Risonanze III. La memoria dei testi dal Medioevo a oggi 8820769018, 9788820769017

Come cambia un testo nel tempo? E cosa resta di quel testo nel tempo? Il volume raccoglie saggi di studiosi di varie dis

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Indice
Sui sentieri della memoria
Echi del Lazarillo in Rinconete y Cortadillo di Miguel de Cervantes
La trasformazione di un’opera prima: El estreno di Pablo d’Ors
Nordic metal, neofolk: l’eredità germanica in musica
La tragedia Axel e Valborg di Adam Oehlenschläger nella riscrittura per musica di Alessandro De Stefani (La Cattedrale, 1938)
P. B. Shelley ritrae Medusa
Le Voyage d’hiver di Georges Perec e la nozione oulipiana di plagiat par anticipation
Scritto, trascritto e riscritto. La teoria della natura nel medioevo tedesco
Passio Sancti Bartholomei apostoli: il valore didattico di un’agiografia secondo Ælfric
“What will happen to all that beauty then?”. Traducendo la bellezza nera con James Baldwin
Foxy Brown: Suoni e immagini nel cinema Blaxploitation
Riscrivere Jacques: frammenti di un discorso amoroso nel cinema di Agnès Varda
Pirandello e il teatro: intraducibilità dell’arte drammatica e magiche visioni
“That was an innocent child”. Unearthing the voice of the defeated in S. S. Morrison’s Grendel’s Mother
Bergtagning. Il mito del rapimento della montagna nelle riscritture femminili di Victoria Benedictsson ed Eva Ström
Storia di un racconto: Daisy Miller (1878) di Henry James
‘The Central Man in the World’: echi di Dante (e di Beatrice) nella cultura vittoriana
Le seduzioni del Male. Anatomia do paraíso (2015): Beatriz Bracher in dialogo con Milton
Quarta di copertina
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Risonanze III. La memoria dei testi dal Medioevo a oggi
 8820769018, 9788820769017

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RISONANZE III La memoria dei testi dal Medioevo a oggi a cura di Carmela Giordano

L IGUORI E DITORE

Risonanze III La memoria dei testi dal Medioevo a oggi a cura di

Carmela Giordano

Liguori Editore

Il volume è stato pubblicato grazie ai fondi del Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Comparati dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” I saggi raccolti in questo volume sono stati sottoposti a double-blind peer review

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche Liguori Editore Via Posillipo 394 – I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2020 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Dicembre 2020 Giordano, Carmela (a cura di) : Risonanze III. La memoria dei testi dal Medioevo a oggi/Carmela Giordano (a cura di) Napoli : Liguori, 2020   ISBN 978 – 88 – 207 – 6901 – 7 (a stampa)   eISBN 978 – 88 – 207 – 6902 – 4 (eBook) 1. Riscritture  2. Intertestualità  I. Titolo  II. Collana  III. Serie Aggiornementi: 2025 2024 2023 2022 2021 2020     10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

Indice 1 Sui sentieri della memoria

9

Echi del Lazarillo in Rinconete y Cortadillo di Miguel de Cervantes Augusto Guarino

27

La trasformazione di un’opera prima: El estreno di Pablo d’Ors Giuseppina Notaro

37

Nordic metal, neofolk: l’eredità germanica in musica Elena Di Venosa

49

La tragedia Axel e Valborg di Adam Oehlenschläger nella riscrittura per musica di Alessandro De Stefani (La Cattedrale, 1938) Andrea Meregalli

65

P. B. Shelley ritrae Medusa Marina De Chiara

75 Le Voyage d’hiver di Georges Perec e la nozione oulipiana di plagiat par anticipation Michele Costagliola d’Abele

89

Scritto, trascritto e riscritto. La teoria della natura nel medioevo tedesco Carmela Giordano

105

Passio Sancti Bartholomei apostoli: il valore didattico di un’agiografia secondo Ælfric Giuseppe D. De Bonis

121

“What will happen to all that beauty then?”. Traducendo la bellezza nera con James Baldwin Emanuela Maltese

135

Foxy Brown: Suoni e immagini nel cinema Blaxploitation Alessandro Buffa

 145

INDICE

Riscrivere Jacques: frammenti di un discorso amoroso nel cinema di Agnès Varda Anna Masecchia

153

Pirandello e il teatro: intraducibilità dell’arte drammatica e magiche visioni Paolo Sommaiolo

169

“That was an innocent child”. Unearthing the voice of the defeated in S. S. Morrison’s Grendel’s Mother Giuliano Marmora

185 Bergtagning. Il mito del rapimento della montagna nelle riscritture femminili di Victoria Benedictsson ed Eva Ström Angela Iuliano

201

Storia di un racconto: Daisy Miller (1878) di Henry James Tatiana Petrovich Njegosh

215 ‘The Central Man in the World’: echi di Dante (e di Beatrice) nella cultura vittoriana Marilena Parlati

229

Le seduzioni del Male. Anatomia do paraíso (2015): Beatriz Bracher in dialogo con Milton Maria Caterina Pincherle

Sui sentieri della memoria La Fama di cui Virgilio, nell’Eneide, celebrò lo smisurato potere è anche la più inaffidabile ed iniqua delle dee, più della stessa fortuna; gli uomini che godono dei suoi favori sono come gli insetti, che volano di notte intorno ad una lanterna, inebriandosi della sua luce. Si sentono splendidi, e in quel momento effettivamente lo sono, ma il loro trionfo dura pochissimo e non lascia tracce. Che memoria può avere la notte dei suoi insetti? E che memoria può avere, il tempo, degli uomini che lo fanno esistere, senza la scrittura? (Sebastiano Vassalli, Un infinito numero)

Con un nutrito gruppo di colleghi e amici ci siamo incamminati sui sentieri della memoria, intrecciando i nostri discorsi con parole che risuonavano già note, eppure sempre nuove. Il risultato di questo percorso è qui, in questo volume. Che, dunque, nasce da uno scambio molto entusiasmante sul testo e la sua eco nel tempo e nello spazio fra studiosi di varie discipline. Non è la prima volta che ci si avventura in un’impresa simile, potenzialmente rischiosa – il rischio è quello di perdersi in un contenitore troppo variegato di contributi – ma dal fascino indiscusso: verificare cioè quanto discipline e interessi culturali molto diversi fra loro possano convergere in un punto comune e creare una relazione armoniosa fra la propria esperienza del testo e quella vissuta dagli altri. Intorno al tema della ricezione e della trasformazione di un testo studiosi di lingue e letterature europee antiche e contemporanee, di teatro e di cinema, di formazione e provenienza accademiche diverse hanno confrontato le proprie esperienze e creato un’occasione di dialogo e di crescita. Il Leitmotiv dei saggi di questo volume è quello della memoria che i testi conservano attraverso i secoli e nel tempo in generale, ma anche in dimensione sincronica, attraverso la molteplicità di forme e funzioni assunte dal testo. Come non pensare,



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per esempio, al libro che più o meno contemporaneamente alla sua nascita già diventa film o pièce teatrale o alla trasposizione teatrale di un film (e viceversa)? I contributi offerti dagli studiosi coinvolti in questo confronto offrono la possibilità di indagare su ampia scala e in prospettiva interdisciplinare il rapporto fra il testo e il pubblico, sia in dimensione diacronica (la tradizione testuale, la ricostruzione del testo, le sue trasformazioni nel tempo in relazione al pubblico e in dipendenza del medium utilizzato, delle nuove tecnologie ecc.), sia in senso sincronico (l’intertestualità, il rapporto autore-pubblico, le forme di comunicazione, le trasposizioni dalla scrittura alle arti visive), con le specificità di ogni ambito. In un discorso di questo tipo la traduzione di un testo si intreccia con la tradizione testuale: a ogni lettura si crea una ‘traduzione’, una trasposizione necessaria che diventa trascrizione, adattamento, reinterpretazione, e ottiene nuova vita in un’altra lingua, un’altra forma, un’altra messa in scena, un altro ascolto. Il volume si apre con lo studio di Augusto Guarino che si propone di tracciare un bilancio della presenza del Lazarillo de Tormes (scritto e pubblicato in Spagna nel 1554 da un autore anonimo), primo esemplare della letteratura picaresca, in alcune opere dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes, in particolare nel Rinconete y Cortadillo, una delle Novelas ejemplares, pubblicate nel 1613. E resta in area spagnola con il saggio di Giuseppina Notaro che si muove in un contesto di auto-riscritture, descrivendo le trasformazioni de El estreno, la raccolta di racconti opera prima dello scrittore spagnolo Pablo d’Ors, che nella pubblicazione del 2000 conta sette relatos. Nella pubblicazione del 2015 sarà l’autore stesso a sostituire un racconto con uno nuovo e ad aggiungere un epilogo alla raccolta. Il testo si rivela un omaggio a vari scrittori che sono stati e sono punto di riferimento per l’autore. Dunque, l’autore ricompone, riscrivendola, la sua stessa opera e questa cambia in rapporto all’evoluzione e alla crescita personale di chi l’ha creata. L’eco di un testo può attraversare i secoli e tradursi in sonorità e forme diverse da quelle di partenza. Può trattarsi di un’opera letteraria che trova una declinazione musicale o di un testo pittorico che trova una sua eco in un poema. Di una risonanza “musicale” di un testo letterario abbiamo alcuni esempi anche nel presente volume, ma risalta per la particolarità delle sue riscritture la testimonianza di tracce delle antichità germaniche nella musica moderna. Il contributo di Elena Di Venosa descrive lo scenario musicale nordeuropeo che si

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ispira alle antichità germaniche, in cui si menzionano generi musicali detti Neofolk e Nordic Metal, Gothic, Dark Ambient e Ritual, sicuramente di nicchia ma con un incremento di interesse nel pubblico più vasto dopo il successo della serie televisiva Vikings. Su tutte le proposte degli ultimi anni in questo campo spicca la band Heilung, un gruppo misto di musicisti tedeschi, danesi e norvegesi fondato nel 2014 che si ispirano a testi letterari germanici antichi. Particolare attenzione è dedicata dalla Di Venosa alla canzone Futhorc (2015) che recita gran parte del Poemetto runico anglosassone. In ambito musicale e germanico si muove anche lo studio di Andrea Meregalli che si sofferma sul rapporto fra un’opera dello scrittore romantico danese Adam G. Oehlenschläger (1779-1850), la tragedia Axel og Valborg (Axel e Valborg), scritta nel 1808 e pubblicata nel 1810, e la rappresentazione del melodramma in tre atti La cattedrale, con musiche di Mario Mariotti a libretto di Alessandro De Stefani, messa in scena al Teatro Donizetti di Bergamo il 21 settembre 1938. De Stefani aveva già dedicato attenzione all’opera dell’autore danese, pubblicando nel 1916 Hakon Jarl il conte, traduzione di un’altra tragedia, condotta su un’edizione francese, ma con la tragedia Axel og Valborg si realizza una vera e propria riscrittura. Andrea Meregalli si sofferma sul testo del De Stefani per indagare in che modo l’autore abbia utilizzato la sua fonte per adattarla al teatro d’opera e per tentare di appurare se anche in questo caso l’autore si sia servito della versione francese o se abbia attinto anche ad altre fonti per il suo lavoro. Un’opera d’arte pittorica può essere fonte di ispirazione per una poesia. Ne deriva una riscrittura poetica di un’immagine. Lo dimostra Sulla Medusa di Leonardo da Vinci nella Galleria fiorentina scritta da Percy Bysshe Shelley nel 1819 e pubblicata nel 1824. Come afferma Marina De Chiara nel suo saggio P. B. Shelley ritrae Medusa, questo manifesto del romanticismo – in cui il tema del sublime è evocato dall’immagine del volto orrido di Medusa decapitato – riscrive in versi le oscurità con cui Leonardo ha ritratto il volto della creatura mitologica ed evoca nel lettore moderno anche altri significati simbolici che si sprigionano dal riflesso delle serpi della testa di Medusa. Talvolta l’opera assume – più o meno intenzionalmente – una forma aperta che è di per sé un incentivo al cambiamento, da parte dell’autore o di altri scrittori contemporanei o posteri. Quando nel 1979 viene pubblicato il breve racconto Le voyage d’hiver sulle avventure di un giovane docente di lettere che sconvolge con una sua scoperta varie certezze sulla letteratura francese, l’autore oulipiano Georges Pe-



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rec è probabilmente già consapevole, come si deduce dall’affascinante mise en abyme, che l’intertestualità che caratterizza il suo testo è già di per sé un’apertura alla riscrittura di altri scrittori oulipiani. Come dimostra il saggio di Michele Costagliola d’Abele, in virtù di una fitta rete di rimandi intra- e intertestuali, si crea un unicum narrativo, una sorta di primo romanzo oulipiano collettivo. Del resto, a volte è proprio la strutturazione iniziale di un’opera a creare il presupposto per una rielaborazione successiva. Per esempio, la forma dialogica di un testo, costruita su uno schema di domanda e risposta fra allievo e maestro, com’era molto in voga nel medioevo latino e divenne un’abitudine frequente anche nelle letterature in volgare, getta le basi di un’opera aperta, alla quale si possono aggiungere o sottrarre unità dialogiche o ampliare solo la risposta o, ancora, dare una risposta completamente nuova a una domanda già esistente nel testo originale. Anche questo è un modo che il testo ha per adattarsi al tempo, alle nuove conoscenze, al nuovo con-testo, e continuare a risuonare. Il saggio di Carmela Giordano illustra due casi di riscrittura della teoria dei temperamenti in area tedesca medievale attraverso due opere scientifiche (fachliterarisch) strutturate, seppure in modo diverso, in forma di dialogo fra maestro e allievo, il Lucidarius e la cosiddetta Mainauer Naturlehre, e dimostra come la rielaborazione di un testo, che passa attraverso fasi come la traduzione, l’adattamento e l’ampliamento, sia a volte inscindibile dalla tradizione testuale, di cui volente o nolente rappresenta una testimonianza. Ma la ripresa e la rilettura di un testo, con conseguente riscrittura, può avere anche fini didattici. Nel contributo di Giuseppe D. De Bonis si analizza la vita di San Bartolomeo nella tradizione latina e in quella in inglese antico, in quest’ultima nella versione di Ælfric di Eynsham che gli dedicò l’omelia 31 della prima serie dei Sermones Catholici. L’autore vuole illustrare il metodo adottato da Ælfric nella stesura dell’omelia e le ragioni dietro la sua scelta di questo testo come strumento didattico per combattere la tendenza degli illitterati ad affidarsi a falsi idoli e alla magia, anziché a Dio e alla preghiera. Una relazione anche più stretta si instaura fra la realtà letteraria contenuta in alcuni testi e quella extratestuale, sociale e politica, come si evidenzia nell’opera di James Baldwin in cui centrale è la riflessione sulla rappresentazione letteraria e cinematografica dell’American Negro, argomento del contributo di Emanuela Maltese “What will happen to all that beauty then?”. Traducendo la bellezza nera con James Baldwin. L’autrice si propone di analizzare la rivendicazione di una

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“bellezza nera” che sfugga alle logiche di potere, sia del famoso slogan “Black is beautiful” degli Anni Sessanta che del suo contrario, il “nero” come problema. Un “problema” che i fatti recenti dell’assassinio di George Floyd con le conseguenti manifestazioni “black lives matter” rivelano essere molto attuale. Attraverso questo studio estetico e politico dell’opera di Baldwin si arriva a constatare la quasi impossibilità di tradurre la complessità dell’esperienza afro-americana sia nella scrittura che nel cinema e alla conclusione di rivalutare la necessità di “rileggere, riscrivere, rivedere, ripensare e (ri)sentire empaticamente” per riuscire a tradurre con Baldwin “tutta quella bellezza nera”. Ancora sulla cultura nera interviene Alessandro Buffa (Foxy Brown: suoni e immagini dalla blaxploitation) che prende in analisi le eroine dei film neri anni ’70, come Foxy Brown (interpretata da Pam Grier), personaggi quasi alieni, belle, forti e imbattibili in azione in questi film che fanno emergere una città abbandonata dalle istituzioni, povera e ancora più impoverita dalla fuga dei bianchi, una città nera in cui le icone della comunità afroamericana guideranno la popolazione verso la “Seconda Ricostruzione”. Con il contributo di colonne sonore di un funk futuristico, questi linguaggi filmici sottolineano incessantemente che il passato della tratta degli schiavi non è ancora risolto. Sempre in ambito cinematografico, ma in un contesto completamente diverso, si muove il saggio di Anna Masecchia, sulla cinécriture di Agnès Varda che ritorna su quanto da lei stessa realizzato per rielaborare il presente con il passato, anche attraverso altre scritture (per esempio, da storica dell’arte quale lei era, quelle pittoriche, ricorrendo spesso alla forma del tableau vivant), riutilizzando fotografie e materiale filmico. Si creano così, parafrasando Roland Barthes, frammenti di un discorso amoroso. Quando nel 1990 Varda perde il suo compagno di vita e artistico, Jacques Demy, elabora il lutto cercando di fermarne presso di sé il ricordo. Ne racconta la vita e ne riscrive i film e in particolare con il primo film in Jacquot de Nantes (Garage Demy, 1991) – dove l’autobiografia di Jacques, dalle pagine di un diario, diventa la base per la riscrittura di scene e sequenze di film del marito – Agnès Varda contemporaneamente dichiara tutto il suo amore per il marito e per il cinema. Non poteva mancare in questo discorso sulla memoria dei testi un riferimento alla nobile arte del teatro, in particolare nel contesto delle autoriscritture. Su Pirandello e il suo contrastato rapporto con il teatro si concentra il saggio di Paolo Sommaiolo. Dal 1916 in poi Pirandel-



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lo compone più di quindici commedie, nonostante inizialmente non fosse molto interessato alla forma drammatica. Nonostante il successo internazionale di Sei personaggi in cerca d’autore e la sua direzione di una compagnia di attori fondata a Roma nel 1925, il Teatro d’Arte, Pirandello continua a manifestare nei suoi scritti molta avversione verso quest’arte, considerata inadeguata a rappresentare la vera natura dei personaggi come partorita dalla mente dell’autore. Ma nel 1923 assiste alla messa in scena dei Sei personaggi, per la regia di Georges Pitoëff, e inizia a maturare l’idea di un teatro come ‘spazio mentale’: l’azione scenica assume sempre più i contorni di un rito di evocazione e il testo teatrale, alla stregua di un libro di formule magiche, contiene le istruzioni per avverare l’incantesimo. C’è poi una riscrittura ‘di genere’, come risultato della rielaborazione di un’opera precedentemente incentrata su un protagonista maschile o che declina al maschile un simbolo arcaico, un mito. In questa direzione si muove il saggio di Giuliano Marmora che interviene sul mito di Beowulf e, fra le tante riscritture che si possono citare di quest’antica epica germanica, si concentra sul romanzo di S.S. Morrison Grendel’s Mother, pubblicato nel 2015, allo scopo di rivelare le ideologie presenti nel processo di riscrittura di Morrison attraverso un serrato confronto del suo testo con l’originale in inglese antico. Si rivelano così due direzioni principali del testo di Morrison, una prospettiva femminista e l’esigenza di dar voce agli sconfitti perché non cadano nell’oblio del tempo e della storia. Due autrici svedesi, Victoria Benedictsson e Eva Ström, nel 1890 e nel 1979 rispettivamente, scrivono due opere che saranno lette come riappropriazione femminile del mito della montagna. Di questo si occupa il saggio di Angela Iuliano che descrive il bergtagning partendo da una delle prime testimonianze nella Heimskringla di Snorri (XII secolo): il mito si basa sulla credenza popolare che la montagna potesse rapire le persone senza più restituirle, oppure cambiandole totalmente e privandole di senno. Un mito nordico che è durato fino ai nostri giorni, largamente diffuso e riscritto persino nella cultura di massa, come dimostrano alcuni testi degli Ulver, gruppo metal norvegese. La Iuliano rilegge i testi delle due scrittrici svedesi come espressione di una volontà di riappropriazione del mito in termini di consapevolezza dell’identità femminile. E così il rapimento della montagna diventa cifra dell’esperienza sofferta di una soggettività negata e questa limitazione è raccontata con una nuova consapevolezza frutto di un processo di autocoscienza femminile e femminista.

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La donna è anche al centro dell’intervento di Tatiana Petrovich Njegosh sulla Daisy Miller di Henry James, apparso per la prima volta in Gran Bretagna nel 1878 con il titolo Daisy Miller: a Study. Già nella sua ripubblicazione in volume nel 1879 e poi nel 1909, il testo è sottoposto a una revisione significativa, oltre a essere corredato di una prefazione e un ulteriore cambio di titolo. La ragazza americana nella sua avventura nel Vecchio Mondo non è certo un tema originale, ma il racconto è uno dei pochi successi di James in vita: il personaggio di Daisy viene contestualizzato nella querelle critica sul genere, sulla classe sociale e sulla razza e sul rapporto Stati Uniti d’America-Europa. Il modello femminile per eccellenza, l’allegoria del femminino rappresentata da Beatrice, è preso in considerazione da Marilena Parlati nell’analisi della risonanza di Dante (e della sua Beatrice) nella cultura vittoriana. Per i Vittoriani Dante è oggetto di continui riadattamenti della figura, delle opere e in tutte le suggestioni, con una quasi ossessiva attenzione – anche pittorica – alla donna oggetto di questi grandi omaggi poetici da parte del suo amante, Beatrice. La Parlati propone una panoramica su questo percorso di riadattamento, soprattutto delle versioni della donna angelicata per eccellenza, nel secondo Ottocento britannico. Il punto di arrivo della Divina Comedia, il Paradiso, diventa punto di partenza nel titolo e nel saggio di Maria Caterina Pincherle Le seduzioni del Male. Anatomia do paraíso (2015): Beatriz Bracher in dialogo con Milton, che rilegge il romanzo della scrittrice brasiliana per indagare il dialogo instaurato con Paradise Lost di Milton dalla prospettiva del quotidiano attuale a Rio de Janeiro. La realtà narrata dalla scrittrice e quella letta nel Paradise Lost elevano il discorso su un piano più ampio e universale. Giunti a questo punto possiamo affermare che, se molteplici e varie si sono rivelate le risonanze in questo viaggio nella memoria dei testi, infiniti sono gli spunti di ricerca e gli scambi di idee che continuano a fermentare anche oltre le pagine di questo volume1. Carmela Giordano Ottobre 2020

1

Ringrazio di cuore il dr. Giuliano Marmora per la gentile collaborazione alla revisione del presente volume.

Echi del Lazarillo in Rinconete y Cortadillo di Miguel de Cervantes Augusto Guarino Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” [email protected]

Quando nel 1613 Miguel de Cervantes dà alle stampe la sua raccolta di Novelas ejemplares può a giusto titolo vantarsi di essere il “primero que ha novelado en lengua castellana” (Cervantes, 2001: 19).1 In effetti, gli sporadici precedenti spagnoli in questo senso erano stati caratterizzati da scarsa originalità e da una qualità letteraria spesso carente.2 Si è detto che Cervantes con la sua collezione introduce in Spagna la novella all’italiana; in questo senso, sarebbe interessante ripercorrere l’intera gamma di echi e di risonanze che si producono tra Cervantes e il corpus di novellieri italiani, che egli – a cominciare dal Decameron – certamente conobbe.3 Se da una parte Cervantes è ben attento a sfumare e diluire nel suo tessuto narrativo i debiti che egli intrattiene con gli autori della classicità (ad esempio con Apuleio) e della più recente tradizione europea, dall’altra egli è molto sensibile agli sviluppi che l’arte narrativa sta avendo nella contemporaneità, soprattutto in Spagna. 1 La princeps del testo è Novelas exemplares de Miguel de Cervantes Saauedra. Dirigido a don Pedro Fernandez de Castro, Conde de Lemos, [...] Año 1613, en Madrid, por Juan de la Cuesta. Mi rifaccio al testo di Cervantes 2002, da cui traggo tutte le citazioni. Sul portale allestito dall’Universitá di Verona è disponibile un’edizione digitale del testo originale e delle due prime traduzioni italiane seicentesche http://cervantes.cab.unipd.it/public/ 2 Mi sono occupato delle prime imitazioni spagnole della novellistica boccacciana e più in generale italiana in Guarino 1993. 3 La prima traduzione spagnola del Decamerón appare a Sevilla (Meinardo Ungut y Estanislao Polono, 1496) e ha varie riedizioni, fino alla proibizione del 1559. Va detto che Cervantes, grazie anche alla sua permanenza in Italia per cinque anni, poté leggere il testo anche nell’originale, eventualmente in una edizione non censurata. Sulle poetiche italiane e Cervantes, cfr. il recente intervento di Rubio 2013.

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

Uno dei filoni narrativi con cui Cervantes intrattiene una dialettica intensa quanto originale è quello del cosiddetto romanzo picaresco, o più esattamente dei libros de pícaros, che lascia tracce profonde in varie delle sue opere narrative e drammatiche. Certamente l’evento che fece esplodere, dal punto di vista letterario ed editoriale, il fenomeno della narrativa picaresca è la pubblicazione, da parte di Mateo Alemán nel 1599, della prima parte del Guzmán de Alfarache, opera che guadagnò subito un vivo interesse da parte del pubblico di lettori, testimoniato dalle molte edizioni in pochi anni e dalle precoci traduzioni in lingue straniere. A questo successo corrisponde anche la pubblicazione di una continuazione apocrifa, nel 1602, da parte di un oscuro Mateo Luján (identificato poi nel letterato valenzano Juan Martí), e l’apparizione nel 1604 della seconda parte autentica di Mateo Alemán.4 Da questi eventi editoriali in poi è difficile per uno scrittore spagnolo non confrontarsi con il genere e con gli ambienti picareschi. Cervantes dà mostra di avere letto e assimilato la lezione di Mateo Alemán, anche se la critica non sempre è stata unanime nel valutarne l’apprezzamento.5 C’è da chiedersi, tuttavia, quanto Cervantes conoscesse e avesse metabolizzato quello che deve essere considerato il capostipite delle narrazioni picaresche, cioè il Lazarillo de Tormes, libro da cui lo stesso Mateo Alemán aveva ripreso alcune formule di base del genere, ma che per altri aspetti presenta una proposta narrativa che può essere divergente e alternativa rispetto alla realizzazione alemaniana e di coloro che si metteranno nel suo solco.6 È abbastanza evidente che Cervantes, come una buona parte degli autori del suo tempo, lesse il Lazarillo, lasciandone traccia non solo nelle sue narrazioni che appaiono più esplicitamente richiamarsi al genere picaresco ma anche nel Don Quijote, in vari episodi del Persiles e in alcune delle sue opere teatrali. Recentemente ha scritto Rosa Navarro Durán:

4

La prime edizioni del Guzmán de Alfarache di Mateo Alemán sono: Primera parte de la vida de Guzmán de Alfaracbe, atalaya de la vida humana, Madrid, 1599; Segunda parte de Guzmán de Alfarache, atalaya de la vida humana, Lisboa, 1604. La continuazione “apocrifa” appare invece come La segunda parte de la vida del pícaro Guzmán de Alfarache por Mateo Luján de Sayavedra, Valencia,1602. Il dato sorprendente è che la continuazione apocrifa venne ristampata in almeno dieci diverse edizioni tra il 1602 e il 1604. 5 Si veda ad esempio Joly 1999. 6 Traggo tutte le citazioni del Lazarillo dalla recente edizione bilingue Lazarillo de Tormes 2017 (a cura di Antonio Gargano, Marsilio), nella quale il lettore non ispanista può trovare, oltre all’ottima traduzione, un’ampia ricostruzione del dibattito critico sull’opera.

ECHI DEL LAZARILLO IN RINCONETE Y CORTADILLO DI MIGUEL DE CERVANTES

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“No hay, pues, ninguna duda de que Cervantes leyó muy bien el Lazarillo de Tormes porque lo manifiesta [...] La vida de Lazarillo de Tormes, aunque no estuviera en la biblioteca de don Quijote, sí estaba en la de don Miguel de Cervantes, y que, a menos que tuviera la excelente memoria de su héroe, la leyó y releyó” (Navarro Durán 2004: 107).

Tra le dodici narrazioni proposte nelle Novelas ejemplares ve ne sono varie in cui Cervantes conduce un esplicito confronto creativo, a tratti apertamente polemico, con il genere picaresco, a cominciare da quella che apre la raccolta, La Gitanilla (ambientata nel mondo degli zingari della fine del Cinquecento), fino alle ultime due del Casamiento engañoso y Coloquio de los perros (che con la picaresca condividono ambienti, modelli letterari e tecniche narrative), passando per El licenciado Vidriera e La ilustre fregona. Quella però che si richiama più direttamente al genere picaresco è la terza della raccolta, Rinconete e Cortadillo, storia di due ragazzini vagabondi, dediti il primo al gioco d’azzardo e il secondo a furtarelli, che fanno amicizia in una locanda e che poi si recano insieme a Siviglia, dove vengono introdotti in un’organizzazione che controlla le attività malavitose in tutta la città. Fin dai primi interventi critici si è notato che, rispetto allo standard della narrativa picaresca, centrata in genere sulle avventure di uno o più personaggi, Rinconete y Cortadillo racconta poco e appare indugiare nell’esibizione compiaciuta di dialoghi e di scene, in una prospettiva quasi più teatrale che narrativa,7 e – soprattutto nella seconda parte – nella rappresentazione di ambienti e di personaggi pittoreschi. Il che, a mio avviso, è vero solo in parte. La novella è articolata in almeno tre parti (più una coda finale), delle quali la prima costituisce la presentazione, in narrazione retrospettiva, dei due personaggi, nella quale sono presenti dei chiari riferimenti alla tradizione narrativa costituita dal Lazarillo e dal Guzmán de Alfarache. Da qui prende subito le mosse – da quando i due ragazzini si coalizzano e ingannano al gioco un mulattiere – una seconda parte, costituita da alcune avventure propriamente picaresche dei due ragazzi (il furto in una valigia dei viaggiatori con cui vanno a Siviglia, la sottrazione di alcune monete a un sacrestano, l’adozione del mestiere di esportillero). Segue la lunga sequenza ambientata nel cortile sivigliano del capo dell’organizzazione, Monipodio, nella quale effettivamente i due ragazzi sono più spettatori che protagonisti, e in cui, attraverso il dialogo fra i vari personaggi, vengono presentati una serie di caratteri e di nuclei 7

Si veda ad esempio Sánchez 1989 e Wesson 1990.

