa a costa, e un ex professore di psicologia di Harvard, Timothy Leary, fondò l’International Foundation for Internal Freedom per la ricerca e promozione dell’LSD. Leary invitava le generazioni più giovani con lo slogan «Accenditi, sintonizzati ed esci». A San Francisco, gli Acid Test di Kesey – scatenati eventi multimediali dove sia gli interpreti che gli spettatori espandevano la propria coscienza grazie a bibite corrette con l’LSD – resero il quartiere di Haight-Ashbury un pazzo, eccitato vortice floreale della nascente controcultura. Migliaia di giovani si ammassarono a San Francisco nel ’67 per la «Summer of Love». Diecimila hippie si radunarono a New York per un evento a Central Park e 50.000 sciamarono verso Monterey per il Pop Festival del luglio 1967, cui prese parte una nuova generazione di musicisti acid rock: Jimi Hendrix, i Jefferson Airplane, i Grateful Dead, gli Who, Janis Joplin. Gli sceneggiatori e i registi di Hollywood non poterono fare a meno di reagire a quella tempesta di conflitto e confusione che aveva travolto il paese e le loro stesse vite; erano, anzi, pronti e bramosi di gettarsi nell’occhio del ciclone. E la fine del vecchio sistema degli studi
cinematografici lo rese possibile. Quando i nuovi produttori hollywoodiani si imbarcarono per la loro missione di infondere materia più «adulta» nei film americani – profittevoli o sinceri che fossero i loro motivi – aprirono la porta a un periodo di sperimentazione senza precedenti sia nello stile che nel contenuto, per i film di Hollywood. E fortunatamente, l’economia del tempo era favorevole. «Si potevano fare film per molti meno soldi», dice Martin Baum, che sarebbe diventato il capo della ABC Pictures, una delle società di produzione più audaci del tempo. «Fallire non significava poi molto. Se fallivi con un film da due milioni e mezzo di dollari, quanto poteva essere grave? Lo vendevi alla televisione per quasi un milione di dollari, ci mettevi sopra i diritti esteri e andavi in pari. Le stampe [del film per i teatri] e la pubblicità costavano al massimo un paio di milioni. Erano spese accessibili, e si potevano provare cose nuove, fare cose interessanti. La vita non finiva se il tuo film non diventava un successo». La nuova generazione di registi di Hollywood non perse tempo a pretendere che i produttori sostenessero tutto quel pontificare sull’«arte del cinema» con i fatti, cioè dando loro il controllo sui film che tanto piaceva alle loro controparti europee. Elliot Silverstein, regista di Cat Ballou (1965) e di Un uomo chiamato Cavallo (1970), capeggiava il movimento dei diritti creativi per i registi. Nel 1965 la Directors Guild of America negoziò un accordo base con i grandi studi che dava ai registi il diritto di supervisionare il montaggio dei loro film. Ai registi era ora garantita almeno una proiezione pubblica del loro montaggio prima che lo studio potesse subentrare e portarglielo via. «Ecco perché negli anni Sessanta il montaggio cominciò a cambiare e a diventare molto più sperimentale», spiega Silverstein. «I registi avevano la speranza di poter almeno presentare il film così come lo vedevano loro, e di conseguenza potevano lavorare senza preoccuparsi troppo di come fosse apparso il girato nei giornalieri, perché sapevano
come lo avrebbero tagliato in seguito. Ecco perché il montaggio divenne così popolare. I vecchi registi come Ford e Hawks giravano scene in lunghe riprese da poche angolazioni; chiudevano poi la ripresa così che i tecnici avessero solo un modo per metterle insieme. Ora non c’era più bisogno di far questo». Come bambini in un negozio di giocattoli, i registi americani si lasciarono selvaggiamente andare, provando tutte quelle nuove tecniche che avevano visto usare, non senza invidia, agli europei. Navigando in acque inesplorate; cercando nuovi modi per girare scene, raccontare storie; infrangendo quante più vecchie regole potevano per vedere quali nuove scoperte riuscivano a fare. «È stato un periodo eccitante, un periodo meraviglioso», dice Reza Badiyi, che lavorò in qualità di regista di seconda unità in quegli anni. «Fu un periodo di grande consapevolezza, come nessun’altra epoca lo è stata. Era la follia!» L’uomo del banco dei pegni di Sidney Lumet fu uno dei primi film d’autore americani. Analisi psicologica di un sopravvissuto a un campo di concentramento (Rod Steiger) che vive nella New York contemporanea, il film fu girato in bianco e nero e utilizzava flash cut alla Hiroshima Mon Amour di Resnais per evocare gli angosciosi ricordi del campo di sterminio che pesano sulla vita presente di Steiger. C’erano esplicite scene di nudo e violenza e dialoghi intrecciati di oscenità che quasi annientavano il codice di produzione MPAA. Il cupo finale evitava qualsiasi lieto fine o morale conclusiva, e lasciava senza risposta molte domande sul tormentato protagonista. Prodotto della televisione in diretta, Lumet aveva già accumulato un’impressionante lista di esperienze cinematografiche quando diresse L’uomo del banco dei pegni. Lo stesso non si poteva dire di Mike Nichols, che esplose sugli schermi americani dopo uno spettacolare successo come cabarettista (insieme alla sua partner Elaine May) e come regista teatrale a Broadway. Nichols divenne uno dei ragazzi d’oro del cinema d’autore con il suo primissimo film, un
adattamento di Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee (1966). Anch’essa girata in bianco e nero e piena di parolacce e dialoghi lascivi, la rappresentazione di Albee metteva a nudo tutte le contorte e tormentose nevrosi che si nascondevano dietro l’apparenza della borghesia americana. Dietro le ben chiuse porte della loro casa di periferia dal paesaggio perfetto, Ozzie e Harriet erano intrappolati in una follia cannibalistica. Oltre la coltre di plexiglass della normalità giaceva una trapunta patologica di rachitiche ambizioni, disprezzo di sé, disperate illusioni. Nichols si ripresentò un anno dopo e con Il laureato dipinse un ritratto più comico, ma non meno aspro, della borghesia e del «gap generazionale». L’adulterio, l’alcolismo e il vuoto materialismo correvano sfrenati e l’immagine di Dustin Hoffman che galleggia nel vuoto grigio-blu della piscina nel suo giardino, con la muta da sub che suo padre lo aveva obbligato a provare per gli ospiti, riassumeva l’alienazione di un’intera generazione. Nichols utilizzò dei jump cut per veloci transizioni narrative e montò tutte le sequenze al ritmo della colonna sonora di Simon & Garfunkel, rendendo Il laureato sofisticato e artistico, seppur non a detrimento dell’impatto commerciale. Un altro cineasta americano che cominciò a raggiungere l’apice nel 1967 fu Arthur Penn, anche lui veterano regista di Broadway e della tv. Penn aveva anche già fatto molti film, tra cui una versione della leggenda di Billy the Kid, Furia selvaggia – Billy Kid (1958), che dipingeva Kid come un antieroe degli anni Cinquanta: confuso, arrabbiato, ma in cerca della normalità. La violenza in Furia selvaggia era improvvisa, crudele, spogliata di qualsiasi traccia di romanticismo e Penn anticipò (o probabilmente ispirò, visto che Sam conosceva molto bene il film) l’uso che Peckinpah fece dei bambini nel Mucchio selvaggio. In una scena, una bambina corre in strada per osservare l’ultima vittima di Kid. Indica lo stivale perso dall’uomo e ride, finché la madre non la allontana e non le dà uno schiaffo.
Ma fu con Gangster Story (1967) che Penn assunse il comando come regista americano preminente. Penn – e gli sceneggiatori David Newman e Robert Benton – trasformarono in mito i due pazzi assassini e rapinatori Bonnie e Clyde, facendone una coppia di ribelli stile anni Sessanta che si oppongono al sistema. L’azione aveva luogo durante la Depressione, in un momento in cui le banche stavano pignorando le fattorie strangolate dai debiti, ma nel contesto degli anni Sessanta c’era un doppio significato, visto che le banche stavano aiutando a finanziare la macchina da guerra del Vietnam. Nella scena finale del film, Bonnie e Clyde cadono in un agguato degli uomini dello sceriffo e vengono riempiti di proiettili. Faye Dunaway e Warren Beatty erano stati equipaggiati con centinaia di petardi – minuscole capsule di polvere nera e profilattici pieni di tintura rossa posizionati sotto i loro vestiti. Azionati elettronicamente, i petardi esplodevano aprendo dei buchi nella camicia e nei pantaloni di Beatty e nel vestito della Dunaway e facevano schizzare la tintura dappertutto. Come colpo di scena, Penn girò l’azione al rallentatore. Beatty e la Dunaway si muovevano spasmodicamente mentre fori di proiettile esplodevano sui loro torsi. Il pubblico del 1967 restò seduto in traumatizzato silenzio dopo quella scena. Nessuno aveva visto niente di simile, prima di allora. A quanto pare, Penn aveva preceduto Peckinpah sulla vetta – la combinazione di petardi e rallentatore raggiunse quell’orrore viscerale che Sam aveva ricercato, ma che non era stato capace di cogliere, in Sierra Charriba. Tuttavia, dopo averci rimuginato un po’ su, Peckinpah si rese conto che il tutto poteva essere portato un passo più in là – in realtà, molti passi più in là. Penn era semplicemente passato al rallentatore nel punto di climax per poi tornare al ritmo normale quando i fuorilegge erano entrambi morti. I petardi avevano potenziato l’impatto di dieci volte almeno, ma l’uso del rallentatore non era essenzialmente molto diverso da quello di Kurosawa nei
Sette samurai. A livello di montaggio, l’effetto era statico. L’intreccio dello slow motion nel tessuto di una sequenza – inserirlo, uscirne, poi ritornarci come Sam aveva cercato di fare in Sierra Charriba – doveva ancora essere raggiunto. Ma non ci sarebbe voluto molto prima che Penn o qualcun altro facessero quell’ulteriore passo. E dov’era Peckinpah in quegli anni? Nella sua casa a Malibu, a sfornare copioni nella speranza di trovarne uno che avrebbe fatto da biglietto per rientrare nel gioco. «Scriveva e scriveva e scriveva», dice L.Q. Jones. «Quel periodo dopo Cincinnati Kid fu di gran lunga il più produttivo in termini di copioni e di idee». Il più frequente compagno di scrittura di Sam in quegli anni era Jim Silke. Silke conobbe Peckinpah nel 1963 quando lo intervistò per la rivista Cinema che Jim aveva fondato prima di lasciare l’incarico di direttore artistico esecutivo alla Capital Records. Peckinpah riconobbe quasi immediatamente che quel giovane alto e occhialuto condivideva la sua stessa passione morbosa per i film, per la storia e il folklore del Vecchio West. Tra i due nacque presto una profonda amicizia. Silke non aveva mai scritto per lo schermo prima di conoscere Peckinpah, ma era impaziente di imparare, così Sam divenne il suo istruttore, allenandolo, spronandolo e bullizzandolo con un allenamento base. Tutto cominciò con la riscrittura di piccole scene per Sierra Charriba e Cincinnati Kid, per poi intensificarsi quando Sam decise di collaborare con Silke per un adattamento di un romanzo di James Michener, Caravans – un’altra delle avventure melodrammatiche quanto voluminose dell’autore. Cominciarono a lavorarci mentre Cincinnati Kid era in preproduzione e continuarono dopo il licenziamento di Sam. Contemporaneamente crearono un altro thriller d’azione, Ready for the Tiger. Alla fine la MGM cancellò entrambe le produzioni e, quando l’accordo di sviluppo con lo studio scadde, Sam fu obbligato a lavorare di nuovo da casa, praticamente senza prospettive certe. Silke lavorò con lui.
Peckinpah aveva acquistato i diritti di due piccoli romanzi che voleva disperatamente tradurre in film. Divennero un’ossessione gemellare e per il resto della sua vita tentò di manipolare, imbrogliare, convincere i produttori affinché li finanziassero. Il primo era Hi-Lo Country di Max Evans. Crudo e spinoso come gli altipiani desertici che gli fanno da sfondo, Hi-Lo Country raccontava la storia di Big Boy Matson, un uomo dall’incredibile stazza di un totem. Nato nella straordinaria epoca del Selvaggio West, Matson ritorna in New Mexico dopo la seconda guerra mondiale e si trova provocatoriamente in disaccordo con i nuovi e ricchi proprietari terrieri che hanno trasformato la realtà dei ranch da uno stile di vita in un affare commerciale. Il secondo libro era Castaway, un bizzarro psicodramma di James Gould Cozzens. Cominciava come un’opera di fantascienza alla Ray Bradbury. Quando una non meglio specificata catastrofe colpisce New York, l’unico sopravvissuto, il signor Lecky, si rifugia in un cavernoso grande magazzino. Lì trova tutto ciò che gli serve per vivere il resto dei suoi giorni nel lusso – finché non scopre di non essere solo. Un intruso, una mostruosa creatura scimmiesca, bracca le corsie piene di prodotti con l’intenzione, Lecky ne è convinto, di ucciderlo per prendere possesso dell’intero bottino offerto dal negozio. Nel panico, Lecky corre verso il reparto delle pistole, si arma, dà la caccia e spara al suo avversario. Ma qui, con una logica surreale, il dramma si tramuta in una sinistra gestalt. Sanguinante e morente, la creatura gli ispira ora pietà, mentre piagnucola come un bambino che si è perso. Quando alla fine muore, Lecky si fa coraggio e si avvicina al cadavere per volgere la sua faccia verso la luce e resta scioccato da ciò che vede. Cozzens scrive: «Il signor Lecky sapeva perché non aveva mai visto un uomo con quel volto. Conosceva chi era stato inseguito e crudelmente ucciso, chi era ora morto e non avrebbe più potuto salire altre scale. Sapeva perché il signor Lecky non avrebbe mai potuto avere per sé la scorta di quel
grande magazzino». Aveva sparato a se stesso; era lui, il mostro. Il pensiero torna immediatamente al piccolo D. Sammy, il ragazzino magro e tranquillo dai grandi occhi che amava più di qualunque altra cosa nascondersi nella sua stanza con i suoi Piccoli Grandi Libri, che fronteggiava l’implacabile derisione del nonno per la sua indole sensibile, che per ottenere l’approvazione degli uomini della famiglia aveva dovuto uccidere il suo lato «femminile» e infantile. «Incarna certamente il punto di vista di Sam», dice Silke di Castaway. «Parla di ciò che facciamo a noi stessi». Peckinpah e Silke parlavano, faticavano, discutevano e scrissero e riscrissero per quasi due anni prima di completare finalmente le sceneggiature sia di Hi-Lo Country che di Castaway. A quel punto la loro collaborazione aveva preso la routine di una vecchia coppia sposata. Silke era a casa di Peckinpah quasi tutti i giorni e molte notti, a scribacchiare fino alle prime luci del giorno. Una settimana sì e una no, Sam e Jim andavano a fare la spesa insieme al Mayfair Market (Sam lo chiamavava «May Farket»). Sam comprava la carne, Jim il pane e il burro d’arachidi; concludevano sempre la missione guardando dall’alto la nebbiolina bianca del frigo dei gelati, discutendo su quale gusto prendere. «Voleva sempre gusti ricercati, mentre io volevo semplice vaniglia», dice Silke. «Era qualcosa su cui ero risoluto e veloce e non gliel’avrei mai data vinta. Divenne un pomo della discordia. “Stupido Silke del cazzo, vuole la vaniglia”. Sam proseguiva dicendo che la mia preferenza aveva a che fare con la mia personalità e andava avanti, ci costruiva su un romanzo. Restava venti minuti a selezionare i gusti particolari. Mi faceva diventare pazzo. Era una tattica per procrastinare, per evitare di scrivere. Sam aveva centinaia di tattiche di procrastinazione, qualsiasi cosa pur di non farlo. Per questo si soffermava tanto sul gelato, e anche questo mi faceva arrabbiare. Insomma, era tutto parte del gioco». Poi tornavano a casa, dove si chiudevano in ufficio e Sam ringhiava contro Begonia quando osava interromperli.
Cominciava così il doloroso processo che consisteva nel separare personaggi e scene per poi rimetterli insieme. Si interrogavano l’un l’altro, si guardavano dentro in cerca dei loro demoni personali, delle loro intime ossessioni, paure, degli sporchi segreti tenuti nascosti ai loro stessi occhi – perché era lì che si poteva trovare materiale vero. Per Silke, i due anni dopo Cincinnati Kid furono esaltanti sul piano creativo, il periodo più eccitante della sua vita. «Sam dava il suo meglio quando era a terra», sostiene Silke, che aveva assistito a molti degli eccessi nevrotici di Peckinpah lavorando a Sierra Charriba. «Quando era a terra, all’improvviso era tenace, era semplicemente meraviglioso. Era veramente resiliente. Non potete immaginare quanto producemmo. Lavoravamo sempre, e senza prospettive immediate. Ero in servizio ventiquattr’ore su ventiquattro». Sul piano economico, era un periodo di magra, ma non così disperato come Sam si sarebbe divertito a descriverlo. Usò il denaro ricavato da Cincinnati Kid e dal suo accordo di sviluppo alla MGM per comprare una casa a Broad Beach, nel punto più a nord di Malibu, e un piccolo puzzolente ranch per il bestiame – che consisteva in «ottanta ettari di artemisie», disse Sam in seguito, un ranch malmesso e qualche manzo sparso qua e là – vicino ai suoi terreni di caccia preferiti di Ely, in Nevada. Gli incassi residui dei suoi show televisivi continuavano ad arrivare con il contagocce, permettendogli di mantenere entrambe le proprietà durante questo periodo di inattività. Ma quando i suoi risparmi iniziarono a scemare, fu costretto a vendere le sue percentuali di profitto di The Rifleman e The Westerner per 10.000 dollari ciascuna. Sam espresse in seguito grande rimorso per averlo fatto, ma il suo responsabile commerciale, Bob Schiller, sostiene che l’amministrazione creativa delle società di produzione televisiva rendeva assai improbabile che potesse mai ricavarne cifre importanti. Per la prima volta da anni non aveva la pressione di una grande produzione che gli pendeva sopra la testa, e così aveva
il tempo di godersi la bella vita sulla scintillante sabbia di Broad Beach. Fu come tornare ai primi giorni nella Colonia. Pur non essendo un palazzo sulla spiaggia, la nuova casa era la più grande che Sam avesse mai posseduto. Una struttura beige a due piani di forma quadrata, il salotto aveva un atrio con piante da interni, un soffitto di sei metri e finestroni per accogliere la luce del sole della California di giorno e quella blu della luna di notte. C’erano tre stanze da letto; la camera principale aveva un balcone che dava sulla spiaggia. L’ufficio di Sam era direttamente sotto, con una gigantesca finestra panoramica che affacciava anch’essa sulla sabbia bianca e l’acqua azzurra. «Non si poteva assolutamente fare alcun rumore quando papà era lì dentro a lavorare», ricorda Melissa. C’era una cucina con un bancone che fungeva da bar e uno shaker per le feste, una piccola sala da pranzo e fuori sul retro un grande patio dipinto di grigio con frangivento di vetro e scalini che conducevano sulle ondeggianti dune di sabbia. Nei fine settimana, ovviamente, c’erano feste senza fine. Un paio di dozzine di parenti di Begonia di Los Angeles convergevano lì con vassoi di cibo messicano come paella (pollo cucinato con riso, mais, peperoni verdi e rossi, polpa di granchio, gamberetti e vongole) e pica de gallo (pollo, la radice dolce jicama, peperoncini, cipolle e arance). Sam era deliziato da questa invasione; il Messico giungeva da lui ogni sabato e domenica. Spesso lo si poteva trovare fuori a occuparsi del barbecue. Non c’era un barbecue in muratura in quella casa, per cui scavava semplicemente un buco nella sabbia, lo riempiva di carboni e quando erano giallo-rossi vi metteva la carne direttamente sopra. «Cuoceva gli hot dog finché non erano neri», ricorda Melissa. «Erano secchi e pieni di sabbia, ma ci mettevamo sopra una salsa che faceva lui con le cipolle appena tagliate». Quando si cucinava manzo, maiale o pollo, marinava la carne con del «boongow» mescolato da lui e Walter Peter. Una volta, dopo aver divorato una delle sue bistecche, Lyn Silke tornò e chiese: «Sam, cosa c’è in questa salsa? È deliziosa!»
Sam la guardò, sorrise in maniera enigmatica e posò la cenere della sua sigaretta nella ciotola del boongow. «Faresti prima a chiedere cosa non c’è». Adorava preparare capolavori misteriosi per i suoi ospiti. Generalmente, il suo assistente per questi progetti speciali era il figlio, Mathew, che aveva ormai tre anni e andava per i quattro. Magro come un cane messicano di paese, occhi nocciola mezzi coperti da una zazzera ribelle di capelli biondi, Mathew passava la maggior parte dei suoi fine settimana a correre per la casa di Broad Beach completamente nudo. Un giorno suo padre lo prese da parte. «Questo sarà il nostro progetto segreto, socio, solo tra me e te». Gli diede un secchio e gli disse di andare in giardino e raccogliere tutte le lumache che riusciva a trovare. Mathew tornò una mezz’oretta dopo con il secchio traboccante di molluschi mucosi. Guardò con occhi affascinati suo padre immergerle nell’acqua con il sale, far scivolare i loro corpi curvi e mollicci fuori dai gusci, poi metterli sul barbecue e spalmarci sopra il boongow. Sam li impiattò e, facendogli l’occhiolino, mandò Mathew in giro a offrirli agli ospiti. «Sam, ma che cos’è questa roba?», indagò alla fine qualcuno. Mathew ricorda che quando si sentì rispondere la verità, una persona vomitò. «Papà adorava fare questi giochi», dice Mathew, «come rubarti il cibo dal piatto quando non stavi guardando. Era bravissimo a farlo. Te ne stavi a mangiare la tua cena e poi lui guardava verso la spiaggia come se qualcosa avesse colpito la sua attenzione e diceva: “Mathew, che diavolo è quello?” Ti giravi per guardare e lui ti rubava una patata e rideva. Lo divertiva tantissimo». Ricordando quei giorni così lontani, Jim Silke dice nostalgicamente: «Fu un periodo meraviglioso. Io non bevo, ma ero più sbronzo di tutti loro». Ma il lato oscuro era sempre in agguato, pronto a saltar fuori inaspettatamente. Fern Lea lo vide una sera in cui lei e Sam erano seduti da soli in cucina. La guardò con
un’espressione stranamente indifesa, e disse di sapere che non sarebbe vissuto a lungo. La mente di lei tornò a quel giorno in cui aveva citato la poesia di Edna St. Vincent Millay durante una delle sue visite a casa dall’accademia militare San Rafael. Questa volta non c’era alcuna romantica spacconeria, piuttosto una stanchezza, un triste fatalismo che Fern Lea non aveva mai visto prima. Sam butto lì quei pensieri in maniera così criptica, dal nulla, che la sorella non seppe mai come rispondere. I suoi figli videro il lato oscuro molto più spesso degli altri visitatori – molto più spesso di quanto volessero. Il risentimento tra Sam e Marie continuava a inasprirsi e trovò espressione in conflitti incentrati sul tipo di valori che i bambini avrebbero dovuto seguire durante la crescita. Pedine di quella battaglia, furono i figli a incassare la maggior parte dei colpi. Sam viveva nel terrore di una qualche terribile calamità che potesse togliere la vita ai suoi figli. Ogni volta che lo andavano a trovare sulle location dei suoi film, negli anni seguenti, insisteva perché volassero su aerei diversi. In quel modo, se un aereo fosse precipitato, non li avrebbe persi tutti. «Mio padre si prese il compito di infondere la paura in noi», dice Kristen. «Ma non era completamente irragionevole. Il mondo è un posto pericoloso». Il padre di Marie morì in un incidente automobilistico qualche anno dopo il loro divorzio. Art Selland, al tempo sindaco di Fresno, era a pochi chilometri da casa quando un camion colpì l’auto che stava guidando con a bordo alcuni collaboratori. Catapultato fuori dall’auto, Art morì quasi all’istante. La tragedia tramutò Sam in un fanatico della cintura di sicurezza. Molte nuove conoscenze restavano scioccate quando montavano su un’auto con il ribelle per antonomasia, il regista «super macho», e si sentivano rimproverare amaramente per non aver allacciato la cintura. La questione divenne un punto centrale nella continua battaglia tra Sam e Marie. Sam insisteva perché i figli allacciassero la cintura anche per i viaggi più brevi. Marie
considerava le cinture stupide e poco più di una scocciatura. Dopo aver vissuto con la madre tutta la settimana, i bambini salivano in macchina con il padre, dimenticavano le nuove regole e ricevevano un pungente rimprovero. «Dannazione, quante volte devo dirvelo?» Si trovavano su un terreno scivoloso e pericoloso; misurare i passi non era cosa semplice. Tutti i bambini amavano Begonia. Era bellissima, scura, esotica, vivace, quasi una ragazzina lei stessa. Insegnò il flamenco alle ragazze ed era una bravissima compagna di giochi sulla spiaggia. Begonia voleva disperatamente avere un bambino, ma continuava ad abortire ogni volta. I membri della sua famiglia erano convinti che il rigore del flamenco fosse la causa – aveva martellato il suo corpo con duri ritmi fin dalla prima adolescenza. Una mattina, Kristen, Melissa e un’amica stavano giocando rumorosamente al piano di sotto mentre Begonia riposava nella stanza da letto al piano superiore. Sam scese un paio di volte per dirgli di non fare troppo rumore. «Ma come tutti i bambini», ricorda Kristen, «non registrammo la cosa. Eravamo troppo impegnate a divertirci». Finché Sam non scese la terza volta, urlando. Disse che erano state loro a causare l’ultimo aborto di Begonia. «È colpa vostra se quel bambino è morto!» Kristen provò un confuso miscuglio di colpa e rabbia – colpa perché una parte di lei temeva che suo padre stesse dicendo la verità, rabbia perché un’altra parte sapeva che quello che stava dicendo non aveva senso. Al piccolo Mathew era destinata la parte peggiore degli scatti d’ira di Sam. «Poiché era maschio, papà gli faceva delle sfuriate terribili», dice Kristen. Marie era fortemente contraria ai soldatini e non li ammetteva in casa sua, così Sam comprò per Mathew giocattoli a forma di pistole, coltelli, bombe a mano e soldatini sufficienti per formare una divisione, affinché potesse giocarci a Broad Beach. Un fine settimana volle insegnargli a fare snorkeling, ma il bambino si tirò indietro. Spaventato dalla
turbolenza, dal freddo, dall’immensa estensione dell’oceano, rifiutò di mettere la faccia giù nell’acqua. Sam lo incitò gentilmente per qualche minuto ma, visto che Mathew continuava a resistere, perse la pazienza, afferrò la testa del figlio e la spinse sotto la superficie. Sharon Peckinpah, allora diciassettenne, ne aveva avuto abbastanza. La figlia maggiore, testarda, riceveva le peggiori fustigazioni da parte di Sam. Le dava il tormento per le ragioni più banali – aver apparecchiato male la tavola, aver usato un tono di voce ostile. Quando Sharon controbatteva, le diceva con disgusto: «Sei proprio come tua madre!» Sharon alla fine disse a Marie che aveva paura di suo padre e che non voleva più fargli visita. Cominciò a vedere uno psichiatra, che consigliò a Marie di non mandare la figlia dal padre contro la sua volontà. Sam cercò di persuaderla. Le disse quanto gli mancasse e quanto volesse passare del tempo con lei, ma Sharon non cedette e finì per abbandonare completamente il campo e frequentare un collegio privato a Ojai, quasi cento chilometri a nord di Los Angeles. Sam cominciò a vedere anche lui uno psichiatra durante questo periodo. Robert Culp gli consigliò un uomo che aveva frequentato anche lui, il dottor Charles Wahl, professore alla UCLA che aveva anche uno studio privato. Sam andò sporadicamente da Wahl per un periodo di quattro anni, nella speranza che le sedute lo aiutassero a smettere di bere e ad affrontare i suoi demoni in crescente moltiplicazione. Ma le sedute si fecero accese quando gli esercizi di associazione verbale e le domande inquisitorie cominciarono ad avvicinarsi troppo ai molti conflitti irrisolti dell’infanzia di Sam. Alla fine un giorno, quando Wahl piantò il suo scalpello in una ferita ancora fresca, Sam balzò in piedi e urlò: «Perché diavolo dovrei ascoltarla? È grasso e fuma troppo!» E uscì come una furia dall’ufficio. Nonostante la sua durezza, accorreva sempre per i suoi figli nei momenti di crisi. Un fine settimana a Broad Beach, la casa era popolata dalla solita folla e Sam era vicino ai fornelli a versare acqua bollente nel filtro conico di una caffettiera
mentre parlava di cazzate con Norman Powell. Mathew, in cerca di attenzioni, era al fianco di suo padre cercando di rivolgergli una domanda. Distratto, Sam fece accidentalmente traboccare il filtro e l’intera caffettiera si rovesciò versando acqua bollente sulla camicia e sul petto di suo figlio. «La prima cosa di cui mi preoccupai era che avessi fatto un casino e che papà si sarebbe arrabbiato con me», dice Mathew. «Papà mi afferrò, mi sollevò e mi aprì di colpo la camicia, facendo saltare tutti i bottoni. Mi solleva e mi mette nel lavandino. Ero imbarazzatissimo, a testa in giù e con l’acqua fredda che mi scorreva addosso. Non c’erano parole. Ero nel lavandino e un attimo dopo eravamo in macchina». Norman Powell si mise al volante mentre Sam teneva il bambino, avvolto in un asciugamano, sul sedile del passeggero. «Lo accompagnai velocemente, ma con cautela, all’ospedale», ricorda Powell. «Sam in seguito mi disse quanto avesse apprezzato il modo in cui avevo guidato, senza perdere tempo ma senza nemmeno rischiare di metterli in pericolo andando troppo veloce». «Ero sotto shock», dice Mathew. «Ricordo di aver detto: “Spegnete il sole”. Pensavo ci fossero i riscaldamenti accesi. Credo papà fosse scioccato e spaventato quanto me. Avrà perso dieci anni di vita in dieci minuti. Scendevamo dalla collina lungo il Malibu Canyon e continuava a dire che andava tutto bene, che sarebbe andato tutto bene. Io pensavo che il sole stesse entrando dai finestrini. Stavo quasi cambiando pelle. Arrivammo al pronto soccorso, papà entrò con me e io venni fasciato». «Sam era molto, molto preoccupato. Tenne tutto dentro, ma si vedeva che era incredibilmente preoccupato», racconta Powell. Mathew aveva ustioni di secondo e terzo grado sul petto, sulla schiena e sullo stomaco, ma quando guarirono gli lasciarono solo una lieve cicatrice. «Dopo quell’episodio, papà divenne ossessionato dalla sicurezza per qualsiasi cosa riguardasse i fornelli», afferma Mathew.
«Il punto è», dice Kristen, «che papà ci amava veramente, tutti noi. Abbiamo sempre saputo che ci amava intensamente, nonostante i modi bizzarri in cui lo dimostrava». Daniel Melnick era un altro dei nuovi produttori di Hollywood. Trentaquattrenne, snello, dai capelli scuri e devotamente alla moda, Melnick era socio di David Susskind e Leonard Stern alla Talent Associates, una società di produzione con due serie tv in onda in prima serata: l’apprezzatissima commedia Get Smart e l’elegante ma sottovalutata Corri e scappa Buddy. La TA aveva anche venduto degli adattamenti teatrali ad alcune reti e ne aveva altri in produzione. Come Ransohoff, Melnick professava il desiderio di creare degli show di autentico valore artistico. La differenza era che Melnick faceva sul serio. Se messo alla prova, poteva dimostrare di aver davvero letto Comma 22 e Qualcuno volò sul nido del cuculo – i libri, non una sinossi di una pagina fatta da un lettore – e poteva fornire una definizione approssimativa dell’esistenzialismo. Supervisionò Corri e scappa Buddy per la TA e sviluppò adattamenti teatrali «di classe» come una produzione tv di Morte di un commesso viaggiatore con Lee J. Cobb, George Segal e James Farentino, diretto con uno stile inquietante e squisitamente espressionistico da Alex Segal. Lo show valse a Melnick un Emmy nel 1966. Nell’autunno di quell’anno la ABC lanciò una nuova serie drammatica antologica di un’ora, ABC Stage 67, che la rete sperava potesse far rivivere l’epoca d’oro del dramma tv, quando Playhouse 90, Kraft Television Theatre, Philco Playhouse e Studio One dominavano le onde radio. La ABC non produceva i singoli show per le serie, ma li comprava da svariati produttori indipendenti. Melnick la vide come un’occasione per realizzare una delle sue più ardenti ambizioni artistiche: produrre un adattamento della cupa e inquietante novella di Katherine Anne Porter «Noon Wine». Storia cruda, ma potente e scritta in modo impeccabile, corrispondeva ben poco al genere di polpettoni smielati che monopolizzavano la programmazione delle reti. Era una scelta coraggiosa, audace e
per niente commerciale, ma se qualcuno aveva il fascino e la sofisticatezza per venderla alla ABC, quello era Melnick. Volò nel Maryland, incontrò la settantaseienne autrice e si assicurò i diritti della storia, con la condizione che la Porter avesse il diritto di dare l’approvazione finale sul teledramma. Ora doveva trovare uno sceneggiatore dalle straordinarie abilità per occuparsi dell’adattamento, qualcuno che avesse una forte sensibilità nei confronti del Texas del sud, dove la storia ha luogo. La sua produttrice associata in Corri e scappa Buddy, Lois O’Connor, aveva lavorato alla Filmways quando Peckinpah si stava preparando per girare Cincinnati Kid. La O’Connor sentiva che Sam era stato cacciato ingiustamente e credeva nel suo talento, perciò lo suggerì come papabile candidato per la sceneggiatura e la regia di «Noon Wine». L’idea piacque immediatamente a Melnick. Aveva visto sia Sfida nell’Alta Sierra che The Westerner e li aveva adorati. Si mise in contatto con Peckinpah attraverso il suo agente e gli chiese di passare nel suo ufficio per discutere del progetto. I due andarono subito d’accordo. Sam parlava talmente piano che il produttore doveva sporgersi per sentirlo, ma gli occhi nocciola dell’uomo bruciavano intensamente. Certo che conosceva quella storia, disse Peckinpah – era stata una delle sue preferite per anni. In realtà, sapeva già esattamente come l’avrebbe girata. Un po’ un’esagerazione, ma solo in minima parte. La prima offerta di lavoro di Sam in un anno e mezzo si era rivelata una lunga palla lenta lanciata dalla casa base. La storia della Porter si svolgeva proprio nel bel mezzo del suo paesaggio di fantasia preferito: la cocente terra desolata del West all’inizio del secolo. La sorte di un povero e apatico fattore – Royal Earle Thompson, più devoto alla bottiglia di whisky che all’aratro – cambia drasticamente un giorno, quando un misterioso sconosciuto si presenta al malandato cancello della sua fattoria in cerca di lavoro. Esprimendosi per frasi criptiche e mozzate, con occhi come lampadine fulminate che raramente incrociano
quelli degli altri, l’uomo-bambino svedese accetta di lavorare per Thompson per sette miseri dollari alla settimana, più vitto e alloggio. Lo svedese, Olaf Helton, può non essere di grande compagnia, ma si dimostra una vera forza della natura nei lavori della fattoria. Con un’energia frenetica e notevoli capacità pratiche, trasforma in nove anni il cadente ranch di Thompson in una delle fattorie più redditizie della regione, e lo stesso Thompson in un raffinato proprietario terriero della piccola borghesia. Ma l’idillio viene infranto il giorno in cui un cacciatore di taglie, Homer T. Hatch, si presenta davanti al cancello d’ingresso di Thompson, ora riparato, alla ricerca di Helton. Il grosso svedese, viene a sapere il fattore, è scappato anni prima da un manicomio del North Dakota, dov’era tenuto con la camicia di forza dopo aver infilzato il suo stesso fratello con un forcone. Con la sua fortuna a rischio, Thompson cerca di spiegare al cacciatore di taglie che Helton non aveva avuto comportamenti anomali durante i nove anni precedenti. Certo, non parla molto e resta sulle sue nelle ore libere, suonando quelle armoniche che custodisce così gelosamente, ma lavora sodo, ha messo da parte dei soldi e non ha mai torto un capello a nessuno. In realtà, è praticamente uno di famiglia, ormai. Ma Hatch non è commosso da questo appello. «Il punto è che io sono qui per l’ordine pubblico! Non mi piacciono i criminali o i pazzi evasi!» Quando tira fuori un paio di manette e chiede a Thompson di aiutarlo a catturare Helton, il fattore esplode, minacciandolo di cacciarlo dalla sua proprietà se non se ne andrà subito. Hatch estrae un grande coltello Bowie e dice: «Provaci, provaci, fai pure!» Sentendo il trambusto, Helton sopraggiunge correndo dai campi in quel preciso istante, e tenta di intervenire. Anziché tirarsi indietro, Hatch – o così pare a Thompson – scatta contro lo svedese con il coltello. Prima che la sua mente possa realizzare ciò che sta facendo, Thompson ha già raccolto un’ascia e ne ha piantato la lama nella testa di Hatch. Il cranio si piega come una birra ammaccata e ne fuoriesce un rivolo di sangue oleoso.
Thompson si reca dallo sceriffo del posto e gli racconta l’intera vicenda: come Hatch avesse pugnalato Helton allo stomaco, come lui stesso avesse ucciso il cacciatore di taglie nel tentativo di salvare la vita a Helton, e come lo svedese fosse scappato via verso le colline come un animale che corre a morire. Ma quando la posse dello sceriffo scova Helton nelle campagne vicine, lo trova illeso e abbastanza in forze per lottare come un cane impazzito, finché uno degli uomini della posse non gli sfascia la testa con un ramo caduto. Il fatto che Helton non sia stato pugnalato getta dei sospetti sulla versione dei fatti di Thompson, che viene processato per omicidio. La giuria lo assolve, ma i freddi sguardi che riceve dallo sceriffo, dai suoi vicini, persino dalla sua stessa moglie e dai suoi stessi figli rivelano a Thompson che nessuno crede davvero alla sua verità. Ai loro occhi è e rimarrà sempre un assassino. Nonostante ciò, obbliga sua moglie, Ellie, ad andare in tutte le fattorie vicine per poter raccontare ancora la sua versione della storia. Obbliga Ellie a mentire e dire che era presente al confronto e che il marito stava dicendo la verità. Ma i Thompson non trovano che indifferenza e velata derisione. Alla fine dei conti, Thompson non ottiene altro che alienarsi ulteriormente l’affetto della moglie e dei figli. La notte si rigira tra lenzuola pregne di sudore, ripercorrendo nella mente i dettagli di quel momento fatale. Hatch aveva davvero tentato di pugnalare Helton o gli era solo sembrato che fosse così? Avrebbe potuto fermare Hatch senza ucciderlo, avrebbe potuto salvare la vita di Helton senza commettere un omicidio? L’immagine della grassa faccia sorridente di Hatch lo riempie di nuovo di rabbia e, prima che se ne renda conto, è balzato giù dal letto, inscenando a ripetizione il movimento di quell’ascia. Ellie si sveglia e a quella vista urla: «Fermati! Fermati!» I suoi due figli accorrono e il maggiore spinge via suo padre. «È spaventata, è spaventata a morte. Cosa le hai fatto? Toccala di nuovo e ti sparo dritto al cuore!»
Ma il cuore di Royal Earle Thompson è ormai già saltato in aria. Scappa furtivamente dalla camera da letto, si allontana dalla fattoria con un fucile a due canne in mano, fino a raggiungere l’angolo più remoto della sua terra, dove scrive un biglietto – l’ultimo futile tentativo di spiegare la sua versione della storia – poi si punta alla testa la canna del fucile e si toglie una scarpa in modo da poter tirare il grilletto con l’alluce. Un uomo costretto da un’arbitraria catena di eventi a confrontarsi con la sua stessa capacità di compiere atti brutali – un flash di improvvisa violenza che non può essere revocato, riparato o rimpianto, un momentaneo, mostruoso impulso che gli distrugge la vita. Sam sapeva dove cercare l’oscuro cuore di questa storia e non vedeva l’ora di piantarvi un paletto. Alla fine dell’incontro con Peckinpah, Melnick sapeva di aver trovato la persona giusta per quel lavoro. Melnick ricorda: «Sam disse: “Devo dirti una cosa. Sono su una lista nera, ti faranno molte pressioni per convincerti a non usarmi”. Be’, a causa della mia personalità nevrotica, nell’istante in cui mi veniva detto che non si voleva che usassi qualcuno, potevi star certo che avrei lottato fino alla morte per avere proprio quel qualcuno. Eravamo poco dopo l’era McCarthy ed ero fermamente contrario alle liste nere. Quello che non sapevo era che Sam non era su una lista nera per ragioni politiche; lo era a causa della sua personalità!» Melnick apprese le vere circostanze quando i giornali di settore annunciarono che la Talent Associates aveva ingaggiato Peckinpah per il progetto. In ventiquattr’ore il produttore ricevette una dozzina di telefonate dai power broker dell’industria che volevano convincerlo a non usare Sam. A farsi vivi non furono solo Charles FitzSimons, Jerry Bresler e Martin Ransohoff con le loro orribili storie; ci furono anche telefonate, come ricordò Sam, «di persone che non solo non avevano mai lavorato con me, ma che nemmeno mi conoscevano. Tutti cercavano di metterlo in guardia nei miei confronti».
«Vuoi lavorare con Peckinpah, ma sei pazzo?», esclamava la gente al telefono. «Ti rovinerà! Quell’uomo è un ubriacone, uno squilibrato, farà arrivare le tue spese alle stelle!» «Melnick non faceva più lo spaccone come all’inizio», dice Reza Badiyi, regista di seconda unità di Corri e scappa Buddy. «Cominciò a dire: “In cosa ci siamo cacciati?”» Ma il lato testardo e dissidente del produttore lo fece restare della sua opinione. «Bisogna dare al signor Melnick questo merito», disse in seguito Sam. «Per quanto riguarda la mia carriera, e per quel che vale, devo tutto a lui». Lo stesso Sam cominciò a sentire delle voci di corridoio quando firmò col produttore. «Mi dissero che [Melnick] era un miserabile figlio di puttana. Io l’ho trovato uno tra i tipi più tosti, buoni, intelligenti, insomma, fichi, con cui abbia mai lavorato. Si può dire che il film lo abbiamo fatto noi due, non io». Melnick, da parte sua, restò piacevolmente sorpreso da quella collaborazione. «Si è rivelata una delle più soddisfacenti e stimolanti esperienze creative che abbia mai fatto. Sam probabilmente non è mai stato, né prima né dopo, così meticolosamente responsabile, perché Sam aveva davvero una grande, particolarissima peculiarità, un profondo senso dell’onore. Parte di quell’onore consisteva nel non deludere chi, come me, aveva rischiato così grosso per lui». Peckinpah offrì inizialmente il ruolo di Roy Earle Thompson a Charlton Heston, ma Heston rifiutò. Poi Melnick propose Jason Robards. Figlio di un attore di film muti, Robards aveva studiato all’American Academy of Dramatic Arts e aveva poi guadagnato consensi in molti revival teatrali delle opere di Eugene O’Neill – Arriva l’uomo del ghiaccio e Lungo viaggio verso la notte – che quasi da soli risanarono la morente reputazione del drammaturgo. Robards era diventato una star cinematografica di medio livello grazie agli adattamenti per lo schermo di Lungo viaggio verso la notte e di A Thousand Clowns di Herb Gardner. Peckinpah fu immediatamente d’accordo con la proposta: se riuscivano a
ottenere un attore del calibro di Robards per il ruolo del protagonista, erano già a metà dell’opera. Robards aveva sentito parlare di Peckinpah. Un anno prima era andato a far visita a Spencer Tracy e Katharine Hepburn in California. La Hepburn disse: «Giù alla spiaggia vive un tipo che dovresti conoscere, andreste molto d’accordo. Si chiama Sam Peckinpah». «Non lo conosco», disse Robards. «Be’, a me piace. Spencer farà Cincinnati Kid con lui». Peckinpah e Melnick arrivarono alla casa affittata da Robards a Malibu per parlare di «Noon Wine». «Ci sedemmo, bevemmo birra e parlammo», racconta Robards. «Credo fossi probabilmente già predisposto ad apprezzarlo. Spence e Katy erano ottimi amici ed erano persone molto schiette; se dicevano qualcosa, davo loro ascolto. Di cosa parlammo io e Sam, non lo ricordo. Non parlammo della storia, perché non aveva ancora terminato il copione. Parlammo del servizio militare. “Dov’eri durante la guerra?” Bla, bla, bla. Della spiaggia, di Los Angeles e del fatto che era andato alla USC Drama School. Fu quel genere di conversazione. Poi se ne andò con Danny, lasciandomi col mio agente, John Foreman, e io dissi: “John, conferma, digli che per me va bene. Lo farò, mi piacerebbe lavorare con lui”. Solo sulla base dell’impressione che mi aveva fatto Sam, dopo averlo incontrato e aver chiacchierato con lui». Ora arrivava la tortura cinese dell’acqua: stendere il copione. Sam cominciò immergendosi quanto più in profondità possibile nel mondo della Porter. «Andò giù nel Maryland per incontrare Katherine Anne Porter e passare del tempo con lei», dice Robards. «Si ubriacarono di bourbon e acqua, tornò e poi si mise al lavoro sul serio». Cominciò leggendo attentamente la novella e un saggio che l’autrice aveva scritto venti anni dopo, intitolato Noon Wine: The Sources. In esso, la Porter individuava le singole componenti della narrazione e spiegava le loro origini nei suoi ricordi, nelle fantasie, negli aneddoti familiari della sua
infanzia, descrivendo poi come li aveva combinati in una storia pulita e lineare. Di certo Sam rivedeva sua madre nella moglie di Royal Thompson, Ellie. Se ne stava da sola nella sua buia stanza priva di aria, paralizzata da mal di testa ricorrenti, scossa dal minimo accenno di stress, posseduta da un rigido puritanesimo, intollerante all’alcol, al linguaggio scurrile e alle molte debolezze di suo marito. E rivedeva suo padre nell’incapacità di Roy Thompson di affrontare sua moglie e nei suoi prorompenti scatti d’ira contro i suoi figli. Ma ancor più affascinante era la complessità tematica dell’opera. Chi era davvero responsabile della tragedia alla fattoria Thompson? La Porter concludeva il suo saggio affermando che non c’era una risposta semplice. «Ognuno in questa storia contribuisce, in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, all’omicidio o alla morte violenta». Il cacciatore di taglie, Hatch, contribuisce perché causa uno scontro violento, Thompson perché uccide Hatch quando avrebbe potuto fermarlo con mezzi pacifici; la moglie e i figli di Thompson contribuiscono al suo suicidio perché si rifiutano di perdonarlo per un omicidio che non aveva intenzione di commettere. Con i loro modi errati seppur involontari, Thompson e sua moglie si tradiscono l’uno con l’altra. Quando arrivò all’ultima frase del saggio della Porter, Sam sapeva qual era il senso della storia per lui: il fallimento dell’amore. Roy Thompson delude sua moglie e i suoi figli e loro deludono lui, proprio come David Peckinpah aveva deluso Fern e lei lui, o come Sam aveva deluso Marie e viceversa. Si dedicò in ultimo agli aspetti pratici della sceneggiatura. La copia di Sam della storia della Porter, con stralci sottolineati e note ai margini, rivela in che modo cominciò la strategia di creazione della struttura del copione. Buona parte della narrazione era rivelata attraverso una serie di flashback dal punto di vista di Ellie e poi da quello di Roy Thompson – un ingegnoso strumento narrativo, ma che richiedeva troppo
lavoro e troppo tempo per uno show televisivo di un’ora. Perciò Peckinpah prese semplicemente gli eventi esposti nei flashback, li riposizionò nel giusto ordine cronologico e li rimpolpò fino a renderli delle scene completamente sviluppate. Lo fece con straordinaria precisione ed economia, attraverso nuovi dialoghi che rispettavano pedissequamente il modo di parlare della Porter, a dimostrazione di quanto il suo orecchio fosse sensibile al dialetto del Sudovest rurale. Con tutti gli aspetti della storia al loro posto, rivide la trama dall’inizio alla fine, traslando alcuni pezzi di prosa espositiva in vere e proprie scene e decurtando in altri casi alcuni dialoghi della Porter per eliminare digressioni, condensare l’azione e accelerare il ritmo. Operò con l’abilità di un neurochirurgo, lasciando intatte la maggior parte delle sfumature dei personaggi, delle complessità tematiche e dei dettagli atmosferici. In alcune occasioni, Peckinpah arricchì addirittura la profondità emotiva dell’opera aggiungendo piccole scene: dettagli intimi della relazione tra i suoi genitori finirono negli scambi tra Roy ed Ellie Thompson per enfatizzare la tragedia di un matrimonio in rapido fallimento. Le scene di Olaf Helton aggiunte da Sam erano particolarmente toccanti. Dal Lennie della prima scena teatrale che diresse alla Fresno State, passando per Cooter e Weed Pindle nei suoi copioni per Gunsmoke, fino a questa sua ultima creazione, Peckinpah aveva un inspiegabile debole per questi sanguinari uomini-bambini – stranieri in terra straniera, parafrasando la descrizione di Ellie Thompson dello svedese. L’alterazione più critica della trama operata da Sam passò inosservata ai più, inclusa la stessa Porter quando lesse la prima bozza del copione. Anziché far raggiungere a Thompson l’angolo più remoto della sua terra per togliersi la vita, Peckinpah prese una decisione quasi subito, in fase di scrittura – come indica una nota a margine della sua copia della storia – far semplicemente attraversare a Thompson il suo cortile fino al fienile per farsi saltare il cervello. A Melnick e ad altri del team produttivo sembrò una scelta puramente tattica, che
avrebbe fatto risparmiare sia tempo di visione che di produzione. Il suo impatto completo non si fece sentire finché Sam non ultimò il montaggio finale dello show. Sarebbe poi diventato chiaro che non aveva affatto pensato alle convenienze produttive. Peckinpah completò il suo teledramma da sessantatré pagine il 26 settembre 1966 (con una seconda bozza avrebbe eliminato dodici pagine). Fu prontamente inviato a Katherine Anne Porter, che doveva dare la sua approvazione. Se la Porter avesse fatto pollice verso, il progetto sarebbe morto e sepolto. «Tutti erano seduti nell’ufficio di Melnick a chiedersi: lo show si farà o non si farà? Non lo dimenticherò mai», dice Reza Badiyi. «Alla fine l’autrice chiamò e diede la sua approvazione. Disse: “È buono”». Alla telefonata, la Porter fece seguire una lettera: «Presto generalmente poca attenzione alle interpretazioni teatrali dei miei lavori perché sono pienamente consapevole che saranno molto probabilmente distrutti. Ma, oh, come vorrei che il mio romanzo, Ship of Fools, [adattato per lo schermo un anno prima da Stanley Kramer con il titolo La nave dei folli], fosse finito nelle mani di Peckinpah». La produzione fu organizzata con un programma di sette giorni di riprese e un budget di 265.000 dollari. A Peckinpah sarebbero andati 15.000 dollari per il suo lavoro di sceneggiatore e regista. Il bilanciere del cast si assestò presto. Olivia de Havilland firmò per la parte di Ellie Thompson, Sam chiamò Theodore Bikel perché interpretasse il cacciatore di taglie, Ben Johnson per interpretare lo sceriffo della città e L.Q. Jones per la piccola ma importante parte di un rozzo vicino bianco dei Thompson. Melnick ingaggiò Per Oscarsson, che aveva appena vinto il premio come miglior attore al Festival di Cannes nel film Fame diretto da Henning Carlsen, per interpretare Olaf Helton. Gli show di Stage 67 erano tutti registrati su nastro utilizzando attrezzatura all’avanguardia nel tentativo di ottenere una parvenza da film. Ma all’avanguardia nel 1966
significava dover portare sulla location enormi camper pieni di attrezzature elettroniche e cineprese ingombranti e difficili da spostare. Gli episodi erano generalmente girati con tre cineprese e un mixer, di modo che nella cabina di controllo il regista potesse passare da una camera all’altra mentre l’azione proseguiva, permettendo così che gli show fossero girati in una frazione minima del tempo che sarebbe servito con una singola cinepresa, com’era uso nei film. Durante il loro primo incontro, Melnick chiese a Peckinpah se aveva mai girato su nastro prima e Sam gli assicurò subito di sì, menzionando le numerose esperienze da regista fatte alla KLAC-TV nei primi anni Cinquanta. In realtà, ovviamente, si trattava solo di Portrait of a Madonna, che aveva girato con il preistorico sistema in cinescopio della stazione tv, tutt’altra cosa rispetto all’elaborata tecnologia con cui avrebbe avuto a che fare in «Noon Wine». Per fortuna, uno dei migliori team di produzione della ABC lo avrebbe aiutato, tra cui il produttore associato James Clark, il supervisore di produzione Harry Sherman e il supervisore tecnico Clair McCoy. Come al solito, Sam non preparò una lista dettagliata delle riprese o un vero e proprio storyboard, ma abbozzò delle inquadrature per molte scene sulla sua copia del copione, annotando dove avrebbe avuto bisogno di una gru per le riprese dall’alto di Robards, allo scopo di enfatizzare il senso di isolamento e disperazione che coglie il protagonista quando resta da solo in tribunale dopo il processo e quando si rigira nel letto la notte in cui si uccide. Melnick affittò una sala per le prove sulla Third Street, tra La Brea e Fairfax a Los Angeles, affinché Sam e i membri del cast principale potessero provare il copione per tre intere settimane prima di cominciare le riprese. Fu il più lungo periodo di prove per una sua produzione mai avuto da Sam, e diede i suoi frutti. «Provammo come facevamo nei vecchi giorni della tv in diretta; facevamo ripassi dell’intero copione, come si prova una rappresentazione teatrale», dice Jason Robards.
Quando le prove finirono e le riprese cominciarono, il 17 ottobre, gli attori avevano affinato le loro performance e memorizzato le proprie posizioni sceniche. Melnick poteva tirare un sospiro di sollievo. Sam sembrava avere il completo controllo della situazione e pareva proprio che avrebbero avuto riprese prive di problemi. Ovviamente tutti quelli che lo avevano chiamato per metterlo in guardia da quello psicopatico avevano detto delle cazzate. Ma quando la compagnia cominciò a girare in una fattoria nella valle di San Fernando, vicino Thousand Oaks, la sensazione di benessere del produttore cominciò a corrodersi. Anziché usare tutte e tre le cineprese per girare le scene da più angolazioni simultaneamente, Sam stava girando la maggior parte delle scene con una sola cinepresa e concependo movimenti di camera complicati, il che faceva sprecare molto tempo a causa delle sue mastodontiche dimensioni. Questo minava completamente lo scopo del girare su nastro, e non c’era giorno che non si perdessero ore preziose. Per Sherman e per gli altri membri veterani della troupe della ABC quello era il modo di operare di un dilettante.Ma ciò che perdeva in tempo, Sam lo compensava in qualità visiva. Posizionare le luci per una sola cinepresa permetteva gradazioni di luce, colore e ombra più sottili, maggiore profondità di campo e riprese più elaborate e accuratamente realizzate. «Sam voleva un aspetto cupo, qualcosa di sconosciuto su video al tempo», dice Reza Badiyi, il premiato cameraman che lavorò come assistente speciale di Peckinpah in questa produzione. «Voleva le ombre. Era una storia cupa; non voleva che ci fosse un’illuminazione da stazione di servizio». Badiyi era colpito dalla capacità di Peckinpah di ignorare le pressioni legate alla programmazione delle riprese e di continuare a lavorare su una scena finché non si avvicinava alla perfezione. C’è una scena in «Noon Wine» dove Olivia e Jason sono a letto. È quasi alla fine della pellicola; lui cerca di abbracciarla e lei si allontana e sul viso di Jason si legge la consapevolezza di averla persa, perché lei crede che lui abbia ucciso volutamente il cacciatore di taglie. Ricordo Sam seduto con Jason e Olivia che raccontava a entrambi una storia,
una storia personale, e si lasciò prendere emotivamente mentre ne parlava, lottava per trattenere le lacrime. Morivo dalla voglia di avvicinarmi. Ne sentii solo qualche frammento, non volevo rovinare quel momento. Dichiarava di aver vissuto quella storia con i suoi genitori, e la stava usando come aiuto per girare la scena. È un momento dello show veramente, veramente bello.
Sam stava ottenendo del girato non previsto, ma alla fine del terzo giorno apparve chiaro che la produzione avrebbe sforato di due giorni a meno che non si fosse ricorsi immediatamente a un’azione drastica. Melnick chiamò Reza Badiyi nel suo ufficio. Badiyi aveva una troupe cinematografica di quattro persone non iscritta al sindacato che faceva lavori freelance, principalmente per pubblicità televisive (ne avevano fatte molte per il regista Robert Altman). Melnick sapeva bene che Badiyi era capace di lavorare velocemente e produrre comunque materiale di alta qualità. Sotto indicazione di Melnick, Badiyi preparò un piano per recuperare il tempo perduto e lo presentò a Peckinpah. Non ostacolata dalla complicata attrezzatura televisiva, la sua squadra poteva fare dieci riprese per ognuna che Sam completava. In un giorno, spiegò Badiyi, poteva terminare tutte le riprese mancanti e chiudere lo show nei tempi previsti. «Sam non saltava dalla gioia», dice Badiyi. «Reagì dicendo qualcosa del tipo: “Ehi, vuoi girare il mio show?” Era a un pelo dal picchiarmi. Perciò lo guardai dritto negli occhi e gli dissi: “Ehi, Sam, io sono tuo amico. Posso andare e girare questa roba. Tu la guardi e se non vuoi metterla nel tuo show, la butti via. Melnick ci mette i soldi di tasca sua. Non costa nulla a me e alla mia troupe”. La cosa gli piacque. Vide che non mi ero lasciato intimidire dalla sua rabbia, gli avevo risposto e gli avevo fatto una proposta allettante, senza pressarlo perché accettasse». Peckinpah spiegò nel dettaglio tutte le inquadrature che voleva che Badiyi realizzasse. Erano tutti campi lunghi o per sequenze di montaggio; nessuna richiedeva sonoro, il che significava che Badiyi poteva lavorare ancor più velocemente
e il montaggio che avrebbero fatto insieme su pellicola sarebbe stato molto più rapido e facile che su video. «La mia troupe non era iscritta al sindacato», dice Badiyi. «Dovevamo farlo in segreto, per cui pianificammo di girare nel weekend. Eravamo Melnick, Harry Sherman, Lois O’Connor, Sam e il mio gruppo di circa dieci persone. Avevo tre cineprese e i miei assistenti. Mentre giravo con una cinepresa, i miei assistenti preparavano le due riprese seguenti. Appena finivo una ripresa, correvo alla cinepresa successiva. Non usammo luci, solo riflettori. Feci 115 inquadrature per Sam in un giorno. A fine giornata Sam mi disse: “Non ho mai, mai lavorato tanto quanto oggi in vita mia”. E mi abbracciò. Sam mi era molto, molto riconoscente». «Noon Wine» finì con cinque ore di ritardo rispetto al programma e 35.000 dollari fuori dal budget, ma Melnick non si lamentò; sapeva di avere tra le mani un diamante grezzo. Tagliare e lucidare quel diamante dava a Peckinpah una nuova sfida da affrontare; non aveva mai lavorato con il nastro in sala montaggio. «Richiedeva molto tempo montare il girato su nastro a quei tempi», dice Clair McCoy, supervisore tecnico della produzione. «Il montaggio non era ancora arrivato ai livelli di sofisticazione di oggi. Eravamo appena usciti dalla fase di taglio del nastro con le lame da rasoio. Avevamo il montaggio elettronico, ma non era certo ancora computerizzato; non si potevano precaricare le modifiche, sedersi e lasciare che l’apparecchiatura facesse tutto da sola». Reza Badiyi preparò il montaggio su pellicola, poi lo trasferì su nastro perché Sam potesse inserirlo nello show, il che fece risparmiare parecchio tempo e denaro. «Mostrai le sequenze finite a Melnick e le adorò», ricorda Badiyi. «Sam le vide e le adorò. In seguito si rifiutò di inserirmi nei titoli dello show. Melnick insistette affinché fossi accreditato». Il nome di Badiyi appare nei titoli di coda dello show per la grafica dei titoli – ridicolo, perché i titoli non erano altro che lettere colorate che scorrono su un campo lungo della fattoria dei Thompson. Il giusto accreditamento, regista di seconda unità, gli fu rifiutato da Peckinpah. Ma Badiyi non provò amarezza.
«Il mio atteggiamento era: ehi, alla fine è la visione di Sam, il suo show. Sono felice di essere salito a bordo e di aver fatto qualcosa che gli sia piaciuto, anche solo per un giorno. Era un maestro. Ha accettato qualcosa che ho fatto io, l’ha messa nel suo show e ci ha messo addirittura il suo nome sopra. È un segno di apprezzamento per il mio lavoro più alto che darmi il giusto titolo». Per la colonna sonora, Melnick chiamò un altro uomo che era stato in passato messo su una lista nera da Hollywood. Jerry Fielding non riuscì a trovare un lavoro per quasi un decennio, non per via della sua personalità o dei suoi metodi di lavoro, ma a causa delle sue convinzioni politiche. Qualcuno lo aveva segnalato alla Commissione delle attività antiamericane come nemico dello Stato. Fu solo dopo che Otto Preminger ebbe il coraggio di ingaggiarlo per la colonna sonora di Tempesta su Washington che l’ombra della commissione si affievolì e la domanda per i servigi di Fielding si ristabilì. Con la sua criniera di capelli scuri, una barba ispida, occhiali con montatura di corno e un’onnipresente sigaretta penzolante dalla bocca, Fielding era sfacciato, iconoclasta, appassionatamente saccente per quanto riguardava musica, film e politica ed era un fanatico stacanovista. Con Sam andò subito d’accordo. Fielding era stato un giovane poco atletico e malaticcio e come Sam era un lettore vorace. I due condivisero un legame simile a quello di due fratelli di sangue. Come le sue amicizie con Don Levy e Jim Silke, questa era l’altra faccia della medaglia rispetto al cameratismo fatto di bevute, gioco d’azzardo e combattimenti che lo legava alle controfigure e ai Walker River Boys. Con Fielding passava molte serate tranquille a parlare dei romanzi di Albert Camus e della poesia di W.H. Auden. Jerry avrebbe poi musicato altri cinque film di Peckinpah e lavorato per altri due senza essere accreditato. Sam restava a casa di Fielding sulle colline di Hollywood ogni volta per settimane, tra un progetto cinematografico e l’altro. Jerry, sua moglie Camille e le sue due figlie offrivano un’immagine di
famiglia unita a cui Sam poteva aggrapparsi durante questi periodi di pausa. Ma fu più che il rapporto personale a portare Fielding nell’ovile di Peckinpah; Jerry era un eccellente compositore cinematografico, capace di comprendere il modo criptico di parlare di Sam e dotato di un quasi infallibile giudizio su dove fosse e, a volte più importante, non fosse necessaria una musica. Fielding sapeva come usare la musica in ironica opposizione allo stile visivo di Sam e come usarla per filtrare il tenero sottotesto di molte scene di Peckinpah. La sua colonna sonora per «Noon Wine» fu un esempio di sottile compostezza, che si affidava principalmente a un piano e un armonium per fornire un sottofondo di malinconia nel corso dell’opera. Quando «Noon Wine» fu finalmente ultimato, Sam lo mostrò al cast e ai membri chiave della troupe in una sala di proiezione su Sunset Boulevard. Il prodotto finale era splendido. «La PBS fece un’altra versione di «Noon Wine» venti anni dopo la nostra», dice Jason Robards. «Terribile! Era pessima! Non avevano colto ciò che Sam ci aveva visto. Sam comprese come un momentaneo scatto di violenza incontrollata in una persona possa cambiare interamente la sua vita. Roy Earle Thompson avrebbe potuto vivere tutta la sua esistenza senza dover avere a che fare con niente di simile, se le circostanze non lo avessero portato a superare il limite. Ma nel momento in cui si era sentito minacciato, tutto era andato in pezzi. Sam ne colse l’essenza. Lo show della PBS invece non aveva compreso tutto questo. Non si può toccare quello che ha realizzato». Fu con il suicidio di Thompson alla fine dello show che Peckinpah pose una sottile, ma rilevante distanza rispetto al testo della Porter. Anziché portare il suo fucile nel luogo più remoto del campo, Robards attraversa l’oscuro cortile – in un campo lungo ripreso da un’inquadratura alta per enfatizzare il suo completo isolamento – dirigendosi nel fienile. A un tavolo
di legno traballante, tira fuori una matita e un foglio di carta e cerca di spiegare per un’ultima volta di non aver tolto la vita a Hatch di proposito. «Ho detto tutto al giudice e alla giuria e loro mi hanno assolto». La sua voce fuori campo prosegue mentre scrive. «Ma nessuno ci crede. Mia moglie…» Si ferma e guarda nel buio vuoto del capanno, mentre le rughe gli corrodono il viso, poi cancella il riferimento alla donna e conclude il biglietto, leggendo ad alta voce mentre scrive. «È stato il signor Homer T. Hatch a venire a far del male a un uomo inoffensivo. Ha causato tutto questo e ha meritato di morire, ma mi spiace di essere stato io a doverlo uccidere». Posiziona con cura il biglietto sotto un peso di piombo, poi afferra il fucile, tira indietro entrambi i cani e, dopo un attimo di esitazione, porta le canne alla tempia. Stacco su un campo lungo della fattoria, tranquilla nella notte. Bang! Lo scoppio risuona sulle colline vicine. Stacco su un primissimo piano del viso di Ellie sospeso nell’oscurità della casa, gli occhi interrogativi, la fronte corrugata mentre in lei si fa spazio una terribile consapevolezza. Dissolvenza. Il finale veicolava il messaggio che Ellie Thompson avesse deluso suo marito tanto quanto lui aveva deluso lei. Accentuava, in pochi secondi, il dramma, rendendolo una tragedia a doppio taglio: il fallimento dell’amore. La sala proiezioni su Sunset Boulevard restò in silenzio quando l’ultima immagine si dissolse e le luci della sala si riaccesero bruscamente. Tutti sapevano di essere stati testimoni di qualcosa di meraviglioso. «L’impatto di quel finale resterà sempre con me», dice Reza Badiyi. Sfortunatamente, gli ascolti di ABC Stage 67 erano stati scarsi. La rete aveva preferito grandi star a sceneggiature buone, e di conseguenza la maggior parte degli altri show della serie erano davvero molto mediocri. Perciò quando «Noon Wine» andò in onda il 23 novembre 1966 fu per un pubblico relativamente ristretto.
Ma lo show catturò l’attenzione della critica. «Le recensioni, Dio mio», dice Jason Robards, «ho una busta piena di recensioni entusiastiche. Fu davvero una delle cose migliori mai fatte da Sam». John Mahoney dell’Hollywood Reporter scrisse: «Quella realizzata da Peckinpah si dimostra una delle migliori ore da molte stagioni a questa parte, una pietra miliare nella produzione in location su nastro a colori e uno dei pochi momenti televisivi che possano essere definiti poetici». Ma ci fu una spettatrice che non condivise l’entusiasmo dei critici: Fern Peckinpah. La performance di Olivia de Havilland – che ritraeva una pallida donna malaticcia che trovava rifugio da un mondo seccante e confuso nel suo giardino o in una stanza scura con una pezza umida sulla testa pulsante – la toccava troppo sul vivo. «A mamma non piacque quello show», dice Susan Peckinpah. «Non disse mai perché, ma proprio non le piaceva». Fu l’unico show di D. Sammy che disapprovò. In linea di massima, era una fan devota. Le piacque addirittura Cane di paglia, con grande dispiacere di suo figlio. «Noon Wine» valse a Peckinpah una nomination come miglior adattamento per la televisione ai Writers Guild Award e una nomination come miglior regia televisiva ai Directors Guild Award. Il suo esilio professionale era certamente giunto al termine. «Improvvisamente», ricordò in seguito, «ero di nuovo in affari». Coloro che avevano detto che The Westerner e Sfida nell’Alta Sierra erano stati dei colpi di fortuna, il prodotto di ghostwriter o di talentuosi aiuti regista oppure un puro caso erano stati messi a tacere. «Noon Wine» aveva dimostrato sonoramente che, qualunque altre cosa potesse essere, Peckinpah era anche uno dei più innovativi e originali talenti della sua generazione. Verso la metà degli anni Settanta, la ABC aveva distrutto tutti i nastri originali della serie Stage 67 per fare posto a nuove produzioni da mettere in deposito. È una triste attestazione dello stato della televisione il fatto che l’ultimo tentativo di realizzare una serie drammatica antologica sia
stato incenerito per fare spazio a nuovi episodi di Vita da strega e The Lawrence Welk Show. Quel mezzo così promettente quando Sam cominciò a lavorarci alla KLAC nel 1952 era diventato una «vasta terra desolata», inquinata dall’ebetizzante estetica della cultura del consumo. Oggi è possibile trovare copie dello show, a colori, in soli tre posti: nella Library of Congress a Washington D.C., al Museum of Broadcasting di New York e nella casa di Jason Robards nel Connecticut (Robards donò le copie del suo nastro ai due archivi). «Noon Wine» fece molto più che riabilitare la carriera di Sam. Dall’intenso esame della narrazione ingannevolmente intricata della Porter acquisì una visione artistica più profonda. «[«Noon Wine»] è il mio lavoro preferito», disse Sam poco dopo aver terminato lo show. Nel Mucchio selvaggio e in Cane di paglia Peckinpah avrebbe tessuto reti tematiche incredibilmente complicate, cucite con ironia, dicotomia psicologica e verità scomode. Ci sarebbe stata una nuova complessità che non si trova nei lavori precedenti. «Noon Wine» lo condusse attraverso la soglia della sua maturità artistica. A «Noon Wine» Peckinpah fece seguire un episodio, «That Lady Is My Wife» – per un’altra serie tv antologica, Polvere di stelle. La sceneggiatura era mediocre, ma Sam riuscì a confezionare lo show con una bizzarra arte figurativa, carica di correnti sotterranee di erotismo, terrore e ansia. Il prodotto finale era strano, audace e completamente ipnotico – un risultato notevole, considerato che era stato raggiunto nel cuore della più rigida catena di montaggio di Hollywood, la Universal Studios. Peckinpah era riuscito a farcela perché i produttori dello show, Jack Laird e Jeannot Szwarc, erano suoi grandi ammiratori e si erano mostrati molto tolleranti. Poco dopo che Sam ebbe finito l’episodio, la pausa che tanto attendeva si materializzò. Ted Richmond, produttore alla Paramount, gli offrì la possibilità di scrivere un copione basato sulla biografia di Pancho Villa firmata da William Douglas Lansford. Villa non poteva essere l’unico personaggio, spiegò
Richmond – avevano bisogno di un volto bianco nella storia, diciamo un americano che si ritrova coinvolto nella rivoluzione. Yul Brynner era già stato ingaggiato per interpretare Villa. Se a Brynner fosse piaciuto il copione di Sam, Richmond assicurava che avrebbe avuto il via libera per dirigere anche il film. A Sam fu dato un piccolo ufficio alla Paramount, una copia del trattamento che William Douglas Lansford aveva scritto per Richmond, un blocchetto di post-it gialli, un cassetto pieno di matite e tre mesi per produrre un copione. James Coburn, che stava per recitare in uno dei tipici film di genere camp degli anni Sessanta, La folle impresa del dottor Schaefer, sentì che Peckinpah era in sede e decise di andare a trovarlo. «C’era Sam in questo cazzo di ufficetto, un po’ ingrassato, seduto lì», dice Coburn. «Disse: “Ehi, amico. Come stai? Siediti, beviamo qualcosa”. Bevemmo un drink, parlammo per un po’. Mi piangeva il cuore per lui. Voglio dire, cazzo, questo tizio era stato un generale in Sierra Charriba e ora era stato degradato a soldato di cavalleria che spazza via la merda di cavallo dalla stalla… a lavorare a quel copione. Mi sentii così male. Non sapevo come aiutarlo». Pur trovando le attuali circostanze umilianti, Sam non ci pensò troppo, perché quella era la sua occasione per tornare al successo. Man mano che ordinava sempre più libri e vecchi articoli di giornale dal dipartimento di ricerca della Paramount, i muri del suo angusto ufficio crollavano e il vasto panorama della rivoluzione messicana si apriva di fronte a lui. Si trattava della rivoluzione di cui John Reed aveva scritto nel suo Insurgent Mexico, la rivoluzione in cui si fiondò Ambrose Bierce senza fare più ritorno. Un tempo di tremendi tumulti, di capi militari corrotti, idealisti fanatici, politici ipocriti e contadini da tempo sofferenti che finalmente si scuotono di dosso il loro stoicismo per inseguire il flebile raggio di un sogno, una disperata visione di un mondo migliore. Era la Cina del 1945, l’America del 1967. Era
l’intera, triste e turbolenta storia dell’umanità racchiusa in sei anni violenti. Nel suo copione Peckinpah ritrasse Villa non come un Robin Hood con la fossetta nel mento, ma come un perverso idealista che reca in sé allarmanti somiglianze con il brutale regime con cui si sta scontrando. Un rivoluzionario motivato tanto dal suo amore per la guerra che dalla sua passione per le classi più umili, la cui causa è nobile ma i cui metodi sono selvaggi. Il fine giustifica davvero i mezzi? Peckinpah pone più volte la domanda nella sceneggiatura, ma non offre una risposta semplice. Ma ancora più affascinante del leader della rivoluzione era il materiale che il dipartimento di ricerca della Paramount aveva scovato sui mercenari americani che si riversarono in centinaia a sud per unirsi alla guerra civile. Alcuni erano veri idealisti, come Reed e Bierce; altri erano soldati professionisti che si trovavano lì per i soldi o semplicemente perché amavano la battaglia. I capi militari messicani e i leader ribelli reclutarono cecchini americani in tutto il sud del Texas, pagarono profumatamente per armi e munizioni e non fecero domande sulla provenienza. El Paso divenne un focolaio del traffico di armi e di altre forme di contrabbando. Villa aveva più di un centinaio di «Yanquis Soldados» a cavalcare con lui sotto il comando di Sam Drebben, conosciuto come «il combattente ebreo» da amici e nemici. Le foto di questi avventurieri americani rivelano volti cupi, segnati, con gli occhi piccoli sotto berretti militari, uomini a cavallo con la postura rigida e le armi in mano – un’apparenza notevolmente simile alle immagini promozionali successivamente realizzate per Il mucchio selvaggio. Altri che si distribuirono tra le varie fazioni erano fuorilegge – rapinatori di banche e treni obbligati a spostarsi a sud dal filo spinato e dalle linee del telefono e del telegrafo che avevano soffocato la frontiera americana – cowboy alla ricerca di un nuovo lavoro ora che i trasferimenti di mandrie erano finiti, vagabondi e disadattati di tutte le estrazioni sociali. Uomini che non avevano nessun altro posto dove
andare, nulla da perdere, uomini affamati d’azione, qualsiasi azione che permettesse loro di dimenticare la rovina delle loro vite. Leggendo le storie di questi vari personaggi, Sam cominciò ad avere chiara l’immagine dell’americano che voleva per la sua sceneggiatura. Un uomo senza direzione o ambizione, che pensa raramente al futuro, un uomo tanto disilluso rispetto alle cause giuste e al patriottismo quanto lo era l’America nel 1967. Viaggia a sud del confine per vendere i suoi servigi come mercenario, ma dopo aver lottato al fianco di Villa e dei suoi uomini finisce per credere davvero nel loro sogno. Attraverso questa redenzione mercenaria, Peckinpah suggeriva che, persino in un mondo pieno di corruzione, ipocrisia e ingiustizia, è ancora possibile trovare un senso, una causa per cui valga la pena lottare, per cui valga anche la pena morire. Sam terminò il copione il 24 aprile 1967. Intitolato Viva! Viva Villa!, aveva delle scene descritte molto vividamente, personaggi e tematiche complessi, ma era episodico nella struttura e a tratti forzato e poco convincente, in particolare nelle ultime pagine, quando l’americano si converte da cinico egocentrico a fervente villista. Sam sapeva che pur essendo un buon inizio era ancora ben lontano dal massimo che sarebbe stato in grado di produrre. Aveva qualcosa di buono che gli ribolliva dentro, ma non era ancora riuscito a trasporlo su carta. Ma c’era un problema ancor più grande, che non aveva previsto: l’ego della star. Il suo poliedrico ritratto di Villa non andava a genio a Yul Brynner – per niente. Nel copione di Peckinpah, Villa impicca un ragazzino dopo che questi ha rivelato al leader dei ribelli tutto ciò che vuole sapere; guarda impassibile uno dei suoi tenenti falciare a colpi di mitraglia un recinto pieno di prigionieri disarmati; quando Villa viene catturato dal generale Huerta e messo davanti a un plotone d’esecuzione, crolla e piange. Brynner non poteva credere a ciò che stava leggendo. Quelle erano cose che faceva un
cattivo, non l’eroe del film. I suoi fan non avrebbero mai ammesso un simile comportamento sullo schermo. Insieme al copione, Sam aveva mandato a Brynner un biglietto in cui lo invitava umilmente a sottoporgli le sue proposte. Ma la star aveva solo una proposta e cioè che il produttore Richmond sostituisse Sam con un altro scrittore. «Brynner disse che io non capivo il Messico», ricordò in seguito Peckinpah. In un attimo era fuori dal progetto, fuori dal suo minuscolo ufficio alla Paramount e di nuovo sulla spiaggia – dopo che il suo grande ritorno si era rivelato un aborto. Una delle epoche più eccitanti del cinema americano stava ora muovendosi a tutta forza, ma Sam aveva perso la sua occasione per prendere il treno ed era rimasto indietro sui binari, perso nel fumo del carbone. Alla banda che si riuniva tutti i fine settimana a Broad Beach sembrò che Sam ignorasse la cosa e l’avesse presa con filosofia. Solo Begonia vedeva quanto profondamente fosse rimasto ferito. Quando erano soli, crollava e piangeva. La cosa la scioccava, non sapeva cosa dire; per lei Sam era sempre stato muy fuerte. «Non riuscirò mai più a fare un altro film», mormorava. «Non mi lasceranno mai più dirigere». Poco dopo, non ebbe più la spalla di Begonia su cui piangere. Il loro matrimonio era stato travagliato sin dall’inizio. Bego scoprì presto le difficoltà di vivere con un fanatico artista. Prima ci fu il montaggio di Sierra Charriba. Sam era fuori quindici, sedici, diciotto ore al giorno. Quando fu licenziato da Cincinnati Kid e cominciò a scrivere a casa, Begonia pensò che avrebbero iniziato ad avere una vita matrimoniale più normale, ma Sam si chiudeva nel suo ufficio al pian terreno per la stessa quantità di ore. Se lei lo interrompeva, lui esplodeva. «Sam, la cena è pronta». «La cena? Tu mi parli di cena quando sono seduto qui nel mezzo della rivoluzione messicana! Begonia, e dai!» Si prendeva del tempo libero nei fine settimana, ma c’era sempre una folla di gente intorno, a far festa fino a sera tardi;
non c’era mai tempo per della vera intimità. Begonia comprese presto che Sam era un uomo molto solitario, ma la sua era una solitudine autoinflitta. Spingeva via le persone che lo amavano. La amava più di quanto avesse mai amato nessuno, lei lo sapeva, ma la parte più profonda, più vitale di lui restava fuori portata, e riservata alla sua unica passione dominante: il suo lavoro. «Bego cercava di aggrapparsi troppo a Sam e di stargli sempre vicino», dice suo zio, Chalo Gonzalez. «Sam deve avere spazio per pensare. Credo fosse questa una delle ragioni principali per cui cominciò a perdere le staffe con lei». Begonia si ritrovò isolata nella punta più a nord di Malibu, dove gli unici messicani erano quelli che pulivano le case. Non parlava inglese molto bene, il che la inibiva e la metteva a disagio, perciò fece poche amicizie. Nel suo paese era una star nei nightclub e nei film, qui non era che una casalinga, un ruolo che non aveva i mezzi per interpretare. Cresciuta sotto la protettiva guida della sua determinata madre, servita e riverita in quanto prodigio della famiglia e fonte di reddito per tutti, si sentiva persa in una cucina, raramente guidava e la mandavano in confusione anche i compiti più semplici, come prendere un appuntamento dal dottore. Sam richiese l’aiuto di Fern Lea e presto quello della sorella divenne un lavoro a tempo pieno, che consisteva nel fare commissioni per Begonia e addirittura nell’aiutarla a pulire la casa a Broad Beach e a preparare i pasti per le orde di ospiti del weekend. Sam aveva cercato di far lavorare Begonia in qualche film americano. «Un giorno io, Sam e Bego andammo in tre studi; Sam la voleva presentare a un po’ di gente per farla prendere per qualche film», dice il romanziere Max Evans, che al tempo condivideva una stretta amicizia con Peckinpah. «Mio Dio, le sue attenzioni verso di lei, la sua adorazione, stupirono tutti. Dovunque andassimo i dirigenti, i boss, i produttori erano sbalorditi. Non lo avevano mai visto così premuroso, così amorevole, così attento. Era sincero come la
morte. Sapete, sapeva giocare con le donne; avrò visto tre o quattro persone nella mia vita che sanno davvero giocare bene con le menti delle donne come lui. Ma stavolta non era un gioco, e loro lo percepivano: fu questo a colpire tutte quelle persone, perché lo avevano visto fare ogni sorta di trucco con le donne». Ma per Sam era già difficile trovare lavoro per sé, per cui i suoi sforzi non portarono a molto. Robert Culp diede a Begonia un piccolo ruolo in un episodio di Le spie e Sam gliene diede un altro in «That Lady Is My Wife». Hollywood voleva delle Barbie dai capelli biondo platino e Begonia, pur con tutta la sua fiera bellezza, non era il prodotto che cercavano. I tre aborti causarono ulteriore tensione nel loro rapporto. «Fu molto difficile per Bego», afferma Chalo Gonzalez. «Voleva disperatamente un bambino». «Cristo, le conversazioni sul farla restare incinta erano ridicole!», afferma Jim Silke. «Volevano farle subire di tutto, farla controllare da un medico. Divenne una cosa molto seria». E poi c’era l’alcolismo di Sam. In quel periodo andava praticamente a letto con una bottiglia di brandy sul comodino, e al mattino per prima cosa si allungava per prenderla. Begonia lo pregava: «Sam, perché ti serve quella quando hai me?» «Mi serve per rilassarmi», rispondeva in un tono brusco, a indicare che la discussione era chiusa. Ma nel tardo pomeriggio, dopo che aveva bevuto da quella bottiglia per l’intera giornata, gli effetti erano tutto fuorché tranquillizzanti. I suoi occhi si affinavano fino ad assumere un feroce luccichio, e cominciava a prendersela con lei. «Bego subiva, subiva, subiva», sostiene Lyn Silke. «Era una donna innamorata e voleva renderlo felice. E Sam voleva essere felice con lei. Ma lei non ci riusciva. Sam la metteva alla prova: puoi rendermi felice? La metteva continuamente alla prova. La portò a fare un campeggio che fu veramente duro. Non c’era acqua. Riuscite a immaginare? È il genere di
cosa che infastidirebbe persino un uomo, dopo un po’. La pressava tantissimo». Begonia non accettava passivamente questi abusi; spesso rispondeva a Sam con una rabbia che eguagliava quasi quella di lui. «Era tosta tanto quanto lui», dice Max Evans. «Assolutamente. Sono convinto che sia stata la prima donna che ha saputo giocarsela ad armi pari, mentalmente, fisicamente o in ogni altro modo. Non accettava stronzate e Sam questo lo rispettava». «Begonia era una persona autentica, assolutamente autentica, per questo Sam la amava», ricorda Jim Silke. «Era una persona onesta, emotiva, davvero genuina, il che era una rarità in quella città. Sam la ammirava. Era una persona appassionata, vivace, allegra, vitale. Era una vera donnaanimale, fondamentalmente, e di una vitalità forsennata. La rabbia, oh, lui amava la sua rabbia quanto ogni altra cosa. Litigavano tanto, Begonia era tosta. Si urlavano contro di tutto». Ma alla fine i conflitti divennero troppo duri persino per Begonia. Volò da sua madre a Città del Messico e divorziò. Nel giro di una settimana, Sam volò da lei, la riportò a casa e la risposò. Ma dopo un altro litigio esplosivo, Begonia rivolò in Messico e divorziò di nuovo da lui. Sam andò da Lyn Silke, distrutto. «Bego non vuole parlare con me», disse. «Non vuole parlare con nessuno, ma so che parlerà con te. Telefonale. Voglio solo sapere se sta bene». Così Lyn chiamò a casa della madre di Bego a Città del Messico. «Lyn», disse Bego nel mezzo della conversazione, con una strana enfasi. «Mi sono rotta il braccio». «Oh, mi dispiace molto», rispose Lyn imbarazzata. «Begonia, io so che ti ama». «Lo amo anch’io, con tutto il cuore». Poi lo disse di nuovo. «Lyn, mi sono rotta il braccio…» «Non riuscivo a chiederle come», afferma Lyn, la voce ancora rotta dopo tutti questi anni, «e non ho mai detto a Sam
che mi aveva raccontato questo». «Non avrebbe mai potuto dirmi che aveva davvero fatto del male a Begonia», dice Jim Silke. «Me lo avrebbe fatto sapere, ma non sarebbe mai stato capace di dirlo; mi avrebbe fatto sapere che era accaduto qualcosa di molto brutto». Eppure quando volò da lei in Messico, Begonia tornò con lui e si sposarono per la terza volta. C’era una selvaggia, tacita passione tra loro, che non sarebbe mai morta. Il precedente matrimonio era stato una vera e propria cerimonia cattolica; questa volta si trattò di un secco rito civile al tribunale di Los Angeles, con i soli Silke come testimoni. Sam fu quasi cacciato fuori prima che potessero scambiarsi le promesse; era stato beccato in ginocchio nell’ingresso a giocare a craps. «Fu assurdo!», ricorda Lyn Silke. L’ultima, catastrofica rottura non era lontana. Litigarono una sera e Sam uscì di casa come una furia. Quando tornò, scoprì che Begonia lo aveva chiuso fuori. «Mi chiudi fuori dalla mia stessa casa, stronza!» Impazzì e diede un pugno alla finestra di vetro della lavanderia per aprirsi un’entrata. Begonia scappò da un’altra porta e corse giù per la Pacific Coast Highway fino a una clinica d’emergenza del posto, dove Walter Peter andò a riprenderla la mattina dopo. Convenendo che qualcuno dovesse andare a vedere se Sam stava bene, Fern Lea andò a casa del fratello. Sembrava come se una banda di rivoltosi avesse saccheggiato il posto. Trovò Sam in cucina, appollaiato su uno degli sgabelli del bar, scalzo. Le lanciò uno sguardo assassino. «Che ci fai qui?» «Oh, ho solo pensato di passare a salutare», disse cercando di sembrare naturale. Gli si era incastrato un pezzo di vetro della finestra infranta nell’alluce. Fern Lea cercò fra i detriti e alla fine trovò una spilla da balia con la quale estrarlo. Gli prese il piede. «Dovrò farti male», lo avvisò. La guardò con una strana intensità. «Fai pure, fammi male».
Stava bevendo brandy e caffè e ne offrì un po’ a Fern Lea. La sorella rifiutò, silenziosamente preoccupata: non aveva mai visto Sam bere così presto di mattina. Senza preavviso, Sam prese il telefono e chiamò Jack Curtis, lo scrittore che aveva beccato a baciare Marie sette anni prima. Non avevano più parlato da quella terribile notte. Gliene disse di tutti i colori, chiamandolo con ogni parolaccia immaginabile, poi posò il ricevitore sbattendolo con violenza. «Sam», Fern Lea si azzardò a dire, «come puoi fare una cosa del genere?» «Be’, doveva aspettarselo!», ringhiò suo fratello. Poi improvvisamente si accasciò, piangendo senza controllo, come un bambino: «Non farò mai più un film! Non riuscirò mai a fare un altro film!» Bego se ne era andata per sempre. Un paio di giorni dopo, mentre Sam non c’era, suo fratello Juan José si intrufolò in casa e prese tutte le sue cose, e anche qualcosa che apparteneva a Sam. Ma quella cosa selvaggia e tacita tra di loro non morì mai. Avrebbero avuto sporadici ritorni di fiamma negli anni seguenti – intensamente appassionati, ma di breve durata. Puntualmente un litigio faceva fare le valigie a Bego. Era Bego che Sam stava andando a trovare durante il suo ultimo volo verso il Messico nel Natale del 1984; furono Bego e Fern Lea che gli stettero accanto nei suoi ultimi momenti. Mentre se ne stava seduto sulla sabbia rovente di Broad Beach nella Summer of Love – la casa vuota dietro di lui, le fiestas del weekend ufficialmente finite – a scrutare la distesa grigia e bianca in superficie del Pacifico, sembrava che avesse perso tutto, persino la sua arte. Non aveva nulla da aspettare con impazienza, se non decenni di opere televisive da dilettanti e un’infinita serie di bottiglie per affogare il dolore. Poi, un giorno, un produttore della Warner Bros. si materializzò alla sua porta, presentandosi col nome di Phil Feldman.
