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Italian Pages 172 [170] Year 1999
ALESSANDRO PlROUNl
Tyrone Power e Basi! Rathbone in Il segno di Zorro (1940)
IO, ROUBEN MAMOULIAN, E :CARTE DEI MIEI FILM APPRENDIMENTO. Ho imparato lane del fìlm ogni volta che ne vedevo uno come spettatore. Ho imparato la meccanica del fare un film in cinque settimane in giro per gli studios Astoria, guardando altri registi riprendere e facendo loro delle domande. Posso dire che la maggior parte di quello che ho imparato sui film l'ho imparato a rovescio, nel senso che ho imparato cosa non fare. Riguardo a cosa fare, dovetti fidarmi del mio istinto e della mia immaginazione.
BIANCO E NERO E COLORE. La questione principale oggi è: "Durerà o non durerà il colore?': Non ho dubbi che il colore sullo schermo stia lì per rimanerci. Così come non ho dubbi che ci sarà molto scetticismo nei primi tempi a proposito del colore, così come ce ne fa per il sonoro. Il bianco e nero era una convenzione che doveva essere accettata, ma quando il colore reale giungerà sullo schermo sentiremo la sua assenza così come sentiamo l'assenza del suono quando guardiamo un film muto fatto alcuni anni fa. [ . .] Non voglio essere frainteso: il bianco e nero ha una sua bellezza propria che non potrà mai svanire. L'irrealtà di quelle ombre pallide che si muovono sullo schermo e quella qualità distaccata di un sogno costituiscono l'attrazione e l'incantesimo del film in bianco e nero, e non potranno essere distrutte. Ci sarà sempre spazio per determinati soggetti da trattare nei termini di queste affascinanti ombre grigie.
CINEMA E TEATRO. Amo i film non per le loro somiglianze con il palcoscenico, ma per le differenze: per me il cinema è, in realtà, più vicino all'arte della pittura e delle arti grafiche che all'arte del teatro parlato. La grande dif Jerenza non sta solo nel fatto che sullo schermo hai un'immagine piatta, senza attori tridimensionali, ma anche nel fatto che sul palcoscenico tu hai un solo movimento, una sola azione, che è l'azione degli attori coordinati dal regista. Non c'è altro movimento e il punto di vista dipende dal tipo di biglietto che hai comprato: se sei in galleria hai un campo lungo, se sei seduto davanti, allo5
talenti creativi, ma controlla i loro contributi, li arricchisce, li fonde in un'unità armonica. Egli è colui che è responsabile per ciò che si vede sullo schermo. Il paradosso è che, sebbene sia presente in ogni inquadratura del film, rimane nascosto al nudo occhio del pubblico generico.
METODO. Non ho mai fotto un film che non inizi con una pagina bianca. Non mi piace una sceneggiatura quando mi viene data; non per una questione di principio, ma semplicemente perché non mi piace il trattamento. Allora chiamo gli scrittori e strutturiamo il film assieme. Poi visualizzo il film nella mia mente prima di andare sul set e lì provo a concretizzarlo. Normalmente ho anche il montaggio in testa.
NUOVE TENDENZE. Un sacco di dilettanti disonesti, volgarità pretenziose, autorivelazioni cliniche, trash commerciale. Ciò che la maggi-or parte dei registi dovrebbe capire è che la libertà non significa autoindulgenza. Nessuno può creare un'opera d'arte senza una spietata autocensura, buon gusto e occhio critico.