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episodici di chiaro tono picaresco, nei quali sono tutt’altro che assenti echi di figure e motivi presenti sia nel Lazarillo che in altre narrazioni della serie picaresca, ad esempio, nel Buscón di Quevedo. Chiude la novella un’ampia riflessione di Rinconete su tutto ciò che i due ragazzi hanno visto e ascoltato nel cortile di Monipodio, tendente a raccordare la recente esperienza con quello che hanno vissuto nel passato. Anche la promessa di continuare il racconto delle avventure (“se deja para otra ocasión contar su vida y milagros”, Cervantes, 2001: 215) è un chiaro omaggio alla tendenza alla serialità che appare precocemente nel genere.8 Se è vero, quindi, che tutta la parte ambientata nel cortile di Monipodio ha un andamento più scenico che narrativo, e quindi più in sintonia un certo teatro dei bassifondi di moda già negli ultimi decenni del Cinquecento e che continuerà in varie forme durante tutto il Siglo de Oro,9 tutta la parte che riguarda i due giovani protagonisti ha un carattere narrativo del tutto in linea con i modelli del nascente romanzo picaresco. In questa sede proporrò una valutazione degli echi e delle risonanze del Lazarillo che si possono riscontrare in Rinconete y Cortadillo.10 Prima di provare a fare qualche considerazione in tal senso vanno però affrontate un paio di questioni. Anzitutto: quando lesse Cervantes il Lazarillo de Tormes? E, accanto a questa, una questione contigua e di certo non irrilevante: quale testo di Lazarillo lesse? La storia della diffusione e della ricezione del Lazarillo dà infatti testimonianza di un’opera che riceve immediatamente una grande attenzione da parte dei lettori, come attestano le quattro edizioni più antiche pervenuteci – successive a una princeps perduta – stampate nello stesso 1554 da quattro editori diversi e in quattro diverse città (di cui una fuori del territorio spagnolo: Medina del Campo, Alcalá, Burgos e Anversa), ma la cui circolazione è ostacolata dall’introduzione dell’opera nel primo Indice dei libri proibiti del 1559.11 Il fatto che la princeps risulti a 8 Va ricordato che, tra le quattro edizioni pervenuteci del 1554, quella di Alcalá già contiene interpolazioni e la promessa di una continuazione e quella di Anversa, negli esemplari che conosciamo, va sempre accompagnata da una Segunda parte apocrifa e con tutta probabilità di diverso autore. Del Guzmán de Alfarache e delle sue continuazioni si è già detto sopra. 9 Si pensi ad alcune commedie di Lope de Vega scritte e rappresentate negli ultimi decenni del Cinquecento, come El caballero del Milagro o El rufián Castrucho, in cui compaiono disinvoltamente soldataglie, prostitute e altri personaggi propriamente picareschi. Juan Oleza, per le commedie di questo tipo di questo periodo ha proposto la definizione di “comedias de pícaro” (Oleza: 1991). 10 Si sono recentemente occupati del rapporto tra Cervantes e il Lazarillo Calzón García 2016 e Sáez 2017, intervenendo soprattutto sul tema dei modelli estetici ed etici della picaresca. 11 L’indice dei libri proibiti redatto dall’inquisitore Fernando de Valdés nel 1559: Cathalogus Librorum, qui prohibentur mandato Illustrissimi & Reverendissimi D.D. Ferdinandi de

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tutt’oggi sconosciuta (così come forse altre edizioni intermedie) e che delle edizioni del 1554 restino pochissimi esemplari (uno dei quali, quello di Medina del Campo, ritrovato per caso solo nel 1992) è la dimostrazione di quanto potesse essere efficace l’Inquisizione nell’ostacolare la diffusione di un’opera letteraria ritenuta scandalosa. A partire dal 1559, cioè da quando Cervantes ha appena dodici anni, il Lazarillo de Tormes è in Spagna un’opera proibita, il cui semplice possesso poteva causare la denuncia alle autorità e l’accusa di eresia. Solo a partire dal 1573 si permetterà la circolazione in Spagna di una versione expurgada del testo, mutilata di alcuni degli elementi più critici verso le istituzioni del tempo.12 In altri paesi, tuttavia, continueranno a circolare alcune edizioni integrali, che riprendono fondamentalmente quella di Anversa del 1554. Porsi il problema del quando e del cosa lesse Cervantes (ed eventualmente del dove) ci può anche aiutare a capire come recepì e reinterpretò il Lazarillo de Tormes. Al tempo stesso, va preliminarmente richiamata anche la storia redazionale di Rinconete y Cortadillo, con le testimonianze che ci portano a considerare la sua composizione (almeno in una prima versione) non posteriore al 1604 e avvenuta in almeno due redazioni alternative. Il testo è infatti citato in un famoso passaggio della prima parte del Quijote: “El ventero se llegó al cura y le dio unos papeles, diciéndole que los había hallado en un aforro de la maleta donde halló la Novela del curioso impertinente, y que pues su dueño no había vuelto más por allí, que se los llevase todos, que pues él no sabía leer, no los quería. El cura se lo agradeció y, abriéndolos luego, vio que al principio de lo escrito decía: Novela de Rinconete y Cortadillo, por donde entendió ser alguna novela y coligió que, pues la del Curioso impertinente había sido buena, que también lo sería aquella, pues podría ser fuesen todas de un mesmo autor; y, así, la guardó, con prosupuesto de leerla cuando tuviese comodidad” (Cervantes 1999: 542).

Con una mise en abîme, Cervantes nel Quijote annuncia al suo lettore l’esistenza di una novella, come quella del Curioso impertinente intercalata nel romanzo, già scritta prima della redazione finale del romanzo (che Valdes Hispalensis, in cui erano comprese anche opere di intrattenimento come il Decameron boccacciano, la Propalladia di Torres Naharro e il Lazarillo. 12 Nella prima edizione, peraltro, appare quasi in appendice, insieme all’edizione altrettanto purgata delle opere di Torres Naharro: Propaladia de Bartolome de Torres Naharro y Lazarillo de Tormes. Todo corregido y emendado por mandado del consejo de la Santa y General Inquisición, Madrid, Pierres Cosín, MDLXXIII. Solo qualche anno dopo si stamperanno alcune edizioni autonome del Lazarillo censurato.

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era già pronto per l’approvazione della censura nell’autunno 1604). È quindi probabile che la novella, almeno in una sua prima stesura, sia stata scritta in un periodo compreso tra l’apparizione della prima parte del Guzmán de Alfarache e la seconda, che è appunto del 1604. In altri termini, è probabile che la riscrittura picaresca cervantina si verifichi, a caldo, immediatamente a ridosso della pubblicazione e del successo del Guzmán de Alfarache, riprendendo, accanto all’esempio di Mateo Alemán, anche suggestioni della lettura un po’ più remota del Lazarillo de Tormes. Sempre a proposito della precoce ricezione del modello picaresco da parte di Cervantes, va ricordato che Rinconete e Cortadillo era poi contenuta, in una versione che presenta rilevanti varianti rispetto a quella poi data alle stampe, in una miscellanea manoscritta, il cosiddetto Manuscrito Porras de la Cámara, che venne redatto a pochi anni dalla pubblicazione della prima parte del Quijote (probabilmente tra il 1606 e il 1608)13 e che restò inedito fino al XVIII secolo. La miscellanea manoscritta conteneva anche le novelle El celoso extremeño (la settima di quelle incluse nelle Novelas ejemplares) e La tía fingida (che in genere la critica ritiene di diverso autore).14 Il che dà un’ulteriore testimonianza sia di una progressiva elaborazione – distribuita nel corso degli anni – del testo della novella, che di una circolazione sotterranea di testi che si rifanno ai temi e agli ambenti della picaresca. C’è da chiedersi, a questo punto, quali siano gli elementi del Lazarillo che Cervantes, in una maniera più o meno consapevole, possa avere ripreso in Rinconete y Cortadillo. Partirei, anzitutto, dal titolo: Rinconete y Cortadillo non può non riecheggiare quello di Lazarillo. 13

Il testo di Rinconete y Cortadillo era compreso, insieme ad altri scritti vari, nella miscellanea manoscritto compilata da Francisco Porras de la Cámara e che includeva anche il testo La tía fingida (una novella talvolta attribuita allo stesso Cervantes, ma con tutta probabilità di altra mano) e El celoso extremeño. L’esemplare del manoscritto contenente le tre novelle, che hanno importanti varianti rispetto ai testi dati alla stampa nell’edizione del 1613, rimase custodito presso la Biblioteca de los Reales Estudios de San Isidro di Madrid fino alla sua scoperta da parte di Isidoro Bosarte, segretario della Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, che lo ritrovó nel 1788 e ne diede notizia pubblicandolo nel Gabinete de Lectura Española. L’originale del manoscritto Porras andó purtroppo disperso nel 1823 durante un’alluvione. È impossibile stabilire con certezza quanto delle varianti contenute in questa versione siano d’autore e quante dovute al compilatore, ma una parte consistente della critica ha ritenuto la versione del Manuscrito Porras una redazione precoce del testo, maggiormente propensa a toni scurrili e a temi scabrosi, che sarebbero stati mitigati dallo stesso Cervantes in occasione della presentazione del testo alla censura, a ridosso della pubblicazione del 1613. Sul Manuscrito Porras si veda il recente contributo di Lucía Megías 2018. 14 Il testo di Rinconete y Cortadillo, nella versione del Manuscrito Porras, è riprodotto in Cervantes 2001 (pp. 651-682), così come la versione di Porras di El celoso extremeño e il testo de La tía fingida.

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Negli ultimi decenni, in ambito critico è diventata un’opinione consolidata, così accettata da diventare luogo comune, il fatto che Lazarillo de Tormes sarebbe un titolo inappropriato per il libro e dovuto più all’iniziativa dell’editore che all’autore.15 Che si sia d’accordo o no, in merito al Lazarillo – e personalmente serberei almeno qualche dubbio – a Cervantes, nel momento di redigere la novella, il titolo comprendente il diminutivo del nome del protagonista dovette sembrare ben adeguato a denominare personaggi ancora non adulti e dediti ad attività precarie, quando non decisamente delinquenziali: “dos muchachos de hasta edad de catorce a quince años: el uno ni el otro no pasaban de diez y siete; ambos de buena gracia, pero muy descosidos, rotos y maltratados” (Cervantes 2001: 161). Sia Rinconete (colui che segna gli angoli – i rincones – delle carte per barare) che Cortadillo (il tagliatore di borse) sono evidentemente dei talking names, come quello di Lazarillo. Nel romanzo è abbastanza esplicito che Lázaro si chiama così per sottolineare la vicinanza fonetica del nome con il verbo lazdrar, passare stenti e tormenti.16 Nella novella è lo stesso Monipodio che così ribattezza i due ragazzi, individuando proprio la versione con il diminutivo adeguata a designare i due giovani picaros: “vos, Rincón, os llaméis Rinconete, y vos, Cortado, Cortadillo, que son nombres que asientan como de molde a vuestra edad y a nuestras ordenanzas” (Cervantes, 2001: 185-6).17 Cervantes è dunque il primo a riprendere nel titolo il diminutivo di quello del Lazarillo, nel proporre a sua volta un adolescente emarginato (anzi, due) come protagonista del racconto.18 15 Se già Claudio Guillén aveva affermato che “Lázaro, más que Lazarillo, es el centro de gravedad de la historia” (Guillén 1988: 57), più recentemente era stato perentorio Francisco Rico considerando: “el inoportuno diminutivo que se leía al pie: La vida de Lazarillo de Tormes [...] Inoportuno, inexacto, contradictorio y hasta contradicho expresamente por el texto [...] un auténtico disparate” (Rico 1988: 128 e 137). 16 Il testo gioca spesso sull’assonanza con termini come laceria e lacerado: “yo tomaba aquella laceria que él me daba” (Lazarillo 2017: 120); “toda la laceria del mundo estaba encerrada en este” (140); “más pan que la laceria que me solía dar” (150); “remediar y pasar mi laceria” (152); “todavía saqué alguna laceria” (152); «-Qué es esto Lazarillo? ¡Lacerado de mí! – dije yo» (130). Sempre nel romanzo ci sono altri talking names, ad esempio, il padre di Lázaro si chiama Tomé (forma popolare di Tommaso, ma anche passato del verbo tomar, prendere) perché è un ladro. 17 D’altra parte nel testo vengono nominati con il diminutivo altri ragazzini dediti a occupazioni picaresche: “Sí -dijo la guía, que Ganchuelo era su nombre” (Cervantes 2001: 187); “no tardará mucho a venir Silbatillo, tu trainel” (Cervantes 2001: 192); “envió a pedir con Cabrillas, su trainel” (Cervantes 2001: 197); “topé en Gradas a Lobillo el de Málaga” (Cervantes 2001: 213). 18 In effetti, ci sarebbe l’esempio quasi contemporaneo di Francisco López de Úbeda, Libro de entretenimiento de la pícara Justina, pubblicato nel 1605, libro e autore dei quali

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Nella duplicazione del personaggio picaresco, in cui alcuni critici hanno voluto vedere la cifra di un carattere o addirittura di un’origine teatrale (la riconversione di un iniziale progetto di entremés), Cervantes rielabora un elemento di dialogicità che è presente in altro modo nel Lazarillo (non a caso definito da Claudio Guillén “epístola hablada”; Guillén 1988) e che Cervantes riprenderà in modo simile in altre novelle come El casamento engañoso y Coloquio de los perros. In altri termini, il protagonista di bassa estrazione sociale ha bisogno di un’occasione e di una giustificazione per raccontare la sua storia; Lázaro, con il suo finto memoriale, la narra all’ignota Vuestra Merced, mentre Rincón e Cortado se la raccontano a vicenda, al fine di conoscersi e solidarizzarsi nell’avventura picaresca. In questa prospettiva, non è un caso, ma anzi un chiaro segnale per il lettore ben avvisato, che nel dialogo iniziale Rinconete y Cortadillo si diano del Vuestra Merced, come fa appunto Lázaro quando scrive al suo destinatario del testo19 “el que parecía de más edad dijo al más pequeño: -¿De qué tierra es vuesa merced, señor gentilhombre, y para adónde bueno camina? [...] -Sí tengo -respondió el pequeño-, pero no son para en público, como vuesa merced ha muy bien apuntado.” (Cervantes, 2001: 164, qui e di seguito, grassetto mio)

Nell’anonimo romanzo, è celebre l’episodio in cui l’hidalgo pretende appunto che così lo si chiami.20 Nella novella cervantina il Vuestra Merced, nella prospettiva ancora adolescenziale dei due picari, manifesta l’ironia verso la diffusa abitudine a pretendere un tratamiento decisamente superiore a quello che spetterebbe al proprio effettivo stato sociale (ma va ricordato che nella traiettoria del romanzo picaresco, dal Guzmán in poi, passando soprattutto per il Buscón di Quevedo, uno dei temi ricorrenti sarà proprio quello del travestimento del pi-

Cervantes peraltro non aveva una grande opinione, come è testimoniato nel suo Viaje del Parnaso. 19 Solo qualche esempio: “Y pues Vuestra Merced escribe se le escriba y relate el caso muy por extenso” (Lazarillo 2017:110); “sepa Vuestra Merced, ante todas cosas, que a mí llaman Lázaro de Tormes” (Lazarillo 2017: 112); “teniendo noticia de mi persona el señor arcipreste de San Salvador, mi señor, y servidor y amigo de Vuestra Merced” (Lazarillo 2017: 218). 20 Si veda il Tratado tercero: “a los más altos, como yo, no les han de hablar menos de: «Beso las manos de Vuestra Merced»” (Lazarillo 2017:192).

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caro da gentiluomo).21 Il che, se pensiamo all’episodio del Lazarillo, non può che essere un ulteriore omaggio di Cervantes all’anonimo cinquecentesco. Un’altra allusione al Lazarillo può essere individuata proprio nel dialogo in cui i due ragazzi, sciogliendo (o piuttosto sottolineando) una possibile ambiguità semantica, presentano i loro nomi: “—No es mi corte de esa manera —respondió el menor—, sino que mi padre, por la misericordia del cielo, es sastre y calcetero, y me enseñó a cortar antiparas, que, como v. m. bien sabe, son medias calzas con avampiés, que por su propio nombre se suelen llamar polainas; y córtolas tan bien, que en verdad que me podría examinar de maestro, sino que la corta suerte me tiene arrinconado. —Todo eso y más acontece por los buenos —respondió el grande—, y siempre he oído decir que las buenas habilidades son las más perdidas, pero aún edad tiene v. m. para enmendar su ventura. Mas, si yo no me engaño, y el ojo no me miente, otras gracias tiene v. m. secretas, y no las quiere manifestar.”. (Cervantes 2001: 164-165)

Se nella prima espressione riferita al padre c’è un’eco di quelle che Lázaro applica al suo (“Espero en Dios que está en la Gloria”, Lazarillo 2017: 112, etc.) il presunto disprezzo che tocca ai buenos (con il relativo rimando paranomastico all’arrinconamiento di cui è vittima Cortadillo) è un’evidente strizzata d’occhio ai frequenti giochi in tal senso che presenta il Lazarillo: “determinó arrimarse a los buenos por ser uno de ellos (Lazarillo 2017: 112) e “yo determiné de arrimarme a los buenos. (Lazarillo 2017: 218). Nel racconto retrospettivo in cui ciascuno dei due pícaros racconta la propria storia sono inoltre ravvisabili altri elementi che riecheggiano il Lazarillo. Vale la pena di riportare por extenso il racconto di Cortadillo: «yo nací en el piadoso lugar [nel manoscritto di Porras specifica anche il luogo, il paesino di Mollorido]22 puesto entre Salamanca y Medina 21

I due ragazzi, però, dopo aver fatto conoscenza accantonano queste pretese: “pues ya nos conocemos, no hay para qué aquesas grandezas ni altiveces” (Cervantes 2001: 168). Va detto che nella novella il Vuestra Merced è impiegato anche anche per il sacrestano a cui viene sottratta la borsa, forse anche per dissimulare il furto con l’eccessiva cerimoniosità, e anche per Monipodio e altri membri della cofradía. 22 Mollorido era un paesino, oggi spopolato e annesso al vicino municipio di Cantalapiedra, a metà strada tra Medina del Campo e Salamanca. Annoterei a margine che, se Salamanca è il luogo da cui prende le mosse il Lazarillo, Medina del Campo è uno dei luoghi di edizione del Lazarillo del 1554. Cervantes cita Mollorido anche nel suo testo teatrale Los baños de Argel: “BAJA: Tu tierra? SACRISTÁN: No está en el mapa. / mi tierra

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del Campo. Mi padre es sastre, enseñóme su oficio, y de corte de tisera, con mi buen ingenio, salté a cortar bolsas. Enfadóme la vida estrecha del aldea y el desamorado trato de mi madrastra. Dejé mi pueblo, vine a Toledo a ejercitar mi oficio, y en él he hecho maravillas; porque no pende relicario de toca ni hay faldriquera tan escondida que mis dedos no visiten ni mis tiseras no corten, aunque le estén guardando con ojos de Argos. Y, en cuatro meses que estuve en aquella ciudad, nunca fui cogido entre puertas, ni sobresaltado ni corrido de corchetes, ni soplado de ningún cañuto. Bien es verdad que habrá ocho días que una espía doble dio noticia de mi habilidad al Corregidor, el cual, aficionado a mis buenas partes, quisiera verme; mas yo, que, por ser humilde, no quiero tratar con personas tan graves, procuré de no verme con él, y así, salí de la ciudad con tanta priesa, que no tuve lugar de acomodarme de cabalgaduras ni blancas, ni de algún coche de retorno, o por lo menos de un carro” (Cervantes, 2001: 187).

Come Lazarillo, Cortadillo nasce in un paesino nella provincia di Salamanca (nel suo caso a circa 47 km, mentre Lázaro a Tejares, che di Salamanca è sostanzialmente un sobborgo, ma che fino al secolo XIX fu un municipio indipendente).23 Come Lázaro, Cortadillo va a Toledo a esercitare il suo “mestiere”, e sempre come Lázaro è costretto ad allontanarsene per sottrarsi ai rigori della giustizia.24 Ancora più significativo è il racconto di Rinconete: “Yo, señor hidalgo, soy natural de la Fuenfrida [...] mi nombre es Pedro del Rincón; mi padre es persona de calidad, porque es ministro de la Santa Cruzada: quiero decir que es bulero, o buldero, como los llama el vulgo [nel Manuscrito Porras si aggiunge: “otros los llaman echacuervos”, che è un termine dispregiativo contenuto anche nel Lazarillo]25. Algunos días le acompañé en el oficio, y le aprendí de manera, que no daría ventaja en echar las bulas al que más presumiese en ello. Pero, habiéndome un día aficionado más al dinero de las bulas que a las mismas bulas, me abracé con un talego y di conmigo y con él en Madrid, donde con las comodidades que allí de ordinario se ofrecen, en pocos días saqué las entrañas al talego y le dejé con más dobleces Mollorido, / un lugar muy escondido / allá en Castilla la Vieja” (Cervantes 1987: 213). La Venta del Mollorido viene peraltro menzionata anche all’inizio del terzo atto della comedia di Antona García, di Tirso de Molina. 23 Si veda l’esordio del racconto: “a mí llaman Lázaro de Tormes, hijo de Tomé González y de Antona Pérez, naturales de Tejares, aldea de Salamanca” (Lazarillo 2017: 212). 24 Cfr., nel Lazarillo: “acordaron el Ayuntamiento [de Toledo] que todos los pobres extranjeros se fuesen de la ciudad, con pregón que el que de allí adelante topasen fuese punido con azotes [...] vi llevar una procesión de pobres azotando por las Cuatro Calles”. (Lazarillo 2017: 184). 25 “Yo vine aquí con este echacuervo que os predica, el cual me engañó, y dijo que le favoreciese en este negocio, y que partiríamos la ganancia” (Lazarillo 2017: 206).

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que pañizuelo de desposado. Vino el que tenía a cargo el dinero tras mí, prendiéronme, tuve poco favor, aunque, viendo aquellos señores mi poca edad, se contentaron con que me arrimasen al aldabilla y me mosqueasen las espaldas por un rato, y con que saliese desterrado por cuatro años de la Corte.” (Cervantes, 2001: 165-166).

Rinconete è punito in quanto ladro, come prima il padre e poi il patrigno e la madre di Lázaro, così come sono sostanzialmente le stesse le pene di frustate e di esilio a cui è sottoposto: “Pues siendo yo niño de ocho años, achacaron a mi padre ciertas sangrías mal hechas en los costales de los que allí a moler venían” [...] (Lazarillo 2017: 112). “Al triste de mi padrastro azotaron y pringaron, y a mi madre pusieron pena por justicia, sobre el acostumbrado centenario [di frustate].” (Lazarillo 2017: 116).

Il riferimento all’attività del padre è ancora più significativo, trattandosi di quel mestiere di Buldero che appare nel Tratado IV del Lazarillo. Noterei a margine che non è certo neutro che Cervantes racconti la storia del figlio di un personaggio pubblico, addetto a una funzione in teoria sacra, che diventa un malfattore: ladro, baro e vagabondo. Cervantes, come l’anonimo autore del Lazarillo, sta insinuando che la vendita delle indulgenze è in se stessa un ladrocinio e un imbroglio.26 Il fatto che Cervantes evochi la figura del Buldero, inoltre, è un sintomo abbastanza evidente del fatto che egli lesse la versione integrale del testo e non quella censurata del 1573, nella quale l’episodio viene totalmente omesso. Ugualmente significative sono le coincidenze linguistiche che appaiono in uno degli episodi in cui Cortadillo commette un furto: no se pudo contener Cortado de no cortar la valija o maleta que a las ancas traía un francés de la camarada; y así, con el de sus cachas le dio tan larga y profunda herida, que se parecían patentemente las entrañas” (Cervantes, 2001: 170)

Anche nel Lazarillo il furto viene definito ferita o taglio inferto a un corpo vivo, sia nel caso del grano sottratti da suo padre ai sacchi che vengono portato al mulino: 26 Ricordiamo che nel Lazarillo, ancor prima di svelare la sua messa in scena criminale, il venditore di bolle viene definito dal narratore “desenvuelto y desvergonzado” (Lazarillo 2017: 202).

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“achacaron a mi padre ciertas sangrías mal hechas en los costales de los que allí a moler venían” (Lazarillo 2017:112)

che nell’episodio della sottrazione di cibo che realizza ai danni del cieco avaro: “por un poco de costura, que muchas veces del un lado del fardel descosía y tornaba a coser, sangraba el avariento fardel” (Lazarillo 2017: 122)

Analoga metafora antropomorfizzante, in Rinconete e Cortadillo, era apparsa nel caso del furto dell’arca delle monete delle Bolle: “en pocos días le saqué las entrañas al talego” (Cervantes 2001: 166). Passando alla seconda metà della novella, è vero che Rinconete e Cortadillo hanno in tutto l’episodio del patio de Monipodio un ruolo di testimoni, quasi di spettatori, dei vari caratteri dei bassifondi sivigliani che sfilano davanti ai loro occhi. Cervantes sembra anzitutto compiacersi nell’enumerazione di vari personaggi – fino a 14 persone – che accorrono alla casa del capo dell’organizzazione.27 Poi il racconto sembra ruotare intorno ad alcuni spunti episodici, che vengono presentati quasi come l’evocazione di un’azione scenica, più appropriata alla rappresentazione di un entremés che alla narrazione di una novella: il banchetto a cui prendono parte i bravacci, le prostitute loro compagne e la vecchia Pipota; il litigio e poi la riconciliazione tra Juliana la Cariharta e il suo ruffiano Repolido; il ballo improvvisato da tutti i presenti dopo la riconciliazione degli amanti; l’irruzione di un cavaliere che viene a lamentarsi di uno sfregio a un rivale, da lui commissionato e male eseguito dal bravaccio Chiquiznaque; la lettura ad alta voce, da una specie di libro mastro di Monipodio, delle malefatte da compie27 “Estando en esto, entraron en la casa dos mozos de hasta veinte años cada uno, vestidos de estudiantes; y de allí a poco, dos de la esportilla y un ciego; y, sin hablar palabra ninguno, se comenzaron a pasear por el patio. No tardó mucho, cuando entraron dos viejos de bayeta, con antojos que los hacían graves y dignos de ser respectados, con sendos rosarios de sonadoras cuentas en las manos. Tras ellos entró una vieja halduda, y, sin decir nada, se fue a la sala; y, habiendo tomado agua bendita, con grandísima devoción se puso de rodillas ante la imagen, y, a cabo de una buena pieza, habiendo primero besado tres veces el suelo y levantados los brazos y los ojos al cielo otras tantas, se levantó y echó su limosna en la esportilla, y se salió con los demás al patio. En resolución, en poco espacio se juntaron en el patio hasta catorce personas de diferentes trajes y oficios. Llegaron también de los postreros dos bravos y bizarros mozos, de bigotes largos, sombreros de grande falda, cuellos a la valona, medias de color, ligas de gran balumba, espadas de más de marca, sendos pistoletes cada uno en lugar de dagas, y sus broqueles pendientes de la pretina” (Cervantes 2001: 182-3).

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re che sono state commissionate alla confraternita (coltellate e botte da dare, oltraggi da fare a cose e persone, con tanto di attribuzione di esecutori e richiamo alle tariffe richieste). L’unico raccordo tra le vicende dei due giovani protagonisti e la lunga sequenza in casa di Monipodio è il furto da parte di Cortadillo nella Plaza de San Salvador della borsa del sacrestano, per il quale viene a protestare lo sbirro che controlla quel quartiere e che è complice della confraternita.28 È possibile ipotizzare, come ha fatto una certa parte della critica, che Cervantes abbia contaminato l’idea di una novella avente come oggetto le avventure dei due giovani picari con il soggetto per un entrémes ambientato nei bassifondi sivigliani, simile a quelli che egli stesso va scrivendo in quegli anni (come tanti suoi colleghi) e che raccoglierà solo parzialmente nel volume Ocho commedia y ocho entremeses (del 1615). Il che è un elemento significativo ma non particolarmente originale, se consideriamo che una buona parte dell’opera di Cervantes, a cominciare dal Don Quijote e da varie delle Novelas, esibisce una sostanziale contiguità, e perfino una potenziale reversibilità, tra l’espressione teatrale e quella narrativa.29 Al tempo stesso, va sottolineato come all’epoca della redazione di Rinconete y Cortadillo il cosiddetto romanzo picaresco sia lontano da qualsiasi assestamento di genere, ma piuttosto ancora alla ricerca di un equilibrio tra l’estrema quanto geniale e forse irripetibile sintesi del Lazarillo e l’ipertrofia del Guzmán de Alfarache. Aggiungerei che anche nella seconda parte della novella sono presenti, sia pure di sfuggita, figure che erano già apparse nel Lazarillo: un cieco, un alguacil che intrattiene rapporti ambigui con la delinquenza, ecc. Possiamo a questo punto ritornare alla questione iniziale, ossia alle circostanze e alle motivazioni di Cervantes nel riprendere alcuni temi e stilemi del Lazarillo. Posto che mi pare molto improbabile che le allusioni al Buldero siano coincidenze casuali o di seconda mano, è abbastanza verosimile che Cervantes lesse il Lazarillo in un’edizione integrale. Al tempo stesso mi sembra altrettanto improbabile che Cervantes possa avere letto il Lazarillo prima della proibizione (ossia prima dei dodici 28

“-El alguacil de los vagabundos viene encaminado a esta casa [...] -Nadie se alborote -dijo Monipodio-, que es amigo y nunca viene por nuestro daño [...] Manifiéstese la cica; y si se encubre por no pagar los derechos, yo le daré enteramente lo que le toca y pondré lo demás de mi casa; porque en todas maneras ha de ir contento el alguacil” (Cervantes 2001: 190-191). 29 Non a caso, i detrattori di Cervantes, vicini agli ambienti del Lope de Vega, dichiararono, in senso dispregiativo, che le sue Novelas non erano altro che “commedie in prosa”.

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anni) oppure che a partire dal suo ritorno in Spagna dalla prigionia in Algeri, nel 1580, potesse correre il rischio di possedere un libro ritenuto così scandaloso dalle autorità (di averlo insomma materialmente in quella “biblioteca” alla quale sembra alludere Rosa Navarro Durán). Mi sembra più plausibile che Cervantes possa avere letto e apprezzato il Lazarillo nei suoi cinque anni di permanenza in Italia, dove magari il testo poteva essere presente, senza dare troppo nell’occhio, nelle biblioteche degli alti prelati che aveva occasione di frequentare (ad esempio, il cardinale Acquaviva d’Aragona). Il che potrebbe portare a ipotizzare un primissimo progetto di avventure dei due giovani pícaros molto precoce, forse precedente (in questo primo embrione) alla stessa pubblicazione del Guzmán de Alfarache. Quello che è certo è che Cervantes legge il Lazarillo non solo in quanto libro scandaloso, proibito e pericoloso ma anche nella piena consapevolezza che si trattava di un libro ancora capace di costituirsi come modello creativo, oltre che dotato di un contenuto critico ancora attuale. Modello letterario e critica sociale che evidentemente Cervantes, né qui né altrove, riprende in maniera completa e sistematica. In Rinconete e Cortadillo manca sia la visione articolata della società che è investita dalla critica del Lazarillo, incarnata nei successivi padroni di Lázaro, che la struttura “chiusa” che istituisce un nesso causale tra la condizione di partenza e quella di arrivo del protagonista. E tuttavia, le considerazioni che Rinconete propone alla fine della novella rimandano a una visione della società e della giustizia che sono sostanzialmente omogenee a quelle veicolate dal Lazarillo, e che così duramente erano state colpite dalla censura inquisitoriale. Analogo è lo scetticismo sulla supremazia della devozione sul comportamento immorale: “Era Rinconete, aunque muchacho, de muy buen entendimiento [...] sobre todo, le admiraba la seguridad que tenían y la confianza de irse al cielo con no faltar a sus devociones, estando tan llenos de hurtos, y de homicidios y de ofensas a Dios.” (Cervantes 2001: 215)

Del tutto simile appare lo sconcerto di fronte a una giustizia connivente con il malaffare e prepotente solo con i deboli: [Monipodio]: “caen debajo de nuestros bienhechores: el procurador que nos defiende, el guro que nos avisa, el verdugo que nos tiene lástima [...] y el escribano, que si anda de buena, no hay delito que sea culpa ni culpa a quien se dé mucha pena [...] “Más disimula este buen alguacil en un día que nosotros le podremos ni solemos dar en ciento. (Cervantes 2001: 186).

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E anche le considerazioni sulla decadenza morale che regna in quella che – va ricordato – è la più grande e popolosa città di Spagna, potrebbero essere fatte proprie dal narratore del Lazarillo: cuán descuidada justicia había en aquella tan famosa ciudad de Sevilla, pues casi al descubierto vivía en ella gente tan perniciosa y tan contraria a la misma naturaleza” (Cervantes, 2001: 215)

Cervantes, pur nell’apparente leggerezza comico-grottesca della novella, sta affermando qualcosa di altrettanto forte, rispetto alla denuncia del “disordine assiologico”30 che attraversa il Lazarillo. In Rinconete y Cortadillo la trasgressione – peccato o reato che sia – non è l’esito di una scelta individuale ma un fenomeno organizzato e perfino istituzionalizzato. Ma ancora di più, Cervantes sta rivelando qualcosa che riapparirà spesso nella letteratura occidentale: la cofradía di Monipodio non è tanto diversa e alternativa rispetto alla società comune, ma piuttosto di essa rappresenta sia una componente, con un evidente rapporto funzionale, che un modello, attraversato da analoghe dinamiche (si pensi alla questione del rapporto peccato-devozione). Tutto questo non sarebbe possibile, nel Lazarillo come in Rinconete y Cortadillo, senza la mediazione dello sguardo apparentemente ingenuo del protagonista/testimone, che porta per mano il lettore a conoscere i segreti di un’iniziazione alla realtà riservata ai personaggi di quella condizione, ma dalla quale nessuno può dichiararsi del tutto estraneo. Il tutto, in Lazarillo come in Rinconete y Cortadillo, si presenta come una visione lucida e amara, proposta con l’apparente leggerezza di un tono ironico e disincantato, che ha spesso tratto in inganno sia tanti lettori che più di un critico. Forse anche in questo è servita la lezione contenuta nel Lazarillo, nel rivendicare di scrivere qualcosa che per “los que no ahondaren tanto los deleite” (Lazarillo 2017: 108) ma che agli occhi dei lettori attenti, come scrive Cervantes nel prologo delle sue Novelle, può rivelare che “algún misterio tienen escondido” (Cervantes 2001: 20).