Jack Warner aveva da poco venduto la sua quota dello studio, pari al 30%, a una società di produzione indipendente, la Seven Arts, lasciando Darryl F. Zanuck della 20th Century Fox come unico magnate dei vecchi tempi rimasto a Hollywood. Di proprietà di Elliot Hyman, la Seven Arts era specializzata in pellicole audaci, innovative, in stile Nuova Hollywood come Lolita, diretto da Stanley Kubrick, The Heart Is a Lonely Hunter e Riflessi in un occhio d’oro, diretti da John Huston, e il debutto alla regia di Francis Ford Coppola Buttati Bernardo!, che Feldman in persona aveva prodotto. Hyman nominò Kenneth Hyman, suo figlio trentanovenne, a capo della produzione dello studio. Laureatosi alla Columbia ed ex marine, Ken Hyman aveva appena prodotto Quella sporca dozzina – un successo al botteghino che compiaceva astutamente sia la fazione reazionaria che quella antimilitare americane. Due anni prima Hyman aveva prodotto un dramma militare antiestablishment più sottile e artistico, La collina del disonore, diretto da Sidney Lumet e interpretato da Sean Connery. La pellicola fu presentata a Cannes nel 1965. Sam Peckinpah era in Francia in quel periodo, cercando di ingaggiare Alain Delon per Ready for the Tiger. Dopo la proiezione al festival, Hyman fu avvicinato da un piccolo, esile uomo dagli occhi stranamente penetranti. Gli parlò così piano che il giovane produttore dovette chinarsi per cogliere le parole. «Ha fatto una pellicola straordinaria». «Grazie mille», rispose Hyman. «Scusi, non credo di conoscerla». «Mi chiamo Sam Peckinpah». Peckinpah accennò al fatto di essere stato un marine e di aver combattuto in Cina. Anche Hyman era stato nel Corpo e aveva sentimenti molto contrastanti rispetto a quell’esperienza. La conversazione non era durata più di cinque minuti, ma l’avvolgente intensità di Peckinpah aveva lasciato il segno in Hyman. Quando tornò nel suo ufficio a Londra, cercò i lavori di Peckinpah, visionò Sfida nell’Alta Sierra e fu totalmente preso dal suo stile così originale.
Ora a capo della Warner Bros., Hyman aveva i capelli scuri, era attraente, con il suo portamento studiatamente naturale, colto e bramoso di produrre importanti film artistici – un produttore della Nuova Hollywood a capo di uno dei maggiori studi. Sotto il comando di Hyman, la Warner avrebbe finanziato una serie di film idiosincratici di registi esordienti o anticonformisti: La prima volta di Jennifer, diretto da Paul Newman, Lasciami baciare la farfalla, scritto da Larry Tucker e Paul Mazursky, Sulle ali dell’arcobaleno, diretto da Francis Ford Coppola, Il gabbiano, diretto da Sidney Lumet, e L’uomo che fuggì dal futuro di George Lucas. «Non ero un ex agente che gestiva uno studio, come succede a Hollywood oggi», dice Hyman. «Non ero un affarista. Ero un produttore sul campo, facevo pellicole e credevo nella necessità di fare tutto il possibile per supportare un regista, per permettergli di realizzare il film come lo aveva concepito». Sam Peckinpah si era guadagnato una bella reputazione da dissidente che fingeva di rispettare le convenzioni per poi cercare nel profondo una visione più personale. Poteva essere, Hyman se ne convinse, il regista perfetto per The Diamond Story, un film d’avventura su larga scala incentrato su una rapina multimilionaria nell’Africa moderna che la Warner Bros. aveva acquistato recentemente come possibile veicolo per Lee Marvin. Nelle mani di Peckinpah poteva diventare molto più del solito caper movie. Hyman mandò Phil Feldman – che era stato preso dalla First Artists per produrre film alla Warner – a parlare con Peckinpah. Sedutosi nell’ufficio di Sam a Broad Beach, Feldman illustrò la trama della pellicola. Sam restò seduto, immobile, a esaminare l’uomo. A prima vista Feldman sembrava la caricatura di un produttore di Hollywood: sovrappeso, calvo, di carnagione pallida, con un grande sigaro fisso a un angolo della bocca. Ma c’era di più dietro l’apparenza. Feldman aveva due lauree in giurisprudenza, di cui una alla Georgetown University, e un master a Harvard. Aveva fatto parte dell’unità di intelligence militare che durante la seconda guerra mondiale
aiutò a decifrare il codice radio giapponese e che fu premiata con la Presidential Citation of Merit. Era stato vicepresidente responsabile degli affari economici alla Seven Arts e alla 20th Century Fox prima di diventare produttore e aveva un grande talento nel destreggiarsi tra le bianche acque economiche e politiche di Hollywood. Feldman era discretamente colto e giocava un paio di set di tennis ogni giorno; sotto l’aspetto alla Pillsbury Doughboy era, mentalmente e fisicamente, freddo e duro come il marmo. A conclusione del suo discorso, Feldman spiegò che lui e Hyman volevano che Sam riscrivesse il copione di The Diamond Story e che lo dirigesse. Sam lanciò un’occhiataccia al produttore, gli occhi taglienti come due rotoli di filo spinato, e disse «Be’, ho già sentito questa stronzata». Feldman cambiò goffamente posizione. «Che vuoi dire?» «Tutti vengono da me e dicono che vogliono che diriga. La verità è che vogliono che riscriva. Non sei diverso dagli altri, vuoi solo che riscriva la storia». Ma Feldman insistette. Volevano davvero che dirigesse la pellicola; infatti, Feldman voleva portare Peckinpah a San Blas, sulla costa occidentale del Messico, vicino Santa Cruz. Il territorio lì era ricoperto di folte foreste pluviali e poteva essere utilizzato come perfetto rimpiazzo per la costa africana, dove la storia si svolgeva. Lo sguardo di Sam si spostò dal produttore fuori dalla grande finestra, verso la sabbia lucente e la distesa dell’oceano oltre di essa. «Be’», disse alla fine, «credo che dovrò correre il rischio, perché dubito che qualcuno mi lascerà dirigere di nuovo, comunque… Che cavolo». Nessun minuscolo ufficio-sgabuzzino. Fu sistemato in un’ampia suite adiacente a quella di Feldman, nel Producers Building all’interno della Warner Bros. Quando vi trasferì le sue cose, portò anche con sé una pila di sceneggiature che aveva scritto o che si era procurato nei due anni precedenti, tra cui Castaway, Hi-Lo Country e La ballata di Cable Hogue. Se
The Diamond Story fosse davvero riuscito, forse avrebbe potuto convincere la Warner a finanziarne uno. Sepolto anch’esso nella pila c’era uno strano, piccolo copione, un crudo western datogli da Roy Sickner, una controfigura amica di Lee Marvin. Sickner aveva ideato la storia e Walon Green ne aveva fatto una sceneggiatura. La trama non era un granché, una serie di sparatorie collegate disordinatamente in stile spaghetti western. I personaggi principali erano una banda di fuorilegge negli ultimi giorni della frontiera che trovano la propria fine, come Ambrose Bierce, nella tempesta di fuoco della rivoluzione messicana. Marvin era interessato a girarla, per cui se l’affare di The Diamond Story fosse andato in fumo, l’avrebbe offerta come alternativa. Il materiale era piuttosto esile, ma ci vedeva qualcosa, anche se non sapeva dire cosa. Semplicemente, sembrava che non riuscisse proprio ad allontanare quella rivoluzione da sé.
7
IL MUCCHIO SELVAGGIO
Mentre Sam riscriveva The Diamond Story, Curtis Kenyon, capo della sezione storie della Warner Bros., inviò un entusiastico rapporto su un copione che era stato consegnato allo studio da William Goldman. Goldman aveva scritto diversi romanzi, tra cui Soldier in the Rain, e la sceneggiatura di Detective’s Story, un giallo con Paul Newman che aveva avuto grande successo nel 1966. Il nuovo copione di Goldman, Butch Cassidy, ripercorreva le bravate dell’ultimo grande fuorilegge del West, che aveva rubato bestiame e rapinato banche e treni in tutto lo Utah, il Colorado e il Wyoming all’inizio del secolo. La banda di Cassidy era conosciuta in tutto il West come «il Mucchio selvaggio» e i suoi membri includevano diversi assassini psicopatici – come Harry Tracy e Kid Curry – che provavano un efferato piacere nel piantare proiettili nel corpo di guardie delle banche, uomini di legge, cacciatori di taglie e occasionali spettatori innocenti. La leggenda narrava che Cassidy non avesse mai ucciso un uomo in prima persona, che credesse in un codice d’onore tra ladri, che avesse sempre rispettato la parola data a un altro uomo e che fosse fieramente leale verso i suoi compagni. In cambio della grazia, una volta Cassidy promise al governatore del Wyoming che non avrebbe più commesso alcun crimine in quello stato, e così fece, pur continuando i suoi saccheggi in tutti i territori circostanti. Occhi blu e capelli biondi, ghigno vincente e modi amabili, Cassidy, come molti fuorilegge del West, godeva di una reputazione alla Robin Hood tra tutti
salvo che tra i fattori, le banche e le ferrovie che aveva derubato. Questa immagine puzzava di romanzetto più che di realtà, ma anche se tutte le qualità positive di Cassidy fossero state vere, sarebbe stato come cercare il pelo nell’uovo, visto che era circondato da feroci pistoleri che aspettavano solo l’opportunità di fare i lavori più sporchi al posto suo. Nel 1901 il filo spinato, i cavi del telegrafo e l’agenzia investigativa Pinkerton, che usava i vagoni bestiame per rincorrere i banditi, costrinsero Cassidy e Sundance Kid a scappare verso il Sud America, dove il Selvaggio West resisteva ancora. Lì formarono un’altra banda e continuarono a rapinare banche fino al 1911, quando furono circondati dai soldati boliviani in una piccola cittadina. Dopo un’incredibile sparatoria che durò tutto il giorno e la notte, i bandidos yanqui furono uccisi ed entrarono nel regno del mito. Il copione di Goldman attingeva da molti eventi reali della carriera di Cassidy, ma passava nella candeggina tutte le tinte più scure del fuorilegge, che avrebbero potuto turbare gli spettatori. I dialoghi erano disinvolti, i fuorilegge eleganti e amabili, i colpi di scena ingegnosi, l’azione entusiasmante. Procedeva un po’ come i film di viaggio della coppia Bob Hope e Bing Crosby, ironizzando scaltramente sulle convenzioni del western hollywoodiano, ma preservando al contempo una parvenza d’amore, avventura e sentimentalismo. Kenyon la definì la migliore sceneggiatura in cui si fosse mai imbattuto. Quando Feldman la lesse, concordò e convinse Ken Hyman ad acquistarla. Ma Goldman sapeva di avere del materiale di prim’ordine e chiese un prezzo astronomico: 400.000 dollari più una percentuale sugli incassi. Irwin Margulies, vicepresidente in carica degli affari economici, la considerò una cifra oltraggiosa e convinse Hyman a lasciar perdere. Richard Zanuck, allora capo della 20th Century Fox, vi si fiondò prontamente e si accaparrò i diritti. A Paul Newman e Robert Redford vennero affidati i ruoli dei protagonisti e George Roy Hill fu chiamato a dirigere. «Non
ne parlai mai con Sam», ricordò Feldman, «ma se lo avessi prodotto io, lo avrei probabilmente fatto dirigere da lui». Invece, a loro rimase in mano The Diamond Story. Nell’autunno del 1967, Feldman portò come promesso Sam a San Blas per selezionare le location per il film. Mentre erano lì, furono sorpresi da un temporale torrenziale che li confinò in albergo per tre giorni. Poiché avevano molto tempo da perdere, Sam tirò fuori la copia del western scritto da Sickner e Green – l’aveva portata con sé in quel viaggio quasi per caso – e la diede a Feldman dicendogli che Lee Marvin la adorava e voleva interpretare il protagonista. Sickner aveva usato il nome della banda di Cassidy, il Mucchio selvaggio, come titolo, ma con Green aveva cambiato i nomi dei fuorilegge – Pike Bishop era il leader – e li aveva localizzati nel territorio di fantasia preferito da Sam: lungo la terra di nessuno costituita dal confine tra il Texas e il Messico nel 1913. Sickner aveva steso la storia e Green l’aveva strutturata in una sceneggiatura di novantasei pagine, i cui nodi narrativi principali sarebbero rimasti immutati. Dopo aver rapinato l’ufficio di una ferrovia in Texas, il Mucchio fugge da una posse di cacciatori di taglie, dirigendosi verso il Messico. Lì decide di rubare un carico di fucili dell’esercito americano per un signore della guerra messicano, il generale Mapache, che si è alleato con Huerta nella guerra contro Villa. Ma un membro della banda di Pike Bishop, Angelo, è messicano, ed è nato in un villaggio che Mapache ha precedentemente saccheggiato. Angelo prega Bishop: «Lascia che prenda solo una cassa di fucili dal carico per darla al popolo del mio villaggio; con le armi potranno difendersi». Bishop accetta, il popolo di Angelo ottiene le armi, ma Mapache lo scopre, cattura Angelo ed è intento a torturarlo lentamente quando Bishop e il Mucchio tornano a salvarlo. Duecentocinquanta messicani contro quattro gringos. Quando il fumo si dissolve, i fuorilegge sono morti, ma con loro anche Mapache e la maggior parte del suo esercito. La regione è stata liberata da un vile tiranno e il quartetto di bandidos yanqui è entrato nella leggenda.
Non c’era nulla di elegante, arguto o eccellente nella sceneggiatura di Sickner e Green. Era cruda, spietata, senza traccia di romanticismo – tanto opposta a Butch Cassidy quanto Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini a La storia più grande mai raccontata di George Stevens. Feldman ne vide subito il potenziale. Attingeva allo stesso tema degli yankee a sud del confine che aveva reso Vera Cruz, I magnifici sette e I professionisti grandi successi al botteghino. C’erano un numero sufficiente di ruoli corposi per un cast di star da affiancare a Marvin, come era stato fatto per Quella sporca dozzina, e c’erano tantissime frenetiche sparatorie. Quando le piogge si placarono, Feldman e Peckinpah tornarono negli Stati Uniti e il produttore inviò subito una copia del copione a Ken Hyman. In una nota allegata, Feldman scrisse: «Sento che Il mucchio selvaggio […] potrebbe essere un colpaccio! Ha bisogno di modifiche di cui io e Sam abbiamo discusso e credo che, se avrai il tempo di dargli uno sguardo, si dimostrerà il tipo di pellicola con Lee Marvin che ti soddisferà di più al mondo. Cosa ancor più importante, sembrerebbe che, se tu fossi disponibile la settimana prossima per un incontro con Lee, Meyer [Mishkin, l’agente di Marvin], Sam e me, ci sia la possibilità di un accordo multifilm con Lee che includa Il mucchio selvaggio, che a quanto pare piace tanto a lui, e The Diamond Story, che piace tanto a noi». La prospettiva di accaparrarsi Marvin con un contratto multifilm era da acquolina in bocca. Dopo aver vinto un Oscar per Cat Ballou e registrato due successi di pari entità con I professionisti e Quella sporca dozzina, Lee era allo zenit della sua popolarità. Uno dei pochissimi uomini importanti di Hollywood in grado di generare profitti, aveva l’imbarazzo della scelta tra una dozzina di eccitanti progetti, tra cui Patton, generale d’acciaio e La ballata della città senza nome. Hyman convenne che Il mucchio selvaggio aveva i numeri per essere un grande film d’azione. Per di più, offriva loro la possibilità di battere Butch Cassidy nei cinema con una saga di fuorilegge in pieno tramonto del West, e con una spesa
molto inferiore. Anziché 400.000 dollari più parte degli incassi, la Warner dovette sborsare solo 100.000 dollari per Il mucchio selvaggio. 28.000 dollari sarebbero andati a Sickner e altri investitori esterni che avevano messo i soldi per la sceneggiatura di Green; 72.000 dollari sarebbero andati a Peckinpah per la riscrittura del copione, più altri 100.000 dollari per dirigerlo. Moltissimi soldi per Sam, ma un vero affare per la Warner. Tutti convenivano che i personaggi avessero bisogno di essere irrobustiti. Nella sua forma attuale il copione era poco più di un filo al quale erano legate una serie di sparatorie – non aveva nulla di consistente che lo elevasse al di sopra della media degli spaghetti western. Ma Sam assicurò Feldman e Hyman di poter tramutare quel lino in oro. «Di tutti i progetti a cui abbia mai lavorato, questo è quello che mi si avvicina di più e, come già sai, non c’è altro posto al mondo in cui vorrei farlo», scrisse Peckinpah in un biglietto a Hyman verso la fine dell’ottobre 1967. Sam disse a Hyman e Feldman che andava fuori città per restare da solo a lavorare al copione, ma non era che una copertura. In realtà, stava partendo per il suo ritrovo annuale con i Walker River Boys nell’Alta Sierra del Nevada. Nemmeno uno straordinario contratto cinematografico poteva tenerlo lontano dalla sua annuale caccia al cervo. Ma quell’autunno i ragazzi notarono che sembrava distratto e che mentre scrutava le foreste di pini i suoi occhi spenti in realtà scandagliavano dentro di lui. Mostrò un minimo di entusiasmo quando tornarono al Bobbie’s Buckeye, ma era solo apparenza. Qualcosa lo divorava. Per anni Sam aveva sognato di girare Castaway e Hi-Lo Country. Ma non aveva mentito a Hyman; c’era qualcosa in quell’opera western così crudamente articolata che lo sopraffaceva, sebbene non sapesse dire cosa. C’era la rivoluzione messicana, ovviamente, la stessa premessa di base di Viva! Viva Villa!: un cinico gruppo di mercenari americani assetati di denaro piomba nel mezzo di una guerra civile che non può comprendere e, nonostante tutti i suoi sforzi, finisce
per convertirsi alla causa di Villa. E qui stava l’attrattiva, scintillante e oscura: scrivere di uomini cattivissimi, assassini che vanno in Messico. «I fuorilegge del West mi hanno sempre affascinato», avrebbe spiegato Sam in seguito. «Era gente che non solo viveva di violenza, ma per la violenza. E il lato nascosto della nostra società è sempre stato la violenza – lo è ora e lo sarà sempre. È una riflessione sulla società stessa». La sfida era fare in modo che il pubblico si interessasse a queste bestie umane, che entro la fine del film attivasse ad amarle. Un paio di settimane prima, Sam aveva chiamato Jim Silke per aiutarlo con la riscrittura. Ma Silke era esausto. Aveva passato gli ultimi due anni a scrivere copioni con Peckinpah su Mr. Lecky, Big Boy Matson e tutta una serie di disadattati, assassini e misantropi. (Tra questi un episodio pilota per una serie tv intitolata The Heavies, in cui una parata di personaggi irrecuperabilmente cattivi erano le star dello show. Ovviamente non fu venduta, anzi, arrivarono a riempire un’intera cartella con tutte le lettere di rifiuto dei produttori sgomenti.) Silke non poteva sopportare un altro viaggio nella psiche contorta di personaggi del genere, ma non riusciva a dire di no quando Sam gli chiedeva aiuto. Sam gli diede le prime dieci pagine rielaborate e una settimana dopo chiamò Silke per sapere cosa ne pensasse. «Ero a un punto in cui non ce la facevo più», dice Silke. «Sam cominciò a parlare di questo nuovo personaggio che aveva aggiunto, Crazy Lee, e di quanto fosse piaciuto a Lee Marvin. Cercai di bluffare e dissi: “Certo, è fantastico!”» Ma la rigidità della sua voce lo tradì. Ci fu una lunga, infausta pausa all’altro capo del telefono prima che Sam ringhiasse: «Stai mentendo, figlio di puttana! Non l’hai nemmeno letto!» E riattaccò violentemente la cornetta. «Aveva ragione», ammette Silke. «Fu la prima volta che gli mentii. Gli avevo sempre detto la verità fino ad allora, e questo aveva costituito il fondamento del nostro rapporto:
fiducia assoluta. Ma proprio non riuscivo a lavorare a quel copione. Gli mentii quella volta, ma non lo feci mai più». Due settimane dopo in Nevada, Sam si rassegnò tristemente a occuparsi della riscrittura da solo. Il solo pensiero era accattivante quanto mettersi un carbone ardente sulla lingua. Tutto quel pavoneggiarsi con Hyman e Feldman, e non aveva la minima idea di come rielaborarlo. In cosa si era cacciato? Pur con tutte le ampie distrazioni disponibili al Bobbie’s Buckeye, non faceva che pensarci. Mentre il resto dei Walker River Boys facevano baldoria al bar o nelle stanze sul retro, Sam sgattaiolava al telefono pubblico per chiamare Silke a Los Angeles – la lite tra loro fu superata per pura disperazione. «Aveva bisogno di qualcuno a cui sottoporre le sue idee», dice Silke. Sebbene non scrisse nemmeno una parola del copione, in questa e nelle successive conversazioni telefoniche delle settimane seguenti Silke aiutò Peckinpah a capire cosa voleva fare di quella storia. «L’idea di base era: chi farebbe mai una cosa simile – rapinare, uccidere, rubare armi e poi alla fine dare le armi ai contadini, tornare per Angelo e morire per lui?», afferma Silke. «Quello era il problema, perché quella storia era già stata scritta: il fuorilegge dal cuore d’oro. Era un western veramente all’antica. Sam disse: “E se realizzassimo un film nel quale lo fanno veramente? Chi lo farebbe mai per davvero? Arrivare e sacrificarsi in quel modo?” Chiunque abbia mai scritto un western ha scritto questa storia, ma non funziona mai. È puro idealismo. Per cui quello era l’intento dal principio: far funzionare la storia». Nella sceneggiatura di Sickner e Green, la banda di Pike Bishop viene rincorsa fino in Messico da una brigata assunta dalla ferrovia che il Mucchio ha derubato, e capeggiata da un ex membro del Mucchio selvaggio, Deke Thornton. Quasi nulla veniva rivelato del passato di Thornton. Non c’era alcuna traccia del tipo di legame con il Mucchio, o del perché ora avesse accettato di scovarli.
Jim Silke ricorda: «Gli dissi: “Chi è Thornton? Non sappiamo chi sia. Non sappiamo quale sia o fosse il suo rapporto con Pike. Abbiamo bisogno di questo approfondimento”. Sam capì che quella storia doveva essere ricostruita, perché si parlava di uomini che cambiano. Thornton era cambiato; lo avevano fatto cambiare. Era una storia di persone che cambiano e di altre che si rifiutano di farlo, e dell’effetto che tutto questo ha sulle persone». Sam capì che la chiave dell’umanità dei personaggi stava nei loro singoli passati. Lentamente i temi cardine cominciarono a emergere. Pike Bishop, come Butch Cassidy, sarebbe stato un uomo che si rifiuta di cambiare con il cambiare dei tempi, un dinosauro sopravvissuto oltre i suoi giorni gloriosi. Deke Thornton, la sua nemesi, sarebbe stato l’uomo che è cambiato, lo stallone selvaggio ormai sconfitto, sellato e imbrigliato dal sistema; l’uomo che aveva sacrificato la propria vitalità per poter continuare a vivere, che sarebbe fisicamente sopravvissuto ma che era spiritualmente morto. Ma come avrebbe fatto a rendere il climax verosimile e la decisione di Bishop di condurre il Mucchio a riprendersi Angelo e ad affrontare una morte certa convincente? Doveva essere realistico. Tornare indietro per il proprio compagno, il fuorilegge dal cuore d’oro che si sacrifica per una nobile causa – Silke aveva ragione: era una storia vecchia, vecchia quanto il western stesso, vecchia quanto la leggenda di Robin Hood. Un mito arrugginito come quello poteva tornare a splendere come nuovo nel 1967? Aveva ancora rilevanza, si poteva fare in modo che il pubblico ci credesse ancora? Sam sapeva una cosa sola: la motivazione dietro il sacrificio estremo del Mucchio doveva essere più che il senso di un’unione tribale; doveva essere molto più sfaccettata. Nel corso della storia Bishop doveva essere obbligato a vedersi non per come gli piaceva idealizzare se stesso – un uomo di parola che vive secondo il proprio codice e dunque un uomo di grande onore e integrità – ma com’era realmente. A poco a poco doveva confrontarsi con la realtà: capire che il suo codice era una finzione, che lo aveva violato ripetutamente
quando le circostanze lo rendevano più conveniente, che gli era servito semplicemente a mo’ di razionalizzazione per mascherare la brutalità e il fallimento morale della sua vita. «Alla fine», nota Silke, «vedete almeno uno di loro, Pike Bishop, giungere a un riconoscimento di ciò che è davvero, e che ha fatto». Quell’epifania conclusiva doveva arrivare verso la fine del film; doveva spingere Bishop e il Mucchio nel bagno di sangue finale in cui alla fine dei conti sarebbero stati redenti. Quando Sam tornò alla Warner Bros. nella prima settimana di novembre, i suoi occhi ardevano come quelli di un fanatico fondamentalista, un uomo posseduto. Nel cranio aveva un turbinio di fili sparpagliati, personaggi, temi, scene, situazioni – tutti gli elementi di quella grande storia che aveva sempre sentito ardere dentro di sé. Aveva cercato di raccontarla prima, ma non c’era riuscito. Ora sentiva che stava cominciando a cristallizzarsi. The Dice of God, Sierra Charriba, Viva! Viva Villa! – «erano diventate tutte parte del Mucchio selvaggio», disse Sam in seguito. «E così, se perdi, in realtà non perdi davvero: usi quello che hai immagazzinato per il prossimo film. È un processo di apprendimento. Se smetti di imparare, sei morto». Gay Hayden, che avrebbe ancora una volta battuto a macchina tutte le revisioni di Peckinpah al copione, ricorda: Sam mi disse di andare a comprargli un temperamatite. Così tornai con un normale temperamatite a mano e Sam si infuriò. Fece una sceneggiata sul fatto che non era quello che aveva in mente, che voleva un temperamatite elettrico, voleva un temperamatite Panasonic. Si poteva sentire per tutta l’ala dell’edificio. Dissi: «Sì, signore», uscii dall’ufficio e Feldman era appoggiato allo stipite a ridacchiare. Sam usava quelle grandi matite da disegno marroni, sapete, quelle matite marroni cicciotte. Si potevano scrivere massimo tre parole con quelle, prima che si consumassero. Per cui aveva questo grande barattolo di matite e non faceva che infilarle nel temperamatite, e si sentiva quel ronzio in continuazione. Mi mandava ai pazzi!
Ma in quell’ufficio, tra un ronzio e l’altro, sui margini e dietro le pagine della sceneggiatura di Sickner e Green, Sam stava spezzettando scene e rimettendole insieme, spingendo, tirando, cercando modi per «portare la storia un passo oltre»,
per renderla realistica, per renderla personale. La spina dorsale della storia era come l’albero di Natale che aveva portato nel salotto dall’alto soffitto della sua casa a Broad Beach: sui suoi forti rami stava ora cominciando ad appendere palle di vetro e fiocchi, lucine e capelli d’angelo. Aggiunse, riesaminò, aggiunse ancora qualcosa qui, tolse qualcosa lì e piano piano la storia divenne sua. Per i successivi sei mesi, non si sarebbe dedicato che a questo. A volte il dialogo si riversava direttamente sulla pagina nella sua grafia da gallina: la scelta delle parole, la cadenza, le immagini – tutto cristallizzato senza sforzo. Molto più spesso si trattava invece di un laborioso processo di raffinazione. I dialoghi erano scritti e riscritti finché si giungeva alla perfetta scelta delle parole, o a volte venivano eliminati completamente e la scena veniva riscritta da capo. Lentamente, una scena alla volta, Sam stava ritrasformando Pike Bishop da personaggio macho a figura tragica dalla grande complessità: un uomo perseguitato dai suoi fallimenti nel recente e nel lontano passato, che si rivela perennemente incapace di corrispondere all’ideale e all’etica che si è autoimposto. «Tu non ti sbarazzi proprio di nessuno! Resteremo insieme com’è sempre stato. Quando ti unisci a qualcuno, resti con lui!», ringhia Bishop a due membri della sua banda quando vogliono ucciderne un altro per via della sua goffaggine. «Se non ci riesci, sei peggio di un animale – sei finito – siamo finiti, tutti noi!» Ma Bishop stesso fallisce ripetutamente nel rispettare questo precetto del suo codice. Quando la rapina dell’ufficio della ferrovia a inizio film si rivela un’imboscata dei cacciatori di taglie, Bishop lascia indietro uno del Mucchio con gli ostaggi, come diversivo per facilitare la propria fuga. Mentre cavalcano verso sud in direzione del confine messicano, un membro della banda ferito cade da cavallo, ormai senza più le forze per farcela a cavalcare da solo, Pike tira fuori freddamente la sua calibro .45 e lo finisce. Inoltre, un flashback aggiunto da Peckinpah rivela perché Thornton abbia tradito il suo ex compagno:
Bishop lo aveva tradito anni prima. Quando i due erano stati sorpresi dagli uomini della Pinkerton in una suite d’albergo a Denver, Bishop era saltato dalla finestra, lasciando indietro Thornton ferito, anche stavolta per coprire la sua fuga. Nel corso della storia, Peckinpah forzava Bishop ad affrontare i suoi fallimenti: facendogli scoprire che il giovane che aveva lasciato a morire a Starbuck era il nipote del suo più vecchio compagno, Freddie Sykes; attraverso la riapparizione di Thornton, che fa riaffiorare il ricordo del suo precedente gesto di codardia – e, in ultimo, attraverso Angelo. Scappando a sud dopo la rapina a Starbuck, il Mucchio arriva sulle rive del Rio Grande, la porta d’ingresso per il Messico. I membri della banda vi arrivano come uomini profondamente disincantati dall’umanità. «Noi non siamo aggregati a nessuno», dirà un membro del Mucchio al generale Mapache quando lo incontrano. Bishop aggiungerà: «Noi condividiamo ben pochi sentimenti del nostro governo». Solo Angelo – l’unico nativo tra loro, l’intruso con un nome che ben si abbina alla sua visione romantica – vede qualcosa di speciale quando scrutano la terra oltre il fiume cui stanno per accedere. Angelo dice piano: «Mexico lindo». «Che cosa ci vedi di lindo io non lo capisco», lo schernisce uno della banda. «Somiglia a un pezzo di Texas con contorno d’insalata», dice un altro. Angelo: «Ah, tu non hai occhi». Una delle modifiche più cruciali fatte da Peckinpah al copione fu quella di far visitare all’intero Mucchio il villaggio in cui era nato e cresciuto Angelo, il villaggio appena saccheggiato dalle truppe di Mapache. Seppur strutturata con dettagli autentici per portarla in vita sulla pellicola in maniera vivida, la visione di Peckinpah del Messico non era affatto realistica, bensì mitica. «Non faccio documentari», disse Sam in seguito. «I fatti riguardanti l’assedio di Troia, il duello tra Ettore e
Achille e tutto il resto, sono molto meno interessanti per me di ciò che con essi ha creato Omero. I fatti puri e semplici tendono a oscurare la verità […] Di fondo, io sono un cantore […] Il western è una cornice universale all’interno della quale si può commentare l’oggi […] Tantissime persone sono turbate perché sentono che qualcosa non sta andando nel verso giusto. Io sono una di loro». La cinica disillusione del Mucchio riflette quella dell’America del 1967, e la loro cavalcata verso il Messico diveniva, anche se non lo avrebbero capito fino all’ultimo momento, una ricerca di significato e di rinascita spirituale. La terra a sud del confine in cui entravano non era il Messico del 1913, ma il facsimile onirico di Peckinpah, un regno uscito dal Vecchio Testamento che offriva visioni opposte dell’Eden e di Sodoma. La roccaforte di Mapache, Agua Verde, è un crudele, lacerato paesaggio di pistole e oro, di liquore che scorre a fiumi e di prostitute; madri allattano i loro bambini tra le bretelle delle cinture per le munizioni e un condottiero impregnato di sangue ride divertito alla vista di una donna colpita al cuore con un colpo di pistola. Ma nel villaggio di Angelo, il Mucchio scopre il mondo come dovrebbe essere, come tutti noi speriamo disperatamente che sia. In contrasto con il sabbioso panorama infernale del sud del Texas e di Agua Verde, il villaggio è un’ombreggiata oasi verde dove i bambini saltellano nudi in un freddo fiume e gli uomini e le donne vivono in semplice armonia, condividendo volentieri con gli altri tutto ciò che hanno. Il Mucchio cade subito nell’incantesimo della gente di Angelo. I due più sanguinari psicopatici, i fratelli Gorch, seguono una ragazzina come adolescenti innamorati, seduti all’ombra a giocare a ripiglino con lei. Bishop sorride a questa vista. «Stento a crederci!» «Non dovresti», dice il più vecchio del villaggio. «Tutti sogniamo di tornare bambini, anche i peggiori tra noi – forse i peggiori più di tutti». Quando Bishop e il Mucchio permettono ad Angelo di prendere una cassa di fucili dal carico rubato per Mapache, è
la prima volta nella loro vita in cui corrono un rischio per qualcun altro e senza guadagni economici. La visita al villaggio di Angelo sfonda una porta nelle loro coscienze e l’appassionato appello di Angelo a nome della sua gente la spalanca ancora di più. Quando Angelo è catturato e torturato da Mapache, Bishop e il Mucchio all’inizio cercano di giustificare razionalmente l’impossibilità di salvarlo. «Hanno le armi e sono in duecento», dice Lyle. «È impossibile… non c’è niente da fare», concorda Pike. Al contrario, vanno in un bordello di Agua Verde per scopare e ubriacarsi. Ma per farlo, devono passare per la piazza in cui Angelo è trascinato in terra dietro l’auto di Mapache, il viso escoriato e sanguinante. Persino nel bordello quell’immagine li perseguita; consuma le viscere di Bishop, finché lo spettro di un altro fallimento morale si dimostra intollerabile. Bishop si alza in piedi e si trascina verso la porta accanto, dove i fratelli Gorch stanno discutendo con una prostituta. I due uomini ammutoliscono nel vederlo sull’ingresso. Riescono a leggere i pensieri dietro quello sguardo duro e quel viso arcigno. «Andiamo», dice Pike seccamente. Dopo un attimo di esitazione, Lyle Gorch risponde: «Perché no?» E i fratelli afferrano i cinturoni. Così il Mucchio marcia verso la propria apocalisse, in parte perché non ha altro posto dove andare e sa di essere alla fine del suo cammino, in parte come penitenza per tutti i peccati del passato, ma anche, per una volta almeno – come aveva mostrato loro Angelo sacrificandosi per la sua gente – per lottare per qualcosa di nobile, qualcosa che andasse oltre loro stessi – il sogno di un mondo migliore. Il fatto che la rivoluzione di Villa sia probabilmente spacciata perché è stata fabbricata anch’essa da mani umane è irrilevante. L’ideale, la speranza, la sola visione val bene il sacrificio delle loro vite. Nella morte il Mucchio trova il senso che lo aveva sempre eluso in vita. Peccatori crudeli, si redimono all’ultimo minuto, quattro angeli vendicatori che lavano la depravata e debosciata Agua Verde in un bagno di sangue. Come nel Lord Jim di
Conrad, l’eroismo di Pike Bishop è spinto da un opprimente senso di colpa e da un disperato desiderio di morte. Quando Peckinpah sollevò dal copione l’ultima matita smussata, nella primavera del 1968, aveva trasformato un crudo spaghetti western in una tragedia epica di dimensioni shakespeariane. Hyman e Feldman lessero ogni bozza del copione man mano che Sam lo riscriveva, e a ogni versione il loro entusiasmo cresceva. Peckinpah aveva reso Il mucchio selvaggio un anticonvenzionale film d’azione-avventura, con personaggi vividi e scene ad alta tensione. Potevano non aver compreso il reale proposito della storia o le sue sfumature più sottili, ma sapevano che si elevava di parecchio al di sopra del western medio. Nel dicembre del 1967 Il mucchio selvaggio passò in primo piano. La Warner persuase Lee Marvin a firmare per il film, con The Diamond Story come progetto successivo. Poi arrivò il disastro. Marvin, che aveva mostrato grande entusiasmo per il progetto mesi prima, si ritirò e firmò invece con la Paramount per apparire in La ballata della città senza nome, per l’incredibile cifra di un milione di dollari. L’agente di Marvin, Meyer Mishkin, era stato contrario sin dall’inizio al Mucchio selvaggio e convinse il suo cliente che dopo due sanguinose pellicole d’azione di fila aveva bisogno di ampliare i suoi orizzonti. La commedia musicale di Broadway offriva l’occasione perfetta per farlo. Feldman riteneva che Marvin avrebbe ancora potuto firmare se Hyman avesse sopravanzato l’offerta della Paramount, ma anche stavolta lo spilorcio Irwin Margulies dissuase il capo della produzione. Sembrava di rivivere Viva! Viva Villa!, ma stavolta i produttori erano all’angolo con Sam. A Hyman piaceva così tanto il copione del Mucchio selvaggio che decise che, al diavolo Marvin, avrebbero trovato un’altra star e fatto il film comunque. Era difficile da credersi, ma Peckinpah aveva finalmente trovato una casa a Hollywood; era come rivivere i giorni della
Four Star, in cui rispettava ed era rispettato dai produttori. Il sangue pulsava più forte mentre Sam e Feldman rimbalzavano tra i nomi e i salari di varie star per il ruolo di Pike Bishop. Furono inviate copie del copione a Burt Lancaster, James Stewart, Charlton Heston, Gregory Peck, Sterling Hayden, Richard Boone e Robert Mitchum, ma la scelta finì per convergere su William Holden. Ora cinquantenne, il «ragazzo d’oro» postbellico, star di Viale del tramonto, Nata ieri e Il ponte sul fiume Kwai, aveva visto giorni migliori. I suoi film più recenti – Alvarez Kelly e La brigata del diavolo (un clone economico di Quella sporca dozzina) – erano stati un flop al botteghino. Anni di alcolismo avevano ispessito il suo fisico da Adone, curvato verso l’interno le spalle atletiche e colmato di rughe il viso un tempo elegantemente cesellato. Aveva ancora il suo carisma all’antica, ma il controllato cinismo dei suoi primi film aveva lasciato spazio a una stanca malinconia. Sam lo trovava perfetto per la parte. Pike Bishop era «ciò che Bill Holden è oggi», disse Sam, «cinquantenne, di mezza età, rugoso, non più un tipo alla moda». Il prezzo stabilito da Holden era di 400.000 dollari, ma a causa della sua sorte in declino riuscirono ad abbassarlo fino a 250.000 dollari più una percentuale sugli incassi al botteghino (secondo una complessa formula comprensibile solo agli astrofisici e ai contabili degli studios). Ancora una volta la Warner aveva risparmiato in anticipo centinaia di migliaia di dollari. Per il ruolo di Deke Thornton presero in considerazione Richard Harris, Arthur Kennedy, Henry Fonda, Ben Johnson, Van Heflin e Brian Keith. Keith si era arricchito negli ultimi tre anni grazie alla tv, apparendo nella stupida serie di successo Tre nipoti e un maggiordomo, e declinò l’offerta di Sam. Sotto suggerimento di Ken Hyman scritturarono alla fine Robert Ryan, che era apparso in Quella sporca dozzina – uno degli attori più sottovalutati e sprecati del cinema americano. Si rivelò un altro geniale colpaccio; Ryan era malato, al tempo,
e la sua alta, scarna, senescente presenza trasmetteva senza bisogno di parole la vacuità spirituale di Thornton. Per la parte di Dutch, il secondo di Bishop, Peckinpah aveva inizialmente cercato di ingaggiare qualcuno di più giovane. Steve McQueen, George Peppard, Charles Bronson, James Brown, Alex Cord, Robert Culp, Sammy Davis Jr. e Richard Jaeckel furono tra quelli presi in considerazione. Ma Hyman propose a Peckinpah un altro dei suoi discepoli di Quella sporca dozzina: Ernest Borgnine. Ricordandone l’interpretazione in Un equipaggio tutto matto, Sam dapprima fece resistenza. «Ero contrario», disse a Garner Simmons. «Al tempo non avevo mai lavorato con Ernie e con quel film volevo essere sicuro di tutti. Comunque, Ken finì per prevalere su ogni mia riluttanza, e Ernie si è poi rivelato uno dei migliori con cui abbia mai lavorato». Borgnine firmò per 120.000 dollari. Sam dovette riscrivere qualcosa, ma col senno di poi ne valse la pena. Per il ruolo di Freddie Sykes, il membro più anziano del Mucchio, Sam considerò per primo Jason Robards, su suggerimento di Feldman. Pensò anche a Walter Brennan, Lee J. Cobb, Elisha Cook Jr., William Demarest, Paul Fix e Andy Clyde. La scelta finale cadde su Edmond O’Brien, che aveva diretto quasi dieci anni prima in un episodio dei Racconti del West. O’Brien aveva condotto una vita dura e nel 1968, a soli cinquantatré anni, sembrava di buoni vent’anni più vecchio di Holden. Afflitto dalle cataratte e da una varietà di altri malanni, avrebbe dovuto essere trattato con i guanti durante le riprese, ma rispose all’offerta di lavoro di Sam con l’entusiasmo di un famelico animale da palcoscenico. Per la parte di Angelo, si rivolsero inizialmente a Robert Blake, che aveva regalato una meravigliosa interpretazione in A sangue freddo giusto un paio d’anni prima. Gli offrirono 75.000 dollari, ma Blake trovava la parte troppo piccola; ora cercava ruoli da protagonista. Perciò scritturarono invece – per soli 35.000 dollari – Jaime Sanchez, un attore teatrale di New York che era apparso in West Side Story a Broadway e aveva
debuttato nel cinema in L’uomo del banco dei pegni di Sidney Lumet. Per bilanciare il cast, Sam assoldò la sua compagnia di repertorio. Ben Johnson e Warren Oates avrebbero interpretato i fratelli Gorch. A Oates era stata offerta una parte nel Dito più veloce del West, un western di Burt Kennedy che sarebbe stato girato interamente a Los Angeles. Ma anche dopo la disavventura di Sierra Charriba, scelse piuttosto di seguire nuovamente Peckinpah nelle profondità del Messico. L’allora moglie di Oates, Teddy, ricorda: Volevo che Warren scegliesse Il dito più veloce del West perché si girava in città. Ma Warren lesse il copione del Mucchio selvaggio e sentì che Sam poteva davvero rendergli giustizia. Warren era stato via per tre mesi e mezzo per Sierra Charriba. Gli dissi: «Questa cosa finirà per uccidere il nostro matrimonio. Non mi sono sposata per restare sola!» Bla, bla, bla. Ero così stupida. Aveva fatto Il ritorno dei magnifici sette in Messico; aveva preso l’epatite, poi la diarrea del viaggiatore, poi qualcos’altro. Mi chiamarono a un certo punto, pensavano che dovessi andare lì perché erano convinti che stesse per morire. Stavamo già parlando di divorzio. Gli dissi: «Non accettare Il mucchio selvaggio perché le cose sono già burrascose qui. Non credo potremo resistere a una separazione». Ma partì di nuovo con Sam. Adorava andare nelle location. Adorava quell’avventura. Aveva una grande ammirazione per Sam. Sam Peckinpah e Monte Hellman erano i due registi con cui avrebbe lavorato sempre e dovunque.
Quando Il mucchio selvaggio uscì nelle sale, Warren e Teddy avevano già divorziato. Strother Martin e L.Q. Jones furono scritturati per i ruoli dei due più irreprensibili cacciatori di taglie, Coffer e T.C., e Dub Taylor per il ruolo del capo della Temperance Union che conduce i suoi agnelli al macello. Per la parte di Crazy Lee, Sam ingaggiò un giovane attore con pochi ruoli televisivi accreditati sul suo curriculum, Bo Hopkins. Per il ruolo del generale Mapache la scelta fu semplice: «El Indio», Emilio Fernandez, l’assassino-regista armato fino ai denti che viveva nel suo castello in Messico con un harem di quindicenni. Fernandez era l’incarnazione di Mapache. Per i suoi due tenenti, Sam ingaggiò un paio di promettenti attori messicani, Jorge Russek – che era stato un suo fotografo di scena in Sierra Charriba – e Alfonso Arau, una celebrità della
tv e dei nightclub in tutta l’America Latina. «Peckinpah mi disse che con il mio personaggio voleva rendere omaggio a Alfonso Bedoya, il bandito messicano del Tesoro della Sierra Madre», afferma Arau, «quello che dice: “Non dobbiamo mostrarti nessun distintivo!” Una scena fantastica. Peckinpah disse: “È questo che voglio fare!” Ho adorato quel film, è uno dei miei preferiti, perciò si creò subito una connessione». Decisero di girare tutta la pellicola nella location in Messico, il che denotò un grande coraggio da parte di Feldman, considerate le orribili storie su Sierra Charriba che ormai a quel tempo avevano raggiunto proporzioni leggendarie a Hollywood. «Non ero affatto preoccupato all’idea di fare un film con Sam in qualsiasi posto al mondo, e per due ragioni», disse Feldman. «La prima e più importante ragione era che stavo rispettando la mia parola con Sam, il quale sarebbe stato il regista di una mia pellicola. Sapevo che il nostro rapporto era una questione di lealtà, quasi di fedeltà. E la seconda era che ero talmente sicuro di me stesso da sentire di poter controllare chiunque. Da allora ho scoperto che ci sono persone che non si possono controllare, di cui non farò i nomi, ma ero abbastanza convinto di poter controllare Sam». Per i sopralluoghi in cerca di location, Peckinpah non scelse qualcuno dello staff della Warner Bros. bensì lo zio di Begonia, Chalo Gonzalez. I due erano diventati amici intimi dopo che Sam aveva sposato Begonia; condividevano una bruciante passione per i western pulp e per l’acquavite, e la loro amicizia sopravvisse ai tre divorzi di Sam dalla nipote di Chalo. Nativo del Messico, Chalo partì immediatamente per lo stato scarsamente popolato di Coahuila. Tra le città di Parras e Torreon – dove Pancho Villa sconfisse le forze del generale Huerta nel 1913 – Chalo trovò tutti i paesaggi richiesti per il film. Parras era una polverosa, piccola città circa 150 chilometri a est di Torreon. Fondata nel Seicento, era stata il centro di riferimento per i vigneti e le aziende vinicole che prendevano l’acqua dai laghi vicini, ma nel 1916 un terremoto prosciugò i laghi, e i vigneti si seccarono. Ora Parras era una
comunità deserta con una manciata di case di proprietà di famiglie messicane benestanti. La piazza della città era abbastanza vecchia e polverosa da poter incarnare, con qualche ritocco, la fittizia città di confine texana di San Rafael (dal nome, ovviamente, della vecchia scuola militare di Sam). Il deserto vicino avrebbe fornito le location per le riprese del Mucchio che scappa verso sud; un country club del posto con un tetto di pioppi poteva essere convertito nell’oasi verde del villaggio di Angelo; le grotte di Dinamita, una sessantina di chilometri fuori da Torreon, sarebbero state uno dei nascondigli della banda e il Rio Nazas avrebbe rimpiazzato il Rio Grande. Per la roccaforte di Mapache, Agua Verde, Chalo trovò un’azienda vinicola abbandonata, l’Hacienda Cienga del Carmen. A quarantacinque minuti in auto da Parras, aveva alti edifici fatiscenti, una gigantesca cantina, un enorme cortile all’aperto e un acquedotto magnificamente fatiscente. Tutte le location erano facilmente raggiungibili dalle due città. Nessuna estenuante traversata del Messico; stavolta tutte le energie e le risorse potevano essere concentrate sulla creazione del film. Chalo tornò alla Warner due settimane dopo essere stato congedato, con una tracolla piena di foto di tutte le location. Sam impazzì dalla gioia vedendole, soprattutto quelle della hacienda. William Faralla, un ex aiuto alla Four Star, fu assoldato come direttore di produzione e nel gennaio 1968 andò con Feldman, Peckinpah e Edward Carrere, un veterano dello studio nominato direttore artistico, in Messico a vedere le location con i propri occhi. Feldman ebbe un primo indizio di ciò in cui si era invischiato quando Faralla lo portò con sé, un cocente pomeriggio, per ispezionare la hacienda in rovina. Uscirono dall’autostrada e salirono per una stradina non asfaltata. Con i copricerchi immersi nella polvere, guidarono e guidarono per una trentina di chilometri prima di raggiungere la hacienda. Sì, la location sembrava fantastica, ma non c’era acqua corrente, né elettricità, né alcun modo per trasportare la
pesante attrezzatura che sarebbe servita per girare un film in quel posto dimenticato da Dio. Di ritorno a Parras, Feldman cercò di parlare con Peckinpah per convincerlo a cercare una location più funzionale. Ma Sam non voleva saperne. Se fossero riusciti ad allargare la strada e a far sparire la polvere con l’acqua, avrebbero potuto farcela. Feldman ricordò in seguito: «Sam disse: “Non posso farlo senza quell’azienda vinicola, è fantastica. Ho tutto nella mia testa, so esattamente come girerò ogni singola scena. Qui c’è la fila di capanne dove ci saranno tutte le prostitute, e qui avrà luogo l’ultima marcia. Ho tutto già disegnato in testa”. La verità era che Sam raramente progettava prima qualcosa, come scoprii in seguito. Era un genio della regia, ma molto improvvisato, cosa che non avevo ancora compreso. Per cui pensai: sì, ha progettato e coreografato tutto, e non voglio interferire, per cui diamogliela vinta su questo». Quando il team produttivo tornò a Los Angeles, la Warner Bros. consegnò la sceneggiatura del Mucchio selvaggio alla MPAA per la valutazione. Dopo aver letto il copione, Geoffrey Schurlock scrisse a Ken Hyman: «Nella sua forma attuale questa storia è così violenta, sanguinosa e piena di volgarità nel linguaggio che esitiamo nel dire che un film basato su questo materiale possa essere approvato nei termini del codice di produzione. Ciononostante, con la certezza che provvederete senza dubbio a revisionare e moderare gli elementi eccessivi, riteniamo che, se classificata come CONSIGLIATA A UN PUBBLICO ADULTO, la pellicola potrà essere approvata. Provvederemo pertanto ad avvisare Mike Linden, il direttore del codice per la pubblicità, che affronterà la questione con il vostro dipartimento pubblicitario di New York in modo che siano informati ben in anticipo sull’uscita della pellicola». La MPAA stava gradualmente perdendo terreno in favore dei produttori della Nuova Hollywood, che la sfidavano con film che contenevano riferimenti sempre più espliciti a sesso e violenza. Nel tentativo di mantenere il controllo sull’industria,
l’Associazione aveva recentemente istituito un sistema per la valutazione dei film a cui tutti gli organi teatrali avevano accettato di aderire: «G» significava che il film era adatto a tutti, «M» significava che era consigliato a un pubblico adulto, «R» significava che non erano ammessi spettatori sotto i diciassette anni non accompagnati da un adulto e «X» che non erano ammessi spettatori sotto i diciassette anni, punto. La «R» e la «X» tagliavano fuori interi segmenti del pubblico pagante, e per questo l’agenzia esercitava ancora qualche influenza sui contenuti, ma con un bastone rivestito ormai di gommapiuma. Nelle negoziazioni con la MPAA prima dell’uscita di un film, i produttori riuscivano quasi sempre a evitare una classificazione di tipo X facendo solo piccoli tagli e, se erano disposti a tagliare un po’ di più, potevano ottenere una M con estrema facilità. La M o la R potevano avere un beneficio: sebbene si perdessero gli spettatori più giovani, la classificazione designava il film come un prodotto alla moda, uno stuzzicante frutto proibito. Nei dolci anni Sessanta, una G poteva essere un bacio fatale che classificava un film come uno sdolcinato prodotto per ragazzi, il che teneva orde di adulti alla larga. Di conseguenza, quando Schurlock scrisse due pagine di obiezioni contro il linguaggio volgare, la violenza, il comportamento lascivo e la nudità presenti nel Mucchio selvaggio, la Warner Bros. non se ne preoccupò, sapendo di poter negoziare una classificazione M o R quando il film fosse stato pronto per l’uscita. Il 9 febbraio 1968 Feldman inviò a Sam una copia della lettera di Schurlock insieme alla seguente nota: «Credo tu possa ignorarla completamente. In realtà, sono piuttosto compiaciuto, come sono certo lo sarai anche tu, che trovi il film sgradevole. Il mio unico suggerimento è che la parola perdio, ovunque essa sia usata – credo circa cinque o sei volte – sia coperta [con una seconda versione della scena] in cui la parola è assente. Non che sia molto religioso, ma credo che la blasfemia potrebbe costituire un punto spinoso. Congratulazioni per aver eccitato l’MPAA». I tempi erano molto
cambiati da quando era stato licenziato da Cincinnati Kid, solo tre anni prima. Sam cominciò ad arruolare i suoi elementi chiave della troupe. Il direttore della fotografia Lucien Ballard fu ritrascinato nella mischia; era la prima volta che lavoravano di nuovo insieme da Sfida nell’Alta Sierra. Ballard e Peckinpah visionarono tutti i filmati di cinegiornale che riuscirono a trovare sulla rivoluzione messicana. Sam era deciso a fare in modo che il film risultasse autentico fin nel più piccolo dettaglio. «Eravamo entrambi molto presi dall’effetto superficiale di quelle immagini [nel cinegiornale e in fotografie della rivoluzione]», ricordò Ballard in seguito. «Selezionammo gli obiettivi [della cinepresa] con lo scopo di ricreare quello stesso spessore visivo». Nel frattempo, Eddie Carrere aveva assemblato una squadra di messicani e americani a Parras e aveva cominciato a ristrutturare tutti gli edifici della città con delle false facciate. I sanpietrini e l’asfalto della strada principale furono coperti con la terra, e in alcune vetrine furono reinstallati i vetri. Giorno dopo giorno, Parras veniva lentamente trasformata in una città di confine del Texas del 1913 circa. Peckinpah era così assillante con i dettagli che cartelli con scritto San Rafael furono issati in alcuni punti, e altri con scritto Starbuck furono appesi in altri punti per riflettere l’identità confusa di molte città di confine texane, solo sessantacinque anni dopo che gli Stati Uniti avevano coinvolto quella terra nella guerra messicano-americana. Con l’avvicinarsi delle riprese, Peckinpah comandava Carrere senza pietà: insisteva che tutti gli edifici fossero invecchiati in maniera autentica, che fossero aggiunte più finestre all’ufficio della ferrovia per poterle far saltare durante la sparatoria, che la terra nelle strade fosse scavata, butterata e disseminata di sporcizia anziché perfettamente rastrellata, e che la città fosse denudata di tutto il verde. Nella hacienda, già in rovina, le pareti furono annerite e schiarite secondo uno schema casuale, e l’intonaco scartavetrato via in alcuni punti per dare un contrasto visivo.
Jim Silke fece i bozzetti dei costumi per tutti i personaggi principali. Per realizzare i costumi, Peckinpah sperava di poter reclutare di nuovo Gordon Dawson, ma incontrò una certa resistenza. Dawson non provava più lo stesso incanto per i costumi, sentendo di non essere mai stato più di un «valletto su un piedistallo» per le star e i registi per cui lavorava. Perciò aveva imparato a scrivere e aveva venduto dei copioni a serie tv come Cowboy in Africa e L’orso Ben. Gordon Dawson ricorda: Allora Phil Feldman mi chiamò e disse: «C’è questo film intitolato Il mucchio selvaggio, Sam vuole che tu ti occupi dei costumi». Dissi: «Oh, assolutamente no, non se ne parla». Feldman continuò a chiamarmi per cinque o sei settimane e cominciarono a mettere in mezzo i soldi, moltissimi soldi, il doppio di quanto qualsiasi costumista sia mai stato pagato. Feldman disse: «Sam si rifiuta di fare il film senza di te». Non pensavo nemmeno che Sam ricordasse il mio nome. Alla fine ricevetti una telefonata, era Sam e disse: «Be’, Dawson, coniglio che non sei altro, è ora di tirare fuori il fegato, ci stai o no? Forza, vuoi fare un giro sul lato selvaggio?» Così accettai di andare lì e parlarne con lui. Mi disse: «Ho un cazzo di problema, non so che fare, è una cosa grossa e se mi mandano a puttane i costumi avranno le mie palle. È la mia grande occasione, il mio ritorno». Così dissi: «Be’, sai, io adesso scrivo». Rispose: «Allora scriveremo insieme, amico, io e te possiamo scrivere insieme, non ti preoccupare. Troveremo un modo, vedrai». Così accettai di farlo.
Dawson aveva solo cinque settimane per invecchiare i costumi e farli provare agli attori, ma era deciso a non farsi trovare impreparato da Peckinpah per questo film. Portò con sé in Messico centocinquanta ceste per costumi e centocinquanta metri di tubi per appenderci i vestiti; c’erano sette duplicati del costume di ogni attore per rimpiazzare quelli che si sarebbero rovinati durante le riprese. Aveva previsto ogni possibile eventualità: cappelli, stivali, fazzoletti da collo, camicie, pantaloni, uniformi dell’esercito e così via. «Ero molto fiero di quel film», dice Dawson. «Il reparto costumi fu l’unico a non causare mai problemi. Non si può dire lo stesso per gli oggetti di scena e gli effetti speciali. Passavo vicino al tizio delle armi mentre riempiva le sue valigette per la dogana e vidi le sue munizioni. Dissi: “Ti conviene portare più munizioni, te lo dico io”. Non ero che un ragazzino e lui era un veterano della Warner Bros. e disse:
“Non dirmi cosa cazzo fare! So quel che faccio, lavoro in questo campo da prima che tu nascessi!” Le munizioni finirono il secondo giorno di riprese, finirono completamente, e lui se ne andò e arrivò un nuovo armaiolo!» Il programma delle riprese del Mucchio selvaggio prevedeva settanta giorni di fotografia con un budget di 3.451.420 dollari, incluso un lotto di settantamila metri di pellicola. Peckinpah, il cast, la troupe e l’attrezzatura, spostatisi a sud su furgoni, conversero su Parras a metà marzo per le prove e gli ultimi preparativi per le riprese, che cominciarono il 25 marzo. Per una settimana, il cast si riunì ogni giorno intorno a un lungo tavolo all’hotel Rincon de Montero, dove erano stati alloggiati la troupe e gli uffici della produzione (Sam, Feldman e le star furono ospitati in ville con tanto di servitù). Gli attori leggevano il copione e discutevano dei loro personaggi e della storia con Peckinpah. «Sam ispirava gli attori quasi senza dire una parola; li ispirava a dare le loro vite per lui», dice Jaime Sanchez. «Il primo giorno che cominciammo a provare con quell’uomo, pensai che c’era qualcosa di davvero speciale. Non lo conoscevo, non conoscevo nessuno a Hollywood. Capii che quel tizio avrebbe fatto qualcosa di incredibile, perché lo percepisci quando uno è grande. Si vede un’intensità nelle persone come lui, come Elia Kazan. Hanno un fuoco e lo vedi nei loro volti quando parlano con te, fanno quasi paura. Sam instillava ispirazione in ognuno di noi; tutti lavoravamo come se quello fosse il film dei film. Non ti diceva quando stavi facendo bene, perché voleva farti fare ancora meglio, tenerti sulle spine: “Sto facendo bene? Non sto facendo molto bene?” Sam faceva sentire tutti come se stessero correndo un rischio. Non rischiare era un atto di disonore». Ci furono momenti di tensione quando Sam chiese a William Holden di mettere dei sottili baffi finti nel film. «Col cavolo che lo farò!», rispose inizialmente un Holden bellicoso, spiegando che non aveva mai portato i baffi sulla scena e che non avrebbe cominciato ora. Ma Sam continuò a lavorarlo con quella sua voce morbida, facendo quasi le fusa, e con gli occhi
dalle grandi pupille; quando le riprese cominciarono, Holden portava i baffi. Erano quasi identici a quelli veri di Sam; lo notarono in molti, ma pochi osarono commentare. «Facevamo letture complete del copione, il che è ottimo perché si può parlare delle cose man mano che si procede», dice Bo Hopkins. «C’erano anche la troupe, l’attrezzista e altri, in caso ci fossero domande. Era tutto molto ben organizzato. Eddie O’Brien leggeva semplicemente la sua parte, senza espressione, praticamente mugugnava. Sam si preoccupò un po’. Disse: “Eddie, come hai intenzione di procedere?” Eddie disse: “Oh, intendi come ho intenzione di fare il mio personaggio? Volevi vederlo adesso?” Sam disse: “Mi piacerebbe vederne almeno un po’”. E O’Brien balza in piedi e balla per la stanza ridendo: “Loro, sono semplici e carini loro! Eh! Eh! Eh! Ah! Ah!” Sam disse: “Ok, ho capito, ce l’hai”». «Può essere difficile lavorare per Sam», disse O’Brien a un giornalista, «ma è un essere umano enormemente creativo, e questo è esattamente ciò che differenzia gli uomini dai ragazzi. Sam si batté così tanto perché ogni scena descrivesse le cose così com’erano. Mi avevano fatto provare i costumi qui [a Hollywood] e quando arrivai lì Sam me li strappò di dosso e disse: “Indosserai un solo completo tolto a un cadavere, e questo è tutto!”» «Grazie alle direttive di Peckinpah, andare al lavoro era ogni giorno una novità», ricordò in seguito Ernest Borgnine. «Lo vedevo andare oltre e mostrare agli attori diverse cose che potevano fare con i loro costumi per renderli ancora più realistici. Sapete, una cosa così ti ispira. Sentivo una grande affinità con lui». «Uno degli addetti agli effetti speciali ci interruppe durante una lettura del copione e uscimmo fuori», racconta Howard Kazanjian, secondo aiuto regista del film che avrebbe poi prodotto I predatori dell’arca perduta e Il ritorno dello Jedi. «C’era un recinto lì, e contro la staccionata c’era la sagoma di un essere umano con dei vestiti e ci stavano mostrando gli squib che avrebbero simulato le ferite da
proiettile. Non avevo mai visto degli squib prima di allora. Esplodevano e facevano buchi nei vestiti. E Sam diceva: “Non è quello che voglio! Non è quello che voglio!” Alla fine prese una pistola e disse: “Questo è quello che voglio!” E via: BANG! BANG! BANG! BANG! con una pistola vera e proiettili veri. Poi disse: “Questo è l’effetto che voglio!” E da quel momento cominciarono a testare squib più grandi caricati con sangue e pezzi di carne». Sam insisteva sull’importanza di far esplodere gli squib sia davanti che dietro gli attori, per ottenere l’impatto viscerale di un proiettile che attraversa il loro corpo. Piccole cariche furono posizionate anche sullo stomaco dell’attore perché potesse reagire in maniera più realistica. Sam inseguiva un fantasma: l’ossessionante immagine del primo cervo a cui aveva sparato sulle colline della Sierra Nevada, con il sangue che fioriva insieme al proiettile su una macchia bianca di neve. Peckinpah ebbe incontri occasionali con la bottiglia per i successivi quattro mesi, ma solo ogni tanto. Ogni giorno dopo le riprese, anziché correre nelle cantine e nei bordelli locali come aveva fatto troppo di frequente in Sierra Charriba, ritornava nella sua villa per altre riunioni di lavoro con i membri chiave della troupe. In una giornata tipo, a riprese iniziate, si alzava alle quattro del mattino per rileggere le scene che avrebbe dovuto dirigere quel giorno – creandole e ricreandole nella sua mente, visualizzandole da ogni angolazione di ripresa immaginabile, ma senza fissarle in alcuno schema finché non era sul set con gli attori. Lucien Ballard lo passava a prendere alle sette o alle otto, a seconda dell’orario della convocazione e della location, e andavano sul set in auto insieme per poter discutere i vari modi per girare le scene di quel giorno. Dopo nove ore di riprese, Sam rivedeva per l’ultima volta i giornalieri, poi tornava alla sua villa per altri incontri con la produzione e andava finalmente a dormire intorno a mezzanotte, di solito col copione ancora tra le mani. Alle quattro si ricominciava da capo. Era una cosa grossa, e lo sapeva. Tutti intorno a lui lo sapevano. «Vedete quanto è meraviglioso Dio?», chiede Jorge
Russek, che nel film interpretava un tenente del malefico generale Mapache. «Sam se ne stette per tre anni in spiaggia senza lavoro e all’improvviso qualcuno nel mondo credette in lui, Phil Feldman, e Sam era di nuovo entusiasticamente al lavoro». L’incandescente attenzione che rivolse al film si notava dall’incredibile impalcatura di dettagli che dava a ogni scena, dettagli che si collegavano uno all’altro in una vasta e intricata rete di ironia e metafore. Un dettaglio in particolare fissò il tono di tutto il film e non venne da Sam, ma da Emilio Fernandez, proprio prima che le riprese cominciassero. Peckinpah disse a Garner Simmons: Ero seduto lì con don Emilio e sei ragazze, tutte sue, e avrei dovuto incontrare quest’altra ragazza con cui avrei cenato quella sera. Così, io e don Emilio stiamo parlando del copione quando mi dice all’improvviso: «Sai, il Mucchio selvaggio, quando va in quella città, è un po’ come quando ero bambino e prendevo uno scorpione e lo facevo cadere in un formicaio…» E io dissi: «Cosa?» E lui: «Sì, vedi, le formiche attaccavano lo scorpione…» E io esclamai: «Datemi un telefono!» Feci il numero del produttore in California e gli dissi: «Voglio formiche e scorpioni e non mi interessa come li porterete qui!» E da quel momento, quello fu il modo in cui guardai a tutto il film. Cominciai a riscrivere immediatamente per mettere su carta questa sensazionale scena d’apertura. Quando la ragazza che dovevo incontrare per cena chiamò per sapere dove fossi, le dissi semplicemente che mi dispiaceva, ma non potevo essere interrotto perché stavo scrivendo. Credo mi abbia attaccato il telefono in faccia.
L’immagine dei bambini che, ridendo, torturano scorpioni su un formicaio avrebbe aperto il film. Il Mucchio gli sarebbe passato accanto e avrebbe guardato il gioco dei ragazzini con un senso di premonizione. Come notato da Paul Seydor, quell’immagine funse da epica similitudine che trovava corrispondenze in tutta l’estensione del film. Inquadrava in un istante il crudele e autodistruttivo mondo che aveva dato i natali al Mucchio, un mondo privato della grazia. Persino i bambini sono corrotti, nati nel peccato originale. Gli scorpioni e le formiche che si contorcono nel Colosseo in miniatura del formicaio sono anche simbolo di un sinistro fatalismo che pervade tutto il film, presagendo la
sconfitta del Mucchio in un brulicante mare rosso. Cavalcando via da Starbuck dopo il massacro d’apertura, i banditi passano di nuovo accanto ai bambini, che hanno coperto le formiche e gli scorpioni con erba secca e hanno dato loro fuoco. Un primissimo piano degli insetti agonizzanti si dissolve lentamente verso le strade disseminate di cadaveri di Starbuck – corpi ricoperti di sangue e sopravvissuti sconvolti dal dolore che si affrettano verso i gementi e urlanti feriti: una catena di carnivora violenza che va dai giovani ai vecchi, raggiungendo conseguenze estreme. Quando il Mucchio entra per la prima volta nel luogo sacro di Agua Verde, dove in seguito troverà la morte, la geografia concava di quella cantina all’aperto con le inferriate lungo il perimetro richiama la fossa dello scorpione dei bambini, come confermato dalla breve inquadratura di un gruppo di bambini appollaiati su un’alta finestra con le gambe penzoloni tra le sbarre arrugginite, che lasciano cadere dei sassolini sulle teste del Mucchio. Le riprese cominciarono il 25 marzo, e come al solito iniziarono anche i problemi. Peckinpah partì a tutta velocità. Chi non riusciva a stare al passo… be’, peggio per lui. Ventidue membri della troupe furono licenziati nel corso della produzione. «Sam disse: “Seppelliremo Gangster Story”. Quello era il suo obiettivo, fare mille volte meglio di quel film», afferma Gordon Dawson. «Nessuno era preparato alle richieste che Sam fece per quella sparatoria d’apertura. Cominciò a dire: “Datemi altre persone qui, mi servono più persone lì. Ora le voglio qui e voglio girare lungo questa strada. Ora voglio girare lassù”. I primi giorni di riprese furono davvero molto difficili. Il foglio delle convocazioni per il primo giorno prevedeva sessantatré comparse e ventitré animali; il pomeriggio c’erano in giro sul set duecentotrenta persone in costume e cinquantasei cavalli. Sam voleva sempre di più, di più, di più». La troupe degli effetti speciali aveva trascorso due settimane a riempire la strada principale di Parras di squib, per simulare i proiettili che si abbattevano contro le facciate in legno e argilla. Dopo il primo paio di riprese, erano già stati
tutti detonati e la troupe dovette freneticamente dimenarsi per piazzarne di nuovi. Quando gli squib sulle finestre dell’ufficio della ferrovia dimostrarono di non riuscire a far esplodere i vetri in modo abbastanza drammatico (per simulare gli spari di un fucile a pompa), Sam ordinò alla troupe degli effetti speciali di piazzare direttamente della dinamite sulle finestre. Alla fine del primo giorno la compagnia aveva già esaurito completamente le munizioni e il sangue finto, e un addetto agli effetti speciali e l’armaiolo che aveva ignorato il consiglio di Dawson di portare più munizioni ricevettero un biglietto di sola andata per gli Stati Uniti. Feldman inviò tranquillamente dei rimpiazzi il giorno dopo, insieme ad altre munizioni e sangue finto. Nel corso delle riprese, Il mucchio selvaggio avrebbe usato 239 fucili, pistole, revolver e armi automatiche e 90.000 munizioni a salve – «Più di quanto fu utilizzato per l’intera rivoluzione messicana!» avrebbe sostenuto in seguito la propaganda della Warner Bros. Peckinpah era deciso a non replicare la catastrofe di Sierra Charriba, perciò questa volta cercò di controllare il montaggio del Mucchio selvaggio fin dal primo giorno. Rudi Fehr aveva cominciato come tecnico del montaggio alla Warner Bros. nel 1940 ed era diventato responsabile della postproduzione dello studio nel 1954. Era sopravvissuto all’uscita di scena di Jack Warner ed era egualmente pronto a difendere la sua sfera di potere. Per gli ultimi quattordici anni, come Margaret Booth alla MGM, aveva scelto i montatori di tutte le produzioni della Warner Bros. Fino a quel momento erano stati Fehr e Jack Warner a incaricarsi di portare i film dallo stadio ancora grezzo all’ultimo montaggio. L’input da parte dei registi era sempre stato minimo – qualche piccola notazione dopo le anteprime pubbliche, che Fehr e Warner tenevano in considerazione prima di apportare le ultime modifiche. Ma con l’arrivo allo studio di Peckinpah proprio dopo l’uscita di scena di Warner, Fehr ebbe un brusco risveglio: a Burbank era cominciata l’era degli auteur. «Ero stato un uomo molto fortunato durante tutta la mia carriera come tecnico del montaggio. Non avevo mai avuto un
regista nella mia sala», riporta Fehr. «Mai. Si fidavano di me. Mi mettevo subito in contatto con il regista quando il nuovo film cominciava, per aiutarlo a trovare il montatore e per dargli dei suggerimenti. Perciò quando Peckinpah arrivò in sede per la prima volta, andai subito nel suo ufficio. Lui però ne uscì immediatamente, e volle parlare nell’ufficio di Feldman. Gli dissi: “Signor Peckinpah, sono Rudi Fehr, responsabile della postproduzione. Volevo conoscerla e presentarmi. Se ha bisogno d’aiuto o ha idee su chi vorrebbe che montasse il film, la prego di chiamarmi”. Sam rispose: “La chiamerò, non si preoccupi”. Non lo fece. Disse al capo della produzione [Ken Hyman] di assumere Lou Lombardo come tecnico di montaggio per Il mucchio selvaggio. E il capo della produzione mi chiama e dice: “Peckinpah mi ha detto di assumere Lombardo. Perché non lo fai?” Fu così che cominciammo. Già non mi piaceva!» Lombardo aveva fatto parte della troupe di ripresa di Reza Badiyi per «Noon Wine». Lou e Sam bevettero un drink insieme dopo quel frenetico ultimo giorno di riprese e Peckinpah scoprì che il muscoloso italiano aveva lavorato come montatore per molte serie televisive. Peckinpah archiviò Lombardo nella sua testa e quando Il mucchio selvaggio ottenne il via libera, chiese di lui. Sam voleva un tecnico che fosse fedele a lui e non agli studios; un tecnico giovane che non fosse già legato alle convenzioni tradizionali, che fosse bramoso di provare nuovi approcci. Lombardo faceva al caso suo. «Sam mi diede da montare il film dei film e io non avevo mai montato un lungometraggio», afferma Lombardo. «Aveva fiducia in me, aveva visto come lavoravo e gli era piaciuto perché non era ordinario. Gli avevo mostrato un episodio di Squadra speciale anticrimine intitolato “My Mommy Got Lost”. Avevo fatto una sequenza in slow motion in cui Joe Don Baker viene ferito a morte dai poliziotti. In televisione non avevano né i soldi né l’interesse per fare qualcosa del genere, perciò stampai ogni frame cinque volte su una stampante ottica per ottenere l’effetto al rallentatore. Joe Don
Baker arriva con un fucile e ha tutti i poliziotti contro. Così intramezzai lo slow motion dei momenti in cui viene colpito con i poliziotti che gli sparano [a velocità normale] finché non cade a terra. Sam rimase senza parole. Mi disse: “Proviamo un po’ di questa roba quando saremo in Messico!” Dissi: “Grande! Tu giri, io monto”». La capacità di Lombardo di intramezzare slow e fast motion in una sequenza continua aveva finalmente dato la chiave. Peckinpah ora sapeva come avrebbe integrato lo slow motion nelle sequenze d’azione. Avrebbe ripreso le principali sparatorie con sei cineprese, tutte operanti a velocità di frame differenti – 24 frame al secondo, 30 frame al secondo, 60 frame al secondo, 90 frame al secondo, 120 frame al secondo – in modo che, montate insieme le immagini, l’azione sarebbe passata costantemente da lenta a veloce ad ancora più lenta e poi di nuovo veloce, dando agli intervalli tra le sequenze un bizzarro senso di elasticità. In un secondo momento, Lombardo avrebbe ulteriormente alterato la velocità delle riprese con una stampante ottica, velocizzandole o rallentandole finché non raggiungeva il giusto ritmo. Con le sue cineprese Peckinpah intendeva penetrare nel cuore primitivo della violenza, catturandone sia la seduzione che l’orrore. «Lo scopo del film», avrebbe detto in seguito, «è di prendere la facciata della violenza cinematografica e aprirla, coinvolgendo il pubblico fino a calarlo ben dentro la sindrome della reazione prevedibile, tipica della televisione hollywoodiana, per poi rivoltare le carte in modo che la violenza non abbia più nulla di divertente e provochi solo un’ondata viscerale di disgusto… È terribile, brutale e fottutamente impressionante. Non è divertente, non è giocare ai cowboy e agli indiani. È una cosa brutta, tremenda. Eppure provoca una reazione forte, che rasenta l’eccitazione, perché in fondo siamo tutti persone violente». Peckinpah non era un iconoclasta distaccato, che manipolava cinicamente il suo pubblico dalla sua gru da ripresa; Sam stesso era profondamente combattuto tra la violenza che descriveva e quella che covava dentro di lui. Costretto dalla sua concezione
mitizzata della virilità a provocare risse da bar con le controfigure, era anche mortificato e tormentato dal senso di colpa quando gli scatti d’ira causati dall’alcol ferivano chi amava – Marie, Begonia, i suoi figli. Sapeva di non essere il solo a provare quel tormento, mentre il Vietnam, Watts e altre città americane erano in fiamme. Tutta la storia e la mitologia americana, intrisa di sangue, illustrava chiaramente che le sue battaglie interiori erano un microcosmo di quelle che stavano facendo a pezzi il suo paese. «Il lato nascosto della nostra società è sempre stato la violenza», avrebbe detto in seguito. «Le chiese, le leggi – tutti sembrano pensare che l’uomo sia un buon selvaggio. Ma non è che un animale, un animale che parla e mangia carne. Riconosciamolo. Ha anche grazia, amore e bellezza. Ma non dite che non siamo violenti, perché lo siamo. Dire che non lo siamo è il più grande lavaggio del cervello di tutti i tempi… Cerco solo di ritrarre ciò che ho esperito e ciò che ho visto, senza alcuna distanza estetica. A volte ci riesco e a volte no. Mi preoccupa la violenza. Ne vedo così tanta in me stesso e nelle persone che conosco e amo. Vorrei sapere perché e come fare a incanalarla in qualcosa di positivo». Le cineprese di Peckinpah coprivano l’azione da una stupefacente varietà di angolazioni: girò 7700 metri di pellicola da 131 angolazioni solo nei primi sei giorni di riprese. «Il battesimo del fuoco di Sam ebbe luogo tra le strade di Parras, filmando la sparatoria iniziale», racconta L.Q. Jones. «Cominciò a capire cosa voleva fare di quei personaggi. Vide cosa facemmo io e Strother con ciò che ci aveva dato e cominciò a vedere che i pezzi – quello che aveva scritto, quello che aveva modificato, quello che le persone di cui si fidava ne stavano facendo – si incastravano, e capì che poteva portarlo ancora un passo in avanti rispetto a ciò che si aspettava. Ci prese decisamente la mano». Fu un battesimo del fuoco anche per gli attori. William Holden si sedette vicino a Peckinpah e alla cinepresa e lo guardò dirigere il seguito del massacro d’apertura. Strother
Martin, L.Q. Jones e gli altri cacciatori di taglie balzarono giù dai tetti come avvoltoi umani, per sgraffignare gli oggetti di valore dei fuorilegge e degli innocenti passanti che erano stati colpiti. «Sam voleva un’intensità assoluta», dice Jones. «Così, dopo la sparatoria, nell’istante in cui varchiamo la soglia e corriamo in strada, dobbiamo esplodere: arrivare fino al cielo, essere sovreccitati. L’unica cosa che io e Strother avevamo aggiunto era il fatto di arrivare al punto di urlarci contro l’un l’altro, e poi aggiungere un tocco un po’ gay quando mi ritraggo e sto quasi per piangere perché mi ha dato del ladro. Mi aveva ferito. Avevamo pensato di vedere se funzionava. Ora, questo avrebbe potuto distruggere tutto ciò che avevamo fatto prima, non potevamo saperlo. È per questo che il regista deve essere prima di tutto un ottimo spettatore». Martin e Jones improvvisavano i loro dialoghi sulla base delle battute scritte da Peckinpah, aggiungendo alle loro personalità contorni ancora più spigolosi e allo stesso tempo una vulnerabilità infantile che dava una dimensione empatica a dei personaggi altrimenti ripugnanti. Nelle mani di questi due abilissimi attori, Coffer e T.C. divennero dei demoniaci Stanlio e Ollio, amabili anche nella vastità della loro depravazione. «Sam disse: “Stop. Ok, va bene. Vediamo se riusciamo ad aggiungere ancora qualcosa”», racconta Jones. «Bill Holden, che era rimasto lì a guardare tutta la scena, si alzò e fece per andarsene. Sam chiese: “Aspetta, dove stai andando, Bill?” Bill disse: “Torno in camera mia”. Sam disse: “Be’, perché torni in camera tua?” Bill chiese: “È così che intendi girare il resto del film?” Sam disse di sì e Bill rispose: “Vado a casa a studiare”. E se ne andò, entrò in auto e non lo vedemmo più finché non arrivò il momento di girare la sua prima scena. Tornò a casa a lavorare sulle sue battute perché aveva visto che era questo che Sam faceva e che gli altri attori erano pronti a fare. Perciò Bill avrebbe fatto anche lui la sua parte. Aveva visto il film in una chiave diversa e aveva realizzato: aspetta un attimo, se questo è ciò che Peckinpah fa con gli attori non protagonisti, vorrà la stessa intensità da me, perciò è meglio
che metta il culo in sella. E così fece. E quando venne a girare la sua prima scena, fu impeccabile». Man mano che le riprese progredivano, Holden cominciava a somigliare sempre più a Peckinpah. Non erano solo i sottili baffi che Sam aveva voluto che portasse; Holden aveva cominciato a emulare la qualità vocale e la gestualità del suo regista. Lou Lombardo ricorda: «Un giorno, dopo i giornalieri, dissi a Holden: “Ti ho capito, stai facendo Sam”. Guidava il Mucchio selvaggio come Sam guidava il film. La gestualità, il tono della voce, era in tutto e per tutto Sam. Si rifaceva a lui. Lo dissi a Sam e mi rispose: “È una cazzata!” Dissi: “No, te lo dico io, e ti fa benissimo!”» La scelta dell’attore fu molto apprezzata. I figli di Sam ebbero i brividi quando videro per la prima volta alcune delle sequenze finite. Holden aveva catturato sia la vulnerabilità che l’autorevolezza di Pike Bishop. L’attore sapeva fin troppo bene cosa si provasse a essere stato un tempo il migliore e a sentirsi ora sminuito, a perdere lentamente la presa, anno dopo anno, mese dopo mese. Nessuna scena cattura meglio la disperata lotta di Bishop per appigliarsi alla propria dignità di quella in cui una staffa di Pike si rompe mentre cerca di montare a cavallo. Cade a terra, e l’impatto su una vecchia ferita di proiettile lo porta a contorcersi in agonia per un attimo. Alla fine si riprende e si costringe a rimettersi in piedi, malgrado le derisioni dei fratelli Gorch. Poi si issa sulla sella e riprende a cavalcare. Mentre il suo cavallo si trascina stancamente tra le dune di sabbia del deserto, Peckinpah indugia con la cinepresa sulla stanca, ingobbita schiena di Holden in quella che sarebbe poi diventata forse l’immagine più poetica di tutta l’opera di Sam. Quando proiettarono la scena per la prima volta nei giornalieri, Peckinpah sollevò il pugno verso lo schermo ed esclamò: «Bellissimo! Bellissimo! Guardate quella schiena! Quanta solitudine in quella schiena!» Era una solitudine che Sam Peckinpah conosceva. I parallelismi tra lui e il suo alter ego mitico divennero evidenti nell’interludio di Bishop con una giovane prostituta, proprio
prima di decidere insieme al resto del Mucchio di tornare per Angelo, anche se significa morte certa. Holden è in piedi e si infila la camicia, di fronte a un’irregolare parete di argilla dove c’è un crocifisso appeso su un piccolo altare di legno con una flebile candela. Rivolge lo sguardo alla ragazza, seduta su un traballante tavolo di legno. Non più che diciannovenne, con grandi occhi nero-marrone, i capelli scuri fluenti sulla schiena e un viso tanto liscio e femminile quanto quello di Holden è ruvido e rugoso. La bianca blusa sfrangiata è aperta, e lascia intravedere i grandi e rotondi seni. Pike si volta dall’altra parte con una fugace espressione di vergogna, si alza i pantaloni, vi infila i lembi della camicia e si allaccia la cintura. La ragazza comincia a lavarsi le spalle con una pezza bagnata. Holden si siede sul letto e si infila gli stivali. Sente un bambino piangere e si volta a guardare. È lì, in un angolo polveroso della stanza, avvolto in una coperta, con le minuscole dita che si muovono in aria. Holden guarda di nuovo la ragazza; lei ricambia lo sguardo, sempre tamponandosi spalle, petto e braccia. Le rughe della colpa si intensificano sul volto di Holden, che si allunga per afferrare una bottiglia senza etichetta dal letto. La capovolge e beve ciò che resta del chiaro liquido, trasalisce quando lo sente bruciare in gola, fissa il vuoto, poi la bottiglia tra le sue mani, con un’espressione che si fa più seria man mano che un’insopportabile epifania si fa strada nella sua mente: la bancarotta spirituale della sua esistenza, i fallimenti, l’amore che sarebbe potuto essere ma che ora non sarà mai. L’epifania che questa è la fine del viaggio, che non c’è altro posto dove andare in questa stanca, oscura brace… se non tornare indietro per Angelo. Dalla stanza adiacente si sentono le voci dei fratelli Gorch che litigano per soldi con la loro prostituta. Holden butta via disgustato la bottiglia vuota; il leggero tonfo fa piangere di nuovo il bambino. Si alza, indossa la fondina a tracolla, attraversa la stanza con gli speroni che tintinnano dolcemente e apre la tenda della stanza dei fratelli Gorch. Ben Johnson è sdraiato sul letto, che gioca con un passerotto legato
a un filo. Warren Oates fissa Holden con sguardo confuso e interrogativo. Holden lo fissa a sua volta con le decise iridi grigio-blu. «Andiamo». Il volto madido di sudore di Oates emerge dall’oblio indotto dall’alcol, improvvisamente concentrato. «Perché no?» Holden passa di nuovo per la stanza della sua ragazza, fermandosi a lasciarle sul tavolo le monete d’oro che a lui non serviranno più. La ragazza le prende, timidamente, sospirando, lo guarda con quegli occhi scuri e infiniti, muove le labbra per dire qualcosa ma non trova le parole. Holden la guarda, il viso increspato in penombra, guarda ciò che sarebbe potuto essere, un’espressione di indicibile tristezza e rimpianto attraversa i suoi lineamenti segnati dal tempo mentre indossa il cappello ed esce verso il sole cocente di Agua Verde. «Johnson con l’uccello, quella era stata un’idea di Peckinpah», racconta Cliff Coleman, aiuto regista del film. «Faceva sempre cose così. Gli venivano idee su cose da far fare ai ragazzi. Se il set non era come Sam pensava che l’interno di un bordello dovesse essere… be’, ve lo dico, perdemmo quattro ore per farlo sembrare un bordello in cui Sam era stato a Durango o Tijuana o quello che era. Doveva addirittura avere lo stesso odore! Quando eri lì a girare, eri lì e basta». Peckinpah aveva senza dubbio visitato stanze del genere e svuotato ciò che restava delle bottiglie mentre cercava di dimenticare tutte le volte in cui aveva deluso delle aspettative: Begonia… Marie… la malattia di Melissa. È senza ombra di dubbio una delle scene più autobiografiche della storia del cinema, e la migliore interpretazione di Holden. «La cosa bella di Peckinpah come regista», sostiene lo scrittore e poeta James Dickey, «è che sapeva tirare fuori interpretazioni sorprendentemente buone da persone che erano più o meno degli stereotipi. Qualcuno come Ben Johnson, per esempio, e Edmond O’Brien – qualcuno che il pubblico, prima del Mucchio selvaggio, ricordava solo come il protagonista di
Due ore ancora o come Casca nella produzione [hollywoodiana] del Giulio Cesare». Per apprezzare pienamente la portata del successo di Peckinpah, è significativo guardare la melodrammatica performance di Borgnine in Quella sporca dozzina due anni prima, oppure la caratterizzazione piatta di L.Q. Jones in Impiccalo più in alto l’anno prima, o l’interpretazione piatta e scadente di Edmond O’Brien in L’uomo che uccise Liberty Valance. Le loro interpretazioni nel Mucchio selvaggio sono un mondo a parte. Questi uomini non stanno recitando nel film di Peckinpah, sono scivolati nella pelle dei loro personaggi: Jones con i codini, la faccia crucciata dalla barba corta, contratta da bisogni patologici, mentre si accalca con il suo fucile prima della sparatoria iniziale; la barba grigia di O’Brien macchiata al centro da un fiume marroncino di whisky e tabacco, i denti come tronconi in decomposizione, il corpo rinsecchito che saltella in maniera artritica mentre ride in uno squilibrato misto di dolore e gioia: «Chissà! Io dico che sono stati gli spiriti del deserto, ecco chi è stato!»; Warren Oates che grida come una scimmia rabbiosa mentre spara con la mitragliatrice; Borgnine seduto nella polvere fuori dal bordello, che intaglia un bastone mentre ascolta in lontananza le risate degli uomini di Mapache che torturano Angelo, trasudando a ogni colpo del coltello una palpabile aura di disgusto verso se stesso, poi, subito dopo che Mapache è stato ucciso, mentre incita Pike con una sovreccitata, acuta risata e gli occhi che ardono come carboni, poi ancora quando piange nei suoi ultimi momenti mentre barcolla verso il corpo pieno di proiettili di Holden – «Pike! Pike!» – così penetrante, così viscerale nel suo dolore fisico e nel senso di perdita emotiva mentre incespica, sanguina, cade e ansima un ultimo «Pike…» che ti gela il midollo. Sebbene avesse passato ore a rivedere il copione, a immaginare innumerevoli modi per allestire e girare le sequenze, Peckinpah non preparò storyboard o diagrammi per ogni ripresa, come avrebbero fatto Alfred Hitchcock o Martin Scorsese. La cosa più vicina all’annotare tutto prima di
arrivare sul set erano dei bozzetti degli angoli di ripresa che disegnava sul retro delle pagine del copione. Come John Huston, Sam aveva bisogno di avere gli attori e di lavorare con loro sul set per vedere come si sarebbe sviluppata una scena prima di poter posizionare le cineprese. Questo approccio improvvisato lo portava spesso a dover cambiare completamente la disposizione scenica e le inquadrature all’ultimo minuto. Per addossare a qualcun altro la colpa di questi costosi ritardi, attaccava un membro della troupe – costumi, trucco, attrezzista – per qualche presunta mancanza. La compagnia era indietro di giorni sul programma e Bill Faralla e gli aiuti regista furono portati all’orlo di una crisi di nervi nel tentativo di prevedere le successive, oltraggiose richieste di Peckinpah. Ma poi c’erano quei momenti in cui tutto era magicamente al suo posto e la spontanea intuizione di Sam apriva le porte di un regno trascendente dove le sequenze complete si materializzavano nell’aria, dipanandosi davanti alle cineprese in un’unica, folle corsa. Fu questo che accadde con la marcia finale del Mucchio verso la morte, che originariamente nella sceneggiatura non era che una descrizione di tre righe scarse. Il Mucchio esce dal logoro bordello. Borgnine, che era seduto fuori a intagliare, guarda in alto verso Holden con un sorriso teso ma fiero, e i quattro banditi si dirigono verso i loro cavalli per estrarre pistole e fucili. «Stop», disse Sam piano. «Bene, gente», urlò l’aiuto regista Cliff Coleman. Cominciò a dare le istruzioni per l’inquadratura seguente, l’arrivo del Mucchio nel luogo sacro di Mapache, ma Peckinpah lo fermò. «No, no, Cliff, aspetta», disse piano. «Voglio fare una cosa camminata, prima». «Va bene», disse Coleman, annuendo nervosamente. Questi erano i momenti che aveva cominciato a temere. «Che intendi con “cosa camminata”?»