OSTACOLI TECNICI E SOLUZIONI LINGUISTICHE. All'epoca di Applause, tutto il sonoro era registrato su una sola traccia. Nel film c'è una scena in cui la ragazza è a letto nella stanza di un alberghetto economico e sua madre le canta il solo tipo di canzone che conosca: un numero burlesque - ma lei lo canta come se fosse una ninnananna. Mentre canta, la ragazza sgrana un rosario e mormora una preghiera. Tutti mi dicevano: «Non possiamo registrare le due cose - la canzone e la preghiera - con solo un microfono e un canale». Allora suggerii al tecnico del suono: «Perché non usiamo due microfoni e due canali e non fondiamo le due colonne al momento della stampa?». Naturalmente tutto ciò è adesso prassi comune; ma il tecnico del suono e George Folsey, il direttore della fotografia, dissero che era impossibile. PITTORICISMO. Dopotutto, nel fare un film, e specialmente un film a colori, facciamo essenzialmente una serie di quadri. Cosa importa se non dipingiamo i nostri quadri con acquerelli o colori a olio, ma con luci colorate proiettate su uno schermo bianco? Cosa importa se il nostro picture si muove e 8
parla: è ancora fondamentalmente un picture [intraducibile gioco di parole dovuto al doppio significato di quadro e di film, del termine inglese picture]. A quale migliore sorgente di ispirazione potevamo rivolgerci se non ai grandi maestri della pittura?
QUEEN CHRISTINA. L'inquadratura finale del volto della Garbo iniziava in campo lungo e finiva con un enorme primo piano, per una lunghezza di 85 piedi di pellicola. Ancora una volta, i tecnici dissero che non si poteva fare: il campo lungo iniziale richiedeva un grandangolo, mentre il primo piano finale aveva bisogno di una lente di 4-6 pollici; avevo bisogno di un apparecchio che modificasse il grado di diffusione a mano a mano che la cinecamera avanzava. Improvvisamente mi venne in mente il ricordo di una lanterna magica che i miei genitori mi avevano regalato per Natale. Pensai al lungo vetrino su cui c'erano quattro diverse immagini che potevano essere proiettate su un muro, spostando gradualmente il vetrino di fronte alla lente. Ecco jàtto: tutto ciò di cui avevamo bisogno era un pezzo di vetro simile, su cui, invece delle immagini, ci sarebbero state diffusioni progressive. Il laboratorio si mise all'opera e l'aggeggio fu pronto per le cinque. La Garbo smetteva sempre di girare alle cinque, ma quella volta rimase fino alle sette. Facemmo due riprese: una non andava bene; l'altra fu perfetta. Il resto, come si dice, è storia.
REALISMO E STILIZZAZIONE. Quando diressi la mia prima pièce teatrale, ero imbevuto delle teorie di Stanislavskij ma, guardando il risultato, trovavo che non mi dava alcuna soddisfazione. Da allora non ho più trattato nessuno spettacolo in termini di naturalismo. Realismo e naturalismo non fanno per me. Non mi interessano. Credo che siano mezzi artisticamente troppo poveri, troppo limitati. vanno bene per un diario di viaggio, per documentari e cinegiornali, ma non per film di finzione. Per questo credo nejla progettazione. E di moda dire: "Oh1 io vado sul set e improvviso". E ridicolo. L'improvvisazione è per gli uccelli e i dilettanti. Non si improvvisano una statua, un dipinto o una sinfonia. Il cinema dovrebbe mostrare la verità interiore - non quella puramente "realistica" - in una maniera stilizzata. 9
STAR. Nessuno può creare una star. Colombo non ha fotto l'America, l'ha scoperta. Sono stato abbastanza fortunato ad aiutare un numero di giovani attori a divenire delle celebrità. Ma il talento attoriale non basta. Una star deve possedere un'altra misteriosa qualità, che potremmo chiamare personalità, magnetismo, glamour. La sua essenza è la capacità di stimolare l'immaginazione degli spettatori, di far loro sentire che nell'attore, o nell'attrice, c'è molto più di quanto colpisca l'occhio e l'orecchio.
