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Italian Pages 98 Year 1952
OLOF THEOLOGY AT CLAREMONT
* INIFRULKANN
PICCOLA
BIBLIOTECA
volumi
DEL
CINEMA
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prossimi
The Library of Claremont School of
Theology
1325 North College Avenue Claremont, CA 91711-3199
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Tosioni MALERBA - ei ATTILIO
BeRrTOLUCCI
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Redazione - Amministrazione Via GIROLAMO CANTELLI, 139 - PARMA
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BIBLIOTECA
DEL
CINEMA
513
* ROBERT
FLAHERTY di
MARIO
GROMO
Nota biografica, filmografia e bibliografia a cura di GIUSEPPE
CALZOLARI e
GIANFRANCO
CALDERONI
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ROBERT
FLAHERTY I
Subito dopo la prima guerra mondiale il giovane tecnico minerario Robert Flaherty si trovava a New York. Per non pochi anni era vissuto nelle regioni antartiche del Canada settentrionale, si era spinto oltre lo stretto di Hudson, fino alla Terra di Baffin. Con un apparecchio a formato ridotto aveva ripreso migliaia di metri di pellicola; poco prima del ritorno un mozzicone di sigaretta doveva distruggere in una fiammata gran parte di quel materiale. Ma il Flaherty aveva comunque scoperto le possibilità dell’obbiettivo; e si era ficcato in capo di voler tornare al Nord, per completarvi un «suo» film. A quel giovane tarchiato e cocciuto, dai modi un po’ bruschi, non era facile che si aprissero le porte dei soliti produttori. A questi
i bene informati l’avrebbero presentato come esploratore dilettante, ingegnere idem, operatore idem. Riuscì infine a convincere una « ditta» di pellicce. Lui ben conosceva la vita degli esquimesi. Un film su quella vita,
7
e soprattutto sulle cacce agli animali da pelliccia, si sarebbe risolto in una indiretta, e
quindi efficacissima,
«pubblicità ».
Nacque
così Nanook of the North (« Nanuk l’esquimese », 1922) che fra il ’23 e il ’25 ebbe una vasta
diffusione. Per la prima volta «la pellicola dal vero », come ancora si chiamava il documentario, aveva un diverso respiro, rivelava più sincere ambizioni. Il film s’iniziava con una diligente cartina geografica, presentava subito dopo un primo piano del singolare protagonista, proseguiva poi con un tono un po’ spiccio, informativo. Ma di episodio in episodio (dal varo della barca, e dalla vendita delle pelli, alla pesca del salmone e alla caccia alle volpi, dalla costruzione dell’ig/00, e dal pasto ai cani, alla bufera e alla notte polare), di pagina in pagina se ne profilavano e poi sempre più se ne effondevano vibrazioni inconsuete, profonde.
Se i primi episodi erano frammentari, privi di un loro ritmo interiore, potevano essere considerati come una non inutile introduzione alla seconda parte del film; dove un segreto respiro animava e univa i singoli brani, tutti sorretti da una rara potenza d’osservazione e di sintesi, che mirava a esprimere la più vera umanità di quelle genti, nel trascorrere dei loro soliti giorni, L’g/o0 di Nanuk, il suo tukul di ghiaccio, aveva persino la necessità e la civetteria di 8
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una finestretta, chiusa e rischiarata da una trasparente lastra di ghiaccio; Nanuk viveva
sulla banchisa come un contadino vive fra i campi; ma la sua era una continua lotta per sopravvivere. Già fin d’allora il Flaherty aveva quasi istintivamente seguito quanto avrebbe affermato più tardi: «In molti film di viaggi i loro autori osservano dall’alto i loro personaggi; e non da vicino, su di uno stesso piano ». La vita di Nanuk era osservata dallo stesso piano umano, in una comprensione permeante, immediata. Nanuk era Flaherty, e Flaherty era Nanuk. Distanze e clima, razza e costumi, istinti e sacrifici, tutto era superato e intuìto da una
virile commozione
che
sfiorava una schiva fraternità. Narrandoci la vita di un primitivo, la sua lotta contro gli elementi della natura, per strapparle difesa nutrimento e calore, la seconda parte del film non indulgeva a nulla di «curioso », di «singolare », di «caratteristico », ma si pervadeva di quella sorte umana. Flaherty, partito dal documentario, era giunto alle soglie di un nativo romanzo documentato. Aveva trovato il
«suo»
cinema,
aveva
trovato
se
stesso.
La sua prima vocazione d’esploratore non era stata una velleità giovanile, ma un bisogno di conoscenza, avventuroso e concreto. Ora più non si trattava di voler scoprire nuove 9
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Ft ele"dio È41 PASINI ASTRO
terre o nuovi giacimenti minerari; ma di andare con l’obbiettivo all’esplorazione dell’uomo, riscoprendo motivi eternamente viventi e suti. L’imprevedibile successo di MNanook fece prendere parecchio sul serio il neo-regista dai soliti produttori cinematografici. Per uno di questi il Flaherty si recò allora nei mari del Sud. Nacque Moana of the South Seas (« L’ultimo Eden», 1926). Chi glielo aveva commesso credeva di vederlo tornare con un film rasserenante, dolciastro e divertente quanto piacevole: non erano forse quelle, per antonomasia, «le isole felici », «il Paradiso terrestre»? Un giulebbato idillio, s’attendevano, con bronzee e cattivanti nudità, sullo sfondo di carnosi fiori, fra il languore di estatici palmizi. Anche in Moana, invece, il Flaherty aveva indagato tutto un mondo, che per lui non poteva essere soltanto idillio, o soltanto coloristica illustrazione. Anche gli uomini delle isole Samoa erano talvolta in lieta armonia con la natura; ma ben più sovente ne erano in lotta. Sotto l’azzurro cielo del tropico ritornavano le inflessioni e gli accenti che già avevano scrutato il grigiore della banchisa. Clima e vibrazioni non erano quelle di un film d’avventure più o meno esotiche, ma ricordavano piuttosto la sofferta umanità di un Conrad e di uno SteIO
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venson. A freschezze mattutine s’alternavano durezze taglienti, aggressive. Nel ritmo di ogni sequenza, nel taglio delle inquadrature, e sia pure tra i frequenti incanti «naturali » di quelle visioni, si sentiva la presenza sempre vigile di un uomo, senza schemi, senza le-
nocìni.
