Raoul Walsh o dell'avventura singolare 8878703265, 9788878703261

Raoul Walsh o dell'avventura singolare

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Italian Pages 205 [208] Year 2008

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Raoul Walsh o dell'avventura singolare
 8878703265, 9788878703261

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cinema/studio collana diretta da Orio Caldiron

66

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TONI D’ANGELA

RAOUL WALSH O DELL’AVVENTURA SINGOLARE

BULZONI EDITORE

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In copertina: particolare del manifesto di Il sentiero della gloria (1932) di Raoul Walsh

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-326-1 © 2008 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail:[email protected]

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INDICE

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INTRODUZIONE

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1. NARRAZIONE E AZIONE

23 28

1.1 Azione e narrazione nel classicismo e nella sua crisi 1.2 Respiro e trasparenza: il cinema di Walsh

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2. FIGURE

33 44 49 50 71 74 80 96 98 100 126 132 148 155

2.1 (S)punti introduttivi 2.2 Il rovescio dell’azione: il profondo della narrazione 2.3 Poesia del corpo dell’azione 2.4 Détour 2.5 Deviazione 2.6 Geo-topografia dell’azione: bizzarie e scossoni. Ancora sulla deviazione 2.7 La natura: sulla libertà e l’energia an-archica degli eroi walshiani 2.8 La frontiera e l’irruzione del fuori 2.9 Sul ritmo 2.10 Lo scambio simbolico e la morte 2.11 Il rovescio del diritto 2.12 Riscatto e rigenerazione 2.13 L’azione va fino alle stelle 2.14 La guerra: dall’azione all’angoscia

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3. DAL CLASSICISMO ALLA (CRISI DELLA) MODERNITÀ

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3.1 Non ci sono più eroi, né gli attori per interpretarli

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INDICE

170 174

3.2 Cinquant’anni di cinema 3.3 Crisi: classico, barocco, (pre)moderno

185

CONCLUSIONI. UN UOMO, UN GESTO, UNO STILE

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APPENDICE. LA LETTERA DEL VEGGENTE di Raoul Walsh

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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«Il cinema è un’immagine in movimento, e io lo facevo muovere». Raoul Walsh

«– Le cose belle non te le aspetti, vengono all’improvviso. – Come le revolverate». Dennis Morgan e Jane Wyman in Notte di bivacco (Cheyenne, 1947)

«…là dove c’è il pericolo, cresce / Anche ciò che salva». Hölderlin

«C’è qualcosa di più alto di ogni riconciliazione». Nietzsche

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Ringraziamenti Paolo Bechmann, Gianluca Guerra e la Cappella Underground di Trieste, Carlo Goberscek e la Cineteca del Friuli, Elisabetta Stella, Andrea Pastor, Sibilla Rossi, Silvestro Lecce.

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INTRODUZIONE

La forma cinematografica spezza il grigio dualismo che separa il pensiero e l’emozione. Contesta il giogo del logocentrismo implicato nella linearità della scrittura alfabetica nonché della scrittura letteraria e cinematografica. Smentisce l’assoggettamento al Significato recuperando così la pluridimensionalità del raccontarsi de-linearizzato del mondo attraverso la liberazione dei segni, differenziandoli dal senso e «affrancandoli da tutte le opposizioni concettuali della metafisica, nella misura in cui hanno come ultimo loro termine di riferimento la presenza di un presente»1, ovvero del «mito rassicurante di un significato trascendentale»2. Jacques Derrida, nella sua polemica contro il logocentrismo della metafisica occidentale, trova un alleato imprevisto nel cinema e, in particolare, in uno dei suoi massimi teorici e poeti, Sergej M. Ejzensˇtejn3. L’ambizione del cineasta sovietico era proprio quella di ricondurre l’intellettualità alle sue fonti originarie, all’emozione, attraverso il montaggio, «il mezzo compositivo più potente per raccontare una storia»4, poiché la narratività, scrive Jean Mitry, resta «interamente basata sulle condizioni dinamiche del montaggio»5. Il cinema racconta storie, e Raoul Walsh raccontava storie, come Ejzensˇtejn o Griffith, il maestro di Walsh. Ma, si badi bene, la narratività filmica si fonda nell’immagine senza discendere in essa da uno o più codici linguistici6: non è una determinazione linguistica latente, né l’effetto di

1 Jacques Derrida, Semiologia e grammatologia (colloquio con Julia Kristeva), in Posizioni, Verona, Ombre corte, 1999, p. 39. 2 Jacques Derrida, Il pozzo e la piramide. Introduzione alla semiologia di Hegel, in Margini della filosofia, Torino, Einaudi, 1997, p. 109. 3 Cfr. Massimo Vannucchi, Ideogramma, monologo e linguaggio interiore, in Pietro Mechini e Renato Salvadori (a cura di), Il cinema di S.M. Ejzensˇtejn, Firenze, Guaraldi, 1973. 4 Sergej M. Ejzensˇtejn, Il linguaggio cinematografico, in La forma cinematografica, Torino, Einaudi, 1986, p. 118. 5 Jean Mitry, Histoire du cinéma, I, Paris, Editions Universitaires, 1967, p. 370. 6 Cfr. Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Milano, Ubulibri, 2001, pp. 37-43.

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INTRODUZIONE

una struttura linguistica che la sottende, bensì una composizione di immagini, composizione organica quella del classicismo e composizione nonorganica quella della modernità. Il film è sì un testo ma, come rileva Raymond Bellour nel suo L’analisi del film, questo testo è introvabile, poiché la mobilità del film è «irriducibile al linguaggio che vorrebbe impadronirsene per farla apparire, raddoppiandola»7 e proprio questa sua mobilità irriducibile («il paradosso dell’immagine in movimento») rappresenta la sua «testualità»: pertanto l’immagine è «l’essenziale»8. La narrazione filmica non è assimilabile, né tantomeno sovrapponibile alla narrazione letteraria. Il cinema sospinge il racconto fuori dei canoni tradizionali del testo scritto. È una narrazione oltre-letteraria, come ha avuto modo di osservare Pietro Montani, che ha delle «sue regole generative» e una «sua peculiare produttività»9. Ma, poiché «la critica cerca e trova un crimine»10, spesso la semiologia del cinema ha faticato a riconoscere questa specifica differenza applicando alle immagini modelli presi a prestito dalla codificazione del linguaggio letterario, assimilando così l’immagine audiovisiva all’enunciato scritto o verbale. Non è il caso di Christian Metz che ha sempre riflettuto sui «tratti specifici del significante cinematografico»11, né dell’analisi testuale di Bellour12. Anche la narratologia del film 7

Raymond Bellour, L’analisi del film, Torino, Kaplan, 2005, p. 43. Cfr. Ivi, pp. 44-45. Cfr. Pietro Montani, L’immaginazione narrativa, Milano, Guerini e Associati, 1999, p. 13. 10 Michel Serres, L’ermafrodito: Sarrasine scultore, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 60. 11 Christian Metz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Venezia, Marsilio, 2002, p. 53. 12 Giustamente Paolo Bertetto nella Prefazione alla recente edizione italiana del libro di Bellour, sottolinea come l’attitudine fondamentale della sua analisi del film, che come scrive lo stesso Bellour è il risvolto testuale della semiologia, sia il superamento della semiologia come immagine fittizia di una scienza della trasparenza del segno e che, contro la «sostanziale aridità del discorso di tanta semiologia», l’analisi testuale di Bellour – aperta, oltre che alla lezione di Barthes e Metz, o della Kristeva, alla cultura e alla teoria francese del suo tempo, cioè quella di Levi-Strauss, Lacan, Deleuze e Derrida – sia invece tesa a «produrre sensi molteplici, complessi, in trasformazione, in progress» e, continua Bertetto, Bellour quindi «sembra andare non nella direzione della significazione univoca, precisa, delimitata, ma al contrario verso una disseminazione del senso». Cfr. Paolo Bertetto, Prefazione a Raymond Bellour, L’analisi del film, cit., pp. 6-8. D’altronde, la complessità dell’analisi del film si desume anche dalle sue origini, poiché oltre che essere il risvolto testuale della semiologia (una semiologia trasformata in rapporto a se stessa e estranea all’immagine di una semiologia in quanto scienza), come spiega lo stesso Bellour, l’analisi 8 9

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è rimasta troppo a lungo «imperniata sui modelli letterari già esistenti»13. Beninteso: ciò non toglie che il film sia un «luogo misto» che si costruisce nell’«incontrarsi e annodarsi» di codici specifici propri del cinema e codici non-specifici comuni ad altre arti o linguaggi 14. Il logicismo della semiologia la rende inoperante, suo malgrado, quando questa, fondandosi su una credenza a-problematica, si arrende alla ovvietà bimillenaria del dualismo tra referenti e significati: «se c’è una cosa che la semiologia non può accettare», ha scritto sintomaticamente Eco, «è che si sostituisca il referente al significato»15. Una banalità implica e giustifica l’altra, cosicché il processo di significazione può sì ridursi all’operazione di «fornire istruzioni generali per il suo uso nel fare asserzioni vere o false»16, all’uso referenziale che sempre «presuppone l’esistenza di un oggetto»17. Nondimeno, scrive più avvedutamente Émile Benveniste18, «il linguaggio si realizza necessariamente in una lingua» che «configura il mondo in modo che le è proprio»; ne consegue che i simboli (significati) non sono mai distinti dalla cose (referenti), ovvero che il linguaggio – che è appreso – è «coestensivo all’acquisizione che l’uomo fa del mondo». Quanto all’arte questa, osservava il formalista russo Sˇklovskij, non è un

del film nasce sotto la spinta dello strutturalismo e della psicoanalisi, di Barthes e Metz, ma è in cammino già dagli studi di Lotte Eisner sull’espressionismo, Murnau e Lang, e da quelli prodotti dalla filmologia francese, dall’analisi stilistica compiuta dal gruppo dei «Cahiers du Cinéma» e dal suo fondatore André Bazin (in particolare le analisi baziniane del pianosequenza di Welles e Wyler o le intuizioni di Jean-Luc Godard sul colore e le inquadrature del cinema di Nicholas Ray o, ancora, al lavoro preciso sulle scene e sullo spazio di Rohmer), dalle analisi semi-sistematiche di Mitry sul montaggio di Ejzensˇtejn fino a quelle molto più sistematiche di Rospars e Burch. Stephen Heath osserva che l’effetto del percorso metziano è stato quello di modificare l’oggetto film; infatti l’analisi, dopo Metz, non cerca più di proporre un’organizzazione d’insieme, di delimitare un principio di unificazione ultimo, definitivo, ma piuttosto di impostare e descrivere il lavoro filmico, il processo del film, sulla superficie scivolosa dello spessore indefinito del testo filmico (Cfr. Stephen Heath, Système-récit, in Raymond Bellour (a cura di), Le cinéma américain, I, Paris, Flammarion, 1980, p. 250). 13 André Gaudreault, Dal letterario al filmico. Sistema del racconto, Torino, Lindau, 2000, p. 169. 14 Christian Metz, Cinema e psicanalisi, cit., p. 45. 15 Umberto Eco, La struttura assente, Milano, Bompiani, 1998, p. 155. 16 Peter Strawson, Sul riferimento, in Andrea Bonomi (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Milano, Bompiani, 1995, p. 205. 17 John Searle, Nomi propri, in La struttura logica del linguaggio, cit., p. 254. 18 Cfr. Émile Benveniste, Note sulla funzione del linguaggio nella scoperta freudiana, in Problemi di linguistica generale, Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 100-101, 104.

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semplice «riconoscimento» bensì una «visione» che sente il «divenire dell’oggetto, mentre il già compiuto» – la presupposizione di soggetto e oggetto, la distinzione tra significato e referente – «nell’arte non ha alcuna importanza»19. Scrive Gérard Legrand a proposito del modello linguistico operante soprattutto nella prima semiologia del cinema: La linguistica saussuriana esordisce con la separazione “radicale” dell’idea e/o dell’oggetto boef dai suoni uditi o letti bous, ox, etc. Le parole sono dei “segni” talmente usati che la loro sostituzione con delle astrazioni vaghe (“coso”, “affare”, persino “bestia”) è frequente: non si può mostrare un “coso” né una “bestia” – a meno che non li si nomini verbalmente. Questo problema è annullato nel cinema […] Ci sono situazioni per cui occorre chiamare Parigi Parigi, e delle altre in cui, invece, occorre chiamarla la capitale del regno. Al cinema, si mostra Parigi20.

Il discorso logico e pacificato, lineare e binario (di troppa semiologia del cinema e di troppe economie di senso), che astrattamente prima istituisce e poi riunisce – banalizzandole – tutte le opposizioni è sempre divenuto, storico, umano, troppo umano. È la vuota crisalide che pretende di essere più della farfalla solo perché una volta l’ha contenuta: idolatria analitica e scientista che violentemente sottomette il molteplice divenire al principio di identità e di non-contraddizione, le lucreziane manie dello spirito. Come troppo spesso succede «la riflessione sulle forme della vita umana, e quindi anche l’analisi scientifica di esse, prende una strada opposta allo svolgimento reale. Comincia post festum e quindi parte dai risultati belli e pronti del processo di svolgimento»21. Ma la logica non è che «una espressione parziale della dialettica in azione», ovvero «il simbolo abbreviativo di un’operazione più profonda e complicata», «un fenomeno oggettivo e inadeguato della dialettica reale»22. Già Bellour contestava, sulla scorta dei lavori di Roland Barthes e di Julia Kristeva, l’equivoco di una semiologia logicista, una semiologia come «scienza della

19 Viktor Sˇklovskij, L’arte come procedimento, in Tzvetan Todorov (a cura di), I formalisti russi, Torino, Einaudi, 1968, p. 82. 20 Gérard Legrand, Cinémanie, Paris, Stock, 1979, p. 37. 21 Karl Marx, Il capitale, I, Roma, Editori Riuniti, 1994, p. 107. 22 Maurice Blondel, Principio di una logica della vita morale, Napoli, Guida, 1990, p. 25.

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trasparenza del segno»23, troppo schematica e riduttiva per rendere giustizia di quella «apertura illimitata» che è il «testo del film»24, volume stratificato che in «ogni suo punto subisce così la pressione globale di un numero propriamente infinito di relazioni»25 che fa sì che esso abbia una densità indefinita. Il cinema mostra, è immagine di parola e cosa, idea e oggetto, contesta quindi la coupure che astrattamente binarizza separando soggetto e oggetto, significato e referente, ecc. I fenomenologi (Husserl, Merleau-Ponty, Dufrenne), di contro ai semiologi, hanno mostrato come tutte queste idealizzazioni riposino su uno strato pre-teoretico. Tutte queste intenzionalità costituenti presuppongono un’intenzionalità latente o fungente e sotto queste imposizioni di senso operano, vive e pulsanti, altre forze, altre operazioni pre-categoriali e ante-predicative, radicate nel chiasma di motricità e fenomenicità. All’inizio non ci sono «pure cose corporee» (in sé)26, né un Io puro e indifferenziato che dall’alto, come l’aquila di Herder, le sorvolerebbe 27. Non c’è all’inizio un’attribuzione di significato a referenti comunque giàdisponibili, pronti all’uso nonché alla manipolazione. Piuttosto, all’inizio, si dà un’esegesi ispirata: interrogo il visibile secondo i suoi stessi voti, poi23

Raymond Bellour, L’analisi del film, cit., p. 25. Ivi, p. 41. 25 Ivi, p. 31. 26 «Galileo, considerando il mondo in base alla geometria, in base a ciò che appare sensibilmente e che è matematizzabilie, astrae dai soggetti in quanto persone, in quanto vita personale, da tutto ciò che in un senso qualsiasi è spirituale, da tutte le qualità culturali che le cose hanno assunto nella prassi umana. Da questa astrazione risultano le pure cose corporee, le quali però vengono prese per realtà concrete e che nella loro totalità vengono tematizzate in quanto mondo. Si può ben dire che soltanto con Galileo si delinea l’idea di una natura concepita come un mondo di corpi realmente circoscritto in sé». Cfr. Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Est-Il Saggiatore, 1997, pp. 88-89. 27 «Soltanto il mio corpo mi è dato originariamente nel senso di un “organo”; il mio corpo si articola in organi parziali; ciascuno dei membri del corpo ha la proprietà di permettermi di agire immediatamente in esso: guardando con gli occhi, palpando con le dita, ecc., io posso agire in qualsiasi percezione, appunto in tutti questi modi […]. Attraverso l’“agire” corporeo, attraverso lo spingere, il sollevare, il resistere e simili, io agisco a distanza, agisco innanzitutto sulla corporeità degli oggetti del mondo». Cfr. Ivi, p. 240; e questo corpo proprio ha una una vita egologica inseparabile dal mondo della vita circostante con il quale è compromesso, sicché ha una vita che propriamente è «una vita intenzionale che, nella sua intenzionalità, subisce le affezioni di quegli oggetti intenzionali che valgono e appaiono in essa, che si dirige, in molteplici modi, su di essi, che si occupa di essi». Cfr. ivi, p. 265. 24

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ché i miei movimenti s’incrociano reversibilmente con ciò che io tocco, poiché «mi unisce direttamente alle cose in virtù della sua propria ontogenesi, saldando l’uno all’altro i due abbozzi di cui è fatto, le sue due labbra: la massa sensibile che esso è, e la massa del sensibile in cui esso nasce per segregazione, e alla quale, come vedente, rimane aperto»28. Quello che sì dà originariamente è una «pellicola superficiale del visibile» che non è se non «per la mia visione e per il mio corpo», anche se «la profondità, sotto questa superficie, contiene il mio corpo e contiene quindi la mia visione»29. Sicché, il cinema – come qualsiasi altra prassi di pensiero – non può essere un rapporto esteriore tra un significato e un referente o tra l’immagine e il movimento. «Il pensiero e le cose, l’esterno e l’interno vi si trovano presi nella stessa composizione, indistintamente sensibile e intelligibile»30. Il cinema è immagine-movimento perché «crea l’automovimento dell’immagine» e più tardi – nella modernità dell’immaginetempo – crea «l’autotemporalizzazione dell’immagine»31. Il cinema è apertura, «verità interna al sensibile»32; non riflette un pensiero, né lo riproduce ma è pensiero del mondo, movimento di pensiero, quel movimento di cui parla Walsh, ma anche Rohmer o Deleuze. Più che rappresentazione di una realtà in sé, il cinema è la fenditura in cui l’essere si dà, aprendosi da sé su di sé, nella sua visibilità e udibilità. Il racconto cinematografico insorge nell’immagine33, il che non vale a dire solo che il cinema narrativo implichi un lavoro sul significante, bensì che la narrazione è nell’immagine e che il racconto «riceve il suo rigore logico da quello dell’immagine»34: il récit «si forma a partire dalle immagini»35. D’altronde lo sostengono anche i narratologi più avveduti come André Gaudreault secondo cui il racconto filmico è il prodotto della sovrapposizio-

28

Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Milano, Bompiani, 1999, p. 152. Ivi, p. 155. 30 Jacques Rancière, La favola cinematografica, Bergamo-Pisa, Cineforum-Ets, 2007, p. 11. 31 Gilles Deleuze, Dubbi sull’immaginario, in Pourparler, Macerata, Quodlibet, 2000, p. 91. 32 Jacques Rancière, La favola cinematografica, cit., p. 11. 33 Cfr. il mio Il corpo del visibile. Una critica della separazione, in Toni D’Angela (a cura di), Corpo a corpo. Il cinema e il pensiero, Alessandria, Falsopiano, 2006. 34 Raymond Bellour, L’analisi del film, cit., p. 90. 35 Alain Masson, Le récit au cinéma, Paris, Editions de l’Etoile-Cahiers du Cinéma, 1994, p. 12. 29

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ne di due strati distinti di narratività determinati dalla doppia articolazione tipica della mobilità del cinema: l’articolazione tra fotogrammi e l’articolazione tra inquadrature36. Il che non vuol dire che un concatenamento di immagini e suoni assuma una dimensione narrativa, giacché è la narrazione ad aprirsi e dispiegarsi nell’immagine audiovisiva. La narrazione, il concatenarsi di situazioni che realizzano eventi in cui operano personaggi e dove la successione degli eventi modifica via via la situazione – come accade esemplarmente in Walsh – si apre, si fa, nel concatenamento delle immagini visive e sonore. Questa è, secondo Jean Mitry37, la logica di senso del cinema: una «logica di implicazione» in virtù della quale l’immagine diventa linguaggio. Il film dunque non riposa conciliato nella sua comunicabilità segnica, né si spezzetta nella vivisezione dei suoi «contenuti reali», come direbbe Walter Benjamin, anche perché l’opera d’arte in generale non (si) fa mai discorso logico e pacificato. Catturato nella stretta morsa della concettualizzazione che sussume l’oggetto estetico spogliato della sua carnalità, il film sfugge al destino del pezzo di cera cartesiano. Nella narrazione filmica walshiana, ad esempio, ciò che si sprigiona è il dispiegarsi di un mondo formicolante e impuro, differenziato, un mondo di corpi (comportamenti, gesti, emozioni): il mondo dell’azione, delle singolarità in azione. Il senso di un film di Raoul Walsh è implicato nell’azione filmica, nella narrazione, nel concatenamento degli eventi e nella serie delle trasformazioni dove il senso risuona nel sensibile del corpo (del regista e dello spettatore) perché «lo stesso corpo in cui sensibile risuona appartiene al sensibile»38. L’espressione artistica e l’espressione in generale, come ha osservato Mikel Dufrenne39, non è una collezione di cose, né un sistema cosciente di potenzialità ancora non operanti, ma «un essere di porosità» e «colui davanti al quale si apre l’orizzonte», sia esso un artista o un uomo comune, «è preso e inglobato in esso»40. Il senso è «carne accordata alla carne

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Cfr. André Gaudreault, Dal letterario al filmico, cit., p. 111. Cfr. Jean Mitry, Esthétique et psychologie du cinéma, I, Paris, Editions Universitaires, 1963, pp. 283-285. 38 Mikel Dufrenne, L’arte e i discorsi, in Emilio Garroni (a cura di), Estetica e linguistica, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 11. 39 Cfr. Ivi, pp. 11-14. 40 Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 164. 37

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dell’opera» e «non può risolversi in sapere», ma è godimento «provato nell’immediatezza della presenza dell’opera, in una relazione carnale con l’opera»41. «Il senso che giunge a noi», ha scritto Jean Louis Schefer nel suo L’Homme ordinaire du cinéma, «ci giunge perché, a rigore, siamo un luogo di risonanza degli effetti e della “profondità” delle immagini»42: la significazione ha la sua genesi nell’esperienza della visione. Il senso che aggiungiamo all’immagine, «nell’incertezza di afferrarne la totalità», siamo «noi stessi»: «prima di ogni apprensione di un senso nuovo, apprendiamo che qui il significato è un corpo»43. Il significato, lo scrive anche Bellour44, «nasce dalla successione delle immagini» e il film, anche «se lo si scorda troppo spesso», è «una successione di vedute», come aveva intuito André Malraux nel breve Esquisse d’une psychologie du cinéma nel 1946 45. (Ciononostante, se è vero che non c’è opera che non debba niente alla visione, è altresì vero che le opere non obbediscono tutte «allo stesso mandato» e che si può e deve parlare di «un’arte della visione», ma tuttavia questa arte, in alcuni autori osserva Bellour46, si coniuga, si allea, con «un’arte del montaggio»). Per Schefer, come per il suo maestro Barthes («la funzione essenziale del film non è di ordine cognitivo»47), anzitutto, questa visione, questa esperienza, questo senso, non si risolve in un sapere, in una scienza. Il cinema, le immagini dei film, non mobilitano dentro di me un sapere (tecnico, teorico): questo sapere non è essenziale per me. Il cinema è forse l’unico campo della significazione che non mi induca intimamente a credere nell’esistenza di un soggetto delle operazioni di questa scienza 48.

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Cfr. Mikel Dufrenne, L’arte e i discorsi, cit., pp. 11-14. Jean Louis Schefer, L’uomo comune del cinema, Macerata, Quodlibet, 2006, p. 8. Ivi, p. 91. 44 Cfr. Raymond Bellour, L’analisi del film, cit., pp. 49-50. 45 «Non sarebbe stata una scoperta “artistica” a consentire la padronanza del movimento. I gesti degli annegati nel mondo barocco non richiedono alcun cambiamento dell’immagine, bensì una successione di immagini». Cfr. André Malraux, Sul cinema. Appunti per una psicologia, Milano, Medusa, 2002, p. 24. Il cinema è espressivo, e non semplicemente riproduttivo, perché distrugge lo spazio circoscritto, e il mezzo di questa espressione è «la successione delle inquadrature». Cfr. ivi, p. 27. 46 Cfr. Raymond Bellour, L’analisi del film, p. 50. 47 Roland Barthes, Il problema della signficazione nel cinema, in Sul cinema, Genova, il melangolo, 1997, p. 57. 48 Jean Louis Schefer, L’uomo comune del cinema, cit., p. 11. 42 43

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L’immediatezza e la carnalità. Tratti peculiari dell’azione che si dipana nel racconto filmico di Raoul Walsh, marche del suo modo di narrare (e pensare) per immagini. Il cinema apre «la possibilità di esplorare uno strato di senso che il linguaggio verbale, per funzionare, può solo presupporre ma non può rappresentare»49. Così, Walsh in Gloria (What Price Glory?, 1926)50 inquadra Dolores Del Rio che prega inginocchiata sul campo di battaglia scavato da buche rigonfie di terra e cadaveri; la Del Rio è spettralmente avvolta dalle baionette e dagli elmetti conficcati nel terreno come fossero croci: «l’immagine come la intendeva Ejzensˇtejn è più originaria del linguaggio»51. Solo un film, un buon film, come ha scritto una volta Balázs, può separare le parole d’un uomo che parla con altri, dalla sua mimica. L’uomo parla e noi vediamo il muto monologo, cogliamo la differenza fra il monologo e le parole […]. Un romanziere può certamente imbastire un dialogo in modo da farci comprendere l’intimo pensiero di chi sta parlando. Ma, ciò facendo, non potrà non spezzare quell’unità fra le parole dette e i pensieri reconditi […], quell’unità in cui si palesa sul volto umano il contrasto fra le parole e i pensieri52.