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La felice definizione, che mi sentirei di condividere completamene, è contenuta nell’introduzione di Antonio Gargano a Lazarillo 2017: 41.

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La trasformazione di un’opera prima: El estreno di Pablo d’Ors Giuseppina Notaro Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” [email protected]

Un testo letterario nasce da una scoperta: lo scrittore, infatti, si rende conto, in maniera conscia o inconscia, di aver bisogno di dire qualcosa, di esprimere un suo stato d’animo, di esternare un sentimento che è dentro di lui e che può essere rivelato attraverso un racconto, un poema, un romanzo. Qualsiasi sia la forma più adatta, il percorso che intraprende, in un momento dato e in un luogo preciso, lo porta a indagare, a esplorare, in un modo che appartiene solo a lui, e che non può essere uguagliato. Ogni elemento, ogni componente del racconto, e il linguaggio stesso, sono campi atti a questa esplorazione: il tempo, i personaggi, lo spazio, il narratore, appaiono sulla pagina bianca e prendono vita, rivelando quell’unicità irripetibile della creazione letteraria. Come afferma José Luis García Barrientos: En la comunicación literaria el lugar del emisor no corresponde a un hablante o escribiente cualquiera, sino que exige ser ocupado por alguien especialmente cualificado, el autor. La misma etimología de la palabra lo pone de manifiesto: auctor, que se relaciona con auctoritas (autoridad), procede de augere, que significa aumentar, hacer progresar. Autor es en este sentido el que comunica un “descubrimiento” que amplía los límites de la realidad dada, un conquistador de nuevos territorios para la inteligencia o la sensibilidad; un “creador”, en definitiva, de mundos nuevos, inexistentes o desconocidos antes de su palabra. (García Barrientos, 1999: 40)

L’atto della scrittura non risponde quindi a nessuna necessità pratica, né si dirige a un lettore in particolare, ma è destinato a una sorta di destinatario universale, da cui l’autore non aspetta alcuna risposta,

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ma semplicemente l’accoglienza di un messaggio che si situa in un cronotopo ben preciso. Il testo letterario, come afferma Mario Valdés (1998: 63-68), non può esaurirsi, perché dipende dall’intervento dei lettori, e, per questo motivo si rinnova costantemente. Questo rinnovamento può essere anche concreto, materiale, effettivo, poiché un autore, che è il creatore, può decidere di rivedere, riscrivere, trasformare, una sua stessa opera, la sua creatura, creandone effettivamente una nuova, con caratteristiche diverse, e soprattutto in uno spazio-tempo differente. In un contesto intertestuale, si può intendere la riscrittura come un’operazione che trasforma un testo anteriore in uno completamente nuovo: tra i due vi è uno stretto rapporto di corrispondenza, di rimando reciproco, di interdipendenza. I motivi per cui uno scrittore decide di riprendere la propria opera, per modificarla, ricrearla, trasformarla, possono essere molteplici. Tra questi potrebbe esserci la voglia di non lasciar morire quella creatura, e, di conseguenza, per lo stretto rapporto autore-opera, non lasciarsi morire. Miguel de Unamuno, che spesso nelle sue opere ha analizzato questa interdipendenza e questo rapporto così inscindibile quanto complicato tra creatore e creatura, afferma nella sua opera Cómo se hace una novela: Eso que se llama en literatura producción es un consumo, o más preciso: una consunción. El que pone por escrito sus pensamientos, sus ensueños, sus sentimientos los va consumiendo, los va matando. En cuanto un pensamiento nuestro queda fijado por la escritura, expresado, cristalizado, queda ya muerto y no es más nuestro que será un día bajo tierra nuestro esqueleto. La historia, lo único vivo, es el presente eterno, el momento huidero que se queda pasando, que pasa quedándose, y la literatura no es más que muerte. Muerte de que otros pueden tomar vida. Porque el que lee una novela puede vivirla, revivirla -y quien dice una novela dice una historia- y el que lee un poema, una criatura -poema es criatura y poesía creación- puede re-crearlo. Entre ellos el autor mismo. Y ¿es que siempre un autor al volver a leer una pasada obra suya, vuelve a encontrar la eternidad de aquel momento pasado que hace el presente eterno? ¿No te ha ocurrido nunca, lector, ponerte a meditar a la vista de un retrato tuyo, de ti mismo, de hace veinte o treinta años? El presente eterno es el misterio trágico, es la tragedia misteriosa, de nuestra vida histórica o espiritual. Y he aquí porque es trágica tortura la de querer rehacer lo ya hecho, que es deshecho. En lo que entra retraducirse a sí mismo. (Unamuno, 2009: 25)

Riprendere un testo e dargli nuova vita, rifare quello che si è già fatto, per uno scrittore è una tragica tortura, afferma Unamuno, ma

LA TRASFORMAZIONE DI UN’OPERA PRIMA: EL ESTRENO DI PABLO D’ORS

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per sopravvivere a volte è necessario: un autore, rileggendo una sua opera, ritrova l’eternità di quel momento passato che rende il presente, a sua volta, infinito e senza limiti temporali. È probabilmente questa necessità di eternizzarsi, o forse quella di continuare a migliorarsi per perpetuare la propria arte in un tempo senza fine, che ha spinto Pablo d’Ors ad intraprendere la riedizione di tutta la sua opera narrativa con la casa editrice Galaxia Gutenberg, e in particolare a trasformare, sotto diversi punti di vista, il suo primo lavoro letterario, la raccolta di racconti El estreno (2000). Pablo d’Ors è uno scrittore sacerdote, che nasce a Madrid nel 1963, in una famiglia di artisti, e si forma in un ambiente culturale tedesco. Nipote del saggista e critico d’arte Eugenio d’Ors, figlio di una filologa e di un medico dibujante, è stato discepolo del monaco e teologo Elmar Salmann. Il suo animo è sempre stato diviso tra la letteratura e la religione, fin dai suoi primi interessi di studio: diventa dottore di ricerca, infatti, con una tesi dal titolo Teopoética.Teología de la experiencia literaria, che dà la misura delle sue due più intense passioni e di quanto esse coesistano in lui profondamente. Le due vocazioni della sua vita, all’inizio vissute in maniera conflittuale, oggi convivono in maniera armonica: è stato cappellano dell’Ospedale Ramón y Cajal di Madrid, dal 2014 al 2019 è stato consulente al consiglio Pontificio della cultura di Papa Francesco, e scrittore e critico di letteratura centroeuropea per ABC cultural. Nel 1991 viene ordinato sacerdote, mentre comincia a dedicarsi alla letteratura nel 2000. Tutte le sue opere, ispirate alla letteratura di Franz Kafka, Hermann Hesse e Milan Kundera, hanno avuto, fin dall’inizio, un’eccellente accoglienza da parte della critica, e sono state tradotte in diverse lingue. La sua opera letteraria è divisa in trilogie: fino ad oggi ha pubblicato la “Trilogía del fracaso”, formata dalla raccolta di racconti El estreno (Anagrama 2000, Galaxia Gutenberg, 2016), e dai romanzi Las ideas puras (Anagrama, 2000) e Contra la juventud (Galaxia Gutenberg, 2015); la “Trilogía del silencio” con El amigo del desierto, (Anagrama, 2009-2015, Galaxia Gutenberg, 2019), il saggio Biografía del silencio, (Siruela, 2012, Galaxia Gutenberg, 2019) e El olvido de sí, (Pre-textos, 2013); e la “Trilogía de la ilusión”, formata da Andanzas del impresor Zollinger (Impedimenta, 2003 e 2013), El estupor y la maravilla (Pre-textos, 2007, Galaxia Gutenberg, 2018) e Lecciones de Ilusión (Anagrama, 2008). Nel 2017 ha pubblicato il suo ultimo romanzo, Entusiasmo (Galaxia Gutenberg) che lo scrittore ha dichiarato essere il primo di una nuova trilogia, dell’Entusiasmo, appunto.

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Quando d’Ors parla del suo modo di creare fa riferimento sempre e comunque a una vocazione, a una chiamata: il suo percorso di scrittura, però, non prevede un’idea che si concretizza in parola, ma, al contrario, per lui la redazione di un’opera è un lavoro più manuale che mentale, in cui non è l’idea a essere scritta, ma la propria scrittura a ritrovarla: la mano agisce e trasforma la parola in senso, poiché “el escritor es un medio y la escritura un acto de revelación” (Yuste, 2016). In un’intervista, difatti, afferma: “Per me la scrittura è esattamente questo: mettersi in ascolto di una voce interiore che però non si esaurisce nella mente e si traduce subito in un’attività che definirei «manuale». Quando comincio un nuovo libro, non parto mai dall’idea, ma la trovo strada facendo, attraverso la scrittura” (Zaccuri, 2018). Questo percorso di scoperta dell’idea, e quindi di creazione, è lo stesso che d’Ors ha intrapreso per la sua opera di esordio, El estreno, una raccolta di racconti che rappresenta la sua prima fatica letteraria, e il primo contatto con il mondo della scrittura: viene pubblicata per la prima volta nel 2000 ed è formata da sette relatos, sette storie che hanno come protagonisti, a volte direttamente altre volte indirettamente, alcuni tra i più grandi scrittori della storia della letteratura (Thomas Bernhard, Milan Kundera, Dante Alighieri, Fernando Pessoa, Johann Wolfgang Goethe, Italo Calvino, Charles Dickens, Günter Grass e Johann-Peter Eckermann), che rappresentano i punti di riferimento della formazione letteraria dell’autore, i suoi maestri nella scrittura. Questa prima opera rappresenta quindi un omaggio a queste figure esemplari, ma è anche una sorta di confessione: come lo stesso d’Ors afferma, normalmente gli artisti trascorrono la propria vita a nascondere le proprie influenze letterarie, mentre lui, fin dall’esordio, vuole apertamente dichiarare quali siano, poiché essere scrittore consiste nell’essere parte di una determinata tradizione letteraria (Yuste, 2016).1 Si tratta di racconti che hanno come argomento portante quello dell’umiliazione, del fallimento; sono caratterizzati da una visione grottesca e a tratti surreale, ma anche da un fine umorismo, un’intelligente ironia, oltre a un continuo e sottile erotismo: tra gli altri, si può fare l’esempio della storia di Milan Kundera e Günter Grass che, in La amante eslovaca, misurano la propria statura a colpi d’eloquenza in uno strano convegno, a cui assistono esclusivamente ultraottantenni e che 1 La prima versione di El estreno contiene i seguenti titoli: “El sobrino de Bernhard”, “La amante eslovaca”, “La inexistencia”, “El monje secular”, “El esclavo de Goethe”, “La lógica de los pies”, “El estreno”.

LA TRASFORMAZIONE DI UN’OPERA PRIMA: EL ESTRENO DI PABLO D’ORS

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è organizzato da una donna che è stata l’amante dei più grandi autori del Novecento. I due finiscono poi per misurarsi con i propri limiti, fisici e non, che anche i grandi uomini scoprono di possedere. Oppure la storia raccontata in La inexistencia, dedicata a Dante e Boccaccio, in cui si narra dell’orribile disavventura di Beatriz, una studentessa spagnola che deve scrivere una tesi sulla Divina Commedia, e che vede materializzarsi l’inferno, l’argomento dei suoi studi, proprio nella sua vita, in una condanna a rimpicciolire fino a una probabile inesistenza. O ancora l’ultimo racconto, dedicato a Dickens, El estreno, che dà il titolo alla raccolta, il cui protagonista si chiama Pablo J. d’Ors, narcisista ferito con complessi di inferiorità e di abbandono, a cui viene negato, per la maggior parte del tempo del racconto, l’ingresso alla prima del suo spettacolo teatrale, l’adattamento di Canto di Natale di Dickens, appunto. Parlare della letteratura attraverso la letteratura è il modo con cui d’Ors comincia il suo percorso di scrittore, riprendendo tematiche e rielaborando, rimodulando, reinventando, a partire da qualcosa di già esistente, la grande letteratura del passato. La frase che rivolge l’inflessibile bigliettaia dell’ultimo racconto al personaggio Pablo d’Ors, negandogli l’ingresso alla prima del suo spettacolo d’esordio, è una strizzata d’occhio a questo attingere a piene mani dalla tradizione letteraria europea: “Lei non è l’autore, voleva imbrogliarmi, lei è l’adattatore. C’è una bella differenza” (d’Ors, 2012: 186). Nonostante questa evidente ispirazione ai suoi miti letterari, l’opera di Pablo d’Ors è originale e consapevole, anche perché mette in campo una polifonia di voci che gli permettono di moltiplicare e accrescere la propria identità. Secondo il suo modo di vedere, la letteratura ha come obiettivo quello di sapere chi siamo, poiché essa stessa è una esplorazione dell’identità. In effetti, lo scrittore ha più volte affermato che tutte le sue opere hanno tratti autobiografici, e che in ognuno dei suoi protagonisti c’è qualcosa di sé, della sua vita, della sua esperienza; parlando del suo ultimo romanzo, Entusiasmo, infatti, afferma: “Questo non è esattamente un racconto autobiografico, ma autofittizio, come del resto tutti i miei libri. Posso dire di rispecchiarmi in ciascuno dei miei protagonisti, anche se è evidente che il Pedro Pablo di Entusiasmo mi somiglia più di ogni altro” (Zaccuri, 2018). L’autore però stabilisce una differenza essenziale tra se stesso e i suoi maestri, protagonisti delle storie di El estreno, e cioè la compassione, che non è presente in quegli scrittori verso le proprie creature e che invece lui ci tiene a dimostrare continuamente. Afferma infatti: “Al final siempre me

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compadezco de mis personajes. Muchos libros se venden con el lema ‘un lúcido y despiadado retrato de la realidad’ pero nunca lo hacen como ‘un lúcido y compasivo retrato de la realidad’. En el mundo no solo hay crudeza, también hay caricias, y la literatura tiene que hacer justicia narrativa de la realidad” (Yuste, 2016). La voglia di introdurre questo sguardo benevolo sulla realtà, queste carezze, di essere esempio di una letteratura della luce e non dell’ombra, insieme a quella di eternizzarsi, continuando a migliorarsi, è probabilmente ciò che ha spinto Pablo d’Ors a decidere di ristampare con la casa editrice barcellonese Galaxia Gutenberg tutta la sua opera fino ad oggi pubblicata: l’editore Joan Tarrida è colui che ha affiancato lo scrittore in questo lavoro, e ha collaborato a questa impresa, poiché pensa che l’opera di qualsiasi autore venga valorizzata e acquisti importanza in particolar modo quando è pubblicata in forma completa e ordinata, soprattutto quando alcuni titoli, come nel caso di d’Ors, sono difficili da trovare. Aggiunge inoltre che “Esta reedición es incluso más importante en el caso de este escritor porque da la impresión de que tuviera claro que su obra se iba a organizar en trilogías en torno a ciertas ideas” (Yuste, 2016). El estreno viene ripreso dallo scrittore dopo quindici anni dalla prima pubblicazione:2 è l’autore stesso che si meraviglia di trovarlo ancora “estupendo, muy fresco, muy intenso, lleno de imágenes”, con una virtù essenziale, quella cioè di essere “profundo pero ligero”. Nonostante tutti questi aspetti positivi che caratterizzano questo testo di debutto, è la prima opera, tra tutte le sue creazioni, a essere ripubblicata, nel 2016, perché ritenuta nel complesso “desaliñada”, letteralmente malmessa, trasandata, e sintatticamente “torpe” (Yuste, 2016). El estreno, qundi, viene riedito in una versione diversa da quella originale: d’Ors rivede, corregge, modifica i racconti, ne sopprime uno, che viene sostituito da un altro completamente inedito, e aggiunge un epilogo. Il testo, quindi, non subisce una vera e propria riscrittura, ma, piuttosto, una trasformazione, poiché il nucleo centrale, il messaggio da trasmettere e le caratteristiche testuali restano gli stessi. Su ogni racconto, infatti, Pablo d’Ors ha effettuato una revisione della maggior parte del testo, rispettando la struttura e l’impostazione originarie: non ha riscritto, non ha voluto alterare 2 L’indice della versione del 2016 di El estreno è così composto: “El sobrino de Bernhard. Un cuento terrible”, “La amante eslovaca. Un cuento cómico”, “La inexistencia. Un cuento fantástico”, “El monje secular. Un cuento melancólico”, “La llamada del mar. Un cuento místico”, “La lógica de los pies. Un cuento erótico”, “El estreno. Un cuento autobiografico”, “Epílogo”.

LA TRASFORMAZIONE DI UN’OPERA PRIMA: EL ESTRENO DI PABLO D’ORS

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l’essenza profonda della sua opera prima, ma nella maggior parte dei casi ha reso la forma sintatticamente più corretta, con l’intento di non perdere nulla dell’originale, ma di guadagnarci in chiarezza e comprensibilità. Inoltre, d’Ors arricchisce la caratterizzazione di ognuno dei suoi racconti aggiungendo a ogni titolo un aggettivo, assente nella prima stesura, che dà un primo indizio sul contenuto di ogni singola narrazione: “terrible”, “cómico”, “fantástico”, “melancólico”, “místico”, “erótico”, “autobiográfico”. Nell’epilogo, descrive la motivazione di questi brevi sottotitoli aggettivanti: En mi revisión del texto he querido también caracterizar o definir cada uno de mis relatos con un adjetivo que estimo ajustado e iluminador […] que puede guiar a quien no quiera leer estos relatos en el orden en que se presentan, sino en razón de su propio estado de ánimo. Estos adjetivos hablan del tono o estilo de mis ficciones (cómico, lírico, expresionista…) y de su temática (mística, erótica y poética); hablan, en fin, de una voluntad programática, si bien en buena medida inconsciente, en mis orígenes como narrador. Hoy, creo, ha sonado la hora de hacerla explícita. (d’Ors, 2016, 232)

È come se, con uno sguardo distante, più maturo e consapevole, l’autore prendesse coscienza dei temi presenti nella sua opera, aggiungendo agli altri già presenti quello della mistica (la chiamata a cui non si può non rispondere, di cui si è parlato), fondamentale nella sua poetica, e avesse il bisogno di dichiararli, fissarli, renderli chiari e espliciti. Come esempio di cambiamento nella scrittura di questa nuova versione, si può prendere in considerazione l’incipit di uno dei racconti più belli e più metaletterari, El monje secular, dedicato a Fernando Pessoa: questo cuento è un’autentica rappresentazione dell’autore a cui è dedicato, poiché vi si descrive un giorno della sua vita, mettendo in risalto le caratteristiche della sua prosa, e rivelando con forza e immaginazione il segreto dei suoi eteronimi, come conseguenza di una vita ai margini, dedicata essenzialmente alla letteratura. La prima versione di El monje secular cominciava in questo modo: Cuando le dijo que se sentía infeliz, se levantó de su asiento, se acercó hacia él y le dio un abrazo. Fernando no se esperaba ese abrazo, y no se esperaba, sobre todo, que un abrazo de un desconocido pudiera ser tan prolongado. Por eso se sintió incómodo. No había confesado su infelicidad para que le abrazaran. Tampoco para compartir un sentimiento, y ni mucho menos para que le comprendieran. (d’Ors, 2000, 125)

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

Nella riedizione del 2016, il testo appare così trasformato: Al escuchar lo infeliz que aquel hombre se sentía, se incorporó pesadamente de su asiento de hule, se acercó hasta él y se echó a sus brazos. Fernando no se esperaba un abrazo como aquél y, sobre todo, no podía imaginar que el abrazo de un desconocido pudiera ser tan afectuoso y prolongado. Por eso se sintió incómodo. Porque si poco antes le había confesado su infelicidad no era, ciertamente, para que le abrazara. Tampoco para compartir un sentimiento, y mucho menos para que le comprendiera. (d’Ors, 2016, 113)

Come si può notare dal confronto tra questi due brani brevissimi, ma che sono indicativi del lavoro fatto da d’Ors, il contenuto non cambia, così come non cambia il sentimento del protagonista, che resta piuttosto stupito dall’atteggiamento empatico di questo sconosciuto che ha incontrato per la prima volta in un bar, e non cambia il ritmo della narrazione, ma il linguaggio appare più maturo, più cosciente, più sicuro: un’evoluzione naturale di quella scrittura che nella prima versione rappresentava il linguaggio di “debutto” dello scrittore. Per quanto riguarda la composizione del testo, come si è detto, lo scrittore decide di eliminare uno dei racconti, El esclavo de Goethe, in cui si mette in risalto l’ego strabordante dello scrittore tedesco e la totale abnegazione del suo “schiavo”, paragonato a un cane fedele al suo padrone, e ne inserisce uno completamente nuovo, La llamada del mar, dedicato a Thomas Mann, che ha come argomento il richiamo forte e mortifero del mare della Sardegna per uno dei protagonisti, e che allude a una chiamata a cui non si può non rispondere. Il racconto soppresso, in effetti, rappresentava quello che aveva, tra tutti quelli presenti nella versione originaria, la minore carica espressiva, una trama pressoché inesistente, una creazione quasi forzata per descrivere la personalità di Goethe, pur contenendo al suo interno una buona dose di ironia e qualche tratto interessante: anche Santos Sanz Villanueva, nella recensione scritta nel 2000 su El cultural, in occasione dell’uscita di El estreno, inseriva questo racconto tra quelli che “decaen en su exigencia […] con su desenlace obvio y plano y con el humorismo pobre e ingenuo de llamar Juan Volfango al autor del Werther” (Sanz Villanueva, 2000). Inoltre, l’autore afferma che oggi si sente meno identificato con il protagonista del racconto, come invece poteva essere in quello spazio e in quel tempo della stesura della sua prima opera, e riconosce che comunque il testo non è mai stato all’altezza di tutti gli altri. Questo racconto è sostituito da un altro completamente inedito dedicato a uno degli autori più amati da Pablo

LA TRASFORMAZIONE DI UN’OPERA PRIMA: EL ESTRENO DI PABLO D’ORS

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d’Ors, Thomas Mann, che ha come leitmotiv il richiamo di qualcosa di superiore, di “asombroso”, e non a caso, l’aggettivo che lo definisce è “místico”: è il potere di attrazione dell’amore, ma, soprattutto, è il potere della chiamata da parte di qualcosa di superiore, di sconosciuto, a cui è impossibile resistere. Come afferma il protagonista, che narra in prima persona, “El silencio es la principal llamada” (d’Ors, 2016: 175): non poteva mancare, infatti, il riferimento a ciò che per l’autore è quanto di più importante esista per l’uomo, il silenzio, da cui nasce ogni parola, ogni gesto, ogni ispirazione, ogni chiamata. L’epilogo presente nella seconda versione dell’opera è un compendio delle idee di d’Ors su quello che riguarda il suo modo di fare letteratura e i suoi punti di riferimento: è una dichiarazione di amore verso i suoi tre scrittori prediletti, e che lo ispirano nel suo lavoro letterario, Hesse, Kundera e Kafka; è anche una confessione al lettore sul processo che lo ha portato a revisionare il suo primo testo; è infine un’affermazione sull’importanza della compassione e della luce in letteratura, nella sua letteratura. È proprio nell’epilogo che esplicita l’emozione provata nel momento in cui si è confrontato con lo scrittore che era, all’inizio della carriera, e che si mette a nudo con i suoi lettori, sottolineando l’importanza che nel suo lavoro letterario hanno i sentimenti: Flaubert aseguraba que con buenos sentimientos no se puede hacer literatura. Una solemne estupidez. No se puede hacer literatura sin sentimientos, eso sí, pero si existen, buenos o malos, lo más probable es que quieran convertirse en letras y en historias. La historia de la literatura, en particular de la novela, se ha presentado como el relato de una temporada en el infierno o como la entrada en el corazón de las tinieblas. Es una visión muy chata, porque la experiencia humana demuestra que en esta vida hay infiernos y cielos, luz y oscuridad. La literatura no es sólo […] un canto a la fractura o un canto a la nostalgia de la comunión; la literatura es también un canto a esa comunión entrevista. La literatura también es -debe serlo- un humilde homenaje a la luz. (d’Ors, 2016, 234)

Se un testo letterario nasce da una scoperta, la riscrittura, la trasformazione dello stesso, soprattutto se si tratta di un’opera prima, nasce da un’esigenza di riscoperta: riscoprire le proprie origini, per essere coscienti del punto da cui si è cominciato, cosa si è fatto e soprattutto dove si vuole arrivare. È questo il percorso che ha fatto, e continua a fare, Pablo d’Ors, un “cristiano che scrive”, come si definisce, che cerca di rendere la letteratura un umile omaggio alla luce.

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

Bibliografia d’Ors, P. 2000. El estreno. Barcelona: Anagrama. d’Ors, P. 2012. Il debutto. Cagliari: Aìsara. d’Ors, P. 2016. El estreno. Barcelona: Galaxia Gutenberg. García Barrientos, J. L. 1999. La comunicación literaria. El lenguaje literario I. Madrid: Arco/Libros. Lazzarotto, M. 2014. La riscrittura. Milano: Feltrinelli. Sanz Villanueva, S. 2000. “El estreno. Pablo J. d’Ors”. El cultural in https:// elcultural.com/El-estreno (ultima consultazione 24.09.2020) Unamuno, M. de. 2009. Cómo se hace una novela. Madrid: Cátedra. Valdés, M. 1998. “De la filosofía a la teoría de la literatura”. Anthropos 181: 63-68. Yuste, J. 2016. “Pablo d’Ors: «Un escritor debe fiarse más de su mano que de su cabeza»”. El Cultural in https://elcultural.com/Pablo-dOrs-Unescritor-debe-fiarse-mas-de-su-mano-que-de-su-cabeza (ultima consultazione 24.09.2020) Zaccuri, A. 2018. “Pablo d’Ors: «La soluzione alla crisi della parola è educarsi al silenzio»”, Avvenire in https://www.avvenire.it/agora/pagine/pablodors-libri-vita-e-pensiero (ultima consultazione 24.09.2020)

Nordic metal, neofolk: l’eredità germanica in musica Elena Di Venosa Università degli Studi di Milano [email protected]

La musica metal, un fenomeno di nicchia nato nella scena sub-culturale, si era distinta, ai suoi albori nei primi anni Novanta, per le tonalità aggressive e l’istigazione alla violenza, tanto da suscitare l’interesse non tanto dei critici musicali, quanto di psicologi e sociologi.1 Inizialmente l’atteggiamento trasgressivo dei giovani artisti, ai limiti della criminalità,2 con tendenze fino al satanismo o al nazismo,3 aveva fatto sì che queste manifestazioni musicali venissero aspramente criticate e isolate.4 Il contesto attuale è molto diverso: non solo il metal ha preso le distanze dai primordi violenti e di estrema destra, ma vi sono anche band metal apertamente antifasciste, come lo storico gruppo brasiliano Sepultura.5 1

Manea 2016: 7. È noto per esempio il fenomeno delle chiese incendiate in Norvegia. Per una approfondita trattazione di questo tema cfr. Moynihan, M.; Søderlind 2011. Ringrazio il dott. Eric Ferrari, scandinavista e musicista nella band black metal Mascharat, per la segnalazione di questo studio e per molti altri suggerimenti. 3 Moynihan, M.; Søderlind 2011: 265-294; 333-362 (cap. 11: Furor teutonicus; cap. 13: Ragnarök, paragrafo Camicie nere del black metal). 4 Heesch 2014: 146. Ancora nei primi anni 2000 si devono leggere stroncature, come la recensione di Mühlmann 2002: 99, che definisce “stupidi” (dämlich) i testi dell’album Des Blutes Stimmes (2002) della band pagan metal tedesca Riger, i quali sembrano “la versione metal di un raduno del Partito Nazionaldemocratico di Germania all’Oktoberfest” (wie die Metalversion von Oktoberfest meets NPD-Versammlung). 5 https://www.metal-archives.com/bands/Sepultura/78 (ultima consultazione 26.08.2020). Cercando “antifascism” nella Encyclopaedia Metallum sono risultate centoquarantotto band metal in tutto il mondo impegnate su questo fronte. Anche molte band neofolk si dichiarano apolitiche. Al festival “Elfenfolk” del 22 gennaio 2005 le band Nebelhexe, Faun e Sol Invictus hanno cantato al motto di “Elfen gegen Rechts” ‘gli elfi contro la destra’. Cfr. Schurmann 2006. 2

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Il metal oggi si è evoluto e articolato nei contenuti e ha saputo conquistare un ampio pubblico,6 grazie anche a messaggi positivi, per esempio di tema ecologico o filosofico. Di conseguenza, anche gli studi su questo fenomeno musicale si sono moltiplicati, soprattutto quelli di taglio (etno-)musicologico e culturale.7 Uno dei filoni più interessanti del metal è quello che si ispira a immagini, miti e testi del germanesimo, un concetto storico-culturale qui inteso in senso ampio, che inizia con la preistoria delle tribù germaniche e le loro migrazioni, e prosegue con l’età vichinga fino a toccare l’epoca feudale inglese e tedesca. Come spiega Giuliano D’Amico,8 la musica popolare, moderna, è generalmente poco studiata perché considerata inferiore a quella “alta”, la musica classica; però vi sono dei casi, come quello che affrontiamo in questa sede, in cui la cultura “bassa” si appropria di argomenti specifici della filologia germanica e delle discipline storico-letterarie antiche. Le band metal che si ispirano al mondo germanico, classificate come pagan metal o viking metal,9 sono numerose: in base allo spoglio di Florian Heesch della Encylopaedia Metallum per l’anno 2011,10 sono quasi seicento, e i numeri del 2020 confermano questo dato; ma il fenomeno è ancora più ampio poiché il metal è stato contaminato dal neofolk, un genere sorto alla metà degli anni Ottanta, che nonostante il nome non è una semplice rivisitazione con strumenti musicali moderni delle melodie folk, ma è un genere underground estremamente ramificato, con influssi punk, gothic e industrial, che tratta temi che vanno dall’occultismo alla politica estremista.11 L’influsso neofolk sul metal è così forte, che per l’anno 2020 l’Encylopaedia Metallum registra duemilaeotto band definite folk metal.12 Il discorso sul pagan e viking 6

Moynihan, M.; Søderlind 2011: 46. Manea 2016: 7-8. Si tenga presente anche la raccolta di contributi in Scott 2012, tratti dal primo congresso di metallectuals tenutosi a Salisburgo nel 2008, dal quale sono emerse le numerose propaggini di un genere musicale molto più complesso e profondo di quanto si pensi. 8 D’Amico 2009: 25. 9 Il metal può essere declinato nei suoi sottogeneri black, heavy, power, death, e così via; le band interessate al recupero del germanesimo vengono attribuite soprattutto al genere viking metal o pagan metal: le due denominazioni dipendono dai codici verbali e visuali scelti, ma spesso si possono usare come sinonimi, poiché entrambi fanno riferimento al mondo nordico antico. Cfr. Bénard-Goutouly 2013: 28; Manea 2016: 233. 10 Heesch 2014: 128. La Encyclopaedia Metallum si può consultare al link www.metalarchives.com (ultima consultazione 26.08.2020). 11 Per un approfondimento del genere neofolk cfr. Diesel, A.; Gerten, D. 20072, soprattutto Teil I: Einleitung und Vorgeschichte. 12 Il genere folk metal è stato approfondito da Bénard-Goutouly 2013. 7

NORDIC METAL, NEOFOLK: L’EREDITÀ GERMANICA IN MUSICA

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metal non può essere quindi distinto da quello sui sottogeneri del neofolk e folk13 che si occupano della stessa ambientazione, chiamati pagan folk e nordic folk. L’offerta artistica che si ispira al mondo germanico antico e medievale è pertanto estremamente ampia e varia, con sovrapposizioni di generi e molte incertezze nella loro identificazione:14 alcune band sfruttano simboli e suggestioni del germanesimo in modo superficiale e puramente scenografico, senza alcun interesse filologico, in un contesto musicale contemporaneo, come la band death metal e viking metal svedese Unleashed, i cui musicisti si limitano a portare al collo un pendente che rappresenta il martello del dio Thor e ai concerti mostrano un corno potorio riempito di birra o idromele, che versano sugli spettatori delle prime file.15 Sul versante opposto troviamo artisti la cui recitazione di canti e poemi medievali nella lingua originale e con l’accompagnamento di strumenti musicali antichi, come arpa e flauto, presuppone una ricerca storica: è il caso del gruppo folk tedesco Faun, tra le cui performance spicca l’interpretazione del Minnelied in alto tedesco medio Von den Elben del Minnesänger Heinrich von Morungen. Tra questi due estremi si collocano gruppi che recitano testi antichi in traduzione e arrangiamento moderni, come gli inglesi Sixth Comm di genere neofolk, che recitano strofe del carme eddico Vǫluspá in traduzione inglese;16 e altri che accompagnano testi di attualità con melodie tradizionali, come la band folk e viking metal faroese Týr – dal nome di uno dei principali dèi Asi – che si ispira alla musica tradizionale delle isole Far Ør, ma i cui testi esprimono ribellione contro la corruzione e avidità del mondo di oggi.17 Nelle realizzazioni musicali di questi artisti l’impatto visivo è fondamentale e permette di fare immediatamente delle associazioni di idee.18 I simboli della tradizione germanica, infatti, come il martello di Thor e il corno potorio, possono svolgere, come appena osservato, un mero scopo decorativo, ma più spesso queste immagini hanno una funzione 13

Il pagan folk e il nordic folk prendono le mosse dal folk rock britannico e irlandese, che già a partire dagli anni Sessanta-Settanta rielaborava temi arcaici. Cfr. Heesch 2014: 138. 14 Nel presente studio il genere musicale indicato per le singole band è desunto dalla Encyclopaedia Metallum oppure dai siti ufficiali delle band stesse o da recensioni o siti specializzati, scegliendo a volte tra più denominazioni discordanti tra loro. 15 Cfr. Moynihan, M.; Søderlind 2011: 44-45. 16 Nell’album Fruits of Yggdrasil (2016), il cui titolo fa riferimento all’albero cosmico germanico. 17 https://tyr.fo/bio (ultima consultazione: 06.11.2020). 18 Bénard-Goutouly 2013: 27.