RE
Moana al pubblico piacque, specialmente per alcuni indimenticabili episodi, quale il duello di un indigeno con un pescecane; ma deluse i committenti perché vi era fin troppo dichiarato ed evidente il proposito di non volersi adeguare alle solite esigenze della solita produzione. Quello strano tipo rischiava di essere per sempre un ribelle, un indipendente; e i ribelli e gli indipendenti sono sempre stati invìsi a qualsiasi consiglio d’amministrazione. | Si volle tuttavia credere che il Flaherty, rivelatosi come un singolare «temperamento » cinematografico, si sarebbe almeno un po’
acconciato a quelle esigenze. Prima di abbandonarlo a se stesso si poteva tentare ancora una volta di mettere al passo quell’insofferente; il quale, fra l’altro, sosteneva che attori professionisti, e ricostruzioni di studio, non potevano non umiliare, e avvilire, la potenziale poesia di un film. Un altro dei soliti produttori credette di
poterlo far sorvegliare. Sarebbe bastato limitarlo
e guidarlo
senza
parere,
mettergli
al II
fianco un ligio rappresentante del « mestiere », W. S. Van Dyke. Il film sarà White Shadows of the South Seas (« Ombre bianche », 1928). Ma anche questa volta il Flaherty s’irrigidisce. Proprio nello stesso mondo da lui già intuìto con Moana, e quindi da lui già in gran parte assimilato, come gli sarebbe possibile costringere quel mondo al «gusto» e ai voleri di chi, sempre dispotico dietro la sua importante scrivania, non ha mai sentito nemmeno il profumo dei mari del Sud? Come rassegnarsi a quelle inflessioni da attore del protagonista dottor Brown (un Robinson alla rovescia), come ras> segnarsi a quel rousseauismo di maniera, a quei contrasti troppo paralleli fra la turpitudine dei bianchi e l’ingenuità dei nativi? La sua ribellione si accentua, giunge alla rottura. Lascia in dono a Van Dyke, da gran signore, alcune bobine d’« atmosfera »; e gli fa inoltre il dono più prezioso, il suo operatore, Bob Roberts, da lui già minuziosamente istruito per Moana. (E anche se in Ombre bianche le pagine notevoli saranno parecchie, come la pesca delle perle, il bagno delle nàjadi e la danza delle fanciulle tabù, Moana starà a Ombre bianche come un dramma sta al libretto di un melodramma). Con questo film erano stati i produttori a voler tentare quel secondo esperimento; più tardi, trascorsa l’ultima amarezza, fu lo stesso dae
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Flaherty a voler ritentare un’altra esperienza. Accettò di essere il collaboratore (oggi si direbbe il « supervisore ») della regia del Murnau per Tabu (1931). Ambientato anche questo film nelle «isole felici », poteva costituire la valida rivalsa definitiva per temi e spunti se- .
condo il Flaherty sciupati o traditi in Ombre bianche. Una istintiva simpatia lo spingeva verso il Murnau, che in parte condivideva le
sue idee; ma
lo tratteneva
una
non
meno
istintiva diffidenza per certe acquiescenze dello
stesso Murnau verso sistemi e criteri hollywoodiani. Questi criteri finirono in parte per imporsi nelle ulteriori revisioni del film, parecchi episodi furono molto rimaneggiati. Quale sia stato l’effettivo contributo del Flaherty è assai difficile individuare. È però indubbio che Tabu, nei confronti di Ombre bianche, soprattutto nella prima parte, rivela
un più veridico ambiente, ritmi più nitidi, una più netta autonomia; è perciò probabile che il Flaherty abbia anche questa volta molto collaborato alla prima parte del film. Per il resto, sono sconcertanti frequenti fratture di tono, di stile. Il Murnau era nativo della Westfalia, si era laureato in lettere e filosofia
ad Heidelberg, era poi stato allievo di Rheinhardt. A quest'uomo, dapprima di biblioteca e di palcoscenico, poi di cinema con qualche atteggiamento romantico-decadente, non pri13.
vo di incrostazioni
espressionistiche,
doveva
contrapporsi l’ex-allievo di una scuola ameri-
cana di tecnici minerari, vissuto
poi a lun-
go fra i suoi «amici» esquimesi, tempratosi alle bufere della banchisa. Non sembra quindi difficile attribuire al primo cupe illuminazioni e vaghi echi più o meno wagneriani, sulle orme di tetri fatalismi implacabili; mentre è facile attribuire al secondo istanti che sembrano ignorare qualsiasi suggerimento letterario o anche soltanto culturale, ròridi d’una loro grazia nativa, o robusti d’una loro recisa
potenza. Persino l’impalcatura
del film rivela dei
compromessi, È «tabù », intangibile, la donna consacrata agli dei; nessun desiderio d’uomo potrà sfiorarla. Così, quando il sacerdote Hitu consacra Reri, il suo amore per Matahi dovrebbe spezzarsi. Fuggono i due amanti in un’altra isola, già tocca da una rozza «civiltà »; e Reri vivrà con Matahi, il quale, con ogni fatica, racimolerà il denaro necessario a salire con lei su di un piroscafo, per fuggire più lontano, in salvo per sempre. Ma l’inesorabile legge punisce di morte chi osì trattenere presso di sè una donna tabù;. e
quando Hitu riappare, e impone a Reri di seguirlo, pena la morte di Matahi, Reri compie
il sacrificio, abbandona
la povera
capanna.
Subito ritorna Matahi, insegue lungo la spiaggia T4
la barca che gli rapisce Reri, infine si butta a nuoto, starebbe per raggiungerla; ma Hitu lo respinge, e Matahi, esausto, scomparirà nell’ultimo gorgéglio della scia che fugge. Vicenda lineare, che dovette piacere al Flaherty; ma non dovettero essergli gradite certe variazioni, basterà citare la più grossa. Matahi è riuscito a ragranellare il denaro,
colmo di gioia offre imprudentemente
molto
spumante a sé e agli amici. Il bettoliere gli confisca il denaro, Matahi e Reri non potranno più partire, Hitu potrà così ritrovarli. Non piccolo episodio giustificativo, e inutile, tipicamente suggerito da certa soggettistica holly-. woodiana; quando sarebbe invece stato ineluttabile, fatale, l’improvviso riapparire di Hitu, e nient’altro.
Dopo dovette
quest’ultima esperienza il Flaherty con
amarezza
concludere
che,
soliti produttori, i mari del Sud non stati per nulla « felici». Quasi poi a da Ombre bianche e da Tabu stava tutto un esotismo cinematografico di
con
i
gli erano irriderlo, nascendo maniera.
Si creava un’altra facile voga, alimentata da surrogati ed espedienti, alleandosi la specula-
zione alle risorse d’una pubblicità deteriore. Persino la trillante Reri, la giovane indigena
individuata dal Flaherty come la sua innocente eroina, era subito stata avvolta in vesti costose
e condotta a Hollywood per essere
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ta» come la nuovissima Sirena dei Tropici, sarebbe presto di cartone.
Ben
riapparsa in qualche giungla
altro il Flaherty
aveva
sentito per
Moana, ben altro aveva amato in quelle isole. La sua sorte, d’ora in poi, sarà quella di un isolato; e da questa sdegnosa solitudine nascerà il suo capolavoro.
II Lo stesso Flaherty ha raccontato quale fu il primo suggerimento che gli venne per il suo nuovo film (Mar of Aran, 1933-34): — Novecentoventinove, subito dopo il crollo di Wall Street. Il transatlantico che ci riportava in Europa sembrava una succursale del Muro del Pianto. «Poveri noi, diceva uno;
4
d
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dopo il fallimento, la miseria ». « La miseria? La fame, piuttosto ». «Essere poveri non è nulla, quando ci si è abituati; ma vedere in
poche ore sfumare migliaia e migliaia di dollari...» «Non potrò mai adattarmi alla povertà ». Fra questi lamenti si levò una voce d'uomo: « Mi fate ridere, con la vostra povertà. Che direste, allora, di un paese così povero, dove gli abitanti non posseggono nemmeno un pugno di terra? ». « Un pugno di terra? ».
« Letteralmente;
e, quando
lo trovano, con
ogni cura lo raccolgono, e poi vi mettono un 16
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’
seme ».