Il cinema mostra il «movimento di gioco che produce» le differenze, senza che questa différance «che produce le differenze sia prima di esse, in un presente semplice e in sé immodificato»53, e senza subordinarsi alle opposizioni metafisiche «non pertinenti», gerarchizzando la differanza, per dirla con Derrida, o la spaziatura, per usare una formula di Godard, sottomendo differanza e spaziatura alla «presenza di un valore o di un senso anteriore»54. L’immagine cinematografica non è un indice audiovisivo ma risposta, apertura. Non riproduce perché non c’è propriamente 49 Pietro Montani, Letteratura e cinema: due forme dell’esperienza narrativa, in Ivelise Perniola (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Venezia, Marsilio, 2002, p. 78. 50 Tra l’altro Walsh posto di fronte all’impossibilità di restituire lo stile realista e crudo dei dialoghi della pièce teatrale, da cui il film era tratto, all’interno di un film muto, le cui didascalie sarebbero passate attraverso il filtro della censura, cerca di concentrarsi sulla fisicità dell’azione e del gesto per far passare il messaggio del soggetto, operazione che gli riesce abilmente nella misura in cui la regia schiettamente cinematografica fa dimenticare la teatralità del copione originale, oltre che la sua letterarietà. 51 Pietro Montani, Letteratura e cinema, cit., p. 78. 52 Béla Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Torino, Einaudi, 1987, p. 59. 53 Jacques Derrida, La différance, in Margini della filosofia, cit., p. 39. 54 Jacques Derrida, Semiologia e grammatologia, cit., p. 39.

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INTRODUZIONE

nulla da riprodurre, nulla che preceda la differenza, la spaziatura. L’immagine è il primo segno, è quell’evento «che traduce e proietta nel visibile il mondo; cioè proietta il nulla come mondo visibile»55. Il cinema (e l’arte in generale), allora, non rappresenta o riproduce ma, semmai, raffigura, come notava Barthes56: è un modo di apparizione erotico, del corpo erotico, una raffigurazione che ha una «struttura diagrammatica e non imitativa», mentre la rappresentazione è una raffigurazione impura, intralciata, «ingombrata da altri sensi»: realtà, morale, verosimiglianza, leggibilità, verità, ecc.: «l’arte non riproduce ma propone»57. Dalla rappresentazione «non esce niente»: la figura del testo, «e ancor più, il film sarà con certezza sempre figurativo», produce desiderio, è un rapporto di produzione «ove il mio desiderio è catturato e si compie»58. Il cinema più che riprodurre, produce; perché l’inquadratura, lo diceva già Béla Balázs59, dà forma alle cose e il taglio (il montaggio) non è che il ritmo di questa messa in forma, la sua «architettura mobile». Sicché la narrazione cinematografica non può essere un banale effetto di qualche struttura linguistica perché il racconto filmico si apre nell’immagine-movimento. Anche Metz scriveva che se da un lato il cinema è «evidentemente idoneo» ad assumere l’aspetto di una grande unità che racconta una storia, dall’altro ciò è possibile in virtù del fatto che la narratività è «strettamente avvinta al corpo del cinema»60. L’immagine diventa linguaggio e, infatti, non è che «il cinema è un linguaggio» perché «può raccontare storie così belle» ma, anzi, è perché «ce ne ha raccontate di così belle che è diventato un lin-

55 Carlo Sini, I segni dell’anima. Saggio sull’immagine, Roma-Bari, Editori Laterza, 1989, p. 209. 56 Cfr. Roland Barthes, Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1975, pp. 54-55. Anche Barthes, a diverso titolo, è un critico della rappresentazione come Heidegger, Debord o Lyotard: «La rappresentazione è questo: quando non esce niente, quando non salta niente fuori dalla cornice: del quadro, del libro, dello schermo. Cfr. ivi, p. 56. 57 Edoardo Bruno, Film: altro reale, Milano, Il Formichiere, 1978, p. 10. 58 Jean-François Lyotard, Appunti sulla funzione critica dell’opera, in A partire Marx e Freud, Roma, Multhipla, 1979, p. 33; in riferimento al cinema scrive Lyotard: «L’immagine – in particolare al cinema – non funziona come immagine, cioè come qualcosa che appartiene al tipo di scena e di senso intermediario che non è né la scena reale, né il senso di realtà, ma agisce come una scena ove il mio desiderio è catturato e si compie» in virtù del dispositivo della proiezione e dell’organizzazione del racconto». Cfr. ivi, p. 33. 59 Cfr. Béla Balázs, Il film, cit., p. 38. 60 Christian Metz, Semiologia del cinema. Saggi sulla significazione filmica, Milano, Garzanti, 1972, p. 73.

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guaggio»61. Il cinema non è linguaggio ma lo diventa, nondimeno l’immagine è irriducibile all’enunciato. L’analisi dell’enunciato, infatti, manca il proprio dell’immagine cinematografica: il movimento, l’inter-connessione tra i corpi e il movimento che muove i corpi. Come dicono sia Walsh che Rohmer: «il movimento è la materia del cinema al lavoro»62. Il cinema non è un filtro informatore o deformatore proprio in quanto lavora la materia da cui è lavorato. Il cinema, in virtù di questa sua reversibilità, supera il dualismo di immagine e movimento, coscienza e cosa, è «una materia-flusso in cui nessun punto d’ancoraggio né centro di riferimento sono assegnabili», mondo in cui l’immagine è movimento, dove l’insieme di ciò che appare è attraversato da una variazione continua perché ogni immagine agisce e reagisce sulle altre63. L’insieme infinito delle immagini costituisce un piano d’immanenza e questo piano d’immanenza è il movimento che si produce tra le immagini e da un’immagine all’altra: è un movimento che si sviluppa tra le immagini e dalle immagini. Movimento tra le parti del tutto e movimento del tutto. Anche il narratologo Gaudreault individua nella mobilità del cinema, nel suo doppio movimento che articola le immagini, la genesi del racconto filmico, mentre Pierre Sorlin scrive che «il cinema inizia con il movimento dell’immagine» e che il movimento è forse l’unica vera risorsa del cinema, quella che fa violenza allo spettatore e lo tira dalla sua parte, spezzando il rigore pittorico dell’inquadratura, destrutturandone l’ordine e sbriciolandone la solidità per modellare una spaziotemporalità inedita, cinematografica, dove – come voleva Ejzensˇtejn – emozione e pensiero, emozione e azione sono inseparabili64. Il cinema, movimento degli oggetti e, al tempo stesso, movimento tra oggetti (spaziatura, et, montaggio, concatenamento/riconcatenamento, rapporto tra il grande e il piccolo)65, non è una lingua, né un linguaggio, lo scriveva anche Roland Barthes in un lontano articolo pubblicato nel 1960 per la «Revue internazionale de filmologie»: «non si pretende affatto di sostenere che il cinema è un linguaggio nel senso esatto del termine,

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Ivi, p. 76. Eric Rohmer, Il gusto della bellezza, Parma, Pratiche, 1991, p. 85. Cfr. Gilles Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Milano, Ubulibri, 2002, p. 76. 64 Cfr. Pierre Sorlin, Estetiche dell’audiovisivo, Firenze, La Nuova Italia, 1997, pp. 110-117. 65 Cfr. Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 303-304. 62 63

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INTRODUZIONE

e come lascia intendere troppo spesso la metafora corrente»66; «il cinema, ovviamente, non è la lingua»67. Legrand, a proposito di Saussure, linguaggio e cinema, ha scritto: la teoria cinematografica ad oggi si è rivelata incapace di definire il suo statuto (normativo o semplicemente generalizzante?) e, di conseguenza, di determinare chiaramente quale sia il suo apparato teorico, il suo campo d’azione, il suo metodo e i suoi obiettivi. Credo che questa incapacità sia legata ad un errore fondamentale: quello di considerare il cinema un linguaggio ricalcato sul modello del linguaggio letterario, dopo averlo, in virtù di un errore meno volontaristico, considerato un’appendice o un’evoluzione della letteratura psicologica68.

E Deleuze, ispirandosi al linguista Hjelmslev, ha scritto che piuttosto che una lingua o un linguaggio il cinema è una materia segnaletica che comporta tratti di modulazione di ogni tipo, sensoriali (visivi e sonori), cinestesici, intensivi, affettivi, ritmici, tonali e anche verbali (orali e scritti). È una massa plastica, una materia a-significante e a-sintattica, una materia non linguisticamente formata, benché non sia amorfa ma semioticamente, esteticamente, pragmaticamente formata. È una condizione anteriore a ciò che condiziona. Non è un’enunciazione, non sono degli enunciati. È un enunciabile 69.

Il cinema è l’«adattamento di tutte le cose create ad ognuna», uno «specchio vivente dell’universo»70, non «un linguaggio che parla un altro linguaggio preesistente»71. Al più, forse, è una specie anomala di lingua ma non una comunicazione implicante una referenza o un’eccedenza transcategoriale come la cosa in sé, bensì un movimento in immagine che esiste soltanto «nella sua reazione a una materia non relativa al linguaggio, ch’essa trasforma»72. Una lingua nel senso in cui la intende Benjamin73, una lingua che è «nominante», non «denominante», «non dà mai puri segni», in base alla quale diventa possibile concepire tutte le forme artistiche come lingue. 66

Roland Barthes, La ricerca delle unità traumatiche nel cinema, in Sul cinema, cit., p. 63. Già nel 1960 Barthes metteva in guardia dall’asservire l’analisi del cinema ai modelli dell’analisi linguistica: «si può dire che ci sia un’“avventura” del segno filmico che il segno linguistico non conosce affatto». Cfr. ivi, p. 71. 68 Gérard Legrand, Cinémanie, cit., p. 27. 69 Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, cit., pp. 42-43. 70 Gottfried W. Leibniz, Monadologia, Milano, Bruno Mondadori, 1995, p. 55. 71 Umberto Eco, La struttura assente, cit., p. 154. 72 Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 42. 73 Cfr. Walter Benjamin, Sulla lingua dell’uomo e sulla lingua in generale, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1996, pp. 56-69. 67

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1 NARRAZIONE E AZIONE

1.1 Azione e narrazione nel classicismo e nella sua crisi La narrazione cinematografica, quindi, si dispiega nella giuntura delle immagini-cose, nel doppio movimento articolatorio proprio del cinema. Nel classicismo, e in particolar modo nel cinema d’azione, la narrazione, più precisamente, si fonda sul funzionamento dello schema senso-motorio. Nel cinema d’azione classico l’automovimento dell’immagine, l’introduzione del movimento nell’immagine – parallela storicamente all’introduzione del movimento nel pensiero ad opera di Henri Bergson – si realizza o, meglio, si perfeziona proprio in virtù della narrazione. Ciononostante la narratività non solo non precede le immagini ma la narratività cinematografica, in quanto divenuta, non era affatto ineluttabile come dimostra Burch nella sua ricostruzione sulle origini del cinema e della sua narratività1. La narrazione non era inscritta del cinema degli inizi. Cosa ha determinato, perciò, la nascita della narrazione nel cinema? Proprio lo schema senso-motorio. Il cinema, per sua natura, non è narrativo: diventa narrativo quando prende come oggetto lo schema senso-motorio. Vale a dire: un personaggio sullo schermo percepisce, prova, reagisce. Ciò presuppone una certa dose di credulità: l’eroe è nella tale situazione, reagisce, l’eroe saprà sempre come reagire. Ciò presuppone una determinata concezione del cinema. Perché mai esso è diventato americano, hollywoodiano? Per una semplice ragione: all’America questo schema gli apparteneva naturalmente. Tutto è finito con la Seconda Guerra Mondiale. Improvvisamente la gente non crede più che sia davvero possibile reagire in situazioni del genere 2.

1 Cfr. Nöel Burch, Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, Milano, Il Castoro, 2001. 2 Gilles Deleuze, Gli intercessori, in Pourparler, cit., p. 163.

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TONI D’ANGELA

La narrazione nel cinema classico, e Raoul Walsh (nato a New York l’11 marzo 1887 e morto nel suo ranch californiano di Simi Vallet il 31 dicembre 1980) con la sua opera vi si inscrive, è il risultato composito del concatenamento-riconcatenamento delle immagini-movimento o, più precisamente, della loro specificazione: immagini-percezione, immaginiaffezione e immagini-azione. Il principio di strutturazione e snodatura della varietà dell’immagine-movimento è la legge di funzionamento (e dis-funzionamento) dello schema senso-motorio del corpo a partire dal quale la soggettività, la singolarità, sperimenta se stessa, gli altri e il mondo, poiché è muovendo dalla mobilità del corpo che si forma la significazione: il corpo umano, in quanto «configurazione», riunisce in sé «le condizioni atte a far da supporto a un codice dell’espressione»3. Il cinema di Walsh si inscrive nel classicismo ma non vi si esaurisce perché Walsh – come Ford – sa toccare, sentire, filmare, se non la modernità cinematografica quantomeno la crisi del classicismo e, più precisamente, la crisi dell’immagine-azione, ad esempio – giusto per citare alcuni titoli – con Sabbie rosse (Along the Great Divide, 1951), Prima dell’uragano (Battle Cry, 1955), Il nudo e il morto (The Naked and the Dead, 1958), La moglie sconosciuta (A Private’s Affair, 1959) o Far West (Distant Trumpet, 1964). Il cinema di Walsh è il mondo dell’azione nonché della sua crisi. L’azione raccontata per immagini all’interno di una composizione certamente organica ma che tuttavia – e non solo negli ultimi anni – si piega nella sua linearità per incrinarsi. Fin dall’inizio Walsh ha depistato e deviato il racconto del classicismo nella sua struttura equilibrata e ordinata: unità costruttiva, accentramento dell’effetto fondamentale e forte accento finale (principi strutturanti che Edgar Allan Poe e Boris Ejchenbaum, nella sua Teoria della prosa, non a caso individuavano nella letteratura americana novellistica di Irving, Hawthorne e, più tardi, James). Walsh ha sempre infranto il ritmo prosaico, la regolarità del racconto classico. L’immagine-azione rimanda alla «grande forma». La forma istituzionale di rappresentazione scaturita nel classicismo americano inaugurata da Griffith – insieme a Ince, Sennett e De Mille – e in seguito perfezionata e sviluppata da Walsh, Ford, Vidor, Chaplin. Anche se, beninteso, la

3 Cfr. Algirdas Julien Greimas, Per una semiotica del mondo naturale, in Del senso, Milano, Bompiani, 1974, pp. 63-64.

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NARRAZIONE E AZIONE

«grande forma» è solo un foglio del classicismo (forse il più denso), non lo esaurisce. L’immagine-azione è quando le qualità e le potenze, i nervi sensibili e le tendenze motrici, le lastre ricettive e i movimenti espressivi, la riflessione e le intensità, si attualizzano in forze, anziché distribuirsi in spazi qualsiasi (come in Dreyer, Bresson, Antonioni) – gli spazi dell’affezione – o popolare mondi originari (come in Stroheim, Buñuel, Losey) gonfiati di pulsioni. Il cinema d’azione, irriducibile al genere – Walsh i generi li ha frequentati tutti – esibisce l’attualizzazione di forze in spazitempo determinati: storici, geografici e sociali. Affetti e pulsioni, nell’immagine-azione, si incarnano in comportamenti e emozioni. Beninteso, non che non sia possibile nel cinema d’azione la transizione. Al contrario, l’azione è sempre narrazione e implica anche l’eccesso, la dismisura, nonché il sogno, ma il cinema d’azione si struttura articolandosi attorno al duale, è un rapporto tra una situazione (un ambiente) e un comportamento (un personaggio). Fu proprio Griffith, il maestro di Walsh, a costruire il racconto cinematografico sulla base del duello e della dualità, a partire dal parallelismo delle azioni ottenuto per mezzo del montaggio degli inseguimenti. Il cinema nasce in virtù di questa molteplicità di punti di vista articolati narrativamente. La narrazione implica avvenimenti e trasformazioni: differenze. L’azione è questo mondo di duelli, duali, opposizioni, differenze, dove la presenza di una forza, di una singolarità, rimanda alla presenza (magari ancora fuori campo) di un’altra forza, di un’altra singolarità. D’altronde, come sostenevano già i formalisti russi tutte le forme narrative dotate di fabula (disposizione di elementi tematici legata da un rapporto causale-temporale), come moltissimi film del classicismo e del cinema d’azione classico, «si fondano in maggioranza su un conflitto»: lo svolgimento della fabula è «il passaggio da una situazione all’altra»4. Questo perché lo sviluppo della fabula è simile allo sviluppo dei processi storicosociali nei quali ogni nuova fase è il risultato di collisioni e lotte. Cinema di ambienti e comportamenti, nell’immagine-azione si determina il processo di attualizzazione di potenze e qualità, poiché l’ambiente ingloba qualità e potenze, stringe dappresso, soffoca, ispira… L’ambiente lancia una sfida al personaggio, ne condiziona il comportamento, anche se, a sua volta, il personaggio risponde e attraverso il suo comportamento, magari

4 Boris Tomasˇevskij, La costruzione dell’intreccio, in T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, cit., p. 313.

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ristrutturato, modifica l’ambiente o la situazione. Il cinema d’azione è un gioco di forze tra l’ambiente e il personaggio. L’ambiente e le sue forze si incurvano, agiscono sul personaggio, gli lanciano una sfida e costituiscono una situazione nella quale egli è preso. Il personaggio reagisce a sua volta (azione propriamente detta) in modo tale da rispondere alla situazione, da modificare l’ambiente, o il suo rapporto con l’ambiente, con la situazione, con altri personaggi. Deve acquisire un nuovo modo di essere (habitus) o innalzare il suo modo di essere alle esigenze dell’ambiente e della situazione. Ne deriva una situazione modificata o restaurata, una nuova situazione5.

Potrebbe essere il resumé di molti film walshiani, riassunto peraltro astratto e spoglio, muto, poiché la forza e il fascino dei suoi film sta, oltre che nella narrazione, anche nella mostrazione, nel ritmo delle immagini. Il cinema d’azione di Walsh è la narrazione dell’avventura, l’avventura di una singolarità, il dispiegamento di un cambiamento o anche la narrazione di una dis-avventura dove la crisi prevale sul cambiamento, soprattutto nei suoi film terminali ma anche in alcuni capolavori degli anni Quaranta. Non sempre in Walsh il film si costruisce lungo la linea esordio/peripezie/trasformazione finale. Ma anche il classicismo in generale non sempre rispetta questo programma. Basti solo pensare ad un film sfavillante e leggero, nella sua superficie (o contenuti reali), come Pranzo alle otto (Diner at the Eight, 1933) di George Cukor che, in realtà, nella sua struttura più profonda (o contenuti di verità) trasuda pulsioni distruttive e naturaliste buñueliane, nonostante l’apparente ricomposizione del finale. Alcuni film walshiani addirittura scivolano verso l’assenza di fabula poiché la messa in concatenazione degli avvenimenti non è lineare, né causale ma si dispiega per frammenti. La mappa dei sentieri praticabili e da percorrere6, si sgualcisce e sdrucisce: l’anima inizia a conoscere l’abisso e il caos. Cinema d’azione, cinema di narrazione dove l’azione si articola e disarticola dipanandosi attraverso i binomi e muovendo da un centro indeterminato (l’uomo, la singolarità), accerchiato, o incerchiato dentro un universo di leggi (naturali e sociali) che si istituisce in quanto orizzonte sensomotorio a partire dal quale l’uomo organizza la sua risposta all’ambiente 5

Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, cit., pp. 167-168. Cfr. György Lukács, Teoria del romanzo, Roma, Newton Compton, 1981, in particolare il capitolo Le culture chiuse. 6

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NARRAZIONE E AZIONE

che, peraltro, gli offre la sua faccia utilizzabile. Se l’immagine-percezione è taglio, sottrazione effettuata all’interno della totalità delle immagini, e l’immagine-affezione è la soggettività sospesa tra percezione e azione, l’immagine-azione è un nesso tra ambiente e comportamento. C’è un gioco armonico tra personaggio e ambiente. Per alcuni versi si può dire che nel cinema walshiano l’oggetto più importante della diegesi, come per l’Aristotele della Poetica, sia l’azione, il piano degli eventi. Per altri versi, tuttavia, si può dire altrettanto bene che ciò che più conta è, invece, il personaggio, la sua costruzione e trasformazione, il suo essere attante, il suo risolversi nel fare. Roland Barthes per lungo tempo ha pensato che il personaggio fosse secondario, dopo invece ha scritto che non solo non era secondario ma che, anzi, era il proprio del racconto. Nel cinema di Walsh non c’è una vera e propria gerarchia tra personaggio e azione. Eventi e esistenti non funzionano in opposizione gerarchica, ma solo nell’opposizione sopra descritta attraverso le analisi di Deleuze sulla forma SAS’: il personaggio s’inscrive nell’azione che struttura o trasforma un ambiente, e l’azione non gira a vuoto ma si incarna in personaggi e, appunto, situazioni. Se il personaggio prende corpo inscrivendosi nel supporto dell’azione, l’azione è circoscritta al personaggio. È la narrazione: qualcosa accade, qualcuno risponde. È la vita, l’aprirsi del mondo. La risposta-reazione del personaggio modifica o ristruttura l’azione che, a sua volta, s’inscrive in un ambiente, l’attraversa e struttura. L’azione (qualcosa accade) chiama il personaggio alla risposta7. L’opera (il gesto di un soggetto, i film di Walsh), non è mai semplicemente un effetto della vita ma sempre una risposta ai suoi eventi particolari o alle sue strutture generali. Cinema d’azione, cinema d’emozione perché: La possibilità dell’emozione è immanente al mondo universalizzato dell’azione. L’emozione è la polarità di questo mondo tanto secondo il soggetto che secondo gli oggetti; il mondo dell’azione ha un senso perché è orientato, ed è orientato perché il soggetto si orienta in esso in base alla sua emozione. L’emozione non è soltanto cambiamento interno, rimescolamento dell’essere individuato e modificazione delle strutture; essa è anche un certo slancio attraverso un universo dotato di senso; è il senso dell’azione. Specularmente, anche nell’emozione interiore del soggetto vi è un’azione

7 Su questi aspetti relativi alla teoria narratologica rimando, oltre che al già citato libro di Gaudreault, a Seymour Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Milano, Net-Il Saggiatore, 2003.

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implicita; l’emozione struttura topologicamente l’essere; l’emozione si prolunga nel mondo in forma di azione, così come l’azione si prolunga nel soggetto in forma di emozione8.

1.2 Respiro e trasparenza: il cinema di Walsh Azione, emozione e tanta immaginazione narrativa che con naturalezza permette a Walsh di raccontare e mostare i punti incandescenti attraverso cui si annoda e snoda la tessitura del reale. Senza sforzo, con gioia e piacere. Non c’è da stupirsene. È il respiro, il soffio prodigioso di Walsh. È ciò che spiega tanta prolificità (centotrenta film circa) e tanta genialità. È ciò che spiega perché Walsh abbia potuto girare così tanti capolavori in così tanti generi. «Il cinema di Walsh, è l’immaginazione fatta azione»9. Il suo non è un cinema di genere, sebbene Walsh abbia girato film attraverso tutti i generi. Non è neppure il cinema di un hollywood professionals, benché – come ha scritto in modo eccellente Paolo Bachmann nella sua monografia del 1977 – Walsh «ha trovato la più completa libertà espressiva proprio nel rispetto più totale di tutte le convenzioni e i condizionamenti più o meno imposti»10 sfruttando a suo vantaggio l’utilizzazione delle star, la «convenzionalità deviata» o l’understatement, essendone a sua volta condizionato perché, ad esempio, «le diversità di personalità e di passato filmico di Flynn e Cagney» hanno influito «sulle scelte di procedimento narrativo di Walsh»11. Cinema avventuroso, avventura di cinema eterogenea e dispiegata attraverso tutti i generi12, dove è pressoché impossibile, o inutile, rintracciare e tracciare una tematica attorno cui far ruotare l’opera walshiana. Cinema disparato, progressione creatrice, movimento di un ordine in divenire: «l’impressionante collezione di varietà che contraddistingue l’insieme dei film di Raoul Walsh, forse il più dis-continuo tra i grandi cineasti»13.

8 Georges Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, Roma, DeriveApprodi, 2001, p. 95. 9 Claude Beylie, Gentleman Walsh, in «Ecran», 47, 15 mai 1976, p. 51. 10 Paolo Bachmann, Raoul Walsh, Torino, Quaderni del Movie Club di Torino, 1976, p. 8. 11 Ivi, p. 23. 12 Cfr. Jacques Saada, Un homme océan, in «Présence du Cinéma», 13, mai 1962, p. 12. 13 Jean-Claude Biette, Poétique des auteurs, Paris, Editions de l’Etoile-Cahiers du cinéma, 1988, p. 113.