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evocativa. Particolarmente frequente è l’uso dell’alfabeto runico, presente sulle copertine degli album come simboli distinti o come scrittura di titoli e paratesti.19 Ancora più significativi sono i personaggi della società o mitologia germanica che vengono impersonati dai musicisti stessi. L’immagine preferita è quella del guerriero forte e nerboruto, con lunghi capelli biondi. La figura del germano bellicoso è appropriata per esprimere l’aggressività e la rabbia, nonché la voglia di ribellione contro i valori culturali e le norme sociali del mondo occidentale, che caratterizzano i rappresentanti del metal;20 la stessa funzione è svolta dai rimandi ai principali dèi Asi – Odino, Thor e Týr – che erano invocati per ottenere la vittoria in battaglia. Più complesso è il ruolo di un altro personaggio mitico molto sfruttato dalle band metal,21 il berserkr, un guerriero dai tratti sciamanici, capace di combattere con furore,22 che ben rappresenta la “muscolarità” di questo genere musicale. Questo personaggio è ambivalente: esso piace sia per la sua “bestialità”, essendo una figura quasi mostruosa, che combatte nuda o coperta di pelli e possiede l’istinto feroce degli animali predatori,23 sia per la sua capacità di veicolare una critica sociale, poiché il suo furore simboleggia la follia, non del guerriero, ma della nostra società violenta.24 Le band che si ispirano invece a un’epoca medievale più tarda o al folklore si mostrano in scena con abiti di ispirazione vichinga o feudale o mitica, impersonando figure come valchirie o sacerdotesse. Le immagini che abbiamo in mente di vichinghi, di figure mitiche come elfi e nani, o di dèi corpulenti come Thor sono note alla maggior parte dei musicisti soprattutto grazie alle rivisitazioni della materia germanica operate da Wagner e Tolkien – mostri sacri della musica operistica e della narrativa fantasy che non hanno bisogno di presentazioni. A proposito possiamo citare la band tedesca Grave Digger,25 19 Le rune vengono scelte spesso anche per denominare le band. Nel database della Encyclopaedia Metallum troviamo per esempio i tedeschi Odal (runa della proprietà terriera) e gli statunitensi Peordh (runa del cavallo). Sono in attività anche cinque band di nome Hagalaz (runa della grandine), rispettivamente da Germania, Stati Uniti, Italia, Grecia e Norvegia. I nomi delle rune Odal e Peordh presentano una grafia modernizzata della variante anglosassone; il nome Hagalaz è la grafia della ricostruzione germanica. 20 Manea 2016: 17-18. 21 Attualmente la Encyclopaedia Metallum registra dodici band di nome Berserk o con grafia norrena Berserkr. 22 Manea 2016: 148. 23 Walsh 2013: 63. 24 von Helden 2010. 25 https://www.metal-archives.com/bands/Grave_Digger/391. Il loro genere non è dichiaratamente pagan o viking metal, ma è definito speed metal e heavy e power metal.

NORDIC METAL, NEOFOLK: L’EREDITÀ GERMANICA IN MUSICA

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che ha pubblicato un album intitolato Rheingold (2003) quale esplicito riferimento alla tetralogia wagneriana Der Ring des Nibelungen; e la band melodic death metal svedese Amon Amarth,26 il cui nome è tratto dalla trilogia di Tolkien The Lord of the Rings: infatti nella narrativa tolkieniana Amon Amarth (Amon ‘monte’, Amarth ‘fato’) è il vulcano di Mordor, dove Sauron ha forgiato l’anello.27 Questa band sembra comunque conoscere a fondo le fonti nordiche antiche, a giudicare dai titoli dei loro album, come With Oden on our side (2006) che contiene il brano Hermod’s ride to Hel – Loke’s Treachery Part I, che ripercorre il mito del tradimento del dio Baldr da parte di Loki, con il successivo viaggio agli inferi del dio Hermod per far ritornare Baldr ad Asgard dal regno dei morti. Inoltre l’immagine sulla copertina dell’album, raffigurante Odino e il suo cavallo Sleipnir a otto zampe, è tratta dalla famosa stele runica di Tjängvide, a Gotland, in Svezia. La mancanza di una seria ricerca filologica da parte di molti musicisti si deduce da testimonianze come l’intervista condotta da Florian Heesch28 a Markus Frost, paroliere della band folk metal tedesca Adorned Brood,29 il quale afferma: “Wikinger oder Germanen – ist ja alles das Gleiche” (‘Vichinghi o Germani – fa lo stesso’). Egli spiega di essersi informato attraverso un non meglio precisato libro “Die Germanen” e i cartoni animati “Valhalla”. Eppure i titoli dei loro primi album farebbero pensare a uno studio più approfondito della materia: Hiltia (1996) prende il nome dalla valchiria Hildr e Asgard (2000) è il nome del regno degli dèi Asi nella cosmologia norrena. Il loro album più recente, Kuningaz (2012), testimonia inoltre una almeno superficiale conoscenza della ricostruzione del germanico, come in questo caso del termine per “re”.30 Il problema della ricezione del germanesimo non riguarda solo gli artisti che lo propongono, ma anche il loro pubblico, che non sempre ha sufficienti competenze storico-filologiche per comprendere 26

https://www.metal-archives.com/bands/Amon_Amarth/150. http://tolkiengateway.net/wiki/Amon_Amarth (ultima consultazione 22.03.2020). 28 Heesch 2014: 139-140. 29 https://www.metal-archives.com/bands/Adorned_Brood/2529. 30 Un’imprecisione imputabile a una scarsa conoscenza della materia è quella commessa dal gruppo folk metal tedesco In Extremo, che canta il Wessobrunner Gebet in antico alto tedesco (IX sec.): l’espressione ni uuas (‘non c’era’) ricorre al v. 2 (dat ero ni uuas ‘la terra non c’era’) e al v. 3 (noh pereg ni uuas ‘nemmeno il monte c’era’). Alla prima occorrenza il cantante pronuncia il verbo correttamente, alla seconda invece lo pronuncia ni unas, senza accorgersi che si tratta della stessa espressione, che qui evidentemente hanno trascritto con un banale errore di lettura di come . Cfr. edizione Braune, W.; Ebbinghaus, E. A. 1994: 85-86. 27

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interamente le immagini evocate e i testi delle canzoni; a volte inoltre i riferimenti intertestuali non sono marcati,31 e quando i brani sono solo strumentali il tema si può dedurre solo dal titolo. È molto probabile quindi che in mancanza del fenomeno dell’agnizione, che porterebbe il pubblico a riconoscere la citazione e a diventare consapevole del rimando storico, le composizioni musicali, sia metal che neofolk, siano lette distrattamente e la materia venga recepita in modo approssimativo. Tuttavia, se è vero che alcuni musicisti si improvvisano medievisti, vi sono anche gruppi che svolgono ricerche approfondite prima di creare i loro album e studiano le fonti per poterle fare proprie musicalmente e plasmarle secondo la propria filosofia di vita. Per esempio la band black metal svedese Arckanum,32 non più attiva, aveva come artista di spicco uno scrittore noto con lo pseudonimo Ekortu, che ha prodotto anche dei saggi per spiegare la sua concezione del neopaganesimo di tipo Thursatru e Jotnatru (cioè la venerazione di due tipi di giganti della mitologia scandinava).33 Vengono portati avanti anche progetti impegnativi come quello della band pagan black metal tedesca Helrunar (‘rune degli inferi’),34 che offre al suo pubblico la recitazione del poema eddico Baldrs Draumar (2007) in antico nordico; in questo caso il brano è palesemente accessibile solo agli studiosi di filologia germanica e di antichità scandinave. La voce canta senza accompagnamento musicale, ma solo con il sottofondo del mugghiare del vento, che evoca immagini di paesaggi inospitali e freddi. La ricerca filologica e storica la troviamo in eguale misura nel versante del neofolk: uno dei progetti più interessanti di questa scena musicale appartiene al gruppo nordic ritual folk norvegese Wardruna ‘Runa della protezione’,35 che sfrutta immagini dello sciamanesimo e mescola sonorità di strumenti tradizionali (cornamuse, ghironde, flauti) con strumenti moderni (sintetizzatori, computer). È da segnalare soprattutto la loro trilogia Runaljod, ‘Canto delle rune’: le rune sono citate a gruppi di otto, come nell’alfabeto futhark antico. Il primo volume, Gap var Ginnunga (2009), è dedicato, come suggerisce 31

Heesch 2014: 136. https://www.metal-archives.com/bands/Arckanum/2712. 33 Ekortu 2014; http://www.ekortu.net/index2.htm (ultima consultazione 23.08.2020). Un titolo di Ekortu trovato in rete ma non reperibile è Þursakyngi, Volume 1: The Essence of Thursian Sorcery, Tampere: 2014, pubblicato dalla casa editrice di testi esoterici Ixaxaar. 34 https://www.metal-archives.com/bands/Helrunar/13391. 35 http://wardruna.com/about/. I Wardruna sono noti per aver contribuito alla colonna sonora della serie televisiva Vikings. 32

NORDIC METAL, NEOFOLK: L’EREDITÀ GERMANICA IN MUSICA

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il titolo, al Ginnungagap, il vuoto primordiale da cui nasce il cosmo, citato nel carme eddico Vǫluspá.36 L’album si apre con un brano solo strumentale, Ár Var Alda ‘era al principio dei tempi’, che sono le parole più famose dello stesso carme. Il secondo volume, Yggdrasil (2013), è dedicato, come indica il titolo, all’albero cosmico; il terzo volume, Ragnarok (2016), cita nel titolo il nome con cui nell’antica Scandinavia si concepiva l’apocalisse. I tre album rappresentano quindi l’inizio e la fine del mondo, con al centro l’albero della vita. Recentemente i Wardruna hanno interpretato anche un noto componimento dello scaldo Egill Skallagrímsson (ca. 910-990), Sonatorrek, dall’album Skald (2018). La voce è quella del cantante Einar Selvik, che recita il carme seguendo una melodia arcaizzante, senza alcun accompagnamento musicale. Anche in questo caso il brano può essere apprezzato solo dai cultori della letteratura norrena. Molto particolare è il caso della band Heilung ‘Salvezza’, fondata nel 2014 da musicisti tedeschi, danesi e norvegesi. Il loro genere è definito experimental folk e nordic ritual folk, ma è difficile inquadrarlo in modo preciso poiché lo stile è unico: essi sfruttano soprattutto la tecnica del canto armonico difonico per infondere uno stato di meditazione e trance. Gli artisti del gruppo definiscono la loro produzione “amplified history from early medieval northern Europe”37 e con il loro progetto si pongono l’obiettivo di far risorgere suoni e toni del passato: essi cantano in diverse lingue antiche, tra cui il latino, il gotico e l’antico nordico; le loro scenografie sono spettacolari in quanto riproducono le immagini di un’ipotetica preistoria germanica e vichinga, con copricapi fatti di corna, vestiti in foggia di tuniche grezze, monili e strumenti musicali costruiti con osso e altri materiali che si suppone fossero tipici dell’Età del Bronzo e del Ferro. La loro ricerca storica ha una motivazione puramente musicale ed estetica, per trasportare il pubblico in un’epoca precristiana non ancora corrotta dai dissidi politici.38 36 ‘Un baratro informe c’era’ (traduzione di M. Meli in Scardigli 1982:5). L’espressione gap var ginnunga costituisce il v. 4a della terza strofa della Vǫluspá. Cfr. edizione Dronke 1997: 7. 37 In mancanza di un sito ufficiale di Heilung, le poche informazioni sulla band sono reperibili solo dalla loro pagina Facebook (https://www.facebook.com/amplifiedhistory/), da Wikipedia (https://de.wikipedia.org/wiki/Heilung_(Band)) e da siti di case discografiche, come l’etichetta Season of Mist (https://www.season-of-mist.com/bands/heilung/). La citazione è tratta dalla loro pagina Facebook. (ultima consultazione: 23.08.2020). 38 Nella loro pagina Facebook si legge: “Every attempt to link the music to modern political or religious points are pointless, since Heilung tries to connect the listener to the time before Christianity and its political offsprings raped and burned itself into the northern European mentality”.

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

L’accuratezza scenica è indiscutibile; ma per valutare se la band operi un’altrettanto precisa e corretta elaborazione dei testi antichi, possiamo analizzare la loro canzone Futhorck, dall’album dal vivo Lifa (2015), che recita parte del Poemetto runico anglosassone, un componimento di ventinove strofe, ognuna dedicata a una runa.39 Il termine fuþark, nella variante anglosassone fuþorc, è formato dalla successione delle prime sei rune. Nel titolo della canzone sono da notare la grafia per la runa Thorn per facilitare la lettura del nome; la presenza di conferma che l’alfabeto runico qui rappresentato è quello della variante anglosassone, in cui la runa /a/ è passata a /ō/;40 la grafia è interessante perché indica una pronuncia occlusiva della runa /k/:41 i musicisti di Heilung sembrano rifiutare, o non conoscere, la teoria più diffusa, secondo cui il suono originario /k/ si fosse affricato in seguito a palatalizzazione.42 Il titolo completo del brano è Fylgija Ear – Futhorck: nella mitologia nordica il nome Fylg(i)ja indica uno spirito protettivo che segue e accompagna una persona dalla nascita, generalmente in forma di animale;43 Ear è il nome della runa della terra che copre i cadaveri.44 Il brano rimanda quindi a tutto l’arco della vita umana, e le rune ne simboleggiano le tappe e le esperienze. L’esecuzione45 è caratterizzata da due voci maschili e una femminile che si alternano, e dalla ripetizione insistente di alcuni versi: la prima voce maschile, che è accompagnata da percussioni che ne incalzano il ritmo, inizia con la traduzione tedesca della strofa sulla runa Ear, l’ultima del poemetto (vv. 90-94):

39 Edizione Dickins 1915. Il poemetto era trasmesso dal f. 165 del cod. Cotton Otho B. x (XI sec.) di proprietà della biblioteca di Sir Robert Cotton; quando essa subì un incendio nel 1731, parte del codice, incluso il foglio del poemetto, andò distrutta. I versi sono noti oggi solo attraverso copie del XVIII secolo, di cui è difficile valutare l’affidabilità, soprattutto per quanto riguarda la fedeltà nella trascrizione delle strofe e la presunta aggiunta in età moderna dei nomi delle rune; la stessa datazione all’XI secolo o precedente è difficile da stabilire per la presenza di elementi sia arcaici che tardi dell’antico inglese. 40 Krause 19932: 16. 41 Per esempio la runa Cen viene pronunciata [kɛn] invece di [ʧɛn], e il prefisso ge- [ge] invece di [je]. Solo il nesso viene pronunciato palatalizzato [ʃ]. Nella loro pronuncia dell’anglosassone si notano altre imprecisioni, come la resa di consonantica, forse per influsso del tedesco, invece che semivocalica. 42 Lehnert 199010: 55-56; 67-71. 43 Turville Petre 1996: 300-303. 44 Dickins 1915: 23 traduce con the grave, ma lascia il punto interrogativo. Per l’interpretazione dei nomi delle rune, il punto di riferimento è la traduzione inglese di Dickins. 45 La performance dura circa dodici minuti: https://www.youtube.com/watch?v=KEL9V2ez9z4.

NORDIC METAL, NEOFOLK: L’EREDITÀ GERMANICA IN MUSICA

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Grab bleibt Ekel jedem Edeling Wenn faulendes Fleisch sich gärt Grund klagt grausam kühlend Fahren die Gaben hin, verfaulen Garben Freude bricht fort, Verträge brechen.

I versi originali anglosassoni e la traduzione inglese di Dickins sono i seguenti: Ear byþ egle eorla gehwylcun, ðonn[e] fæstlice flæsc onginneþ, hraw colian, hrusan ceosan blac to gebeddan; bleda gedreosaþ, wynna gewitaþ, wera geswicaþ. [EA. (the grave?) is horrible to every knight, when the corpse quickly begins to cool and is laid in the bosom of the dark earth. Prosperity declines, happiness passes away and covenants are broken.]

La strofa è ripetuta quattro volte, seguita da sedici ripetizioni di quella che sembra la chiave del discorso: Verträge brechen, ‘infrangere i patti’. Interviene poi la voce femminile, che ripete tre volte la stessa strofa, ma in antico inglese. La canzone prosegue con la seconda voce maschile che riprende la recitazione, non cantata, ma con voce monocorde e sottofondo di percussioni, della maggior parte del poemetto originale, e il brano termina con la voce femminile che torna insistentemente sulla strofa Ear. Il testo si attiene fedelmente all’edizione di Dickins,46 ma mancano diverse strofe. Sono presenti le prime sette: Feoh ‘ricchezza’, Ur ‘uro’, Đorn ‘spina’, Os ‘bocca, inizio’,47 Rad ‘cavalcata, carro’,48 Cen ‘torcia’, ma mancano le successive due, Gyfu ‘generosità’ e Wenne ‘gioia’, come se i musicisti di Heilung avessero voluto omettere le rune che indicano concetti favorevoli.49 Infatti la 46 In base ai sottotitoli del video, solo una parola della strofa Man sembra divergere dall’edizione Dickins: forðam drihten wyle dome sine, tradotto da Dickins con ‘since the Lord by his decree will commit’, che nel video risulta come forðam godu wyle dome sine, tradotto con ‘since the gods by their decree will commit’. L’autore dei sottotitoli forse ha volutamente alterato il testo per dargli un’impronta pagana. 47 Dickins preferisce non tradurre il nome, che viene in genere interpretato come ‘bocca’ per influsso del latino ōs. 48 Anche il significato di Rad è dibattuto; Dickins lascia il nome della runa senza traduzione. 49 In una comunicazione personale della band del 26.09.2020 attraverso il canale Messenger di Facebook, la scelta di queste strofe viene così giustificata: “The selection we chose is based on a vision Kai [uno dei cantanti] had for this piece. So certain runes are left out to amplify the meaning envisioned for this particular song.”.

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

recitazione riprende con altre tre strofe riguardanti circostanze di difficoltà: Hægl ‘grandine’, Nyd ‘necessità’ e Is ‘ghiaccio’, e manca quella dopo, di nuovo di significato positivo, Ger ‘estate’. Molto dubbia è la selezione delle strofe successive: viene cantata la strofa Eoh ‘albero del tasso’, ma mancano Peorð ‘cavallo’ e Eolh-secg ‘canneto’;50 sono presenti Sigel ‘sole’, Tir ‘Týr’51 e Beorc ‘pioppo’, ma viene omessa la strofa Eh ‘cavallo’. Seguono Man ‘uomo’ e Lagu ‘oceano’, ma poi si passa direttamente all’ultima strofa Ear, sorvolando su Ing ‘il dio Ing’, Eþel ‘proprietà terriera’, Dæg ‘giorno’, Ac ‘quercia’, Æsc ‘frassino’, Yr e Iar.52 In sintesi, i musicisti di Heilung sembrano non aver costruito, con le rune, un discorso coerente con il tema dei “patti non rispettati” su cui avevano insistito all’inizio della performance: quello che è prevalso è la recitazione in sé di una litania ipnotica. Gli esempi citati mostrano vari modi di accostarsi al germanesimo, dettati da motivazioni diverse. In alcuni casi la materia viene ripresa per l’effetto scenico e come semplice componente ludica e di intrattenimento,53 soprattutto quando si ispira al fantasy e a Tolkien; ma può fungere anche da strumento mitopoietico e di creazione di un’utopia escapista:54 i miti germanici antichi diventano una chiave di lettura dell’epoca moderna e offrono una nuova narrazione del presente, un’alternativa, una nuova spiritualità quasi elitaria di rifiuto della contemporaneità e di aspirazione a tornare al selvaggio primordiale, e intanto creano una nuova tradizione, un nuovo mondo e una nuova identità sociale fondati su principi ormai perduti come quelli attribuiti alle genti germaniche: fedeltà, rettitudine, vita a stretto contatto con la natura. Da questo punto di vista, una ricostruzione storica e filologica precisa non è fondamentale, né per gli artisti, né per il pubblico, poiché per trasmettere questo messaggio utopico sono sufficienti gli stereotipi e delle immagini evocative. La ricezione del germanesimo nella scena musicale può svolgere infine una funzione puramente artistica, per un’esigenza delle band di rinnovarsi e variare le proprie 50

Forse sono state omesse perché di significato incerto; Dickins suggerisce che Peorð sia il cavallo del gioco degli scacchi, mentre di Eolh-secg lascia il primo elemento senza traduzione. 51 La runa indicava originariamente il dio Týr, ma Dickins preferisce non proporre alcuna traduzione; la strofa sembra riferirsi a qualcosa che funge da segnale, da indicatore, come una stella. 52 I nomi delle rune Yr e Iar non sono tradotti da Dickins; si tratta infatti di interpretazioni molto incerte: forse Yr indica di nuovo il ‘tasso’, mentre Iar forse indica l’‘anguilla’. 53 Heesch 2014: 141. 54 Manea 2016: 22; 35; 204.

NORDIC METAL, NEOFOLK: L’EREDITÀ GERMANICA IN MUSICA

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tematiche:55 serve a distinguersi da altri gruppi attraverso un inedito codice di comunicazione, che parte da un ipertesto germanico antico e sperimenta nuove combinazioni di musica, testo e immagine,56 in un gioco intertestuale e intersemiotico, ben visibile proprio nella stretta relazione tra scenografia e sonorità oniriche di Heilung, che unisce le voci del passato e del presente.

Bibliografia Bénard-Goutouly, N. 2013. Le métal folklorique, entre tradition et modernité. Sources d’inspiration, rites et postures idéologiques. s.l.: Camion Blanc. Braune, W.; Ebbinghaus, E. A. 1994. Althochdeutsches Lesebuch. Tübingen: Niemeyer. D’Amico, G. 2009. “Black Metal, Literature and Mythology. The Case of Cornelius Jakhelln”. Nordicum-Mediterraneum 4/1: 25-33. Dickins, B. 1915. Runic and heroic poems of the old Teutonic peoples, Cambridge: Cambridge University Press. Diesel, A.; Gerten, D. 20072. Looking for Europe – Neofolk und Hintergründe. Zeltingen-Rachtig: Index Verlag. Dronke, U. 1997. The poetic Edda – Volume 2: Mythological Poems. Oxford: Oxford University Press. Ekortu 2014. Thursatru. A short summary. http://www.ekortu.net/docs/thursatru.pdf (ultima consultazione 23.08.2020). Granholm, K. 2011. “‘Sons of Northern Darkness’: Heathen Influences in Black Metal and Neofolk Music”. Numen 58/4: 514-544. Heesch, F. 2014. “Nordisch – germanisch – deutsch? Zur Mythenrezeption im Heavy Metal.” In Helms, D. und Phleps, T. (Hrsg.) Typisch Deutsch. (Eigen-)Sichten auf populäre Musik in diesem unserem Land. Beiträge zur Popularmusikforschung 41. Bielefeld: Transcript: 127-151. von Helden, I. 2010. “‘A Furore Normannorum, Libera Nos Domine!’ A Short History of Going Berserk in Scandinavian Literature and Heavy Metal”. Inter-Disciplinary.Net. https://www. medievalists.net/2013/02/ a-furore-normannorum-libera-nos-domine-a-short-history-of-goingberserk-in-scandinavian-literature-and-heavy-metal/ (ultima consultazio­ ne 23.08.2020). von Helden, I. 2012. “Barbarians and Literature. Viking Metal and its Links to Old Norse Mythology”. In Scott, N. (ed.) Reflections in the Metal Void. Oxford: Inter-Disciplinary Press: 155-166.

55 56

Manea 2016: 22. Heesch 2014: 127.

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

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La tragedia Axel e Valborg di Adam Oehlenschläger nella riscrittura per musica di Alessandro De Stefani (La Cattedrale, 1938) Andrea Meregalli Università degli Studi di Milano [email protected]

Il viaggio che tra il 1805 e il 1809 porta il poeta romantico danese Adam Gottlob Oehlenschläger (1779-1850) a visitare Germania, Svizzera, Italia e Francia, è un periodo particolarmente fecondo per la sua penna, che dà vita ad alcuni dei suoi capolavori più celebri. Durante il soggiorno a Parigi nel 1808 vede la luce il dramma Axel og Valborg (Axel e Valborg), pubblicato poi nel 1810 e messo in scena la prima volta il 29 gennaio dello stesso anno al Teatro Reale di Copenaghen (Oehlenschläger 1975: 9). La fonte è una vicenda oggetto di una ballata assai popolare, Aslag Tordsøn og skøn Valborg (Aslag Tordsøn e la bella Valborg), ascrivibile al sottogenere delle ridderviser, le ‘ballate dei cavalieri’, i cui temi e contenuti traggono ispirazione dalla letteratura cavalleresca europea e spesso presentano storie d’amore che entrano in contrasto con l’ordine sociale costituito, determinando un esito tragico (Pedersen 2007: 163-167).1 La vicenda è ambientata a Nidaros, l’odierna Trondheim, all’epoca centro politico e spirituale della Norvegia. La versione rielaborata da Oehlenschläger mantiene al centro la storia d’amore tra il giovane Axel e la bella Valborg, osteggiati dal re Hakon, che, invaghito della fan1 Secondo i repertori tradizionali per la catalogazione delle ballate, il testo usato da Oehlenschläger corrisponde al numero 475 della raccolta Danmarks gamle Folkeviser (DgF, vol. 8) e al modello D 87 nella classificazione trasversale alle diverse lingue nordiche (TSB). Il nome del protagonista maschile è una variante danese rispetto alla forma usata da Oehlenschläger.

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ciulla, fa leva sul loro rapporto di parentela (i due sono cugini primi) per impedirne l’unione (Svane 2008: 131-134). Axel parte quindi per un viaggio che lo porta a Roma, dove ottiene una dispensa papale che toglie ogni ostacolo alle nozze. Di ritorno in Norvegia, però, durante la stessa cerimonia nuziale nella cattedrale, sorge un nuovo ostacolo: un monaco, in combutta con il sovrano, ha scoperto che i due sono anche “fratelli al fonte battesimale”, in quanto battezzati nello stesso giorno, allo stesso fonte e con la stessa madrina. Questo crea un vincolo che per la legge canonica rende impossibile il matrimonio. A questo punto Vilhelm, amico fraterno di Axel, decide di venire loro in aiuto per rapire la fanciulla e permettere ai due di fuggire insieme. Inganna i soldati posti a guardia della giovane inscenando un’apparizione di sant’Olav, le cui spoglie sono conservate nella chiesa, e il piano sta per avere successo quando si scopre che è in atto una rivolta di nobili infedeli contro il re. Axel rifiuta di abbandonare il suo signore in un momento di pericolo e resta a combattere accanto a lui fino a dare la vita per salvarlo. Valborg si riunisce all’amato solo quando questi è già spirato e muore anche lei accanto al suo corpo esanime. Al di là dell’intreccio amoroso, nei dialoghi dei personaggi l’autore approfondisce temi più complessi, come il legame di fedeltà al sovrano, che confligge con i moti del cuore. A questo s’intreccia il discorso “nazionale” sul sentimento patriottico, soprattutto nella prospettiva di Axel che ritorna dopo anni di lontananza, e sulla costruzione di un’identità nordica, fondata su una tradizione culturale per nulla inferiore a quella di matrice classica dell’Europa meridionale. Si leggano per esempio alcune delle parole di Axel a Vilhelm nel dialogo che apre il primo atto: Du fulgte mig til Norge for at kiende Den nordiske Natur. Alt skalst du skue. Men Kiærligheden, Ven! er ogsaa nordisk. Den høie Agtelse for Qvinden, Vilhelm! Har Sydens Ridder lært af Nordens Kæmpe. Hvis du vil kiende Nordens Aand og Sæder, Maa du begynde med dens Kiærlighed. (Oehlenschläger 1975: 30) Mi hai seguito in Norvegia per conoscere la natura nordica. Vedrai tutto. Ma l’amore, amico mio! anch’esso è nordico. La grande ammirazione per la donna, Vilhelm! il cavaliere del Sud l’ha appresa dall’eroe del Nord.