L’accento
dell’uomo
rivelava
l’ir-
landese; e ci disse il nome di quel luogo incredibile, le isole Aran, al largo della baia di Galway. Due mesi dopo sbarcavo in quegli
isolotti; e vidi con i miei occhi grattare dalle fessure delle rocce qualche pugno d’humus. Vi tornai; e vi rimasi due anni. Così è nato L’uomo di Aran, la storia d’una famiglia qualunque, che vive a dodici ore da Londra. Furono forse per Flaherty gli anni artistica-
mente più fecondi e felici. Quegli isolotti fràngiano di scabre rupi il livido oceano, i pochi abitanti vivono come prigionieri dei venti e delle tempeste. Rudi e semplici, la loro vita è spesso drammatica, talvolta tragica: bisogna strappare all'oceano una preda, bisogna strappare alla rupe una zolla. E il poeta respira quella vita, giungerà a darcene il suo inconfondibile quadro. In tempi di attrezzatissime «spedizioni » cinematografiche, tutta la sua «spedizione » può contare sull’opera sua, della moglie e di
un assistente. Il suo
«studio»
e il suo labo-
ratorio sono in una casetta di pietra dove ha installato un rudimentale apparato di sviluppo e stampa della pellicola, con un piccolo motore a benzina, sufficiente ad alimentare un essicatoio e un proiettore. Là, in quel tugurio, appaiono su di un esiguo schermo le «riprese » effettuate: tempeste e schiarite, voli 17
di gabbiani e affiorare di squali, un uomo, una donna, un ragazzo. (Perché la « madre», la «diva» del film, è Maggie Dirrane, che i Flaherty s'erano presa per le faccende di casa;
il «padre»,
il divo del film, è Colman King,
un giovane pescatore del luogo; e il «ragazzo », nel film loro figlio, è Michael Dillane, un ragazzotto preso da un’altra casupola del villaggio). Diffidente di ogni «occasione» più o meno suggestiva, ostile a quanto possa apparire « pittoresco » folklore, o arido «documento », per due anni Flaherty s’aggira fra le scogliere, segue lo svariare delle stagioni, osserva e mèdita, intuisce e riprende, compone e ricompone. Due anni d’intenso lavoro. È si po-
trebbe anche dire che una
cadenza binaria
scandisca tutto il film. Due le grandi tempeste, che l’aprono e lo concludono; due le didascalìe che presentano i due temi fondamentali, il mare furente e la terra avara; duplice la pesca dello squalo, la seconda protrattasi per due giorni e due notti; duplice la pesca del ragazzo, dall’alto della scogliera; e quasi sempre due gli antagonisti o i protagonisti: l’uomo e il mare, l’ansia di chi attende e il pericolo di chi è lontano, padre e figlio, madre e figlio,
tempesta e bonaccia, cielo, rupi e cielo.
mare
e rupi, mare
e
Su queste cadenze si articolano pochi ampi 18
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P
4
episodi essenziali, in una costruzione salda, granitica, e tutta pervasa da una lirica emozione. L’uomo di Aran vive i suoi giorni in quell’isolotto flagellato dai venti, devastato dalle tempeste, le altissime scogliere a picco sull'oceano che ùlula, e si scaglia furente. Per crearsi un campicello l’uomo di Aran deve dapprima infrangere e spianare la rupe, porvi poi delle scaglie di pietra, poi una lettiera d’alghe; e infine stendervi uno strato di preziosissima terra, scavata con le unghie dalle fessure della roccia, e portata a spalla, gerla dopo gerla, là dove la salsedine forse permetterà che cresca uno stelo. La cattura di uno squalo è la risorsa di molte settimane, una barca è ciò che è l’aratro per il contadino, ma infinitamente preziosa, quasi inestimabile; e quando ondate furenti la scaraventeranno a infrangersi su di uno scoglio, l’uomo di Aran, appena riuscito a scampare da quella furia, lancerà all'oceano uno sguardo di sfida: ricomincerà. Vita dei primordi, conquistata con l’ardire del marinaio, con la tenacia del montanaro. La vicenda è tutta nel trascorrere di quelle giornate; e il film, dedicato all’isola delle tempeste, si apre e si conclude con due vasti brani quasi
sinfonici, due apocalittiche tempeste nelle quali alcuni di quegli uomini stanno per soccombere,
e ancora una volta sopravviveranno. È questo 19
l’ultimo dei tre grandi film composti dal Flaherty, la trilogia da lui dedicata all’artide, al tropico e all’oceano. Per quanto lo si riveda, L’uomo di Aran (che alla più importante Mostra veneziana, nel 1934, ebbe il massimo premio) non rivela incertezze. Ove si eccettui qualche stacco di luce, comprensibile per il modo, e la durata nel tempo, delle singole riprese, tutto vi è rigoroso, coerente, ispirato. Ciascuno degli ampi episodi nasce con l’inevitabilità e la freschezza con le quali nasce una stagione. I ritmi vibrano alterni, calibrati al fotogramma: sia che implacabili accompagnino i rombi della tempesta, o sincopati vivano la lotta con uno squalo; sia che si distendano a seguire una breve bonaccia, o pesino sull’ansia di un oscuro timore. Le tre figure sono tanto umane quanto mitiche. L'uomo è la lotta per la vita d’oggi, il ragazzo è la speranza di quella di domani; e la donna, che tutto vìgila e a tutto attende, in una rassegnata umiltà di bestia da soma, e in una dolcezza sempre serena e presàga, è come circonfusa da un dimesso biblico aléne. Negli atteggiamenti che di volta in volta la caratterizzano è forse più palese l’amore del Flaherty per le umane creature. Quando la
madre scende alla scogliera, e posa la bimba in un canto, e l’avvolge con la sua gonna; e ancora, su di un lembo di questa, pone una pie20
tra perché il vento non la sollevi, lasciando così la bambina in quell’anfratto: la rapida visione ha l’incanto di un marino e rupestre presepe. Tocchi fermi, essenziali, e trépidi. La fiammella della lampada, un po’ d’olio in una vecchia conchiglia; il terrore immoto degli animali al ridestarsi di un’altra, bufera; il padre che rattoppa la povera barca, e da lontano sorveglia il suo ragazzo; l’affannoso aggrapparsi a una rete sdruscìta, salvata dalle onde; un magro campicello, meno di una misera proda; il gesto con il quale un cestone di alghe, o un cestello di terra, è issato o trasmesso; lo
strìdere spaurito di un gabbiano, il sibilare del vento da una fessura, il protendersi di uno sguardo, un relitto ridotto a poche vertebre: questi, e molti altri che si potrebbero citare, sono pàlpiti colti dalla vita e interpretati dall’arte, in visioni che hanno la sapienza di una tessitura sinfonica e la purezza di un primitivo. III Dopo la solitudine nella quale creò L'uomo di Aran, e dopo il relativo insuccesso pratico del film, il Flaherty dovette sentire la necessità di qualche accettabile collaborazione; ma le sue fatiche per Elephant boy (« La danza degli
elefanti », 1937) si risolveranno per lui in una nuova
delusione.