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NARRAZIONE E AZIONE

Ciò che interessa Walsh non è il tema ma la narrazione della peripezia attraverso cui la molteplicità degli abiti di risposta delle singolarità è portata a conciliazione o non-concilazione. La soggettività walshiana, la singolarità messa in scena nel suo cinema, ne è il portatore: vive e fa nella peripezia, attraversa avvenimenti e sperimenta trasformazioni. È il soggetto di una narrazione. Walsh non filma il tema ma il movimento, l’immagine del movimento, il racconto della collisione degli atti e delle volontà dei corpi agiti-agenti. Peripezia che si distende in una linea avventurosa. Racconto nel quale emerge il carattere che si ristruttura perché messo alla prova. Racconto nel quale si complica l’intreccio e si sviluppa l’accidentalità: «lo spirito perviene alla propria sostanza e alla propria identità finale, al sapere di sé, solo esponendosi all’avventura di tutte le proprie possibilità, al rischio di perdersi»14. E(ste)tica effettuale e mondana dell’avventura: itinerario, prova, narrazione. L’avventura walshiana è il mondo dentro cui si sviluppano temi e motivi sempre giustificati, motivati cioè nei procedimenti concretamente cinematografici. Il piacere che i suoi film suscitano nello spettatore non è mai, anzitutto, di ordine intellettuale. «È un piacere strano, all’analisi»15. Lo stesso piacere di cui parla Sorlin in polemica con quei teorici che «hanno lasciato da parte ciò che, in un film, si rivolge alla sensibilità per mettere in evidenza ciò che gli permette di produrre senso»16, quel senso articolato in termini di mera comunicabilità che amputa «tutto ciò che ha che fare con la bellezza eventualmente presente in un film»17: una forma di adesione «da non confondersi con l’intelligenza»18, né con le altre facoltà intellettuali («estimativa», «simulativa», «formativa») che rischiano di legare lo spirito e di metterlo a riposo e che, quindi, non può godere dell’ebbrezza del «Sens» su cui vira Villon alla fine del suo Lais dopo essersi liberato la mente che prima era incatenata: «il sensitivo si riscosse/E andò a sollecitare Fantasia,/Che risvegliò i miei organi/E tenne la parte sovrana/In sospeso, come tramortita,/Per la pressione dell’oblio/Che si era diffuso su di me/Per mostrare il piacere del Senso»19. 14

Jean-François Lyotard, Letture d’infanzia, Milano, Anabasi, 1993, pp. 15-16. Cluade-Jean Philippe, Un sublime si familier, in «Présence du Cinéma», 13, mai 1962, p. 14. 16 Pierre Sorlin, Estetiche dell’audiovisivo, cit., p. 1. 17 Ivi, p. 2. 18 Ibidem. 19 Cfr. François Villon, Lascito, in Lascito-Testamento-E poesie diverse, Milano, Rizzoli, 1990, p. 97 (si veda anche il commento di Mariantonia Liborio alle pp. 130-131). 15

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TONI D’ANGELA

Un sensismo che rafforza il soggetto anziché illuderlo e che ha a che fare con ciò che andava dicendo sul materialismo del cinema 20, sul suo, appunto, sensismo, Serge Daney negli ultimi anni della sua vita. Il piacere, scrive ancora Daney à propos di Walsh e del cinema classico, «è Errol Flynn o Rock Hudson in un film di Raoul Walsh, protesi verso il loro destino. Psicologismo e umanesimo: stesso combattimento»21. L’avventura per Walsh non è mai un pretesto per soddisfare altre esigenze etiche o estetiche, il pre-testo che consente all’artista di esprimere pensieri o idee sulla realtà del tempo o sul senso del vivere. Pensieri o idee sono rinvenibili nel suo cinema ma in quanto inscritti, incarnati nella natura del fatto filmico, intrapresi nell’ingranaggio delle forze che costituiscono il film, motivati e giustificati: forze materiche (pellicolari), forze fisicogeometriche (movimenti di macchina) e forze psicologiche (soggetti agenti/soggetti agiti). Sensismo, materialismo: «No ideas but in things»22. Le idee sono eventi imprevisti, accadimenti che segnano una ricerca sempre insoddisfatta e irrequieta che, a sua volta, disegna nel suo tragitto narrativo una traiettoria accidentata e tortuosa, marcata da asperità e stravaganze, come gli itinerari svitati, spostati di Obiettivo Burma (Objective Burma, 1945) o Le giubbe rosse del Saskatchewan (Saskatchewan, 1954). Eventi e combinazioni che sospingono e alimentano il cammino, così come il cinema alimenta la vita e la vita alimenta il cinema; l’invenzione, l’avventura: il cinema di Walsh. Avventura impossibile da catturare, circoscrivere, delimitare: la sua opera è irriducibile al genere come all’autorialità, anche perché la «creazione di un individuo», l’autorialità, «non si colloca in un vuoto culturale» ma «ha origine in altre opere»23. Tanto la costruttività quanto la creatività, come notava Georg Simmel, sono attività formatrici,

20 A proposito del materialismo del cinema, Barthes individua proprio nel cinema la forma più pura di significanza (il termine è della Kristeva), del senso «in quanto prodotto sensualmente»; il cinema, il cui obiettivo «non è la chiarezza dei messaggi» ma «gli incidenti pulsionali, è il linguaggio tappezzato di pelle»; il cinema è quella scrittura ad alta voce in cui «qualcosa granula, crepita, accarezza, gratta, taglia: è godere». Cfr. Roland Barthes, Il piacere del testo, cit., pp. 60, 65-66. 21 Serge Daney, La Rampe, Paris, Cahiers du Cinéma-Gallimard, 1983, p. 69. 22 È il fulcro dell’ars poetica di William Carlos Williams che per la prima volta, a più riprese, compare nel poema composto per un quarantennio circa, Paterson (tr. it. Lerici, Milano 1965). 23 Stuart M. Kaminsky, Generi cinematografici americani, Parma, Pratiche, 1997, p. 19.

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NARRAZIONE E AZIONE

anche perché «non esiste nessuna opera umana, al di fuori delle mere imitazioni, che non sia contemporaneamente creativa e costruttiva»24 in quanto «non ci è dato creare una sostanza corporea, poiché ogni nostra attività esteriore compone e trasforma elementi fisici dati, così non vi è attività o effetto spirituale che non presupponga il darsi di certi materiali spirituali»25. La tradizione (il genere) e il talento individuale (l’autorialità) di cui parlava Eliot sono entrambe forme della produttività artistica, forme del pensiero 26. Fermo restando che in ogni modo ai fini di una distinzione puramente analitica è sempre possibile determinare contrapposizioni e individuare forme tendenzialmente creative e forme tendenzialmente costruttive, l’opera cinematografica di Walsh si coglie e misura, si gode, piuttosto, in tutta la sua molteplicità e nel suo divenire disparato e disseminato, in una tensione tra «la diretta assunzione degli strumenti offerti da Hollywood e la loro implicita “confutazione” in quanto strumenti, effetti spettacolari fini a se stessi»27. Il suo cinema è una organizzazione ideale della materia visibile e sonora che possiede «un carattere di necessità insormontabile analogo all’ebollizione dell’acqua a cento gradi»; il senso della prassi filmica di Walsh è nella «scoperta della solidità dei fenomeni in seno alla propria creazione»28: genere e autorialità, costruttività e creatività, tradizione e innovazione. Il cinema di Walsh è trasparenza, uno sguardo puro: «è la saggezza del classicismo e il segreto di una giovinezza inalterata»29, «il gusto della vita senza illusioni»30, della vita come multivalenza a più entrate e più uscite, avventura indiretta, derapante, irriducibile, per questo, al centrato, al sistema.

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Georg Simmel, Rembrandt. Un saggio di filosofia dell’arte, Milano, Se, 1991, p. 217. Ibidem. 26 «Nessun poeta, nessun artista, di nessun’arte, preso per sé solo, ha un significato compiuto. La sua importanza, il giudizio che si dà di lui, è il giudizio in rapporto ai poeti e agli artisti del passato. Non è possibile valutarlo da solo». Cfr. Thomas S. Eliot, Tradizione e talento individuale, in Emanuele Ferrari (a cura di), La Scuola di Milano e l’estetica musicale, Milano, Cuem, 2000, p. 179). 27 Paolo Bachmann, Raoul Walsh, cit., p. 26. 28 Michel Mourlet, Une lucidité virile, in «Présence du Cinéma», 13, mai 1962, p. 3. 29 Ibidem. 30 Jean-Claude Biette, Poétique des auteurs, cit. p. 113. 25

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2 FIGURE

2.1 (S)punti introduttivi La narrazione in Walsh è l’azione. E l’azione è il mondo nella sua imprevedibilità, nei suoi rivolgimenti, nelle sue combinazioni sorprendenti e tessiture eccentriche, nelle sue derive e avventure impossibili. Fare cinema, per Walsh, «è introdurre nel film una grande varietà di elementi differenti, per far sì che si accordino tra loro, perché il film è costruito un po’ come un’opera musicale, una sinfonia»1. La corsa della morte (Salty O’Rourke, 1945), è proprio una macchina astratta nella quale la produzione di senso è indifferente ai contenuti, il senso è nella traformazione. Alan Ladd, interprete di Salty O’Rourke, è catturato nella morsa di una discorsività strutturata (ambiente, situazione, ruolo), è inquadrato nel cliché del ruolo nonché della scenografia, come notava Bachmann a proposito della sequenza nella quale Salty (Alan Ladd) cena con Barbara (Gail Russell), l’insegnante del fantino che occorre sedurre per garantirsi i suoi voti. La sequenza è costruita secondo «i più collaudati canoni melodrammatici: vista sul mare, chiaro di luna, orchestrina nel sottofondo che suona melodie romantiche»2. Affine questa sequenza di Walsh, sotto questo profilo, al pianosequenza in profondità di campo wellesiano di La signora di Shangai (The Lady from Shanghai, 1948), in cui Michael (Orson Welles) e Elsa (Rita Hayworth) si dichiarano l’un l’altra il loro amore lungo il Calle del Mercado, disseminato di cliché audiovisivi3. Nonostante

1 Jean-Louis Noames, Entretien avec Raoul Walsh, in «Cahiers du Cinéma», 154, avril 1964, p. 2, (Noames altri non è che Louis Skorecki). 2 Paolo Bachmann, Raoul Walsh, cit., p. 10. 3 Cfr. Toni D’Angela, Ambiguità e incompiutezza. A proposito di Orson Welles, in Toni D’Angela (a cura di), Nelle terre di Orson Welles, Alessandria, Falsopiano, 2004, pp. 38-39.

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TONI D’ANGELA

il cliché, la singolarità di Salty O’Rourke – ma anche la singolarità del giovane fantino disincantato – emerge in virtù del carattere del personaggio e della sapienza del regista, manifestandosi nella capacità di promuovere rotture in seno ad un tessuto significazionale forte e semioticamente definito (l’ambiente delle corse dei cavalli e dei figuri loschi e bizzarri che vi gravitano attorno). La soggettività in La corsa della morte si produce, facendosi e disfacendosi, rimonta e scavalca il cliché, sovverte la trama, l’intreccio, l’intrigo omicida. E l’amore spacca la scorza cinica, l’involucro nel quale si era rinserrato Alan Ladd (e con lui anche il fantino). La soggettività si slancia in una corsa della morte, appunto, che è vita ad altezza di morte in quanto sa riscattarsi dal disincanto e liberare l’energia, l’amore. Corsa, slancio, ritmo: i personaggi walshiani sono questi dinamismi energetici, hanno, si fanno, sempre (in) uno slancio, un ritmo che è alterazione, mutamento, produzione di senso e di processi di risoggetivazione. Le composizioni (corpo a corpo, faccia a faccia, duelli) in Walsh non sono mai fisse: sono fessure della differenza, come in Il ladro di Bagdad (The Thief of Bagdad, 1924). Punto di svolta nell’opera walshiana che chiude un periodo intenso, disparato, di gestazione e sperimentazione, nel quale vita e cinema sono del tutto reversibili l’una nell’altro. Walsh, dopo studi disordinati nel New Jersey e in Europa, e dopo diversi lavori come pittore d’insegne, cowboy, aiuto dentista, marinaio mercantile, accetta un invito a teatro perché infortunato a seguito di una caduta da cavallo e così, fortuitamente, come un’avventura imprevista, entra nel mondo del teatro (nel 1911 calca i palchi di Broadway con Mary Pickford e Tyrone Power Sr.) dove conosce, grazie al regista di teatro Paul Armstrong, Griffith, iniziando poco dopo, nel 1913, la sua avventura nel cinema. Tra il 1913 e il 1923 gira quarantotto film e molti ne interpreta4, anche per Griffith per il quale interpreta John Wilkes Booth, l’assassino di Lincoln, in La nascita di una nazione (The Birth of a Nation, 1915). Negli anni che precedono Il ladro di Bagdad, notevole è Life of Villa del 1914, film biografico di 7 rulli, codiretto insieme a William Christy Cabanne (che aveva già diretto o co-diretto Walsh in molti film tra cui Carmen del 1914 e The Outlaw’s Revenge

4 Anche Walsh come Ford, Stroheim, Wellman ha esordito come attore per poi passare dietro la macchina da presa.

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del 1915) e interpretato, oltre che sceneggiato, da Walsh nel ruolo di Pancho Villa giovane; girato in parte dal vivo (in Messico) con la collaborazione dello stesso generale Villa, il cui successo gli procurò la stima di Wyatt Earp e Jack London che vollero incontrarlo e congratularsi con lui per l’impresa (!): sono anni pieni in cui conosce, oltre che Villa, Earp e London, anche Mark Twain e i fratelli Lionel e John Barrymore e, un po’ più tardi, George Bernard Shaw, e in cui lavora spesso con il fratello George Walsh (molto celebre all’epoca) e la prima moglie Miriam Cooper. Molti di questi film erano supervisionati da Griffith da cui Walsh apprese soprattutto la pantomima, il cinema senza dialoghi, la capacità di raccontare una storia solo con due attori, semplicemente grazie ai loro gesti, ai loro sguardi, con un primo piano, evitando così il teatro filmato e sviluppando una progressiva sperimentazione delle possibilità proprie della macchina da presa. Tra i grandi registi di quegli anni (Ford, Vidor, Stroheim, Hawks, ecc.) Walsh è quello che ha avuto la vita più colorata e movimentata: un cowboy che ha studiato pittura a Parigi e che filma Pancho Villa a Juarez e, per primo, Tahiti in Lost and Found On a South Sea Islands (Il supplizio del tam-tam nella versione italiana, in quello che sembra essere il primo film di Walsh giunto in Italia), nel 1923. Il ladro di Bagdad, dunque, chiude ma solo per aprire; aprire un periodo ancora più fecondo, tuttavia non direi più maturo: nell’opera disseminata e sterminata di Walsh, il periodo del muto in generale ma più in particolare anche dei film anteriori al 1924 costituisce un corpus di film con una loro precisa autonomia di dignità artistica e, ad esempio, con Regeneration, che è del 1915, Walsh aveva già manifestato la sua forza creativa. Douglas Fairbanks5, il magnifico ladro di Bagdad, è buono ma ha giustamente cattive intenzioni, così, furtivamente, con destrezza e leggerezza,

5 Fairbanks si esercitava tutti i giorni in una palestra con piscina e sauna frequentata dallo stesso regista. Amante degli scherzi, Walsh racconta come l’attore un giorno fece una burla a Charlie Chaplin, che aveva preso l’abitudine di recitare qualche verso al bordo della piscina prima di tuffarsi e nuotare, gettando un carico di blocchi di ghiaccio sul fondo della piscina: subito dopo il tuffo di Chaplin, narra Walsh, «intesi un urlo simile a quello di un cane che aveva ricevuto un calcio nel ventre, e quando mi voltai, vidi Charlie che risaliva a tutta velocità alla superficie! Era blu di freddo e i suoi capelli ricciuti pendevano tristemente, rigidi come dei bastoni. Charlie che di solito sorvegliava il suo linguaggio ci lanciò quel giorno, tremante di freddo, alcune ingiurie colorite con il suo accento cockney, precipitandosi verso il suo asciugamano e i suoi vestiti». Cfr. Raoul Walsh, Un demi-siècle a Hollywood, Paris, Calmann-Lévy, 1976, pp. 176-177. Accentuando il dinamismo delle azio-

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TONI D’ANGELA

si introduce nel palazzo reale per sottrarre i tesori più preziosi ivi custoditi. Senonché… l’imprevisto, l’avventura: una volta entrato ha inizio il C’era una volta…, la sua favola, perché l’oggetto rapito, l’oggetto da cui egli stesso è rapito, è la principessa addormentata, avvolta nel suo splendore. Entra per rubare ma esce rapito. Una volta tornato per le strade di Bagdad, nel caos dei mercati, delle voci e delle intersezioni di corpi, espedienti e passioni, è perso nei suoi sogni d’amore, pronto ad agire, a ritrovarsi, e può finalmente, aldilà dell’utile o del piano architettato per conseguire il bottino, indicare al suo compare con un gesto deciso, segno di scoperta, la meraviglia rubata nel palazzo: la scarpina della principessa. Eroe senza paura, il ladro di Bagdad non riconosce l’autorità sacra, né quella profana, solo la sua avventura, prolungata in una deriva d’amore e di magia che troverà e può trovare il suo epilogo favolistico, la sua inscrizione, solo nel doppio salvataggio: della principessa e del regno. Salvare in Walsh non è mai ripristinare o conservare ma rinnovare, ricominciare, inventare. Douglas Fairbanks nel film di Walsh incarna la pura libertà d’azione, la creatività, non l’adempimento di una missione cui è fatalmente (o socialmente) destinato. Il destino del ladro è il suo carattere. E se il destino è inconciliabile con il carattere allora, come succede alla fine del film, il ladro vola via dalla Terra verso la Luna, ancora un’altra deviazione «per isolarsi sempre più da un reale che Raoul Walsh non può rendere rassicurante»; d’altronde l’eroe incarnato da Fairbanks realizza i suoi desideri (la conquista del corpo femminile e l’emancipazione economicosociale) solo con «l’aiuto di un esercito fantasma (il proletario)» che, appunto, «è reso evanescente» proprio perché inquietante: Walsh svela così la paura della classe dominante per le masse6. ni e la funzione dei principi rivali del ladro, Walsh fu capace, insieme ai suoi collaboratori, di risolvere alcuni difficili problemi tecnici tra cui la notevole sequenza della fuga del ladro e della principessa sul tappeto volante, sostenuto da un’impalcatura collegata attraverso dei cavi nascosti a una gru capace di far viaggiare i due innamorati attraverso una finestra del Palazzo sopra i tetti di Bagdad. All’interno di un’opera, in cui la perfezione tecnica e il gioco della sperimentazione cinematografica costituiscono certamente un momento decisivo (e che, come ricorda Lotte Eisner, sbalordirono anche Fritz Lang), Walsh riuscì a creare l’illusione del volo attraverso riprese dal basso dall’interno e dall’esterno del palazzo, alternate a piani di raccordo di passanti con la testa in aria per terminare con una lenta panoramica sui due eroi. Cfr. Raoul Walsh, Un demi-siècle à Hollywood, cit., pp. 174; 176177. Gli effetti speciali del film furono realizzati dai tecnici che lavorano alle commedie Keystone. 6 Cfr. Carlo Scarrone, Raoul Walsh, in Paolo Bachmann, Raoul Walsh, cit., p. 141.

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Un losco figuro in La città è salva (The Enforcer, 1951)7, nel nero oscuro di un vicolo anonimo, pesta a sangue un essere piccolo e insignificante (interpretato da un inquietante Everett Sloane), tuttavia, nel giro di pochissimi secondi basta poco (uno sguardo, una parola) per spezzare la violenza del duro picchiatore rivelandone tutta la strutturale debolezza. È una deviazione terribile, da incubo, nella quale il delinquente prevaricatore si sfarina nella sua forza apparente ritrovandosi del tutto assoggettato all’uomo che, solo pochi attimi prima, aveva in pugno. È una rottura che ricorda un sogno di un paziente di Serge Leclaire, psicanalista lacaniano: «Qualcuno mi si avvicina, dice, fissandomi con lo sguardo. È un uomo. Indefinitamente io cerco di respingerlo, si avvicina lo stesso; comincio a tirar pugni ripetutamente a quella faccia; più i miei colpi si fanno frequenti, più quello s’avvicina e mi ripiomba addosso, come un punchingball mosso da una molla. Sembra insensibile, il suo viso ostenta un sorriso sarcastico. Mi invade l’angoscia»8. Invisibilmente, insensibilmente, senza via di scampo, il losco e molle delinquente (ma anche lo spettatore catturato in questo vortice) urta con il Reale, il reale nella sua inquietante familiarità. Il Reale con il suo peso invade e turba fuori di misura. Invisibile è la criminalità, il reale come cancro disseminato, diffuso che scientificamente e insensibilmente investe la quotidianità e la sua routine, raddoppiandola come in La gang (The Racket, 1951) di John Cromwell o La polizia bussa alla porta (The Big Combo, 1955) di Joseph Lewis. Poliziesco fatto di ombre e vicoli, lampade basse e tagli di luce noir, dove il plesso dell’azione narrativa è costituito dalla voce attorno alla quale si dipana il racconto, la voce che tenta di smascherare questo reale, di registrarlo, di cozzarlo. La città è salva è questa voce, ordinaria e perturbante quella di Everett Sloane, fonte visibile e invisibile che traccia nell’immagine visiva il percorso narrativo e le sue intersezioni, la trama del controllo, voce che fa il racconto e che, nell’indagine dell’ispettore Humphrey Bogart, si fa essa stessa traccia, percorso, indizio: la voce costruisce lo spazio narrativo. La voce allestisce gli spazi dell’azione, dell’indagine e dei crimini, diffonden-

7 La regia di questo film fu attribuita al giovane regista teatrale inglese Bretaigne Windust che, in effetti, aveva girato del materiale ma, subito dopo le prime riprese, fu licenziato dalla produzione e, su suggerimento di Bogart, la Warner chiamò Walsh che, per fair play, per girare il film richiese che la regia fosse comunque attribuita al giovane Windust. 8 Serge Leclaire, Smascherare il reale, Roma, Astrolabio, 1973, p. 15. L’analisi di questo caso si trova nella terza parte dello stesso volume (Philon o l’ossessivo e il suo desiderio).

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TONI D’ANGELA

dosi negli ambienti, scavandoli per catturare quello che, di volta in volta, è il destinatario, la voce scava lo spazio e gli dà profondità. La voce è la fonte anonima che comunica le coordinate dei delitti e la voce è quella registrata sul nastro nel cui ascolto si (in)scrive la chiave di volta dell’intreccio, la lettura dell’ispettore Bogart. È la voce di Bogart. Nella scena finale, aperta (come fosse una deriva tra Godard e Rivette) da una leggera e futile passeggiata in stile Nouvelle Vague (con tanto di lingueggiamento della ragazza da salvare), sarà proprio la voce dell’ispettore a salvare la ragazza in pericolo: la voce, ciò che più ci è proprio e che più ci espropria (come sapevano Derrida o Carmelo Bene) o ci salva. La voce in questo film, ha scritto Deleuze, è come una testa cercante, in particolare la voce di Bogart che si sforza di raggiungere, in mezzo alla folla, la persona che occorre avvisare urgentemente, la femmina che i criminali vogliono abbattere. La voce salva ma è anche ciò che apre una cavità inquietante. Nell’anonimato delle voci, delle voci che a tutti appartengono e tutti riconoscono come qualcosa di familiare, si commissionano gli omicidi. Nell’invisibilità della voce, inindagata (dal senso comune oltre che dalla polizia), di gente ordinaria, e pericolosa proprio perché ovvia, quotidiana, rassicurante, inscritta «all’interno di un quadro rassicurante» che, osserva Marc Vernet9 – anche a proposito di La città è salva – costituisce uno dei «contrassegni distintivi del film noir»; non accidentalmente La città è salva inizia all’interno del quartier generale della polizia, «sul versante dell’ordine e della forza tranquilla». D’altronde: «l’organizzazione sociale gerarchizzata è assimilabile a un gigantesco racket», una rappresentazione, un controllo generalizzato, che «consiste nelle mettersi fuori della portata della violenza che esso stesso suscita», un racket che l’uomo «giunge a braccarlo fino nei suoi pensieri, fino nei suoi sogni»10. La voce di Bogart, invece, non è rappresentazione ma analisi, conoscenza, smascheramento del reale; la sua voce fa di se stessa e delle altre voci registrate il testo del reale; la sua voce ha quella forza che invece non potevano avere i pugni del picchiatore rinchiuso nella sua rappresentazione (di duro), perché nessun colpo (nessuna rappresentazione) può allontanare lo sguardo insostenibile e insestinguibile del reale. 9 Cfr. Marc Vernet, La transaction filmique, in Raymond Bellour (a cura di), Le cinéma américain, cit., p. 123; p. 125. 10 Raoul Vaneigem, Trattatato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni, Firenze, Vallecchi, 1973, p. 18.

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L’amante messicana, sensuale e infedele, in Notte di tradimento (In Old Arizona, 1929) – primo film sonoro di Walsh11, e con ogni probabilità primo film sonoro girato in esterni le cui riprese furono segnate dall’incidente automobilistico che causò a Walsh la perdita dell’occhio destro12 – trama con il baldanzoso sergente interpretato da Edmund Lowe, tanto rudimentale quanto privo di scrupoli, per tendere una trappola di morte, nella notte, al bandito Cisco Kid, romantico e solitario. Cisco Kid, interpretato da Warner Baxter che per questo film vinse l’Oscar, è un avventuriero ma ha una sua morale, un suo spessore, un rilievo che lo smarca poiché gli altri personaggi ne sono sprovvisti: sia il sergente frivolo che l’amante messicana. Ecco perché Walsh lo salva dal complotto e il bandito, grazie a una deviazione e non a un derivato regolare previsto dal copione del tranello, piega la trappola e la rimbalza proprio contro i due reietti rinchiusi nel cerchio stretto dei soldi sporchi. Sarà infatti l’amante messicana, putain sì ma non magnifique, a perdere la vita (ma già l’aveva perdu-

11 Per questo film Walsh chiede alla Fox semplicemente un camion dotato di un impianto per la registrazione del suono e un copione western per andare a girare nello Utah, a Bryce Canyon: munito del copione di un racconto di O. Henry, The Caballero’s Way, il regista parte di nascosto da Hollywood per il deserto con una piccola troupe d’attori (Annet Boyd, la protagonista femminile, e tre cowboys) e il materiale minimo necessario per le riprese nella speranza di giocare d’anticipo rispetto alle altre case di produzione. Notte di tradimento, così s’intitolerà il film, nasce dalla volontà del regista di girare in presa diretta la registrazione dei dialoghi in esterni (accompagnati dal rumore del vento, della pianura, degli animali: e molto probabilmente si tratta del primo film sono girato in esterni), senza realizzare la sonorizzazione successivamente in studio com’era abitudine all’epoca. Walsh sembra fin da subito comprendere le potenzialità specificamente cinematografiche, insieme ai nuovi problemi (tra cui la necessità di preparare dei copioni in grado di coniugare l’intreccio, l’azione e i dialoghi), racchiusi nell’innovazione tecnica del suono. Cfr. Raoul Walsh, Un demi-siècle à Hollywood, cit., p. 215. 12 Si trattò di uno scontro lungo una pista del deserto Mojave dell’automobile su cui viaggiava Walsh con una grossa lepre che ruppe il parabrezza ferendo il regista e che causò al regista la perdita dell’occhio destro, da allora coperto da una grossa benda (come per gli altri grandi monocoli della storia del cinema, Ford, Ray, Lang), e l’abbandono definitivo della carriera di attore: ancora l’anno prima, nel 1928, oltre che regista era stato interprete, al fianco di Lionel Barrymore e Gloria Swanson, di Sadie Thompson, tratto da un racconto di Maugham, in cui Walsh interpretava, sintomaticamente, un ruolo di grande vitalità, intraprendenza e sensualità. Walsh, che doveva interpretare anche il ruolo del protagonista, fu sostituito da Baxter e alla regia da Irving Cummings, benché il film rimanga integralmente di Walsh nella concezione, a partire dalla rivalità fra il bandito buono Cisco Kid e il rappresentante della legge per la conquista della donna e dal tono ironico con cui è presentato il racconto.