Peckinpah mugugnò qualcosa di incomprensibile, poi cominciò a mettere in fila Holden, Borgnine, Oates e Johnson per farli camminare attraverso gli edifici esterni con i fucili al braccio. Improvvisamente il ritmo accelerò a una velocità folle. Sam sistemò un gruppo di soldati messicani ubriachi a suonare la chitarra e cantare mentre il Mucchio gli passava accanto. Coleman cominciò ad aggiungere comparse in primo piano, sullo sfondo e ai lati dell’inquadratura e a dar loro direttive mentre Peckinpah arretrava con la cinepresa e vi posizionava un lungo obiettivo. «E all’improvviso, Cristo», racconta Coleman, «parte la musica e si inizia a girare e i ragazzi cominciano a camminare e tutti dicono “wow, ma è perfetto!” Nessuno sapeva cosa stesse per fare Sam o cosa avesse in testa. Prima che lo scoprissi, creava, creava, creava e veniva fuori la scena. Molto, molto, molto, molto, molto, molto bene! Aveva questi momenti e sapeva tirarli fuori». Lo stesso accadde quando filmarono il Mucchio che esce a cavallo dal villaggio di Angelo. Nel copione non era che una descrizione di due righe, nulla più che una ripresa espositiva di routine. Ma quando Sam posizionò le cineprese, ancora una volta tramutò l’aria in oro. «A Sam piaceva quella canzone, “La Golondrina”», racconta Coleman. «Conosceva il senso di quella canzone, ce l’aveva nel cuore, e lo interpretò nel film. Anche questa volta, nessuno sapeva cosa volesse. All’improvviso cominciammo a mettere in fila il Mucchio per farli uscire a cavallo dal villaggio. Poi aggiungemmo del fumo. Poi Sam mandò qualcuno a casa sua a recuperare il disco della “Golondrina” e così parte la musica e il vecchio [il più anziano del villaggio] è lì che saluta, all’improvviso una ragazza emerge dalla folla per dare a Warren il cappello e un’altra dà un fiore a Borgnine. Tutto sviluppato per gradi: Sam non aveva idea all’inizio che avrebbe usato quella canzone, che avrebbe creato quel saluto con la gente. Non aveva idea di dove avrebbe girato, di cosa avrebbe girato o di come lo avrebbe girato, ma una volta cominciato, lo stimolo dell’attività della gente, gli sguardi e i momenti gli suggerirono di integrare la canzone, le ragazze, le
occhiate dall’alto del Mucchio. Peckinpah creava all’impronta, ma non aveva il privilegio di poterlo fare a lungo; doveva farlo il più velocemente possibile». L’uscita a cavallo dal villaggio divenne il momento chiave del film, il punto in cui il Mucchio comincia a cambiare, sebbene non ne sia ancora consapevole. «L’ho girato in meno di un giorno», ricordò Sam in seguito. «Improvvisamente sentimmo che il film ne aveva bisogno. Se riesci a cavalcare con loro in quel momento, e sentire quello che sentono loro, allora puoi morire con loro e sentirlo». Ma quando Peckinpah giunse alla sparatoria finale ad Agua Verde (che fu girata in realtà nel mezzo del programma delle riprese), il suo stile spontaneo lo portò in un vicolo cieco. Il confronto tra il Mucchio e l’esercito di Mapache era stato spostato, su richiesta di Feldman, da sequenza notturna a pomeridiana. Il produttore sperava che questo avrebbe fatto guadagnare loro tempo – la produzione aveva già quattro giorni di ritardo sul programma. Sam provò e girò tutta l’azione fino al momento in cui Mapache taglia la gola ad Angelo. Uno strato di trucco color carne nascondeva un tubicino perforato lungo la gola di Sanchez. Quando Emilio Fernandez ci passava il coltello sopra, un addetto agli effetti speciali pompava fuori il sangue finto. «Sam usò tre cineprese», ricorda Sanchez. «Nella prima ripresa, il sangue schizzò fuori come una fontana, come l’immagine del Giulio Cesare quando Cesare dice: “Ha sognato di vedere la mia statua da cui, come in una fontana dai mille getti, sgorgava sangue vivo”». La vendetta del Mucchio per l’assassinio di Angelo era rapida: tutti tiravano fuori le armi e sparavano su Mapache. Emilio Fernandez, al tempo sessantaquattrenne, mandò via la controfigura e insistette per avere addosso gli squib e cadere lui stesso verso la morte. Si guadagnò l’applauso di tutta la troupe. A questo fece seguito, come Sam spiegò successivamente, «uno strano piccolo numero esistenzialista
dove loro [il Mucchio] si girano e tutti alzano le mani. Possono ancora uscirne, lo sanno, ma si guardano in faccia e cominciano a ridere perché sanno che questa è la fine ed è ciò che vogliono». Peckinpah disse a Holden di mirare deliberatamente al consigliere militare tedesco e sparare. Ora l’apocalittica battaglia stava per cominciare. La troupe stazionava nervosamente mentre Sam affondava nella sua sedia da regista, gli occhi nascosti dalle lenti a specchio. Aspettavano che dettasse loro i successivi movimenti, le posizioni delle cineprese, ma le direttive non arrivavano. «Non aveva la minima idea di cosa cazzo fare», dice Gordon Dawson. «Non successe nulla. Liberò il set e restò seduto lì per tre o quattro ore circa, poi chiamò il cameraman [Lucien Ballard] e Cliff Coleman. Coleman aveva già fatto provare tutte le comparse, erano straordinarie. Ok, va bene, ma dove piazzare le cineprese per riprenderli? Da dove cominciare? Come inserire i protagonisti e cosa fargli fare? Da dove parte Borgnine? Da dove parte Warren [Oates]? Coleman aveva preparato l’attacco dei soldati messicani, aveva preparato tutto quello che le comparse dovevano fare. Ora Sam doveva capire come incastrare i suoi attori e adattare i movimenti delle comparse di conseguenza. Doveva decidere chi avrebbe usato la mitragliatrice, chi sarebbe morto, dove e come. Il copione non era molto d’aiuto; c’erano solo tre pagine di descrizione scritta. La scena non esisteva ancora e Sam doveva trovarla». «Fu molto preoccupante», sostiene Phil Feldman. «Sam aveva un blocco, perciò quel weekend pregò tutti di incontrarlo. Convocò una riunione con tutte le persone coinvolte, ossia il cast, me e chiunque altro pensava potesse essere d’aiuto. Non sapeva bene come girarla. Era un sabato, dopo il lavoro, e implorò perché qualcuno gli desse dei suggerimenti. Il risultato furono delle collaborazioni, principalmente tra lui, Lucien Ballard e Cliff Coleman e alla fine trovò una soluzione. Ma richiese molti, molti più giorni di quanti ne avessimo previsti nel programma».
Chalo Gonzalez, che era l’assistente del direttore di produzione, un attore in quella sequenza e l’autista personale di Sam, ricorda: Quando Sam capì come farla, girammo la sequenza master senza alcun intoppo. Poi Sam cominciò a fare le riprese dalle diverse angolazioni. Fu un delirio, Sam era pazzesco. Tutto quel filmare intorno al lungo tavolo nel portico, la gente che ci saltava sopra e l’attrezzista che rimetteva tutte le cose al loro posto per rigirare e rimetterle nuovamente a posto. Sam andò molto oltre le aspettative di tutti con quella sequenza; era al suo apogeo. Quando tornavamo a casa ogni sera dopo le riprese, Sam passava due o tre ore con i modellini e i disegni della hacienda a pensare cosa avrebbe girato il giorno dopo. Aveva tutto in mente, poi si presentava sul set e si aspettava di avere i costumi e gli oggetti di scena pronti per ciò che aveva programmato ed era praticamente impossibile.
«Prendemmo sei cineprese e le posizionammo di fronte al portico, una di fianco all’altra, girammo l’intera sequenza master con i personaggi principali, spostammo le cineprese di un metro e mezzo in avanti e girammo la sequenza master di nuovo; ancora un metro e mezzo in avanti e rigirammo tutto, fino al momento in cui Holden viene colpito alla schiena dal ragazzo e dagli altri soldati», racconta Gordon Dawson. «Poi ruotammo le sei cineprese e riprendemmo tutti i Messicani, tutta quella metà della battaglia. Filmammo la master, poi posizionammo le cineprese un metro e mezzo in avanti e poi un altro metro e mezzo. Ci vollero dodici giorni, e la chiamammo “La battaglia del portico insanguinato”. Cliff Coleman coreografò tutta l’azione di sfondo. Le comparse si rimettevano in posizione una, due, tre volte. A guardarlo nella sala di montaggio, si vedeva che le comparse apparivano indipendentemente da quale inquadratura si montasse. Cliff è un genio dell’azione di sfondo». «Riempirono il cortile con diecimila squib», riporta Howard Kazanjian. «Avevano una grande console per farle detonare. Ogni carica era a tempo perché esplodesse insieme ai movimenti delle comparse. Farlo bene era incredibilmente faticoso e Sam era molto risoluto riguardo a ciò che voleva, giustamente». «Avevo solo trecentocinquanta uniformi da soldato messicano e ne fecero esplodere seimila», racconta Gordon
Dawson. «Avevo un’unità di riparazione uniformi che entrava in azione subito dopo le esplosioni col sangue finto. Le uniformi arrivavano dopo gli spari e venivano lavate con acqua calda. Mettevamo del nastro adesivo dietro i buchi lasciati dai proiettili e avevamo una macchina che li colorava di kaki. Arrivavano logore, strappate, sporche di sangue, venivano riparate, colorate sopra il nastro adesivo, messe davanti a una lampada riscaldante per asciugare la pittura, un tizio passava sul rattoppo con guanti sporchi per farle sembrare invecchiate, poi le ributtavamo davanti alle cineprese per farle esplodere di nuovo. Era un’operazione non da poco». «C’erano sere in cui finivamo di girare e dicevo: “Dio mio!”», ricordò in seguito Ernest Borgnine. «Ma tornavo sempre il giorno seguente perché credevamo sinceramente che stesse realizzando qualcosa di grandioso». «Era un gruppo di persone così intense», dice Chalo Gonzalez. «La loro concentrazione era incredibile. Se qualcosa li interrompeva, vedevi un lampo di rabbia sui loro volti. Soprattutto gli attori erano così coinvolti da ciò che stavano facendo, che se qualcuno diceva loro qualcosa o li toccava gli saltavano alla gola. Tale era il livello di concentrazione a cui Sam li aveva portati». «Il modo in cui Peckinpah mise in scena quel massacro, non lo dimenticherò mai», afferma Alfonso Arau. «Era così complesso, e Sam è stato incredibilmente preciso, organizzato e metodico. Ho imparato tantissimo da lui». «Lo provammo davvero, lì sul set», dice Howard Kazanjian. «Ricordo di averlo sentito fino in fondo. Avevi lavorato con quei ragazzi sul set, ti eri davvero affezionato e ora li vedevi andare a morire. Mi vennero i brividi». Dopo la sequenza master vennero gli infiniti primi piani dei soldati e del Mucchio che incassavano i colpi in slow e fast motion. Peckinpah voleva avere quanto più materiale possibile per il montaggio. «Sam diceva: “Siamo qui semplicemente per estrarre i minerali. È solo nella sala montaggio che comincio a produrre
i gioielli”», ricorda Dawson. «Si potrebbe dire che quando Sam girò la battaglia finale esagerò nella quantità, ma lo fece in modo davvero brillante. Forse aveva esagerato per paura di non avere abbastanza materiale, ma questo divenne per lui un punto a favore in sala di montaggio. La paura è davvero un grande supervisore». Sam stava accumulando un ottimo girato, ma ormai la produzione era cinque giorni in ritardo sul programma e i costi stavano raggiungendo le stelle. Phil Feldman cominciò ad avere la nauseabonda sensazione di rivivere l’incubo di Jerry Bresler e Sierra Charriba. Poi arrivarono due telegrammi per Sam, uno da Ken Hyman e l’altro da Edward Feldman [nessuna parentela con Phil], un dirigente della Warner. Entrambi avevano visto i giornalieri a Hollywood e li avevano trovati fantastici. «Siamo elettrizzati dal meraviglioso girato che abbiamo visto», telegrafò Edward Feldman. «Difatti, Chasin-Park-Citron [l’agente di Sam] sta negoziando con la AIP [l’American International Pictures, una società cinematografica minore] per farti avere una percentuale più alta di quella che Mike Nichols ha ottenuto da Joe Levine. Scherzi a parte, credo sia un film eccezionale. È bello vedere un talento che si esprime». «Per la cronaca», telegrafò Hyman, «Il mucchio selvaggio resterà nella storia come una delle migliori pellicole di tutti i tempi. Grazie, grazie, grazie ancora». «La cosa mi fece un po’ arrabbiare», confessò Phil Feldman. «Chiamai Ken e dissi: “Pensa ai cazzi tuoi! Abbiamo dei problemi, non puoi farmi questo, Ken! Lo rovinerai. Certo, sta facendo un buon lavoro, ma abbiamo dei problemi. Così gli fai montare la testa, e ci darà ancora più problemi”». «Assecondavo gli eccessi di Sam perché avevo visto il suo materiale», dice Hyman. «Ero estasiato, lo trovavo straordinario, per cui se Sam voleva più fucili e una mitragliatrice, Dio, li avrebbe avuti. Il povero Phil si innervosì molto, ma Sam dava il suo meglio quando gli veniva accordata
fiducia. Sam era uno strano animale. Se avevi fiducia in lui e lui in te, avrebbe fatto di tutto per non ferirti, di tutto». Ma Hyman era a più di mille chilometri di distanza, non ogni giorno sul set in quella hacienda dimenticata da Dio a guardare quell’ossessivo perfezionista all’opera. Feldman vedeva la sua percentuale sui profitti scorrere ad alta velocità attraverso le cineprese di Sam mentre continuava a filmare, primo piano dopo primo piano, soldati colpiti e fatti saltare in aria. Volendo disperatamente limitare Sam, Feldman scrisse una serie di appunti in cui supplicava moderazione. La Panavision aveva detto a Feldman che Il mucchio selvaggio stava per raggiungere il record dell’attrezzatura richiesta. «Frank Bogel della Panavision dice che abbiamo abbastanza attrezzatura per girare vari film, e si chiede perché ci servano l’800mm, la 100mm e la 250, trenta filtri e altri accessori», indagò il produttore. «Ti serve davvero tutta questa attrezzatura?» Quando Feldman si lamentò per i progressi troppo lenti e sollecitò il regista affinché accelerasse il ritmo, Sam rispose con una litania di casini di produzione, usando la sua classica strategia che consisteva nell’addossare la colpa sui suoi assistenti e su vari altri responsabili di reparto. La colpa era dell’incompetenza della troupe, non del suo perfezionismo. Il 14 maggio 1968 Feldman scrisse una nota a Peckinpah che diceva, tra l’altro: «Caro Socio… Se non sarai fuori dalla hacienda per la fine di questa settimana, brancolerai nel buio il 22 giugno [previsto come ultimo giorno di riprese]. Sabato avrai passato venti giorni nella hacienda, quando il programma ne prevedeva diciannove. Speravamo ne impiegassi diciassette per recuperarne due, ma ogni sabato perdiamo tempo. Se non ci spostiamo entro mercoledì, saremo in ritardo per tantissime cose, treni, ponti, ecc…» Due giorni dopo Sam si fece sentire con una sua nota. Riportò nuovamente tutte le mancanze e i casini dei vari responsabili di reparto e fustigò Feldman e il direttore di produzione Bill Faralla per non essere stati presenti sul set durante le riprese per dargli supporto. La nota di Peckinpah
recitava: «Per quanto riguarda la tua nota – l’ho trovata in buona parte esagerata, tendenziosa e semplicemente non veritiera… Phil, le “cose della vita” da dove sei seduto tu hanno bisogno di prendere aria. Vieni sul set dove le cose della vita che riguardano il modo in cui il film è girato sono evidenti. E come gesto di distensione, porta con te il direttore di produzione. Abbiamo bisogno di lui, e di te. Tutti abbiamo bisogno di tutto l’aiuto che possiamo ricevere. Socio non è un termine a caso per me, comincio a pensare che lo sia per te. Ma, sebbene possa essere un uomo riprovevole in tante cose, sono sempre stato un uomo di grande impegno. Socio non è solo una parola. Vieni qui a vedere con i tuoi occhi». Dopo questo scambio, le nuvole della tensione cominciarono a schiarirsi un po’. Feldman si presentava sul set ogni giorno, tenendo sotto controllo tutti i reparti e migliorando la comunicazione e l’organizzazione; e Sam, finalmente soddisfatto di aver estratto tutto il minerale grezzo di cui necessitava per la sparatoria finale, passò alle scene che seguivano – Robert Ryan e i cacciatori di taglie che scendono ad Agua Verde per recuperare i cadaveri in decomposizione – l’epilogo del film. «Ricordo quando finalmente finimmo la scena della battaglia», racconta Dawson. «Sam disse: “Va bene, ora facciamo subentrare il gruppo di Ryan. Dawson, cambia il sangue”. E io: “Cosa?” Rispose: “È sangue rosso. Rendilo nero”. Perché il sangue si scurisce quando si secca. C’era sangue lungo tutte le pareti e su tutti i corpi. Dovetti rivedere e cambiare ogni millilitro di sangue per farlo diventare nero». In complesso passarono quasi un mese alla hacienda, sei giorni oltre i diciannove previsti per le riprese, ma quando finirono persino Feldman dovette ammettere che avevano ottenuto qualcosa di straordinario. Peckinpah, da parte sua, riconobbe che il suo produttore, nonostante le rotture di coglioni varie, in fondo lo aveva supportato tutto il tempo, concedendogli il lusso di «farla bene». «Sei il mio socio», scrisse Sam a Feldman il 30 maggio, «e ti scrivo con affetto. Sei il miglior produttore per (o con)
cui abbia mai lavorato e non vedo l’ora di realizzare molte altre pellicole sotto la tua guida». Oramai certo di avere un’apertura elettrizzante e un ottimo climax, Sam onorò la sua promessa a Feldman di recuperare il tempo perduto; lavorò con sicurezza e a un ritmo incredibile. «La scena improvvisata che realizzò per la rapina del treno», ricordò Feldman, «riesco a immaginare quanto possa essere stata difficile da mettere in scena. Ma questo non lo intralciò affatto. Posso dire onestamente che la sera prima non aveva la più pallida idea di come l’avrebbe girata. Arrivò sulla location quella mattina, guardò il treno, guardò i ragazzi, disse: “Bill [Holden], tu parti da qui. Ernie, tu parti da qui. Giri intorno al treno così, sganci il vagone qui…” Ora so che non l’aveva preparata. So che si sarà alzato forse alle sei del mattino, ci avrà pensato, dopodiché è arrivato e l’ha fatta. Si rivelò una scena molto semplice. Personalmente, mi avrebbe creato più problemi della sparatoria alla hacienda. Fu uno dei lavori migliori di Sam, lo fece in modo meraviglioso, con precisione e senza esitazioni, semplicemente eccezionale. È uno dei marchi della sua genialità nella regia, la sua abilità di improvvisare scene d’azione come quella. Cronometrò perfettamente l’intera scena, con Jaime Sanchez nascosto nella torre idrica e tutto il resto». Per la loro fuga dopo la rapina, il Mucchio ruba la locomotiva e il pianale con il carico, sganciandoli dai vagoni passeggeri sul retro che ospitano una truppa di inesperte reclute della cavalleria – e anche, all’insaputa del Mucchio, Ryan e i cacciatori di taglie. Mentre il Mucchio si allontana con i primi vagoni del treno, la porta di uno dei vagoni posteriori si apre ed ecco scendere dalla rampa i cavalli della posse. Anche questo era ispirato alla storia di Butch Cassidy. Una posse molto simile su un treno si mise sulle tracce del vero Mucchio selvaggio. Ma con Holden alla guida della locomotiva, i banditi si avvantaggiano rapidamente sui loro inseguitori e, a chilometri di distanza, si incontrano con Ben
Johnson e Edmond O’Brien che stanno aspettando con un carro per trasportare le armi oltre il confine del Messico. Warren Oates, che si teneva in equilibrio sul pianale davanti alla sala macchine con una pistola in grembo, disse a Garner Simmons: «Quando arrivò il mio momento di entrare in azione, Sam mi lasciò fare quello che volevo perché ormai conoscevo il mio personaggio alla perfezione. Dopo aver ucciso i due soldati seduti davanti al pianale, Sam voleva questa inquadratura in cui si vede che mi sto veramente godendo il viaggio. Be’, Sam mi disse di fare “qualcosa”, così finsi di essere il macchinista come avrebbe fatto un bambino e, ovviamente, il macchinista fa sempre una piccola strombazzata quando sta per muovere il treno – è la consuetudine – e questo feci. Semplicemente finsi che quello fosse il mio treno». Oates suonò un fischietto immaginario e fece «ciuf-ciuf» come un bambino di sette anni. Fu un bellissimo elemento di contrasto – come gli Hammond che cantano un inno per la marcia nuziale di Billy in Sfida nell’Alta Sierra – che fece emergere le qualità infantili di quel killer spietato. Uno dei momenti più delicati delle riprese avvenne quando Peckinpah insistette nel catturare più inquadrature della locomotiva che stride lungo i binari e che poi blocca le ruote di ferro scivolando con un sibilo, fino a fermarsi nel punto in cui il carro la attende. «Holden è nella cabina della locomotiva ed è cocente», racconta Howard Kazanjian. «Porta su il treno e lo ferma, e Sam è su una gru con la cinepresa. Il treno doveva arrivare e fermarsi giusto davanti alla cinepresa. Ma Sam insisteva che Bill Holden conducesse il treno da solo. A bordo c’era tutto lo spazio per un macchinista, senza che si vedesse. Ernie e Jaime erano sul pianale posteriore e Warren era sul pianale davanti alla locomotiva. Una quindicina di metri oltre il punto in cui il treno doveva fermarsi, su un cavalletto c’era un altro pianale con il nostro generatore e tutta l’attrezzatura per le cineprese. Sotto al cavalletto c’era tutto il resto dell’attrezzatura, nascosta perché la cinepresa non la inquadrasse».
«Alla quinta ripresa Holden andò a tavoletta perché Sam disse che non andava abbastanza veloce», disse Oates a Garner Simmons. «Holden si infuriò e… prese la leva e la tirò completamente ed eccoci lanciati in piena corsa! Erano tipo tre chilometri, e cazzo se li percorremmo velocemente! Potevo vedere i ragazzi che si tuffavano fuori dai binari perché ero sul pianale davanti alla dannata locomotiva. E all’improvviso mi dico: “Oh-oh, qualcosa non va!”, perché i freni sono stati azionati, stiamo scivolando e vedo volare scintille. E proprio lì davanti c’è questo pianale parcheggiato sui binari… lo vedevo sempre più vicino e mi sembrava di avanzare al rallentatore. I due pianali si colpirono come tessere del domino. Qualcuno ha detto che era come se stessi facendo un balletto. Mi aggrappai alla ringhiera davanti alla locomotiva e mi arrampicai fino alla caldaia e vidi la scena perché era qualcosa che non potevo perdermi!» «I due pianali si scontrarono giusto in mezzo al dannato ponte e saltarono in aria», racconta Gordon Dawson. «Tutta la troupe era nascosta sotto al ponte in quel momento, e tutti scappano perché pensano che il motore stia per scoppiare. Corriamo come matti su per questo burrone per allontanarci dal ponte. Ero un ragazzo giovane e forte al tempo, avevo fatto passare avanti donne e bambini e mi ero allontanato dall’esplosione, ok? E sento qualcuno che mi si avvicina. Warren era sceso dal pianale, attraverso il cavalletto calando su un lato nel burrone per poi risalire, e mi passa accanto dicendo: “Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!” Fu un momento molto rischioso, ma il motore non scoppiò e nessuno si fece male». L’ultima sequenza girata fu quella del Mucchio che fugge in Messico con le armi rubate attraverso un ponte sul Rio Grande, con i cacciatori di taglie all’inseguimento. I fuorilegge riempiono il ponte di dinamite e accendono le micce prima di attraversarlo, e il ponte esplode proprio quando i cacciatori di taglie lo raggiungono, gettando cinque cavalli e i relativi cavallerizzi nel fiume sottostante. Sarebbe diventato uno degli stunt più audaci della storia del cinema, realizzato senza alcun
espediente o trucco con gli effetti speciali. Peckinpah fu irremovibile: doveva essere più che realistico. Edward Carrere costruì un ponte in balsa sul fiume Rio Nazas, la cui sovrastruttura era supportata da cavi di ferro nascosti alle cineprese. La campata centrale del ponte fu coperta con un pannello rimovibile che avrebbe fatto cadere i cavalli nel fiume allo scoppio delle cariche. Il giorno in cui l’azione doveva essere girata, la tensione divampò, innanzitutto per capire dove posizionare gli esplosivi. Joe Canutt, della leggendaria dinastia di controfigure Canutt, fu uno dei cinque uomini selezionati per fare quel tuffo nel fiume. Disse a Garner Simmons: «Quella fu l’ultima volta che lavorai per Peckinpah. Aveva un uomo responsabile della dinamite di nome Bud Hulburd che copriva il fiume. Lavorare con gli esplosivi è una cosa molto rischiosa. E quando devo trovarmi su un ponte che crolla sotto di me, voglio avere un’idea di quante cariche stiano usando. Be’, Sam aveva licenziato i responsabili degli effetti speciali sopra Hulburd perché non gli avevano dato quello che voleva. Per questo, era la prima volta che Hulburd si trovava davvero al comando ed era terrorizzato a morte da Sam». Hulburd, va detto, aveva lavorato nel reparto effetti speciali della Warner per oltre trent’anni. Nel corso della sua carriera aveva sviluppato più di cinquanta strumenti per gli effetti speciali brevettati, molti dei quali si usano ancora oggi. Canutt disse a Simmons: «Guardai le cariche e c’era abbastanza esplosivo da farci raggiungere direttamente la terraferma. Mia madre non aveva figli stupidi. Gli dissi che se non riduceva le cariche avrebbero dovuto trovarsi qualcun altro per quella scena. Be’, alla fine lo fece, e io eseguii quello stunt. Ma dissi a quel figlio di puttana di Peckinpah che non avrei mai più lavorato per lui». L’ansia delle controfigure non fu placata dal fatto che Sam avesse posposto l’azione per buona parte del giorno mentre girava inserti delle micce accese lungo la sovrastruttura. «Non riuscivano a togliere la cinepresa dalle
mani di Sam», racconta Gordon Dawson. «Noi gridavamo e urlavamo e lui continuava a girare inserti fino all’ultimo barlume di luce». «Sam stava di nuovo rallentando», afferma Howard Kazanjian, «e io avevo le cinque controfigure lì sul ponte, in sella, nervose. Il vento soffiava forte e pensavamo che avremmo perso il ponte, l’acqua infuriava [a 25 chilometri all’ora] e Eddie Carrere stava impazzendo. Avevamo tenuto le controfigure sedute sul ponte per ore, se ne andavano, tornavano, andavano, tornavano e più aspettavano più la scena si faceva rischiosa nelle loro teste. Alla fine si fece troppo buio, per cui non girammo quel giorno. Tornammo il giorno dopo, una domenica, e girammo». Le sei cineprese di Peckinpah furono posizionate su barche nel fiume, sulle sponde e su una collina che dava sul ponte. «Ogni angolazione fu coperta splendidamente», sostiene Fred Gammon, un aiuto regista del film. Le controfigure e i cavalli presero il loro posto sulla seconda campata e le cariche furono fatte esplodere. Geyser verdi di fumo, acqua e legna in frantumi schizzarono verso il cielo, la piattaforma crollò e cinque uomini e cinque cavalli caddero da sette metri d’altezza nel rapido fiume sottostante. «Il luogo in cui un cavallo è davvero pericoloso è nell’acqua, dove deve nuotare», dice L.Q. Jones. «Il motivo per cui è pericoloso è che non può mettere le zampe su un terreno solido, perciò ti colpirà a morte con le zampe anteriori per potersi arrampicare su di te. Le controfigure si erano messe degli elmetti sotto i cappelli e delle imbottiture su tutto il corpo, ma non sapevano cosa sarebbe successo con i cavalli. Le barche con le cineprese erano controllate dalla riva e c’erano tre o quattro barche fuori per recuperare le controfigure perché l’acqua scorreva piuttosto velocemente. Warren era in una barca con qualcuno, io ero in una barca con qualcuno. La caduta era andata bene, ma Billy Hart aveva perso i sensi. Stava scivolando lungo il fiume quando passò su uno dei cavi e rimase incastrato. Non riusciva a liberarsene, era troppo debole dopo l’esplosione e la caduta e la corrente
era troppo forte. La mia barca era abbastanza vicina, perciò accorremmo. La corrente era fortissima, dovevo stare sul cavo e tirarlo su mentre qualcun altro teneva me. Finita l’esplosione, continuò a esserci un bel daffare per altri sei o sette minuti». «Credevamo che avremmo perso due cavalli», racconta Fred Gammon. «L’acqua era così veloce, non c’erano banchine e i cavalli non riuscivano a sollevarsi. Li prendemmo al lazo e li trascinammo lungo il fiume fin dove potemmo tirarli fuori». Una delle barche con le cineprese si sganciò dal suo cavo e andò allo sbando verso la sponda. Un ramo basso fece rovesciare tutti i suoi occupanti e la cinepresa, una Arriflex, nell’acqua. Miracolosamente, la cinepresa fu l’unica vittima, quel giorno; tutti i cavalli e le controfigure sopravvissero. Le controfigure avevano solo qualche taglio e qualche livido e guadagnarono 2000 dollari a testa per la «gag». L’addetto agli effetti speciali Bud Huldburg si vantava dicendo: «Ho appena avuto l’opportunità di appendere un Rembrandt! Non mi capiterà mai più, probabilmente». Nel bar dell’hotel, quella sera, Peckinpah crollò su uno sgabello accanto alla moglie di Strother Martin, che era arrivata in Messico per assistere agli ultimi giorni di riprese. Sam sospirò: «Grazie a Dio nessuno si è fatto male!» Era rimasto un solo giorno di veloci pick-up shot da girare a Città del Messico prima di concludere le riprese principali, nove giorni e mezzo oltre il previsto. «L’ultima ora dell’ultimo giorno, mentre il sole stava tramontando», racconta Dawson, «Sam mise Holden, Borgnine e tutti gli altri attori su un autoarticolato per girare primi piani dal basso con il cielo sullo sfondo. “Guarda a destra! Guarda a sinistra! Guarda su! Guarda giù!” In questo modo avrebbe avuto ogni genere di sguardo con tutti i diversi costumi, nel caso quel materiale dovesse servirgli al montaggio. Sam girava sempre una quantità assurda di pellicola rispetto a quanta poi ne usava alla fine. Era molto difficile fargli cominciare un film quando diceva che lo
avrebbe cominciato, ma poi, una volta partito, era difficile togliergli la cinepresa di mano. Una volta arrivato a un punto fermo, sentiva sempre il bisogno di girare ancora». Per ottanta giorni aveva guidato una troupe di più di cento uomini e donne al limite della loro sopportazione e anche oltre, aveva sedotto, ispirato e terrorizzato il suo cast e la sua troupe per far dare loro più di quanto credessero di poter dare e, nel far questo, aveva raggiunto il suo più grande risultato da regista. Per ottanta giorni lui e tutta la troupe non avevano pensato ad altro che al film. Ora, improvvisamente, era tutto finito. Quando ultimò le riprese quel giorno nei Churubusco Studios a Città del Messico, Sam vagò verso un posto isolato del teatro di posa e scoppiò a piangere. Molti del cast e della troupe del Mucchio selvaggio avrebbero faticato a riconoscerlo capace di una tale emotività; a molti era sembrato un duro e gelido figlio di puttana. Ma molti videro un calore interno, persino una vulnerabilità sotto la spietata facciata di Peckinpah. «Dopo il mio ultimo giorno nel film, eravamo in hotel quella sera e vidi Sam», racconta Paul Harper, che interpretava uno dei cacciatori di taglie. «Andai da lui e gli dissi: “Sam, volevo solo dirti quanto io abbia apprezzato l’opportunità di lavorare con te e di lavorare a questo film. Mi è piaciuto tanto”. Sam rispose: “Be’, Paul, puoi definirti un Peckinpah man ora, perché sei uno dei miei ragazzi. Mi hai dato esattamente quello che volevo per questo film, anche di più”». «Ciò che accadde nel Mucchio selvaggio», disse Gordon Dawson a Garner Simmons, «non accade quasi mai: tutti erano lì a dare il massimo, con tutto il lavoro e i compiti già fatti, con otto possibilità in ciascuna mano e la mente a cercarne altre otto, in una corsa folle lunga ottanta giorni. Tutti profondevano il massimo impegno alla massima potenza – o semplicemente erano fuori dai giochi!» Mentre la troupe veniva sommersa nel Purgatorio di Peckinpah, Martin Luther King Jr. e Robert Kennedy venivano assassinati, altre città americane venivano bruciate dalle
fiamme delle rivolte e la convention presidenziale democratica a Chicago diventava un bagno di sangue. «Non sapevamo nulla di quella merda che stava accadendo», dice Dawson. «Eravamo completamente presi dal film». Si erano persi il caos che stava distruggendo il paese, ma Peckinpah tornò in America con un film che lo rispecchiava. Il cast e la troupe del Mucchio selvaggio si dispersero nel giugno del 1968 e tornarono alle proprie case negli Stati Uniti. Tutti a eccezione di Sam e Lou Lombardo, che allestirono degli uffici di montaggio a Torreon per restare lontani da Rudi Fehr e dal resto dei pezzi grossi della Warner Bros. I dirigenti della Warner avevano già visto i giornalieri e li avevano adorati, e a Hollywood aveva cominciato a circolare la voce che il girato del Mucchio selvaggio fosse fantastico, ma Peckinpah non voleva correre rischi. Stavolta lui, non lo studio, avrebbe avuto il controllo sul montaggio – almeno fino alle tre anteprime pubbliche garantitegli per contratto. Sam aveva girato 100.500 metri di pellicola con 1.288 diverse angolazioni. Era molto oltre il budget di 68.500 previsto dalla Warner per la produzione e anche della media di pellicola prevista per la maggior parte dei film di quel tempo (75.000 metri), ma molto al di sotto dei quasi 500.000 metri di pellicola usati da George Stevens per Il gigante. Considerate tutte le scene girate ad alta velocità e con più cineprese, la quantità di pellicola utilizzata da Sam era relativamente bassa. Questo perché raramente andava oltre le tre o quattro riprese per ogni inquadratura. Ma stampò la maggior parte della pellicola esposta per avere tutto il materiale grezzo possibile cui attingere. Il risultato fu che buona parte di quei 100.500 metri giunse nella sala di montaggio di Lou Lombardo. Il tecnico era sommerso dalla celluloide: «Ero rimasto in Messico per sei mesi, cazzo! Mia figlia stava crescendo in California. Mi riconobbe a stento quando tornai a casa. Sei mesi, cazzo. Sam adorava stare lì, aveva una villa con la servitù, non aveva nulla per cui tornare in America. Cercavo di mettere insieme la pellicola, insomma, c’era pellicola ovunque, Cristo, pellicola
ovunque! Perché dovevo vivere in un buco d’appartamento come se me la stessi spassando? Insomma, era già brutto quando c’erano tutti, Holden e gli altri. Ci ritrovavamo, bevevamo e ci divertivamo. Ma quando tutti se ne andarono, non mi restava che Sam». Per aiutarlo con il taglio e l’assemblaggio delle scene, Lombardo fece arrivare un altro tecnico televisivo, Robert Wolfe, giù in Messico. Wolfe avrebbe continuato a lavorare con Peckinpah in altri quattro film. La normale procedura di un tecnico del montaggio prevede di assemblare il materiale in ordine cronologico man mano che viene girato. Sebbene all’inizio le sequenze siano tagliate bruscamente, l’idea è quella di avere almeno il film in una forma coerente, prima di tornare ad affinare ogni scena. Ma a metà delle riprese Peckinpah aveva ordinato a Lombardo di abbandonare quell’approccio. «Avevo assemblato circa dieci rulli e all’improvviso Sam dice: “Non voglio che tagli più pellicola”», ricorda Lombardo. «Gli dissi: “Cosa?” e Sam: “Voglio che ti dedichi a raffinare, raffinare e raffinare ancora quello che già hai”. Gli dissi: “Ma Sam, ho tutto questo girato che arriva, cazzo, si accumulerà fino ad arrivare al soffitto!” Mi risponde: “Non preoccupartene”. Dissi: “Okay” e cominciai a raffinare e raffinare». Lombardo tornò alla sparatoria d’apertura e fece fatica a integrare tutto il girato a diverse velocità in un’unica, scorrevole sequenza. Quando montai la prima volta la lotta in strada, il tutto durava ventuno minuti. Avevo montato tantissime sparatorie, perciò la montai come una sparatoria. Succedevano così tante cose che staccavo prima su un’azione, poi su un’altra, poi su un’altra ancora. Sam vide il risultato e disse: «Cristo, è buona, è buona, ma non possiamo farla durare ventuno minuti». Gli dissi: «Be’, la taglierò un po’». Sam disse: «No, non la tagliare. Vedi se riesci ad armonizzare tutto, non mi interessa se ci sono stacchi di pochi frame, prendi tutto e uniscilo». Perciò feci questo, intramezzai ogni singola azione. Potevo cominciare con un tizio che viene colpito, poi staccare su un altro che viene colpito a sua volta, staccare sul primo tizio che cade, sull’altro che sta ancora cadendo, poi staccare su qualcun altro che viene colpito, un cavallo che
ruota su se stesso, su qualcuno che vola fuori da una finestra, e di nuovo sul primo tizio che tocca terra. Armonizzai, presi ogni azione e la intramezzai con un’altra. Dissi a Sam: «Forse possiamo renderla come un’esplosione, come se il pubblico fosse nel bel mezzo di un’esplosione». Sam disse: «È proprio questo che voglio».
Era il montaggio parallelo, affinato per la prima volta da D.W. Griffith, e ora portato a nuove, vertiginose altezze. Una ripresa in slow motion di un cacciatore di taglie trapassato da un proiettile che precipita giù dal tetto, rotea a ritmo letargico nel vuoto e si schianta violentemente sulla strada polverosa, era intramezzata da immagini – lunghe una frazione di secondo – del Mucchio che fugge dall’ufficio della ferrovia, scambiandosi colpi d’arma da fuoco con gli altri cacciatori di taglie. La caduta dell’uomo morente era spezzettata in quattro parti prima che raggiungesse finalmente il suolo. L’effetto non era realistico, come avrebbero erroneamente asserito alcuni critici, ma intenzionalmente surrealistico. Gotico nel suo orrore, poetico nella sua bellezza, il montaggio perseguiva la dinamica psicologica della violenza, non i suoi dettagli clinici. Quando Lombardo ultimò il suo secondo montaggio della sequenza, Sam si sedette con lui per affinarla ulteriormente. Phil Feldman ricordò in seguito: «Sam diceva a Lou Lombardo: “Dammi un altro frame in quella ripresa”. Ora, ben poche persone lo direbbero. Ma Sam diceva “un altro frame ancora” o “un frame in meno”. Nessuno lo fa più, né lo faceva prima. Credo sia stata la pellicola più minuziosamente montata e minuziosamente doppiata di tutti i tempi. Credo nessuno sia mai stato tanto scrupoloso con i dettagli quanto lo era Sam. Rese scrupoloso anche me. Non avrei mai pensato al montaggio dei singoli frame; voglio dire, non significava niente per me, prima di questo film. Non sapevo che una sequenza potesse essere un frame troppo lunga o un frame troppo corta. Imparai tantissimo». Quando Peckinpah finì di perfezionare il montaggio della sparatoria d’apertura, la scena durava solo cinque minuti. Insieme a Lombardo aveva concepito l’uso più creativo del montaggio dai tempi della Corazzata Potëmkin di Sergej EjsenŠtejn. Avevano cambiato per sempre il modo di fare film.
Più di vent’anni dopo, Michael Sragow avrebbe scritto sul New Yorker: «Ciò che fu Quarto potere per gli amanti del cinema nel 1941, lo fu Il mucchio selvaggio per i cineasti nel 1969. La sua scarica adrenalinica di rivelazioni sembra esplodere oltre i parametri dello schermo». Quando arrivò agosto, Peckinpah non poté più tenere a bada la Warner Bros. Ken Hyman chiese di vedere del girato montato, così Sam gli inviò i primi dieci rulli (un centinaio di minuti) che con Lombardo aveva affinato come la lama di un rasoio. Feldman visionò il materiale prima di Hyman e, preoccupato per l’immagine d’apertura dei bambini che torturano formiche e scorpioni, scrisse una lettera a Sam invitandolo a rimuoverla per la proiezione destinata a Hyman, «per evitare che debba spiegarne il simbolismo». Feldman poi accennò con cautela alla possibilità che Sam decidesse di rimuoverla definitivamente, perché era certo che gli avrebbe alienato ampi segmenti di pubblico pagante prima ancora che si arrivasse alla fine dei titoli di testa. Sam lo silurò con questa risposta: Ho ricevuto la tua lettera e i commenti […] Li ho trovati interessanti, provocatori, validi e […] raccapriccianti. Non riesco in nome di Gesù Cristo a capire come il mio produttore, che ha faticato durante tutta la produzione insieme al suo devoto regista, possa intenzionalmente o involontariamente richiedere la cancellazione dei bambini-scorpionibambini in contrapposizione al Mucchio Selvaggio. Se è così che la pensi, perché mi hai fatto dirigere questo film e perché sei interessato a farmi girare un altro film con te? Perché non hai scelto Dick Donner? O Bill Boudeen? O Dave Dowell [un aiuto regista che Sam aveva licenziato dal Mucchio selvaggio]? […] Phil, sappi che tra tutti quelli che scrivono note (e parlano) senza riflettere, tu sei il più pericoloso.
Gli scorpioni e i bambini rimasero e l’agitazione di Feldman si rivelò immotivata. «Sam sapeva quello che faceva», dice Lombardo. «Sapeva che stavano pensando di portargli via il film. Perciò mostrò ai dirigenti della Warner quei primi dieci rulli che aveva rifinito. Avevamo già persino aggiunto degli effetti sonori e cazzo se non gli piacque da morire. Quando finì, applaudirono tutti, soprattutto Phil. Subodoravano il successo. Sam voleva più tempo e soldi per
montarlo. Ken Hyman disse: “Dategli tutto quello che vuole”». Mentre i montatori erano chini sulle loro moviole quindici o sedici ore al giorno a mettere insieme quel gargantuesco puzzle pezzo dopo pezzo, Sam mantenne la promessa fatta a Gordon Dawson di lavorare con lui a una riscrittura della Ballata di Cable Hogue. Ad agosto Sam inviò la loro nuova bozza a Ken Hyman che, ancora sommerso dall’eccitazione per la proiezione del Mucchio selvaggio, diede il via libera per le riprese. Con La ballata di Cable Hogue che ora si muoveva verso la preproduzione, Sam e i suoi tecnici tornarono alla sede della Warner nel settembre del 1968 con un montaggio grezzo del Mucchio selvaggio di tre ore e quarantacinque minuti. Peckinpah entrò in preproduzione con La ballata di Cable Hogue, poi partì per il Nevada per cominciare a girarlo, lasciando Feldman a lavorare con Lombardo. Nei successivi tre mesi il film fu ridotto a due ore e cinquanta minuti. «Funzionava bene con tre ore e quarantacinque minuti», dice Lombardo. «Era molto intenso. Ogni frame era oro». Ma qualche frame d’oro dovette andarsene, perché la Warner richiese una versione di due ore e mezzo. Nei weekend, Lombardo si recava nella Valley of Fire in Nevada, dove Peckinpah stava girando La ballata di Cable Hogue, per proiettare i rulli rifiniti da lui e da Feldman e ottenere l’approvazione di Sam. Le prime proiezioni pubbliche del Mucchio selvaggio ebbero luogo nelle scuole di cinema alla USC e alla UCLA e a Phoenix, Arizona, dove Sam stava finendo le riprese della Ballata di Cable Hogue. Fu affittato un cinema del posto e tutto il cast e la troupe della Ballata di Cable Hogue si presentò alle nove del mattino al Fox Theater nel centro di Phoenix per vedere il film. Non c’era ancora la colonna sonora e mancavano ancora degli altri effetti, ma l’impatto fu straordinario. «La troupe e tutti questi attori erano lì in quel teatro», ricorda Lombardo. «Mostrammo tutto il film e fu
come un’esplosione. Tutti esultavano, applaudivano, erano impazziti». Gill Dennis, uno stagista dell’American Film Institute che collaborò alla Ballata di Cable Hogue, ricorda: «È stato incredibile, incredibile. Così intenso. La sparatoria d’apertura… era terribile. Ricordo di averla guardata piangendo e non avevo mai pianto prima per la violenza in un film. Era cominciato un film, non sapevi chi fosse chi e all’improvviso tutta questa gente stava morendo e alcuni di loro erano innocenti… La donna trascinata dal cavallo… È stato incredibile, è stato qualcosa di mai visto». Nel corso del mese successivo, altri venti minuti sarebbero stati tagliati dal film. Lucien Ballard protestò affermando che i tagli riducevano la maestà e la portata del film, ma Peckinpah sentiva che erano necessari, sia per rendere più compatta la storia che per compiacere la Warner Bros., che riteneva impossibile vendere un western lungo tre ore. Per comporre la colonna sonora, Peckinpah assoldò Jerry Fielding. Gli spiegò che cercava un approccio minimalista: nessun numero esageratamente orchestrato che cacciasse linfa dagli altoparlanti, in stile Elmer Bernstein, solo qualche strimpellata di chitarra di canzoni folk messicane o americane, come in The Westerner. La musica doveva provenire il più possibile da fonti naturali – un gruppo mariachi, un chitarrista solitario che strimpella note svogliatamente. La musica doveva essere autentica, vere canzoni folk cantate da veri cantanti folk, non perversioni alla Arthur Freed. Suggerì di utilizzare Julio Corona, un chitarrista che Sam aveva conosciuto in un bar durante uno dei suoi soggiorni in Messico, sia per suonare la colonna sonora che per consigliare una selezione di canzoni e musica per varie scene. Chalo Gonzalez fu mandato a sud del confine per rintracciare il minuto musicista. Restò via per una settimana, a perlustrare ogni bar e bordello del Messico settentrionale. Sam era in Nevada a girare La ballata di Cable Hogue quando Fielding si mise al lavoro. Cominciò proiettando Il
mucchio selvaggio a ripetizione, facendosi venire man mano delle idee. Sì, era d’accordo, usare musica autentica ovunque possibile sarebbe stato un bene e anche lui detestava i film troppo musicati. Ma la violenza e i rudi personaggi necessitavano disperatamente di un elemento di contrasto. Fielding disse a Paul Seydor: Il messaggio di Sam in quel film, sebbene fosse molto marcato il ritratto degli orrori [della violenza]… c’era una priorità molto più importante […] per come la vedo io, che riguardava il fatto che il rapporto tra due uomini [Holden e Ryan] fosse praticamente una storia d’amore. Non una storia oscena, ma autentica. E anche una storia d’amore tra Sam e l’atmosfera di quel tempo e di quei luoghi – di questo parlava quel film. Non di pistole, ferite aperte e bambini che vengono colpiti. Persino la battaglia era un balletto… un fottuto balletto… Ho fatto un lavoraccio per portare Il mucchio selvaggio in questa direzione. Se sentiste la colonna sonora senza aver visto il film, pensereste che si tratti di una storia d’amore. Io preferisco parlarne in questi termini: c’è un elemento poetico. Uno scrittore lo fa con le parole, io con suoni inarticolati che sono un po’ più ambigui.
Sviluppata una strategia, Fielding si mise a comporre qualche musica e a registrarla, non con un paio di chitarristi ma con un’orchestra a sei strumenti. All’inizio Phil Feldman era stato riluttante all’idea di usare Fielding, ma quando sentì i nastri ci fu un voltafaccia: «La trovai abbastanza buona. Era una musica molto bella e si vedeva che Jerry aveva incorporato ciò che Sam voleva per quanto riguardava la musica messicana, apportando anche qualcosa di suo». La musica di Fielding fu inviata a Peckinpah in Nevada per accompagnare le relative scene del Mucchio selvaggio. Ma la sala di proiezione del minuscolo resort dove la compagnia della Ballata di Cable Hogue era alloggiata era una lavanderia riattrezzata. Uscendo da un paio di minuscoli altoparlanti, la musica rimbalzava sul pavimento in cemento e le lavatrici in metallo, con un effetto abominevole. Peckinpah inviò una lettera furiosa all’amico e compositore: Ho trovato la tua musica per Il mucchio selvaggio per la maggior parte pretenziosa, distraente ed esageratamente orchestrata. Come ho già detto, non parlo delle melodie o della musica che hai scritto, parlo dell’esecuzione. Ho speso non pochi soldi e non poco tempo a spiegarti esattamente il significato di questa pellicola. È palese che ti rifiuti o sei incapace di trovarti in sintonia con me a qualsiasi livello. So che hai
lavorato sodo e che hai fatto un lavoro eccellente, solo che l’esecuzione per me danneggia a un livello estremamente serio il film che ho fatto. Di conseguenza, apprezzerei molto se mi facessi il piacere di farti da parte… Volevo il Messico – cosa mi hai dato, Vienna?
Sia Feldman che Camille Fielding spinsero il compositore ad andare a Phoenix, dove Peckinpah si era trasferito con la compagnia della Ballata di Cable Hogue, e chiarire le cose con lui. Fielding disse a Paul Seydor: «Mi svegliai la mattina, avevo un’ulcera, bevvi quattro tazze di acido caffè nero senza mangiare nulla per colazione, salii su un aereo e quando arrivai a Phoenix ero così incazzato che non ci crederesti. Sam doveva visionare i giornalieri nel teatro locale. Entrai nel teatro, Sam arrivò qualche minuto dopo e io ero prontissimo. Non ebbe l’opportunità di aprir bocca. Balzai in piedi e dissi: “Tu, idiota Toscanini da quattro soldi! Come hai osato inviarmi quella lettera, che cazzo ne capisci tu?” Diedi proprio in escandescenze. Sam non riuscì ad aprir bocca. Si sedette nella poltrona col volto nascosto dietro il cappello». «Jerry gliene disse di tutti i colori, cosa che Sam non si aspettava», dice Camille Fielding. «Sam ne restò sorpreso. Non si aspettava che Jerry contrattaccasse, perché la personalità di Jerry era così mite, era un intellettuale, aborriva ogni forma di violenza. Discorreva sempre, non discuteva mai. La cosa sorprese Sam, ma gli piacque. Gli piacque che Jerry fosse pronto a battersi per ciò in cui credeva, che fosse così assolutamente convinto di avere ragione». Sam acconsentì ad ascoltare la musica di nuovo, questa volta con un impianto audio decente, e con le motivazioni di Fielding per tutte le scelte creative fatte. Dopo averci pensato attentamente, Sam fece marcia indietro e diede al compositore carta bianca per musicare il resto del film. Con il benestare di Peckinpah, per Fielding cominciò il lavoro vero. «Lavorava tutto il giorno, tutta la notte, ventiquattr’ore su ventiquattro. Dormiva a singhiozzo – due ore qui, un’ora lì», racconta Camille. «Ma a parte il fatto di essere esausto, adorò ogni attimo di quell’esperienza».
Nel frattempo Chalo Gonzalez aveva finalmente trovato l’esperto di Sam in canzoni da bar con fiumi di tequila, Julio Corona, dopo aver cercato per tutto il Messico. Portò il chitarrista a Burbank, dove Julio si trovò in sala di registrazione con alcuni dei musicisti migliori al mondo. Jerry Fielding disse a Paul Seydor: «Julio non sapeva leggere la musica. Era il menestrello di Sam. Un dolce ragazzino. Alcolista. Suonava quelle canzoni messicane, quella musica ranchera, quelle cose che ti fanno piangere sulla birra. Le conosceva tutte. Era come se fosse nato con le dita su una chitarra: nessuno glielo aveva insegnato, aveva imparato così. Julio era un messicano al 200%, e un uomo molto triste. Diceva: “È l’ora della benzina” e gli davano della tequila. Non sapeva leggere la musica e non gli fu facile imparare le parti delle cinque sezioni di chitarra, ma quando suonava non era un musicista classico che cercava di imitare un messicano. C’era qualcosa di autentico nel modo casuale in cui suonava». Quando finì, Fielding aveva composto un’ora e dieci minuti di musica per Il mucchio selvaggio, più di quanta ce ne fosse in My Fair Lady. Non tutti erano entusiasti del lunatico perfezionismo di Peckinpah; Feldman, il dipartimento degli effetti sonori della Warner Bros. e l’intero staff della Technicolor erano pronti per il manicomio. «La postproduzione è durata un anno», disse Feldman. «Il doppiaggio fu abnorme, non credo siano mai state fatte più ore di doppiaggio di quante ne abbiamo fatte noi – centinaia di ore. Tutto a causa dell’attenzione di Sam per i dettagli. Mi sarei tranquillamente accontentato di meno attenzione. L’attenzione agli effetti sonori, per quanto riguarda i diversi spari, al mixaggio, alla musica in sé rese tutto molto difficile. Passavamo giorni sul primo rullo [in totale erano quindici] e poi altri giorni ancora sul primo rullo. La postproduzione fu davvero una gran seccatura. Posso dire che è per questo che Sam era stato estromesso dalla postproduzione degli altri suoi film. Poiché avevo la pazienza di Giobbe, lo assecondai, assecondai, assecondai».
Ma c’erano valide motivazioni dietro l’ossessività di Sam. La prima volta, il dipartimento degli effetti sonori aveva fatto affidamento sugli stessi rumori di spari che usava da quando Errol Flynn aveva interpretato Gli avventurieri nel 1939. Tutte le rivoltelle e i fucili avevano lo stesso suono. A Sam venne un colpo e insistette perché venissero registrati dei nuovi effetti, in modo che ogni pistola del film avesse un suono peculiare. Quando finirono, erano stati aggiunti alla colonna sonora più di cento diversi spari. «Unirli tutti in una sola traccia e far spiccare ogni singolo suono fu una rottura di scatole, ma lo facemmo e si sente», afferma Lou Lombardo. «Si capisce quando è Holden a sparare, perché la sua quarantacinque ringhia, e si capisce quando è Strother a sparare dal suo trenta-zerosei. Sam scatenò l’inferno per quella traccia audio, ma lo fece per far raggiungere al film una qualità che gli valse il premio per i migliori effetti sonori della S.M.P.T.E.». Il primo montaggio completo del Mucchio selvaggio durava due ore e trentuno minuti e aveva un totale di 3642 cambi di scena, più di ogni altro film realizzato dalla Technicolor fino ad allora. (I film americani della fine degli anni Sessanta avevano in media seicento cambi). Nel maggio del 1969 era pronto per le tre anteprime pubbliche garantite a Sam per contratto. Ce ne fu una a Kansas City, una a Fresno e la terza a Long Beach, in California. L’anteprima a Kansas City, come prevedibile, fu un disastro. Un’adirata spettatrice scrisse a un membro del congresso, che a sua volta scrisse a Jack Valenti, capo della MPAA. Valenti difese la violenza del film sulla base del Primo emendamento, ma tutta quell’agitazione non pose certo le basi ideali per la successiva battaglia della Warner per ottenere una classificazione R dall’Associazione anziché una X. A Fresno, un gruppo di suore si posò come uno stormo di puntigliose colombe in una fila di poltrone, per poi volare su per il corridoio pochi minuti dopo lo scoppio della sparatoria iniziale, con gli abiti che svolazzavano come fiamme blu dietro di loro mentre correvano in strada.
I fogli dei commenti compilati dagli spettatori alle tre anteprime erano lungi dall’essere rassicuranti. Al 60% il film non era piaciuto; solo il 17-18% lo aveva trovato straordinario e il restante 22-23% era più combattuto. Ma che il pubblico lo avesse trovato un capolavoro o condannato come pornografia, la reazione emotiva fu appassionata. Le risposte scarabocchiate sui questionari dello studio non venivano da sostenitori annoiati che adempiono frettolosamente a un tedioso obbligo. I fogli con le risposte erano coperti da cima a fondo di grafie sovraeccitate. Il mucchio selvaggio aveva indubbiamente lasciato il segno. In qualsiasi altra epoca storica una tale percentuale di reazioni negative avrebbe portato i pezzi grossi dello studio ad attivare tutti gli allarmi, sottrarre il film al suo regista, rimontarlo drasticamente o gettarlo sul mercato con poca se non zero pubblicità. Ma Ken Hyman era convinto che Il mucchio selvaggio fosse un grande film, perciò lo sostenne. «Kenny è rimasto al nostro fianco per tutto il tempo», afferma Lou Lombardo. «Non gli importava, adorava il film. Adorava fare film». «Ero alla proiezione a Fresno», racconta Hyman. «Sentite, il pubblico lo ha adorato, assolutamente adorato. La maggior parte dei fogli delle recensioni era negativa, ma quella non fu la reazione del pubblico. Una volta seduti, ci ripensavano e cominciavano a compilare i fogli, pensando: Cristo, che film violento! Ma se foste stati seduti nel cinema a guardare la gente, come reagiva e come veniva coinvolta – insomma, nessuno era ambivalente rispetto al film. Per me gli unici film che vanno considerati un fiasco sono quelli in cui la gente dice: “Era meglio se restavo a casa a leggere un libro”. Quando le luci si riaccesero al termine del Mucchio selvaggio non ci fu alcun applauso, solo uno scioccato silenzio. Se un grande studio di oggi avesse un’anteprima come quella, i dirigenti darebbero i numeri. Vedete, la differenza è che noi gestivamo la società e non avevamo paura, abbiamo fatto ciò in cui credevamo».
Ma tutti concordavano che ci fosse troppo sangue. Se un terzo del tuo pubblico corre in strada per vomitare, è palese che non stai creando una connessione. Peckinpah disse più tardi a un intervistatore: «Ho tagliato diversi momenti di violenza dal film… Trovavo fossero eccessivi per il messaggio che volevo trasmettere. Non volevo solo parlare di violenza in questo film, ma anche raccontare una storia, e non voglio che la violenza in sé prevalga su ciò che succede a quelle persone… Non stiamo facendo un film per cinque persone, ma per un pubblico… Sono stato brutale contro me stesso; sebbene amassi quelle scene, le ho tagliate. E ora, quando è sullo schermo, non escono dalla sala trentacinque persone ma solo dieci. Be’, è una buona media. Dieci non è un problema, per me». E poi c’era la MPAA, le cui cesoie erano state affilate dalle lamentele di un membro del Congresso degli Stati Uniti. Se Sam non avesse ripulito un po’ la violenza e il linguaggio, alla pellicola sarebbe stata affibbiata una catalogazione X, garantendone il fiasco al botteghino. Perciò da metà maggio a metà giugno Peckinpah spuntò altri sei minuti dal film – più di quanto gli stessi Feldman e Hyman ritenessero necessario. Ciononostante, ci vollero sette incontri con la MPAA e, dopo ognuno di questi, ulteriori frame di schizzi di sangue o battute come: «Guarda qui, Lyle, un capezzolo lungo quanto il tuo pollice!» venivano eliminati. Alla fine ottennero la catalogazione R. Mesi prima, versioni grezze del film erano state proiettate per i distributori interni e stranieri della Warner Bros., che esercitavano un potere considerevole nel determinare come Il mucchio selvaggio sarebbe poi stato venduto al pubblico. I distributori europei ne furono entusiasti e acconsentirono a vendere il film come proiezione in roadshow. Sarebbe uscito in pochi cinema selezionati in 70mm con colonna sonora stereo (una rarità per il tempo) e un intervallo, per poi passare all’uscita ufficiale dopo che le recensioni e il passaparola avessero richiamato il massimo interesse.
Ma il responsabile della distribuzione americana, Ben Kalmenson, era riluttante a questo approccio. Il mucchio selvaggio era un western, un ottimo western, ma comunque un western, e nessun western meritava una première in 70mm, con posti riservati in teatri selezionati. Kamelson voleva farlo uscire in 35mm e audio mono, senza intervalli. Avrebbe aperto, come tutti i film di John Wayne, con grandi vendite nel Texas e nel Sudovest – il circuito dei drive-in – per poi essere portato a nord con vasta distribuzione in centinaia di cinema in tutto il paese. Phil Feldman giudicava miope il piano di distribuzione interna e gli oppose una lunga e dura resistenza. Il mucchio selvaggio non era solo un altro western, contestava Feldman, era un’epica storia di avventura, un classico, come Il ponte sul fiume Kwai e Lawrence d’Arabia. Sarebbe dovuto uscire in pochi cinema selezionati a New York, Los Angeles e qualche altra grande città, per avere recensioni che, Feldman ne era certo, sarebbero state estatiche, e un passaparola che avrebbe dato al pubblico l’occasione di riscoprirlo. Un uomo da marciapiede, Easy Rider, Alice’s Restaurant e altri recenti film intellettuali erano usciti in quel modo ed erano andati bene. Se proiettato contemporaneamente in 400 cinema, la fiamma del Mucchio selvaggio si sarebbe consumata presto senza raggiungere il suo pieno potenziale. A causa delle incessanti pressioni di Feldman, Kalmenson acconsentì a un minimo compromesso. Una versione in 70mm sarebbe stata proiettata in teatri selezionati – come il Trans Lux di New York – al nord, in concomitanza con l’uscita in Texas. Ma queste versioni in 70mm non avrebbero avuto intervallo e Kalmenson insistette perché il film fosse accorciato per la distribuzione interna. Per accontentarlo, Feldman e Peckinpah tagliarono un flashback che rivelava come Bishop avesse perso l’unica donna che aveva mai amato. Non si risparmiò che uno scarso minuto e venti secondi, ma ciò permise loro di dire a Kalmenson che il film era stato ridotto. Quando lo proiettò di nuovo, il dirigente concordò che il film scorresse «molto più veloce adesso».
Non avevano altra scelta che cedere al compromesso, ma questo fu causa di dolore per Sam. Si era perso un importante tassello della dimensione e delle motivazioni del personaggio. Importante, ma non cruciale. Il film funzionava lo stesso anche senza; quello sarebbe stato l’ultimo compromesso – almeno così credeva Sam – e poteva conviverci. Il mucchio selvaggio era per il 96% Peckinpah e, considerati gli ostacoli, poté concludere con una scrollata di spalle che non era affatto male. La prima ufficiale mondiale del Mucchio selvaggio ebbe luogo il 28 giugno alle Bahamas, dove la pellicola fu inclusa nell’International Film Festival della Warner Bros. In realtà, più che di un festival si trattava di un viaggio premio per la stampa al fine di promuovere le uscite estive, ma il film di Peckinpah giunse come un fulmine a ciel sereno, attirando un’amara disapprovazione da parte dei recensori di media cultura, e gli entusiastici elogi degli intellettuali. La Warner Bros. promosse l’uscita nazionale una settimana dopo, con una pesante campagna pubblicitaria che includeva due cartelloni enormi sul Sunset Boulevard – dove gli studios pubblicizzavano le loro produzioni più prestigiose – e pubblicità in radio, tv, sui giornali e sulle riviste. La Warner spese 200.000 dollari solo per la promozione in Texas nelle prime settimane dall’uscita della pellicola, cosa che Feldman reputò uno spreco colossale. I soldi avrebbero potuto essere usati più strategicamente nei grandi centri urbani e distribuiti su un più lungo periodo di tempo. La critica poteva essere divisa, ma l’impatto che Il mucchio selvaggio ebbe su un’intera generazione di cineasti e appassionati di cinema fu profondo e di vasta portata. «Credo tutti ricordino dove si trovassero quando hanno visto per la prima volta Il mucchio selvaggio», dice Ann Godoff, una studentessa di cinema della NYU al tempo e ora caporedattrice di Random House. Uno dei mentori della Godoff, Martin Scorsese, ricorda perfettamente dove si trovava. Andò insieme a Jay Cocks, allora critico cinematografico per Time, a una proiezione speciale del film alla Warner Bros.
Eravamo solo noi due ad assistere a quest’incredibile opera d’arte. Siamo rimasti sbalorditi, assolutamente sbalorditi, sopraffatti. Sfida nell’Alta Sierra era stato un buon segnale di un nuovo approccio verso il western. Era stato un po’ come l’inizio della fine, e Il mucchio selvaggio fu la fine. Ma una fine gloriosa. La violenza era coinvolgente, ma al tempo stesso ci si vergognava per essersi lasciati coinvolgere, soprattutto perché essa rifletteva quello che stava davvero accadendo in Vietnam e che potevamo vedere al telegiornale delle sei della sera. Il coinvolgimento proveniva dal modo in cui Peckinpah usava la pellicola e dal modo in cui usava le immagini con diverse cineprese a diverse velocità. Si otteneva un effetto meravigliosamente coreografato, come una danza o una poesia. Io e Jay ci aspettavamo qualcosa di incredibile, ma restammo comunque sbalorditi perché era molto più di quanto avessimo potuto immaginare.
«Vidi Il mucchio selvaggio forse il secondo o il terzo giorno dall’uscita in Hollywood Boulevard», racconta John Milius, sceneggiatore di Corvo rosso non avrai il mio scalpo e Apocalypse Now e regista di film come Un mercoledì da leoni e Conan il barbaro. «Fu perché George Lucas lo aveva visto e aveva detto: “È il miglior film mai fatto! È meglio di Sentieri selvaggi, è meglio di qualunque altra cosa! Dovete andare a vederlo tutti!” Così andammo a vederlo. Mi piacque molto. C’era un lato di Peckinpah che era fuori controllo; mi piaceva. E poi c’è quella meravigliosa scena in cui sono lì seduti e il vecchio dice: “Tutti sogniamo di tornare bambini, anche i peggiori tra noi, forse i peggiori più di tutti”. Ti ricorderai di quella battuta per tutta la vita, tutta la vita! È qualcosa che prendi da quel film e non potrai mai dimenticare. Quanti film fanno questo effetto? Ci sono molti altri momenti così nel Mucchio selvaggio». In Inghilterra, dove il film ottenne gli elogi quasi unanimi della critica, Alex Cox, regista di Sid & Nancy e Walker – Una storia vera, fu tra i primi a vederlo. Non avevo mai posato gli occhi su un western del genere, prima di allora. Mi sembrava tanto un film sulla guerra del Vietnam, un film su tipi in uniforme che prendono ostaggi e commettono atrocità, vanno in paesi stranieri e uccidono la gente, che se ne fregano di tutto, a parte la loro piccola comunità. Avevano questo grandissimo senso dell’onore, del loro eroismo, della loro importanza. L’ho trovato un film fantastico. Un grandissimo film d’azione, un film d’azione straordinario, ma che aveva anche una nota di cinismo e brutalità. È stupefacente quello che Peckinpah ha realizzato. Il cast è stato scelto in modo così perfetto, Holden, Borgnine, Ryan, tutte le performance così piene di passione e
tristezza. Questo era il bello di tutti i film di Peckinpah, la tristezza che ogni personaggio porta con sé.
Ron Shelton, regista di Bull Durham – Un gioco a tre mani e Chi non salta bianco è, era un giocatore di baseball della Minor League che si guadagnava da vivere sui polverosi diamanti del Sudovest. Andavo al cinema tutti i giorni, per ammazzare il tempo di pomeriggio perché non dovevo essere in campo fino alle 16.30 e i cinema avevano l’aria condizionata. Be’, nell’estate del 1969 andai a vedere un film intitolato Il mucchio selvaggio a Little Rock, di fronte al mio hotel. Ci andai solo per perdere un po’ di tempo. Era solo un western, ma mi piacevano i western. Quando finì, ero eccitato e non sapevo perché. Ero eccitato, avevo visto un mucchio di assassini uccidere un mucchio di altri assassini. Volevo capire perché ero eccitato. Non avevo mai sparato in vita mia, non avevo mai nemmeno impugnato una pistola. Credo fossi esaltato da questo senso di lealtà mutevole e da quell’accumularsi di ironia su ironia in un modo che non sembrava mai del tutto consapevole. Ciò che è triste oggi è che i film d’azione sono diventati dei cartoni animati. Dimentichiamo che i film d’azione hanno tutto il potenziale per essere tanto complessi e intelligenti quanto un’opera di Shakespeare.
Dopo aver visto Il mucchio selvaggio a un’anteprima in Hollywood Boulevard, Paul Schrader disse a Peckinpah che aveva trovato un montaggio buono quanto quello delle epopee sui samurai di Kurosawa. «Io penso sia migliore», rispose Sam. Il ragazzino di Fresno ce l’aveva fatta, aveva raggiunto la vetta più alta. La controversia sui media a proposito del Mucchio selvaggio lo rese uno dei film su cui più si scrisse e parlò nel 1969 ma, come temuto da Phil Feldman, la distribuzione del film da parte della Warner Bros. ebbe conseguenze terribili al botteghino. Il film era uscito in un solo cinema sia a New York che a Los Angeles, proiettato in 70mm con audio stereo in una sala con mille posti a sedere, e in entrambe le città fu un enorme successo. A Los Angeles, dove fu proiettato in uno dei teatri antichi di Hollywood Boulevard, stava addirittura superando negli incassi Il Grinta, l’ultimo grande successo di John Wayne, spettacolo di punta del grande Grauman’s Chinese Theatre. (A metà settembre, Il mucchio selvaggio superava ancora negli incassi Il Grinta a Los Angeles, con
160.000 dollari in una sola settimana a fronte dei 120.000 del Grinta). Ma nella ventina di teatri in Texas in cui Il mucchio selvaggio uscì, cadde in picchiata. Gli incassi furono terribili. Anziché il «forte vento» dal Texas che avrebbe dovuto sospingere il film in testa alle classifiche, come previsto dalla Warner, arrivò solo una leggera brezza. A metà luglio, due settimane dopo l’uscita, Il mucchio selvaggio si posizionò come ottavo nella classifica degli incassi negli Stati Uniti, con un guadagno di 291.000 dollari nella settimana del 16 luglio. Il film col maggiore incasso di quella settimana, Un maggiolino tutto matto della Walt Disney, incassò più del doppio, 658.000 dollari. Il Grinta a sua volta aveva sfondato negli stati del Sud e del Midwest, con incassi da 403.000 dollari. Nel complesso, Il mucchio selvaggio stava ottenendo dei guadagni rispettabili ma non esattamente in linea con il colpaccio che la Warner aveva sperato di realizzare. E a questo punto Sam aveva perso il suo padrino allo studio. Come capo della produzione, Ken Hyman aveva prodotto film emozionanti e innovativi, ma sfortunatamente non grandi successi. I profitti netti dello studio erano precipitati da 10.350.000 dollari nel 1968 a solo 300.000 dollari nel 1969. La Warner Bros. fu venduta a Steve Ross nel 1969 e Hyman fu sostituito da un nuovo regime. Ted Ashley divenne il nuovo presidente e John Calley, che aveva avuto la sua parte nel licenziamento di Peckinpah da Cincinnati Kid, divenne il nuovo capo della produzione appena Il mucchio selvaggio uscì. Sorprendentemente, Peckinpah non nutriva alcun rancore nei confronti di Calley – aveva sempre incolpato Ransohoff per il suo licenziamento – e i due cominciarono a parlare di vari progetti futuri, tra cui Summer Soldiers, una sceneggiatura su un gruppo di mercenari dei tempi moderni che si trova nel mezzo di una rivoluzione in una sconosciuta isola dei Caraibi. Ma Ashley era un uomo di pura finanza. Sotto la sua guida, i profitti della Warner si impennarono nel 1970 fino a 27.713.000 dollari, soprattutto grazie al documentario Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica e a un altro
western con John Wayne, Chisum. Ashley diede uno sguardo alla performance deludente del Mucchio selvaggio e alle lamentele degli espositori riguardo alla durata del film e decise che dovesse essere tagliato di almeno dieci minuti. Ashley inviò un ordine a Phil Feldman attraverso Ben Kalmenson, capo della distribuzione interna: taglia dieci minuti del Mucchio selvaggio e fallo adesso. Feldman ricevette il messaggio appena dopo che Sam era partito per le Hawaii con i suoi figli per riprendersi dal paralizzante stress indotto dal montaggio di un film mentre contemporaneamente ne girava un altro. Aveva allestito gli uffici di montaggio a Oahu con Lou Lombardo e Frank Santillo per lavorare su La ballata di Cable Hogue: ancora una volta, il più lontano possibile dallo studio. Feldman avrebbe potuto chiamare Peckinpah per vedere se voleva sfidare Ashley. Oppure poteva tentare di convincere Sam che quella battaglia sarebbe stata inutile e chiedergli di tornare a Los Angeles per fare lui stesso i tagli e in quel modo minimizzare i danni alla pellicola. Ma Feldman non fece nessuna delle due cose. Tagliò infatti lui stesso la pellicola senza dirlo a Peckinpah e puntò dritto sulle scene che aveva già contestato: i flashback che illustravano i fallimenti passati di Pike Bishop e il suo rapporto con Deke Thornton, alcuni dialoghi vicino al fuoco tra Holden e Borgnine, una mastodontica battaglia tra le forze di Mapache e quelle di Pancho Villa e alcune scene ricche di atmosfera al villaggio di Angelo. Quando terminò, Feldman aveva spuntato più di otto minuti dal film, abbastanza per placare Ashley senza danneggiare – così credeva – l’integrità della pellicola. Anzi, Feldman era convinto di averla migliorata. Verso la fine dei suoi giorni, ventidue anni dopo, continuava a non provare rimorso per le sue azioni. «A quel punto, non la consideravo più una decisione che spettasse a Sam. Il suo film era stato proiettato in molti posti, soprattutto a Londra, in 70mm con un intervallo, nel pieno del suo splendore. Ho pensato che a quel punto, se un distributore era in difficoltà e chiedeva di accorciare la pellicola, non si
trattava più di una decisione artistica. Era per me un’operazione di salvataggio che eravamo obbligati a fare. Ora, sono certo che Sam la pensasse diversamente, perché non gli importava di quell’aspetto. Ma la mia esperienza dall’altra parte della scrivania mi aveva fatto capire che ci sono cose che vanno fatte». Quando gli fu chiesto se si fosse consultato con Sam prima di fare quei tagli, gli occhi di Feldman piombarono a guardare il pavimento e mormorò in maniera indistinta che non se ne ricordava. Lo stagista dell’AFI Gill Dennis, che al tempo era nell’ufficio di Feldman a discutere una sceneggiatura che il produttore voleva che scrivesse, ricorda chiaramente che Feldman non si consultò con Peckinpah e fece di tutto per nascondergli la verità: «Ero seduto lì quando Phil si mise al telefono con Calley e cominciò a spiegare i tagli. Calley disse: “Aspetta un attimo, Phil, ma Sam lo sa?” Era ovviamente riluttante ad andare avanti. Sam lo chiama dopo un po’ e Phil dice: “No, no, no, Sam, nessuno taglierà niente”. Proprio di fronte a me dice questo, sapendo di certo che la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata contattare Sam». Quando Sam scoprì la verità, era già troppo tardi. Le direttive per i tagli erano arrivate ai distributori della Warner Bros. in tutto il paese. Quando le stampe del film tornavano alle case di spedizione regionali, in transito da un cinema al successivo, gli impiegati tagliavano le scene indicate. A volte seguivano accuratamente le direttive, a volte facevano dei pasticci, a volte non si preoccupavano affatto di operare i tagli, a volte le stampe erano talmente spezzettate per colpa di proiettori malandati che poco importava. Nel giro di settimane, la versione di Peckinpah del Mucchio selvaggio era sparita dalla circolazione nel suo stesso paese e giravano per i cinema della nazione innumerevoli versioni imbastardite. Ciò contribuì a confondere gli studiosi di cinema per decenni, oscurare la verità e incoraggiare esagerate leggende riguardo alla versione originale del Mucchio selvaggio che circolano ancora oggi.
Phil Feldman aveva guidato Il mucchio selvaggio nel suo sviluppo e nella sua produzione; aveva dato a Peckinpah completa libertà durante le riprese e il montaggio e aveva fatto miracoli per soddisfare le richieste impossibili di Sam. Aveva domato gli incubi logistici costituiti da Parras e Torreon affinché Peckinpah fosse libero di immergersi nell’universo immaginario del suo film. Dopo tutte le crisi, le promesse di fedeltà, onestà e onore tra i due uomini, perché aveva pugnalato così alle spalle il suo socio, e proprio sul traguardo? Forse era semplicemente stremato da due anni di notti e giorni incredibilmente lunghi, dalle poche ore di sonno e dai molti scontri fuori misura. Forse – prevedendo l’esplosiva risposta che avrebbe ottenuto dall’altro capo del telefono se avesse detto a Sam la verità, e tutto il traumatico tumulto che ne sarebbe seguito – scelse di prendere la strada più facile, evitando la rottura con Peckinpah, e fare lui i tagli. Era certamente convinto che le sue scelte fossero quelle giuste, e di aver aiutato e non danneggiato la pellicola. «Il film era molto importante anche per Phil», sostiene Gill Dennis. «Sapeva che era un buon film ed era importante per lui che non fosse un fiasco». Quando Sam apprese che tutte le quattrocento stampe del film erano state tagliate, inviò un telegramma a Feldman dalle Hawaii, contestando con veemenza che quella decisione avrebbe distrutto l’intricata cornice tragica della storia che aveva così duramente costruito. Feldman fu irremovibile. Difese i tagli, sostenendo che velocizzassero il ritmo del film e lo rendessero più commerciabile. Feldman scrisse: «Sarà di tuo interesse sapere che in due giorni dagli alleggerimenti le entrate del Trans Lux East sono aumentate di duecento dollari al giorno. Mentre al Trans Lux West, dove non abbiamo operato gli alleggerimenti fino a due settimane dopo, stava scendendo di duecento dollari al giorno. Perciò, indipendentemente da quale dei tagli abbia aiutato, e probabilmente vale per tutti, questo intervento ha migliorato gli incassi. Abbiamo ormai alleggerito tutte le stampe del paese e non sembra che la cosa abbia portato alcun male».
All’inizio Sam cercò di accettare la cosa stoicamente. Se non fosse stato per Feldman, non ci sarebbe mai stato Il mucchio selvaggio, lo sapeva meglio di chiunque altro. Ma più il tempo passava, più le ferite si infettavano. Quando tornò a Los Angeles, il giornalista Winfred Blevins intervistò Peckinpah e Feldman insieme. Quando Blevins chiese il numero esatto e i contenuti dei tagli, Sam rimpallò la domanda al suo produttore. Blevins scrisse in seguito: «[Feldman] cominciò a elencare le riprese e le sequenze una ad una. All’improvviso si sentì un rumore, e i piatti tremarono. Peckinpah aveva sbattuto il pugno sul tavolo, sembrava livido. “Vuoi dire che quella è fuori?”, riuscì a dire nell’empito di rabbia. “Sì, Sam”, disse Feldman tranquillamente, “pensavo di avertelo detto”». Dopo tutti i progetti che avevano dichiarato di voler fare insieme, tutte le promesse, i discorsi sul dovere e sugli obblighi che un uomo ha nei confronti del suo socio, il citarsi a vicenda battute del film – Verrò con te, capo. Quando ti unisci a qualcuno, resti con lui – il tradimento di Feldman – così lo vedeva Sam – divenne ancora più difficile da digerire. Negli anni seguenti avrebbe denigrato il suo ex socio con termini tanto raggelanti quanto quelli usati contro Jerry Bresler e Martin Ransohoff. Ashley fu raramente menzionato, anche se in realtà era stato lui a prendere la decisione che aveva costretto Feldman a mettersi in moto. In Sfida nell’Alta Sierra, Mariette Hartley chiede a Joel McCrea se ci andrà piano con Randolph Scott, se testimonierà a suo favore nel processo per il furto del carico d’oro. «No, non lo farò», risponde riluttante McCrea. «Perché?» «Perché», risponde con un misto di rabbia e dolore, «era mio amico». Sam riuscì ad avere una versione completa del Mucchio selvaggio dalla Warner Bros. come parte del risarcimento per una causa che mosse contro di loro per La ballata di Cable Hogue. L’avrebbe proiettata di tanto in tanto nei college,
durante le sue lezioni, o in cinema che affittava per un giorno, o nelle sale di proiezione di qualsiasi studio cinematografico in cui gli capitasse di trovarsi a lavorare. Eccetto queste proiezioni private, il pubblico americano non ha mai avuto l’opportunità di vedere presentato in un cinema Il mucchio selvaggio completo, così come Peckinpah lo aveva originariamente concepito. Il mucchio selvaggio precedette nei cinema Butch Cassidy di un paio di mesi, ma non danneggiò molto il suo contendente. Il veloce, raffinato western di William Goldman fece ottimi affari, incassando 46.039.000 dollari. Gli altri grandi vincitori di quegli anni comprendevano Easy Rider, l’odissea della controcultura, inesorabilmente di tendenza, che attirò moltitudini di spettatori vestiti di pelle tinta a nodi e incassò 19.10.000 dollari al botteghino. Un maggiolino tutto matto incassò 21 milioni di dollari; Un uomo da marciapiede 20.325.000 dollari; Il Grinta 14.250.000 dollari. Il mucchio selvaggio incassò 7.503.192 dollari durante il primo anno di uscita. Nel 1976 era salito a 13.099.790 dollari a livello internazionale – 5.241.207 dollari dal mercato interno, 6.280.336 dollari dai mercati esteri. Il passivo accumulato dal film ammontò a 6.224.087 dollari, quasi il doppio del budget originale, ma i costi erano stati gonfiati dallo studio con lo specifico obiettivo di assicurarsi che le persone associate agli utili come Peckinpah e Feldman non vedessero neanche un centesimo di entrate extra. Pratiche contabili creative come addebitare a un film i costi di tinteggiatura dei teatri di posa erano una procedura standard per molti studios di Hollywood. Feldman contestò alcune delle cifre della Warner, ma senza risultato. Oltre alle spese di produzione, la Warner aggiunse un alto tasso di interesse – 1.088.951 dollari – per i soldi che aveva anticipato per la produzione, più un 30% di tassa di distribuzione – 2.503.702 dollari – e addebiti esorbitanti per la produzione delle stampe – 643.929 dollari – e per spedizioni e pubblicità – 1.764.065 dollari. In questo modo la Warner poté sostenere che la
produzione era in passivo di 5.366.611 dollari dopo il primo anno di uscita. «È quasi impossibile per un film avere dei profitti netti», afferma il responsabile commerciale di Sam del tempo, Robert Schiller, «a causa di tutti quegli addebiti extra». E gli incassi riportati dallo studio non sono mai i veri incassi, ma coincidono con l’incasso del distributore dopo che il 30-40% è già stato sottratto dai proprietari delle sale. Kip Dellinger, che divenne il responsabile commerciale di Peckinpah nel 1972, osserva: «Il vero incasso al botteghino del Mucchio selvaggio potrebbe essere stato intorno ai 30 milioni. A quei tempi era una prassi accettata che le sale si prendessero dei soldi, il distributore se ne prendesse altri e lo studio caricasse i costi di produzione con una serie di spese assurde. Anche le vendite nei territori stranieri potevano essere molto distorte. Il distributore poteva vendere la pellicola a un’entità in un paese straniero che in realtà era di sua proprietà. Era il classico contratto “tra amici”: “Ti vendiamo Il mucchio selvaggio per 300.000 dollari e poi ti vendiamo Merda su un bastone e ci dai altri 300.000 dollari”. In realtà l’acquirente sta pagando 600.000 dollari per Il mucchio selvaggio, ma Merda su un bastone verrà accreditato per la metà dei soldi del Mucchio selvaggio». Così Il mucchio selvaggio era in passivo di 5.366.611 dollari nel primo anno di uscita. Nel 1976 aveva incassato altri 5.596.598 dollari, ma secondo i libri contabili della Warner il film ora era in rosso di 5.826.871 dollari. Lo studio pretendeva di far credere a chiunque fosse associato agli utili che più il film faceva soldi, più andava in perdita. Solo dopo la morte di Sam il film cominciò ufficialmente a produrre degli utili; oggi i suoi figli ricevono una modesta entrata del fatturato delle proiezioni cinematografiche e del mercato home video. A Peckinpah piaceva dare l’impressione ai giornalisti che non gli importasse niente di vincere un Oscar, ma nella primavera del 1970 nulla avrebbe potuto essere più lontano dal vero. Sam poteva aver amato il ruolo del ribelle, l’outsider che
aveva sfidato i power broker di Hollywood, ma un’altra parte di lui desiderava l’approvazione di quella stessa comunità, bramava, malgrado i suoi migliori sforzi per negarlo, un segno di riconoscimento da quella sfavillante e bastardissima divinità. Feldman e Peckinpah assunsero un addetto stampa, Joel Reisner, che preparò una campagna di pubbliche relazioni – feste promozionali, proiezioni speciali, interviste con la stampa, pubblicità nelle riviste di settore e una retrospettiva dei film di Peckinpah al County Art Museum di Los Angeles – creata per far vincere al Mucchio selvaggio un bouquet di Oscar. Sam revisionò le pubblicità, partecipò alla selezione dei cinema per il ritorno speciale del film e partì per tour pubblicitario al fine di promuovere la conoscenza del film e del suo regista. Ma la Warner Bros. si rifiutò di gettare grosse somme per la campagna, immaginando con buoni motivi che Il mucchio selvaggio e il suo regista fossero troppo rudi per essere onorati dall’Academy. Gli sforzi di Reisner non potevano competere con le lussuose feste organizzate dagli altri studios per tacchini ripieni come Anna dei mille giorni e Hello, Dolly!, feste che ammorbidivano i cervelli dei votanti con bottiglie di champagne e ne ammorbidivano l’integrità morale con entrecôte di manzo, prosciutto a fette, petti di pollo e dolci francesi. Il mucchio selvaggio ottenne solo due nomination agli Oscar, una per la colonna sonora di Jerry Fielding e l’altra per la sceneggiatura di Sickner, Green e Peckinpah: nessuna nomination per il montaggio (solo cinque dei centocinquanta tecnici del montaggio che facevano parte dell’Academy si presentarono alla proiezione che Reisner aveva organizzato per loro), per la regia (sebbene Sam fosse stato nominato come miglior regista dalla Directors Guild of America), né per il miglior film. Queste omissioni erano palesemente assurde, ma considerati i criteri da concorso di bellezza se non l’aperta corruzione su cui i premi si basano, fu già un piccolo miracolo che l’enfant terrible avesse ottenuto una qualche nomination. Il mucchio selvaggio perse in entrambe le categorie. L’Oscar per la migliore colonna sonora andò a Butch Cassidy e
William Goldman si aggiudicò quello per la migliore sceneggiatura. La migliore regia andò a John Schlesinger per Un uomo da marciapiede, che fu anche proclamato miglior film. Il tempo, grande livellatore, avrebbe corretto questa ingiustizia, sebbene Sam non vivesse abbastanza a lungo per vederlo. Il mucchio selvaggio esplose nelle sale americane nel 1969 come una bomba, senza dubbio il film più controverso di quella stagione. Ma da allora si è guadagnato lo status di rispettabile classico. La sua violenza, seppur comunque molto inquietante, ha perso il suo sensazionalismo sulla scia delle centinaia di bagni di sangue high tech (e profondamente nichilisti) che la seguirono. La scomparsa dell’elemento scioccante ha liberato la strada per un apprezzamento più profondo della complessità tematica, delle ricche caratterizzazioni e della visione epica e profondamente romantica. Il mucchio selvaggio appare oggi regolarmente nelle liste dei migliori dieci film di tutti i tempi. In un recente articolo sul New Yorker, Michael Sragow ha scritto che con Il mucchio selvaggio Peckinpah «ha prodotto un film che eguaglia o sorpassa il meglio di Kurosawa. Il mucchio selvaggio è il Crepuscolo degli dei del western». Ethan Mordden scrive nel suo recente libro, Medium Cool – The Movies of the 1960’s: «Il mucchio selvaggio non fu generalmente riconosciuto come uno dei film più simbolici (o anche solo importanti) della sua era. Dei titoli coevi, Easy Rider sembrava più accessibilmente memorabile, Alice’s Restaurant più simpaticamente controculturale, America, America, dove vai? più audace e Un uomo da marciapiede più artistico… Eppure Il mucchio selvaggio è un film sorprendentemente unico pressoché in ogni suo frame, il capolavoro di Peckinpah e, come gli appassionati stanno pian piano apprendendo, uno dei capolavori del cinema americano». È stato continuamente proiettato a Parigi in sale piene di gente dalla prima uscita venticinque anni fa, in cinema revival
e nei campus dei college, dove ha ispirato interi corsi dedicati esclusivamente all’opera di Peckinpah. Quando l’home video aprì un nuovo mercato nei primi anni Ottanta, Il mucchio selvaggio fu tra i primi venti film immessi sul mercato dalla Warner. Anche la versione originale fu poi pubblicata in cassetta, anche se le immagini ideate per il grande schermo dovettero essere ritagliate per la tv, distruggendo la composizione originale di Peckinpah, e la colonna sonora era in un torbido mono – tutte quelle ore trascorse in sala doppiaggio erano andate perdute. Riusciranno gli americani ad avere mai la possibilità di vedere uno dei più grandi film mai prodotti nel loro paese nella forma concepita dal suo creatore? Nei primi anni Novanta, Martin Scorsese, Robert Harris, Garner Simmons e Paul Seydor cominciarono a fare pressioni su diversi dirigenti della Warner Bros. per un’uscita nelle sale della versione di Peckinpah. Nel febbraio del 1993 i loro sforzi sembrarono essere ripagati. La Warner annunciò il progetto di lanciare sugli schermi una versione completamente restaurata in 70mm del film, con tanto di colonna sonora stereo in sei tracce originale. Dopo la première al Cinerama Dome di Los Angeles, il film sarebbe stato proiettato in quindici altre città americane, tra cui New York, Chicago, San Francisco e Boston. Poi, come una scena di un incubo in un fumetto, sopraggiunse un nuovo disastro. Non avendo realizzato che la versione di Peckinpah aveva già ricevuto una catalogazione R dalla MPAA nel 1969, la nuova generazione di dirigenti della Warner consegnò il film all’Associazione perché lo valutasse. Con grande disdetta dello studio, la MPAA catalogò il film come NC-17 (equivalente alla vecchia catalogazione X), il che rese il progetto di rilanciarlo nelle sale irrealizzabile sul piano commerciale. Presa così com’è, l’azione dell’MPAA è stata assurda. Dozzine di altri recenti film «d’azione» con Arnold Schwarzenegger, Steven Seagal, Sylvester Stallone e altri sono
pieni di cruda violenza che va molto oltre ciò che si trova nel Mucchio selvaggio. Perché queste due misure? Semplice: non era mai stato il carattere decisamente esplicito della violenza a rendere il film inquietante. Era l’abilità di Peckinpah nel provocare complesse reazioni a quella violenza, nel suscitare simultaneamente eccitazione e orrore nei suoi spettatori e portarli a guardare dentro di sé, nei loro cuori, che dava al film il suo straziante potere, un potere che ovviamente non era diminuito negli ultimi venticinque anni. La Warner cancellò prontamente il suo progetto di far uscire il film restaurato «a data da destinarsi», e la rubrica «Calendar» del Los Angeles Times della domenica si riempì di lettere di fan furiosi per le due successive settimane. Barry Reardon, vicepresidente della distribuzione della Warner, promise che un qualche compromesso sarebbe stato negoziato e che il film restaurato sarebbe finalmente arrivato nelle sale americane. Ma considerata la devozione mostrata in passato dallo studio nei confronti dell’eredità cinematografica, nessuno trattenne il fiato nell’attesa. Si può immaginare Peckinpah con il suo strano ghignosorriso che scuote la testa. Dopo tutti questi anni il suo lavoro suscita ancora controversie e passioni impetuose. «Finché susciti una reazione», disse al figlio Mathew nei suoi ultimi anni, «hai fatto il tuo lavoro. Se balzano in piedi e chiedono la tua testa o ti fanno una standing ovation, in ogni caso hai avuto successo. Fallisci solo quando non ottieni nessuna reazione».