Sarebbe un’altra ripulsa, se 2I
il contratto non lo obbligasse a firmare il film,
che sarà mediocremente compiuto da Zoltan Korda. Vi sono evidenti molteplici concessioni al solito cinema; del Flaherty sono individua-
bili soltanto le prime sequenze, con la
«sco-
perta» di Sabù, un fratello indiano del ragazzotto di Aran. Passano altri anni non lieti. Infine per incarico del Ministero Statunitense dell’ Agricol-
tura, accetta
di comporre
The
Land
(«La
terra », 1942) sulla vita dei contadini americani. (Il film è ancora inedito, perché ritenuto dai committenti. «troppo deprimente, da non
proiettarsi durante la guerra »; ne esiste una copia al Museo delle Arti Moderne di New York, e un’altra alla «Cinémathèque Francaise »). Ancora una volta la sete di verità del Flaherty aveva cozzato contro il conformismo di interessi determinati, in questo caso
le rime obbligate di una malintesa
« propa-
ganda »; e ancora una volta il Flaherty dovette tornare alla sua solitudine. Ne venne richiamato soltanto nel 1946. Una «Compagnia » petrolifera gli affidò un film che, come Nanook, doveva essere di pubblicità indiretta. E il Flaherty poté proprio sperare di rivivere l’avventura di MNanook: nuovo tema la ricerca del petrolio, in una regione ancora avvolta dagli echi di tempi lontani. Nacque così Louisiana Story (« Una storia 22
della Luisiana», 1948). Poche migliaia di francesi, verso il 1750, avevano popolato tutta una regione del Canadà, l’Acadia, ed erano stati poi deportati dagli inglesi sulla costa occidentale dell'Atlantico, dove erano riusciti a raggiungere la colonia francese della Luisiana. Da allora, soprattutto nelle savane che si stendono agli estuarî dei grandi fiumi, la loro vita era sempre stata un po’ da pionieri e un po’ da «Paolo e Virginia », sul fluire di patriarcali tradizioni, non contaminate dall’orgoglio e dal denaro. Il Flaherty non aveva tardato ad esaltarsene. Dopo aver trovato i Nanuk nell’Artide, e i Colman King ad Aran, ora, nella Luisiana, trovava i Latour: altri uomini semplici, altri uomini veri, da far rivivere sullo schermo. In quella regione, fra i banchi delle savane
infestate da alligatori, sotto le stesse acque melmose, fra l’intrico dei canneti e le penombre delle foreste, molti segni denunciano l’esistenza del petrolio. E i ricercatori s’avvicinano, armati della loro avidità e dei loro scandàgli. Un ésito fortunato di quelle ricerche vorrà dire, per i vari Latour, la fine della loro libertà. Con le perforatrici, i pozzi e gli oleodotti si
sostituirà alla vita semplice degli avi un’arida e anonima civiltà meccanica. Il tema, così intravvisto, era ben degno del
Flaherty.
Il contrasto fra
quella
«civiltà » 23
e una vita schietta, primitiva, da lui già adombrato in Nanook e Moana, Ombre bianche e Tabù, poteva finalmente essere ora espresso senza il dualismo un po’ geometrico, e fin troppo evidente, fra bianchi e uomini di colore. Qui, gli
« indigeni », erano di una
gli eredi e i discendenti
delle più nobili schiatte europee,
tutta un’antica
e vivente
di
civiltà; il contrasto
poteva quindi essere tanto più significativo, e profondo, se fosse sorto fra questi civilissimi «indigeni» e i sopravvenuti sedicenti « civili», muniti soltanto d’egoismo, di macchine e di denaro. Il Flaherty, invece, ha molto, e stranamente, attenuato il contrasto, quasi evitandolo, e sovente risolvendosi a un accorato idillio. Non solo i Latour non sono scontenti che nelle loro terre s’insediino draghe e perforatrici; ma anziché opporsi a quei nuovissimi conquistatori, quasi ne diventano gli amici. Ci fosse almeno, nel film, un superstite brivido di tristezza, per quella fiducia, per quell’innocenza, che
verranno
poi, presto
o tardi,
immanca-
bilmente tradite. Ma la stessa lotta di quegli uomini con la palude è vista di scorcio; e uno dei due protagonisti è un ragazzo, di tutto curioso e quasi di tutto ignaro (l’altro protagonista è una sonda immane). Il film si risolve allora in contrasti soltanto formali e in parecchi mirabili frammenti, con alcuni pregevoli epi24
sodi, uno meglio composto dell’altro (P’amicizia del ragazzo per il tasso, la lotta con il coccodrillo, la prima trivellazione): ma tuttavia non sufficienti a esprimere compiutamente ciò che doveva essere espresso. Pagine eccellenti, in ognuna delle quali senti l’artista; ma l’artista è stanco, già forse minato dal male. x
IV Doveva essere questo l’ultimo film di tutta una vita dedicata al cinema, le opere della quale si possono contare con le dita di una sola mano. Nessun altro regista dovette come lui lottare contro diffidenze, ostilità, rifiuti. Ma in un mondo, come quello del cinema, spesso improvvisato e pacchiano, dalle fortune subitànee e dai crolli repentini; dove molto è avventura, e le fabbriche dello «spettacolo in scatola » devono continuamente sfornare i loro « prodotti », per le esigenze di una clien-
tela sempre più vasta; in un mondo dove l’artista' non può non ascoltare anche le esigenze di una complessa singolare industria (e buon per lui quando a queste non si uniscano altre esigenze, suggerite o dettate da imperativi confessionali o politici): in questo mondo la
figura di Robert Flaherty è quella di un solitario orgoglioso,
di un
lo si potrebbe definire
indipendente.
Il suo
l’« anticinema » per 219)
eccellenza; ed è appunto per questo che ap-
partiene al poco cinema veramente ammirevole. Accanto a lui si possono porre ben pochi altri artisti, un Chaplin, un Clair, un Eisenstein. Ma il primo si vale anche di personali risorse mimiche quasi ineguagliabili, e maturate in un certo ambiente, in un certo music-hall; il secondo è senza dubbio il più insigne rappresentante dell’ « intelligenza » che il cinema possa vantare (ma legata, quella sua intelligenza, a tutta un’epoca); e il terzo deve molto della
sua forza ai fervori e ai fermenti del periodo eroico della rivoluzione sovietica e del più vero cinema russo. Flaherty, invece, non è che Flaherty. Invano, per lui, si ricercherebbero sfondi e ori-
gini, derivazioni e riferimenti. Il poeta cinematografico della natura lo si direbbe una forza della natura stessa. Nei suoi film la sua presenza è, per lo spettatore superficiale, inavvertita. (Per questo sono da molti definiti, alla spiccia, documentari). Nelle sue tre opere fondamentali invano si cercherebbero civetterie
formali o compiaciute bravure. Si è agli antipodi del cinema come si è di solito inteso, inesauribile palcoscenico, le risorse e i trucchi
dello
«spettacolo » spinti al massimo dell’abi-
lità e del compromesso.