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ta) e, paradossalmente, per mano del suo complice, la legge corrotta incarnata dal sergente: la corruzione, diceva Marx, è il laboratorio della vita. E anche Notte di tradimento rappresenta nel cinema di Walsh un laboratorio di sperimentazione. I personaggi di questo western girato en plein air tra lo Utah e la California, sono tutti piuttosto stereotipati, vittime del cliché, ciononostante in questo primo film sonoro i dialoghi sono eccellenti e, d’altronde, questa stereotipizzazione dei personaggi in buoni e cattivi anzitutto è parziale (perché il bandito dovrebbe essere il cattivo e il sergente il buono e invece avviene il contrario) e soprattutto, come ha notato Bachmann, questo trattamento voluto (il cliché) è funzionale perché «permette a Walsh di essere del tutto a suo agio nella descrizione di ciò che avviene “in secondo piano”, situazioni e personaggi (in particolare il barbiere, la cuoca messicana, il saloon, ecc.), della vita di ogni giorno. Ne consegue la possibilità di utilizzare al massimo di efficacia espressiva tutti gli altri elementi che, in primo piano come in secondo piano, giungono così a esplicare un dosaggio estremamente variegato di sfumature, pur nella semplicità dell’apparena narrativa»13: deviazione (del discorso) nella deviazione (della storia). L’azione e la reazione concatenandosi compongono il reale e l’universo disparato del cinema di Walsh che rimescola sempre le carte e a volte ribalta pure i tavoli da gioco. Stravolgendo e volgendo gli uni verso gli altri, senza però non averne prima rovesciato ruoli e certezze. In Grandi occhi scuri (Big Brown Eyes, 1936) tratto da alcuni racconti di James Edward Grant, Cary Grant interpreta un tenente elegante e brillante che, nondimeno, proprio non si raccapezza anche perché ostacolato da anziane signore in cerca di compagnia e differito dalle leggi che, come al solito, tengono al caldo i più forti e lasciano al freddo solo i più deboli. Joan Bennett è la sua bella fidanzata, una giovane manicure dimessa e asfissiata in un lavoro che non la fa respirare, né la realizza. Ebbene, nononostante queste ristrettezze, o proprio in virtù di esse, la Bennett sospende la validità della sua vita, la interrompe, sceglie di ricominciare daccapo: il cinema di Walsh è questo ricominciamento, questa insoddisfazione, questa irrequietezza. Sarà lei, la manicure – una volta inventatasi una vita nova – a indagare, ricercare la verità, scontrandosi con gli interessi accomo-

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Paolo Bachmann, Raoul Walsh, cit., p. 50.

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danti di giornalisti e magistrati, sì per incastrare il criminale Walter Pigdeon e consegnarne quasi tutto il merito al suo bel fidanzato ma, soprattutto, per ritrovarsi, riscattarsi, rigenerarsi, anche nella reversibilità di maschio e femmina (lui imita la voce di una donna e lei si improvvisa detective) e delle posizioni, contestazione di un’umanità inchiodata immutabilmente sulla poltrona del barbiere o sul divano di casa, al comfort 14 delle legge e delle opinioni senza montaggio, né découpage dei gazzettieri. Official hero e outlaw hero, come già in Notte di tradimento, in La belva umana (The Dark Command, 1940), unico film girato fuori dalla Warner fra il 1939 e il 1951, si rovesciano di segno e scambiano di posizione. Il maestro morigerato, istruito e galante, nella crisi non si rivela altro che un risentito, un cammello porta-fardelli, frustrato dal livore di una vita chiusa, accomodante, un violento che finisce con lo sfogare la sua rabbia nella depredazione della felicità altrui. Uno stilista accademico, un maestro di cerimonie, compromesso con le pulsioni più basse, un sacerdote di morte, un appestato che in reazione della sua viltà diffonde la pestilenza. Ma questo maestro ipocrita troverà la giusta e necessaria resistenza nella forza e nella robustezza di John Wayne; di quel texano che la comunità chiusa su se stessa, ripiegata sugli insegnamenti del maestro impotente, aveva anticipatamente squalificato, considerandolo reietto e fuorilegge. John Wayne invece è lo straniero, un barbaro che proprio in virtù della sua rudezza selvaggia, del suo corpo vivo, respinge le buone maniere del maestro e ne contesta il bon ton di cui Pigdeon, che ha buone intenzioni ma è cattivo, è campione, per opporsi alle sue leggi di morte, di chiusura e clausura, ai suoi costumi funebri: almeno dai tempi di Platone è questa la funzione destinale e guastatrice dello Straniero, sconcertare, contestare, scuotere le antiche certezze. Essere un perturbante. Non casualmente, nel racconto, sarà proprio il rozzo e villano mandriano del Texas a diventare sceriffo e difendere la comunità confrontandosi con Quantrill (Pigdeon) e i suoi razziatori e sarà, giustamente, sempre lui, nel fuoco del pericolo, ad esprimersi manifestando, non risentimento, bensì amore: l’amore per la bella 14 Il rinvio è ai Passangenwerk benjaminiani: comfort è consolazione e comodità, è la volontà reattiva di formarsi un guscio per non esporsi al Fuori e proteggersi nel ripiegamento piccolo-borghese del nichilismo dell’intérieur. Cfr. Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, voll. I-II, Torino, Einaudi, 2007.

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Claire Trevor (compagna di Wayne l’anno prima in Ombre rosse – Stagecoach di John Ford). Il corpo vivo e robusto, autentico, in Walsh la spunta sempre sul maestro di cerimonia, sul corpo ingessato: da Regeneration a Sadie Thompson fino a Il mondo nelle mie braccia (The World in His Arms, 1952). Per l’amore (troppo di sé e poco degli altri) si perde per poi ritrovarsi Errol Flynn nel suo ultimo film con Walsh, Sul fiume d’argento (Silver River, 1948). Flynn è Mike McComb, un soggetto ambiguo come altri personaggi flynniani, un soggetto ambiguo anche perché esposto all’avventura, alle oscillazioni ambivalenti della realtà: se fa il suo dovere con zelo lo puniscono, se raggira gli altri è premiato con il successo e il potere. McComb, durante la Guerra Civile, si esibisce in un’azione che brucia di gloria (o, perlomeno, di medaglia), nondimeno una volta bruciati i soldi contenuti nel carro, che McComb intende così sottrarre ai sudisti, sarà processato e condannato, scaraventato fuori dall’esercito, per strada, nella polvere, nel fango del disonore: ha commesso il reato più imperdonabile per il diritto borghese! Frastornato, disincantato, ferito nell’orgoglio, McComb sceglie di non sacrificarsi più per gli altri, né per la patria e assume su di sé, sulla sua unica proprietà, il suo destino, chiudendosi in un’unicità inespugnabile, in una singolarità che si esaurisce nelle sue proprietà, che rompe i tentacoli attivi che lo legano all’unione con gli altri. McComb non cadrà più, non si arrenderà più al mondo esterno, anzi finirà con l’assoggettarlo ai suoi desideri e alle sue ambizioni: picchierà e ingannerà, sparerà, minaccierà, aprirà case da gioco e giocherà nel mondo della finanza. E, infine, come Re David, allestirà lo scenario in cui ineluttabilente troverà la morte il marito della donna amata. Perderà il suo amico più caro… fino a che, in virtù dell’imprevisto, perderà anche il denaro e la donna. Ma se solo chi cade può risorgere, allora nessuno più di McComb poteva risorgere e con slancio, dall’abisso, per riscattarsi e ritrovare i legami con gli altri, per riscattare, nella sociabilità rimontante, anche gli altri. Gli altri più altri, i minatori vessati dalle prepotenze dei monopolisti. Sul fiume d’argento è davvero un film esemplare, messinscena del disaccordo tra individuo e ambiente – tanto nella sconfitta quanto nella vittoria – che lo spirito avventuroso di McComb sperimenta e dissolve nella prova, nel pericolo e nell’abbandono di ciò che possiede, ciò che lo conserva in un sicuro e cinico benessere. Questo abbandono è il presupposto di una possibilità di scoperta, come è tipico dei personaggi walshiani, McComb si scopre nella sua vulnerabilità, nella sua non-com42

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piutezza, poiché scopre che, nell’azione, c’è ancora da fare qualcosa e c’è ancora da farsi e rifarsi singolarità. McComb può riscattarsi, rigenerarsi, risoggettivarsi perché scopre la sua debolezza, la sua non-compiutezza, la sua apertura all’avventura e agli altri. E, infatti, come in Il ladro di Bagdad, il riscatto si dà attraverso il collettivo della rivolta dei minatori, altri esseri deboli. Se è vero che nel cinema lirico di Walsh spesso «l’esemplarità del singolo mette fra parentesi gli accidenti della storia»15, non è affatto vero che nel suo cinema la passione della singolarità pregiudichi il rapporto con l’altro: che ciò che dura, anche in Walsh, è ciò che è fatto per gli altri, una connessione di individuale e universale, soggettivo e oggettivo: singolare plurale. La singolarità in Walsh, come in Blanchot, Lévinas o Nancy, è «indissociabile dal suo essere-con-tanti» ma, al tempo stesso, la singolarità «implica la sua singolarizzazione e dunque la sua distinzione rispetto ad altre singolarità»16: la singolarità non è né un particolare (parte di un tutto), né un individuo (atomo separato nel chiuso di una totalità), è la sua «propria apertura» agli altri, al plurale, al fuori17; resiste alla fusione senza essere chiuso all’Altro. «La lirica, nella sua forma più schietta e più commovente, esprime il sentimento dell’esistenza, come lo desta una vissuta esperienza di vita. Essa si eleva a misura che la passione si smorza echeggiando in considerazioni universali»18. Lo mostra questo itinerario narrativo tortuoso disegnato dall’azione bizzarra e problematica. Sul fiume d’argento dispiega quell’azione che rapportando gli uni agli altri ne spezza la solitudine e il cinismo. Tessitura di gesti e emozioni. Walsh con i suoi magistrali carrelli (in avanti e all’indietro) prolunga il gesto dell’individuo nell’ambiente e vi inscrive il suo sentimento in un tessuto relazionale, e con i suoi spettacolari campi totali filma i grandi movimenti di massa, l’azione della Storia, come nell’assalto al palazzo dei monopolisti: «trucchi panoramici/di moltitudini tese a una fulminea scena/mai del tutto 15 Adriano Aprà, Impressioni walshiane, in Stelle & strisce. Viaggi nel cinema Usa dal muto agli anni ’60, Alessandria, Falsopiano, 2005, p. 120. 16 Jean-Luc Nancy, Essere plurale singolare, Torino, Einaudi, 2001, p. 47. 17 Cfr. Ivi, p. 14. 18 Wilhelm Dilthey, Esperienza vissuta e poesia, Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1947, p. 369. Non si intende applicare una codificazione letteraria – riguardante il genere della lirica – al cinema di Walsh, ma solo alludere ad un atteggiamento generale dello spirito: lirico può essere un poeta, un pittore e anche un regista; nessuna applicazione della letteratura al cinema, semmai relais, innesto o détournement.

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dischiusa a cui sempre si accorre/annunciata a altri occhi sullo stesso schermo»19. Dialettica di individuale e universale, forma di piacere che inventa un nuovo soggetto che, così, ritorna non più chiuso in se stesso ma aperto all’altro, non più sprofondato nell’illusione dell’unitario ma deviato nel piacere del fittizio. Scrive Barthes: Allora forse ritorna il soggetto, non come illusione ma come finzione. Viene ricavata una forma di piacere da un modo d’immaginarsi come individuo, d’inventare un’ultima finzione, delle più rare: il fittizio dell’identità. Questa finzione non è più l’illusione dell’identità; al contrario è il teatro di società dove facciamo comparire il nostro plurale: il nostro piacere è individuale – ma non personale20.

Il gesto dell’individuo s’inscrive in un sistema di eventi connessi dove le inclinazioni soggettive innovano, trasformano e deviano l’azione che il mondo applica su se stesso. È il cinema di Walsh: imprevedibile risultato dell’avventura. «Ghermito dalla spaventosa azione, il cuore spasima in violenti sussulti»21. 2.2 Il rovescio dell’azione: il profondo della narrazione La narrazione walshiana è presenza dell’azione, sensibile e visibile, impellente e urgente, ineluttabile e bizzarra. «L’azione, nel suo cinema, rappresenta la somma di tutte le qualità e abilità delle quali sono forniti i suoi personaggi; questa azione è compiuta attraverso i significati derivanti da una tecnica semplice e diretta, scevra di qualsiasi presunzione ma che, tuttavia, costituisce la sapienza e la destrezza di un maestro consumato»22. L’azione nel cinema di Raoul Walsh si esplica in una molteplicità di strutture della narrazione filmica, dell’immagine narrativa: l’imprevisto di cui Jean-Louis Comolli parlava in numero dei «Cahiers» dedicato a Walsh nel 1964 23; il

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Hart Crane, Al ponte di Brooklin, in Il ponte, Milano, Garzanti, 1984, p. 5. Roland Barthes, Il piacere del testo, cit., p. 61. 21 Ernst Theodor Amadeus Hoffman, Don Juan, in Racconti, Roma, Editori Riuniti, 1985, p. 26. 22 Kingsley Canham, The Hollywood Professionals; Michael Curtiz, Raoul Walsh, Henry Hathaway, I, New York, A.S. Barnes, 1974, p. 81. 23 Cfr. Jean-Louis Comolli, L’esprit d’aventure, in «Cahiers du Cinéma», 154, avril 1964, pp. 11-14. 20

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doppio itinerario osservato da Gérard Legrand in più occasioni sulle pagine di «Positif»24; le caleidoscopiche diversificazioni notate da Giuseppe Turroni25; la deviazione descritta da Paolo Bachmann nel 1977 26; i dispositivi imprevisti, le allusioni intempestive, le configurazioni bizzarre e i contrasti di cui ha avuto più recentemente modo di scrivere Alain Masson27. La narrazione può dispiegare l’azione dei soggetti nell’evidenza irrecusabile e non-respingibile: l’azione chiama, qualcuno – l’eroe – risponde. L’azione, in questo caso, è raccontata con chiarezza e distinzione. O così appare all’inizio del film, come nell’incipit magistrale di Sabbie rosse, dove l’azione sembra non ammettere esitazioni, né ambiguità. Ma poi, nel dispiegarsi della narrazione, nelle profondità buie della memoria, nei recessi rimossi della coscienza, il presente narrativo – dove l’azione si svolge senza tentennamenti, con rigore, se non con cinismo – si disfa. Il presente narrativo con tutte le sue conseguenze utilitarie e i suoi punti di riferimento, in Sabbie rosse, si slabbra, sfarinato dall’onda gonfia del passato che rimonta improvvisamente. La tessitura narrativa che Walsh costruisce in Sabbie rosse si annoda e snoda attraverso livelli e dislivelli, salti e sbalzi. Micro-duali in cui ne va non del destino di una comunità bensì di una soggettività, di una singolarità. Azione. Piccoli binomi, strettoie dell’anima, attraverso cui il corporigido-sul-punto-di-esplodere di Kirk Douglas compie la sua azione, in un itinerario psico-geografico di-segnato da asperità e fratture. Sabbie rosse è un film profondamente ambiguo per ciò che accade nel campo delle forze visibili in gioco nel presente narrativo, come per ciò che accade nel fuori campo invisibile della memoria. Un western a spirale. Complesso nei rapporti che attiva tra i personaggi come nelle consuetudini che disattiva. Imprevisti e rovesci, crisi e rivelazioni, costellano il cammino, specie quan-

24 Cfr. Gérard Legrand, Au soleil (quelquefois noir) de Raoul Walsh, in «Positif», n. 147, février 1973. 25 Cfr. Giuseppe Turroni, Raoul Walsh, la struttura negata, in Paolo. Bachmann, Raoul Walsh, cit. 26 Cfr. Paolo Bachmann, Raoul Walsh, cit. 27 Cfr. Alain Masson, Il faut qu’une porte soit ouverte ou filmée, in «Positif», n. 482, avril 2001.

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do si tratterà di viaggiare nel deserto: non-luogo della verità, nonché della tentazione; regione nuda in cui l’altro (come in John Ford o Maurice Blanchot) viene incontro per dare la morte o offrire accoglienza; cavità vuota dove le abitudini e le difese aggressive del soggetto si azzerano. L’azione in Sabbie rosse è propriamente narrazione. Tessitura di sfide, costellazione di sentimenti e gesti dove il darsi di un gesto o il rivelarsi di un sentimento suscita e rinvia ad un altro gesto o ad un altro sentimento. Ma la sfida più inquietante, il duello che disorienta e getta nello smarrimento (di sé), è giocato sulla linea di divisione tra sé e sé cui allude il titolo originale del film. L’antagonista non è l’altro fuori di sé (il figlio frustrato che ammazza il fratello, né l’aiutante vile e corrotto): è l’altro se stesso. È la grande linea di divisione. Il limite tra ciò che non si è più e ciò che non si è ancora, tra la legge che inchioda al passato e l’amore che slancia verso il futuro. Frontiera difficile da valicare, impervia e terribile, sconosciuta, che s-lontana dalle certezze di una razionalità limitata e calcolante per gettare nell’incognito. Confine (tra sé e sé) permanentemente mobile, sfumato, fuori fuoco, incendiato nelle vampe del deserto. Sicché Sabbie rosse è un western giocato tra il premere il grilletto e il gettare la pistola nella polvere (come fa Walter Brennan), tra il dare la vita o il toglierla (“Pop”Brennan è nelle mani del vice-sceriffo). L’azione di Clint Merrick-Kirk Douglas pertanto non si dispiega semplicemente nel presente, nel campo delle forze che agiscono e reagiscono le une sulle altre. L’azione si piega e ripiega nell’interstizio, sosta nell’intervallo, nella spaziatura aperta tra l’onda gonfia del ricordo (il passato lancinante del vice-sceriffo) e il margine ipotizzato da una progettualità che viene dal futuro (futuro d’amore con Ann-Virginia Mayo, che interpreta la figlia dell’uomo che Merrick si accinge a portare sul patibolo). L’azione si fa e si disfa, s’ispessisce e prende concretezza, di duello in duello: Merrick e Ned Roden, Merrick e il vecchio “Pop”, Merrick e Ann, Merrick e Lou, Merrick e Dan Roden. Ma la sfida più violenta rimane quella che Clint Merrick ha da affrontare perché precipitato in un abisso di perdita del Sé. Scosso dal ritorno di un ricordo assillante, un senso di colpa profondo che chiama dalle lontananze del passato, Merrick non regge, e viene come risucchiato in un buco nero, in un’impressione di schiacciamento e ineluttabile orientamento verso il passato. Ma è anche un indizio che nell’inflessibilità, se non nel cinismo, nel cartesianesimo dello sceriffo, in cui tutto deve essere chiaro e distinto, c’è un fondo di turba46

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mento non ricomposto. È il suo punto debole, su cui s’innesta il gioco di Walter Brennan, per impietosire prima e innervosire dopo Kirk Douglas. Reazione. L’attraversamento del deserto – topos del cinema western – è l’immagine nerrativa di tale conflittualità e ambiguità. Il deserto è la crisi del soggetto e delle sue certezze. Vuoto di civiltà. Tabula rasa di regole e convenzioni. Il deserto è la regione in cui si oscilla e vacilla. Il soggetto, nel deserto, si perde, esausto e allucinato viene stordito dal sole, inghiottito dalle tempeste di sabbia, ingannato dai miraggi. Nel deserto prendono corpo i fantasmi del passato, le ossessioni più segrete e ciò che ne resta sepolto – per paura o convenzione. Le difese del soggetto (dagli altri e da se stesso) cessano di reggere. Il deserto è quella regione del mondo in cui si è nudi; dove si è esposti alle intemperie; dove si è es-posti (d)all’altro, l’altro che viene incontro… appunto, per allearsi o per uccidere. Ma il deserto è anche cavità di speranza e possibilità di rinascita. Riserva di possibili in cui si dà uno svuotarsi di colpe e abitudini (come in In nome di Dio – The Three Godfathers, 1948, di John Ford). Il deserto è un intermondo, un’intercapedine (tra un prima e un dopo, una colpa e un riscatto), rischiosa e stretta, attraverso cui si può anche arrivare nel punto, nel posto, in cui ne va del proprio destino (come in Cielo giallo – Yellow Sky, 1948, di William Wellman). Sarà proprio l’uomo che ha catturato ad innestare il crollo di Merrick, ad aprire la voragine stornando la direzione del suo cammino lineare e piatto, provocando una ristrutturazione dell’azione nel senso del suo itinerario psico-emotivo. Itinerario spettrale. Nel deserto si è tentati dai miraggi e a volte si cede alla tentazione, ma Merrick si ostina a non cedere. Procede a tentoni, di notte, tra le dune, solo contro tutti. Barcolla, non può dormire, né confidare sull’aiuto di alcuno: è un soggetto in crisi di fame, sonno e stanchezza, preda delle passioni (l’amore per Ann). E, ovviamente, crisi di identità. Alla fine della traversata vedrà, in una risalita dell’io dalla profondità alla superficie, che la situazione attuale sprofonda da un lato nel passato (“Pop” è una proiezione di suo padre) e dall’altro nel futuro (una vita nuova con Ann), che è costituito non solo di percezioni chiare e distinte, cartesiane, ma anche di «percezioni di cui non ci si accorge», «in cui non vi è nulla di distinto» e in cui «si è storditi» come in una vertigine, le petit perceptions leibniziane28. 28 Gottfried W. Leibniz, Monadologia, cit., p. 36. Leibniz scrive che «i cartesiani hanno molto errato, non avendo tenuto affatto conto delle percezioni di cui non ci si accorge». Cfr. Ivi, p. 31.

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Merrick vedrà finalmente, e vedrà non più cartesianamente29, in modo chiaro e distinto, ma in virtù di quella che Bergson30 chiamava una «percezione completa», «distinta e riconosciuta», che «si determina e si distingue soltanto per la sua coalescenza con un’immagine-ricordo» – quella che “Pop” gli manda incontro (l’immagine del padre ucciso in un linciaggio) – che non è un «ricordo puro», inefficace o impotente. È un ricordo «virtuale», cioè «può diventare attuale soltanto per la percezione che lo attira» – la situazione attuale in cui è compromesso Merrick. Il «riconoscimento attento» di Merrick è un circuito «in cui l’oggetto esterno», la figura di “Pop” che richiama quella del padre, gli «consegna delle parti sempre più profonde di se stesso», l’amore per la figlia, le fatiche di una vita, la sua innocenza, «via via che la nostra memoria, simmetricamente posta, adotta una maggiore tensione per proiettare verso di esso i suoi ricordi»31, quelli di Merrick. Materia. Nel deserto il tempo diventa una voragine. Lo spazio, nel deserto, è una materia non-organica che dis-organizza i corpi esposti allo choc del deserto. Il passato è esperito in quanto sensazione (il disagio montante che si rivela negli scatti nervosi di Kirk Douglas) e il futuro in quanto azione (il gesto compiuto per consegnare “Pop” alle autorità e nel contempo quello di salvarlo durante il processo). Il corpo di Kirk Douglas, nel presente, non è un punto circoscrivibile, ma una forza sensomotoria, un sistema combinato in cui la sensazione si prolunga in azione. Memoria. L’irruzione della temporalità, nella materia non-organizzata e non-spazializzata del deserto, è ciò in cui si inscrive la crisi del soggetto, nonché del suo supposto dominio sul tempo e sullo spazio. La salvezza di “Pop” è la sua salvezza, quella che, come diceva Hölderlin, cresce là dove c’è pericolo. Salvarsi, come ricordava Heidegger commentando

29 «Chiamo chiara quella [percezione], che presente e aperta a una mente che vi attende: così come diciamo esser chiaramente viste da noi quelle cose che, per la loro presenza all’occhio che guarda, lo muovono abbastanza fortemente e apertamente. Distinta invece quella che, essendo chiara, è così nettamente separata da tutte le altre, da non contenere in sé null’altro affatto che ciò che è chiaro». Cfr. René Descartes, Principi di filosofia, Firenze, La Nuova Italia, 1932, Libro I, p. 35. Non a caso lo stesso Descartes riconosce che le esperienze della fame, della sete o delle passioni, quelle che sperimenta Merrick nel deserto, sono quelle che attestano non la chiara distinzione tra mente e corpo ma la loro unione stretta e intima, la loro coalescenza. Cfr. Ivi, p. 37. 30 Cfr. Henri Bergson, Materia e memoria, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 108-109. 31 Ivi, p. 98.