8
«IMMAGINI CHE NON POTRANNO DIMENTICARE»
Sam Peckinpah aveva inseguito il sacro Graal dell’arte e della fama per più di vent’anni; ora lo teneva tra le mani. Per ottenerlo aveva sacrificato molto, forse troppo, ma come luccicava, lì sotto ai riflettori. Il mucchio selvaggio non aveva avuto che un successo marginale al botteghino, ma Time, Life, il New Yorker e dozzine di critici cinematografici intellettuali avevano dichiarato che Peckinpah era uno dei più grandi cineasti della sua generazione, un artista brillante in un’epoca in cui l’arte contava a Hollywood come mai prima. I tre anni successivi sarebbero trascorsi come un giro di otto secondi in groppa a un toro Brahma. Un’unica vorticosa scarica di azione – elettrizzanti balzi verso il cielo, curve improvvise, rovinose cadute a terra. Riuscì a resistere nonostante tutto, ma quei colpi ebbero un costo – danni inizialmente intimi, che nessuno poteva vedere, ma che poi col tempo divennero impossibili da non notare. La suite degli uffici di Sam alla Warner Bros. divenne un alveare di frenetici lavoratori. A volte, durante le riprese del Mucchio selvaggio e La ballata di Cable Hogue, c’erano quattro segretarie accalcate negli uffici più esterni. Lou Lombardo, Bob Wolfe e Frank Santillo allestirono sale di montaggio in sede, Jim Silke appariva fugacemente tra un progetto di scrittura e l’altro e Gary Weis e Gill Dennis avevano un ufficio per montare il loro documentario sulla realizzazione della Ballata di Cable Hogue. Robert Culp passava di frequente per parlare del loro copione di Summer
Soldiers, che Sam sperava di poter dirigere subito dopo, e il resto del Mucchio di Peckinpah – L.Q. Jones, Strother Martin, Jason Robards, Frank Kowalski, Jerry Fielding – si presentava chiassosamente e senza invito. Anche Joel Reisner, la mente della campagna per gli Academy Awards del Mucchio selvaggio, aveva una scrivania nella suite di Peckinpah. Alto più o meno come Sam e con la stessa esile costituzione, Reisner era irascibile, incredibilmente colto e incredibilmente innamorato del lavoro di Sam. Amava ripetere che Jean Renoir e Sam Peckinpah erano i due più grandi cineasti nella storia del cinema. Determinato a far ottenere a Sam i riconoscimenti che meritava, Reisner organizzò una guerra lampo delle pubbliche relazioni. Allestì una retrospettiva dell’opera di Peckinpah al County Art Museum di Los Angeles. Fu mostrato tutto, dagli episodi di The Westerner a Sfida nell’Alta Sierra, Sierra Charriba, «Noon Wine» e Il mucchio selvaggio, e Sam partecipò a incontri col pubblico. Reisner organizzò anche centinaia di interviste telefoniche e di persona con riviste e giornali in tutto il paese, tra cui quelle con Sight and Sound, la prestigiosa rivista del British Film Institute, con Film Quarterly e con altre pubblicazioni di rilievo. Programmò un tour europeo in cui Peckinpah fece un’apparizione al Sorrento Film Festival per una proiezione della Ballata di Cable Hogue, si fermò a Parigi per delle interviste con tutti i critici cinematografici seguaci della politica degli autori, tenne delle lezioni al British Film Institute e nelle scuole nazionali di cinema in Svezia e Danimarca. Reisner preparò un documentario radio di novanta minuti, Sam Peckinpah’s West, trasmesso su KPFK da Los Angeles, e lo fece invitare come ospite agli show di David Frost e Dick Cavett. Nelle loro vesti di alternative trendy e intellettuali alle ciance dello showbiz che si sentivano al Tonight Show di Johnny Carson, Frost e Cavett attirarono un folto seguito nei primi anni Settanta. Sotto la guida di Reisner, l’immagine pubblica di Peckinpah si cristallizzò. Sierra Charriba e Cincinnati Kid, due imponenti battute d’arresto, erano ora state trasformate in
trionfi al contrario, che aiutarono a tratteggiare il ritratto di Peckinpah come l’eccentrico genio che aveva visto i suoi migliori lavori macellati dai filistei di Hollywood. Sam contribuì con entusiasmo al revisionismo attuato da Reisner. Cominciò a dire ai giornalisti che, prima che Jerry Bresler lo facesse a pezzi, Sierra Charriba era stato «probabilmente il miglior film che abbia mai realizzato». Ma quando la Columbia gli concesse la possibilità di restaurarne la versione originale, rifiutò la proposta, sostenendo di non averne più il tempo. Sierra Charriba era più utile come capolavoro perduto che come fallimento riscoperto. Con grande entusiasmo, almeno all’inizio, Sam si reinventò per i media. Era ormai sparita ogni traccia del ricco figlio di avvocato che indossava sempre abiti più costosi dei suoi compagni. L’uniforme ora era completa: jeans sporchi, una polverosa bandana avvolta intorno alla testa brizzolata e un paio di occhiali da sole specchiati che nascondevano gli occhi. Ascoltandolo, si sarebbe pensato che avesse passato l’intera giovinezza, e non solo le estati, a fare il cowboy e a cacciare al Dunlap Ranch, che fosse cresciuto in una fatiscente capanna di tronchi, non in un ranch in espansione con giardini elegantemente progettati e uno squisito arredamento. Imparò a lanciare i coltelli, a conficcare le lame d’acciaio nelle porte e nelle pareti del suo ufficio e della sua casa. I mobili della cucina di Jerry Fielding erano incisi e scheggiati, bersaglio degli allenamenti di Sam ogni volta che andava a trovarlo sulle Hollywood Hills. Se un giornalista o un funzionario dello studio metteva piede nel suo ufficio, la risposta era pavloviana; Sam afferrava un coltello e lo lanciava. Parlava liberamente ai reporter delle sue sbronze, delle sue puttane e delle sue scazzottate. Anziché ridimensionare la sua reputazione – almeno all’inizio – la alimentarono, perché quella era un’epoca che godeva dell’eccesso, celebrava i ribelli e sosteneva gli anticonformisti. E qui, nel cuore della macchina di Hollywood, era emersa una bizzarra anomalia: un incrocio tra Ernest Hemingway, Hunter S. Thompson e Wild
Bill Hickok che, con volontà e spavalderia, aveva sfidato a pugni alzati la Mietitrebbia, il Sistema, e cavolo se non sembrava che stesse vincendo! Lo soprannominarono «Sam il Sanguinario», «il Picasso della Violenza», e divenne ben presto una star più famosa degli attori che apparivano nei suoi film. Ma la fama nascondeva un letale doppio taglio. Nessuno sembrava più ricordare che The Westerner era stato molto meno violento dei suoi concorrenti televisivi o rammentare le innocenti scene romantiche tra Elsa e Heck in Sfida nell’Alta Sierra o le sottili caratterizzazioni di «Noon Wine». Ora non volevano scrivere di altro che dei suoi «balletti di sangue»; non volevano che Sam parlasse d’altro che della violenza. «Erano tutte cazzate», dice Jim Silke. «Una sera dissi a Joel Reisner: “Fai un favore a Sam, lascialo perdere. Ciò che conta è quello che fa, non quello che tu racconti su di lui”, che era una citazione testuale di Sam. La cosa fece innervosire molto Reisner. Jerry Fielding mi abbracciò. Disse: “Qualcuno doveva proprio dirglielo”. Ma Reisner non si fermò e Sam stette al gioco. Sam non era mai stato il tipo di persona nelle condizioni giuste per aver a che fare con la pubblicità. Era in questo che era debole, secondo me. Quando le cose erano difficili, era un grande. Ma quando riceveva tutta quell’adulazione, non gli faceva bene. Perdeva la prospettiva. Aver a che fare con quel genere di attenzione è una cosa incredibile. Non so come Sam riuscisse a non perdere la testa… Non credo sia mai più riuscito a essere molto felice, in seguito». Beveva di nuovo pesantemente, abbandonati i limiti osservati durante le riprese del Mucchio selvaggio. Cominciava con la vodka nel pomeriggio per poi passare la sera al whisky o alla tequila o a qualunque altra combinazione di superalcolici, senza risentirne gli effetti fino alle ore piccole. Riusciva comunque a lavorare e i suoi istinti intellettivi e creativi erano ancora affilati come rasoi, ma gli sbalzi d’umore stavano diventando più radicali.
Insieme a tutto il resto, anche i coinvolgimenti amorosi avevano subito un’accelerazione. I suoi rapporti sessuali non erano mai stati più soddisfacenti e più instabili. Durante le riprese del Mucchio selvaggio era stato confortato dalle grazie delle due più belle attrici messicane sul set, Yolanda Ponce e Aurora Clavel. Ora che era tornato a Los Angeles, entrambe gli scrivevano appassionate lettere d’amore che terminavano inevitabilmente con richieste di denaro. Non mandava mai loro tanto quanto chiedevano, ma mandava sempre qualcosa. Quasi tutte le sue segretarie facevano gli straordinari come amanti; aveva un suo harem allestito nella suite alla Warner con da due a quattro donne pronte per lui in ogni momento. Un alto numero di bellissime, giovani donne bramavano per godersi un pezzo dell’uomo che era stato salutato come un genio del cinema. Mentre viaggiava in tutto il paese e attraverso l’Europa nel 1969, 1970 e 1971, si lasciò alle spalle più di una dozzina di brevi ma intense relazioni. Serviva pochissima persuasione per mettere le donne nel sacco, e ce n’erano davvero poche – comprese le mogli e le fidanzate dei suoi soci – che non riusciva a sedurre se si metteva in testa di farlo. La corrispondenza di Sam dal 1969 al 1972 straborda di lettere ormonali scritte da donne perdutamente innamorate che professavano la loro disperata e inestinguibile passione per il maestro. Se una segretaria, una groupie o un’altra ingenua preda non era disponibile, c’era sempre l’elenco con i numeri di telefono delle puttane che teneva sempre a portata di mano nel suo ufficio. Farne una lista non era stato difficile; i dirigenti degli studios, gli agenti, i registi, i produttori e le star di Hollywood sostentavano una fiorente industria della prostituzione. Ma persino un entusiastico compagno di marchette come Frank Kowalski aveva cominciato a notare come il desiderio sessuale di Peckinpah fosse diventato una compulsione alimentata da un’allarmante isteria latente. «Eravamo in Messico una volta, subito dopo aver finito La ballata di Cable
Hogue, e questa infermiera messicana venne nella stanza d’albergo di Sam per fargli il vaccino antinfluenzale o qualcosa del genere. Era un donnone di novanta chili, che non si sarebbe potuta considerare attraente neanche con la più vivida delle immaginazioni. Così Sam si abbassa i pantaloni e si piega, e mentre l’infermiera gli infila l’ago nel culo lui si allunga all’indietro per cercare di palpeggiarle i seni. Fu stranissimo! Pensai tra me e me: è la più strana dimostrazione di emozione umana che abbia mai visto!» Di tanto in tanto l’isteria emergeva. Jason Robards, che aveva una casa in affitto a Malibu, passava spesso da Sam a Broad Beach o all’ufficio alla Warner Bros. durante la pre- e la postproduzione della Ballata di Cable Hogue. Al tempo Robards si era innamorato di Lois O’Connor, produttrice associata di «Noon Wine», e aveva deciso di sposarla. Sam e Lois erano stati amanti per un po’ quando entrambi stavano lavorando per Martin Ransohoff durante la preproduzione di Cincinnati Kid. Ma la volubilità di Sam aveva portato il rapporto a schiantarsi e bruciarsi poco dopo il decollo. Ora Robards voleva che Sam facesse da testimone al suo matrimonio. Sarebbe stata una piccola cerimonia civile ufficiata da un giudice della Corte Suprema a casa di Jason, con solo pochi amici presenti. Sam si presentò la mattina del matrimonio con uno smoking bianco con un fiore di melo sul bavero e una cravatta color oro regalatagli da Robards. Gironzolò per la casa tutto il giorno mentre la sposa e lo sposo si preparavano per la cerimonia. La radio era accesa e trasmise il tema del Mucchio selvaggio. Robards notò uno strano tiro alla fune di emozioni sul volto di Peckinpah. Poi Lois scese le scale nel suo abito da sposa. Sam scrisse in una lettera anni dopo che non avrebbe mai dimenticato Lois «scendere le scale con in testa – boccioli strappati alla nebbia e indossati col sole». Si alzarono al cospetto del giudice. Al momento indicato, Sam passò l’anello a Jason. La sposa e lo sposo si scambiarono le loro promesse, si guardarono amorevolmente negli occhi, si baciarono teneramente e furono dichiarati
marito e moglie. Le persone si avvicinarono per congratularsi. Sam, che era rimasto rigido in piedi, all’improvviso scoppiò a piangere senza controllo. Prima che qualcuno degli scioccati astanti potesse fare qualcosa, si voltò e scappò via senza più ritornare, almeno quel giorno. Peckinpah aveva acquistato i diritti della Ballata di Cable Hogue nel 1967, mentre si barcamenava ancora con lavoretti per la tv per far quadrare i conti. John Crawford e Edmund Penney avevano scritto l’ossessionante, allegorica sceneggiatura che parlava di un testardo prospettore del deserto che scopre una pozza d’acqua lungo il percorso delle diligenze agli albori del ventesimo secolo. Cable Hogue rivendica per sé l’acqua e apre una stazione di sosta per le diligenze che risponde ai bisogni degli stremati viaggiatori. Per un certo periodo si arricchisce, ma poi fa il suo ingresso nel paesaggio del West l’automobile. In un batter d’occhio, le diligenze e Cable Hogue stesso sono obsoleti ed entrano a far parte del passato. Quando Ken Hyman diede il via libera al progetto nell’agosto del 1968, Gordon Dawson e Sam operarono una minima riscrittura, aggiungendo scene comiche, condensando alcune sequenze e tirando a lucido i dialoghi di altre. Il film sarebbe stato un tributo al prozio di Sam, Moses Church, a suo nonno, Charlie Peckinpah, e a tutti gli altri imprenditori senza legge che si erano costruiti i loro imperi in una grande terra selvaggia nel diciannovesimo secolo, per poi svanire nell’oscurità quando il «progresso» gli passò accanto. La squadra di Peckinpah – Dawson, che sarebbe stato produttore associato (non accreditato), il direttore della fotografia Lucien Ballard, il direttore artistico Leroy Coleman e l’attrezzista Bobby Visciglia – mise in moto la preproduzione a tutta velocità nel dicembre del 1968. Jason Robards avrebbe interpretato Cable Hogue, Stella Stevens una prostituta, Hildy, di cui Cable si innamora, e l’inglese David Warner avrebbe interpretato il lascivo reverendo Joshua Duncan Sloane, auto-ordinatosi ministro della «chiesa del viandante sperduto, una chiesa di mia
personale rivelazione», che diventa amico di Cable. Strother Martin e L.Q. Jones avrebbero ridato vita ai loro demoniaci Stanlio e Ollio nei ruoli di due ex compagni di Hogue che lo tradiscono e contro i quali il protagonista medita vendetta, e la compagnia di repertorio di Peckinpah avrebbe composto il resto del cast. Il film doveva essere girato in trentasei giorni nella Valley of Fire, a est di Las Vegas, e in Arizona, con il misero budget di 880.000 dollari. Ma quando le riprese cominciarono nel gennaio del 1969, la semplice pellicola a basso budget divenne un pantano finanziario. La «Valle del fuoco» divenne la Valle dei temporali. Piogge torrenziali e problemi logistici e tecnici portarono la produzione a dieci giorni di ritardo sul programma nel primo mese di riprese. Peckinpah sfogò le sue frustrazioni sulla troupe. Licenziò trentasei persone dalla produzione, con una media di una al giorno. I licenziamenti erano così frequenti che un’auto fu lasciata sul set con lo scopo precipuo di portare i caduti, mentre una navetta trasportava le vittime all’aeroporto di Las Vegas e la carne da macello via dalla valle. Sam fece fuori riparatori di cineprese, aiuti regista, servizi di catering, autisti, un addestratore di animali, un arredatore di scena, un proiezionista, un tecnico delle luci, un macchinista, un truccatore e il responsabile di produzione Dink Templeton. Sam aveva assunto Sharon e il suo fidanzato, Gary Weis – un talentuoso fotografo di scena – per girare un documentario in 16mm sulla realizzazione del film. Ma anziché essere affascinata dal compito, Sharon era disgustata dal modo in cui suo padre trattava la troupe e indignata dall’uso degli animali in molte scene. La sceneggiatura della Ballata di Cable Hogue prevedeva che, nel ricavarsi con le unghie un’esistenza nell’arido deserto, Hogue uccidesse lucertole e serpenti a sonagli, conigli e uccelli per farne spezzatini di carne. Sam insisteva perché fossero usati animali vivi e perché alcuni fossero uccisi davanti alla cinepresa.
Quando Gary Weis apprese che Sam voleva colpire una lucertola viva in una ripresa e farla saltare in aria in slow motion per simulare il colpo di un fucile, mise in piedi la campagna «Salvate la lucertola!» «Cominciai a lasciare in giro questi bigliettini fantasma, sull’auto di Sam, sulla bacheca dell’hotel dove venivano affissi tutti gli avvisi della produzione», dice Weis. «Dicevano cose tipo Uccidere una lucertola di giovedì porta cento anni di sfortuna. – Akira Kurosawa. Firmavo sempre con i nomi degli idoli di Sam». Gli sforzi di Weis furono vani. Sam fece saltare in aria la lucertola comunque. Sharon era inorridita. Vedere tutti quei conigli intrappolati nelle loro piccole gabbie, sapendo che sarebbero stati massacrati per la scena di un film, era insopportabile. Di nuovo la stessa storia dei cuccioli di Simbo; a farla infuriare era il modo in cui lei, le sue sorelle e suo fratello, tutto e tutti venivano sempre al secondo posto dopo i film, e lo disse a suo padre. Sam le rispose a tono: «Chi pensi paghi per la tua istruzione?», e la denigrò definendola un’ingenua. Ma era un parlare a vuoto – in realtà i dardi verbali di Sharon lo avevano ferito. «Sharon e Gary lo avevano davvero colpito», afferma Gill Dennis, uno stagista dell’AFI nella produzione che finì per co-dirigere il documentario. «Lo fecero sentire talmente in colpa. Ogni volta che Bobby Visciglia tirava fuori un coniglio per ucciderlo per una ripresa, Gary riprendeva e zoomava con la cinepresa, sapete?» Il confronto finale giunse quando Sam convocò Sharon e Gary nella sua stanza d’albergo, una sera. Si lanciò in una tirata contro la figlia maggiore, accusandola di infedeltà. Aveva la minima idea di quanto fosse stressante dirigere un film? Con la pressione che sentiva addosso aveva bisogno di tutto il supporto morale possibile, invece lei lo aveva tradito. La rabbia di Sharon uguagliava la sua. Gli disse che non credeva in ciò che stava facendo. «Pensi che per fare uno stupido film valga la pena ferire così tante persone? Tutte le
persone che hai licenziato, tutte le persone che hai umiliato e avvilito, ci pensi mai?» All’improvviso Sam scoppiò a piangere. «Te ne devi andare da qui», urlò. «Me ne vado!», disse Sharon, correndo verso la porta. «Fu un momento imbarazzante, mi fece venire un nodo alla gola», racconta Gary Weis. «Fu imbarazzante, crollò, pianse, lacrime vere, singhiozzava. Fu devastante, mi intristì molto». Le riprese della Ballata di Cable Hogue terminarono il 1 aprile 1969, diciannove giorni oltre il programma; quando la postproduzione finì accumulò un totale di 3.716.946 dollari di spese finali, quasi tre milioni oltre il budget originale – con grande dispiacere di Feldman. Feldman la trovava una pellicola carina ma, con un’etichetta del prezzo pari a quasi quattro milioni, prevedeva pochissime possibilità di guadagno. Dopo aver terminato le riprese, Peckinpah tornò a Los Angeles e finì la postproduzione del Mucchio selvaggio. Poi, mentre il film andava in distribuzione, partì a luglio per le Hawaii, dove avrebbe fatto buona parte del montaggio della Ballata di Cable Hogue con Frank Santillo, lo stesso maestro che aveva lavorato a Sfida nell’Alta Sierra. Quando Lou Lombardo ebbe completato gli ultimi ritocchi a Il mucchio selvaggio, si unì anche lui alla squadra. In autunno Peckinpah tornò alla Warner Bros. per le ultime fasi della postproduzione: la divisione in anelli, la colonna sonora e il doppiaggio del film. A questo punto il regime di Ted Ashley e John Calley aveva assunto le redini della Warner Bros. Poiché la pellicola era stata approvata da Ken Hyman, non nutrivano nei suoi confronti alcun particolare interesse. Se avesse fatto fiasco al botteghino avrebbero potuto considerarla un altro dei fallimenti di Hyman e chiedere una generosa deduzione sulle tasse. E quando, all’insaputa di Sam fu proiettato per i distributori della Warner Bros., ad agosto, un montaggio
grezzo del film da due ore e mezzo, si convinsero che si trattava proprio di un fiasco. Il film era a tratti divertente, ma sconnesso, troppo lungo, e il finale era deprimente. Sam fu inorridito dal fatto che fosse stato proiettato in una forma così grezza. «Non era un montaggio completo», spiegò a Garner Simmons, «era un montaggio grezzo senza la colonna sonora e gli effetti». Sam e Phil Feldman si parlavano a malapena, ma fecero fronte comune per salvare La ballata di Cable Hogue. Feldman spiegò ai pezzi grossi della Warner che sarebbe stata tagliata un’altra mezz’ora. Li pregò di sospendere ogni giudizio fino alla visione del montaggio finale. Ma i dirigenti non furono smossi dal suo appello. Alcuni suggerirono di girare di nuovo il finale. Invece di far morire il protagonista, perché non farlo scappare a New Orleans con Hildy, la puttana dal cuore d’oro, e farli vivere per sempre felici e contenti? Persino Feldman fu sconcertato da questa proposta, che sovvertiva interamente l’idea di base del film. Quando appoggiò il rifiuto di Sam a scendere a compromessi, i dirigenti si strinsero nelle spalle. Diedero a Peckinpah carta bianca per ultimare il film come preferiva, non per rispetto nei confronti del suo talento artistico, ma per apatia. Semplicemente, il film non valeva un’altra battaglia contro Peckinpah. Feldman sperava che le anteprime li avrebbero salvati. Se al pubblico fosse piaciuto il film, di certo i pezzi grossi della Warner avrebbero cambiato atteggiamento. Con la durata portata intorno alle due ore, La ballata di Cable Hogue ebbe la sua première a Long Beach e a New York alla fine di gennaio e all’inizio di febbraio. Il 70% dei fogli dei commenti lo giudicava da buono a eccellente. Ma non fu abbastanza per far cambiare atteggiamento alla Warner nei confronti del film. La ballata di Cable Hogue fu relegato ai cinema di seconda visione in tutto il paese, con a malapena uno straccio di investimento commerciale – un cartellone su Sunset Boulevard, una pubblicità nelle riviste di settore, un’altra pubblicità di solo un quarto di pagina nei quotidiani e nessuna
pubblicità in radio o in tv. «La Warner Bros. non l’aveva fatto uscire», dice Stella Stevens, «lo aveva scaricato». Sebbene alcuni critici trovarono il suo stile allegorico pesante e pretenzioso, il film ottenne molti elogi, e recensioni positive quanto quelle per Il mucchio selvaggio. Ma le recensioni non bastarono a salvare La ballata di Cable Hogue. Dopo un paio di settimane nei cinema di seconda visione sprofondò nella seconda metà degli spettacoli doppi del circuito dei drive-in e delle grindhouse, per poi sparire del tutto. Nel 1973 aveva incassato un totale di 2.445.863 dollari. Devastato e furibondo, Peckinpah denunciò la Warner Bros. alle conferenze stampa e nelle interviste, e fece causa allo studio per aver danneggiato la sua reputazione professionale. La causa non si reggeva su alcuna motivazione legale e la Warner Bros. riuscì a portarla fuori dal tribunale. Successivamente, quando Peckinpah appariva nei campus dei college e ai festival cinematografici, il film che voleva più intensamente veder proiettato era La ballata di Cable Hogue. Lo definì spesso il suo film preferito ed è facile capire perché, visto che metteva a nudo il tenero lato nascosto di questo artista turbolento e spesso incompreso. Oggi, a oltre venti anni dalla sua uscita, si mostra come un film sorprendentemente unico e stilizzato, ma viziato proprio in uno dei suoi elementi centrali: la storia d’amore tra Cable e Hildy. Il rapporto tra i due è stranamente poco sviluppato (rispetto agli standard di Peckinpah). La sequenza di «Butterfly Mornings» in cui Robards e la Stevens cantano una all’altro, si lavano a vicenda, colgono fiori insieme e si servono la colazione a letto, manca di sentimento in un modo che disturba – è tanto vuota quanto la sequenza di «Raindrops Keep Falling on My Head» in Butch Cassidy. Se Il mucchio selvaggio dà prova dell’incredibile vastità e profondità della visione artistica di Peckinpah, La ballata di Cable Hogue ne rivela i limiti.
Questi limiti non riguardano l’artigianalità o la creatività – La ballata di Cable Hogue è realizzato in maniera stupenda; la messa in scena audace e l’immaginario luminescente confermano Peckinpah come uno dei grandi artisti originali del cinema americano. I limiti sono definiti dalle cicatrici psicologiche dell’artista stesso. Peckinpah era stato molto più intenso, convincente e introspettivo nel ritrarre il fallimento dell’amore in «Noon Wine» e lo sarebbe stato di nuovo nel suo film successivo. Non è un caso che il momento più commoventemente genuino tra Robards e la Stevens abbia luogo nella scena della cena, in cui la vendicativa gelosia di Cable allontana Hildy. Sam conosceva quel momento anche troppo bene. Ma le scene d’amore vere e proprie, che Sam aveva inteso come un’«affermazione della vita», restano piatte e superficiali come un biglietto di San Valentino comprato da Hallmark. L’immagine da ragazza da calendario di Hildy rivela un difetto congenito nella sua visione delle donne. Sono adorate come meravigliosi oggetti, desiderate da lontano, vale la pena battersi per loro e possederle, ma non sono mai veramente comprese come esseri umani a tutto tondo. (Le uniche eccezioni sono le donne più anziane, come Olivia De Havilland in «Noon Wine» o Ida Lupino nell’Ultimo buscadero. Quando non sono più mature per la conquista sessuale, a Peckinpah riesce più facile scoprire la loro umanità.) Ma quando il focus della Ballata di Cable Hogue si sposta verso il racconto allegorico di un imprenditore del Selvaggio West che ha trovato l’acqua dove non c’era, il film funziona in maniera superba. Nella sua sostanza più profonda, il film non è che un’ulteriore espressione del lutto per la morte del Vecchio West. Mai prima o dopo Peckinpah ne drammatizza la scomparsa con una tale consapevole stilizzazione. L’immaginario da sogno del film – appassionato, bizzarro, caldamente sentimentale – eguaglia le migliori pagine di Fellini.
Sam continuava a partire ogni autunno verso le montagne dell’Est Nevada per la sua spedizione di caccia annuale con i Walker River Boys. Ma stavolta anche la fredda aria innevata dell’High Country portava con sé l’inconfondibile sentore dell’isteria di Hollywood. Non aveva ancora finito il montaggio della Ballata di Cable Hogue quando partì per una settimana nelle Shell Creek Mountains, nel novembre del 1969. Il giorno dopo Lou Lombardo ricevette una telefonata nella sua sala montaggio alla Warner Bros. Era Sam che chiamava dalla sua stanza d’albergo a Ely. Aveva avuto un’improvvisa ispirazione riguardo al film e aveva bisogno di parlare con Lou immediatamente. «Porta il culo quassù, Lombardo, adesso!» Non c’era modo di volare fino a Ely, perciò Lombardo e Frank Kowalski presero un aereo per Las Vegas, affittarono una Thunderbird del 1969 nuova di zecca, la caricarono di casse di birra e Jack Daniel’s e si avventurarono verso nord nella notte. «Beviamo whisky, sfrecciamo lungo la strada, non c’è nessuno», racconta Lombardo. «Arriviamo a Ely il giorno dopo, all’hotel di Sam, ma lo manchiamo di un pelo. Era partito per l’accampamento sulle montagne. Che altro è Ely se non una città di caccia con un sacco di bordelli? Non andiamo a dormire. Lo abbiamo mancato, ripartiremo la mattina, perciò ci sediamo ai tavoli di blackjack e giochiamo tutta la notte. Vinsi 1800 dollari e a quei tempi, con i tavoli che accettavano puntate massime di trenta dollari, era una cosa difficile da fare. Frank Kowalski vi dirà che fu lui a vincere i soldi, ma mente. Frank era troppo ubriaco persino per leggere le carte. Fui io a vincere». «Lou vi ha detto che vinse lui tutti i soldi?», domanda Kowalski con un infuriato bagliore negli occhi quando si tocca il tema di quel viaggio. «È un bugiardo. Non saprebbe vincere 1800 dollari al blackjack nemmeno se la sua vita dipendesse da questo. Vinsi io quei soldi. Giocai tutta la notte; si alternarono vari banchi, ma era la mia serata fortunata. Non potevo perdere e lo sapevo, così continuai a giocare e a vincere».
Alla fine, alle 6.30 del mattino, presero una stanza e dormirono un paio d’ore. Quando si svegliarono, riposati e pronti a rimettersi in marcia, Kowalski contò i soldi che straripavano dai suoi jeans ed ebbe un’ispirazione improvvisa: «Compriamo i bordelli e portiamo le ragazze su al campo!» Andarono in tre diversi bordelli, affittarono sei ragazze, le accalcarono nella Thunderbird e rombarono verso le montagne. Seguendo le indicazioni lasciate loro da Sam, arrivarono fino all’area dell’accampamento di caccia ma non riuscirono a trovare la strada sterrata dove dovevano girare. Andarono avanti e indietro lungo lo stesso tratto dell’autostrada, passando due volte accanto a un gruppo di cowboy che stava caricando il bestiame su un rimorchio. Le teste coriacee dei cowboy si giravano mentre la T-bird e il suo carico glitterato sfrecciavano accanto a loro. Al terzo passaggio uno di loro fece segno a Lombardo di fermarsi. «State cercando Peckinpah?» «Sì, dov’è?» «Prendete la strada sterrata lì, per circa otto chilometri in mezzo agli alberi; quando arrivate alla fine, li troverete accampati lì. Ma state attenti, su una strada come quella non potete andare a più di 10 chilometri all’ora». «Be’», racconta Lombardo, «ora sto volando su questa cazzo di strada e ci sono delle rocce che urtano il pianale della Thunderbird nuova. Boom! Bam! Bong! È il tramonto e irrompiamo nel campo. Sono tutti seduti lì intorno al fuoco e noi arriviamo urlando nell’accampamento, le ragazze cadono fuori dall’auto e mi urlano contro, io vado verso Sam e lui mi dice: “Quanto ci hai messo?”» La mattina dopo Sam chiese a suo fratello di prestargli l’auto per riportare le ragazze a Ely insieme a Kowalski. «Okay», disse Denny, «ma riportamela per oggi pomeriggio alle quattro». «Nessun problema», rispose Sam e prese le chiavi. E partirono giù per la montagna verso la città. Una cosa tira l’altra e Sam e Frank non ripartirono verso il campo prima
delle nove del mattino dopo. Lungo tutta la strada verso il campo Sam tenne il volante serrato tanto da farsi diventare bianche le nocche, borbottando ansiosamente su quanto Denny sarebbe stato arrabbiato e cosa avrebbe potuto fare. Quando accostarono nell’accampamento, era deserto. Tutti erano andati a caccia – tutti eccetto Denny. Era seduto accanto al fuoco, il viso coriaceo concentrato sulle pallide fiamme, come se non avesse notato il ritorno del figliol prodigo. Sam e Frank balzarono giù dall’auto e lo chiamarono con falso entusiasmo. «Ciao, Denny!» Denny non rispose. L’aria era fredda e pungente e si avvicinarono al fuoco di fronte a lui per riscaldarsi. Ci fu un lungo, imbarazzante silenzio, poi Denny si alzò e girò intorno al fuoco verso il fratello minore, con lo stesso portamento virtuoso di Steve Judd in persona. Si fermò accanto a Sam, gli occhi in fiamme, e disse piano: «Mi hai mentito». «Sam era bianco, assolutamente bianco», ricorda Kowalski. «Non lo avevo mai visto così prima. Non disse una parola a Denny, non riusciva nemmeno a guardarlo». Denny si girò lentamente, spostando lo sguardo da Sam a Kowalski, e disse con lo stesso tono: «E mi hai mentito anche tu». Poi si voltò e si allontanò. Con l’uscita (o lo scarico) della Ballata di Cable Hogue, i selvaggi e inebrianti giorni alla Warner Bros. giunsero al termine. Se il film fosse stato un successo, Sam Peckinpah avrebbe potuto avere una carriera molto differente. Ma il fallimento della Ballata di Cable Hogue consolidò la percezione dei power broker che Peckinpah fosse un regista d’«azione», una versione più isterica di Andrew McLaglen o Michael Winner. Con una sola splendida eccezione, i progetti per cui Sam riuscì a trovare finanziamenti furono pieni di sparatorie, inseguimenti automobilistici ad alta velocità e sangue che zampillava. Avrebbe dovuto agguantare frammenti di poesia e senso tra i corpi in caduta prima che i personaggi piazzassero un altro colpo in canna e riaprissero il fuoco.
La causa legale e gli attacchi pubblici di Peckinpah contro il nuovo regime della Warner Bros. mise fine al suo rapporto con lo studio. La Warner aveva annunciato il progetto di produrre un altro film di Peckinpah, Summer Soldiers, ma il film fu bruscamente cancellato. E Sam perse anche altri due allettanti progetti, Crow Killer di John Milius, che divenne poi Corvo rosso non avrai il mio scalpo, e un adattamento dello straziante romanzo di James Dickey Deliverance. In entrambi i casi gli scrittori fecero molte pressioni per avere Peckinpah come regista, ma la Warner si oppose. Dickey incontrò Sam personalmente per discutere di come avrebbe affrontato l’adattamento di Deliverance per il grande schermo e per vedere se ci fosse la minima possibilità di convincere la Warner a ripensarci. «Volevo Peckinpah perché lo consideravo il miglior regista d’azione del cinema e mi piaceva moltissimo il suo lavoro», dice Dickey. «Parlammo per quasi un giorno intero. Quando ci stringemmo la mano per salutarci, mi disse: “Be’, sai, se non mi lasceranno fare questo film, faremo qualcosa in seguito. Ma ricorda sempre questo, io e te facciamo la stessa cosa, io con le immagini sullo schermo e tu con le parole su carta. Cerchiamo di dare loro delle immagini che non potranno dimenticare”. Risposi: “Insisterò su di te, ci puoi scommettere”». Ma gli sforzi di Dickey furono vani; la Warner non voleva più avere a che fare con Peckinpah. Da lavoratore svincolato, Sam fece il giro di vari studios e produttori indipendenti, cercando i finanziamenti per Castaway, Hi-Lo Country e gli adattamenti di altri due libri di Max Evans, One-Eyed Sky e My Pardner. Ma i produttori consideravano questi soggetti o troppo bizzarri o troppo «soft». Dov’erano tutti quei famosi balletti di sangue di Peckinpah? C’erano altri due romanzi che Sam moriva dalla voglia di trasporre in film: l’aspra visione dietro le quinte di Hollywood di Joan Didion, Play It As It Lays, e il grandioso capolavoro di Ken Kesey Sometimes a Great Notion, che narrava la storia di una famiglia di commercianti di legname dell’Oregon che aveva un’impressionante somiglianza con i Peckinpah. Ma i
produttori non prendevano nemmeno in considerazione Sam perché davano per scontato che le sottigliezze psicologiche di entrambi i libri fossero al di là delle sue capacità. Daniel Melnick desiderava sfondare nei lungometraggi, così Peckinpah gli portò Castaway, ma come Feldman, Hyman e quasi ogni altro produttore a cui lo mostrò, Melnick non sapeva cosa fare con quella bizzarra opera da incubo. Era certo, però, che non ne avrebbe fatto un film. Ma Melnick possedeva i diritti di un romanzo, The Siege at Trencher’s Farm, di uno scrittore scozzese di nome Gordon M. Williams. Lo aveva mostrato a Martin Baum, capo della neonata ABC Pictures, una divisione della rete televisiva. (Le commissioni che le reti dovevano pagare per mandare in onda contributi artistici avevano cominciato a raggiungere le stelle, per cui la ABC decise di eliminare l’intermediario producendosi i film da sola.) Baum concordava con Melnick: The Siege at Trencher’s Farm aveva il potenziale per diventare un grande film «d’azione». Narrava la storia di un professore di college americano che si trasferisce con la moglie e la figlia in un cottage nella campagna inglese, dove spera di trovare pace, quiete e tempo per finire di scrivere il suo libro. Ma la famiglia è terrorizzata da un gruppo di hooligan del posto che, all’apice del racconto, mettono sotto assedio il cottage dell’americano. Il professore è costretto a difendere la sua famiglia e, messo con le spalle al muro, lo fa con brutalità e pieno successo. Si trattava di un melodramma di pura exploitation, con una trama vecchia quanto il cinema: il mite topo di biblioteca è spinto all’esasperazione, la sua apparente passività viene incrinata e si scaglia contro i suoi tormentatori con la collera di un gatto selvatico, uscendone vittorioso. La storia era stata usata in centinaia di film western, gangster e di boxe, persino da comici come Buster Keaton, Harold Lloyd e Harry Langdon. I frequentatori di cinema l’avevano già vista molte, molte volte ma, come con le arachidi salate, non ne avevano mai abbastanza.
Melnick pensò che l’esile narrazione e i personaggi potessero essere trasformati in qualcosa di più consistente. Vide delle possibilità in una storia che parlava di un pacifista liberale della East Coast che si ritrova gettato in un inferno di violenza, obbligato a lottare per la sua vita e di conseguenza a confrontarsi con la sua brutalità repressa. Se qualcuno poteva farne un film di una certa importanza, quello era Peckinpah. Martin Baum, che aveva visto e amato Il mucchio selvaggio, era d’accordo. Melnick aveva già commissionato una sceneggiatura a David Zelag Goodman, che aveva scritto Amanti ed altri estranei e l’adattamento per il romanzo western di Jack Schaefer Monte Walsh. Ma a Baum non era piaciuto il copione di Goodman, perciò la ABC offrì a Sam 200.000 dollari per riscriverlo con Goodman e dirigere il film. Ancora una volta veniva chiesto a Sam di tessere il lino in oro, e Baum e Melnick gli avevano promesso di lasciargli carta bianca. Rispettava Melnick e si fidava di lui, ma accettò questo compito non senza una certa amarezza; aveva detto in svariate occasioni alla stampa che non avrebbe più realizzato altri bagni di sangue come Il mucchio selvaggio. Intrappolato dai suoi stessi bisogni psicologici e finanziari nel gioco ad alta posta di Hollywood, sentì di non avere scelta. Una sera verso la fine del maggio 1970, poco prima di partire per Londra, Sam si sedette a bere nella casa nella Colonia di Malibu che aveva affittato dopo la fine delle riprese della Ballata di Cable Hogue. Con lui c’era Joe Bernhard – l’amico dai tempi delle scuole elementari a Fresno che aveva abbandonato la vita frenetica di Hollywood e viveva ora, come Hogue, in una baita sgangherata sulle erbose colline di Madera County. Sam chiamava affettuosamente Joe «Orr», dal nome del pilota che era fuggito dalla follia della seconda guerra mondiale in Comma 22. «Va bene», disse Sam a Bernhard quando la bottiglia in mezzo a loro fu quasi vuota. «Vogliono vedere cervelli che volano? Gli darò cervelli che volano!» Affittò un appartamento a due piani arredato con gusto a Eaton Mews, nel cuore di Londra; i suoi 500 dollari netti al giorno lo rendevano perfettamente alla sua portata. Ken
Hyman aveva fondato una società di produzione a Londra e operava al di fuori del quartier generale della Universal a Piccadilly e Hyde Park. Diede a Sam una suite nello stesso edificio e lo presentò all’élite cinematografica della città. Tutti morivano dalla voglia di stringere la mano al regista hollywoodiano del momento che era venuto a Londra per realizzare il suo primo film europeo – Peckinpah era ancor più riverito in Inghilterra che in patria. Le notti erano piene di eccitanti avventure; nessuna città era viva quanto Londra verso la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Ma i giorni di Sam erano consumati da un orrore fin troppo familiare: scrivere. Martin Baum aveva ragione; il copione di David Goodman necessitava di tanto lavoro. Ma Goodman era un abile artigiano e aveva dato a Sam l’essenziale: una solida struttura e le componenti base dei personaggi e dei loro conflitti drammatici. Cosa c’era in quella storia, si chiedeva Sam mentre sfogliava il copione di Goodman una seconda e una terza volta – che invogliava il pubblico americano a vederla ancora e ancora? Un uomo per bene, amante della pace, è assediato da forze malefiche che si precipitano contro di lui da ogni direzione. Alla fine il mite eroe è spinto fino all’orlo dell’abisso e trasformato – come Gesù nel giorno del giudizio – da pacifista a virtuoso guerriero. Era una fantasia di potere per gli uomini borghesi – uomini assediati da addetti al recupero crediti, capi tirannici, matrimoni raffreddatisi per motivazioni troppo contorte da comprendere e demoni interiori che consumavano la loro autostima. Radunati nell’oscurità del cinema, gli spettatori potevano godere dello spettacolo di un loro eroico alter ego che devasta i surrogati dei loro nemici, conquistando la vita anziché esserne conquistato. Quella rabbia nascosta sembrava emergere dalle fenditure del paesaggio americano per eruttare ovunque: la Manson family, Charles Whitman – l’ex chierichetto e Eagle Scout,
studente modello di architettura che salì al ventisettesimo piano della torre della University of Texas e sparò con la massima cura a quarantacinque dei suoi compagni, uccidendone dodici. («Cavolo, era uno studente modello, il bravo ragazzo, il capo boy scout che era gentile verso sua madre e gli animali», disse Sam in seguito. «Il punto non è se gli sia piaciuto uccidere tutte quelle persone. Il problema è che lo abbia fatto. Aveva tutta quella violenza dentro di sé, salì su quella torre e la liberò».) E poi ci fu My Lai, il massacro di 567 innocenti cittadini vietnamiti da parte di un plotone di soldati americani guidati dal tenente William Calley. Il soldato americano non era più un guerriero benevolo, dalle spalle larghe e il passo deciso, dispensatore di favori, sigarette, gomme da masticare e giustizia dalla canna del suo mitragliatore Thompson; era un killer rabbioso, un Charlie Manson in uniforme. Intanto, da New York alla California, gli studenti stavano prendendo il controllo degli uffici amministrativi dei college e fermando le lezioni per protestare contro la guerra. Il 18 maggio 1970, gli uomini della Guardia Nazionale a Kent State aprirono il fuoco su un gruppo di studenti che gli avevano scagliato contro delle pietre: quattro restarono uccisi e otto feriti. Anche il movimento per i diritti civili soffocava nel sangue. Ventotto Pantere Nere erano rimaste uccise negli ultimi due anni in scontri a fuoco con la polizia e solo nel 1969 c’erano stati più di duemila allarmi bomba a New York e otto veri attentati contro ferventi istituzioni capitalistiche come l’RCA Building, il Rockfeller Center, il General Motors Building e la Chase Manhattan Bank. «Tutti stavano lottando contro la violenza», osservò Peckinpah in seguito, «lottavano contro questo, lottavano contro quello. La lotta era insita in ognuno di loro». Peckinpah aveva recentemente letto due libri di un drammaturgo e antropologo autodidatta, Robert Ardrey: African Genesis e The Territorial Imperative. Dispiegando un’impressionante armata di prove raccolte da paleontologi, biologi e antropologi, Ardrey sosteneva che il vorace appetito
dell’uomo per la violenza non è il prodotto di un ambiente socioeconomico negativo, come credevano Karl Marx e altri sociologi, né il prodotto di traumatiche esperienze infantili, come asseriva Freud, bensì era provocato da potenti impulsi istintivi. L’uomo era un carnivoro, sosteneva Ardrey, una scimmia assassina che nel corso dei secoli aveva imparato a fabbricare armamenti sempre più sofisticati con cui si era fatto strada, picchiando e aggredendo, fino alla cima della catena alimentare – un killer con un innato amore per il massacro e un istintivo impulso a battersi per il controllo di una sfera territoriale, per se stesso, per la sua famiglia, per la sua tribù, per la sua nazione. Questo, spiegava Ardrey, era il motivo per cui la storia dell’uomo era stata scritta col sangue, il motivo per cui era segnata da lapidi sbiadite di continue guerre. Era una lotta buona, lo squisito piacere dell’assassinio che l’uomo bramava più del sesso, spiegava Ardrey – era il controllo del territorio, non delle donne, ciò per cui gli uomini si battevano di più. L’erotismo e l’orrore della violenza e l’attrazione dell’uomo verso di essa erano stati uno tra i tanti temi della tragedia epica del Mucchio selvaggio, ma in The Siege at Trencher’s Farm sarebbero diventati il punto focale. Per coinvolgere il pubblico sul piano emotivo, per costringerlo a confrontarsi con i propri contrastanti sentimenti verso la violenza, Peckinpah avrebbe dovuto scavare dentro di sé e tirare via una manciata delle proprie stesse viscere. Quando si trattava dei suoi demoni, nella vita Sam Peckinpah era riservato, evasivo, disperatamente proteso ad auto-ingannarsi; ma nella sua arte, con la maschera dei personaggi e una storia dietro cui nascondersi, affondava nelle regioni più oscure della sua anima con indomito coraggio. Nelle numerose interviste che seguirono l’uscita di questo film, citò le teorie di Ardrey e parlò della violenza congenita nell’uomo e del bisogno di affrontarla. Ma nemmeno una volta parlò di quanto personale fosse quel film, di come avesse infuso in quel materiale i suoi
stessi tormenti, fatto salvo l’ammettere ambiguamente che «tutti i miei film sono autobiografici». Chiunque però avesse familiarità col matrimonio dei suoi genitori, o con i suoi due matrimoni con Marie e Begonia, poteva riconoscere quanto avesse attinto dal suo passato per trasporlo nel film finito. Il tortuoso processo cominciò con la scrittura. Anche questa volta, Sam riscrisse scena per scena. Le copie delle bozze sopravvivono fra i suoi documenti, pagine macchiate di caffè e di cenere di sigaretta caduta mentre scriveva nuovi dialoghi e scene sui margini e sul retro. Alcune delle sequenze vennero fuori già ben formate e sopravvissero, a malapena alterate, nel film finito; altre avrebbero subito numerose riscritture da parte di Sam, poi di Goodman, Dustin Hoffman e degli altri attori. Peckinpah spostò il conflitto interiore del suo protagonista da quello di uno stanco liberale che fatica a dominare un senso di impotenza morale a quello di un intellettuale apolitico che stenta a reprimere le proprie passioni, in particolare un’incredibile rabbia che cerca disperatamente di nascondere agli altri e a se stesso. Sam fondò quella rabbia non solo in celati istinti primitivi, ma anche nel risentimento accumulato nel corso di un cattivo matrimonio. Peckinpah eliminò la figlia della coppia e rese entrambi i protagonisti più giovani. La moglie ora era appena ventenne e bellissima – una nativa del paesino che era andata a studiare in America. Il copione sottintendeva che fosse un’ex studentessa del professore e che lo avesse sposato presa dalla foga di una cotta un po’ folle. Ora lo aveva portato con sé in Inghilterra e il bocciolo di quella rosa stava velocemente appassendo. Quando la coppia fa l’amore o ha espressioni d’affetto nelle scene riscritte da Sam, lo fa con un’eccitazione da adolescenti. Quest’interazione è inizialmente affascinante, ma più si ripresenta più la mancanza di profondità crea un’inquietante tensione. Il giovane professore, David Sumner, cerca di contenere emotivamente la relazione, di tenerla entro i confini di una sicura scatola a compartimenti che rientrerà
perfettamente nella sua vita etichettata e schedata. Tuttavia, a livello inconscio, percepisce la vacuità del suo matrimonio e se ne risente, sebbene sia stato lui ad allestirla. Affonda ripetutamente la lama del suo sarcasmo in sua moglie, Amy, ridicolizzandola sottilmente per la sua mancanza di intelletto. Da parte sua, Amy è colpita dall’atteggiamento paternalistico di David e desidera la sua attenzione, che rappresenta la sua unica fonte di autostima. Quando non la ottiene, trova, come Fern Peckinpah, modi manipolatori per vendicarsi del marito. Si intrufola nel suo studio quando è assente e altera l’intricata equazione sulla sua lavagna (David è un astrofisico), cambiando un più con un meno. Solo dopo molte ore sprecate, il marito scoprirà il suo «scherzetto». Amy esce in giardino, dove una squadra di robusti lavoratori del paese sta costruendo loro un garage, e comincia a flirtare con gli uomini, sapendo che David sta guardando dall’interno. Interrompe costantemente il suo lavoro chiedendogli che si occupi di piccole faccende o presentandosi nel suo studio per flirtare, per poi mostrarsi ferita quando lui la caccia via. La dinamica corrisponde perfettamente a quella tra Sam e Begonia a Broad Beach, quando Peckinpah si chiudeva nel suo ufficio senza sosta per ore, lasciandola da sola alla deriva nell’alieno paesaggio di Malibu. Il flirt di Amy con i lavoratori del paese apre un vaso di Pandora. Già gelosi del professore americano per i suoi soldi e per la sua bellissima moglie, i lavoratori cominciano, prima velatamente, poi non tanto, a stuzzicarlo e umiliarlo. Finché, una sera, David trova il loro gatto strangolato con il filo della luce nell’armadio della camera da letto. Amy si convince che i paesani lo abbiano fatto per dimostrare di poter entrare nella loro camera da letto quando vogliono, e spinge David ad affrontarli, ma lui si rifiuta. «Senti, non voglio accusarli…», protesta. Al contrario, cerca di guadagnarsi la loro amicizia. Gli uomini sembrano diventare più amichevoli e lo invitano ad andare a caccia nel bosco il giorno seguente. Quando il film finito uscì, molti critici lo attaccarono nella convinzione che David Sumner riflettesse il disprezzo di
Sam verso gli intellettuali introversi, ma se David Sumner rappresentava qualcuno, quello era Sam Peckinpah. Non l’uomo selvaggio che lanciava coltelli descritto da innumerevoli riviste, ma il Sam più intimo, quello che si nascondeva dietro gli occhiali da sole specchiati, le bandane e le battutine pungenti, l’ultimo della cucciolata del Dunlap Ranch, sovrastato dagli uomini Peckinpah che torreggiavano intorno a lui, pronto a cercare la loro approvazione e spesso deriso per l’impacciata timidezza e l’amore per i libri. Dopo aver seguito Charlie Venner, Norman Scutt e gli altri uomini del paese nel bosco, a David Sumner viene dato un fucile quasi più lungo e pesante di lui e gli viene mostrato come caricarlo. Maneggia l’arma in maniera impacciata e gli altri ridono ma, come annotato da Sam su un copione, «lui ride con loro, felice di essere del gruppo». Lo portano in una remota radura nella foresta e lo lasciano lì, con un sacco in mano, dicendogli che spingeranno gli uccelli verso di lui. «Saremo sparpagliati qui intorno – se hai bisogno, chiama», dice un paesano, Cawsey. David annuisce con decisione, determinato a guadagnarsi un posto tra quegli uomini, e risponde: «Sarò qui». Poi, ovviamente, lo scaricano. David aspetta lì per ore prima di rendersene conto. Nel frattempo, al cottage, l’ex innamorato di Amy Charlie Venner si presenta alla porta. Si autoinvita a entrare; c’è un dolceamaro scambio di battute sui vecchi tempi, poi si getta su di lei. Amy oppone resistenza, lui la schiaffeggia e lei cede, all’inizio riluttante, poi appassionata – tutte le frustrazioni represse, la rabbia, la passione insoddisfatta del suo amaro matrimonio vengono rilasciate in un eccitato accoppiamento. Comincia come una scena di stupro, diventa una triste e tenera scena d’amore, poi vira orribilmente di nuovo verso lo stupro quando un secondo paesano, Norman Scutt, si presenta sulla scena con un fucile tra le mani. La lealtà di Venner si sposta in un istante dalla vecchia fidanzata al compagno di tribù. Aiuta a tenere a bada Amy mentre Scutt la stupra brutalmente. Questa volta a Amy non piacerà, affatto.
E nel mentre David Sumner è in un campo desolato, a tenere in mano un sacco vuoto. Era un quadro che veniva direttamente dai peggiori sogni di Sam durante i suoi attacchi di panico, l’incubo del cornuto; Sam sapeva come si sentiva David Sumner in quel momento. Ma sapeva anche che il cornuto era raramente una vittima innocente, anzi: spesso era colpevole quanto chi tradiva. Peckinpah spiegò in seguito: «[David] aveva preparato tutto […] Se guardate, ci sono diciotto diversi momenti nel film in cui avrebbe potuto evitare tutto questo. Non lo ha fatto. Ha lasciato che accadesse […] Come spesso nella vita anche noi lasciamo che le cose ci accadano perché lo vogliamo […] Ho dato ormai già due lezioni sul film a degli psichiatri […] Mi chiedevano: “Come l’hai scoperto?” Be’, sono stato sposato un paio di volte». Il trauma e tutto il sordido immaginario che evocava lo ossessionavano e lo affascinavano. Non riusciva a smettere di immaginarlo e riviverlo nella sua mente. E ogni volta assumeva più malevolenza, pathos e potere erotico. Non era più un evento reale, ma un incubo ricorrente di cui non si sarebbe più liberato. Ignorandone le radici nella vita di Sam, molti critici attaccarono la scena definendola la peggiore delle fantasie maschiliste. Valse a Peckinpah un posto di prim’ordine nell’albo del disonore delle femministe e fu utilizzato spesso nei corsi sugli studi di genere nelle università di tutto il paese, come esempio della tendenza hollywoodiana a ridurre le donne a volgari oggetti sessuali, cui niente piace di più di un bello stupro. La storia giunge al climax quando David Sumner investe accidentalmente l’idiota del paese, Henry Niles, mentre torna a casa in una sera nebbiosa. L’idiota ha tagli e lividi, ma non è ferito gravemente. David lo porta a casa e telefona al pub. A sua insaputa, quella sera stessa Niles ha involontariamente strangolato una ragazzina del paese, e ora i paesani sono alla ricerca della ragazza scomparsa e di Niles, che era stato visto allontanarsi dalla festa della parrocchia insieme a lei.
La telefonata di Sumner li informa sulla posizione del ritardato e presto un gruppo di vigilanti ubriachi si presenta alla porta dell’isolato cottage dell’americano, pretendendo che consegni loro Niles. Fra di loro ci sono anche Venner e Scutt. Sumner si rifiuta di consegnare Niles alla banda: «Lo ammazzeranno di botte», spiega ad Amy. La sua presa di posizione muove da solide motivazioni, ma presto prendono il sopravvento istinti primitivi: «Questa è casa mia! Qui è dove vivo! …È parte di me! Me! Non permetterò della violenza contro la mia casa!» E man mano che la battaglia si intensifica fino a raggiungere vette orgiastiche, David Sumner precipita verso una furia omicida più spaventosa ed efficace di quella di tutti i suoi aggressori messi insieme. «La violenza generalmente comincia per una ragione, in nome di un principio da difendere», disse Sam a un giornalista. «La vera motivazione, tuttavia, è un’ancestrale sete di sangue, e man mano che la battaglia prosegue le ragioni e i principi vengono dimenticati e gli uomini lottano per il piacere di lottare». Ma chiaramente l’impeto di David è scaturito da una fonte di disillusione e disperazione. Qualunque fantasia ancora nutra riguardo al suo matrimonio, viene infranta quando, nel mezzo dell’assedio, Amy tenta di abbandonarlo per Charlie Venner. È il momento in cui David Sumner si toglie la benda dagli occhi, in cui finalmente vede Amy e il suo matrimonio per quello che sono. «Nel matrimonio spesso», disse Sam in seguito, «specialmente se l’uomo è solo, la vestirà [sua moglie] con gli abiti dei suoi bisogni – e se la donna è molto giovane farà la stessa cosa con l’uomo. Non guardano davvero a cos’è l’altra persona, ma a ciò che vogliono che l’altra persona sia. All’improvviso l’illusione svanisce e si vedono per quello che sono realmente». È questa intollerabile consapevolezza che porta David a esplodere. Alla fine, quando il suo salotto sarà ricoperto di cadaveri, esclamerà esultante: «Gesù Cristo… li ho fatti fuori tutti”». Perfezionando le sue abilità di killer e smorzando le sue emozioni più vulnerabili – come aveva fatto D. Sammy
diventando un esperto cacciatore e un pari, almeno agli occhi degli uomini Peckinpah – David Sumner ha superato un sanguinoso rito di passaggio verso la maturità. Ma a quale prezzo? Perché per Sam il prezzo era stato molto alto, e lo stava ancora pagando. Quando il film finito arrivò nelle sale più di un anno dopo, molti critici lo attaccarono definendolo una celebrazione fascista delle gioie del combattimento; altrettanti lo difesero come una dichiarazione contro la violenza a un modo di metterci in guardia nei confronti della nostra brutalità innata. Peckinpah stesso passò da un’interpretazione all’altra, di intervista in intervista. A volte sembrava condividere entrambe le interpretazioni nella stessa intervista, perfino nello stesso respiro. Disse a William Murray di Playboy: [David Sumner] non sapeva chi fosse e cosa avesse dentro. Tutti noi ragioniamo sul perché dovremmo fare una cosa, ma è il nostro puro istinto animale che ci spinge a farla, sempre. David ha scoperto di avere tutti questi istinti e la cosa lo ha fatto stare male, male da morire, ma allo stesso tempo ha avuto abbastanza fegato da imporsi e fare ciò che c’era da fare… Il vero pacifismo è virile. Anzi, è la forma più alta della virilità. Ma se un uomo viene da te e ti ammanetta un polso, non gli offri anche l’altro. Non se vuoi continuare a suonare il pianoforte. Non sto dicendo che la violenza sia ciò che fa di un uomo un uomo. Dico che quando la violenza arriva, non puoi fuggire. Devi riconoscerne la vera natura dentro te stesso come negli altri, e fronteggiarla. Se scappi, sei morto, o dovresti esserlo.
David Sumner, sembra dire Peckinpah, è riprovevole e allo stesso tempo ammirevole, un eroe ma anche un cattivo. Questa dicotomia è il cuore del film. Il film non è una semplicistica dichiarazione pro o contro la violenza. Sam usa piuttosto la storia come un veicolo per dimostrare la sua profonda ambivalenza riguardo alla violenza. «Perché desideriamo vedere racconti così sanguinosi, ancora e ancora?», sta chiedendo agli spettatori e a se stesso. «Perché i nostri eroi sono tutti degli assassini? Questo cosa dice di noi?» Non sarebbe stato un film asettico, a tesi, bensì un’esplorazione profondamente personale da parte di un uomo che aveva detto a un interlocutore che i suoi anni giovanili
trascorsi a imparare a cacciare in Sierra Nevada erano stati i più belli della sua vita, e poi aveva detto a un’altra amica che erano stati i peggiori; che aveva trascorso la vita intera nel tentativo appassionato di incarnare il mito del Selvaggio West, ma che stava ora cominciando a percepirne i corrosivi effetti su di sé. Sarebbe rimasto un film con un finale aperto, senza risposte, perché lui stesso non ne aveva. «Ho sempre pensato che il suo vero obiettivo fosse mettere su pellicola ciò che non comprendeva», afferma Gill Dennis. «Capite? Pensavo dicesse: “Hai visto questo? Che ne pensi? Come si inserisce nella tua idea del mondo?”» Sam avrebbe poi detto a un giornalista: «Sto cercando di definire i miei stessi problemi. Ovviamente sono io quello lassù, sullo schermo». Peckinpah consegnò la sua prima riscrittura della sceneggiatura verso la fine dell’agosto del 1970. Martin Baum e Dan Melnick la adorarono, anche se avrebbe subìto ulteriori riscritture per i successivi quattro mesi, con contributi da parte di Sam, Goodman e Melnick. Baum insisteva inoltre che il titolo fosse cambiato. Uno studio demografico (una nuova realtà che stava cominciando a emergere come potente strumento di marketing a Hollywood) rivelò alla ABC che la maggior parte delle persone pensava che «L’assedio della fattoria di Trencher» suonasse come un western. A Sam venne l’idea di Cane di paglia. L’aveva presa da un brano di The Book of 5000 Characters del filosofo cinese Lao Tzu, che recitava: «Il Cielo e la Terra sono spietati e trattano le miriadi di creature come cani di paglia: il saggio è spietato e tratta le persone come cani di paglia… Lo spazio tra Cielo e Terra non è come un soffietto?» Baum non ci capiva niente di quelle chiacchiere cinesi, ma Cane di paglia aveva un che di intrigante – enigmatico, allegorico, suggeriva celate profondità di significato senza rivelarne nessuna. Anziché commissionare un altro studio demografico per testarne la commerciabilità, Baum seguì il suo istinto – e Cane di paglia fu.
Ora erano pronti a cercare una star. Dopo essersi passati diversi nomi – Beau Bridges, Stacy Keach, Sidney Poitier, Jack Nicholson, Donald Sutherland – decisero alla fine per Dustin Hoffman. Hoffman lesse il copione, visionò alcuni dei film di Sam e firmò per 600.000 dollari. Prima di aggiudicarselo, la ABC aveva concepito Cane di paglia come un «filmetto» dall’esiguo budget. Ora era improvvisamente diventato la produzione più importante dello studio. Il budget fu raddoppiato da 1.070.221 dollari a 2.117.263 dollari e furono previsti sessantun giorni per le riprese, un lasso di tempo abbastanza generoso considerato che il film necessitava di una sola location e di qualche altro interno. L’adrenalina cominciò a pulsare sia negli uffici della ABC a Hollywood che a Londra, dove Melnick e Peckinpah diedero inizio alla preproduzione. Servì una gamma speciale di segretarie per gestire le continue follie di Sam. Ne fece fuori una mezza dozzina a Londra prima che Katy Haber entrasse nella sua vita. Voluttuosa ventiseienne con una folta chioma di capelli color caffè e occhi vispi e intelligenti, la Haber era una dattilografa veloce come la luce con incredibili abilità manageriali e una mente così pronta a memorizzare ogni minimo dettaglio da far invidia a un computer. Sarebbe diventata la principale forza organizzativa della vita di Peckinpah per i successivi sette anni, e una delle sue storie romantiche più complicate e contorte. La Haber aveva vissuto già tanta oscurità prima di conoscere Peckinpah. I suoi genitori erano rifugiati ebrei venuti dalla Cecoslovacchia; erano scappati proprio tre giorni dopo la marcia su Praga dei nazisti. «Furono gli unici membri della mia famiglia a riuscirci», racconta la Haber. «Persero tutti i loro parenti». Una foto delle dimensioni di un poster di una delle sue zie, che fu bruciata nel forno di un campo di concentramento, è ora appesa nel museo ceco che documenta gli orrori dell’olocausto. Katy nacque a Londra nel 1944 e fu mandata in collegio quando aveva solo dodici anni perché i suoi genitori temevano
di viziarla e rovinare la loro unica figlia e l’unico collegamento di sangue che restava loro al mondo. Quando Katy aveva diciotto anni, sua madre si ammalò. Il padre si convinse che si trattasse di cancro. Incapace di affrontare la perdita di un’altra persona amata, si suicidò. Si scoprì poi che la madre di Katy non aveva il cancro. Si ristabilì, ma Katy invece non si riprese mai più del tutto. L’ombra della morte del padre – il senso di colpa e l’intensa paura dell’abbandono – aleggia su di lei ancora oggi. Mandò all’aria il progetto di entrare all’università e andò invece a una scuola per segretarie, per poi lavorare come segretaria di produzione per una serie di modeste commedie e pellicole horror. Pochi mesi prima di conoscere Peckinpah, la Haber ricevette un’offerta di lavoro da un produttore inglese che stava girando un film a Hollywood, ma la rifiutò perché avrebbe significato dover lasciare sola sua madre a Londra. Poi James Swann, produttore associato di Cane di paglia, chiamò Katy e le chiese se le interessava lavorare per questo grande regista americano che era venuto a Londra per girare il suo primo film in Europa. Sembrava interessante, così Katy acconsentì a incontrarlo. Quando mise piede nel suo ufficio, trovò un uomo senescente ma ricco di fascino, con baffi curati, pantaloni beige e una giacca di pelle italiana, seduto a una scrivania ingombra. «Katy, ti presento Sam Peckinpah», disse Swann. Due grandi, intensi occhi nocciola ruotarono verso di lei. «Be’, sei pronta?», disse bruscamente. «A cosa si riferisce?», il viso di Katy cominciò a riscaldarsi. «Ho provato già sei donne. Nessuna riesce a leggere la mia grafia». «Aveva assunto queste ragazze e volevano la pausa pranzo ed essere fuori per le 18», racconta la Haber. «Con Sam questo non esiste – pranzo, pause caffè, andare a farsi i capelli
o avere appuntamenti, stare con altre persone – non esiste proprio. Se sei con lui, non hai un’altra vita, questo è quanto». «Siediti e comincia a battere», disse Swann, facendole segno verso una scrivania con una macchina da scrivere e una disordinata pila di pagine macchiate ricoperte della grafia da gallina di Sam. Kate ubbidì. Erano le revisioni di Sam del copione e la primissima cosa che dovette battere fu la scena dello stupro. Dio, per chi sto lavorando, Jack lo squartatore?, si chiese. Era dura seguire il tortuoso percorso dei suoi scarabocchi dai margini superiori a quelli inferiori, fino al retro delle pagine. Ma le piaceva. Il copione era cupo quanto una landa senza luna, ma affascinante. Lavorò fino a mezzanotte, con grande stupore di Sam. «Ne restò sopraffatto», dice la Haber. «Capite, aveva finalmente trovato qualcuno che riusciva a far tutto». Lavorò di filato per lui fino alla domenica, battendo a macchina mentre Sam era al telefono con Jason Robards, Dan Melnick e Marty Baum. Cominciò a portarla fuori a cena con lui dopo il lavoro; Katy conobbe Jerry e Camille Fielding e Frank Kowalski, che si trovavano a Londra in quel periodo. (Kowalski era alle dipendenze di Peckinpah, impegnato a scrivere il trattamento per Voglio la testa di Garcia.) «Era molto entusiasmante per una ragazzetta ebrea da cui ci si sarebbe aspettati che sposasse un medico, si trasferisse in periferia e avesse dei bambini», dice la Haber. «Poi una notte, mentre lavoravamo fino a tardi, Sam mi disse: “Quando lavoro con qualcuno, diventa sempre una relazione molto intima”. Capii cosa voleva intendere e risposi: “Non confondo mai il lavoro con il piacere, signor Peckinpah”. Rise. Aveva degli occhi così carichi di emozione; erano così intensi, ti risucchiavano, ma allo stesso tempo ti spingevano a voltarti dall’altra parte». Non ci volle molto prima che fosse risucchiata. «Mi innamorai di Sam molto in fretta», dice la Haber. «Non avevo mai avuto a che fare con qualcuno come lui. Sembrava così raffinato se paragonato ai ragazzi della mia età con cui ero uscita. Ero stata innamorata prima, ma mai così. All’inizio era
qualcosa in cui non sarei voluta cadere, ma fu più forte di me. La mia intenzione era di mantenere la relazione su un piano occasionale, ma una cosa tirò l’altra. Era un uomo molto carismatico. Non si impose su di me, fu solo molto piacevole, fuori dall’ordinario e questo mi colpì. Sapeva come fare le cose in grande stile, con rose, bigliettini, telefonate. Mi disse: “Non posso vivere senza di te. Sei tutto quello che ho sempre sognato in una donna. Hai tutto quello che potrei mai desiderare. Mi fai sentire completo”. È terribilmente difficile non lasciarsi sedurre da questo». Ma Katy scoprì presto che Sam aveva due facce. Una sera uscirono fuori a cena con Dan Melnick. Fu una piacevole serata piena di discorsi interessanti sul film. Sam stava bevendo molto, cominciò a parlare biascicando e rovesciò quasi i bicchieri mentre muoveva le mani per enfatizzare i suoi commenti. Katy aveva molto lavoro che la attendeva a casa e decise di andarsene prima. Si alzò, diede la buonanotte a Melnick, poi a Sam, e se ne andò. Quando si coricò verso mezzanotte, Sam non era ancora tornato. Un paio d’ore dopo, delle urla la svegliarono. Era Sam, in piedi accanto a lei, che imprecava. La tirò fuori dal letto, la colpì in volto e cominciò a prendere cose – la sveglia, un bicchiere, una lampada – e a lanciarle contro le pareti. Alla fine, si voltò verso di lei, urlando la prima frase coerente: «Che diavolo c’è tra te e Dan Melnick?» «Tutto perché avevo dato la buonanotte prima a Melnick quando avevo lasciato il ristorante», racconta la Haber. «Si era convinto che avessimo una relazione. Gli dissi che era ridicolo, che non ero minimamente interessata a Melnick, che cercavo soltanto di essere educata». Il mattino dopo Sam era dispiaciuto, chiaramente mortificato, ma evitò di assumersi la completa responsabilità delle sue azioni sostenendo che era ubriaco e non ricordava bene ciò che aveva fatto – e poteva essere vero; gli capitavano sempre più di frequente dei blackout dovuti all’alcol. «Non ammetteva mai totalmente la sua colpa per questo genere di cose», sostiene la Haber. «Porgeva delle scuse indirette. Ma
sapevo che ci stava male, si vedeva dai suoi occhi. Dopo ognuno di questi episodi, si assumeva un po’ di colpa in più, e poiché non ne parlava mai apertamente il rimorso non faceva che accumularsi». Imparò presto a gestire la gelosia di Sam rivolgendo le sue attenzioni esclusivamente a lui in presenza di altri uomini. Se qualcun altro nella stanza cominciava a prestarle troppa attenzione, andava immediatamente a sedersi o a mettersi vicino a Sam, rivolgendogli la sua completa attenzione e frapponendo una distanza tra lei e gli altri in modo che fosse indubbio a chi era rivolta la sua lealtà. Katy assunse presto il controllo di tutti i dettagli quotidiani della vita di Sam. Sam aveva decisamente bisogno di una mano ferma, e Katy gliela offrì. Teneva traccia di tutte le sue telefonate, dei suoi appuntamenti – di lavoro e privati – pagava le sue bollette, comprava i regali per i suoi figli, parenti e amici, organizzava tutti i suoi viaggi, prendeva appunti ai suoi meeting e durante la produzione segnava tutte le riprese che doveva realizzare in un dato giorno e la miriade di dettagli di cui doveva tener conto. Sam elogiava spesso Katy con gli altri, sia in sua presenza che quando non c’era, ammettendo che non avrebbe mai potuto superare questo o quell’ostacolo senza di lei. Ma altrettanto spesso le si rivoltava contro, sbraitando invettive sotto lo sguardo di un’intera troupe finché alla fine Katy scappava via in lacrime. A molti dispiaceva per Katy e trovavano sadico il modo in cui Sam la trattava. Ma alcuni tra gli amici più intimi notarono che Katy sembrava spesso provocare quegli attacchi con un atteggiamento manipolatorio. Dice un ex membro del Mucchio di Peckinpah: Nessuno merita di essere picchiato, non c’è assolutamente scusante. Ma Katy lo provocava. È stata con lui per sette anni, doveva sapere per forza cosa lo faceva scattare. Mentre lavoravamo a un film, menzionò una conversazione che aveva avuto con un produttore che Sam odiava e con cui era in guerra. Il produttore si era lamentato con Katy e ora lei stava riportando quella conversazione parola per parola di fronte a Sam. Alla fine, Sam disse: «Okay, non voglio sentire altro». Continuò
a cercare di cambiare argomento e lei continuava a ritornare su quello finché alla fine Sam esplose e la cacciò. Fu come se avesse ottenuto quello che voleva. Ora poteva giocare sul senso di colpa di lui e fare la parte della martire.
Intanto, all’insaputa della Haber, Sam aveva anche una relazione con la segretaria di Ken Hyman, Joie Gould, un’esile ma armoniosa bionda sui venticinque anni con grandi occhi, acuto intelletto e una personalità vivace. Sam cominciò a frequentarla poco dopo il suo arrivo in Inghilterra. «Era fisicamente sorprendente quando lo incontravi per la prima volta, dopo averne tanto sentito parlare», afferma la Gould. «Ti immaginavi un omone alto alla John Wayne, ma non era affatto grosso, era molto esile e dagli occhi appariva così vulnerabile. La fase del corteggiamento andò avanti per mesi. Le prime settimane ci vedevamo per il pranzo; lo vedevo solo di giorno». Poi cominciarono ad andare a cena insieme. Sam si vestiva in maniera elegante, ma sempre con un paio di stivali da cowboy. Le ricordava James Garner in Maverick: il cowboy gentiluomo, affascinante, persuasivo, decisamente seducente. Durante gli otto mesi in cui si frequentarono prima dell’inizio delle riprese di Cane di paglia non lo aveva mai visto una volta ubriaco, e neppure ordinare più di un paio di martini a pasto. «Nascose quel suo lato della sua vita, con me». Tutti continuavano a metterla in guardia: «Non fa per te. Non farti coinvolgere da lui». Aveva sentito le storie sul suo alcolismo e sulle risse. «Ma non vidi mai quel genere di comportamento. Era il gentiluomo più cortese che si potesse immaginare. Non lo vidi mai arrabbiato. Non ci fu mai nemmeno un litigio tra noi». Era così premuroso, così attento. Le comprava sempre regalini divertenti, le mandava composizioni floreali mozzafiato e bigliettini con tenere dediche. Era chiaramente brillante, incredibilmente colto e amava comporre spontaneamente poesie e haiku per lei. Riusciva facilmente a immaginarlo mentre teneva un corso di letteratura in un piccolo college da qualche parte.
Tutti gli avvertimenti ricevuti non facevano che intensificarne il fascino. Sapeva che doveva esserci un fondo di verità, ma credeva che il loro amore nascente stesse avendo un effetto calmante su di lui. Gli aveva portato la pace e l’appagamento che aveva sempre desiderato; Joie, finalmente, aveva reso la sua vita completa – le disse questo e lei gli credette. Sarebbe riuscita a cambiarlo. A questo punto, Katy era a conoscenza del loro rapporto ma non sapeva che fossero diventati amanti. «Mi diceva che andava a pranzo con lei e cose così», dice la Haber, «e che era una cosa importante, ma pensavo fossero soltanto amici». Fu quando Cane di paglia entrò in preproduzione che Joie notò i primi allarmanti cambiamenti in Sam. Le disse: «Devo fare bene i compiti, perché lavorerò con Hoffman». Divenne teso, irrequieto. «Quando si preparava a girare un film era come se stesse partendo per la guerra», dice la Gould. «Si aspettava che i produttori lo tradissero in ogni momento, che gli avrebbero tolto il film. La concentrazione creativa richiedeva ogni grammo delle sue forze. Avere a che fare con tutti quegli elementi – gli attori, i produttori, la troupe – e tutti quei conflitti, aveva degli effetti tremendi su di lui. Fu allora che l’alcolismo ebbe inizio». Le fece leggere il copione, e la caratterizzazione di Amy la lasciò inorridita. «Che donna orribile!», gli disse. «Non ha aspetti positivi, nemmeno uno! Perché David l’ha sposata?» Sam alzò le spalle. «Be’, forse dovresti riscrivere qualcuna delle sue scene. Vedi se riesci a renderla più empatica». Lei lo fece, ma quando Sam lesse le sue pagine le bocciò perché «troppo sentimentali». Ormai Joie aveva cominciato a vedere le profonde falle dietro l’apparente sicurezza di sé di Sam e a intuire come Cane di paglia fosse il suo test di Rorschach. «Mi diceva che ero giovane, bella e intelligente. Diceva che potevo avere chiunque volessi e non capiva perché avessi scelto lui».
Cominciò a interrogarla, con una voce che le chiedeva di svelare il proprio lato più intimo, ma insistente in modo sinistro; i suoi occhi la scrutavano alla ricerca del minimo cedimento o bugia. Con un diverso tempismo, insisteva Sam, si sarebbe potuta facilmente innamorare di qualcun altro. «Che ne dici di Dustin Hoffman, pensi che avresti potuto innamorarti di lui se lo avessi incontrato prima di me?» «No, Sam, io amo te!» «Dai, potresti almeno ammettere la possibilità, no?» «Giocava sempre allo stesso gioco», dice la Gould, «mettere alla prova la tua fedeltà». Joie capì che, tolti gli artifici – gli stivali da cowboy, gli occhiali specchiati, il lancio dei coltelli – Sam non credeva di essere così interessante. Senza quelli si vedeva come David Sumner: piccolo, inadeguato, insignificante. «Se una donna si innamorava di lui, non riusciva a capire il perché. Non mi ha mai veramente creduto quando gli dicevo che lo amavo. Era una cosa molto triste». Ma Sam voleva crederle, disperatamente. Sul retro di uno dei suoi copioni, un giorno scrisse: «Joie: dice “Chi sei, cosa provi e chi ami sono cose totalmente differenti in ogni persona. Se non riesci a vedere l’amore nei miei occhi, non lo vedrai da nessun’altra parte”». Cercò di vederlo: nel suo modo contorto lo stava cercando, ma tutto quello che trovò nello sguardo di lei era il suo stesso dubbio. Il tentativo di Joie di riscrivere Amy diede a Sam un’ispirazione improvvisa: «Potresti interpretarla tu! Ti scritturo! Porteresti tutta la tua dolcezza nel suo personaggio, la renderai empatica essendo semplicemente te stessa!» Nella testa di Joie si azionò un campanello d’allarme, e non perché non avesse mai recitato prima. Tuttavia non riusciva a individuare l’esatta causa della sua ansia. L’entusiasmo di Sam ebbe il sopravvento sui suoi dubbi. Fece uno screen test con altri attori e si incontrò con il costumista per discutere del possibile guardaroba. Quando il suo screen test fu mostrato in una sala di proiezione, la risposta fu molto positiva da parte di
tutti, eccetto Sam, che rimuginava. Aveva senza dubbio un potenziale da star, dicevano gli altri. Dan Melnick suggerì che si rifacesse il naso. «La reazione positiva di tutti rese Sam molto ansioso», racconta la Gould. «Non penso che avesse mai creduto veramente che potessi ottenere la parte, e quando divenne una possibilità concreta si allarmò. Dissi: “Be’, sei stato tu a cominciare tutto”. Rispose: “Sì, ma credevo che non saresti piaciuta a nessuno”. Dissi: “Be’, grazie, eh!” Alla fine mi disse: “Devi scegliere tra me e la carriera da attrice!” Non fu un problema per me, non avevo mai voluto fare l’attrice». Cosa stava succedendo? I costumi usati per Amy nel film avevano un’incredibile somiglianza con il guardaroba di Joie e Dustin Hoffman indossava articoli che sarebbero potuti tranquillamente essere stati presi dall’armadio di Sam. (Peckinpah si stava vestendo – per caso o intenzionalmente – più da fighetto rispetto a quando era negli Stati Uniti.) Peckinpah non solo stava usando il suo passato come materiale grezzo per il film, ma stava anche manipolando il proprio presente, se stesso e le persone intorno a lui, per alimentare lo psicodramma. Un gioco pericoloso, come Joie avrebbe scoperto nel peggiore dei modi. Nel frattempo, la ricerca per la vera Amy continuava. Tra le attrici prese in considerazione ci furono Judy Geeson, Jacqueline Bisset, Diana Rigg, Helen Mirren, Carol White e Charlotte Rampling. Una delle candidate più interessanti fu Hayley Mills, la maliziosa, bionda star bambina di film lindi e pinti come Il segreto di Pollyanna e Il cowboy con il velo da sposa. Ora ventiquattrenne, la Mills stava cercando di realizzare una difficile transizione verso ruoli più maturi. E che transizione sarebbe stata! Ma Sam capì che nonostante le possibilità la scelta sarebbe stata troppo azzardata. Alla fine, un’attrice ventenne di nome Susan George si presentò nel suo ufficio. La George recitava in televisione da quando aveva quattro anni ed era recentemente apparsa in ruoli da gattina sexy in film inglesi come Twinky, The Strange
Affair e Il killer di Satana. Le sue performance non mostravano un fulgido talento; come molte attricette, colpiva per il suo aspetto (incredibilmente somigliante a quello di Joie): bionda, dalla pelle olivastra, con lucenti occhi nocciola, labbra carnose e un corpo che poteva essere stato scolpito da un maestro greco. Di certo tutto questo catturò immediatamente l’attenzione di Sam Peckinpah, ma non sarebbe stato abbastanza per farle ottenere la parte. Appena fece il suo ingresso nella stanza, Sam sentì una sensualità palpabile e, al di sotto di essa, gli artigli di una gatta selvatica. «Dal primissimo incontro credo abbia avuto l’impressione che io fossi brillante», dice la George. «“Sei intelligente, ragazzina!”, mi diceva con disprezzo, non lo sopportava! Quello che ebbi con Sam fu un rapporto di amore e odio, amore e odio dall’inizio alla fine. Sapeva che ero intelligente, una che rifletteva, e sapeva che ero tremenda e questo lo attraeva, eppure avrebbe voluto portarmi via tutto in modo che dovessi andare da lui a riprendermelo. Pensavo: Dio, chi è questa persona, mi spaventa a morte! Ma gli tenni testa, gli tenni testa fin dal principio e amava tantissimo questo, in me. Non lasciai mai che sapesse cosa mi stava facendo». Sam aveva trovato la sua Amy. La George firmò un contratto di dodici settimane per 10.000 dollari alla settimana. Il 22 gennaio il cast e la troupe si trasferirono nell’ondulata campagna della penisola della Cornovaglia, sulla punta più a sudovest dell’Inghilterra. Qui sarebbero stati girati tutti gli esterni nel paesino di St. Buryan e in una fattoria lì vicino che sarebbe stata utilizzata come residenza dei Sumner. Dustin Hoffman e Susan George trascorsero giorni a vagare per il paesino facendo delle improvvisazioni alla Actors Studio per sviluppare un rapporto che rispecchiasse quello dei personaggi del film. David Goodman li seguiva, scribacchiando i loro discorsi, alcuni dei quali furono incorporati nel film. Per gli attori che avrebbero interpretato i paesani che assediano il cottage dei Sumner – Peter Vaughan, Del Henney,
Ken Hutchison e Jim Norton – Peckinpah allestì delle «improvvisazioni» un po’ meno delicate, precisamente una serie di feste alcoliche che finivano spesso in risse. T.P. McKenna si ruppe un braccio in una di queste improvvisazioni e fu costretto a portare un tutore durante tutte le riprese del film. Ken Hutchison rispose a questo approccio con grande godimento, e un incontro di «wrestling indiano» tra il giovane attore e il suo regista lasciò entrambi con i visi gonfi e sanguinanti. Sam mise affettuosamente un braccio intorno a Hutchison dopo aver chiuso lo scontro in parità, e lo nominò suo «Fratello Cane». «Fu tutto molto calcolato da parte di Sam», racconta Hutchison. «Stava impostando il tono del film e dei nostri personaggi. Era un’opera molto cupa e violenta. Insomma, non stavamo facendo Mary Poppins». «C’era un preciso meccanismo di autodistruzione in Sam, non c’è dubbio al riguardo», dice Susan George. «Ma trovò il suo corrispettivo dentro quel film in Ken Hutchison. Ken era la sua anima gemella. A volte era stupido, irascibile e spaventoso quanto Sam. Io e Hoffman tornammo all’hotel una sera dopo essere stati insieme tutto il giorno e assistemmo a questa lite nel bel mezzo della sala ristorante. Pensai: oddio, no, non un’altra volta! Perché di queste risse da bar ce n’erano sempre. Dissi a Sam: “Oh, ti prego, non farlo! Per favore, non essere così stupido!” E continuavano, e continuavano, finché non infransero dei bicchieri su un tavolo e Ken si tagliò un braccio. Dovetti accompagnare Ken all’ospedale. Ma ero anche quella che poteva parlare a Sam quando accadevano cose del genere. Quando ferì Ken, ero furiosa con lui. Fermai la lite. Mi aveva molto turbata. Sam mi dava ascolto; odiava ferirmi. Mi trattava come se fosse il mio fidanzato e mio padre». Peckinpah continuò a bere pesantemente, giorno e notte, durante le prove e anche dopo che le riprese cominciarono, con grande preoccupazione di Dan Melnick. «Ogni volta che passavo accanto a Sam sul set», ricorda Melnick, «mi diceva: “Vuoi un po’ di caffè?”, per dimostrarmi che era solo caffè,
non caffè con brandy. Ma sapevo che appena me ne andavo, Katy Haber gli dava il caffè dall’altro thermos, quello con il brandy». A due settimane dall’inizio delle riprese, il bere continuo, ventiquattr’ore su ventiquattro, portò la resistenza fisica di Sam al limite. Erano le 3.30 di mattina. Ken Hutchison per una volta era andato a letto presto; aveva delle scene difficili da girare il giorno seguente. All’improvviso la porta della sua stanza fu spalancata. Vide Peckinpah con un poncho messicano, una fascia indiana e una bottiglia di tequila in mano. «Fratello Cane», gracchiò, «andiamo a vedere il mare». Hutchison guardò fuori dalla finestra. Una tempesta invernale stava tirando giù una pioggia torrenziale da un cielo nero come catrame. Disse: «Sam, piove. Sono le tre e mezzo del mattino». «Andiamo lo stesso». «Con chiunque altro al mondo, avrei dato di matto», racconta Hutchison. «Andammo nel parcheggio, montammo sulla mia auto e guidammo per quindici minuti verso Land’s End attraverso la tempesta. È la punta più a sud della Gran Bretagna, circondata da tre lati dai mari inglese, francese e irlandese. Scendemmo dall’auto e camminammo fino alla punta nell’oscurità. Il vento e la pioggia arrivavano da tutte le direzioni. Ci sedemmo, ascoltammo il mare, bevemmo tequila e mi insegnò le parole di una canzone intitolata «Butterfly Mornings». Scoprii in seguito che era tratta da La ballata di Cable Hogue. Ubriachi fradici, bagnati, infreddoliti, nel bel mezzo dell’inverno – non ero mai stato così felice in tutta la mia vita». Il mattino seguente Sam si presentò sul set con gli occhi rossi, la tosse e le guance in fiamme. Si comportava in maniera incostante e la sua regia era caotica. Il giorno seguente, il quindicesimo di fotografia, la coerenza e la tosse di Sam peggiorarono ulteriormente. In quei due giorni di riprese la compagnia aveva accumulato un giorno di ritardo sul programma. Sia Melnick che Dustin Hoffman erano molto
preoccupati. Il produttore dovette prendere una delle decisioni più difficili della sua carriera. «Bloccai il film perché Sam stava andando troppo fuori controllo. Gli dissi che avrei bloccato il film definitivamente o che lo avrei sostituito se continuava a bere». Fu chiamato un dottore per esaminare Peckinpah. Gli diagnosticò una polmonite atipica e disse che Sam doveva essere ricoverato immediatamente. Dopo aver terminato il diciassettesimo giorno di riprese, con la compagnia che ora aveva quattro giorni di ritardo sul programma, Sam prese un treno per la London Clinic. Melnick fece una chiamata a Baum a Los Angeles. Non c’erano dubbi, disse al capo dello studio, che l’alcolismo di Sam avesse scatenato la malattia. Il contratto di Sam fu sospeso «fino a nuovo avviso» e Baum prese un aereo per Londra. Appena arrivato, visionò i giornalieri. Erano terribili, caotici. Hoffman ne aveva avuto abbastanza. Voleva che Peckinpah fosse sostituito e propose Peter Yates. Melnick disse che avrebbe appoggiato qualsiasi decisione avesse preso Baum. Il responsabile della produzione decise di andare a far visita a Peckinpah in clinica. «Parlai con Sam», racconta Baum. «Aveva un annebbiamento da alcol. Gli dissi: “Sam, tu non stai bene. Se ti licenzio, non lavorerai mai più. Se ti tengo, ho bisogno che tu mi prometta assolutamente che sarai sobrio, saldo e responsabile per il resto della pellicola. Sam, dimentica me, non farlo per me. Se vieni licenziato e rimpiazzato per questo film, chi ti assumerà ancora?” Credo che l’onestà con cui gli parlai mi guadagnò il suo rispetto. Non gli dicevo cazzate, non dipendeva da me, non avrei potuto giustificare la decisione di continuare a lavorare con un uomo che si comportava come si era comportato lui. Sapeva cosa c’era in ballo. Mi abbracciò e mi promise che avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per renderlo un film eccezionale. E lo fece, si rimise in riga. Si costruì così un legame di profondo rispetto reciproco tra noi».