Per lui l’obbiettivo è
quello che è la cassetta dei colori per un pittore, 26
x
il taccuino per uno scrittore. Se ne serve; non ne è mai il servitore, o addirittura lo schiavo. Se il suo è un documentario, è un documentario che giunge alla lirica; ed è quindi l’opposto del documentario. Un’arte apparentemente umile, semplice: pervasa invece d’un consapevole orgoglio, di ‘una rattenuta commozione virile. Non vanamente il Flaherty aveva affermato essere gli uomini una sola comunità. Di questa una singola creatura poteva essere la compiuta immagine; e poiché, oltre all'uomo, non esiste che la natura (sua alleata-nemica), in quell’unìisono vitale, e in quelle lotte non meno vitali, sono tùtti i germi lirici e drammatici di quest'arte. Vi domina l’uomo «sub specie aeternitatis », primitivo e di sempre, negletto o disprezzato soltanto da miopi egoismi che se ne credono «più evoluti», o da mediocri sufficienze che se ne credono « migliori ». È proprio questa, esplicita e in nuce, la più amara moralità dell’artista, che considerava il cinema
«la grande penna del mondo contemporaneo », il primo «vero linguaggio universale ». Da molti, da troppi, misconosciuto e avvilito. I suoi film non erano calcolati e predisposti, fedeli ricalchi scenici di una minuziosa sceneggiatura. Anche lui partiva da una realtà. Ma se il solito documentarista se la studia per isolarne gli istanti che crede utili alla sua espo-
27
sizione più o meno
didascalica, tracciata in
seguito a quello studio; il Flaherty sentiva la sua realtà d’istante in istante, presentiva ognuno di quegli istanti come essenziale, lo intuiva necessario per quello che sarebbe stato il suo film; e il film, presto o tardi, si sarebbe costruito da sé. Di qui l’intima umanità di Nanook e di Moana, la lirica architettura de L'uomo di Aran. Mentre non stupisce il fatto che per Nanook egli abbia impiegato circa due anni conclusivi, dopo parecchi altri di non presumibile preparazione; per Moana circa quattro; e più di due per la collaborazione a Ombre bianche, più di due per quella a 7abu, più di due per L’uomo di Aran, circa due per Louisiana Story. Aveva potuto serenamente affermare: «Tutti i miei film li ho fatti con in cuore l’amore dell’ignoto ». Per svelare quell’ignoto avrebbe sopportato qualsiasi sfibrante attesa, pure per lui l’arte fu anche una lunga pazienza. Trovava i soliti film « pieni d’artifici, di menzogne e di luoghi comuni ». Fermamente credeva che un giorno sarebbero apparse ben altre opere, ricche d’arte, di verità; e concludeva «forse saranno opere di dilettanti », per poi ancora precisare che la parola dilettante andava intesa nel suo vero significato: « una
creatura appassionata di ciò che fa, e che crea per il solo piacere di creare ». 28
In questo senso fu un «dilettante » come soltanto i veri artisti lo furono e lo saranno. Obbediva a ciò che il suo intimo liberamente gli suggeriva di rappresentare, sorretto da una coscienza che si potrebbe definire virilmente cristiana. E con questa coscienza s'intendono allora il suo romantico realismo, la sua paterna tenerezza per il piccolo Michael, per il piccolo Sabù, per il piccolo Latour; un suo trasalire per un corrucciarsi del cielo, per uno stormire
di fronde; da quella coscienza furono dettati tre film che vivranno (Nanook, Moana, Man of Aran), e il mirabile albo di Louisiana Story. Sentì la fratellanza umana sopra ogni cosa. E l’uomo fu come le sue opere: di una rara dignità, di uno schivo orgoglio, di una serenità
sempre pensosa. Non poteva non morire povero, «old Master». (Lo chiamavano «il vecchio padrone », con espliciti sottintesi di maestro e di nocchiero). È morto in una dignitosa povertà, in un piccolo paese del Vermont,
quel vecchio
bonario
dagli occhi
azzurri e
dai capelli bianchi. Uno dei pochi veri poeti che il cinema abbia avuto, certo il più puro.
39
BIOGRAFIA . Robert J. Flaherty nacque a Iron Mountain (Michigan) il 16 febbraio 1884. È morto il 22 luglio 1951 a Dummerston nel Vermont all’età di sessantasette anni. Dalla moglie Frances Hubbard Flaherty aveva avute tre figlie. Seguì dapprima l’esempio del padre che aveva dedicato tutta la sua vita alia esplorazione delle zone
antartiche del Canadà settentrionale alla ricerca di depositi minerari ora per conto di grosse società, ora per conto di privati. Frequentò dunque il Michigan College of Mines, la scuola dalla quale uscirono molti esplo. ratori minerari. Poi cominciò a viaggiare per incarico
di Sir William Mackenzie.
Dalle isole Belcher, nella
parte meridionale della Baia di Hudson, si spinse nella desolata regione che circonda la Baia di Ungava e di
qui nel Labrador settentrionale. Più tardi ritornerà a percorrere queste regioni per raggiungere, attraverso lo stretto di Hudson, l’isola di Baffin. Non si hanno notizie circa i risultati di queste esplorazioni, ma si sa che fu proprio durante i viaggi nelle regioni antartiche che Robert Flaherty ebbe i primi contatti con la macchina da presa. Infatti fin dal 1913 egli aveva incluso una «camera » fra gli oggetti dell’equipaggiamento, desideroso di documentare i suoi viaggi, lunghi e faticosi, privi di qualsiasi comodità. 3I
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Così gli capitò più volte di dover sostare per lunghi periodi di tempo presso qualche sperduto villaggio esquimese e di dover condividere la vita durissima di quelle popolazioni, che traggono il loro unico sostentamento dalla caccia agli animali da pelliccia e dalla
pesca. Un episodio che risale appunto a quegli anni ci dice chiaramente quale fosse il suo interesse umano per quelli da lui chiamati «i miei amici esquimesi » e nello stesso tempo come andasse maturando in lui il senso del cinema. Durante un soggiorno particolarmente lungo in un villaggio dell’isola di Baffin, ebbe occasione di partecipare ad una battuta di caccia alla foca. Rimase talmente colpito dalla forza drammatica di quell’episodio che chiese ed ottenne dai cacciatori di ripetere la caccia perché lui potesse documentarla con la macchina da presa. Questa scena sarebbe dovuta comparire fra il materiale che diede origine al suo primo film: Nanook of the North, ma un incendio distrusse quella sequenza.
Flaherty non si rassegnò, anzi era deciso più che mai a rifare tutto nuovamente.
La parte
andata
in fumo
non era proprio quella che avrebbe desiderato, mancava di continuità, era frammentaria e senza legami. Era suo desiderio di ricavarne, questa volta, un film vero
e proprio, raccontando la vita di una famiglia di esquimesi. Il finanziamento dell'impresa da parte di una delle
grandi
case
produttrici
non
era
nemmeno
da
prendere in considerazione — Flaherty era per loro uno sconosciuto — ma trovò i finanziatori nei Revillon Frères, commercianti in pellicce, i quali acconsentirono a condizione che figurasse nel film il loro nome di pro-
duttori. 32
Evidentemente
avevano
compreso
l’impor-
tanza di potersi servire del film come mezzo pubblicitario. Flaherty ritornò sui suoi passi, e moltissimi esquimesi, avendo avuto notizia del nuovo lavoro dell’amico, andarono dove lui si preparava a girare, offrendo la loro collaborazione. Così nacque Nanook. Ma Flaherty dovette penare più di un anno, bussando a tutte le porte dei noleggiatori prima di trovarne uno disposto a distribuire il film. E quest’uno fu il rappresentante della Pathé. Nessun cinema voleva neanche proiettarlo. Solo l’intraprendente Roxy, programmatore del Capitol lo prenotò per questo locale, correndo il rischio di essere licenziato. Nanook fu così lanciato; ebbe un successo enorme in tutto il mondo e il giovane e sconosciuto regista attirò l’attenzione dei produttori hollywoodiani. La «Famous Players Lasky », che in seguito diventò la Paramount, gli offrì un contratto vantaggioso e la possibilità di andare nei Mari del Sud per documentare gli usi, i costumi e le condizioni sociali di quelle popolazioni. Flaherty accettò. Moana fu ultimato nel 1926, ma non accontentò i produttori, che provocarono l’al-
lontanamento
del Flaherty dalla
«Famous
Players ».