TAVOLOZZA MAMOULIAN. Ho trattato il colore nella maniera in cui avrebbe fotto un pittore. Per Sangue e arena inventai quella che divenne famosa come la "Tavolozza Mamoulian". Tenevo con me una grande scatola di pezzi di materiali di tutti i colori, in modo che se un set o un costume avessero avuto bisogno di un tocco di un colore particolare (un accento di colore), lo avrei potuto dare io stesso. Avevo anche una collezione di vernici a spray, in modo da poter spruzzare colore su un costume, su un set o anche su un attore. Lo scenografo mi aveva costruito una bella cappella in cui si innalzava un enorme crocifisso. Io lo dipinsi di verde, blu e grigio, e prima che me ne rendessi conto era diventato mostruoso. «Sa quanto l'abbiamo pagato?» mi urlò dietro il capo del prop department. Io continuavo a spruzzare imperterrito ovunque, perfino sugli attori. I colori, dopotutto, hanno una logica propria e quello che sul set sembrava incredibilmente artificiale, sullo schermo dava l'effetto desiderato. U.S.A. La mia venuta qui fa un puro caso, ma quando misi per la prima volta piede sul suolo americano mi sentii a casa. Capii immediatamente quanto vicina al mio cuore fosse la terra di Mark Twain, Bret Harte, Edgar A/fan Poe, Walt Whitman e di tutti quelli che avevo avidamente letto in Europa. Sembrava che molti legami mi avessero già connesso all'America. Buffalo Bill era stato il grande eroe della mia giovinezza.
VALUTAZIONI CRITICHE. In arte la valutazione "oggettiva" è un termine vacuo, non esiste, non dovrebbe esistere. Tutta la critica è, e dovrebbe essere, soggettiva. È l'opinione di un uomo. Più l'uomo è illuminato, maggiormente 10
valida è la sua opinione. I critici migliori? Lasciando da parte tutta la filosofia, la risposta è semplice: quelli che più amano la mia opera!
ZORRO E ZANUCK. Darryl Zanuck fu certamente il più tirannico dei moguls con cui ho collaborato, ma per me è stato un piacere lavorare per lui.
Nella scena in cui Zorro rapinava la carrozza del governatore e questi pronunciava sconvolto il nome dello spadaccino, dissi a Edward Bromberg: «Invece di 'Zorro" di:· 'Zanuck': con voce terrorizzata». Quando Zanuck vide il gi,ornaliero assieme al solito gruppetto di fedeli segretari e collaboratori, sulla sala piombò un silenzio di tomba: nessuno poteva credere alle proprie orecchie. Zanuck bisbigliò al proiezionista di riproiettare l'ultima scena e "boom!" riecco la parola. Fortunatamente egli aveva humour e apprezzò lo scherzo. Quando il film fa terminato mi diede una busta, che ancora conservo per la leggenda, con su scritto: «A M per Z da Z».
Le dichiarazioni sono tratte da scritti e interviste citati nella Nota bibliografica. 11
Fredric Marche Rose Hobart in Il dottor ]ekyll (1932)
ROUBEN MAMOULIAN, -CESTETA INNANZITUTTO! «A diciassette anni condividevo lo slogan Ars gratia artis - Art tor Art's Sake [L'arte per amore dell'arte}. A venti mi sono liberato di quella stupida nozione. Ora credo fermamente che l'arte, come qualsiasi altra cosa sia per amore della vita e per amore dell'uomo.» Rouben Mamoulian «L'arte è una via d'uscita.» Nathanael West, Signorina cuorinftanti Singolare destino, quello che la storia del cinema ha riservato a Rouben Mamoulian, uno dei cineasti più pagati e contesi dalle major hollywoodiane, osannato e consacrato dalla critica coeva, e di cui quella postuma sembra avere inspiegabilmente perso non solo la stima, ma perfino la memoria. Certo, non è difficile comprendere le ragioni che muovono i cinefili o gli estimatori di registi del calibro di Ernst Lubitsch o di Josef von Sternberg a vedere Love Me Tonight (Amami stanotte) o Song of Songs (Il Cantico dei Cantici) come dei veri e propri furti d'autore: Mamoulian