Peckinpah restò alla London Clinic per cinque giorni. Quella pausa costò alla ABC oltre 85.000 dollari, ma la maggior parte della perdita sarebbe stata coperta dall’assicurazione della produzione. Le cure di Sam comprendevano iniezioni di vitamina B12 che lo avrebbero aiutato a recuperare quei nutrienti che l’alcol aveva bruciato via dal suo sistema. Restò così colpito dai poteri ristoratori di quelle iniezioni che portò con sé una scorta di siringhe e aghi in Cornovaglia e se ne faceva somministrare una dose da Katy ogni giorno. Divenne un rituale che proseguì per sette anni. Molti scrittori, produttori e montatori sarebbero rimasti sorpresi alla vista di Peckinpah che si abbassava i pantaloni con nonchalance nel mezzo di una conversazione per farsi infilare dalla Haber un ago nel sedere. Dopo, tirava su i pantaloni e continuava la conversazione come se non fosse successo niente di strano. Quando la compagnia riprese a girare, il 22 febbraio, Sam non aveva smesso di bere, ma aveva ridotto considerevolmente le dosi. Non ci sarebbero state altre gite a notte fonda a Land’s End. Ancora una volta si rialzò dal pavimento del bar e ricominciò a lottare. Tutte le paure, i dubbi su di sé, la riluttanza a navigare le fredde e torbide acque del film caddero. In Martin Baum aveva trovato una nuova figura paterna a cui dimostrare quanto valeva. «Ho scommesso sulle persone per tutta la mia vita», telegrafò Baum a Sam quando si riprese. «Alcune, come Sidney Poitier, Cliff Robertson, Red Buttons e Gig Young mi hanno ringraziato pubblicamente mentre accettavano i loro Oscar. Altri mi hanno ringraziato privatamente per il loro successo. Ora punto le mie ultime fiches su Sam Peckinpah. Credo nel tuo talento, nel tuo coraggio e nella tua totale dedizione. Buona fortuna». Ancora una volta Sam invocò la fiera intensità, il corrosivo impegno e la concentrazione totale che aveva già dimostrato di possedere. Tutta la compagnia li sentiva propagarsi da lui come un campo di forza. Sam arrivò sul set alle 8.30 il suo primo giorno, terminò la prima messa in scena alle 9.55 e per fine giornata aveva sette minuti e
quarantacinque secondi di film stampati. La tensione tra lui e Hoffman si sciolse man mano che entrambi si davano un pizzico sullo stomaco e si rimettevano seriamente al lavoro. «Fu un’esperienza tosta», avrebbe detto Hoffman in seguito. «Ma mi è piaciuto lavorare con lui [Peckinpah]. Aveva la spontaneità di un bambino. All’improvviso gli venivano idee davvero entusiasmanti». Quando cominciarono a girare le scene notturne in esterni dell’assedio al cottage il 1 marzo, si muovevano a grande velocità. Sam era nel suo elemento. «Era una scena molto difficile, fisicamente parlando», dice Peter Vaughan. «C’era molto cameratismo tra tutta l’unità e Sam. Furono riprese felici, ma molto difficili. Girammo per ore, faceva freddo. I ruoli erano fisicamente molto faticosi: irrompere in casa, fare fuoco, farmi sparare a un piede. Sam diceva: “Entra da lì!”, ed entravi dalla finestra. Il fatto che le tende stessero andando a fuoco non faceva nessuna differenza; se Sam diceva di andare, tu andavi. Abbiamo letteralmente distrutto quella fattoria; furono due notti di lavoro estremamente violente. Andammo molto spediti, Sam girava con grande velocità. Fu una cosa straordinaria da fare, dal punto di vista attoriale. Eravamo eccitatissimi. Generalmente non si passa attraverso una finestra in fiamme. C’erano le controfigure, ma la definizione di ciò che fa una controfigura e ciò che fa un attore diventa un po’ confusa quando le cose diventano davvero eccitanti!» Quando l’isteria cominciò a scorrere, Peckinpah trovava difficile chiudere la valvola e ora la sentì inondare la sua vita privata come un allagamento. Non stava più all’hotel. Il supervisore di produzione Derek Kavanagh aveva affittato una casa per lui lì vicino. Poco dopo essersi trasferito lì, chiamò Joie a Londra e le chiese di raggiungerlo per stare con lui. Joie – già a disagio per le acque agitate di cui aveva avuto un assaggio prima che Sam partisse – disse di no. «Non era abituato a essere sfidato», racconta. «Esplose, si arrabbiò moltissimo e riattaccò il telefono. Ma poi richiamò il giorno dopo, contrito e gentile. “Perché non vieni il prossimo fine settimana? Ho davvero
bisogno di vederti”. Continuò a lavorarmi in quel modo finché non accettai». Katy Haber, sorprendentemente, ancora non sapeva che la relazione tra Sam e la Gould era di tipo amoroso, né sapeva delle sue altre relazioni. Credeva di essere l’unica donna nella vita di Sam, il suo unico vero amore. Ma quell’illusione andò in frantumi quando Joie arrivò in Cornovaglia. «Andai a prendere Sam una mattina per portarlo sulla location e c’era Joie nel letto con lui», racconta la Haber. «Ero devastata, completamente scioccata. Dovetti sedermi lì e aspettare che Sam si vestisse e per tutto il tempo lei rimase lì a letto incurante della mia presenza. Riuscite a immaginare come mi sono sentita? Non ebbe alcun rispetto per i miei sentimenti, per ciò che mi stava facendo. Il messaggio implicito era “ora ci sono io qui e tu sei fuori!”» Katy divenne isterica. Sam disse: «Ascolta, non capisci? Non possiamo essere coinvolti sessualmente mentre giro un film. Non possiamo avere sia un rapporto di lavoro che rapporti sessuali, e il film viene prima. Non capisci che il lavoro è più importante? Se non riesci a gestire questo emotivamente, è meglio che te ne vai». E così fece. Non abbandonò il film, ma tornò ai Twickenham Studios a Londra per lavorare nell’ufficio produzione. «Non me ne sarei mai andata di punto in bianco», spiega la Haber. «Stavo imparando di più sul fare film lì che se fossi andata al British Film Institute per due anni». Ma Joie non vinse alcun premio. Restò scioccata quando scoprì il cambiamento di Sam da quando aveva lasciato Londra. Beveva ancora pesantemente la sera e nei fine settimana. Con gli attori e la troupe imparò, come la Haber, a stare in guardia. Era pericoloso rivolgere la propria attenzione a chiunque non fosse Sam, specialmente Del Henney o Ken Hutchison – i due che avrebbero stuprato Amy nel film. Il minimo sorriso o scambio di convenevoli con un altro uomo avrebbe causato un attacco di gelosia di Sam.
Quando rientravano a casa la sera, gli occhi di Sam erano due rosse piaghe pulsanti e i suoi cambiamenti di umore erano repentini e imprevedibili. Bastava la minima provocazione a trasformarlo in una furia. E gli abusi ormai non erano più solo verbali. «Sam aveva lavorato, e bevuto, tutta la notte», racconta Joie. «Eravamo seduti al piano di sopra a parlare e all’improvviso si alzò e cominciò a distruggere l’intera stanza. Prese una lampada e ruppe tutte le finestre della stanza. E poi cominciò a picchiarmi. Senza alcuna motivazione. Ero spaventata, non ero mai stata picchiata da un uomo prima, era scioccante per me. Fu così drammatico. Era buio pesto, notte fonda. Lo avevo visto girare la fine dell’assedio quella sera e ora stava accadendo la stessa identica cosa, solo che era reale! Fu stranissimo! Corsi al piano di sotto e poi via da quella casa». Il cast e la troupe avevano organizzato un party quella sera per festeggiare la fine delle riprese in Cornovaglia. Guidando da lì verso casa, Del Henney si imbatté in Joie, ferita e sconvolta, che vagava lungo il ciglio della strada. La fece salire, la portò in città e la fece dormire nella sua camera. Henney non rimase, andò a dormire con qualcun altro quella notte, in modo che Joie potesse avere la camera per sé. «In seguito Sam lo scoprì e diede per scontato che avessi dormito con lui», racconta la Gould. «Quel poveretto si trovò in mezzo e stava solo cercando di essere gentile. Fu così carino, non mi pose alcuna domanda. Tutti partirono il giorno dopo per tornare a Londra. Ero così imbarazzata. Tutti sapevano che ero lì, ovviamente, perché la voce doveva essere girata, ma nessuno venne a vedere se stavo bene. Ricordo di aver guardato tutti mentre lasciavano l’hotel. Io partii il giorno seguente, quando tutti se ne erano già andati». Quando si aprì questa frattura con Joie, Katy Haber accorse per riempire il vuoto. Ma scoprì presto che Joie non era che il primo di una lunga serie di tradimenti. «Sam aveva questa sorprendente capacità di sedurre le donne», racconta la Haber. «Era incredibile. Si presentava una giornalista.
“Buongiorno, sono Tizia dell’L.A. Times, sono qui per intervistare Sam Peckinpah”, la portavo da Sam e me ne andavo a fare le mie cose. Tornavo mezz’ora dopo per vedere come stava andando e li trovavo a letto insieme! Attrici, gente dell’alta società, donne di qualsiasi estrazione sociale, donne che non ti aspetteresti neanche in un milione di anni di vedere cadere, saltavano direttamente nel letto con lui». Ma Katy resistette a tutte quelle donne e restò per i successivi sette anni, perché alla fine Sam tornava sempre da lei, o meglio, la riconvocava. «È stato con me più che con ogni altra donna, eccetto Marie», dice la Haber. «Si fidava di me al 100% per gestire la sua vita, eppure emotivamente si aspettava che prendessi solo quello che lui era disposto a dispensare. So per certo, e non lo dico per vantarmi, che sono stata una delle persone più importanti della sua vita. Eppure era così difficile per lui da accettare. Non voleva che le donne avessero il controllo della sua vita, non voleva che nessuno avesse il controllo della sua vita. Il fatto che si fidasse di me a così tanti livelli era una cosa difficile da gestire, per lui. Molte sue sferzate contro di me avevano origine da questo. “Non ho bisogno di te!” Ma allo stesso tempo sapeva che ne aveva bisogno eccome, il che era molto difficile da accettare, per lui». «Dopo la relazione con Joie, papà trattava Katy più come una serva che come una fidanzata. Lei sembrava essere in uno stato di stand by emotivo», afferma Melissa Peckinpah. «Se lo avesse fatto a me, sarei scappata il più lontano possibile da lui. Ma Katy tornò, tornava sempre. Ho sempre pensato che fosse una sanguisuga. Papà era soffocato dall’intenso attaccamento di Katy a lui, perciò faceva cose molto crudeli per mandarla via. Poi Katy cominciava a sviluppare un’indipendenza e a stare in piedi da sola e papà, attratto da questo, la attirava nuovamente a sé. Era uno dei rapporti più disfunzionali che abbia mai visto». Ma non era tutto brutto, si diceva Katy. C’erano volte, molte volte, in cui Sam sapeva essere meraviglioso – caloroso, divertente, incredibilmente generoso. Le insegnò l’arte
cinematografica nella sua totalità – scrittura, produzione e regia. Katy presenziava a tutte le riunioni in cui si prendevano le più importanti decisioni creative, sia dentro che fuori dal set. Oggi è una produttrice, una cosa che non sarebbe mai accaduta senza Sam Peckinpah. «Ha amplificato la mia vita. Una delle cose più generose che abbia fatto per me è stata comprare un appartamento per mia madre. Costava diecimila dollari. Stavo per comprargliene uno io. Spuntò fuori un appartamento da vendere e lui disse che voleva comprarlo per lei». Ma vent’anni dopo, dopo moltissime ore di analisi, Katy è consapevole che c’erano state motivazioni più profonde per le quali si era aggrappata così disperatamente alle falde di Sam. «Credo avesse a che fare con il suicidio di mio padre. Non ho mai pensato a cosa abbia significato per me, a come mi facesse sentire. Il mio terapista sostiene che abbia tollerato tutti quegli abusi perché Sam era una figura paterna per me e non volevo perdere di nuovo l’amore di mio padre. Mio padre mi aveva abbandonata ed ero pronta a tollerare qualsiasi cosa pur di non essere abbandonata di nuovo». Dopo aver completato gli esterni del film, la compagnia si trasferì ai Twickenham Studios a Londra per girare gli interni del cottage dei Sumner: le primissime scene che stabilivano la conflittuale dinamica matrimoniale della coppia, l’assedio dal punto di vista dei Sumner e la scena dello stupro. «Durante la prima parte del film», ricorda Dan Melnick, «nella quale Susan George era la principessa tornata al paese con il marito, Sam, Dustin e tutti gli altri erano amorevoli con lei. Poi, man mano che i conflitti del matrimonio progredivano, cominciarono a comportarsi con lei in maniera cattiva. La stavano completamente manipolando. La cosa mi innervosiva molto e ne parlai un paio di volte con Sam. Dissi: “Senti, non puoi trattare così questa ragazza”. Ma fu esattamente quello che fece». «Sam e Dustin davano a Susan battute fuori campo che non avevano nulla a che fare col copione», riporta Ken Hutchison. «Era per avere delle reazioni. Diciamolo, alcune
delle parole che usavano per ottenere quelle reazioni erano abbastanza incredibili». «Aspetta che i tuoi genitori vedano la scena di stupro che gireremo, tesoro», mormorava Sam a occhi socchiusi. «Come pensi che reagiranno? Pensi che saranno fieri della loro bambina? …Azione!» «Ero terrorizzata da quella scena di stupro», racconta la George. «Sam continuava a dire che avrebbe girato la più grande scena di stupro mai messa su pellicola. Ne parlava e riparlava ed era sempre più dettagliato nelle sue descrizioni delle cose che si aspettava, cose fisiche che avrebbe girato. Più ne parlava, più la cosa assumeva una rilevanza enorme nella mia testa, sproporzionata. Era partita come una piccola scena e ora stava diventando una trilogia, e io mi spaventavo sempre di più». Alla fine andò da Melnick e disse: «Senti, ho bisogno di sedermi con qualcuno e parlare di questa cosa. Voglio per iscritto tutto quello che vi aspettate da me per questa scena, dico sul serio! Perché non so cosa si aspetta Sam, ogni giorno c’è dell’altro che salta fuori. Non so se sono io a pensarci troppo o è lui. Per cui ho bisogno che certe cose siano chiarite». Melnick sorrise calorosamente, le diede una pacca sulle spalle e disse con la sua voce da dj radiofonico: «Credo che la cosa migliore che tu possa fare sia sederti con Sam e parlargliene». Così un giorno dopo le riprese andò a parlargli nel suo ufficio. Come al solito, stava lanciando coltelli. Ne conficcò tre nella porta di legno a mezzo metro dalla testa di lei. «Hai finito?», chiese, le labbra serrate intorno ai denti. «Sì, siediti, ragazzina». Si sedette di fronte a lui. «Senti, voglio parlare della scena di stupro». «Di cosa vuoi parlare?»
Cambiò posizione, a disagio. «Ho davvero bisogno di parlarne, di cosa faremo esattamente». «Che intendi con “cosa faremo esattamente”? Che c’è, vuoi che te lo scrivo?» «A dire il vero, sì. Vorrei proprio che me lo scrivessi. So che sembra sciocco, Sam, ma vorrei che me lo scrivessi. Così potrei portarlo a casa, rivederlo e assicurarmi che io possa fare tutte le cose che mi chiedi». «Non te lo scriverò». «Ma se non me lo scrivi e io non so cosa ti aspetti, diventa un problema insormontabile per me, e questo mi secca. Se potessimo parlarne dalla A alla Z, ne sarei entusiasta». Sam si protese in avanti, puntando l’indice verso di lei. «Ascoltami bene, quando sei stata scritturata hai o non hai accettato di fare la scena dello stupro?» «Sì, ho accettato». «Hai detto che l’avresti fatta». «Sì, l’ho detto, ma mentivo». «Che cosa?» «Mentivo. Mentivo perché volevo la parte e la scena dello stupro era nel film, ma ora non so se riesco a farla». All’improvviso Sam era balzato in piedi; un coltello sfrecciò dritto fino a conficcarsi nel pannello di legno della parete. «Che significa che non sai se riesci a farla?» «Non penso di riuscirci». «Be’, dovrai farla! Ti costringerò a farla!» Tremava mentre si alzava in piedi. «Va bene, Sam. Allora trovati un’altra Amy». Poi corse fuori dall’ufficio come una furia e attraversò il parcheggio in un fiume di lacrime. Comparve Melnick, come se fosse sbucato fuori dall’asfalto, e la fermò. «Che è successo, che è successo, che è successo? Hai parlato con Sam della scena?»
«Sì, e ho appena abbandonato il film». «Che cosa?» «Ho abbandonato il film». «Non essere ridicola. È ridicolo, bambina. Non puoi farlo! Torna a parlare con Sam». «Non tornerò in quella stanza, è sicuramente furioso con me. Urla, sbraita, farnetica e lancia coltelli. Non ci torno lì. Gli ho appena detto di trovarsi un’altra Amy». «Non puoi farlo. La società di produzione ti farà causa, la tua carriera colerà a picco!» Se ne andò comunque. Il giorno seguente Melnick fece molte chiamate allarmate a lei e al suo agente, John Redway, che alla fine convinse la George ad avere un altro incontro con Peckinpah. «Ero terrorizzata», racconta. «Entrai nell’ufficio di Sam ed era molto calmo, molto freddo». «Volevi vedermi?», mi chiese. «Sì. Volevo vederti perché penso che tutto questo sia stupido, davvero, perché ho abbandonato il film e non credo tu voglia che me ne vada, e l’ho fatto solo perché ho paura. Non vuoi aiutarmi a superare questa paura, quando tutto quello che sto chiedendo è di sapere esattamente cosa vuoi che io faccia. Questo mi aiuterebbe a essere meno spaventata». La faccia di Peckinpah si scongelò di qualche grado. «Va bene, ti dirò cosa voglio girare». «Scrisse tutto su carta», racconta la George, «ed era terribile, orrendo! Desiderai che non lo avesse mai scritto. Era agghiacciante, peggio per iscritto di quando me ne parlava a voce». «Non posso farlo», rispose. «Non posso fare queste cose». «Be’, allora come proponi di darmi queste emozioni?» «Be’, propongo di farlo attraverso i miei occhi. Se sono l’attrice che tu pensi che sia, credo di poter parlare attraverso i
miei occhi. Se ti concentri sui miei occhi e sui movimenti del mio corpo, prometto di condurti lì dove vuoi arrivare. Renderò realistico ogni singolo, dannato istante». Riuscì a sentire il rumore delle rotelle che si mettevano in moto dietro gli occhi di Sam. Quella sequenza era importante per lui, importantissima, e lei lo sapeva. «Voglio girare la miglior scena di stupro che sia mai stata girata», disse di nuovo. «E lo farai! E io lo farò per te. Se mi lascerai fare a modo mio, posso darti la più bella, provocatoria, eloquente scena di stupro che si sia mai vista! Posso riuscirci senza dover mostrare peli pubici. So che posso». Sam ci pensò ancora per un momento, poi il suo viso si rilassò. «Okay, facciamo un patto. Lo farò a modo tuo e, se quando l’avrò fatto a modo tuo non sarò soddisfatto… allora dovremo farlo a modo mio». «Lo capisco». Avevano un accordo. «Così la girammo», racconta la George. «Girammo la scena dello stupro per una settimana. Il primo giorno arrivai assolutamente pietrificata. Sam arrivò al lavoro quel giorno e si sedette con le gambe incrociate, acquattato per terra, di fronte al divano dove venivo stuprata, senza muoversi, e non mi disse una parola per cinque giorni. Parlava invece a Del Henney, e fu durissimo con lui. Cominciò a dire cose del tipo che era un pessimo amante. Provocava Del in maniera terribile, ma a me non disse neanche una parola. Quando Del era sopra di me, diceva cose del tipo: “Dio onnipotente! Questo è tutto?” Fu davvero incredibile. Cercavo di non ascoltarlo, ma non mi diceva mai una parola, al massimo mi sorrideva di tanto in tanto. E fece ciò che lo avevo pregato di fare, ossia concentrarsi sui miei occhi e sulla parte superiore del corpo e lasciare che raccontassi la mia storia. Sam era così pericoloso e letale da un lato, e così calmo, gentile e affettuoso dall’altro: questa era la cosa davvero affascinante in lui».
«Fu una scena difficile da girare», racconta Henney. «Era piuttosto straziante, in verità. Ma si doveva fare. Verso la metà, diventa una specie di scena d’amore, una scena tenera. C’erano due forze che muovevano il personaggio che interpretavo, una che lo spingeva in avanti e un’altra all’indietro. Una lo spingeva a trascendere le sue origini, a essere più umano. Era più intelligente degli altri, ma l’altra forza, la pressione dei suoi compagni, lo rispingeva indietro. È per questo che finisce per trattenere Amy mentre Scutt la stupra». «Quando finimmo, non mi lasciò vedere il totale dei giornalieri», racconta la George. «Me li aveva fatti vedere durante le riprese, ma ora si rifiutava. Li rivide da solo e tornai a casa agitandomi per tutto il fine settimana, chiedendomi quali sarebbero state le conseguenze, se ce l’avessi fatta o no e quanto sarebbe stato arrabbiato in caso negativo. Non avevo riprese il lunedì successivo, ma andai comunque sul set verso le undici di mattina. Sam era appena stato a vedere il girato, lo colsi proprio mentre stava uscendo dalla sala di proiezione e pensai: Dio! Cosa faccio? Mi volto e scappo? Mi levo di mezzo, me ne torno in auto, che faccio? Ero lì e lui avanzava sull’asfalto, verso di me, impassibile, e quando mi arrivò accanto mi porse la mano e disse: “Ce l’hai fatta, ragazzina”. Mi strinse la mano e questo sancì la fine della scena dello stupro». Aveva catturato Amy in tutta la sua conflittuale, tormentata passione. Un’interpretazione fenomenale che eguagliava i migliori momenti di Hoffman nel film e, quando Sam ne ultimò il montaggio, divenne una delle scene più perversamente erotiche della storia del cinema. «Il mio personaggio comincia con l’essere forte, ma alla fine del film è completamente spogliata sul piano emotivo», afferma la George. «Quando girai la scena con Del Henney, Dustin Hoffman andò allo studio. Non venne sul set, andò allo studio sapendo cosa stava succedendo nel teatro di posa. E il giorno dopo mi trattò come se gli fossi stata infedele. Dopodiché, il rapporto tra di noi, che era stato favoloso fino a
quel momento, si deteriorò. Fu come se lo avessi ferito. Ero davvero disperata perché alla fine del film Hoffman aveva tagliato tutti i ponti con me ed era diventato molto distante. Da amico tenero, amorevole e divertente, era diventato estremamente freddo. Mi ferì molto. Non l’ho più visto per anni e anni. Giochi della mente, incredibili giochi della mente, che venivano sia da Dustin che da Sam. Ma è così che lavoravano, e io credo oggi e crederò sempre che Peckinpah fosse un genio, come lo è Hoffman: per questo ero pronta a prendere tutto quello che erano disposti a darmi». I sessantasei giorni di riprese di Cane di paglia finirono il 29 aprile 1971, cinque giorni in ritardo sul programma. Peckinpah aveva girato 79.612 metri di pellicola, poco al di sopra della media dei film del tempo. Ma ancora una volta il girato era spezzettato in uno sconcertante numero di inquadrature e Sam le stampò quasi tutte. Per trasformare quella montagna di materiale grezzo in un film finito, Peckinpah ingaggiò una scuderia di tecnici del montaggio – Tony Lawson, Paul Davies, Roger Spottiswoode e Bob Wolfe – e passava da una sala montaggio all’altra per controllare il loro lavoro sulle varie sequenze. Sam aveva ripreso ogni scena da una moltitudine di angolazioni con poco interesse verso il rispetto dell’azione; spesso gli attori recitavano nei primi piani in maniera completamente differente da quanto avevano fatto nei campi lunghi. La violazione della continuità era intenzionale. Peckinpah usava i primi piani come un’opportunità per esplorare le sfumature di una scena e tirare fuori dettagli della caratterizzazione e dell’interazione che non esistevano nei campi lunghi. A un montatore convenzionale sarebbe sembrata una follia, ma quelli che erano pronti a cogliere al volo le occasioni videro una prospettiva completamente nuova aprirsi davanti a loro. «I film di Sam si scoprivano in sala montaggio», sostiene Garth Craven, che lavorò come tecnico del suono per Cane di paglia e come montatore per quattro successivi film di Peckinpah. «Sam non voleva che tagliassi una scena nel modo in cui l’aveva concepita, voleva che ti venissero idee a cui lui
non aveva pensato, che poi avrebbe bocciato o per cui ti sarebbe stato riconoscente. Ricordo che Bob Wolfe mi disse: “Questo è il sogno di tutti i montatori. Hai tutto questo girato, informe, e sta a te dargli una forma”». Tutti concordavano che il più brillante membro della squadra fosse Bob Wolfe, che avrebbe lavorato a un totale di cinque film di Peckinpah. «C’erano queste scene estremamente complicate con centinaia di metri di pellicola e tutti quegli elementi», afferma Roger Spottiswoode, «come la scena della festa della parrocchia, dove Amy ha dei flashback dello stupro. Bob riuscì a concepirla come un pezzo finito e ne montò una prima versione che poteva già quasi essere un buon montaggio. Se guardate il girato dal quale è partito, fu un notevole atto di immaginazione. Era questo il suo talento: capiva le dinamiche interne di ogni scena. Era dentro ciò che Sam faceva, più di chiunque altro tra noi, ed era così che riusciva a immaginare». A giugno, i tecnici di Peckinpah lo seguirono a Hollywood, dove completarono la postproduzione mentre Sam si preparava per il suo film successivo, L’ultimo buscadero. In autunno Cane di paglia fu pronto per la sua prima anteprima pubblica al North Point Theater di San Francisco. «Non avevamo idea di quanto fosse potente, perché non lo avevamo mostrato a nessuno e noi ci eravamo desensibilizzati», dice Roger Spottiswoode. Quando apparirono i titoli di testa sullo schermo, non riportavano il nome del produttore sopra al titolo, ma un nuovo accredito che rifletteva l’ascesa della politica degli autori a Hollywood e il fatto che Sam ne fosse uno dei principali praticanti: SAM PECKINPAH’S STRAW DOGS [«CANE DI PAGLIA DI SAM PECKINPAH»]. Il cinema era gremito e la reazione fu esplosiva quanto lo era stata quella a Il mucchio selvaggio. Un terzo del pubblico uscì dalla sala prima che il film finisse, urlando commenti come «è osceno!» mentre risaliva il corridoio. Molti di quelli che rimasero, tifarono per Dustin Hoffman a ogni più intenso atto di brutalità. «C’era una sete di
sangue spaventosa», dice un membro del team di produzione presente. «Credo fossimo tutti scioccati per aver provocato quella reazione, non avevamo idea che avrebbe avuto un effetto così viscerale sul pubblico». Dopo, Peckinpah e Melnick se ne stavano nell’ingresso quando un omino si diresse verso di loro e chiese: «Chi è il responsabile di questo film?» Melnick si raddrizzò con orgoglio e disse: «Be’, io sono il produttore. Come posso aiutarla?» L’uomo cominciò a tremare, il viso gli stava diventando viola e le vene sulla sua fronte sporsero come tubi chirurgici: «Tu, sporco, corrotto pornografo», cominciò a urlare. «Orribile mostro del cazzo, come hai potuto pensare di mostrare una cosa del genere al pubblico americano? Cosa volevi fare quando…» Senza perdere un colpo, Melnick si voltò lentamente verso Sam. «Be’, in quanto produttore, non mi ritengo responsabile per i contenuti del film. Credo dovrebbe rivolgere i suoi commenti al regista…» L’omino si girò e si scagliò sul nuovo bersaglio. Sam si allontanò dall’ingresso. Zigzagando tra la folla che usciva, sparì nella sala, con ancora alle calcagna il furioso piccolo bulldog che lo aggrediva verbalmente. Melnick corse verso la limousine che attendeva fuori del teatro e ordinò all’autista di spostarsi di corsa nel vicolo sul retro, dove i freni stridettero proprio mentre si spalancava la porta dell’uscita secondaria. Ne uscì Peckinpah, correndo a tutta velocità. Melnick gli aprì la portiera, Sam si fiondò all’interno e l’auto partì nella notte, lasciando l’infuriato pacifista senza fiato e a mani vuote. «Era una diversa era del cinema», dice Spottiswoode. «Si facevano film più rischiosi perché si conducevano meno ricerche di mercato e si aveva meno paura. Quella fu l’unica anteprima del film e non credo che abbiamo cambiato qualcosa. Forse abbiamo eliminato un minuto. La convinzione
generale era che avevamo uno straordinario, strano film e non c’era nulla da fare al riguardo. Ci furono molte discussioni sulla possibilità di cambiare il titolo, ma non lo fecero; nessuno aveva un titolo migliore. Oggi è diventato automatico che dopo l’anteprima si cambi il titolo in base a com’è andata. L’idea che i film debbano essere realizzati su misura per il mercato è diventata un fatto accettato e raccapricciante». La ABC fu molto più furba della Warner Bros. nella promozione del film di Peckinpah. Le pubblicità stampate e i manifesti ideati per l’uscita di Cane di paglia nel dicembre 1971 mostravano un primo piano di Dustin Hoffman con gli occhiali dalla montatura in metallo che indossa nel film, la lente destra rotta e le schegge sparse sul viso. Era accompagnato da didascalie come QUANDO BUSSARONO ALLA PORTA, UN UOMO NACQUE E SETTE MORIRONO! Lo studio produsse anche delle appropriate pubblicità televisive da trenta secondi, trailer cinematografici di due minuti e spot radiofonici di sessanta secondi che richiamavano lo stesso tema. La campagna promozionale ebbe un effetto sia positivo che negativo. Suscitò sicuramente interesse verso Cane di paglia, ma gli slogan e le pubblicità, che riflettevano l’interpretazione del film da parte dello studio e non quella di Sam, portarono molti critici a trarre la conclusione che il film fosse un’euforica celebrazione del conflitto fisico. In tutta la nazione, il film suscitò recensioni ancora più opposte del Mucchio selvaggio. Time e Newsweek definirono il film brillante; The Atlantic, Variety, il New York Times, Life e il New Yorker lo denunciarono in quanto depravato, misogino e fascista. William S. Pechter scrisse in Commentary: Di certo, indipendentemente da quale sia il suo atteggiamento conscio nei confronti della violenza dei suoi film, nessuno può portare sullo schermo scene di violenza con la controllata frenesia che vi apporta Peckinpah senza uscirne indenne; senza, in un certo senso, godere di ciò che fa, ed è questo investimento di sé, questo tentativo di esorcismo dei suoi demoni nel suo lavoro, forse anche più del suo genio creativo, che rende Peckinpah così difficile da accettare e allo stesso tempo impossibile da ignorare. Kubrick ci insegna freddamente che viviamo
in un inferno che ci siamo costruiti da soli; Peckinpah brucia nelle fiamme con noi, agonizzante.
Ma molto più allarmante della risposta dei critici fu per Sam quella di una vecchia conoscenza di Fresno – Fern Peckinpah. «Molto stranamente, mia madre non solo lo ha visto, ma ha voluto vederlo anche una seconda volta», scrisse Sam a un amico. Le spese finali di Cane di paglia ammontarono a 3.251.794 dollari, più di un milione di dollari oltre il budget iniziale. Nonostante le controversie riguardanti le crude scene di sesso e violenza, il film non ebbe un grande riscontro al botteghino. Alla fine del 1973 aveva incassato 7.980.902 dollari in tutto il mondo, 11.148.828 dollari nel 1983. Dopo che Sam aizzò una squadra di avvocati e contabili contro lo studio, la produzione ammise un guadagno di 503.405 dollari e Sam ricevette la sua prima quota dei profitti: 21.505 dollari. Il pubblico furore suscitato da Cane di paglia rese il nome di Peckinpah il più conosciuto tra quelli dei registi dai tempi di Alfred Hitchcock. Divenne persino bersaglio del gruppo comico inglese Monty Python, al tempo allo zenit della sua popolarità sulla BBC. Il gruppo realizzò uno sketch – «Salad Days di Sam Peckinpah» – in cui un raffinato party in giardino inglese si trasforma in un grottesco bagno di sangue in slow motion. La sua fama aveva contribuito tanto quanto quella di Dustin Hoffman, se non di più, al successo di Cane di paglia. I suoi servigi erano richiesti come mai prima, ma lo stampo in cui lo avevano forzato si stava indurendo. Fece del suo meglio per uscirne. Quando il film uscì nelle sale, era già al lavoro sul successivo, L’ultimo buscadero. Il copione, di Jeb Rosebrook, non aveva un singolo sparo all’interno e la conta delle vittime era pari a zero. Narrava la storia di un senescente campione di rodeo, Junior Bommer, che ritorna nella sua città natale a Prescott, in Arizona, dove scopre che i tempi sono cambiati. Suo fratello, Curly, sta convertendo il ranch di famiglia in un parcheggio per case mobili. Offre a Junior la possibilità di guadagnare un po’ di
soldi insieme a lui vendendo il terreno in piccoli lotti delle dimensioni di un francobollo, ma Junior si aggrappa testardamente alla vita da cowboy di rodeo, una vita che il suo corpo riuscirà a reggere ancora soltanto per pochi, faticosi anni. Marty Baum aveva mandato la sceneggiatura a Peckinpah a Londra nella primavera del 1971 mentre il regista era ancora alle prese con il montaggio di Cane di paglia. Steve McQueen, bramoso di fare qualcosa di più concreto dei suoi soliti ruoli d’azione, aveva già firmato per comparirvi. Sam si sedette a leggere il copione nel suo appartamento a Richmond. Già a pagina sei – quando i bulldozer di Curly radono al suolo il ranch di famiglia – seppe che voleva fare quel film. Era una pagina strappata direttamente dalla sua vita; Sam stesso non avrebbe potuto scriverla meglio. E il copione non faceva che migliorare di pagina in pagina. La sceneggiatura di Rosebrook si dipanava con l’aggraziata prosa di un romanzo. La storia riecheggiava le stesse esperienze di Peckinpah: il suo ritratto di una famiglia di frontiera sradicata dalle proprie radici, scissa, i cui membri sono pieni d’amore, rabbia e sospetto ferito l’uno nei confronti dell’altro – desiderosi di tornare uniti, eppure consci dell’impossibilità che accada. Accettò immediatamente di realizzare la pellicola. Durante le ultime settimane di riprese e il primo mese di montaggio di Cane di paglia, Katy Haber era stata il braccio destro di Peckinpah di giorno e la sua amante di notte. Ma ora che era ritornato negli Stati Uniti, Sam le aveva detto addio. Le promise che sarebbe tornato a Londra e che avrebbero presto lavorato ancora insieme. Non era esattamente quello che avrebbe voluto sentirsi dire, ma Katy simulò un naturale consenso. Katy non sapeva che Sam si vedeva di nuovo con Joie Gould e che l’avrebbe portata con sé in California. Dopo quella terribile notte in Cornovaglia, Joie aveva giurato a se stessa che non avrebbe mai più rivisto Sam. «Insomma, nessun
uomo aveva mai alzato un dito contro di me». Ma mentre stava terminando le riprese ai Twickenham Studios, Sam la chiamò. La sua voce sembrava così fragile e spaventata, all’altro capo del telefono. Le disse che doveva andare da lui, che aveva davvero bisogno di vederla quel giorno stesso. Joie acconsentì a incontrarlo al Richmond Park. «Probabilmente in quel periodo ero innamoratissima di lui», dice la Gould, «ma davvero non so per quale motivo lo incontrai quel giorno, perché non volevo. Ero spaventatissima da lui, e molto confusa». Passeggiarono nel parco insieme e Sam si scusò per quello che era successo, la voce strozzata da una sincera angoscia. Non sarebbe capitato mai più, promise. Era stato l’assedio, spiegò – gli era entrato dentro e lo aveva fatto esplodere. Ma aveva smesso di fare quel genere di film. Joie non c’entrava niente, era solo capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato e non poteva essere più dispiaciuto. Non sarebbe accaduto mai più, doveva credergli. Ma Joie si dimostrò inflessibile, quel giorno. Gli disse che non poteva più rivederlo, gli disse addio e tornò a casa. Sam le telefonò quella sera e la pregò di andare a cena con lui. «Sam era molto affascinante quando voleva. Recitava poesie, cose del genere. Ad ascoltarlo da ventiquattrenne… all’improvviso mi ritrovai seduta in un ristorante con lui, con questo affascinante gentiluomo». E così ricominciò il corteggiamento e lentamente ma senza riserve la fece nuovamente innamorare. «Ti manipolava tutto il tempo e non te ne rendevi conto», dice. Le inviava fiori con haiku scritti sui bigliettini. Joie cominciò a rispondergli con bigliettini, piccole poesie che esprimevano i suoi crescenti sentimenti per lui. Sam li adorava ed elogiava la sua sensibilità e perspicacia. «Era pazzamente romantico e molto elegante», ricorda la Gould. «Potevo immaginarmelo a Parigi negli anni Venti con Hemingway e il suo gruppo. Ripensandoci, viene da chiedersi: “Perché l’ho fatto? Perché non me ne sono andata?” Ma ero
talmente coinvolta a quel tempo da non riuscire nemmeno a pensare. Non ricordo di essermi fermata a riflettere nemmeno un solo secondo per tutto il tempo che sono stata con Sam. Giustificavo quel comportamento terribile, lo giustificavo sempre. “Oh, è solo preso dal film. Ha bevuto troppo ed era stanco”. Voglio dire, un comportamento così è difficile da razionalizzare. Non è che tutto si aggiusta quando si giunge a una razionalizzazione. Non aveva senso, ma ero molto giovane. Avevo venticinque anni, ma dentro ero ancora più giovane. Vedevo il mondo tutto rose e fiori. Mi piacevano le persone intense, interessanti. Pensavo: è un uomo molto intenso che vuole soltanto essere felice. Ha bisogno di qualcuno che lo ami davvero, che lo faccia sentire al sicuro. E ti convinci che se farai tutto nel modo giusto, questa persona sarà felice – una grande, errata fantasia». Così, quando Sam tornò in America, Joie andò con lui. Ma erano a Los Angeles da poche settimane quando Sam causò un terribile litigio e poi partì per l’Arizona per cominciare a girare L’ultimo buscadero, lasciando Joie abbandonata in una città strana, immensa, ricoperta di smog. Non poteva tornare a Londra, non dopo aver detto a tutti i suoi amici che sarebbe stata via per sei mesi. Non avrebbe potuto affrontare i loro sguardi, i sottili «te l’avevo detto». Perciò restò a Los Angeles e trovò dei lavori da segretaria nei vari studios grazie ai suoi amici nel giro. «Ma Sam mi tenne sotto controllo per tutta l’estate», racconta la Gould. «Trovai una serie di lavori temporanei a Hollywood e conosceva ogni persona per cui lavoravo. Credo che semplicemente non volesse essere coinvolto con me mentre aveva un film da girare e io ero ancora molto innamorata di lui». Quando Sam lasciò Londra, passarono tre eterne settimane prima che Katy avesse sue notizie. Vivere e lavorare con Sam erano spesso stati un incubo, ma le mancava il brivido di quel giro sulle montagne russe. Tutto sembrava così triviale, così privo di scopo ora che se ne era andato, e le mancava il drammatico senso di uno scopo da perseguire che caratterizzava ogni produzione di Peckinpah. La prospettiva di
lavorare di nuovo a un normale film le faceva calare l’entusiasmo. Poi arrivò la chiamata. Ringhiò, a malapena salutandola: «Porta il culo qui!» Aveva già cambiato un paio di segretarie; nessuna riusciva a gestirlo. Aveva bisogno di lei. Prima di conoscere Sam Peckinpah Katy aveva rifiutato un lavoro negli Stati Uniti perché non voleva lasciare sua madre da sola a Londra. Ora era bastata una sola telefonata e stava già preparando di corsa i bagagli, affrettandosi per riunirsi a un uomo che sua madre giudicava instabile e pericoloso. Un pesante senso di colpa la pervase mentre si imbarcava su quell’aereo a Heathrow e pensava a sua madre tutta sola in quel minuscolo appartamento, ma fu velocemente sopraffatta dall’eccitazione di unirsi a Sam per un altro film. Era stata presa all’amo, incapace di fermarsi a chiedersi il perché. Peckinpah cominciò a girare L’ultimo buscadero il 30 giugno 1971 a Prescott, Arizona. Robert Preston e Ida Lupino erano stati scritturati per i ruoli del padre e della madre di Junior Bonner, a cui si riunisce quando torna alla città natale, e Joe Don Baker interpretò suo fratello Curly. Buona parte dell’azione fu girata all’interno e intorno al vero Frontier Days Rodeo che si teneva a Prescott ogni anno, a cui lo scrittore Jeb Rosebrook aveva spesso assistito da adolescente. Peckinpah riuscì a tenere sotto controllo il suo alcolismo durante le riprese. La maggior parte dei giorni non cominciava a bere prima delle cinque di pomeriggio. Poi continuava anche durante i meeting serali con la produzione e la proiezione dei giornalieri. Alle 22 era completamente sbronzo, ma era di nuovo puntuale sul set il mattino dopo – pallido e con gli occhi rossi – eccetto in qualche rara occasione. Il film terminò le riprese il 17 agosto, con un solo giorno di ritardo ma un milione di dollari oltre il budget originale di due milioni e mezzo. L’eccesso era stato causato dalla mancanza di una preproduzione (Peckinpah ebbe solo cinque settimane per prepararsi da quando atterrò sul suolo americano al primo giorno di riprese, che doveva coincidere con l’inizio del rodeo a Prescott) e dagli alti costi della manodopera e
dell’attrezzatura richieste dalle nove troupe per girare le scene del rodeo. L’ultimo buscadero restò in postproduzione per dieci mesi, ma il tempo e il denaro sperperati valsero la pena. Il prodotto finale – che fu montato da Bob Wolfe e Frank Santillo e musicato da Jerry Fielding – era un piccolo ma lucente gioiello. Le sobrie interpretazioni erano state rese in una maniera talmente realistica, i personaggi osservati in maniera così attenta e la regia di una tale compostezza che eguagliava il lavoro fatto con «Noon Wine». La ABC aveva saputo sfruttare Cane di paglia come l’ispettore Callaghan degli intellettuali, ma quando lo studio lanciò L’ultimo buscadero nel giugno del 1972 fece lo stesso errore che la Warner Bros. aveva commesso con Il mucchio selvaggio. Sottile e controllata analisi di un personaggio, il film sarebbe dovuto uscire prima in pochi cinema selezionati nelle città più grandi, per trovare un suo pubblico. Lo studio invece lo trattò come un’altra pellicola d’azione di Steve McQueen, proiettandola in massa in centinaia di cinema di tutto il paese. Lo stesso McQueen si oppose strenuamente a questo approccio, ma il suo appello non trovò chi lo ascoltasse. Comunque L’ultimo buscadero avrebbe probabilmente incontrato degli ostacoli indipendentemente dalla sua distribuzione. La risposta dei critici fu tutto fuorché travolgente. Sia Time che Newsweek, entusiasti di Cane di paglia, gli diedero pollice verso. Vincent Canby del New York Times lo elogiò come uno stralcio di dramma meravigliosamente realizzato, e così fecero anche il New York Post e il Daily News. Ma la maggior parte dei critici che si erano fatti avanti per condannare i bagni di sangue del Mucchio selvaggio e Cane di paglia restarono visibilmente muti sull’argomento dell’Ultimo buscadero. La pellicola ricevette scarsa attenzione dai media. Una delle recensioni più positive e riflessive fu scritta da William S. Pechter di Commentary. «Non accade molto: semplicemente alcune persone, il posto in cui vivono e lo stile
di vita che conducono sono vividamente messi in scena davanti ai nostri occhi», scriveva Pechter, «che è come dire che accade tantissimo. Alla fine, come in un buon romanzo, ti senti come se avessi conosciuto e avessi vissuto con delle persone per un periodo delle loro vite, i cui momenti si cristallizzano in una definizione di chi e cosa sono… Ma quella che è una cifra tipica di Peckinpah (oltre all’aspetto, l’atmosfera, la consistenza del film e la sua orchestrazione di interpretazioni di prima categoria carpite persino ad attori come Steve McQueen, che mi è raramente piaciuto prima), è il modo in cui è messo insieme. Che si possa guardare il film senza nemmeno accorgersi del suo montaggio è in qualche modo il parametro del successo di Peckinpah. Perché ciò che Peckinpah ha fatto è stato creare uno stile di montaggio accuratissimo nel quale, a dispetto del luccicante effetto mosaico, non c’è percezione di frammentazione narrativa… L’ultimo buscadero mi fa chiedere se qualche altro realizzatore di film abbia mai montato in maniera più bella di Peckinpah. Tuttavia, non vorrei isolare questo risultato o fare artificiose distinzioni: ho trovato L’ultimo buscadero al contempo meravigliosamente realizzato e meravigliosamente percepito: triste e turbolento, un film che vive, respira e riempie ampiamente un vuoto». Nel suo primo anno di distribuzione, L’ultimo buscadero incassò 2.306.120 dollari in tutto il mondo. Nel 1977 quella cifra era più che raddoppiata, fino a 4.647.876 dollari. Ufficialmente era ancora sotto di 3.497.909 dollari ma, conoscendo la fraudolenta contabilità degli studi cinematografici, probabilmente ottenne anche dei piccoli profitti. (Martin Baum afferma, in un momento di lapsus o di candore: «La realizzazione dell’Ultimo buscadero costò così poco che portò davvero degli ottimi profitti. Davvero un film redditizio».) Ma non fece abbastanza per convincere i power broker di Hollywood che Peckinpah fosse capace di dirigere drammi delicati sulle sottigliezze delle relazioni umane. Il punto era che, pur avendo ormai sette film all’attivo, Sam Peckinpah non
aveva realizzato alcun successo commerciale. I suoi film più famosi – Sfida nell’Alta Sierra, Il mucchio selvaggio e Cane di paglia – non erano stati che dei modesti successi al botteghino. Solo un successo colossale avrebbe potuto dargli un’influenza tale da poter scegliere il proprio materiale. E all’improvviso l’occasione per un successo si presentò. Steve McQueen aveva adorato L’ultimo buscadero nonostante i deludenti proventi. Desiderava lavorare ancora con Peckinpah e aveva un soggetto che stava sviluppando per la First Artists, la società di produzione che aveva fondato con Barbra Streisand, Sidney Poitier e Paul Newman. Seguendo l’esempio di Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks, Mary Pickford e D.W. Griffith negli anni Venti, le più grandi star del botteghino degli anni Settanta speravano che, fondando una propria società, avrebbero finalmente incassato parte dei guadagni dei film a cui partecipavano. McQueen aveva acquistato Getaway, un romanzo thriller dello scrittore Jim Thompson, che si era guadagnato un seguito cult fervente quanto quello di Peckinpah. Getaway narrava la storia di Doc McCoy, un geniale rapinatore, e della sua graziosa ma letale moglie Carol, che si imbarcano in un’ultima, pericolosa avventura. Il libro di Thompson si svolge in uno squallido panorama: i vicoli malfamati e le sordide camere d’albergo di un mondo disperatamente corrotto, abitato da una grande varietà di squali umani che si cibano gli uni degli altri senza un briciolo di senso di colpa. La visione era cupa quanto un buco nero nello spazio, ma un giovane sceneggiatore, Walter Hill, era riuscito a strofinare via le ombre e a rifinire la storia in un buon veicolo d’azione. Aveva il potenziale per diventare un nuovo Bullit, che aveva incassato 19 milioni di dollari. McQueen offrì a Peckinpah 225.000 dollari più il 10% dei profitti per dirigerlo. Sam accettò senza alcuna esitazione. Da quando era tornato negli Stati Uniti, Sam aveva vissuto in stanze di motel, a casa di Jerry Fielding e nel suo ufficio ai Goldwyn Studios, dove c’era una branda. La maggior parte dei suoi effetti personali era ancora
impacchettata in scatoloni a casa di Fielding e in un deposito a Los Angeles. Quando le riprese dell’Ultimo buscadero furono completate, mandò Katy Haber a spostare i suoi averi in un appartamento a Studio City che Bob Schiller aveva affittato per lui. Sam doveva restare a Prescott per un altro paio di settimane, disse alla Haber, per sovrintendere alla chiusura della produzione. Schiller aveva trovato per Peckinpah una bellissima villetta a due piani in Acama Street, a due passi dal Four Star Studio. La Haber aveva fatto portare tutte le cose di Sam e aveva cominciato a spacchettare. L’impresa divenne ben presto un incubo. «Nessuna scatola era etichettata. Chiunque avesse impacchettato tutte le cose di Sam, le aveva semplicemente messe dentro le scatole senza un ordine preciso. Era come se avessero preso il tavolino e lo avessero ribaltato facendo scivolare tutto quello che c’era sopra in una scatola, come se avessero preso e capovolto i cassetti. C’era un posacenere con ancora dentro i mozziconi. Mi ci vollero tre giorni buoni per spacchettare tutto e dare una sorta di ordine alla casa». Ma la sua fatica era alleggerita dalla fantasia che quella sarebbe stata la casa che avrebbe condiviso con Sam; stava creando un nido per sé e per lui. Alla fine dei tre giorni, fece un passo indietro e valutò la sua opera con radioso orgoglio. Non era molto – l’arredamento di Sam era un’accozzaglia di pezzi non abbinati tra loro e la sua idea di arredo consisteva in alcuni ferri da marchiatura arrugginiti e una confusa collezione d’arte precolombiana – ma era un inizio. Sam sarebbe stato fiero di lei e già si immaginava a crogiolarsi nelle sue lodi. Poi il telefono squillò – era Sam. Disse, senza nemmeno salutarla: «Hai finito o no?» Fece per rispondere, ma Sam proseguì: «Io e Joie siamo rimasti qui al Santa Ynez Inn a Malibu già due giorni aspettando che tu finissi. Quando possiamo trasferirci?» Le venne un capogiro – fu peggio di qualsiasi colpo fisico le avesse mai inflitto – lo stomaco le si ingarbugliò e le venne da vomitare. Durante tutta la realizzazione dell’Ultimo buscadero le aveva assicurato che era tutto finito tra lui e Joie,
che Joie faceva parte del passato. Ora era di nuovo qui, improvvisamente materializzatasi in America come un esecrabile spettro. Con gli occhi lucidi e offuscati, Katy cominciò a urlare al telefono, incapace di controllare le parole che le uscivano di bocca. Quando ebbe finito di urlare fino a perdere il respiro, la voce di Sam mormorò calma al suo orecchio: «È ovvio che non sei capace di gestire questa situazione». «Vaffanculo tu e tutto quello che rappresenti». Riattaccò violentemente la cornetta, prese una camera in un motel a Studio City e un paio di giorni dopo era su un volo per Londra. Durante il volo, il senso di colpa la divorò. Aveva abbandonato sua madre, l’unica parente che aveva al mondo, probabilmente l’unica persona che l’amasse al mondo, lasciandola da sola in un minuscolo appartamento… per cosa? Per subire abusi, per dare tutto e non ricevere altro che crudeltà in cambio? Ma tre settimane dopo, mentre Getaway! si avvicinava alla fase di preproduzione, ricevette una telefonata da Sam. «Ti sei calmata?», le disse. «Che ti piaccia o no, io e Joie viviamo insieme. Ma noi abbiamo un film da fare. Scegli se vuoi lavorare oppure no. Vuoi lavorare? Sei dei nostri o no?» Senza rendersene conto, era già su un aereo per tornare a Los Angeles. Sia Katy che Joie sarebbero andate con Sam in Texas per le riprese di Getaway! ed entrambe avrebbero lavorato come segretarie di produzione. La notte dormiva con Joie, ma Katy era sempre al suo fianco sul set, a organizzare la sua vita per lui – un compromesso in cui solo Sam Peckinpah avrebbe mai potuto sentirsi a suo agio. Venticinquemila dollari del pagamento anticipato di Sam erano destinati al suo eventuale lavoro di riscrittura. In Sfida nell’Alta Sierra, Il mucchio selvaggio e Cane di paglia Peckinpah aveva, attraverso un attento processo di riscrittura, trasformato storie commerciali e semplicistiche in profonde e complesse opere d’arte. Ma questa volta era diverso. Non
nutriva illusioni sul tipo di film che McQueen voleva – o, ancora meglio, di cui necessitava, visto che la star non aveva riportato successi da Bullit di quattro anni prima e la sua società di produzione personale, la Solar Productions, si trovava in pericolose ristrettezze finanziarie. Sia per McQueen che per Peckinpah Getaway! costituiva un’occasione per fare bei soldi. Se gli incassi schizzavano alle stelle, entrambi avrebbero potuto esercitare un maggiore controllo sui film che avrebbero realizzato in futuro; se si rivelava un fiasco, sarebbero entrambi stati tenuti in scacco dagli studios. «Non stiamo facendo Guerra e pace, non è che l’abbia scritto Tolstoj», avrebbe detto Sam a Gordy Dawson la sera prima dell’inizio delle riprese. «Siamo qui per essere dei professionisti – cominciare, finire e levarci dalle palle. Non è Guerra e pace, non è Dustin Hoffman, non è nemmeno Brian Keith. È solo un film. Ne faremo uno buono, sarà un buon film – gli attori sono bravi, ma Steve è grandioso – può farcela e lo sa». Per la prima volta, Sam non lottò per dare spessore ai personaggi o sostanza all’adrenalinica azione. Aveva dato una copia della sceneggiatura a Jim Silke, e quando terminò la lettura l’eterno collaboratore di Peckinpah scosse la testa. «La prima cosa che dissi a Sam fu: “Non c’è un secondo atto in questo copione”. Rispose: “Fottiti! Non avremo un secondo atto in questo film! Faremo un film di genere”. Dov’è il secondo atto? Si era preoccupato di questo con ogni copione a cui avevamo lavorato, ma ora non gliene importava, doveva cominciare a girare. Era arrivato fino a questo punto, ci aveva quasi rinunciato. Si era fatto coinvolgere da quelle star cinematografiche. Per me Steve McQueen era un assoluto coglione». Per massimizzare il potenziale di profitto, Hill portò la storia dagli anni Cinquanta al Texas del Sud dei loro giorni, e furono previsti per il film un breve programma di sessantadue giorni di riprese e un budget di 2.826.954 dollari. Per il ruolo di Carol McCoy, McQueen e il produttore del film, David Foster (precedentemente pubblicitario della star), volevano una top model che si era data alla recitazione: Ali McGraw. La
McGraw aveva la gamma espressiva di un manichino del centro commerciale, ma il suo ultimo film, Love Story, aveva incassato quindici milioni di dollari, perciò Sam avallò prontamente la loro scelta. Un eccellente cast di attori fu formato per supportare le due star, tra cui Ben Johnson, Sally Struthers, Al Lettieri, Slim Pickens, Richard Bright, Jack Dodson, Dub Taylor e Bo Hopkins. La troupe era più o meno la stessa dell’Ultimo buscadero: il direttore della fotografia Lucien Ballard, il direttore artistico Ted Haworth, l’attrezzista Bobby Visciglia, i tecnici del montaggio Bob Wolfe e Roger Spottiswoode, e infine Gordon Dawson, che era tornato all’ovile in veste di produttore associato e regista di seconda unità. Dal momento in cui ottennero il via libera dalla First Artists al primo giorno di riprese, il 23 febbraio 1972, ebbero otto settimane per prepararsi – tre settimane in più dell’Ultimo buscadero, ma stavolta la logistica era molto più complessa. La compagnia sarebbe stata costantemente in movimento, dovendo seguire i McCoy nel loro viaggio attraverso il Texas, da Huntsville a San Marco a San Antonio, poi a ovest verso El Paso e il confine messicano. Ma Peckinpah e la sua squadra di navigati veterani ce l’avrebbero fatta. Getaway! fu girato in sessantasei giorni, con soli quattro giorni di ritardo sul programma. Peckinpah era al massimo delle forze, nonostante il rigido controllo che aveva mantenuto sul suo alcolismo nell’Ultimo buscadero stesse cominciando a vacillare. «Andavo a prenderlo per portarlo sul set», racconta Chalo Gonzalez, «e le sue mani iniziavano a tremare al mattino. Voleva un drink per fermarle. Prendeva un vodka tonic, qualcosa di leggero, poi sollevava la mano ed era ferma. Diceva: “Visto? Okay, ora possiamo andare”. Così cominciò a prendere sempre un paio di drink la mattina, per cominciare il lavoro». Dopo il primo paio di bicchieri del risveglio, cercava di resistere tutto il pomeriggio senza alcol. Ma la regola di non bere mai prima delle 17.00 veniva più spesso infranta che mantenuta.
«Chalo, portami un drink!» «Ma Sam, non sono le 17.00». Peckinpah sprofondava per un istante nella tela tesa della sua sedia da regista, poi chiedeva: «Che ore sono a New York?» «Le 17.30». «Allora portami un dannato drink». E se Chalo non era raggiungibile, c’erano sempre Katy o il piccolo attrezzista dai capelli scuri, Bobby Visciglia, il simpatico giullare di corte di Sam e suo complice. (I due non facevano che escogitare nuovi complotti per sottrarre migliaia di dollari alla società di produzione. Visciglia gestiva il suo reparto oggetti di scena come un’impresa a scopo di lucro). «Avevo uno di quei carrelli che usano i venditori ambulanti per vendere noccioline negli stadi di football», racconta Visciglia. «Lo portavo al lavoro, sul set. Lo avevo riempito con un secchiello di ghiaccio e bottiglie di vodka, Campari, scotch, soda e qualsiasi altra cosa. Sam mi diceva “Bobby!”, io dicevo: “Sì?” Ero sul set per fare l’attrezzista, ma portavo sempre questo dannato carrello. Mi diceva: “Be’, proviamo. Vediamo, un po’ di soda, un po’ di Campari e un goccio di vodka”. Rispondevo: “Ok, Sam”. Gli preparavo il drink, lo portavo alla sua sedia, poi ne preparavo uno uguale per me. Ogni volta che ne beveva uno, ne bevevo uno anch’io. Tutto il giorno». «Sam aveva un cazzo di tumbler nel portabevande della sua sedia da regista per tutto il tempo che girammo», sostiene il produttore David Foster. «E Bobby continuava a riempirglielo. Non avrebbe dovuto farlo. Era una cosa stupida. Voleva bene a Sam, eppure contribuì alla sua distruzione. Non so proprio dove avesse la testa». Eppure Peckinpah riusciva comunque ad arrivare alla fine di ogni giorno di lavoro e, sebbene ogni mattina impiegasse sempre più tempo per portare i suoi giri alla velocità massima, quando lo faceva la sua mente era accorta e creativamente
agile come sempre. Getaway! fu un solido misto di commedia, brivido, horror e di un sottile sottotesto, sempre in equilibrio su un filo. Peckinpah offrì i classici elementi delle pellicole d’azione riuscendo al contempo a sovvertirli con astute iniezioni di humor nero. Sam tornò ai Goldwyn Studios a metà maggio per supervisionare il montaggio di Bob Wolfe e Roger Spottiswoode. Wolfe montò la sequenza iniziale di otto minuti di McQueen che crolla sotto le pressioni della vita in carcere, estraendola dalla montagna di pellicola girata da Peckinpah e Dawson al penitenziario di Huntsville. È il passaggio migliore del film. «Sam voleva che la sequenza creasse un climax», afferma Mike Klein, assistente di Wolfe in questo film. «L’idea era di Sam e Bob la realizzò». Anziché seguire una struttura cronologica tradotta in una convenzionale serie di scene, la sequenza balzava avanti e indietro nel tempo in un susseguirsi di immagini mozzafiato. Anche la colonna audio era un collage di elementi – le voci delle guardie che incitano i prigionieri a lavorare di più, il suono dei telai che ricorda quello di telescriventi – non sincronizzato letteralmente con le immagini, ma con la realtà interiore di Doc McCoy mentre arriva al punto di rottura. E intramezzati nella sequenza ci sono momenti di McQueen e della MacGraw a letto insieme a fare l’amore – dolorosi flash stroboscopici che si impongono sull’insopportabile presente di Doc. Il collage di immagini e suoni accelerava a ritmo frenetico man mano che lo stress di Doc raggiungeva il picco e alla fine erompeva, portandolo a distruggere un ponte di fiammiferi che aveva scrupolosamente costruito per ingannare il tempo libero. Un’eccellente dimostrazione che Peckinpah era ancora all’apogeo della sua arte, capace di strisciare nella mente di un personaggio con la sua cinepresa e farci vivere la sua vita attraverso i suoi occhi. Questo, inoltre, era un elemento tipico del cinema degli anni Settanta. La sperimentazione nei film hollywoodiani, inaugurata a metà degli anni Sessanta, aveva ora raggiunto l’apice. Anche altri due film usciti all’incirca
nello stesso periodo – Comma 22, diretto da Mike Nichols, e Mattatoio 5, diretto da George Roy Hill – frammentavano e plasmavano il tempo «reale» in profonde esplorazioni del flusso di coscienza psicologico dei loro personaggi. L’utilizzo altamente raffinato dell’azione parallela da parte di Peckinpah faceva sì che le varie trame secondarie e le scene di inseguimento di Getaway! si muovessero come un fulmine. Sebbene lo sviluppo dei personaggi fosse stato sacrificato in favore del ritmo della storia, nessun film di Peckinpah, prima o dopo questo, si è mai mosso con altrettanta velocità. Dentro e intorno all’azione, Sam aveva intessuto un ricco sottotesto di comiche immagini da incubo: banchi di monitor, telecamere di sicurezza, cancelli automatici, telai battenti e carnivori camion della spazzatura – un labirinto di macchine ostili attraverso le quali McCoy sarebbe dovuto fuggire. I media, che avevano reagito con indifferenza a L’ultimo buscadero, mostrarono molto interesse verso Getaway quando si sparse la voce che sarebbe stato pieno degli inseguimenti tipici di Steve McQueen e dei «balletti di sangue» di Sam Peckinpah. Rolling Stone preparò una copertina con una foto di Sally Struthers e la didascalia PERCHÉ SAM PECKINPAH HA FATTO COLPIRE QUEST’ATTRICE IN FACCIA DA STEVE MCQUEEN?
C’era un altro pezzo su Life, con una generosa quantità di foto di John Bryson, e articoli nell’Esquire («Lavorare con Peckinpah»), nel Los Angeles Times e in altri quotidiani di tutto il paese. Quasi tutti i pezzi si concentravano su Peckinpah – non su McQueen, né sulla MacGraw – come figura drammatica centrale dietro la realizzazione del film. (Ciò fece imbestialire McQueen al punto che decise di licenziare il pubblicitario del film.) Nell’agosto del 1972, quattro mesi prima che il film uscisse, Playboy pubblicò l’intervista di William Murray a Peckinpah. Playboy era all’apice della sua popolarità e le sue lunghe e meditative interviste con le celebrità – Marlon Brando, Dustin Hoffman e così via – erano diventate i
contributi più prestigiosi nel mondo delle riviste. Peckinpah aveva raggiunto l’apogeo della sua fama. L’intervista fu ampiamente letta e discussa, visto che Peckinpah ci aveva pericolosamente giocato sopra, alternando risposte oneste e profonde a commenti che stuzzicavano Murray di proposito e sembravano studiati al fine di indignare ulteriormente i detrattori di Sam. Fece vendere moltissime copie, ma commenti come «ci sono due tipi di donne. Ci sono le donne e ci sono le scopate» contribuirono a solidificare la sua immagine di esuberante caricatura del machismo. Dopo averla letta, Lee Marvin, sedicente esperto provocatore, disse a Grower Lewis di Rolling Stone: «Cristo, [Peckinpah] ha usato la parola passera solo due o tre volte su Playboy, porca miseria. C’era la possibilità di innervosire il suo pubblico e non l’ha colta». Steve McQueen e Ali MacGraw si erano innamorati durante le riprese, e quando la MacGraw lasciò suo marito, il capo della produzione della Paramount Robert Evans, giornali e riviste misero la storia in prima pagina, il che portò al film una ventata di pubblicità gratuita. La First Artists promosse le star come «la nuova coppia di innamorati» e ideò poster e pubblicità per i giornali con un’enorme stampa in bianco e nero che diceva semplicemente McQueen… MacGraw e riportava i poster delle due star nelle vesti di pericolosi ricercati, con una calibro .45 e dei proiettili sparsi sopra. Unita a quest’immagine c’era una foto più piccola di McQueen che fa a pezzi un’auto della polizia con un fucile. Gli espositori dei teatri sgomitarono per accaparrarsi il film. David Foster scrisse una nota a Peckinpah: «Stiamo ottenendo tutte le migliori sale del paese e del mondo e le condizioni più lucrative su piazza. Ad esempio: un espositore di Parigi ha già accettato di darci 200.000 dollari garantiti, senza nemmeno averlo visto. E questa politica comincia a essere condivisa da molti». La First Artists riuscì a mettere insieme sette milioni di dollari con queste garanzie prima che Getaway! uscisse.
Le spese finali della pellicola ammontarono a 3.352.254 dollari, quasi 500.000 dollari oltre il budget originale – un eccesso considerevole, ma il più basso di Peckinpah da Sfida nell’Alta Sierra. Esso fu ridotto di 300.000 dollari quando Ali MacGraw accettò di differire il suo pagamento in cambio del 7,5% dei profitti netti del film. A differenza di Charlton Heston in Sierra Charriba, la MacGraw fece la scelta giusta, visto che con prenotazioni che ammontavano a più del doppio della spesa, Getaway! cominciò a fruttare soldi prima ancora di uscire nelle sale; e questa volta la First Artists si sarebbe occupata della contabilità. Il film uscì durante le vacanze di Natale. Judith Christ e Rex Reed, due critici che Sam detestava, lo adorarono. Entrambi avevano condannato la violenza del Mucchio selvaggio, ma stavolta non mossero obiezioni perché gli spargimenti di sangue erano più spassosi. Anche Kevin Thomas del Los Angeles Times gli fece una recensione positiva. Ma altri critici che avevano supportato Peckinpah in passato, come Jay Cocks del Time e Pauline Kael del New Yorker, rimasero turbati nel vederlo sprecare il suo talento con del materiale così poco impegnato. William S. Pechter scrisse in Commentary: «[…] le sequenze d’azione sono dirette con fredda abilità, sebbene sia in qualche modo sconcertante vedere in un film di Peckinpah la violenza epurata del suo potere di sconvolgere e usata al solo scopo di intensificarne il melodramma, come in Ispettore Callaghan: Il caso Scorpio è tuo! (con l’effetto, ovviamente, che il film è stato lodato dai soli critici che muovevano bigotte proteste contro la violenza dei precedenti lavori di Peckinpah)… Be’, L’ultimo buscadero è stato un flop e Getaway! è un successo. Spero solo che in questo caso Peckinpah sia pienamente consapevole del livello di prostituzione cui si è spinto». Peckinpah scrollò le spalle e disse agli intervistatori che i critici prendevano il film «troppo seriamente». Scrisse a Ali MacGraw: «Comunque il film sta vendendo bene, esattamente quanto ci aspettavamo, ossia oltre venti milioni di dollari».
Per la prima volta nella sua carriera Sam Peckinpah ebbe un film in cima alla classifica del botteghino di Variety, incassò 874.000 dollari in trentanove cinema di tutto il paese nella settimana del 10 gennaio 1973, battendo il catastrofico colosso dal cast stellare di Irwin Allen L’avventura del Poseidon, Un tranquillo weekend di paura di John Boorman e un film gangster di Charles Bronson, Joe Valachi – I segreti di Cosa Nostra. Nel primo anno d’uscita Getaway! incassò 18.943.592,02 dollari – quasi quanto Bullit e più del doppio di quanto Il mucchio selvaggio e Cane di paglia avessero incassato nel loro primo anno. A causa delle esperienze passate, Peckinpah era convinto che non avrebbe visto un centesimo del suo 10% dei profitti netti, anche se era la First Artists a tenere la contabilità, perciò gli occhi gli schizzarono fuori dalle orbite quando il primo assegno di 70.255,04 dollari arrivò a soli sei mesi dall’uscita del film. Nei dieci anni seguenti Getaway! avrebbe incassato 26.987.155 dollari e Peckinpah avrebbe guadagnato oltre 500.000 dollari dalla sua percentuale dei profitti – all’incirca la stessa cifra con cui Doc e Carol McCoy scappavano in Messico. McQueen avrebbe guadagnato ben oltre il milione di dollari, la MacGraw più di 400.000 dollari. Sam diede un 1% dei suoi profitti a Lucien Ballard e un altro a Gordon Dawson. Il totale dei guadagni di Peckinpah derivati da L’ultimo buscadero e Getaway!, entrambi usciti nel 1972, si avvicinava al milione di dollari – pochi spiccioli per i bambini prodigio della regia che stavano per irrompere nell’industria (i guadagni di Steven Spielberg nel 1991 ammontavano a cinquantasette milioni di dollari), ma una cifra sufficiente, nei primi anni Settanta, per collocare Peckinpah tra i registi più pagati di Hollywood. Il mucchio selvaggio lo aveva portato all’apogeo della sua professione sul piano artistico, e Getaway! aveva fatto altrettanto sul piano finanziario. Ora era un nome spendibile. La sua firma su un contratto, come quella di McQueen e di una manciata di altri talenti di Hollywood, era abbastanza per garantire i finanziamenti a una pellicola.
Considerata la progressione del suo alcolismo e il caos emotivo che lo alimentava e che ne era alimentato, la produzione di cinque lungometraggi in quattro anni è semplicemente fenomenale. Non solo faceva un film dopo l’altro, ma spesso due alla volta. Certo, non aveva realizzato nulla che arrivasse alla statura del Mucchio selvaggio, ma La ballata di Cable Hogue, Cane di paglia e L’ultimo buscadero erano pellicole realizzate in maniera impeccabile, ognuna sorprendentemente originale, provocatoria e diversa dalla precedente. E Getaway! era la dimostrazione che Sam stava ancora operando al pieno delle sue capacità. Nessun altro regista americano era riuscito a eguagliarlo in quegli anni. I suoi più grandi rivali – Stanley Kubrick, Arthur Penn e Mike Nichols – realizzarono molte meno produzioni più o meno nello stesso periodo di tempo. Kubrick aveva diretto due film, 2001: Odissea nello spazio e Arancia meccanica; Penn ne aveva fatti tre, Gangster Story, Alice’s Restaurant e Il piccolo grande uomo; e Nichols tre, Il laureato, Conoscenza carnale e Comma 22. Robert Altman si era fatto notare con M*A*S*H, ma il suo genio nella satira si sarebbe dimostrato incostante, facendogli spiccare il volo e cadere in picchiata da un film all’altro. Ma all’improvviso questi registi erano diventati la vecchia generazione, una parte di quel sistema di Hollywood che avevano sfidato solo un decennio prima. Arrivava ora in massa una nuova stirpe di novellini: i registi delle scuole di cinema. Erano migrati in massa nelle scuole di cinema delle università – NYU, USC, UCLA – negli anni Sessanta, e lì avevano imparato i dogmi della politica degli autori e guardato centinaia e centinaia di film, imprimendo le scene, le luci, gli spostamenti di camera e parti dell’economia e dei dialoghi nella loro memoria. Erano entrati a Hollywood come sceneggiatori, aiuto registi, assistenti di produzione, indossando t-shirt con su scritto: Ma quello che vorrei fare davvero è dirigere! E ora, eccoli lì. Francis Ford Coppola aveva appena completato Il padrino che, come Il mucchio selvaggio, portò un abusato
genere hollywoodiano a livelli shakespeariani. Peter Bogdanovich si era affermato come temibile rivale grazie a L’ultimo spettacolo e Martin Scorsese si stava scaldando nel bullpen con il suo Mean Streets. Il campo cominciava ad affollarsi, la competizione diventava serrata, ma a quarantasette anni Sam Peckinpah era ancora uno dei leader del branco e tutto lasciava intendere che lo sarebbe rimasto per molti anni ancora. E ora, come Doc McCoy, non aveva solo i soldi e il successo personale, ma anche una donna. Il 13 aprile 1972, mentre stava ancora girando Getaway! in Texas, un trafiletto era uscito nelle riviste di settore. «Domenica Sam Peckinpah è sgattaiolato a Juarez per sposare l’inglese Joie Gould, sua compagna da sedici mesi. I novelli sposi hanno sorpreso il cast di Getaway!, che Sam sta girando a El Paso con Ali MacGraw e Steve McQueen». Alla fine di Getaway!, Doc McCoy guida verso il lucente orizzonte di una terra da lieto fine, con Carol e i soldi al suo fianco, e al sicuro. La vita non è come i film; le emozioni e le azioni delle persone vere sono molto più difficili da manipolare di quelle degli attori sul set – nessuno ne era più dolorosamente consapevole di Sam Peckinpah. Era solito lamentarsi del fatto che, quando lasciava la sedia da regista, la sua vita sembrava sempre almeno «tre secondi fuori sync». Questa volta, però, forse avrebbe funzionato.
9
SOTTO I RIFLETTORI
Ti ho visto stare lì abbagliato dai riflettori, ho visto il sudore e il dolore rigare il tuo viso piano, perché ti senti un clown in una cerchia di sconosciuti, chi ti fotterai pur di fuggir lontano? Uno, lo fai per i soldi, due, non val la pena scappare, tre dita di whisky possono l’anima rifocillare. La donna che corteggi ha freddo e fame. Non guardarla negli occhi, sanno che hai venduto ogni legame. Troppi corpi toccati e troppi bar affollati, di restare indietro tu hai troppo timore perché, quando si è persi tra le stelle, è facile essere ingannati. Prima ch’esso ti accechi, spara a quel riflettore… scritta da Kris Kristofferson sul set di Pat Garrett e Billy Kid
Quando Garner Simmons gli chiese perché avesse sposato Joie Gould, Sam Peckinpah gli rispose: «Avevamo litigato e l’avevo schiaffeggiata a mano aperta. Mi sentivo malissimo per questo. Perciò, in un momento di rimorso, ho acconsentito a sposarla – in Messico, dove sapevo che avrei potuto ottenere il divorzio in un giorno». Ma il ricordo di Joie di come avvenne differisce di molto. Prima che Sam cominciasse a girare Getaway! dovette andare in Europa perché Dustin Hoffman stava girando un film a Roma e Sam doveva fargli registrare delle battute per Cane di paglia. Lo incontrai a Londra per il fine settimana. Poi tornammo a Los Angeles insieme e mi
fece la proposta sull’aereo, mettendomi un anello al dito. Ero scioccata. Essere la fidanzata di qualcuno, quando dopo gli anni Sessanta nessuno si fidanzava più. Fu terribilmente romantico. Ricordo i raggi del sole che entravano dai finestrini mentre decollavamo. Aveva preparato tutto, fu quasi sdolcinato. Mi diede questa scatolina – sapete, come quelle dei vecchi film – e me la fece aprire. Mi aveva comprato un anello di fidanzamento da Cartier. Me lo mise al dito e mi disse che sperava che avrei accettato di essere sua moglie.
La seconda luna di miele continuò durante le riprese di Getaway! Sam voleva sposarsi a maggio o giugno, dopo aver finito il film. Ma un giorno durante le riprese disse improvvisamente: «Sposiamoci sabato. Penso a tutto io». «Organizzò tutto», racconta la Gould. «Fu il più bello, il più fantastico matrimonio messicano mai visto al Camino Real, con i mariachi e tutto il resto. Sam fece riempire la nostra stanza d’albergo di rose gialle e prese dello champagne francese, Dio solo sa dove l’abbia trovato nel mezzo del Messico. Preparò tutto questo da solo in tre giorni. Era il lato di Sam Peckinpah che non tutti conoscevano: il poeta di cui credo ci siamo innamorate tutte noi mogli. Quella sua tenerezza era così vera, ma era difficile per lui mostrarla». Con gli uomini della sua troupe mostrò un’altra faccia. «Non sapevo nemmeno che stessero pensando di sposarsi», dice Chalo Gonzalez. «Il giorno dopo viene da me e dice: “Dove diavolo eri?” Chiedo: “Come?” Risponde: “Quando avevo bisogno di te, non c’eri!” E io: “Cosa diavolo è successo?”, e lui: “Mi sono sposato con Joie e tu non eri lì per dirmi di non farlo!”» Il matrimonio segnò l’esilio di Katy Haber. «La sera prima del matrimonio, Katy era in questo bar a Fabens, in Texas, dove stavamo girando», racconta Gordon Dawson. «Metteva monete nel jukebox, scegliendo vecchie canzoni d’amore country tristi, molto tristi. Cavolo, fu molto dura per Katy». Quando le riprese di Getaway! terminarono, Katy partì per la Spagna per lavorare in un western di Sam Fuller e Sam e Joie tornarono nel loro appartamento a Studio City, ora come marito e moglie. Cercò di integrarla nella sua cerchia, ma la
maggior parte dei suoi amici erano perplessi da quel matrimonio e accolsero la giovane sposa con sorrisi glaciali. «Joie era davvero una bella persona», sostiene Fern Lea, «e non c’entrava assolutamente nulla con Sam. Sembrava una che avesse stile, e Sam non era mai stato con una donna di quel tipo. Voleva terribilmente che Sam fosse in un certo modo, non la persona irascibile che era. Lo voleva senza la sua rabbia, cosa che non era possibile. Ciò che cercava e ciò che aveva erano lontani anni luce». «Ovviamente pensavo di poterlo cambiare», afferma Joie, «era parte della sua attrattiva. Ero quella giusta, sarebbe stato diverso con me…» Ciò che voleva cambiare più di tutto era il suo alcolismo. La sua dose giornaliera di alcol durante Getaway! la scioccava: «Era straordinario che riuscisse a mettersi in piedi ogni giorno. Aveva una costituzione straordinaria. Durante tutto il nostro matrimonio sono stata terrorizzata che morisse. Restava in piedi ventiquattr’ore di fila, dormiva poche ore, ma si svegliava alle cinque e riprendeva a bere». Quando cercava di parlargli del suo alcolismo, le rispondeva che non era un alcolizzato, che poteva smettere quando voleva. E poi smetteva, di colpo: non toccava un goccio per tre settimane. Durante questi periodi, era calmo e riservato. Passava ore a leggere, andava fuori a cena e al cinema; i violenti cambi d’umore, le esplosioni di rabbia quasi completamente svaniti. «Diventava una persona normale», sostiene la Gould. Ma presto o tardi – in genere presto – ci ricadeva di nuovo. «Non riesco a dirigere quando sono sobrio», cominciò a ripetere, dimenticando per convenienza che aveva diretto Il mucchio selvaggio senza alcun drink in mano. Sul set la troupe lo riveriva, assecondando ogni sua voglia. Chalo, Bobby o Katy non facevano che distribuire drink ma, quando tornava a casa la sera, Joie si rifiutava di cooperare. E così litigavano, liti terribili. Quando il pericoloso mix di alcol e rabbia repressa prendeva fuoco, non c’era modo
di spegnere le fiamme finché qualcuno non restava bruciato, generalmente Joie. «Una volta eravamo ospiti dai Fielding. Sam era andato a letto e io ero seduta in una delle stanze a leggere. Non andai a dormire. Non ricordo le circostanze di quella sera, cosa fece innervosire tanto Sam, in genere non era niente di rilevante. Entrò nella stanza e assolutamente dal nulla – voglio dire, non stavamo nemmeno litigando – cominciò a picchiarmi. Mi maltrattò pesantemente. Fu così strano. Scappai, ero così spaventata, e portarono me in una stanza da letto al piano di sopra e Sam di nuovo in camera sua». «Cosa lo fece scattare? Chi lo sa!», afferma Camille Fielding. «L’alcol lo rendeva cattivo e non esistevano motivazioni per i suoi scatti, venivano dal nulla. Comunque, all’improvviso si allungò e la colpì, dritto in faccia. Lo cacciai di casa». Il giorno dopo Joie stava per andarsene a stare a casa di un amico. «Ero molto spaventata. Sam voleva vedermi e dissi ai Fielding che io non volevo vedere lui, ma tutti volevano che ci parlassi». «Non puoi semplicemente andartene», dicevano a Joie. «Devi andare da lui e dirgli che te ne vai». Sam era seduto da solo nello studio, come un bambino smarrito e intimorito. Era dispiaciuto, le disse, con gli occhi lucidi e la voce tremante – non lo avrebbe fatto mai più, mai più. «Fu una performance straziante», racconta la Gould. «Mi sentii così male per lui. Era così triste e vulnerabile. Era così affranto per ciò che aveva fatto da darti la sensazione che non avresti potuto ferirlo più di quanto non lo fosse già. Io, e anche tutti gli altri, razionalizzavamo il suo comportamento. Era l’alcol. Quando beveva era fuori controllo». Dopo quattro mesi, Joie ne aveva avuto abbastanza. Chiese il divorzio. «Quella ragazza era sull’orlo di una crisi di nervi», ricorda Bob Schiller. «Non so se era stata colpa di Sam o se la sua stessa vita l’avesse portata a questo. I suoi occhi erano sempre in movimento, le mani tremavano sempre.
Sembrava una persona incredibilmente tesa, tesa quanto Sam se non forse di più». Sam disse in seguito a Garner Simmons: «Quando tutto andò in pezzi, mi ci volle un anno per ottenere il divorzio e mi costò la camicia, i pantaloni e il sospensorio ricamato. Ma a volte vinci e a volte perdi. Si prese tutti i soldi che avevo fatto con Getaway! e fece un viaggio intorno al mondo a mie spese». Non era esattamente la verità – l’accordo di Joie le era valso 25.000 dollari e non ebbe un centesimo dei profitti di Sam per Getaway! «Non credo Joie fosse particolarmente interessata a ottenere un buon accordo», afferma Kip Dellinger, che aveva recentemente preso il posto di Bob Schiller come responsabile commerciale di Peckinpah. «Credo volesse solo lasciarsi tutto alle spalle. La causa sarebbe potuta proseguire in eterno; non era così chiaro che Joie avesse legittimi interessi nei profitti di Getaway!» Sam diede a Joie anche la sua Porsche come bonus. Aveva in ogni caso smesso di guidare dopo essersi preso una multa per guida in stato di ebbrezza. Per i successivi sei anni, diversi autisti – Chalo Gonzalez, Stacy Newton, Jim Davis e una lunga serie di altri – lo avrebbero accompagnato sui set, a incontri con i dirigenti degli studios, a eventi sociali, e avrebbero fatto la spesa per lui e varie altre commissioni. L’appartamento a Studio City fu svuotato. Quando erano sposati, Sam aveva comprato un lotto di terra a nord di Broad Beach. Aveva intenzione di costruirci una casa per lui e per Joie. Dopo il divorzio, tenne la proprietà per un po’, poi la vendette insieme al ranch fuori da Ely. Al loro posto affittò un minuscolo terreno a Paradise Cove, un’insenatura con un molo per pescare e un ristorante dove era stata girata la maggior parte di film con feste sulla spiaggia e un migliaio di altri film di Hollywood. Sam comprò una casa mobile di quattro metri per diciassette, non molto più grande di quelle che usava sulle location, la mise su un promontorio che dava sulla cala e vi si trasferì. Sarebbe stata la sua base operativa, quanto di più simile a una casa avrebbe avuto per gli ultimi dodici anni della
sua vita. «Sono un dannato nomade, vivo di valigie. La mia casa è dovunque io giri un film», disse a William Murray di Playboy. La perdita di Joie fu più dolorosa di quanto non volesse ammettere. Per quanto malaccorto fosse stato il loro matrimonio, l’aveva amata e gli riusciva molto difficile lasciarla andare. Poco dopo il divorzio, Frank Kowalski ricevette una telefonata alle quattro del mattino. Era Sam. «Ascolta, socio, ho bisogno di te. Devi passare fuori all’appartamento di Joie e vedere se ha compagnia». Frank, stanco, sospirò. «No, Sam, non lo farò. Non farei mai una cosa del genere». «Buono a nulla del cazzo che abbandona il Mucchio», urlò Sam, poi riattaccò con violenza il ricevitore. «Facevo un sacco di cose per Sam», dice Kowalski. «Ti lasci risucchiare dall’idea di far parte della cerchia degli intimi, era tremendamente allettante – l’occasione di essere al centro dell’azione, al corrente di tutte le decisioni creative più importanti. Pur di averne un assaggio, eri disposto a sottometterti a molte cose. Sam lo sapeva e ne approfittava e, se non stavi attento, finiva piano piano per farti diventare nient’altro che un suo servo. Ma ponevo un limite quando si trattava di qualcosa di davvero degradante, come fare il bucato di Sam o spiare le sue donne. Non lo avrei mai fatto». Bobby Visciglia non aveva queste inibizioni. «Spiavo dalle finestre, la seguivo e vedevo dove andava. Ho passato molte notti parcheggiato fuori dal suo appartamento – e sono sposato, con tre figli da crescere. Poi andava al lavoro alla 20th Century Fox e ho dovuto chiamare alcune persone per scoprire con chi usciva, dove mangiava a pranzo». Alla fine Sam accettò che la relazione fosse finita; le missioni di sorveglianza furono abbandonate. Ma continuò a invitare Joie alle proiezioni dei suoi film; andarono a pranzo insieme qualche volta e cercarono di restare amici. Tuttavia era un rapporto molto forzato.
