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Italian Pages 144 Year 2015
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Al Buon Corsiero
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Coordinamento editoriale Leandro del Giudice Redazione Anna Bartoli Giovanni Cascavilla In copertina Martin Heidegger nell’autunno 1945 all’epoca del primo incontro con Frèdèrick de Towarnicki
(le fotografie provengono dall’archivio Towarnicki) ISBN 978-88-8103-861-9 © 2015 Edizioni Diabasis 2016 Seconda ristampa
Diaroads srl - vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 - e-mail: [email protected] www.diabasis.it
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Frédéric de Towarnicki
Ritorno ad Heidegger Ricordi di un messaggero della Foresta Nera
Prefazione di Beppe Sebaste Con una nota di Gianni Scalia
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Al lettore italiano
Mentre finivo questo racconto nel paesaggio di Vence – la cui luce, mi diceva Giorgio De Chirico, era vicina in autunno alle sue «piazze d'Italia» – immaginavo, all’ombra del Futuro, un mitico lettore che si interessasse a queste pagine. Avrei voluto dirgli che avevo scritto questi ricordi in piena tempesta polemica, alla maniera con cui si lancia in mare una bottiglia, nella speranza che raggiungesse lidi più sereni. Per dire, anche, quanto mi avesse meravigliato, nella casa di Heidegger, la scoperta della questione dell’essere confrontata al mondo della tecnica – e infastidito, più tardi, l’accanimento di chi sembrava volerne cancellare la traccia. In quale biblioteca avevo trovato un giorno quelle parole che Pirandello rivolse in francese ai suoi detrattori: «Ils me detestent parce que je les ai démodés?». Non prevedevo certo che la mia bottiglia in mare costeggiasse cosi presto le rive dell'Italia. Ringrazio i promeneurs tosco-emiliani che se ne sono accorti, e che si sono dati la pena di tradurne il contenuto. Dedico ai miei amici italiani questo piccolo libro che evoca, con gli occhi di un giovane soldato, «Rhin et Danube», dell’esercito francese di occupazione, le conseguenze di un passo falso politico che il suo autore, non senza prendere rischi personali, giudicò lui stesso, fin dal 1938 in occasione di un Circolo di Studi, essere stato «un errore, in qualunque modo lo si fosse considerato». F. de T.
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Frédéric de Towarnicki, «messaggero della Foresta Nera», con Heidegger, primo incontro nell'autunno del 1945. Fotografia di Alain Resnais
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Incontro a Frédéric de Towarnicki
La prima volta che ho parlato con Frédéric de Towarnicki è stato al telefono una sera d’inverno. Il necessario contatto stabilito per ragioni editoriali divenne subito, con una curva tanto imprevista quanto impercettibile e dolce, un dialogo sulla vita tra persone che sanno ascoltarsi. Ricordo che mi disse, come se fosse la cosa più naturale del mondo e la vera ragione della mia telefonata, che verso i quarant’anni si incontra una nuova adolescenza, una «semplificazione di quel magma incomprensibile che è la vita». E ci siamo messi a parlare della Via, proprio così, che per lui fu l'incontro con Heidegger e la filosofia, per me qualcosa di un po’ diverso, e che per altri può essere proprio di tutto. Dovendo fornire qualche dato su di lui al lettore italiano, meglio dire subito che la biografia di Frédéric de Towarnicki è quella di un’erranza divenuta quête (senza enfasi ma con piena adesione a quanto le parole designano), e scandita da incontri con «persone straordinarie»: metafisica che egli trasformò in mestiere, avendo fatto il giornalista culturale e lavorato per molti anni al Service de Recherche de la Television Française (Ortf). Il suo rapporto con la parola scritta inizia però con la poesia, con quegli stessi versi, rigorosamente costruiti a coppie ritmate, con cui aveva divertito Heidegger, e che nel 1952 gli valsero la proposta di Picasso, che in essi riconosceva il ritmo vitale del flamenco e del fado (il “blues portoghese”, per così dire) di illustrarli con propri disegni. Towarnicki, troppo intimamente vagabondo e gratuito per dare importanza alla propria creatività, lasciò col tempo cadere la proposta, e le sue poesie sono tuttora inedite. Tipica di questa ritrosia fu forse anche la storia del film mai realizzato, e che doveva fare con l’amico Alain Resnais a una certa epoca, Les aventures de Harry Dickson, storia poliziesca che assume le dimensioni di epopea mitica, di cui i media parlarono così
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tanto da far pensare che fosse stato effettivamente realizzato. Frédéric de Towarnicki fu amico di pittori, uomini e donne di teatro, scrittori, filosofi, cui ha dedicato vari scritti e di cui conserva una miniera di materiali vivi, fatti di conversazioni registrate e di ricordi, in una cantina della sua dimora. Da Brecht a Ernst Jünger, da Mircea Eliade a Max Ernst, da Chagall e Satprem ai maestri zen (ma non va dimenticato l'impegno politico e sociale per i dissidenti sovietici, e il suo rapporto con Solzenicyn e Sakharov), la sua erranza poetica fu costellata di incontri e interrogazioni con maestri possibili al punto che nessuno, neppure lui stesso, ha mai potuto avere di Towarnicki un’immagine che fosse una. Se non fosse che l’incontro con Heidegger marcò davvero e indelebilmente la sua vita. Vorrei descrivere, come parte integrante del paesaggio anche interiore del nostro incontro e della sua figura, il luogo in cui Towarnicki abita da qualche tempo. È un villaggio che si chiama Vanves, propaggine di Parigi in direzione sud, come Issy-les-Moulineaux o Malakoff, e collegata dalla metropolitana col centro di Parigi. Ma è pure un villaggio appartato e autonomo, con un suo centro storico e un suo parco, un ristorante cinese e una pizzeria italiana; con i suoi contrasti architettonici che miniaturizzano il conflittoconciliazione tra le “antiche” forme abitative e i nuovi palazzi che a contatto con esse acquistano immediatamente un’aura archeologica o di modernariato, non priva di tenerezza. L’abitazione di Towarnicki è al secondo piano di una palazzina recente, di fronte a una piazzetta con un vecchio bistrot e un garage, e in mezzo alcuni alberi che suggerirono, a me visitatore, una freschezza come di guance appena rasate al contatto dell'aria fredda e stuzzicante. Durante il nostro primo pasto insieme, nella pizzeria italiana di Vanves, avevo già sentito con lui una connivenza morale e sentimentale, «in questo terribile mondo della tecnica», come disse; appassionato e istrionico, umoristico e 8
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sincero, il vagabondo-narratore Frédéric de Towarnicki ha ancora i tratti di spirito con cui dovette stupire e deliziare il compunto filosofo della Foresta Nera. Per quanto rischi sempre l’illazione il trasferire i caratteri di un autore alla sua opera, ora, quando penso a Towarnicki e alla sua amicizia con Martin Heidegger, mi viene in mente non tanto la foto di lui, giovane soldato francese, col capitano Fleurquin a lato del «ridicolo filosofo con i calzoni alla zuava» (come direbbe Thomas Bernhard); ma, per proprietà transitiva, un’altra fotografia in cui si vede Heidegger, con Jean Beaufret e il poeta René Char, tra i giocatori di pétanque nel Sud della Francia, totalmente e sorprendentemente assimilato a essi anche nel modo di vestire e nella gestualità. E mi viene in mente la testimonianza di Char: ai seminari di Thor, ogni volta che Heidegger udiva il nome di Towarnicki, il volto gli si illuminava di un lungo sorriso... È in questo alone che le parole di Towarnicki si aprono il loro spazio. Se – a differenza dei suoi amici heideggeriani di Francia, rigorosi e puri nel lavoro come, dice Towarnicki, dei «benedettini» – la sua relazione con Heidegger fu una “commedia”, un “teatro all'italiana”, è proprio questo che ha fatto dire a un noto cronachista cultural-mondano, con formula felice, che «Heidegger ebbe molta fortuna a incontrare Towarnicki». La bellezza del loro incontro consisté proprio nell’improbabilità, nella discontinuità e disomogeneità dei linguaggi e dei modi, ciò che crea sempre ricchezza tra gli interlocutori. Ma non è solo questo. Nell'avvicinarsi a colui che si può a ragione chiamare maestro, e comunque maestro di Towarnicki (e non importa la durata della relazione), uno dei primi dati che si colgono è sempre l’iridescenza del riconoscere la magia della trasmutazione delle contraddizioni in evidenze. Cambiando perfino il nostro modo e idea del comprendere, il maestro è colui che scompone per ricomporre, disgrega per riaggregare, deterritorializza per riterritorializzare, e così facendo ci “illumina”; e ciò che vale, più dei concetti e dei “dati”, è il 9
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cammino, il corso sorprendente della comprensione che esso inaugura in noi. Così è stato per Towarnicki. Nel suo racconto, in cui accanto alle altezze del pensiero è evocata la “preoccupazione pedagogica” di Heidegger, ricorrono spesso frasi che designano la relazione maestro-discepolo – lo spaesamento, il perdersi, lo scarto o salto, a volte drammatico, che l’apprendistato alla comprensione ci richiede; e, al tempo stesso, la sensazione che egli produce di dover ritornare alle origini, alla semplicità di un procedere che scaturisce dalla sorgente stessa del nostro essere al mondo. Towarnicki descrive esemplarmente, dal punto di vista del discepolo, quello spaccato di maestria che contempla, accanto alle parole, anche perturbanti intermittenze di silenzi. Come ha scritto di recente un filosofo che ha avuto la rara capacità di uscire dalle fila degli «intellettuali terrorizzati» e compiaciuti di sé, di attraversare cioè una «trasformazione psichica» quale quella che i maestri inducono nei discepoli, «il maestro, quale che sia e quando che sia, se è un maestro, è colui che restituisce il discepolo a se stesso e alla sua condizione di autenticità attraverso trasformazioni ed elaborazioni di pensiero, perché si sa che – per quanto possa risultare incredibile – per diventare se stessi occorre inventarsi»1. Il maestro è colui che indica il cammino che ognuno deve percorrere da solo: «A uno studente che, sproloquiando sulla metafisica, diceva di non riuscire a “vedere” la portata della questione del’essere, [Heidegger] aveva risposto: “Io non posso vederla al suo posto, e dunque non posso far niente per lei”». Se è vero che è sempre il discepolo a creare il maestro, perché il maestro prende forma nell’orizzonte di attesa del discepolo, credo che Towarnicki divenne veramente se stesso a partire da quell’incontro é quella frequentazione con una persona giustamente tanto diversa da lui. Uno dei grandi pregi della narrazione di Towarnicki è nel saper riferire con onestà e rigore il senso di evidenza che i Maestri trasmettono, ma che è così difficile e arduo ritrasmettere a terzi2. Lui ci è riuscito benissimo, con fedeltà 10
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a se stesso, scoprendo perfino di «non aver commesso – nello specifico terreno di Heidegger, la filosofia (come mi ha detto con stupefatto candore, e inducendomi a un largo sorriso) – neanche un errore». Romanzo di «iniziazione», come lo ha definito Julien Gracq, cioè di formazione al cospetto di un Maestro, esso suscita le attese narrative di una detection story, ed è in effetti anche un romanzo poliziesco, se si pensa che all’epoca iniziò la trama di sospetti e di condanne che ancora oggi grava sul pensatore della Foresta Nera. Il Maestro, spesso, lo si riconosce solo alla fine del cammino, o nell’idea di approssimarsi a essa. Frédéric de Towarnicki, che non ha mai smesso di sentirsi in cammino, mi ha detto pressapoco questo di recente: di sentirsi a volte come un esploratore che sia arrivato nei pressi della sua destinazione ma non se ne sia reso conto, o abbia capito tardi di esserci già passato di fianco, e di esservi forse già stato da sempre e di avervi girato intorno; e di venire còlto da un senso di profonda e larga meraviglia. Io ho sentito che questa sua meraviglia è colma di gratitudine, e che meraviglia e gratitudine sono ciò che tuttora lo spronano a continuare il cammino. Beppe Sebaste Parigi, autunno 1996
Note 1. Aldo Giorgio Gargani, La figura del maestro. Esemplarità, autenticità e inautenticità, in Filosofia ’94, a cura di Gianni Vattimo, Laterza, RomaBari 1995. 2. È opportuno ricordare che, nell’edizione francese, al racconto che qui pubblichiamo segue una lunga conversazione di F. de Towarnicki col filosofo Jean Beaufret (Naissance d’une question), da molti considerata una delle migliori introduzioni al pensiero di Heidegger.
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Frédéric de Towarnicki
Ritorno ad Heidegger Ricordi di un messaggero della Foresta Nera
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Heidegger e la moglie Elfride negli anni Sessanta a Zähringen
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De Towarnicki, il capitano Fleurquin e Heidegger in costume regionale grigio verde a Zähringen nel 1945
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Lo scrittoio del filosofo
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A mia madre a Nora Ringrazio Sophie Bastide-Foltz e Nora Sagnes che giorno dopo giorno hanno vegliato su questo periplo della memoria. La mia gratitudine a Georges Walter, critico onnipresente. Agli amici Jean-Michel Palmier, François Fédier, François Vézin, Lou Bruder che volentieri hanno voluto leggermi.
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Towarnicki, Heidegger e la moglie nel 1969
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L’ente ci incontra da ogni parte, ci avvolge, ci sostiene e a lui ci sottomette, ci affascina e ci appaga, ci esalta e ci delude. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica
Il pensiero dell’essere non trova alcun sostegno nell’ente. M. Heidegger, Che cos'è la metafisica?
Così, mentre si sottrae, l’essere si assegna all’uomo in un modo tale che si dispensa la sua origine essenziale dietro lo spesso velo della ragione, dietro il velo delle cause e di tutte le loro trasformazioni. Perché gioca, il grande Fanciullo che Eraclito ha percepito nel Tempo, il Fanciullo che gioca il Gioco del mondo? Gioca perché gioca. Il “perché” sparisce nel Gioco. Il gioco è senza “perché”. Gioca mentre gioca. Il Gioco solo resta: è ciò che c’è di più alto e di più profondo. M. Heidegger, Il principio di ragione
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La casa di Heidegger sulle alture di Friburgo
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1. Il cammino di Zähringen
La seconda guerra mondiale era alla fine. Fui, per caso, il primo visitatore di Martin Heidegger in una Germania in ginocchio, in cenere, paralizzata. Quale destino, nella primavera del 1945, fra le rovine di Friburgo, mi condusse alla ricerca di un uomo di cui da anni non si sapeva più nulla? Potevo allora immaginare quanto mi avrebbe segnato il suo pensiero singolare e il clamore che si sarebbe sollevato attorno al suo nome? Messaggero senza messaggio, era stato sufficiente che portassi al filosofo tedesco, che non conoscevo, due articoli di Jean Beaufret, filosofo francese di cui ignoravo tutto, per innestare trent’anni di dialogo. Jean Beaufret fu sempre curioso dei miei incontri della Foresta Nera, che avevano preceduto d’un anno i suoi, stupito anche da una lunga serie di segnali e giochi di specchio. E, che dire, poco dopo la Liberazione, dell’equivoco della montagna Sainte Geneviève? In un ristorante dove sono in uniforme, qualcuno a un tavolo vicino, s’interroga sulla sorte dì Heidegger. Guardo lo sconosciuto che aveva fatto quel nome, mi alzo e lo avvicino: il filosofo di cui parla è sopravvissuto alla guerra, io stesso gli ho appena consegnato a Zähringen due testi sull’esistenzialismo di un certo Jean Beaufret di cui gli ho raccomandato vivamente la lettura. Uno scoppio di risa semplificò le presentazioni. In seguito Beaufret mi raccontò che, venuto in fretta al mio albergo di rue Soufflot, per prendere in prestito un manoscritto che mi aveva affidato Heidegger, aveva finito per scovarlo in un angolo della mia camera sotto pile di romanzi di cappa e spada. Era la celebre conferenza dattilografata e annotata su L'origine dell'opera d'arte. Avevo poco più di vent’anni e scrivevo delle poesie.
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Ricordati le mille e una guerra Nel vecchio albergo militare Dove la gente non ritornava Frantumate vetri dei lampadari Noi passeggiavamo per paesi veri Dal Lussemburgo al Quai Voltaire Cessate quei fragori di vetro Uno comincia dove l’altro cessa1
Il Terzo Reich stava per capitolare. A Parigi, era il tempo dell’esistenzialismo. Nessuno sapeva che cosa volesse dire quella parola: a Saint-Germain-des-Prés, forse un certo modo di vivere la nostra ritrovata libertà. Fornito di documenti falsi, sfuggito a un rastrellamento a Pigalle e a una caccia all’uomo a Saint-Julien-Ecuisse, sulla linea di demarcazione, impedito di raggiungere l’Inghilterra per il puntiglio di un console britannico, durante l’occupazione mi spostavo rasente i muri. Mi vedo ancora osservare all'angolo di rue Saint-Jacques l’ultimo panzer tedesco che, a torretta aperta, girava attorno al Panthéon. A Saint-Germain-des-Prés prendeva forma il linguaggio dell’epoca, anche il suo gergo. Gli intellettuali quasi costernati d’avere vissuto così male il tempo dell’ante-guerra, alla ricerca di una morale politica, scoprivano il peso della storia, la loro “storicità”. Si leggeva Sartre e Camus, Marx e Freud, Dos Passos e Faulkner, Eluard e Queneau. I vecchi surrealisti uscivano dal loro ghetto. Nelle gallerie resuscitavano dall’ombra tele e incisioni di Max Ernst, Picasso, Paul Klee, Chagall. La critica mescolava tutto. La filosofia di Jaspers e quella di Gabriel Marcel, Trotski e Malraux, Nietzsche e André Breton, Kierkegaard e Heidegger. Ne Il mito di Sisifo, Albert Camus lo indicava come il moderno portavoce del nichilismo e dell’assurdo. Un punto di vista sbagliato che condividevano, del resto, Emmanuel Mounier e André Malraux. Al Flore, al costo di “un mezzo”, si poteva vedere Jean Paul Sartre che, al suo tavolo, elaborava il programma della rivista «Les Temps Modernes», in cui la teoria dell'engagement 22
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segnava la fine di un passato ritenuto irresponsabile: «Scriviamo per i contemporanei, non vogliamo guardare il mondo con occhi freddi, sarebbe il modo più sicuro per ucciderlo... È qui, e da vivi, che le partite si vincono o si perdono... Tanto peggio per Balzac e la sua indifferenza per le giornate del ’48, tanto peggio per Flaubert con la sua atterrita incomprensione di fronte alla Comune...» Tornato nel ’41 dallo Stalag di Trèves, Sartre aveva reso noto in Francia, in un libro, più celebrato che letto, i nomi di Husserl e Heidegger. Con L’être et le néant, i temi di Sein und Zeit – l’autenticità, l’essere-al-mondo, l’angoscia, la libertà – divennero familiari. L’uomo non era nel mondo come un oggetto o un animale. Era al mondo, si dispiegava per lui solo un mondo. Libero, era un essere di progetto. A ogni istante, nella sua esistenza, ne andava del suo proprio essere. Con Husserl e Heidegger, scriveva MerleauPonty nella sua Phénoménologie de la perception, «molti dei nostri contemporanei sentivano non tanto di scoprire una nuova filosofia quanto d’incontrare ciò che aspettavano». Senza perdersi in sottigliezze, l’intellighenzia comunista replicava che questa pretesa “filosofia nuova”, era il canto del cigno di una piccola borghesia minacciata. Nel Quartiere Latino, a Saint-Germain-des-Prés, il materialismo storico, dichiarato scientifico, diffondeva già un saggio del terrore e preparava il culto della Rivoluzione d’ottobre. Da lontano s’annunciava l’onda irrompente delle scienze umane che si sarebbero sostituite alla filosofia. Ero fra coloro che la lettura di Sartre e di Che cos’è la metafisica di Heidegger aveva riempito di meraviglia. Nel cuore degli scritti di Heidegger, così oscuri, prossimi alla poesia, brillava un’insolita luce, una questione, forse fuori portata, che covava in me da sempre. Nel suo testo Hölderlin e l’essenza della poesia, tradotto da Henri Corbin, Heidegger citava il poeta: «Per questo è dato all’uomo il più pericoloso dei beni, il linguaggio... affinché testimoni ciò che egli è...»2. E scriveva: «La poesia non è 23
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solo un ornamento che accompagna l’esserci, non è solo un entusiasmo momentaneo o addirittura solo un eccitamento o un intrattenimento. La poesia è il fondamento che regge la storia e perciò non è neppure soltanto un fenomeno della cultura e meno che mai la mera “espressione” dell'anima di una cultura»3. Nello stesso testo Heidegger diceva tutto il peso di un verso di Hölderlin: «Pieno di merito, ma poeticamente abita l’uomo su questa terra»4. Leggevo e rileggevo un’altra conferenza (Vom Wesen des Grundes) di cui, nella traduzione, non capivo propriamente nulla: «La libertà è il fondamento del fondamento, le ragioni della ragione... Così l’uomo, che come trascendenza esistente si slancia in avanti verso delle possibilità, è un essere della lontananza. È solo attraverso lontananze originarie che egli si forma nella sua trascendenza rispetto a ogni ente, cresce in lui la vera vicinanza alle cose»5. Delle questioni di Heidegger sul linguaggio, non trovavo nessuna corrispondenza negli scritti di Sartre. Fu allora che cinque articoli sull’esistenzialismo firmati da Jean Beaufret misero sottosopra i pezzi della scacchiera. Sulla rivista lionese «Confluences» Beaufret mostrava, in un modo sereno e di impressionante chiarezza, come Sartre e i suoi epigoni fossero fuori strada. La questione direttrice di Heidegger non era, come in Sartre (o nei filosofi esistenziali), quella dell’esistenza dell'uomo, ma su un altro piano e con radicale novità la questione del senso dell’essere e dell’essenza della verità. La differenza era rilevante: tutto, dall’A alla Z, doveva essere ripensato. Beaufret osservava ancora che la fenomenologia, «il pensiero di Husserl che Heidegger prolungava con grande ricchezza», restituiva alle cose del mondo il loro spessore: il paesaggio, caduto in sospetto, riprendeva consistenza. Dopo «la dissoluzione delle cose del mondo nell’arcobaleno dell’impressionismo – concludeva Beaufre – con Heidegger si ripresentava un Cézanne per ridare al mondo forma, rilievo, plasticità, dimensione». 24
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Heidegger, un Cézanne della filosofia? È senza dubbio dopo questa lettura che mi venne l’idea temeraria che soltanto Heidegger poteva metter luce su tutto questo, se fossi riuscito a ritrovarlo nella Foresta Nera. Il caso fu un primo colpo di fortuna. Era comparso un ufficiale delle truppe francesi in Germania, amico intimo del generale de Latte de Tassigny, invaghito d’esoterismo e di teologia. Un amico, che avevo conosciuto a Parigi, gli aveva parlato di me. Il capitano Fleurquin s’interessava all’esistenzialismo, di cui confessava di non capire niente. Fleurquin, in effetti, era un tenente, ma non so perché veniva chiamato «capitano». Forse perché si occupava con discrezione d’un servizio «Rhin et Danube» detto di documentazione, termine carico di sottintesi, che produceva sull’esercito un effetto magico. Io comprendevo il tedesco, Fleurquin aveva bisogno di me e mi aprì, sull’altra sponda del Reno, il passaggio rigorosamente controllato dall’esercito: era là che cominciava la Germania dell’Apocalisse con il suo odore di ferrame e di fosforo, il paese dei nembi di cenere e delle colonne di profughi che trascinavano le loro carrette. Atterrai a Colonia, non senza un certo risentimento, con un aereo da trasporto militare, e raggiunsi Lindau. A sud, a eccezione di Friburg-in-Brisgau e altre poche città, dove i bombardamenti avevano fatto decine di morti, la regione di Bade si presentava poco colpita. A fine aprile del 1945, la città universitaria di Friburgo si era arresa senza fare resistenza e la maggior parte della regione di Bade si trovava nella zona francese d'occupazione. Di chi fidarsi tra i Tedeschi? Come distinguere il criminale di guerra travestito da superstite dei campi di concentramento e l’autentico resistente, o il povero contadino frastornato? Ecclesiastici, pastori prendevano in mano la situazione. Gli uffici del comando militare erano ingombri di domande di risarcimenti e di dossier; dovunque si dava la caccia ai vecchi membri del Partito. Per le strade, donne sole, bambini smarriti. La gente sembrava ancora stordita per il suicidio di Hitler nel suo bunker sotterraneo, 25
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l’avanzata dell'Armata rossa, la presa di Berlino e, ai primi di maggio, la capitolazione della Germania. Procedevamo in Dodge o in Jeep, sempre con i nostri caschi. Ci avevano messi in guardia contro qualche irriducibile del Wehwolf, franchi tiratori isolati, capaci, dicevano, di sparare sui Francesi. «Ha carta bianca», mi aveva dichiarato il capitano Fleurquin designandomi all'ufficio requisizioni. Promosso interprete e animatore culturale del servizio sociale «Rhin et Danube» a Lindau sulle rive del lago di Costanza, in seguito a Rote-Lache, vicino a Baden-Baden, un nido d’aquila in piena foresta, facevo la spola fra la zona francese d’occupazione e Parigi, ogni volta passando a piedi il ponte di Kehl per tre quarti distrutto. Uno dei miei incarichi era prendere contatto con scrittori e artisti per invitarli nei nostri due centri culturali «Rhin et Danube». I miei amici, i soldati Marcel Marceau, Alain Resnais, André Voisin, mi aiutavano in questo lavoro. «A Rote-Lache – scrivevo a un’amica – ci siamo installati a mille metri e vi dirigiamo un centro-scuola d’animatori per l'esercito. I nostri fucili sono inattivi negli angoli. Immagina il più bell’albergo-chalet che si possa sognare, con grandi aperture a vetri, ampi saloni, inchiodati ai muri, aquile e lustri crani di cervi. Là dobbiamo “istruire” più di ottanta soldati... Resnais ha organizzato un corso di cinema...». A Lindau, a RoteLache, mettevo in scena, per il generale de Latte e lo stato maggiore della Prima armata, in seguito per il generale Montsabert, gli spettacoli del Rideau de Feu, il nostro “teatro delle armate”, la corale, le pantomime (di cui la prima fu di Marceau), il quartetto. Fra due spettacoli di Marivaux o di Molière, tenevo, su richiesta, una conferenza sull’esistenzialismo o su Dostoevskij. Mi accadeva anche di comporre delle ballate con accompagnamento di banjo: Povera la gioia la pena vana Si è di tutti i colori Si è qui si è altrove Quattro giovedì la settimana6
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Mi accorsi ben presto che Rote-Lache, capriccio del generale de Latte, era una piccola enclave autonoma, surrealista e anarchica che, più o meno, sfuggiva al controllo dell’esercito. Il capitano Fleurquin sognava un grande dibattito filosofico sull’esistenzialismo come, secondo lui, si auguravano molti ufficiali del servizio-stampa del generale Arnaud... Ma, a Parigi, Sartre era introvabile, io non conoscevo Beaufret, e nessuno, nella regione, sapeva dove si trovasse esattamente il professor Heidegger. Un ecclesiastico sosteneva d’averlo visto vagare in bicicletta nella Foresta Nera tra altri profughi: il professore sarebbe fuggito da Friburgo nei giorni della sconfitta quando stavano avanzando i blindati francesi. Più volte nella settimana con le nostre jeep ci avventuravamo negli angoli sperduti della Foresta Nera, alla ricerca. Sulle strade importanti ci arrestavamo e i camion militari ci prendevano a bordo. Alcune zone non erano affatto sicure. Quando non avevamo mezzi, attraversavamo a piedi le foreste di pini per raggiungere la valle della Murg dove, a Oberstadt, in una fabbrica abbandonata, si era insediato il servizio sociale della Prima armata. Alla svolta di un sentiero, ci trovavamo di fronte a una cerva con i grandi occhi spaventati. Ci smarrivamo, a ogni rumore insolito si caricava il fucile. Uno di noi, a valle, era stato aggredito e gettato nella Murg. In un paese conquistato avevamo tutti i diritti. Con André Voisin requisivo il materiale utile al nostro centro. Una donna in lacrime si accasciò quando feci portar via il pianoforte da concerto del figlio musicista, ucciso a Stalingrado. Ci aveva mostrato una fotografia, in cui a testa nuda, il suo ragazzo tristemente sorrideva nella neve. Promisi di restituirle lo strumento. In quella primavera del ’45, la dolcezza della regione di Bade ci affascinava a poco a poco. Oggi, ho davanti a me brani di lettere che descrivono la nostra euforia: «Sono andato a Parigi con Alain Resnais da 27
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Picasso, in rue des Grands Augustins, ma lui non c'era... Jean Vilar, che sta provando al Vieux Colombier, ha accettato di venire... Ho portato una lettera di Marceau, che fu suo allievo, al celebre mimo Decroux...». Alla Nrf, nel suo ufficio, Raymond Queneau ci aveva offerto tutti i suoi libri per la nostra biblioteca. Voleva addirittura venire con la moglie nella zona d’occupazione, come Eluard, che aveva promesso di leggere ai soldati di «Rhin a Danube» il suo poema Liberté. Ma i loro permessi di missione non erano ancora firmati. Avevo appreso dalla cassiera del Flore che Sartre si preparava a partire per gli Stati Uniti. Si parlava poco, allora, del passato politico di Heidegger. Né Sartre né Raymond Aron, nemmeno Henry Corbin, il suo traduttore, s’erano soffermati sulle sue prese di posizione in favore del nazionalsocialismo nel 1933. Almeno io non ne sapevo niente. Fino al giorno in cui l’amico Jean Domarchi, hegeliano e marxista, professore di economia politica, mi raggiunse sulla terrazza dei Deux Magots, con in mano il giornale «Combat»: un articolo rivelava l’ampiezza del genocidio. Picasso, mi disse, aveva terminato una grande tela, Le Charnier, nera e grigia, nello stile di Guernica, ispirata dalle fotografie di Dachau e di Buchenwald. Consigliandomi la più grande prudenza nelle mie letture heideggeriane, seppi da Domarchi che, dopo il rientro in Francia dagli Stati Uniti di emigrati antinazisti, circolavano voci gravi sul filosofo: Heidegger aveva fatto lezione in uniforme di Ss, avrebbe permesso che studenti hitleriani affiggessero sui muri dell’Università un plakat antisemita e addirittura interdetto al suo vecchio maestro Husserl, ebreo, l’accesso alla biblioteca universitaria. Chi aveva diffuso queste voci? Domarchi non poteva citare un nome: qualcuno l'aveva sentito dire, se ne parlava, del resto, alla Nrf. Ero allibito. Come se mi avessero detto che Nietzsche era un informatore della polizia, per lo meno. Il capitano Fleurquin aveva senso pratico. Poiché dovevamo recarci alla sede dello stato maggiore militare, a Baden-Baden, per render conto della nostra requisizione 28
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della villa del generale von Witzleben, giustiziato dopo il fallito complotto contro Hitler, perché non approfittarne per spulciare un po’ nel dossier Heidegger? Fleurquin informò immediatamente il servizio stampa, telefonando al suo capo, il generale Arnaud. L’ufficiale responsabile delle pratiche amministrative mi ricevette con estrema cortesia. Mi diede subito l'indirizzo di Heidegger a Friburgo: 47, Rotebuckweg, una casa in collina. Consultando le sue schede, mi riferì che il filosofo era stato richiamato, nel novembre 1944, come manovale, nell’arruolamento di massa (Volksturm) dei riservisti, ma non avrebbe raggiunto il suo cantiere sulle rive del Reno. La moglie affermava che dopo il bombardamento di Friburgo, essendosi la facoltà di filosofia trasferita nella regione di Messkirch, il professore aveva soggiornato nel castello di Wildenstein, prima di essere alloggiato in una pensione sulla sponda del Danubio fino agli ultimi giorni del giugno 1945. Lo si diceva sofferente. La moglie era rimasta nella loro casa di Friburgo che doveva essere requisita dalle autorità francesi. Un comitato d'epurazione composto da tedeschi l’aveva catalogata come «sede del Partito». Il professor Heidegger stesso era stato denunciato, come antico membro della Nsdap, il partito nazionalsocialista operaio tedesco, da molti dei suoi colleghi dell'Università che esigevano almeno il suo immediato pensionamento e l’interdizione all'insegnamento. Uno dei suoi allievi sosteneva che quei colleghi non erano che una piccola cricca impegnata a un regolamento di conti. Altri, testimoni della sua attività come rettore dell’Università, avevano preso le sue difese, ma preferivano mantenere l’anonimato. La fama del filosofo era internazionale, e rimanevano prudenti. Si insinuava talvolta che la moglie Elfride, «figlia di un generale», aveva avuto un ruolo non trascurabile nelle sue prese di posizione. Nessuno poteva ancora dirmi se attualmente egli si trovasse nella sua casa di Friburgo. Decisamente non c'entrava la filosofia, tutto finiva in politica. 29
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Nello stesso ufficio, un funzionario della Direzione agli Affari pubblici del governo militare m’informò che una procedura avviata dall’Università doveva stabilire quanto prima le responsabilità di Heidegger durante il periodo del rettorato. Per ora non c’era niente di preciso contro di lui: gli veniva rimproverato il discorso di rettorato pronunciato nel 1933, ma niente nel testo, essendo capaci di coglierne il senso, era apparso probante. L’imbarazzo era tanto più grande in quanto niente si comprendeva degli scritti di Heidegger. L’ufficiale mi fece notare che sembravano interessarsi alla sua sorte molte persone e anche alcune università straniere. Gli ambienti cattolici erano, in ogni caso, riservatissimi, spesso ostili e un alto ecclesiastico aveva reclamato delle sanzioni. «Certo che fra i tedeschi c’è gente che non gli farebbe alcun sconto», mi disse l’ufficiale. Era un tipo simpatico. Promisi di fargli avere una sintesi dei temi filosofici di Heidegger e degli articoli di Jean Beaufret pubblicati sulla rivista «Confluences». Avevo finito per individuare la casa di Heidegger, sulle colline di Friburgo, fra le strade polverose e i sentieri fioriti. Eravamo sul finire dell’estate. Una donna bionda, ancora giovane, con grandi occhi azzurri, venne fino al cancello visibilmente inquieta. Ero in uniforme, le dissi che venivo da Parigi per portare al professore degli articoli riguardanti il suo lavoro e quello di Husserl. M’invitò a entrare in una stanza piena di sole, modesta, arredata con mobili rustici. Parlava in francese con una voce un po’ stanca. Mi disse che suo marito non era a Friburgo. Ora viveva nella piccola hütte di Totdnauberg nella Foresta Nera, dove stava scrivendo un testo urgente, ma sarebbe tornato presto. Quando la pregai di fissarmi un appuntamento, scosse il capo: non poteva promettere niente. La loro casa rischiava d’essere requisita e la biblioteca del marito era minacciata di confisca. Per lui avrebbe significato l’impossibilità di scrivere e di insegnare. Ignorava anche chi stesse decidendo della pratica, ma 30
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si indignava per le manovre illegali e incompetenti di un comitato che aveva denunciato suo marito alle autorità d’occupazione come un «tipico nazista», mentre lui aveva voltato le spalle al regime e da dodici anni aveva criticato il Partito, come sapevano tutti gli studenti, assicurò, considerato che si era dimesso dalla carica dal 1934. Aveva dovuto aderire al Partito perché, in quanto funzionario, non poteva fare altrimenti. La sua voce s’era animata. Sembrava sincera. Imbarazzato, le dissi che a Baden-Baden ero stato messo al corrente, e nessuna decisione sembrava prossima. Le diedi due numeri di «Confluences» e le promisi di ritornare. Chiudendo il cancello, mi disse che aveva due figli della mia età, entrambi inviati sul fronte dell’Est e di cui era senza notizie. Lentamente scesi verso Friburgo con un senso di malessere. Faceva caldo, m’infastidivano le mollettiere. Rischiai di perdermi. Dappertutto c’erano campi quadrati di cavoli e di patate.