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Hölderlin32, non è solo «afferrare all’ultimo momento ciò che è minacciato dalla rovina, assicurandolo nella conservazione del suo essere precedente». 2.3 Poesia del corpo dell’azione Walsh è il regista dell’azione. E l’azione nel suo cinema non si sviluppa banalmente su binari rettilinei e paralleli. Il senso dell’azione storna dal tragitto iniziale, il percorso si oscura, si addensa di depistaggi, le direttrici s’intersecano. L’azione ha un rovescio, un’ombra. La rigidità comporta l’esplosione in quanto il corpo dell’azione ha uno spirito, come in Sabbie rosse o Regeneration. La grandezza di Walsh è nella capacità di raccontare, con sobrietà e incisività come con vivacità e intensità, una storia in cui ne va dell’azione e al tempo stesso del suo rovescio: tutto ciò che sosta nell’ombra senza realizzarsi in un gesto o in un presente utilitaristico e puntuale che, in ogni modo, condiziona l’azione. Il rovescio dell’azione è ciò che rallenta, prolunga, cambia la direzione dell’azione, trasformandone, deviandone, significato e finalità, come in Obiettivo Burma, dove l’imprevisto disperde le ragioni della guerra e trasforma l’itinerario della pattuglia sperduta in una lotta contro l’Invisibile, il senso occulto del nemico, la sua minaccia onnipresente, contro le ombre – come quelle che annebbiano e mettono in crisi Kirk Douglas in Sabbie rosse. I soldati di Obiettivo Burma hanno perso la memoria delle loro cause, sono come manovrati da una forza irresistibile ma non visibile. La guerra è diventata la loro marcia, il loro cammino. Ciò che è in gioco sono più le loro ragioni che non quelle della guerra. Questa è la grande e terribile deviazione che vibra e sobbalza nel tessuto narrativo di Obiettivo Burma, deviazione che fa sbandare il film dal suo percorso narrativo e topografico preciso denotativamente, come d’altronde soltanto apparente era la semplicità della missione assegnata ai soldati comandati da Errol Flynn. Cosicché Walsh, trasparentemente, arriva ad intricare il percorso narrativo dentro cui si dipana il film e più che ritornare a casa come Ulisse, attraverso tutte le sue avventure, le peregrinazioni, Walsh (con la sua pattuglia sperduta)

32 Cfr. Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1991, p. 22.

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tesse e disfa, come una moderna Penelope, la tela della (narr)azione. Il disegno si complica e ispessisce, prende una forma strana, si piega e dispiega nella sua struttura più profonda, connotativa, e l’azione non appare più scontata. L’azione, come la narrazione, non è già bell’e pronta. L’azione si fa, è da farsi, come il cinema di Walsh, la cui poesia «è nel suo farsi», è «il fatto stesso di fare del cinema»»33: il suo Testo è si un Tessuto ma non in quanto prodotto ma «intreccio perpetuo»: ifologia «(hyphos, è il tessuto e la tela del ragno)»34. 2.4 Détour L’azione in Walsh può declinarsi in percorsi insoliti, giri tortuosi, in veri e propri détour, come nella parabola del figliol prodigo raccontata da Walsh in un dramma biblico del 1926, Il figliol prodigo (The Wanderer) interpretato da Wallace Beery e Tyrone Power Sr: la halakah, il cammino lungo la via del Signore, attraverso la haggadah, il racconto (storia/discorso). Altra parabola ciclica, familistica e storica, è quella di John Wesley Hardin (Rock Hudson), raccontata in Il diario di un condannato (The Lawless Breed, 1952). Wes Hardin (Bob Dylan gli ha dedicato una canzone) sogna di sposarsi e di costruirsi una fattoria con un bel castagneto, però le circostanze della vita lo deviano da questa aspirazione e lo conducono ad allontanarsi da casa per una sciagura, come nelle fiabe russe: la sciagura è lui stesso. Nel nome del Padre è condannato in quanto sciagurato, ossia non sottomesso all’autorità paterna di cui viola i diveti, ad allontanarsi da casa e nella narrativizzazione delle peripezie che da questo allontanamento hanno inizio sarà condotto a uccidere e a giocare d’azzardo; a perdere la donna amata, uccisa da una pallottola destinata proprio a lui. Ma Wes saprà rialzarsi dopo essere sprofondato, si innamorerà di un’altra donna e la sposerà; finalmente potrà costruire la sua fattoria. Tuttavia, proprio nel punto di massimo equilibrio e riconciliazione, una volta che l’eroe ha fatto ritorno a casa, la fiaba, il destino, il complotto della società fondata sulla legge, «obbliga l’eroe a subire una seconda sciagura»35: Wes subisce l’ar-

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Giuseppe Turroni, Raoul Walsh, la struttura negata, cit., p. 138. Roland Barthes, Il piacere del testo, cit., p. 63. 35 Vladimir J. Propp, Morfologia della fiaba, Roma, Newton Compton, 2003, p. 53. 34

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resto e la condanna per reati ormai espiati da tempo, uno strappo ingiusto che lo separa dagli affetti e dai suoi sogni più puri. Dopo lunghi anni di carcere, Wes ritorna finalmente a casa per sanare la ferita che si era aperta molto tempo prima nella relazione con il padre autoritario. Wes avendo subito per la seconda volta l’allontanamento da casa, subisce ancora il danneggiamento dell’esordio: «l’eroe deve affrontare nuovamente le vicissitudini»36 che lo condurranno questa volta non a perdersi ma a salvare il figlio dalla perdizione. Questa volta, infatti, il conflitto scoppierà non con suo padre (ormai morto) ma con suo figlio ingiustamente e autoritariamente rimproverato, riproponendo così la lacerazione iniziale tra padre e figlio. Wes ri-leverà l’autoritarismo suo e del Padre sacrificando, oltre che quasi la vita, il suo stesso onore (la reputazione di gunfighter) salvando il figlio e risanando lo strappo generazionale e il conflitto più generale tra Desiderio e Legge (Wes era stato giudicato dal padre una sciagura per la famiglia a causa dei suoi desideri inconciliabili con le leggi della casa). Détour, con un finale che ricorda l’itinerario di Pickcpocket (Id., 1959) di Robert Bresson («Oh Jeanne, per arrivare fino a te, che strano cammino ho dovuto fare», dice il borseggiatore Michel), è anche quello che conduce, nella ronde degli innamoramenti veri e falsi, nel gioco imprevedibile delle risse e dei contrattempi, nel vortice degli equivoci e delle ingiustizie, risucchiati nella canna di una tromba, il dentista James Cagney dalla slealtà della bionda fragola Rita Hayworth al vero amore per la dolce Olivia de Havilland, non dopo aver scontato cinque anni di prigione a cause di alcune false accuse di un suo amico, in Bionda fragola (The Strawberry Blonde, 1941), commedia fortemente voluta da Cagney (che pretese da Jack Warner di avere come regista Walsh) e fotografata da James Wong Howe, di cui l’autore, nelle sue Memorie, ricorda in particolare la scena dove il dentista Biff Grimes dopo cinque anni esce di prigione e ritrova la sua donna, Amy Lind, che l’attende in un parco sulla panchina del loro primo bacio: un ritrovarsi di cuori, che secondo Walsh, rappresenta una delle scene più emozionanti del suo cinema37: talmente emozionante, intensa, che Amy Lind-Olivia de Havilland ha un crollo senso-motorio come l’avrà la moglie di Custer (sempre interpretata dalla stessa de Havilland) nella scena dell’ultimo addio con il marito in La storia del generale Custer (They 36 37

Ibidem. Raoul Walsh, Un demi-siècle à Hollywood, cit., p. 288.

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Died with Their Boots On, 1931), un crollo senso-motorio che anticipa un segno distintivo della modernità cinematografica e che ricorda anche il crollo di Ingrid Bergman sulle pendici del vulcano in Stromboli, terra di Dio (1949) di Roberto Rossellini: il crollo è rivelazione, l’apertura al tutto, al tutto che è il fuori, anche se in Walsh è marcata più l’apertura, mentre in Rossellini la credenza nel mondo implica comunque una rottura del legame tra l’uomo e il mondo38. L’intensità di questa scena di Bionda fragola (di cui Walsh girerà un remake a colori nel 1948, One Sunday Afternoon) è articolata sul campo/controcampo, struttura sottolineata anche da Tag Gallagher la cui analisi rinvia ad un confronto fra Walsh e Ozu (maestro insuperato del campo/controcampo): Questa emozione che promana dagli attori e che si crea attraverso il loro rapporto, in Walsh non è qualcosa che si generi a partire dagli attori stessi – perfino nel caso di attori empatici e talentuosi come Olivia de Havilland e James Cagney nella scena della loro riunione di Bionda fragola (per la cui messa in scena Walsh si compiace nella sua autobiografia). Sono le inquadrature a creare queste emozioni, inquadrature oblique che flirtano con lo spettatore. L’effetto così suscitato somiglia a quello del cinema di Ozu: persone che, pur condividendo il nostro spazio, fissano su di noi il loro sguardo (e sempre come in Ozu, Walsh viola spesso la regola dell’asse per plasmare questo sguardo fisso), con la differenza che in Walsh c’è ammiccamento, fascinazione. La febbrile azione dei personaggi di Walsh, tutte le diagonali che percorrono all’interno delle sue inquadrature, hanno uno sviluppo cinetico (non seguono cioè un flusso naturale, bensì un’accelerazione che è frammentaria, fatto di scatti e deviazioni) ritmato da questi campi e controcampi degli occhi inquadrati da Walsh e caricati di movimento, vitalità e interiorità, mai immobili39.

Altro détour, infernale e catartico, è quello attraversato da Jane Russell in Femmina ribelle (The Revolt of Mamie Stover, 1956). Donna in rivolta con se stessa, gli altri, il mondo. Energica e sensuale, in fuga dalla fame e dal pregiudizio. Prima tenta la fortuna all’Ovest, in California, nella San Francisco tentacolare – già teatro delle avventure di Mae West in Annie del Klondike (Annie Klondike, 1936) – ma viene cacciata. Mamie ci riprova e cerca fortuna alle Hawaii. Mamie Stover alla fine del travagliato itinerario psico-geografico, respingendo palpatine e proposte indecenti di soldatini e impiegatucci, sfidando la morale dei benpensanti e le carezze 38 Proprio dall’intollerabile di questa rottura, di questa violenza, scaturisce la credenza, l’urgenza di credera ancora e comunque nel legame tre uomo e mondo; «Stromboli, terra di Dio mette in scena una straniera che avrà una rivelazione dell’isola tanto più profonda in quanto non dispone di alcuna reazione per attenuare o compensare la violenza di ciò che vede». Cfr. Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 12. 39 Tag Gallagher, Raoul Walsh, in «Senses of Cinema», July 2002 (on-line).

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pesanti dei papponi, e scampando alle vampe delle bombe dei caccia giapponesi, ritornerà da dove era partita, al porto di Frisco, per ripartire ancora, questa volta però verso casa. Mamie ritorna a casa, risoggettivata, riscattata dall’ossessione per il denaro e il possesso. Rigenerata dopo aver perso, nella spaziatura che respira tra la penultima e l’ultima immagine del film, non il denaro ma l’amore, e proprio a causa del denaro. Fuggire, per cercare i paesaggi della fantasia, i territori autentici dell’anima. O forse solo le terre dell’oro; vivere nella frenesia di una ricerca continua e sempre emozionante perché sempre sul punto di scorgere e afferrare ciò che darebbe senso al tutto, una ricerca senza sosta nella quale però Mamie Stover rischia di distruggere tutto intanto, speculando sulla sciagura e giocando con i sentimenti. Una distruzione ineluttabile che viene da lontano, dal profondo, dal passato infelice. L’onda rimonta e annienta con il suo carico di macerie e sogni infranti. Annienta tutto ciò che Mamie Stover ama o detesta, incluso quell’altro che non sa ma giudica (la buona società di Honolulu) o che sorride con aria imbambolata ogni volta che Mamie si volta indietro o balla (marinai o mariti insoddisfatti) o, ancora, che la fissa con grandi occhi innocentemente velati di benessere, l’altro che la cinge con le mani linde, con lineamenti morbidi, senza rughe né segni del tempo – i segni della durezza della vita – con la pelle liscia ambrata e lustrinata, l’altro incapace di sentire e comprendere l’ossessione che scava l’anima di Mamie perché cresciuto e vissuto nel lusso e nel privilegio (lo scrittore interpretato da Richard Egan). Alla fine forse era destino che Mamie Stover, questa donna dai capelli rosso-fuoco, fiore selvaggio, femmina indomita e indipendente, squarciasse il silenzio e sopraffacesse la dolce sinfonia di suoni che la stringeva dappresso: tanto dolce quanto fittizia. Il fuoco, la rabbia, l’energia indomita e selvaggia, le ribollivano dentro, e non potevano che scatenarsi annientando i simboli di una vita che non le apparteneva, i simulacri di una forma ben fatta (come la villa dello scrittore o il campo da golf) ma che non ha retto alla carne bollente e incendiaria di Mamie, che con le sue mani e le sue unghie può rendere felice un uomo – anche se per un istante lungo uno scontrino – oppure stringere, stringere a più non posso gli altri, il mondo e anche se stessa, fino a farne uscire la vita rossa e densa, e a rischiare di stritolarla. Come accade anche alle eroine di King Vidor: Barbara Stanwick in Amore sublime (Stella Dallas, 1937), Bette Davis in Peccato (Beyond the Forest, 1949) o Jennifer Jones in Ruby, fiore selvaggio (Ruby Gentry, 1952); o, ancora, alla protagonista di Porto das Caixas (Id., 1963) di Paulo Cezar Saraceni. 53

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Détour è quello fa deviare in una deriva il capitano Horatio Hornblower (Gregory Peck) in Le avventure del capitano Hornblower (Captain Horatio Hornblower, 1951)40, avventura di mare del capitano senza paura… d’amare e di deviare. Avventura narrata eccellentemente attraverso la compenetrazione di interno e esterno, emozione e azione, grazie al ritmo del montaggio e alle magnifiche inquadrature, in particolare le carrellate. Dall’Atlantico al Pacifico, tra cannoneggiamenti e malattie, innamoramenti e fughe, il capitano che sta dritto sulla schiena e si regge sui nervi nonostante lo scorbuto, incasella una vittoria dopo l’altra nel periodo delle guerre napoleoniche che infiammano l’Europa, ma la vittoria di gran lunga più importante l’avrà solo quando finalmente, e per la prima volta, si arrenderà al cuore di Virginia Mayo. Itinerario fuori rotta stornato dall’imprevisto, extra-vagante, in cui i nuovi alleati diventano nemici e gli avversari di sempre amici. Il capitano è un tipico personaggio walshiano: è insubordinato, come l’ufficiale Gary Cooper in Tamburi lontani (Distant Drums, 1951), e la sua arditezza sta nel saper infrangere le regole depistando, oltre che i nemici, se stesso e i suoi compagni di avventura, gli ufficiali e i marinai; dirottando gli ordini dell’ammiragliato ingessato nelle codificazioni binarie, per improvvisarsi prima francese e dopo olandese, inventandosi una tecnica da guerriglia e capeggiando una piccola pattuglia sperduta come in L’avventura impossibile (Desperate Journey, 1942), una banda eterogenea (un ufficiale ferito e un avanzo di galera), per prendere ancora il vento e sconfiggere i francesi oltre che il bon ton e la mummificazione dell’ammiraglio e, nonostante molti a torto lo considerino lineare e irrigidito, sorprendere ancora una volta proprio per la sua flessibilità, per la sua imprevedibilità; e infatti il marinaio che l’avvista, quando tutti lo davano per perduto, esclama stupefatto: «Se non sono ubriaco, quella è una nave naufragata comandata da un morto». Ma, infine, la deviazione, la scalfitura più notevole, l’avventura smarcante, è inscritta nel carattere del capitano, rigato nella sua durezza implacabile, nella sua inflessibilità, nel suo rigore, nel suo schiaffeggiare il destino, da gesti e tic

40 Il responsabile della seconda unità era il regista Edmond T. Gréville; nel 1959 stava girando un film per la Warner inglese e sapendo che Walsh, regista che molto ammirava, si stava apprestando a girare in Europa e in particolare nei pressi della Costa Azzurra, che Gréville conosceva molto bene, si offrì di aiutare Walsh e di mettere al suo servizio le sue conoscenze di luoghi e tecnici francesi. Cfr. Edmond T. Gréville, Témoignages, in «Présence du Cinéma», 13, mai 1962, p. 8.

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nervosi, imbarazzi e cedimenti, da quel suo raschiarsi la gola in reazione alla presenza della bella e sensuale Virginia Mayo; deviato nella sua invulnerabilità proprio dai questi intempestivi e ingiustificabili rovesciamenti: capovolgimenti al limite della follia o della corte marziale. Sono questi vacillamenti, queste rigature, a costituire la virtù di Hornblower (come di Walsh), la sua forza vulnerabile, in ragione della quale il capitano (come Walsh) oltrepassa le convenzioni e i comandi. E deviazione nella deviazione è la nascita dell’amore tra Gregory Peck e Virginia Mayo e la raffigurazione che ne fa Walsh: l’attenzione interessata di Virginia Mayo nelle cure che presta al capitano e la malattia della Mayo (inquadrata con l’assenza di maquillage sul viso). Come ha scritto Biette: «Questa nascita dell’amore nella promiscuità della malaria (presente, certo, nella sceneggiatura, ma che poteva essere edulcorata) fa meglio risaltare questa convinzione che Walsh ha potuto esprimere in alcuni dei suoi film meglio riusciti: che l’amore sia più forte delle convenzioni sociali, non è che un’altra convenzione, una convenzione dello spettacolo che si è obbligati a rispettare, un punto finale al quale occorre spesso arrivare»41. «Sia accolto in un vetro il suo respiro/È questo il volere degli amanti […] Ah! come è netta la loro avventura/Che passa e dura mille anni/Ma all’alba ridente del sangue/Senza memoria può raccontarsi/Basta amare per crederlo»42. Un altro détour è Fulminati (Manpower, 1941): Marlene Dietrich, femme fatale che, alla fine, si riscatta innamorandosi di Johnny dopo aver sedotto “Pop” e Hank. La deviazione è fulminazione. Passione accecante, senza briglie: le imbracature usate dagli operai dell’elettricità non offrono alcuna garanzia contro la caduta. È la passione che contrassegna molti noir degli anni Quaranta. Passione fulminante, raccontata attraverso un’arte della visione che offre immagini di grande intensità e suggestione, dove gli elementi (l’acqua anzitutto, quella dei corsi e della pioggia, e poi la terra, il fango) richiamano e duplicano – come fossero un’eco o una rima – le forze della passione amorosa. Il primo bacio, appassionato e colpevole, tra Marlene e George Raft (Johnny) nella baracca di legno, debole riparo chiuso alla violenza del temporale che fuori scatena la sua furia sfidando l’energia e la forza degli uomini (gli operai al lavoro per

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Cfr. Jean-Claude Biette, Poétique des auteurs, cit., p. 114. René Char, Le vicinanze di Van Gogh, Milano, Se, 1987, p. 39.

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riassettare un traliccio dell’elettricità); un bacio interrotto e al tempo stesso marcato dall’apertura improvvisa e brusca della porta, sfondata dalla violenza del vento, la violenza della passione che turbina, come turbinava in una delle primissime sequenze Edward G. Robinson (Hank), nella sala da ballo, ambientalità del tutto eterogenea rispetto a quella mostrata nelle prime due sequenze del film: la luce d’acciaio della Tecnica e l’efficacia della catena della Decisione con cui l’uomo accoglie la sfida della Natura (che con un fulmine, di notte, ha messo fuori uso un traliccio). Walsh, dopo la prima sequenza d’apertura che mostra l’assetto razionale e pacificato della società, guarda attraverso le incrinature di questo mondo, fessura con il suo occhio i fondali patinati (la Natura ridotta ormai a oggetto isolabile, utilizzabile, manipolabile: il fondo heideggeriano) aprendo sulla dimensione del non-riconciliato, sulla distruzione, sulla folgorazione che consuma: da un lato il fulmine che incendia l’assetto funzionale dell’impianto razionale che struttura l’assetto della società ben ordinata e dall’altro la passione che lega e fa saettare Marlene, Raft e Robinson in una ronde tragica. L’amore, dunque, in Fulminati non può essere l’esito di una negoziazione ma è Natura, il risultato di un processo contraddittorio, di una distruzione, di un’oscurità, di una sfida, di una salvezza che si dà solo là dove c’è pericolo: il duello sui tralicci della luce elettrica tra gorge Raft e Edward G. Robinson, sul filo della tensione, sul limitare tra amicizia e odio, vita e morte. Johnny e Hank, presi a schiaffi dalla pioggia, rovesciano il senso delle prime inquadrature del film e il traliccio (la Tecnica) diventa il loro supporto, il terreno di scontro delle passioni, il supporto della Natura (la passione) che, tragicamente, si riprende così il suo primato. Il bacio e il duello di Fulminati sono fuochi d’azione tipicamente walshiani che segnano tanti suoi capolavori, dove gli elementi della natura, il décor e la direzione-recitazione degli attori, concorrono insieme a configurare emotivamente una situazione anche a spese dell’azione, a conferire all’immagine una determinata tonalità anche sonora che la sgancia e slancia aldilà dell’episodio narrato e della sua collocazione nella sceneggiatura. Come nella scena del duello tra Rock Hudson e Lee Van Cleef in Il diario di un condannato, drammatizzato dall’urlo del vento che solleva banchi di polvere e provoca il turbinare delle foglie, dal cigolio delle insegne e dal rumore delle ante che sbattono (molto prima e molto meglio dei duelli teatralizzati di Sergio Leone); o nella sublime scena dell’uragano in Banda degli angeli (Band of Angels, 1957) voluta da Walsh per «intensifi56

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care l’azione» e «mostrarne la tensione»43, quando i due vecchi marinai bevono rum in giardino e rievocano i tempi andati richiamando episodi del passato, incubi, ricordi, che passato che ancora sanguinano e scatenano le forze degli elementi, il vento e la pioggia, che soffiando e urlando, raddoppiano il dolore e la violenza di quelle ferite, di quegli incubi che gonfiano e slabbrano il presente, scuotendolo dalla sua supposta puntualità, irrompendo per perturbare, incrinare la conciliazione (o, peggio, la rimozione): una scena bella e terribile, sconvolgente, anche grazie alla fotografia di Lucien Ballard. Détour circolare è invece quello di I ruggenti anni Venti 44 (The Roaring Twenties, 1939), il primo film di Walsh girato per la Warner che chiude la produzione walshiana degli anni Trenta45, peraltro ancora oggi poco conosciuta, anche se, come osserva Paolo Bachmann, si tratta di «un periodo di transizione, nel corso del quale Walsh si è venuto sganciando dal modo di procedere maturato durante il periodo del muto senza tuttavia

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Raoul Walsh, Filmographie commentée, in «Cahiers du Cinéma», 154, avril 1964, p. 32. Cfr. Paolo Bachmann, Raoul Walsh, cit., pp. 62-63. Importante è il passaggio di Walsh dalla Paramount alla Warner, dove Walsh «trova un’organizzazione più efficiente, un ambiente più collaborativo, dei soggetti meno banali e dei budget più cospicui». Cfr. ivi, p. 62. Alla Warner Walsh lavora ininterrottamente (se si eccettua il solo La belva umana del 1940) dal 1939 al 1951, girando 26 film (in seguito girerà ancora altri film per la Warner). In questo periodo Walsh si avvale di una formidabile squadra di tecnici e collaboratori tra cui i futuri registi Byron Haskin (agli effetti speciali), Don Siegel (come maestro d’azione) e Christian Nyby (al montaggio); i produttori Hal B. Wallis, Mark Hellinger e Jerry Wald (questi ultimi due anche soggettisti e sceneggiatori); Franx Waxman, Adolph Deutsch e soprattutto Max Steiner per le musiche; Sid Hickox e James Wong Howe come direttori della fotografia; e poi, ovviamente, le star della Warner: James Cagney (4 film), Humprey Bogart (4 film), Errol Flynn (7 film), ma anche Virginia Mayo (4 film), Ida Lupino (3 film alla Warner), George Raft (3 film alla Warner) e il caratterista Alan Hale (7 film). Altri collaboratori stretti di Walsh saranno, negli anni, lo sceneggiatore John Twist e, negli anni Cinquanta, il direttore della fotografia Lucien Ballard. 45 Sono gli anni in cui Walsh passa dalla Fox alla Paramount, il cui responsabile della produzione era Ernst Lubitsch. Il rapporto con la Paramount inizia nel 1935 proprio con una commedia musicale, Every Night at Eight interpretata da George Raft, che prima di diventare uno dei gangster più noti dei film degli anni Trenta fu un ballerino (se ne ricorderà Jerry Lewis in L’idolo delle donne-The Ladies Man, 1961, in cui duetta in un movimento di danza che fa mondo proprio con George Raft). Seguiranno altri 6 film realizzati per la Paramount tra il 1936 e il 1939, di cui ben 4 sono commedie musicali: Artists and Models del 1937 che segna l’incontro tra Walsh e Ida Lupino con cui girerà altri tre film, College Swing del 1938, St. Louis Blues del 1939 e soprattutto Annie del Klondike (Klondike Annie) girato nel 1936 e interpretato-ideato da Mae West. 44

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trovare una diversa soluzione equilibratrice»46. Film che «riveste un’importanza seminale nell’opera del suo autore», per il «livello di espressività», per il «trattamento del modello drammatico che oppone due coppie di personaggi», per «l’incontro con James Cagney», nonché per «il motivo dell’innocenza perduta, riscattabile soltanto per mezzo del supremo sacrificio della vita» che si riaffaccerà anche in Una pallottola per Roy. Il primo film walshiano con Cagney è un film-manifesto degli anni Warner, impreziosito e (s)marcato da angolazioni insolite, soluzioni fantasiose se non fantastiche, dissolvenze e sovrimpressioni vorticose, che insieme determinano un ritmo del racconto filmico tutto speciale: il ritmo walshiano. Film che se non inaugura sicuramente sviluppa un percorso espressivo che annoda personaggio e paesaggio: «il paesaggio varia con il tragitto dei personaggi» e «risponde alla presenza umana, s’organizza come un ambiente variabile dove non cessano di sorgere delle forme» e «la caméra accompagna il tragitto per seguire meglio l’adattamento dell’eroe alla natura che lo circonda»47. I ruggenti anni Venti si apre e chiude con due sequenze complementari che in un gioco di rima – tipico del classicismo americano – si richiamano l’un l’altra, anche se la seconda integra e completa, anzi ri-leva (sopprime e riscatta) la prima. All’inizio del film, dopo il gioco delle sovrimpressioni, utilizzato per condensare narrativamente due decenni di storia e tornare così dal 1939 alla Prima guerra mondiale, Walsh inquadra in primo piano James Cagney faccia terra e poi lo segue nella sua corsa: Cagney sembra slanciato verso il pericolo, la morte e chissà anche la gloria forse. Senonché, dopo alcuni pochi passi, Cagney cade, casca in una fossa, un cratere aperto dal lancio delle granate. Casca sulla testa di Humphrey Bogart che sta per fumarsi una sigaretta, mentre sopra la battaglia imperversa. Lanciato nella sua corsa della morte lungo il sentiero della gloria Cagney precipita nella fossa degli imboscati. Cagney, da subito, è inabissato a gorgo in una voragine, e questa via via diventerà più profonda, una dannazione, una caduta, una volta tornato a casa, dove perderà il lavoro e l’innocenza: la pace, diceva Foucault, è la continuazione 46 Paolo Bachmann, Raoul Walsh, cit., p. 54. Anche lo studioso americano (di Ford e Rossellini tra gli altri) Tag Gallagher nel suo già citato profilo pubblicato on-line su «Senses of Cinema», osserva che gli anni Trenta furono decisamente nocivi per Walsh. E, in ogni modo, anche negli Stati Uniti non sono reperibili dvd, né vhs di film di questo periodo. 47 Thuriau Logaëdeic, Épars pour un éloge, in «Positif», 483, avril 2001, p. 78.

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della guerra con altri mezzi. Nel finale del film, invece, Eddie Bartlett (Cagney) si rialza. Ha appena ucciso il viscido George Hally (Bogart). Ma è stato ferito. Eddie corre ancora una volta, corre fuori per la strada, come correva all’inizio del film. Questa volta la sua è sì una corsa della morte, corsa esangue, pesante e mortale. Eddie barcolla ma ha la forza di salire le scale di una chiesa (come ha avuto l’energia di scalare, anche se criminosamente, la vita nei ruggenti anni Venti). Barcolla sui gradini, si tiene in equilibrio precario, per pochissimi istanti (tanto è durata la sua ascesa), poi cede, cade (e infatti Eddie aveva già perduto, soldi e potere, per stritolarsi nell’alcol). Eddie, infine, muore, tra le braccia di “Panama” (Gladys George). L’ultima caduta tuttavia è un’ascesa, si oppone alla prima. È un movimento di riscatto, non di perdizione. Eddie ha perso tutto, anche la vita, ma ha ritrovato il suo carattere sottraendosi al destino. Un gesto, un movimento che Walsh racconta e mostra plasticamente, attraverso una figura che evoca la Pietà di Michelagelo48 (cfr. fotogrammi 1-14). Circolare – o quasi – è anche il dispositivo imprevisto che all’inizio di La strada dell’eternità (Glory Alley, 1952) inspiegabilmente sbatte giù dal ring, nel suo incontro più importante, il pugile Socks Barbarrosa (Ralph Meeker), abbacinato dalle luci del ring e colpito, ferito nel profondo (della memoria) da una voce che riapre lo squarcio (i cinquanta punti sulla testa), un po’ come accadeva in Sabbie rosse con la canzonetta di Walter Brennan. Barbarrosa scappa, salta giù prima ancora di iniziare l’incontro – anche se poi, una volta svuotatosi il palazzetto, stenderà al tappeto l’avversario. I fantasmi del passato rimontano e ne reclamano il corpo. La soggettività, nei film di Walsh, si riscatta e rigenera nel tormento e nella prova, nel cambiamento. Non è mai tutta d’un pezzo. «È come il diamante. Può sembrare perfetto, ci picchi dentro con il martello con tutta la forza ma non si rompe. Ma un giorno, per un urto da nulla, va in

48 Durante un festival del cinema qualcuno chiese a Walsh perché Cagney, nel finale di I ruggenti anni Venti, ci impiegava così tanto tempo a morire. Walsh, nel documentario di Richard Schickel, rispose così: «È sempre difficile uccidere un attore!». Specialmente James Cagney che secondo Walsh era oltre che un magnifico attore anche un grande come uomo. «Un tipo molto tranquillo. Si sedeva a osservare le scene che giravo con gli altri attori e mi diceva cose del tipo “Questa era davvero bella”. Con gli anni siamo diventati molto amici. Aveva una paura terribile di volare. Credo fosse l’unica cosa di cui avesse paura al mondo».