LA TRAGEDIA AXEL E VALBORG DI ADAM OEHLENSCHLÄGER

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Se vuoi conoscere lo spirito e i costumi del Nord, devi iniziare dal suo modo di amare.2

A questo fine contribuisce anche l’accurato contesto storico che Oehlenschläger ricostruisce, principalmente sulla base di informazioni tratte da Snorri Sturluson (Oehlenschläger 1975: 15-17), collocando la vicenda nel 1162 e attribuendole precisi contorni e riferimenti, assenti invece nella ballata secondo le caratteristiche tipiche di questo genere, che anche quando contempla personaggi storici li colloca in una dimensione indeterminata, priva di connotazioni spazio-temporali definite.3 Benché questo dramma si possa annoverare tra i più celebri dell’autore e fra i capolavori del canone letterario danese, manca una traduzione italiana dell’opera. Del resto la fortuna di Oehlenschläger nel nostro paese è stata sporadica, limitata soprattutto a poesie e due soli drammi tra i molti titoli della sua ampia produzione.4 Spesso, peraltro, fino a tutta la prima metà del Novecento, la circolazione del poeta danese in italiano avviene grazie a traduzioni indirette, mediate da lingue di prestigio, in primo luogo il francese. In questo contesto, la vicenda di Aksel og Valborg è del tutto particolare perché, pur mancando una traduzione dell’opera in italiano, il testo è stato oggetto di una riscrittura in forma di libretto.5 L’autore dell’operazione è Alessandro De Stefani (1891-1970), drammaturgo che negli anni ’20 e ’30 del Novecento gode di un certo successo (Pulce 1991). All’attività autoriale affianca un ampio lavoro come traduttore, che porterà avanti anche nel secondo dopoguerra, quando è attivo anche come giornalista, sceneggiatore e regista. Fra gli autori da lui tradotti si annoverano soprattutto classici delle letterature in lingua inglese e francese, come Shakespeare, Ben Johnson, Dickens, Dumas, Maeterlinck, ma è a lui che si deve anche una delle pochissime 2 Traduzione mia; si rendono in prosa i pentametri giambici liberi di Oehlenschläger, la suddivisione in righe rispetta il contenuto dei versi originali. 3 Giova ricordare che fino al 1814 la Norvegia è parte integrante del regno di Danimarca, non deve quindi stupire che un episodio della storia norvegese, quale è qui presentata la vicenda di Axel e Valborg, venga considerato parte del proprio patrimonio storico da un autore danese. 4 Per un elenco delle traduzioni italiane di Oehlenschläger si veda Meregalli 2012, integrabile con le indicazioni aggiornate alla pagina http://www.letteraturenordiche.it/ danimarca.htm (ultima consultazione: 11 marzo 2020). 5 Il termine “libretto” è qui usato con il significato generico di “testo verbale […] composto in funzione della musica e della scena” (Bonomi e Buroni 2017: 22), benché nella prima metà del Novecento sia piuttosto in disuso.

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

traduzioni italiane del teatro di Oehlenschläger, la tragedia Hakon Jarl hin Rige, pubblicata nel 1916 con il titolo Il conte Hakon. Non consta tuttavia che il danese rientrasse fra le lingue padroneggiate da De Stefani, infatti è stato dimostrato che questa traduzione è basata non sull’originale, ma sulla versione francese di David Soldi apparsa nel 1881 all’interno del volume Théâtre choisi de Œhlenschlæger et de Holberg, curato dallo stesso Soldi e da Xavier Marmier (Meregalli 2018).6 La raccolta francese usata da De Stefani contiene, oltre al dramma sullo jarl Hakon, altri due testi del drammaturgo danese: Correggio (Le Corrège, tradotto da Marmier), dedicato al pittore rinascimentale italiano, e Aksel og Valborg (Axel et Valborg, tradotto da Soldi; cfr. Oehlenschläger 1881). È quindi legittimo ipotizzare che risalga a questa prima esperienza giovanile l’incontro di De Stefani con quello che oltre vent’anni dopo sarebbe diventato il soggetto della sua riscrittura. La vicenda è infatti rielaborata in un’opera dal titolo La Cattedrale, la cui derivazione dalla tragedia di Oehlenschläger è esplicitamente dichiarata nel sottotitolo: “Tre atti […] dal dramma ‘Axel e Valborg’ di Öhlenschläger”. L’opera, musicata da Mario Mariotti, andò in scena la prima volta al Teatro Donizetti di Bergamo il 21 settembre 1938.7 Come per la traduzione del 1916, non è difficile dimostrare che anche in questo caso l’ipotesto su cui De Stefani ha lavorato non è costituito dall’originale danese ma dalla traduzione francese di Soldi. Benché qui si tratti di una riscrittura, non di una traduzione, e quindi la resa sia più libera e l’autore intervenga non di rado con modifiche e innovazioni, è comunque possibile riconoscere, nelle parti in cui la fonte è seguita più da vicino, il modello francese come base della rielaborazione italiana. Gli esempi che si citeranno in seguito offriranno un’ampia dimostrazione di questo rapporto. Dell’ipotesto si mantiene anche l’uso della prosa, con cui, secondo una prassi diffusa fra i traduttori francesi dell’epoca, Soldi rende i versi dell’originale, salvo nel caso in cui estratti poetici siano riportati come tali nel testo stesso (se ne vedrà un esempio più avanti). 6 La figura di Xavier Marmier è fondamentale anche per la ricezione italiana delle letterature nordiche, basti pensare che la sua Histoire de la littérature en Danemark et en Suède del 1839 uscì in traduzione italiana già nel 1841 (Marmier 1841). Sul suo lavoro si vedano i recenti contributi raccolti in François e Reneteaud 2018. 7 La casa editrice Suvini Zerboni non ha notizie di ulteriori riprese dell’opera in anni successivi; ringrazio il Direttore editoriale responsabile, Alessandro Savasta, per l’informazione. Desidero ringraziare altresì il personale bibliotecario della Fondazione Cini di Venezia e della Biblioteca Reale di Copenaghen per l’aiuto fornitomi nel reperimento e nella consultazione del testo.

LA TRAGEDIA AXEL E VALBORG DI ADAM OEHLENSCHLÄGER



Per studiare il tipo di intervento che De Stefani compie rispetto alla sua fonte, è utile andare per ordine, a cominciare dalla lista dei personaggi:8 Oehlenschläger (1975: 19-20) Soldi (1881: 115) HAKON HERDEBRED, Norges Konge SIGURD AF REINE, hans Staller AXEL THORDSØN, hans Frænde VALBORG, Axels Brud VILHELM, hans Ven ERLAND, Erkebiskop KNUD, Sortebroder BIØRN Gamle ENDRID hin Unge KOLBEIN og Flere Kæmper En fiendtlig Kæmpe med Følge GOTFRIED, Vilhelms Svend Dronning THORA med sine Fruer og Jomfruer Biarkebeiner Munke

HAKON HERDEBRED, roi de Norvège. AXEL THORDSON, son parent. WILHELM, ami d’Axel. ERLAND, archevêque. CANUT, moine. SIGURD REINE, chef de l’armée. BJORN, le vieux, guerriers. ENDRID, le jeune, “ KOLBEIN, “ GOTFRED, écuyer de Wilhelm. THORA, reine-mêre. VALBORG, fiancée d’Axel. Soldats, moines, dames d’honneur, suivantes.

De Stefani (1938: 7) HAKON HARDEBRED, Re di Norvegia ESELIO, suo parente ALBATRA, fidanzata di Eselio ERLANDO, arcivescovo CANÙ, monaco THORA, Regina madre SIGURDO, capo del­ l’esercito norvegese BJORN soldati norvegesi KOLBEIN “ Un capo dei soldati di Erling, Guerrieri, Monaci, Dame d’onore, Popolo. Nel 1162

L’action se passe en 1162. […] Tiden er 1162.

Innanzitutto si può osservare come la generale tendenza all’italianizzazione dei nomi dei personaggi (es. Erlando, Sigurdo, Canù) sia spinta all’estremo nella resa dei nomi dei protagonisti. Axel diventa Eselio, basato sul corrispondente latino Eselius o Exelius, mentre il nome della protagonista viene sostituito con uno completamente diverso, Albatra. 8 Esula dagli obiettivi di questo lavoro un’indagine sull’edizione utilizzata per la traduzione francese. A scopo comparativo si cita, qui e nei passi successivi, il testo danese nell’edizione di Ingerslev-Jensen (Oehlenschläger 1975). Per chiarezza si riporta la versione francese di Soldi sotto il nome del traduttore; il rinvio, abbreviato, è da intendersi a Oehlenschläger 1881 in bibliografia. Dal momento che il francese offre una resa contenutisticamente vicina all’originale, non si reputa necessario aggiungere una traduzione italiana del testo danese. I corsivi sono originali ove non diversamente indicato; il grassetto qui è mio.

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

I nomi riportati in grassetto negli elenchi sopra mostrano i personaggi dell’originale (e quindi della traduzione francese) che mancano nella riscrittura di De Stefani. A parte due figure minori, Endrid e Gotfried, l’assenza più significativa è senz’altro quella di Vilhelm, l’amico tedesco di Axel, cui nell’originale spetta un ruolo fondamentale come confidente del protagonista, una funzione simile a quella di Horatio nello Hamlet di Shakespeare, le cui opere del resto sono fonte di costante ispirazione per il drammaturgo danese (Dvergsdal 1997: 316-320). La vicenda personale di Vilhelm, rievocata in analessi, lo lega anche ad altri personaggi perché si scopre che è figlio dell’attuale arcivescovo Erland, e svolge inoltre un ruolo chiave nello sviluppo dell’azione dal momento che è lui a escogitare e portare a compimento il piano per rapire Valborg e ricongiungerla ad Axel, mentre nella riscrittura Eselio agisce da solo. Alla fine del dramma, poi, assiste Axel e Valborg morenti, raccogliendone le ultime parole. Ulteriori caratteristiche dell’intervento di De Stefani si osservano procedendo a confrontare la didascalia iniziale, che pone la cattedrale di Nidaros come scena di tutta la tragedia, elemento da cui è tratto il titolo dell’opera italiana. Oehlenschläger (1975: 20) Handlingen foregaaer i Christ-Kirken i Nidaros. Til begge Sider Begravelser i Murene; midt paa Gulvet Harald Gilles Liigsteen. I Forgrunden tvende mægtige Kirkepiller, som understøtte Hvælvingen; den venstre betegnet med tre Kors; den høire viser Tegnet XX omkrandset af Forgietmigei.9 Dybt i Baggrunden Høialteret, hvorfra Hovedgangen gaaer ned mellem Stolestader paa begge Sider til Pillerne i Forgrunden. Over Altertavlen staaer et gyldent Skrin, der oplyses af de brogede Ruder i Choret, hvorigiennem Solen skinner. I Midten af Gangen en Lysekrone. Soldi (1881: 115) La scène se passe dans l’église du Christ à Nidaros (Drontheim). Des deux côtés, des sépulcres ; au milieu, la pierre funéraire de Harald Gille. Au premier plan, deux gros piliers soutiennent la voûte ; celui de gauche marqué de trois croix ; celui de droite porte la lettre V, en9 Si tratta di un monogramma formato dalle iniziali degli amanti, V e A priva di tratto orizzontale, sovrapposte (qui rese approssimativamente per ragioni tecniche). Come si nota, la versione francese riporta per errore la sola lettera V, mentre la riscrittura italiana fa riferimento alle due iniziali, adattate ai nuovi nomi dei protagonisti, A ed E. Non è tuttavia necessario ipotizzare un ricorso di De Stefani a una fonte alternativa dal momento che i riferimenti alle due lettere intrecciate nel corso dell’opera sono sufficienti a spiegare un’individuazione dell’errore nella traduzione da parte dell’autore italiano e una conseguente correzione per iniziativa autonoma.

LA TRAGEDIA AXEL E VALBORG DI ADAM OEHLENSCHLÄGER

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tourée de pensées. Au fond, le maitre-autel. Au dessus de la table de l’autel, un reliquaire doré, éclairé par les vitraux et sur lequel le soleil darde ses rayons. Au milieu un lustre. De Stefani (1938: 11) La chiesa del Cristo a Nidaros (Trondjem). Ai due lati, sepolcri; in mezzo, la tomba dei re. Colonne enormi sostengono la vôlta. Una, a sinistra, è segnata con tre croci; una, a destra, con scolpite le lettere A ed E intrecciate, ed è inghirlandata di fiori. In fondo l’altare, il coro, le vetrate dipinte attraverso le quali il sole penetra pallido.

Se il francese segue piuttosto fedelmente il suo modello, la riscrittura italiana si contraddistingue, anche nelle didascalie, per scelte più sintetiche. In particolare si può notare come venga eliminato il riferimento alla tomba di Harald Gille, il fondatore della dinastia cui appartiene anche il re Hakon e a cui più volte si fa riferimento nel corso del dramma. In generale, infatti, il libretto è contraddistinto da una minore accuratezza storica, con l’eliminazione dei numerosi riferimenti alla storia norvegese di cui è costellato il testo di Oehlenschläger. Nello stesso senso va interpretata anche la mancata menzione del reliquiario di sant’Olav, il re patrono della Norvegia.10 Le osservazioni fin qui formulate mettono in luce due direzioni di sintetizzazione del testo seguite da De Stefani: la riduzione delle parti dialogiche di contenuto più concettuale, sviluppate soprattutto nei dialoghi tra Axel e Vilhelm, e l’eliminazione di riferimenti al contesto storico. Questi interventi si possono spiegare con l’esigenza, da un lato, di approntare un testo adatto al pubblico italiano, nel quale questi aspetti potevano suscitare scarso interesse, e dall’altro di ridurre l’opera a dimensioni più adeguate ai tempi dell’esecuzione musicale. In effetti si osserva in generale una concentrazione sulla vicenda dei due amanti, con eliminazione di excursus e approfondimenti su altri temi o personaggi poco funzionali allo sviluppo del filone principale. Questa compressione della materia permette una riduzione da cinque atti a tre. La corrispondenza fra la struttura del libretto e quella dell’ipotesto si può sintetizzare nello schema seguente:

10 È interessare notare, a margine, che per la città di Trondheim De Stefani non mantiene il nome tedesco adottato in francese, Drontheim, come invece aveva fatto traducendo Il conte Hakon (Meregalli 2018: 169), bensì lo sostituisce con il nome norvegese (nella grafia corrente fino al 1928; quella attuale fu introdotta nel 1931). L’autore ha forse ampliato nel frattempo le sue conoscenze sul paese di cui scrive, così da potersi distaccare in modo più autonomo dalla fonte.

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

Libretto atto I atto II atto III

Traduzione francese11 I,2; I,4-5 + II,3-II,1-II,3;12 II,4 III,2-3-4 + IV,1-2-3-4-513 V,1-2 514

Queste sono le scene eliminate con i rispettivi contenuti: I,1: dialogo tra Axel e Vilhelm sull’antefatto I,3: monologo di Knud sull’ambizione I,6: monologo di Valborg II,2: dialogo tra Hakon e Knud con il piano per neutralizzare Axel III,1: dialogo tra Erland e Knud sul registro dei battesimi III,5: dialogo tra Erland e Vilhelm con il piano per rapire Valborg V,3: dialogo tra Vilhelm e Axel morente V,4: dialogo tra Vilhelm e Valborg morente

Le informazioni contenute in queste scene che risultano essenziali per comprendere la vicenda vengono offerte a lettori e spettatori italiani in altri punti, attraverso opportuni inserti. Questo procedimento rischia però di dar vita a involontarie incongruenze, sfuggite al controllo dell’autore, come nel passo seguente, tratto dal dialogo iniziale tra Eselio e Canù che apre il dramma italiano: Oehlenschläger (1975: 33-34) KNUD Jeg veed, hvorfor du drogst af Landet ud; Ak! alle Kirkens Brødre maatte rose Saa fromt et Forsæt hos saa ung en Svend; Du vilde ved Fraværelse betvinge Din syndefulde Brynde til skiøn Valborg. Nu, det var smukt giort, det var velgiort! godt giort!

11 Le indicazioni seguenti fanno riferimento, per praticità, alla suddivisione della traduzione francese in atti (numeri romani da I a V) e scene (cifre arabe), basate su entrate e uscite dei personaggi. Bisogna però ricordare che i cinque atti dell’originale danese non presentano una suddivisione in scene. 12 Il dialogo tra Hakon e Sigurd, in cui quest’ultimo rimprovera il re di debolezza (II,1), è sintetizzato tralasciando i riferimenti al contesto storico e inserito all’interno dell’incontro tra Hakon ed Eselio (II,3), in cui prima si rievocano le azioni compiute all’estero dal giovane, poi questi illustra i suoi piani per Valborg. 13 Il IV atto è fortemente ridotto e limitato agli elementi indispensabili per il prosieguo della vicenda: liberazione di Albatra, ricongiugimento dei due amanti, invasione dei ribelli, soccorso di Eselio al re. 14 L’ultima scena (V,5) è ridotta a una sola battuta (“Il re è morto combattendo!”; De Stefani 1938: 60), seguita dall’inno di guerra conclusivo. Sul “nuovo finale” ci si soffermerà in seguito.

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Men nu Tilbagereisen, kiære Søn? Dog fem Aars Tid er gaaet, det er sandt! I fem Aars Tid kan glemmes meget, veed jeg […]. Soldi (1881: 120) CANUT. – Je sais pourquoi tu quittas le pays. Hélas ! tous les frères de l’Eglise louèrent à l’envi une démarche aussi pieuse chez un jeune homme ; tu voulais, grâce à l’absence, combattre ta coupable passion pour la belle Valborg. C’était bien, très bien, mon fils ; mais ce retour ? cependant il s’est écoulé cinq années, il est vrai, depuis ton départ, et, durant cinq ans, on a le temps de beaucoup oublier. […] De Stefani (1938: 12; grassetto mio) CANÙ So perchè la patria lasciasti, pio figlio! Volevi combattere la cieca follìa che t’avea fatto amare Albatra, tua cugina e sorella al fonte battesimale. Fu bene, assai bene, pio figlio, partire. Ed ora ritorni. Sono passati cinqu’anni, e cinqu’anni fan molt’oblìare…

In questo punto è inserito il dato sulla parentela tra Eselio e Albatra, che nel testo originale è ricordato nel colloquio iniziale tra Axel e Vilhelm, ma De Stefani aggiunge subito anche il riferimento alla fratellanza al fonte battesimale. Questo dato è però, al momento, sconosciuto a Eselio e sarà rivelato solo durante la scena delle nozze interrotte. Se fosse noto a questo punto, costituirebbe subito un ostacolo invalicabile ai piani del giovane, impedendo lo sviluppo dell’azione. Un errore involontario è anche, probabilmente, l’allusione al fatto che uno dei soldati, Kolbein, possa aver personalmente conosciuto Olav il santo, nel dialogo che prelude alla sua presunta apparizione: Oehlenschläger (1975: 120) ENDRID    Gamle! Fortæl os noget om den hellige Mand; Din Alder har oplevet meget, veed jeg. Soldi (1881: 164) ENDRID. – Raconte nous quelque particularité sur ce saint monarque, mon vieux Kolbein : tu as été témoin, je le sais, de bien des prodiges. De Stefani (1938: 42)15 BJORN Tu l’hai conosciuto Olaf dai cento miràcoli? 15

De Stefani attribuisce la battuta a Bjorn dal momento che, come s’è visto, il personaggio di Endrid è eliminato.

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

L’originale fa riferimento alle conoscenze di Kolbein sulla leggenda di Olav il santo e sui miracoli post mortem attribuitigli. Olav morì infatti nel 1030, pertanto nessuno nel 1162, anno in cui è ambientata la vicenda, poteva averlo incontrato. Nel riformulare la battuta, De Stefani non bada a questa incongruenza, probabilmente l’esatta cronologia della storia norvegese non gli era nota, come del resto difficilmente lo sarebbe stata al suo pubblico. Ben più significativi sono però gli interventi mirati e consapevoli che De Stefani compie sul testo per adattarlo al proprio progetto artistico. Innanzitutto, sul piano strutturale, alcune modifiche sono facilmente riconducibili alle esigenze di un’opera destinata al canto. Benché esuli dagli obiettivi di questo studio indagare i rapporti fra il testo di De Stefani e la musica di Mariotti, è indispensabile tener conto della necessità di prevedere brani adatti a cori e arie. Per queste ultime si prestano i monologhi, che in realtà non sono molto frequenti nel dramma di Oehlenschläger, o in alternativa si possono sostituire dialoghi dell’originale con monologhi o soliloqui. I cori vanno in generale aggiunti, qualora non siano già previsti. In questo caso il testo di Oehlenschläger offre in effetti alcuni elementi utili, che permettono a De Stefani di usare diverse strategie: sfruttare cori già presenti nell’ipotesto e inserirne di nuovi. Chissà che non siano proprio queste caratteristiche ad aver suggerito all’autore la scelta del dramma come fonte di una riscrittura per musica. La tragedia originale presenta un coro di buon auspicio che accompagna il corteo nuziale (III,2; Oehlenschläger 1975: 87-88; 1881: 148), mantenuto all’inizio del II atto italiano, trasposto in quartine di endecasillabi a rima incrociata ABBA (De Stefani 1938: 31-32). Iniziative di De Stefani sono invece l’inserzione della prima strofa dell’inno latino Caeli Deus sanctissime per voci femminili all’interno del I atto, nel punto che nell’originale corrisponde al passaggio tra I e II atto (1938: 19-20), nonché un coro di guerra alla fine del II atto, con cui, all’annuncio dell’arrivo dei ribelli, i soldati norvegesi esortano a combattere in difesa della patria, questo coro è poi ripreso brevemente nel finale dell’opera (1938: 48-49 e 60). In altri punti De Stefani sfrutta un momento lirico presente nella fonte, già destinato al canto singolo con accompagnamento musicale. Oehlenschläger introduce infatti un canto con il quale Axel celebra la sua fedeltà al re e il suo amore per Valborg (V,3; Oehlenschläger 1975: 150; 1881: 178-179), e una ballata che Valborg morente chiede a Vilhelm di cantarle (V,4; 1975: 156-158; 1881: 182-183). Si tratta

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della ballata sull’amore infelice di Aage ed Else, il cui tema richiama la vicenda dei due protagonisti, un testo amato da Valborg, che dice di averla spesso ascoltata da Axel e poi rievocata nella memoria traendone consolazione. De Stefani rinuncia al canto di Axel, ma mantiene la ballata, riprendendola in due momenti. La prima strofa è anticipata nel II atto, alla fine del colloquio d’addio tra i due mancati sposi dopo l’interruzione del matrimonio (corrispondente al finale di III,3), allorché Albatra raccomanda a Eselio di cantarla quando saranno separati. La stessa ballata è poi ripresa in forma più ampia dai due amanti insieme all’inizio della scena finale. Le sei strofe di otto versi dell’originale e della traduzione francese sono ridotte a tre strofe di cinque versi, eseguite alternatamente da Eselio, Albatra e di nuovo Eselio. Come esempio dell’intervento di De Stefani si confronti di seguito la prima strofa, in cui si riportano in corsivo i versi della fonte francese tralasciati nel libretto italiano: Oehlenschläger (1975: 156-157) Det var Ridder Herr Aage Han reed sig under Øe; Fæsted han Jomfru Else, Hun var saa ven en Møe; Fæsted han Jomfru Else, Alt med hin røden Guld; Maanedsdag derefter Laa han i sorten Muld. Soldi (1881: 182) Il y avait un chevalier, appelé le seigneur Aage. Il chercha femme dans la contrée. Il se fiança à jeune Else ; C’était une douce et gente damoiselle. Il se fiança à jeune Else Et lui passa au doigt le brillant anneau d’or. Un mois après, à pareil jour, Il fut déposé dans la terre. De Stefani (1938: 58 e 38)16 C’era un cavaliere, Aage si chiamava, e s’era ad Elsa fidanzato. 16 Si riporta il testo nella versione di p. 58, nel punto del dramma che corrisponde all’occorrenza della strofa nell’originale. La versione di p. 38 presenta piccole varianti solo nella punteggiatura.

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

Un dì, l’anello le aveva dato. E dopo un anno, lo stesso dì, il cavalier morì…

Tra i vari interventi che incidono sul contenuto, s’è già sottolineato come emerga una generale tendenza a sintetizzare la vicenda. In alcuni casi, però, le modifiche non si spiegano con sole considerazioni “quantitative”, ma rivelano un discostamento fra la tragedia di Oehlenschläger e le scelte di De Stefani, che promuove una differente interpretazione del testo. Un intervento che pare di piccolo conto è verso la fine del dialogo conclusivo del II atto (il IV dell’originale), in cui Eselio e Albatra, riuniti dopo che lui l’ha rapita, decidono di rinunciare alla fuga perché il giovane possa soccorrere il re contro i ribelli, ottemperando al suo giuramento di fedeltà. La donna lo sostiene in questa scelta infondendogli coraggio: Oehlenschläger (1975: 135) VALBORG    Du est min Kæmpe; jeg Er din Valkyrie. […] Jeg vil ei græde. Ogsaa Pigen, Axel, Kan vise Heltemod i stille Taal. Gak min udkaarne, elskte Ungersvend! Din Valbog skiænker dig til Fædrelandet. Soldi (1881: 171-172) VALBORG. – Tu es le guerrier que mon cœur a choisi je suis ta Valkyrie. […] Non, je ne pleurerai plus ; la jeune fiancée ne peut donner des preuves de son courage qu’en supportant sa douleur en silence. Va, mon ami, mon bien-aimé ; ta Valborg te rend à la patrie.

Nella riscrittura la battuta di Valborg scompare, ed è l’uomo a riassumere lapidariamente quale sia il suo compito: De Stefani (1938: 47) ESELIO La sposa di un guerriero dev’essere degna di lui.

Viene da chiedersi se questa modifica non tradisca una visione della donna differente nei due testi. La rappresentazione della fanciulla come valchiria, che afferma il proprio valore, pur nei termini di un

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sacrificio per la patria, poteva forse sembrare inadeguata nel contesto ideologico e culturale in cui operava De Stefani, e appariva più appropriato che fosse l’uomo a ricordarle il suo destino. Ben più esplicita e significativa è la modifica della figura del monaco Canù rispetto allo Knud originale. Oehlenschläger lo presenta come un personaggio ambizioso, che mira a diventare arcivescovo al posto di Erland, ormai vecchio e malato. Per questo offre i suoi servigi al re, sicuro che nessuno più di un innamorato respinto saprà essere riconoscente verso un amico. De Stefani lo trasforma invece in un rivale in amore di Eselio e del re, in quanto anch’egli innamorato di Albatra. I sentimenti del monaco traspaiono dapprima in gesti scenici, descritti nelle didascalie fin dal dialogo iniziale del I atto con Eselio (“Canù, guardandolo di traverso, con occhi lampeggianti”; De Stefani 1938: 14), per poi essere esplicitamente dichiarati in un breve soliloquio, inserito alla fine del I atto, quando Canù rimane solo dopo l’uscita di Hakon: CANÙ […] Se l’astuzia val più d’ogni spada, il monaco ha da vincere il guerriero e il re. Albatra non sarà tua, né del viandante. Mia e di Dio, mia e di Dio, sarà! (Diritto contro una colonna, figura sinistra di luce e d’ombra, rimane immobile, ghignando). (De Stefani 1938: 27)

Il ghigno finale gli dà un tono diabolico, poi ripreso esplicitamente dall’aggettivo “mefistofelico” (1938: 33), con cui è caratterizzato in didascalia nel frangente in cui s’accinge a interrompere le nozze che stanno per celebrarsi. Il movente amoroso è infine ripreso nel momento della morte in cui, come nell’originale, chiede perdono ai due giovani per il male che ha loro arrecato: Oehlenschläger (1975: 125) […] Barmhiertighed, Forbarmelse! O beder, beder for mig, I unge Elskende! Mit Hierteblod Har farvet Eders Krands; O beder for mig! Soldi (1881: 167) […] O pitié ! miséricorde ! Priez pur moi, jeunes amants ! Le sang de mon cœur a teint de rouge votre couronne. Oh ! priez pour moi !

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De Stefani (1938: 44; grassetto mio) […] Perdona, Albatra… Perdona. È stato per amore. Prega per me… Pregate per me…

Un intervento radicale di De Stefani si ha nella riscrittura del finale. Il testo originale presenta due dialoghi separati di Vilhelm, prima con Axel, poi con Valborg, nel momento della loro morte. Valborg arriva infatti sulla scena quando Axel è già spirato e compie un rito nuziale simbolico trovando l’anello dell’amato e infilandoselo al dito, così da poter poi essere sepolta insieme a lui. De Stefani sostituisce questi due colloqui con un unico dialogo tra i due amanti, già uniti in matrimonio in segreto dall’arcivescovo quando erano in procinto di fuggire. Il dialogo si apre con l’invocazione di Albatra da parte di Eselio a terra ferito, e dopo l’arrivo di lei i due, come s’è visto, intonano a strofe alterne la ballata di Aage ed Elsa. Con le ultime parole Albatra evoca, con echi shakespeariani, una riunificazione dopo la morte: “E ritorneremo a dormire, a sognare, lontano dai poveri vivi… E questa pace, amore, ha nome, sì, Paradiso…” (De Stefani 1938: 60). Dopo la morte dei due, il dramma si chiude con la processione dei soldati vincitori, guidati da Sigurdo, che portano nel tempio la spoglia del re, anch’egli caduto, mentre delle fanciulle ricoprono di fiori i corpi dei due giovani. Nell’originale, invece, le ultime parole spettano a Vilhelm che, anche qui su modello shakespeariano, promette di rendere onore ai corpi dei due amanti e perpetuare la loro memoria in un epitaffio che reca il titolo con cui è nota la ballata rielaborata da Oehlenschläger. Oehlenschläger (1975: 159) VILHELM […] Og [jeg] graver i den blanke Kobberplade: Her hviler Axel Thordsøn og Skiøn Valborg; Han døde Kongen, hun sin Beiler tro. Soldi (1881: 184) WILHELM – […] je graverai ces mots : Ici reposent Axel Thordsön et la belle Valborg ; lui mourut fidèle à son roi, – elle, fidèle à son fiancé ! De Stefani (1938: 61) I soldati riprendono la marcia, trasportando con solenne lentezza la soglia sacra [del re] nel Tempio. Il popolo, rimasto nell’esterno della chiesa, si inginocchia, a pregare. Fanciulle, in dolcissimi atteggiamenti, ricoprono di fiori i corpi inanimati degli amanti.

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

Nel complesso, s’è osservato come gli interventi di De Stefani mirino a concentrare gli elementi dell’azione della fonte, in particolare la vicenda dell’amore infelice, valorizzandone la drammaticità. Altri temi sviluppati da Oehlenschläger restano sullo sfondo nella misura in cui sono indispensabili allo sviluppo dell’azione. Tra i personaggi, quello più radicalmente modificato è il monaco Canù, che assume quasi i tratti di un novello Frollo. Oltre agli inserti testuali necessari a una scrittura per musica, come cori e arie, l’intervento più decisivo è nella conclusione del dramma, dove De Stefani elabora una soluzione ritenuta di maggior effetto per il pubblico, nella tradizione del melodramma incentrato su un amore contrastato dal finale tragico.

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

Pulce, G. 1991. “De Stefani, Alessandro”. In Dizionario biografico degli italiani. Vol. 39. https://www.treccani.it/enciclopedia/alessandro-de-stefani (Dizio­ nario-Biografico). Svane, M.L. 2008. “Romantikkens gennembrud – Adam Oehlenschläger”. In Auken S. et al. a cura di. Dansk litteraturs historie. Vol. 2: 1800-1870. København: Gyldendal. 100-141.