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De Towarnicki con Heidegger nel 1968
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Del mio primo incontro con Heidegger, in quell’autunno del 1945, non ricordo più il giorno esatto. Le date sono incerte, e i foglietti sparsi nelle mie lettere dell’epoca. Tuttavia una di quelle lettere fa uscire dall’ombra dettagli semidimenticati. «Dopo aver attraversato le rovine di Friburgo sotto un sole ancora caldo, ci fermiamo davanti alla sua casa, scendendo da una sorta di vettura blindata catturata, sembra, dai soldati del “Rhin Danube” in un Quartier Generale che avrebbe visitato Hitler. Lasciamo armi e bagagli nel veicolo». È un arrivo improvviso: telefono e posta non funzionano. Tutti e tre, il capitano Fleurquin, Alain Resnais e io, siamo in uniforme. Dei vicini guardano dalle finestre. In seguito, uno di loro racconterà che credeva venissimo ad arrestare il professor Heidegger. É la signora Heidegger che viene ad aprirci. Mi riconosce, sorride: suo marito è occupato in giardino, sarebbe andata ad avvertirlo. La casa è situata a Zahringen su una collina, simile deI tutto alle altre, con il suo recinto da periferia, il giardinetto e i fiori. Inchiodata sopra la porta, un’assicella di legno dove si può leggere una frase della Bibbia: «Behüte dein Herz mit allem Fleiss daraus gehet das Leben», «Conserva il tuo cuore con tutto il tuo essere poiché là è la fonte di ogni vita» (Prov. 4.23). La signora Heidegger ci invita a salire su per una scala di legno scuro, nello studio del marito, che sta per raggiungerci. Qui tutto è di legno. Molti scaffali, molti libri. Qua e là delle foto di famiglia incorniciate. La finestra dà su un prato. Sul vasto ripiano della scrivania, presso la lampada, fra documenti e piccole schede manoscritte, i due numeri di «Confluences». Con una certa ansia sento il passo di Heidegger. Colui il cui solo nome è un mito, il filosofo che si cita come Descartes o Kierkegaard, da anni vive ritirato nel silenzio. 33
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Entra. Sorprende il suo aspetto. Piccolo, piccolissimo, in costume regionale grigioverde dai risvolti ricamati, indossa dei knickers. Mi sconcerta il suo aspetto di contadino un po’ tarchiato, vestito a festa. Capelli d’argento, l’occhio nero, lo sguardo acuto, appare stanco. Una certa tristezza si legge sul viso dalle guance scavate, qualcosa di tragico, anche. Gli presento i miei compagni. La moglie invita a sederci, scusandosi di non poterci offrire che un po’ di vino del paese. Heidegger ringrazia per i due articoli sull’esistenzialismo, la cui chiarezza l’aveva sorpreso. Chi è Jean Beaufret? Ancora non lo sapevo. Domanda notizie della Francia, non ha più notizie della Sorbona dalla guerra. Fa il nome dei professori Lavelle, Le Senne. E il suo traduttore Henry Corbin? Ci dice d’aver scritto una lettera al professor Bréhier alla Sorbona, invitandolo a riprendere il dialogo brutalmente interrotto, fra i popoli francese e tedesco. Il professor Bréhier non gli ha ancora risposto. Abbiamo visto le rovine di Frendenstadt? Il capitano Fleurquin e Resnais rispondono alle domande della signora Heidegger riguardo la zona francese d’occupazione, parlano dei problemi provocati dai profughi nella Foresta Nera, senza viveri e senza ricovero, mescolati ai prigionieri liberati dai campi di concentramento. Parlando ora tedesco ora francese, cercando le parole, Heidegger ci lascia intendere d’essere stato molto provato da ciò che è accaduto in Germania durante questa guerra, il cui esito da tempo aveva previsto. Lamentarsi, gridare il proprio orrore, non bastava. Bisognava andare alla radice, risalire, se possibile, fino alle cause affinché tali cose non si riproducessero più in Europa né altrove. Dietro gli avvenimenti politici e militari, un’altra guerra, non meno temibile, toccava direttamente la dignità stessa dell’uomo. La moglie ci dice a questo punto che erano sempre senza notizie dei loro due figli spediti sul fronte dell’Est. Erano privi anche di notizie degli amici di Dresda e di Berlino, ora nella zona sovietica. Riprende poi a interrogarci: i miei 34
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compagni le descrivono il nostro centro culturale. No, non sono un filosofo, le dico, ma uno studente appassionato di letteratura e di poesia. E a Heidegger dico quanto i testi di Sartre e di Jean Beaufret mi hanno aiutato per comprendere in Sein und Zeit la sua concezione dell’uomo: un essere di slancio e di progetto. Il professore sorride. Mi lancio. «Caro professore a Parigi si dice che lei sia il padre dell’esistenzialismo. Accetterebbe d’incontrare Jean-Paul Sartre nel nostro centro culturale a Lindau o a Rote-Lache?» Heidegger sembra sorpreso. La sua notorietà in Francia si fonda su un malinteso? Da circa diciotto anni non ha pubblicato quasi niente, e quello che sa di Sartre lo ha imparato dagli articoli di Beaufret. Il quadro che gli facciamo dell’attività di Jean-Paul Sartre lo sbalordisce: non era immaginabile in Germania che lo stesso uomo possa essere insieme filosofo, specialista di Husserl, autore drammatico, romanziere, saggista e giornalista. «Ma alla fine, che cos’è l’esistenzialismo?» chiede la signora Heidegger al capitano Fleurquin che, dalla sua sedia, mi fa un cenno da naufrago. Con la sensazione di passare un esame, riesco a dire che Sartre presenta l’esistenzialismo come una filosofia della libertà in cui l’uomo, di fronte al vuoto del nulla, questa «emorragia dell’essere», è assolutamente responsabile del senso che dà alle cose. «Condannato a essere libero – diceva Sartre – l’uomo esiste prima di tutto, e soltanto dopo diventa questo o quello in una situazione che resta aperta nel campo del possibile fino alla morte. Per Sartre l’autenticità morale consiste nel fare la prova di ciascuna situazione nel mondo, scegliendosi liberamente in essa. E cito una battuta, divenuta celebre, dall’opera teatrale Les Mouches: «Una volta che in un’anima d’uomo è esplosa la libertà, gli dèi non possono più nulla contro quell’uomo». Heidegger m'aveva ascoltato con attenzione. Avevo 35
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impudentemente riassunto la mia conferenza e ancor oggi credo di vedere il suo sguardo perplesso, un po’ malizioso che mi diede subito l’impressione di avere allineato soltanto delle parole. Si limitò brevemente a osservare, parlando in francese, la persistenza delle rappresentazioni soggettive derivate dal cartesianesimo. Il punto di vista della coscienza vi giocava sempre il ruolo fondamentale, Non aveva mai pensato Sein und Zeit in senso antropologico. Aveva tentato, a partire dall’essere e dal mondo, di analizzare la struttura del Dasein, la struttura ontologica dell’essere umano. Heidegger si assentò un momento. Il capitano Fleurquin e Resnais ne approfittarono per chiedere cortesemente alla signora Heidegger in che consisteva il problema della requisizione della casa e della biblioteca. Ma lei non lo sapeva esattamente. Suo marito era sempre sotto la minaccia d’inchiesta da parte della commissione di denazificazione istituita dalle autorità francesi d’occupazione all’Università di Friburgo; una commissione disgraziatamente composta in parte da vecchi colleghi che gli erano ostili e non volevano ammettere i limiti del suo errore. Non era preparato a un simile regolamento di conti. Mentre i miei compagni conversavano con la signora Heidegger sulle difficoltà del tradurre, il professore ritornò con un testo dattiloscritto che mi mostrò. L’aveva scritto nel 1936 per leggerlo in un congresso internazionale della Sorbona dedicato a Descartes, a cui non aveva potuto recarsi. Sua moglie aveva tentato di tradurlo, approssimativamente. Il testo era rimasto in un cassetto. Potevo disporne: vi era affrontata la questione dei rapporti filosofici tra la Francia e la Germania e del lungo dialogo di Leibniz con Descartes a proposito del fondamento del modello matematico. Per parte sua invitava i filosofi dei due paesi a una autentica comprensione delle rispettive posizioni e a un dialogo realmente creativo. Fu a questo punto che alfine mi decisi a porre la 36
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questione che mi turbava: «Signor Professore, i miei amici francesi s’interrogano sui rapporti che lei ha avuto con il nazionalsocialismo». Per nulla imbarazzato, Heidegger rispose che nel 1933 aveva salutato un risveglio nazionale da cui allora sperava che il popolo tedesco potesse uscire dalla miseria e dal caos. Sollecitato dai colleghi, eletto all’unanimità, aveva accettato la carica di rettore come si accetta una missione e, nello stesso tempo, «un fardello», al fine di salvaguardare l’indipendenza dell'Università contro ogni influenza politica e in vista di rinnovarla al di fuori del Partito e di ogni dottrina. Il suo progetto di ristrutturazione aveva sollevato l’ostilità generale e non era stato compreso più del suo discorso di rettorato. Uno dei seminari sulla scienza era stato anche sabotato e proibito. Sottoposto a costrizioni amministrative, in particolare dopo le prime disposizioni che l’avevano colpito e preso alla sprovvista, aveva dato le dimissioni nel gennaio 1934, comprendendo che si sarebbe dovuto piegare ad altri compromessi. Prendevo appunti. Parlava con tono calmo, come si trattasse d’una evidenza. La signora Heidegger fece osservare che era difficile immaginare, a cose fatte, la folle ondata di speranza che si era impadronita, in quell’epoca, del popolo tedesco. Lo stato di decomposizione e d’impotenza della Repubblica di Weimar aveva impedito a molti tedeschi di percepire i veri obiettivi d’un movimento capeggiato da mediocri, da canaglie senza scrupolo, da arrivisti. Dimettendosi, suo marito aveva corso molti rischi. A una domanda posta dal capitano Fleurquin, udii Heidegger rispondere che non aveva letto Mein Kampf. Azzardai: «Signor Professore, a Parigi, alcuni dicono che lei nel 1933 ha autorizzato un autodafé di libri, interdetto a Husserl d’accedere alla biblioteca dell’Università, permesso ad alcuni studenti di esporvi un plakat contro gli ebrei». Heidegger impallidì. Il volto si fece di marmo. Fece un gesto di noia: non sapeva che cosa rispondere a queste 37
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calunnie. Nel suo pensiero e nel suo insegnamento non c’erano tracce di concezioni razziali. Mai aveva ordinato un autodafé o permesso un manifesto o, quantomeno, mai aveva avuto un simile comportamento nei confronti di Husserl. La signora Heidegger che, con il mio aiuto, traduceva le parole del marito, sembrava in preda a una collera violenta: «Chi dice queste cose?» esclamò indignata. Gli alti funzionari del Partito non avevano cessato di rimproverare a suo marito d’aver fatto dei suoi corsi un vivaio di studenti ebrei e continuato a insegnare una filosofia ebraicizzata. Poteva mostrarci lettere e ritagli di giornale che lo provavano. Heidegger fece un gesto evasivo, che tagliò corto, come se simili calunnie non lo riguardassero, sottolineando tuttavia che quando ne aveva avuto l’occasione, aveva criticato nei suoi corsi – particolarmente dal 1936 quello su Nietzsche – il biologismo razziale di Rosenberg, così come il bla bla bla scientista degli pseudo-filosofi del regime che s’erano serviti di Nietzsche (e anche di Höderlin) per alimentare la dottrina ufficiale e colmarne il vuoto. Non aveva avuto alcun merito particolare a farlo: proveniva del tutto naturalmente dalla sua filosofia. E del resto, come non provare un sentimento di vergogna per quanto era accaduto in Germania? Anche vittoriosa, non sarebbe sopravvissuta a tali crimini. Heidegger si alza. Per un momento resta in piedi vicino alla finestra. Facciamo silenzio. C’è qualcosa di grande in lui che impedisce al visitatore di oltrepassare la misura. Il capitano Fleurquin ci fa segno. Ci alziamo. Heidegger va verso la biblioteca e torna con dei libri, dei fascicoli su cui scrive una dedica: Vom Wesen der Warheit (Dell’essenza della verità), Was ist Metaphysik? (Che cos’è la metafisica?) un grosso libro di Binswanger sulla filosofia esistenziale, il suo discorso di rettorato. Ci chiede se Pascal ha sempre influenza sulla filosofia francese e se abbiamo letto il bel saggio di Ravaisson sull’abitudine. Potevo fargli avere Obstacle et valeur di Le Senne e i tre articoli mancanti di Beaufret? E verrà al nostro dibattito sull’esistenzialismo? 38
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Non era sfuggito a Heidegger che Beaufret, negli articoli della rivista, lo aveva trattato da «piccolo borghese» e Sartre da «uomo senza carattere». Nessun risentimento nella sua voce. Forse una punta d’ironia. Gli prometto di portargli presto L’être et le néant di Sartre. Heidegger e la moglie ci accompagnano fino al cancello invitandoci a ritornare per riprendere la nostra conversazione. «Niente si potrà fare senza dialogo ed è tempo di rimettersi al lavoro», ci dice. I vicini, alle finestre, devono meravigliarsi nel vedermi con le braccia cariche di libri. Alain Resnais ci fotografa sulla soglia e ci filma con la cinepresa. Filiamo verso Baden-Baden quasi senza parlare. Continuo a prendere appunti. «Credo che sia sincero» mi dice Resnais. Il capitano Fleurquin è piuttosto stupito: il lato «contadino tracagnotto» di Heidegger lo sconcerta, questo tratto è in contrasto con l’idea che si faceva di un grande pensatore. Improvvisamente mi invade un dubbio: e se Heidegger non accettasse di venire al dibattito? Il capitano Fleurquin mi rassicura: «Bene, requisiremo Heidegger». Al centro di Rote-Lache, scorro il testo su Descartes che Heidegger aveva scritto nel 1936. Vi si leggeva che la scienza dei tempi moderni, orientata verso la tecnica e l’organizzazione, diveniva sempre più diffidente nei confronti della filosofia, che, per sua natura sfuggiva a ogni forma di utilità, non essendo il sapere filosofico immediatamente utilizzabile. Si poteva persino definire la filosofia come il sapere inutile, inutile nell’immediato. Il contrario di ciò che diceva Sartre, il contrario di ciò che io ascoltavo a Parigi.
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3.
A Parigi mi dicono che Sartre è sempre in viaggio. Al suo hotel non ha lasciato indirizzo. Ho cercato invano nelle librerie i tre articoli di Jean Beaufret e Obstacle et valeur di René Le Senne, che ho promesso di portare a Heidegger. Telefono al professor Le Senne. Una voce diffidente: «Lei viene da parte di Heidegger?». Ma no, assolutamente no. Mi ha chiesto soltanto di portargli il suo libro, che non ho trovato. Le Senne mi invita a casa sua. Non avevo ancora mai incontrato un pontefice della Sorbona. In un bell’appartamento nei pressi del boulevard Saint-Michel, mi scrutò come se cercasse di smascherare un cospiratore. M’interroga poi su Heidegger: gli riassumo quello che so. Mi dice che il professor Bréhier ritiene che la lettera di Heidegger sia arrivata con cinque anni di ritardo e che la Sorbona senza dubbio non risponderà al suo invito a riprendere il dialogo interrotto con la Francia. Agli occhi di Le Senne, del resto, l’esistenzialismo sartriano, derivato da Heidegger, non è che una burla da normalien (e lui si riconosce in burle del genere, un Kierkegaard negativo. Quale responsabile della Sorbona, non tiene affatto – come del resto il professor Bréhier – a che la filosofia tipicamente germanica di Heidegger (di cui, del resto, riconosceva il valore) influenzi troppo direttamente gli studenti francesi. Per più di un’ora mi espone la sua propria filosofia. «Cerco di espellere l’opaco, l’inconoscibile». È d’accordo che portassi a Heidegger un esemplare del suo libro, a condizione che non divulghi di avermelo dato personalmente per Heidegger. Passando davanti al Flore, vedo Albert Camus. È seduto accanto all’entrata e sta parlando con Thierry Maulnier. No, non verrà in Germania per una conferenza o un dibattito. 40
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É già andato nella zona francese d’occupazione, e detesta l’esercito. Non ha alcuna ostilità contro Heidegger, ma, dopotutto... non ha niente a che fare con Heidegger che è stato nazionalsocialista... Attorno, qualcuno che ci ascolta. Faccio bella figura in uniforme. Thierry Maulnier mi fa delle domande e mi ricorda che già nel 1938 aveva citato Heidegger nella sua Introduction à la poésie française. Torno in Germania. Attraverso in camion militare la Foresta Nera e decido di portare subito a Zähringen un esemplare di L’être et le néant di Sartre, Obstascle et valeur e la Phénoménologie de la perception che alla Nrf mi aveva dato Raymond Queneau da parte di Merleau-Ponty. Heidegger mi riceve con cordialità e mi chiede notizie dei miei due compagni. Non senza malizia, finge di soppesare le mille pagine del libro di Sartre con la mimica di un conoscitore impressionato. Sfortunatamente, mi dice, in quel momento gli resta poco tempo per la lettura. É occupato per ora, e mi chiede se posso tornare nel pomeriggio per il tè. Lo sento teso, e sembra un poco deluso di non poter ancora leggere gli articoli mancanti di Beaufret. Decido di non far parola dell’ospitalità glaciale del professor Le Senne. La signora Heidegger mi invita a trattenermi un momento con lei nella sala da pranzo, dove riscopro la semplice bellezza del mobilio in legno chiaro. Apro lo zaino e devo molto insistere per farle accettare un quarto di gruviera, da dividere fra i vicini e gli amici, che di passaggio avevo requisito in una cooperativa lattiera della regione. Ha un’aria affaticata. Mi parla, in francese, dei due figli, e delle settimane in cui aveva fatto il possibile per sottrarre il marito al reclutamento del Servizio del lavoro. Il suo cuore si è indebolito dopo il bombardamento di Friburgo. Il marito era andato a mettere in salvo i suoi manoscritti nella regione, prima di trovar rifugio nella valle del Danubio presso l’arciabbazia di Beuron. Alla fine d’aprile, prima dell’arrivo delle truppe francesi, era stato ospite della 41
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principessa Margot von Meiningen che aveva frequentato i suoi seminari. Dal castello di Wildenstein si vedono il fiume e le rive rocciose a picco. Conoscevo la regione? Era la «contrada» di Hölderlin. Tre anni prima, durante il semestre estivo del 1942, suo marito aveva tenuto un corso sull’inno al Danubio di Höderlin, Der Ister, di cui diceva che i tedeschi non avevano misurato ancora la grandezza. I grandi occhi azzurri della signora Heidegger lampeggiarono: «E lo si vuole privare della sua biblioteca!». Più tardi, spesso mi sono chiesto: si sentiva responsabile dell’influenza che in certi momenti decisivi aveva esercitato su Heidegger, come mi aveva fatto intendere un ufficiale di Baden-Baden? Percepiva, in me, una riserva? Suo marito stava lavorando a dei testi che mettevano in chiaro le circostanze per le quali, nel 1933, aveva accettato la carica di rettore. Attualmente era sottoposto a regolari controlli, doveva rendere conto al comitato d’epurazione di Friburgo. Addirittura, gli era stato rimproverato d’aver portato, alla fine degli anni Venti, gli studenti dei suoi seminari a raduni nella foresta e in montagna, come se fosse il segno precorritore di una simpatia per la futura gioventù hitleriana! Percepisce le mie riserve? Torna sulle voci. Infine, se suo marito fosse stato ostile agli ebrei, come spiegare che i suoi migliori allievi – Marcuse, Hannah Arendt fra tanti altri – non se ne siano mai lamentati? E perché si sarebbe privato nel 1933 e in seguito, per dodici anni, di esprimersi pubblicamente sulla questione, fosse pure in campo culturale? Nel 1933 avevano scritto una lettera a Husserl. La verità, piuttosto, era che le posizioni filosofiche di suo marito avevano suscitato molto prima del 1933 ogni sorta di sospetti e di malintesi, soprattutto nell’ambiente religioso per cui la verità risiede unicamente nella rivelazione biblica. Dopo la capitolazione della Germania, persone equivoche, fuori dal controllo dei Francesi, s’erano insinuate nei comitati d’epurazione. A Friburgo, a Baden-Baden avevano compilato liste nere per la confisca di alloggi detti «alloggi del Partito». Se certe misure 42
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erano giustificate, altre sembravano arbitrarie, dirette verso persone che non avrebbero dovuto interessare la legge. A questo punto, la signora Heidegger era andata a cercare un dossier che si mise a sfogliare nervosamente. All’università di Friburgo, assicurò, molti testimoni dell’attività professionale del marito, erano ben disposti nei suoi riguardi, ma un piccolo gruppo attivo voleva impedire a ogni costo la sua riabilitazione e reintegrazione nell’Università, reclamando una sanzione definitiva. Come avrebbe potuto lavorare suo marito senza i suoi libri? Lei faceva molto assegnamento sull’obiettività delle autorità francesi. Appena sceso dallo studio, Heidegger per la seconda volta mi chiede di parlargli di Parigi, dove non era mai stato. Quasi con un senso di imbarazzo gli descrivo una città ancora in festa. Di fronte al mio quadro di effervescenza intellettuale che agita il Quartiere Latino, Montparnasse e Saint-Germain-des-Prés, resta quasi incredulo. Seduto su una sedia, le mani sulle ginocchia, scuote la testa, si meravigliava nel sentirmi dire che ai Deux Magots e al Flore si faceva il suo nome. Proprio al Flore, di ritorno dallo Stalag in cui era prigioniero, Sartre aveva scritto L’être et le néan durante l’occupazione. Al Flore, nessuno si permette di sedersi al tavolino di «Monsieur Sartre», quando è assente. Quel tavolo è come un monumento. Heidegger spalanca gli occhi; si vede che gli piacciono quelle storie francesi raccontate in francese. Nel silenzio di Zähringen, mi pare di descrivere i costumi di una civiltà strana a un provinciale curioso che non si sarebbe mai avventurato fuori dalla sua terra natale. Immagine di un Heidegger un poco rigido e conformista, che non avrebbe tardato, anch’essa, a vacillare. Ciò che più lo stupisce, credo, era che Sartre discutesse al caffè il programma filosofico della sua rivista. «Lo scrittore – diceva Sartre – nella situazione della sua epoca, deve impegnarsi, scrivere prima di tutto per i suoi contemporanei. L'arte non 43
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è un’attività di lusso, la sua funzione è di suscitare lo slancio delle forze rivoluzionarie». Heidegger scuote la testa. Mi dice che da molto tempo ha una diversa opinione, come mostra il testo su Descartes che mi aveva dato. Il rapporto dal pensiero all’azione, dalla scienza al pensiero non è immediato, si situa in tutt’altro orizzonte. Il passaggio esige un salto, come egli stesso, a proprie spese, aveva imparato. L’interrogarsi filosofico, come l’arte e la poesia, esplorava un dominio che, per sua stessa natura, sfuggiva al calcolabile. La scienza e i suoi metodi non potrebbero mai situarvisi: complessi erano i rapporti fra la filosofia e la scienza, divenuta oggi una religione che si eleva sul cammino del pensatore. Il mondo moderno, di cui si chiacchierava tanto, era uscito da una lunga storia del pensiero occidentale, le cui diverse epoche dovrebbero essere studiate se ci si preoccupasse di comprenderne meglio il corso. Intanto ci aveva raggiunto la signora Heidegger, desolata di poterci offrire soltanto un po’ di tè senza la tradizionale torta della Foresta Nera. Non aveva più caffè, suo marito ne beveva molto, soprattutto quando lavorava. Da mesi non se ne trovava un solo chicco in tutta la regione. Ora sembrava più distesa. Venne il momento di rispondere a qualche domanda. Ero nato a Vienna. Mia madre, di famiglia ebraica boema, aveva lasciato l’Austria e s’era trasferita con me, che avevo quattro anni, nel sud della Francia. Mio padre, un aristocratico polacco che frequentava la corte degli Asburgo, aveva combattuto nel 1914-18 nell’esercito austro-ungarico e si era distinto, mi avevano detto, durante la resistenza di Varsavia. Con mia madre abbiamo vissuto a Mentone, poi a Nizza e anche soggiornato a Èze. Durante l’occupazione aveva dovuto nascondere la sua identità. Descrissi Èze, dove Nietzsche aveva composto un canto del suo Zarathustra, il piccolo villaggio arroccato sul pendio che dominava a perdita d’occhio un mare limpido, evocante il sentiero interminabile orlato di palme e di cactus che scendeva verso 44
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una piccolissima spiaggia abbagliata di luce. Quella luce dovevo più tardi ritrovarla nelle pagine della Gaia Scienza e di Così parlò Zarathustra che, per il nostro piccolo gruppo di amici e poeti, furono i nostri livres de chevet, insieme con i poemi di Baudelaire, di Mallarmé, di Valéry. Recitai una strofa del Cimetière marin: Midi le juste. y compose de feux La mer, la mer toujours recommencée O récompense après une pensée Qu'un long regard sur le calme des dieux
Heidegger aveva ascoltato con grande attenzione. Fece notare che quella luce era anche quella della Grecia e brillava nei poemi di Hölderlin. Quando gli dissi che, finita la guerra, molti intellettuali erano convinti che la nuova filosofia avrebbe contribuito a costruire un mondo nuovo, Heidegger fece un gesto scettico: senza dubbio ero troppo entusiasta. Che cosa voleva dire «filosofia nuova», un’etichetta che rimanda a un sistema dipendente da una moda o da un momento? Non avevamo ancora saputo aprirci il passaggio verso un pensiero che rispondesse alle questioni dei nostro tempo. Gli raccontai anche come la guerra avesse sconvolto i miei studi, e fatto di me uno studente vagabondo che scriveva poesie sotto falso nome, e seguiva corsi senza avvenire a Aix-en-Provence o alla Sorbona. Dovetti dire qualche mia poesia. Ricordo che una breve strofa fece ridere la signora Heidegger: Perché io cerco Senza aver trovato Oppure ho trovato Quel che un altro cerca7
E anche la parte finale di un auto-epitaffio alla maniera di Villon, scritto durante l’occupazione, ebbe un gran successo:
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Qui dunque presso lo Chàtelet Per dolorosissima fame Federico baronetto delle Halles Resa l’anima in questo alberghetto Mai sapiente seppe dir niente Tranne che il suddetto peccatore Non volle dir male d’Apollo Né delle muse, benché digiunatore Questo borghese lesse senza sdegno Fuori della casta teologia Il trapassato non ebbe altra amica E quasi sempre senza mai scoparla Che una pulzella a Saint Germain L’anno mille novecento quaranta-quattro8
Fui applaudito come alla fine di un banchetto. Ma come ero arrivato alla sua filosofia? La conferenza Che cos’è la metafisica? aveva suscitato tutto un gioco di riflessi, di corrispondenze con le mie letture di Mallarmé, di Rilke, di Meister Eckhart. L’espressione «la notte chiara del nulla dell’angoscia» che rivelava, attraverso la prova del nulla, l’uomo a se stesso nel mondo, e il fondo senza fondo della sua libertà, non mi era stata del tutto estranea. A Nizza, in un vecchio castello in rovina, certi miei amici russi, teologi in esilio, lettori di Dostoevskij, di S. Giovanni Crisostomo e di S. Agostino, esegeti della Leggenda del Grande Inquisitore, affrontavano ogni giorno gli abissi della libertà umana e i pericoli del nichilismo. Trascrivevano Bach per quartetto, traducevano in francese, con il mio aiuto, testi patristici. E cantavo anche nel loro coro. A loro dovevo l’essenziale del mio articolo Dostoevskij e il problema del male, pubblicato nel 1942 nei «Cahiers du Sud». Il quadro che feci degli emigrati russi, delle loro agapi fameliche e delle interminabili discussioni sulla trinità, della loro scienza dell’iconografia bizantina che, dicevano, permetteva di rendere visibile l’invisibile, evidentemente divertiva Heidegger. Mi disse che anche lui, da giovane, era 46
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stato un lettore assiduo di Dostoevskij e non aveva mai cessato di leggerlo. La signora Heidegger ricordò che Dostoevskij più volte s’era rovinato nelle sale da gioco di Baden-Baden. Heidegger voleva saperne di più sui miei amici ortodossi, Paul Fiedler e Paul Evdokimov. Gli raccontai come essi collegavano il problema del male e della libertà nell’opera di Dostoevskij all’episodio biblico delle Tre Tentazioni nel Deserto: Satana, in tutta la Scrittura, comportandosi da padrone del mondo, aveva parlato soltanto tre volte, ponendo a Gesù quelle tre domande tentatrici che sono, infine, i tre problemi cruciali dell’umanità di oggi: la tentazione di ridurre tutto a una soluzione economica (il pane); il bisogno di certezza della prova scientifica (il tempio); la tentazione, infine, di consegnarsi alla volontà di potenza per regnare sul mondo. In tutti e tre i casi era in gioco la libertà dell’uomo. Era chiaro nella Leggenda del Grande Inquisitore, raccontata ne I Fratelli Karamazov, con quale astuzia il principio del male tentava di attuare un ordine cosmico totalitario, con il pretesto di liberare l’uomo dell’insopportabile fardello che era per lui la libertà e di assicurargli una intera sicurezza. Ero del tutto fiero di mostrare a Heidegger che non ero venuto a mani vuote. Non sapevo ancora a qual punto mi sarei considerato, in filosofia, una nullità. La signora Heidegger, tornata con un’enorme Bibbia gotica lesse, nella traduzione di Lutero, il passaggio corrispondente nel Vangelo secondo Matteo alla Tentazione di Gesù Cristo: Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e disse: «Se tu sei Figlio di Dio, fa che queste pietre diventino pani». Gesù rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Ed ecco il diavolo lo trasportò nella città santa, lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: «Se tu sei figlio di Dio gettati giù; poiché sta scritto: Comanderà ai suoi angeli per te e a braccia ti reggeranno, che non urti contro una pietra il tuo piede». Gesù rispose: «Sta anche scritto: Non tenterai il Signore Dio tuo». Di nuovo il diavolo lo trasportò su un monte altissimo, e di lassù gli mostrò tutti i regni del mondo e la magnificenza loro. Disse: «Tutte queste
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cose io ti darò, se prostrato mi adorerai». Gesù rispose: «Vattene, Satana, poiché sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e servi lui solo». Il diavolo lo lasciò; ed ecco gli angeli gli si accostarono e lo servivano9.