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pezzi, se ha un difetto, un difetto che non si vede», come si dice in un dialogo di La strada dell’eternità. Il difetto è la cicatrice di Barbarrosa riaperta, appunto, da un urto da nulla. Ma la cicatrice è anche la vita, perché la vita ha luogo nella spaccatura, nel passaggio dall’uno all’altro, nel noncompimento, nella ferita, quella aperta dallo scemo del villaggio nel ventre di Lucius Hunt (Joaquin Phoenix) in The Village (Id., 2004) di M. Night Shyamalan. Il difetto è il corpo ferito, incrinato, non-compiuto nell’apertura (all’altro), è il volto sfigurato di Robert Young in Il villino incantato (The Enchanted Cottage, 1945) il capolavoro di John Cromwell o la ferita da fuoco nella gamba di Jonh Wayne in Soldati a cavallo (The Horse Soldiers, 1959) di John Ford. Barbarrosa allora fugge, non può che fuggire, si perde e danna, devia perché sconvolto dalla rivelazione della sua debolezza, della sua ferita. Poi però si riscatta e rigenera, ritorna non all’uguale, ma differentemente, aperto finalmente all’altro nella sua vulnerabilità. Soltanto affrontando se stesso e l’altro nella sua costitutiva debolezza o mancanza (la cicatrice), Barbarrosa vince, non perché conquisti il titolo mondiale ma in quanto ritrova la via, «come nell’albero intaccato che, proprio attraverso la sua ferita, libera una linfa balsamica»49. La strada dell’eternità o il sentiero della gloria in Walsh non è mai il ritorno all’Uno, già-da-sempre disseminato nel Molteplice, ma il ritorno della differenza, come in Ford o Rivette. L’Uno walshiano è il polemos eracliteo, la differenza, la conflittualità. Détour paradigmatico quello di Jean Picard (Errol Flynn) in Tre giorni di gloria (Uncertain Glory, 1944), che si costituisce, nel passionale (l’amore per Marianne) e nel sociale (la lotta antinazista), come io oltrepassando la datità della sua mente, della sua attualità di criminale, cui è stato condannato dalla società e anzitutto dal suo antagonista, il poliziotto Marcel Bonet (Paul Lukas), rappresentante – all’inizio, prima del suo crollo senso-motorio – di un atteggiamento positivista, che si illude di signoreggiare sul mondo, di classificare e catalogare, in ultima analisi, di ri(con)durre l’irriducibilità dell’alterità entro i canoni dell’identità, del dovere e di ciò che la società si attende dagli altri e chiede agli altri: poliziotti e criminali, sabotatori e sacerdoti, bottegai e nazisti. Il poliziotto è assai soddisfatto di sé, installato nelle sue certezze, come l’ufficiale sanitario

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Hugo von Hoffmansthal, La torre, Milano, Adelphi, 1993, p. 54.

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di Il volto (Ansiktet, 1958) di Ingmar Bergman, detesta e lotta, anzitutto, contro l’inspiegabile, il mistero, l’alterità dell’altro, il perturbante: «Io l’ho studiato a fondo questo Jean Picard. Non c’è niente di Picard che io non sappia, niente. Le sue abitudini, le sue conoscenze, anche i pensieri. E tutte queste cose sono catalogate qui [Bonet indica la testa, la sua mente]: ABC, questo è il metodo-Bonet». Il poliziotto è la legislazione della coscienza, della mente, che passa al lanciafiamme l’altro, ciò che è altro dalla mente, dalla legislazione della mente. Una logica pura, dell’Identità, a due sole tavole: lo statuto del rivelato attraverso i giudizi e quello del dissimulato attraverso i pregiudizi; logica che esclude il terzo, l’aldilà, il trascendente e riduce l’Altro al Medesimo, la cui conoscenza «consiste nel cogliere l’individuo che soltanto esiste, non nella sua singolarità che non conta, ma nella sua generalità, di cui solamente si dà scienza»50. Ma questa logica della mente, in cui «si dissolve l’alterità dell’altro» e che tematizza e oggettivizza la sua «singolarità» per captarlo «in una rete di idee a priori»51, è suo malgrado costretta a fare ricorso al mondo che si illude o finge di escludere o rimuovere: il poliziotto – che già-sa tutto di Picard, che lo ha già-generalizzato – ha bisogno del tradimento del complice di Picard per arrestarlo una seconda volta, dopo la fuga. La logica generale che il poliziotto usa come filo conduttore e base preliminare della sua indagine si serve di nozioni di origine esterna alla sua mente, trascendenti, principi che influenzano la sua mente, extra-mentali. C’è un irriducibile che sfugge al pensiero puro, questo irriducibile è il sensibile, il pensiero sensibile, che è la potenza indeterminata del pensiero, dell’arricchimento spirituale, la riserva di possibili che gonfia il corpo di Picard e lo slancia verso la gloria. Ancora una volta Walsh mette in scena un détour, un itinerario obliquo, di continuità e di imprevedibilità, di movimenti di macchina e di pulsioni, d’azione spirituale, giacché quella dell’intreccio al confronto è quasi statica, immobile. Il ritmo, questa volta, si esprime esclusivamente attraverso un montaggio di affezioni in questo Tre giorni di gloria, ritmo che, come sempre in Walsh, è il soffio dell’alternarsi e del divenire. È come se Walsh avesse voluto averne riguardo, rispetto di questo itinerario bresso-

50 Emmanuel Lévinas, La filosofia e l’idea dell’infinito, in La traccia dell’altro. Scorciatoie, Napoli, Pironti, 1985, p. 9. 51 Ibidem.

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niano di rinascita, di questo mistero pascaliano, il mistero dell’io, dell’altro, della traccia dell’altro, dell’esistenza, così da non deviare l’attenzione dello spettatore, né la tensione dei corpi gloriosi chiamati dall’azione (della Storia, cioè il sociale e il passionale) a rinnovarsi attraverso un fondo di virtualità, una folgorazione, una conversione neppure mostrata né, tantomeno, didascalizzata. Se il complice traditore di Picard, che lo consegna alla polizia, è inghiottito nel nero di una dissolvenza per sparire dal film – e dalla Storia – Picard, invece, riappare dopo una notte di fuga per iniettare la luce della speranza, dopo una notte di crisi, di choc, di mistero infine: «la sua presenza consiste nel venire verso di noi, nel fare ingresso»52. Poiché è proprio il mistero, drammatico certo, dell’esistenza ciò che Walsh racconta (con un linguaggio a tratti noir) in questo film anomalo, ambiguo. Un film sulla verità e sulla sua irriducibilità. Sulla genesi di costituzione di un io che alla mente – e alle sue abitudini – concatena un processo di soggettivazione, nel fuoco della guerra, della crisi, in virtù di un dispositivo narrativo tipico di Walsh: la scalfittura, la deviazione, l’irruzione del mondo e della sua alterità. Un film sulla virtualità: la soggettività si costituisce nella mente per effetto di principi che l’influenzano: il passionale e il sociale, senza ridursi, tuttavia, al sociologico. Il mistero, l’ambiguità (perché l’ha fatto Picard? perché ha sacrificato la sua vita quando poteva fuggire?) resistono e ne è segno la trasformazione del poliziotto (anche nella sua postura), la sua malattia, il crollo delle sue evidenze o supposte tali, il suo scuotimento e la sua deviazione – poiché anche lui ha dovuto deviare dal comfort del dovere e da ciò che ci si attendeva da lui. Sia il criminale che il poliziotto trovano il superamento nelle strutture, nelle dimensioni (di senso) del fuori, di quel fuori che irrompe e determina l’uno (il poliziotto) alla rottura con i suoi schematismi pregiudiziali e totalizzanti, con la sua filosofia del mobilio, e l’altro (il criminale) alla gloria. Una gloria ambigua – uncertain glory – ma ad altezza di morte. Proprio nel confronto con la morte, che lo incalza dalle prime immagini – quando in una dissolvenza incrociata (che collega la ghigliottina installata nel cortile della prigione a Picard chiuso nella sua cella) Walsh taglia anticipatamente la testa a Flynn (cfr. fotogrammi 15-22) – Picard abbandona pascalianamente il divertissement, il gioco della mondanità, per misurarsi con il mistero e la drammaticità dell’esistenza senza

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Ivi, p. 34.

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peraltro – come Walsh (e Pascal) – tentare una spiegazione pacificante e sistematica. Il poliziotto, ormai, riconosce il suo disagio, non sa – come sapeva o supponeva di sapere all’inizio del film – non sa più, non sa il senso, l’origine, il movente di quel gesto così sorprendente, né lo sa Picard: «No, non lo so. C’ho pensato molto, ma non lo so». Inquadrato da Walsh in un primo piano (e questo è anche un film di volti e primi piani) che in cui vibra la nuova postura di Picard, rientrato nella misura dopo l’allegrezza guascona, da bucaniere, lo slancio dell’enfasi iniziale, spogliato nel Ritmo dell’azione del conflitto, riconciliato con il mondo: il poliziotto si rivela nella sua fragilità e nudità e Picard assume una levità, una calma, una profondità che il primo piano walshiano sa rappresentare con rigore, restituendo la grazia del volto di Flynn-Picard. Il volto, l’irriducibile per eccellenza in Dreyer, in Bergman, in Cassavetes e in Griffith e Ejzensˇtejn, il volto di Picard è un’epifania, una visitazione: «La sua presenza consiste nello spogliarsi della forma che pure lo manifesta», la forma del ladro o dell’assassino, la forma del patriota, la forma dell’altro che occorre ridurre al medesimo: «La sua manifestazione eccede l’inevitabile paralisi della manifestazione»53. Neppure Picard, quindi, lo sa, né può saperlo, neppure lui che quel gesto compie – o che da quel gesto è compiuto, oltrepassato e, al tempo stesso, protetto nella sua singolarità, nel suo mistero. Il mistero non è tolto, la singolarità non è ricondotta all’universale: Picard non si scopre un patriota, come afferma nell’happy end patriottico imposto dal codice dell’assignements in tempo di guerra, questo è solo un altro filtro mentale, un’altra paralisi della manifestazione, sebbene questa volta lo stesso Bonet sia consapevole della finzione riduttiva e violenta di questo schema: «I suoi sentimenti nei miei riguardi, come l’opinione che egli può avere di me, sono ciò che io ignoro, come ignoro di lui ciò che non si può vedere né ascoltare»54. Picard non è un patriota, non rientra come momento di un ordine universale, sociale o politico; resiste a qualsiasia categoria (inclusa quella del patriota), resiste e sconcerta chiunque voglia prenderlo di mira, inquadrarlo e, più profondamente, non può sottrarsi alla responsabilità, alla messa in questione che di lui fa l’altro. Scrive Lévinas: Quell’eccesso di essere, quell’esagerazione che si chiama “essere io”, quell’emergenza dell’ipseità nell’essere si compie come una turgescenza della responsabilità. La 53 54

Ibidem. Paul Valery, Monsieur Teste, Milano, Se, 1994, p. 38.

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mia messa in questione ad opera dell’Altro mi rende solidale con Altri in un modo incomparabile ed unico. Non solidale come la materia è solidale con il blocco di cui fa parte, né come un organo è solidale con l’organismo di cui è funzione: qui la solidarietà è responsabile, come se tutto l’edificio della creazione si reggesse sulle mie spalle. L’unicità dell’Io è il fatto che nessuno può rispondere al posto mio55.

La morte è questa misura, questo banco di prova, questo choc, questa avventura impossibile (dell’io), questo possibile dell’impossibile. La morte che invade il villaggio con il sabotaggio che fa saltare per aria un ponte e cento soldati tedeschi, la morte annunciata di cento innocenti come rappresaglia, la morte di Picard destinato alla ghigliottina e salvato da un bombardamento, la morte inscenata con la complicità del poliziotto, la morte per linciaggio degli abitanti del paese a cui si sottrae grazie a una donna di cui si innamora e, infine, la morte a cui sarà, di certo (o forse no?), destinato dai nazisti una volta costituitosi per salvare la vita di quelle cento persone. La morte – ciò che è più proprio dell’uomo – devia l’azione dello spirito di Picard e gonfia la sua vita, il suo gusto di vita (peraltro già, a livello animale, sviluppato: Picard è un soggetto invasato e scapestrato, disinvolto, come Errol Flynn), ma non quello dei bravi cittadini borghesi del paese che invece non si rivelano capaci di scatto, di sciogliere i legami più stretti per aprirsi al Fuori, quegli individui atomizzati che – a differenza di Picard – sono stimati buoni cittadini e buoni cristiani ma che, tuttavia, non discriminano tra guerra e pace, consumando la loro esistenza nella luce opaca e livida, piatta, del calcolo, della chiusura (al Fuori). Le tracce dell’altro, le tracce di Picard che Bonet aveva già anticipato con la sua semiologia poliziesca, non sono soltanto segni da sistemarsi in un ordine: Picard si destina alla gloria, in questo gioco al rialzo, perché non lascia tracce, perché non soddisfa alcun bisogno, né gode di qualche risultato, cambia identità, si cancella e solo questo cancellamento resta, questa traccia: «Chi ha lasciato delle tracce cancellando le proprie tracce, non ha voluto né dire né fare niente con le tracce che lascia. Ha scompigliato l’ordine in maniera irreparabile»56. La verità è un problema, l’uomo è un problema, così le sue avversità. Un problema anche e soprattutto per la Ragione (quella positivista del

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Emmanuel Lévinas, La traccia dell’altro, cit., p. 37. Ivi, p. 42.

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poliziotto e quella di calcolo per i bottegai). Questo problema è l’irriducibile di cui parlava proprio negli anni e nei luoghi in cui il film è girato e ambientato (gli anni dell’occupazione nazista e della lotta antinazista in Francia) un francese, Jean Cavaillès, filosofo (logico ed epistemologo), valoroso partigiano impegnato in azioni di sabotaggio (proprio come nel soggetto del film) imprigionato e fucilato dai nazisti nel 1944, l’anno di uscita di Tre giorni di gloria: «Qui abbiamo a che fare non soltanto con la coscienza ma con un mondo»57. C’è qualcosa che sfugge alla Ragione, alla logica, all’organon, alle sue manie, al suo potere, ai suoi schemi: il mistero dell’esistenza, della sua irreparabilità e delle sue deviazioni. È l’estraneità profonda dell’altro irriducibile alla rappresentazione, la singolarità: l’evocazione dell’alterità dell’altro e la critica della sua riduzione al medesimo fanno corpo con la difesa della soggettività nella sua unicità incomparabile. 2.5 Deviazione L’azione è deviazione, come in Tamburi lontani re-make/re-model di Obiettivo Burma girato in Florida nel lussureggiante e (per il western) anomalo scenario delle paludi degli Everglades58 e sceneggiato da Niven Busch, autore della sceneggiatura di Notte senza fine (Pursued, 1947). Già il viaggio iniziale del giovane ufficiale attraverso la giungla impenetrabile, oscura e rumorosa, per raggiungere il capitano Wyatt (Gary Cooper) è una deviazione, una penetrazione nel cuore di tenebra di un mondo altro, non-civilizzato, separato come l’alloggio del capitano Wyatt: separato dalla civilizzazione. Eroe scisso, ufficiale dell’esercito che, tuttavia, vive al di fuori di esso, su d’un isolotto circondato dalle acque del mare, protetto dalla civiltà e dai suoi disagi. Spazio altro che riceve la sua essenza dal fatto di essere un luogo sgomberato e liberato, in cui la capanna si accorda e dispone in quanto il costruire di Wyatt è già il suo abitare il mondo, il segno della sua relazione al mondo. Costruire così, cioè al di fuori dei canoni dell’architettura e della decenza imposti dalla civiltà, è abitare il mondo diversamente da come è abitato dal giovane ufficiale: abitare la

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Jean Cavaillès, Sulla logica e la teoria della scienza, Milano, Mimesis, 2006, p. 31. Cfr. Carlo Gaberscek, I sentieri del western. Dove il cinema ha creato il West, II, Gemona, La Cineteca del Friuli-Biblioteca dell’Immagine, 2000, pp. 161-162. 58

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distanza. Il punto nodale per il capitano Wyatt – in un’epoca già preoccupante59 – non è trovare alloggio o una sistemazione come si deve, in città, nei pressi di una boutique, di un locale alla moda o di un circolo letterario, ma soggiornare prendendosi cura delle cose senza esserne devoto, schiacciato. La crisi non è la mancanza di alloggi o buone sistemazioni ma il non saper soggiornare – nella palude come nella città. Tamburi lontani fin dall’inizio si costruisce come una concatenazione di avventure: dal viaggio strano e meraviglioso lungo il verde e brillante fiume in una terra selvaggia disseminata di coccodrilli e serpenti fino alla caratterizzazione del capitano Wyatt, dentro/fuori dell’esercito e della civiltà (soldato e vagabondo, gentiluomo e selvaggio). Scissione eccellentemente rappresentata dalla recitazione di Gary Cooper capace di esprimere e, al tempo stesso, trattenere, contenere, il tormento, l’inquietudine. E la deviazione più evidente è inscritta, aldilà del tortuoso percorso narrativo, proprio nell’atteggiamento disincantato di Wyatt nei riguardi della civiltà e delle sue opere, dai fortini militari al rasoio, cui si contrappone invece la devozione degli altri personaggi. È la sua salvezza, quella che cresce là dove c’è pericolo. Salvarsi, ancora una volta in Walsh, non è solo afferrare all’ultimo momento ciò che è minacciato dalla rovina, assicurandolo nella conservazione del suo essere precedente. Salvare dice di più. Kirk Douglas in Sabbie rosse, Mae West in Annie del Klondike, Clark Gable in Banda degli angeli, Alan Ladd in Le giubbe rosse del Saskatchewan, Rock Hudson in Il diario di un condannato o Gary Cooper in Tamburi lontani, si salvano perché salvarsi significa prendere e condurre l’essenza alla sua manifestazione, ri-soggettivarsi disvelando ciò che è nascosto, avvolto nel silenzio o invischiato nella devozione per ciò che essenziale non è, e portarlo alla luce. Il capitano Wyatt è un uomo d’azione ma sa mantenere la distanza e sospendere ogni ulteriore approdo, sa negarsi (ritirarsi presso il suo esilio) e sospendersi (sottrarsi alla secessione dal suo esercito). Ha la prontezza dell’uomo d’azione perché chiama in aiuto di una data situazione tutti i suoi ricordi (la sua esperienza) che ad essa si riferiscono eliminando i ricordi inutili, indifferenti alla situazione anche se dolorosi, come l’uccisione della moglie per mano di soldati dell’esercito americano. Tuttavia Wyatt non abita la sua esperienza, il suo spazio di esperienza, rinserrato

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Cfr. Martin Heidegger, Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, cit., pp. 30-32.

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in un puro presente, come accadeva al vice-sceriffo interpretato da Kirk Douglas in Sabbie rosse prima dell’attraversamento del deserto. Non è un essere impulsivo, né un sognatore ma, appunto, un uomo d’azione che ha senso pratico e buon senso: è adatto oltre che a sopravvivere (nella palude) anche a vivere (al di fuori della palude e delle sue violenze). Portare pesi e fardelli, buttare gli occhi e scaraventarli in avanscoperta per ipotecare il futuro con una cambiale del passato è fuori del senso pratico di Wyatt: lo spirito di vendetta o l’odio che animano il fare di Judy Beckett, la donna liberata da Wyatt nel fortino assalito con i suoi uomini, solo dall’amore (quello che nasce tra il capitano Wyatt e Judy Beckett), spinozianamente, può essere annullato. Fuori del senso pratico e del buon senso di Wyatt-Cooper che vive in un adesso, un presente non puntuale, non circoscrivibile, né puro – perché non si afferra come una mela o un martello – ma che tuttavia è attuale anche se slabbrato e gonfiato dall’attesa e dal ricordo, mangiato ai bordi dal passato che rimonta o si nega, e dal futuro che graffia o spaventa. È a questo disvelamento, a questo luogo dell’anima, che conduce l’itinerario avventuroso di Tamburi lontani, attraversamento di cui i soggetti non decidono l’inizio o la fine, né tantomeno il senso, sia questo la vendetta o l’ottusa devozione per le opere della civiltà. La direzione che si prende è ciò che fa senso, la direzione è il senso. Il rimpatrio di Wyatt, il suo ritorno (a casa, all’esercito, all’amore…), è l’allontanarsi per avvicinarsi, la ripartenza incessante, il rischio. E il dovere – come l’idea – è nelle cose stesse, non fuori di esse. È nel fare dove le cose sono prese, intra-prese nel fare che prende il suo senso non preventivamente ma nel corso dell’azione 60: il fare. Fare ciò che si deve fare ma solo perché lo si fa. È, se si vuole, l’istante banale (il presente attuale) di cui parla Carlos Williams: «L’istante banale/così com’è/è tutto ciò che possediamo/a meno che – a meno che/le cose di cui si nutre l’immaginazione,/il profumo d’una rosa,/non tornino a farci trasalire»61. Perché in fondo, come diceva Eliot, «il tempo passato/e il tempo futuro, ciò/che avrebbe potuto essere e ciò che è stato/mirano a un solo fine, che è sempre presente»62, il presente attuale del capitano Wyatt, libero dalla maledizione del passato: essere 60

Cfr. Henri Bergson, Materia e memoria, cit., pp. 127-128. William Carlos Williams, Ombre, in Viaggio verso l’amore, in Immagini da Bruegel e altre poesie, Parma, Guanda, 1987, p. 147. 62 Thomas S. Eliot, Quattro quartetti, in La terra desolata-Quattro quartetti, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 97. 61

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liberi o «essere consapevoli è non essere nel tempo/ma solo nel tempo il momento»63, ma «non il momento intenso/isolato, senza prima né poi/ma una vita che brucia in ogni momento»64, come quella del capitano Wyatt. Il cinema di Walsh è un concatenamento e riconcatenamento di momenti e istanti che fanno trasalire e sobbalzare. 2.6 Geo-topografia dell’azione: bizzarie e scossoni. Ancora sulla deviazione L’azione è il mondo nel suo farsi. L’azione è imprevedibilità, stravaganza, bizzaria. È il caso di un film curioso come La bionda e lo sceriffo (The Sheriff of Fractured Jaw, 1958) dove un inglese in viaggio verso il selvaggio West nel fuoco di un assalto indiano sbaraglia i pellerossa: prima disarma il capo indiano con un ombrello e dopo gli stringe la mano sanzionando la pace. E questo sotto gli occhi sgranati dei suoi compagni di viaggio: è l’imprevisto. Imprevedibilità: quando l’inglese nel campo indiano in una sfida di abilità anziché afferrare gli anelli di ferro conficcati nel terreno in sella al cavallo li raccoglie trascinato dal cavallo al quale è attaccato per la coda. L’esito in entrambi i casi è quello atteso ma in modo inatteso, conquistato attraverso una deviazione che poi, in Walsh, è il risultato più importante. Tutto il film, del resto, è una deviazione, una parodia dei suoi western dirà Walsh, la messa in scena di un mondo bizzarro in cui uno sceriffo inglese (!), per scelta disarmato e, come se non bastasse, incapace di sparare (!), è salvato prima da una donna bionda e mozzafiato (Jayne Mansfield) e dopo dagli indiani. Un mondo bizzarro e a rovescio. La deviazione è questa parodia, questi rovesciamenti sovversivi di La bionda e lo sceriffo, girato in Spagna con capitali inglesi – un sintomo della crisi del genere western e del classicismo, nonché degli ideali che ne sorreggevano la struttura e lo slancio65. Parodia, sintomatologia di una crisi, ma anche l’ennesimo piccolo capolavoro dell’ironia walshiana e delle sue configurazioni bizzarre. L’azione narrativa nel cinema di Walsh s’inscrive nell’ambiente geotopografico ed è determinata e rideterminata dagli scossoni emotivi, dalle

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Ivi, p. 99. Ivi, p. 123. 65 Cfr. Paolo Bachmann, Raoul Walsh, cit., p. 118. 64

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scelte, dalle virate – meditate o repentine – come accade esemplarmente in Le giubbe rosse del Saskatchewan, eccellente dispositivo walshiano. Girato in Technicolor e prodotto dalla Universal, Le giubbe rosse del Saskatchewan si apre con un bellissimo e lento (dura poco meno di cento secondi) movimento di macchina. È una panoramica semi-circolare da sinistra verso destra, simile a quella che apre, da destra verso sinistra, un altro western di quegli anni, Il suo onore gridava vendetta (Gun Fury, 1953). Western minore prodotto dalla Columbia, Il suo onore gridava vendetta, è tipicamente walshiano nel cortocircuito deviazione/trasformazione del sé comodamente installato nel fragile recinto delle sue certezze e saggio topo-geografico attraverso cui Walsh di-segna eccellentemente una spazialità caretteristicamente western, costituita dalle peculiari formazioni rocciose di Sedona, nell’Arizona, dove Walsh aveva già girato altri due western, Notte di bivacco (Cheyenne, 1947) e, parzialmente, anche Gli amanti della città sepolta (Colorado Territory, 1949). Il suo onore gridava vendetta, con Rock Hudson, è tipicamente walshiano anche nel suo svilupparsi in quanto racconto fiabesco, nel suo essere un dispositivo astratto, cioè una concatenazione di funzioni o tipi standardizzati d’azione: la privazione (il rapimento della promessa sposa), l’allontanamento (dal luogo di destinazione, prima la chiesa e poi il ranch californiano), il viaggio inteso sia come tragitto fisico che come itinerario psicologico. Rock Hudson enuncia che, dopo aver consumato cinque anni della sua vita in una guerra insensata (la Guerra Civile), intende restarsene appartato e badare ai fatti suoi. Ma nel corso del viaggio, della ricerca e della prova, maturerà invece una diversa coscienza di sé e infrangerà così questa filosofia del mobilio piccolo-borghese radicata nello spazio dell’intérieur, come scriveva Benjamin66. Il viaggio e la prova, si concluderanno nella rimozione della privazione e nel ritorno verso il ranch (il castello della fiaba): racconto astratto, avventura concreta. Infine, tipicamente walshiano, questo western lo è nelle sue stupende inquadrature in esterni, nei suoi campi lunghi di respiro e grande cielo, nelle sue panoramiche travellings, a disegnare un stupendo spazio selvaggio. Anche l’economia (più complessa) del sistema narrativo di Le giubbe rosse del Saskatchewan si articola su questa alternanza di intreccio di pre-

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Nella riflessione filosofica di Benjamin l’intérieur è connesso al comfort. Cfr. nota 106.