ebbe, infatti, non solo «la temerarietà di fare film con star che erano già considerate figure iconiche "appartenenti" ad altri registi», (Ken Hanke, Rouben Mamoulian, p. 403), ma soprattutto di appropriarsi di ambientazioni, atmosfere e modalità di rappresentazione strettamente connesse alle loro opere, e una simile colpa non poteva che suscitare epidermiche antipatie tra i più agguerriti cultori della settima arte. Meno facile risulta, invece, digerire giudizi categorici e altisonanti come quelli di Andrew Sarris, il temuto e venerato nume della critica americana, che, in un celebre articolo del 1963, aveva bollato Mamoulian come «mediocre imitatore» dai film «malamente invecchiati», per poi riabilitarlo inspiegabilmente nel 1967 in virtù di una «carriera di innovazioni straordinarie», curiosamente sfuggitegli quattro anni prima (cfr. Andrew Sarris, The American Cinema, p. 31, e lnterviews with Film Directors, pp. 287-288). 13
Eppure, rivedendo oggi i film di Mamoulian, sembra perfino facile riscontrare tanto la presenza del narratore accorto e sensibile, quanto la mano dello sperimentatore in grado di porre la propria audacia stilistica al servizio di un racconto godibile e di uno spettacolo coinvolgente. E altrettanto innegabile appare l'esistenza di una poetica solida e personalissima, che si accompagna a una ricerca estetica sistematica e coerente. Certo, a differenza di altri autori hollywoodiani come John Ford, Ernst Lubitsch o Billy Wilder, Mamoulian era consapevole della propria creatività e di una sorta di superiorità artistica di cui si sentiva in un certo qual modo investito (a Hollywood era conosciuto come il Napoleone del cinema americano, o addirittura "The Mad Armenian"). E, a differenza di un altro grande vanesio come Chaplin, non sapeva minimamente camuffare la propria autostima, bensì sentiva l'esigenza di riversarla direttamente nella propria opera, attraverso una tendenza al simbolismo plastico e al formalismo visivo che l'avvento del neorealismo e delle nouvelles vagues europee avrebbe inesorabilmente posto fuori moda. Eppure non si può capire l'opera di Mamoulian se prima non si accetta questa componente estetizzante che sta alla base del suo stile, del suo viscerale antirealismo, della sua Weltanschauung e perfino della sua stessa esistenza quotidiana, la quale intrattiene con l'arte mamouliana uno scambio simbiotico talmente intenso da impedire all'uomo Mamoulian di accettare la realtà se non attraverso la trasfigurazione deformante dell'artista e della sua immaginazione. Quella di Mamoulian è una sorta di "esistenza esteticà', inebriante, "inautenticà' (nel senso heideggeriano del termine), che egli conduce in maniera radicale e totale, per affermare la propria utopia contro una realtà quanto mai squallida e antiestetica, e che in termini cinematografici e teatrali si traduce appunto in uno stile espressivo altisonante, fatto di ombre espressioniste, soluzioni cromatiche stilizzanti, angolazioni di macchina "formaliste", ridondanti performance attoriali, e di tutta una serie di espedienti che fanno di ogni spettacolo mamouliano un vero e proprio tempio dell'astrazione e dell'estetismo. «Art far Life's Sake,, è il motto che Mamoulian pronuncia ogniqualvolta è invitato a parlare della propria vita o della propria concezione artistica, e che fa di lui un vero e proprio esteta prima ancora che un artista, un fruitore appa14