Dopo una breve discussione con la moglie sulle diverse interpretazioni di quel testo, Heidegger sottolineò la inaudita lucidità con cui Dostoevskij, in modo affatto diverso da Nietzsche, aveva presagito e descritto alcuni aspetti del nichilismo europeo avvertito come crollo delle antiche tavole dei valori. Si leggeva Nietzsche in Francia? Heidegger mi metteva in guardia: l’eccesso di erudizione poteva rappresentare un ostacolo quando si mirava all’essenziale. Le interpretazioni psicologiche, moralizzanti o cliniche, e ancor meno punti di vista biologizzanti non soccorrevano nel tentativo di raggiungere il senso della metafisica di Nietzsche che voleva essere un superamento del nichilismo. Nel pensiero di Nietzsche si concludevano tutti i temi della nostra filosofia. Essa doveva essere compresa nel segno del nichilismo vista come tendenza storica che, sul piano spirituale, determinava la nostra epoca. Presentendo il sopraggiungere di un mondo nuovo, Nietzsche aveva voluto aprirsi un passaggio nel quadro di una nuova filosofa dei valori, ma alla fine non aveva fatto che rovesciare l’antica, scaturita da Platone, del platonismo; così non aveva potuto uscire dai binari della metafisica tradizionale che voleva superare. Affermare questo non significava affatto un giudizio di disprezzo sul suo pensiero, anzi permetteva di capire come questo pensiero non era ancora quello di un altro cominciamento. Per Heidegger, l’opera di Nietzsche doveva essere situata nel suo autentico orizzonte e all’interno della storia della filosofia; quello che, nelle sue opere, non aveva potuto fare Karl Jaspers. Un tale lavoro pretendeva che si prendesse sul serio la filosofia. Avevo ascoltato un linguaggio completamente nuovo che non assomigliava a niente di quanto avevo letto su Nietzsche, e di cui non avrei potuto restituire una sola parola. Heidegger percepì il mio imbarazzo? 48
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Si alzò, mi fece segno di seguirlo. Salimmo nella sua stanza di lavoro. Fissò per un attimo in silenzio sulla scrivania una fotografia in cornice: il ritratto di sua madre. Poco distante, quella di suo padre, sagrestano a Messkirch e bottaio. L’infanzia del piccolo Martin era stata ritmata dai colpi del martello sul ferro e sul legno. Dal suo cassetto trasse una scatola nera che conteneva un oggetto avvolto da più strati di carta di seta, che svolse sorridendo, con la lentezza di chi vuol fare una sorpresa. Era una foto originale di Nietzsche, del tutto ingiallita. Risaltava lo sguardo incandescente, i baffi enormi, Senza dubbio Nietzsche l’aveva toccata con le sue stesse mani. Heidegger contemplava l’immagine con profonda attenzione. Pensava forse alla solitudine del pensatore? «È della natura del pensiero muoversi nella solitudine», avrei letto un giorno in uno dei suoi scritti. «È una vecchia fotografia che teme la luce», disse, prima di riporla con cura nella sua scatola. Heidegger andò poi a cercare negli scaffali della biblioteca un fascio sottile di fogli dattiloscritti. Era il frammento di un corso di lezioni che, se avessi desiderato, potevo ricopiare. Vi si discuteva sullo smarrimento dello spirito europeo, il nichilismo e la frase «Dio è morto» che, ne La Gaia Scienza, nominava il destino di venti secoli di storia occidentale. Ricordo l’intensa impressione che mi fece la prima lettura di quelle pagine, seduto in giardino, dove la signora Heidegger mi aveva fatto sostare. Salutandola le promisi che avrei portato da Parigi del caffè, per paura che suo marito non smettesse di filosofare! Heidegger rise: tutti non condividono questo timore. Sulla soglia del cancello, la signora Heidegger mi sussurrò che non a tutti suo marito fa vedere la fotografia di Nietzsche. Sulla strada di Zähringen, un uomo dai capelli ispidi e brizzolati, mi ferma scusandosi: «Lei torna dal professor Heidegger? I Francesi prenderanno presto misure contro di lui? Gli proibiranno di pubblicare?» Se potesse, mi assicura, lo farebbe immediatamente mettere in prigione. Poiché 49
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gli dico subito ciò che penso delle soluzioni sbrigative, mi risponde che Heidegger si era iscritto al Partito e che pertanto doveva sottostare ai provvedimenti di legge. L’uomo declina il suo nome e mi chiede se poteva mostrarmi dei documenti. Mi prega d’attenderlo un attimo davanti a una casa vicina. Ne esce subito brandendo un dossier che conteneva dei ritagli di giornali accuratamente classificati. Sono gli articoli di Heidegger, compreso un appello in favore di Hitler, pubblicati in un giornale studentesco di Friburgo. Si trattava del plebiscito del 10 novembre 1933 sul ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni, ritiro approvato dal 95% dei lettori. A tutta pagina la fotografia del rettore Heidegger, accompagnata da un testo che invita a votare Ja era stampato a caratteri che mi sembrarono enormi. L’uomo, con il viso teso, mi stringe a lungo la mano, dicendomi che posso mostrare i documenti al governo militare e fa conto su di me.
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Ecco qui ancora le note prese giorno dopo giorno, parecchie lettere a un’amica, i cui racconti non datati si estendono per settimane, una decina di cartelle non pubblicate nel mio articolo su «Les Temps Modernes», nel gennaio 1946. Questo materiale non mi permette di ricostruire con esattezza l’ordine cronologico del mio periplo fra Parigi, Rote-Lache e Friburgo, sempre che una minuziosa cronologia abbia in questo caso molta importanza. A Zähringen, ero il visitatore impossibile, senza orologio né calendario. Giungendo all’improvviso, ero sempre ben accolto. Spesso, arrivando, sentivo la voce della radio nella casa, unica breccia, qui come altrove, che facesse accedere al resto del mondo. Di settimana in settimana, gli effetti della bomba su Hiroshima, la situazione all’Est, le fasi della conferenza di Potsdam, i preparativi del processo di Norimberga catturavano l’attenzione. Ogni giorno cadevano come fulmini le rivelazioni sui crimini di guerra tedeschi in Russia e in Europa. La lista, spaventosa, si allungava senza posa, il peso della tragedia si faceva sempre più grave. Da quanto mi facevano intendere Heidegger e la moglie, risultava che, se lui si sentiva responsabile delle prese di posizione nel 1933 e ne riconosceva il suo errore, non si sentiva per nulla colpevole nel senso che si volesse farglielo dire per ritorcere in seguito contro di lui le sue «confessioni», associandolo a quelle atrocità che aveva sempre ignorato, a quelle frodi contro cui era stato impotente. Perché non si volevano ammettere i limiti della sua compromissione? Se ne stupiva, con amara ironia: si tentava di cancellare il significato che avevano avuto le sue dimissioni da rettore nel 1934. Perché si volevano ignorare i suoi corsi all’università che avevano messo in questione i fondamenti sui quali pretendeva appoggiarsi la dottrina del Partito? Perché 51
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ci si rifiutava sistematicamente di prendere in considerazione gli argomenti di coloro – insegnanti, studenti, o prossimi – che potevano testimoniare i suoi rapporti freddissimi con i funzionari del regime durante i dieci mesi del rettorato, le critiche e le riserve espresse all'interno del suo ufficio, nei ministeri o in privato, dato che allora nessuno poteva esprimersi apertamente? Ciò che aveva sperato non si era realizzato. A tappe, il Partito si era impadronito di tutte le leve di comando. A lungo aveva esitato a impegnarsi nel rettorato e non senza irritazione la signora Heidegger ricordava le argomentazioni – oggi accuratamente «obliate» – del suo predecessore, il rettore von Móllendorf, e le preghiere del canonico Sauer: «Professore, lei è l’unico, per la sua fama, a poter salvaguardare l’indipendenza dell’Università. Pensi che cosa significherebbe per noi la sua confisca da parte di un partito politico. A nome di tutti i colleghi unanimi, la supplichiamo di non rifiutare la nomina di rettore». Heidegger aveva creduto, per un momento, nel 1933, a un possibile rinnovamento e si era gravemente sbagliato. Sull’orientamento futuro, profondamente nichilistico del regime, Heidegger affermava che, dopo il 30 giugno 1934, data del Röhm-putsch (la notte dei lunghi coltelli) nessuna illusione sarebbe più stata possibile. Le misure di discriminazione nei confronti degli ebrei erano state i segnali più inquietanti. Sorpresa: il signor Fritz Werner, pilastro e anima della Libreria universitaria Albrecht di Friburgo (qui è considerato un autentico resistente luterano al nazismo), m’informa che il professor Eugen Fink, già assistente di Husserl fra il 1930 e il 1937, è tornato da poco a Friburgo. Il professor Fink, che ha contribuito alla fondazione degli Archivi Husserl, potrebbe essere di prezioso aiuto per il nostro dibattito. Senza perdere tempo, alla fine del pomeriggio, suono alla porta del professor Fink. Nell’appartamento, vuoto di mobili, molte imposte erano ancora chiuse, pacchi di fogli legati ingombravano il pavimento, delle lampade 52
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erano accese senza abat-jour. Dallo sguardo fisso sulla mia uniforme, intuisco che senza dubbio, mi prende per un giovane inquisitore specializzato nella caccia ai nazisti. Gli confido subito la mia inquietudine a proposito delle voci che corrono a Parigi sul comportamento di Heidegger all’università di Friburgo nel 1933. Il professor Fink mi dice di non aver rivisto Heidegger dopo il suo ritorno, ma che era già in rapporto con il filosofo Karl Jaspers che, durante il Terzo Reich, aveva tenuto un comportamento esemplare. Sì, certo, Heidegger s’era compromesso nel ’33 e gli studenti lo avevano seguito. Proprio questo Jaspers, che era stato suo amico, non gli perdonava. Era innegabile la sua responsabilità. Né si poteva spiegare che un pensatore del suo livello, la cui filosofia era assolutamente incompatibile con una «dottrina», avesse dato prova di tanta ingenuità politica. Anche gli amici del professor Fink si chiedevano: quale rivoluzione ideale, utopica, avesse sognato Heidegger. Il suo senso delle realtà politiche si era rivelato nullo. Come aveva potuto supporre che, all’interno dell’ambito universitario, avrebbe potuto influire sugli avvenimenti? Non si poteva escludere in lui, al di sotto di un aspetto abbastanza conservatore, un certo lato rivoluzionario romantico. Eugen Fink vedeva Heidegger nei tratti di un filosofo essenzialmente ribelle (sul tipo di Lutero) che, di modesta origine, non s’era mai preoccupato d’essere riconosciuto dalla società borghese di Marbourg o di Friburgo, né s’era mai allineato con essa. Durante tutti quegli anni universitari, il professor Fink non aveva mai sentito Heidegger fare discorsi antisemiti né prendersela con Husserl o con altri colleghi perché ebrei. Credeva di poter dire che Heidegger non aveva mai fatto nulla contro il suo maestro Husserl, né gli aveva mai proibito l’accesso alla facoltà o alla biblioteca, come s’era scritto e ripetuto negli Stati Uniti. Sicuramente s’era piegato a compromessi. Era sicuro, e creava delle ambiguità, il fatto che aveva dovuto tener conto, durante il rettorato, della 53
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nuova legislazione tedesca sui funzionari e delle ordinanze del Reichskommissar. La commissione di denazificazione non poteva tuttavia ignorare che aveva tentato di ritardare o mitigare l’effetto di certe misure arbitrarie e discriminatorie; e anche di proteggere molti colleghi o studenti ebrei. Tenendo conto anche di questo la procedura in corso doveva stabilire la sua parte di responsabilità. Il professor Fink, che era andato a prendere due bicchieri, li riempì fino all’orlo di grappa. Oggi non ci si poteva immaginare lo choc che aveva prodotto nel 1933 l’apparente identificazione di Heidegger con il movimento nazionalsocialista. Non pensava soltanto a Husserl, e alla sua équipe di lavoro, ma anche agli studenti di Heidegger. E non solo a quelli che erano ebrei. Nessuno poteva spiegarsi una tale catastrofe, improvvisa come un accesso di follia: lui, il pensatore dell’essenza della libertà, della verità dell’essere, aveva accordato il suo appoggio a Hitler nel momento del plebiscito che, per la prima volta, gli aveva assicurato una maggioranza schiacciante di suffragi. Come aveva potuto scrivere allora che il Führer, e lui solo, incarnava il destino del popolo tedesco? E pubblicare, su giornali della regione, scritti di una bassezza incredibile? Certo, le sue dimissioni dal rettorato nel 1934 non erano passate inosservate, Ma come sorprendersi che su un uomo, prima così ammirato, si concentrassero improvvisamente tanta delusione e rancore? Il mio sguardo si posò su pile di fogli sopra uno scaffale: si trattava, disse Fink, dei manoscritti inediti di Husserl redatti in scrittura stenografica nell’epoca in cui, disperato, aveva visto il mondo sprofondare nella barbarie e compromessa la posterità della sua opera. Durante il rettorato, Heidegger, obnubilato dal suo grande progetto di rinnovamento dell’Università, non si era distinto per eccezionale coraggio civico, mi dice ancora il professor Fink. Heidegger aveva evitato Husserl, e anche cessato di vederlo. Mi racconta che l’orientamento filosofico di Heidegger e la sua «questione del senso dell'essere», come l’aveva posta 54
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fin da Sein und Zeit nel 1927, erano stati per Husserl, fino alla sua morte a Friburgo nel 1938, una terribile delusione, non priva di risentimento e di sospetto. Il cammino filosofico del suo più brillante assistente gli era apparso come un tradimento nei confronti della scienza fenomenologica, o per meglio dire, una regressione. Heidegger, come del resto la maggior parte dei professori di Friburgo, non era presente alla sepoltura di Husserl. Mi accomiato. Il professore mi affida una pagina stenografata di Husserl, che volevo far fotografare dal servizio di documentazione dell’esercito, a Friburgo. «Se lei torna da Heidegger, lo saluti da parte mia. Con Husserl, è senza dubbio il più grande filosofo del nostro tempo. Il suo lavoro ci sarà un tempo indispensabile... Io lo compiango».
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Sartre era introvabile al Flore e al suo hotel. Finii per incontrarlo in rue Jacob. M’invitò a bere un bicchiere sulla terrazza dei Deux Magots. Tornava da un viaggio e mi disse che in sua assenza Simone de Beauvoir s’era occupata del lancio della sua rivista. Si compiaceva di avere nel comitato di redazione Raymond Aron, Jean Paulhan, Merleau-Ponty. Era una bella giornata d’autunno, con una luce che sembrava uscire da una tela di De Chirico. La curiosità di Sartre era insaziabile. Voleva saper tutto sulla nostra vita nella zona francese d’occupazione, sulle reazioni della popolazione civile e dei vecchi nazisti di fronte ai comitati d’epurazione. Lo interessava il comportamento delle donne e lo sorprese ciò che gli dissi della docilità delle ragazze tedesche: una di esse mi aveva offerto una rosa il giorno dopo una requisizione. Bizzarramente mi chiese: «Lei portava l’elmetto?». Gli dissi che Heidegger era in procinto di leggere L'être et le néant. Sartre non l’aveva mai visto. Stavo per dirgli della sua bassa statura e mi accorsi in tempo che anche Sartre era molto piccolo. Mi limitai a dirgli che mi avevano molto colpito i suoi occhi neri incredibilmente penetranti e, nello stesso tempo, come rivolti all’interno, aperti su un duplice paesaggio. Lui e la moglie mancavano di notizie dei loro due figli. Gli raccontai come, essendomi presentato in casa del filosofo, ero stato il testimone involontario della tempesta provocata nella sua vita dall’impegno politico del 1933, che egli non nascondeva né mascherava. Certi inquisitori sapevano a Baden-Baden, fino negli uffici del comando militare, che la novità della filosofia di Heidegger aveva troppo scosso i valori costituiti perché si fosse spinti oggi a correre in suo aiuto. Sartre mi confidò che era stato Raymond Aron, di ritorno 56
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da Berlino nel 1933, a parlargli per primo di Husserl e di Heidegger, facendogli intravedere le risorse del metodo fenomenologico che oltrepassava la coppia soggetto-oggetto, come aveva sottolineato in un articolo pubblicato proprio prima della guerra nella «Nouvelle Revue Française». Non sapeva nulla, dopo quell’epoca, dell’evoluzione filosofica di Heidegger e neppure se avesse pubblicato, e l’inquietava quello che si diceva di lui (specialmente negli Stati Uniti). Gli raccontai allora della mia visita al professor Fink, ripetendogli parola per parola ciò che sapevo. Gli riferii del quadro che Heidegger e la moglie mi avevano fatto della Germania degli anni Venti: degradazione della Repubblica di Weimar, miseria del popolo tedesco, agitazione e minaccia bolscevica, speranza in un rinnovamento nazionale. Heidegger aveva preso le distanze nel 1934, quando si era reso conto della portata del suo errore. Nessun decano da lui nominato durante il rettorato era iscritto al Partito; e affermava che aveva molto lavorato per salvaguardare l'autonomia dell'università di Friburgo. Riferii ancora a Sartre che, a dire della signora Heidegger, Karl Jaspers aveva scritto una lettera al marito nel 1933 per felicitarsi con lui dello «spirito ellenico» del suo discorso di rettorato e gli aveva augurato «buona fortuna». Heidegger sembrava dire la verità. La diceva per intero? Proprio in quegli stessi giorni doveva spiegarsi davanti al comitato d’epurazione. Sartre aveva ascoltato in silenzio con grande attenzione, la testa un po’ piegata in avanti, fissandomi col suo occhio destro stranamente divergente. Dai tavoli vicini alcuni ci osservavano, altri venivano a stringergli la mano. Un passante s’era addirittura fermato sul marciapiede per scattare una foto. A questo Sartre sembrava abituato. Alla fine mi disse che faceva serie riserve: non si poteva cancellare la responsabilità di un filosofo della levatura di Heidegger che aveva optato per il totalitarismo. Probabilmente la sua fobia del pericolo comunista, la sua ignoranza del marxismo spiegavano molte cose: un riflesso di classe contro «l'uomo dal coltello fra i 57
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denti». Sartre si lanciò in un’analisi psicologica così sottile del comportamento sociale che mi parve quasi strana, distante com’era dalla tonalità metafisica alla quale mi aveva abituato, a Friburgo, la lingua tedesca. Tuttavia ammise che lasciar divulgare delle calunnie non risolveva niente e mi propose di pubblicare un racconto della mia visita su «Les Temps Modernes». L’impegno d’oggettività di Sartre mi piaceva. Quando gli riferii che il professor Bréhier non aveva risposto alla lettera di Heidegger «col pretesto che era troppo tardi», Sartre mi disse il suo disaccordo con questa reazione: «Quella lettera sarebbe stato meglio che Heidegger l’avesse inviata agli universitari ora piuttosto che durante l’occupazione nazista, perché avrebbe avuto tutto un altro senso». Lo pensava davvero? «La forza di Heidegger – aggiunse Sartre – sta nell’aver fondato una filosofia della libertà; la sua debolezza nel non aver saputo riuscire a una morale concreta, sintesi dello storico e dell’universale». Dopo tanta irresponsabilità, era necessario fondare oggi un sistema di morale: la sinistra francese, addirittura l’Europa, avevano bisogno di una dottrina nuova. Nessuno ormai avrebbe potuto saltare oltre Marx, la dialettica, la lotta delle classi. Il virtuosismo intellettuale di Sartre mi abbagliava. Prima di decidersi a incontrare Heidegger in Germania, Sartre voleva riflettere. Il suo occhio, ora, mi fissava con insistenza. Avevo l’impressione che non gli sarebbe dispiaciuto andare a Friburgo per mostrare a Heidegger che aveva su di lui, filosoficamente, una lunghezza d’anticipo.
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Ernst Jünger e Frédéric de Towarnicki (foto Karin Brincourt)
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Ritornato a Friburgo (attraversando la Foresta Nera sulla piattaforma di un camion dell’esercito), decido di fare un salto a Zähringen per portare il caffè promesso. Quando stavo per attraversare il ponte che conduce agli edifici del «Rhin et Danube», si udì uno spaventoso fracasso. Un camion militare, stipato di soldati francesi, ribaltandosi, aveva scavalcato il parapetto e s’era schiacciato sul terreno. Seguì un momento di silenzio assoluto, poi grida terribili. Sul ponte, chi passava si fermava, inorridito, e scorsi dei corpi sparpagliati fra i rottami di ferro. Corro per portare soccorso. Subito arrivano i barellieri dell’esercito. Sangue dovunque. E sulle mie mani. Le lavo in un ruscello, salendo verso Zähringen. La signora Heidegger apre la porta e, come sempre sorride, sorpresa. Insiste perché aspettassi, portassi pazienza: suo marito non ha lasciato il suo studio dall’alba. Per ogni evenienza, aveva appena finito di riordinare la casa nell’attesa di eventuali profughi. I loro guai personali apparivano derisori a confronto del dramma vissuto da certi loro amici tedeschi. E come potranno sopravvivere quelli della zona sovietica? Dall’Est arrivavano solo notizie allarmanti. Il capitano Fleurquin potrebbe far giungere lettere a Dresda, a Berlino? Suo marito praticamente non usciva più. Molti si sono chiusi nel silenzio. Il vecchio amico Jaspers non s’era fatto vivo. Mi lascia per andare in cucina a fare il caffè. Odo subito il passo di Heidegger che scende la scala di legno. Ha sentito l’odore del caffè? Vestito nel suo costume regionale, entra nella sala da pranzo, sorpreso, con la mano tesa mi invita a sedermi con lui nella terrazza. «Comincio a lavorare quando si alza il sole, mentre altri lavorano quando tramonta», mi spiega. E ride. Si è soffermato su una frase di Anassimandro di cui si è perduto il senso originario. Troppo 60
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spesso si pensa ciò che hanno detto i Greci attraverso il prisma delle rappresentazioni moderne. Il racconto del mio incontro con Sartre lo rallegra. Ha cominciato a leggere L'être et le néant. Gli pare grandissimo il talento descrittivo di Sartre, le sue analisi psicologiche, notevoli quelle della malafede; molto giusto ciò che egli scrive a proposito della morte. Gli sembra del resto che Sartre, in Sein und Zeit, si sia soprattutto interessato all’analisi del Dasein, dell'essere umano, mentre, questa analisi, non era stata che un preludio alla questione dell’essere. Heidegger comprendeva meglio perché si associasse oggi il suo nome all’esistenzialismo, come un tempo, in Germania, lo si era associato alla filosofia esistenziale, a Kierkegaard. Sempre lo stesso malinteso ritardava senza fine la discussione sulla questione direttrice che egli poneva e che, del resto, nessuno finora aveva veramente affrontato. La questione non era un’interrogazione antropologica sull’esperienza del vissuto umano o sui fondamenti di un’etica, ma una questione sulla verità dell’essere in quanto tale. Husserl – con la sua riduzione fenomenologica – aveva avuto lo straordinario merito di indirizzare lo sguardo dall’ente verso l’essere, in un’epoca in cui la filosofia universitaria della scuola di Marburgo, obnubilata dal problema dei valori, aveva finito per interdire di parlare dell’essere. Quanto a sé, egli tentava di portare questo sguardo sull'essere stesso, sul senso dell’essere. Lo sguardo fenomenologico esigeva un lavoro incessante, anche una sorta di esercizio di addestramento. Fenomenologia voleva dire essenzialmente: sguardo in ciò che è. E questo sguardo doveva, oggi, far fronte al mondo della tecnica. Dopo Sein und Zeit, dopo il 1927, nessun dibattito serio aveva fatto avanzare d’un pollice questa questione dell’essere, non la si vedeva o non la si voleva vedere. In Germania, verso la fine degli anni Venti, il suo libro aveva provocato una moda e una serie di controsensi. Il peggio, ironizzava, era stata la chiacchiera degli «heideggeriani». 61
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Lui stesso non poteva scorgere i limiti del suo lavoro. La questione attendeva la sua ora. Non c’era risentimento nella sua voce. Era la constatazione di una difficoltà e di una solitudine, forse anche di un fallimento. Dato che m’indignai per questa mancanza di chiaroveggenza, Heidegger mi frenò con un gesto: nessuno poteva sottovalutare il peso, la potenza delle rappresentazioni forgiate da venticinque secoli di metafisica che, nello stesso tempo, ci trascinavano in avanti e ci imprigionavano in una costrizione. Ritornò a Sartre. Sartre, richiamando i progressi compiuti dalla fenornenologia, scriveva che «il primo passo della filosofia consisteva nell’espellere le cose dalla coscienza». Voleva oltrepassare l’opposizione soggetto-oggetto, realismoidealismo, ma si manteneva sul piano della coscienza, nel quadro delle rappresentazioni costruite dall’io umano, da l’ego sum, l’io sono dell’ego cogito di Descartes. Era iniziata l’ultima tappa della metafisica di cui avevamo parlato, quella in cui l’uomo divenuto «soggetto» si rappresentava come il criterio di misura, il centro di riferimento di tutto ciò che è. Non era Sartre soprattutto un moralista in cerca d’un sistema di morale? Il suo senso delle cose concrete si leggeva a ogni pagina. Heidegger sembrava contento all’idea di dialogare con lui e forse anche di portarlo a filosofare sui pendii del Todtnauberg. In L'être et le néant aveva letto con sorpresa sapienti descrizioni fenomenologiche che mostravano in Sartre certamente un abile sciatore. (...) Essere savoiardo non vuol dire di abitare semplicemente nelle alte vallate della Savoia: significa, fra mille altre cose, sciare d’inverno, utilizzare lo sci come mezzo di trasporto. E, precisamente, significa sciare secondo il metodo francese, non secondo quello di Arlberg o dei Norvegesi*. Ma, poiché la montagna e i pendii nevosi non si rivelano che attraverso una tecnica, è, precisamente, scoprire il senso francese delle discese sciistiche; infatti, a seconda che si utilizzerà il metodo norvegese, più adatto ai pendii dolci, o il metodo francese, più adatto ai pendii ripidi, lo stesso pendio apparirà più o meno difficile, esattamente come una salita apparirà più o meno ardua al ciclista, a seconda che la farà «a piccola o a media velocità».
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Così, lo sciatore francese dispone di una velocità francese per discendere i pendii sciistici, e questa velocità gli rivela un tipo particolare di pendii, ovunque egli si trovi, cioè le Alpi svizzere o bavaresi, o il Telemark o il Giura gli offriranno sempre un senso, delle difficoltà, un complesso di utensilità o di avversità puramente francesi.