P. B. Shelley ritrae Medusa Marina De Chiara Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” [email protected]

Il fascino del mito di Medusa ha segnato secoli di arte. La sua immagine compare già nell’arte precedente a quella classica dei Greci e dei Romani – che avrebbe poi ispirato la scultura, la pittura e gli affreschi della modernità rinascimentale e seicentesca – per figurare poi persino nei lavori di artisti dissacranti come Duchamp. Ed ha ispirato l’immaginazione letteraria e non, affascinando, tra le tante voci, scrittori come Walter Pater, Swinburne, William Morris, D’Annunzio, e le indagini psicanalitiche di Sigmund Freud e Jung (McGann 1972: 10). Al Museo degli Uffizi di Firenze, il volto di Medusa decapitata, ritratta nel celebre dipinto erroneamente attribuito a Leonardo, è di ispirazione per il poeta Percy Bysshe Shelley, che nel 1819 scrive il componimento Sulla Medusa di Leonardo da Vinci nella Galleria Fiorentina. Ammaliato dal ritratto dell’agonia di morte di Medusa, dal connubio sublime di morte, bellezza e orrore, il poeta ‘ritrae’ in versi i contrasti spiazzanti, le discordi tonalità e le oscurità del dipinto, mentre il tema gotico-romantico del sublime emerge dal volto orrido della mitologica creatura. Le cavernosità del quadro, i contrasti potenti, le oscurità e i bagliori da cui si staglia nel quadro il volto della mitologica creatura rivivono potenti nei versi del poeta. Quello di Shelley è un ritratto in parole dell’atroce e stupefacente scena di spasmo, il volto agonizzante di Medusa da cui sprizzano, come i riflessi ramati e argentei delle serpi della sua chioma, significati simbolici che il tempo ha accumulato e fatto sedimentare: Giace fissando il cielo della mezzanotte, supina Su una vetta montana annuvolata, più sotto,

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

possono scorgersi terre lontane e tremolanti; l’orrore e la bellezza sono in lei divini. Sulle sue labbra e le palpebre sembra posarsi La grazia come un’ombra, da cui splendono Livide e ardenti, che sotto si dibattono, le agonie dell’angoscia e della morte. II Pure è meno l’orrore che la grazia a volgere In dura pietra lo spirito di colui che osserva, là dove i lineamenti di quella morta faccia sono scolpiti, finché tutti i caratteri si mutano a diventare lei stessa, e perfino il pensiero li smarrisce; è il melodioso colore della bellezza, gettato attraverso le tenebre e il bagliore della pena, che fa umana e armoniosa l’impressione. III E dal suo capo sorgono, come da un unico corpo, pari all’erba che spunta da un’umida roccia, chiome che sono vipere, si torcono, fluiscono, intrecciano i lunghi grovigli fra loro, e infiniti viluppi mostrano uno splendore di metallo quasi a irridere la morte e le torture intime, e con le loro mandibole scheggiate segano l’aria solida. E da una pietra accanto IV Un velenoso ramarro scruta ozioso quegli occhi di gorgone, mentre nell’aria, attonito, un pipistrello orrendo è svolazzato con folle sorpresa da quella caverna dove la luce spaventosa era entrata violenta, e si precipita come farfalla notturna dietro una fiaccola; e il cielo della mezzanotte ondeggia balenando, una luce assai più terrificante di quanto non lo sia l’oscurità. V È la grazia tempestosa del terrore; poiché dalle serpi Lampeggia un bagliore di rame, attizzato In quegli avvolgimenti inestricabili, che muove Attorno un vapore vibrante dell’aria, e lo rende Un sempre mutevole specchio di tutta la bellezza E di tutto il terrore di quel capo: il volto d’una donna Di chiome serpentine che nella morte fissa gli occhi al cielo Dall’alto dell’umide rocce.1

1

Riporto la poesia di Percy Bysshe Shelley “On the Medusa of Leonardo da Vinci in the Florentine Gallery” nella traduzione di Roberto Sanesi (1983: 129-131).

P. B. SHELLEY RITRAE MEDUSA

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L’orrido e la bellezza si fondono, per il poeta, nello sguardo di Medusa, e di chi la guarda. Il volto di Medusa, decapitato, racchiude in sé il mistero stesso del guardare,2 atto che immobilizza, pietrifica, l’oggetto che ha dinanzi. Un mito, dunque, che di per sé già allude alla ‘paralisi’ che nasce dal ‘sublime’: la ‘pietrificazione’ che pervade l’uomo dinanzi a una visione che eccede la comprensione intellettuale, ossia che eccede la capacità di contenere l’oggetto con i sensi. Il filosofo Edmund Burke aveva sviscerato la complessità del concetto di sublime nel suo famoso saggio del 1757.3 Sublime è, insieme, un senso di fascinazione e di terrore, sgomento dinanzi all’indicibile, l’eccesso, l’incontenibile che provoca deliquio, paralisi, pietrificazione. Come si resta pietrificati dallo sguardo di Medusa. Qui, con Medusa, si cimenta Shelley, il poeta romantico noto per l’indeterminatezza delle sue parole, per la ricerca di una risonanza emotiva e l’evocazione di sensazioni troppo soggettive, personali, troppo concentrate sull’ego del poeta, per lasciar parlare gli oggetti da cui sgorgherebbe la sua poesia.4 L’avrebbe scritta nel 1819, senza mai poterle dare forma definitiva; fu pubblicata infatti postuma, nel 1824, dalla celebre scrittrice, e moglie del poeta, Mary Shelley, che intervenne sulle parti lacunose e che probabilmente scelse anche il titolo del componimento.5 Agli Uffizi di Firenze, mentre era in Italia, Shelley si recava di continuo per contemplare i ‘marmi greci’, “Greek marbles”, le sculture classiche di cui la temperie romantica di tutta Europa era appassionata (Keach 2004). Nelle sue annotazioni, “Notices of the Sculpture in the Florence Gallery”, leggiamo che Shelley è rapito dalla tensione tra bellezza estrema e implacabile dolore, espresse dalle sculture di Niobe e di Minerva (Thomas 2010: 38). È una tensione che il poeta ritrova anche nel dipinto di Medusa. In Europa Medusa è stata un simbolo potente sin dal fine Settecento, e poi, sulla scia delle guerre napoleoniche, nelle rivolte francesi 2 Visus in latino vuol dire ‘vista’. Dal nesso cruciale tra sguardo, vista, volto e formazione/ identificazione (‘cattura’) del soggetto sono nati i contributi alla filosofia e alla psicanalisi moderna di Merleau-Ponty, Roger Caillois, Jacques Lacan, Jean-Paul Sartre, solo per citare alcuni tra i riferimenti più noti. 3 Rinvio all’edizione del 1990, a cura di Adam Phillips, per il saggio di Edmund Burke, A Philosophical Enquiry Into the Origin of Our Ideas of the Sublime and the Beautiful. 4 Cfr. Sanesi 1983: 12. 5 Anche in seguito alle scelte di Mary Shelley per aggiustare le parti lacunose, il testo tuttavia resta oscuro in molti punti, come osserva Alexander Schlutz (2015: 340): “There are no ‘far lands’ to be seen in the painting, which does not show the ‘below’ Shelley’s verse presents, and we consequently do not know who does the seeing, nor who or what is ‘seen trembling’.”.

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RISONANZE III. LA MEMORIA DEI TESTI DAL MEDIOEVO A OGGI

e inglesi contro l’oppressione sociale e le brutali repressioni. Va ricordato che la violenza rivoluzionaria, tra l’altro, è stata, per l’estetica del Romanticismo, un elemento di primaria importanza nella simbologia creativa.6 Poeti come Shelley, Byron, Wordsworth erano parte, come spiega Raymond Williams nel suo Culture and Society, di questa scena socio-culturale, che in Inghilterra aveva visto il massacro di Peterloo, a St. Peter’s Field a Manchester, nel 1819. Gli eventi di Peterloo spinsero Shelley a comporre The Masque of Anarchy.7 Già nel suo Prometeo Liberato, come nei drammi Julian and Maddalo e nei Cenci,8 Shelley era ricorso alla figura di Medusa (Judson 2001: 137). Ma, come il Prometeo shelleyano, anche Medusa è vista dal poeta come una vittima del potere e della tirannia (McGann 1972: 7). Anzi, Medusa per lui ha incarnato l’ideologia stessa della liberazione (Judson 2001: 137). Nel componimento a lei dedicato, Medusa di Leonardo da Vinci, sembra che Shelley, come suggerisce il critico Alexander Schlutz (2015: 330), rivesta i panni di un Perseo rinnovato, che stravolge completamente l’immagine del Perseo aggressivo che decapita Medusa servendosi di uno scudo che ne riflette il volto. È come se Shelley avesse ricreato uno ‘scudo’ ekfrastico di parole per frantumare quel discorso di potere patriarcale che ha fatto di Medusa un mostro e di Perseo lo strenuo difensore di quel potere. Qui, Shelley sembra sfidare le vigenti regole d’estetica, regole che perpetuano la possessività dello sguardo maschile che esprime desiderio, paura e potere di controllo sull’oggetto d’arte femminile. Per Shelley, qualsiasi atto di rappresentazione, che sia visiva o che sia verbale, implica sempre un potere discorsivo che precede, e produce, gli oggetti che si vuole rappresentare. 6 Si veda Keach 2004, e in particolare il capitolo “The Language of Revolutionary Violence”. 7 Schlutz 2015: 342. Sebbene non ci siano espliciti riferimenti alla Rivoluzione Francese o ad avvenimenti in Inghilterra sulla scia degli eventi insurrezionali in Francia, la celebre Ode to the West Wind sicuramente risente di questo clima. Shelley aveva saputo dei massacri di Peterloo solo poche settimane prima di cominciare l’Ode. Cfr. Keach 2004: 126. L’immagine della “fierce Maenad”, la fiera Menade, nell’Ode richiamerebbe, secondo Keach, l’isteria rivoluzionaria e il terrore rivoluzionario simboleggiati dalla Medusa shelleyana (128). 8 Barbara Judson parla di un “effetto Medusa” che emergerebbe nella “Preface” di Shelley a I Cenci: “The ‘Preface’ contains the by-now familiar Medusa effect – Shelley’s mesmerized meditation on Beatrice’s portrait, the classical moment of identification in which he finds in her his ego-ideal, ‘one of those rare persons in whom energy and gentleness dwell together without destroying one another’; she thus epitomizes the polarized constructions of sensibility as beauty and sublimity.” (146). Da notare che anche Beatrice Cenci è stata decapitata, a Roma, nel 1599, dopo il processo per parricidio. Il ritratto di Beatrice Cenci, attibuito a Guido Reni, si trova a Palazzo Barberini.

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Un potere discorsivo maschile che sostanzia il mito stesso della bella Medusa tramutata in mostro, oggetto al tempo stesso di terrore e desiderio del maschile e di rivalità tra donne (Schlutz 2015: 337). Nella poesia di Shelley troviamo una Medusa che è già stata tradotta da un altro sguardo, quello del pittore che l’ha ritratta nell’agonia della quasi-morte. Non Leonardo da Vinci, a cui il dipinto era stato attribuito, ma un anonimo della scuola fiamminga seicentesca che si ispirava a Caravaggio. C’è un gioco di sguardi riflessi tra due sguardi d’artista: il pittore che, nella sua mente, ha visto e ritratto Medusa; e il poeta, che guarda il ritratto e prova lui stesso a ritrarlo in parole. Siamo dinanzi a un’ecfrasi (ekfrasis), così si chiama quel genere d’arte letteraria in cui si rappresenta verbalmente un’opera visiva, per esempio un quadro o una scultura.9 In questo caso è un quadro. Pure un quadro, stavolta quello attribuito a Guido Reni, raffigurante Beatrice Cenci, avrebbe ispirato Shelley per la turpe e tragica storia dell’incesto tra una fanciulla innocente, Beatrice, e il Conte Cenci suo padre. Il dramma, intitolato, per l’appunto, I Cenci, intreccia, sul suolo italiano cinquecentesco, la nefandezza cattolica della Roma papale con l’abiezione incestuosa di un padre, e il parricidio commesso da una Beatrice, che è al contempo candore e fierezza. Con l’ecfrasi talvolta è l’oggetto a parlare per sé, senza la mediazione del poeta. Ma qui, dinanzi al dipinto di Medusa, a parlare è Shelley, pietrificato, anch’egli, dall’incanto terrifico del volto semi-divino. Quel volto che rivolge lo sguardo verso il cielo, e non verso il nemico da pietrificare, è un volto che esprime, seppur decapitato, una tensione eroica; ma è pur sempre un volto in agonia,10 che esala gli ultimi respiri, quei vapori attraversati dai bagliori delle serpi, e tremolanti, perché in essi si riflettono le increspature delle acque che circondano le rocce su cui poggia la testa di Medusa, decapitata. Tremolii che si riflettono nell’incerta luce di mezzanotte sulla sua chioma, facendo rilucere le serpi come le maglie di metallo dei cavalieri. Il sangue che cola dalla gola di Medusa si confonde con il groviglio delle serpi, i cui denti affilati mordono l’aria intorno. Topi intorno al volto, poco 9 Nel campo degli studi letterari, il termine ‘ecfrasi’ si riferisce alla rappresentazione verbale di opere, reali o immaginarie, di arte visiva. Il termine di origine greca veniva tradotto in latino semplicemente come ‘descrizione’, come poi è stato genericamente utilizzato nelle letterature europee. Cfr. Schlutz 2015: 330-331. 10 McGann (1972: 3) rievoca l’insistenza di Praz sull’aberrazione romantica del fascino decadente per l’agonia, fascino per l’abominevole.

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visibili nel buio, come il ramarro velenoso, e un pipistrello spaventoso che fugge all’impazzata via dal buio della grotta, dove per un istante è entrato quel bagliore di rame riflesso dalle serpi. Ma come le serpi anche i pensieri del poeta si attorcigliano in nodi inestricabili nella sua mente che viene trasformata in pietra, non tanto dall’orrore del volto di Medusa quanto dalla sua grazia. E i lineamenti del volto di Medusa, come su un calco, si imprimono nella mente del poeta che non ritrova più il suo pensiero. “Guardare”, scrive il critico Jean Clair (1989: 22) nel suo studio sulla figura di Medusa, “significa non solo osservare il mondo, ma anche proteggersi, fare attenzione, stare in guardia. (…) rivolgere lo sguardo alle proprie spalle per accertarsi di non essere seguiti o minacciati. L’artista (…) rompendo la guardia, avanza e, a rischio di perdersi, affronta lo sguardo che ha creduto a lui destinato.”. Il poeta è confuso. È perso. Non riesce – commenta il critico Roberto Sanesi (1983: 13) – a “dar figura a quello che non ha e non può avere figura”. Non riesce a tradurre davvero il mistero in parole.11 La grotta, l’oscurità, i vapori… la femminilità semi-divina, che abita tra vita e morte, rievocano l’immagine profetica della Sibilla, la cui grotta Shelley aveva visitato a Cuma, nel dicembre del 1818.12 Medusa, spaventosa creatura che con lo sguardo pietrifica il vivente, era una volta, prima d’esser punita, una bellissima fanciulla, dai capelli d’oro, violata nel tempio della dea Minerva (Atena) dal dio Nettuno (Poseidone). Minerva punisce la sua bellezza seducente, trasformandola in mostro mortifero, dalla chioma come un groviglio di serpenti, che avrebbe pietrificato chiunque la guardasse (McGann 1972: 7). Per certi autori classici Medusa pietrificava per l’orrore dei suoi sguardi, per altri per la sua bellezza (McGann 1972: 3-4). Anche negli autori romantici il fascino di Medusa è variamente interpretato; in questo modo si è lasciata intatta l’equivocità del mito, tra bellezza e innocenza di Medusa e orrore. Per Shelley, come qui vediamo, il volto di Medusa ha “la tempestuosa grazia del terrore”. 11 Carol Jacobs scrive: “It is neither the features of the onlooker nor his spirit but rather the lineaments of the dead Gorgon’s face that are graven at the point of articulation between Medusa and the would-be Perseus [the poet]. The gazer loses his identity” (169). E ancora: “At the very moment that the text apparently carries out the task of description, just when poetry would seem to devote itself to the most straightforward concept of representational art, a mimetic recreation of the canvas attributed to Leonardo, something utterly unspeakable takes place as well.” (171). 12 Cfr. Keach 2004: 103.

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Abitando le porte dell’Ade, Medusa è sia guardiana dei morti che dei viventi.13 Creatura ambigua, dunque (Clair 1989: 26). Non è immortale. Perseo, con l’astuzia di uno scudo in cui Medusa vedrà riflesso il proprio volto, la uccide, staccandole la testa. In alcune versioni Perseo la uccide mentre è addormentata. Il sangue di Medusa può guarire, se viene dal suo collo, ma è mortale se viene dalla chioma. Dopo la sua morte, sullo scudo di Minerva viene raffigurato il volto di Medusa, per augurarsi di sconfiggere i nemici. Dunque Medusa ha anche funzione protettiva e apotropaica, dato che tiene lontani il pericolo e il maleficio che vengono dagli inferi, dall’oltretomba. La testa di Medusa, che vuol dire ‘regina’ in greco, finisce, dunque, sullo scudo di Minerva, che è la protettrice della città. Questo rispecchiamento ricorda che l’atto di fondazione di ogni civiltà è un atto violento, che ha bisogno di rinnegare parentele e consanguineità, per creare un Altro, cioè un orrore che viene dall’esterno, e che legittima spargimenti di sangue e guerre (Schlutz 2015: 338). Con la sua morte e vita, Medusa persiste tra i simboli del Romanticismo, poiché solleva la questione stessa della relazione tra vita e morte (McGann 1972: 20), e pur essendo una delle figure più primitive dell’aldilà, continua ad assillare l’arte contemporanea. Scrive il critico Jean Clair (1989: 27): “Simbolo di terrore, ma anche arma difensiva contro i poteri del male, essa appare più volentieri nella storia delle società e delle mentalità quando si vivono momenti di disagio, di smarrimento, di incertezza nei confronti delle conoscenze acquisite. Quando le usuali configurazioni del sapere, gli scaffali delle biblioteche, le tassonomie consuete, le classificazioni cui si era abituati all’improvviso vacillano, s’incrinano e si trovano rimesse in discussione, minacciate dal disordine, si direbbe che negli squarci aperti riappaia il volto antico di Medusa, il terrore di ciò che incarna.”. Per il potere pietrificante, immobilizzante, di Medusa, e per il suo legame con il vedere, gli occhi, l’ossessione visiva, lo specchio, il doppio, il rispecchiamento del sé, Freud ha dedicato un saggio (“La testa di Medusa”, 1922) al mito di Medusa, interpretandolo come idea di una femminilità castrante: il terrore di Medusa è un terrore di castrazione che è connesso alla vista di qualcosa (cit. in Bronfen 1992: 69). Medusa è l’orrido, osceno volto di un vuoto che è primario nella storia dell’uomo. Quel vuoto, quella mancanza, quell’assenza 13

Secondo alcune versioni, Medusa è posta a guardia del giardino di mele d’oro delle Esperidi, le favolose isole occidentali del paradiso terrestre, cfr. McGann 1972: 7.

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che è il femminile rispetto al maschile, rispetto al ‘fallo’, che invece ‘è’ e a cui il femminile aspira, in eterna invidia. La bocca di Medusa, più volte raffigurata come un volto tutto contorto in smorfie, da cui spunta una lingua minacciosa, Freud la rilegge come figura dei genitali femminili,14 quella cavità/caverna su cui hanno scritto filosofi e filosofe, psicanalisti e psicanaliste, letterati e letterate, offrendo altre riletture del mito, per esempio, quelle femministe. Da Marina Warner, Marjorie Garber, Luce Irigaray, Hélène Cixous, solo per citarne alcune, la caverna e Medusa hanno attratto affascinanti spunti di ‘ri-flessione’. La testa decapitata di Medusa è certamente anche il corpo in pezzi. Scrive Jean Clair (1989: 16): “frammentato, smembrato, il corpo non è solo in preda a un’anamorfosi, che ne rende difficilmente riconoscibili le forme, (…) ma anche a una metabolizzazione della propria sostanza, che lo rende simile al minerale, alla foglia, al vegetale. Fa parte del “regno delle cose che nascono, crescono, deperiscono e muoiono, come l’erba e i vegetali o le forme più elementari della vita organizzata, i vermi, i serpenti, i rettili.” (17). Un mondo animato ma non umano, che è ‘perturbante’, come scrive Freud nel suo famoso saggio Il perturbante, a proposito dell’inquietante terrore dinanzi a teste mozze, membra staccate dal corpo, mani recise.15 Ma qui si impone anche il tema del legame tra la bellezza e il corpo morto della donna. La studiosa Elisabeth Bronfen (1992) ha indagato il perverso desiderio maschile che si compiace dinanzi a quella che lo scrittore americano Edgar Allan Poe aveva definito come l’oggetto poetico per eccellenza, ossia la morte di una bella donna: “the death of a beautiful woman is, unquestionably, the most poetical topic in the world”.16 Si tratta di un tema che ha attraversato la 14 Scrive Clair 1989: 35-36: “Nell’articolo che le dedica nel 1922, Freud descrive la testa di Medusa per quello che è: il genitale circondato da peli di una donna adulta, essenzialmente quello della madre, la cui visione suscita sgomento nell’adolescente. Medusa isola l’effetto ripugnante e terribile del corpo della madre: l’interdizione sessuale che proviene da un organo genitale destinato a restare per sempre inavvicinabile. Oltre ad avere fondamenti inconsci, il paragone sembra ispirato a priori da una somiglianza di ordine formale. La vulva coronata dal vello, e a forma di mandorla, con le labbra simili a palpebre ipertrofiche, ricorda un occhio semichiuso. (…) Se occhio è, si tratta di un occhio vitreo, cisposo, senza luce, un occhio la cui pupilla si è spenta, la cui mobile iride si è trasformata in un buco nero e affascinante: in realtà è un occhio enucleato, viscoso, mucoso, angosciante a vedersi poiché, fra pieghe e peli, sembra fissarci senza che possiamo vederlo. Più che un sesso, è un occhio malefico a essere proiettato su di noi, ed è lo sguardo della morte. È il malocchio che ci ricorda il corpo morto incartapecorito, rigido e gelido, la rigidità cadaverica, respingendoci nel mondo dell’inerte, del minerale, del cieco.”. 15 Cit. in Clair 1989: 16. 16 Cit. in McGann 1972: 19.

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storia culturale d’ascendenza europea prepotentemente, popolandone l’immaginario letterario, medievale, gotico, romantico, preraffaellita, modernista, fino ai nostri giorni, ispirando anche la cinematografia e lo scenario musicale. Bronfen (1992: 59) cita Aristotele: guardare oggetti che in noi provocano patimento ci procura nello stesso tempo anche piacere, come succede, per esempio, con animali orridi o con i corpi morti. Nelle fantasie della cultura ottocentesca, la donna morta, o che, ammalata, è sul punto di morire, incarna la femminilità virtuosa. Shelley, per esempio, descrive la luna calante come una donna pallida e delirante, che barcolla quasi senza vita, in The Waning Moon. L’associazione Morte/Donna diviene tema artistico costante dal Settecento fino al periodo moderno. Se da un lato, uno dei tabù nella cultura europea è proprio il corpo cadaverico che simboleggia la paura della morte, la decomposizione e l’orrore del contagio, come mai, si chiede Bronfen (1992: 60), la morte della Donna genera invece l’opera d’arte. La risposta, per Edgar Allan Poe, è che tristezza e malinconia sono la più alta forma di lirismo poetico, e che la morte, quando si unisce alla Bellezza, diventa dunque il tema lirico per eccellenza (61). Se la norma culturale assimila la morte al femminile, sembra che Poe stia suggerendo che la vita, la sopravvivenza, il potere e il trionfo sulla morte siano ascritti al maschile. Il corpo morto, femminile, è disteso, supino, fatto a pezzi, passivo, mentre il sopravvissuto resta eretto, intatto dalla morte (65). Quando un componimento poetico, suggerisce Bronfen, commemora una bella donna morta, esso si trasforma in una sorta di lapide incisa, una scultura a rilievo o una statua che si erge sopra la tomba sin dall’antichità dei classici, per indicare il luogo in cui è sepolta una ‘eroina’ (71).17 Medusa, che qui è ‘fissata’, incorniciata, catturata dallo sguardo del pittore e del poeta, lei che quando è in vita ‘fissa’ ed immobilizza la vita di chi la guarda, qui incarna il mistero stesso della poesia. La poesia, dunque, dà vita all’oggetto che altrimenti è immobile e chiuso nel suo mutismo, o piuttosto uccide l’oggetto che essa vuole ‘fissare’ stretto nella cornice delle sue parole?18 17 Bronfen 1992: 118 ricorda che per Freud il gioco del fort-da è una simbolizzazione che aiuta a controllare l’assenza, ricreando il corpo assente. E questo riguarderebbe anche il dipinto come arte della rappresentazione, che Freud interpreta come un atto di sacralizzazione, enshrinement. 18 Questo è anche il dilemma dell’ekfrasis, comunemente ritenuta capace di rilasciare in forma verbale una forma che altrimenti sarebbe statica. Al contrario, E. J. T. Mitchell sostiene che l’ecfrasi possa essere una sorta di ‘imprigionamento artistico’, artistic entrapment, laddove l’atto ricreativo dell’ecfrasi riuscisse pienamente a ricreare l’oggetto visivo statico, cfr. Thomas 2010: 36, e nota 33.

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Questo dilemma è aperto. Non c’è vera risposta. Secondo il mito, dal sangue di Medusa decapitata, cioè dalla sua morte, nasce una nuova vita, Pegaso, il mitico cavallo alato che simboleggia la poesia. L’ispirazione poetica, sembra dire Shelley, nasce dalla lotta tra la vita e la morte (Jacobs 1985: 174). E Shelley ha difeso strenuamente la qualità generativa della poesia, scrivendo, nella sua Defence of Poetry, che la poesia trasfigura tutto, perfino ciò che è deforme, in bellezza e grazia. Poetry turns all things to loveliness: it exalts the beauty of that which is most beautiful, and it adds beauty to that which is most deformed: it marries exultation and horror, grief and pleasure, eternity and change; it subdues to union under its light yoke all irreconcilable things.19 [La poesia trasforma tutte le cose in grazia: esalta la bellezza di quello che è già bello, e dá bellezza a quello che è deforme: mette insieme l’esultazione e l’orrore, il dolore e il piacere, l’eternità e il mutevole; riporta a unione, col suo tocco leggero, tutte le cose impossibili da riconciliare].

Bibliografia Bronfen, E. 1992. Over Her Dead Body. Death, Femininity and the Aesthetic. Manchester: Manchester U.P. Clair, J. 1989. Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte. Milano: Leonardo Editore. Jacobs, C. 1985. “On Looking at Shelley’s Medusa”. Yale French Studies 69: 163-179. Judson, B. 2001. “The Politics of Medusa: Shelley’s Physiognomy of Revolution”. ELH 68: 135-154. Keach, W. 2004. Arbitrary Power. Romanticism, Language, Politics. Princeton and Oxford: Princeton U.P. McGann, J. 1972. “The Beauty of the Medusa: A Study in Romantic Literary Iconology”. Studies in Romanticism 11: 3-25. Phillips, A. ed., 1990. Edmund Burke, A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and the Beautiful, Oxford: Oxford U.P. Sanesi, R. ed. 1983. Percy Bysshe Shelley, Poesie. Milano: Mondadori. Schlutz, A. M. 2015. “Recovering the Beauty of Medusa”. Studies in Romanticism 54: 329-353. Raymond, W. 1968. Cultura e Rivoluzione Industriale. Inghilterra 1780-1950. Torino: Einaudi. [tit. or. Culture and Society 1780-1950, 1961]. Thomas, S. 2010. “Ekphrasis and Terror: Shelley, Medusa, and the Phantas­ magoria”. In Calè, L. et al. eds. Illustrations, Optics and Objects in Nine­ teenth-Century Literary andVisual Cultures. London: Palgrave MacMillan. 19

SMW, cit. in Schlutz 2015: 348.

Le Voyage d’hiver di Georges Perec e la nozione oulipiana di plagiat par anticipation Michele Costagliola d’Abele Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” [email protected]

Introduzione Nel 1984, a quasi due anni dalla sua prematura scomparsa, avvenuta il 3 marzo del 1982, Georges Perec veniva commemorato dal patafisico e “confratello” oulipiano Luc Etienne1 con una formula che, se da un lato, per le contrainte cui faceva ricorso, rendeva omaggio al genio e alla prodezza linguistica di Perec, dall’altro riusciva a sintetizzare in maniera perfetta il successo dell’opera perecchiana, le sue risonanze, le sue influenze nel panorama della letteratura francese degli anni Ottanta del ventesimo secolo. Attualmente, a circa quarant’anni dalla morte dello scrittore, “Ce repère Perec” (Etienne 1987: 111), questo palindromo che riecheggia Le Grand Palindrome (Perec 1969a) di Perec, ma che essendo allo stesso tempo un monovocalismo in “e” e un lipogramma in “a, i, o, u” ricorda la grande impresa monovocalica di Les Revenentes (Perec 1972) e quella lipogrammatica di La Disparition (Perec 1969b), è ancora particolarmente attuale. Ed è a partire da tale formula, che nel presente contributo, intendiamo dimostrare, attraverso l’esempio di 1 Pseudonimo di Luc Périn (1908-1984), Luc Etienne, docente di matematica e fisica al Liceo Roosevelt di Reims, è entrato a far parte dell’Oulipo nel 1970. Già agli inizi degli anni ’50 pubblica i suoi scritti nei Cahiers del Collège de ‘Pataphysique nel quadro del quale diventa Régent d’Astropétique e Chef de Travaux Pratiques. Cfr. la pagina a lui dedicata sul sito dell’Oulipo, diponibile all’URL: https://oulipo.net/fr/oulipiens/le. [Ultima consultazione 21.09.2020].

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Le Voyage d’hiver (Perec 1978), non soltanto quanto la figura di Perec sia considerata ormai “tutelare” per gli scrittori contemporanei, ma soprattutto quanto la sua produzione abbia rappresentato e rappresenti ancora un “punto di riferimento”, un modello formale da cui trarre ispirazione, una sorta di canone sia per gli oulipiani di vecchia data che per le nuove generazioni2 di oulipiani (Cfr. Heck 2011, 2012a, Bloomfield 2011). In un testo pubblicato a trent’anni dalla morte di Perec, ad esempio, Marcel Bénabou, segretario definitivamente provvisorio o provvisoriamente definitivo dell’Oulipo, ricorda come, in occasione di un Convegno organizzato a Rabat, gli organizzatori non abbiano esitato a ricorrere alla parola “mytisation” per qualificare la ricezione dell’opera dello scrittore (Bénabou 2014: 22). Una ricezione, come sottolinea Jean-Luc Joly, uno degli organizzatori di tale manifestazione scientifica, che va al di là dei “limiti del letterario” e che è da intendersi soprattutto quale “réception créatrice qui, prenant appui sur l’œuvre, génère des applications nouvelles” (Joly 2002: 37). Lo stesso Joly, inoltre, insiste, sulla capacità dell’opera di Perec di rappresentare un modello creativo per gli scrittori contemporanei e aggiunge che essa “paraît constituer aujourd’hui comme une matrice de la création contemporaine, une œuvre-ressource de la modernité” (Joly 2002: 39). Maryline Heck, inoltre, altra autorevole studiosa di Perec dell’Università di Tours, a proposito dello stesso aspetto, afferma che la produzione di Perec sembra essere diventata una “recette”, un “réservoir de modèles” per la letteratura contemporanea (Heck 2012a: 326). 2

La storia dell’Oulipo, nato il 24 novembre 1960, a Parigi, dalla volontà congiunta di François Le Lionnais e Raymond Queneau, potrebbe essere suddivisa idealmente in tre grandi generazioni. La prima, quella che potremmo definire queneauniana, in cui effettivamente la figura del cofondatore Queneau rappresentava un punto di riferimento, così come la sua arte combinatoria de Cent mille milliards de poèmes. È questa la generazione oulipiana che va sotto il nome di Oulipo Sintattico e in cui le contraintes oulipiane vengono concepite a partire da una riflessione sulle potenzialità linguistiche e vengono applicate per lo più ad elementi formali della lingua. La seconda generazione, invece, è quella che potremmo definire dell’Oulipo Semantico, ed è quella che vede l’adesione al gruppo di scrittori quali Perec stesso (1967) o Calvino (1972): è questa la generazione a partire dalla quale le contrainte oulipiane superano i confini meramente linguistici ed iniziano ad agire piuttosto su aspetti più propriamente contenutistici, ed è questa la generazione in cui vedranno la luce grandi opere oulipiane come La Disparition e poi La vie mode d’emploi di Perec o Il Castello dei destini incrociati e, successivamente, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino. La terza generazione, invece, è quella di tutti gli oulipiani che, sopravvissuti a Perec, continuano, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta e fino a oggi, esattamente a sessant’anni dalla fondazione del gruppo, a portare avanti, rinvigorire e modernizzare il progetto oulipiano.