gato della propria percezione, prima che un artefice compiaciuto della propria creatività. Nulla può spiegare questo atteggiamento meglio delle poche righe che egli scrisse nel 1957 a proposito del "grande momento in cui le luci iniziano ad abbassarsi" prima di uno spettacolo: «Ho visto la bellezza fiabesca del Bosforo al tramonto, che sfida la penna dello scrittore e il pennello dell'artista; ho tremato alla vista della baia blu di Napoli sotto il caldo sole dell'estate; mi sono seduto su una colonna spezzata nell'arena del Colosseo, da solo, a notte fonda, con la luna vagabondante tra le rovine come un'anima morta; e sono rimasto su di un'alta roccia nevosa del Caucaso, con nuvole fluttuanti sotto i miei piedi anziché sopra la testa. Ho vissuto molti altri momenti indimenticabili, in cui mi sembrava di essere al di fuori dal tempo e dallo spazio, sull'orlo di strani mondi nuovi. Ma nessuno di quei momenti è in grado di eguagliare quei pochi secondi in cui il sipario si alza. [ ... ] Qualsiasi cosa succeda dopo, nulla può distruggere l'intensità dei momenti ispirati che precedono l'alzata del sipario» (Rouben Mamoulian, Bernhardt Versus Duse, p. 61). Mamoulian non descrive un mondo fenomenico nudo e antiestetico, bensì ci mostra una realtà già filtrata dai propri occhi e reinterpretata attraverso la propria sensibilità estetica, presentandosi così come spettatore della propria visione prima ancora che regista. È proprio in questi termini che la sua opera andrebbe riconsiderata: come la proiezione delle fantasie di un fruitore estetico; il sogno di una realtà che diventa spettacolo, e di uno spettacolo che supera una realtà di per sé già spettacolarizzata.
L uomo dì teatro «Il solo realismo in arte è quello dell'immagi.nazione. È solo così che l'opera rifugge il plagio della natura e diventa creazione.» William Carlos Williams, Primavera e tutto Mamoulian era cresciuto proprio in mezzo a quella «bellezza fiabesca» degli sfondi montagnosi del Caucaso, fra le «nuvole fluttuanti» e le «rocce 15
nevose» che abbiamo visto stimolarne la sensibilità estetica. Era nato 1'8 ottobre del 1897 in Russia, a Tiflis (ora Tbilisi, capitale della Repubblica di Georgia), figlio di Zachary, un erudito banchiere ed ex ufficiale dell'esercito zarista, e di Virginia Kalantarian, attrice di teatro proveniente da una ricca famiglia armena di possidenti terrieri. Era stato educato in un ambiente estremamente incline al mondo dell'arte e dello spettacolo, fra letture classiche e lezioni di violino, e aveva frequentato per alcuni anni il liceo classico a Parigi (curiosamente nello stesso istituto e nello stesso periodo in cui vi era iscritto René Clair). Nonostante i genitori avessero insistito per avviarlo agli studi d'ingegneria, il giovane Rouben si era invece iscritto ai corsi di criminologia dell'Università di Mosca, sviluppando un'intensa passione per lo studio della psiche e partecipando contemporaneamente ai corsi serali del Teatro d'arte di Mosca, tenuti da Evgeny Vakhtangov. Non si sa molto dell'infanzia e dell'adolescenza del regista. Non è certo, ad esempio, dove egli si trovasse al tempo della rivoluzione d'ottobre (nelle sue interviste fornisce risposte di volta in volta differenti, così come non commentò mai i tragici eventi che sconvolsero la sua terra - la persecuzione degli armeni prima, l'occupazione sovietica poi). Dalle sue dichiarazioni sappiamo solo che era stato chiamato, non ancora ventenne, a sostituire il critico di un importante giornale di Tiflis, e che vi aveva lavorato per circa un anno come recensore di spettacoli teatrali (cfr. William Hare, Rouben Mamoulian. An Exclusive lnterview, p. 31). Lo ritroviamo, attorno al 1920, in una stanzetta di Soho, nel cuore di Londra dove si era inizialmente recato a far visita alla sorella e aveva finito per trasferirsi. Si iscrive alla University of London, passando il tempo libero a prendere contatti con compagnie teatrali, e dopo due anni è chiamato al St. James Theatre a dirigere un testo politico sulla rivoluzione d'ottobre dal titolo The Beating at the Door, scritto da Austin Page. Fu in seguito a questa esperienza che dichiarerà: «Professionalmente, sono nato a Londra» (William Hare, op. cit., p. 31). Tramite la ristretta comunità di artisti armeni a Londra, Mamoulian entra in contatto con George Eastman, il miliardario patrocinatore delle belle arti (nonché pioniere della fotografia e del cinema), che all'Università 16