*Semplifichiamo: ci sono influenze, interferenze di tecnica; il metodo dell'Alberg è stato per molto tempo di moda da noi. Il lettore potrà facilmente ripristinare i fatti nella loro complessità10.
L’analisi savoiarda di Sartre che mi mostrò nel libro, aveva messo Heidegger di buon umore. Stavo per accomiatarmi, ma lui mi fece cenno d’attenderlo. Lo vidi salire svelto e ritornare con un voluminoso manoscritto rilegato che posò su un tavolo e sfogliò con quel sorriso divertito, enigmatico, che spesso mi intrigava. Riconobbi, in centinaia di pagine, la sua scrittura gotica, sottile e fitta, con qualche cancellatura e correzione. Si trattava, mi disse, del seguito di Sein und Zeit che non aveva mai pubblicato, quella seconda parte del libro di cui s’era detto che non fosse mai riuscito a scrivere. Ma no, disse, la problematica dell’essere e del tempo si era semplicemente biforcata, e l’aveva condotto a interrogarsi, in un confronto con Platone, sull’essenza della verità. Quello che credevo di sapere vacillò. Tornato a RoteLache, rilessi le mie note sugli articoli di Jean Beaufret. Rimanendo sul piano di una filosofia della coscienza, Sartre, ben lontano dal superare l’idealismo e il realismo, ricostituiva di fatto la coppia soggetto-oggetto. Aggirava, in fondo, la questione centrale che Heidegger poneva. Del resto, Beaufret evocava la potente e superba tentazione sortita dal Cogito di Descartes, una delle scoperte capitali della filosofia: con la coscienza cartesiana era nata la tentazione dell’interiorità, quella di ridurre il reale a misura della coscienza, di farne un flusso di modificazioni soggettive, in cui venivano a dissolversi, «in una sorta di poltiglia psichica», i robusti crinali e le potenti vastità del mondo in cui viviamo. Già con Berkeley, scriveva ancora Beaufret, il paesaggio non era più che uno stato d’animo. Con Bergson e il suo 63
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magico specchio, si avviava il trionfo della vita interiore nell’indefinito flusso del divenire, L’articolo sottolineava come, per Husserl e Heidegger, la descrizione della coscienza attraverso la «via interiore» non poteva essere che radicalmente falsa. Era di questo che Heidegger desiderava parlare con Sartre? Trovai un messaggio al servizio sociale «Rhin et Danube»: due personalità cattoliche di Friburgo, avendo sentito dire che si preparava un dibattito filosofico con la partecipazione del professor Heidegger, desideravano parlarmi. Conservo un ricordo abbastanza vago di quell’incontro dall’atmosfera ovattata di una casetta situata, mi sembra, presso la cattedrale. Mi attendono una decina di persone. Preti, teologi, forse anche un primate della chiesa di Bade, che sembravano interessati alle mie visite a Zähringen, anche perché Heidegger non riceveva nessuno. Attribuisco alla mia uniforme il rispetto ossequioso che mi manifestano. Esplodono le domande. Si è ristabilito il professore dal suo disturbo cardiaco? È vero che i Francesi preparano a Baden-Baden un grande convegno filosofico? Indovinando molto bene che bruciano dal desiderio di conoscere quel che si dice in casa del filosofo, rispondo alle loro domande con prudenza. Parlano del caso Heidegger con una sorta di tristezza e di riserva, fanno allusioni alla moglie protestante con un tono non privo di sospetto. Sembra preoccuparli la notorietà di cui gode il filosofo in Francia. Si scambiano delle occhiate sostenute quando dico che Heidegger mi ha parlato soprattutto di Nietzsche e di Hölderlin... Apprendendo che sono cattolico, mi chiedono se Heidegger mi abbia parlato della fede e dei suoi rapporti con la Chiesa. Fatto singolare: non si interessano affatto alle voci che corrono in Francia sulla sua attività antisemita. Presto si precisa un’altra domanda: a che punto è la procedura avviata contro di lui dopo l’estate? Heidegger riconosce il suo errore? È pronto a riconoscerlo pubblicamente? Non ne so niente. 64
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La mia risposta li delude. Insistono. Si sente colpevole? Finisco per rispondere che il suo errore di giudizio sembra pesare fortemente sulla sua vita. Uno di loro dice allora che deve spiegarsi pubblicamente, e non si può lasciarlo impunito, se non altro per tutti gli studenti che ha fuorviato. Mi dico: eccoli dunque qui i Neri (die Schwarzen) di cui mi ha parlato la signora Heidegger, così influenti che hanno spie dappertutto nella regione di Bade. Heidegger ai loro occhi è un rinnegato giustamente punito? Non è normale che la gente si ponga le domande che imbarazzano me stesso? Finisco per invitare tutti a far visita al nostro centro culturale.
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Martin Heidegger, 1969
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Brillava il sole sulla regione di Bade e, come spesso qui, la luce era di un'infinita dolcezza. Heidegger doveva andare a Friburgo, all’Università. Gli dissi che avrei messo a sua disposizione un’auto del nostro servizio sociale. M’invitò ad accompagnarlo. Per strada, evocò il 1928, l’anno della sua nomina a Friburgo, dove, per ragioni di economia, la moglie aveva lei stessa disegnato la disposizione delle stanze della loro casa. Imparai che Friburgo era diventata nel XIII secolo feudo dei duchi di Zähringen, che la città era stata assediata da Condé e Turenne durante la guerra dei Trent'anni, fortificata da Vauban, e che i Francesi avevano dovuto cederla all’Austria nel 1748. Nel 1806 era diventata badese. Mi chiese se avevo visitato la cattedrale, la piazza del Municipio con i suoi castani mutilati dalle bombe. Costeggiammo parecchi edifici dell’Università gravemente danneggiati. Ero in uniforme. Nel parco della gente ci osservava. Heidegger si fermò davanti alle statue di Omero e di Aristotele poste all’ingresso dell’edificio centrale in granito rosa. Mi indicò, scolpita sul frontone, la massima dell’Università che lesse con una punta di malizia nella voce: «La verità vi renderà liberi». Mi invitò ad attenderlo passeggiando per i viali rinomati nel badese per lo splendore delle magnolie. Mi raggiunse presto, sereno, e mi propose di fare quattro passi. Camminando, anche per rispondere alle mie domande, s’interrogava sull’avvenire dell’Europa. Sarebbe stata capace di risalire alle autentiche fonti del male e resistere al dogmatismo? Oppure si sarebbe lasciata trascinare dal flusso del nichilismo senza curarsi di ciò che, nella storia del pensiero, determinava oggi il destino della storia del mondo? La conversazione deviò sul marxismo e 67
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su Hegel il cui pensiero non poteva essere compreso se non nella sua radice teologica cristiana. L’influenza del pensiero di Marx derivava, fra l’altro, dal suo acuto senso delle realtà concrete, di cui era totalmente sprovvista, per esempio, la «filosofia dei valori». Sempre passeggiando, Heidegger si interrogava sull’interesse che suscitava la celebre formula dì Marx: «Fino a ora i filosofi hanno interpretato il mondo, si tratta ora di trasformarlo». I Fürhschriften, gli «Scritti giovanili» di Marx che egli aveva analizzato nel 1932 dirigendo una tesi, rivelavano a qual punto i loro presupposti filosofici si inscrivevano all’interno della metafisica hegeliana. Marx, il più grande degli hegeliani, secondo lui, scriveva allora che la storia mondiale altro non era che la produzione dell’uomo attraverso il lavoro umano, che il divenire della natura si realizzava per mezzo dell’uomo. Né l’uomo né la natura erano colti in quanto tali. Marx vedeva l’essenza della realtà nell’uomo che produceva se stesso producendo i suoi mezzi di esistenza. Ma no, diceva Heidegger: ogni produzione è già riflessione; ogni produzione presuppone il pensare. Restava da sapere perché una tale evidenza era a lungo negata o non percepita. Il materialismo di Marx, anch’esso, alla sua maniera, non era che un ritorno al platonismo; e la dialettica una sorta di frullatore, da cui poteva uscire tutto e non importa cosa, in un mondo in cui l'uomo era considerato solo come «essere sociale». Heidegger ironizzò sulla guerra di propaganda cui s’erano abbandonati i laboratori di Hitler e di Stalin. Tutti questi anni avevano permesso di vedere che la dottrina nazionalsocialista su parecchi punti si accordava con il bolscevismo. Per i marxisti l’uomo non era che un «essere sociale»; il pensiero, il mondo spirituale non erano che la sovrastruttura di una realtà economica. Per Rosenberg e quelli come lui, queste realtà non erano che l’espressione sociale della costituzione biologica e degli elementi razziali che determinavano l’essere umano. Non restava che utilizzare queste pseudo68
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verità scientifiche nel quadro di un programma politico. Erano proprio i fondamenti su cui si pretendeva erigere tali concezioni, che aveva messo in questione nei suoi corsi. Durante questa passeggiata, Heidegger mi parlò per la prima volta del «luogo» più enigmatico del pensiero, quello che è, disse, la sorgente segreta di tutto il resto: la differenza fra l’essere e l’ente. L’essere, l’ente? Das Sein, das Seiende? In Francia nessuno parlava del rapporto fra l’essere e l’ente. Mi sentii in diritto a un breve corso di fenomenologia: queste due parole dopo Eraclito e Parmenide, dopo l’inizio greco, dicevano ciò che era in questione in tutta la storia della nostra filosofia. La parola ente designava l’insieme di ciò che è. L’essere, l’invisibile, non è nulla di ente: visto a partire dall’ente, appariva come un niente. Da qui la difficoltà. I Greci avevano visto bene questa differenza, ma non l’avevano esplicitamente pensata. L’essere ha bisogno dell’ente per manifestarsi, come l’ente ha bisogno dell’essere. Interrogandosi sulla verità dell’essere, Sein und Zeit, aveva tentato di avvicinarsi di più al luogo enigmatico della questione. Avendogli confessato che tutto questo era per me disperatamente oscuro, Heidegger, scuotendo il capo, mi dice che lo era anche per lui. «Der Bezug zum Sein ist dunkel», il rapporto all’essere è oscuro, e questa oscurità protegge senza dubbio il luogo delle nostre presunzioni. La questione non si lasciava avvicinare nell’impazienza. Improvvisamente attraversato da un dubbio riguardo a un punto che credevo di comprendere, mi chinai bruscamente per disegnare sulla ghiaia la situazione metafisica dell’essere umano, del Dasein, dispiegando attorno a esso un mondo come lo immaginavo. Da un piccolo cerchio aperto (l’uomo), partiva una serie di raggi che attraversavano da ogni parte sulla ghiaia un grande cerchio chiuso (il mondo), ecc. Ricordo che un passante s’era fermato un attimo per osservare quello che disegnavo. Silenzio. Alzo la testa. Heidegger sorride con aria 69
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perplessa, poi si mette a ridere: «Lei filosofeggia sulla terra, come i Greci». Ma no, il Dasein non è il Cogito, il mondo non è nella coscienza. Dasein non dice «sono qui»; piuttosto «laggiù». Indicò, all’estremità del parco, i boschetti delle magnolie. Mi spiegò che il Dasein è ciò nel cui seno l’uomo dispiega il suo essere. Il Dasein è al mondo perché è trascendente. Si tratta di una struttura ontologica, di un rapporto all’essere, come aveva visto bene Beaufret. Un comportamento riguardo all’ente è possibile solo là dove c'è libertà. Nessun mondo senza Dasein, nessun Dasein senza mondo. Il mondo, realtà concreta, non è mai tuttavia questo o quell’ente incontrato sul nostro cammino: l’essenza del mondo è niente di ente, Il Dasein è aperto all’essere, ma il Dasein è niente di ente. Poiché stavo zitto, Heidegger mi dice che era rimasto per anni nella vicinanza dell’enigma, che ogni giorno lo meravigliava un po’ di più. Tornati a Zähringen, lo seguii nel suo studio. Su una delle sue piccole schede quadrate, mi scrisse: Dasein = esser-ci. L’esserci dell’esistenza, il ci per l’apertura della libertà. E non, insistette, «essere lì», come si era tradotto, o ancora, «realtà umana», come aveva scritto Henry Corbin. Ma era comprensibile in francese? Comprendevo un po’ meglio il senso della messa in questione di Heidegger? Le lacune dei miei appunti a matita mi facevano dubitare. Mi era difficile seguire certi testi e anche le sue spiegazioni. Non era solo a causa della lingua. Perdevo terreno. Ero spaesato. Quello che sembrava andare da sé diventava una questione. Eppure, nessuna pesantezza professorale. Piuttosto un invito a riflettere insieme. Le questioni s’incastravano l’una nell’altra, ciascuna rinviava a un ampio gioco di corrispondenze che non consegnava il suo vero senso se non in rapporto alla storia intera della filosofia. Era al punto di partenza il suo potere di concentrazione, l’ampiezza dei riferimenti, il movimento circolare dell’analisi che avanzava ritornando senza posa per assicurarne il 70
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fondamento? C’era come una rotazione, un salto da fare. Era il dispiegamento progressivo d’una dimensione del pensiero che sembrava, a momenti, andare in senso inverso all’ordine abituale. Agiva come uno specchio magico. Al fondo del labirinto, le cose apparivano subito più vicine, semplificate. Era questa la singolarità del pensiero dell’essere? Un allievo di Heidegger mi disse che molti uditori avevano avuto, prima di me, questa impressione magica. Un giorno volli parlargliene. Come spesso gli accadeva, fece con la mano un gesto che tagliava corto.
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Con il sentimento un po’ teatrale del ruolo di giustiziere che vuole si guardi in faccia la prova dell’orrore, porto a Zähringen un opuscolo che circola nel nostro centro culturale. È un documento sui campi di Dachau, che mostra prigionieri scheletrici e immense carneficine. Quando apro il documento sotto gli occhi del marito, credo di scorgere un’espressione d’inquietudine sul viso della signora Heidegger. Entrambi fissano le fotografie, come impietriti. Heidegger tace. La signora Heidegger mi assicura che nessuno, nella cerchia dei conoscenti, aveva mai avuto notizia di questi campi e di ciò che vi accadeva. Sul viso di suo marito c’è smarrimento. Mormora come fra sé che non ci sono parole di fronte a una tale tragedia. Il popolo tedesco, mi dice, è stato tradito da una banda di criminali. Si era oltrepassata una soglia senza precedenti: la trasformazione dell’uomo in un prodotto materiale disponibile al servizio di un programma. Il tempo del nichilismo era anche quello del disumano. Nulla garantiva, disgraziatamente, che questo tempo fosse già alle nostre spalle. Heidegger accolse con simpatia Octavian Vuia, uno studente rumeno ortodosso che avevo conosciuto nei corridoi del comando militare di Baden-Baden e avevo deciso di condurre da lui di sorpresa. Vuia era un giovanotto fragile e attraente, d’una magrezza impressionante. S’era iscritto alla facoltà di teologia di Heidelberg durante la guerra e aveva frequentato un corso di Heidegger a Friburgo. Nello sfacelo, s’era trovato bloccato in Germania con la moglie, nell’impossibilità di tornare nel proprio paese. Mentre salivamo verso Zähringen (mi sarei imbattuto nell’uomo dai capelli irsuti?),Vuia mi disse che era 72
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stato appena sconsigliato di riferirsi a Heidegger, il cui insegnamento era da tempo sospetto agli occhi delle autorità. Il teologo Georg Picht gli aveva confidato che durante i loro incontri a Friburgo, Heidegger criticava così violentemente il regime e la sua «cricca», che era stato costretto di chiedergli a più riprese d’abbassare la voce. In vicinanza della casa, Vuia mi confessò d'essere molto intimidito: aveva visto Heidegger soltanto davanti a una lavagna, lo paragonava a Lutero. Perché Lutero? Perché Heidegger è un ribelle e il filosofo di una formidabile sfida. Dissi a Vuia che in Francia lo si vedeva piuttosto come una sorta di Cézanne della filosofia. Heidegger ci fece salire nello studio e restò in piedi davanti alla finestra, mentre Vuia gli parlava del suo progetto di stabilirsi a Parigi per seguire alla Sorbona i corsi di Jean Wahl su Kierkegaard. Accettò volentieri di lasciarci trascrivere frammenti di lezioni, consegnandoci le copie di vecchie pagine stenografate, fascicoli di carta velina corrette di sua mano. Quando tornavamo a riportargli i testi, Heidegger rispondeva alle nostre domande con la gravità e la pazienza di un professore nella sua aula di fronte a un immenso uditorio, tenendo viva senza posa la nostra attenzione, spesso con brevi osservazioni, su ciò che chiamava l’«essenziale». In un tempo in cui le scienze si apprestavano a decidere di tutto, era necessario portare a buon punto un compito preparatorio del pensiero. Nessuna scienza disponeva d’un orizzonte abbastanza ampio per includervi, ad esempio, la questione dell’essere, dell’essenza della verità, della libertà umana o delle radici dell’arte... C’erano dei campi nei quali la scienza non avrebbe mai avuto la possibilità di collocarsi, delle questioni che, con assoluto rigore, non potevano essere. scientifiche. La forza propria al lavoro filosofico riposava giustamente sul fatto che s’interrogava, esso soltanto, in direzione del tutto. Lo comprendevamo? Non si tratta di disprezzare la scienza: le nostre questioni si muovono semplicemente in un campo che 73
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le sfuggiva proprio a causa dei suoi metodi, la cui efficacia non era più da dimostrare. Dovevamo imparare a vedere meglio questa differenza. Anche perché molti problemi posti dal nostro tempo restavano inaccessibili sia al modo di pensare tradizionale sia alle diverse discipline delle scienze umane. Queste, non potendo accedere a una visione d’insieme, quali che fossero i loro meriti, non potevano vedere come esse stesse operassero nello spazio che avevano in anticipo aperto e circoscritto in mezzo dell’ente del mondo. La questione di fondo, che proveniva dall’influenza della tecnica sul mondo moderno, esigeva tutt’altra meditazione, un pensiero che oggi non poteva che abbozzarsi. A questo punto del nostro lavoro, diceva Heidegger, avanzavamo nell’orizzonte del pensiero europeo iniziato con Anassimandro, Eraclito, Parmenide. Non conveniva a questo cammino alcun sistema filosofico, alcuna parola in ismo. Per proseguire, dovevamo sforzarci di comprendere senza mascherarlo e senza accontentarci di ripeterlo, ciò che era stato detto e nominato dai poeti e dai pensatori. Ciascuno deve risalire alla propria sorgente. La memoria che una civiltà aveva della sua origine era l’autentico punto di partenza di quel dialogo pensante che poteva sperare di aprire con le altre civiltà. In un’altra giornata, essendosi Vuia interrogato sull’orientamento del pensiero occidentale, Heidegger chiarì perché la storia del «crescente abbandono dell’ente da parte dell’essere» – che nella nostra epoca raggiungeva il punto culminante – era stato preparato da lontano proprio da Platone e Aristotele. Dirigendo il loro sguardo verso la verità della conoscenza, la verità della proposizione, Aristotele e Platone avevano dato avvio al processo di seppellimento dell’essenza della verità, intesa nel senso greco di alètheia, di svelamento, d’apertura a partire da un ritiro. La alètheia restava tuttavia ancora nel loro campo di visione. Oggi, per l’uomo della tecnica, questa dimensione, divenuta incomprensibile, invisibile, sprofondava. Ma quando tutto 74
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vacillava, poteva anche sopravvenire, durante l’eclisse, il tempo della filosofia. Anche questo era ben lontano dall’essere chiaro. Ci meravigliavamo che Heidegger, nel mezzo delle sue inquietudini, si occupasse tanto di noi. Vuia sosteneva che in lui la passione pedagogica prevaleva su tutto il resto. Sotto la sua esigenza di rigore, le frasi beffarde e talvolta impietose, traspariva un’immensa generosità che a tratti illuminava il suo volto. Non l’avevamo mai udito stroncare un’opera, una punta d’ironia lasciava talvolta far intendere la sua riserva. A uno studente che, sproloquiando sulla metafisica, diceva di non «vedere» l'importanza della questione dell'essere, aveva risposto: «Io non posso vederla al suo posto, e dunque non posso far niente per lei». Un’altra volta, lamentandosi Vuia delle contraddizioni che nascevano tra il suo lavoro filosofico e le sue letture teologiche e bibliche, Heidegger gli ricordò che la tradizione occidentale era costituita precisamente dall’incontro storico del contributo greco e di quello ebraico: la loro doppia influenza, anche se indebolita, non potrà mai essere cancellata e la sí ritroverà sempre sulla nostra strada e sotto i nostri passi. Certo era difficile un lavoro sui fondamenti della metafisica in un’epoca impaziente che sfruttava l’acquisito, procedeva sempre più in fretta. La storia della filosofia si urtava contro l’ondata delle scienze e le loro molteplici ricadute, ma noi dovevamo imparare a lavorare in mezzo a esse, senza disprezzarle, evitando anche l’inclinazione manichea del pensiero, la sua sterile deriva verso il settarismo o la sola polemica. Mi ricordo molto bene di un’altra visita. Un temporale ci aveva inzuppati per strada. Heidegger ci ricevette nella sala da pranzo, la più calda della casa. Venivamo a portargli un corso su Nietzsche e ci accordò un momento. Era in questione la parola di Nietzsche sulla «morte di Dio». L’uomo nicciano appariva come colui che la prova della morte di Dio 75
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non cessava di maturare. Protestando e lanciandosi Vuia in considerazioni edificanti sulla Rivelazione e l'Apocalisse, Heidegger l’interruppe d’improvviso con un «No!» senza replica, e gli rimproverò la tendenza a mescolare, e talvolta nella medesima frase, la filosofia e la fede. Non tardai in seguito a notarlo: Heidegger non amava lasciarsi trascinare nei dintorni troppo avventurosi del pensiero né in chiacchiere su presupposti spiritualisti in cui la filosofia non era di alcun soccorso. Accontentarsi di discorrere sul «mistero» significava recidere ogni possibilità d’avanzare sui sentieri segreti. Era sbarrarne l’accesso. Quel giorno, tornando verso Friburgo con Vuia, non cessavo d’interrogarmi se si poteva accettare l’idea che dalla percezione o dall’oblio delle dimensioni filosofiche originarie – e particolarmente da quella che governa l’essenza della verità – dipendesse forse il corso della nostra civiltà. Entrando in Friburgo, un ufficiale che avevo dimenticato di salutare, mi chiamò bruscamente, con il suo bastone in mano. «E soprattutto, si metta sull’attenti!», gridò. Chiese cosa avessi fatto della mia bustina e annotò il mio nome su un taccuino. «D’origine polacca?». Il tono di voce s’era addolcito: aveva ammirato, ci dice, il coraggio dei soldati polacchi a Montecassino. Quando mi chiese a quale corpo appartenessi, imperterrito risposi: «Servizio documentazioni». Sorpreso, ci rilasciò immediatamente.
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Ero di nuovo a Parigi, e avevo l'impressione di cambiare pianeta. Strana epoca quella in cui, di caffè in caffè, si ricostruiva il mondo per unire gli uomini e nessuno riusciva mai a incontrarsi. Ci si correva dietro. Sartre, in ogni caso, era di nuovo introvabile. Si diceva che fosse ora negli Stati Uniti, ora in Italia. Aveva già rimandato due volte telefonicamente la sua partenza per la Germania e si erano dovuti annullare i suoi ordini di missione. Con una terza telefonata mi fece sapere che desiderava incontrare Heidegger in compagnia di Simone de Beauvoir, precisando la data. Ancora una volta avevo lasciato al suo albergo una lettera accompagnata da una poesia che avevo intitolato Ballade des cent mille vérités. Sartre la sera stessa aveva deposto un biglietto al mio albergo vicino al Panthéon. Caro signore, la ringrazio della sua lettera. Lei è davvero gentile a insistere che io venga in compagnia. Credo che Simone de Beauvoir invidi molto il mio privilegio di vedere Heidegger e la zona francese d’occupazione. Farebbe volentieri qualche conferenza, all’occasione. Sarà possibile che venga con me? Se si può fare, e se ha qualche informazione da chiederle, sarà al Flore domani mattina verso le undici, Sia così gentile da telefonarle (o di passare se si trova nel quartiere) per mettersi d’accordo. Grazie per la sua Ballata che ho letto con molto piacere. Mi sembra molto buona. Ma le confesso che non m’intendo molto di poesia... Ammiro sempre molto da lontano le persone che possono scrivere versi. Sono più a mio agio sulla terraferma della prosa e mi piacerebbe vivamente leggere di lei qualcosa che possa apprezzare, con l’illusione, almeno, della competenza. Non è questa una scappatoia, ma uno scrupolo di coscienza: le ripeto che ho trovato molto buona la Ballata e mi è sembrato che lei possieda ciò che è così raro nei poeti contemporanei che chiamerei lo stile della poesia. A presto. Se passerà domani, la vedrò con piacere. In ogni caso, appuntamento a Strasburgo. Molto cordialmente Jean Paul Sartre
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L’indomani, al Flore, da lontano riconosco dal turbante Simone de Beauvoir, seduta in fondo alla sala. Stava scrivendo. Metteva a punto, mi dice, i numeri di «Les Temps Modernes», in cantiere: finalmente era risolto il problema della carta. (Non sapevo che il titolo della rivista era stato preso dal film di Charlie Chaplin). Diventava sempre più difficile, anche per Sartre, scrivere nei caffè, perché si era sempre disturbati. Chiacchieriamo. Mi osserva con curiosità, mi ringrazia di darle la possibilità d’accompagnare Sartre a Friburgo. Heidegger scrive ancora, e su quali argomenti? Sembra sorpresa nell’apprendere che da dieci anni non aveva pubblicato praticamente nulla e che il suo pensiero è rivolto al problema dell’essenza della verità. Le dico che è inquieto per il destino della sua biblioteca. Quando le comunico che invita Sartre a Todtnauberg, mi risponde che disgraziatamente l’agenda di Sartre era sovraccarica, come la sua, perché sta preparando la prova generale delle Bouches inutiles, la sua prima opera teatrale che sarebbe andata in scena contemporaneamente al Caligula di Camus. Arriva Sartre che si siede al nostro tavolo. Lei gli dice: «Heidegger vi invita a filosofare sciando nella Foresta Nera». Rimane impassibile e mi fa, a sua volta, delle domande. L’incontro non comporterà qualche rischio di contrasti? Gli esprimo il mio parere personale. Non solo Heidegger si aspetta di parlare con lui del suo rettorato, ma desidera anche, secondo me, un dibattito approfondito con un uomo come lui, un filosofo aperto, senza settarismo, capace di situare i fatti nella loro luce reale. Riguardo al suo lavoro, avevo letto alcuni suoi corsi in cui s’interrogava sull’avvenire di un mondo in cui si compiva l’oblio dell’essere, dominato dalla attività calcolante e tecnica, retto dagli imperativi inumani del massimo rendimento. In questo mondo, al quale il pensiero doveva far fronte, Heidegger affermava che l’essenza stessa del linguaggio era messa in pericolo. Taccio. Sartre non pare molto convinto. Le mie frasi mi sembrano subito esageratamente enfatiche. Quello che 78
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ho letto di Heidegger è fatto di sfumature, non autorizza per nulla a enunciare delle certezze, a proclamare delle “verità”. Sartre esclama: «Ma tutto questo è la descrizione del capitalismo fatta da Marx da gran tempo!». E Simone de Beauvoir ricorda che precisamente dopo la Rivoluzione d’Ottobre, si erano sollevate delle forze rivoluzionarie per combattere lo sfruttamento. Ho l’impressione d’aver detto cose vecchie, superate. Heidegger è in ritardo d’un secolo? Ma Sartre ha fretta. Rapidamente ci accordiamo su qualche dettaglio del viaggio e decidiamo di prendere lo stesso treno. Ciò che più mi colpisce è il loro silenzio quando mostro loro una ventina di piccole schede su cui Heidegger aveva scritto, in grafia gotica, l’elenco cronologico dei corsi che aveva tenuto fra il 1923 e il 1944, da Eraclito a Nietzsche. Vi si percorreva, tutta intera, la storia della filosofia. Il giorno della partenza, un venerdì, sono colto di sorpresa: gli ordini di missione non sono pronti. Telefono in Germania: niente è pronto. Bisogna aspettare. Passa il sabato, e la domenica. Sartre e Simone de Beauvoir hanno disfatto i bagagli. Lunedì, sotto la pioggia, mi precipito al ministero. Di metro in metro, di colonnello in colonnello, da firma a firma, finisco per far preparare degli ordini di missione, ma per niente in regola. Manca la firma del generale Koenig o del generale Monsabert... Pazienza! Sartre è contento. Ma sono stati riservati i posti sul treno? Appuntamento con Sartre alle sei e trenta per confermare. Corro alla stazione dell’Est per cercare i posti. L’Ufficio degli Affari Tedeschi non ha mantenuto la parola: nessun posto è stato riservato e, ormai, non ce n’è più uno disponibile. Una delle mie lettere del tempo accenna a quella sconfitta. Si conclude così: «quei giorni mi portano dritto dritto a letto con un’influenza molto pesante. Ma bisognava tornare in Germania... Quella volta, fu proprio la Nausea. L'incontro Sartre-Heidegger è rimandato alle calende greche». Credo che Heidegger rimanesse abbastanza deluso di non 79
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poter dialogare con Sartre. Per molti giorni esitò prima di scrivergli, ma finì per cedere alle mie preghiere. La lettera che aveva inviato al professor Bréhier era rimasta senza risposta. Una volta ancora, il suo gesto poteva sembrare un calcolo. Mi consegnò la lettera nel suo studio. Mentre la infilava nella busta, vidi bene, dalla sua espressione, che non aveva voluto deludere il giovane messaggero entusiasta e ben intenzionato che ero ai suoi occhi. Fui colpito dal suo sguardo di una gentilezza tutta paterna. Heidegger ha lasciato aperta la sua lettera. Ritornando a Friburgo, ho paura di perderla. La faccio fotografare al servizio di documentazione dove ero già andato per riprodurre la pagina stenografata di Husserl. Friburgo, 28 ottobre 1945 Caro signor Sartre, È soltanto da qualche settimana che ho sentito parlare di lei e del suo libro, Il signor Towamicki mi ha amichevolmente lasciato qui il suo libro L'être et le néant, e ho subito iniziato a studiarlo. Per la prima volta incontro un pensatore indipendente, che ha fatto esperienza a fondo del campo a partire dal quale penso. II suo libro mostra una comprensione immediata della mia filosofia, come non ho ancora incontrato. Mi auguro vivamente che possiamo entrare in un fruttuoso dibattito, che permetta di chiarire questioni essenziali. Dopo aver scritto vent’anni fa Sein und Zeit, sono sempre rimasto di fronte allo stesso problema; ora vedo molte cose più chiaramente e più semplicemente; molti malintesi potranno essere tolti. Sono d'accordo con la sua critica de «l’essere-con» e la sua insistenza su l’essere-per-l’altro, in parte anche con la sua critica della mia analisi della morte, Sein und Zeit e soprattutto quanto ne è stato pubblicato, non è che un cammino; la questione decisiva, quella che ho appena sfiorato nel L'essenza del fondamento, non vi è ancora del tutto svolta. L’introduzione e la conclusione del suo libro sono assai stimolanti per me. Tuttavia, tali questioni le penso in un rapporto originario con la storia, e particolarmente con l’inizio del pensiero occidentale, che si trova oggi interamente occupato dal dominio del platonismo! Spero infine di avere fra non molto la possibilità di pubblicare miei lavori più estesi. Mi piacerebbe possedere un mio esemplare del suo libro; potrei così lavorarci in tutt’altro modo. Ho infatti intenzione d’esprimermi su qualche questione essenziale per giungere insieme con lei a mettere il pensiero nella condizione d’essere provato esso stesso come un evento fondamentale della storia – e questo collocherebbe l’uomo contemporaneo in un rapporto originale all’essere.