Ci fu per Flaherty un periodo attivo ma improduttivo. Mentre stava ultimando The 24 Dollar Island incontrò Maude Adams proprietaria dei diritti di riduzione del
libro
«Kim» di R. Kipling, la quale avrebbe voluto
che Flaherty andasse in India per trarne un film. Però le possibilità cinematografiche di questo libro non convinsero Flaherty, il quale fu invece conquistato da un altro progetto della Adams. Essa aveva portato in America il processo Gaumont per la ripresa a colori e
stava studiando nei laboratori della General
Electric
l’illuminazione speciale che richiedeva questo procedimento. A seguito di queste ‘esperienze venne inventata
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la lampada Mazda che si usa tutt’ora. Interessato da questi problemi tecnici, Flaherty trascorse intere settimane al Metropolitan Museum of Art e adoperò la nuova lampada per girare un documentario in bianco e nero sulla fabbricazione delle ceramiche, The Pottery Maker. Samuel Goldwyn, che nel frattempo si era distac-
cato dalla società e aveva gettato le basi della « Metro », assunse lui il giovane: dovette dirsi che, comunque, era un uomo di talento. E non trascurò certamente il fatto che, sia Nanook che Moana, avevano avuto un forte successo di pubblico. Bastava limitare l’iniziativa di Flaherty mettendogli vicino un uomo di fiducia che sapesse interpretare i desideri del produttore. La M. G. M. aveva acquistato i diritti del libro di Frédérick O’ Brien « White Shadows of the South Seas» e il produttore Irving Talberg chiese a Flaherty di dirigerlo assieme a W. S. Van Dyke. Ma nel libro non c’era racconto poiché era una raccolta di episodi di viaggio. L’unico interesse di Talberg nel libro era il titolo. Laurence Stallings fu chiamato a collaborare con Flaherty ed essi proposero la sostituzione di quel libro con « Typee » di H. Melville che era un racconto.... «la più bella storia che sia mai stata scritta sui Mari del Sud ». Però Talberg continuava a dire che « White Shadows... » era un titolo più da cassetta, e così Ray Doyle, uno scrittore della Paramount venne incaricato di stendere il treatment con Flaherty. Il film venne girato, ma Flaherty a un dato momento, trovatosi in disaccordo sul modo di realizzare il film, ritornò in America lasciando che Van Dyke lo terminasse da solo, Nel 1927 elaborò i piani per girare un film sugli Indiani Pueblo nel New Mexico, per conto della Fox.
34
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Gi lavorò un anno con il fratello David, la moglie Frances e l’operatore Leon Shamroy. Molta pellicola venne impressionata, ma interruppe il lavoro allorché la Fox volle inserire una storia d’amore... « incompatibile con il film come era stato progettato ». Da questo momento la vita di Flaherty sarà una continua lotta contro i sistemi della produzione hollywoodiana. Una lotta che purtroppo. conoscerà ben poche vittorie limitando a pochissime occasioni le. possibilità espressive di uno fra i più completi uomini di cinema che siano esistiti. Flaherty è applaudito dal pubblico, sostenuto dalla critica, ma i produttori non vogliono saperne di lui. Risale a quegli anni (1929) l’unico esperimento effettivo di collaborazione: quello con Murnau. Per una fortunata combinazione, la società Colorart Synchrotone Pictures offrì a Flaherty l’occasione di incontrarsi con il regista tedesco F. W. Murnau, ancora a Hollywood dopo il successo di Aurora. I due decisero di fare un film insieme. Sullo yacht di Murnau, il Bali, si recarono entrambi a Tahiti e a Bora-Bora. Dalla loro collaborazione nacque Tabu. Rimangono ancora molte incertezze a chi dei due attribuire il maggior merito. Nel 1930 avrebbe voluto realizzare un film basato su di un incidente realmente accaduto in una corrida
messicana dove un toro combatté così strenuamente per la sua vita che venne poi lasciato in libertà. Sia Fairbanks che Korda erano entusiasti dell’idea, ma il film non fu mai fatto. (Anni dopo Orson Welles acquistò il copione di quel film e lo girò nel Messico, consegnandolo poi alla R. K. O. come parte di pellicola girata nel suo viaggio nel Messico e nel Sud-America. Welles ha dopo cercato invano di riavere questo materiale dalla R. K. O.,
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per servirsene nei suoi film e documentari.) Sempre nel
1990 arrivò negli Stati Uniti, S. M. Eisenstein e Flaherty lo aiutò ad avere un visto per il Messico, dove si recava per girare lo sfortunato Que Viva Mexico. Flaherty lasciò l'America nei giorni della première di Tabu. Andava in Germania, a raggiungere la sua famiglia a Berlino. Di qui voleva passare in Russia per farvi un film sulla donna moderna sovietica per la Mejrabpom-Russ. La Germania era allora in uno stato caotico. « Il paese più decadente d’ Europa » disse
Flaherty. L’U. F. A. doveva fornire la pellicola per questo film, ma le trattative fallirono. Non avendo la possibilità di finanziare in proprio il suo viaggio in Russia, Flaherty accettò l’offerta di Grierson di andare in Inghilterra a girare un documentario. Sarà Industrial Britain, documentario diretto insieme al Grierson. Si era poi messo in testa di girare un film sulle genti delle Isole Aran. Finalmente Cedric Belfrage, critico cinematografico del « Daily Express» lo presentò a Michael Balcon, il quale intravedendo il valore cinematografico di quelle isole incaricò Flaherty di realizzare il suo progetto. Man of Aran rimane il capolavoro di R. Flaherty. Ormai le speranze di poter svolgere un lavoro indipendente sono rarissime. Industrial Britain non risponde alle speranze dell’E. M. B.; Man of Aran scontenta i produttori, altrettanto accade per Elephant Boy. Questo ultimo, girato in India, non piacque al produttore Korda, il quale vi fece inserire molti interni girati negli studios e presentò quell’ibridismo nel 1937. Flaherty rimase molto dispiaciuto per la manomissione, e contrariato da un fatto simile decise di dedicarsi per un certo periodo alla stesura di una serie di racconti, riuniti poi
36
nel libro « The Captain’s Chair » pubblicato nel 1938-39. Erano storie del Nord alcune delle quali vendette a Orson Welles per farne un film. Nel 1939 tornò negli Stati Uniti su invito di Pare Lorentz e del Dipartimento dell’Agricoltura per fare un film per loro: The Land, 1942. i Durante la guerra e fino al 1945-46 lavorò assieme al fratello David, come supervisore, nella produzione di una serie di documentari educativi tra i quali « Gift of green» (Il verde, grande dono della natura), a colori, e poi per conto della Sugar Research Foundation. Aveva avuto anche in progetto la realizzazione di un film sull’evoluzione della vita indigena nel Congo Belga: una famiglia negra della brousse messa improvvisamente a contatto con lo sviluppo industriale dei Katanga; tema che in altri luoghi e con personaggi diversi sarà quello di Lowisiana Story. Nel 1946 riceve l’incarico dalla Standard Oil di documentare il lavoro compiuto dalla Società per industrializzare la Luisiana e Flaherty consegna nel 1948
Louisiana Story». Ma anche questa volta i produttori non rimangono soddisfatti e sembra che appena veduto il film abbiano commissionato ad un altro regista un secondo documentario sullo stesso argomento. Louîsiana Story venne tenuto come pezza giustificativa di una spesa pubblicitariamente inutile ma, presentato alla Mostra di Venezia, vi ottenne un premio e un vivo successo. Dopo questo film, non si sono più avute sicure notizie sul lavoro di Flaherty. In qualità di supervisore curò con alcuni suoi collaboratori la nuova edizione del documentario su Michelangelo The Titan presentato in America nel 1950. Nello stesso anno venne in Italia,
dove aveva in mente di realizzare qualcosa sul cimitero
37
di Pisa. Oltre all’attività di regista svolse anche ricade fortunate
ed esperimenti sulla fotografia a colori. Di
Flaherty va inoltre ricordata l’attività di scrittore. Era membro del Realist Film Unit, della Royal Geographic Society e del Press Club di Londra; del Club Coffee House e dell’Explorer’s Club di New York. Poco prima di morire era stato eletto Presidente del Film Advisory Center di New York, associazione per la diffusione del cinema culturale.