di Rochester aveva fondato la George Eastman School, e che proprio in quegli anni stava organizzando una compagnia d'opera che si esibisse in inglese. Mamoulian era poco più che ventenne, privo di esperienze e con la testa piena di teorie, ma la sua formazione al fianco di Vakhtangov e di Stanislavskij erano per Eastman un valido biglietto da visita. Lesperienza all'Eastman Theatre (1923-1926) permise a Mamoulian di dare sfogo alla propria capacità inventiva. Lavorò all'allestimento di una serie di spettacoli musicali, brani d'opera e di operette, solitamente posti ad apertura o a conclusione di qualche proiezione cinematografica del catalogo Eastman-Kodak. Dal Rigoletto di Verdi al Faust o al Romeo e Giulietta di Gounod, dalla Carmen di Bizet alle "gemme" musicali tratte dalla Vedova allegra o dal Conte di Lussemburgo, Mamoulian ebbe modo di passare in rassegna un po' tutto il repertorio romantico del teatro musicale dell'epoca, sperimentando e sviluppando quel gusto per la stilizzazione, quella ricerca sul ritmo, sul colore, sull'illuminazione e sul décor, che avrebbero in seguito caratterizzato il suo stile in direzione fortemente connotativa e antinaturalista. Si mosse fin da subito all'insegna della metodicità e del rigore, sulla base della fusione di linguaggi espressivi differenti in uno spettacolo omogeneo e unitario: musica, recitazione, pittura, danza, pantomima e ogni altro strumento espressivo venivano elaborati allo scopo di produrre opere organicamente articolate che, oltre ad anticipare l'interesse del regista nei confronti di un sistema plurilinguistico come quello cinematografico, avrebbero in seguito costituito la base di quella rivoluzione espressiva cui sottoporrà il musical di Broadway negli anni Quaranta. Intervistato nel 1946 a proposito di Oklahoma! e di Carousel, dichiarò di essersi ispirato ai lavori messi in scena negli anni Venti all'Eastman Theatre, e in particolar modo al Sister Beatrice (1926), una leggenda medievale rielaborata da Maurice Maeterlinck, accompagnata da canti gregoriani, composizioni in stile trecentesco e trattata in termini di dramma-balletto. Fu in seguito allo straordinario successo di critica ottenuto con questo lavoro che Mamoulian poté approdare a Broadway. Entrato in contatto nel 1926 con Lawrence Langner, il fondatore del Theatre Guild di 17
New York, nell'estate dello stesso anno già vi lavorava come insegnante di regia. « :4.rt is cash, not credit'' era uno dei suoi detti. Nulla poteva essere dato per scontato, l'artista non poteva basarsi sul sentito dire» (Paul Horgan, Rouben Mamoulian: The Start ofa Career, p. 407). Fu l'applicazione radicale di questa prassi che gli permise di dar vita a uno dei più straordinari successi teatrali della sua carriera: quel Porgy (1927) di Dorothy e DuBose Heyward, che George Gershwin avrebbe musicato una decina d'anni più tardi - e che Mamoulian avrebbe nuovamente portato in scena. Curiosamente, quasi tutte le recensioni dell'epoca furono unanimemente concordi nel sottolineare la «verosimiglianza» con cui il regista aveva saputo rappresentare la realtà inedita dei neri della Carolina del Sud (qualcuno azzardò perfino una sorta di legame tra tale sensibilità e le origini armene di Mamoulian, sulla base delle persecuzioni che il suo popolo