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Sarebbe bello che lei potesse venire qui l’inverno prossimo, Nel nostro piccolo chalet potremmo filosofare insieme, e sciare nella Foresta Nera. M’ero già rallegrato all’idea di un incontro a Baden-Baden; ma dopo tutto quello che fanno sperare gli sforzi così comprensivi ed entusiastici del signor Towamicki, mi è permesso di sperare che il nostro incontro si svolgerà in modo ancor più fruttuoso. Infatti si tratta di cogliere nella sua più grande serietà l’istante presente del mondo, di portarlo alla parola senza curarsi dello spirito di partito, delle correnti della moda, dei dibattiti di scuola – affinché si risvegli finalmente l’esperienza decisiva in cui poter apprendere con quale abissale profondità la ricchezza dell’essere si custodisca nel nulla essenziale. La saluto come vero compagno dì viaggio. suo Martin Heidegger Il suo fondamentale libro deve assolutamente essere tradotto in tedesco.
Fu solo nel 1952 che finalmente Sartre fece visita a Heidegger nella sua casa di Friburgo. Heidegger ricordava con simpatia il «bel colloquio» durato un’ora e mezzo. Cosa poterono dirsi? Quale dialogo immaginare fra un filosofo che dal 1934, dopo il crollo delle sue illusioni politiche, aveva preso le distanze da ogni forma d’impegno per consacrarsi al compito del pensiero e un moralista come Sartre, che, dichiarando il marxismo «insuperabile», stava per diventare quell’«ultra bolscevico», che gli rimproverò d’essere Merleau-Ponty, prima di abbandonare «Les Temps Modernes»? Merleau-Ponty ammetteva di vedere male i redattori della rivista seguire a passo a passo Sartre, sostenere sistematicamente una dialettica secondo cui «era meglio aver torto all’interno del partito comunista, che ragione al di fuori di esso» ed esigere una morale il cui principio era di «non demoralizzare Billancourt». Nelle sue Memorie, Jean Cau, allora segretario di Sartre, allude all’incontro SartreHeidegger. Racconta che, invitato a un colloquio filosofico in Germania da cui era tornato d’umore pessimo, Sartre gli aveva detto che Heidegger assomigliava a un «colonnello in pensione» o anche al «Vecchio della montagna incantata». 81
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«Filosofeggia forte – aveva esclamato Sartre – Vomita ogni forma d’impegno. Gliene ho parlato. Mi guardava con infinita pietà. Alla fine io parlavo al suo cappello. Un cappello da cacciatori di camosci...». In treno, Sartre aveva gettato dal finestrino il mazzo di rose che gli organizzatori del colloquio gli avevano offerto sul marciapiede. Rividi Sartre negli anni Settanta, all’uscita da un meeting di protesta contro le torture del governo in Argentina. Avevo pubblicato su «Le Nouvel Observateur» un documento di denuncia di quei crimini. Sartre era solo, come smarrito, all’angolo di una via nei pressi della Mutualité. Lo salutai. Parlammo dell’Argentina, della sua salute; stava diventando quasi cieco. Con mia grande sorpresa, annunciandomi che si rivolgeva di nuovo a questioni ontologiche, mi chiese notizie di Heidegger.
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Sotto la minaccia d’esser privato della sua biblioteca, Heidegger è preoccupato sulla sorte dei manoscritti che ha disseminato e cercato di mettere in luogo sicuro presso amici l’anno precedente, durante una vacanza, tra Friburgo e Costanza, lontano dal fronte del Reno. Desidera, se possibile, recuperarli ai primi di novembre. È un rischio. Nessun civile tedesco ha il diritto di circolare nella zona d’occupazione senza un’autorizzazione rilasciata (col contagocce) dal governo militare di Baden-Baden. Quella da noi richiesta per Heidegger non è arrivata. Non siamo in regola. Tra Friburgo e il lago di Costanza le strade sono sorvegliatissime e frequenti i controlli. Gli ho procurato un generico documento in cui si legge il suo nome. Motivo del viaggio: ricerca urgente dì documenti e di carte d’identità. In mancanza d’ordini di missione regolarmente firmati, il responsabile del garage militare non vuole darci, di malagrazia, che una piccola auto, aggiustata alla meglio. Il capitano Fleurquin s’è dato invano da fare. Non potendo accompagnarci, per facilitare la trasferta, mi ha prestato i suoi gradi di tenente. Espressione stupita di Heidegger quando vede l’auto di fronte a casa sua: una Rosengart beige, bassa, degli anni Trenta, con ruote minuscole e pneumatici sottili. Visibilmente sorpreso dei miei gradi, si guarda bene dal pormi la minima domanda, Sua moglie e l’autista lo aiutano a sistemarsi sul sedile posteriore e a riporre il suo zaino da montagna. La signora Heidegger non ha un’aria rassicurata. Cala la notte e il temporale minaccia da tempo. Tutto comincia male. L’autista si mette a brontolare. Si ha l’impressione che ci abbiano rifilato un macinino fuori uso. Dei lampi rigano il cielo e la pioggia cade a dirotto. Dopo una ventina di chilometri, i fari si indeboliscono e presto uno si spegne. Procediamo lenti. Ci si vede appena. Sulla strada 83
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ad avvallamenti, costeggiamo delle foreste. Heidegger parla della meteorologia capricciosa della regione di Bade e del lago di Costanza, dove spesso ha camminato. Ci ha indicato le prime tappe del nostro percorso: dopo Messkirch, delle località di cui ho dimenticato i nomi. Improvvisamente, all’ingresso di un borgo, spunta una pattuglia che ci fa segno di fermarci. Distinguo una bandiera tricolore. Il capopattuglia, un sergente, credo, fa il giro dell’auto. Abbasso il vetro. S’accorge che c’è un civile. Devo scendere. Mi saluta. Vuole vedere gli ordini di missione. Sotto la pioggia, esibisco le carte sbarrate dalle strisce tricolori, dove è scritto: Servizio di documentazione. «Tenente, quel civile è tedesco?». Spiego al sergente che stiamo conducendo l’uomo, un professore, a Costanza per verificare i suoi documenti. Il sergente esita: «Quest’uomo è sotto la vostra completa responsabilità?» «Completamente», rispondo in tono secco, con autorità. Distinguo dietro il vetro il viso di Heidegger che segue attentamente la scena. Allora il sergente fa notare all’autista che i nostri fari posteriori non funzionano. È tardi, nessun garage è aperto nelle vicinanze. Preferisco non perdere tempo. Diritto, in un attenti impeccabile, il sergente mi saluta come fossi il Secondo comando personificato. Respiro. Riprendiamo il viaggio procedendo con prudenza. Heidegger ci prega di fermarci davanti a una costruzione di legno, poi, in aperta campagna, davanti a un villino. Ogni volta scende dall’auto con il suo sacco da montagna e ritorna inzuppato di pioggia, sorridente sotto il cappello, felice d’aver rivisto parenti o amici e ci mostra il suo sacco gonfio di carte. Io rimango con l’autista che esamina il motore e i circuiti elettrici. Per quanto tempo ancora viaggiamo nella notte? Nella regione natale di Heidegger avevo sperato di vedere, fra la parte superiore della valle del Danubio e il lago di Costanza, chiese romaniche, laghi contornati da foreste, edifici barocchi... Non vedevo che nebbia e i rivoli della pioggia sui vetri. Ma non sono finite le nostre pene. Il peggio è ancora da venire. L’unico nostro faro si è affievolito ancora. 84
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Tento di illuminare la strada con la mia torcia elettrica. Improvvisamente l’auto sbanda, poi si ferma sull’orlo di una scarpata. Con una voce che si sforza di essere naturale, l’autista ci informa che abbiamo forato. Ci ritroviamo tutti e tre sulla strada. Per fortuna, la pioggia cessa per un poco. Ma, per colmo di sfortuna, la ruota di scorta non s’adatta alla nostra vettura. Sono folle di rabbia. Con la lima della scatola degli attrezzi, l’autista tenta l’impossibile. Heidegger osserva la “riparazione”. Non un gesto di malumore o d’impazienza. Parevano anche interessargli gli sforzi dell'autista. Pronuncia la parola Tecnica alzando maliziosamente un dito. Ricordo le sue osservazioni sulla tecnica che è come una lunga catena dove la rottura d’un solo anello è sufficiente a mettere in crisi. Per finire, aiutiamo l’autista a riempire il cerchione del pneumatico con della paglia umida trovata in fondo alla scarpata. Dopo un chilometro di nuovo ci fermiamo. Impossibile procedere. L’autista riprende la sua lima: dopo un’ora di sforzi la ruota di scorta è montata alla meglio. Di nuovo partenza alla luce dei lampi. S’è alzato il vento. Arriviamo, credo, a Bietigheim. Heidegger ci guida. Scorgo una farmacia dai vetri rotti. Heidegger bussa alla porta. Gli apre un uomo arruffato che ci invita a entrare. Decido di restare qui, al riparo fino all’alba e propongo a Heidegger di attendermi presso i suoi amici mentre io sarei tornato a Friburgo in autostop per cercare una nuova auto. Con la Daimier che il capitano Fleurquin requisisce per noi nel garage del servizio sociale, il viaggio proseguirà senza più ostacoli. Al ritorno, affronto lo sguardo severo di disapprovazione della signora Heidegger: suo marito è esausto e il nostro giro le è apparso pazzesco. Ci aiuta a tirar fuori dall’auto i documenti, brontolando che suo marito avrebbe dovuto mettersi a letto per parecchi giorni. Prima di ritirarsi, Heidegger tiene a dedicarmi una piccola brochure. È la sua traduzione del del primo coro dell'Antigone di Sofocle: «A ricordo della nostra spedizione verso Costanza». Mi consegna il testo con un sorriso. Leggo 85
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e rileggo il poema di Sofocle come se vi fosse nascosto un ammaestramento. Innumerevole è ciò che inquieta, ma nulla si erge più inquietante dell’uomo. Costui, in pieno inverno, va per mare quando è grigio sotto il vento scatenato del sud, e rema fra onde in furia che s’ammucchiano sull’abisso. Fra gli dèi, o quanto sublime, anche la terra – l'imperitura che senza sforzo persiste – egli l’estenua a forza di rivoltarla anno dopo anno, a forza di farvi passare i cavalli con l'aratro. Nelle sue reti cattura anche a interi stormi gli uccelli del cielo e dà la caccia alle bestie che popolano le selvatiche contrade e anche di tutto quello che vive e guizza nel mare quest’uomo è sempre in caccia. A furia di astuzie sopraffà l’animale che sulle montagne qua e là passa la notte, soggioga il cavallo dalla criniera arruffata così come impone all’indomito toro a subire proprio sul suo collo la costrizione del giogo. Nella sonorità della parola e nel significato che coglie al volo ugualmente ha saputo ritrovarsi, come ha avuto il coraggio di dominare le città, E come mettersi al riparo dalle intemperie anche ha pensato, sfuggendo pure alle ingiurie del gelo. Sempre in cammino, partendo alla scoperta, inevitabilmente perviene al nulla. Di fronte alla morte che d’un tratto incombe su lui non ha più fuga alcuna, lui che, per sottrarsi a mali strazianti, è stato abile a trovare i rimedi buoni. Sagace, lo è, ci sa fare con la sua maestria mai in difetto, talvolta cade sotto qualche durissima difficoltà,
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talvolta è di nuovo franca la partita davanti a lui. Fra la regola della terra e il lecito giurato dagli dèi, egli s’apre il cammino. Sia che troneggi sul posto, o che ne sia sloggiato è lui quello cui ciò che non è, per ogni evenienza, non cessa d’essere tuttavia. Non lo voglio accanto al mio focolare, no, non c’è posto, così come non prendono parte al mio sapere le futilità di un simile mastro d’opera!11
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Il caso mi spinse un po’ più addentro al dedalo. Per due giorni in casa di Heidegger ci furono conversazioni molto libere di cui, a intervalli, fui l’indiscreto testimone. La vecchia pendola di Hellrau ne ritmò le ore. Avevo appena incontrato, nei corridoi del governo militare, Egon Vietta. Scrittore e giornalista, traduceva dei testi per conto di un Ufficio degli Affari Amministrativi che aveva accesso agli archivi del Terzo Reich. Vietta era un tedesco del sud, grande lettore di Hegel, vivo e generoso. Amico di Ernst Bloch, appassionato di teatro, era stato un antinazista della prima ora e sapeva che Heidegger (l’aveva incontrato una volta durante la guerra) era «per il suo proprio errore nei pasticci», come diceva. Dal racconto delle mie visite aveva concluso che il filosofo era perfettamente consapevole dell’abisso aperto sotto i suoi passi e che i suoi nemici ingigantivano la sua implicazione politica per ottenerne il suo definitivo ritiro dall’Università e l’interdizione a pubblicare. Da qui la storia grottesca della biblioteca. La soluzione della procedura intrapresa contro di lui dopo l’estate dipendeva dal governo militare. Avevo a disposizione un’auto. Con impazienza Vietta accettò d’accompagnarmi a Zähringen da Heidegger. Solo, non avrebbe mai osato bussare alla sua porta, mi dice. Senza difficoltà ottenni l’indispensabile ordine di missione. Il tempo rinfrescava. Si presentiva l'inverno. In viaggio verso Friburgo, ancora una volta, Egon Vietta s’interrogava sul delirio che si era impadronito dal 1933 dei suoi compatrioti. Tutte le mattine, i giornali reclamavano l’urgenza d’un «risveglio nazionale», promettendo la morte del marxismo in Germania e la fine per sempre del pericolo giudeo-bolscevico. Una continua aggressione. Disgraziatamente, Hitler aveva 88
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saputo dire le cose giuste per denunciare la «vergogna» del trattato di Versailles. I tedeschi, privi d’ogni senso politico, traumatizzati dalla disoccupazione, galvanizzati dalle riunioni, l’avevano seguito, ipnotizzati, a occhi chiusi, e al passo dell’oca. Quando arrivammo a Friburgo, restava ancora da analizzare il doppio gioco della borghesia internazionale, spaventata dal comunismo. Costretti a lasciare l’auto nel garage del servizio sociale, salimmo a piedi verso Zähringen. Per strada, vedemmo tanti gatti, affamati, scheletriti che vagavano nella nebbia. Alla vista di un gatto nero che ci attraversava il cammino, Vietta mi confidò d’essere superstizioso. L’arrivo di Egon Vietta fu per Heidegger una sorpresa e, credo, anche un conforto. Si affrontò l’argomento della situazione in Germania, delle famiglie profughe o rifugiate, di tutti coloro di cui si era senza notizie dopo i bombardanienti e la sconfitta. Vietta fece il nome di Ernst Jünger, l’autore di Tempeste d’acciaio e de L’operaio, che era sopravvissuto alla guerra e si trovava a Kirchhorst. Alluse al dramma di Walter Benjamin che s’era ucciso in esilio per non cadere nelle mani della Gestapo. Nessuna notizia precisa filtrava dall’Est, soltanto voci allarmanti. Heidegger evocò il periplo che l’aveva portato, insieme con altri professori della facoltà di Friburgo, nella valle del Danubio, durante l’avanzata delle truppe francesi; e il soggiorno nell’arciabbazia benedettina di Beuron dove, nel 1931, aveva tenuto una conferenza sull’essenza della verità. Il ritiro forzato nel castello di Wildenstein aveva suscitato una delle più intense meditazioni della sua vita. Quando Vietta gli dice di non aver mai cessato, nelle peggiori circostanze, di leggere Rilke e Essere e Tempo, Heidegger risponde che continuava a scoprire nuove cose, dopo quel primo libro, sull’avventura dell’essere, la dimensione della verità, o, ancora, la corrispondenza fra pensiero e poesia: filosofia e poesia dicevano lo «Stesso», che non è mai l'identico. «Caro Professore, possiamo dire che lei si è gettato nella gola del lupo», dice improvvisamente Egon 89
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Vietta in quella maniera diretta, molto tedesca, la cui brutalità mi faceva sussultare. Heidegger non risponde subito. Avevo già visto sul suo viso quell’espressione segnata da gravità e stanchezza quando si trovava a confronto con quel passato ormai lontano per lui, temendo senza dubbio di vedersi ancora una volta trascinato a una riesumazione divenuta inutile, senza orizzonte né portata. Apparentemente non gli dispiacque la spontaneità di Vietta. Con poche parole spiegò in che consisteva la procedura e che i Francesi sarebbero stati probabilmente i soli a esaminare con obiettività il suo dossier. Heidegger rievocò gli anni passati con una specie di repulsione e d’irritazione trattenuta. Ammise, dopo un lungo richiamo dei fatti, che davanti al fallimento di Weimar, mirando a un rinnovamento, e mancando d’esperienza, s’era lasciato trascinare, illudere dall’idea troppo astratta di un socialismo tedesco, senza tener conto a sufficienza del contesto storico così poco propizio a ogni mutamento spirituale, soprattutto senza misurare la qualità degli individui. Come già aveva detto nel suo discorso di rettorato, aveva creduto che il profondo rivolgimento che stava producendosi avrebbe favorito forse un altro modo di vivere, una nuova realtà spirituale. Si rimproverava di non aver visto abbastanza presto la vera natura del male, come il peso decisivo del nichilismo e della volontà di potenza. Ancora oggi mancava l’orizzonte per valutare tutto questo peso. Aveva dato le dimissioni allorché erano apparsi i primi segni annunciatori del peggio: la vittoria delle forze che avrebbero deciso dell’orientamento tirannico e criminale del regime, riducendo al silenzio gli elementi moderati. Poiché Vietta si stupiva di fronte a tanta illusione, Heidegger fece notare che non era stato il solo ad averne: la Chiesa, i dirigenti delle potenze occidentali non si erano anch’essi dimostrati ciechi, e più a lungo di lui? Heidegger si spiegava con semplicità, rispondendo alle domande, guardando ora l’uno ora l’altro di noi. Vietta, con una certa insistenza, ritornava su certi avvenimenti o su alcune date. 90
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Io prendevo appunti. La signora Heidegger, ogni tanto, interveniva, ricordando un dettaglio o precisando un fatto. Ancora una volta ascoltai parlare del rettorato. Accettando la carica di rettore (aveva esitato, disse, fino all'ultimo giorno), Heidegger aveva pensato d’essere in grado, al di fuori d’ogni dottrina, di rinnovare lo spirito dell’Università, di modificare l’essenza dell’insegnamento, incaricandosi di ciò che a lui sembrava essenziale e sulla linea di quanto aveva scritto e insegnato: tentare di dare al pensiero il suo posto, rendere possibile una meditazione sul sapere che potesse condurre a un’altra attitudine riguardo alla conoscenza di fronte al frazionamento delle discipline specialistiche, artificialmente giustapposte, Per questo, ci spiegò, era necessario, fra l’altro, riannodare il filo con l’inizio greco, Eraclito e Parmenide. Con questo retropensiero aveva finito per cedere alle preghiere dei suoi colleghi dell’Università. Ciò che non aveva previsto era che tutti stavano per allearsi contro di lui, sia coloro che vedevano in tali rivolgimenti un attacco alle loro abitudini e ai loro privilegi, sia i seguaci d’una scienza al servizio di obiettivi immediati, coloro che tenevano alla tradizione, e i partigiani della politicizzazione totale. «Quel progetto non era utopico?» chiese Vietta. «No» rispose Heidegger. Il cambiamento d’orizzonte era tanto più urgente in quanto la scienza assumeva la figura degradata d’una scienza politicizzata al servizio di programmi successivi regolando tutto. Si era visto, in Germania, come a poco a poco si erano imposti gli pseudo-concetti biologici e razziali, Il punto ultimo, l’ultimo termine del processo di tecnicizzazione dell’ente non poteva essere che la considerazione razziale o genetica che attaccava l’essenza stessa, dell’uomo... Quando il ministro Wacker l'aveva convocato a Karlsruhe, gli aveva proprio rimproverato di trascurare le direttive del Partito e di frenare il ruolo della scienza nell’Università. Suonarono alla porta. La signora Heidegger si assentò e tornò con aria furiosa: della gente, con qualsiasi pretesto, veniva a bussare alla porta per chiedere un appuntamento con suo marito. In 91
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realtà, venivano per curiosare o poter dire che erano venuti. Heidegger parlò ancora del comitato d’epurazione. Aveva insistito sull’incompatibilità della sua filosofia con la visione del mondo nazionalsocialista. Ma i suoi interlocutori erano rimasti impassibili, brandendo il suo discorso di rettorato e i titoli di alcuni corsi (Nietzsche, Hölderlin) come fossero la prova del suo contributo allo spirito del Movimento. Li aveva sfidati a mostrargli un rigo – uno solo – che andasse in quel senso. Al contrario, ci disse, altri professori potevano arroccarsi strettamente dentro i confini delle loro discipline scientifiche: esse non implicavano alcuna presa di posizione, mentre il solo fatto di mantenere la sua interrogazione filosofica a livello dei fondamenti – cosa evidente per tutti coloro che avevano seguito i suoi corsi – portava (del tutto naturalmente) a contraddire quello che la propaganda proclamava tutti i giorni; e ad attaccare, come già aveva detto, il biologismo di un Rosenberg, che, al di là dei suoi obiettivi criminali, era una manifestazione senza precedenti del dominio totale sull’uomo. Oggi, coloro per cui la questione dell’essere era un rebus indecifrabile negavano, o almeno minimizzavano la portata di una tale forma d’opposizione. Ma gli alti funzionari del Partito, loro, non s’erano ingannati a lungo. Alfred Bäuemler, Ernst Krieck: la signora Heidegger pronunciava il nome di quegli alti funzionari nazisti, allora così potenti, con collera e disprezzo; nel 1934 le gelide relazioni di suo marito con costoro, si erano ancora più guastate. In seguito, egli si era presto accorto che la sorveglianza della sua aula si era rafforzata. Ancora la signora Heidegger si dilungò sul ruolo delle spie all’Università, dove suo marito ometteva di fare il «saluto tedesco», amministrativamente obbligatorio, all’epoca in cui, nei suoi corsi su Nietzsche, a partire dal 1936, egli criticava chiaramente le basi insostenibili su cui poggiava la politica razziale del Partito. Poi le cose si fecero ancora più gravi. Verso la fine della guerra, dopo l’arresto di un piccolo gruppo di religiosi con cui era stato in contatto, gli fu comunicato che l'Ufficio Rosenberg stava preparando 92
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su di lui un dossier destinato alla Gestapo. Heidegger fece un gesto evasivo, come si trattasse di un dettaglio in un affresco immenso, costellato d’ombra e d'orrore. Avevo già notato la sua ripugnanza a mettere avanti un rischio che aveva corso. Era tardi. Faceva freddo. Nel caminetto il fuoco non riusciva a riscaldare la casa. Fuori, s’era messo a nevicare. Non avevamo più l’auto per tornare a Friburgo. E la signora Heidegger ci invitò a restare per la notte. Improvvisò un piccolo accampamento in un vano a pianterreno. I miei occhi si fermarono su un bellissimo servizio di cristallo disposto in una vetrina. Avevo avuto la buona idea di portare qualche scatoletta di carne che avevo lasciato, passando, in cucina. Mentre sua moglie s’affaccendava attorno a noi, raccontai a Heidegger che nella conferenza su Dostoevskij avevo tentato di citare i temi di un testo che mi aveva prestato, ma che vi avevo rinunciato essendomi reso conto di non averli veramente compresi. Mi chiese di quale testo si trattasse. Erano, gli dissi, le pagine sul nichilismo e Nietzsche, Descartes e il «ruolo di soggetto» dell’uomo dell’epoca moderna. Vietta pareva molto interessato. Heidegger volle intendere bene il mio piccolo riassunto. Si trattava di Nietzsche che aveva visto formarsi i caratteri d’un mondo che oggi è già il nostro: caratterizzato da una «lotta per il dominio della terra». È il progetto dell’uomo dei tempi moderni. Questo, l’uomo della soggettività, o, detto altrimenti, l’uomo che rappresenta se stesso come l’ente che impone a tutto ciò che è la sua norma e la sua misura, tende a dominare tutto con la potenza del suo calcolo. L’uomo, diventato «soggetto», centro esclusivo di riferimento, fa di tutto ciò che è, dell’ente e dell’universo, un «oggetto», considerato in anticipo come una riserva totalmente disponibile, a sua disposizione. Nell’epoca dei criteri di misura del nichilismo, tutto può essere percepito, deciso, determinato in termini di «valore». Ma che significa «valore»? Si vive, si muore in mezzo ai valori o a cose reali? La verità stessa è intesa come un semplice valore, priva di realtà 93
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propria, ma come una rappresentazione, un semplice mezzo per la volontà di potenza. Da qui il cerchio senza fine, senza posa ridecidibile, della valutazione dei valori. Una rotazione del medesimo. La storia dell’umanità diventa allora una semplice serie di «concezioni del mondo». La dimensione del senso dell’essere vi è completamente annullata. Heidegger aveva ascoltato, il viso impassibile. Potevo venire qualche giorno a Todtnauberg per completare e precisare con lui questa sintesi? A differenza dei Greci, dice un po’ divertito, è nella neve, e spesso sciando, che aveva fatto l’esperienza più viva della presenza dell’essere. Evidentemente, Aristotele e Platone non avevano avuto quel privilegio, aggiunse ridendo. Ma la cena era pronta. A tavola la signora Heidegger ci servì una zuppa di cavoli e patate dove aveva fatto riscaldare il contenuto di una delle scatolette di “scimmia” che avevo portato. A Heidegger dovetti spiegare che la “scimmia” dell'esercito francese, era, in realtà, un’eccellente carne bovina pressata d’importazione argentina, e perfettamente commestibile. Si parlò del capitano Fleurquin, dell’appuntamento mancato con Sartre, di Rote-Lache e del mio amico cineasta Alain Resnais. La signora Heidegger era andata a cercare l’ultima bottiglia di grappa della Foresta Nera. E mentre si brindava al futuro, la signora insistette che recitassi una delle mie poesie. Scelsi qualche strofa scritta a Parigi durante la guerra; Gli uomini fiammeggiavano Le città senza colori Dei begli uccelli uccisori Sulle estati fondevano Soldati, strombettavate Intorno a graziose dame Soldati le vecchie darne Passavano senza guardare
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Erano mal viste le genti Razze le spiavano In pace i pazzi seguivano Antichi seppellimenti...
L’ultima strofa, che prediceva la fine dell’invasore, sfociava nel nulla: Lavoravano il ferro Al bianco degli arcobaleni Le loro bambole di sale Discendevano nel mare12.