«Era palesemente molto turbato quando mi rivedeva», afferma Joie. Quegli incontri smuovevano un miscuglio di sentimenti anche in lei: rabbia, amore, pietà, frustrazione. «Aveva avuto tutte le occasioni per cambiare, eppure non lo fece. Era entrato in analisi con uno psichiatra, il dottor Wahl, ma quando si arrivò troppo vicino alle cose che lo turbavano davvero, abbandonò. Aveva tante persone intelligenti intorno a lui che lo amavano e lo avrebbero aiutato, se solo glielo avesse permesso». Dopo che anche il suo terzo matrimonio andò in frantumi, Sam entrò in un tunnel da cui non poté, o non volle, più uscire. In passato si sarebbe fiondato a capofitto nella successiva pellicola, Pat Garrett e Billy Kid, con furia selvaggia, ma ora trovava sempre più difficile anche questo. La fama si era dimostrata una porcheria dal sapore dolce, ma priva di qualsiasi valore nutritivo. L’arte non era riuscita a purificarlo dai suoi demoni; la loro presa su di lui era ormai una stretta alla gola. Era questo tutto quello che gli restava? Un altro film, poi un altro e un altro e un altro e un altro? Nel mezzo di una lunga, ebbra intervista con Jon Tuska nel 1975, Sam avrebbe rilasciato una dichiarazione molto curiosa: «Da quando la mia casa è bruciata, non ho più un posto dove vivere». L’unica sua casa mai bruciata era stato il capanno Quonset quasi venti anni prima. Aveva perso un mondo intero lì, insieme ai cuccioli di Simbo, e non lo avrebbe mai più riavuto. «Sono il più grande, stupido romanticone al mondo», disse in un’altra intervista. «Molto stupido. Sono un outsider e credo che essere un outsider sia un lavoro solitario, a perdere. Mi piacerebbe essere sposato e vivere in una casa su due livelli. Amo queste stronzate, ma non riesco a portarle avanti. Mi caccio in troppi problemi. Bevo troppo e causo troppe risse. L’anno prossimo avrò cinquant’anni e devo smetterla. Mi sono rotto tre nocche; questa, questa e questa. Si vede…» Abbandonò anche gli sforzi simbolici di controllare il suo alcolismo. Dal momento in cui apriva gli occhi ogni mattina – scosso dai tremori e dai conati che gli facevano spesso
vomitare sangue – fino alle ore piccole della notte quando finalmente si arrestava, mandava giù bicchierini di vodka, whisky, Campari, tequila, brandy e pericolosi miscugli di alcuni o tutti i sopracitati alcolici. Trascorreva sempre più tempo a letto – a volte giorni interi, se non doveva andare sul set o a una riunione. Il letto divenne una specie di trono sgualcito da cui teneva banco: le segretarie, la troupe e altri membri del suo entourage si raggruppavano intorno al suo perimetro, in attesa delle sue sospirate parole. Rispondeva alle telefonate e teneva meeting di produzione da sotto le coperte, con una bottiglia sempre a portata di mano sul comodino. In un articolo pubblicato sulla rivista New York nel 1974, i lunghi, ebbri monologhi di Sam tornarono nuovamente a evocare suo padre: «Aveva mani grandi. Io ho buone mani, ma lui le aveva grandi. Per supportare qualcuno e dirgli che va tutto bene. Che lui stava bene». Era un velato grido di aiuto. Stava, ovviamente, mitizzando il ricordo di suo padre, ma il desiderio di una presenza autoritaria che prendesse il controllo della sua vita era sincero. «Non credo che Sam si sarebbe distrutto come ha fatto», afferma Fern Lea, «se mio padre fosse stato vivo. Papà non glielo avrebbe permesso». Ma David Peckinpah era ormai sottoterra e non apparvero altri Steve Judd all’orizzonte. Buona parte del suo entourage sosteneva il suo alcolismo e molti si ubriacavano con lui; per loro le riprese in location diventavano una lunga festa e il comportamento sempre più oltraggioso e imprevedibile di «Yosemite Sam» era fonte di divertimento più che di preoccupazione. «La mattina si svegliava in preda al delirium tremens e la gente ne rideva», ricorda Walter Kelley, che lavorò come direttore dei dialoghi e attore in quasi tutte le successive pellicole. «Facevano battute al riguardo… Era terribile». Finché il pesce pilota riusciva a far stare in piedi la leggenda e a farle tenere il ritmo, gli assegni sarebbero continuati ad arrivare. Quando il matrimonio tra Sam e Joie finì, Katy Haber aveva terminato il western in Spagna ed era tornata in Inghilterra. Anche lei era stata straziata da una relazione
sfortunata. Si era innamorata di un membro della troupe, un uomo sposato che tornò da moglie e famiglia quando il film fu terminato, diviso tra la lealtà nei loro confronti e la nuova passione per Katy. Katy tornò al suo appartamento, dove il telefono stava squillando. Rispose. «Ho sentito che sei tornata dal tuo film». Era Sam. «Già». «Allora vuoi venire in Messico? Abbiamo un altro film da fare». «Che è successo a Joie?» «Se ne è andata». Qualche giorno dopo era su un aereo. Prima di partire, disse al suo amante: «Quando avrai preso la tua decisione, fammelo sapere, perché prometto che tornerò da te». Durante le riprese di Pat Garrett e Billy Kid, ricevette lettere da lui in cui le scriveva: «Sto morendo di crepacuore. Non so cosa fare, sono diviso tra te e la mia prole». Un giorno le lettere smisero di arrivare. Il film terminò, la troupe tornò a Los Angeles e Katy chiamò lo studio a Londra dove lui lavorava, sentendosi dire che il suo amato era morto d’infarto due settimane prima. Aveva trent’anni. «Ero devastata», racconta la Haber. Quando Sam lo scoprì, fu molto premuroso. Cominciarono presto ad andare di nuovo a letto insieme e l’intricato schema della loro relazione riprese – lei ossessionata da lui, disposta a tutto pur di accontentarlo, e lui che le riservava violente punizioni per aver avuto il pessimo gusto di amarlo. Gordon Carroll era uno dei giovani produttori della Nuova Hollywood che si erano fatti strada tra i ranghi della frammentata industria cinematografica degli anni Sessanta. Alto, raffinato, di bell’aspetto, laureato a Princeton, aveva prodotto un paio di mediocri commedie di Jack Lemmon – Come uccidere vostra moglie e Sento che mi sta succedendo qualcosa – e uno dei film antiestablishment più significativi dell’epoca, Nick mano fredda. Nei primi anni Settanta Carroll
stava cercando un altro progetto quando improvvisamente gli venne l’idea di realizzare un nuovo film su Billy the Kid. (Ne erano già stati fatti quarantacinque.) L’ispirazione di Carroll per dare un «effetto topspin» all’abusata leggenda era quella di tracciare dei paralleli consapevoli tra la saga di Billy the Kid e le moderne leggende viventi del rock and roll. Magari Billy e la sua banda potevano addirittura essere interpretati da rockstar. «La storia che volevo creare, la storia che più chiaramente descriveva una giovane persona prigioniera della propria leggenda, era quella di Billy the Kid e Pat Garrett», disse Carroll a Paul Seydor. «Quella era la storia che poteva descrivere cosa significasse vivere la propria vita in un unico, incandescente arco di tempo. E poi, cosa capita quando questo breve periodo finisce? L’incandescenza finisce. Sei vivo, hai ventiquattro anni e hai il resto della vita per essere di nuovo qualcuno che già eri». Per scrivere il copione, Carroll ingaggiò Rudolph Wurlitzer, un giovane scrittore che aveva appena completato una sceneggiatura per Strada a doppia corsia, salutata sulla copertina di Esquire come uno dei copioni più brillanti e idiosincratici mai sfornati da Hollywood. Il film, diretto da Monte Hellman, divenne in un attimo un classico cult e uno dei preferiti di Peckinpah. Wurlitzer era così affascinato dalla leggenda di Billy the Kid che aveva già fatto delle ricerche da sé. Aveva prodotto una sceneggiatura che aveva risvegliato l’interesse della MGM, ma lo studio voleva un grande nome alla regia prima di impegnarsi con questo progetto. Carroll mandò la sceneggiatura a Peckinpah, che la lesse nel suo ufficio ai Goldwyn Studios, dove si stava preparando a girare Getaway! Quando arrivò all’ultima pagina, sapeva che avrebbe dovuto fare quel film. Era un’altra possibilità di realizzare The Authentic Death of Hendry Jones, il romanzo di Charles Neider che aveva adattato come sua seconda sceneggiatura quindici anni prima. Il copione di Wurlitzer era scritto meravigliosamente. Come Neider, aveva strappato via ogni strato della leggenda
per realizzare un ritratto duro, realistico degli ultimi giorni di Billy the Kid. Il Billy di Wurlitzer non era un nobile Robin Hood, né un incompreso nevrotico spinto a una tragica fine dalla fredda e corrotta società. Era semplicemente il prodotto di una crudele e brutale combinazione di tempi e luoghi: il New Mexico della fine degli anni Settanta. Da selvaggio e impavido giovane, si era temerariamente guadagnato una reputazione durante la Lincoln County War – una fiera battaglia tra interessi commerciali rivali per il controllo del commercio nella regione, in cui entrambe le parti in causa avevano assunto eserciti di pistoleri professionisti. Ma Wurlitzer fece cominciare la sua storia alla fine della carriera criminale di Billy, aprendola con la fuga di Kid dalla prigione di Lincoln County e seguendolo durante gli ultimi tre mesi della sua vita, mentre cerca di sfuggire a Pat Garrett, da cui viene alla fine freddato. Wurlitzer descriveva Pat Garrett come un vecchio amico e compagno di brigantaggio che bracca Billy e lo uccide; come un senescente pistolero che afferra le falde della macchina politica che ha preso il controllo del territorio, un uomo di mentalità ristretta che non ha scrupoli né sensi di colpa quando alla fine spara a Kid e lo uccide. Era un ritratto crudo, senza fronzoli, probabilmente molto simile al vero Garrett. I dialoghi western di Wurlitzer erano tanto ricchi quanto quelli di Peckinpah: pieni di ritmi idiosincratici, colloquialismi, e della schietta poesia del Sudovest americano. Il copione era episodico nella struttura – una serie di vignette liberamente legate che comincia con Kid che fugge dal Messico con Garrett alle calcagna, poi cambia idea e torna a Lincoln County per affrontare il suo destino. Il copione forniva a Peckinpah l’opportunità di esplorare ancora una volta i temi che lo ossessionavano: due ex soci che sono relegati dall’età e dai tempi che cambiano ai due lati opposti della legge; l’ambigua natura di quella legge, manipolata da giganteschi e anonimi interessi economici che fanno a fette le ondeggianti praterie per accumulare soldi facili, e le tragiche conseguenze che ciò comporta per le
singole vite. Sam non dovette pensarci due volte; diede a Carroll l’okay immediato. In diciotto ore, il responsabile della produzione della MGM, James Aubrey, tornò con un’offerta «pay or play» (un tipo di contratto che garantiva a Peckinpah la corresponsione del salario completo anche se la produzione fosse stata cancellata) di 228.000 dollari per girare il film – tremila dollari in più di quanto percepito per Getaway! – più una percentuale dei profitti sulla base di una contorta formula escogitata dallo studio. Wurlitzer avrebbe avuto 98.130 dollari per la sceneggiatura e Carroll 95.721 dollari per produrlo. Quando finì la postproduzione di Getaway! otto mesi dopo, Sam andò in uno dei grandi, lussuosi camerini della MGM e si sedette a leggere nuovamente la sceneggiatura di Wurlitzer. Quando lo fece, l’entusiasmo scemò. Il copione non funzionava. Nonostante le strabilianti qualità, giunto all’ultima pagina Sam non provava niente – niente per Kid, niente per Garrett. «Il copione era bello ed elegiaco, ma era un poema sinfonico», sostiene Roger Spottiswoode, che fu uno dei tecnici del montaggio della pellicola. «C’era una bellissima scrittura, Rudy è uno scrittore meraviglioso, il testo era di grande qualità. Ma era un copione ingannevole. Ogni volta che il copione tornava su Billy, non stava mai facendo nulla eccetto bighellonare con i suoi compagni, e tutti bevevano. Sospetto che l’accordo sia stato finalizzato troppo in fretta. Rudy era interessante, il progetto era interessante, poi all’improvviso Sam lo rilegge una notte un paio di mesi prima che comincino le riprese e capisce: non funziona». Come faceva ogni volta che si ritrovava alle prese con una crisi creativa, Sam alzò la cornetta e chiamò Jim Silke. Dopo aver ricevuto una copia della sceneggiatura, Silke incontrò Peckinpah alla MGM. Sam alzò le mani. «Che diavolo ci faccio con questo? Forse è la verità su ciò che accadde a Lincoln County nel 1888, forse è proprio così che erano questi uomini, ma chissenefrega?»
«Che facciamo, Sam?», rispose Silke in maniera socratica. «Facciamo il vero Billy Kid o facciamo la leggenda?» Peckinpah restò seduto per venti minuti senza rispondere. Silke semplicemente aspettò. Alla fine Sam disse: «Facciamo la leggenda». La sua visione del film si mise subito a fuoco. Lesse di nuovo il copione di Wurlitzer e colse una massiccia debolezza strutturale che era stata inizialmente mascherata dagli affascinanti dialoghi e dalla cruda prosa poetica. Wurlitzer partiva dalla fuga di Billy dalla prigione di Lincoln, poi saltava da Billy a Garrett mentre uno fuggiva a malincuore e l’altro lo inseguiva ancor più a malincuore. I due personaggi non apparivano in alcuna scena insieme fino al culmine, quando Garrett spara a Kid nella penombra della fattoria di Pete Maxwell a Fort Sumner. Lo scrittore aveva preso questa decisione con cognizione di causa, come spiegò in seguito a Jan Aghed di Sight and Sound: «Volevo eliminare tutti i soliti cliché storici… Volevo fortemente che non si incontrassero fino alla fine; sembrava una scelta più pericolosa, più interessante, creava una maggiore tensione». Era un approccio meno convenzionale, persino coraggioso. Ma il problema era che non restituiva nulla del rapporto tra Garrett e Kid – il loro passato, cosa avevano significato l’uno per l’altro e cosa rappresentavano l’uno per l’altro adesso. Praticamente ogni americano conosceva i punti chiave della leggenda di Billy the Kid, ma l’interpretazione dei personaggi, le loro azioni e le motivazioni erano cambiate costantemente nei novant’anni dalla morte di Kid. Da un’attestazione giornalistica all’altra, da biografia a biografia e da film a film – come cambiava la società, così il mito era riforgiato per venire incontro ai relativi bisogni emotivi. (E i fatti storici erano piuttosto diversi dal mito. Ogni fonte affidabile lascia intendere che Garrett e Kid si conoscessero prima che il più anziano dei due indossasse il distintivo da sceriffo, ma non furono mai amici stretti, come praticamente tutte le versioni della leggenda, compresa quella di Peckinpah,
suggeriscono. Perché è proprio questa cruciale invenzione a dare potenza al racconto decennio dopo decennio.) Perciò non si poteva semplicemente dare per scontato che il pubblico conoscesse la storia pregressa di Garrett e Kid e lasciarla fuori; bisognava reinterpretarla ancora una volta per gli spettatori – era questo che teneva in vita il mito. Non far incontrare Garrett e Kid fino alla scena culmine era uno strumento brillante ma vacuo, concluse Sam. Decise che si dovevano mostrare Garrett e Billy insieme all’inizio della storia, prima che Garrett diventi sceriffo, in modo da mostrare qual era il loro rapporto e come cambiava quando quel distintivo veniva indossato. L’altro grosso problema era la caratterizzazione di Kid. Wurlitzer disse a Jan Aghed: Si può dire che Billy a un certo punto compie una scelta di vita affascinante. Tutti gli dicevano di lasciare il New Mexico. Il governatore del territorio, Lew Wallace, gli disse: «Senti, stiamo sistemando il territorio e cercando di attirare denaro dall’Est. Il paese sta cambiando, non c’è più spazio per i fuorilegge e abbiamo superato il punto in cui puoi semplicemente sparire dalla circolazione perché sei troppo famoso». Per cui gli fu data una scelta. Gli dissero: «Vai in Messico e ci dimenticheremo di te. O in California o dove ti pare. Ma vattene». E ciò che per me è stato interessante è stata la sua decisione di non andarsene. In altre parole, scelse di essere Billy the Kid. Se fosse andato in Messico, sarebbe diventato solo un altro gringo. Ma questa scelta lo fece diventare un eroe. Perché scegliendo di essere ciò che era, aveva scelto anche la sua morte. Sapeva che sarebbe stato ucciso. Per cui era proprio quel tipo di fatalismo ciò che mi intrigava…
Ma questi concetti filosofici erano astrazioni imposte ai personaggi creati dallo scrittore; non emergevano dai personaggi stessi. Le azioni di Billy, Peckinpah insisteva, dovevano essere motivate dal suo stesso personaggio. In una serie di incontri di produzione per discutere la storia con Carroll e Wurlitzer a settembre e ottobre 1972, Sam delineò una radicale ristrutturazione del copione. Come aveva fatto con il suo adattamento di The Authentic Death of Hendry Jones quindici anni prima, sospinse tenacemente questo spaccato di vita western verso la tragedia epica. Molti dei personaggi secondari di Wurlitzer e molti dei suoi dialoghi sarebbero rimasti inalterati; Peckinpah conservò l’abbondanza
di dettagli realistici della sceneggiatura per rendere la sua visione mitica più convincente. Due nuove sequenze furono aggiunte all’inizio della sceneggiatura. La prima, scritta da Peckinpah, aveva luogo a Fort Sumner appena cinque giorni prima che Pat Garrett diventasse ufficialmente sceriffo di Lincoln County. Garrett arriva a cavallo a Fort Sumner per dire a Kid che deve andarsene dal territorio. I due si dividono una bottiglia di whisky in un polveroso saloon, in ricordo dei vecchi tempi. Le sequenze stabiliscono con precisione la storia pregressa dei personaggi, il loro affetto reciproco e le forze sociali che li spingono verso una rotta di collisione. Dopo questa sequenza, Peckinpah ne fece aggiungere a Wurlitzer un’altra che aveva luogo cinque settimane dopo. Una baita che Kid usa come base per il contrabbando di bestiame con due uomini della sua banda è circondata da Garrett e la sua posse. I compagni di Billy restano uccisi nella sparatoria che segue e lui è catturato e portato nella prigione di Lincoln in attesa dell’impiccagione. Poi veniva la sequenza che apriva originariamente la sceneggiatura: l’incarcerazione di Billy e la successiva fuga. Garrett non era presente in queste scene, ma Sam lo inserì nell’azione per scavare ulteriormente nel rapporto tra lui e Billy, e riscrisse i dialoghi del vice di Garrett, Bob Ollinger, per trasformarlo in un altro degli psicopatici predicatori che vagano nell’universo narrativo di Sam Peckinpah portandosi dietro una Bibbia e un fucile. In questa sequenza e nel resto del copione Sam sparse piccoli pezzi dei dialoghi di The Authentic Death of Hendry Jones e del suo materiale nuovo. La sceneggiatura migliorò notevolmente, ma mancava ancora qualcosa; il copione non raggiungeva ancora l’impatto che stava cercando. Perché, si chiedeva, disturbarsi a fare per la quarantaseiesima volta un film su una leggenda già sfruttata all’estremo? Quale rilevanza poteva mai avere quella storia nel 1972, quasi un secolo dopo che il cadavere di Kid era diventato freddo?
Non doveva cercare più lontano del suo giornale mattutino per avere la risposta. Quell’estate, al culmine della campagna presidenziale, cinque uomini erano stati arrestati per aver fatto irruzione nel quartier generale democratico al Watergate Hotel a Washington D.C. Quell’autunno Richard Nixon avrebbe vinto le elezioni con una maggioranza schiacciante, ma nel giro di pochi mesi la sua amministrazione sarebbe saltata. Lo scandalo non sorprese Peckinpah; disprezzava immensamente Nixon da quando aveva ottenuto un seggio al Congresso degli Stati Uniti nel 1947. Era l’atteggiamento alla «sono ragazzi» nei confronti del massacro di My Lai che irritava Sam. «L’assoluzione di Calley da parte di Nixon era talmente di cattivo gusto che mi faceva venir voglia di vomitare», disse a Anthony Macklin. Per Peckinpah, Nixon incarnava il lato oscuro dell’America: le stanze sul retro piene di fumo dove grandi aziende e politici abietti cospiravano per uccidere, derubare, stuprare e depredare il paese con i vessilli dell’ordine pubblico, del patriottismo e del «progresso». Quando lo scandalo Watergate raggiunse la sua drammatica conclusione, tolse ogni illusione sia ai Repubblicani che ai Democratici e a entrambe le metà del gap generazionale. Era l’ultima scossa dopo un decennio di shock che aveva lasciato il paese sull’orlo di un crollo nervoso. Lo sdegno e l’euforia degli anni Sessanta stavano scivolando negli anni Settanta verso una generalizzata alienazione, apatia e spossatezza. Più Sam lavorava a Pat Garrett e Billy Kid, più la storia diventava per lui un’allegoria non solo del Watergate ma dell’intera devastazione apportata dall’avidità all’esperienza americana. L’uccisione di William Bonney non rese Pat Garrett un uomo popolare a Lincoln County. Fu estromesso dal suo incarico poco dopo e visse da quel momento in poi come un fantasma poco amato di un’era che era morta con Kid. Ventisette anni dopo aver piantato un proiettile nel corpo di Billy, Garrett restò coinvolto in un’accesa disputa di proprietà
e fu ucciso con un colpo alle spalle mentre urinava sulla sua stessa terra. Peckinpah disse a Jan Aghed: L’ineluttabilità del confronto finale tra Billy e Garrett mi affascina. Così come l’ineluttabilità della morte di Billy. L’ironia era che il cosiddetto Santa Fe Ring era controllato da un gruppo di persone rappresentato da Albert Fall e coinvolto in losche compravendite di terre, e Billy e le persone intorno a lui ne erano risentite. Albert Fall successivamente avrebbe difeso gli assassini di Pat Garrett e gliel’avrebbe fatta passare liscia. Vedi, le stesse persone che avevano ingaggiato Garrett per uccidere Billy lo avevano fatto assassinare anni dopo perché da ufficiale di polizia si stava avvicinando troppo alle loro operazioni… Albert Fall poi divenne il segretario degli Interni degli Stati Uniti, che dice molto sul governo odierno.
Peckinpah era già molto avanti nel suo lavoro di realizzazione di un’altra versione del mito, per metà basata su fatti reali. Albert Fall effettivamente difese il presunto assassino di Pat Garrett, e aveva interessi personali in diversi ranch del posto che Garrett aveva ostacolato per le ragioni citate da Peckinpah. E Fall divenne davvero il Segretario degli Interni e il maggiore cattivo nello scandalo di Teapot Dome dell’amministrazione Harding. Sia Garrett che Kid erano state vittime delle guerre di territorio tra fazioni che avevano infestato il New Mexico durante gli ultimi due decenni del diciannovesimo secolo. Ma furono uccisi da due diverse coalizioni di interessi politici ed economici, non da un’unica entità a capo di tutto, come sosteneva Peckinpah. Sam si stava dunque prendendo alcune licenze poetiche – o paranoiche – permettendo al mitico Santa Fe Ring di rappresentare tutte le occulte, potenti forze economiche e politiche che manipolavano il destino delle singole vite americane. Discussioni di questo genere durante gli incontri di produzione diedero a Gordon Carroll un’ispirazione: perché non aggiungere un prologo al film? Aprire il film nel 1908, quando Garrett – un uomo vecchio, inasprito, corrotto da ventisette anni di senso di colpa per aver ucciso Kid – viene freddato dagli agenti del Santa Fe Ring? Per poi entrare in dissolvenza nella storia principale nel 1881; poi, dopo la scena culminante dell’uccisione di Kid, tornare in dissolvenza al
1908, dove Garrett stesso giace morto. Peckinpah adorò quell’idea. Sam scrisse immediatamente il prologo e descrisse esplicitamente come sarebbe stato inserito nella prima scena del corpo principale del film, che si svolge nel 1881. In quella scena Billy e la sua banda sono intenti in una prova di tiro al bersaglio a Fort Sumner: far saltare in aria le teste di galline vive sepolte fino al collo nella sabbia. Sam voleva intramezzare questa scena con quella di Garrett che viene squartato dai proiettili dei suoi assassini nel 1908 così da far credere che Billy avesse un ruolo nel suo omicidio – in questo modo tra le morti dei due uomini si sarebbe creato uno strano, fatalistico collegamento. Dopo l’epilogo, in cui Garrett muore, un intertitolo sarebbe stato sovrapposto al fermo immagine del suo corpo in caduta. Avrebbe riassunto le circostanze della sua morte, il coinvolgimento di Albert Fall e il suo ruolo nello scandalo di Teapot Dume, seguito poi dalle parole: «Cosa c’è di nuovo?» e il marchio di Sam Peckinpah. Come se incollasse un pezzo alla volta per comporre un grande mosaico, Sam aggiunse ulteriore profondità qui, una sfumatura a un personaggio o a un tema lì, finché non rese Garrett un personaggio tragico e complesso, un uomo in lotta con se stesso, tanto mitico e al contempo profondamente umano quanto Pike Bishop nel Mucchio selvaggio. Sfortunatamente, l’altra metà dell’equazione della storia – Billy the Kid – non raggiunse lo stesso livello di raffinatezza. In risposta alla richiesta di Peckinpah di un maggiore sviluppo per il personaggio di Kid, Wurlitzer aveva aggiunto delle «motivazioni» banali. Inserì un pastore messicano, Paco, nella storia. Paco cerca di fuggire dalla zona di guerra di Lincoln County per tornare nella sua terra natia, ma per farlo deve attraversare la terra di John Chisum. Un terzetto di cowboy di Chisum lo cattura e lo tortura a morte. Billy, anche lui in fuga verso il Messico, arriva sulla scena quando Paco sta già morendo. Uccide i cowboy; poi, dopo aver ascoltato le ultime, farneticanti parole di Paco, decide di tornare a Fort Sumner,
radunare la sua banda e fare giustizia contro Chisum e il resto dei seguaci del Ring. Costretto ad abbandonare il proprio stile, Wurlitzer divenne artificioso e innaturale come un dilettante della tv. Le scene di Paco erano false quanto i soldi del Monopoli perché non erano motivate dalla psicologia dei personaggi ma dal bisogno dell’autore di coprire un buco nella storia. Paragonato agli eccellenti dialoghi del resto del copione, il soliloquio di Paco morente era brutto in un modo atroce. La cosa più allarmante è che Peckinpah accettò questo materiale senza richiedere ulteriori riscritture. Forse semplicemente non c’era tempo. La MGM aveva pianificato il primo giorno di riprese per il 6 novembre, il che gli dava solo sei settimane di preproduzione, e lo studio pressava per riprese e budget ristretti. Carroll, Wurlitzer e i pezzi grossi dello studio erano già irritati dalla quantità di riscritture richieste da Sam. Per questo forse scelse il percorso più facile e pospose la questione ricorrendo alle ultime parole famose di molti registi: nessun problema, lo sistemeremo durante le riprese. Ma l’altro fattore che non può essere negato è che l’alcolismo di Sam stava cominciando a influenzare il suo giudizio creativo. La sua visione incredibilmente lucida cominciava a offuscarsi. Nel film finito l’immagine di Billy the Kid avrebbe confusamente oscillato tra quella di un affascinante psicopatico in una scena e di un romantico anarchico nella successiva. Peckinpah aveva drammatizzato brillantemente le dicotomie dell’animale umano in passato – attraverso Pike Bishop, David Sumner, Roy Earle Thompson – ma in questo ritratto di Billy the Kid l’abbinamento non sembrava coerente. Mentre Wurlitzer rivedeva la sceneggiatura, Sam procedette con il casting. Per il ruolo di Billy fu scritturato il cantante folk Kris Kristofferson. Vincitore della Rhodes Scholarship e di alcuni premi dell’Atlantic Monthly per racconti brevi che aveva scritto al college, Kristofferson aveva recentemente raggiunto la notorietà con un paio di canzoni di
successo, «Help Me Make It Through the Night» e «Me and Bobby McGee», per proseguire poi con la recitazione apparendo in ruoli secondari in Per 100 chili di droga e Una pazza storia d’amore. Per il ruolo di Pat Garrett Sam scelse il veterano di Sierra Charriba James Coburn. Per riempire la galleria di ruoli minori costruita nella serie di brillanti vignette di Wurlitzer, Sam radunò un elenco di tutti i più grandi caratteristi western del tempo – un’intera generazione di uomini che complessivamente era apparsa in migliaia di western. Molti, come Peckinpah, erano cresciuti in ranch e fattorie o in piccole città rurali del Sudovest americano. Avrebbero sfilato nel film portando con loro i ricordi legati a tutti i ruoli interpretati in passato, dai classici western «per adulti» ai filmetti di serie B: Katy Jurado, L.Q. Jones, Slim Pickens, Chill Wills, R.G. Armstrong, Richard Jaeckel, Dub Taylor, Luke Askew, Matt Clark, Richard Bright, Jack Dodson, Jack Elam, Barry Sullivan, Paul Harper, Emilio Fernandez, Jorge Russek, Gene Evans, Jason Robards e Paul Fix (che non aveva più lavorato con Peckinpah da quando Sam aveva creato il suo ruolo per The Rifleman quindici anni prima). Mentre il film si avviava alla preproduzione, le prime avvisaglie di problemi tra Peckinpah e la direzione della MGM cominciarono a prendere forma. Il presidente dello studio al tempo era James Aubrey. Laureato a Princeton, Aubrey si era mosso tra i ranghi della CBS negli ultimi anni Cinquanta prima di diventare il presidente della rete nel 1959. Lì si era guadagnato una reputazione da insofferente autocrate che prendeva eccentriche decisioni creative. Gli scrittori e i registi cominciarono a chiamarlo «il cobra sorridente» e perfino Phil Feldman diceva: «Jim Aubrey è quanto di più freddo si possa essere senza venir dichiarati cadaveri». Aubrey fu messo a capo della MGM dal finanziere di hotel e compagnie aeree Kirk Kerkorian. Kerkorian aveva ottenuto il controllo della società nel 1969. Annunciò prontamente il progetto di erigere un lussuoso Grand Hotel MGM a Las Vegas e riempire il palazzo con cimeli dello studio. Il più grande
risultato di Aubrey durante i successivi quattro anni fu la demolizione di quella che era stata la più potente fabbrica di film di Hollywood. Uno a uno, i beni della società furono venduti. Gli annuali rapporti per gli azionisti avevano sempre meno da dire sulla produzione di film dello studio e sempre più sul nuovo hotel, in cui erano ormai stati versati 120 milioni di dollari. James Coburn aveva appena completato un film, Il caso Carey, alla MGM e aveva visto come Aubrey avesse quasi distrutto il regista, Blake Edwards. Nel bel mezzo delle riprese, il responsabile della produzione aveva improvvisamente deciso di tagliare quindici giorni dal programma, obbligando Edwards ad abbandonare molte sequenze importanti e a dimenarsi per riempire i vuoti riscrivendo mentre girava il resto. «Che malefico figlio di puttana che era Aubrey», ricorda Coburn. «Blake si rifiutò di montare il film. Se ne andò. Arrivato alla fine era distrutto. Aubrey ingaggiava registi affermati, grandi scrittori e star, e poi arrivava e distruggeva il film. Era completamente irrazionale». Quando Peckinpah arrivò da lui con Pat Garrett e Billy Kid, Coburn cercò di avvisarlo: «Dio, sei sicuro che vuoi fare questo film qui? Aubrey ti fotterà, amico, ti distruggerà. Lo fa con tutti». Un sorriso apparve sul volto di Peckinpah. «Non preoccuparti. Ho comprato una quota delle azioni della MGM e se succede qualcosa convoco un meeting degli azionisti e lo fotto io!» «Aubrey era una sfida per Sam», sostiene Coburn. «E anche Aubrey vedeva Sam come una sfida. Sam era un cattivo ragazzo. Fece molte cose che infastidirono la comunità dei produttori di Hollywood e nonostante tutto i produttori volevano accettare la sfida ed essere i primi che avrebbero saputo “gestire” Sam. “Posso piegarlo, sarò il primo!” Invece di essere il produttore che avrebbe supportato il suo lavoro».
Sam potrebbe aver perversamente pregustato la sfida di competere con Aubrey, ma voleva anche disperatamente fare quel film. Era un progetto troppo caro al suo cuore per rinunciarvi. Inoltre, c’erano brave persone che lavoravano al servizio di Aubrey. Dan Melnick era il vicepresidente responsabile della produzione e Lew Rachmil il supervisore di produzione dello studio. Melnick, ovviamente, aveva salvato la carriera di Sam con «Noon Wine». Sam aveva lavorato con entrambi in Cane di paglia e con Rachmil anche nell’Ultimo buscadero. Rispettava il loro giudizio creativo e si fidava delle loro rassicurazioni quando affermavano di poterlo proteggere da Aubrey. Con Getaway! completato, Sam avrebbe cavalcato l’onda del suo primo, trascinante successo. All’apice della carriera, sia sul piano artistico che su quello commerciale, di certo aveva finalmente l’influenza per evitare un altro Sierra Charriba. Il suo contratto gli garantiva due anteprime pubbliche del suo montaggio prima che lo studio potesse farsi avanti e apportare dei cambiamenti al film. Oggi è una clausola standard dei contratti base della Directors Guild, ma nei primi anni Settanta era raro che un regista ottenesse questa concessione da uno studio. Di certo era un segnale della buona volontà della MGM. Sbagliato. Cominciò a capire il terribile errore commesso quando gli presentarono il programma delle riprese e il budget. La MGM voleva girare il film in cinquanta giorni con soli tre milioni di dollari. Sam sperava di fare un film che si avvicinasse alla potenza e all’epica del Mucchio selvaggio, ma lo studio si aspettava che lo facesse con trenta giorni in meno e a meno della metà del costo. Dopo intense pressioni, riuscì a ottenere un’estensione a cinquantatré giorni, ma la spilorceria dello studio continuò. La MGM si rifiutò inizialmente di assumere molti dei soliti membri della troupe di Peckinpah perché, sostenevano i dirigenti, i loro salari erano troppo alti. Sam si lamentò che senza il suo solito team non sarebbe mai riuscito a terminare il film in tempo. Alla fine, dopo molte discussioni, i pezzi grossi si arresero.
Ma su un altro tema cruciale lo studio si rifiutò di scendere a compromessi. Il film sarebbe stato girato a Durango, in Messico, e Sam sapeva da esperienze precedenti che la fine sabbia di silicati del deserto di Durango poteva portare scompiglio sulle attrezzature per le riprese e causare lunghi e costosi ritardi. Per questa ragione, chiese che fosse portato a Durango un tecnico per occuparsi delle tre cineprese Panavision durante le riprese. Troppo costoso, concluse la direzione della MGM. Assolutamente no. Sam si imbarcò su un volo per Durango la prima settimana di novembre a denti stretti. Lo studio aveva affittato per lui un’enorme casa di quattro stanze a Durango, con un giardino murato e una piscina. Al suo arrivo, dal passato di Peckinpah riapparve un fantasma: Begonia – i suoi tratti castigliani definiti esattamente come l’ultima volta che aveva posato gli occhi su di lei, il suo corpo da ballerina ancora sodo e sinuoso. Sam decise di farle interpretare il ruolo della moglie di Garrett. Ancora una volta stava superando i limiti della sua vita vera e di quella fantastica per fare scintille, perché i dialoghi tra Pat e Ida Garrett somigliavano in maniera impressionante alle liti tra lui e Bego quando lei veniva abbandonata per ore e giorni da sola a Broad Beach mentre Sam era via a scrivere o dirigere. «Potresti dire che sei felice di vedermi», dice Ida con risentimento mentre Pat Garrett si siede a tavola. «È passata una settimana da quando te ne sei andato». Pat alza gli occhi, ma non sostiene il suo sguardo. «Mi dispiace». Spinge indietro la sedia e improvvisamente si allontana dal tavolo e si dirige alla porta. «Devo andare giù al saloon, c’è un ubriaco che sta causando un mucchio di problemi, si fa chiamare Alamosa Bill…» Lei lo segue alla porta. «Darai a questa casa il grande onore della tua presenza a cena?» «Oh, penso sarà una lunga notte». Prende il cappello dall’appendiabiti. Ida parla, con voce strozzata. «È stato un lungo anno».
«Non adesso», risponde calmo, distogliendo lo sguardo. «La gente non parla con me. Dicono che stai diventando troppo un gringo da quando sei sceriffo, che fai accordi con Chisum, che non mi tocchi… che sei morto dentro. Vorrei che non avessi mai indossato quel distintivo». «Non adesso!», urla Pat. «Sí, ahora!», risponde lei urlando, «o non mi troverai quando tornerai!» Pat si gira verso di lei, afferra e sfila via dalla bacchetta le pesanti tende di velluto che incorniciano la porta della camera da pranzo. Per un attimo sembra che possa scattare e colpirla; poi si fa indietro, sforzandosi di controllare il tono di voce: «Ce ne occuperemo quando sarà finita». Sam e Bego finirono a letto insieme immediatamente. Nelle prime imbarazzate ore del loro ritorno di fiamma, chiamarono Jim e Lyn Silke in California e balbettarono qualcosa riguardante i «vecchi tempi», come una coppia di adolescenti in preda all’amore. I Silke erano entusiasti. Di tutte le donne di Sam, Bego era sempre stata la loro preferita; con Bego Sam era stato al suo meglio. Ma in pochi giorni andò tutto di nuovo in fumo; ci fu un’altra terribile lite. «Sam cacciò Begonia», racconta Chalo Gonzalez. «Mi disse: “Portala via da qui! Non mi interessa come, mettila su un aereo per Città del Messico, non la voglio vedere!”» Begonia ottenne una cosa dalla loro breve riconciliazione: il figlio che non era mai riuscita ad avere durante il loro matrimonio. Nove mesi dopo avrebbe dato alla luce un piccolo batuffolo di bambina – Lupita. Al suo entourage, Sam ringhiava: «Mi domando chi sia il vero padre». Ma avrebbe pagato regolarmente per il mantenimento della figlia per il restante decennio della sua vita, e durante i brevi incontri con Bego sarebbe stato attento e affettuoso nei confronti della figlia minore. Lupita non sarebbe mai stata segnata dalla sua
furia come gli altri figli, principalmente perché non la vedeva mai di più di due giorni consecutivi. Per quanto riguarda Ida Garrett, Aurora Clavel – che era diventata per Sam l’icona della donna trascurata o tradita – avrebbe avuto la parte. Le riprese sarebbero dovute cominciare il 6 novembre, ma Sam entrò immediatamente in conflitto con il direttore di produzione, Frank Beetson, che aveva lavorato nel Grinta e altri film western con il regista Henry Hathaway. Sam aveva, come al solito, gettato nel caos la compagnia cambiando i piani di produzione e opponendosi a costumi e location che aveva precedentemente approvato. Beveva pesantemente e Beetson commise l’errore di dubitare della sua capacità di giudizio. «Frank era un vecchio duro», dice Gordon Dawson. «Lui e Sam litigarono di brutto. Beetson fu una delle poche persone oneste che abbiano detto: “Sam, a furia di bere butterai il film nel cesso! Ti stai rovinando. Puoi essere un regista migliore di così!”» Peckinpah licenziò Beetson e lo sostituì con un nuovo direttore di produzione, Jimi Henderling. Le riprese furono rimandate di una settimana mentre Sam camminava per le strade delle location di Fort Sumner e Lincoln con il direttore artistico Ted Haworth e il direttore della fotografia Johnny Coquillon, facendo modifiche e discutendo di come varie sequenze sarebbero state girate. Finì anche i casting per i ruoli messicani, rivide i costumi e controllò vari effetti speciali. James Coburn arrivò qualche giorno prima dell’inizio delle riprese. Anche Kristofferson era lì, così come il resto del cast principale. Per tre giorni si riunirono tutti al lungo tavolo di legno della camera da pranzo di Sam per leggere il copione, mentre le prove si trasformavano inevitabilmente in maratone di bevute. A questo punto un altro interprete si unì alla compagnia. Il suo ruolo era secondario, ma la sua presenza sul set e sullo schermo fu enorme. Gordon Carroll aveva mandato una copia
della sceneggiatura a Bob Dylan, che era un amico di Kristofferson e aveva espresso interesse nell’interpretare un piccolo ruolo nel film. Dylan lesse il copione, visionò Il mucchio selvaggio a New York e firmò per il film. «Parlai con Bob subito dopo che ebbe finito di vedere Il mucchio selvaggio», racconta Kris Kristofferson. «Ne era rimasto così colpito ed era talmente eccitato all’idea di Pat Garrett e Billy Kid che aveva già scritto una canzone su Billy the Kid, che adoravo». Carroll era entusiasta. La venerazione del produttore per l’esile cantante folk riccioluto metteva Peckinpah in agitazione, ma quando ascoltò la ballata di Dylan su Billy the Kid se ne innamorò e dovette metterla su nastro per poterla ascoltare e riascoltare nel corso della produzione. Il cantante folk fu scritturato per il ruolo minore di Alias, un membro della banda di Billy, ma Peckinpah chiese a Wurlitzer di espandere il suo ruolo, da fuorilegge non di spicco a enigmatico reporter che abbandona il giornale e rinnega il suo grembiule da stampatore per seguire Kid. Si lasciava intendere che Alias avrebbe narrato la leggenda del fuorilegge negli anni che sarebbero seguiti alla sua morte. Quando le riprese cominciarono, il 13 novembre, il conflitto tra Sam e la MGM peggiorò velocemente. La prima di un’infinita serie di crisi si ebbe quando una flangia di supporto di una lente da 40mm Panavision si incrinò senza che nessuno se ne accorgesse. Di conseguenza, nelle riprese realizzate con quella lente (quasi tutte master, perché aveva una bassa lunghezza focale) tutta la metà destra dello schermo era sfocata. La pellicola doveva essere spedita alla MGM a Culver City per lo sviluppo, poi di nuovo a Durango, perciò Peckinpah e la sua troupe non scoprirono il problema fino a una settimana dopo. Per allora avevano già girato una dozzina di scene con la lente difettosa. «Cominciammo a guardare i giornalieri della prima notte e quella merda era sfocata», racconta Gordon Dawson. «Sam dice: “Avere delle cazzo di riprese a fuoco è chiedere troppo?”
E la seconda ripresa era sfocata, e la terza era sfocata. Sam si infuriò talmente che prese una sedia pieghevole e ci salì sopra, cadendo quasi perché si stava ripiegando, tirò fuori il cazzo e pisciò sullo schermo facendo una grande S. Poi uscì dalla stanza». «Io e Bob Dylan eravamo seduti nella sala proiezione quando lo fece», racconta Kris Kristofferson. «Ricordo che Bob si girò verso di me e mi guardò con l’aria più adeguata alla situazione, come a dire: in che cavolo ci siamo cacciati?» «Da quel momento in poi», afferma Dawson, «ogni sera guardavamo i giornalieri con questa macchia di pipì a forma di S sullo schermo». Se lo studio avesse dato a Peckinpah il tecnico delle cineprese che aveva chiesto, non avrebbero mai avuto quel problema. Ora Sam chiedeva che ne fosse mandato uno a Durango, immediatamente. Ma la MGM continuava a rifiutarsi. La troupe non aveva ancora scoperto la fonte del problema, così la compagnia continuò a girare per altre due settimane, controllando e ricontrollando tutta l’attrezzatura finché la flangia della lente incrinata non fu finalmente trovata. A quel punto però erano state realizzate altre dozzine di riprese sfocate, e il girato era completamente inutilizzabile. Alla fine, a un mese dall’inizio delle riprese, Aubrey cedette e inviò un tecnico a Durango. Peckinpah voleva rigirare il materiale sfocato, ma Aubrey lo proibì, anche se i costi sarebbero stati coperti dall’assicurazione dello studio. «Tutte le sequenze master erano sfocate», afferma James Coburn. «Non potevamo utilizzarne nessuna. E Aubrey continuava a dire: “No, no, no, la gente non lo saprà mai”. Non gliene fregava un cazzo, non gli importava. Non aveva il minimo rispetto per il pubblico. “Prenderanno qualsiasi cosa gli daremo”. La sua missione in quel periodo era sabotare il film. Evidentemente odiava chi aveva talento». Peckinpah fu inizialmente inorridito dalla follia di Aubrey, poi si inferocì e la guerra ebbe inizio. Sam girò
comunque di nuovo la maggior parte delle scene rovinate, rubando le riprese di cui aveva bisogno qui e lì mentre girava altre scene o mandando Gordon Dawson e il direttore dei dialoghi Walter Kelley a girarle con la seconda unità. Dawson e Kelley conferivano costantemente con i tecnici del montaggio per sapere esattamente di cosa c’era bisogno per riempire i buchi nelle varie sequenze. «Aubrey non sapeva che le stavamo rigirando finché non le vide nei giornalieri a Los Angeles», afferma James Coburn. «Poi arrivò questo grande editto: “Non potete girare scene già fatte. Non si rigira. Niente! Tagliate quelle cazzo di scene, dimenticatevele”. Be’, rigirammo tutto quello che ritenevamo necessario. Ma dovevamo farlo nel contesto delle altre scene da girare. Quindi rigiravamo a pranzo, a fine giornata, rigiravamo ogni volta che potevamo. Ma questo è cinema eccitante. Fanculo, perché no? Bisogna darci dentro finché si può». Era eccitante, ma caotico, e la disorganizzazione e le continue lotte intestine distolsero l’attenzione di Peckinpah dalla qualità del lavoro. Anche solo mettere le scene su pellicola era divenuto uno sforzo monumentale; restavano poco tempo ed energie per preoccuparsi che fossero buone. E le scene rigirate da Dawson e Kelley mancavano della vitalità e precisione di Peckinpah. Molte sarebbero apparse sullo schermo piatte come una tavola. Non solo Aubrey proibì le nuove riprese, ma cominciò a mandare telegrammi in cui si lamentava del numero di inquadrature usate da Sam per ogni scena, della quantità di copertura e del tempo che impiegava per girarle. Diede esplicite istruzioni su come andavano girate alcune sequenze, ma di nuovo Peckinpah lo ignorò. In mezzo tra Peckinpah e Aubrey si trovò Gordon Carroll. «All’inizio», dice Gordon Dawson, «Carroll era dalla parte di Sam. Aveva questa ridicola convinzione di poter gestire Sam, che Sam sarebbe stato innocuo e sarebbe stato tutto meraviglioso e che avrebbe compiuto l’impresa della vita con questa pellicola. Ma semplicemente non poté mai
controllare Sam e divenne un voltagabbana quando le riprese cominciarono». «Non si può negare che il film fosse un campo di battaglia», disse lo stesso Carroll a Paul Seydor. Seguendo le istruzioni di Sam, Gordy Dawson controllava il suo telefono e registrava regolarmente tutte le conversazioni con il personale di produzione. «Stai registrando questa conversazione?», avrebbero chiesto i più sospettosi. «No», avrebbe risposto Dawson in tono amichevole. «Fidati. Lo avrei fatto, ma ho finito il nastro». Il fatto di aver assunto lo stesso tipo di comportamento che disapprovava in Richard Nixon sfuggì completamente a Peckinpah. «In quel film Sam creò un’atmosfera assolutamente tossica», afferma un ex membro della troupe. Persino Dawson, il più leale e fervente soldato di fanteria di Peckinpah, stava perdendo ogni illusione. Come regista di seconda unità, Dawson girò alcune delle più belle riprese del film, come la splendida silhouette al tramonto di Billy che cavalca accanto a un lago nel deserto. Ma girò anche la più ripugnante: la scena in cui Billy e la sua banda fanno pratica di bersaglio con teste di galline vive. Dawson mise gli squib sulle galline e fece loro esplodere sistematicamente i crani per la sua cinepresa. «Quella fu una delle cose peggiori che abbia fatto per lui», afferma Dawson. «Ma per il film questo e altro, no? […] Era così che avevo imparato a ragionare. Sam me lo aveva inculcato: per il film questo e altro. Il fine giustifica i mezzi. Ci credetti davvero per molto, molto tempo. Ma Sam era cambiato. Era diventato paranoico. Tutti volevano rovinargli il film. Accusava Wurlitzer di cercare di rovinare il suo film; cazzo, quasi sempre accusava anche me di cercare di rovinargli il film. Tutti volevano rovinargli il film. Era veramente molto paranoico». Si perdevano ore e ore, in futili dibattiti tra Peckinpah e Carroll su problemi logistici minori. Sam era ossessionato dall’idea di volersi vendicare dello studio in ogni modo possibile. Venivano portati a Durango attori per scene che
potevano essere girate in un paio di giorni, ma Peckinpah li faceva aspettare sul set o nelle loro camere d’albergo per settimane – pagati – mentre girava piuttosto altre scene. Come con Sierra Charriba, si stava vendicando dello studio sperperandone i soldi. Le spese raggiunsero le stelle. Sam riceveva 500 dollari al giorno, ma questo non gli impedì di fatturare alla MGM i costi dell’arredamento della sua casa, i salari dei suoi giardinieri, delle domestiche e del ragazzo della piscina; i costi dei gruppi mariachi che assumeva per le sue feste nei weekend, dei fiori che comprava a Katy Haber, e i «rinfreschi» di oltre 2000 dollari serviti dal suo bar. Era lo stesso gioco vendicativo che aveva messo in atto per Sierra Charriba, ed era un gioco a perdere. Avrebbe dovuto saperlo più di tutti, ma una volta azionata la pompa non poteva più invertirne il getto. A metà dicembre, dopo trenta giorni di riprese, avevano nove giorni di ritardo sul programma. Parte della colpa era del meteo – la pioggia e il vento avevano impossibilitato le riprese per ore – e anche un’epidemia venne a riscuotere il suo prezzo; quasi tutti i membri della compagnia ne furono colpiti e si persero giorni di lavoro durante le riprese. Il terriccio di Durango era cosparso di fertilizzante animale secco, che volava insieme al fine pulviscolo e finiva nei polmoni delle persone, causando infezioni croniche. «Tutti si ammalarono di brutto», racconta Coburn. «Io e Sam stavamo così male che girammo una scena che nessuno dei due ricordava di aver girato. Non pensavamo di averla girata. È la scena con Richard Jaeckel nel saloon, subito dopo la scena in cui mi intrattenevo con tutte le prostitute al piano di sopra, ed ero molto ubriaco. Chiedevo a Jaeckel di aiutarmi ad acciuffare Kid. Era una scena particolarmente inconsistente per Garrett, perché era sfinito, fottuto e spaventato. Era molto freddo e umido, c’era vento, un migliaio di anni di merda di cavallo fluttuava nell’aria e quella roba è potente come la morte». L’8 dicembre Sam vomitava troppo per poter lavorare e la compagnia dovette fermarsi per tre giorni. Tornò al lavoro il
12, ma restò debilitato, sia fisicamente che mentalmente, per il resto del film. Di certo l’alcolismo non aiutava. Cominciava ogni giorno con un grande bicchiere di vodka per placare i tremori e alzarsi, vestirsi e uscire. La maggior parte delle volte arrivava sul set in ritardo di mezz’ora o quaranta minuti; la troupe raramente completava le riprese iniziali prima delle 10 del mattino, e molto spesso non prima delle 11. «Ogni mattina Sam partiva con un bel bicchierone di acqua e granatina», racconta James Coburn. «Man mano che la giornata proseguiva, il bicchiere diventava sempre più rosso finché non restava quasi solo la granatina. E poi cominciava a diventare sempre più chiaro di nuovo, perché la correggeva con la vodka o con il gin. Non faceva discriminazioni quando si trattava di bere. L’effetto che aveva su di lui credo fosse quello di trincerarlo da tutto ciò che gli succedeva intorno, i problemi e il caos, e permettergli così di concentrarsi solo sulla scena». In tarda mattinata raggiungeva uno stato di equilibrio alcolico, sembrava sobrio e lavorava con chiarezza fino a metà pomeriggio, quando cominciava a biascicare e barcollare. «Dopo circa quattro ore, Sam era completamente andato», dice Coburn. «Era un genio per circa quattro ore, poi andava tutto a rotoli… A volte non voleva girare. Se ne restava lì seduto nella roulotte ad aspettare che preparassero la scena, poi lo chiamavano e lui non usciva da quella cazzo di roulotte. Noi ce ne stavamo tutti lì ad aspettarlo e mi toccava andare nella roulotte a dirgli: “Sam, che succede? Perché non giriamo questa cazzo di scena? Qual è il problema?” Mi rispondeva, quasi sussurrando: “Non lo so. Non so cosa sto facendo…” Io dicevo: “È una cazzata!” e finalmente usciva e – boom! – ci si buttava a capofitto. Era come uno scrittore che non vuole sedersi e affrontare la macchina da scrivere». Quando L.Q. Jones arrivò a Durango restò scioccato dall’aspetto di Peckinpah: «Arrivò questa apparizione da un lato dell’edificio. Era Sam. Il mio primo impulso fu quello di dire: “Dio, Sam, non avevo capito che eri morto”. Aveva l’aspetto più debole e malato che avessi mai visto in vita mia.
Stava così male che non mi sarei sorpreso se, tornato in hotel, la compagnia mi avesse telefonato per dirmi che era morto. Non era coerente. Si disconnetteva nel bel mezzo di una conversazione, ed era come se fosse altrove. Probabilmente era una combinazione dell’alcolismo e dell’influenza». «Era la classica sindrome dell’alcolista», afferma un ex membro della troupe. «Era circondato da persone che lo assecondavano. Katy e Bobby Visciglia non facevano che portargli drink. Tutti dicevano: “Sam sta avendo una giornataccia”. I suoi compagnucci rendevano impossibile avvicinarlo. Cercavi di andare oltre tutta l’acrimonia e il dolore pur di dire a un alcolista la verità e poi c’erano questi maledetti sicofanti che lo rispingevano indietro e gli davano da bere». Quando si sparse la voce a Hollywood che Peckinpah beveva sul set ed era in ritardo col programma, Sam richiese una pubblicità di un’intera pagina sull’Hollywood Reporter che lo ritraeva supino su una barella, con una bottiglia di Johnnie Walker iniettata per endovena. La didascalia diceva: Cari signori: in riferimento alle voci che pare stiano circolando a Hollywood secondo cui Sam Peckinpah sarebbe stato portato via dal set insieme alla sua bottiglia, voglio informarvi che queste voci sono assolutamente infondate. Tuttavia, ci sono state mattine… Voleva essere una divertente parodia, un vaffanculo a Aubrey e al resto dei pezzi grossi della MGM. Al contrario, l’immagine era agghiacciante. Peckinpah, uno spaventapasseri grigio e raggrinzito, era circondato dai sorrisi raggelati del suo entourage che lo incitava, con Katy Haber che teneva in mano la bottiglia che alimentava il tubicino da flebo. La mezza dozzina di uomini a Hollywood che avevano il potere di dare il via libera al film non erano divertiti. A loro l’immagine non suggeriva che una cosa: Peckinpah era fuori controllo. Se continuava a produrre macchine per soldi come Getaway! avrebbero tollerato un tale comportamento, ma se fosse inciampato un paio di volte sarebbe stata una storia completamente diversa.
C’era qualcos’altro oltre alla messa a fuoco che non andava nei giornalieri, qualcosa di molto più allarmante. Per la prima volta era evidente il segno di tutto quell’alcol. Pat Garrett e Billy Kid, e tutti i film che seguirono, furono infettati da buchi nella continuità, improvvisi sbandamenti di tono e messe in scena realizzate in maniera sciatta, eccessive nella scrittura e nella recitazione, e a volte così brutte da risultare imbarazzanti. Ci sarebbero comunque state scene e sequenze di grande genialità, ma il motore aveva cominciato a ingolfarsi; la presa sull’acceleratore si stava allentando. Si possono quasi identificare le sequenze girate durante le quattro ore buone di Sam e quelle filmate quando il bicchierone di granatina e acqua era diventato di un rosso intenso. Una consapevolezza si era fatta strada nel suo lavoro. I dialoghi erano diventati a volte contorti e boriosi, troppo pregni di «significato». Quando Kid è catturato da Garrett, Kristofferson mette le braccia nella stessa posizione di Cristo in croce. Nel Mucchio selvaggio Angelo rievoca la stessa icona, ma in quel film è così ben integrata nell’azione che il simbolismo viene registrato inconsciamente. In Pat Garrett e Billy Kid salta fuori come un’insegna al neon. Ci sono riprese di bambini che giocano sulla forca pronta per l’impiccagione di Kid a Lincoln, con una bandiera americana troppo ben inquadrata sullo sfondo. Questi tocchi avevano l’impatto di un fulmine nel Mucchio selvaggio; ora sembravano stantii, le macchinazioni di un artista che va avanti per inerzia. Aveva letto troppe recensioni entusiastiche sul «tocco di Peckinpah» e i «temi ricorrenti» della sua opera e ora prendeva la strada più facile, fornendo ai critici un semplicistico schema della «lezione» del film. Ma poi c’erano i giorni in cui Peckinpah si riprendeva e ci provava seriamente, la vecchia magia tornava e tutti ne erano galvanizzati. C’erano le scene della prigione in cui R.G. Armstrong interpretava Bob Ollinger, il vice di Garrett ossessionato dalla Bibbia e dalla sua personale interpretazione della pietà cristiana. «Pentiti, figlio di puttana!», urlava mentre puntava
un fucile a doppia canna sulla testa di Kid. Sarebbe stata l’ultima incarnazione di questo tipo di personaggio nell’opera di Peckinpah, e la migliore. E c’era la sequenza in cui Garrett arruola Slim Pickens, lo sceriffo di un paesino, per un assalto a una fazione della banda di Kid. Pickens si beccava un proiettile nella pancia e strisciava fino alla riva del fiume Pecos per posare per un’ultima volta lo sguardo su quell’acqua verde-argentea. Fu una delle scene più poetiche mai realizzate da Peckinpah su pellicola. E c’erano una mezza dozzina di brillanti vignette che messe insieme, come punti in un quadro puntinista, formavano un vasto panorama della vita di frontiera mentre il primo filo spinato cominciava a suddividere le pianure. Poiché la produzione si muoveva con sedici giorni di ritardo, Aubrey ordinò a Peckinpah di tagliare la maggior parte di queste vignette dal copione per recuperare il tempo perduto. Sam lo sfidò e girò tutte le scene, nonostante le violente proteste di Gordon Carroll, che era presente sul set. Quando le vignette apparvero nei giornalieri alla MGM, Aubrey andò su tutte le furie. Peckinpah è fuori controllo e Carroll non riesce a gestirlo, concluse il capo della produzione. Bisognava fare qualcosa per mettere un freno a questo regista o avrebbero avuto una produzione senza senso tra le mani. Così, come per Sierra Charriba, una parata di dirigenti in stivali Tony Lama, cappelli Neiman-Marcus e accessori di pelle Gucci cominciò a materializzarsi a Durango, dove la paranoia e la merda di cavallo volavano fitte nell’aria. «Andai giù in Messico due o tre volte, per cercare di far calmare Sam», ricorda Dan Melnick. «Ricevetti una telefonata da Jason Robards, che aveva il piccolo ruolo del governatore Wallace nel film. Mi chiamò dopo essere tornato e mi disse: “Sam ha problemi seri, devi assolutamente andare laggiù”. Così ci andai. E mi accoglie a braccia aperte, con la tenerezza di un fratello, e tre drink dopo farfuglia e dice: “Fottiti! Non puoi dirmi di non bere, io faccio quello che mi pare. Vattene! Non ho bisogno di te!” La cosa si ripeté un paio di volte e
tornai con la terribile consapevolezza di non aver potuto fare la differenza». «Andai a cena con Sam, Rachmil, [il vicepresidente delle operazioni, Lindsley] Parsons e Melnick», racconta Gordon Dawson. «Cercavano di dirci come girare il film nella maniera più veloce ed economica. E noi dicevamo: “Cazzate, noi qui stiamo facendo un film di qualità”». La MGM non poteva licenziare Peckinpah; lo studio era troppo coinvolto. Lui lo sapeva e lo studio anche. Se lo studio avesse cercato di rimuoverlo, l’intero cast e la troupe – fedeli a Sam, non alla MGM – se ne sarebbero andati, lasciandolo con una perdita di tre milioni di dollari e un film non completo. Inoltre, Peckinpah era la maggiore fonte di guadagno del film, il nome sulle locandine che avrebbe, con un po’ di fortuna, fatto vendere abbastanza biglietti da compensare l’investimento della MGM. Ora era Peckinpah ad avere il coltello dalla parte del manico. Tutto quello che il capo dello studio poteva fare era tentare qualche pressione e sperare che Peckinpah resistesse abbastanza da concludere la pellicola. Le riprese continuarono anche durante il Ringraziamento, Natale e Capodanno. La società BATJAC di John Wayne aveva mandato cast e troupe a casa per le feste, ma la MGM si rifiutò di fare altrettanto, perciò i membri della troupe si riunirono in varie case nei vari giorni e cercarono di goderseli. Bobby Visciglia aveva risparmiato sei dei tacchini selvatici usati per la scena in cui Kristofferson e Dylan li inseguono, e li aveva messi a ingrassare per il Ringraziamento. Il cast si riunì a casa dell’attore John Beck e li cucinò, ma i pennuti erano duri come un set di pneumatici. I figli di Sam scesero per Natale. Li fece accogliere da un gruppo mariachi mentre scendevano dall’aereo all’aeroporto di Durango, e l’autista aveva una scatola di caramelle per ognuno di loro. Il giorno di Natale ricevettero tutti un bellissimo poncho messicano dal padre, ma Sharon non poté fare a meno di notare che erano tutti uguali – un regalo generico. Aveva probabilmente mandato Katy Haber a comprarli.
Mathew, allora quasi undicenne, non se la passò bene. Suo padre lo trattava in maniera crudele. «Mathew era dislessico e aveva alcuni dei problemi di apprendimento che anche Sam aveva avuto da bambino», sostiene Walter Kelley. «Quando Sam aveva a che fare con il figlio lo trattava quindi, penso, come suo padre aveva trattato lui. Era, cioè, cattivo e aggressivo. Era davvero cattivo con Mathew, anzi voleva proprio smorzare ogni suo entusiasmo. Sembrava qualcosa che doveva già essere successa a Sam da bambino». Peckinpah diede delle feste gigantesche a casa sua sia a Natale che a Capodanno, complete di gruppi mariachi e fosse nel cortile con rocce ardenti e maiali, tacchini e conigli arrosto avvolti in foglie di banano. Fu consumata talmente tanta tequila e tanto mescal che i due eventi sono liquidamente uniti insieme nei ricordi dei sopravvissuti. Sam aveva blackout alcolici almeno ogni sera ormai, ed era in quei momenti che il comportamento diventava selvaggiamente confuso e, troppo spesso, violento. Lanciare i coltelli aveva perso il suo effetto shock nell’ultimo paio d’anni. La maggior parte dei suoi collaboratori e persino la stampa avevano fatto l’abitudine a questo hobby, per cui ne intraprese uno nuovo, ispirato da Emilio Fernandez e dai patroni delle sale da ballo e dei bordelli di Durango: il tiro a segno. Portava quasi sempre con sé una pistola carica e, senza preavviso, la estraeva e sparava un colpo in aria, nelle pareti, nel soffitto. «Era felice, è una cosa comune in Messico», dice Chalo Gonzalez. Ma i membri inglesi e americani della troupe non sempre lo trovavano divertente. Molti venivano convocati a casa di Peckinpah nei fine settimana. Lo trovavano al piano di sopra, a letto, con mezza bottiglia di vodka tra le gambe e un revolver in mano, con cui sparava a uno specchio sulla parete di fronte. «Non ero mai stato tanto vicino a una pistola prima», dice un ex membro della troupe. «Ero a pochi metri quando sparò. Il colpo di una pistola rimbomba come se il proiettile ti passasse
accanto. Poi lo guardo e vedo che Sam sta sparando alla sua immagine riflessa nello specchio». Peckinpah cominciò a girare la scena clou il 26 gennaio. In essa Pat Garrett attraversa le buie strade di Fort Sumner e un pericolante labirinto di argilla, avvicinandosi sempre di più al suo scontro finale con Kid, a casa di Pete Maxwell. Sparare allo specchio nella sua stanza era più che teatralità da ubriachi; persino nell’annebbiamento da alcol Sam manipolava costantemente il film per riflettere la sua vita, e la sua vita per riflettere il film. Man mano che le riprese progredivano, il suo interesse si spostava da Kid a Garrett. Le scene di Kristofferson sembravano spesso sbrigative e superficiali, come se Peckinpah volesse finirle in fretta per poter tornare su Garrett. Kid restò poco più che un appannato simbolo della sua gioventù, ormai perduta. Ma Garrett era un personaggio di vero spessore tragico, un uomo colto al bivio di un dilemma morale. Per rendere Garrett più che un frivolo simbolo della corruzione morale dell’America nell’era del Watergate, e perché diventasse un vero essere umano, Sam doveva operare una trasfusione dalle proprie vene. E l’unico modo per farlo era aprirne una e lasciarla sanguinare. Garrett si vende a Chisum, al governatore Wallace e al Santa Fe Ring e uccide una parte di sé, forse la migliore. Cosa aveva venduto Sam Peckinpah invece? Se lo chiedeva mentre era a letto con una pistola carica puntata sulla sua raggrinzita immagine allo specchio. Sharon, Kristen, Melissa… Mathew. Mathew, il biondo, magro, timido, insicuro ragazzino che a malapena riusciva a guardare senza vomitare rabbia. Quel goffo, vulnerabile ragazzo che aveva dovuto uccidere dentro di sé tanto tempo prima, nelle colline del Dunlap Ranch, in cambio di un duro cenno di approvazione da parte degli uomini Peckinpah. Joie, Begonia… Marie. Stare sdraiato con lei nell’arieggiato appartamento a Rimpau Boulevard, premendo il palmo sul gonfiore della sua pancia per sentire i primi movimenti di Sharon. Dov’era quell’appartamento adesso? Era ancora lì, avrebbe trovato la strada per tornarci? Perduto, come tante altre cose in tanti anni. E aveva venduto tutto per cosa?
Profili su riviste dedicati all’identità fittizia che si era creato, premi ai festival cinematografici, una montagna di soldi, i freddi, famelici corpi di fan pronte ad andare a letto con lui, una cerchia di ruffiani estranei dal sorriso finto che gli offrivano drink, che conoscevano la sua immagine, non lui, che amavano la sua fama, non lui… Non era andata a finire come avrebbe voluto, neanche lontanamente. Nella sequenza, Garrett vaga nell’oscurità, come una scheggia di ferro attratta irresistibilmente dal magnete rappresentato dalla casa di Pete Maxwell e da Kid, e si ferma per un attimo davanti alla baracca di un costruttore di bare che lavora fino a tardi – un altro dei personaggi creati da Wurlitzer. Sam aveva ora deciso di estendere le sue battute e aveva scritturato un nuovo attore per questo ruolo… se stesso. Coburn vaga nella notte. Davanti a lui, la casa fiocamente illuminata di Pete Maxwell; alla sua destra una piccola pozza di luce dorata, dove un’esile figura è china su una bara non ancora terminata. Una piccola bara, per un bambino. «Salve, Will», dice piano Coburn. La testa canuta si solleva rivelando occhi fieri e penetranti. «Salve, sceriffo», risponde Will nervosamente. Coburn gli offre un drink dalla sua onnipresente fiaschetta. Peckinpah lo rifiuta e continua a osservare la sua finta creazione con occhi profondi. «Finalmente lo hai scoperto, eh? Pensavo saresti stato in giro a far baldoria con le pollastre e a bagnarti il becco!» Coburn manda giù un gran sorso di whisky, il viso corrucciato. Rimette la fiaschetta in tasca e osserva la fattoria. «Coraggio», lo incita Peckinpah. «Vai e falla finita». Coburn non riesce a muoversi, ma non può distogliere lo sguardo dal suo destino. Peckinpah mette le mani sul legno grezzo della minuscola bara. «Sai cosa farò? Metterò tutto quello che posseggo qui dentro, la seppellirò e lascerò il territorio».
Come un sonnambulo, Coburn si avvicina alla fattoria; il volto è quello di un uomo morto mentre gli speroni tintinnano sul terreno. Peckinpah lo chiama: «Quando imparerai che non puoi fidarti di nessuno, nemmeno di te stesso, Garrett?» È il regista che dialoga con il suo immaginario alter ego, documentando la sua crisi spirituale su pellicola. Quando Garrett era andato a trovare sua moglie all’inizio del film, si era fermato davanti alla sua casa: una grande casa vittoriana di due piani, con una staccionata bianca che delimita un cortile curato, sporge dal terreno, torreggiando sulle incolori strutture di argilla di Lincoln, un’utopica icona di terra e casa che incarna il fascino e l’orrore della vita domestica cui tendono e da cui fuggono gli americani. Lo stesso Garrett è fuggito poco dopo aver varcato i suoi claustrofobici confini, per poi cercare di riempire il terribile vuoto dentro di sé buttandosi in un letto pieno di prostitute. Ora, avvicinandosi alla fattoria di Pete Maxwell avvolta nell’oscurità, Garrett giunge a un’altra staccionata, usurata e deformata da anni di abbandono. Si ferma davanti al cancello e medita; poi, come in un sogno ricorrente, lo apre con lo stesso identico movimento di quando era entrato a casa di sua moglie. Strisciando nel patio, con la mano sul calcio della pistola, sbircia da una finestra dalla quale sente provenire dei gemiti e una voce affannata che urla «Gesù! Gesù!» È Kid che fa l’amore con la sua donna, con una passione che per Garrett è solo un ricordo. Garrett si allontana dalla finestra e crolla su un’altalena in attesa che Kid finisca. Quando lo fa, Billy esce nel patio, scalzo e a torso nudo, per prendere uno spuntino di mezzanotte dal frigo. Garrett si allontana, entra nella casa buia e si dirige verso la stanza da letto di Pete Maxwell, esattamente dall’altro lato della porta rispetto al punto in cui si trova Kid. «Quando stavamo provando la scena, vidi lo specchio di fianco alla porta», racconta James Coburn. «Mi vidi specchiato in esso e dissi a Sam: “Dopo aver sparato a Kid, voglio sparare a me stesso nello specchio”. Sam disse: “No, no! No, no, no, no!” Risposi: “Sì, dannazione, lo voglio fare.
Fottiti, è quello che farò, lo farò! Allestisci questa cazzo di scena!” Ci stavamo urlando contro e lui era irremovibile, non voleva farlo, non esisteva! […] E poi, non so come, provammo tutto quella notte, ma non girammo. Tornammo la notte seguente. Chiesi a Sam: “La facciamo la cosa dello specchio?” Rispose: “Sì, sparerai a quello specchio del cazzo! È questo che vuoi, no?” Sam era così. Ovviamente sapevo che a casa sua sparava a se stesso nello specchio. Era solo un altro modo… sparare al fantasma». Kid entra di schiena dalla porta aperta della stanza da letto di Maxwell, le spalle e la schiena nude esposte a Garrett che è seduto sul letto. Kid si volta con la pistola in mano. «Ehi, Pete, chi c’è là?» Poi vede Garrett seduto di fronte a lui. Non solleva la pistola, al contrario sorride estaticamente a Garrett, apre le braccia e gli offre il suo petto nudo. Garrett – con la mascella serrata e gli occhi in fiamme – solleva la pistola e spara. Come un fulmine, il lampo illumina la stanza. Kid è spinto all’indietro, vola nello spazio, fluttuando poeticamente nell’aria, con il torso curvo su se stesso e il volto girato. Poi discende verso terra e Garrett si alza, vedendo la propria immagine riflettersi nello specchio davanti a sé. Fa una smorfia e spara, il vetro si infrange e la sua immagine si riduce in mille schegge proprio mentre il corpo di Kid completa la sua caduta, fermandosi con un colpo sordo sulle tavole di legno del patio all’esterno della porta. Il viso ha ancora quel sorriso estatico. Garrett si avvicina allo specchio, fissando l’immagine infranta di se stesso con un buco nero al centro. Vedendo che Kid è morto, il vice di Garrett, Poe, estrae il suo coltellino, lo apre e percorre il patio. Prima che possa raggiungere il corpo, Garrett si staglia sull’uscio e guarda Kid, il suo petto perforato da un preciso foro di proiettile e il viso che gli sorride. Garrett osserva con occhi sbarrati e increduli. «L’ho ucciso», mormora piano, poi si avvicina al corpo nel patio. «Ho ucciso Kid». Era una sequenza di meravigliosa potenza. Quando Jim Silke la vide, pensò: dannazione, ce l’ha fatta finalmente! Sam aveva infine catturato su pellicola ciò che cercava in
Castaway: il momento in cui il signor Lecky uccide il mostro, volta il cadavere insanguinato e scopre che si tratta di se stesso. «Pat Garrett e Billy Kid è, per me, il suo capolavoro», afferma Lyn Silke. «È più completo del Mucchio selvaggio. L’uomo era lì tutto il tempo, c’è tutto di lui, è la sua storia completa. Si prova una sensazione di completezza, il mondo è nato, cresciuto e morto. È un meraviglioso senso di realizzazione». Il film terminò con ventun giorni di ritardo. Peckinpah aveva girato 111.995 metri di pellicola con 803 inquadrature (superando il girato del Mucchio selvaggio di novemila metri, ma con quattrocento inquadrature in meno). Aveva sfidato la MGM e ottenuto tutte le scene che voleva. Alcune erano deboli, molte cose nel film non funzionavano, ma la maggior parte del girato era eccezionale. Nonostante i molti punti deboli, Sam sapeva di avere un film di incredibile potenza. Aveva vinto la battaglia – ma intanto a Culver City il cobra sorridente si era avvolto nelle sue spire ed era pronto a colpire. Roger Spottiswoode, Garth Craven e una squadra di montatori messicani avevano tagliato le scene insieme a Durango, mentre Peckinpah le girava. Quando Peckinpah tornò con loro alla MGM nel febbraio 1973 aveva un montaggio grezzo della pellicola che durava tre ore e mezzo. Necessitava ancora di molto lavoro, ma sperava di trovare in sala montaggio un modo per minimizzare le perdite ed estrarne un grande film. Poi Aubrey lanciò la bomba. Voleva far uscire il film a fine maggio, nel weekend del Memorial Day. Lo studio aveva sprecato tutte le risorse nell’ MGM Grand Hotel e aveva un disperato bisogno di fare soldi prima dell’incontro di luglio con gli azionisti, perciò Aubrey stava frettolosamente lanciando quante più pellicole possibile nei cinema, sebbene la fretta potesse paralizzarne il potenziale al botteghino. Il mucchio selvaggio era rimasto in postproduzione per un anno e la maggior parte delle successive pellicole di Peckinpah per
sei mesi. Pat Garrett e Billy Kid avrebbe avuto solo due mesi e mezzo per diventare un prodotto finito. La scadenza di Aubrey era folle, ma Gordon Carroll la accettò a condizione che potessero assumere più montatori per poter lavorare ventiquattr’ore su ventiquattro. Peckinpah non aveva altra scelta che seguire questo piano – o collaborava o avrebbe dovuto cedere il film a Aubrey – ma sapeva che questo avrebbe azzerato le sue possibilità di fare di Pat Garrett e Billy Kid un grande film. Sei tecnici del montaggio – Roger Spottiswoode, Bob Wolfe, Garth Craven, Richard Halsey, David Berlatsky e Tony de Zarraga – più una scuderia piena di assistenti lavorarono al film. «Avevamo così tanta gente a lavorare al film», dice l’assistente di Bob Wolfe, Mike Klein, «che era come se la mano destra non sapesse cosa stava facendo la sinistra». Peckinpah aveva lavorato con una folta squadra di montatori per Cane di paglia. Passando da sala montaggio a sala montaggio era stato capace di conferire una visione univoca al film. Usò lo stesso approccio con Pat Garrett e Billy Kid, ma ormai Sam funzionava a pieno regime solo per quattro ore al giorno. A volte non si presentava nemmeno per le proiezioni dei vari montaggi grezzi; a volte arrivava barcollando nel mezzo del film, crollava in una poltrona e perdeva i sensi. Proprio quando doveva essere in forma smagliante, Sam stava abbandonando il campo. Eppure in qualche modo riuscirono a produrre un montaggio completo del film per il 13 marzo, data in cui lo proiettarono per i pezzi grossi della MGM. «Una fantastica prima versione», disse James Aubrey quando le luci si riaccesero. Con grande sorpresa dei tecnici del montaggio (Peckinpah non era presente), al capo della produzione sembrava piacere il film. Ma Aubrey nutriva l’illusione che questo fosse solo un montaggio grezzo e che Peckinpah avrebbe ridotto ampiamente la sua lunghezza. Quando scoprì poco dopo che Sam lo considerava il montaggio finale, perse le staffe. Il film era troppo lungo, insisteva Aubrey. I western, come le commedie, non dovrebbero mai durare più di novanta
minuti. Odiava tutti quei personaggi caratteristici che davano al film il suo tono epico – rallentavano l’azione, intralciavano la trama – e pensava che il prologo e l’epilogo disorientassero e mettessero a repentaglio la comprensione del pubblico. I montatori di Peckinpah cercarono di convincerlo ad accontentare Aubrey con qualche concessione, rinunciando a qualche scena per salvare le più importanti, ma Sam rifiutò. «Sapeva incantare chiunque, se lo voleva», afferma Katy Haber. «Poteva manipolare le star più importanti e più problematiche di Hollywood fino a farle mangiare dalle sue mani, ma si rifiutò di farlo con Aubrey. Era quasi come se stesse chiedendo a Aubrey di distruggere il film». Peckinpah era caduto nella trappola di Aubrey. Il contratto di Sam garantiva due anteprime pubbliche della sua versione del film prima che la MGM potesse toglierglielo. Ma anziché organizzare le anteprime a Kansas City o almeno a San Francisco, lo studio informò Peckinpah che le proiezioni si sarebbero tenute proprio lì in sede, nelle sale di proiezione della MGM. Inoltre, a Sam sarebbe stato permesso di invitare non più di sedici ospiti personali a ognuna delle proiezioni. «[Sam] voleva che il film fosse visto da persone con una certa influenza nell’industria – Henry Fonda, Marty Baum», disse Katy a Garner Simmons. «Inviammo la lista alla MGM e rimossero tutti i nomi che ritenevano influenti. Perciò non restò che la famiglia di Sam e un paio di persone che riuscii a inserire spacciandoli per i fidanzati delle figlie di Sam – tre critici cinematografici». Pochi giorni dopo la prima anteprima, Sam riuscì a infiltrare altri tre outsider in una delle sue proiezioni di montaggio: Jay Cocks della rivista Time, Martin Scorsese e Pauline Kael. «Lo trovai un capolavoro», dice Scorsese. «Pat Garrett e Billy Kid era l’unico altro film di Peckinpah che si avvicinasse al Mucchio selvaggio. Ci andava molto vicino». Dan Melnick sperava ancora di poter negoziare un compromesso tra Peckinpah e Aubrey, così aspettava
ansiosamente il verdetto della prima anteprima. Membri del pubblico furono portati in autobus all’interno dello studio per la proiezione; Melnick sperava che la loro risposta avrebbe colpito Sam come una secchiata d’acqua fredda, portandolo a recedere dalle proprie posizioni. Ma quando le luci si abbassarono nel teatro della MGM alle 20 del 3 maggio, Sam non si era ancora fatto vivo. Non si era materializzato nemmeno quando le luci si riaccesero, due ore e tre minuti dopo. «Dopo l’anteprima Sam ci chiamò e ci disse che potevamo accorciare una ripresa di circa dodici secondi», racconta Roger Spottiswoode. «Questo era tutto. Poi Melnick chiamò e chiese: “Quali sono i cambiamenti di Sam?” Gli dicemmo che Sam non si era presentato all’anteprima. Melnick disse: “Cos’ha intenzione di fare? Farà almeno dei cambiamenti?” Rispondemmo: “Be’, ha chiamato e ci ha detto che possiamo ridurre questa ripresa, possiamo eliminare quattro metri”». Il fatto che Sam non fosse andato all’anteprima fece infuriare Melnick. Dan era uno dei pochi che poteva parlare a Sam e capiva il film, ma sapeva che era un suicidio dal punto di vista di Aubrey. «A volte lasciamo che le cose ci accadano perché lo vogliamo», aveva detto Peckinpah a un giornalista un anno prima. Nel film Garrett distrugge se stesso uccidendo Kid; ora il suo creatore sembrava incline a vivere uno scenario simile. Quando Melnick riportò i risultati della prima anteprima, Aubrey non perse tempo. Il Memorial Day incombeva all’orizzonte. In un modo o nell’altro, avrebbe avuto il suo western di novanta minuti. Pochi giorni dopo la prima anteprima, il tecnico del montaggio Mike Klein notò qualcosa di curioso quando si presentò al lavoro la mattina. «Dissi a Sam: “Sta succedendo qualcosa di strano”. Sam rispose: “Che vuoi dire?”, e io dissi: “Be’, la nostra pellicola è messa sugli scaffali in un certo modo. Quando finiamo la sera so esattamente dove si trova ogni cosa. Quando tutti vanno via, però, a quella pellicola succede qualcosa. È messa diversamente da come l’abbiamo
lasciata. So che le scatole dei tagli sono messe diversamente, perché tengo sempre tutto in ordine”. Be’, scoprimmo che la MGM prendeva i rulli del film e ne faceva copie in bianco e nero. Avevano una loro troupe che montava il film a nostra insaputa». «Sam avrebbe avuto le sue due anteprime», dice Roger Spottiswoode, «ma quello non era il film che avrebbero fatto uscire». Aubrey aveva comandato di copiare e rimontare il film, ma solo un uomo poteva far eseguire quell’ordine: il capo della produzione, Dan Melnick. «Melnick era il sicario assunto da Aubrey», disse Bob Wolfe a Paul Seydor. L’uomo che aveva salvato Peckinpah dall’oblio professionale con «Noon Wine» lo aveva ora tradito – sebbene, ovviamente, Sam si rifiutasse o fosse incapace di vedere come avesse forzato la mano del suo ex socio. Alla seconda proiezione, sempre alla MGM, gli ospiti di Sam erano principalmente membri della famiglia e amici stretti. Fern Lea e Walter Peter erano lì, insieme al nipote di Sam David Peckinpah, i Silke e Gordon Dawson. «Sam voleva che le persone a cui teneva vedessero il suo film, quello che voleva fare», dice David Peckinpah. «Dopo la proiezione tutti salirono nell’ufficio di Sam. C’era un gran silenzio. Sam disse: “Me lo hanno portato via. Stanno rimontando il film in questo preciso momento”. Tutti si affollarono intorno a lui; c’era un’atmosfera da veglia funebre, era strano. Glielo leggevo in faccia, quanto fosse affranto». «Dopo l’anteprima io e Roger salimmo nella sala montaggio», dice Garth Craven, «e quelli dello studio vi si erano già trasferiti. Erano già lì a lavorare. Il cadavere non era ancora freddo». Dopo aver dato ogni ora di veglia della sua vita al film per quattro mesi, dopo tutti i traumi, il dolore e la frustrazione, Spottiswoode scattò, imprecando mentre dava un calcio e faceva a pezzi una delle moviole nella sala. Fu una notte buia per Peckinpah e il suo Mucchio, ma fortunatamente per la storia della cinematografia la MGM non
era riuscita a distruggere completamente il loro entusiasmo. «Quella notte realizzai che la stampa della nostra anteprima era ancora nella cabina di proiezione della sala», racconta Garth Craven. «Così convocai Smiley [il montatore Sergio Ortega, che somigliava in maniera impressionante ad Alfonso Bedoya, il capo dei banditi del Tesoro della Sierra Madre] e Smiley prese una bicicletta dello studio [usata dai corrieri] con un cestino davanti e arrivò davanti alla porta di servizio della sala di proiezione. Caricai la pellicola nel cestino e Smiley pedalò attraverso gli studi, la buttò sul sedile posteriore dell’auto di Chalo Gonzalez e fu fatta. Ovviamente, qualche giorno dopo lo studio la cercava dappertutto. Io dissi: “Non so dove sia finita. Non avete dispositivi di sicurezza nelle sale di proiezione?”» «La stampa dell’anteprima era sparita, ma non quella della colonna sonora», racconta Roger Spottiswoode. «Qualcuno chiamò Sam e disse: “Sam, c’è stato un furto molto stupido. Qualcuno ha rubato il film ma ha dimenticato di rubare il suono che ci va insieme. Speriamo che il ladro torni e prenda il sonoro stanotte, perché non appena lo studio lo scopre sarà difficile da prendere. Per cui, se il ladro ha un briciolo di intelligenza, si muoverà il più rapidamente possibile”». Chalo Gonzalez ricorda: «Parcheggiai vicino alle sale montaggio lasciando il bagagliaio aperto, e Smiley arrivò e ci mise i rulli. Poi quando portai Sam a casa la sera, ne approfittai per contrabbandarle fuori dal territorio della MGM. Ci vollero tre giorni, ma prendemmo tutto. Portammo tutto alla roulotte di Sam a Malibu, poi lo spostammo in una cassetta di sicurezza». James Aubrey non aveva ancora finito con Sam Peckinpah. Massacrare il suo film non era abbastanza; voleva che quel coglione con la bandana in testa sanguinasse, sanguinasse, sanguinasse, perciò colpì un’altra arteria principale, vicina al cuore del regista: la sua squadra, il suo prezioso Mucchio.
Pochi giorni dopo la seconda anteprima, Aubrey chiamò Bob Wolfe in una sala proiezione della MGM e fece proiettare una versione da novanta minuti di Pat Garrett e Billy Kid preparata dai montatori dello studio. «Era un disastro», disse Wolfe in seguito a Paul Seydor: la rilevanza epica del film e buona parte dello sviluppo dei personaggi erano stati strappati via. Ciò che restava era una serie slegata di sparatorie in cui i personaggi apparivano senza presentazioni e poi sparivano altrettanto bruscamente, per non fare più ritorno. Le azioni di Kid e Garrett mancavano di motivazione, persino di coerenza. «Vai a dire ai tuoi colleghi», disse Aubrey a Wolfe, «che faremo uscire questa versione a meno che non collaborino. Se ci aiutano, siamo disposti a incontrarvi a metà strada. Taglieremo solo venti minuti, anziché mezz’ora». Wolfe lo riferì agli altri montatori. Garth Craven si rifiutò di collaborare, ma Wolfe e Spottiswoode decisero che lo avrebbero fatto. «Non avremmo dovuto accettare quell’accordo», dice Spottiswoode. «Me ne prendo la responsabilità, almeno delle mie azioni. Non volevo che la versione più brutalizzata arrivasse nei cinema. Avevamo messo tutti noi stessi nel film ed era stata un’esperienza molto dolorosa e spiacevole. Ho sempre pensato che se Sam fosse stato disposto a collaborare con loro, avrebbe potuto salvare ancora di più del film. A ogni modo, devo ammettere che più vado avanti come regista, più comprendo Sam. Dopo che ti hanno fottuto un paio di volte cominci a pensare: non accetterò mai più accordi». Wolfe e Spottiswoode cestinarono la versione dello studio in toto e per i successivi dodici giorni lavorarono con Aubrey e Melnick per ridurre la versione di Peckinpah da 124 a 106 minuti. Prologo ed epilogo furono rimossi – Aubrey non avrebbe neanche lontanamente preso in considerazione la possibilità di salvarli. Diverse vivide vignette furono abbandonate e i dialoghi e il ritmo ristretti nel resto delle scene. I montatori lottarono strenuamente per salvare quello che potevano. Roger Spottiswoode disse a Paul Seydor:
Aubrey ordinava di tagliare scene per una sola ragione: sapeva che Sam non voleva che fossero tagliate. C’erano letteralmente sessioni di baratto in cui scambiavamo scene per salvarne delle altre. Avevamo queste proiezioni con Aubrey in cui tutto diventava assolutamente incoerente, osceno e terribile. Perdemmo la maggior parte della scena di Walter Kelley nel bordello, verso la fine, con Walter che si appoggia al bar. Aubrey odiava Walter Kelley, sapeva che era amico di Sam e lo voleva fuori dalla pellicola. Be’, nelle negoziazioni finali la scena del fiume rimase e Kelley fu fatto fuori. Era uno scambio. Così funzionava. In questo modo riuscivamo a salvare delle scene che Aubrey disprezzava. Ma ne perdemmo anche molte. Ciò che fu eliminato erano le sfumature, i battiti tra un’azione e l’altra. La scena di Sam [come costruttore di bare] con Garrett era molto buona, una tenera, malinconica scena kafkiana. Aubrey eliminò tre quarti della seconda metà. L’epilogo fu rimosso e la cavalcata di Garrett fuori da Fort Sumner fu dissolta in un fermo immagine di Garrett e Billy che ridevano insieme. Questa era la visione di Aubrey ed era orrenda, semplicemente orrenda.