aveva subìto). Mamoulian aveva in realtà basato tutto il proprio lavoro su un uso quanto mai straniante delle luci, dei fondali, dei movimenti di comparse e attori, e aveva portato alle estreme conseguenze quell'impiego di ombre e chiaroscuri che aveva sperimentato nelle sue regie per l'Eastman Theatre. Porgy mostra, inoltre, i segni di quel metodo di lavoro che Mamoulian avrebbe in seguito applicato indistintamente al cinema e al teatro, basato sulla trasformazione radicale di un testo preesistente in nome delle proprie esigenze estetiche. Per Porgy, Mamoulian apportò non solo numerose e radicali modifiche, ma divise addirittura il copione in una serie di battute musicali, ripartendo l'intera struttura su basi eminentemente ritmiche. L'esempio più significativo è la scena del risveglio del Catfìsh Row all'inizio del secondo atto, dove la somma di suoni prodotti dagli attori in scena dava luogo a una vera e propria "sinfonia di rumori": «Un uomo che russa, un martello, una donna con la scopa, l'affilare di coltelli, qualcuno che sprimaccia i cuscini, e io che conducevo il tutto come una sinfonia [ ... ]. I produttori credettero che il caldo-mi avesse dato alla testa, ma io continuai per la mia strada e sviluppai l'idea in Amami stanotte,> (Charles Higham, Joel Greenberg, The Celluloid Muse. Hollywood Directors Speak, pp. 129-130). 18
Porgy fu non solo uno straordinario successo di pubblico (367 repliche e una tournée approdata perfino a Londra), ma anche uno degli spettacoli più elogiati dalla critica - pare che Max Reinhardt ne fosse rimasto talmente entusiasta da mandare tutta la sua compagnia a vederlo, e che Maurice Ravel avesse definito lo spettacolo il migliore che avesse mai visto. Fu in seguito a questo risultato che cominciarono a giungere le prime offerte degli studios cinematografici. Mamoulian preferì proseguire ancora per qualche anno in teatro, dedicandosi tuttavia esclusivamente a quel tipo di testo e di struttura narrativa a cui il cinema sonoro avrebbe presto attinto: le opere che seguirono Porgy furono, infatti, quasi tutte prose drammatiche (e per lo più scritte da autori contemporanei, strettamente legati a un teatro di tipo sperimentale e progressista, allora particolarmente in voga). Mamoulian mostrò in tutti i casi una spiccata tendenza alla "depoliticizzazione" dei contenuti che, oltre ad apparire in netta controtendenza rispetto ai gusti intellettuali dell'epoca, anticipava una delle caratteristiche fondamentali della sua poetica cinematografica. Così fu per Marco Millions (1928) di Eugene O'Neill, privato del suo provocatorio finale antiborghese; per Congai (1928) di Harry Hervey, che riduceva a conflitti puramente interiori le vicissitudini di una giovane vietnamita costretta a lasciare il villaggio natale per andare a Saigon, come prostituta per i militari francesi, e perfino per opere di fantapolitica come Wings Over Europe (19?8) di Robert Nichols e Maurice Browne, o per R. UR. (1930) di Karel Capek, dove l'interesse del regista era esclusivamente focalizzato sul ritmo, sulla stilizzazione e su soluzioni mirate alla creazione di suspense, più che sui contenuti intellettuali e filosofici di partenza. Accanto a una solida coscienza poetica e a un'estetica che aveva ormai assunto la sua forma definitiva, Mamoulian sviluppò in questi anni anche una profonda consapevolezza del valore artistico del proprio lavoro e della propria personalità. È in questo periodo che iniziano le prime discussioni con produttori e collaboratori tecnici, destinate a divenire proverbiali. «Un artista vero può solo fare le cose a modo proprio» si legge tra gli appunti inediti del regista: «usare la propria intuizione, il proprio gusto e le ten19