Heidegger, che aveva ascoltato un po’ sorpreso, mi fece un cenno d’intesa. Si parlò allora della bomba atomica, tappa irreversibile della storia dell’umanità e della situazione in cui s’erano trovati molti importanti scienziati eminenti durante la guerra. Un vecchio allievo di Heidegger, Georg Picht, teologo cattolico, nel 1941 gli aveva confidato il dramma di coscienza dei fisici Werner Heisenberg e C.F. Weizsacker, venuti nel 1935 a casa sua per discutere di filosofia. All’epoca in cui Hitler, nel 1941, aveva mobilitato tutti gli scienziati per accelerare la fabbricazione d’una bomba atomica, i due fisici, disorientati, s’erano chiesti se avessero il diritto di affidare un’arma tale a un capo di stato irresponsabile e folle. Contraddizioni che avevano vissuto in segreto molti tedeschi, anche nella Wermacht: come separare la repulsione per un regime che li aveva ingannati, delusi, condotti nell’abisso e la solidarietà verso i loro parenti, le loro famiglie, soprattutto verso i loro ragazzi di cui alcuni erano al fronte. Né si poteva sottovalutare le rappresaglie delle armate di Stalin contro la loro patria dopo una sconfitta ormai certa con l’entrata in guerra degli Americani. Tutto questo era stato indubbiamente il dramma dei congiurati del complotto del 20 luglio contro Hitler, di cui Heidegger aveva appreso il fallimento alla radio e che gli sembrò come l’estrema catastrofe. Ancora una volta, chiamò Hitler der Verbrecher, il criminale. 95
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La scelta che aveva fatto in suo favore, nel 1933, non era stata un’adesione al programma politico d’un Partito o a una concezione del mondo, ma il sostegno a un uomo di cui si poteva attendere che avrebbe saputo elevarsi al di sopra del suo Partito e diventare, per un certo periodo, il leader d’uno slancio e di un risveglio della patria; che avrebbe raccolto forze costruttive di fronte a tutti quelli che puntavano sulla decomposizione di Weimar e alla vittoria del comunismo. Quando Vietta ricordò a Heidegger che nel 1933 aveva inviato un telegramma di felicitazioni a Hitler, gli rispose che era a proposito di una decisione politica determinata – il ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni – che allora gli pareva necessaria e giustificata. «Prende degli appunti?» mi chiese Heidegger. Gli ricordai che dovevo scrivere un articolo per Sartre in «Les Temps Modernes». Scosse il capo e tornò su un tema che già aveva affrontato più volte: di fronte a una tale tragedia, si era inclini a giudicare gli avvenimenti dell’esordio a partire da ciò che era accaduto in seguito, l’inizio a partire dalla fine. Quella che s’imparava ogni giorno – che lui stesso imparava – sulla estensione dei crimini che i suoi compatrioti avevano commesso o lasciato commettere prima e durante la guerra, in Germania e in tutta Europa, era così opprimente che ogni spiegazione circa un errore personale di giudizio non poteva che apparire derisoria, se non impercettibile. La vergogna e un’ultima dignità esigevano che si tacesse. Vietta alzò le braccia: «Ma possono i Tedeschi tacere?» La signora Heidegger si animò: in ogni modo, disse, nessuno voleva più ricordare la complessità di un’epoca in cui tanti tedeschi, che ignoravano tutto del Partito, avevano creduto in un rinnovamento, senza immaginare che allora stavano per essere colpiti, e poi inorriditi dai metodi del regime, obbligati a prendere le distanze in un clima costante di delazione in cui la minima critica era possibile solo in privato. Si dimenticava anche il comportamento ambiguo se non deferente delle nazioni occidentali nei confronti della Germania hitleriana 96
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durante i primi anni, quando da tempo suo marito aveva dato le dimissioni. Chi s’era indignato allora per la partecipazione di tutti i paesi del mondo ai giochi olimpici a Berlino nel 1936? Quel comportamento aveva fatto smarrire molti tedeschi che s’interrogavano sul regime. Si alzò e ritornò con la minuta ritrovata di una lettera di cui m’aveva parlato. L’aveva scritta a nome del marito, il 23 aprile 1933, alla signora Husserl: uno dei suoi figli era stato arrestato dalla Gestapo. Era stata inviata con un mazzo di fiori. «Se mio marito doveva far passare la sua filosofia per altro cammino, non dimenticherà mai ciò che ha conquistato come allievo di suo marito e anche ciò che gli deve per il suo personale lavoro. Non dimenticherò mai la bontà e l’amicizia che lei stessa ci ha donato nei duri anni del dopoguerra. Ho molto sofferto di non aver potuto esprimerle questa riconoscenza in questi ultimi anni, sebbene non abbia mai ben capito il groviglio di malintesi che hanno messo fra di noi coloro stessi che ci avevano deluso insieme... Siamo rimasti sgomenti nel leggere sui giornali il nome di suo figlio. Speriamo che si tratti, nell’eccitazione generale, di un’usurpazione di potere di un funzionario subalterno, come si perpetravano nel 1918 durante le settimane rivoluzionarie attentati ingiusti e dolorosi». La signora Husserl non rispose a questa lettera. Mio marito, dice la signora Heidegger, ha capito benissimo quel silenzio. La notte passò quasi tutta in bianco. Avevo sognato, o c’era veramente, appesa a un muro della stanza, la riproduzione del celebre Pont de Langlois di Van Gogh, con la sua luce gialla, le sue vibrazioni rosse e blu? Poiché il sonno non veniva, riaccendemmo le lampade e parlammo della serata. Vietta mi aiutò per un po’ a verificare le mie note, a collocare i fatti nel loro contesto per il mio articolo, ritornando sulle sfumature quando m’impuntavo su una parola. Ci accorgevamo che c’erano cose che si potevano dire chiaramente in tedesco, e non si riuscivano a dire in francese, e viceversa. Talvolta si 97
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trattava di cose del tutto semplici. Parlammo della Germania e dei Tedeschi. «I Tedeschi sono gente che ama obbedire» sosteneva Vietta. Dopo l’Anschluss, gli dissi, avevo attraversato in automobile, con mio zio, la Germania e l’Austria per incontrare la mia famiglia viennese minacciata, già nascosta, e far visita a mio padre a Varsavia. Dovunque, in quei giorni, fino a Berlino, strade in festa, dovunque bandiere e manifestazioni, il suono stridente delle arringhe e delle marce militari che esplodevano dagli altoparlanti. Per la prima volta avevo percepito, come terrore, quasi ipnotizzato, la potenza malefica di quella forza contagiosa che si sprigiona da un popolo in delirio. L’immensa ammirazione che Vietta aveva per Heidegger non nascondeva la sua inclinazione a canzonarlo. Secondo lui Heidegger s’era inventato una rivoluzione nazionale che a Friburgo era stato il solo a vivere. Un particolare rivelava molto bene il suo stato d’animo d’allora: gli aveva confidato che, essendo in obbligo – in quanto rettore – di aderire al Partito aveva scelto di proposito, per prendere la tessera, la data del 1° maggio – giorno simbolico della Festa del Lavoro. Alla confezione del suo sogno d’impegno altrettanto grottesco che solenne – «responsabilità nei confronti del destino nazionale, missione storica nei confronti del popolo tedesco» – sua moglie Elfride aveva senza dubbio avuto la sua parte. Forse si ingannava. Vietta se la immaginava sempre in pena quando, nel 1933, insisteva: «Tu non puoi restare a braccia conserte» ecc. Neppure un rigo di Sein und Zeit poteva, secondo Vietta, lasciar prevedere un qualunque traviamento politico, se non forse quella sorta di soffio (o di provocazione) rivoluzionaria che passava nelle messe in questione filosofiche così radicali del libro. Riprese con ironia una frase della signora Heidegger che, parlando del marito come fosse un bambino, aveva mormorato che non capiva niente di politica. Io corressi: aveva detto che il marito aveva fatto esperienza della realtà politica solo durante il periodo del rettorato. Vietta scosse la testa senza altri commenti. Mi fece un’impressionante descrizione 98
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dei centri di propaganda del Terzo Reich che avevano a poco a poco sfruttato tutte le tecniche – propaganda e scienza di paccottiglia – per dare alle teorie del regime la legittimità culturale che loro mancava. Per dodici anni la stampa, la radio, i film di propaganda avevano ribadito una «verità unica» che esaltava i valori di un Terzo Reich «promesso per mille anni». Montagne di libri, opuscoli illustrati le cui vedute razziali risalivano fino all’uomo preistorico, avevano tentato di rendere scientificamente persuasive le concezioni sull’uomo nuovo, modello della razza ariana, biologicamente superiore, e dimostrare la natura invilita dell’anima giudaica, della scienza e dell’arte giudaica degenerate, a cominciare da Einstein e la sua teoria della relatività, il Bauhaus ebraicizzato, le porcherie dell’espressionismo. Albeggiava. Avevamo dormito solo qualche ora, quando la signora Heidegger ci portò, su un vassoio, caffè e tartine per la colazione. Ci chiese se avevamo dormito bene. Ci ritrovammo in giardino. Il resto della giornata, allietata da una passeggiata sui sentieri di Zähringen, fu consacrata alla filosofia. Rispondendo a una domanda, Heidegger parlò del «soggetto» dell’uomo contemporaneo e delle filosofie moderne della coscienza. Per i Greci, un albero, un fiume non erano nella testa, nella coscienza. Erano essi, invece, che apparendo, si mostravano a noi. La questione della verità dell’essere – cominciavo confusamente a intravederla – conduceva a un completo rovesciamento del paesaggio filosofico tradizionale. Essa conduceva il pensiero e lo sguardo nella prossimità d’un luogo inesplorato: questo mi appariva a momenti come situato all’altro lato di uno specchio. Strana contrada. Vi si vedeva l'uomo – l’umanità – enigmaticamente richiesto dall’essere, e in modo diverso secondo ciascuna delle epoche della metafisica, caratterizzate ogni volta (dall’antichità ai tempi moderni) dal dominio di questa o quella figura di verità, da tale definizione dell’ente, da tale decisione 99
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metafisica fondamentale. Così, dopo il mondo greco e medievale, il sorgere, con Descartes, della verità intesa come certezza era una svolta decisiva. Ogni volta l’uomo, l’umanità, assumeva la decisione. Non era tanto l’uomo che scopriva la certezza, quanto la certezza che situava un’essenza dell’uomo. E dunque per lui una certa maniera di comportarsi. Così che, ogni volta che mutava il suo rapporto all’essere, si trasformavano la maniera d’essere dell’uomo e l’aspetto del mondo nello spazio-tempo... Soltanto che, se comprendevo bene Heidegger, l’avventura era letta non nella prospettiva della coscienza umana, ma sul piano dell’essere stesso. Ero lontano dal capire tutto. Avevo tuttavia, l’impressione di ritrovare, di riconoscere qualcosa d’iniziale, di straordinariamente semplice, che era forse nel cuore più segreto dell’uomo e che avevo già percepito, mi pareva – ma quando? – nella vicinanza dei racconti e dei poemi. L’uomo, nell’avventura dell’essere, si dispiegava (per destino) in seno alla libertà. Così si percepiva meglio la parola nichilismo, il vuoto nato dal crescente oblio dell’essere, e perché la filosofia era minacciata nella sua memoria. Il senso anche di quella fuga degli dei, nominata da Hölderlin, in un tempo di miseria. Heidegger insisteva: ciascuno di noi poteva imparare a preservare la propria libertà, a non sottomettersi ciecamente alle norme di un’epoca che rischiava d’essere asservita allo spirito della tecnica. Ciascuno di noi poteva imparare il rifiuto a regolare i propri pensieri secondo i criteri di misura che facevano dell’uomo il semplice esecutore di forze non pensate e dunque pericolose. Mi dicevo: se soltanto una piccola parte di ciò che intendo è vero, siamo tutti colpiti da cecità, perché l’avventura umana si svolge in modo affatto diverso da quanto dice la nostra logica. Fare pazientemente l’esperienza di ciò, era il compito di quel pensiero ancora da venire di cui parlava Heidegger e che non aveva ancora nome? Heidegger mi passò un testo dattiloscritto accuratamente protetto da una copertina cartonata in rosso marmorizzato. Era la sua conferenza L’origine dell’opera d’arte. Potevo 100
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prenderla e darla a Beaufret. Vi scoprii la descrizione fenomenologica di un tempio greco la cui semplice presenza apriva un mondo. Ho spesso riletto tutte quelle pagine nella traduzione che ne ha fatto Jean Beaufret: Un tempio greco non è immagine di niente. Sta là semplicemente diritto, nel cuore della valle scavata nella roccia. L’edificio circonda la figura del dio e, in questo ritiro, la lascia apparire attraverso lo spazio aperto delle colonne, nella sua appartenenza al recinto sacro. È per il tempio che il dio è presente nel tempio. Questa presenza del dio è in se stessa l’estendersi e il delimitarsi del recinto come un recinto sacro. Ma il tempio e il suo recinto non fluttuano nell’indeterminato. É soltanto il tempio come opera che lega e raccoglie nello stesso tempo attorno a questo l’unità di quelle vie e di quella appartenenza in cui nascita e morte, disgrazia e fortuna, vittoria e catastrofe, resistenza e declino, prendono figura e determinano il corso della vita umana secondo la divisione che gli torna come propria. L’ampiezza di una tale appartenenza dove delle vie sono aperte, è il mondo che un popolo ha ricevuto in sorte. E a partire da questo e in questo soltanto che ritorna a se stesso per il compiersi della sua destinazione. Diritto nella sua altezza, l’edificio riposa sulla base di roccia. È questo riposo dell’opera che manifesta a partire dalla roccia l'elemento oscuro della sua forza portante, refrattaria, e che tuttavia verso nulla s’affretta. In tutta la sua mole, l’edificio tiene testa alla bufera che gli si accanisce contro, ed è così che fa apparire la tempesta stessa in tutta la sua violenza. La luce e lo splendore della pietra che si anima grazie al sole, tuttavia è lei e soltanto lei che conduce a dispiegarsi la chiarità del giorno, la vastità del cielo, le tenebre notturne. La sicurezza della fondazione del tempio rende visibile l’apparenza dello spazio aereo. Quanto c’è di saldo nell’opera fronteggia le onde del flusso marino e a partire dalla sua calma ne lascia apparire la collera. L’albero e l’erba, l’aquila e il toro, il serpente e il grillo è soltanto attraverso lui che entrano nella loro forma che spicca per risplendere in ciò che sono. Questo manifestarsi, questo sbocciare secondo la dimensione del tutto, i Greci, fin dall’alba l’hanno chiamato fysis. Essa illumina nello stesso tempo ciò su cui e in cui l’uomo fonda la sua dimora. Noi la chiameremo Terra. Da ciò che la parola dice qui, occorre allontanare sia la rappresentazione del giacimento d’una massa materiale, sia quella d’un pianeta nel senso dell’astronomia. La terra è ciò in cui lo sbocciare, tutto quello che si manifesta, in quanto sboccia e si manifesta, è protetto in un raccoglimento. Nel dischiudersi, la terra vive il suo essere come quello che le dà asilo. Ritto nella sua statura, il tempio apre un mondo e nello stesso tempo lo restituisce sulla terra che non diventa e non si manifesta come terra se non come suolo natale13.
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Giorno dopo giorno nella Foresta Nera l’inverno si faceva polare. Nei dintorni di Rote-Lache i pini si curvavano sotto il peso della neve. I sentieri verso Hilpertsau, coperti da rami spezzati, erano divenuti impraticabili. Ci perdevamo sempre nei boschi. Intirizziti, maledivamo le vaste sale a vetrate del nostro nido d’aquila impossibile da riscaldare, dove Göering l’anno prima faceva festa ancora con i suoi compagni di caccia. Senza vergognarci, rubavamo le assi che le segherie vicine depositavano lungo la ferrovia e scaldavamo in una padella interi paioli di vino. Egon Vietta che aveva contraccambiato la visita portandomi un testo dattilografato di Heidegger s’era ferito su una strada ghiacciata. L’improvvisa partenza dei capitano Fleurquin, seguita dalla sua tragica scomparsa, fecero vacillare il nostro centro culturale. Crollò ben presto come un castello di carte. I suoi animatori furono dispersi. Finiti i sogni di dibattiti, il teatro dell’armata, le spedizioni in jeep sui sentieri di fango. Addio ai giganteschi fuochi di gioia accesi dai soldati nei giorni di festa, che rischiavano d’incendiare la foresta. Nell’attesa dell’alba più triste, una piccola festa ci riunì. Dandosi follemente da fare per farci ridere, Marcel Marceau improvvisò delle pantomime in cui soldati e ufficiali, sbigottiti, si riconobbero a turno. Una di queste, abbastanza oscura, mi rappresentò errante, incerto, nei dedali dell’essere e del nulla. Ultime missioni: restituire al teatro di Costanza i magnifici abiti di scena de Il barbiere di Siviglia e portare al servizio sociale «Rhin et Danube» di Friburgo una cassa di armoniche cromatiche Hohner abbandonate dai tedeschi per i musicanti dell'esercito. Appena arrivato, m’inerpicai verso Zähringen. La notizia della scomparsa del capitano Fleurquin e l’annuncio della mia partenza imminente oscurarono ancor più una giornata brumosa e tetra. La signora Heidegger mi disse che suo marito non usciva praticamente più e che l’ostilità del piccolo gruppo di professori di Friburgo non cessava per un istante. S’era rimesso a lavorare. Ancora non si sapeva nulla della sorte dei loro due figli. 102
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Heidegger, che m’aveva invitato nel suo studio, mi parlò di Jean Beaufret che gli aveva fatto pervenire una lettera. L’interesse dei Francesi per la fenomenologia sembrava impressionarlo, come il rigore del libro di Maurice MerleauPonty, Phénoménologie de la perception, che aveva appena finito di leggere. Heidegger aveva preso dalla sua biblioteca un esemplare di Sein und Zeit, l’unico che gli restava, mi disse, e che conteneva qualche correzione di sua mano a matita. Vi aggiunse parecchi fogli dattiloscritti e firmati, dal titolo Il mio errore. Potevo disporne: si trattava della sintesi di un testo molto più dettagliato, che aveva scritto per sé e che non doveva essere pubblicato se non dopo la sua morte. Accettò la mia idea di trovargli un editore a Parigi, poiché nulla, mi diceva, poteva farsi senza dialogo con la Francia. Ripensando a ciò che mi aveva detto sul libro di Merleau-Ponty, mi resi conto per la prima volta che non l’avevo mai sentito denigrare il lavoro di qualcuno. Al momento degli addii, quando la signora e il marito m’accompagnarono al cancello, m’accorsi che avevo dimenticato i miei appunti nello studio. Corsi a cercarli e vidi sul tavolo un foglio dove, con inchiostro azzurro, erano scritte poche parole in lettere gotiche: Sag, was sollen wir denn tun? Das Lassen. (Di', cosa dobbiamo dunque fare? Lasciare.)
Mentre il treno correva verso Parigi, non cessai di pensare a quelle otto parole.
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Nel vasto salone dell’hotel del Pont-Royal, in rue du Bac, mi attendevano i professori Jean Wahl e Emmanuel Levinas, riservati ma benevoli; con loro altre persone dai visi seri e gravi, di cui ho dimenticato il nome. I loro sguardi non erano privi di sospetto. Io ero in uniforme. Volevano sapere chi ero e perché mi facevo l’avvocato, se non il messaggero, di Heidegger. Li sorprendeva, visibilmente, la mia giovane età. Dissi loro che volevo semplicemente confutare certe voci che correvano sul conto di Heidegger. Avrei anche difeso Descartes, Nietzsche o Kierkegaard. Nel grande salone grigio-perla dove il lusso felpato accresceva il senso d’irrealtà, dovetti far fronte a un diluvio di domande: no, Heidegger non aveva tenuto i suoi corsi in uniforme da Ss, non aveva ordinato alcun autodafé, né proibito al suo maestro Husserl l’accesso all’Università, e altro. Ciò che dissi fu passato al vaglio, contestato. ll punto di vista così spesso ripreso a Zähringen secondo cui si giudicava il 1933 a partire da ciò che era accaduto dopo quella data, non suscitò alcun eco e passò per una scappatoia. Aveva Heidegger alzato solo un mignolo al tempo del primo boicottaggio contro gli ebrei nell’aprile 1933 e della promulgazione delle leggi razziali nel 1935 al congresso di Norimberga, o aveva reagito dopo i crimini della Notte dei cristalli nel 1938? Mi permisi di ricordare l’esistenza della Gestapo e dell’onnipresente sistema di delazione che proibiva ogni critica aperta, rifacendomi, a proposito dei suoi corsi, alle prese di posizione di Heidegger contro le teorie biologiche e razziali. L’ostilità si accrebbe, prese la piega di un processo. Mi si interrogava con parole che avevano la forza dell’irrefutabile: facevano sorgere dall’ombra i convogli e gli spettri di Dachau, di Buchenwald. Non ero all’altezza per affrontare una indignazione che aveva radici in una tragedia da cui io stesso ero sconvolto. Non 104
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sapevo che dieci anni più tardi avrei partecipato alla preparazione del documentario di Alain Resnais, Nuit et brouillard (Notte e nebbia), prodotto dal mio amico Anatole Dauman. Una breve schiarita: le domande di Jean Wahl e di Emmanuel Levinas che volevano sapere a che punto erano i lavori di Heidegger dopo Sein und Zeit, e tanti anni di silenzio. M’invitarono a parlarne il dopodomani nel corso di un colloquio sulla fenomenologia, i cui interventi sarebbero stati riuniti in una pubblicazione collettiva. Molti anni più tardi, Emmanuel Levinas rievocò quelle giornate tormentate: «Lei arrivava da Friburgo in uniforme, giovane coraggioso, ammirato. E a ragione: Lei aveva visto le Piramidi!». Agli occhi di Levinas, Sein und Zeit, nella storia della filosofia, era dello stesso rango del Discorso sul metodo di Descartes o della Critica della ragion pura di Kant, Con molta imprudenza avevo prestato a Jean Wahl, con il discorso di rettorato, il testo Il mio errore che Heidegger mi aveva affidato. Non me lo restituì mai. «Il mio errore – dirà un giorno Heidegger a Jean Beaufret – è nell’aver creduto che si potesse passare dalla scienza al pensiero con un salto» quando invece il passaggio dall’una all’altro richiede il passo lento e regolare del montanaro che affronta una salita». Il mio articolo Visita a Martin Heidegger apparve il 1° gennaio 1946 sulla rivista «Les Temps Modernes». Né Sartre né la redazione avevano giudicato necessario mostrarmene le bozze, e numerosi passaggi del mio racconto si erano volatilizzati – anche molti particolari sul lavoro di Heidegger come le domande che lui stesso si poneva sui fondamenti dell’esistenzialismo francese. L’amabile lettera che ricevetti da Friburgo non cancellò la mia delusione. Il seguito è noto: pronunciato dal governo militare, il verdetto piombò sul finire del dicembre 1946. Heidegger era revocato dal suo posto dieci anni prima dell’età per la pensione. Aveva 57 anni. Gli era proibito di insegnare, una parte della sua casa era requisita, per essere messa a disposizione di profughi. Le sue lettere di difesa davanti alla commissione d’inchiesta non avevano avuto alcun eco e le sue considerazioni filosofiche 105
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sugli avvenimenti che s’erano susseguiti in Europa (volontà di potenza, nichilismo) non fecero che accrescere i malintesi. L’arbitrato sfavorevole di Karl Jaspers (di cui più tardi egli stesso doveva pentirsi) fu un peso determinante sulla bilancia. Appresi che numerosi testimoni non erano riusciti a farsi ascoltare e che certi membri del governo militare erano stati influenzati dalle pressioni degli ecclesiastici che reclamavano una sanzione esemplare. Per Heidegger il colpo era duro. Solo la sua biblioteca era salvata... Cominciò allora una serie di contrarietà, di fastidi, di vessazioni. La posta non gli veniva recapitata, i pacchi venivano aperti, i libri strappati. Fuori delle pratiche amministrative, i funzionari non gli rispondevano, trascuravano il suo dossier o si mostravano insolenti. I parenti, gli amici lo videro, col passare del tempo, stupito, irritato, ferito, indignato. Poi, a poco a poco, rassegnato, indifferente, disinteressato a quello che si scriveva contro di lui, o accontentandosi di alzare le spalle con disprezzo quando risorgevano le dicerie sul suo antisemitismo di cui nessuno mai aveva potuto dare prova. Ad allontanarmi dalla sua filosofia, durante gli anni che seguirono, non erano stati estranei i corsi di materialismo storico dell’Université Nouvelle, cinghia di trasmissione del Partito comunista. E anche le riserve del mio amico Lucien Goldman, discepolo di Lukàcs. Ma Heidegger lo leggevo ancora, qua e là, ricordando i suoi gesti o il tono della sua voce quando ci invitava a non dimenticare quella contrada dell’essere da cui si potevano vedere più da vicino, secondo lui, i veri problemi della nostra civiltà. In mezzo al daffare di Parigi, quei punti di vista sembravano irreali, quando anche attorno a noi si stava costituendo, con la sua miriade di specchi, quell'epoca calcolante dominata dallo spirito della tecnica che i suoi scritti da molto tempo avevano annunciato e analizzato. Nel suo Nietzsche, come un segnale d'avvertimento, faceva cenno la strana frase: «L’essere è senza posa minacciato dall'ente». Non lasciava intravedere, questa frase, con una forza senza precedenti, l’installazione possibile di un’epoca 106
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forse interminabile di cui mi aveva parlato? Quello in cui l’ente sarebbe stato «abbandonato» dall’essere? E l’uomo, occupato dallo sfruttamento di tutto ciò che gli cade sottomano, mobilitato dall'effimero, è trasformato in animale di fatica? Un’epoca in cui (come Heidegger scriveva nel suo corso su Nietzsche) potrebbe anche succedere alla miseria, come fase ultima, «la miseria dell'assenza della miseria». Nostalgia della Foresta Nera? O seduzione del passato? Dieci anni dopo, un bel mattino, all’improvviso, risorsi in Rotebuckweg 47, un po’ imbarazzato per il mio silenzio. Heidegger scese subito dal suo studio, senza giacca, in camicia bianca, stupito e sorridente. L’indomani, alla fine del pranzo, ebbi diritto alla famosa Schwarzwäldertorte, preparata dalla signora Heidegger, e al pacchetto di Gauloises bleues posto discretamente a fianco della mia tazza di caffè, Mi disse del ritorno dei due figli dalla Russia. Poi, mi ricordo, si parlò a lungo dell’inutile carneficina cui si abbandonavano i cacciatori nella vicina foresta. Heidegger l’ascoltava in silenzio. La prova l’aveva segnato. Eppure già si vedevano sul suo viso i primi segni di quella serenità che non l’avrebbe lasciato fino alla morte. Dal 1951 aveva ripreso l’insegnamento all’università di Friburgo, col titolo di professore emerito. Parlammo di Jean Beaufret con cui era in costante relazione. Quando feci allusione ai molti scritti di “ricercatori” che s’ispiravano ai suoi temi senza mai citare il suo nome, si mise a ridere: già una volta suo fratello Fritz gli diceva (fece un gesto d’intesa) i «tuoi pickpockets», ironizzando sui giri di passaparola di questi autori così discreti. Più volte tornai a fargli visita, fino agli inizi degli anni Settanta. Portavo notizie da Parigi e dal Sud della Francia dove incontravo dei pittori (Max Ernst, Braque, Picasso, Giacometti) che illustravano le poesie di René Char che Jean Beaufret gli aveva fatto conoscere. Nel corso di quegli anni non tralasciò mai di chiedere notizie sulle mie attività di reporter, interessandosi delle mie conversazioni con Brecht sul teatro epico, dei miei contatti con i dissidenti sovietici – Solzenicyn, Kouznetzov, Sakharov – ai quali i 107
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miei amici russi telefonavano per me a Mosca. Mi chiese molti particolari sul Maggio ’68 a Parigi, su quello che avevo saputo della fine della primavera di Praga. Parlavamo della nascente ecologia, della futurologia le cui ambizioni (investire il futuro!) suscitavano i suoi sarcasmi o gli facevano alzare le braccia al cielo. In seguito gli feci avere i resoconti delle mie trasmissioni del servizio di ricerca dell’Ortof sui dibattiti, all’università di Cambridge, degli scienziati del club Pugwash dedicati ai pericoli dell’era del plutonio. E la filosofia? E il lavoro del pensiero? La dedica che allora mi scrisse su un esemplare della nuova edizione di Sein und Zeit, aveva senza dubbio il senso di un discreto richiamo: «Auf einen Stern zugehen, nur dieses» (In cammino verso una stella, solo questo). Era un aforisma estratto dal suo libro Aus der Erfahrung des Denkens (L'esperienza del pensiero). Parlavamo poco del passato. Qualche allusione soltanto mostrava che nulla era cambiato nella sua interpretazione dei fatti. Vecchi allievi erano di nuovo in corrispondenza con Heidegger o venivano in visita: Eugen Fink, Herbert Marcuse, Hannah Arendt, Walter Biemel... In Germania periodicamente comparivano su di lui articoli velenosi, e Heidegger non desiderava che i suoi amici intervenissero. Da molto tempo aveva deciso di non rispondere agli attacchi, mi disse, non per disprezzo, ma perché ogni risposta, in quel clima di malevolenza, non poteva che suscitare nuove polemiche, ancora più accanite, e senza fine. A che servirebbe? Aveva accettato di portare fino alla fine il fardello che lui stesso, a conti fatti, s’era caricato sulle spalle. Un giorno, ricordandomi che Heidegger, in presenza del mio amico germanista J.-M. Palmier, aveva osservato che in Germania non aveva ormai più importanza «d’un cane morto», mi meravigliai, con sua moglie, dell’accanimento sistematico di certi gruppi filosofici. Lei si chinò verso di me e sussurrò all’orecchio: «Er ist zu gross». È troppo grande. Aggiungendo subito: «La sua vera risposta è il suo lavoro». Un’altra volta, pregandolo di accordarmi un’intervista 108
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per una grande rivista francese, Heidegger, di buonumore, chiese perché tenessi tanto che lui scendesse di nuovo nel «circo», è così che chiamava il girotondo tirannico ed effimero dell’attualità. Mi disse che aveva accordato a Rudolph Augstein, direttore dello «Spiegel», un’intervista che avrebbe dovuto apparire solo dopo la sua morte. Una conversazione a due, mi disse, sicuramente permetterebbe d’andare più a fondo; e, allora, gli proponessi un testo da correggere con me. Insistetti. Si alzò, salì al suo studio e ritornò con un cappello in testa e un volume delle poesie di Brecht. In una di esse, intitolata Lao Tsé e il doganiere, uno scrupoloso funzionario domandava a Lao Tsé, sulla via dell’esilio, se aveva qualcosa da dichiarare: 1 A settant’anni vecchio e pien d’acciacchi Di riposare urgenza ebbe il Maestro. Essendo la bontà indebolita nel paese alquanto E la cattiveria riprendendo tono Egli il calzare cinse. 2 E mise il necessario insieme: Poco. Eppur qualcosa sì. La pipa che la sera sempre fumava E il libriccino che sempre leggeva. Pan bianco, pure un po’, così a occhio. 3 Per una volta ancor la valle si godette per obliarla poi Quando la strada imboccò della montagna. E il suo bue la fresca erba ruminando Si godeva, portando sulla groppa il vecchio. Abbastanza veloce, infatti, a lui sembrava. 4 Ma tra rocce e dirupi al quarto giorno Un doganiere la strada gli ha sbarrato: “Da sdoganar valori avete?” - “Niente di niente”. E il garzone che guidava il bue Aggiunse: “Ha insegnato”. E così anche questo fu dichiarato.
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5 E l’uomo gioviale fattosi d’un tratto Ancora chiese: "E qualcosa n’ha ricavato?". Parlò il garzone: “Che la molle acqua scorrendo Col tempo sulla potente pietra la vince. Lo capisci, ciò che è duro soccombe”. 6 Per non perder del giorno l’ultima luce Torna il garzone a pungolare il bue. E i tre già dietro un pino scuro scomparendo, Si riscosse all’improvviso il nostro uomo E gridò: "Ehi tu! Ferma, fermati un po’! 7 “Cos’è dell'acqua questa storia, vecchio?” Il vecchio si fermò: “Che t'interessa, forse?”. L’uomo parlò: “Solo un doganiere io sono Ma chi la vince su chi, questo interessa anche me. Se tu lo sai, allora dillo!”. 8 Scrivimelo! Al ragazzo dettalo! Una cosa così non si può portar via con se'. C’è della carta, qui da noi, e inchiostro. E pure da cenare; perchè là di casa io sto. Allora, su, che ne dici? 9 Girò il vecchio il capo, l’uomo A guardare: giubba rattoppata. Niente scarpe. E un’unica ruga la sua fronte. Ah, non era un vincitor chi gli veniva incontro. Ed egli mormorò: “Anche tu?”. 10 Per respingere una gentil richiesta Troppo vecchio era, come appariva, il vecchio. Perchè a voce alta disse: “Quelli che chiedono Meritano risposta”. Parlò il garzone: “Si sta facendo freddo”. “Bene, una piccola sosta”.
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11 E dal suo bue il saggio discese. Per sette giorni scrissero in due. E da mangiare portava il doganiere (e per tutto quel tempo Coi contrabbandieri solo a bassa voce imprecando andò). E poi fu l’ora. 12 Al doganiere consegnò il garzone Ottantuno sentenze una mattina. E ringraziando d’un piccol dono pel viaggio, Svoltaron tra le rocce dietro quel pino. E or su, dite: esser si può più di così gentili? 13 Ma non solo al saggio l’elogio rivolgiamo, Il cui nome sul libro bella mostra fa! Perchè al saggio la sua saggezza proprio strappata va. E dunque anche al doganiere grazie rendiamo: É lui che al saggio reclamata l’ha14.