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destinazione e frase ermeneutica, programma e anti-programma, come diceva Barthes, cioè su questo gioco che conduce al disvelamento finale per mezzo di rallentamenti, differimenti e deviazioni. La prima immagine del film, l’inizio della panoramica, è delimitata sulla sinistra da un grande albero e sulla destra da uno sperone roccioso. Nel mezzo la fessura del cielo. Inquadratura composita, di grande bellezza e lirismo: d’altronde questo film è senza dubbio uno dei più colorati e vivaci sotto il profilo squisitamente visivo, «è uno dei film visualmente più attraenti del suo autore»67. Il movimento di macchina continua senza stacchi sull’asse orizzontale scoprendo via via un paesaggio scosceso, delle montagne, un lago, una foresta. Poi la macchina da presa si abbassa sempre lentamente sull’asse verticale, fino a rivelare due figure d’uomo: Thomas O’Rourke (Alan Ladd) e Cajou (Jay Silverheels), uno bianco e l’altro indiano. Amici, fratelli. È un movimento di macchina straordinario e intenso, evocativo e denso. Come le panoramiche stratigrafiche ed epiche degli Straub (da Fortini/Cani, 1976, a Sicilia!, 1998-99)68 anche questa di Walsh è carica di storia, e segnatamente del conflitto tra la violenza calcolante e razionalistica dell’umanità, inchiodata in uno stato di minorità – effetto del dominio del capitale – e la possenza e la monumentalità della natura. Così anche la panoramica che apre Gli implacabili (The Tall Men, 1955) e che inscrive i soggetti nella storia e nel dolore, nella lotta e nelle passioni, e ri-prende (perché già-presa) la natura, la cui bellezza è aldilà della morale o della violenza umana, in cui s’inscrive la presenza dell’uomo (i due cavalieri) e della violenza con cui l’umanità apre il cammino della civiltà: il controcampo dove si vede un uomo impiccato ad un albero, dietro al quale si apre un paesaggio sterminato (cfr. fotogrammi 23-26). O, ancora, la sconvolgente panoramica sulle mesas possenti e in-differenti nei pressi di Gallup (nel New Mexico) che apre Gli amanti della città sepolta. La panoramica che apre Le giubbe rosse del Saskacthewan rivela non solo la bellezza della natura che mozza il fiato (il film è girato nel Banff National Park, nella regione delle Montagne Rocciose canadesi69), le sue potenze, ma anche un paesaggio 67

Paolo Bachmann, Raoul Walsh, cit., p. 91. Mi trovo confortato in questo paragone apparentemente azzardato (Walsh/Straub), anche da alcune brevi ma, come sempre, densissime riflessioni di Jean-Claude Biette sul plan di Straub e Walsh che Biette cita insieme, in particolare Rapporti di classe (Klassenverhälthnisse, 1983) e Le avventure del capitano Hornblower, poiché in entrambi i cineasti c’è «una stessa idea di cinema». Cfr. Jean-Claude Biette, Poétique des auteurs, cit. p. 113). 69 Cfr. Carlo Gaberscek, I sentieri del western. Dove il cinema ha creato il West, II, cit., pp. 164-165. 68

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umano, un rilievo storico, un profilo disegnato, violentato e sconvolto dalle lotte degli uomini. Questo dissidio tra natura e cultura è anche l’immagine terribile che Walsh filma in L’ostaggio (Northern Pursuit, 1943) dove i ghiacci immacolati del Canada si spezzano, rotti dall’irruzione violenta e notturna di un sottomarino da guerra tedesco, e le sue vergini nevi bianche si macchiano, imbrattate di sangue e brutali ammazzamenti, e si incendiano nell’esplosione del bombardiere nazista fatto schiantare a terra da Errol Flynn che, anche in questo film, ha la tendenza a trascurare i comandi e a fare di testa sua – o a perderla! Il quadro iniziale filmato in Le giubbe rosse del Saskatchewan è armonioso, equilibrato e disteso. I personaggi sono inquadrati in un ambiente possente ma che non presenta alcuna ostilità: vi sono inseriti senza artificio o forzatura. E la loro amicizia rafforza e completa l’immagine di pace e calma. Non ci sono pesi o incombenze, né contrasti o sfide, solo giochi di abilità: il tiro al bersaglio o la corsa a cavallo. Il cielo dove si lancia l’indiano nella corsa a cavallo, il lago verso cui si dirige invece Alan Ladd per battere l’amico fraterno e la cascata che appare con una dissolvenza incrociata, esempio pregevole del talento narrativo e visivo di Walsh, nei cui pressi si conclude la gara vinta da O’Rourke, costituiscono lo sfondo in cui prende corpo e si svolge l’amicizia tra i due uomini. Tuttavia il pericolo incombe. Sulla via del ritorno, in una radura trovano alcuni carri fatti a pezzi, ancora fumanti. La radura è un luogo dove rifugiarsi e passeggiare, riposare e meditare ma è anche un buon posto per eseguire un assalto. I due si avvicinano. Esplodono alcuni colpi di pistola. Qualcuno spara nascosto sotto una coperta. O’Rourke aggira da dietro il centro di fuoco (un po’ come fa Kirk Douglas in Sabbie rosse) e solleva il mantello. È una donna (come in Sabbie rosse), Grace Markey (Shelley Winters). I carri sono stati assaltati dagli indiani, i Sioux, che hanno annientato Custer e il suo reggimento. Così una seconda deviazione, un secondo slittamento, s’innesta nel percorso narrativo. La prima, ovviamente, è l’immagine di amicizia e complicità tra O’Rourke e Cajou. Ma non è ancora finita. La donna anziché esigere la protezione dei due uomini chiede solo di poter ripartire per la sua destinazione: non ne vuole sapere di andare al Forte dove O’Rourke intende scortarla. Così punta il revolver contro Alan Ladd che, tuttavia (ancora una volta come in Sabbie rosse), la disarma con un trucco d’esperienza. Prima li ha mancati clamorosamente, poi si è fatta disarmare: non ha dimistichezza con le armi anche se nel corso del film 78

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verrà accusata di aver ammazzato un uomo. Raoul Walsh gioca subito e con maestria con i tempi deboli e i tempi forti del racconto, alternando distensione e tensione. Sarà così per tutto il film. Film doppio. Costruito sulla doppiezza, sul rovescio del diritto. Doppio è, anzitutto, il décor naturale, gli splendidi paesaggi canadesi. Il loro splendore è il teatro nel quale si inscrivono i gesti, gli spostamenti, le azioni delle giubbe rosse e degli indiani, le assurde violenze dell’uomo (le guerre). Il bello e il brutto coesistono. La cima del mondo è anche il punto più basso. Doppio come il volto di Shelley Winters: donna di mondo, dura, sensuale, ricercata per omicidio e al tempo stesso essere sensibile e innocente, tenero e semplice. Doppio, ambiguo, è il comportamento del governo canadese nei confronti degli indiani: prima insegnano loro a usare le armi per procurarsi il cibo e poi gliele confiscano condannandoli alla fame. Doppio è il gioco dello sceriffo venuto dagli States per arrestare Grace: è lui il vero assassino. Doppio, infine, è il personaggio interpretato da Alan Ladd. Scisso come molti eroi walshiani. Lacerato: da un lato è tenuto dalla disciplina ad obbedire ed eseguire ordini che non comprende, di cui rifiuta senso e utilità, e dall’altro è affettivamente legato alle persone contro cui quegli ordini assurdi e ingiusti (confiscare i fucili agli indiani) vanno eseguiti. Il tenente O’Rourke è un poliziotto di Sua Maestà ma non è un fantoccio. Gettato in un’altra deviazione trasgredisce gli ordini, rovescia il comando del suo superiore e guida in un percorso geo-topografico alternativo e rischioso (un’altra variazione) i suoi uomini (un’altra pattuglia sperduta dopo quelle di L’avventura impossibile, Obiettivo Burma e Tamburi lontani) verso la salvezza. Cioè verso un altro Forte dove, con tutta probabilità, lo attende un plotone d’esecuzione. L’ennesima deviazione. L’immagine più significativa del film, l’immagine davvero centrale, è quel magnifico campo totale dove le montagne si specchiano nell’acqua chiarissima del lago, dove la narrazione si risolve interamente nella mostrazione. Istante di purissima contemplazione della natura, come in Ford, Dovzˇenko o gli Straub («Straub et Walsh sognano in modo diverso lo stesso mondo reale»70), che interrompe e spezza la drammaticità narrativa e incalzante della storia e delle sue violenze: sospensione dell’azione,

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Jean-Claude Biette, Poétique des auteurs, cit., p. 113.

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oltre il livello informativo o simbolico: eccedenza di senso. Il mondo umano e civilizzato, gerarchizzato e brutale, ha il suo doppio selvaggio e rizomatico, le sue vie di fuga e indisciplina, attraverso le quali si ritrova la salvezza e l’amicizia con l’altro, la libertà. È il procedimento narrativo del «doppio itinerario» di cui parla Legrand per marcare il cinema di Walsh. L’itinerario narrativo di Le giubbe rosse del Saskatchewan è tracciato da quello geo-topografico, scosceso e insidioso, ridisegnato, tuttavia, di volta in volta dagli scossoni emotivi, dalle decisioni, dalle rotture implacabili, come nella sequenza in cui O’Rourke prende il comando della pattuglia. I tempi deboli si armonizzano con quelli forti e lo spettacolo naturale offre un’ambientazione che risalta l’assurdità della violenza umana ma anche la bellezza del gesto eccezionale.

2.7 La natura: sulla libertà e l’energia an-archica degli eroi walshiani Il rapporto di Raoul Walsh con la natura, il suo sguardo sulla natura, è tutto peculiare. La natura walshiana, sia nella sua indifferenza che nella sua bellezza lussureggiante, si oppone – nella sua eternità – ai disordini umani, alle frenesie e alle crisi dei soggetti deviati, impegnati in un cammino incerto e imprevedibile fatto di bufere e imboscate come in Gli implacabili dove le vicende umane (lotte e passioni) raccontate con la solita maestria, con l’uso sapiente di tempi forti e tempi deboli, vengono risaltate ed epicizzate proprio dall’ambiente stratigrafico e roccioso in cui si inscrivono i gesti degli eroi (d’altri tempi). La natura in Gli implacabili è ciò che si attraversa nel fuoco del pericolo e dell’incertezza, è il canyon (disseminato di indiani). È la natura mostrata nella prima sequenza di Fulminati. La sequenza d’apertura è composta da 7 inquadrature (campi totali e campi medi) collegate tra loro, l’una all’altra, da 6 dissolvenze incrociate, rapidissime. Il montaggio di queste prime 7 inquadrature è incalzante (cfr. fotogrammi 27-32). Si intensifica a partire dalla prima dissolvenza, dopo la prima inquadratura: un totale di ciminiere e tralicci elettrici insolitamente più lungo rispetto alle altre inquadrature che costituiscono la struttura di questa prima sequenza (il cui montaggio, dunque, è fondato sul proce80

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dimento per dominanti e armonici), quasi una pausa, un trattenere-ilrespiro, una quiete prima delle (o che anticipa le) perturbazioni (meteorologiche e affettive) che costellano il racconto filmico. Una sospensione che – come gli inserti di Ozu – invitano lo spettatore a una visione più meditata. È il ritmo del montaggio che, tuttavia, richiama anche il vortice della Tecnica – oltre che il turbinio delle passioni dipanate nella vicenda principale del film. Incipit annunciatore, esordio che già contiene il suo sviluppo, prologo euripideo di una tragedia noir. Queste prime 7 inquadrature mostrano la Razionalità e la Funzionalità della Civiltà, il Potere degli uomini, il potere della luce, dell’elettricità, dell’energia: il potere della tecnica che, nelle prime inquadrature, troneggia. Il potere dell’uomo signore della Natura, padrone di se stesso (delle sue emozioni) e del suo ambiente. Tralicci e ciminiere, ruote e rulli, macchine. Ma già la dissolvenza che collega l’inquadratura 7 all’inquadratura 8 introduce uno scarto, un dislivello, un’incrinatura. Più che un collegamento sintattico-narrativo questo segno di interpunzione è un simbolo, raffigura un’opposizione, la più classica: Cultura/Natura. Questa dissolvenza è una collisione, è il primo détour del film. L’inquadratura 8 (fissa come le precedenti) è un pezzo di cielo notturno, addensato di nubi minacciose e fessurato da un fulmine (cfr. fotogrammi 33-34). Il cambio di inquadratura successivo, dalla numero 8 alla numero 9, non è più mediato come i precedenti, da una dissolvenza o da un’altra punteggiatura. Lo stacco è netto: l’inquadratura 9 mostra l’effetto del fulmine esploso nell’inquadratura 8. Il fulmine incendia (nell’inquadratura 9) un traliccio della luce che provoca l’interruzione strumentale della catena della tecnica che attraversa la civiltà e si dispiega in tutto il suo potenziale, il suo potere (cfr. fotogramma 36). Potere che, nondimeno, il fulmine, lo schiaffo oltraggioso della natura, interrompe, mette in discussione e, infatti, nell’inquadratura successiva (la numero 10) salta la luce nella sala operatoria (cfr. fotogrammi 36 e 37). Il cambio di inquadratura, anche in questo caso, è netto: il taglio anziché staccare, attacca. L’inquadratura 11, un totale del traliccio (cfr. fotogramma 39), invece, è ancora una volta introdotta da una dissolvenza in nero sui generis (cfr. fotogramma 38) poiché si tratta di un segno di interpunzione nonvoluto, più che una dissolvenza questo nero, che nonostante la sua istantaneità ha una sua durata, è l’effetto (l’assenza di luce) del fulmine 81

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che ha incendiato il traliccio. Ma è anche il nero della sfida che la natura lancia alla cultura, il nero della voragine che si apre nelle certezze di luce splendente, d’acciaio, degli uomini signori del mondo, il nero della crisi che contesta l’illusione o il sogno dell’uomo di padroneggiare la natura. Blackout, notte nera (il fulmine incendia il cielo e il traliccio di notte, mentre le prime inquadrature sono diurne), nero che si prolunga dalla tempesta di fuoco elettrico a quella delle passioni, le passioni nere che surriscaldano il film e ne ritmano il tessuto narrativo. L’inquadratura 12 non è un totale, come la 11, ma un campo medio che mostra il crollo, nella fondamenta, del traliccio (cfr. fotogrammi 4041): la natura sottrae alla tecnica, all’impianto, il suo supporto, si sottrae in quanto fondo pronto all’uso e alla manipolazione dei manpower. La base di roccia e fango si sgretola schiaffeggiata, risvegliata, se non rilevata (soppressa e al tempo stesso riscattata), dall’onda d’urto dell’acqua che travolge e inghiotte questo pezzo di natura strumentalizzato dalla tecnica, restituendolo così alla dimensionalità selvaggia della Natura. Le inquadrature 13, 14 e 15 mostrano la fine del traliccio che cade nelle acque in movimento (cfr. fotogrammi 42-44). Queste prima sequenza – fulminante – dura poco meno di 40 secondi. La natura in Walsh non è tanto lo specchio dell’anima umana, delle sue passioni o dei suoi dolori né una semplice scenografia. La natura è ciò che si attraversa nel cammino dell’esperienza come le piste di passaggio su cui corrono le diligenze continuamente assalite dai banditi in quel folle capolavoro di ironia walshiana che è Notte di bivacco. Non un western minore ma un western di minorazione dove Walsh gioca a sottrarre gli elementi tipicamente costitutivi il mito del (film) western. Deviazione walshiana senza soggettività, né intreccio, gioco folle e improduttivo, Notte di bivacco è un saggio filosofico sul puro movimento (immagine-movimento), quello che – malgrado le volontà dei soggetti e le direzioni imposte dalle storie-sceneggiature – segna, disegna e ridisegna incessantemente il mondo nelle sue molteplici tessiture. La spaziotemporalità naturale nella messa in scena di Walsh non rispecchia semplicemente la natura umana. Semmai è l’arealità del divenire, lo svolgersi dell’esperienza umana dove i soggetti walshiani si batto82

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no e si ribellano, schiantano e deviano, ricominciano e muoiono71. Spazialità violentata, incendiata e devastata nella sua eternità, nella sua bellezza vergine come in Il nudo e il morto dove pezzi di giungla saltano per aria e l’erba si riduce in cenere. La natura non è neppure l’immagine di un altro mondo perché in Walsh «l’infinito è su questa terra»72, sono i canyon dell’Arizona, i ghiacciai dell’Alaska o i grandi parchi nordamericani. La natura – i mari e il west – parla nel cinema tellurico di Walsh ma parla di questo mondo e agli uomini che vi sono gettati perché «l’eterna lotta dell’uomo contro gli elementi della natura non può essere, dopo tutto, che una lotta contro se stesso»73. Ben Allison (Clark Gable) in Gli implacabili attraversa l’inferno, sfida indiani e banditi, è scampato alle bufere e ai massacri della Guerra civile, ma infine si ri-trova, trova se stesso, nel momento in cui affronta la sfida tra sé e sé, sfida aperta nella lacerazione provocata dallo sbandamento generalizzato causato alla disfatta del Sud, che ha trasformato gentiluomini e ufficiali in banditi senza scrupoli, come in Il suo onore gridava vendetta. Il cuore della terra in Walsh è la libertà. La natura – nei western come nei film di pirati – è libertà. La natura si contrappone all’universo carcerario di La furia umana (White Heat, 1949) o Banda degli angeli. È la grotta della città sepolta dove Joel McCrea passa la sua ultima notte in Gli amanti della città sepolta 74 («Mi basta respirare l’aria pura e sentire la terra sotto i piedi» dice Wes McQueen-Joel McCrea) o il parco dove Humphrey Bogart trova conforto e riposo appena uscito dal carcere in

71

Cfr. Claude-Jean Philippe, Un sublime si familier, cit., p. 15. Michael Henry Wilson, Raoul Walsh, le roman du continent perdu, in «Positif», 454, décembre 1998, p. 75. 73 Ibidem. 74 A proposito de Gli amanti della città sepolta, assai ricco dal punto di vista della costruzione spaziale e della trasformazione dei personaggi in pure funzioni narrative, Walsh ricorda la fortuna che all’estero ebbe il celebre finale con la morte dei due amanti mano nella mano: «Ho rivisto il film in Giappone. Lo sa? Laggiù ha avuto un enorme successo, lo hanno replicato quattro o cinque volte, e la ragione di questo successo è che alla fine del film l’eroe e l’eroina muoiono entrambi. I giapponesi preferiscono questa forma di dramma, mentre in America la gente preferisce che vivano». Walsh lo racconta nel documentario a lui dedicato da Richard Schickel negli anni Settanta. Il regista in occasione di Gli amanti della città sepolta ebbe modo di lavorare con Virginia Mayo, che sarà presente ancora in La furia umana e in altri due film walshiani (Sabbie rosse e Hornblower), un’attrice particolarmente apprezzata da Walsh per la sua vitalità e la forza delle sue interpretazioni. 72

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Una pallotola per Roy (High Sierra, 1941) nelle prime inquadrature d’apertura («Starò bene quando vedrò che l’erba è ancora verde» dice Roy EarleHumprey Bogart). Natura e libertà si richiamano, si integrano e rovesciano l’una nell’altra in Una pallottola per Roy e Gli amanti della città sepolta. Wes McQueen in Gli amanti della città sepolta rimane sconvolto dalla maestosa architettura dei canyon e delle sue imponenti pareti verticali, al cui interno si apre una fenditura, una grotta con i resti di una antica città indiana sepolta, la Città della Luna. La natura è questo canyon chiamato Valle della Morte che più oltre ospita la città verso cui McQueen è diretto, Todos Santos, anch’essa in rovina: fondata dagli spagnoli, scacciati dagli indiani che, a loro volta, sono stati sterminati dalla peste, per lasciare così il posto a scorpioni e serpenti, annientati anch’essi dal terremoto. La Valle della Morte è lo spettacolo della natura, scioccante, che toglie il respiro, l’immagine di un divenire perpetuo che a volte è stupefacentemente polifonico e armonioso, come si vede anche in Dovzhenko, e altre invece pone terribilmente fine alle civiltà come alle forme di vita peraltro già dilaniate dalla violenza e dalla lotta, inclusa la vita della specie umana. La natura in Walsh è questa concatenazione impressionante di rocce scolpite dal Tempo, dai suoi cicli e dalle sue forze naturali. Tracce di un mutamento indifferente alle vicende umane che ne trascende la limitata e rissosa razionalità. Una razionalità non-dialettica, la sola che, ad esempio in Dovzhenko, consente all’uomo di orchestrare il poema sinfonico della natura senza violentarlo: nella terra filmata da Dovzhenko non si dà conflittualità ma dialettica tra virtuale e attuale, gioco tra le lentezze delle materie organiche e le velocità della politica rivoluzionaria, tensione tra il vecchio e il nuovo, salto dalla Natura all’Uomo. La natura respira nell’inquadratura walshiana (panoramiche e campi totali), soffia la sua sterminata e inafferrabile libertà con cui schiaccia i gesti degli uomini destinati a cancellarsi e ad essere spazzati via dalla polvere del deserto. È contro questa possenza, contro questo tutto che continua che sbatte la contemplazione sgomenta di Wes McQueen la cui forma di vita è destinata a finire («Le scene d’amore che recitava con Joel McCrea davano l’impressione che questi momenti di felicità presto sarebbero andati in frantumi. Sì, una minaccia era là, nascosta, come se qualcosa stesse per esplodere, una specie di suspense in definitiva»75), come le altre già finite o che finiranno.

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Raoul Walsh, Filmographie commentée, cit., pp. 27-28.

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«Il tempo che distrugge/è il tempo che conserva, come il fiume»76, dice Eliot. La natura è una potenza, leopardianamente, bifronte: distrugge e conserva, come nella prima immagine di Rio Bravo (Rio Grande, 1950) che accorda geometria e poesia. Da un lato la composizione del piano fisso è strutturata dalle linee verticali e orizzontali che disegnano il profilo (e ne scolpiscono il corpo) della mesa trapeziodale stagliata di fronte allo sguardo di John Wayne, nonché dalle linee di terra e acqua che formano come due triangoli retti, il pezzo di terra nella quale si radica la figura umana (il colonnello Kirby interpretato da Wayne) e il corso d’acqua che scorre sotto lo sguardo contemplante del colonnello Kirby. Dall’altro lo sguardo di John Wayne, che lo spettatore può solo immaginare o raddoppiare, e lo sguardo di John Ford, catturati dallo scorrere del fiume Rio Grande, infondono al quadro geometrico e ordinato una tonalità lirica, un respiro poetico. Immagine che raccorda anche due movimenti attraverso i quali la Natura s’impone e spazia di sé le vicende umane oltre che la successione dei piani cinematografici: il lento movimento morfologico che ha scolpito la parete verticale e il veloce movimento del fiume che scorre. Il primo movimento è stato più volte filmato da Ford nei suoi western, da Ombre rosse (Stagecoach, 1939) a Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956), mentre il secondo appare ad esempio nella sequenza dei ghiacci che scorrono sul fiume in Alba di gloria (Young Mr. Lincoln, 1939). Lo sguardo contemplativo di John Wayne, come lo sguardo ammirato e quasi sgomento di Joel McCrea in Gli amanti della città sepolta, è afferrato sia dalla bellezza geometrica della natura e che dalla sua violenza, i cataclismi o lo scorrere impetuoso delle acque. La Natura è ordine e disordine, potenza che rappacifica e sconcerta. È la libertà di continuare a conservare e distruggere, come si vede nelle acque e nei campi di grano, nelle nebbie e nelle nevi di Alexandr Sokurov. La forza della natura in Sokurov è una potenza generosa nonostante le onde del mare, fredde e cattive, come dice la voce-off di Sokurov in Elegia della traverstata (Elogy of a Voyage, 2001). Le voci del mare e del vento sono la musica dell’anima: armonia prestabilita, corrispondenza misteriosa tra l’oggettivo possente della Natura e il soggettivo fragile dell’Uomo. Questa armonia è ciò che si apre anche nel cinema di John Ford, ad esempio nella

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Thomas S. Eliot, Quattro quartetti, cit., p. 135.