E dopo che Spottiswoode e Wolfe ebbero consegnato la versione di compromesso, i tagli continuarono. Un giorno, mentre passava accanto alla sala di montaggio, Spottiswoode sentì la colonna sonora di una delle scene da un altoparlante. Entrò come una furia per trovare un montatore che non aveva mai visto prima chino su un rullo del film, sul tavolo di lavoro. «Che diavolo sta succedendo?», chiese Spottiswoode. «Quello è il mio rullo, l’ho montato io!» Gli altri montatori lo guardarono con imbarazzo. «Noi non c’entriamo niente, ci dispiace. Ordini del signor Aubrey – stiamo eliminando due minuti qui». Erano due minuti per cui Spottiswoode si era battuto guadagnandosi, o almeno così credeva, il diritto di tenerli grazie al fatto di aver eliminato un’altra scena. Quando Aubrey finì, Pat Garrett e Billy Kid, uno dei film più audaci ed elaborati di Sam, era stato ridotto a un normale western. Ma Wolfe e Spottiswoode avevano preservato alcune delle sequenze più significative, incluso il climax dell’assassinio di Billy. La visione di Peckinpah, sebbene frammentata, era ancora lì, e nel film risuonavano ancora forti le emozioni. Sebbene la catena degli eventi del film sembrava ora disordinata e confusa, era almeno possibile percepire cosa era stato perso, cos’era il film prima che Aubrey lo affliggesse con la mannaia.
«Il montaggio della MGM mi fece impazzire, era davvero terribile», dice James Coburn. «Mi dava la nausea, dopo tutti i tormenti per fare quella cosa bene. Continuavo a chiedere a Sam: “Dov’è quella quota delle azioni della MGM con cui mi dicevi di essere pronto a scendere in guerra, eh?” Non ne voleva parlare». Di certo, a ferire Peckinpah quasi quanto il massacro in sé era il fatto che i suoi stessi montatori avessero aiutato Aubrey a realizzarlo. Sam aveva ancora un ufficio alla MGM e ci tornava ogni giorno mentre veniva fatto il rimontaggio, ma era stato tagliato fuori dal processo e non aveva il potere di fermarlo. «Avevamo rimontato il film di Sam e lui era arrabbiato», dice Roger Spottiswoode. Una sera, poco dopo che il rimontaggio fu completato, Spottiswoode si imbatté in Bob Wolfe mentre attraversava il piazzale dello studio. Il volto del montatore dai capelli grigi e dalla voce dolce era livido, gli occhi lucidi. «Che succede?», chiese Spottiswoode. «Sono appena stato da Sam», mormorò Wolfe, con gli occhi rivolti in basso. Sam era arrabbiato, molto arrabbiato, spiegò esitando. Quando Bob si era presentato nel suo ufficio pochi minuti prima, Peckinpah lo aveva brutalmente attaccato. «Sai, mi piace avere sempre una persona di terza categoria nei miei lavori e tu sei quella persona, lo sei sempre stato», aveva detto Sam in un letale sussurro. «È per questo che ti prendo nei miei film, perché sei un idiota. Sei abbastanza bravo a montare, ma sei un idiota e mi ricordi che fine si può fare se non si sta attenti. Sei tu. Sei l’idiota». E da lì Peckinpah ripercorse sistematicamente tutti i film a cui avevano lavorato insieme – Il mucchio selvaggio, Cane di paglia, L’ultimo buscadero, Getaway! – fornendo vividi esempi che illustravano la mediocrità di Wolfe. Wolfe era un uomo gentile, dalla voce dolce. Aveva sempre cercato di vedere il lato buono di Sam Peckinpah e di scartare quello cattivo. Quando altri montatori condannavano Sam per qualche abuso, Wolfe lo giustificava sempre. Ora
Sam gli si era rivoltato contro e lo aveva colpito. Bob sembrava un piccolo animale ferito – devastato, completamente distrutto. Infuriato, Spottiswoode si diresse verso l’ufficio di Peckinpah a tutta velocità. Irruppe dalla porta a pugni serrati. Peckinpah partì belligerante, ma quando Roger fece il giro della scrivania e gli si avvicinò urlando «coglione del cazzo!», Sam alzò le mani e cominciò a scusarsi. «Cosa posso fare?», supplicò, alla disperata e improvvisa ricerca del perdono. «Ti darò qualsiasi cosa!» Spottiswoode si voltò e se ne andò. A metà strada, Katy Haber lo raggiunse. «Devi tornare indietro», lo implorò. Roger si fece riportare nell’ufficio di Peckinpah. Sam era seduto dietro la sua scrivania, e piangeva. «Ci conosciamo da troppo tempo, non puoi abbandonarmi, non puoi abbandonarmi! Non puoi… Mi dispiace! Mi scuserò anche con Bob». «No, non puoi sistemare le cose», disse Spottiswoode. «Non puoi rimangiarti quello che hai detto, come fai sempre. Fai cose che non puoi cancellare e questa è una di quelle». Bob Wolfe era stato una delle principali forze creative di cinque dei film di Peckinpah. Quattro anni dopo, Sam avrebbe ammesso con Paul Seydor che di tutti i tecnici del montaggio che avessero mai lavorato per lui «Wolfe era il migliore». Ma ora Wolfe se ne era andato e non sarebbe tornato. Anche Spottiswoode se ne era andato, via dal paese, in Inghilterra. Sarebbe tornato in seguito per cominciare una sua carriera da regista, ma lui e Peckinpah non lavorarono mai più insieme. Nonostante la folle corsa della postproduzione, Pat Garrett e Billy Kid non riuscì a uscire per il Memorial Day, ma solo sei settimane dopo a Los Angeles, nel luglio del 1973, ricevendo recensioni contrastanti. Molti critici lamentavano un’incoerenza del film. Alcuni incolpavano l’intervento della MGM, altri puntarono il dito contro Peckinpah.
Paul D. Zimmerman scrisse su Newsweek: «Questo nuovo film è la vittima di una prolungata sparatoria tra il regista Sam Peckinpah e il presidente della MGM James Aubrey. La battaglia è terminata con Aubrey che ha sottratto a Peckinpah la sua “versione finale” […] Ma la domanda resta: lo studio ha rovinato un film interessante o ha semplicemente cercato di salvare una pellicola confusa e senza speranze? In ogni caso, il film è un gran casino». Tuttavia altri riconobbero che la pellicola aveva una sua contorta grandezza. Jay Cocks scrisse su Time: «Persino nel mutilato stato in cui è uscito, Pat Garrett e Billy Kid è il più ricco, il più eccitante film americano di quest’anno. Contiene momenti e intere sequenze che possono essere annoverate tra le migliori mai realizzate da Peckinpah…» Cocks avrebbe poi inserito il film tra i migliori dieci del 1973. Jim Hamilton, che sarebbe stato uno degli sceneggiatori della Croce di ferro, vide Pat Garrett e Billy Kid in un cinema di San Francisco: «Questo è il film in cui, se hai studiato il lavoro di Sam, senti che i giochi sono finiti e che la fatica e la malinconia hanno preso il sopravvento. È uno dei film più segnati dalla fatica che siano mai stati realizzati. La puoi sentire scorrere dallo schermo. Ma ciò che Sam fa è creare tutte queste meravigliose immagini per l’ultima volta, come la magnifica scena della morte con Slim Pickens. Sam doveva saperlo: “Questo è tutto ciò che mi resta”. Aveva finito con quel genere». Le spese finali di Pat Garrett e Billy Kid arrivarono a 4.638.783 dollari – più di 1.600.000 dollari oltre il budget originale. Durante il primo anno nelle sale incassò 4.652.724 dollari; nel 1976 quella cifra era salita a 5.367.980 dollari. Per cui la pellicola probabilmente diede qualche profitto, ma non abbastanza da salvare la MGM. Nell’ottobre del 1973 James Aubrey annunciò il completo ritiro dello studio dalla distribuzione cinematografica. La MGM vendette l’intero catalogo alla United Artists e Aubrey rassegnò le dimissioni. «Aubrey ora è disoccupato», disse Peckinpah al pubblico del
San Francisco Festival nel 1974. «Per cui forse ho fatto qualcosa di buono per il mondo». La stampa dell’anteprima che il Mucchio di Peckinpah aveva rubato alla MGM passò negli anni da cassette di sicurezza a frigoriferi d’ufficio fino all’appartamento di Kristen a Silver Lake. Nell’aprile 1986, meno di un anno e mezzo dopo la morte di Sam Peckinpah, fu organizzata una proiezione di quel film alla USC. Alcuni volantini furono affissi alle bacheche dei dipartimenti di cinema e di teatro e la voce si diffuse come una fiammata. La sera della proiezione, il lussuoso Norris Auditorium era colmo. Sparsi tra la folla c’erano veterani di Peckinpah come James Coburn, Roger Spottiswoode, Alfonso Arau e Richard Bright. Il giorno seguente apparve un articolo su Variety intitolato «Riemerge versione restaurata del Garrett di Peckinpah». La MGM fece immediatamente delle indagini sulla stampa, di cui voleva appropriarsi di nuovo. Ma il film era già scomparso in un nuovo nascondiglio. A due anni e mezzo dalla proiezione alla USC, Jerry Harvey – vicepresidente della programmazione di Z Channel, un’avventurosa stazione via cavo di Los Angeles specializzata nel mandare in onda film cult, oscuri classici americani e film stranieri – convinse Ted Turner, ora proprietario del catalogo cinematografico della MGM, a raccogliere i soldi per un restauro completo del film. La qualità della pellicola e del suono della versione restaurata erano ottime, ma per qualche inspiegabile motivo le nuove stampe non includevano la scena cruciale tra Garrett e sua moglie. Ciononostante, una proiezione della versione di Z Channel fece nuovamente il pienone nel teatro della Directors Guild of America su Sunset Boulevard e le successive trasmissioni nei cinema d’essai di tutto il paese e in tv alimentarono una seria rivalutazione del film. Oggi, venti anni dopo la sua realizzazione, l’aspra visione di una frontiera americana che soffoca lentamente nella morsa delle grandi industrie, dei politici corrotti e dei loro scagnozzi
è più rilevante che mai. Come nel Mucchio selvaggio, Peckinpah infuse la sua crisi spirituale e la sua disperazione personale in un quadro mitico più ampio che toccava la crisi spirituale e la disperazione di una nazione intera. È per questo motivo che Pat Garrett e Billy Kid, pur con tutte le sue mancanze, resta un’opera di incredibile potenza e di penetrante visione. «Mi sentii colpito nelle viscere dal film quando la MGM lo fece uscire», afferma il giornalista Grover Lewis. «Insomma, era impossibile difenderlo. Aveva delle scene carine, ma non si capiva nemmeno cosa stesse succedendo. Poi, anni dopo, vidi la versione di Z Channel e alla fine ero in lacrime. È il film più cupo che abbia mai visto». Molti altri critici sono giunti alla stessa conclusione. Pat Garrett e Billy Kid ora appare regolarmente nelle loro liste dei dieci migliori western mai realizzati ed è ampiamente considerato, insieme a Sfida nell’Alta Sierra e Il mucchio selvaggio, uno dei capolavori di Sam Peckinpah.
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NELL’ABISSO
Nell’autunno del 1972 il prestigio di Sam Peckinpah raggiunse la vetta. La First Artists aveva lanciato la sua guerra lampo promozionale per Getaway! ed era opinione condivisa a Hollywood che avrebbe incassato quanto Bullit, se non di più. Pat Garrett e Billy Kid stava per passare alla fase delle riprese e aveva tutte le caratteristiche di un altro Il mucchio selvaggio. Dopo vent’anni di fatica, Sam era finalmente nella posizione di ottenere finanziamenti per qualsiasi film volesse realizzare. Non scelse Castaway o Hi-Lo Country, né My pardner, ma uno squallido, ripugnante incubo intitolato Voglio la testa di Garcia. La storia veniva originariamente da Frank Kowalski. «Allora, hai qualche idea per un film?», aveva chiesto Sam a Frank nel gennaio 1969. «Curioso che tu debba chiedermelo…», disse Frank con tono strascicato, presentando poi la storia a cui stava lavorando. «C’è questo barista. Quarant’anni suonati e con problemi di alcolismo. Vive in un buco di appartamento e capisce che quella è una strada senza uscita, che ha sprecato la sua vita. Un uomo del genere cosa sarebbe disposto a fare per avere un’ultima occasione di entrare nel giro che conta? Se gli venisse data la possibilità di fare qualcosa di assolutamente ripugnante, riprovevole, un crimine contro l’umanità, contro Dio… lo farebbe? Supponiamo che un boss della mafia stia cercando un ragazzo, lo voglia vedere morto nel modo più orribile e offra molti soldi a chiunque porti a termine il lavoro.
Supponiamo che il nostro barista conosca il ragazzo in questione e sappia che è già morto e dove è seppellito. Supponiamo che una notte vada al cimitero, disseppellisca il corpo e prenda qualcosa per dimostrare che ha ucciso l’uomo e riscuotere la ricompensa». «Qualcosa tipo?», chiese Sam. «La sua testa. Taglia la testa al ragazzo come prova e deve portarla attraverso il paese al boss della mafia, per incassare la taglia». «Cristo, è fantastico!» Per un uomo che una volta aveva fabbricato un cadavere insanguinato per il tè di sua madre, il fascino deve essere stato irresistibile. Nei due anni seguenti, la sceneggiatura prese lentamente corpo. Kowalski e Peckinpah scrissero un trattamento di ventinove pagine, che Sam passò a Walter Kelley. Kelley scrisse la prima metà del copione, poi finì la benzina, così Gordon Dawson e Peckinpah lo portarono a centocinque pagine. Spostarono l’ambientazione in Messico e fecero del boss mafioso un ricco criminale sudamericano – El Jefe – che offre un milione di dollari per la testa di un suo ex tirapiedi che ha messo incinta sua figlia fuori dal matrimonio. Bennie, il barista, parte con la sua donna – Elita, una prostituta d’alto bordo con un cuore d’oro – per recuperare il bottino. Sarà facilissimo, la rassicura. Tutto quello che devono fare è intrufolarsi nel cimitero con la complicità del buio, disseppellire il cadavere, tagliare la cabeza e tornare a prendersi due biglietti per la terra del lieto fine. Ma quando si intrufola nel cimitero per portare a termine l’impresa, Bennie cade nell’imboscata di due scagnozzi di El Jefe, che lo hanno seguito fino a lì. Uccidono Elita, colpiscono Bennie in testa con una pala e, credendolo morto, vanno via con la testa di Alfredo. Bennie rinviene e scopre il cadavere di Elita. Impazzito dal dolore, dalla rabbia e dall’odio per se stesso, si fa prendere da una furia vendicativa.
Bennie riprende possesso della testa e massacra l’intera catena di scagnozzi e boss criminali, seguendo la loro scia di sangue e soldi fino ad arrivare alla roccaforte sudamericana di El Jefe. El Jefe spinge una valigetta con un milione di dollari in contanti da una scrivania ordinata nelle mani di Bennie – pagamento completo per la «merce». Bennie è ricco al di là di ogni sua più rosea aspettativa, ma ha perso tutti i suoi sogni in quell’affare. In un impeto di rabbia, estrae la pistola e uccide El Jefe. Nella sceneggiatura originale, Bennie afferra i soldi e il cranio coperto di mosche e si fa strada a colpi di pistola fuori dalla roccaforte, ma quando Sam girò la sequenza decise che Bennie doveva morire per i suoi peccati. Peckinpah consegnò il copione a Martin Baum, che aveva fondato la sua società di produzione con i finanziamenti della United Artists. La United Artists acconsentì a far partire la produzione del film dopo che Sam avesse finito Pat Garrett e Billy Kid, a condizione che Baum e Peckinpah lo girassero in Messico in quarantasei giorni con un budget di un milione e mezzo. Warren Oates fu scritturato per interpretare Bennie; la divinità più sexy del Messico, Isela Vega, avrebbe interpretato Elita ed Emilio Fernandez El Jefe. Le riprese cominciarono nell’autunno del 1973 e la produzione procedeva liscia, ma una coltre di malinconia aleggiava sulla troupe. Non era come ai vecchi tempi. Qualcosa era cambiato in Sam; la fiamma nei suoi occhi nocciola si era spenta. «Pat Garrett e Billy Kid gli aveva rotto la schiena», afferma Gordon Dawson. «Non era lui in Voglio la testa di Garcia. Era circondato da strani dottori. Ogni volta che volevi farlo uscire dalla sua roulotte era attaccato a qualche flebo. Non parlava con nessuno della troupe, solo con me. Era molto difficile capire cosa volesse». Quando Sam arrivava sul set, era apatico. Sembrava non curarsi nemmeno se l’azione fosse coerente tra una ripresa e l’altra. Pat Garrett e Billy Kid aveva distrutto Peckinpah, ma Voglio la testa di Garcia distrusse Dawson. Sam era stato il suo idolo, il suo mentore; Gordy non poteva starsene a guardare la sua disintegrazione. «Mi lacerava
il cuore… era così deludente». Avevano lavorato a sei film insieme, ma Voglio la testa di Garcia sarebbe stato l’ultimo di Dawson. «Lo avevo messo su un piedistallo. Ho sbagliato io a metterlo lì, sapete, è un posto difficile dove stare, ma di certo con quel film cadde giù, e non potevo riassemblare di nuovo Humpty Dumpty nella mia mente». Dawson tornò a scrivere per la televisione. Negli anni seguenti, Peckinpah lo chiamò diverse volte cercando di ingaggiarlo per i film che stava dirigendo. «Coraggio, Dawson, fatti un giro nel lato selvaggio!» Ma il vecchio tono non funzionava più ormai. «Mi dispiace, Sam. Non posso, sto scrivendo un episodio per Agenzia Rockford». «Avrei voluto che si fosse voluto bene quanto gliene volevo io», dice Dawson. «Gli volevo veramente bene. La paura iniziale era diventata rispetto e ammirazione. C’era così tanto da rispettare. Aveva più occhio di qualunque altro regista e, prima che tutto andasse a rotoli, sapeva usarlo bene». Quando fu finito, Voglio la testa di Garcia mancava della grande forza viscerale e dell’incredibile virtuosismo cinematografico che avevano caratterizzato ogni film di Peckinpah da Il mucchio selvaggio. Persino alle sparatorie mancava energia, la precisione delle riprese e del montaggio era trascurata, l’intramezzarsi di slow e fast motion era una pallida imitazione dei suoi giorni di gloria. E nonostante ciò il film avrebbe avuto una potenza innegabile, un effetto emotivo allarmante a dispetto dell’esecuzione anemica. Accadde qualcosa a quella strana, piccola morality play mentre Sam la girava nei dintorni di Città del Messico e Cuernavaca. Le scene erano diventate ancora più ambigue, distorte dalle ossessioni psicologiche emanate sia da Peckinpah che dal Messico stesso. L’immaginario, i personaggi e i colpi di scena cominciarono a dispiegarsi come le visioni distorte di un sogno febbrile al gusto di mescal.
Come regista, Sam Peckinpah non era mai stato un realista che illustra spaccati di vita. Nei telefilm e nei film che aveva diretto offriva una visione del mondo mitica, a volte addirittura surreale, ma mai prima di allora quest’immaginario era stato così curiosamente stilizzato, con cambiamenti di tono così bruschi dalla commedia all’horror gotico, all’idealismo pastorale. Come in un sogno, le persone, gli oggetti, il paesaggio e gli eventi di Voglio la testa di Garcia erano costantemente trasformati, con azzardati e improbabili salti nella continuità e nella logica. La narrazione non era mai stata così inconsistente, come se il regista avesse poco o nessun interesse nel creare una storia credibile, ma avesse intenzionalmente gettato al vento la coerenza mentre rimbalzava da un’associazione inconscia all’altra. Ci furono due anteprime pubbliche di Voglio la testa di Garcia nel luglio del 1974, entrambe disastrose. «Quando le luci si riaccesero alla fine del film, erano rimaste forse dieci persone tra il pubblico», sostiene Martin Baum. «Odiavano il film. Lo odiavano! Non riuscivano a restare seduti a guardarlo». L’onda si era rivolta contro il regista. Nel 1969 Sam Peckinpah aveva infuso i propri profondi conflitti personali nella cornice del western e con Il mucchio selvaggio aveva offerto il controcanto di una crisi spirituale collettiva. La sua psiche si era perfettamente sincronizzata con quella dei suoi compatrioti, ma nel 1974 era finita fuori sincrono. I tempi erano cambiati. La guerra del Vietnam si stava avviando a un’atroce conclusione, tanto insensata, frustrante e tragica nel finale quanto lo era stata fin dal principio. Il mese successivo Richard Nixon si sarebbe dimesso dall’incarico. Gli americani avrebbero cercato di scrollarsi di dosso il ricordo della sua disgrazia e con esso molti altri ricordi traumatici del decennio più sconvolgente dai tempi della guerra di secessione. Era arrivato il momento di curare le ferite, di dimenticare. L’amnesia collettiva era all’ordine del giorno. American Graffiti, diretto da un bambino prodigio della scuola di cinema, George Lucas, era uscito l’anno prima e
aveva raccolto cinquantacinque sbalorditivi milioni di dollari al botteghino. Aveva accumulato profitti applicando un paio di elettrodi all’ormai defunta visione utopistica dell’America degli anni Cinquanta – della periferia di una piccola cittadina con le sue tavole calde, le giacche da baseball, le gonne a pieghe, i balli scolastici, il piacevole rock and roll apolitico e i sani valori. Il film fu seguito l’anno dopo da una serie tv sulla stessa lunghezza d’onda, Happy Days, che raggiunse i vertici degli indici Nielsen e fu trasmessa in prima serata per altri dieci anni. La gente voleva dimenticare l’incandescente sogno della Summer of Love, che aveva nascosto sotto il suo bouquet di romantiche illusioni un affilato rasoio. L’autostrada che Sal Paradise e Dean Moriarty avevano percorso agli albori degli anni Sessanta, nella disperata ed estatica ricerca di vette più alte e avventure selvagge era finita per molti come lo era stata per Bennie in Voglio la testa di Garcia – in un esausto sfogo di autodistruzione. La maggior parte dei critici fu disgustata da Voglio la testa di Garcia quanto lo era stato il pubblico dell’anteprima. Il film ebbe ben pochi difensori. Jay Cocks di Time lo interpretò come una nera parodia comica, ideata ad arte per provocare tutti coloro che avevano attaccato Peckinpah come un dispensatore di violenza irrazionale e di crude fantasie maschili. Roger Ebert del Chicago Sun Times definì la pellicola uno «strano, ambiguo capolavoro che disgusterà molte persone ma che sarà ricordato a lungo… È una classica opera alla Peckinpah». La United Artists scaricò Voglio la testa di Garcia nei cinema di seconda visione, supportandolo solo con pubblicità da un quarto di pagina sui giornali. In netto contrasto con la sua sorte in America, il film ricevette entusiastiche recensioni in Inghilterra (quattro critici di Sight and Sound lo inserirono nelle loro classifiche dei migliori dieci film dell’anno), ma fu giudicato così inquietante dalle autorità tedesche, argentine e svedesi che ne fu vietata la distribuzione. Nel 1977 il film aveva incassato 2.168.998,25 dollari, e più di metà della cifra
proveniva dai mercati esteri. Pur considerando la contabilità creativa dello studio, è fuori di dubbio che Voglio la testa di Garcia perse dei soldi. Il 5% degli incassi che spettava a Peckinpah gli portò 100.000 dollari extra, che gli consentirono di guadagnare quasi quanto aveva intascato con Pat Garrett e Billy Kid. Ma il danno alla sua reputazione come regista fu devastante. Vincent Canby scrisse sul New York Times: «Sam Peckinpah. Spetta a lui l’agonizzante premio di rivalutazione che viene dato ogni anno al regista la cui precedente carriera sembra necessitare urgentemente di una riconsiderazione alla luce della sua recente serie di disastri (Voglio la testa di Garcia, Pat Garrett e Billy Kid). Come ha potuto lo stesso uomo realizzare anche Il mucchio selvaggio e La ballata di Cable Hogue, sempre che siano così buoni come si era originariamente pensato?» Da questo momento in poi, non solo ogni nuovo film di Peckinpah sarebbe stato guardato come nient’altro che l’ennesimo, insensato bagno di sangue, ma nella memoria del pubblico e della critica si diffuse la percezione comune che Peckinpah non avesse mai prodotto altro. I trionfi di Sfida nell’Alta Sierra, «Noon Wine», Il mucchio selvaggio e L’ultimo buscadero svanirono come immagini su celluloide in decomposizione. Alcune delle conoscenze di Peckinpah sospettarono che usasse i massacri operati dagli studios sulle sue pellicole come una scusa per i suoi fallimenti come regista. Poteva sempre puntare il dito contro gli uomini d’affari. Ma fino alla fine della sua vita, ubriaco o sobrio che fosse, si prese tutta la responsabilità per Voglio la testa di Garcia. «Io ho fatto Voglio la testa di Garcia», avrebbe ripetuto più volte, «e ho fatto esattamente quello che volevo fare, giusto o sbagliato, che piacesse o meno. Quello era il mio film». Roger Ebert aveva ragione; Voglio la testa di Garcia non è stato dimenticato. Negli anni che seguirono la morte del regista si guadagnò un piccolo ma appassionato seguito – un culto minore e a sé stante nel più grande culto di Peckinpah. Nel 1991 la scuola di cinema della UCLA organizzò una serie di
proiezioni di grandi pellicole americane dimenticate e incluse il film nel programma. «Voglio la testa di Garcia è il più cupo, il più tetro, il più divertente e il più spaventoso dei suoi film», sostiene Paul Seydor. «In quel film Peckinpah ha raggiunto punti che non ha sfiorato in nessun altro. Tra cinquanta o cent’anni la gente riguarderà a questo film come si guarda a Faulkner oggi. Ci sono stati professori licenziati o esclusi da incarichi che gli spettavano di diritto per aver sostenuto che Faulkner era un grande scrittore; oggi è riconosciuto come uno dei più grandi autori americani. La gente ripenserà a noi e si chiederà come abbiamo fatto a non comprendere Voglio la testa di Garcia». Dopo le due catastrofi consecutive di Pat Garrett e Billy Kid e Voglio la testa di Garcia, Sam Peckinpah aveva bisogno di un altro successo come Getaway! per ridare una base solida alla sua carriera. Pensò di averlo trovato con The Insurance Company, un frenetico thriller che aveva accettato di realizzare per la 20th Century Fox per 325.000 dollari. Ma il film andò a monte quando Peckinpah non riuscì ad attrarre una star commercialmente forte. «La 20th diede il copione a Charles Bronson», riporta Kip Dellinger, «e Bronson disse: “Non lavoro con gli ubriaconi”». Fu il primo film a essere cancellato da quando Il mucchio selvaggio lo aveva ricatapultato nel periodo d’oro, e il pensiero di un’altra, lunga fase di disoccupazione lo gettò nel panico. Così, quando Martin Baum lo avvicinò con l’offerta di dirigere Killer Elite – un filmetto di spionaggio con abbondanti sparatorie, un’alta conta delle vittime e uno sviluppo minimo dei personaggi – lo accettò al volo. Ancora una volta era la United Artists a fornire i finanziamenti. Dopo le gravi perdite subite dallo studio con Voglio la testa di Garcia, il capo della produzione della UA, Mike Medavoy, era determinato a tirare le redini. Fu stabilito da contratto che Peckinpah non avrebbe operato alcuna riscrittura sulla sceneggiatura. Imprigionato dalla camicia di forza dello studio, Peckinpah ricorse nuovamente alle stesse tattiche ostili che
aveva sviluppato durante il suo primo film, La morte cavalca a Rio Bravo. Ridicolizzò il film che i suoi produttori lo costringevano a fare. Quando cominciarono le riprese, a San Francisco, Sam fece improvvisare ai suoi attori battute insensate che smorzavano il dramma e incoraggiavano il pubblico a prendersi gioco del film per cui avevano pagato un lauto biglietto. Marty Baum non era affatto divertito. Si era fidato una volta degli istinti drammaturgici di Peckinpah, ma ora si erano fatti confusi e Baum conosceva anche troppo bene il motivo: la cocaina. La droga si poteva trovare sui set di quasi tutte le produzioni hollywoodiane di fine anni Settanta. Registi e star ne sniffavano strisce prima di girare le scene, gli scrittori prima dei meeting per sviluppare la sceneggiatura, gli agenti prima di proporre un cliente a un produttore importante, gli attori prima di fare l’audizione per un ruolo. La cocaina aiutava a prepararsi a una performance davanti o dietro la cinepresa. Secondo molti ex membri della troupe di Killer Elite, la star del film, James Caan, e il suo entourage ne erano grandi estimatori. Uno degli assistenti della star era anche il suo fornitore, ma la cosa non finiva lì. Lo spacciatore di Caan pubblicizzava aggressivamente il suo prodotto con ogni membro del cast e della troupe, compreso Peckinpah. Sam, con la sua compulsiva tendenza a sviluppare dipendenze, non aveva speranza. «Sam diceva che gli dava un’ebbrezza istantanea», racconta Garner Simmons, «una scarica che, a sentir lui, gli scatenava intuizioni sul materiale [del film] e lo sollevava: qualcosa che valeva la pena assumere, quindi. La sua frase al tempo era: “Acuisce i sensi”». «All’inizio forse la cocaina affinò davvero la sua mente», dice Kip Dellinger. «Ma ciò che accadde poi fu che cominciò a usare la cocaina per controbilanciare l’alcol e l’alcol per
controbilanciare la cocaina, e finì solo per assumere dosi sempre più massicce sia di alcol che di droga». «Sam aveva certamente i suoi demoni», racconta Katy Haber. «È per questo che beveva, per cercare di sfuggire a quei demoni. Quando faceva qualcosa di brutto era sempre pieno di rimorso. Ma quando cominciò a farsi di cocaina, il rimorso si trasformò in rabbia. La cocaina lo cambiò talmente che non potevo più dire: “Oh, non voleva”. La gentilezza era sparita e la paranoia e la cattiveria avevano preso il sopravvento; l’equilibrio tra le due anime di Sam non esisteva più». E ovviamente questo influiva sul suo lavoro. «Non riuscivo a credere che stesse accadendo a Sam», afferma Whitey Hughes, coordinatore delle controfigure del film. «In Killer Elite dimenticava le conversazioni che aveva avuto con te. Preparavi un’acrobazia, ne discutevi con lui e la approvava, poi usciva dalla roulotte, facevamo una ripresa e rinnegava quanto detto sostenendo che non era affatto come l’aveva richiesta. E questo genere di cose accadevano praticamente sempre». L’antico, rigoroso zelo per i dettagli si era sgretolato. A volte Sam mandava addirittura gli aiuto registi a dirigere le scene in modo da poter restare nella roulotte a bere e ronfare. Ma visto che non premeva per realizzare un film davvero notevole, riuscì a girarlo rapidamente. Le riprese terminarono il 18 giugno 1975 con un solo giorno di ritardo. Killer Elite uscì nelle sale nel dicembre del 1975 riportando pessime recensioni e ottimi guadagni. Nell’ultima settimana del mese, Sam Peckinpah ebbe per la seconda e ultima volta nella sua carriera un film al vertice della classifica del botteghino di Variety. Il film incassò 849.000 dollari quella settimana, solo 25.000 dollari in meno rispetto a quanto fatto da Getaway! nella sua prima settimana di uscita. Ma quando le feste di Natale finirono, le vendite dei biglietti caddero in picchiata. Il passaparola, fondamentale per un successo prolungato al botteghino, non riuscì a supportare la pellicola. Nell’ultima settimana di gennaio, le entrate di Killer Elite erano scese a soli 266.923 dollari.
Al contrario, un altro film uscito quell’anno, Lo squalo, incassò incredibilmente 133.429.000 dollari. Il suo regista era il ventottenne Steven Spielberg, era solamente al suo secondo film. Come George Lucas, Spielberg era figlio del baby boom, il prodotto di una confortevole infanzia borghese suburbana. Era cresciuto con un televisore nel salotto di casa e si era imbottito per ore di vecchi film e show del sabato pomeriggio per bambini come Johnny Quest, Fireball XL5, Ai confini della realtà e The Outer Limits. Tecnicamente parlando, questa nuova generazione era geniale: affascinata dagli effetti speciali, capace di accedere a migliaia di film e programmi tv incamerati nel suo cervello e di ricombinarli in prodotti nuovi e altamente commerciali. Psicologicamente, si erano arrestati all’adolescenza, ai giorni gloriosi di Organizzazione U.N.C.L.E. e di Lost in Space che avevano scandito la loro giovinezza. Quando parlavano di ampliare i parametri del cinema, pensavano a innovazioni come il controllo computerizzato dei movimenti delle cineprese e dei modelli animati, di robot animatronici controllati da segnali radio e alimentati idraulicamente – non di audaci sperimentazioni sulla struttura narrativa o di tentativi di penetrare nel mondo interiore di personaggi complessi. La loro missione era l’intrattenimento, fare quei film che le fabbriche di sogni di Hollywood avevano sfornato in serie negli anni Trenta e Quaranta, il genere di film che Hollywood non aveva prodotto per quindici anni e più, da quando la generazione di Peckinpah aveva assunto il predominio. E i capi degli studios capirono subito che questi uomini adolescenti facevano film da adolescenti che attiravano milioni di veri adolescenti come mosche al miele. Lo squalo incassò cinquanta milioni di dollari più dei precedenti primi in classifica – Il padrino, La stangata, L’esorcista – perché i teenager non andavano a vederlo una sola volta, ma cinque o sei. Quegli ingressi ripetuti crearono un nuovo genere di film: il blockbuster con grandi effetti speciali. Paragonato a Lo squalo, Getaway! sembrava un film cult d’autore. Gli studios realizzarono che era possibile ottenere
fantastici profitti annuali dalle entrate di un solo film. Produttori, registi, sceneggiatori e star scoprirono che potevano fare una fortuna con un solo successo. La febbre del blockbuster si diffuse come un’epidemia mentre tutti si dimenavano per mettere le loro appiccicose mani sul prossimo colossal che li avrebbe resi multimilionari. Così il sipario cominciò a calare sul più grande decennio del cinema americano dagli anni Venti. A chi importava di rivoluzionare il linguaggio dei film o di creare un’opera d’arte eterna, quando si potevano guadagnare dieci milioni di dollari netti con una sola pellicola? Sam Peckinpah, Arthur Penn, Hal Ashby, Robert Altman, Mike Nichols, John Schlesinger, Nicolas Roeg e Stanley Kubrick erano ancora nomi importanti ma, come era successo alla generazione prima di loro, si ritrovarono spinti a forza verso la periferia delle luci della ribalta da un’impertinente orda di novellini con una serie di valori radicalmente differenti. Peckinpah, però, collaborò con le forze che avevano causato il suo declino professionale. La coca e l’alcol alimentarono una serie di esplosioni pubbliche che minarono ulteriormente la sua reputazione. Ci fu il banchetto al Century Plaza per il premio alla carriera assegnato dall’AFI a James Cagney. Peckinpah arrivò indossando uno smoking nero lucido con una bandana rosso acceso avvolta intorno alla testa canuta, col viso rosso e gli occhi iniettati di sangue. Quando Jack Lemmon, anche lui abbastanza fuori di sé, salì sul podio e cominciò un lungo e sconclusionato monologo, Sam balzò in piedi e urlò: «Non siamo venuti per sentirti parlare di te stesso! Siamo venuti per onorare Cagney! Scendi dal palco!» Poi ci fu l’alterco all’International Airport di Los Angeles. Peckinpah finì per discutere con un rivenditore di biglietti, lo prese a pugni e fu di conseguenza denunciato per aggressione e percosse. Entrambi gli incidenti furono riportati dai media nazionali e ispirarono al comico John Belushi uno sketch per Saturday
Night Live intitolato «Sam Peckinpah Directs». In esso Belushi faceva la parodia di Peckinpah che dirige Gilda Radner in un set cinematografico. Ogni volta che la Radner enuncia una battuta, Belushi dice piano: «Stop!», si avvicina a lei e la colpisce con naturalezza in faccia. La demolizione della reputazione di Sam quale artista serio era quasi completa. Più o meno nello stesso periodo si verificò un altro piccolo incidente che non fu pubblicizzato dai media, ma che fu molto più allarmante per chi era più vicino a Peckinpah. Quando Sam era stanco di dormire nel suo ufficio alla Goldwyn o nella sua minuscola roulotte a Malibu, prendeva una stanza al Beverly Hilton e gozzovigliava per qualche giorno. Una notte, dopo aver bevuto pesantemente per ore, si tuffò nella piscina con i vestiti addosso con l’intento di nuotare un po’ e rinfrescarsi. Invece precipitò dritto sul fondo e rimase lì. Ron Wright, che aveva lavorato con lui come aiuto regista in Getaway! e Killer Elite diventandone buon amico – si trovava sul posto per caso. Si tuffò e tirò fuori Sam mentre sua moglie, Bitsy, chiamava un’ambulanza. Peckinpah fu portato allo UCLA Medical Center. Per fortuna non c’erano stati seri danni al cervello o agli organi vitali, ma sfortunatamente l’incidente non lo spaventò al punto da farlo votare alla sobrietà. «Io e Bitsy andammo a trovarlo il giorno dopo», racconta Ron Wright, «ed era seduto sul letto a urlare contro tutti perché non gli portavano alcol o sigarette». Due anni prima, Jason Robards era quasi morto dopo una maratona alcolica al saloon di Tommy Runyon nelle colline di Malibu. Guidando verso casa, Robards perse il controllo del veicolo e precipitò lungo un ripido terrapieno. Il fatto di aver sfiorato la morte lo indusse, figurativamente e letteralmente, a rimettersi in carreggiata e a tornare sobrio. Intraprese il giusto cammino e non ebbe ricadute, cosa che creò tensione nel rapporto con il suo vecchio amico di bevute. Quando Robards seppe dell’incidente di Sam, lo chiamò all’ospedale. «Non scomodarti a venire a farmi visita», ringhiò Sam, «se non porti una bottiglia di vodka con te!»
«Be’, allora okay», rispose Robards in tono calmo, «credo che non verrò». I due uomini restarono amici per il resto della vita di Peckinpah, ma il vecchio cameratismo si era dissipato, le lettere e le telefonate erano sempre minori per numero e frequenza, e le loro conversazioni erano tese e imbarazzate a causa delle tante cose che restavano non dette. Ma nei confronti di Ron Wright, che gli aveva salvato la vita, Sam mostrò un lato più dolce. «Sam mi disse: “Una vita per una vita”», ricorda Wright. «E sostenne un bambino per Save the Children a nostro nome, mio e di Betsy. Il finanziamento durò dodici anni; era destinato a una ragazzina dodicenne, che quindi poté godere del suo sostegno fino all’età adulta. Ricevevamo sempre lettere da lei. Quell’incidente fu una vera epifania per me, perché mi fece rendere conto di quanto tenessi a Sam… Non era che un ragazzino spaventato in un mondo più grande di lui. Perché era così magnetico? Semplice: perché era incredibilmente vulnerabile, eppure non lasciava che nessuno lo confortasse. Così continuavi a inseguire questo riccio di mare. Era il ragazzaccio per antonomasia. Era l’adolescente in cui vedevi del potenziale e che avresti voluto stimolare perché lo coltivasse, ma che non te lo lasciava fare. Sarebbe sempre rimasto un monello». Come le pepite d’oro estratte dall’American River in California nel 1848, Lo squalo incitò a un’avida corsa. I produttori si schiacciavano l’un l’altro per acciuffare il prossimo spettacolo con grandi effetti speciali. La formula era semplice: tantissimi trucchi cinematografici da far strabuzzare gli occhi, azioni da un brivido al minuto e trame zeppe di buoni contro cattivi. I fumetti erano un buon prototipo per questi nuovi film, anzi molti di essi erano effettivamente ispirati ai fumetti. Questo non significava necessariamente la sciagura per Sam Peckinpah e la sua generazione. Se fossero stati disposti a cambiare insieme ai tempi e adattare le loro abilità ai nuovi trend del mercato, ci sarebbero stati mucchi di ingaggi e montagne di soldi per loro. A Sam furono date due possibilità
per trovare la gallina dalle uova d’oro, entrambe nello stesso giorno. Nell’inverno del 1975 incontrò due dei produttori indipendenti più di successo di Hollywood, Dino De Laurentiis e Ilya Salkind. De Laurentiis gli chiese di dirigere il suo remake a budget stellare di King Kong in cui sarebbe apparso un gorilla robotico di dodici metri d’altezza e sei tonnellate e mezzo di peso, alimentato idraulicamente; la Salkind invece gli offrì Superman, che avrebbe tratto beneficio dal nuovo sistema computerizzato a proiezione frontale che dava un effetto 3D alle scene di Superman in volo. Sam ci pensò seriamente, molto seriamente. Se una delle due pellicole si fosse avvicinata agli incassi dello Squalo, avrebbe guadagnato milioni. Ma alla fine rifiutò entrambe le offerte. Aveva bisogno di un progetto in cui affondare i denti, una storia, dei personaggi, un dilemma umano che lo colpisse nel profondo. Questo bisogno lo condusse da un produttore che era ben lontano dagli appariscenti, liberi imprenditori come De Laurentiis e la Salkind. Wolf Hartwig, un produttore tedesco di film erotici, desiderava sfondare nella cinematografia. Mandò a Peckinpah una copia di The Cross of Iron, un romanzo su un plotone di soldati tedeschi durante la Battaglia di Krymskaya nel 1943, mentre il fronte russo di Hitler, e il suo Reich millenario, vacillavano sull’orlo della disfatta totale. Dalla sua primissima sceneggiatura, The Dice of God, passando per Sierra Charriba, Viva! Viva Villa! e Il mucchio selvaggio, Peckinpah aveva esplorato il panorama psicologico del professionista della guerra. Ora per la prima volta aveva l’opportunità di trattare l’argomento nel contesto di una guerra moderna e della Germania nazista, dove la maschia follia del nazionalismo aveva portato la specie umana a un passo dall’autoannientamento. Sam accettò di fare il film per 300.000 dollari, più altri 100.000 dollari se il film fosse andato almeno in pareggio, e il 10% dei profitti netti. Hartwig aveva ingaggiato Julius Epstein – che aveva lavorato alle sceneggiature di Casablanca, Bionda fragola, Ribalta di gloria e dozzine di altri film di Hollywood negli
anni Quaranta e Cinquanta – per scrivere il copione. Ma le sue 161 pagine di contorto melodramma rigurgitavano di ogni abusato cliché dei film di guerra previsto dal manuale di sceneggiatura di Pat Hobby. Per fortuna Hartwig fu disposto a dare a Peckinpah completo controllo creativo, così Sam assunse Jim Hamilton, uno scrittore di San Francisco che aveva conosciuto tramite Lucien Ballard, per scrivere una nuova bozza. Ex marine, gran bevitore, sopravvissuto alla violenta guerra di trincea lungo il diciassettesimo parallelo, in Corea, Hamilton sapeva come i soldati professionisti vivevano e morivano. Produsse un copione di 167 pagine in soli ventinove giorni. I dialoghi erano artificiosi in molte scene, ma la struttura era solida e le immagini e l’azione erano vivide e orribili come gli incubi dei veterani. Quando Peckinpah partì per Monaco nel dicembre del 1975 per cominciare la preproduzione, portò con sé Walter Kelley – che pure aveva avuto grande esperienza di battaglia nel Pacifico meridionale durante la seconda guerra mondiale – per collaborare alle riscritture. Anche Katy Haber lo accompagnò; James Coburn, che aveva firmato per interpretare il caporale Steiner, il leader del plotone tedesco, li incontrò a Monaco. Dopo alcuni meeting con Hartwig, Peckinpah, Coburn e Kelley visitarono gli archivi cinematografici tedeschi a Coblenza, dove visionarono dozzine di documentari nazisti realizzati durante la guerra. Poi si spostarono a Londra per guardare ogni metro di celluloide che riuscirono a trovare negli archivi britannici. Piano piano, i temi del loro film cominciarono a emergere. «Vedemmo questo cinegiornale tedesco girato durante una qualche battaglia», dice Coburn. «Poi andammo a Londra e vedemmo le stesse immagini montate in maniera completamente diversa per una propaganda a favore dei russi. Era come se ci fossero unità cinematografiche indipendenti impegnate a riprendere la guerra e a vendere le immagini a entrambe le parti! Due diversissime ideologie le modificavano
per i propri scopi. E così ci rendemmo conto – cosa che colpì moltissimo Sam – che entrambe le versioni erano bugiarde». Nei successivi quattro mesi Peckinpah e Kelley scrissero parallelamente l’uno all’altro, rivedendo le scene di Hamilton e aggiungendone di nuove, con Sam che aveva il ruolo del montatore finale, tagliando, incollando e riorganizzando le scene ancora e ancora e ancora. Il nome di Peckinpah conservava un prestigio sufficiente ad attirare un cast di attori di prima categoria, e per La croce di ferro radunò i migliori: Maximilian Schell nel ruolo del folle e ambizioso capitano Stransky; James Mason nel ruolo del colonnello Brandt, uno degli empatici superiori di Steiner; David Warner nel ruolo dell’aiutante di Brandt fulminato dalla dissenteria, il capitano Keisel; Senta Berger nel ruolo di un’infermiera con cui Steiner ha una breve relazione mentre è in ospedale. Hartwig stava finanziando La croce di ferro con i soldi dei suoi film porno e con quelli anticipati da una serie di distributori. Ufficialmente, il budget per la pellicola era di quattro milioni di dollari, ma il tedesco era riuscito a mettere insieme solo una frazione di quella cifra prima che le riprese iniziassero. Per ottenere il massimo rendimento dal suo limitato capitale, avrebbero girato il film nella Jugoslavia settentrionale, tra Zagabria e Trieste, in Italia. I costi della manodopera, dei materiali, degli spazi, eccetera. sarebbero stati solo una frazione rispetto a quelli che sarebbero stati sostenuti in Europa occidentale. «Wolf Hartwig, quel poverino c’era dentro fino al collo», racconta Murray Jordan, uno dei tecnici di montaggio della pellicola. «Non aveva idea di come produrre un film di quella portata». Ciò apparve evidente a Peckinpah quando con il cast e la troupe converse a Zagabria nella prima settimana di aprile, per cominciare le riprese. Nessuna delle location era pronta perché Hartwig non era riuscito a raccogliere i soldi necessari per bloccarle o per assumere un numero sufficiente di addetti ai lavori di talento, così da avere i set e i costumi pronti in tempo.
Per le sequenze di battaglia, Hartwig aveva promesso di affittare quindici carri armati della seconda guerra mondiale che l’esercito russo aveva ancora in Jugoslavia, e molti aeroplani vintage. Ma quando arrivò il momento di girare, non aveva che tre carri armati decrepiti e zero aeroplani. Alla fine della produzione, Peckinpah aveva messo 90.000 dollari di tasca propria nel film per pagare i salari di molti dei suoi membri della troupe. Furono soldi ben spesi. Nonostante i molti ostacoli, stavano ottenendo del meraviglioso girato delle scene di battaglia. Peckinpah e i registi di seconda unità Walter Kelley, Ron Wright e Murray Jordan scelsero con abilità le proprie inquadrature per far sembrare che tre carri armati fossero in realtà un centinaio e trecento comparse fossero migliaia. Ma gli innumerevoli problemi finanziari e logistici erano aggravati dall’alcolismo di Peckinpah. La cocaina era introvabile in Jugoslavia, così tracannava slivovitz quasi puro. I suoi livelli di assunzione erano altalenanti. Per periodi di due o tre settimane riusciva a tenerli sotto controllo e a lavorare a buon ritmo con la giusta quantità di chiarezza. Ma poi prendeva delle brutte sbandate e la sua regia diventava confusa e incostante. A volte aveva blackout che duravano giorni e dimenticava di aver già girato delle scene, addirittura intere sequenze. Ciò è evidente nel film finito, che oscilla tra momenti di radiosità mozzafiato e di imbarazzante mediocrità. I figli di Sam andarono tutti a trovarlo durante la realizzazione del film. I soggiorni di Melissa e Kristen furono essenzialmente piacevoli e senza traumi. Sharon, come stava diventando abitudine, si scontrò presto con il padre e finì per tornarsene improvvisamente negli Stati Uniti. Ma per Mathew fu anche peggio. Restò in Jugoslavia per molte settimane in una casa che suo padre aveva affittato a Porto Roz. Durante quel periodo Sam continuò a ridicolizzare crudelmente i deficit di lettura e scrittura del figlio. Una sera Sam mise la colonna sonora del Mucchio selvaggio nello stereo. Mostrandogli la copertina dell’album, disse a Mathew: «Forse, se sarai fortunato, anche tu un giorno farai qualcosa di
così bello». La sua voce non era calda e incoraggiante, ma dura e provocatoria. Per Mathew il messaggio implicito era che non sarebbe mai stato all’altezza. Al tempo quattordicenne, Mathew non era più un ragazzino. Era cresciuto tutto d’un botto; col suo metro e settantotto era già più alto di suo padre. Era magro e allampanato, ma agile, coordinato e apparentemente forte. E negli occhi nocciola, che avvertivano immediatamente quando il padre lo stava osservando, bruciava una fiamma, calda e costante, pronta a divampare al minimo pretesto. Come suo padre aveva fatto con Fern Peckinpah anni prima, Mathew trovò modi astuti e passivo-aggressivi per sfogare la sua rabbia. Scoprì che riusciva a far venire una rabbia da bava alla bocca a suo padre quando pronunciava male il nome di Rommel, anche dopo che Sam lo aveva corretto diverse volte. Pronunciare male Cable Hogue finché non suonava come «Cable Hog» [«Cable Porco»] funzionava anche meglio. Poi scoprì un modo per far squillare il telefono nella casa di Porto Roz. Questo garantiva ore di divertimento. Si sedeva al piano di sotto e ascoltava suo padre che urlava nel ricevitore in camera da letto «Pronto?… Pronto? Dannazione, ma chi è?» Ma una domenica mattina la rabbia di Mathew emerse dirompente dal suo nascondiglio, sorprendendo in primis Mathew stesso. Suo padre aveva i postumi di una sbornia, come sempre, ed era arrabbiato perché doveva alzarsi per andare a controllare delle possibili location. «Era nervoso perché aveva molto da fare quel giorno», racconta Mathew. Sam incespicava per casa, prendendo vestiti dalla pila accanto al suo letto, accendendosi una sigaretta, osservando il blocco degli appunti lasciatogli da Katy con l’itinerario del giorno, sorseggiando una tazza di caffè corretto col brandy. Poi si scagliò contro Mathew. «Fu qualcosa di molto banale a farlo scattare», dice Katy Haber, che era presente. «Era sempre così. Mathew non aveva lavato i suoi vestiti, o chiuso la porta della sua camera, o aveva messo la musica a volume troppo
alto. Non ricordo cosa fosse perché era una cosa decisamente banale». Mathew si era preparato ad andare a visitare le location con loro quando suo padre partì con la sua tirata. Sentì il viso diventare incandescente sotto quella raffica di parole taglienti. Sam puntò il grosso indice contro il suo petto e disse: «Non verrai con noi oggi, resti qui!» «Va bene, come ti pare», rispose Mathew, alzando le spalle imbronciato. «Non voglio venire». Le labbra di Sam si serrarono ancora di più. «E resterai qui, in casa. Non metterai piede fuori da questa porta, oggi!» Prima che Mathew se ne rendesse conto, le parole uscirono fuori dalla sua bocca: «No! Uscirò, se ne avrò voglia! Farò un girò, farò come mi pare!» Sam restò congelato per un secondo, scioccato. Poi scattò. Afferrò Mathew per i lunghi capelli biondi, ma un esile avambraccio si sollevò e gli fece mollare la presa. La mano sinistra di Sam si mosse in un ampio circolo. Mathew la vide volteggiare, col respiro che usciva a rantoli mentre veniva colpito e un lato del viso gli formicolava, come per effetto di una scossa elettrica. Poi Sam cominciò a usare entrambe le mani. Mathew si ritrasse, bloccando la maggior parte dei colpi con gli avambracci. Katy urlò qualcosa e tentò di dividerli, ma Sam la spinse all’indietro col gomito e costrinse Mathew in un angolo vicino alla finestra, col viso ancora più dolorante ora che quasi tutti i colpi giungevano a destinazione. Ma erano gli occhi a ferirlo di più, il modo in cui gli occhi di suo padre lo guardavano. Come se non fosse nient’altro che un oggetto da odiare, da rompere. E poi la rabbia si fece strada dentro di lui. La sua mano colpì Sam al petto spingendolo indietro, barcollante, ma poi il padre balzò di nuovo in avanti, mulinando ferocemente le braccia. «Era pronto a tenermi giù», racconta Mathew. «Mi stava colpendo; ero come un topo messo all’angolo».
I pugni di Mathew volarono come in un cartone animato, con le nocche che producevano un rumore sordo contro le dure ossa del cranio di Sam, così forte da fargli scattare la testa all’indietro, e poi dritto nello stomaco. E così toccò a Sam sollevare le braccia per parare i colpi, e ritrarsi, con gli occhi grandi e spaventati. Poi tutto finì e restarono lì a guardarsi l’un l’altro, riprendendo fiato, mentre le lacrime colavano dagli occhi di Mathew. Si voltò e corse verso la porta. Suo padre urlò qualcosa, ma lui non lo ascoltò. Non si guardò indietro, continuò a correre. «Sam fu molto silenzioso dopo», ricorda Katy Haber. «Era scioccato. Non ne parlò. Quel che era accaduto gli aveva fatto comprendere ciò che era e ciò che stava facendo, lo aveva letteralmente ucciso, ma dopo qualche giorno trovò un modo per giustificare tutto, per razionalizzarlo». «Non mi volle più parlare», racconta Mathew. «Mi trasferii al Metropol Hotel. Mi sentivo malissimo, come se fosse stata colpa mia, credo. Continuavo a chiedere a Katy: “Vuole vedermi?”, e lei rispondeva: “No, no, no”. Non insistevo. Tenni le distanze per una settimana, mi sentivo come un lebbroso, poi tornai in California. Prima di andarmene, passai a salutarlo. Alzò le spalle. Non riusciva a guardarmi. Disse qualcosa del tipo: “Anch’io ho litigato col mio vecchio una volta”. Come se fosse una cosa che capita a tutti i padri e i figli. Fu tutto, fu l’unica volta che ne parlammo». In seguito, Sam disse a Walter Kelley: «Se avessi ucciso Mathew, mi sarei ucciso» – spiegando così, forse, sia la ragione dell’esplosione, sia ciò che l’aveva arrestato. «Non aveva nulla a che vedere con Mathew, riguardava lui», dice Walter Kelley. «Questa è la cosa più triste». Sam non riusciva a trovare il coraggio per esprimere il suo senso di colpa e il rimorso a suo figlio, e così, come sempre, lo traspose invece sullo schermo. Mathew Peckinpah era apparso in cinque dei film di suo padre. Spesso si trovava al centro o alla periferia di qualche atto brutale perpetrato da
adulti che gli passavano accanto. Come l’immagine di D. Sammy stesso, ancora ragazzo, testimone delle disinvolte brutalità del Dunlap Ranch, un’immagine di innocenza distrutta. L’immagine ritorna nella Croce di ferro. Questa volta Slavko Stimac sarebbe stato il biondo gemello di Mathew dai grandi occhi, nel ruolo di un soldato russo prigioniero che Steiner cerca di salvare. (Era stato ordinato di sparare a tutti i prigionieri russi.) Steiner nasconde il ragazzo di non più di quattordici anni nel suo bunker; poi, durante una pausa della battaglia, lo lascia libero nei boschi vicini. Il loro addio è rovinato da un pretenzioso soliloquio di James Coburn – certamente il momento più imbarazzante del film – ma prima e dopo il monologo di Coburn gli sguardi muti tra lui e il ragazzo sono colmi di terribile, inespressa tristezza e rammarico. Paradossalmente, l’atto di pietà di Coburn si trasforma in una condanna a morte. Le truppe d’assalto russe avanzano nei boschi in cui il ragazzo fugge. Scambiandolo per un tedesco, lo uccidono a colpi di mitragliatrice. Coburn distoglie lo sgaurdo da quella vista con un soffocato urlo di disperazione. Il 6 luglio 1976, l’ottantanovesimo giorno di riprese, Peckinpah era pronto a girare la sequenza culmine della Croce di ferro, nella quale Steiner e il capitano Stransky, in conflitto per tutta la pellicola, dovevano mettere da parte le loro divergenze e affrontare insieme le truppe russe che stavano avanzando verso le loro pericolanti difese. Entrambi avevano realizzato che il virile mito delle conquiste gloriose e della grazia sotto pressione era una falsità, che alla fine non ci sono vittorie, morali o di altro genere; c’è solo il tentativo di aggrapparsi ignobilmente alla sopravvivenza. Muovendosi insieme, le due figure si sarebbero allontanate verso il vasto panorama del campo di battaglia. Il programma prevedeva tre giorni per girare la sequenza in una stazione di smistamento abbandonata. L’addetto agli effetti speciali Sass Bedig aveva già accumulato pile di pneumatici nei vagoni del deposito e dato loro fuoco. Il fumo
svolazzava fuori dai finestrini rotti, dando l’impressione che l’intero deposito fosse in fiamme. Ma prima che potessero cominciare a girare, Wolf Hartwig e il suo coproduttore, Alex Winitsky, arrivarono con delle brutte notizie. Per il film era stato previsto un budget di quattro milioni di dollari, ne avevano già spesi sei e ora erano davvero rimasti senza soldi, per cui bisognava chiudere. Winitsky distribuì le pagine che contenevano il nuovo finale e che nessuno aveva ancora visto, uno squallido dialogo alla Stanley Kramer tra Stransky e Steiner. «Girerete questo e poi le riprese saranno finite». Coburn e Peckinpah si allontanarono e camminarono insieme tra i binari. «Io e Sam guardavamo questi vecchi treni», racconta Coburn. «Sarebbe stato un posto bellissimo per girare, gli effetti visivi sarebbero stati grandiosi. E all’improvviso Sam cominciò a piangere. Cominciò a singhiozzare: “Mi portano via il film!” Non riuscivo a crederci, cazzo, Sam Peckinpah che piangeva mentre percorrevamo quei binari. Mi faceva infuriare che quei coglioni potessero scatenare una reazione simile in quell’uomo che amavo e rispettavo. Così gli misi un braccio sulle spalle e gli dissi: “Forza, Sam. Sam, dannazione!”» Peckinpah si ricompose e salirono in cima a una vecchia torretta di legno. Guardando tra i binari, videro Hartwig e Winitsky venire verso di loro. «Eccoli che arrivano», disse Sam a denti stretti. «Che si fottano!», imprecò Coburn. Volò giù per gli scalini, corse tra i binari incontro ai produttori, afferrò Winitsky e lo spinse all’indietro. Winitsky inciampò, poi ritrovò l’equilibrio. Coburn urlò a Hartwig: «Porta via dal set questo coglione! Faremo questa cosa! La faremo bene! Non gireremo quella scena, gireremo quello che vuole Sam! Ora andatevene da questo cazzo di set!» Pallidi e sconvolti, Hartwig e Winitsky si affrettarono tra i binari verso le loro auto. Coburn si voltò e guardò in alto verso la torretta, dove vide Peckinpah piegato in due dalle
risate. Poi Sam si ricompose e urlò con voce forte e risoluta: «Okay, Sass, prepara tutto!» Improvvisamente, per l’ultima volta, era di nuovo il vecchio Sam Peckinpah, torreggiante contro il cielo sulla piattaforma di legno, a dettare ordini, catalizzando l’attenzione di cast e troupe mentre si affrettavano a piazzare tre cineprese per riprendere Coburn e Maximilian Schell che correvano giù per i binari, facendo fuoco sui russi alle loro calcagna. Anziché impiegare tre giorni per girare il finale, lo fecero in quattro ore e chiusero le riprese quel pomeriggio. Peckinpah volò a Londra, dove avrebbe trascorso i successivi sette mesi a montare il film con Tony Lawson, Murray Jordan e Michael Ellis agli Elstree Studios. «Avevamo un esercito di persone a lavorare sul film – addetti alla musica, addetti agli effetti sonori», afferma Murray Jordan. «Ci sentivamo dei pezzi grossi. “Stiamo lavorando a un film di Sam Peckinpah alla EMI!” Ricordo che mi presentai a una donna che lavorava a qualche sala di montaggio di distanza da noi. “Ciao, sono Murray Jordan”. Lei rispose: “Ciao, sono Marcia Lucas”. Chiesi: “Cosa stai montando?” e lei mi rispose: “Oh, stiamo facendo questo film intitolato Star Wars”. Pensai: ah, cazzate fantascientifiche. Ehi, noi stiamo facendo un film di Peckinpah!» Peckinpah cominciò di nuovo a tirare coca e continuò a bere pesantemente durante la postproduzione. Riuscì comunque a restare in piedi e coerente per quattro, cinque ore al giorno e il suo occhio e il suo istinto per il montaggio erano ancora acuti. L’uso del montaggio nel girato del documentario d’apertura e nelle sequenze di battaglia della Croce di ferro eguagliava e addirittura superava Il mucchio selvaggio per complessità, impatto viscerale e terribile bellezza. Quando La croce di ferro uscì in tutta Europa nella primavera del 1977, ricevette recensioni entusiastiche. Divenne la pellicola con i maggiori incassi in Germania e Austria dai tempi di Tutti insieme appassionatamente e vinse un Bambi, uno dei premi per le arti performative più prestigiosi della Germania.
L’accoglienza in America fu l’esatto opposto. Il pubblico non era interessato a un film sulla seconda guerra mondiale che presentava i tedeschi sotto una luce positiva e finiva con una nota così cupa e nichilista, e la maggior parte dei critici aveva ormai etichettato Peckinpah come uno scribacchino con un debole per le sequenze d’azione. La maggior parte delle recensioni furono sdegnose o ostili. La Avco Embassy, che aveva distribuito la pellicola negli Stati Uniti e nel Regno Unito, la scaricò nei teatri di seconda visione con a malapena un sussurro pubblicitario. Incassò 635.620 vergognosi dollari, su quei mercati. Nel frattempo, quello stesso anno, Star Wars, il filmetto che era stato montato a pochi passi dalla troupe di Peckinpah agli Elstree Studios, incassò 175.849.013 dollari. E Superman, che Sam aveva rifiutato, raccolse 81 milioni di dollari. Ma ci fu almeno un americano a cui La croce di ferro piacque. Qualche tempo dopo la sua uscita, Orson Welles inviò a Peckinpah un telegramma lodandolo come il miglior film antibellico che avesse mai visto. Tredici anni dopo, nell’estate del 1990, la UCLA presentò una serie di film al Melnitz Theater, all’interno del suo campus di Westwood. La serie includeva classici dimenticati selezionati dai critici di Los Angeles. Steven Gaydos, presidente della programmazione della Film Critics Association di Los Angeles e editore associato dell’Hollywood Reporter, scelse La croce di ferro. «Volevo dimostrare come questo potesse essere uno dei film più sottovalutati di Peckinpah». Ma quando Gaydos si mise a cercare una stampa del film, ebbe difficoltà a trovarla. Hartwig aveva venduto i diritti di distribuzione a una società che dichiarò successivamente bancarotta; i diritti erano così stati trasmessi a diverse altre società, tutte ormai fallite. Sebbene ci fossero moltissime copie su video, una stampa teatrale sembrava non esistere più. «È un perfetto esempio di quanti film perdiamo a causa della nostra negligenza», sostiene Gaydos.
Gaydos alla fine riuscì a trovare una stampa in America. Vestron Video aveva un’immacolata stampa da 35mm che era stata proiettata solo una o due volte per essere poi trasferita su video. «Mostrammo quella stampa al Melnitz e fu incredibile», dice Gaydos. «Avevamo il pienone la sera in cui la proiettammo, e il film ebbe un forte impatto sul pubblico. Lasciò tutti a bocca aperta. Dicevano: “Com’è possibile che non abbia mai sentito parlare di questo film?” La gente era furiosa, diceva: “Perché non lo fanno uscire di nuovo nelle sale?” Cercammo di spiegare loro che non è così che funziona. Hai la tua occasione e, se non rende nella prima settimana di uscita, sei fuori dai giochi. Ma fu per me un grande piacere dissipare il mito che questo film fosse pura spazzatura. È un grande film». Nonostante l’alcol, le droghe e il crescente caos che portavano nella sua vita, Sam Peckinpah era riuscito a portare a termine quattro film negli ultimi cinque anni – un ritmo più che rispettabile. Tre dei quattro avevano ottenuto dei guadagni, anche se non consistenti. I loro utili non erano sufficienti a controbilanciare la sua reputazione di peggior incubo per un produttore. La sua levatura artistica si era talmente erosa che pochi a Hollywood erano impazienti di gettarsi nella disavventura del fare un film con lui. Ma i dirigenti della EMI, una società di produzione inglese, restarono impressionati dalla performance della Croce di ferro in Europa e sentivano che Peckinpah aveva dentro di sé un altro Getaway! e sarebbe riuscito a realizzarlo, se gli fosse stato dato il giusto veicolo e un chiaro cammino da seguire. La EMI aveva acquistato i diritti cinematografici di una melensa canzone country-western, «Convoy», di C.W. McCall. Il testo narrava la storia di un convoglio di autoarticolati che corre oltre il limite di 70 chilometri all’ora e di una flotta di auto della polizia che cerca di farlo desistere. B.W. L. Norton scrisse un copione che si abbinasse al testo della canzone e lo riempì di stupide farse. I personaggi avevano lo stesso spessore dei cartoni animati del sabato mattina, e l’azione era rapida e furente.
Peckinpah lesse il copione di Convoy – Trincea d’asfalto annebbiato dalla coca e dall’alcol. L’altrettanto idiota Il bandito e la «Madama» aveva incassato sessantuno milioni di dollari solo un anno prima. Ecco l’occasione di realizzare un successo al botteghino che lo avrebbe riportato in vetta. Sam firmò per 350.000 dollari più 2000 dollari al giorno e il 10% degli incassi dopo che la pellicola avesse pareggiato i conti. Gli amici intimi di Peckinpah rimasero sgomenti per questa decisione, ma Sam non sentiva di potersi permettere il lusso di rifiutare. Con centinaia di migliaia di dollari impegnati in beni immobili, investimenti artistici e nel fondo pensionistico della Latigo Production, e il resto dei suoi guadagni dilapidati in Porsche, yacht, appartamenti con vista sull’oceano, suite d’hotel, alcol e cocaina, cominciava ad avere problemi di liquidità. «A quel punto della sua vita, Sam avrebbe accettato qualsiasi cosa», riporta Katy Haber. «Non aveva altre offerte». Peckinpah aveva accettato di fare un film genere fumetto, ma quando cominciò a rivedere il copione durante la preproduzione, decise che non sarebbe potuto restare tale. Quello sarebbe stato un film di Sam Peckinpah, e si sentiva obbligato a trasformarlo in qualcosa di più significativo. Con il cervello che vagava in un mare di sostanze chimiche, era incapace di riscrivere da solo le scene, così non accadde nulla finché il cast e la troupe non arrivarono ad Albuquerque, in New Mexico, a fine aprile. Quando le riprese cominciarono, Peckinpah mise da parte il copione e incoraggiò i suoi attori – Kris Kristofferson, Ali MacGraw e Ernest Borgnine – a riscrivere e improvvisare i dialoghi. Ma i personaggi con cui dovevano lavorare non erano che sagome di cartone, e le scene erano false e contorte. Gli attori annaspavano. Le semplici, dirette scene del copione divennero improvvisazioni amorfe, confuse e spesso incomprensibili. Sull’autostrada, le sequenze degli inseguimenti e delle acrobazie con il convoglio di cento camion furono girate con cinque cineprese. Peckinpah, con la sua cinepresa a bordo di un elicottero che sorvolava l’azione, cercava di coordinare i
movimenti dei veicoli via radio. Ma era sopraffatto dalla logistica. Strafatto, si contraddiceva spesso. La paranoia alimentata dalla cocaina lo travolgeva al punto che passava sempre più tempo nascosto nella sua roulotte. L’intero cast e la troupe, i camion e i loro camionisti, le comparse se ne stavano ad aspettare sotto il sole cocente per ore che Peckinpah emergesse e desse loro l’ordine di partire con il motore. Alla fine si stancarono di aspettare. «Sam aveva inserito James Coburn nella troupe come regista di seconda unità», racconta Katy Haber, «perché Jimmy voleva la sua tessera della Directors Guild of America. Jimmy finì così per dirigere alcune scene con i protagonisti, e così Walter Kelley e anche io. Dovevamo perché Sam si stava tirando indietro». Uno a uno, i fedeli veterani del Mucchio di Peckinpah che si erano battuti al suo fianco film dopo film cominciarono ad abbandonare la nave che stava colando a picco: l’aiuto regista Newt Arnold, la controfigura Whitey Hughes, il segretario di edizione Frank Kowalski – e alla fine anche Katy Haber. La goccia che fece traboccare il vaso fu Marcy Blueher, un’attraente vedova di mezza età. Sam la incontrò mentre cercava una casa da affittare a Albuquerque. Dopo poco, vivevano insieme. «Marcy era una meravigliosa, dolce donna di famiglia», racconta Ron Wright. «Era stata sposata a un dentista che era venuto a mancare. Aveva due figli. Era una persona normale. Si prendeva cura di Sam, gli era di grande supporto. Quando Sam era con loro, non lo avevo mai visto più gentile, amorevole e affettuoso». Il cuore di Katy era tutto fuorché scaldato dalla nuova spasimante di Sam. Eppure avrebbe tollerato persino Marcy – in fondo, aveva superato di peggio in passato – ma ciò che non riuscì a mandar giù fu la disintegrazione di Sam come regista. Il suo idolo stava cadendo in pezzi e questo la faceva star male. «Ero stanca di inventare scuse per lui», racconta la
Haber. «Non era più l’uomo accanto al quale ero stata fiera di trovarmi. Fu allora che capii che dovevo andarmene. Si stava distruggendo e non ero pronta ad andare a fondo con lui». Katy intraprese una relazione con uno degli operatori di ripresa, qualcosa che non aveva mai osato fare prima. Non molto tempo dopo, andò a prendere dei calzini nella cassettiera della sua stanza d’hotel e quando lo fece scoprì una piccola ricetrasmittente nascosta tra i suoi vestiti. «Capii improvvisamente cosa stava succedendo. Non pagavo solo l’affitto della sua casa e della sua stanza d’hotel, ma anche un’altra stanza a nome di un certo signor Richardson, che era proprio accanto alla mia. Scoprii in seguito che il mio vicino era Bob Gray [un chiropratico di Hollywood, un’altra specie di pesce pilota che aveva cominciato a girare intorno a Peckinpah] e che aveva un radiotrasmettitore con il qualche ascoltava tutto quello che accadeva nella mia stanza». La mattina dopo, come al solito, andò a prendere Sam per portarlo sul set. A metà strada Peckinpah disse improvvisamente «Devo tornare al tuo ufficio». Intendeva la sua stanza d’hotel, che Katy usava anche come postazione di lavoro. «Che significa che devi tornare al mio ufficio?», domandò Katy. «Devo fare una cosa nella tua stanza». Katy tirò fuori dalla borsa il minuscolo microfono e lo fece oscillare davanti agli occhi terrorizzati di Peckinpah. «È per questo che devi tornarci?» «Oh, merda», sussultò Sam. «Che cosa hai fatto, Sam?» Si contorse nel sedile, cercando goffamente di recuperare il controllo della situazione. «Dannazione, volevo metterci un bigliettino vicino! È uno scherzo, non è un vero microfono». Katy gli rivolse una lunga e fredda occhiata e lui ammutolì, guardando fuori dal finestrino, fingendosi affascinato dall’immensa distesa di sabbia e rotolacampi.
Pochi giorni dopo Sam mandò Katy a fare una finta commissione a Los Angeles e, quando arrivò lì, la licenziò per l’ultima volta. Dopo sette ingarbugliati, sanguinanti, lividi anni era tutto finito. «Non gli ho mai più parlato dopo quella volta, mai», afferma la Haber. Il produttore esecutivo di Convoy, Michael Deeley, offrì un lavoro alla Haber nell’ufficio della EMI a Los Angeles e lei lo accettò. Ogni volta che Peckinpah si recava lì per la postproduzione, lei abbandonava l’edificio per essere certa di non doverlo vedere. «È passata alla concorrenza!», ringhiava Peckinpah ogni volta che, negli anni venire, saltò fuori il nome di Katy. «Sapevo che dovevo tagliare il cordone ombelicale», afferma la Haber. «Dovevo. Se lo avessi visto o gli avessi parlato, ci sarei ricaduta e sarei stata irrecuperabile». Le riprese di Convoy si conclusero il 27 settembre 1977. Garth Craven, che stava montando il film con Tony Lawson, era sul set quel giorno. A un certo punto Peckinpah gli si fermò accanto, fissando il vuoto, e disse: «Non ho fatto neanche un solo giorno di lavoro decente in questo film – non un giorno in cui mi sia sentito come se avessi combinato qualcosa di buono». Aveva girato oltre 240.000 metri di pellicola – quasi 150.000 più di quelli esposti nel Mucchio selvaggio. Il film si chiuse con undici giorni di ritardo e un costo di undici milioni di dollari – cinque milioni oltre il budget. E non avevano ancora cominciato la postproduzione. Peckinpah tornò a Los Angeles e organizzò le sale di montaggio con Lawson e Craven in alcuni uffici non lontani dalla Pacific Coast Highway a Malibu. La postproduzione procedette a casaccio esattamente come avevano fatto le riprese. Il contratto di Peckinpah gli dava tre mesi per consegnare il suo montaggio per le due anteprime pubbliche; la EMI gliene concesse cinque, ma nel marzo 1978 il film era ancora ben lungi dall’essere pronto. Durava ancora tre ore e mezzo, e non aveva altra colonna sonora che i tre minuti della canzone eponima. L’uscita di Convoy slittò alla fine di giugno;
se avesse avuto una minima possibilità di recuperare le spese, sarebbe stato in estate, quando gli spettatori accorrevano a milioni per vedere film d’azione e commedie. La EMI non ebbe problemi a decidere cosa fare. Poteva rimuovere Sam e vendere comunque Convoy col suo nome ben presente nelle pubblicità e nelle copie promozionali. Per la prima volta nella sua carriera, Sam Peckinpah lasciò che uno studio gli portasse via un film senza fare scenate. Quando un reporter del Los Angeles Times seppe che era stato licenziato e lo chiamò per una dichiarazione, Sam si rifiutò di rispondere alla telefonata. La versione di 110 minuti della EMI di Convoy uscì alla fine di giugno del 1978. Tra le macerie del prodotto finale era possibile, se si guardava molto attentamente, riconoscere i luccicanti frammenti di un talento un tempo grandioso; la vecchia poesia risuonava ancora qua e là nelle immagini dei grandi tir che tuonavano nella vasta distesa del West americano. Ma solo brevemente. Per buona parte del film Peckinpah era decisamente troppo pronto a rubare dai suoi vecchi lavori, reiterando vecchi temi, sequenze, allestimenti e dialoghi nel vano tentativo di ridare vita a un film nato morto. Convoy fu accolto da recensioni in grande maggioranza negative. Molti critici importanti non si scomodavano nemmeno più con Peckinpah; il film fu accolto nelle pagine di fondo dei giornali, e affidato alla frusta di critici di seconda scelta, che avevano recensito buona parte degli altri film d’exploitation usciti quell’estate. L’ironia finale della débâcle di Convoy è che si rivelò il film di Peckinpah con i maggiori incassi, il più grande successo al botteghino della sua carriera. Ottenne risultati eccezionali nel circuito dei drive-in nel Midwest e nel Sud, e in Europa e Giappone, incassando quarantasei milioni e mezzo di dollari in tutto il mondo (di cui trentacinque dai mercati esteri). Come era stato fatto per Getaway!, Convoy fu offerto in prevendita a espositori stranieri facendo leva sul suo
«concept» e sui nomi di Peckinpah, di Kristofferson e della MacGraw. Il film fece guadagnare la EMI prima ancora di arrivare nelle sale. Sfortunatamente, il successo finanziario di Convoy non fu sufficiente a salvare la carriera di Sam Peckinpah. Le spese totali del film ammontavano a dodici milioni di dollari, più del doppio del suo budget originale. Pur con tutto il suo fascino, Hollywood non è che una piccola città dove i pettegolezzi viaggiano veloci. Gli addetti ai lavori che tornavano dalle location di Convoy sparsero velocemente la voce della follia di Peckinpah, scatenata dalla polvere bianca. Pochi studios o produttori indipendenti erano interessati a mettere un altro film multimilionario nelle mani di un drogato. Per la prima volta in nove anni, Peckinpah finì un film e si ritrovò senza un altro progetto a cui aggrapparsi. Chiamatelo «Mike Corey». Sex symbol, ottimo atleta con un’attenta mente analitica, Corey entrò nel giro della Four Star verso la fine degli anni Cinquanta quando Sam Peckinpah scriveva e dirigeva i primi episodi di The Rifleman. Scalò velocemente la piramide passando da aiuto regista a responsabile di produzione a produttore. Nel 1978 aveva accumulato una lunga lista di titoli ed era ampiamente riconosciuto come uno dei produttori televisivi di maggior successo. Sebbene i due non avessero più lavorato insieme dopo che Sam aveva lasciato la Four Star, Corey divenne un membro ufficiale del Mucchio che si radunava nelle varie case sulla spiaggia di Sam durante gli anni Sessanta e Settanta. «Sam era di gran lunga l’essere umano più seducente che abbia mai conosciuto», afferma Corey. «Amava sfidarti, ma lo faceva in un modo molto lusinghiero. Diceva: “Dio, Mike, come sei forte!” E gli veniva questo luccichio negli occhi; sorrideva un po’ e aggiungeva: “Quasi quanto me”. Poi ti sfidava a braccio di ferro o cose simili. Adoravo Sam. Credo fossi attratto da lui perché ero il suo esatto opposto sotto molti aspetti. Ero stato molto più conservatore con la mia carriera».
I programmi televisivi a cui lavorava Corey richiedevano raramente delle location fuori città. Era a casa in tempo per la cena nella maggior parte dei giorni feriali e raramente lavorava nei fine settimana. Peckinpah, al contrario, guidava le sue troupe nelle location più primitive e deprimenti che riuscisse a trovare – godendosi ogni singolo minuto. «A Sam piaceva corteggiare il disastro, gli piaceva l’intensità della cosa», sostiene Corey. «Era selvaggio, imprevedibile e pazzo, ma lo trovavo eccitante. Non sapevi mai cosa sarebbe potuto accadere se ti trovavi intorno a Sam, c’era quel senso di pericolo, di avventura. Andai in Messico con lui un paio di volte. Finivi in questi bar, circondato da questi tizi che sembravano appena usciti dal Tesoro della Sierra Madre. Sam li provocava fino a sfiorare la rissa; una notte un messicano gli puntò contro un coltello su una spiaggia della Baja California – Dio! Ma tornavo sempre a casa alla fine del weekend ed ero di nuovo al lavoro il lunedì mattina. Sam pensava che giocassi troppo sul sicuro, nella carriera e nella vita. Lui se ne stava lì sull’orlo dell’abisso e voleva attirare anche me. “Vieni qui, Mike, ti piacerà”. Mi avvicinavo all’orlo e guardavo giù, ma non ci sono mai saltato dentro insieme a lui». Poco dopo essere stato licenziato da Convoy, Peckinpah chiamò Corey e disse, con quella familiare tensione nella voce: «Mike, ho un progetto che credo potrebbe interessarti. Perché non vieni nel mio ufficio, così ne parliamo?» Un’altra sfida astuta, una specie di competizione. Corey non poteva resistere. Guidò fino ai Goldwyn Studios, dove Peckinpah aveva ancora un ufficio. Sam gli consegnò una copia di Snowblind, la biografia di un trafficante di cocaina, pubblicata di recente, che portava il lettore in tour nel mondo della droga, dalle fabbriche di cocaina in Colombia ai compratori dell’alta società di New York. «Questo sarà il mio prossimo film. Ne ho già acquistato i diritti e ho organizzato i finanziamenti, voglio che tu lo produca. Voliamo in Colombia la prossima settimana
per incontrare gli investitori e cercare le location». Sam fissò Mike dall’altra parte della scrivania con un sorriso da serpente. «Ovviamente sapevo perché volesse girare un film in Colombia, non ero certamente stupido», dice Corey. «Voleva crearsi una sua rete di cocaina. Era importante quanto l’accordo per il film. Sapevo che c’era tutto il potenziale per un disastro, ma Sam aveva quello sguardo. Il messaggio implicito era: “Hai le palle per venire con me?”» Corey stava sviluppando un film per la tv, ma ci sarebbero volute almeno due settimane per avere il via libera. «Avevo questa finestra di tempo libero e l’idea di lanciarmi in quell’avventura mi eccitava», racconta. «Realizzai che non avevo nulla da perdere. Se l’accordo di Sam andava in fumo, potevo sempre tirarmi indietro e tornare al mio progetto a Los Angeles. Vedete, mi facevo coinvolgere in questo genere di cose da lui, ma tenevo sempre aperta un’uscita di sicurezza». E per come si stava comportando Sam, faceva bene. Nell’ufficio c’era un televisore sintonizzato su un canale vuoto. Dall’altoparlante risuonarono interferenze per tutta la loro conversazione. Ogni quindici minuti circa Peckinpah si alzava e andava nel cucinino sul retro dell’ufficio per sniffare strisce di coca preparate vicino al fornello. Di ritorno dal cucinino, Sam tirava su con il naso e si passava un dito sotto le narici, con gli occhi che brillavano. Fece il nome di un importante caratterista, che qui chiameremo «Peter Martin». Martin aveva procurato i finanziamenti in cambio di una percentuale sui profitti e di un succoso ruolo nella pellicola. «Peter verrà con noi in Colombia», spiegò Peckinpah. «Ci sono un paio di imprenditori a Bogotà, una coppia di fratelli. Metteranno i soldi per il film, ha già organizzato un incontro con loro». «Sam», lo interruppe Mike, «perché la tv fa così?» «Shhh!», Peckinpah portò l’indice alle labbra, allarmato, poi mimò con la bocca «ci sono delle microspie in ufficio». Poi continuò con voce normale. «Comunque, Mike, le spese non saranno un problema in questo viaggio». Si sporse
all’indietro, aprì un cassetto della scrivania, tirò fuori una busta di carta e la passò a Corey, che guardò dentro. «Era piena di soldi, banconote di grosso taglio», dice Corey. «Dovevano esserci almeno diecimila dollari in contanti, lì dentro». Nel giorno in cui Peckinpah, Corey e Martin dovevano partire per Bogotà, Sam chiamò Corey per dirgli che c’era stato un lieve cambiamento di programma. Sam doveva andare a Città del Messico per affari urgenti, quindi avrebbe volato da lì verso la Colombia, dove si sarebbe ricongiunto con Corey e Martin al Bogotà Hotel. Non era inusuale che Peckinpah facesse questi cambiamenti dell’ultimo minuto, così Mike fece spallucce e prese il volo con Martin, con le tasche piene dei soldi presi dalla busta di carta di Sam. Quando arrivarono all’aeroporto di Bogotà furono accolti dall’avvocato dei fratelli colombiani, che li guidò attraverso la dogana. Gli ufficiali lo fecero passare senza nemmeno chiedergli di aprire il suo bagaglio e Mike attraversò le porte di vetro fino alla strada, dove i taxi aspettavano i passeggeri. Si fermò lì e aspettò, aspettò, aspettò, ma Martin e l’avvocato non arrivavano. Alla fine si girò e tornò alla dogana dove trovò un putiferio. Un gruppo di agenti, tra cui uno di alto grado, circondavano Martin e l’avvocato. Avevano aperto la grande valigia Samsonite di Martin e l’avevano trovata piena di biglietti da cento dollari – cinquecentomila dollari in contanti, come riportò un agente dopo aver finito di contarli. Martin non sembrava turbato dalla loro scoperta. «Stiamo portando questi soldi per finanziare un film», spiegò con calma. Gli agenti confiscarono il contante, ma dissero agli americani e al colombiano che erano liberi di andare. In auto verso l’Hilton, l’avvocato imprecò e spiegò: «Il tipo che avevamo corrotto non c’era, oggi. Doveva esserci, ma non si è presentato». Corey pensò che fosse meglio non porgli ulteriori domande.
Arrivarono all’Hilton, dove avevano riservato una suite con tre camere da letto in cui Peckinpah si era già trasferito. Quando entrarono, Sam prese Mike da una parte e gli sussurrò: «Non avevo idea che Peter facesse il mulo per queste persone! Non riesco a credere che lo abbia fatto, è una follia!» La sera successiva Peckinpah e Corey incontrarono nella loro suite i due fratelli colombiani che dovevano investire nel film. I fratelli erano ben curati e vestiti come agenti della Creative Artists, a eccezione del fatto che indossavano armi da fondina. Martin non si vide. «Non sono mai riuscito a capire quale fosse il ruolo di Martin in tutto questo», afferma Corey. «Arrivava e se ne andava sempre in gran segreto; sembrava avesse degli affari in proprio con queste persone, che forse non erano nemmeno collegati all’accordo per il film. Non ho mai avuto una chiara risposta da lui o da Sam al riguardo». Sniffarono un paio di strisce di coca prima di mettersi a parlare d’affari. Alla fine uno dei due fratelli disse: «Allora, parlaci del grande film alla Sam Peckinpah che vuoi fare». La testa di Sam si girò verso Corey. «Raccontagli la storia, Mike». Preso un po’ alla sprovvista, Corey si schiarì la voce e si lanciò in una sinossi della trama di Snowblind. «Be’», ricorda Corey, «questi tipi non avevano la minima idea che Sam volesse fare un film sul traffico di cocaina. In qualche modo avevano avuto l’impressione che si sarebbe trattato di un film sulla ribellione dei contadini oppressi della Colombia contro la classe dirigente, uno di quei numeri alla manifesto marxista. Quando scoprirono che volevamo fare un film sui trafficanti di droga, si incazzarono come belve!» «Siete matti, cazzo!», urlò il maggiore. «Non c’è verso che facciate questo film! Capito? Assolutamente no!» Il meeting si concluse all’alba con tutti i partecipanti completamente strafatti e Peckinpah che cercava di rassicurare i suoi investitori: «Cominceremo a definire esattamente che genere di film vogliamo fare. Farò un film sull’amore,
sull’odio, sulla lussuria, sull’avidità e sulla disumanità degli uomini. Avremo bisogno dei mezzi per cercare le location». Nei giorni seguenti, i fratelli riapparvero. «Non potete restare qui, non è sicuro», disse il maggiore in modo criptico. «Tutte le stanze dell’Hilton sono intercettate. Venite con noi!» Peckinpah e Corey caricarono i loro bagagli nell’auto dei fratelli e furono portati fuori città. «Ci portarono molto lontano, nel mezzo del nulla», racconta Corey, «in questa specie di country club con campo da golf e stanze d’albergo. Ci sistemarono lì in camere adiacenti». I fratelli avevano fatto preparare un lauto banchetto in onore di Sam. La cosa era stata organizzata prima che arrivassero in Colombia, prima che i fratelli scoprissero che film intendessero fare esattamente. Sarebbe stato imbarazzante annullarla, per cui fu detto a Sam che la sua presenza quella sera era obbligatoria. Nell’enorme villa di uno dei membri dell’élite di Bogotà, champagne, roast beef e pollo arrosto furono consumati da una folla di politici, agiati proprietari terrieri, uomini d’affari e ufficiali addobbati con medaglie e paramenti colorati. Alla fine della festa, i fratelli e una falange di uomini armati accompagnarono Peckinpah e Corey a un’auto che li attendeva, e li portarono in un’altra casa di proprietà del fratello minore. «Era pieno di gente, tutta armata», dice Corey. Una volta lì, il maggiore cominciò di nuovo a discutere con Peckinpah: «In nessun caso farete un film sulla cocaina, comprende?» «Sam cercava di fare il duro», racconta Corey. «Era prevista una conferenza stampa per l’indomani; era stata organizzata prima ancora che arrivassimo e Sam avrebbe dovuto annunciare la sua intenzione di girare un film in Colombia. Così dice al tizio: “Andrò a quella conferenza stampa domani e dirò che tipo di film voglio fare, e dirò il cavolo che mi pare!”» «No, noi ti diremo che cosa dovrai dire e fare!», disse il maggiore.