Heidegger, che dalla poesia era visibilmente rallegrato, aveva letto le tredici strofe con il tono di un narratore che tramanda una storia alquanto edificante. Con il suo cappelluccio, assomigliava al ritratto che m’aveva disegnato di lui Ernst Jünger: «Un folletto da fiaba dallo sguardo malizioso e magico, sorto dalle profondità della Foresta Nera e pronto a rituffarvisi subito». Alla sperata intervista, Heidegger preferì una conversazione sul lavoro nel bosco: rievocò il padre bottaio il cui saper-fare era stato per lui, nell’infanzia, una prima illuminazione. Lo stesso giorno, mi raccontò dell'incontro con il poeta sovietico Andrei Voznessenski che aveva letto Sein und Zeit a Mosca e la cui visita discreta l’aveva molto rallegrato. «Anche laggiù si prepara un terremoto» mi disse. Poi ci fu quel mattino d’estate. Eravamo nel giardino e parlavamo della Grecia. Improvvisamente, con una vivacità cui non era estraneo lo spirito maligno del vino di Bade, gli dissi che il suo disastroso impegno nel 1933 aveva messo i 111
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suoi amici francesi in un bell’imbarazzo. Perché a quell'epoca l'aveva fatto? Ricordo che la signora Heidegger mi guardò, impietrita. Sorpreso, dopo un attimo di silenzio, Heidegger si chinò verso di me con l’espressione grave di chi s’appresta a confidare un grande segreto: «Dummheit. Ripeté la parla come volesse dare più peso ancora a un'evidenza. «Dummheit. Per stupidità. Pensai a una frase che m’aveva detto un giorno Jünger e che rovesciava singolarmente la prospettiva: «Non è Heidegger che dovrebbe passare il resto della sua vita a chiedere perdono per essersi impegnato durante qualche mese nel 1933, ma piuttosto Hitler che dovrebbe mettersi in ginocchio nella tomba e implorare il suo perdono per averlo ingannato e mistificato a tal punto». Del silenzio di Heidegger si parlò durante la mia prima visita a Busclats, la casa di René Char all’Isle-sur-la Sorgue. Char aveva appena ricevuto i due volumi su Nietzsche di Heidegger e mi chiese di decifrarne la dedica scritta in lettere gotiche. Il filosofo, ai suoi occhi, era colui che faceva luce sulla nostra provenienza. Si irritava per la bassezza degli attacchi di cui Heidegger era oggetto. Il lavoro e il ritiro erano senza dubbio l’unico rimedio per un uomo come lui, mi disse. Ritiro di un filosofo che da lungo tempo aveva fatto il tirocinio della pazienza e preferito, lungo decenni, tacere sui suoi scritti, non sembrandogli ancora giunto il momento di renderli pubblici. Quel silenzio, gli dissi, i suoi prossimi lo ascoltavano ogni giorno. A Friburgo avevo spesso pensato che si trattava anche della punizione che infliggeva a se stesso per non aver saputo scoprire a tempo l’insostenibile e per aver ceduto a compromessi; era l’espressione, credo, di un’autentica vergogna, ma anche la conseguenza della decisione di ritiro definitivo da coloro la cui condotta aveva reso così a lungo impossibile un dialogo. Aveva sperato che i suoi avversari consentissero a un dibattito certo severo, ma giusto e senza pregiudizi. Ciò che essi avevano cercato in effetti era di trascinarlo in una sorta d’autocritica espiatoria, di confessione 112
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pubblica, alla loro maniera, con parole da loro dettate. Non restava altro, allora, davanti al disumano e all’innominabile, e per riguardo a tanti morti, che il ricorso ultimo alla dignità, alla riservatezza e al lavoro. Dignità: la parola che aveva scritto Herbert Marcuse dopo la morte di Heidegger, la parola che usò Hannah Arendt dopo uno dei suoi incontri con lui a Friburgo. Marcuse, davanti a me, ne aveva tuttavia aggiunta un’altra: orgoglio. Laggiù, a Busclats, era la prima volta, credo, che riuscivo a esprimere quello che pensavo. Riaccompagnandomi al cancello, René Char mi disse: «C’è una cosa che sicuramente le farà piacere: ai seminari di Thor, ogni volta che Heidegger udiva pronunciare il suo nome, il suo viso s’illuminava d'un aperto sorriso...». Molte volte ancora dovevo varcare la soglia della casa di Zähringen, fino a quel giorno in cui vidi Heidegger per l’ultima volta, invecchiato, stanco, scendere con fatica dallo studio e venirmi incontro a braccia aperte per darmi, inatteso, il lungo abbraccio che si riserva ai compagni delle ore difficili. Quando risalì nel suo studio, lentamente, mi accorsi che vacillava. Quello stesso giorno, decisi di andare a salutare il libraio Fritz Werner a Friburgo e da lui comprai Der Feldweg (Il sentiero di campagna) e Der Satz vom Grund (Il Principio di ragione), il corso di Heidegger che studia il principio di ragione di Leibniz, fondamento della logica di tutti i nostri modi di pensiero. Lessi e rilessi alcune pagine in cui Heidegger si interrogava su alcuni versi di Angelus Silesius, teologo mistico del XVII secolo, meditando sulla rosa dall’inafferrabile essenza, la rosa «senza perché», presenza pura e silenziosa promessa. Die Ros’ ist ohm’ warum; Sie bluhet weil si blühet, Sie acht’ nicht ihrer selbst, fragt nicht, oh man sie siehet. (La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce, Dì sé non si cura, né desidera d'esser vista)15.
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Mistica? Poesia? «Sia l’una che l’altra non rientrano nel pensiero. Certo, esse non rientrano nel pensiero, ma forse in ciò che precede il pensiero stesso», scriveva Heidegger aggiungendo: «Saremmo davvero miopi se volessimo sostenere che il senso del detto di Angelus Silesius consiste soltanto nell’indicare la differenza fra i modi in cui la rosa e l’uomo sono ciò che sono. Il non detto del detto – da cui tutto dipende – dice piuttosto che l’uomo è veramente nel fondamento più nascosto della sua essenza soltanto quando, a suo modo, è come la rosa – senza perché». Parigi, 13 gennaio 1993
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Note 1. Traduzione nostra. In originale: Souviens-toi des mille et une guerres/Dans le vieil hotel militaire/Où les gens ne revenaient pas/ Volez carreaux des lampadaires/Nous promenions de vrais pays /Du Luxembourg au quai Voltaire/Coupez-moi ces éclats de verre/L’un commence où l’autre finit. 2. La poesia di Hölderlin, trad. L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 41. 3. Ibid. p. 51. 4. lbid. p. 51. 5. Dell’essenza del fondamento, in Segnavia, trad. F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 131. 6. Traduzione nostra. In originale: Pauvre la joie même la peine/ On est de toutes les couleurs/On est ici on est ailleurs/ Quatre jeudis dans la semaine. 7. Traduzione nostra. In originale: Parce que je chercbe/Sans avoír trouvé/Ou que j’ai trouvé/Ce qu’un autre cherche. 8. Traduzione nostra. In originale: Icy donc près du Châtelet/ Par très douloureuse fringale/Frédéric baronnet des Halles/Rendit l’âme en cet hôtelet/Oncques savant n’en sut rien dire/fors que le dessusdit pécbeur/D’Apollon ne voulut médire/Ni des muses, quoique jeuneur/ Cecy bourgeois lis sans dédain/Fors la cbaste tbéologie/Le trépassé n'eut d’autre mie/Et sans presque jamais la battre/ Qu’une pucelle à Saint-Germain/L’an mil neuf cent quarante-quatre. 9. Vangelo secondo Matteo, trad. Nicola Lisi, Studium Christi, Roma, pp. 49-50. 10. L’essere e il nulla, trad. G. Del Bo, Mondadori, Milano 1958, p. 45. 11. Traduzione nostra. La traduzione francese del primo coro dell’Antigone è dovuta a François Vezin. Cfr. Martin Heidegger in Introduzione alla Metafisica, trad. G. Masi, Mursia, Milano, pp. 154, 156. 12. Traduzione nostra. In originale: Les hommes enflammaient/ Des cités sans couleur/ De beaux oiseaux tueurs/Fondaient sur les étés/ Soldats vous claironniez/ Autour des jolies femmes/ Soldats les vieilles dames/ Passaient sans regarder/ On voyait mal les gens/ Des races les guettaient/ Les fous suivaient en paix/ De vieux enterrements.../ Ils travaillaient le fer/ Au blanc des arcs-en-ciel/ Et leurs poupées de sel/ Descendaient dans la mer. 13. Si allude alla traduzione di Jean Beaufret per un suo corso su Aristotele apparso nella rivista «Alétheia», nel gennaio 1964. Cfr. L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, trad. P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 27-28,
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14. Leggenda della nascita del Tao Te Ching sulla via dell’emigrazione di Lao Tze. Bertolt Brecht la compose nel 1938 quando era esule in Danimarca. 15. Martin Heidegger, Il principio di ragione, trad. G. Gurisatti e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991, p. 99 (traduzione leggermente modificata).
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Bibliografia delle opere di Martin Heidegger citate nel testo Sentieri interrotti (Holzwege), trad. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968. Essere e tempo (Sein un Zeit), trad. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976. Che cos’è la metafisica? (Was ist Metaphysik?), in Segnavia, trad. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987. Hölderlin e l’assenza della poesia, in La poesia di Hölderlin (Erulaterung zu Hölderlin Dichtung), trad. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988. Dell’essenza del fondamento (Vom Wesen des Grundes) in Segnavia, Milano, op. cit. Nietzsche (Nietzsche, I e II), trad. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994. Dell’essenza della verità (Vom Wesen der Wahreit), in Segnavia, Milano, op. cit. Pensiero e poesia (Aus der Enfahrung des Denkes), trad. di A. Rigobello, Armando, Roma 1977. Ormai solo un Dio può salvarci, intervista con lo «Spiegel», trad. di A. Marini, Guanda, Parma 1987. Il principio di ragione (Der Satz vom Grund), trad. di G. Gurisatti e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991.
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Cronologia 1889. Nascita di Martin Heidegger il 26 settembre a Messkirch, nella regione sveva. Il padre, Friedrich è bottaio e anche sagrestano della chiesa Saint-Martin. La madre Johanna Kempf è originaria di una famiglia di contadini dei dintorni. Fino al 1903, studia alla scuola comunale. 1903. Heidegger entra all’Humanistiches Gimnasium (Liceo classico) di Costanza. Studia il greco con Sebastian Hahn. «Non ce n’era uno pari per imparare il, greco – è questo che abbiamo appreso vicino a lui» dirà più tardi Heidegger. 1909. Termina gli studi secondari al liceo di Friburgo-in-Brisgau dove passa la maturità. Dal 1907, legge il saggio di Franz Brentano su Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele, libro che gli ha proposto il compatriota Conrad Grober, futuro arcivescovo di Friburgo. Questa lettura è il punto di partenza di un interrogarsi sul senso dell’essere che non cesserà più. 1909-1911. Anni d’Università. Dapprima alla facoltà di teologia, poi alla facoltà di scienze. Letture di Pascal, Hegel, Schelling, Nietzsche, Dilthey, Husserl, Kierkegaard, Dostoevskij, Hölderlin, Rilke, Trakl... Per tutta la vita, Heidegger rimarrà un lettore appassionato sia degli scrittori moderni sia dei grandi classici greci. Heidegger decide di consacrarsi interamente alla filosofia ma continua a seguire i corsi di teologia di Carl Braig. 1913. Dottorato di filosofia con Schneider sulla Teoria del giudizio nello psicologismo. 1915. Abilitazione in seguito alla sua tesi: La dottrina delle categorie e del significato in Dans Scoto sotto la direzione di H. Rickert. Di questo lavoro, Heidegger dirà, un giorno, a Jean Beaufret: «L’alètheia non c’era ancora». Heidegger diventa Privatdozent all’università di Friburgo. Lezione inaugurale: Il concetto del tempo nella scienza storica. 1916. Husserl è nominato professore nella stessa Università. Vi succede a Rickert. Heidegger è destinato al servizio di posta della regione militare di Friburgo, pur continuando a tenere dei corsi all’Università.
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1917. Matrimonio con Elfride Petri, studentessa all’Università. Heidegger ha come testimone un allievo di Husserl, Heinrich Ochsner. Fino al 1922, Heidegger insegna a Friburgo vicino a Husserl. 1918. Heidegger è mobilitato al servizio metereologico dell’esercito nei pressi di Verdun. 1919. Nascita del suo primo figlio, Jorg. 1920. Nascita del secondo figlio, Hermann. 1922. Sua moglie fa costruire il piccolo chalet di Todtnauberg nella Foresta Nera dove lui verrà a lavorare e meditare. È a Todtnauberg che scriverà e compirà Essere e Tempo dall’inizio del 1926. Il libro è dedicato a Husserl. 1923. Heidegger è nominato professore ordinario all’università di Marbourg che è allora il principale centro europeo del neokantismo. 1927. A fine febbraio, pubblicazione di Essere e Tempo nell’«Annuario per la filosofia e la ricerca fenomenologica», diretto da Husserl. Con Essere e Tempo Heidegger fa un’entrata clamorosa nel mondo della filosofia. Dedicato al filosofo Husserl, maestro di Heidegger, questo libro, fin dal suo apparire in Germania, rivelò ben al di là del cerchio degli studenti di Marbourg il «genio rivoluzionario del giovine Martin Heidegger», come scrisse H.G. Gadamer, Lo scisma provocato dalla pubblicazione di Essere e Tempo contribuì a detronizzare il neo-kantismo che regnava allora in Europa e a consacrare la fenomenologia come il movimento filosofico più originale del nostro tempo. Fra i suoi colleghi, il teologo protestante Rudolf Bultman. Fra i suoi allievi, Hannah Arendt. Resteranno suoi amici. Corso su I Problemi fondamentali della fenomenologia. Conclusione del corso di Heidegger: «Non può esserci che un solo vero segno se avete capito qualcosa di quell’essenziale inespresso che è stato qui costantemente trattato: che in voi si sia risvegliata una volontà di soddisfare all’opera nelle sue istanze più interne, ciascuno per parte sua, secondo le sue forze e le sue capacità». Inverno 1927-1928: corso sulla Critica della ragion pura di Kant: «Di progresso ce n’è solo nel dominio di quanto, in conclusione, non concerne in nulla l’esistenza umana. La filosofia non si sviluppa progredendo, è al contrario lo sforzo di spiegare e
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chiarire anche il minimo numero di problemi; la filosofia è la lotta autonoma, libera, fondamentale dell’esistenza umana con l’oscurità che non cessa a ogni momento di esplodere in essa. E chiaramente non fa che aprire nuovi abissi». Fra gli allievi a Marbourg: H.G. Gadamer, G. Kruger. 1928. Husserl va in pensione. Propone Heidegger come suo successore. Così questi diventa professore ordinario dell’università di Friburgo. Lettura sollecitante del saggio dello storico d’arte Hans Jantzen: Sullo spazio interno della chiesa gotica, struttura diafana che gli pare essere lo spazio stesso del sacro (trad. fr. J. Hervier, ne «L’informazione di storia dell'arte», maggio-giugno 1972). 1929. Nelle vacanze di Pasqua, colloquio su Kant a Davos (Svizzera). Confronto con Ernst Cassirer. Fra i partecipanti francesi Jean Cavaillès, Emmanuel Lévinas. Il 24 luglio, lezione inaugurale: Che cos’è la metafisica? Pubblicazione di Kant e il problema della metafisica, dedicato alla memoria di Max Scheler. 1930. Heidegger rifiuta una cattedra a Berlino. La rifiuterà di nuovo nel 1933. In ottobre, prima versione, a Brema, della conferenza Sull’essenza della verità, ripresa il 5 dicembre a Marbourg, l’11 dicembre a Friburgo, e nel 1932 a Dresda. Questa conferenza decisiva è un approfondimento e una ripresa dell’apertura fenomenologica che ha avuto luogo con Sein und Zeit, «Venti pagine – scrive Jean Beaufret – che costituiscono la filigrana di tutta l’ulteriore opera di Heidegger... il momento della svolta vi è annunciato...». La meditazione dell’alétheia vi prende il sopravvento, se si può dire, sull’analitica del Dasein. É così la scoperta di una originale corrispondenza fra l’arte o la poesia e il pensiero. Fra gli allievi di Heidegger a Friburgo: Jan Patocka (1932), Herbert Marcuse, W. Bricker. Verso il 1930, lettura rivelatrice de Gli déi della Grecia, il libro di Walter F. Otto che differisce radicalmente dalle interpretazioni «mitologiche» tradizionali. Corso sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel: «Ciò che vogliamo, non può essere che questo: imparare a capire che oggi siamo tenuti soprattutto ad aprirci un varco fino a quel luogo in cui il Dasein ci dona la libertà di risvegliare in noi la disposizione alla filosofia, cioè la libertà di prepararci interamente all’opera filosofica di Hegel, dei predecessori e dei contemporanei...». 1933. Il 21 aprile, Heidegger accetta d’essere eletto rettore dell’università di Friburgo. Jean Beaufret scrive: «Heidegger accetta
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malvolentieri la missione temibile di amministrare, come eletto, l'università nel suo rapporto con i pubblici poteri, e ciò esige che egli sia gradito da questi per poter assicurare come rettore l'autonomia dell’Università di cui proclama nel suo principio il carattere “autocefalo” (Selbstbehauptung) nel suo discorso del 27 maggio 1933». Di questo «impegno» Heidegger più tardi dirà al suo amico e biografo H.W. Petzet che è stata «la più grande stupidaggine della mia vita». 1934. A fine febbraio, dimissioni dal rettorato. «La scommessa che, nel maggio 1933, gli era sembrata a rigore possibile e che sperava anche un tempo positiva, diviene tuttavia qualche mese più tardi insostenibile» (J. Beaufret). 1934. Corso sui poemi di Hölderlin: La Germania e il Reno. 1935. Corso: Introduzione alla metafisica. «Ogni interrogarsi essenziale della filosofia resta inattuale. E questo, o perché la filosofia si trova gettata lontano in avanti dal suo proprio oggi, oppure anche perché essa riallaccia questo oggi a ciò che non ha cessato d’essere all’inizio e all’origine. In ogni caso la filosofia resta un sapere che non soltanto non si lascia rendere attuale, ma di cui piuttosto occorre dire il contrario: che subordina l’attualità a ciò che dà la misura». E, evocando gli equivoci correnti sull’essenza della filosofia, per esempio il fatto di concepire a suo riguardo delle «pretese troppo grandi», di credere che potrebbe e dovrebbe direttamente fornire al Dasein dì un popolo «i suoi fondamenti, sui quali dovrebbe edificarsi una civiltà», Heidegger osserva nel suo corso: «Si dice per esempio: poiché la metafisica non ha contribuito a preparare la rivoluzione, bisogna respingerla: è esattamente altrettanto intelligente di pretendere che un banco di lavoro deve essere buttato perché non permette di alzarsi in aria». Il 13 novembre, Heidegger tiene a Friburgo la conferenza L’origine dell'opera d’arte. «L’arte accade come Poesia, questa è instaurazione nel triplice senso di dono, di fondazione e di iniziale». 1936. Il 2 aprile a Roma, conferenza: Hölderlin e l’essenza della poesia, in cui dà avvio al dialogo fra pensiero e poesia che non cesserà più. Corso su Schelling. In novembre, a Francoforte, incontro con l’ellenista Karl Reinhardt. Inverno 1936-1937: inizio dei corsi su Nietzsche, che si succederanno fino al 1940. Tentativo di Heidegger: cercare di determinare al di qua di Nietzsche, in relazione con il mondo moderno, e a partire dalla storia dell’essere, un rapporto più radicale fra la volontà di potenza e l’eterno ritorno dell’identico, pensieri
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apparentemente disparati. La lettura heideggeriana della metafisica di Nietzsche dimostra che «il progetto matematico della natura» assume, nei tempi moderni, la forma ultima (benché non visibile) d’un progetto di tassazione, di apprezzamento dei valori. Questo – che tende a trascinarci verso una «rotazione nel vuoto» – non cede in nulla alla «potenza calcolante» del progetto matematico. 1938. Conferenza La fondazione dell'immagine moderna del mondo da parte della metafisica, pronunciata il 9 luglio a Friburgo (prima apparizione tematica della «Questione della tecnica»); il testo rimaneggiato troverà posto nel 1950 in Sentieri interrotti. 1939. Conferenza l’Inno di Hölderlin, Come un giorno di festa. De L’Operaio, Heidegger scrive che questo studio «è importante perché apporta in tutt’altra maniera di Spengler ciò di cui finora la letteratura sortita da Nietzsche era stata incapace, cioè un’esperienza dell’ente nel suo essere alla luce della volontà di potenza». Inverno 1939-1940: seminario privato consacrato al saggio di Ernst Jünger (Der Arbeiter, 1932), subito proibito dal partito nazista. Jünger vi espone ciò che Heidegger doveva intuire senza aver ancora il progetto di portarlo lui stesso al linguaggio: la questione della tecnica. Punto d'ultima convergenza della sua opera (cfr. Julien Hervier, P. Drieu La Rochelle, Ernst Jünger, ed. Klincksieck, pp. 299-327). 1940. Conferenza La Dottrina platonica della verità, «L’idea non è più, per la verità, la sua presentazione in primo piano, ma piuttosto è il fondo che la rende possibile». 1941. Corso: Concetti fondamentali. «Occorre fin dalla nostra prima appercezione del titolo (Grundbegriffe) cominciare senza più tardare l’esercizio che sarà costantemente richiesto da noi qui: rinunciare all’usuale, che è nello stesso tempo la facilità. Bisogna adottare un’attitudine che non richiede alcuna conoscenza preliminare particolare, né scientifica né filosofica. Tali conoscenze possono certamente essere utili per altri fini: qui esse costituiscono altrettanti ostacoli...». Amicizia con Max Kommerell che scriverà nel 1943, anno del centenario della morte del poeta, la sua Commemorazione di Pubblicazione di Memoria (Andenleen). Il 7 giugno discorso sul poema Ritorno. Sull’insegnamento di Heidegger in questa epoca, cfr. la testimonianza del suo allievo W. Biemel nel «Cahier de l’Herne» dedicato a Heidegger (1938).
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1944. Heidegger è arruolato nella «leva di massa» dei riservisti come manovale in un cantiere di sterro sulle rive del Reno. Interruzione del suo insegnamento, dunque, nel novembre 1944. A quell’epoca i suoi manoscritti sono stati messi in salvo dai bombardamenti in diversi luoghi di Messkirch da suo fratello Fritz. 1945. Prima visita di Frédéric de Towarnicki che porta a Heidegger testi di Jean Beaufret, Sartre, Merleau-Ponty... Recapitata a Sartre una lettera di Heidegger in cui lo invita a venire a filosofare con lui a Todtnauberg, «lontano, al di là del platonismo». Sartre non potrà rispondere a quell’invito e incontrerà Heidegger solo verso il 1952-1953. Heidegger scrive Il Rettorato, che sarà pubblicato solo dopo la sua morte. 1946. Il 12 settembre, prima visita di Jean Beaufret a Todtnauberg. Fine dicembre: le autorità francesi d’occupazione decretano Heidegger «interdetto all’insegnamento». Conferenza Perché i poeti?: «Hölderlin è il precursore dei poeti in tempo di miseria. È anche per questo che nessun poeta di questa epoca saprebbe superarlo. Il precursore, pertanto, non se ne va verso un avvenire, ma, al contrario, ne viene, di modo che solo nella venuta della sua parola, l’avvenire è presente». 1947. Pubblicazione della Lettera sull’«umanismo» indirizzata a Jean Beaufret. Questa lettera, che sarà subito tradotta in francese da J. Rovan (nella rivista «Fontaine»), apre un nuovo periodo nel cammino del pensiero di Heidegger e costituisce il punto di partenza di una decina di pubblicazioni nuove. La Lettera sull’«umanismo» è una messa a punto in cui Heidegger chiarisce il suo libro del 1927 accentuando ciò che differenzia il suo interrogarsi dall’esistenzialismo allora in gran voga. Là dove Sartre dice: «Precisamente, noi siamo su un piano dove ci sono soltanto gli uomini», Heidegger ribatte: «Siamo su un piano dove c’è principalmente l’essere». Da dove viene il piano? domanda Heidegger. Per lui «l’essere e il piano si confondono». La Lettera evoca come uno dei compiti del «pensiero che verrà» un dialogo fecondo (produktives Gesprach) con il marxismo. 1949. A Brema, in dicembre, le quattro parti della conferenza fondamentale Einblick in das was ist (La cosa, L’impianto, Il pericolo, La svolta). 1950. Il 6 giugno, conferenza a Monaco: La Cosa «Quel gioco che fa apparire, il gioco di specchio della semplicità della Terra e del Cielo, dei Divini e dei Mortali, noi lo chiamiamo “il mondo”». Fra
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gli uditori, lo scrittore Erhart Kàstner. Il 7 ottobre, conferenza La Parola. Pubblicazione di Sentieri interrotti, raccolta di sei testi che si susseguono fra il 1934 e il 1946. «Boscaioli e forestali si conoscono sul cammino. Sanno cosa vuol dire: essere su un Holzvege, su un cammino che non porta da nessuna parte.» 1951. Ripresa, col titolo di professore emerito, dell’insegnamento di Heidegger all’università di Friburgo. Insegnamento che durerà fino al 1957. Corso: Che cosa significa pensare? «Il pensiero non apporta il sapere come fanno le scienze. Il pensiero non apporta saggezza pratica. Il pensiero non risolve gli enigmi dell’universo. Il pensiero non ci dà direttamente il potere d’agire». Fra gli allievi degli anni Cinquanta: Curd Ochwadt, H. Büchner, G. Kahn, W. Brokmeier, Ernst Tugendhat, A.G. Guzzoni, Katichi Tsujimura. 1953. Conferenza La Questione della Tecnica (Monaco, 18 novembre). Il progetto matematico della natura nato da Galilei e da Descartes oggi fa regnare da signore il calcolo. Heidegger interroga la natura ancora non pensata della tecnica moderna in un mondo in cui la rivelazione tecnica dell'ente è diventata la nostra «filosofia». Come accedere, nella nostra relazione con la tecnica, a un rapporto più libero con essa? Questa conferenza permette di afferrare in tutta la sua originalità il pensiero politico di Heidegger. 1955. Primo viaggio in Francia, in occasione della Decade di Cerisy-la-Salle dove tiene la conferenza Che cos’è la filosofia? «Il cammino verso cui vorrei ora far segno si trova immediatamente davanti a noi. È soltanto perché si trova lì, in prossimità, che facciamo fatica a scoprirlo. E anche avendolo trovato non per questo, senza soccorso, ci spostiamo su di esso». Soggiorno a Parigi con la moglie, a casa di Jean Beaufret. Visita al museo del Louvre e al castello di Versailles. Incontro con il poeta René Char e visita al pittore G. Braque a Verengeville. Inverno 1955-1956, corso: Il Principio di ragione. «Quello che importa è che siamo dei guardiani e delle sentinelle, vigilanti che il messaggio silenzioso della parola che riguarda l’essere vinca sul richiamo rumoroso del principium rationis come principio di ogni rappresentazione». 1956-1957. Scoperta del paese di Cézanne durante due soggiorni a Aix-en-Provence. Heidegger arriva fino sul picco da cui si vede la montagna Sainte-Victoire. In Provenza saluta la prossimità del paese greco.
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1958. Nuovo viaggio in Francia. Il 20 marzo, conferenza all’università di Aix-en-Provence; Hegel e i Greci. 11 maggio, conferenza a Vienna: La Parola. All’opera: Don Giovanni. Sulla via del ritorno, soste in diversi luoghi segnati dal ricordo del poeta Trakl. A Innsbruck, visita a Ludwig von Ficker, l'amico del poeta. 1959. Pubblicazione di In cammino verso il linguaggio, la cui traduzione francese (1976) sarà dedicata a René Char. «A René Char, in ringraziamento per il soggiorno poetico molto vicino al tempo dei seminari di Thor, con il saluto dell’amicizia.» E, in esergo al libro, queste righe di Heidegger: «E la cara Provenza quell'arca segretamente invisibile che riallaccia il pensiero mattinale di Parmenide alla poesia di Hölderlin?» Per il settantesimo compleanno, Heidegger è nominato cittadino onorario di Messkirch. 1962. Primo viaggio in Grecia, in aprile. In una lettera a Jean Beaufret, scrive: «Il racconto del viaggio si riassume nella frase di Platone: "Non è in alcun modo dicibile" (Lettera VII)». Seguono altri tre soggiorni: nel 1964 va a Egina, nel 1966 a Taormina, Sicilia, e nell’aprile 1967 ad Atene dove tiene una conferenza su Atena. 1966. In estate, soggiorno alla Vancluse, su invito di René Char, e primo seminario di Thor (Eraclito e Parmenide). Cfr. Questions IV Incontro con Yvonne e Christian Zervos. Meditazione su L’Aperto che resta, come tale, impensato, «benché all’inizio della filosofia si sia parlato dalla radura de L’Aperto». «Quali nomi l’evocano in una parola? E dove troviamo questa evocazione? Risposta: nel poema di Parmenide, che ancor oggi, per quanto nessun orecchio lo intenda, tuttavia parla nelle scienze in cui la filosofia si risolve». René Char aveva scritto nel 1947: «Il Thor si esaltava sulla lira delle sue pietre. Il Mont Ventoux, specchio delle aquile, era in vista» (Oeuvres Complètes, Bibliothèque de la Pléiade, p. 239). Inverno 1966-1967: Heidegger partecipa al seminario di E. Fink su Eraclito. 1967. Il 27 luglio, il poeta Paul Celan fa visita a Heidegger e scrive poco dopo un poema intitolato Todtnauberg: «Violento ciò che, più tardi, in cammino, diventa chiaro». 1968-1969. Secondo e terzo seminario di Thor. Tentativo: un accesso alla questione dell’essere a partire da Hegel, poi da Kant. Heidegger ha rievocato quei soggiorni nella Vaucluse in Ricordo di Marcelle Mathieu (cfr. René Char, Oeuvres Complètes, pp. 1248-
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1249). nell’occasione dell’ottantesimo compleanno di Heidegger che Hannah Arendt legge alla radio il testo oggi riportato nel suo libro Was ist Politik?: «Poiché la tempesta che il pensiero di Heidegger fa sollevare come quelle che spirano ancora contro di noi, dopo millenni, dall’opera di Platone non ha origine nel secolo. Viene dall’immemoriale e ciò che si lascia dietro è un compimento che, come ogni compimento, fa ritorno all’immemoriale». Questo compleanno è celebrato a Messkirch e ad Amriswill (Svizzera) alla presenza di numerosi amici. 1973. Seminario di Zähringen. Tentativo: un accesso alla questione dell’essere a partire da Husserl. Tutta l’attività di Heidegger, allora assistita da F.W. von Herrmann, è consacrata alla messa a punto dell’edizione delle Opere Complete il cui primo volume (Problemi fondamentali della Fenomenologia) appare, lui ancora vivente, nel 1975, presso l’editore Vittorio Klostermann, Francoforte. 1976. Pubblicazione del tomo 21 delle Opere, Logica, Heidegger riceve da Praga una lettera dal fenomenologo cèco Jan Patocka che lo ringrazia per un invio di libri e per tutto quello di cui gli era debitore (futuro portavoce della Carta 77 delle libertà, l’autore dei Saggi eretici, e di Platone e l’Europa, morì in seguito a una serie di interrogatori polizieschi il 13 marzo 1977). Ai partecipanti del decimo colloquio del Circolo Heidegger degli Stati Uniti fondato a Chicago nel 1966 da Manfred Frings, Heidegger fa trasmettere da Walter Biemel un indirizzo di saluto. Heidegger muore il 26 maggio a Friburgo. Il suo amico René Char scrive alcune righe che saranno pubblicate solo tre anni più tardi in una piccola raccolta il cui titolo è Aisé à porter «Heidegger è morto stamattina. Il sole che l’ha tramontato gli ha lasciato i suoi attrezzi e non ha trattenuto che l'opera. Questa soglia è costante. La notte che si è aperta ama di preferenza». Segue la data: mercoledì 26 maggio 1976. ll 28 maggio, cerimonia della sepoltura nel cimitero di Messkirch, durante la quale sono letti da suo figlio Hermann dei versi di Hölderlin che lui stesso aveva scelti. Sulla pietra tombale, una stella. Auf einen Stern zugeben, nur dieses, «in marcia verso la stella, nient’altro che questo» aveva scritto in L’esperienza del pensiero. F. de T.