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A partire da questo breve stato dell’arte sugli studi critici circa l’influenza di Perec sulla letteratura francese contemporanea, nel presente contributo, ci proponiamo di riflettere, pur limitando l’analisi ad un singolo esempio, su questi diversi aspetti messi in luce dagli studiosi citati; cercheremo, in effetti, di chiederci cosa si possa intendere per ricezione creatrice”, per “matrice della creazione letteraria”, per “risorsa della modernità” e rifletteremo sul come si sia arrivati a vedere nell’opera di Perec una sorta di “ricetta”, di “serbatoio di modelli”, di “punto di riferimento”, la cassa di risonanza, per ricorrere ad una metafora musicale in linea con il titolo e gli obiettivi della presente miscellanea, di modelli formali e/o di strategie retoriche. Lo faremo prendendo come esempio un testo per così dire “minore”3 di Perec, Le Voyage d’hiver, che non solo ci sembra emblematico dell’influenza esercitata dal “mito Perec” su molti degli scrittori che hanno animato il panorama della letteratura francese dagli anni Ottanta dello scorso secolo ad oggi, ma anche perché si presta, a nostro avviso, ad un’interessante e duplice lettura metaletteraria dei fenomeni poc’anzi menzionati. Duplici sono quindi le ragioni che ci hanno spinto a scegliere questo testo per esemplificare tale dinamica di filiazione letteraria. In prima istanza, perché, pur essendo uno dei pochi testi di Perec non scritti facendo ricorso all’uso di contrainte, si configura come una “mise en fiction” di un concetto ben noto tra gli oulipiani e gli studiosi di Oulipo, quello di plagiat par anticipation; concetto quest’ultimo che sembra perfettamente adeguato per descrivere e qualificare l’influenza esercitata dall’universo perecchiano sugli altri membri del gruppo, e non solo mentre egli era in vita ma fino ad oggi. In secondo luogo, perché tale testo diventa a sua volta un “plagio per anticipazione” per più di una ventina di testi, scaturiti dalle penne di scrittori oulipiani a partire dal 1992, ovvero a 10 anni dalla morte di Perec, fino a qualche anno fa e non si può escludere assolutamente che a tale lista non se ne aggiungeranno altri in un futuro più o meno prossimo.

3 Maxime Decout, nella « Notice » al testo dell’edizione pubblicata nella collezione La Pléiade di Gallimard, sottolinea l’iniziale “insuccesso” dell’opera cui tuttavia segue, a distanza di qualche anno, un’enorme ed inaspettata fortuna postuma : “Le texte, resté confidentiel à sa parution, en 1979, n’a pas rencontré d’échos auprès du public, ce qui rend encore plus frappante sa considérable fortune posthume, dont témoignent en particulier les nombreuses suites qu’il a suscitées au sein de l’Oulipo” (Perec 2014b: 1214).

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La nozione oulipiana di plagiat par anticipation Nella prima parte del presente contributo, nel proporre una riflessione sul significato polisemico, quasi ossimorico, del termine plagiat par anticipation e del relativo concetto, ci limiteremo a una prospettiva eminentemente oulipiana, consapevoli, tuttavia, che più recentemente è stato pubblicato un fortunato saggio che ne ripropone una rilettura di più ampio respiro che, pur riconoscendo l’origine oulipiana della nozione, la colloca in un panorama critico-letterario più vasto (Bayard 2009). Pierre Bayard, in effetti, ne riconfigura il paradigma, prendendo le distanze dall’uso estensivo del concetto tipico dell’estetica oulipiana e aggiungendovi una sorta di intenzionalità, seppur non sempre cosciente, che è assente nella concezione originaria di plagiat par anticipation4 ma che, come si potrà verificare dalle riflessioni di seguito proposte, potrebbe aver guidato Perec in alcune scelte poetiche del suo Le Voyage d’hiver. Per comprendere a fondo tale concetto, bisogna innanzitutto ricordare quali siano le due grandi tendenze adottate dalla ricerca oulipiana, in quanto è proprio dalla prima di queste che scaturisce l’idea di plagiat par anticipation. Denominate con due termini composti che combinano il morfema “oulipismo” ai lessemi “analisi” e “sintesi”, questi due approcci, l’anoulipismo e il sintoulipismo, sono descritti nel primo Manifesto dell’Oulipo, firmato dall’allora presidente François Le Lionnais nel 1962: On peut distinguer dans les recherches qu’entend entreprendre l’Ouvroir, deux tendances principales tournées respectivement vers l’Analyse et la Synthèse. La tendance analytique travaille sur les œuvres du passé pour y rechercher des possibilités qui dépassent souvent ce que les auteurs avaient soupçonné. […]. La tendance synthétique est plus ambitieuse ; elle constitue la vocation essentielle de l’OuLiPo. Il s’agit d’ouvrir de nouvelles voies inconnues de nos prédécesseurs. […]. En résumé l’anoulipisme est voué à la découverte, le synthoulipisme à l’invention. De l’un à l’autre existent maints subtils passages. (Le Lionnais 1972a: 21-22). 4

« Il semble bien, à lire les textes des auteurs de l’Oulipo sur le sujet, que le plagiat par anticipation soit pour eux largement involontaire, le plagiat étant d’une certaine manière constitué par le surgissement d’un second texte proche du premier, qui, en révélant celuici ù lui-même et en explicitant sa contrainte masquée, permet d’en éclairer après coup le potentialités. […] Or on risque ici, avec cette conception du plagiat par anticipation, de perdre de vue la notion, dont l’un des éléments essentiels est l’intentionnalité. […]. Sans doute cette intentionnalité n’est-elle pas toujours pleinement consciente, et peut-on admettre des degrés de perception dans l’exercice du plagiat, entre la volonté clairement affirmée de dérober le bien intellectuel d’autrui et le fait de se laisser gagner, sans y prendre garde, par des formes ou des idées postérieures à son temps ». (Bayard 2009: 27-28).

LE VOYAGE D’HIVER DI G. PEREC E LA NOZIONE OULIPIANA DI PLAGIAT PAR ANTICIPATION

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È nel quadro dell’anoulipismo, ovvero della ricerca di strutture formali, di contrainte nel patrimonio letterario del passato, che si colloca la nozione di plagiat par anticipation che viene, tuttavia, delineata e definita soltanto a partire dal Secondo Manifesto dell’Oulipo, sempre a firma di François Le Lionnais e datato 1972: Et cela m’amène à la question du plagiat. Il nous arrive parfois de découvrir qu’une structure que nous avions crue parfaitement inédite, avait déjà été découverte ou inventée dans le passé, parfois même dans un passé lointain. Nous nous faisons un devoir de reconnaître un tel état de choses en qualifiant les textes en cause de ‹plagiats par anticipation›. Ainsi justice est rendue et chacun reçoit-il selon ses mérites. (Le Lionnais 1972b: 27).

Col tempo poi, e con il delinearsi dei principi regolatori della ricerca dell’Oulipo, la nozione si è allargata non solo a quei testi e a quegli autori scoperti “per caso”, così come sembrerebbe dalle parole del Manifesto, ma anche a tutte quelle opere del passato in cui vengono individuate e riconosciute delle potenzialità tali da assumerle, nella pratica oulipiana, come modello, come matrice per la creazione di nuove opere. E l’inversione cronologica del procedimento di plagio è giustificata con la volontà di maggiore “sistematicità” e “scientificità” nell’applicazione della contrainte da parte dell’autore che tradizionalmente sarebbe fautore del plagio ma, che in quest’ottica, originale e senz’altro ludica, diventa autore plagiato: Ce que certains écrivains ont introduit dans leur manière, avec talent (voire avec génie) mais les uns occasionnellement (forgeages de mots nouveaux), d’autres avec prédilection (contrerimes), d’autres avec insistance mais dans une seule direction (lettrisme), l’Ouvroir de Littérature Potentielle (OuLiPo) entend le faire systématiquement et scientifiquement, et au besoin en recourant aux bons offices des machines à traiter l’information. (Le Lionnais 1972a: 21)

Le Voyage d’hiver di Perec, ovvero una mise en abyme del concetto di plagiat par anticipation I primi a suggerire una lettura de Le Voyage d’hiver di Perec come una mise en abyme, una finzionalizzazione del concetto di plagiat par anticipation, sono stati Maxime Decout (Perec 2014b: 1215) e Pierre Bayard stesso (Bayard 2009: 22).

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Le Voyage d’hiver viene pubblicato per la prima volta nel 1979, nello stesso anno in cui Perec dà alle stampe il suo ultimo capolavoro romanzesco, Un cabinet d’amateur, con cui Le Voyage d’hiver ha più di qualche punto in comune5 – se non altro rocamboleschi giochi di mise en abyme di opere da un lato pittoriche e dall’altro poetiche – e nello stesso anno in cui, in Italia, un altro oulipiano di eccellenza, Italo Calvino, pubblica Se una notte d’inverno un viaggiatore, i cui racconti cornice ci immergono, come vedremo di qui a poco, nella stessa atmosfera di plagio di opere letterarie del racconto perecchiano. Le Voyage d’hiver nasce da due pretesti, due contrainte per usare un termine più propriamente oulipiano: in primo luogo per raccontare la stagione dell’anno dell’inverno per la raccolta Saisons delle Edizioni Hachette, plaquette fuori commercio, di cui furono stampate 1000 copie, a cura di Nicole Vitoux e composta da quattro testi, tra cui quello di Perec, ciascuno dedicato a una stagione dell’anno; in seconda istanza, scaturisce da un vecchio progetto comune tra Georges Perec e Marcel Bénabou, ovvero quello di “confectionner un texte uniquement à partir de bribes d’une anthologie de romans du XIXe siècle cousues ensemble” (Perec 2014b: 1214). Le vicende di questo breve racconto prendono la forma di una ricerca, una sorta di indagine poliziesca ma in realtà più propriamente letteraria intorno ad un testo “fantasma”. Alla fine del mese di agosto del 1939, Vincent Degraël, giovane docente di lettere, ospite per qualche giorno nella casa di campagna del suo collega Denis Borrade, scopre accidentalmente nella biblioteca di famiglia, un volume; per un primo gioco di mise an abyme, così come in Un cabinet d’amateur Perec narrava la storia di un quadro intitolato a sua volta Le cabinet d’amateur (Jeannelle 2009: 172), l’opera in questione s’intitola appunto Le Voyage d’hiver, e il suo autore, tale Hugo Vernier, è completamente ignoto ai più e lo è persino per il giovane professore di lettere. Ad una prima lettura, il libro rinvenuto appare come un racconto di un narratore autodiegetico, ambientato “dans une contrée semi-imaginaire dont les cieux lourds, les forêts sombres, les molles collines et les canaux coupés d’écluses verdâtres évoquaient avec 5 Un cabinet d’amateur, pubblicato nello stesso anno, è un’altra opera narrativa di Perec in cui l’autore sembra proporre la finzionalizzazione, la mise en abyme di una nozione oulipiana. Nal caso specifico si tratta della nozione di clinamen, che dal De rerum natura di Lucrezio, passando per la ‘Patafisica, arriva all’estetica oulipiana, ed indica la trasgressione dalla contrainte, un’imperfezione nel sistema di contrainte che conferisce e, addirittura, aumenta il valore estetico dell’opera (Cfr. Costagliola d’Abele, M., in corso di stampa).

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une insistance insidieuse des paysages des Flandres ou des Ardennes” (Perec 2014b: 861). L’opera è divisa in due parti. La prima, la più breve, circa un quinto dell’intero volume, racconta di un viaggio “aux allures initiatiques” di un uomo dall’aria ancor giovane. Arrivato sulla riva di un lago, ad attenderlo, vi è un passatore; quasi un dantesco “nocchier de la livida palude”, questi lo accompagna su un isolotto dove compare una strana coppia di anziani che dopo averlo condotto in una stanza “sommairement meublée” lo lasciano inspiegabilmente ad una cena solitaria: […] un vieil homme et une vieille femme, tous deux drapés dans de longues capes noires, qui semblaient surgir du brouillard et qui venaient se placer de chaque côté de lui, lui saisissaient les coudes, se serraient le plus possible contre ses flancs ; presque soudés les uns aux autres, ils escaladaient un sentier éboulé, pénétraient dans la demeure, grimpaient un escalier de bois et parvenaient jusqu’à une chambre. Là, aussi inexplicablement qu’ils étaient apparus, les vieillards disparaissaient, laissant le jeune homme seul au milieu de la pièce. (Perec 2014b: 862).

In realtà questa prima parte non è che un “prétexte anécdotique” per introdurre la seconda che, invece, secondo le parole dello stesso narratore, si configura come “une longue confession d’un lyrisme exacerbé, entremêlée de poèmes, de maximes énigmatiques, d’incantations blasphématoires” (Perec 2014b: 862). Ma appena il professore inizia a leggere questa seconda parte, dai toni evidentemente borgesiani, resta colpito da una strana sensazione di déjà-lu, come se il ricordo di una lettura precedente, anteriore, venisse a sovrapporsi alla sua scoperta e a perturbarla: […] c’était comme si les phrases qu’il avait devant les yeux lui devenaient soudain familières, se mettaient irrésistiblement à lui rappeler quelque chose, comme si à la lecture de chacune venait s’imposer, ou plutôt se superposer, le souvenir à la fois précis et flou d’une phrase qui aurait été presque identique et qu’il aurait déjà lue ailleurs ; comme si ces mots […] esquissaient une configuration confuse où l’on croyait retrouver pêlemêle Germain Nouveau et Tristan Corbière, Villiers et Banville, Rimbaud et Verhaeren, Charles Cros et Léon Bloy. (Perec 2014b: 862-863).

Ma ben presto, il professore deve arrendersi all’evidenza e concludere che quel libro di Hugo Vernier che ha tra le mani non è altro che “une prodigieuse compilation des poètes de la fin du XIXe siècle, un centon démésuré, une mosaïque dont presque chaque pièce était l’œuvre d’un autre” (Perec 2014b: 864). Ed ecco, di lì a poco, intervenire a nostro

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avviso la mise en abyme del concetto di plagiat par anticipation: il giovane Degraël nota che la data di pubblicazione de Le Voyage d’hiver è il 1864. Scoperta quest’ultima “trop belle, trop évidente, trop nécessaire pour n’être pas vraie” (Perec 2014b: 865); il 1864, infatti, è una data anteriore alla data di pubblicazione di tutte le opere da cui sono tratte le 350 citazioni di più di 30 autori trovate nel testo. Degraël, pertanto, non può fare altro che aggrapparsi ad una logica puramente cartesiana e concludere che Verlaine, Mallarmé, Lautréamont e tanti altri poeti parnassiani o simbolisti non sono altro che “copistes d’un poète génial et méconnu qui, dans une œuvre unique, avait su rassembler la substance même dont allaient se nourrir après lui trois ou quatre générations d’auteurs!” (Perec 2014b: 864). In altre parole, Vernier, nel quadro di un perfetto plagiat par anticipation, avrebbe potuto citare una trentina di poeti ancor prima che questi scrivessero le loro opere e grazie a questa sua “anthologie prémonitoire”, secondo Degraël, avrebbe potuto rivoluzionare la nostra percezione della storia letteraria. Ma la guerra purtroppo giunge a cambiare il corso della storia e a perturbare l’inchiesta del professore il quale, di rientro a Parigi, trova il suo foglio di via. Da Parigi, per le vicende della Grande Storia, dovrà assentarsi fino al 1945 e, al suo ritorno, nonostante intense ricerche, non potrà mai più ritrovare una copia de Le Voyage d’hiver. Quella che lui aveva consultato è stata distrutta insieme alla villa del suo amico durante i bombardamenti, mentre l’unica copia recensita presso la Biblioteca Nazionale di Francia si è persa in occasione dell’invio del volume ad un rilegatore. Il mistero del plagiat par anticipation, dunque, non potrà essere mai svelato e porterà il professore prima alla follia e poi alla morte. Tuttavia, dopo il decesso di Degraël, alcuni suoi ex allievi scoprono tra i suoi documenti un registro, (ed ecco intervenire un terzo livello di mise en abyme), su cui è posto un titolo “Le Voyage d’hiver”: nelle prime 8 pagine il defunto professore ha ritracciato la storia delle sue infruttuose ricerche de Le Voyage d’hiver di Hugo Vernier mentre le restanti 392 pagine sono rimaste bianche. Ed è proprio sul bianco di queste 392 pagine che vorremmo soffermarci brevemente, ed è a partire da questo bianco che proporremo la transizione alla seconda e ultima parte del nostro contributo. È noto quanto il bianco, nella scrittura di Perec, partecipi a una sorta di autobiografia obliqua6 (Lejeune 1993). Si pensi a titolo esem6 Pur dovendo rinviare, per motivi di spazio, la riflessione ad altra sede, attireremmo l’attenzione del lettore sul fatto che tutto Le Voyage d’hiver potrebbe essere letto come un’autobiografia obliqua, con particolare riferimento alla perdita dei genitori, dunque, delle origini.

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plificativo a La Disparition in cui lo spazio bianco lasciato dall’impresa lipogrammatica serve a rappresentare il vuoto, il vuoto lasciato da una scomparsa, quella del padre durante il conflitto bellico o quella della madre deportata ad Auschwitz, il vuoto lasciato dall’indicibile, quello dell’histoire con la H maiuscola, e non dimentichiamo che in francese la lettera H, hache, è omonima della parola ascia, hache appunto, quell’ascia della morte che tutto e tutti cancella e fa scomparire in un indicibile dolore. Ebbene, forse le 392 pagine bianche del taccuino di Degraël intitolato Le voyage d’hiver stanno ancora una volta a ricordare quest’indicibile tragedia; quelle pagine candide cui non è stato apposto il segno nero dell’inchiostro, il corpo del testo, stanno lì forse a rimembrare, quasi come un cenotafio (Heck 2012b: 95), la scomparsa e la successiva ricerca delle proprie origini. Nella prima parte del racconto tale ricerca prende forse le forme della ricerca della genesi familiare e si cela dietro la strana coppia presso la cui “malvagia riva” il giovane protagonista viene accompagnato da un misterioso Caronte. Ma nella seconda parte della novella la ricerca delle origini prende le forme della ricerca filologica, la ricerca di questa sorta di archetipo, di editio princeps capace di rivoluzionare la nostra concezione della letteratura. Si tratta della ricerca di Degraël della copia di Le Voyage d’hiver ma si tratta anche della ricerca di più di una quindicina di scrittori oulipiani che, dal 1992 al 2014, hanno riscritto almeno 22 volte la novella di Perec, cercando di dare una spiegazione alla misteriosa scomparsa del volume di Hugo Vernier o giustificando il sorprendente anacronismo della data di pubblicazione dello stesso.

Le Voyage d’hiver di Perec, plagiat par anticipation delle sue suites oulipiane Come sottolinea Daniel Levin Becker, gli oulipiani hanno in un certo qual modo accettato la sfida di riempire quelle 392 pagine rimaste vuote e, in effetti, il volume Le Voyage d’hiver et ses suites (Perec/Oulipo 2013), che raccoglie tutte le riscritture del testo (tranne l’ultima di Origini che sono rappresentate nel testo dalla coppia di anziani che sono presenti nella prima parte ma anche da tutta la lista di scrittori “plagiati” nella seconda. La nozione di plagiat par anticipation raggiunge quindi la nozione di liposème proposta da Philippe Lejeune: “une stratégie délibérée et générale qui consiste à renoncer à dire directement quelque chose, et à recourir à des séries de moyens indirects, obliques, déviés”. (Lejeune 1993: 20-21).

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Michelle Audin scritta un anno dopo la pubblicazione), ha superato di qualche decina le 400 pagine (Tahar 2019: 568). Le Voyage d’hiver di Perec, quindi, da racconto che finzionalizza e che opera una mise en abyme della nozione oulipiana di plagiat par anticipation, diventa a sua volta plagiat par anticipation di più di una ventina di riscritture e lo diventa quasi superando la nozione puramente oulipiana di plagiat par anticipation e raggiungendo quella proposta da Bayard che, come avevamo ricordato in precedenza, riconosce nell’intenzionalità un tratto essenziale (Bayard 2009: 28). Come Christelle Reggiani sottolinea, infatti, il racconto di Perec è costruito in maniera tale che non solo autorizza ma addirittura sembra programmare le sue riscritture; le pagine bianche del registro rinvenuto appaiono, in effetti, retrospettivamente, come una chiara sollecitazione, un invito a continuare a scrivere proseguendo l’inchiesta di Degraël: […] Le Voyage d’hiver implique doublement une telle réception, en figurant narrativement, en une sorte d’allégorie prospective, ses récritures à venir, puis en en marquant explicitement la place, dans sa clausule, par la désignation des plages blanches qui constituent l’essentiel de l’ « épais registre » laissé par Degraël. (Reggiani 2014: 10).

L’idea di fare de Le Voyage d’hiver di Perec un plagiat par anticipation viene a Jacques Roubaud che in un breve articolo rivela l’origine “fortuita” di tale progetto: […] je découvris que, dans la version que j’avais sortie de ma bibliothèque, il y avait une COQUILLE : au lieu de « Voyage d’hiver », je lisais « Voyage d’hier ». […] ce « Voyage d’hiver » ayant fait son chemin dans ma molle cervelle, je me dis, qu’au fond, étant donné le contenu de la nouvelle de GP (Georges Perec, de l’OuLiPo), ce titre né au hasard d’une erreur de typographe par l’évanouissement d’un « v », se trouvait superbement adéquat, peut-être plus adéquat que le titre d’origine et authentique. (Roubaud 2009: 44-45)

Tuttavia, a qualche anno da Le Voyage d’hier di Roubaud, la lista delle riscritture dell’originale perecchiano diventa piacevolmente e al contempo inaspettatamente nutrita e mette in evidenza due periodi particolarmente produttivi: il primo, tra il 1999 e il 2001, che ha visto nascere 8 riscritture, et il secondo, tra il 2012 e il 2014, forse in previsione del volume di cui prima, che ne ha viste pubblicare altrettante 8 (Tahar 2019: 571). Sarebbe difficile in questa sede riassumere tutte le variazioni diatopiche e diacroniche di queste diverse suites del testo perecchiano, e non

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cediamo alla tentazione di riassumere nemmeno una di queste. Quello che ci limitiamo ad osservare rapidamente rispetto a queste riscritture, che tali però non sono in un’ottica oulipiana e che andrebbero piuttosto definite come testi vittime di plagiat par anticipation, è che, come si può ben immaginare, presentano tutte rocamboleschi giochi di mise en abyme. Per di più, attraverso ricorrenti metalessi (Tahar 2019: 577-586), gli oulipiani non temono di commentare, all’interno della propria riscrittura, quelle dei propri predecessori, rendendo questi ultimi personaggi stessi della propria finzione. Potremmo affermare, per riprendere i concetti di sintoulipismo e anoulipismo precedentemente menzionati, che nella serie di suites, possiamo individuare due tendenze fondamentali. La prima sarebbe, parafrasando il celebre Tentative d’épuisement d’un lieu parisien di Perec, un “tentativo di esaurimento sintetico”, frutto quindi del sintoulipismo, che ha come obiettivo quello di prolungare la finizione iniziale di Perec, colmando eventualmente i vuoti interpretativi lasciati dall’insuccesso della ricerca del giovane professore. La seconda sarebbe, invece, “un tentativo di esaurimento analitico”, frutto dell’anoulipismo, che tende, al contrario, ad analizzare i testi precedenti, quello di Perec e quelli derivanti dalle precedenti riscritture, per ritrovarne errori, incongruenze, contraddizioni (Tahar 2019: 571).

Conclusioni Le Voyage d’hiver e le sue riscritture oulipiane mettono, così, in atto un procedimento creativo che è allo stesso tempo collettivo ed originale e che si configura come un vero e proprio “romanzo collettivo” (Tahar 2019: 567). Pur emancipandosi dalla “scrittura a contrainte” stricto sensu, tutte le riscritture possono essere lette nel loro insieme come un unico testo oulipiano dalla forza “centrifuga”; in altre parole, esse, pur non essendo organizzate secondo una progressione tematica precisa, acquistano tutte coerenza a partire dalla novella perecchiana, loro centro propulsore, loro plagiat par anticipation e si configurano come un unicum narrativo il cui obiettivo precipuo diventa quello di “explorer de manière très ouverte le champ des possibles narratifs” (Tahar 2019: 574). Le diverse riscritture del testo di Perec, quindi, sembrano dunque una sorta di “tentativo di esaurimento” collettivo delle diverse potenzialità insite nell’opera di un maestro, un modo per gli oulipiani per

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rendere omaggio a Perec prolungando la sua opera e le sue pratiche attraverso l’uso stesso della scrittura e della finzione. Se dunque ancora oggi Perec è un modello, una ricetta, un serbatoio, un punto di riferimento, per riprendere i critici citati all’inizio del presente contributo, lo è innanzitutto, perché la sua opera si configura come un “laboratorio di soluzioni feconde” (Heck 2011: 13). Un laboratorio, aggiungeremmo, dal quale le generazioni successive di scrittori hanno largamente attinto, prova migliore e incontrastata della posizione autorevole che Perec occupa ormai nel panorama della letteratura francese contemporanea.

Bibliografia selezionata Bayard, P. 2009. Le plagiat par anticipation. Paris: Les Éditions de Minuit. Bénabou, M. 2014. “L’influenza di Perec sulla letteratura francese contemporanea”. I Quaderni dell’Oplepo 2: 21-33. Bloomfield, C. 2011. “L’héritage de Georges Perec chez les jeunes oulipiens: Anne F. Garréta, Ian Monk, Hervé Le Tellier et Jacques Jouet”. Cahiers Georges Perec 1: 19-32. Costagliola d’Abele, M. in corso di stampa. “Le clinamen de Lucrèce à Perec: lorsque l’erreur dans le système est à la base de la création”. Etienne, L. 1987. “Acrostiche double sur un palindrome utilisant seulement les lettres de «Perec»” In Oulipo, La Bibliothèque oulipienne. Vol. 2. Paris: Ramsay. 111-113. Heck, M. 2011. “Perec après Perec”. Cahiers Georges Perec 11: 7-15. Heck, M. 2012a. “«Ce repère Perec»: postérité de Perec oulipien”. Formules 16: 323-332. Heck, M. 2012b. “L’écriture blanche de Georges Perec”. In Montémont, V., Reggiani C. (dir.), Georges Perec. Artisan de la langue, Lyon: PUL. 91-102. Jeannelle, J.-L. 2009. “Perec et le divers de l’histoire littéraire: sur ‘Le Voyage d’hiver’”. La Licorne 86: 171-194. Joly, J.-L. 2002. L’œuvre de Georges Perec: réception et mythisation. Rabat: Publications de la Faculté des Lettres et Sciences humaines de l’Université Mohammed-V. Le Lionnais, F. 1972a. “La Lipo”. In Oulipo 1972: 19-22. Le Lionnais, F. 1972b. “Le Second Manifeste”. In Oulipo 1972: 23-27. Lejeune, Ph. 1993. “Une autobiographie sous contrainte”. Magazine littéraire 316: 18-21. Oulipo 1972. La littérature potentielle. Créations, Re-créations, Récréations. Paris: Gallimard.

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Perec, G. 1969a. “Georges Perec au Moulin d’Andé”. Ora in Oulipo 1972: 101-106. Perec, G. 1969b. La Disparition. Paris: Denoël. Ora in Perec 2014a. 263-473. Perec, G. 1972. Les Revenentes. Paris: Juillard. Ora in Perec 2014a. 481-543. Perec, G. 1978. Le voyage d’hiver. Paris: Hachette. Ora in Perec 2014b. 859867. Perec, G., 2014a. Œuvres, vol. I. Paris: Gallimard, “Bibliothèque de la Pléiade”. Perec, G., 2014b. Œuvres, vol. II. Paris: Gallimard, “Bibliothèque de la Pléiade”. Perec, G., Oulipo. 2013. Le Voyage d’hiver & ses suites. Paris: Seuil. Reggiani, C. 2014. Poétiques oulipiennes. La contrainte, le style, l’histoire. Genève: Droz. Roubaud, J. 2009. “D’un travail oulipien né du hasard”. In Cerquiglini, B. (dir.), L’Accident créateur. Paris: UPS. Tahar, V. 2019. La Fabrique oulipienne du récit. Expérimentations et pratiques narratives depuis 1980. Paris: Classiques Garnier.

Scritto, trascritto e riscritto. La teoria della natura nel medioevo tedesco Carmela Giordano Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” [email protected]

Un tema importante della filosofia della natura è quello della teoria dei temperamenti (o delle complessioni). Qui vi accenneremo nell’ottica della risonanza di un testo, sia relativamente ai contenuti, sia in relazione alla molteplicità delle sue forme nel tempo e nello spazio, lì dove la tradizione della fonte originaria si intreccia con la trasmissione di altri testi derivati.1 La storia della teoria dei temperamenti è molto antica e articolata a iniziare da Anassimene (585-525 a.C.): il filosofo della natura ha parlato per primo dell’uomo come microcosmo e per primo ha usato il concetto di kosmos e introdotto quella teoria che spiega come sulla base di una particolare affinità dei suoi elementi, aria, terra, fuoco, acqua – o attraverso l’ordine e la composizione di questi – si crea un legame indissolubile fra l’uomo e il cosmo.2 Fu poi Empedocle (483-423 a.C.) a stabilire che i quattro elementi avevano tutti la stessa importanza per la costituzione dell’universo e dell’individuo e non c’era un Ur-element. Da queste “radici” nascono tutte le cose e sarebbero principi immateriali come odio e amore a mettere in moto gli elementi che possono unirsi/mescolarsi o separarsi. Empedocle, come molti suoi contemporanei e predecessori, si occupava anche di medicina con la quale, da lui in poi, la teoria dei temperamenti 1 Di temperamenti e complessioni mi sono occupata in precedenza (Giordano 2000; Giordano 2015). Questo lavoro parte dai risultati di quegli scritti, rielaborandoli nell’ottica della riscrittura e della tradizione testuale di testi da essa derivati. 2 Finckh 1999: 25.

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sarà strettamente collegata. Si stabilirà come la costituzione dell’uomo nasce dalla mescolanza degli elementi, per cui uno squilibrio degli elementi conduce alla malattia.3 Ippocrate di Coos (460-377 a.C.) più o meno contemporaneamente, tenta per la prima volta, nel mondo occidentale, di dare una spiegazione eziologica dell’insorgenza delle malattie, superando la concezione superstiziosa, magica o religiosa.4 Questa teoria – detta anche umorale – arriverà, nel corso dei secoli, alla definizione delle quattro sostanze/qualità che si creano nella mescolanza degli elementi e la relazione di ogni qualità con una stagione, con una sezione del giorno o con un’età dell’uomo.5 Polibio (IV sec. a.C., genero di Ippocrate e suo allievo) anticipa la teoria umorale di Galeno (II d.C.) e afferma che c’è una relazione fra il sangue, il flegma, la bile gialla e la bile nera, rispettivamente con il caldo, il freddo, l’umido e il secco. Alle quattro qualità elementari (secco, freddo, umido, caldo) corrispondono le quattro stagioni (autunno, inverno, primavera, estate), le quattro età della vita (infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia) e così via. Esemplificando molto sinteticamente le associazioni dei quattro elementi e degli umori con le quattro qualità e le stagioni, riporto qui di seguito le relazioni canoniche con i quattro temperamenti: 6 Aria-Sangue: umido e caldo – collegato alla primaveraà sanguigno Fuoco-Bile gialla: caldo e asciutto – collegato all’estateà collerico Terra-Bile nera: asciutto e freddo – collegato all’autunnoà malinconico Acqua-Flegma: freddo e umido – collegato all’invernoà flemmatico7 Con Galeno di Pergamo la relazione con la medicina si farà sempre più stretta: la sua teoria dei temperamenti o delle complessioni mette in relazione i liquidi corporei e la loro varia mescolanza con un tipo particolare di costituzione corporea e del carattere.8

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Finckh 1999: 27. Sudhoff 1922: 61 ss. 5 Voce Umori in Ubaldo 2000: 82. È impossibile in questa sede ricapitolare la storia della teoria dei temperamenti dall’antichità a tempi più recenti. Si rinvia all’ormai classico lavoro di Klibansky et alii 20022, in particolare: 7-39 e 92-115. Per una veloce ricognizione sull’argomento valida è la voce https://it. wikipedia. org/wiki/Teoria_umorale (ultima consultazione 20 settembre 2020) con i vari link correlati. 6 Schubert – Leschhorn 2006: 204; Ippocrate, La natura dell’uomo. 7 Schema dedotto dalla sottoscritta sulla base della teoria umorale di Polibio, SchubertLeschhorn 2006: 207 ss.; Fischer 1994: 86-88, e altre fonti citate nelle note che seguiranno. 8 Finckh 1999: 46; Ippocrate, La natura dell’uomo; Klibansky-Panofsky-Saxl 20022. 4

LA TEORIA DELLA NATURA NEL MEDIOEVO TEDESCO

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Schema dei quattro umori in relazione ai quattro elementi

Questa teoria delle complessioni influenzò molto la medicina medievale e la letteratura medica latina ed ebbe una vasta eco anche nella letteratura medica in volgare. Per limitarci all’area tedesca, l’idea dell’uomo come microcosmo non si evidenzia solo nella letteratura propriamente scientifica (fachliterarisch) e ha una sua risonanza anche nella poesia biblica, nelle prediche e, solo dopo, negli scritti propriamente medici. Alcuni libri di medicina popolare testimoniano la grande diffusione della teoria degli elementi e contemporaneamente una grande continuità della sua eco nel tempo. Si pensi al Buch der Natur di Konrad von Megenberg (redatto fra il 1348 e il 1350, con più di 100 manoscritti e varie edizioni a stampa) in cui, mettendo in luce la stretta relazione fra uomo e mondo, l’autore afferma che l’uomo è creato da una mescolanza di “vier elementen die da haizent feur, luft, wazzer und erd”, ed è per questo che è uguale al mondo “microcosmus”, ovvero un mondo più piccolo. Motivo per il quale la gente del popolo dice “vedo tutto il mondo in una pietra”.9 Non va dimenticato in questo contesto l’Arzneibuch Ortlof von Baierland, redatto prima del 1348 ma così ampiamente diffuso che ancora nel XV e XVI secolo dei testi scientifici (fachliterarisch) circolavano con questo titolo per il prestigio che poteva loro conferire. Trascritto dal 9

Konrad von Megenberg: Das Buch der Natur. Die erste Naturgeschichte in deutscher Sprache, herausgegeben von F. Pfeiffer, Hildesheim. Olms 1971: 3 ss.