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NANOOK
OF THE
NORTH
(Nanuk V’esquimese). Produzione: Revillon Frères, 1920-1922. Distribuzione: Pathè Pictures. Regìa: R. J. Flaherty. Assistente: Thierry Mallet. Soggetto: R. J. Flaherty. Fotografia: R.'J. Flaherty. Commento: Carl Stearns Clancy. Interpreti: Nanook, sua moglie Nyla e i loro bambini. Origine: U.S.A. A Toronto ‘70.000 piedi di negativo di questo film bruciarono in una fiammata perché Flaherty aveva dimenticato una sigaretta accesa nella stanza dove si trovava la pellicola. Ne rimase solo una parte, in negativo, che però a sè era inservibile. Per questo Flaherty tornò nel Nord e rifece completamente il film. Venne presentato per la prima volta al Capitol Theater di New York l’11 giugno del 1922. Il regista documenta le condizioni ambientali, le fatiche, gli stenti, le privazioni e i pericoli che gli esqui‘ mesi debbono affrontare per vivere. Questo documentario, girato a Port Huron, vicino alla Baia di Hudson, è considerato il progenitore del documentario moderno. Ebbe un enorme successo di pubblico, specialmente in Europa. A Parigi fu programmato per molti anni di seguito.
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THE 24 DOLLAR
ISLAND
Produzione: R. J. Flaherty, 1925. Regìa: R. J. Flaherty. Soggetto: R. J. Flaherty. Fotografia: R. J. Flaherty. Origine: U.S.A. Questo film è andato molto presto al macero dopo essere servito a proiettare fondalini in un music-hall.
Flaherty lo definì una «city symphony»
sull’isola
di Manhattan. È un ampio studio su New York e sul suo porto, girato per la massima parte dalle cime dei
grattacieli, con il teleobiettivo.
New
York
vista
da
« aquile meravigliate di fronte al fatto che delle creature, piccole come formiche, avessero potuto creare qualcosa di così gigantesco ». Non ebbe alcun successo. L’autore individuò ironicamente le cause del fallimento nel fatto che « mancavano inquadrature della parata di West Point ». 1
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THE POTTERY MAKER o STORY OF A POTTER Produzione: Metropolitan Museum of Art, 1925. Regìa: R. J. Flaherty. res R. J. Flaherty. Origine: U.S. A. Un documentario sull’arte delle stoviglie girato sfruttando il materiale del Metropolitan Museum of Art di New York. Il Museo possiede tuttora una copia
di questo
documentario
non curò il montaggio.
del quale Flaherty
tuttavia
Di solito il film non gli viene
nemmeno attribuito.
43
MOANA Produzione:
Famous
(L’ultimo Eden). Players - Lasky
Corporation
(Paramount),
1923-1926.
Distribuzione:
Soggetto: R. J.
Flaherty e Frances Flaherty. Fotografia:
Regìa: R. J. Flaherty. Assistente: R. J. Flaherty e Bob
Johnston.
Roberts.
Flaherty.
Commento:
Interpreti: Reri e Matchi, una
giovani Maori. Origine: U. S. A.
Paramount.
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Il nero ortocromatico e il negativo bianco impiegati fino a quel giorno per le riprese cinematografiche non potevano sod-
disfare le sfumature dei colori dei Polinesiani. Un fortunato incidente fece scoprire a Flaherty che la pellicola pancromatica
(riservata fino ad allora per la sola fotografia a colori) rendeva fedelmente in bianco e nero, la tinta della pelle degli
indigeni e quella degli alberi di quelle isole. La usò per
primo in questo film la cui realizzazione durò circa quattro anni e che fu presentato per la prima volta al Rialto Theater di New York il 7 febbraio 1926. Il film illustra i costumi, le cerimonie, le credenze e l’organizzazione sociale degli indigeni delle isole Samoa in Polinesia. Fu definito «una relazione visiva degli avvenimenti che ricorrono nella vita quotidiana di un giovane polinesiano ». La base della troupe venne stabi-
lita nell’isola Savai e durante questo tempo Flaherty visse a diretto contatto con gli indigeni spostandosi continuamente da un’isola all’altra dell’arcipelago per avere una visione complessiva della vita di quelle popolazioni, delle quali descrive la nobiltà primordiale. Il
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i: paro. e in Francia. Parigi gli decretò un trionfo, Il film tenne il cartellone per molti anni a Parigi e a Stoccolma.
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SHADOWS OF THE SOUTH (Ombre bianche).
SEAS
Produzione: Metro Goldwyn Mayer, 1927-1928. Distribuzione: M. G. M. Regìa: W. S. Van Dyke e R. J. Flaherty. Soggetto: di R. J. Flaherty e Ray Doyle tratto da un libro di viaggi di Frédérick O” Brien dallo stesso titolo. Sceneggiatura: R. J. Flaherty
e Ray Doyle. Fotografia: Clyde de Vinna, Bob Roberts e George
Neagle.
Musica:
William
Axt,
canzone
‘ « Flower of love ». Interpreti: Monte Blue e Raquel Torres. Origine: U. S. A. Prin:0 film sonoro uscito in Italia. Proiettato per la prima volta il 31 luglio 1928. Un dottore sbarca in un’isola rimasta immune dalla penetrazione dei bianchi. Egli fugge la civiltà dei Paesi più progrediti e cerca pace nella natura. Nell’isola trova una piccola tribù di indigeni dedita alla pesca; uno di questi indigeni è un abilissimo pescatore di perle. La vita trascorre nella massima tranquillità e semplicità.
Un giorno da un’isola vicina arriva una bella ragazza che s'innamora
del giovane
pescatore.
Il medico
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venta qualcosa come il nume tutelare di questa nuova famiglia e sembra aver trovato finalmente quella serenità che cercava. Tutto procede per il meglio fino al giorno in cui arriva una nave. Gli uomini bianchi sconvolgono la vita patriarcale dell’isola, e riescono a convincere il giovane indigeno ad andare con loro. Il
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TABU Produzione: Colorart Synchrotone Pictures, 1928-1931. Distribuzione:
Paramount.
Regìa:
F. W.
Murnau
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R. J. Flaherty. Assistente: David Flaherty. Soggetto: R. J. Flaherty. Sceneggiatura: R. J. Flaherty e F. W. Murnau. Fotografia: Floyd Crosby. Musica: Hugo Riesenfeld. Interpreti: Reri (Anna Chevalier), Matahi e Bill Bambridge. Origine: U. S. A. Questo può essere considerato l’ultimo film muto. La partitura sonora che l’accompagna venne aggiunta e adattata più tardi negli studios della Paramount. Quasi tutti î negativi e positivi di questo film sono andati distrutti. Per la
sua eccezionale fotografia, gli venne conferito un Oscar dalla Motion Pcture Academy di Hollywood. È stato fresentato în prima proiezione il 18 marzo 1931.
È l’unico esempio di compiuta collaborazione che si riscontri nella carriera di Flaherty. Benché la loro forma-
zione artistica fosse antitetica
(Murnau
infatti aveva
sempre lavorato negli studios, cosa che Flaherty aborriva) i due artisti seppero conciliare le differenti personalità e realizzare un notevole film, anche se la linea di demarcazione del compromesso vi è visibile. La prima parteè genuina; la seconda risente invece di influenze che non appartengono allo stile di Flaherty e che addirittura non sono conciliabili con la sua rigidità. Il contrasto è talmente evidente per chi conosca a fondo la mentalità
e il metodo di Flaherty, da indurre taluni a pensare ch’egli abbia collaborato solo alla prima parte del film, 46
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registi andarono a Tahiti e vi rimasero due anni. La ricerca e la scelta del materiale furono fatte secondo il
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Produzione: J. Grierson e R. J. Flaherty per l’Empire Marketing Board, 1933. Distribuzione: Gaumont-
British.