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Un messaggero che ricorda e racconta
In lontananza di tempo e di spazio Frédéric de Towarnicki racconta il suo incontro con Martin Heidegger. «Il caso fece di me il primo visitatore...», subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, in una Germania in rovina, in una Friburgo distrutta dai bombardamenti. Di Heidegger non si sapeva più nulla o quasi. Un caso? O qualcosa come una quête (predestinata?) che lo ha segnato nel succedersi del tempo (tempo anche interno), nel pensiero commemorante e riconoscente. A distanza di quasi cinquant’anni, è soprattutto un narratore testimone, che il tempo, esercitato in riflessione, ha reso, starei per dire, più consaputo: vicende e circostanze e pensieri sono conservati nella custodia della memoria ricreativa, e remunerativa; non catturati in una retrospezione attualizzata. Il giovane militare «Rhin et Danube», assegnato al servizio sociale delle truppe francesi d’occupazione, forte solo della lettura di qualche testo «incomprensibile» di Heidegger, insieme a quella, interessata e in certo modo insofferente, di Sartre (temi heideggeriani reinterpretati: la defezione, la libertà come progetto, l’autenticità e la banalità del sì), aveva trovato in alcuni articoli di Jean Beaufret (fu un caso, ancora, l’incontro, che sancirà l’amicizia di una vita, con lo sconosciuto in un bistrot parigino, che al tavolo accanto si interrogava sulla «sorte» di Heidegger?) la definizione di «Cézanne della filosofia»1. Nasce «l’idea temeraria che soltanto Heidegger poteva metter luce» su incertezze, dubbi, e presentimenti, se fosse riuscito a ritrovarlo nella Foresta Nera. Era tempo di esistenzialismo, nell’accezione presto divulgata, allora verdeggiante. Prendeva forma il gergo, si dibatteva un pensiero in situazione, Sartre, l’autore di L’être et le néant, preparava i «Temps modernes» (al caffè). 127
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Sorprendente per Heidegger, nella lode del talento, la sua multiforme pratica di generi letterari e di disposizioni concettuali. Di Heidegger si conoscevano direttamente solo pochi testi tradotti2, lo si frequentava in parte attraverso la fenomenologia husserliana; e in fondo si vociferava di lui, con Jaspers, e arbitrariamente, come uno dei «padri dell’esistenzialismo». (Su Heidegger vu de France, come scrive un più giovane studioso – non allineato al bavardage degli «heideggeriani» non apprezzati – ci sarebbe ancora una storia da fare. Non solo come contributo erudito, e tanto meno come un confronto polemico3, ma con lo sforzo, che s’impone ormai, di un appropriato Mitdenken). «Messaggero senza messaggio», dice di sé. Gli scritti recati di Beaufret non sono un passaporto, ma un’occasione (nel senso propizio). Non è un portatore di un qualche messaggio. Né un avvocato di alcuna causa. Mettersi alla ricerca di Martin Heidegger sarà anche un cercare se stesso: una quête appunto. L’incontro, non da solo ma con due compagni, un «capitano» e l ’amico Alain Resnais, tutti in divisa, all’improvviso, avviene in un giorno dell’autunno del 1945, che, Towarnicki, non ricorda più con esattezza. Heidegger s’informa delle cose e dei fatti di Francia (il dialogo era stato interrotto); si discute un poco dell’«esistenzialismo» di Sartre, della differenza tra questo e il pensiero di Sein und Zeit. Towarnicki, come molti, sa poco del «passato politico» di Heidegger: solo voci, gravi e severe, non precisamente attendibili, che forse voleva «semplicemente confutare». venuto, anche, per cercare, e ricevere, notizie dirette. A un certo punto si decide a porre la questione che lo inquieta, quasi per interposte persone: «Caro Professore, i miei amici francesi si interrogano sui rapporti che lei ha avuto con il nazionalsocialismo». Heidegger risponde «per nulla imbarazzato»; si ritornerà su questo, allargando il discorso alla portata generale, la condizione dell’Europa, l’orrore inflitto e patito, e la necessità del pensare, del «rimettersi 128
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al lavoro». La prima apparizione di Heidegger dà il segno costante al racconto. Oltre la singolarità fisica, che un poco sorprende («piccolo, molto piccolo», «tracagnotto»...), un ritratto intimo, interiore. «Sul viso, dalle guance scavate si legge una certa tristezza, qualcosa di tragico, anche», in quell’anno terribile per lui (e nei prossimi). Ecce Heidegger. Si pensa irresistibilmente (l’ha pensato Towarnicki?) al divario tra l’apparenza d’aspetto, il soma ordinario e la straordinarietà unica del logos che vi si incarna. Il visitatore diventa a poco a poco un amico, consapevole di trovarsi di fronte sia alla eminenza intellettuale, sia alla silenziosa angoscia dell’uomo. Facendosi naturalmente auditor et discipulus (imprevisto, forse, a se stesso, anche se non insospettabile) è primario interlocutore nella interrogazione di un pensiero, che lo conduce alla comprensione come alla consuetudine. Entra nell’intimità domestica di Heidegger e della moglie, beneficia della frequentazione della loro casa (quella «bellezza semplice del mobilio in legno chiaro»), fatta di gesti gentili e di cortesi doni (alimentari o modestamente voluttuari in tempi di penuria), partecipa alla pena delle vicende di ostilità e denunce e accuse, da cui Heidegger è umiliato; condivide passeggiate filosofiche sui sentieri di Zähringen, e provvede anche a una trasferta (fortunosa) per il recupero di disseminati manoscritti heideggeriani, messi al riparo... I discorsi intrattenuti costituiscono ciò che richiede il pensiero fecondo: una «sinusìa della conversazione e di quel lavoro che è insegnamento ricevuto altrettanto che dato», per impiegare parole heideggeriane, oltre la lettura e la scrittura, nel regime di una, si direbbe, platonica oralità dialettica 4. L’autodichiarantesi «non filosofo... studente appassionato di letteratura e di poesia» ne è il destinatario privilegiato, e come il comprensivo fiduciario, che in quel colloquium inizia una avventura iniziatica. A Zähringen è «il visitatore impossibile, senza orologio né calendario. Giungendo all’improvviso, è sempre ben accolto». Nella pagine del suo libro, dopo anni, non solo ha in 129
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mente Heidegger, ma lo vede ancora e lo fa vedere, in presenza, prossimo. Nelle stesse descrizioni di quel pensiero, sortite dal libero conversare, apre come uno spiraglio, e più, così intrinsecamente partecipe da restituire al lettore il movimento del dialogo in atto, di cui lui stesso è persona narrativa e conversante. Heidegger appare in una fisionomia viva, non quale un momento di disputate questioni: inoperose o oscure. La descriptio personae (disturbata in certi ritratti diffusi, fisiognomicamente e sociologicamente polemici: l’aspetto e l’abito del filosofo «paesano» e folkloristico) è precisa e affabile; certi tratti gestuali e caratteriali sono rappresentati con il gusto ecfrastico del rilievo, del dettaglio. Nella speciale kleine Schule di pensiero, fuori da qualsiasi scuola o dottrina filosofica, si toccano punti centrali del Heidegger di Sein und Zeit, si discutono i fondamenti discutibili dell’esistenzialismo francese (la questione non è quella dell’esistenza dell'uomo ma della verità dell’essere)5, Descartes e Nietzsche, il marxismo, o piuttosto Marx, la storia della filosofia (metafisica) occidentale, la modernità, approfondita nel suo impensato, il nichilismo (per cui dell’essere e della verità non è più niente), la Tecnica planetaria (per cui è necessario un pensiero ancora da pensare). Ci si inoltra nei grandi «passaggi» heideggeriani, l’essere minacciato dall’ente, il compimento dell’oblio dell’essere, l’uomo compromesso nella sua essenza, per cui si prepara la condizione della propria distruzione, l’epoca in cui alla miseria può succedere «la miseria dell’assenza di miseria». Towarnicki ascolta un «linguaggio completamente nuovo»: «era lontano dal capire, aveva l’impressione di ritrovare, di riconoscere qualcosa di iniziale, di stranamente semplice». Non era un corso di lezioni, ma un esercizio e una disciplina della mente, e l’uomo che paternamente parlava-pensava, con la «gravità e la pazienza di un professore» extra cathedram, tenendo viva l’attenzione sull’essenziale, era un Wegweiser benevolo, quel che si dice, con espressione fraintendibile, 130
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un maestro di vita, qui opportunamente confidenziale, che si raccomanda, per i lettori di questo libro, a una udienza non specialistica. Senza sospetto di statuificata grandezza e d’altra parte senza professione di obbedienza o presunzione di investitura. Internandosi in quelle conversazioni la consuetudine è nel regime del pacato ma alacre domandare e del debito ragionare. «C’è in lui qualcosa che impedisce di oltrepassare la misura». Certo non sono molti gli elementi di fatto rispetto a ciò che ormai sappiamo. Sono ormai parecchie le biografie, documentarie e interpretative6, e testimonianze, magari contrastanti e controverse, sull’esistenza di Heidegger, contribuenti altrettanto all’accertamento che alla «condanna», in particolare sull’adesione al nazionalsocialismo, e la sua portata e la sua durata. Il libro di Towarnicki, che riguarda un brevissimo periodo, ha un’altra natura: non possiede la forma o il disegno di una vita, né la caratteristica di un genere biografico; non presenta, come talvolta, a rovescio, la figura di un «fantasma» damnandus o laudandus. Il suo pregio è quello di testimone, e l’espressione congeniale è quella dei mémoires. Se il tono memoriale è la parte elettiva, che pareggia il registro narrativo, queste pagine hanno un valore documentario, in quanto il «documento» sia anche condensazione e stratificazione dei ricordi. Si rivive con air du temps dell’immediato dopoguerra, nel fervido e azzardato clima intellettuale parigino dell’engagement storico-esistenziale, il contrasto con la austera, quasi esclusiva lontananza del pensatore solitario, privo dell’urgenza del presente; che, se estromesso dal suo ufficio d’insegnamento, volontariamente si esonera dal commercio delle idee dominanti. É un Heidegger familiare e privato, immerso sempre nel suo lavoro, e sempre naturalmente magistrale, del tutto renitente a essere trascinato nel circo («cosi chiamava il girotondo tirannico ed effimero dell’attualità»). 131
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Risultano a un tempo la forza calma, e non acquietata, del magistero acromatico e la confidenza acquisita del giovane akoluthos, sottomesso alla medesima passione: in dulcedine societatis quaerere veritatem (se mi è concessa la citazione di un maestro medievale)7. Il nodo di quello che è ancora il caso (politico, o eticopolitico, o filosofico-politico e quanti altri lo sono, più o meno eccellenti?), è l’impegno «militante» del 1933; e la durata tacita, coerentemente per alcuni, del consenso; e il «silenzio», infine, sulla responsabilità personale, interpretata (oltre la storicizzazione del primo compromesso come conseguenza di una esaltazione della «decisione» fattuale, o di una debolezza morale) nel senso di una protratta complicità, anche nell’omissione del riconoscimento aperto dell’Olocausto, e di un persistente rifiuto di pubblica retractatio, invano richiesta da avversari e amici e discepoli (come, alludendo ad Agostino, il teologo Bultmann disse un giorno a Hans Jonas, antico discepolo che desiderava rendergli visita, nel dopoguerra). Towarnicki, in quell’anno 1945, ascolta la viva voce di Heidegger, coeva agli eventi che affliggono la sua difficile condizione, senza tentazioni del giudicare o anticipate giustificazioni: le ansie e la paura per la minaccia di requisizione della casa e, perfino, di sequestro della biblioteca privata, la mortificazione delle insinuazioni calunniose e dei giudizi settari, la sofferenza patita, in veste di imputato, sulle decisioni in corso a cui era sottoposto dal governo militare francese d’occupazione e dal senato accademico della università di Friburgo. Non è questo il luogo per rievocare il dibattito sull’adesione di Heidegger al nazionalsocialismo, e aprire il dossier fornito, come è noto, di motivazioni critiche di ordine biografico, sociologico, ideologico. Comunque si intenda il «caso», o meglio il processo intentato, in momenti periodici di interesse polemico o di proposta di «immunità» politica, secondo lo scandalo dell’après-coup, e il differimento rispetto 132
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alla data e al concatenarsi degli avvenimenti; che si emettano verdetti sull’assenza di una filosofia politica in Heidegger (o della consapevolezza di una specifica razionalità pratica); si proclamino sentenze di responsabilità morale (mancanza di un’etica nel pensiero e nel comportamento); si esibiscano teoremi sui rapporti tra filosofia e politica (il filosofo-basileus che pretenda di guidare la guida politica, o si comprometta, per disimpegno professionale, con il potere); ci si eserciti in constatazioni sociologiche e classiste o decifrazioni ideologiche (attaccamento alla civiltà contadina e avversione alla modernità scientifico-razionale), resta la complessa difficoltà di dedurre dal pensiero heideggeriano la sua posizione politica o, viceversa, da questa risalire ai presupposti filosofici. Si finisce in entrambi i casi per negare la problematicità del passaggio dal pensiero all’azione, e dalla biografia alla filosofia, o se si vuole la paradossalità, su cui interrogarsi, di un Heidegger insieme politico e impolitico (il cui percorso di pensiero viene ritmato in periodi di apoliticità, politica ontologica, impoliticità storico-destinale...). Difficoltà complessa che non sembra si possa risolvere solo in frasi ideologiche, o in conferme storicistiche; o collocandosi, moralisticamente, in un improbabile luogo di giustizia postuma... Dalle pagine di Towarnicki si rivela come in presa diretta il persuaso deciso atteggiamento di Heidegger: il riconoscimento del suo errore e la sua comprensione (per alcuni un’auto-interpretazione che arresterebbe l’autocritica), e comunque la negazione di una complicità colpevole. La partecipazione al movimento e al partito (non alla «visione del mondo») nazionalsocialista nel 1933 è considerata come il consenso a una possibile rivoluzione o a un possibile programma di rinascita nazionale (dopo la dissoluzione del sistema politico di Weimar, l’umiliazione inflitta alla Germania dal trattato di Versailles e dalla politica dei vincitori), e a un personale progetto parallelo di rinnovamento dell’Università, di cui riconosce l’illusione e il fallimento con le dimissioni dall’incarico di rettore. 133
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Infine, il ritiro nel proprio lavoro filosofico e nell’insegnamento è praticato senza più alcun impegno politico, non senza subire attacchi ufficiali e sorveglianza implicita, e senza tacere, nei limiti concessi dal sistema, il suo dissenso nei corsi e nelle lezioni (circostanze, queste, che notoriamente sono confutate da coloro che si compiacciono nella pratica dell’amalgama o nel rinvenimento di passi compromettenti, nella estrazione di catenae di citazioni incriminabili). Più volte, alle interrogazioni di Towarnicki, Heidegger risponde fondando il suo discorso su due piani per lui contigui: con l’affermazione dell’errore, la denuncia dei crimini perpetrati dai nazisti («cricca nazista, banda di criminali, regime criminale», come aveva detto a W. Biemel nel 1942) e dell’orrore per cui «l’estensione dei crimini che i suoi compatrioti avevano commesso o lasciato commettere prima e durante la guerra, in Germania e in tutta Europa, era così opprimente che ogni spiegazione circa un errore personale di giudizio non poteva che apparire derisorio, se non insignificante». Non sentendosi colpevole e corresponsabile, esprime «la sua ripugnanza a mettere avanti all’orrore generale i rischi che pure aveva corso». Che non sembra una minimizzazione, o, peggio, un alibi: quando Towarnicki mostra ai coniugi Heidegger le immagini delle atrocità di Dachau «entrambi fissano le fotografie come impietriti. Heidegger tace [...]. Sul viso passa un’ombra di smarrimento. Mormora come fra sé che non ci sono parole di fronte a tale tragedia [...]. Si era oltrepassata una soglia senza precedenti: la trasformazione dell’uomo in prodotto materiale disponibile per il servizio di un programma. Il tempo del nichilismo era anche quello del disumano. Nulla garantiva, disgraziatamente, che questo tempo fosse già alle nostre spalle». Era necessario andare alla radice, comprendere le cause profonde di ciò che era successo. «Dietro gli avvenimenti politici e militari, un’altra guerra, non meno temibile, toccava direttamente la dignità stessa dell’uomo». 134
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Si può ricavare che l’«errore» sia stato dovuto alla debolezza personale di valutazione politica e di giudizio storico, dall’aver applicato all’impegno del ’33 i suoi principi filosofici (come ritengono gli esegeti polemici), o non piuttosto dall’aver mancato di corrispondervi (come sostengono i più irenici)? La imminente Lettera sull’«umanismo» (indirizzata proprio a Jean Beaufret), e poi l’ultimo Heidegger, affermerà con conseguente rigore che il problema dell’essere non è legato all’efficacia del «produrre effetti», è al di là della distinzione di teoria e pratica. «Il pensiero lascia essere l’essere [...]. Non approda ad alcun risultato e non ha alcun effetto [...]. Questo pensiero non è teoretico né pratico. Esso avviene prima di questa distinzione». Heidegger, ormai, è già fuori da indicazioni politiche, e pensa come «catastrofe» la relazione del pensiero alla traduzione all’atto, alla utilità e alla pubblicità. Il suo errore è anche il fallimento imparato a sue spese. E il mantenuto silenzio, la decisione a lungo di non pubblicare, non mostra una forma di resistenza implicita nel non-impegno? Nell’ultima visita, al momento degli addii, Towarnicki si accorge di aver dimenticato alcuni suoi appunti, e si affretta a cercarli nello studio di Heidegger, al piano superiore, intravedendo sul tavolo di lavoro un foglietto dove sono scritte poche parole in carattere gotico, a inchiostro blu azzurro. Non può rinunciare a leggere. «Cosa dobbiamo dunque fare? Lasciare». Mentre il treno correva verso Parigi, quelle parole non cessarono di muoversi nella sua mente. Ecco, l’ultimo segnale di un pensiero, o del presagio di un pensiero che può cambiare la vita e il fare e l’agire umano: das Lassen. Il compito del pensare, e la prosecuzione di un cammino che sarà d’ora in poi, la riflessione radicale sulla volontà di potenza dell’epoca della Tecnica, la «decostruzione» del politico, l’appello holderliniano all’«abitare poeticamente la terra». Per questo, forse, Heidegger si rifiutava di rispondere 135
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alle accuse. «Non per disprezzo, ma perché ogni risposta [...] non poteva che suscitare altre polemiche [...] senza fine». Evitava di fare dichiarazione di virtuosa indignazione tardiva, di ufficiale autoaccusa (ostinatamente richiesta, o imperativamente dettata da molti). Non era chiudersi, e ripararsi, dentro una giustificatrice Selbstinterpretation. Erigersi a giudice – e neppure in giudice pubblico di se stesso. Il suo atteggiamento è ormai convintamente, quello di «portare il fardello, il peso del suo errore caricatosi consapevolmente sulle spalle»; e io oserei dire, se mi faccio capire, che abbia voluto praticare l’esercizio (anche adibendo la parola nel senso spirituale) di convertire l’errore, reso consapevole, in atto di pensiero; o, se mi è lecito dire, in una forma di penthos, di compunzione che oltre la volontà, il nus procura. Il silenzio, su cui si è speculato, è il modo in cui il pensatore indotto all’errore vive soggettivamente la segreta trattenuta vergogna8, individuale e collettiva (in primo termine il tedesco Scham significa pudore), e, infine, l’ultima serenità nella prova, che non esclude il tragico se, heideggerianamenteholderlinianamente, il tragico è il rapporto alla serenità in quanto essa ci lascia ancora nella prova più provata. Dove l’errore è nominato è ancora questione di assolvere o di condannare? Dunque, le parole ritornanti nel discorso di Heidegger sono Irrtum («ein menschliches Versagen») e Scham. In una mattina d’estate, in giardino, parlando della Grecia (antica), Towarnicki l’interroga d’improvviso, ancora una volta, sull’«impegno disastroso» del ’33 (cui aveva già risposto ammettendo la compromissione ed escludendo successivi compromessi). Heidegger, questa volta sorpreso, dopo un momento di silenzio, «con l’espressione grave di chi s’appresta ad affidare un gran segreto», risponde: Dummheit. Ingenuità politica, scacco dell’intelligenza storica, fragilità personale; «ferita della filosofia» (come scrive Derrida)? Incontrando, nel 1966, René Char, che s’irritava della 136
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bassezza degli attacchi e riteneva che «il lavoro e il ritiro erano senza dubbio l’unico rimedio possibile per un uomo come lui», Towarnicki concorda con il poeta, e gli sembra di capire e di trovare l’espressione giusta. Il silenzio gli sembra, come a Char, una forma di dignità (altri, come Marcuse, di fronte a lui, avrebbe detto orgoglio). «Avevo spesso pensato a Friburgo che [il silenzio] era anche la punizione che s’infliggeva per non aver saputo scoprire in tempo l’insostenibile e aver ceduto ai compromessi; l’espressione, credo, di una vera vergogna, ma anche la conseguenza di un ritiro definitivo riguardo a coloro il cui atteggiamento aveva reso così a lungo un dialogo impossibile... Non restava più, davanti all’inumano e all’innominabile, e per rispetto di tanti morti, che l’ultimo ricorso al ritiro, al lavoro, alla dignità». Che solo il lavoro puro e il ritiro possono restituire. Come dirà anche, dopo ostilità e disagio, Hannah Arendt. È l’immagine conclusiva che, in proposito, esce dalle pagine del libro: da segnare, e mettere nel conto e prenderne nota, ogni volta che si riapre l’affaire. Dieci anni dopo all’improvviso ritorna a fargli visita. (E poi, più volte fino agli inizi degli anni Settanta). Era provato. «Eppure già affioravano sul suo viso i primi segni di quella serenità che non l’avrebbe abbandonato fino alla morte». Dalla Entschlossenheit alla Gelassenheit, appunto. È il cammino di Heidegger fino alla fine; non è escluso che l’ultima stazione sia un’altra risolutezza, non anodina (nel senso etimologico di non «risparmiante il dolore»), quella di una purificazione interiore parallela al ripensamento ininterrotto del suo pensiero. Un bilancio, la ricapitolazione e l’avvenire della maturità della svolta, Possiamo (dobbiamo) accordarla all’uomo Heidegger, se intendiamo il suo “errore” oltrepassato nell ’intimo riconoscimento-mutamento? «Nostalgia della Foresta Nera? O seduzione del passato?». La prima quéte era, dicevo, predestinata. In una di quelle visite il maestro-amico gli offre una nuova edizione di Sein und Zeit
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con la dedica «In cammino verso una stella, soltanto questo». Un verso tratto dalle poesie del suo Aus der Erfarung des Denkes (1965)9, in cui l’esperienza del pensare sembra avere il suo esito nello stesso poetare. Quel verso era un ideale far cenno all’amico-discepolo, dopo avergli chiesto dell’essenziale, del suo stesso lavoro di pensiero? Dal principio Towarnicki aveva cominciato a riconoscere, sappiamo, il pensiero poetante, «qualcosa d’iniziale, di straordinariamente semplice, che era forse nel cuore più segreto dell’uomo e che aveva già percepito, gli pareva [...] nella vicinanza dei racconti e dei poemi. [...] molti uditori avevano avuto [...] questa impressione magica. Un giorno volle parlargliene. Come spesso gli accadeva, fece con la mano un gesto che tagliava corto». Il racconto dell’ultima visita è, forse, la pagina più toccante. Sono trascorsi anni. Rivede Heidegger, «invecchiato e stanco, scendere con fatica dallo studio e venirgli incontro a braccia aperte per dargli, inatteso, il lungo abbraccio che si riserva ai compagni delle ore difficili». Il maestro, l’amico, è un compagno anche, se con l’altro ha diviso in comune il pane della dolorosa, e per la condivisione confortante, difficoltà del tempo d’angustia. In quello stesso giorno Towarnicki compra da un libraio di Friburgo Der Feldweg e Der Satz vani rand, nelle cui pagine legge e rilegge l’interrogazione heideggeriana sui versi di Angelus Silesius a proposito della «rosa senza perché» e sull’uomo che «è veramente nel fondamento più nascosto della sua essenza soltanto quando, a suo modo, è come la rosa senza perché». L’esercizio ermeneutico è aperto su parole essenziali. L’ormai anziano rievocatore conclude lasciando quelle parole nel non detto, nel bianco della memoria. Ma il «cammino di Zärhingen», quella specie di odos sapienziale, non è concluso. Rimane il suo debito ipogeo: l’imparare a pensare, il mettersi propriamente a pensare; e adempierlo qui e ora (1993) nel modo a lui più congeniale e corrispondente 138
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(la prerogativa della testimonianza diretta, la seduzione come di una rinarrazione; e il sentimento del tempo, gli sguardi sul paese, le impressioni dell’ora, l’intesa fra il ritrattato e la sua contrada...). Raccontando a noi lettori, e raccontandosi, in una serie di episodi (dopo l’ingresso, come vuole l’etimologia, in quel cammino), una esperienza non estinguibile. E rendendoci non un supposto, bensì un vivente Heidegger. Gianni Scalia
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Note 1. Jean Beaufret, A propos de l’existentialisrne, in «Confluences» (Lione), nn. 2-6 (dal marzo al settembre 1945), poi in Introduction aux philosophies de l’existence. De Kierkegaard à Heidegger, DenoélGonthier, Paris 1971, e infine, con altri testi, De l’existentialisme d’Heidegger, Vrin, Paris 1986). Per quanto riguarda la defizione «Cézanne della filosofia», Beaufret si riferiva propriamente a Husserl. Come è noto, Beaufret, che incontrerà Heidegger a Friburgo nel settembre 1946, un anno dopo la visita di Towarnicki, è stato, fino alla morte, il maggior fautore della fortuna heideggeriana in Francia. Si veda, di Towarnicki, l’intervista con Beaufret: Jean Beaufret, Entretiens avec F. de Towarnicki, PUF, Paris 1984. Nell’edizione originale del presente libro è compresa la seconda parte, qui omessa, Naissance d’une question (Conversation avec Jean Beaufret). 2. In particolare Qu’est-ce la métaphysique?, Gallimard, Paris 1938. Traduzione e prefazione di Henri Corbin. Contiene, oltre che Cos’è la metafisica?, Dell’essenza del fondamento, Hölderlin e l’essenza della poesia, estratto da Essere e Tempo e da Kant e il problema della metafisica. 3. F. Fédier, Heidegger vu de France, in Regarder voir, Les Belles Lettres-Archimbaud, Paris 1995. 4. Le parole di Heidegger sono in una sua risposta del 23 novembre 1945 a Beaufret, prima dell’incontro del settembre 1946: cfr. in J. Beaufret, Introduction aux philosophies de l’existence, cit. p. 7 (Roger Kempf). 5. Per alcune, tradotte in italiano, sì vedano Hugo Ott, Martin Heidegger. Sentieri biografici, Sugarco, Milano 1988; Ernst Nolte, Martin Heidegger tra politica e storia, Laterza, Bari 1994; Rudiger Safranski, Heidegger e il suo tempo, Longanesi, Milano 1996. 6. Per i rapporti tra Heidegger e Sartre è ormai nota una lettera (sollecitata proprio dal “mediatore” Towarnicki) del 28 ottobre 1945, in cui il filosofo tedesco invitava il filosofo e scrittore francese a un incontro, non riuscito nell’immediato ma solo più tardi a Friburgo nel 1952. Lettera singolare, e senza risposta: tentativo per Heidegger di un presumibile confronto di idee “alla pari”, e insieme atto “diplomatico” per uscire, attraverso un aiuto indiretto di una personalità assai nota, dall’isolamento dovuto al processo intentato contro di lui. In fondo una ricerca di contatti, tra sincerità e di umanissimo “opportunismo” nella attribuzione a Sartre del titolo di Welgefdbrte, stante la radicale differenza di pensiero, attestata nella Lettera sull'«umanismo» (1946). La lettera, riportata da Towarnicki, è comparsa nella «Frankfurter Allemeine
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Zeitung» (30 novembre 1993) a cura di Hugo Ott. La si veda, ora, in M.Heidegger, Lettera sull’«umanismo», a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, pp. 109-110. L’incontro che Towarnicki cercava di favorire è raccontato con particolari significativi in un confronto implicito tra Heidegger e l'«esistenzialista umanistico» Sartre. «Il pensiero è inutile nell'immediato» scrive Towarnicki «Il contrario di ciò che diceva Sartre, il contrario di ciò che ascoltavo a Parigi». 7. Nella gioia dello stare insieme, cercare la verità: è il motto del Liceo, una frase di Sant’Alberto Magno, maestro di San Tommaso d’Aquino. 8. Di vergogna per il suo errore parla Heidegger in una lettera a Jaspers (amico «ritrovato» dopo la rottura, del 1936) dell’8 aprile 1950. «I fatti... non possono discolpare di niente; fanno vedere come di anno in anno a misura che il maleficio si scopriva, cresceva anche la vergogna di aver contribuito un giorno direttamente o indirettamente. Ma quando in seguito ho tentato, con le conoscenze e i mezzi a disposizione, di averne intelligenza storica, il fondo delle cose mi disperava» (M.Heidegger, Correspondance avec Karl Jaspers suivi de Correspondance avec Elisabeth Blochmann, Gallimard, Paris 1996, pp. 182-185). 9. Cfr. M. Heidegger, Pensiero e poesia, trad. A. Rigobello, Armando, Roma 1975, p. 35.
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INDICE 5.
Al lettore italiano, Frédéric de Towarnicki
7.
Incontro a Frédéric de Towarnicki, Beppe Sebaste
17.
Il cammino di Zähringen, Frédéric de Towarnicki
117.
Bibliografia
118.
Cronologia, Frédéric de Towarnicki
127.
Un messaggero che ricorda e racconta, Gianni Scalia
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Romanzo di iniziazione e di formazione Ritorno ad Heidegger nei ricordi del messaggero della Foresta Nera Frédéric de Towarnicki filosofo e intellettuale viene pubblicato dalle Edizioni Diabasis nel carattere Simoncini Garamond nel mese di ottobre dell'anno duemila15
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