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XIV al XVII sec. senza interruzione, con anche otto edizioni a stampa e più di duecento ristampe in totale, già in apertura cita la teoria degli elementi: Darumme wyl ich […] to ersten scriben van der vyr elementen […] eyn heyz alz daz fuer, daz ander fuocht alze de luft, daz drytte kalt alz daz waszer, daz fyrde trocken alz dy erden […]10

Gli esempi potrebbero continuare ancora, ma qui citiamo solo altri due testi del medioevo tedesco, per certi versi affini, il Lucidarius tedesco e la Mainauer Naturlehre, entrambe opere enciclopediche e didattiche, sebbene per origini e forse anche pubblico iniziale molto distanti. Il Lucidarius (XII sec.) si può sicuramente inserire fra le più antiche testimonianze di una teoria dei temperamenti in lingua volgare, sebbene la questione venga accennata solo a latere in un contesto in cui si parla della creazione della terra. Da solo il Lucidarius occuperebbe un posto a sé in uno studio sulle risonanze, per le particolarità stesse della sua tradizione manoscritta che, detto per inciso, conta più di 90 testimonianze manoscritte, alcune redatte anche dopo l’introduzione della stampa, 108 edizioni a stampa almeno fino alla fine del 1800 e un’innumerevole serie di excerpta in varie altre opere tedesche, e rielaborazioni e/o traduzioni in altre lingue germaniche e non.11 Siamo in un contesto storico e letterario che vede vari innesti testuali e dove i passaggi fra la trascrizione di un testo, cioè la sua tradizione testuale, e le riscritture si intersecano e spesso non sono distinguibili. Nato in ambito religioso, questo testo è per molti aspetti alle origini della letteratura scientifica in lingua tedesca ed è la prima opera di filosofia della natura, una descrizione sistematica del mondo e delle cose divine. Primo esempio in lingua tedesca di un dialogo fra maestro e allievo, tramite la forma dialogica testimonia una continua riscrittura: il Lucidarius è una rielaborazione dell’Elucidarium latino di Onorio Augustodunensis, opera enciclopedica in tre libri (De rebus divinis; De Ecclesia; De futura vita) che costituiscono una sorta di piano per la salvezza dell’uomo e della sua anima fino alla descrizione della vita nell’aldilà (nel terzo libro); del testo latino, il Lucidarius tedesco rappresenta un singolare caso di rielaborazione, conserva pressoché intatto solo il terzo libro (ma non in tutta la storia testuale), sostituendo 10

Keil 1989: 75 ss. Steer-Gottschall (hrsg. von) 1994. Einleitung: 1*-24*; sulla tradizione del Lucidarius v. anche Giordano 1994: 312-315; Giordano 2003: 184-187. 11

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completamente il secondo con un’opera tedesca di tema identico (De divinis officiis di Rupert von Deutz), e rielabora parti del primo libro sulla creazione e sulla descrizione del mondo, dell’uomo, del concepimento del feto, della suddivisione della terra (Asia, Africa e Europa) e della presenza di popoli e creature mostruose che abiterebbero le terre più lontane ecc..12 Fu il primo libro, sempre modificato e aggiornato nel corso della tradizione manoscritta – anche grazie alla forma dialogica che crea un’opera ‘aperta’ – a resistere più di tutti, proprio perché cambiava, e a diventare, soprattutto dall’invenzione della stampa e con la scoperta del nuovo mondo, un testo a sé stante per il contenuto scientifico, quasi medico, e la sempre più ampia trattazione geografica, attualizzata secondo le nuove conoscenze e scoperte (Giordano: 2005). Fra altre questioni sulla natura presenta una descrizione della teoria dei temperamenti sulla base dell’Elucidarium e di altre fonti, soprattutto l’Imago Mundi dello stesso Onorio, la Philosophia Mundi di Wilhelm von Conches e le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, che già aveva trattato della teoria dei temperamenti. Sono otto le unità dialogiche interessate, quasi tutte nel primo libro e un paio nel terzo libro, quello dedicato alla storia della salvezza. La prima occorrenza è in I, 8, quando il discepolo chiede Luc. I, 8: Der iunger sprach. Wie stůnt ez, e die welt wurde? Do sprach der meister: Do waz núwen ein visterin die hiez kaos. Wan do waren di uier elemente sament13

Wilhelm von Conches aveva rappresentato l’origine del mondo come ‘caos’. Nel caos i quattro elementi sono tutti insieme non in una caotica mescolanza, ma in un ordine voluto da Dio quando creò il mondo. L’avverbio sament del Lucidarius significherebbe, sì, insieme, ma mescolati, inseparabili. Lo conferma anche una sua occorrenza del terzo libro (III.48), dove si afferma che nel Giudizio universale i quattro elementi si mescolano tutt’insieme (dunque ritornerebbero al caos primordiale). Questa prima unità dialogica resta la prima attestazione di kaos e element in tedesco. Nell’unità successiva, I.9, il discepolo chiede quali fossero i quattro elementi alle origini del mondo. Il maestro risponde: Daz waz daz fúr unde daz wazzer unde der lufth unde die erde. La 12

Steer-Gottschall (hrsg. von), 1994, Einleitung, 25*-135; Giordano 2003: 184-187. Qui di seguito verranno citate le unità dialogiche secondo l’edizione di Steer e Gottschall 1994, dove il numero romano fa riferimento al libro e quello arabo alle unità. 13

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questione viene poi affrontata dopo altre sezioni sugli angeli, i diavoli e l’inferno ed è collegata alla domanda del discepolo sulla composizione del cielo.14 I.25 Do sprach der iunger: Welher slahte ist der himele? Der meister sprach: der himel ist gescaffen user den vier elementen, den wir da heizzen firmamentum, unde ist gelich dem gefrorn wassere.

Se il mondo è composto dai quattro elementi, allora appare logico che anche il cielo ne sia composto. Questa conclusione nel medioevo non è così ovvia, e né l’opera di Wilhelm von Conches, né l’Imago Mundi di Onorio pongono in modo chiaro questa deduzione. Per quest’asserzione del Lucidarius è stata ipotizzata un’altra fonte, sempre di Onorio, la Clavis physicae.15 Segue poi una parte che potremmo definire “astronomica”, con la descrizione del corso dei pianeti e del sole, così come sulla natura delle stelle. E in quest’ultimo ritorna il discorso sugli elementi (I.88), sebbene non esplicitamente menzionati, ma sottintesi nel parallelismo con i pianeti che corrispondono ai diversi tipi umani. Dunque si arriva all’unità in cui, relativamente alla composizione e alla natura dell’arcobaleno, compare di nuovo la teoria degli elementi, questa volta collegati con i colori: I.105 Do sprach der iunger: Weler hande ist der regenbogen? Der meister sprach: […] So uerwet sich der wolken alse balde nach den vier elementen. Die gruene varwe her er uon dem wassere, die blawe uon dem lufte, die rote uon dem fúre, die purperine von der erde.

Affermazione, questa, che pare dipendere da Onorio, Imago Mundi, e Isidoro di Siviglia.16 Una spiegazione interessante, che mette in campo di nuovo i quattro elementi, è presente nell’unità dialogica I, 111. Il giovane chiede come mai, se anche gli animali sono fatti di materia, essi risultino differenti fra loro, tanto da essere suddivisi in varie specie. Il maestro spiega che questa differenza dipende da quale elemento è maggiormente presente in loro. Ovvero gli animali hanno sempre gli stessi elementi, ma uno di questi ogni tanto è in eccesso e ciò determina la differenza fra i singoli animali. Lo stesso capita agli uomini, ma in 14 15 16

Hamm 2002: 71. Hamm 2002: 99. Hamm 2002: 75.

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questi ultimi gli elementi creano fra loro un equilibrio e un eccesso dell’uno o dell’altro crea uno squilibrio fisico e l’insorgere della malattia. Il tutto viene spiegato secondo quelle corrispondenze fra temperamenti, temperature, orbite celesti, secchezza, umidità e colori, forse risibili ai giorni nostri, ma che nel medioevo facevano parte a pieno titolo del sapere medico e servivano nella diagnosi e nella terapia di molte malattie. Dopo questa sezione, il discorso sui temperamenti ritorna solo nel terzo libro, precisamente nell’unità III.7 dove si afferma che, mentre l’anima dell’uomo è composta da tre cose – ragione, comprensione e desiderio – il corpo ne rivela quattro, che sono per l’appunto i quattro elementi. Ma ritorna soprattutto nella III, 48, in cui ricompare l’idea della ‘mescolanza’ da cui tutto ebbe inizio, quando a proposito del Giudizio universale, si afferma che Dio salirà al cielo con gli angeli e i “quattro elementi vengono scossi nel putiferio di grande fuoco e ghiaccio e si mescolano”. In questo modo l’autore si ricollega al punto del primo libro in cui descrive la nascita del mondo a partire dai quattro elementi: all’inizio, dicevamo, c’era il caos che mantiene con i quattro elementi le basi per l’ordine che si creerà. Dunque, nell’ultimo libro si chiude il cerchio: nel giorno del Giudizio universale l’ordine del mondo crolla, le ‘radici’ o le fondamenta perdono il loro carattere e il loro significato. Passiamo alla cosiddetta Mainauer Naturlehre, un piccolo compendio in prosa a cavallo del XIII-XIV sec., di una decina di fogli, conservato a Basilea ([B] Basel, Öffentliche Bibliothek, B. VIII.27, fol. 293r-304r). A differenza del Lucidarius, la sua tradizione manoscritta è molto limitata. Anzi, fino a qualche decennio fa si pensava che il manoscritto di Basilea fosse l’unico testimone. Nel 1997 è stato scoperto il secondo testimone ([Y] York, Minster Library, Add. 34).17 Di qualche decennio più tardo di B (metà del XIV secolo), Y contiene solo quattro estratti del trattato, essenzialmente dalla sezione astronomico-computistica, ordinati in sequenza diversa rispetto a B, mentre il resto del codice è occupato da testi in latino di argomento morale 17 Deighton 1997: 200-213. Recentemente il trattato è stato finalmente preso in considerazione come testimonianza di Fachliteratur e di prosa scientifica del medioevo tedesco ma raramente si segnalano studi più specifici sulla MN, come nello studio di Bauer 1937: 10-12, 26-27, 39, 80, 130, e di Brévart 1987: 157-179. Un’ampia monografia è stata invece dedicata al trattato da Mosimann: 1994. Un’edizione basata sulla sinossi dei due testimoni è offerta da Lucia Busani (ed.), Il trattato alto-tedesco medio ‘Von den vier elementen’ (‘Mainauer Naturlehre’), tesi di dottorato, Università di Firenze, Firenze 2000. Un’edizione critica è in preparazione a cura della sottoscritta.

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e religioso. La scoperta del secondo testimone enfatizza l’interesse del trattato per i quattro elementi e la teoria dei quattro temperamenti che in B veniva posto in risalto solo nella nota di contenuto aggiunta in epoca più tarda sul recto del frontespizio, dove infatti si legge: «von den iiij elementen, vij planeten, xij zeichen und des himels louff zu ein schoens buechlin».18 Siamo di fronte a una vera e propria compilazione, come nel Lucidarius, difficilmente ascrivibile a uno dei generi noti nella letteratura medievale, sulla base di argomenti di astronomia (l’universo ed i suoi costituenti, i movimenti dei pianeti e del firmamento, le eclissi e l’illuminazione della luna da parte del sole), computistica (il giorno naturale, le denominazioni dei giorni della settimana, con digressioni sullo zodiaco, sul nome dei mesi e sull’origine del calendario, le calende e le festività mobili), medicina in senso lato, in particolare con una sezione che si può definire dietetica. Il trattato si presenta come una raccolta di appunti, un compendio molto sintetico in lingua volgare di varie opere scientifiche della latinità tardo-medievale. Potrebbe essere stato scritto in preparazione di un’opera più vasta e approfondita, o che sia stato utilizzato come una sorta di prontuario, un promemoria per uso pratico (Giordano: 2015). Il testo mostra una strutturazione quadripartita, sia nella sezione astronomica dove vengono citati e descritti i quattro temperamenti/ elementi, sia in quella computistica e dietetica: le sezioni si ricollegano tutte attraverso la presenza dei quattro elementi costitutivi di universo e uomo e la parte ‘medica’ rivela il punto finale del discorso, proponendo rimedi e consigli generali da seguire a seconda del tipo umano e del periodo dell’anno. Con il Lucidarius, la MN condivide anche l’uso di alcune fonti: l’Imago Mundi variamente rielaborata e tradotta in tedesco, utilizzata con ogni probabilità nell’immagine della terra – con gli elementi che la compongono – a forma di uovo e per descrivere il duplice moto dei pianeti,19 e le Etymologiae di Isidoro in 18

Il titolo fu dato al testo dal primo editore Wackernagel (1851) sulla base di collegamenti testuali interni con l’Ordine Teutonico con una delle più importanti commende dell’area alemannica nell’isoletta di Mainau, nel lago di Costanza. Tuttavia, considerazioni meramente linguistiche e, con il secondo testimone, anche codicologiche e contenutistiche, escluderebbero questa localizzazione, Keil 1985: 1175-1178; Mosimann 1994: 23. Raschellà-Busani 1999: 237. In questa sede insisto sul titolo classico perché il trattato risulti più immediatamente riconoscibile per i lettori. 19 Mosimann 1994: 96-100. Varie sono le rielaborazioni tedesche di testi latini con queste tematiche e in ambito volgare tedesco il paragone della terra con l’uovo, seppure in forma semplificata, si trova già nel Lucidarius tedesco (I, 44), v. Gottschall-Steer 1994: 17.

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primis o di fonti simili, sebbene queste siano identificabili con estrema difficoltà quando si tratta di sezioni più volte tradotte, rielaborate e rimaneggiate in area tedesca – come nel caso dei quattro temperamenti, inclusi nella parte astronomica – tanto da renderne definitivamente imperscrutabile la derivazione da un modello preesistente.20 Siamo in un’epoca in cui le informazioni presenti nel Lucidarius si sono ormai diffuse nella letteratura scientifica in volgare e sono state anche più volte aggiornate e rimaneggiate.21 La MN vale anche come la prima opera computistica di ampio respiro in tedesco («Buoch von der Zit»)22 ma non pare avere avuto una grande diffusione come trattato sul computo. Meno isolato appare sul versante medico per il quale varie sono le testimonianze di traduzioni parziali o rielaborazioni in tedesco, per tutto il XIV secolo, in versi o prosa, della fonte principale cui fa riferimento, il Secretum Secretorum.23 Il fatto che l’autore in vari incisi si rivolga direttamente al suo pubblico, imitando un dialogo fra maestro e allievo – come nel Lucidarius, ma senza menzionare i due attori del dialogo – e l’estrema semplificazione degli argomenti, il ricorso anche alla traduzione di definizioni e termini latini, fanno pensare a un pubblico con minime conoscenze di base e suggeriscono un intento prevalentemente didattico alla base del testo. Il testimone di York nella storia della Mainauer Naturlehre ha il ruolo di revisione e riscrittura del manoscritto B o del suo modello. Y è un codice tutto in latino e il nostro trattato è l’unico testo in tedesco, tranne un’annotazione sul foglio vuoto prima che inizi il passo sui quattro elementi, dal f. 185r al f 189v. Contiene sermoni, excerpta di vari autori di Padri della Chiesa e filosofi, un regimen sanitatis e una tabella per determinare la posizione della luna giorno per giorno, oltre a note sulle comete. Anche le annotazioni marginali e le correzioni o integrazioni ai vari testi e, in ultima analisi, una nota posta a mo’ di titolo ora erasa, “tractatus diversi et multum utiles”, rinviano a un testo d’uso.24 20

Ci limitiamo in questa sede a ricordare genericamente i risultati raggiunti dagli studiosi sulle fonti della MN, in particolare Brévart 1997: 159-161; Kleine 1995: 101-114, e l’ampio studio di Mosimann 1994: 19-22 e 231-237. 21 Mosimann 1994: 214-231; Mayer 1995: 682-689. Alla diffusione della teoria dei temperamenti in area tedesca è dedicata la dissertazione di Schönfeld 1962. 22 Brévart 1987: 157; Stackmann 1955: 429. 23 Il testo latino del Secretum Secretorum era stato tradotto in tedesco già nel 1282 da Hiltigart von Hürnheim, Keil 1992: 993-1013; Brévart 1987: 167; v. anche Mosimann 1994: 19-22 e 51-53, e Giordano 2015: 2. 24 Deighton 1997: 201.

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I due manoscritti presentano varie differenze che permettono di escludere la dipendenza del più recente, Y, da quello più antico, B, e di ipotizzare una dipendenza comune dallo stesso archetipo. Dall’analisi dei due testimoni possiamo dedurre che quello più vicino all’archetipo è il testo di B. Le parti del trattato che i due manoscritti condividono non mostrano grandi divergenze: in linea di massima Y non è stato modificato da commenti o aggiunte da altri testi. Vale però la pena soffermarsi su divergenze apparentemente minime, come un sinonimo o una costruzione sintattica differente, che rivelano delle scelte di Y ben precise. In una classificazione tipologica delle differenze, si notano quelle stilistiche – dalla sostituzione di parole a divergenze più consistenti che però non modificano il contenuto del testo, e quelle di contenuto, generalmente aggiunte o integrazioni di Y al testo di B. È proprio nella sezione sui quattro temperamenti che si mettono in luce le differenze più marcate fra i due testimoni. Si tratta di varianti di contenuto, interventi che mirano a correggere alcune affermazioni di B ritenute errate o che mirano a completare, secondo l’autore di Y, il testo tramandato. In ogni caso, rivelano un intento migliorativo.25 Il trattato si apre con la presentazione dei quattro elementi che compongono il corpo umano. Il corpo dell’uomo – ci viene detto – è formato di quattro elementi (Dez menschin lip ist gemachet uz vier elementen), e il primo è la terra. Da qui parte una lunga digressione sulla forma ovoidale della terra, com’era già stata descritta nell’Imago Mundi di Onorio, e poi si passa alla descrizione delle qualità che creano l’associazione con il temperamento relativo alla terra, il malinconico. B: [...] Daz erste ist diu erde. diu ist kugeleht daz kan man kiesin da bi [...] und ist von ir nature durre unde kalt. Also der naturen sint och ein teil lúte, den sprechint die arzate melancolici. Die artent nach der erden unde sint sorghaft, gerne truric, gitic […] Nu hest du ein element, daz ist diu erde. Daz ander element ist daz wasser unde ist och cugeleht umbe daz ertriche. Als in eine eige daz luter umbe den duttern gat, also umbegat daz wasser die erde, nuwen daz uns got den luft hie lat, daz wir genesen, ez solte anderss alles hie wazzir sin. Unde ist och daz wazzir 25

Giordano 2015: 3. In caso di divergenze di questo tipo non si è sempre in grado di stabilire con certezza se B rappresenti l’archetipo o un ramo della tradizione. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, è stato possibile riscontrare un denominatore comune in queste differenze, che si confermano come intervento successivo di Y, mentre è difficile considerare le lezioni di B come corruzioni. C’è una serie di varianti, inoltre, che non modificano il dettato di B, ma denotano l’intenzione di Y di esprimere più chiaramente ed in maniera meno equivoca concetti che in B sono confusi.

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kalt unde fuhte. Der naturen sint och die lute, den die meister sprechint sanguinei, die artent nach dem wazzir, unde sint gebinde, minnende, frolich, lachende unde rotenhafter varwen, unde singent, unde feizent sint si, geturstic unde gůmůtic. Nu hest du daz ander element, daz wasser. Daz dritte element, daz ist der luft, der besluzit in sich die ersten zwei unde ist warm ude fuhte. Darnach artent die, den die arzate sprechint fleumatici, unde sint an slafenne gerne drage, unde mugent vil speichlotun haben unde hant herten sin, veizt unde wis sint siu gerne. Nu hestu daz dritte element, daz ist der luft. Daz vierde ist daz fúr, und ist durre unde warm unde umbegat die andern alle. Der nach artent die lute, die da heizint colerici. Die sint los, drugenhaft, zornic, gebinde unde geturstic, ruh, crank, durre unde bleicher varwen. Dise vier element gent dem libe fůrunge; daz sint: die erde, wazzir, luft unde fúr.26

Siamo di fronte a un passo che, malgrado un’ampia digressione sulla terra e la sua forma, si inserisce nella tradizionale descrizione dei quattro temperamenti che, secondo il pensiero medievale, compongono il corpo umano. Ai quattro elementi – l’aria, il fuoco, la terra e l’acqua – si associano quattro temperamenti – rispettivamente sanguigno, collerico, melancolico, flemmatico – e in qualche caso, come si è detto sopra, specificando meglio un’associazione fra le qualità di ogni elemento (caldo-umido, caldo-secco, freddo-secco, freddo-umido rispettivamente per l’aria, il fuoco, la terra e l’acqua)27. Nel trattato il compilatore descrive le qualità primarie di ogni elemento e il temperamento a esso associato, con le caratteristiche peculiari. In entrambi i testimoni il temperamento malinconico è associato alla terra e il collerico al fuoco, come vuole la tradizione. B, tuttavia, associa il temperamento sanguigno, assieme ai tratti essenziali che lo distinguono, all’acqua e, viceversa, il flemmatico è associato all’aria. Ora, sebbene la dottrina dei temperamenti nel suo insieme nel corso della sua tradizione abbia subito numerose variazioni e rielaborazioni, modificando carattere e finalità originari, con successive e continue specificazioni, sia al suo interno, sia nelle associazioni con gli umori, le stagioni e persino con i segni dello zodiaco, l’associazione 26 MN, dal ms. B (fol. 293rb- 293va), sostanzialmente con poche differenze grafematiche in Y (fol. 185r-185v). Il corsivo è mio. Per il passo corrispondente di Y vedi infra. 27 Per la diffusione della teoria dei temperamenti in area tedesca e le sue rielaborazioni nei manoscritti medievali, v. Schönfeldt 1962; Mosimann 1994: 214-231; Mayer et alii 1995: 682-689.

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fra elementi e temperamenti determinati dagli umori ha – come si è detto – origini molto antiche, che risalgono ai principi della medicina ippocratica, e segue un’enunciazione canonica in cui si collega l’acqua al temperamento flemmatico, l’aria al sanguigno, il fuoco al collerico e la terra al malinconico.28 Dal confronto fra i due testi, invece, emerge che B collega erroneamente due temperamenti (quindi non una semplice svista nella trascrizione, ma uno scambio fra le qualità di due temperamenti), mentre la lezione di Y riflette le associazioni tradizionali: Y: Daz ander element ist daz wasser. Daz ist auch kugelecht umb daz ertreich. Als in einem eye daz lauter umb den roter get, also umbget daz wassir dye erd, nur daz uns got den luft hye lat, daz wir genesen, es schold anders alz hye wazzer sein. Und ist ouch daz wazzer kalt und feuchte. Der natur sein dy leute, den die meister sprechen flegmatici. Die seint an slaffe gernne trege, und mugen vil speichen haben, und habent herten syn, vaizt und weiz seint sye gern. Nu hastu daz ander element. Daz dritte element, daz ist der luft, der besleuset in sich dye ersten czway und ist warm und feuchte. Der natur sein dye leute, den dy meister sprechen sanguinei, und sent gebende, minnende, vroleich, lachende, roter varbe und singent gern, und seind fleischik, turstik, und gůtmutik (fol. 185r)

Non sappiamo se l’errore di B sia dovuto a un copista e Y rappresenti invece il ramo corretto della tradizione – chissà se più vicino all’originale – o se l’errore appunto risalga al compilatore del trattato e Y rappresenti una revisione e correzione del testo. La frase «die artent nach dem wazzir» di B (fol. 293rb-293ra) riferita espressamente al sanguigno – e inserita fra il temperamento e le sue qualità – potrebbe difficilmente essere attribuita a un copista. D’altro canto, anche un compilatore difficilmente sarebbe caduto in questo errore, se non fosse stato già presente nella fonte adottata. Ora, se è vero che una banale distrazione è sempre possibile, soprattutto se la fonte adottata per questa sezione presentava una successione diversa dei quattro temperamenti e delle loro caratteristiche rispetto a quella qui adottata,29 28

Mosimann 1994: 216-218; Mayer 1995: 684. Non è raro, nei volgarizzamenti e nelle fonti tedesche medievali sui temperamenti e i tipi umani, che si creino errate associazioni fra gli uni e gli altri o continue contraddizioni. Faccio qui l’esempio di un codice miscellaneo di cui mi sono occupata, noto come Codex Schürstab (Zürich, Zentralbibliothek, C54), che presenta molte contraddizioni di questo tipo: per esempio, già nel diverso ordine in cui, nella sezione propriamente dedicata all’argomento, l’incipit annuncia la sequenza dei temperamenti che devono essere descritti di seguito ([…] melancolicus, colericus, flegmaticus, sangwineus), subito dopo contraddetta 29

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non mi sentirei di attribuire l’inversione a una lacuna nel sapere del compilatore, data l’enorme diffusione della dottrina dei temperamenti e anche il buon livello di conoscenze che dimostra in generale nel trattato. Quello che appare più sicuro è che il redattore di Y si è sentito in dovere di intervenire a correggere questa corruzione e non solo ripristinando l’ordine e attribuendo le qualità ai temperamenti giusti, ma aggiungendo dei versi in latino, con la riformulazione dell’intera teoria dei quattro temperamenti, come a giustificare l’intervento effettuato e, soprattutto, ad aggiungere autorità al suo testo. Die vier element di geben dem leib fuerunge. Daz ist di erde, wazer, fewr und luft. Sanguineus: largus, amans, hylaris, ridens rubeique coloris, cantans, carnosus, satis audax atque benignus. Colericus: irsutus, fallax, irascens, prodigus, audax, astutus, gracilis, siccus croceique coloris. Flegmaticus: hic sompnolentus, piger, in sputamine plenus, est ebes, huic sensus pingwis, facie color alcus. Melancolicus: invidus et tristis, cupidus, dextre que tenacis (nota: expers fraudis), timidus, luteique coloris.30

Anche se non possiamo stabilire a quando e a chi risalga l’errore in quest’ultimo, se a queste considerazioni aggiungiamo l’inserimento dei versi in latino in sé e per sé, le aggiunte di parole e frasi tutte tendenti a chiarire quanto già espresso, oltre all’utilizzo di titoletti nel testo, possiamo ipotizzare che Y abbia voluto una revisione del testo di B (o il suo modello) con l’utilizzo di e il confronto con fonti latine. Il ruolo di Y è quello di correggere il testo tramandato da B. Siamo di fronte a un passaggio dove si intrecciano tradizione testuale e riscrittura: la trascrizione dunque non è solo una fase funzionale alla trasmissione del testo ma, come accade nella rielaborazione continua del Lucidarius, diventa essa stessa riscrittura e risonanza di quel testo.

dall’effettiva successione dei temperamenti, che vedono il collerico essere descritto per ultimo, v. Giordano 2000: 91-108; Keil et alii 1983: 77-81. 30 Sul margine sinistro, inoltre, in corrispondenza dei righi con l’inserzione in latino, la stessa mano ha aggiunto altri versi, danneggiati parzialmente dalla rifilatura: Nota de sanguineo versus/ nultum appetit et multum potest / Colericus multum appetit et parum potest / flegmaticus parum appetit et multum potest/ melancolicus parum appetit et parum potest, Deighton 1997: 210.

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Bibliografia Brévart, F.B. 1987. Die Mainauer Naturlehre. Ein astronomisch-diätetischkomputistisches Lehrbuch aus dem 14. Jahrhundert. Mit einer Quellenuntersuchung. Sudhoffs Archiv VII: 157-179. Deighton, A. 1997. “Eine zweite Handschrift der sogenannten Mainauer Naturlehre”. Zeitschrift für Deutsches Altertum 126: 200-213. Finckh, R. 1999. Minor mundus Homo. Studien zur Mikrokosmos-Idee in der mittelalterlichen Literatur. Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht. Fischer, K.-D. 1994. “Vom Säfteschema der hippokratischen Medizin”. In Peter Kemper (Hrsg.), Die Geheimnisse der Gesundheit. Medizin zwischen Heilkunde und Heiltechnik. Frankfurt am Main: Suhrkamp Verlag. 76-94. Giordano, C. 1994. Rec. a: Dagmar Gottschall, Das >Elucidarium< des Honorius Augustodunensis. Untersuchung zu seiner Überlieferungs-und Rezeptionsgeschichte im deutschsprachigen Raum mit Ausgabe der niederdeutschen Übersetzung, Tübingen: Max Niemeyer Verlag (TTG 33), VIII+332. AION-Sezione Germanica n.s. IV, 1-2: 309-316. Giordano, C. 2000. “Pianeti, zodiaco e temperamenti in un libro medicomatematico tedesco del XV secolo. Alcune note sul Codex Schürstab (Zurigo, Zentralbibliothek, Ms. C 54)”. AION-Sezione Germanica, n.s. X, 1: 91-108. Giordano, C. 2003. “Die Elucidariumsrezeption in den altgermanischen Literaturen des Mittelalters. Ein Überblick”. Mittlelateinsches Jahrbuch 38: 171-187. Giordano, C. 2005. “Il viaggio di un testo nel tempo: Cosmografia e geografia nel «Lucidarius» tedesco, dai manoscritti alle stampe”. In D. Gottschall (a c. di) Testi cosmografici, geografici e odeporici del medioevo germanico. Louvain-la-Neuve: Brepols. 71-94. Giordano, C. 2015. “Elementi e tipi umani nel Medioevo tedesco: la ‘Mainauer Naturlehre’ (o il trattato ‘Von den vier Elementen’)”. Testo&Senso 16: 1-9. Grant, E. 1978. “Cosmology”. In David C. Lindberg (ed.), Science in the Middle Ages. Chicago-London: University of Chicago Press. 265-302. Hamm, M. 2002. Der deutsche >Lucidarius