Regìa:
R. J. Flaherty
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Grierson.
Soggetto: R. J. Flaherty e John Grierson. Fotografia: R. J. Flaherty. Montaggio: John Grierson. Origine:
GRAN BRETAGNA.
Documentario sulle industrie britanniche che studia il lavoro e gli operai dei midlands inglesi.
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MAN OF ARAN (L’uomo di Aran). Produzione: Michael Balcon, 1933-1934. Distribuzione: Gaumont-British. Regia: R. J. Flaherty. Assistente: John Taylor. Soggetto e Sceneggiatura: Robert, Frances e David Flaherty. Fotografia: R. J. Flaherty. Musica: John Greenwood, basata su arie tradizionali irlandesi. Montaggio: "John Monck. Interpreti: Kolman « Tiger » King (l’uomo), Maggie Dirrane (la donna), Michael Dillane (il ragazzo), attori non professionisti. Origine: GRAN BRETAGNA. Questo film richiese circa due anni di lavoro. Per girarlo Flaherty si installò a Inishmore, la più grande delle tre isole di Aran. Fu premiato alla Mostra di Venezia del 1934, dal National Board of Review, dall’ Herald Tribune di New York e in Giappone. Venne proiettato in première al cinema New Gallery di Londra nel 1934; in America il 18 ottobre 1934. La realizzazione di questo film sulla vita dei pescatori delle isole di Aran fu possibile grazie all’interessamento dell’ E. M., B. (Empire Marketing Board) la cui sezione cinematografica, diretta da Grierson, si giovò della collaborazione dei migliori documentaristi e diede vita alla scuola documentaristica britannica. Anche per questo film, come già per Nanook, fu difficile trovare un noleggio. Flaherty stesso dovette girare per circa un anno prima di riuscirvi. Il film ebbe successo in Gran Bretagna e in Italia.
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(La danza degli elefanti).
Produzione: Alexander Korda, 1935-1937. Distribuzione: London Film. Regìa: R. J. Flaherty e Zoltan Korda. Assistenti: David e Frances Flaherty. Soggetto: di R. J. Flaherty tratto da « Toomai of the Elephants» di Rudyard Kipling. Sceneggiatura: R. ]J. Flaherty. Fotografia: Oscar Borrodaile. Interpreti: Sabù e attori non professionisti. Origine: GraN BRETAGNA. Solo per questo film Flaherty usò la registrazione diretia della colonna sonora, mentre era solito applicare il sonoro a film ultimato. Venne girato a Mpysore, in India. Presentato alla Mostra di Venezia del 1937, uscì in America il 5 aprile 1937. Toomai, figlio di un conducente di elefanti, sente raccontare dai vecchi la leggenda secondo la quale nelle notti di plenilunio gli elefanti si dànno convegno in una valle per danzare. Il giovane non vi crede, ma una notte di luna piena, mentre è a guardia dell’elefantessa Kalanagh affidata a suo padre, si accorge che una strana agitazione domina gli elefanti rinchiusi nel recinto. Ben presto i barriti si fanno più alti, gli elefanti cominciano a infrangere le barriere, irrompendo nella foresta e tutto travolgendo. Toomai, che si era arrampicato sulla sua elefantessa, si trova a partecipare a questa corsa nella notte. Finalmente giunge ad un’ampia radura già rigurgitante di elefanti che ‘alzano ritmicamente le zampe, in una specie di danza; alle prime luci
dell’alba la strana festa finisce e gli elefanti ritornano 52
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nei loro recinti, pacificamente. Toomai può così raccontare di aver partecipato alla danza degli elefanti. Nessuno gli crede ma egli convince i vecchi a seguirlo nella foresta e mostra loro gli alberi abbattuti e il luogo dove si è svolta la cerimonia. Per questa impresa viene promosso conducente di elefanti. Questo film segna un netto punto di arresto nell’opera di Flaherty. Le critiche dei suoi amici inglesi furono fin troppo spietate, si scrisse della «capitolazione di Flaherty di fronte alle
leggi della queste
accuse
produzione sono
commerciale », ma molte
facilmente
confutabili,
di
soprattutto
se si ricorda il suo noto dissidio con i produttori,
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THE
LAND
Produzione: U. S. Department of Agriculture, 19391942. Regìa: R. J. Flaherty. Assistenti: Irving Lerner, Douglas Baker e Frances Flaherty. Soggetto e Sceneggiatura: R. J. Flaherty. Fotografia: R. J. Flaherty. Speciali effetti di fotografia: Floyd Crosby. Musica: Richard Arnell. Montaggio: Helen Van Dongen. Commento: R. J. Flaherty. Origine: U. S. A. Non venne mai distribuito perchè il Ministero americano l’aveva giudicato disonorante per il paese. Documentario sui problemi della terra commissionato dal Dipartimento per l’Agricoltura Americana per appoggiare la campagna diretta ad ottenere in certe zone uno sfruttamento più ampio e razionale. Si tratta di uno studio sull’allontanamento dei contadini daicampi a causa della concorrenza dei mezzi meccanici. Vennero percorse 25.000 miglia per girare questo doumentario,
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LOUISIANA
STORY
Produzione: Standard Oil Company, 1946-1948. Produttori associati: R. J. Flaherty, Richard Leacock e Helen Van Dongen. Distribuzione: London Film. Regia: R. J. Flaherty. Soggetto e Sceneggiatura: Robert J. Flaherty e Frances Flaherty. Fotografia: Richard Leacock. Musica: Virgil Thompson. Orchestra di Filadelfia ‘diretta da Eugene Ormandy. Suono: . Benjamin Doniger. Interpreti: Joseph Boudreaux (il
ragazzo), Lionel Le Blanc, Frank Hardy, C. P. Guedry. Origine: U.S. A.
Questo film sembra sia stato girato prima a 16 mm. e poi sincronizzato con dischi. Presentato e premiato alla Mostra di Venezia del 1948. Documentario a lungo metraggio sulla penetrazione industriale nella Luisiana. Il film svolge parallelamente due spunti: l’arrivo delle maestranze di una società petrolifera che intende sfruttare le ricchezze minerali della zona; la vita di una famiglia di Arcadiani (emigrati francesi) che risiede da tempo in quella zona poco abitata e conduce un’esistenza molto legata alla natura. I punti centrali delle due azioni sono: per la famiglia, o meglio per il ragazzo che la rappresenta, la lotta con il coccodrillo, uno dei più begli esempi di montaggio che si possano citare; per i pionieri del petrolio, la sequenza della trivella e dell’agganciamento dei
tubi di perforazione dove il commento sonoro acquista una
eccezionale
efficacia.
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| THE TITAN: Story of Michelangelo. €
» | Documentario presentato in America nel 1950. Era stato iniziato tredici anni prima dal produttore svizzero cea Oertel. Durante la guerra il film fu preso dai nazisti che presentarono în Francia come un primo esempio di nazi «kultur ».. Scovato da Flaherty, il film è stato adatiato e rimontato da un gruppo di suoi collaboratori con la sua supervisione; il commento Peratoè di Robert Vincent e il commento musicale di Alois Melichar. La voce che legge il
commento parlato è dell’ attore Fredrich March. Proiettato al Little Carnegie Theatre di New un grande successo.
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