«Sembrava come se Sam volesse aizzarlo di proposito», dice Corey, «per vedere se riusciva a spingerlo fino a farsi uccidere». La lite degenerò in una lotta a chi urlava più forte e alla fine gli uomini armati separarono Peckinpah e Corey. Ciascuno fu accompagnato in una diversa camera da letto e Mike si ritrovò da solo con il fratello minore, un uomo armato e l’avvocato dei fratelli. «L’avvocato era più moderato, un po’ come se lui fosse il poliziotto buono e il fratello fosse quello cattivo. Cominciano a litigare. In spagnolo, e infatti non colgo la maggior parte di quello che dicono, ma quanto basta comunque per capire che stanno parlando del film, della valigia all’aeroporto e di cosa dovrebbero fare con me – se devono farmi fuori o no. Intuivo che l’avvocato preferiva la moderazione, dicendo che non ero coinvolto nella cosa, che non sapevo niente». Alla fine, senza alcuna spiegazione, lo fecero uscire dalla stanza proprio mentre altri uomini armati facevano uscire Sam da un’altra. I due furono scortati fuori dalla casa nell’aria antelucana, fino a una macchina che li attendeva. Peckinpah salì sul sedile anteriore tra due sicari e Mike su quello posteriore tra altri due. «Guardai Sam negli occhi e lo vidi finalmente spaventato, non cercava più di fare il duro, il gioco era finito», ricorda Corey. «Mi sentii completamente impotente, come quando da bambini si è completamente in balia degli adulti – la stessa insopportabile sensazione di inanità. Quando l’auto partì nella notte, mi sembrava di cavalcare un’enorme onda di adrenalina. Ero assolutamente convinto che mi stessero portando in qualche giungla per spappolarmi il cervello». Ma con suo grande stupore, i loro carcerieri li riportarono al country club e li fecero scendere lì senza spiegazioni. Tornati nelle loro camere adiacenti, Corey si mise a camminare freneticamente avanti e indietro, mentre Peckinpah tirava altra cocaina. «Sam fece un lungo monologo dettato dalla coca, una sorta di confessione in stile flusso di coscienza. A un certo punto, mi disse improvvisamente: “Sai, Mike, sono
impotente. Lo sono da anni, ormai”. Fu un momento stranamente commovente. Dopo tutti quegli anni a fare a gara a chi fosse il più macho, esporsi con tanta vulnerabilità quando eravamo così vicini alla morte… Suona strano da dire, ma non mi sono mai sentito più vicino a lui di quel momento». Ma le ombre dei sicari colombiani incombevano e non c’era tempo per l’esplorazione di sé. «Sam», disse Corey, «dobbiamo andarcene da qui! Dobbiamo lasciare il paese subito!» «Non posso», mormorò Peckinpah, «mi hanno preso il passaporto». «Cos’hanno fatto? Oh, merda!» Non avevano preso quello di Corey. Perché? «Sam, che cavolo ci facciamo qui? Perché siamo venuti quaggiù? Che diavolo significa tutto questo?» «Mike» – Peckinpah lo guardò fisso e disse con calma – «io non voglio finire come Roman Polanski, beccato a scoparmi una dodicenne. Voglio uscire di scena in fiamme». «Benvenuti al mio suicidio – ecco cosa stava succedendo», dice Corey. «L’unico problema era che io non volevo affondare con lui. Avevo altri progetti. Mi sentivo davvero combattuto. Voglio dire, volevo bene a Sam, gli volevo davvero molto bene – ma non ero pronto a morire con lui in quel fottutissimo posto!» Peckinpah ascoltò la supplica di Corey di considerare altre alternative, poi alla fine disse calmo: «Mike, c’è solo una cosa che puoi fare: dartela a gambe». «Ma non posso lasciarti qui!» «Devi». Sam gli scrisse i numeri del suo avvocato, Norma Fink, e di un paio di altri associati a Los Angeles. «Se riesci a tornare, chiamali. Forse saranno in grado di farmi uscire da questa situazione». «Avevo ancora una mazzetta di contanti nelle tasche», dice Corey, «così chiamai un taxi, presi il mio bagaglio e puntai dritto verso l’aeroporto. Sono le sei di mattina, il sole è
alto e sono terrorizzato che possano fermarmi, che qualcuno possa uccidermi o beccarmi, ma riuscii ad arrivare all’aeroporto. Arrivai lì e presi il primo aereo in partenza. Non mi interessava dove, volevo solo andarmene!» Corey giunse a Miami, poi prese un altro volo per Los Angeles. Per settimane, mentre guidava tra Hollywood e Beverly Hills, immaginò di essere seguito. Portava la sua .357 magnum con sé ovunque andasse e la teneva sotto il cuscino quando dormiva. «Chiamai la Fink e gli altri numeri che Sam mi aveva dato», racconta Corey. «Non so cosa fecero o non fecero per lui, ma dieci giorni dopo Sam tornò a Los Angeles, e lo stesso fece Martin. Quando lo rividi Sam si comportò come se non fosse mai accaduto nulla. In seguito ho scoperto che non aveva mai nemmeno posseduto i diritti per Snowblind. Un’altra società di produzione aveva già l’opzione. Fu l’esperienza più infernale della mia vita. Ma sapete una cosa? Fu anche la più eccitante. Quella volta, Sam mi spinse giù dall’orlo insieme a lui. Era folle, fuori controllo, ma così vivo! La maggior parte delle persone trascorre la sua vita in una comoda routine. Sam poteva essere accusato praticamente di qualsiasi cosa, ma non di questo». Dopo essere tornato dalla Colombia, Peckinpah chiuse il suo ufficio alla Goldwyn e la roulotte di Malibu e si spostò a nord, fuori da Los Angeles, nell’High Country del Montana. Warren Oates aveva costruito una baita su tre chilometri quadrati di terra fuori da Livingston e durante una notte di bevute Sam negoziò con l’astuzia un accordo per comprarne un pezzo: centomila metri quadrati più altri due chilometri e mezzo in comproprietà con Oates. Assunse degli appaltatori del posto per costruire una massiccia baita per lui nel punto più alto (2124 metri) della proprietà, in un canyon sotto le vette sporgenti delle Absaroka Mountains, che torreggiavano dietro lo Yellowstone National Park. Era una struttura spettacolare, eppure stranamente vuota dentro, con l’arredamento che si perdeva negli interni bui e cavernosi. Era una metafora della vita di Sam Peckinpah. «L’appaltatore lo aveva convinto a costruirla in quel modo»,
afferma Joe Swindlehurst, un avvocato di Livingston che divenne il legale di Peckinpah e un suo amico stretto negli anni in Montana. «Sam era quasi sempre ubriaco quando lo stavano costruendo – beveva troppo e pensava troppo poco. Non lo disse mai esplicitamente, ma credo che la baita non lo facesse sentire bene. Scommetto che non ci ha passato più di un paio di settimane in tutto». La maggior parte del tempo la trascorreva allo Yellowstone Lodge a Livingston e successivamente nelle sette stanze che affittò in cima al Murray Hotel, dove aveva allestito i suoi «uffici di produzione». Aveva portato con sé Marcy Blueher – la vedova di Albuquerque – e i suoi figli, e l’aveva resa la quarta signora Peckinpah. «Credo fosse un nuovo inizio per Sam», afferma Ron Wright, «la sua occasione di avere una famiglia già pronta, un trio di persone molto stabili… Semplicemente non funzionò». Nel giro di qualche mese Marcy, come Marie, Bego e Joie prima di lei, fu allontanata dall’alcolismo e dalla dipendenza di Sam, dai suoi attacchi di rabbia e dal suo comportamento sempre più irrazionale. Aveva ancora un entourage che stazionava intorno a lui, che assecondava ogni suo capriccio. Ma si trattava di specie molto più in basso nella catena alimentare. «Piano piano Sam allontanava tutti i suoi amici», dice Kip Dellinger. «Era paranoico, non si fidava di loro, pensava cercassero di rubargli i soldi. Le uniche persone di cui si fidava in quel periodo erano i suoi amici di droga che, paradossalmente, erano gli unici veramente interessati a derubarlo». Il 18 maggio 1979, la segretaria di Joe Swindlehurst cercò di telefonare a Peckinpah, ma trovò occupato. L’operatrice dell’hotel le promise di ricontattarla non appena la linea fosse tornata libera. Quando lo fece, qualche minuto dopo, la donna capì dalla risposta biascicata che Peckinpah si trovava in guai seri. Fu chiamata un’ambulanza. Sam aveva avuto un grave infarto. Lo portarono di corsa all’ospedale locale, dove i
dottori riuscirono a stabilizzarlo. Dopo una serie di test decisero che Sam aveva bisogno di un pacemaker per regolare il suo battito cardiaco incostante e lo portarono in sala operatoria. «L’operazione durò un giorno intero», racconta Swindlehurst. «Gli misero tre diversi pacemaker ed era completamente fuori controllo. Si agitava e continuava a strapparsi i fili del pacemaker. Persero il battito non so quante volte e l’infermiera gli urlava di riprendersi. Alla fine riuscirono a sistemare anche il terzo pacemaker e Sam si stabilizzò. Poi cominciò a spargersi la voce di ciò che era successo e cominciò ad arrivare gente da fuori città. Si presentò mezza Hollywood». Jim Silke fu uno di quelli che volarono da Los Angeles, insieme a Kristen, Sharon, Denny e David Peckinpah. A un certo punto Silke si trovò seduto nella stanza di Peckinpah con Paul Peterson, un amico abituale di Sam in quel periodo, e la sua fidanzata, Patty. Sam li pregò di dargli della cocaina, poi vomitò una serie di terribili imprecazioni rivolte al suo ex cosceneggiatore: «Fottuto Silke! Non farà nulla, non mi darà nulla! È un inutile coglione!» «Me ne stavo seduto e ascoltavo», ricorda Silke. «Alla fine Paul e Patty se ne andarono. Mi alzai e mi avvicinai. Sam mi guardò. Era stata tutta una scena. Cominciò a piangere. Ci abbracciammo. Sapeva che io sapevo. Il nostro rapporto era sempre stato così. Sapeva di non potermi mentire e che io non potevo mentire a lui. Era la nostra intesa. Era così imbarazzato. Non voleva morire. Altre volte avevo pensato che lo volesse, ma quella volta non voleva, non voleva proprio». Peckinpah restò in clinica per due settimane. Alla fine il delirium tremens passò e il battito cardiaco e gli altri segni vitali tornarono normali. A quel punto il circo degli ammiratori se ne era andato. Sam uscì una domenica mattina: Joe Swindlehurst e sua moglie, Carolyn, lo passarono a prendere. «Non aveva praticamente nessuno», dice Swindlehurst. «Io e Carolyn eravamo quanto di più vicino a una famiglia avesse. Andammo a prendere Sam e lo facemmo
salire in auto. Il dottore gli aveva ripetuto per giorni: niente sigarette, niente vodka, niente questo e niente quello. Gli dicemmo “Dove vuoi andare? Ti portiamo a casa nostra, puoi stare con noi”. No, voleva tornare in hotel». Quando arrivarono in hotel, Peckinpah entrò nella hall, si girò subito a destra e andò dritto verso il bar. Stavano aprendo proprio allora; un uomo delle pulizie stava passando l’aspirapolvere sul tappeto sporco di sigarette. Sam si sedette su uno degli sgabelli al bar e Swindlehurst e sua moglie si sedettero accanto a lui. «Chiama il barista», abbaiò all’uomo delle pulizie. Il barista arrivò e chiese loro cosa volessero bere. «Succo d’arancia», cinguettarono candidamente Swindlehurst e sua moglie. «Cazzate», ringhiò Peckinpah, «prendiamo dei Ramos Fizz!» «Be’, il barista non sa come si fa un Ramos Fizz», racconta Swindlehurst. «Sam spiega che ci vuole molto gin. Così il tipo riempie un bicchiere da planter’s punch con gin, albume eccetera. Sam beve questo miscuglio e si lecca l’albume dai baffi, poi urla “aaaah!”, si afferra il petto ed ecco che il figlio di puttana cade dallo sgabello. Giace lì sul pavimento del bar. Pensavamo che fosse morto. Mia moglie comincia a piangere e guardiamo il figlio di puttana, non riuscendo a credere ai nostri occhi. Poi all’improvviso Sam non resiste più e comincia a ridere”.
11
«NON È COME UN TEMPO, MA… ANDRÀ BENE»
Mathew Peckinpah era ora un diciottenne confuso. I disordinati capelli biondi gli ricadevano sulle orecchie, aveva lasciato la scuola e non aveva idea di cosa volesse fare nella vita. Consumato dal disprezzo di sé tramandatogli da suo padre, Mathew si rendeva insensibile a tutto con nuvole di marijuana, gli occhi nocciola distanti e rivolti dentro di sé, il viso e la voce una maschera di monotonia. L’apatia priva di obiettivi del ragazzo faceva infuriare Sam e le sue battutine sarcastiche divennero ancora più aggressive di quanto non lo fossero state in passato. «Quello che ti serve è qualche anno nell’esercito», ringhiava a Mathew. «Qualche settimana a Parris Island ti rimetterebbe in riga!» Un giorno Mathew decise che suo padre aveva ragione. Era stanco di andare alla deriva, di non sapere chi fosse o cosa volesse. Desiderava disperatamente dei punti fermi nella sua vita, delle basi solide, appartenere a qualcosa, guadagnarsi il rispetto di suo padre. Così contattò un reclutatore del Corpo dei marines a Butte. Il reclutatore accettò di recarsi a Livingston, prendere Mathew e accompagnarlo a Butte per una presentazione sul Corpo. Quando Mathew lo disse a suo padre, Sam divenne improvvisamente agitato e ansioso. «Allora vai solo ad ascoltare quello che hanno da dire; qualsiasi cosa succeda, tu non arruolarti finché non ti sarai preso del tempo per pensarci».
Ma dopo aver ascoltato la presentazione, Mathew sapeva cosa voleva fare. Chiamò suo padre da Butte. «Be’, l’ho fatto, mi sono arruolato», disse con entusiasmo. «Sono un marine». Ci fu silenzio all’altro capo della linea. «Okay, va bene», disse Sam infine, con un tono triste e stanco. Dopo aver riattaccato, Sam dettò una lettera per suo figlio che recitava, in parte: «Oggi, 9 settembre, è probabilmente il giorno più importante della mia vita – so di certo che lo sarà della tua. Questo perché, da oggi, entrambe le nostre vite sono cambiate. Sono fiero di te e sono fiero di essere tuo padre… A volte la nostalgia, la solitudine diventeranno quasi insopportabili. Ma sappi, come lo sapevo io, che tuo padre è lì accanto a te». Mathew salpò un mese dopo per San Diego per entrare in un centro di addestramento. Le parole della lettera di Sam erano quasi comicamente non sincronizzate con il suo comportamento degli ultimi anni – Sam era stato tutto fuorché una solida figura paterna – ma quando Mathew assunse il controllo della propria vita e si tirò fuori dal suo pantano psicologico, Sam seguì il suo esempio. Lasciò il Montana, tornò nella sua roulotte a Malibu e si mise a raccogliere i pezzi della sua carriera. Avrebbe continuato a bere e a sniffare coca per un altro paio d’anni, ma facendo almeno uno sforzo concreto per ridurne l’assunzione. I folli eccessi degli anni in Montana si affievolirono. Ci sarebbero state periodiche esagerazioni, fine settimana persi, ma tra le une e gli altri riusciva a limitare l’assunzione di alcol e cocaina restando solido e coerente, se non quasi completamente sobrio. Fondò una società di produzione con Ted Post, il regista di Vittorie perdute e Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan e un amico dei tempi di Gunsmoke. Affittarono degli uffici alla MGM, ma non riuscirono mai a raccogliere finanziamenti per nessuno dei loro progetti. A quel punto Martin Baum si era stancato delle sanguinose frustrazioni che derivavano dal produrre film, perciò era tornato a fare l’agente
e si era unito alla Creative Artists, che stava rapidamente diventando la più potente agenzia di talenti di Hollywood. Non soddisfatto del suo attuale agente, Herman Citron, che lo aveva rappresentato per anni, Peckinpah andò da Baum, col cappello in mano, per chiedergli se volesse prenderlo come cliente. Le animosità di Killer Elite si erano dissipate e Baum accettò all’istante Peckinpah come cliente. Firmare con l’agenzia più prestigiosa di Hollywood fu un bel colpo, ma la spinta durò solo per breve tempo. Baum scoprì presto che Peckinpah era difficile da vendere, molto difficile. L’eccentrico comportamento di Sam durante la produzione di Convoy non era stato dimenticato. Nessuno voleva mettere una produzione multimilionaria nelle sue mani. Il raggio d’azione di Baum scese gradualmente dalle pellicole ad alto budget a produzioni indipendenti a budget ristrettissimo. Peckinpah doveva ottenere un incarico, di qualsiasi tipo, per dimostrare che aveva rimesso la testa a posto e che poteva realizzare un film rispettando tempi e budget. Alla fine, Baum provò con gli episodi tv, a cui Sam non lavorava da quindici anni, ma neanche lì trovò ingaggi. La carriera di Peckinpah si era incagliata. Ma scoprì che la catastrofe professionale aveva le sue consolazioni. Ora che i riflettori della celebrità si erano allontanati, la sua visione si era rischiarata e riconobbe, per la prima volta dopo decenni, le cose che avevano più importanza per lui. Ad esempio, i suoi figli. Dopo il diploma al centro di addestramento, Mathew restò a Camp Pendleton per ulteriori esercitazioni e suo padre cominciò ad andare in macchina fino a San Diego nei fine settimana per fargli visita. Per la prima volta in assoluto, Sam andava da Mathew anziché il contrario. Il giorno del cinquantesimo compleanno di Sam nel 1975, tutta Hollywood si era riunita a casa di Jerry Fielding per festeggiare con lui. I suoi figli, come sempre, si erano trovati a fare da sfondo a orde di celebrità e sicofanti. Nel febbraio del 1982, Sam guidò fino a San Diego da solo, con la sua Lincoln
color crema, per trascorrere il suo cinquantasettesimo compleanno con suo figlio. Al tempo Mathew stava facendo dell’allenamento intensivo per una squadra di fucilieri speciale. I risultati non erano incoraggianti e la pressione lo stava spingendo a un punto di non ritorno. La domenica incontrò suo padre in un hotel di San Diego. Anche il fratello di Begonia, Juan José Palacios, era lì e tutti e tre guidarono oltre il confine fino a Tijuana per pranzo. Sam bevve vari margarita mentre mangiava, e chiese a Mathew di guidare lui al ritorno verso l’hotel. Mathew si mise nervosamente al volante della gigantesca portaerei del padre e guidò rigido verso l’uscita del parcheggio. Spero che papà non cominci a darmi addosso per il mio modo di guidare, pensò. Mentre stava uscendo, notò il parcheggiatore che agitava le braccia. Oh, merda. Ho dimenticato di pagare, realizzò Mathew. Fermò l’auto e ingranò la retromarcia. «No!», urlò Sam dal sedile posteriore, «non mettere la marcia indietro!» Le ruote radiali posteriori della Lincoln si sgonfiarono in un istante, impalandosi ormai flosce sugli spuntoni dell’uscita. Mathew balzò giù dall’auto, sbattendo la portiera dietro di sé. Dei singhiozzi si fecero strada nella gola, nonostante i suoi più grandi sforzi per contenerli. Sentì la portiera posteriore aprirsi. Sam scese. BUM!
«Mi voltai a guardarlo», ricorda Mathew, «e stava ridendo, ma non in modo ostile. Era molto caloroso. Mi sentivo una merda. Lo trovava divertente, ma allo stesso tempo capiva che avevo accumulato troppo stress con l’allenamento, e troppa negatività. Mi prese semplicemente tra le braccia e capì cosa stavo provando. Non si chiedeva perché stessi piangendo, lo sapeva. Era lì per me e mi supportava, ma trattò anche la cosa con leggerezza e ironia». Sharon aveva sposato un attore, Richard Marcus, e nel febbraio del 1981 ebbero il loro primo figlio, un maschio, Theo. Sam Peckinpah era nonno. Quando la notizia della
gravidanza di Sharon gli giunse per la prima volta, Sam scrisse una lettera a suo marito, Richard, che recitava in parte: «Diventare padre è un’esperienza illuminante, terrificante e gratificante – lo è stata per me – sono certo che lo sarà per te – ma – dopo la mia iniziale gioia alla notizia che sarei diventato nonno, ho cominciato e continuo a domandarmi quali siano i miei doveri, i miei privilegi e il mio ruolo, per così dire […] Attendo con paura e trepidazione, delizia, impazienza e gioia la nascita del figlio tuo e di mia figlia». Sam andava a casa di Sharon regolarmente dopo la nascita di Theo, e la figlia maggiore cercò di porre dei limiti: «Non voglio che ti presenti qui con il tuo entourage e non voglio che ti presenti ubriaco». Andava da solo, occasionalmente con Walter Kelley; una volta era ubriaco fradicio e la successiva completamente sobrio. Kristen lo andava a trovare nella sua roulotte a Malibu. A volte era ubriaco e arrabbiato, ma molto spesso era sobrio e rilassato e si sedevano e parlavano serenamente del più e del meno. A volte questi stati d’animo tranquilli duravano per settimane, molto di più di quanto le fosse mai capitato con suo padre, prima di allora. Kristen viveva con Gill Dennis in un appartamento a Silver Lake nel periodo in cui era operativo l’Hillside Strangler [«lo strangolatore delle colline».] Una sera dopo una visita a suo padre nella roulotte, Kristen entrò in auto per tornare a casa. Gill era fuori città, così suo padre le disse: «Chiamami quando arrivi. Chiamami e fammi sapere che va tutto bene». Guidando verso Silver Lake, Kristen cercò di non pensare allo strangolatore, ma una sfilza di psicopatici pelosi continuavano a occupare i suoi pensieri, così quando tornò a casa condusse una meticolosa ricerca per tutto l’appartamento – gli armadi, lo spazio sotto il letto, la doccia – per assicurarsi che nessun killer folle fosse in agguato. Nella foga si dimenticò completamente di suo padre, finché non squillò il telefono. «Hai detto che avresti chiamato! Stai bene?» «Non era arrabbiato», racconta Kristen. «Era felice di sapere che stavo bene. Era una bella sensazione, sapere che
qualcuno fosse così preoccupato per me». Sam Peckinpah aveva disperatamente bisogno di dimostrare a Hollywood che aveva sconfitto i suoi demoni, che se gli avessero dato l’occasione di dirigere di nuovo si sarebbe comportato responsabilmente e che era ancora capace di fare un ottimo lavoro. L’opportunità arrivò nell’estate del 1981, e proprio dall’uomo che aveva dato a Sam la sua prima grande occasione nel settore, Don Siegel. Siegel era nel mezzo delle riprese di Un giocatore troppo fortunato, una commedia melodrammatica con Bette Midler e Rip Torn. Chiese a Peckinpah se fosse interessato a unirsi per dirigere dodici giorni in seconda unità, il che includeva molte scene irrilevanti con le star e un importante stunt nel quale un camion e una roulotte sbandavano sull’autostrada e finivano giù per un dirupo. Il salario era generoso per un regista di seconda unità, ma comunque poca cosa rispetto a quanto Peckinpah richiedeva un tempo: 25.000 dollari. Sam non dovette nemmeno chiamare il suo agente; disse di sì immediatamente. Anche Walter Kelley, che aveva lavorato come dialoghista e regista di seconda unità in quattro film di Peckinpah, fu aggiunto al libro paga come assistente di Sam. Insieme prepararono uno storyboard delle riprese per la grande sequenza di stunt – cosa che Sam non faceva quasi mai per i suoi film. «Dio», esclamò Siegel quando glielo mostrarono, «è lo storyboard più dettagliato che abbia mai visto!» «Sam voleva dimostrare a Siegel le sue capacità», afferma Walter Kelley. «Il primo giorno sul set aveva quasi la nausea. La sera prima di girare la grande sequenza di stunt nelle San Gabriel Mountains Sam non riusciva a dormire, così andò sulla location la mattina presto prima che arrivassero tutti gli altri per ristudiare il posto e pensare a come voleva girare la sequenza». Peckinpah utilizzò tre cineprese a velocità diverse per filmare lo stunt. Allestì e girò quella scena e le restanti a lui assegnate con la sciolta sicurezza di un artigiano esperto. «Peckinpah aiutò Siegel esattamente quanto Siegel aveva aiutato Peckinpah», sostiene Reza Badiyi. «Sam lo aiutò a
finire la pellicola; fu una collaborazione. Con essa, Sam dimostrò che voleva lavorare e che era in grado di farlo». All’improvviso era entrato di nuovo in gioco. Peter Davis e William Panzer – ultimo anello nella catena alimentare di Hollywood e specializzati in film d’exploitation a basso budget – gli offrirono l’opportunità di dirigere Osterman Weekend, un adattamento di un romanzetto di spionaggio di Robert Ludlum, Striscia di cuoio. La sceneggiatura era stata scritta da Alan Sharp, autore di Bersaglio di notte e Nessuna pietà per Ulzana. Era incredibilmente intricata, molto poco coerente, ma piena di azione e migliore rispetto ai melmosi film da drive-in che erano stati ultimamente proposti a Peckinpah. E la retribuzione non era male, 450.000 dollari, pur essendo molto meno di quanto i registi più richiesti ormai pretendessero. Baum gli disse che doveva accettare l’incarico per dimostrare che poteva realizzare un film rispettando i tempi e il budget. Se voleva avere una chance per film più importanti, non aveva altra scelta. Quando si trasferì nel suo grande ufficio negli ammuffiti, vecchi Columbia Studios su Gower Street a Hollywood, Peckinpah convinse Panzer e Davis a fargli provare una riscrittura. Ma quando consegnò le prime venti pagine, i produttori diedero un’occhiata e gli proibirono di modificare un’altra parola. Panzer e Davis non solo gli proibirono di riscrivere il copione, ma posero anche un veto all’ingaggio di molti membri del suo vecchio Mucchio, per il cast e la troupe. Sam voleva che James Coburn interpretasse un agente di alto grado della CIA e che Lou Lombardo montasse il film; i produttori si rifiutarono di assumerli entrambi, temendo che Peckinpah potesse costruirsi una base di potere per poi muovergli guerra. Riuscì almeno ad avere il suo vecchio direttore della fotografia, Johnny Coquillon, che aveva girato Cane di paglia, Pat Garrett e Billy Kid e La croce di ferro, e a radunare un cast di prima categoria approvato dai suoi produttori. John Hurt, Craig T. Nelson, Dennis Hopper, Meg Foster e Burt Lancaster firmarono tutti, e in diversi casi per molto meno del loro
salario abituale – molti attori desideravano ancora avere la possibilità di lavorare con Peckinpah. Per il ruolo principale, Panzer e Davis insistettero per scritturare Rutger Hauer, un attore olandese che in generale interpretava ruoli più rudi ma che stava raggiungendo l’apice della celebrità sulla scia di Blade Runner e della miniserie I diari del Terzo Reich. La produzione fu organizzata in cinquantaquattro giorni di riprese con un budget di 6.699.192 dollari. Per ridurre i costi sarebbe stata usata una troupe non iscritta al sindacato e il film sarebbe stato girato intorno a Los Angeles. Ai vecchi tempi Peckinpah avrebbe mobilitato il cast e la troupe in una guerra senza quartiere contro i produttori. Ma, come continuava a ricordargli Baum, doveva assolutamente consegnare il film in tempo, doveva provare a Hollywood che non era impossibile lavorare con lui. Così strinse i denti: a volte si girava e imprecava in silenzio, ma molto più spesso riusciva a contenere la sua rabbia. Le riprese si conclusero il 17 gennaio 1983 – nel pieno rispetto dei tempi e del budget. Nei successivi otto mesi, Peckinpah lavorò fianco a fianco con il tecnico del montaggio David Rawlins per realizzare la sua versione del film; insieme cercarono di infondere vita e stile in quel materiale mediocre. Sfortunatamente, Rawlins era fortemente dipendente dalla cocaina, e la disciplina di Peckinpah fu schiacciata dalla pressione della scadenza da rispettare. «Sam e Rawlins si facevano entrambi di cocaina e litigavano con i produttori, rendendo la situazione impossibile», racconta Walter Kelley, che lavorò come dialoghista nel film. «Lo sapete, la gente in città parla, e si sparse la voce che Sam si faceva di nuovo, il che rovinò le sue chance di ottenere un altro film dopo Osterman Weekend». Tuttavia, riuscì comunque a consegnare un buon montaggio per la proiezione pubblica che gli era stata garantita da contratto. Nella sua versione, Peckinpah riprese ancora una volta la stessa tattica da guerriglia che aveva utilizzato in Killer Elite: ridicolizzare sottilmente il film che i suoi produttori lo avevano costretto a fare. Nella sparatoria
principale la moglie di Hauer, interpretata da Meg Foster, uccide un assassino con una balestra. L’azione è montata in maniera geniale e per un breve istante la vecchia magia torna sullo schermo. Ma negli altri punti bisognava strizzare gli occhi per avvistare tracce di quello che un tempo era stato un grande talento. Panzer e Davis rimontarono il film, rimuovendo la maggior parte dei risvolti satirici di Peckinpah; il prodotto finito era un filmetto commerciale pretenzioso, disperatamente confuso, con qualche buona performance e scene d’azione a volte dinamiche, a volte no. Uscito nel novembre del 1983, ricevette poche recensioni favorevoli da critici sentimentali che ricordavano i vecchi giorni di gloria e speravano che, con il giusto incoraggiamento, Peckinpah avrebbe girato un ultimo grande film. Osterman Weekend incassò più di sei milioni di dollari a livello nazionale nel suo primo anno di uscita e andò molto bene in Europa e nel mercato home video, che era appena esploso sulla scena americana. Entrò nella top ten dei videonoleggi e restò in classifica per varie settimane, per cui è ragionevole ipotizzare che i produttori ne abbiano tratto un considerevole guadagno. Realizzando che ogni futuro incarico sarebbe dipeso dall’andamento del film, Peckinpah accettò di partire per un tour promozionale in Europa e portò con sé il suo avvocato, Joe Swindlehurst. Sam ebbe una ricaduta e il viaggio divenne un lungo, ebbro incubo. Swindlehurst si trovò piegato in due dalle risate, infuriato e depresso a causa dell’isteria alcolica dell’amico. Ma fu l’ultima sbornia di Sam. Quando tornò negli Stati Uniti, smise di bere e questa volta per sempre. Nell’ultimo anno della sua vita non toccò una goccia d’alcol. Continuò a prendere il Seconal, per calmare i disturbi d’ansia e dormire la notte, e sniffava ancora la coca, sebbene le accecanti tormente di neve degli ultimi anni Settanta si fossero ora ridotte a spruzzi occasionali di nevischio. I primi anni Ottanta portarono una serie di scomparse sconvolgenti. Bill Holden, Robert Ryan, Warren Oates, Jerry
Fielding e Strother Martin morirono. E poi ci fu l’ultima morte nel 1983, quella di cui non parlò mai, nemmeno con i suoi amici e familiari più stretti – quella di Fern Peckinpah. Gli ultimi anni della donna non erano stati piacevoli. La sua consapevolezza della realtà era sempre stata tenue, ma l’insidiosa senilità e un abuso di Darvon – prescrittole dal suo psichiatra – gliela fece perdere del tutto negli ultimi anni Settanta. I sintomi all’inizio furono modesti – era diventata distratta, i pensieri e la conversazione vagavano – ma presero velocemente slancio. Una volta lasciò il telefono fuori posto per giorni. Quando un tecnico andò a controllare a causa delle lamentele, gli puntò una pistola contro. Poi i vicini la videro camminare lungo il perimetro della sua proprietà alle due del mattino con un fucile carico. Alla fine dovette essere affidata a una casa di riposo, dove trascorse almeno sette anni della sua vita. Una volta lì, andò presto alla deriva in un nebbioso mondo dei sogni; il suo farfugliare rivelava una mente che danzava nel perduto paesaggio della sua gioventù. Sam viveva in Montana al tempo. «Si tormentava per lei», racconta Joe Swindlehurst. «Annunciava, dal nulla, che non sarebbe andato a trovarla. Be’, se qualcuno annuncia che non andrà a trovare sua madre significa che è molto turbato perché non lo ha ancora fatto. Perciò gli dissi che, se la cosa lo stava divorando in quel modo, doveva andare a trovarla e forse si sarebbe sentito meglio. Ci pensava su e poi annunciava ancor più enfaticamente che non sarebbe andato a trovare sua madre». Ma alla fine ci andò, con Fern Lea. La trovarono legata a una sedia in modo che potesse stare seduta, i capelli castani una volta spessi e ricci rasati e ridotti a una bianca peluria, la pelle pallida e cadente, gli occhi vitrei mentre farfugliava in maniera incoerente. Fern Lea non riuscì a sopportare quella vista; si voltò e scappò via dalla stanza in lacrime. Ma Sam si sedette tranquillamente accanto a lei, annuendo come se capisse ogni sua parola, mormorando in risposta: «Sì, mamma, certo. Lo so che è così…» Come le loro conversazioni a cuore
aperto dei vecchi tempi. Fino alla fine, in sua presenza, interpretò la parte del servizievole e premuroso figlio, e tenne per sé la sua rabbia. Fern Peckinpah morì poco dopo. Ci fu una piccola funzione, al cimitero. Sam restò in piedi accanto alla buca nel terreno che avrebbe accolto di lì a poco sua madre, e ascoltò l’elogio funebre con aria inespressiva. Non pisciò sulla sua tomba come aveva spesso giurato di fare, ma non pianse nemmeno. Finita la funzione, tornò immediatamente a Los Angeles. Se aveva sentimenti che ribollivano dentro di lui, li seppe mascherare alla perfezione. Sam somigliava ormai a uno dei personaggi dei suoi western – Steve Judd, Pike Bishop, Cable Hogue – un uomo sopravvissuto alla propria epoca, che portava sulle esauste spalle il fardello di una reputazione guadagnata temerariamente e impossibile da scrollarsi di dosso. Eppure non gettò la spugna. «Dio, era un ragazzino determinato», dice Joe Swindlehurst. «Quell’uomo era un combattente». Così fece il giro. Riunioni su riunioni con responsabili dello sviluppo più giovani dei suoi stessi figli, che non avevano mai sentito parlare di H.L. Mencken o B. Traven e nemmeno di Michael Curtiz e Raoul Walsh. Ascoltavano educatamente i suoi appassionati tentativi di vendere Hi-Lo Country, Castaway e My Pardner perché era stato detto loro dai pochi veterani rimasti agli studios che Peckinpah era stato un tempo un nome importante nel settore. «Era sopravvissuto alla sua era», afferma L.Q. Jones. «Sam sapeva che gli sarebbe successo, alla fine, e lo aveva saputo fin dal principio. Succede a tutti». Agli amici Sam mormorava cupamente: «Mi domando se ci sia ancora un posto per me in questo mondo». Ma se l’establishment hollywoodiano lo aveva dimenticato, lo stesso non si poteva dire degli studiosi di cinema. La sua reputazione tra i critici risalì di nuovo, anche se le sue prospettive lavorative erano colate a picco. Nei primi anni Ottanta ricevette il Golden Boot Award e un altro trofeo
dalla Cowboy Hall of Fame per il suo contributo al genere cinematografico western. La USC, la Seattle Film Society e la Rice University in Texas allestirono delle retrospettive della sua opera. I teatri erano pieni e Peckinpah restava dopo le proiezioni per rispondere alle domande del pubblico. Alla fine di queste sessioni, dozzine di ferventi ammiratori si facevano avanti con poster e immagini dei suoi film da autografare, e lui con cortesia accontentava tutti. Negli ultimi anni Settanta e nei primi anni Ottanta furono pubblicati quattro libri sulla sua opera, tra cui Peckinpah – The Western Films di Paul Seydor (la più autorevole analisi critica mai fatta) e Peckinpah – A Portrait in Montage di Garner Simmons (che ci fornisce la documentazione più completa sulla realizzazione di ognuno dei suoi film). «È molto gratificante», disse Peckinpah a proposito della sua crescente reputazione, con la traccia quasi impercettibile di un sorriso sotto i bianchi baffi. Il momento di massima pienezza nell’ultimo anno di vita di Sam fu fornito da una parrucchiera di Malibu di nome Carol O’Connor. La conobbe quando era appena tornato dal Montana alla spiaggia. Walter Kelley, che pure viveva a Malibu, si faceva tagliare i capelli da lei e quando Sam gli chiese di consigliargli un barbiere, Kelley lo portò nel salone dove la O’Connor lavorava, sulla Pacific Coast Highway. Trentatreenne bionda e sinuosa, la O’Connor non era la tipica estetista svampita. Colta, intelligente, equilibrata e indipendente, con il suo negozio manteneva se stessa e il figlio tredicenne. Non si fiondò su di lei; all’inizio non la corteggiò nemmeno. In principio i suoi approcci furono esitanti. Per i primi tre anni in cui si conobbero, restarono amici, vedendosi solo quando Sam andava da lei a tagliarsi i capelli o la chiamava perché venisse a tagliarglieli dovunque si trovasse per lavoro. Parlavano di libri; entrambi leggevano voracemente e cominciarono a scambiarsi le loro ultime scoperte.
Quando stava dirigendo Osterman Weekend, Sam la chiamò e le chiese se le andava di lavorare come comparsa per qualche giorno. Sembrava divertente, così accettò. Mentre erano lì a chiacchierare sul set, Burt Lancaster si avvicinò a Carol e disse: «Sai, quest’uomo ha una bella cotta per te». Quando le riprese si conclusero, cominciarono a frequentarsi. Andavano a cena insieme, al cinema – fu un corteggiamento formale, cosa che Sam non faceva da anni. «Mi piaceva molto», dice la O’Connor. «Era così intelligente, così profondo e pacato. Gli importava della tua opinione. Era un uomo molto forte, intelligente, eppure era anche molto infantile». Aveva smesso di bere; Carol non lo vide mai toccare una goccia d’alcol. «Diceva che se lo avessi visto ubriaco me ne sarei andata, che da ubriaco era pessimo. A me sembrava meraviglioso. Non solo non beveva, ma non ne sentiva nemmeno il bisogno». A volte, se era fuori città a lavorare a un progetto o a discutere di un possibile accordo, la invitava a raggiungerlo per qualche giorno. Quando arrivava nella sua suite in queste occasioni, la trovava piena di composizioni floreali, bottiglie di champagne in ghiaccio e piccoli regali sparsi per le stanze, come in una caccia al tesoro. La guidava facendogliene scoprire uno alla volta, deliziato come un bambino la mattina di Natale. «A un certo punto Sam mi disse – e per me fu un meraviglioso regalo – che gli avevo regalato l’anno più felice della sua vita», dice la O’Connor. «E lui diede a me l’anno più felice della mia». Nel 1984 la Charisma Records decise di realizzare un documentario di un’ora su Julian Lennon per promuovere il suo primo album, che stava registrando con loro. Il documentario avrebbe seguito Lennon nelle prove, nelle sessioni di registrazione e nei concerti. Sarebbe stato mandato in onda su MTV, la neonata rete rock and roll che stava raggiungendo la ribalta con la proliferazione della tv via cavo.
Lo scopo era quello di consolidare l’identità pubblica di Julian differenziandola da quella del padre, John. Martin Lewis, l’impudente giovane produttore assegnato al progetto, voleva ingaggiare un regista importante. «Non volevo uno di quei bambini prodigio usciti dalle scuole di cinema, non volevo un viscido regista di videoclip», dice Lewis. «Volevo trovare qualcuno che potesse dare al progetto qualcosa in più: non sapevo dire cosa, ma doveva essere consistenza, prospettiva». Pensò ad Alan Rudolph e Robert Altman, ma nessuno dei due era disponibile. Quando un amico – Dennis Delrogh, un critico dell’ L.A. Weekly – gli consigliò Sam Peckinpah, Lewis fece una smorfia. «Mi prendi in giro? Mi immagino già cosa farebbe, aprirebbe il film con una ricostruzione in slow motion dell’omicidio di John Lennon». «No, no, Martin, stai pensando a un’immagine stereotipata di lui», insistette Delrogh. «Non stai pensando al lavoro di Sam Peckinpah e a cosa è capace di fare. Il minimo che farà sarà renderlo molto cinematografico, e molto probabilmente troverà dei temi piuttosto interessanti da esplorare». Lewis si fermò a pensare per un momento. La ballata di Cable Hogue era uno dei film preferiti di Martin – poetico, malinconico, pieno di sentimento. Poi, ricorda Lewis, «mi resi conto che Dennis aveva ragione, stavo pensando all’immagine stereotipata di Peckinpah». Lewis contattò Peckinpah e, con sua grande sorpresa, Sam espresse entusiasmo nei confronti del progetto. L’accordo per il documentario alla fine non andò in porto a causa della riluttanza di Lennon a essere filmato mentre suonava davanti a un pubblico dal vivo, così Lewis fece a Peckinpah un’altra proposta. Voleva che Sam girasse un paio di video musicali per due importanti singoli dell’album ormai completato di Lennon: «Valotte» e «Too Late For Goodbyes». Sarebbero stati girati in tre giorni in un piccolo studio a nord dello stato di New York. Peckinpah sarebbe stato pagato 10.000 dollari.
Lewis voleva tenere i video sul semplice – nessun artificioso spettacolo pirotecnico all’avanguardia, semplicemente Julian in uno studio di registrazione che suonava le sue canzoni. La sfida, per Peckinpah, sarebbe stata quella di tirare fuori l’introversa personalità del giovane cantante e catturarla su pellicola. Deluso dal modo in cui Lennon aveva affossato il progetto del documentario, ma bisognoso di tornare dietro alla macchina da presa, Sam accettò l’incarico con sentimenti non poco contrastanti. «Sam non aveva mai guardato MTV», dice Carol O’Connor. «Considerava ridicola l’idea di fare un film di due minuti, ma io sentivo che era anche un po’ intrigato». «Sam mi chiamò», racconta Lou Lombardo. «Era a New York per i video musicali di Lennon. Dovevano girare il giorno dopo ed era incredibilmente depresso. Mi disse: “Merda, amico. Odio stare qui e non so che cazzo sto facendo”. Gli dissi: “Ascoltami, Sam. L’hai inventata tu quella roba. Ricordi le sequenze in fermo immagine in “The Losers”? La prima volta che le ho viste sono caduto dalla sedia. Vai e fallo. Fai quello che hai inventato”». Quando Sam mise piede nello studio come un torero nell’arena, la paura lo abbandonò e i vecchi istinti si fecero avanti. Questo era il suo lavoro, lo conosceva bene, lo sapeva fare. La vecchia concentrazione lo colmò di sé per l’ultima volta, e nei successivi tre giorni lavorò con costanza, l’ultima sera fino alle tre del mattino. «Quando stavamo girando “Too Late For Goodbyes”, Sam scovò una porticina dietro la band, sul retro del palco, che trovò potesse essere interessante», ricorda Lewis. «Fece rimuovere la porta e piazzare una luce quasi celestiale, intensa. Fece mettere Moses Pendleton, un eccellente ballerino moderno e amico stretto di Julian, nel passaggio. Fece una serie di brevi riprese, che in fase di montaggio distribuì in tutto il video, nelle quali Moses ballava dentro e fuori dal passaggio. Moses faceva movimenti ideati da lui, con Sam che gli suggeriva: “Puoi fare una cosa divertente?”, “Puoi fare una cosa triste?” Era un misto di danza e mimo. Poi Sam riprese le
reazioni di Julian alla cosa, portandone così alla luce la personalità». Nessuno notò che Pendleton somigliava incredibilmente a John Lennon finché Peckinpah non montò il video in uno studio di Manhattan; dopodiché nessuno riuscì più a non notarlo. Peckinpah aggiunse un’ulteriore dimensione associativa con il testo della canzone grazie al modo in cui frappose i primi piani di Lennon con quelli di Pendleton. «Diede al video una consistenza quasi onirica», dice Lewis. «Lo portò a un altro livello». Sam montò i due video in tre giorni; la pellicola da 35mm era stata trasferita su videocassetta per beneficiare della nuova attrezzatura di montaggio computerizzata che molti registi ormai usavano. La tecnologia aveva fatto grandi passi avanti da quando Peckinpah aveva realizzato il suo primo rozzo cinescopio, Portrait of a Madonna. I nuovi macchinari non lo intimidivano, ma lo riempivano di entusiasmo. Lewis ricorda Sam che ballava una giga passando da una cabina di montaggio all’altra, mentre supervisionava i montaggi dei due video contemporaneamente. Lewis portò il prodotto finito agli uffici della Charisma a Londra a metà ottobre. La reazione fu estatica. I video andarono in onda proprio mentre l’album di Lennon arrivava nei negozi e il disco scalò le classifiche. Lewis chiamò Martin Baum per dargli la notizia. «Sam deve essere molto orgoglioso di sé, i video musicali sono ovunque sulle televisioni inglesi e americane, la gente sta impazzendo! La carriera di Julian è decollata». Non erano Sfida nell’Alta Sierra, Il mucchio selvaggio o La ballata di Cable Hogue, ma i video manifestavano un quieto lirismo e un acuto occhio per le sfumature di cui i suoi detrattori non lo avrebbero mai creduto capace. Però non erano abbastanza per Sam. Il grande schermo, le tele enormi – era lì che desiderava stare. Non poteva più varcare i cancelli degli studios di Hollywood, perciò dovette cercare accordi con produttori indipendenti o stranieri – aspiranti magnati della cinematografia che novantanove volte su cento non riuscivano
a raccogliere i soldi quando arrivava il momento di partire con la preproduzione. Ma Sam trovò finalmente un gruppo di produttori indipendenti a San Francisco che almeno avevano i soldi (25.000 dollari) per pagargli la riscrittura di una sceneggiatura che volevano anche che dirigesse. Si intitolava On the Rocks. Prodotto di vari autori che un giorno si erano detti «ehi, gente, facciamo un film», si trattava di un complesso melodramma su bande di strada rivali che lottano per il controllo dell’isola di Alcatraz, usata per il traffico di droga e una varietà di altre efferate imprese. Peckinpah cercò disperatamente di trasformarlo in qualcosa di concreto. «Lavorò fino allo sfinimento a quel copione», dice Carol O’Connor. «Lavorava fino alle due del mattino e io lo aiutavo. Aveva bisogno di qualcuno da cui prendere idee, che gli desse dei consigli». Lo stress e l’intensa intimità della loro collaborazione fecero emergere ombre dalla psiche di Peckinpah, per la prima volta nella loro relazione. All’improvviso diventava agitato, consumava il pavimento mentre ammetteva che non aveva mai creduto di potersi innamorare così profondamente alla sua età. Aveva perso ogni desiderio di andare a letto con un’altra donna; lo aveva reso monogamo. «Mi stai trasformando in un monaco!» Abbozzò un sorriso, ma prese una rivista e la lanciò dall’altra parte della stanza mentre lo diceva. «Non devi arrabbiarti per questo, dovresti essere felice. È ciò che succede in una relazione matura». Non le rispose. Si mise invece a parlare delle altre donne della sua vita, di come tutte lo avessero tradito e di come alla fine anche lei avrebbe fatto lo stesso. Cominciò a interrogarla su scenari ipotetici. «Se dovessi andare fuori città per un film per tre mesi e tu incontrassi un uomo molto attraente, pensi saresti tentata di…» «Sam, dai…» Il ritmo della sua camminata accelerò. «Se cominci a frequentare qualcun altro, non voglio saperlo».
«Gli dissi che non desideravo frequentare altri che lui», racconta la O’Connor, «che era ridicolo, che ero innamoratissima. Ma non gli bastava. Non ero davvero io il problema, ma il suo passato». La O’Connor stava cominciando a perdere clienti nel suo salone perché si prendeva troppi giorni liberi per aiutare Sam a riscrivere On the Rocks. Sam insisteva che lasciasse il suo esercizio per lavorare per lui come sua assistente. Le avrebbe corrisposto la stessa entrata che le procurava il salone – 600 dollari. «Senti, già lavori per me. Perché non essere pagata per farlo? Vuoi diventare una scrittrice o tagliare capelli per tutta la vita? Ti sto offrendo un’opportunità». Carol continuava a rifiutare; non voleva diventare dipendente da lui, ma alla fine cedette e andò a lavorare per Peckinpah a tempo pieno. Poi stette male. Problemi da donna. Sam andò a trovarla nel suo appartamento a Beverly Hills con una grande limousine bianca, le portò una bellissima sciarpa e restò per un paio di giorni, occupandosi teneramente di lei per farla rimettere. Una sera restarono svegli a parlare fino a tardi e all’improvviso Sam virò verso le tenebre. Partì con un’altra litania di tutte le sue storie d’amore andate in pezzi. Mentre trascinava ogni scheletro fuori dall’armadio, la rabbia aumentava. Camminava avanti e indietro, sbatteva porte, lanciava cose. Carol non lo aveva mai visto così. Tutti i tradimenti, diceva, tutte le volte che le donne lo avevano ferito e usato gli davano la nausea. Bugiarde, sono tutte bugiarde! All’improvviso si avventò su di lei con gli occhi di un feroce rottweiler: «Non sei migliore delle altre! Sei una puttana come loro! Non avresti mai dovuto accettare quel primo assegno! Non credevo lo avresti fatto!» Un fremito la percorse. Sam sapeva che lei non voleva essere dipendente da nessuno, sapeva quanto fosse combattuta all’idea di lasciare il suo lavoro. Non riusciva a credere che le avesse sferrato un colpo così basso. «Te ne devi andare!», urlò, con un grado di rabbia che sorprese lei per prima. Gli occhi di Sam si spalancarono. «Non puoi dirmi questo», ribatté. Le sue parole avevano un doppio significato.
Lavori per me adesso. «Vattene!» «Non puoi cacciarmi». «Te ne devi andare. Subito!» Carol andò in cucina e chiamò un taxi. «Un taxi ti verrà a prendere all’ingresso», disse, raccogliendo le sue cose e ammucchiandole accanto alla porta. Si rappacificarono due settimane dopo. Sam le disse che gli dispiaceva. Non pensava nessuna delle cose che le aveva detto. Erano stati i suoi demoni a parlare. Doveva perdonarlo. Confessò di essere rimasto spaventato dalla rabbia di lei. «Non voglio vederti mai più così arrabbiata», le disse. «Allora non parlarmi mai più così», replicò Carol. Passarono il weekend del 5 dicembre insieme a Malibu e organizzarono una gita a Palm Springs per il 14. Ma Sam la chiamò qualche giorno dopo e annullò. «Sam, non farlo. Abbiamo bisogno di cambiare aria per un po’». «No, non posso», disse freddamente. Poi sganciò la bomba. «Bonnie torna a lavorare per me» – si riferiva a Bonnie Engels, un’ex segretaria che era stata anche una sua amante. La notizia fece crollare Carol. Una settimana dopo la chiamò di nuovo, questa volta dispiaciuto. «Ti amo», le disse. «Anche io ti amo, ma tu mi ferisci, Sam». La sua voce divenne quasi un sussurro. «Ti amo e ti lascerò in pace». «Quelle furono le ultime parole che mi disse», ricorda la O’Connor. Quando Kristen aprì la valigetta del padre dopo la sua morte, trovò tutte le lettere d’amore di Carol, ogni messaggio telefonico che gli aveva lasciato in hotel o in ufficio, ogni biglietto mandato con i fiori.
Sam aveva perso la sua amata e la sua collaboratrice, così prese il telefono e chiamò il suo vecchio partner di scrittura. «Vieni», disse a Silke, «voglio che mi aiuti a scrivere questo copione, On the Rocks». «Mi diede questa cosa», ricorda Silke, «e uno dei personaggi principali si chiama Silke – un vecchio veterano dell’esercito che è il capobanda di una delle gang. Non potevo dire di no». Così Jim fece di nuovo quella gita, da Northridge scavalcando le Santa Monica Mountains fino a Malibu, a quella minuscola roulotte sgangherata. Appena vi mise piede, Sam disse: «Andiamo a fare la spesa». Oh, Cristo!, pensò Silke mentre lo seguiva verso la Lincoln color crema. «Non ne parlammo mai», dice, «ma facemmo esattamente quello che avevamo fatto quando cominciammo a scrivere insieme. Guidammo fino a Point Dume e andammo al supermercato. Io presi il pane bianco, il burro d’arachidi, il caffè e i filtri, Sam prese la carne e litigammo per quale gusto di gelato prendere. Non accennammo neanche una volta a cosa stavamo facendo. Tornai indietro, misi le provviste sullo scaffale, preparai il caffè e poi ci sedemmo e parlammo per due ore. Gli dissi cosa non funzionava nel copione e mi ascoltò per la prima e unica volta in assoluto. Me ne andai e mentre guidavo verso casa Sam chiamò mia moglie, Lyn, e restò a parlare con lei per quarantacinque minuti dei vecchi tempi». La volontà di immergersi e cercare i suoi demoni per combatterli sulla carta era ancora lì, la volontà di scrivere e riscrivere, di spingere e tirare e «andare oltre», di trovare la verità, la sua verità, e raccontarla, senza curarsi di quanto potesse apparire distorta e sgradevole, di votarsi completamente alla sola cosa che era ancora sacra per lui. La volontà c’era, ma non i mezzi. Il corpo minuto che aveva sopportato decenni di abusi cominciò alla fine ad abbandonarlo.
Per quel Ringraziamento Fern Lea lo invitò a casa sua. Molti della vecchia banda sarebbero stati lì – Joe Bernhard, Max Evans, Gill Dennis e Kristen. Ma Sam rifiutò l’offerta, non perché fosse ubriaco o arrabbiato, ma perché non aveva più energie. Max Evans andò giù alla roulotte, trascorse un paio d’ore con Sam e per l’ultima volta gli propose una trattativa per i diritti cinematografici di Hi-Lo Country e diversi altri suoi romanzi (l’opzione di Sam su Hi-Lo Country era scaduta). «Ricordo i suoi occhi l’ultima volta che l’ho visto», racconta Evans. «Avevamo parlato per un paio d’ore di qualsiasi argomento, le piccole cose, come stavano i nostri figli, quali sono le cose davvero importanti, ma che perdiamo sempre di vista. Mentre andavo via, ho aperto la porta, mi sono girato e ho guardato dritto in quei vecchi occhi. Era in piedi in mezzo alla roulotte, tutto solo. Mi sentii come se fossimo due vecchi ragazzi che dovevano andare in battaglia sapendo che sarebbero certamente morti, ma dovevano andare comunque. È stato un cazzo di momento straziante. Nella breve distanza che ci separava, solo sette o otto passi, vidi e sentii tutto quello che aveva vissuto quell’uomo. Provai tutte le sue pene, gli amori perduti, la brama per quegli amori, il desiderio di una stabilità che la sua anima tormentata non gli avrebbe mai lasciato avere, lo speciale tormento della sua anima creativa – vidi tutto questo e provai tutto questo. Quel momento sembrò durare ore, eppure fu più breve di un sospiro». Il rapporto di Sam con Mathew era cambiato radicalmente nell’ultimo anno. Uscito dai marines, Mathew stava frequentando moltissimi corsi al Santa Monica College, oltre a lezioni speciali per imparare a tenere sotto controllo la dislessia. Lo si poteva trovare il fine settimana nella roulotte a Malibu, sempre più spesso, in compagnia del padre. «Per la prima volta nei nostri dieci anni di conoscenza», afferma Garner Simmons, «Sam e Mathew avevano un vero rapporto. Si trattavano come esseri umani, non come proiezioni delle
proprie paure e aspettative. Il cambiamento era stato notevole». «Sembrava che avessimo davvero chiarito le nostre divergenze, sotto diversi aspetti», sostiene Mathew. «Riuscivamo a relazionarci l’uno con l’altro più onestamente che mai. Era fiero di me perché ero tornato a studiare. Cercava con tutte le sue forze di non essere un pazzo ribelle, il selvaggio figlio di puttana che era stato in passato. Mi chiamava nel cuore della notte, a volte, e diceva: “Ti ricordi quella volta nella baita in Montana quando ti dissi quella cosa?” Era qualcosa che aveva detto anni prima, quando era incazzato. Non me ne ricordavo neanche più. Disse: “Voglio solo che tu sappia che non lo pensavo veramente. Mi spiace di averlo detto”. Lo ha fatto varie volte». Mentre si avvicinava il Natale, Peckinpah sprofondò nella sua solita depressione. Dopo aver distrutto la sua relazione con Carol, decise di volare a Città del Messico per trascorrere le festività con Bego e Lupita. «Tornava sempre da Bego», dice Jim Silke. Mathew sarebbe volato a San Francisco per unirsi a sua madre, Melissa e i suoi cugini. Chiamò suo padre a Malibu qualche giorno prima che entrambi partissero. Sam cominciò uno dei suoi soliti monologhi alla «sono così depresso, odio il Natale», ma la sofferenza nella sua voce aveva un risvolto ancora più tagliente che in passato. Tutti i rimpianti taciuti, le infinite perdite e i desideri disperati erano presenti anche se non espressi a parole. Alla fine, Mathew lo interruppe gentilmente. «Be’, diavolo, se decidiamo di voler proseguire in questa vita, dobbiamo accettare il punto in cui ci troviamo e andare avanti». Sam si ammutolì per un momento, poi disse piano: «Hai ragione. È quello che mi diceva sempre mio padre». Così Mathew andò a nord e suo padre a sud, a Città del Messico da Bego. Ma non ci arrivò mai. Si fermò prima a Puerto Vallarta per vedere il fratello di Bego, Juan José, e fu improvvisamente colto da forti dolori al petto. Bego volò
immediatamente a Puerto Vallarta per stare con lui e fu organizzato un charter per portarlo a Los Angeles, dove fu ricoverato d’urgenza in terapia intensiva al Centinela Hospital. Fern Lea e Walter Peter arrivarono poco dopo il ricovero di Sam. I dottori dell’unità di terapia intensiva dissero loro che non sapevano ancora quale fosse il suo problema. Volevano fare degli esami, ma non credevano che potesse sopportarne lo stress, per cui per il momento stavano cercando di stabilizzarlo. «Non è collaborativo», disse il dottore. «Abbiamo bisogno della sua collaborazione se dobbiamo aiutarlo. Potete parlare con lui?» Fern Lea entrò nella stanza e trovò suo fratello disteso nel letto, con le lenzuola alla vita e i cavi dell’ECG attaccati al petto. Sotto le lenzuola, le sue gambe si muovevano come se stesse pigiando sui pedali di una bicicletta – pedalava, pedalava, pedalava, ma senza andare da nessuna parte. Non sembrava che si rendesse neppure conto di farlo. «Era confuso e spaventato», racconta Fern Lea. «Non aveva capito cosa stava succedendo. Mi guardò e disse: “Non mi sento bene”». «Sam, il dottore ha detto che non stai collaborando», disse Fern Lea. Le rivolse uno dei suoi stupiti, innocenti sguardi da bambino. «Farò tutto quello che vogliono», rispose. «Be’, dovrai farlo, perché vogliono farti degli esami». «Possono fare tutto quello che vogliono». Poi si rivolse di nuovo verso Begonia, che era rimasta al suo fianco da quando avevano lasciato Puerto Vallarta. «Non riesco a dormire, voglio dormire. Prendi il Seconal, è nella mia valigetta». Fern Lea lanciò un’occhiata di avvertimento a Bego, che la colse e fece la finta tonta. «Uh, non so dove sia la tua valigetta, Sam. Devo cercarla». «Gli dissi che gli volevo bene e ce ne andammo», dice Fern Lea. «Mi guardò con un’espressione perplessa. Aveva paura, era terrorizzato. Me ne andai convinta che lo avrei rivisto la mattina seguente. Mi chiamarono dall’ospedale alle
sette e mi dissero: “Ha avuto un grave infarto, ma lo abbiamo stabilizzato”». Quando mise piede nella sala d’aspetto dell’unità di terapia intensiva un’ora dopo, Begonia si alzò da una delle sedie e scoppiò a piangere. «Non capisco. Samuel es muy fuerte! Perché non ce la farà?» I peli si rizzarono dietro il collo di Fern Lea. «Cosa stai dicendo?» «Il dottore dice che non sopravvivrà!» «Vorrei tanto essermi precipitata nel reparto di terapia intensiva per stare con lui», dice Fern Lea. «Non so se mi avrebbero lasciata entrare. Ma morì solo… Corsi a chiamare Walter al suo ufficio. Mi disse che non mi stavo spiegando, ma io gli intimai “Vieni qui! Non ce la farà!” Tornai e Sam se ne era andato. Dissero che lo avrebbero pulito e poi sarei potuta entrare a vederlo». Fern Lea e Bego entrarono nella sua stanza qualche minuto dopo e Bego scoppiò in urla isteriche. Fern Lea, cresciuta in un clan che predicava il controllo delle emozioni come segno di buon carattere, restò scioccata a quella vista. Guardò il corpo che giaceva immobile e raggrinzito sulle bianche lenzuola. Non è morto, ricorda di aver pensato. Ora si alzerà e dirà: «Fern Lea, portami via da questo cazzo di posto!» Ma Sam non si tirò su a sedere, e Fern Lea vide come il colore avesse abbandonato il suo viso, come la bocca restasse aperta, vuota in un modo strano, e capì che non si sarebbe mai più seduto. Si sentì dire: «Ora i tormenti sono finiti. Sei in pace». I suoi effetti personali erano stati sistemati sul letto. Fern Lea prese la sporca giacca bianca scamosciata che aveva indossato quasi sempre negli ultimi anni. Frugò nelle tasche e trovò venti dollari e mezzo pacchetto di mentine Certs. Bobby Visciglia rispose al telefono di casa sua verso le dieci del mattino del 28 dicembre. Era Walter Kelley. «Sam è morto
questa mattina», disse con voce rotta. Il ricevitore si congelò sul viso di Bobby. Come cazzo ha osato farlo, pensò. Riattaccò e la sua mente tornò attraverso gli anni all’ultimo giorno di riprese della Croce di ferro, un giorno triste per qualunque film perché la strana famiglia di attori, di macchinisti e di addetti al trucco, ai costumi e alle cineprese si divide e si sparpaglia, per non riformarsi mai più. «È una cosa che odio», dice Visciglia. «Odio le feste di fine riprese; non ci vado mai perché sembrano sempre una cazzo di veglia funebre. Quando un film finisce, tutto muore. Non vedrai mai più quelle persone». Avevano appena terminato l’ultima sequenza del film, quella in cui James Coburn e Maximilian Schell scappano attraverso una stazione di smistamento in rovina tra file di vagoni merci in fiamme. Il fumo grigio-nero aleggiava corposo nell’aria, mentre il cielo sovrastante volgeva verso il crepuscolo. I macchinisti caricarono le cineprese e le luci nei camion, gli attori e i membri della troupe si affrettarono tra i binari arrugginiti con le loro valigie, correndo a prendere i mezzi per l’aeroporto, mentre le loro voci riecheggiavano contro le rotaie d’acciaio come sull’acqua: «Quale volo prendi?», «Fai scalo a Parigi o vai direttamente a Londra?» Un centinaio di metri più giù, tra i fumanti carri merci, Peckinpah e Visciglia sedevano su una rotaia d’acciaio, sorseggiando entrambi una bottiglia di slivovitz. I volti macchiati dal fumo, gli abiti sporchi di ruggine, i capelli arruffati, sembrava fossero loro quelli appena tornati dal fronte russo. Non si scambiarono una parola mentre i passi e i gridolini si affievolivano e il sole sprofondava dietro le colline in lontananza. Alla fine, Peckinpah posò la sua bottiglia, si girò verso l’attrezzista e disse: «Domani, per la mia prima ripresa, voglio due cineprese, una lì, con una lente lunga, e un’altra laggiù. Voglio…» Continuò ancora per molto con la sua descrizione di un’immensa scena di battaglia che non avrebbe mai avuto luogo. «A questo pensai quando ricevetti la telefonata di Kelley», dice Visciglia, la voce generalmente insolente ora
abbassata in un mormorio contemplativo. «Vedete, non c’era mai una fine per Sam, il film non finiva mai. Dovevi lottare per togliergli la cinepresa». Fu organizzato un tributo al Directors Guild Theatre su Sunset Boulevard. Troupe televisive e trecentocinquanta fan e sopravvissuti – attori, sceneggiatori, tecnici del montaggio, attrezzisti, persino qualche produttore – si riunirono lì per l’ultimo raduno di un clan selvaggio, leale e pericoloso quanto quello dei fratelli Hammond. Don Siegel, L.Q. Jones, Brian Keith, Lee Marvin, Jason Robards, Mariette Hartley, Walter Peter e Kris Kristofferson salirono tutti sul palco per raccontare storie su Peckinpah, per leggere poesie o cantare canzoni su un uomo che tutti loro avevano amato. Denny Peckinpah non riuscì a far fronte a tutte quelle emozioni e restò nel parcheggio durante tutta la funzione, ciucciando una bottiglia di whisky. «Credo che il vero miracolo sia stato già solo riuscire a portarli a termine [i suoi film], dati gli ostacoli imposti a una forza creativa – e lui era davvero una forza della natura, non c’è altra spiegazione – che era costantemente e diametralmente opposta all’establishment», disse Robert Culp quando guadagnò il podio. «È sorprendente che Il mucchio selvaggio e tutti gli altri suoi lavori esistano. Assolutamente sbalorditivo che sia riuscito a crearli. Credo che dovremmo aggrapparci a questo, anziché dire: “Dio, vorrei che ne avesse fatto un altro, o due”, o cose del genere. Semplicemente ringraziamolo e ringraziamo quell’incredibile, selvaggia, ardente volontà di ferro che glieli ha fatti creare, ringraziamo per averlo conosciuto». Una settimana prima c’era stata un’altra funzione, più privata. Una nuvolosa mattina, molto presto, Fern Lea, Kristen, Gill Dennis, Melissa e Sharon con la sua famiglia restarono in piedi sulla riva sabbiosa di Paradise Cove guardando Mathew e Walter Peter remare su una barca contro i cavalloni. Remavano sulle acque in cui Sam si era immerso, su cui aveva veleggiato e surfato. Cinquecento metri oltre le verdi, ondulate distese di alghe, tirarono dentro i remi e
scivolarono verso un punto fermo. Mathew aprì l’urna e versò le ceneri su un’onda in movimento. Poi insieme sparsero sulla superficie dell’acqua petali di fiori e delle rose gialle a stelo lungo inviate da Joie Gould.
NOTE
Sfortunatamente, lo spazio non permette una lista completa di tutte le fonti di informazione a cui si è attinto per questo libro. Il seguente è un breve sommario delle più importanti. Prologo Le fonti per la descrizione delle anteprime del Mucchio selvaggio a Kansas City e nelle Bahamas comprendono documenti di produzione conservati dalla Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Lou Lombardo, Phil Feldman e Roger Ebert; Chris Hodenfield, «Sam Peckinpah Breaks a Bottle», Rolling Stone, 31 maggio 1971; Aljean Harmetz, «Man Was a Killer Long Before He Served a God», The New York Times, 31 agosto 1969; Jeff Milan, «Peckinpah Gets Nonviolent (Off-screen)», Los Angeles Times, 21 maggio 1972; Daily Variety, 7 maggio 1969. Le fonti per i commenti sull’importanza di Peckinpah come cineasta comprendono interviste condotte dall’autore con Paul Schrader, Martin Scorsese, Gill Dennis e Ken Kesey; Kathleen Murphy, «Sam Peckinpah: No Bleeding Heart», Film Comment, 1985; Paul Schrader, «Sam Peckinpah Going to Mexico», Cinema, vol. 5, n. 3, 1969; una recensione di Cane di paglia di Stephen Farber, Cinema, 1971; Dan Yergin, «Peckinpah’s Progress: From Blood and Killing in the Old West to Siege and Rape in Rural Cornwall», The New York Times Magazine, 31 ottobre 1971. Capitolo 1 Le fonti per la storia delle famiglie Peckinpah e Church e per l’infanzia di Sam Peckinpah comprendono lettere e diari di Louise e Denver Church, di David e Fern Peckinpah, di Sam e Fern Lea Peckinpah; materiali di ricerca e corrispondenza nella Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Denver Peckinpah, Bob Peckinpah, Betty Peckinpah, Camille Fielding, Joe Bernhard, Don Levy, Doris Roullard, Earlene Heafey, Tom Mullins, Marie Selland, Walter Harpain e Ed Klippert; William Murray, «Playboy Interview: Sam Peckinpah», Playboy, vol. 19, n. 8, agosto 1972. Per gli anni di Peckinpah all’accademia militare San Rafael, le fonti comprendono interviste condotte dall’autore con John Breed, Fern Lea Peter, Marie Selland e le lettere e i diari di Fern e David Peckinpah.
Per gli anni di Peckinpah nel Corpo dei marines, le fonti comprendono i diari e le lettere di Fern, David e Sam Peckinpah; interviste condotte dall’autore con Denver Peckinpah, Fern Lea Peter, Susan Peckinpah, Craig Carter, James Weddle, Leo Cardarelli, Mike Fitzgerald, Mike Zownir, Tom Dowlearn e Marie Selland; P. F. Kluge, «What Price Violence», Life, 11 agosto 1972; Joyce Haber, «Sam Peckinpah: Hawk of American Directors», Los Angeles Times, 1972. Capitolo 2 Le fonti per gli anni di Peckinpah al Fresno State College comprendono le lettere e i diari di David, Fern e Sam Peckinpah; gli archivi della Cal State Fresno University; interviste condotte dall’autore con Denver Peckinpah, Fern Lea Peter, Marie Selland, Susan Peckinpah, Marian Dysinger, Vern Selland, Howard Campbell, Dick Lewis, George Zenovich, Dave Parker, William Walsh, Wanda Dove, Jim Baker, Merlyn Burris e Don Levy. William Murray, «Playboy Interview: Sam Peckinpah», Playboy, vol. 19, n. 8, agosto 1972; John Bryson, «The Wild Bunch in New York», New York Magazine, 19 agosto 1974. Per gli anni di Peckinpah alla USC e al Teatro Civico di Huntington Park le fonti comprendono le lettere e i diari di Fern, David e Sam Peckinpah e Marie Selland; interviste condotte dall’autore con Fern Lea Peter, Marie Selland, Don Levy, George Pappas, Rory Guy, Marvin Kaplan, Adele Cook, Don Stoutenborough, Lola Owensby e Nanette Flynn; un’intervista condotta da Paul Seydor con James Butler. Capitolo 3 Le fonti per la sezione sulla perdita del Dunlap Ranch comprendono i diari e le lettere di Denver e Louise Church; interviste condotte dall’autore con Ed Klippert, Susan Peckinpah, Fern Lea Peter, Marie Selland; un’intervista con Sam Peckinpah condotta da John Bryson nel 1972. Le fonti per la sezione sugli anni di Peckinpah alla Allied Artists comprendono le lettere di Sam Peckinpah e Marie Selland; interviste condotte dall’autore con Marie Selland, Fern Lea Peter e Charles Marquis Warren; l’elogio di Don Siegel alla cerimonia commemorativa per Sam Peckinpah nel gennaio del 1985; «Shoot! Sam Peckinpah Talks to John Cutts», Films and Filmmaking, vol. 16, n. 1, ottobre 1969. Le fonti per la vita al capanno Quonset comprendono interviste condotte dall’autore con Marie Selland, Kristen Peckinpah, Walter e Fern Lea Peter, Jeanette Garriss, Nancy Galloway, Frank Kowalski, Rudy Behlmer, John Langdon e George Zenovich. Le fonti per i primi anni di Peckinpah come sceneggiatore e regista tv comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Marie Selland, Nancy Galloway, Charles Marquis Warren, Adele Cook, Gay Hayden, Michael Ansara, John Lupton, Jules Levy, Arthur Gardner, Arnold Laven, Joe Mazzuca, Robert Heverly, Chuck Connors, Don Levy, Jack Curtis e Mike Klein; «Shoot! Sam Peckinpah Talks to John Cutts», Films and Filmmaking, vol. 16, n. 1, ottobre 1969; William Murray, «Playboy Interview: Sam Peckinpah», Playboy, vol. 19, n. 8, agosto 1972.
Le fonti per la sezione sulla vita nella Colonia di Malibu comprendono interviste condotte dall’autore con Marie Selland, Kristen e Melissa Peckinpah, Walter e Fern Lea, Frank Kowalski, Robert Culp, Brian Keith, Paul Stader, Norman Powell, Nancy Galloway e Denver Peckinpah. Capitolo 4 Le fonti per gli anni di Peckinpah come sceneggiatore-regista per The Rifleman e The Westerner comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Jules Levy, Arthur Gardner, Arnold Laven, Frank Baur, Brian Keith, David Levy, Jack Curtis, Robert Heverly, Norman Powell, Jim Silke e L.Q. Jones; l’intervista di Sam Peckinpah davanti al pubblico della Seattle Film Society il 19 luglio 1978; Richard Whitehall, «Talking with Peckinpah», Sight and Sound, vol. 38, n. 4, autunno 1969. Le fonti per la sezione sulla disintegrazione del matrimonio di Peckinpah con Marie Selland comprendono lettere e diari di David, Fern e Sam Peckinpah; interviste condotte dall’autore con Marie Selland, Fern Lea e Walter Peter, Kristen e Melissa Peckinpah, Brian Keith, Robert Heverly, Joe Bernhard, Bob Peckinpah, Chalo Gonzalez, Joie Gould; P.F. Kluge, «What Price Violence», Life, 11 agosto 1972. Le fonti per la sezione su La morte cavalca a Rio Bravo e Sfida nell’Alta Sierra comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Brian Keith, Maureen O’Hara, Charles FitzSimmons, Gay Hayden, Mariette Hartley, Hal Polaire, L.Q. Jones, R.G. Armstrong, Peter McCrea, Cleo Anton, James Drury; Sam Peckinpah’s West, un documentario prodotto da Joel Reisner per radio KPFK; William Murray, «Playboy Interview: Sam Peckinpah», Playboy, vol. 19, n. 8, agosto 1972; Richard Whitehall, «Talking with Peckinpah», Sight and Sound, vol. 38, n. 4, autunno 1969; Paul Schrader, «Sam Peckinpah Going to Mexico», Cinema, vol. 5, n. 3, 1970. Capitolo 5 Le fonti per la sezione sugli anni di Peckinpah alla Bird View House comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Walter e Fern Lea Peter, Jim e Lyn Silke, Max Evans, Begonia Palacios, Kristen e Melissa Peckinpah, Joe Bernhard e Suzanne Peter. Le fonti per la realizzazione di Sierra Charriba comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Charlton Heston, John Veitch, John Dutton, Jim Silke, Oscar Saul, R.G. Armstrong, James Coburn, Ben Johnson, L.Q. Jones, Gordon Stulberg, Gordon Dawson, Senta Berger, Forrest Wood, Whitey Hughes, Hal Needham, Begonia Palacios e Howard Kunin; Charlton Heston, The Actor’s Life: Journals 1956 – 1976; Sam Peckinpah’s West, un documentario prodotto da Joel Reisner per radio KPFK; Richard Whitehall, «Talking with Peckinpah», Sight and Sound, vol. 38, n. 4, autunno 1969; Stephen Farber, «Peckinpah’s Return», Film Quarterly, vol. 23, n. 1, autunno 1969. Le fonti per la realizzazione di Cincinnati Kid comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Martin
Ransohoff, John Calley, Ring Lardner Jr., Jim Silke, L.Q. Jones, Philip Lathrop, E. Jack Neuman, Austen Jewell, Robert Schiller e John Veitch. Capitolo 6 Le fonti per gli anni di Peckinpah a Broad Beach comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Martin Baum, Elliot Silverstein, Reza Badiyi, L.Q. Jones, Begonia Palacios, Kristen, Melissa e Mathew Peckinpah, Jim e Lyn Silke, Walter e Fern Lea Peter, Marie Selland e Norman Powell. Le fonti per la realizzazione di «Noon Wine», «That Lady Is My Wife» e Viva! Viva Villa! comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Daniel Melnick, Reza Badiyi, Jason Robards, Harry Sherman, Clair McCoy, Camille Fielding, Susan Peckinpah, Jeannot Szwarc, Begonia Palacios e James Coburn; Sam Peckinpah’s West, un documentario prodotto da Joel Reisner per radio KPFK. Le fonti per la rottura del matrimonio di Peckinpah con Begonia Palacios comprendono interviste condotte dall’autore con Begonia Palacios, Walter e Fern Lea Peter, Chalo Gonzalez, Kristen, Melissa e Mathew Peckinpah, Max Evans, Jim e Lyn Silke, Robert Schiller, Phil Feldman e Ken Hyman. Capitolo 7 Le fonti comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Ken Hyman, Phil Feldman, Jim Silke, Gay Hayden, Jaime Sanchez, Ben Johnson, Teddy Oates, L.Q. Jones, Bo Hopkins, Jorge Russek, Alfonso Arau, Chalo Gonzalez, Gordon Dawson, Howard Kazanjian, Rudi Fehr, Lou Lombardo, Cliff Coleman, James Dickey, Fred Gammon, Helen Martin, Paul Harper, Gill Dennis, Camille Fielding, Ann Godoff, Martin Scorsese, John Milius, Alex Cox, Ron Shelton, Robert Schiller e Kip Dellinger; un’intervista condotta da Paul Seydor con Jerry Fielding nel 1977; William Murray, «Playboy Interview: Sam Peckinpah», Playboy, vol. 19, n. 8, agosto 1972; Chris Hodenfield, «Sam Peckinpah Breaks a Bottle», Rolling Stone, 31 maggio 1971; Aljean Harmetz, «Man Was a Killer Long Before He Served a God», The New York Times, 31 agosto 1969; Dan Yergin, «Peckinpah’s Progress: From Blood and Killing in the Old West to Siege and Rape in Rural Cornwall», The New York Times Magazine, 31 ottobre 1971; Stephen Farber, «Peckinpah’s Return», Film Quarterly, vol. 23, n. 1, autunno 1969; Paul Schrader, «Sam Peckinpah Going to Mexico», Cinema, vol. 5, n. 3, 1969; Sam Peckinpah’s West, un documentario prodotto da Joel Reisner per radio KPFK; l’intervista di Sam Peckinpah davanti al pubblico della Seattle Film Society il 19 luglio 1978. Capitolo 8 Le fonti per gli anni di Peckinpah alla Warner Bros. e per la realizzazione della Ballata di Cable Hogue comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Nancy Galloway, Gay Hayden, Terra Waters, Frank Kowalski, Gill Dennis, Jim Silke, Jason Robards, John
Crawford, Edmund Penney, Bobby Visciglia, L.Q. Jones, Gordon Dawson, Gary Weis, Stella Stevens, Lou Lombardo e Walter Peter. Le fonti per la realizzazione di Cane di paglia comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con James Dickey, John Milius, Daniel Melnick, Martin Baum, Joe Bernhard, Gill Dennis, Walter Kelley, Katy Haber, James Swann, Joie Gould, Susan George, Peter Vaughan, Del Henney, Ken Hutchison, Kristen Peckinpah, Tony Lawson, Paul Davies, Roger Spottiswoode, Garth Craven; William Murray, «Playboy Interview: Sam Peckinpah», Playboy, vol. 19, n. 8, agosto 1972; Ray Loynd, «The Ballet of Death in Sam Peckinpah», Los Angeles Herald-Examiner, 11 aprile 1974; un’intervista con Sam Peckinpah condotta da F. Anthony Macklin nel 1975; Dan Yergin, «Peckinpah’s Progress: From Blood and Killing in the Old West to Siege and Rape in Rural Cornwall», The New York Times Magazine, 31 ottobre 1971; Cahiers du Cinéma, 1982; Jeff Lenburg, Dustin Hoffman, St. Martin’s Press, 1983. Le fonti per la realizzazione dell’Ultimo buscadero e di Getaway! comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Jeb Rosebrook, Martin Baum, Katy Haber, Joie Gould, Frank Baur, James Pratt, Camille Fielding, Chalo Gonzalez, Bobby Visciglia, Robert Schiller, Kip Dellinger, Gordon Dawson, Jim Silke, David Foster, Ben Johnson, Bo Hopkins, Mike Klein, Roger Spottiswoode e Grover Levis. Capitolo 9 Le fonti comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Kris Kristofferson, Joie Gould, Katy Haber, Chalo Gonzalez, Gordon Dawson, Fern Lea Peter, Camille Fielding, Bobby Visciglia, Kip Dellinger, Frank Kowalski, James Coburn, Walter Kelley, Roger Spottiswoode, Garth Craven, Jim Silke, R.G. Armstrong, L.Q. Jones, Jorge Russek, Dan Melnick, Paul Harper, Lindsley Parsons, Lyn Silke, Mike Klein, Martin Scorsese, David Peckinpah, Jim Hamilton e Grover Lewis; interviste condotte da Paul Seydor con Gordon Carroll, Bob Wolfe e Roger Spottiswoode; un’intervista di Peckinpah davanti al pubblico del San Francisco Film Festival nel 1974; Jon Tuska, Encounters with Filmmakers: Eight Career Studies, Greenwood Press, 1991; Jan Aghed, «Pat Garrett and Billy the Kid», Sight and Sound, vol. 42, n. 2, primavera 1973; John Bryson, «The Wild Bunch in New York», New York Magazine, 19 agosto 1974. Capitolo 10 Le fonti per la realizzazione di Voglio la testa di Garcia e di Killer Elite comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Gordon Dawson, Chalo Gonzalez, Jorge Russek, Martin Baum, Frank Kowalski, Walter Kelley, Garth Craven, Katy Haber, Kris Kristofferson, Don Levy, Roger Ebert, Paul Seydor, Kip Dellinger, Garner Simmons, Ron Wright e Whitey Hughes. Le fonti per gli alterchi di Peckinpah al tributo dell’AFI a James Cagney e all’aeroporto internazionale di Los Angeles e il suo quasi annegamento nella piscina del Beverly Hilton Hotel comprendono la Sam Peckinpah Collection alla
Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Ray Bradbury, Jim e Lyn Silke, Jason Robards, Bobby Visciglia, Katy Haber e Ron Wright. Le fonti per la realizzazione della Croce di ferro e di Convoy comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Katy Haber, Ron Wright, Frank Kowalski, Walter Kelley, Jim Hamilton, Kip Dellinger, James Coburn, David Warner, Senta Berger, Murray Jordan, Bobby Visciglia, Kristen, Melissa e Mathew Peckinpah, Tony Lawson, Steven Gaydos, Kris Kristofferson, Michael Deeley, Whitey Hughes e Garth Craven. Le fonti per gli anni in Montana di Peckinpah comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Joe Swindlehurst, Kristen e Melissa Peckinpah, Gill Dennis, Ron Wright, Kip Dellinger, David Peckinpah e Jim Silke. Capitolo 11 Le fonti per la vita di Peckinpah a Malibu negli anni Ottanta comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Mathew, Kristen e Melissa Peckinpah, Ted Post, Martin Baum, Jeb Rosebrook, Garner Simmons, Gill Dennis, Walter Kelley, Fern Lea e Walter Peter, L.Q. Jones, Don Hyde e Carol O’Connor. Le fonti per la realizzazione di Osterman Weekend e dei video rock di Julian Lennon comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Alan Sharp, Kristen Peckinpah, Gill Dennis, Walter Kelley, Jim Hamilton, Lou Lombardo, David Rawlins, Martin Lewis e Martin Baum. Le fonti per gli ultimi giorni di Peckinpah, la sua morte e ciò che avvenne dopo comprendono la Sam Peckinpah Collection alla Margaret Herrick Library; interviste condotte dall’autore con Carol O’Connor, Jim e Lyn Silke, Kristen, Melissa e Mathew Peckinpah, Fern Lea e Walter Peter, Gill Dennis, Garner Simmons, Joe Visciglia, Walter Kelley, Joie Gould e la registrazione della cerimonia commemorativa tenuta per Peckinpah al Directors Guild Theatre su Sunset Boulevard.
RINGRAZIAMENTI
Questo libro è stato distillato da oltre cinquecento ore di interviste e dalla prima bozza di oltre duemilatrecento pagine. Quell’amorfa massa di ricerche non avrebbe mai potuto essere plasmata in qualcosa di leggibile senza l’aiuto di alcune persone. Innanzitutto devo ringraziare Jesse Graham che per primo mi ha convinto a scrivere questo libro e che ha trascorso molte nottate al telefono offrendomi supporto morale e opinioni. Jesse mi ha spinto costantemente a indagare più a fondo, a cercare per mare e per terra, e ha contribuito in maniera fondamentale all’ultima fase di editing. Howard Libes è l’unico essere umano ad aver letto ogni pagina del manoscritto originale. Mi ha aiutato durante il processo di editing suggerendo modi non solo per tagliare e restringere, ma per migliorare la struttura, lo sviluppo del personaggio e la prosa. Agli scrittori piace lamentarsi che non ci siano più a New York editor che editino davvero ma Anton Mueller della Grove Press ha posto fine a questo mito. Anton ha gettato quelle fondamenta che mi hanno permesso di portare il manoscritto a una lunghezza adeguata e ha mostrato un’enorme pazienza nell’aspettare, aspettare e aspettare ancora che producessi una bozza finale. Il revisore, Marc Romano, ha anche lui dato un significativo apporto grazie al suo occhio attento al dettaglio e a centinaia di suggerimenti per condensare e migliorare la struttura sintattica. La mia agente, Kristine Dahl, ha creduto in questo libro prima di chiunque altro; senza i suoi sforzi non esisterebbe. Ha demolito un altro cliché, quello dell’agente avido di denaro che si preoccupa solo di chiudere l’affare. Il tempo e l’impegno da lei spesi non potrebbero neanche lontanamente essere compensati da un mero tornaconto economico. I suoi assistenti Gordon Kato e Dorothea Herrey sono stati egualmente generosi con i loro consigli e il loro supporto. Vorrei inoltre ringraziare Greg Critser per avermi fatto conoscere Dahl, e Ann Godoff che aveva inizialmente acquistato il libro per la Atlantic Monthly Press e mi ha guidato nelle fasi di sviluppo che hanno aiutato a dare forma al prodotto finale. Non troverò mai le parole per esprimere la mia gratitudine nei riguardi della famiglia Peckinpah – Walter e Fern Lea Peter; Kristen, Melissa e Mathew Peckinpah; Marie Selland – per avermi lasciato entrare nelle loro vite, per aver resistito a ore e ore di domande, per la loro disponibilità a scavare in un passato spesso doloroso… per aver avuto fiducia in me. Un ringraziamento speciale a Gill Dennis per avermi sostenuto nei momenti più bui, e a Max Evans le cui lettere, telefonate e appassionata fiducia in questo progetto mi hanno aiutato a non perdere la speranza. E poi c’è Jim Silke, a cui sono molto grato per aver alla fine creduto in me, per le intuizioni, gli incoraggiamenti e il supporto.
La raccolta su Sam Peckinpah nella Margaret Herrick Librarydell’Accademia delle arti e delle scienze cinematografiche di Los Angeles contiene ogni foglio di produzione, copione o frammento della corrispondenza professionale e personale che Peckinpah abbia accumulato nei suoi cinquantanove anni di vita. Ho trascorso sei mesi a passare al setaccio quei documenti, con la guida di Val Almendarez, Howard Prouty e il resto dello staff della biblioteca. Tutte le registrazioni delle mie interviste e il manoscritto «non censurato» di questo libro saranno donati alla biblioteca e diventeranno parte della raccolta su Peckinpah cui futuri studiosi potranno attingere. Di tutti i libri su Peckinpah che hanno preceduto il mio, due si distinguono quali eccezionali prove di sapere: Peckinpah: The Western Films di Paul Seydor e Peckinpah: A Portrait in Montage di Garner Simmons. Essi costituiscono le basi sulle quali questo libro si erge e lo hanno influenzato in innumerevoli modi. Quella di Seydor è la più dettagliata analisi critica del lavoro di Peckinpah mai fatta, mentre Simmons offre il resoconto più completo della fase di produzione di ogni sceneggiato televisivo e film di Peckinpah. Entrambi mi hanno generosamente donato il loro tempo, i loro consigli e materiali di ricerca. Vorrei inoltre ringraziare Laura Larsen e Don Jordan per la loro preziosa assistenza con alcuni dei miei file; Nick Redman per i materiali di ricerca; Frank Kowalski per la sua grande abilità narrativa, che mi ha affascinato al punto da rappresentare il seme da cui questo libro è sbocciato; Jeff Slater per i filmati rari; Paul Joyce per aver organizzato le interviste e per il prezioso supporto economico; mio fratello James Weddle, che è entrato in ballo all’ultimo minuto e mi ha spinto a raggiungere il traguardo; Don Shay, per il materiale sulle interviste con i membri deceduti del Mucchio di Peckinpah; e i miei tirocinanti alla UCLA che hanno lavorato senza compenso e con grande entusiasmo – Josh Lobel, Shelly McCrory, Sandy Nang, Jill Le Ger, Maggie Guinn, Emily Love e Jason Shankel, che hanno condiviso preziose intuizioni sul contributo di Peckinpah alla sceneggiatura di Cane di paglia.