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prima immagine di Rio Bravo, nonché, sebbene diversamente, nel cinema di Walsh. Perché l’uomo piange le lacrime del mondo e ne ride i sorrisi. La libertà di questo tutto che continua (la Natura) è l’immagine narrativa dell’ultimo movimento di macchina di Una pallottola per Roy in cui la macchina da presa, senza stacchi, si solleva dal volto, a un tempo, sconvolto e confortato di Ida Lupino, per filmare la vetta ariosa del Monte Whitney nel cui grembo Roy Earle ha finalmente trovato la sua libertà, liberandosi dalle ingiustizie e dalle strettoie della civiltà poliziesca e concentrazionaria. La morte, la pulsione di morte, interruzione della vita lasciata vivere, è il principio di eccesso e dismisura, la dissonanza non ricomposta, la non-riconciliazione, in cui si inscrive l’amour fou (l’intensità selvaggia) di Ida Lupino e Humphrey Bogart (e di Virginia Mayo e Joel McCrea). La natura è lo spazio anche esotico, anzi barbarico. Come nei film di pirati, dove irrompe e prorompe l’energia viscerale, la forza primordiale e selvaggia di molti personaggi walshiani, capaci di porre in scacco soggetti più civilizzati e istruiti che hanno dimenticato o rimosso la dimensione del selvaggio, come in Tamburi lontani, e per certi aspetti anche nella contrapposizione d’ambienti tra i bassifondi dell’East Side di New York City e i quartieri alti messa in scena da Walsh in Regeneration, dove è il reietto semianalfabeta a conquistare il cuore della fanciulla nobile d’animo, non il procuratore distrettuale vanesio e risentito. Wild men come il boxeur Jim Corbett interpretato da Errol Flynn in Il sentiero della gloria (Gentleman Jim, 1942)77. Il racconto ancora una volta di una soggettività implicata in un processo di risoggettivazione, un itinerario di trasformazione e riscatto il cui motore è anzitutto un desiderio, più che una meta, desiderio di vita, di spingersi più in là, di varcare le soglie, entrare all’Olympic Club, salire sul ring o recitare Amleto (e infatti il vero James Corbett, chiamato “Gentleman Jim”, continuerà la sua carriera pubblica come attore e reciterà anche in un film di Ford78). Racconto rit77 Nella filmografia curata da Gian Carlo Bertolina in appendice al citato libro di Paolo Bachmann, si segnala che il supervisore dei dialoghi, Hugh Cummings, altri non sarebbe che William Faulkner. Cummings è stato il direttore dei dialoghi anche di L’ostaggio. La sceneggiatura di Il sentiero della gloria è firmata da un altro scrittore che lavorava ad Hollywood come sceneggiatore, Horace McCoy, autore, tra gli altri, del romanzo Avrei dovuto restare a casa (I Should Have Stayer Home, 1938). 78 «Con il trentesimo film, [Ford] per la prima volta abbandona l’Ovest. In Il principe di Avenue A, un irlandese di saldi principi ripulisce gli ambienti corrotti della politica

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mato filmicamente. Messa in scena in cui l’allegro e l’adagio si alternano con equilibrio e dove il grottesco si apre al lirico, come nella sequenza interna alla scena della festa in onore del nuovo campione del mondo Jim Corbett (Flynn) che Tailleur definì fordiana, quando contemplandosi divertito nello specchio, con in testa un grosso capellaccio (simbolo della sua strafottenza, della sua vitalità senza contegno), scorge in un angolo dello specchio la figura di John Sullivan (Ward Bond), il burbero e rozzo campione appena battuto; Sullivan avanza verso di lui con un portamento, stranamente, carico di dignità e compostezza, fiero e nobile, per riconoscergli il primato. I due si stringono la mano e si scambiano sinceri apprezzamenti, si riconoscono, integrano e completano l’uno nell’altro e Corbett sa, sinceramente, rendergli a sua volta omaggio, un omaggio commosso e vibrante. La sportività e la lealtà allusi nel titolo originale, sono conquiste che scaturiscono da un’azione che connette l’uno all’altro nonostante la separazione imposta dalla società binarizzata, determinata prima dallo scontro e dopo dall’esito dello scontro. Il fair play è un atto più che un’azione che connette l’uno all’altro a dispetto proprio del risultato dell’azione, dell’ambiente o dell’ordine in cui questo risultato si realizza: c’è uno sambio simbolico, una reversibilità tra Corbett e Sullivan (che Walsh, quando era un ragazzino, conobbe entrambi grazie al padre79), aldilà e contro la coupure, il taglio che esige la loro distinzione se non contrapposizione, il taglio che fonda tutti quei discorsi, quegli ordini dei discorsi economico-politici e fonda tutte le opposizioni e i privilegi di cui godono

newyorkese. La star è James J. Corbett, Gentleman Jim, di cui un bel film di Walsh vent’anni più tardi racconterà la storia, a momenti gordiana, soprattutto nell’ammirevole scena finale con Ward Bond». Cfr. Roger Tailleur, Roger Tailleur e “Positif”. Le opere e i giorni del grande cinema 1953-1970, a cura di Gianni Volpi, Alessandria, Falsopiano, 2007, pp. 33-34; il film di cui è interprete Corbett è andato presumibilmente perduto secondo Bogdanovich e il titolo originale è The Prince of Avenue A; è un film del 1920 e probabilmente più che il trentesimo è il trentaduesimo o trentatreesimo film di Ford; di sicuro è il primo film non western di Ford. Cfr. Peter Bogdanovich, Il cinema secondo John Ford, Parma, Pratiche Editrice, 1990, p. 129. 79 Raoul Walsh, Un demi-siècle a Hollywood, cit., pp. 19-20. A proposito degli attori che interpretavano questi due personaggi, Flynn e Bond, Walsh ha scritto: «Flynn e Ward Bond si cimentarono a tal punto nel combattimento che le comparse applaudirono entusiaste» e, in particolare, di Flynn (che da ragazzo era stato campione di nuoto e tennis, oltre che di boxe): «Questo ruolo piaceva a Flynn il quale si comportò correttamente per tutto il film. Inoltre, si allenava assiduamente in palestra per mettersi in forma per i numerosi combattimenti che dovevamo filmare». Cfr. ivi, p. 302.

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i villani rifatti dell’Olympic Club. Questi villani rifatti sanno solo astrattamente trarre piacere dalla rappresentazione di ciò che non sono più o che non sono mai stati perché ormai non sono che pubblico, spettatori passivi affamati di vita, di sangue, quella vita che il pugile rischia in una interruzione violenta. Il pubblico, assuefatto nella contemplazione, risucchiato nella rappresentazione, anziché vivere si limita a un piacere-scarico nell’assistere a distanza a un corpo a corpo che offre loro un sostituto, un rituale di sacrificio e spesa, di interruzione di una vita solo lasciata vivere, rappresentata. Questo è il pubblico dell’Olympic Club che con i loro privilegi e le loro rapine legalizzate hanno trasformato il mondo in un accumulo di spettacoli e di arene insanguinate, assetate del sangue altrui, della vita da cui sono ormai separati, come mostra magnificamente, ad esempio, anche Robert Wise nel suo Stasera ho vinto anche io (The Set-Up, 1949) con un serrato montaggio di primi piani assolutamente walshiani che concatena un’umanità in ginocchio sull’altare della contemplazione, «una umanità digestiva» che contempla risentita «l’uomo di volontà pura»80, Flynn in Il sentiero della gloria o Robert Ryan in Stasera ho vinto anche io. I due pugili che, nella loro materialità, si avvinghiano sul ring, a dispetto dell’esito spettacolare della loro azione sociale, istituiscono un movimento «che per certi versi è uno solo» anche se «in quanto risultato di due iniziative opposte»; è lo spettatore, incapsulato nella Ragione analitica, operazionale, liquefatto solo nella contemplazione, che «sceglie il proprio favorito e si colloca dal suo punto di vista: lo considera come il soggetto del combattimento, riducendo l’avversario a nient’altro che un oggetto pericoloso»81. La singolarità in Walsh, come ha osservato Comolli, Corbett o l’Eddie Bartlett di I ruggenti anni Venti, il Roy Earle di Una pallottola per Roy o il Custer flynn-walshiano, si nega all’ordine, al fondamento, si sottrae perfino alla finalità, ai suoi successi, come nel caso del boxeur Corbett, il cui carattere è oltre (se non contro) il destino, si risolve e dissolve, si consuma, brucia, come in La storia del generale Custer o La furia umana, nel gesto senza attendere la conferma o la gratifica del destino, dell’ordine o dell’Olympic Club. Anche in Il sentiero della gloria le deviazioni non sono affatto paragonabili agli jakobsoniani «derivati regolari delle forme cen80 Sono espressioni tratte da una lettera di Artaud: Antonin Artaud, Lettera a Pierre Loeb, in Per farla finita col giudizio di Dio, Roma, Stampa Alternativa, 2001, p. 109. 81 Jean-Paul Sartre, L’intelligibilità della Storia–Critica della Ragione dialettica, t. II, Milano, Marinotti, 2006, p. 26.

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trali contenute nel modello»82: gli eroi di Walsh, incluso Jim Corbett, non sono mai contenuti, né vogliono contenersi o piegarsi a forme e modelli. Lo scambio simbolico tra Corbett e Sullivan («So che se è difficile essere un buon perdente, è ancora più difficile essere un buon vincitore») e, dopo l’ennesimo breve litigio, l’abbraccio d’amore tra Corbett e Vicky (interpretata da Alexis Smith), sono deviazioni irriducibili il cui senso è nel dispiegarsi dispendioso e, infatti, come al solito, i fratelli Corbett, nonostante la festa e la cornice-bomboniera, ancora una volta, ricominciano ad azzuffarsi: la Ripetizione è la differenza senza concetto, diceva Carmelo Bene. L’indisciplina delle singolarità walshiane non è ricomponibile all’interno di un codice: il fair play di Corbett è un suo modo esistenziale di essere nel mondo, non un ammaestramento (come quello sportivo a cui si sottomettono i villani rifatti dell’Olympic Club): la sua gentilezza è un abito di risposta non un costume. La deviazione, contro Roman Jakobson, non coopera (o cospira) con la regolarità, anzi il Senso in Walsh nasce proprio da questo Conflitto non-riconciliabile. I soggetti walshiani si liberano, aldilà della storia o della azione sceneggiata, oltre il codice narrativo, si liberano come si libera il cinema di Walsh, si libera il suo spirito d’avventura, di aperto, la liberazione dal testo, dall’ordine, dall’Olympic Club, dal ruolo, dal complotto del mondo concentrazionario (Una pallottola per Roy, La furia umana) ostile alla libera manifestazioni delle pulsioni; il cinema di Walsh si libera e apre un orizzonte di mobililità irriducibile, in ogni film e «non tanto il soggetto del film quanto il suo diretto argomento, il suo oggetto, la sua ricerca, […] in breve un’avventura che ogni film perpetua, spinge più lontano, che riprende interamente con ogni film», come un «un tentativo ricominciato, di una certezza subito messa in questione, di un dubbio mai definitivo e mai eluso»83. Nonostante la selvatichezza di questo irlandese che risolve a pugni ogni controversia con i fratelli e, forse, proprio in virtù di questa selvatichezza, Corbett sa danzare sul ring, liberare, appunto, un’energia e una grazia che può solo suscitare la nostra ammirazione e ovviamente il risentimento dei villani rifatti.

82 Cfr. Roman Jakobson, Linguistica e teoria della comunicazione, in Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 74-75. 83 Jean-Louis Comolli, L’esprit d’aventure, cit., p. 12.

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Personaggi insubordinati e indocili: an-archici senza fondamento, né pruderie civilizzatrici o moralistiche. Selvaggi e indisciplinati, guasconi e dispendiosi, spensierati e liberi come i marinai di Il mondo nelle mie braccia, scritto da Borden Chase e Horace McCoy e fotografo dall’eccellente Russell Metty: il “Bostoniano” (Gregory Peck), il “Messicano” (Anthony Quinn) e il “Profeta” (John McIntire), che con la loro genuina spontaneità si contrappongono agli ufficiali della nobiltà russa, ingessati e disciplinati, contratti e incarogniti… fiacchi e civilizzati. Banda rizomatica senza disciplina né strategia che disgrega e sbaraglia con un’azione da guerriglia l’esercito russo irrigidito nella disciplina e strategicamente formalizzato. Una volta sbarcati a San Francisco, all’inzio del film, sulla Costa dei Barbari (messa in scena anche da Hawks), entrano rumorosamente nell’albergo più lussuoso della città suscitando un movimento di mondo che sconcerta l’ordine dell’ambiente. Appoggiato sul bancone dell’hotel, di fronte al direttore sbigottito a cui annunciano, il “Profeta” e il “Bostoniano”, l’imminente festa che hanno intenzione di allestire quella sera nel salone dell’albergo (per disfarlo!), il “Profeta” chiede: «Credi che lui abbia mai banchettato o si sia mai divertito?»; «Che!? Con quella faccia!» risponde il “Bostoniano”. Film avventuroso di una forza inaudita, selvaggia, rizomatica, con alcuni tra i momenti più gaudenti e energetici del cinema di Walsh: la foca nella vasca da bagno, la sfilata delle prostitute nel corridoio dell’hotel, l’irruzione dell’orchestrina di musicisti di colore nel salone, il braccio di ferro tra le lame di Peck e Quinn e la loro interminabile e festosa scazzottata, l’incursione nel palazzo del governatore russo. «È un selvaggio che pensa solo al vino e alle donne», sentenzia indignato il colonnello russo fedele alla duchessa che s’innamorerà proprio del “Bostoniano”. Appunto, questa è la sua forza, è un selvaggio che ama il vino e le donne, che parla il cinese, sa ballare e vestirsi, destreggiarsi tra i marosi e nelle alte questioni di finanza, senza rendere conto niente e nessuno e, su tutto, sa amare disabilitando intrighi e affari: il mondo è nelle sue braccia. E, ancora, il Custer flynniano di La storia del generale Custer irriducibile a qualsiasi comfort; o l’Alan Ladd di Le giubbe rosse del Saskatchewan, mezzo indiano ribelle alle gerarchie; la putain magnifique impersonata da Mae West in Annie del Klondike; la Mamie Stover di Jane Russell in Femmina ribelle; o – lo ha ben notato Michael Henry Wilson84

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Michael Henry Wilson, Raoul Walsh, le roman du continent perdu, cit., p. 77.

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– come uno dei suoi attori-icona, Alan Hale85, eternamente ubriaco e rissoso, guascone e irresponsabile, padre o zio indegno e, dunque, eminentemente e travolgentemente simpatico; selvaggio come il lawrenciano «sergentone yankee» interpretato proprio da Raoul Walsh nel melodramma Sadie Thompson, al fianco «della peccatrice Gloria Swanson»: «La diva hollywoodiana non può fare a meno di preferire il sergentone yankee Walsh ai tormenti del maestro di cerimonia, alle ipocrisie del maestro di stile Lionel Barrymore, che vorrebbe nobilitarla, trasformarla in una donna perbene che recita la sua parte di storia come una Vera Attrice»86. Il corpo vivo e autentico in Walsh vince sempre sui falsi maestri o gentlemen che hanno solo corpi organizzati: da Regeneration a Sadie Thompson, da La belva umana a Notte di bivacco, da Il sentiero della gloria a Il mondo nelle mie braccia. Corbett e il “Bostoniano” non sono uomini seri, bevono, urlano, ridono, eccedono, sanno e vogliono giocare; seri sono gli ufficiali dello zar o i villani rifatti di San Francisco, rappresentanti della serietà, increduli, devoti al mondo che non eccedono perché non credono nella libertà, solo nel codice, nel bon ton, nell’ordine e nei suoi dicorsi: i seri cacciano l’amico brillo di Flynn dalla festa o qualificano selvaggio il capitano interpretato da Peck. Scrive Sartre: Un uomo serio è quando non immagina neanche la possibilità di uscire dal mondo, quando il mondo, con le sue montagne e le sue rocce, con le sue croste e i suoi fanghi, con le sue torbiere, con i suoi deserti, con tutte le sue immensità ottuse, lo circonda da ogni parte, e quando l’uomo si attribuisce il tipo di esistenza della roccia, la consistenza, l’inerzia, l’opacità; un uomo serio è una coscienza coagulata; essere serio vuol dire negare lo spirito87.

85 Alan Hale compare per la prima volta in un film di Walsh nel 1917, The Lone Cowboy, un western con Tom Mix, in cui Hale interpreta un ubriacone. Errol Flynn, a proposito di Hale (detto “il Sergente”), scrive nelle sue Memorie: «In quanto ad Alan Hale, la sua specialità era quella di rubare le scene agli attori che avevano la sventura di girare con lui. Solo con me non lo faceva, anche perché ogni volta prendevo la precauzione di minacciargli una frattura al naso se mai ci avesse provato»; Hale era “il Sergente”, Flynn “il Colonnello” e Gwynne “Big Boy” Williams “il Caporale”, amico rissoso di Flynn e attore di molti western, con Flynn partecipò, ad esempio, al film di Michael Curtiz Carovana d’eroi (Virginia City, 1940). Cfr. Errol Flynn, Una vita proibita, Milano, Rosso e nero, 1959, pp. 238-240. 86 Giovanni Buttafava, Tre destini, in «Patalogo. Annuario dello spettacolo», 4, Milano, Ubulibri, 1982, p. 105. 87 Jean-Paul Sartre, Taccuini della strana guerra, Bari, Acquaviva, 2002, p. 324.

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Disordinato, pulsionale, per nulla serio, sconvolgente è anche il pirata Barbanera, figurale incarnato, indomito e irresistibile anche per la morte, capace di interromperne la vulcanica avventura e reclamarne la testa solo grazie all’ausilio di un’altra forza della natura più grande e possente, l’acqua che lo inghiottisce in un primo piano sublime, l’assimila quasi per riutilizzarne mitologicamente l’energia, nel finale terribile di Il pirata Barbanera (Blackbeard, the Pirate, 1952). Barbanera è l’uomo nella sua azione, nelle sue forze, aldilà delle missioni o dei (soliti) doveri, l’uomo che non appartiene a nessuna idea, a nessun padrone, se non a se stesso. Barbanera è l’uomo nella sua attività naturale. Prende ciò che vuole e si sottrae all’assoggettamento, al carcere e alla forca. Il suo doppio (il pazzo sull’isola) è somigliante solo nelle fattezze esteriori, perché Barbanera agisce e usa la forza nel presente, mentre il pazzo vaneggia e sogna incapsulato tra i vortici di passato e futuro. Barbanera gioca come il “Bostoniano” o Jim Corbett: «il gioco è un’attività di cui l’uomo è l’origine, di cui l’uomo stabilisce i principi»88; Barbanera è l’unico proprietario di se stesso: «Ogni cosa mi appartiene e perciò io recupero ciò che mi vogliono togliere, ma soprattutto recupero in continuazione me stesso, ogni volta che finisco inavvertitamente in soggezione di qualcuno»89. Insubordinato, infine, è Walsh con il suo cinema, soggetto non riconducibile ad una firma (come i suoi eroi che si liberano e continuano a spingersi sempre più in là) e da questo punto di vista, Thierry Jousse ha espresso alcune riserve circa la possibilità o l’opportunità di definire Walsh un autore, perlomeno in senso canonico, in quanto la grandezza dei suoi film deriverebbe «dalla loro apparente assenza di effetto di firma e dalla maniera inafferrabile di sfuggire a qualsiasi unità tematica»90. Ma la firma, il nome, è proprio la vocazione che si distingue nella singolarità, è la singolarità individuale: è Raoul Walsh. Autore o no, ciò che fa vento, è proprio questa sua grandezza di gesto irriducibile a qualsiasi codice, soggetto o firma. Walsh, con le sue deviazioni, le sue derive, è più un naufragatore che, come direbbe Debord, scrive il suo nome sull’acqua.

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Ivi, p. 326. Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, Milano, Adelphi, 2002, p. 342. 90 Cfr. Thierry Jousse, Raoul Walsh, l’effet de souffle, in «Cahiers du Cinéma», 555, mars 2001, p. 63. 89

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2.8 La frontiera e l’irruzione del fuori L’azione in Walsh a volte può essere decisa o sollecitata dalle costrizioni dell’ambiente. L’ambiente (geografico, storico, emozionale) è troppo ristretto o soffocato da vincoli e leggi, soverchierie e abusi. È saturo. Sicché se ne cerca un altro: aperto, libero, selvaggio. È la frontiera, percorsa e costruita dai pionieri. Narrata con genio e senso critico impareggiabili da John Ford, ma anche da Walsh, che ci ha lasciato degli affreschi memorabili di quell’epopea. Soprattutto in Il grande sentiero (The Big Trial, 1930), western girato in 70mm e interpretato da un giovanissimo John Wayne (Walsh vantava il merito di averlo scoperto e di avergli dato pure il suo nome d’arte, anche se, in ogni modo, fu Ford a farne una star91), dove i pionieri avanzano verso la Terra promessa. Esodo epico e fantastico verso l’Ovest. Itinerario furioso e eroico, passaggio rischioso attraverso il grande sentiero del vecchio Oregon, verso un mondo di rinascita. Attraverso il deserto e il ghiaccio, sfidando le montagne e i briganti, e poi gli indiani, affrontando la pioggia, i fiumi, gli elementi della natura e le sue catastrofi. I pionieri, così, si aprono la strada attraverso le grandi foreste, calando carrozze, cavalli e bambini dai dirupi. In Il grande sentiero non è in gioco il gesto di un eroe. L’azione non si sprigiona da un centro d’azione, né si sviluppa a partire dal gesto di un soggetto, anche se una guida c’è (è John Wayne), come nella migliore tradizione del western classico. L’azione raccontata con genio e fantasia in Il grande sentiero è il soffio di un popolo, il pulsare di una comunità che, all’inizio, è una concatenazione di gesti e abilità, passioni e ideali. Una comunità a-venire, un progetto di comunità, un popolo che costruisce la sua identità pezzo per pezzo, nel fuoco del pericolo, aldilà degli asfissianti vincoli della burocrazia e lontano dalle violente strettoie del potere politico dell’Est civilizza-

91 Walsh racconta che un giorno, passando vicino all’attrezzeria, vide uscire un tipo alto e robusto con delle spalle possenti che sollevò una grossa poltrona come se fosse una piuma e la portò nell’attrezzeria. Gli chiese che cosa stesse facendo e lui rispose che lavorava lì. Poi gli domandò se avesse mai preso parte a un film e quando lui rispose di no, Walsh gli chiese se gli sarebbe piaciuto farlo. Così gli procurò un bel vestito di daino e gli fece un provino per la parte principale di Il grande sentiero: quell’uomo era John Wayne. In realtà Wayne era già sotto contratto con la Fox e aveva fatto alcune comparsate in qualche film di John Ford: La casa del boia (Hangman’s House, 1928), La grande sfida (Salute, 1929) e Il sottomarino (Men Without Women, 1930). Certamente fu Walsh a lanciare un altro attore fordiano, Victor McLaglen in Gloria.

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to. L’azione è il movimento, lo spostamento delle masse, il farsi-spazio del movimento, in quanto è la dinamica-respiro del movimento dei corpi – nel suo percorso anche narrativo oltre che topografico – a costruire lo spazio, ad aprirlo, ad in-sonorizzare e a di-segnare lo spazio, richiamando su di sé l’inquadramento dei piani. Percorso narrativo e percorso descrittivo, come osservava Noël Simsolo92, intersecati con un percorso geo-topografico e con un percorso storico-epico, che insieme tessono un western dalle proporzioni inedite e grandiose che la Fox decise di affidare a Walsh proprio per la sua completa e matura competenza tecnica. L’azione ha del miracoloso: è un evento o, meglio, scaturisce da un accadimento imprevisto, si profila con velocità, deviando la direzione del cammino, il senso dell’esistenza. È l’avventura di Mae West in Annie del Klondike 93. Mae West è una donna in fuga, in rotta verso i ghiacci dell’Alaska, dove hanno scoperto l’oro, lontano dalla tentacolare San Francisco: l’Alaska è il vuoto, San Francisco il pieno. Lei è una chanteuse, un’amante desiderata, una donna di mondo che ha saputo vivere e amare, tradire e ingannare. Un essere determinato senza tentennamenti, obbligato però a confrontarsi – come succede spesso nel cinema di Walsh – con l’altra se stessa, a sperimentare, con suo grande stupore, dentro sé un lato oscuro, luminoso, luccicante come il bianco dei ghiacci dell’Alaska. Rivelazione violenta del fuori che forza a pensare nonché a trasformarsi, lacera92

Cfr. Nöel Simsolo, Raoul Walsh et Hollywood, in «Image et Son», 254, novémbre 1971. Basato su una commedia scritta dall’attrice, che aveva richiesto esplicitamente Walsh come regista, le riprese del film furono segnate dalla dinamica vitalità incontrollabile della bionda star immorale incontenibile sulla scena come fuori dalla finzione. In particolare, Walsh, nel documentario di Richard Shickel, racconta come i ritardi costanti della vedette rispetto agli orari previsti per le riprese avessero spinto Ernst Lubitsch, allora responsabile della produzione della Paramount, a venire di persona sul set per redarguire l’attrice. Appena Lubitsch gridò: «Perché lei è sempre in ritardo?», «Mae non gli lasciò il tempo di aggiungere una parola, […] ma brandì il piccolo specchio che teneva in mano e gli aggiustò due colpi sulla testa prima che avesse il tempo di realizzare ciò che gli succedeva. Egli fece dietrofront e fuggì, inseguito da Mae che bestemmiava come un turco facendo volteggiare il suo specchio come una mazza da golf». Ritornata la calma, l’attrice commentò così l’accaduto rivolgendosi a Walsh: «Se questo clown tedesco osa ancora avvicinarsi, lo strozzo!». Il film, centrato sulla presenza della West, attenua in parte, peraltro, la carica trasgressiva del personaggio femminile anche in ragione del forte boicottaggio attuato contro l’immoralità dell’attrice da parte del celebre magnate della stampa Randolph W. Hearst, preso di mira qualche anno dopo da Orson Welles in Quarto potere (Citizen Kane, 1941), che, per inciso, molto amava il cinema di Walsh. 93

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zione mortale, fessura scucita dentro un ordito fatto d’acciaio, senza buchi, né incertezze. La vita di Annie è una tessitura dura e cinica, se non disincantata, e tale rimane fintanto che una giovane e gracile donna non le muore fra le braccia: una missionaria in viaggio verso le terre di ghiaccio, in cui l’amore per Dio (ma anche l’amore verso l’altro) è stato gelato, annichilito dalla febbre dell’oro. Terra dove avrebbe desiderato portare il calore e la parola di Dio, la parola di un altro mondo, diverso dalle miniere e dalle taverne dove vanno a finire i sogni di gioventù e si esauriscono i pochi pezzi d’oro racimolati nel gelo. La missionaria non ha retto al viaggio, ha ceduto, tuttavia ella si era data un compito: occorre agire e prenderne il posto. È vero, la decisione più che presa sembra prendere Mae West (il fuori irrompe), poiché Annie ricorre al cambio di identità e al travestimento per sfuggire alla polizia (è accusata di omicidio), ciononostante, di fatto, Mae West assume quel ruolo e agisce di conseguenza. D’altronde le deviazioni, le svolte, le rinascite non sono sempre programmate e volute. Ovviamente la West agisce a modo suo: parla a quegli uomini induriti dalle fatiche e sfiancati dall’alcol, allucinati dal miraggio e raggelati dagli stenti, parla, ma non di Dio o dell’altro mondo, ma di questo mondo, anche se ne parla differentemente («I’m an Occidental Woman in a Oriental Mood of Love»); e lo fa in un percorso bizzarro e deviato, di riscatto e rigenerazione.

2.9 Sul ritmo L’azione è il ritmo incalzante costruito con movimenti narrativi e traiettorie di corpi che ribaltano senza riposo le situazioni, con concatenamenti veloci di carrelli e riprese dal basso (la lunga scena dell’inseguimento in auto) che sorregge la struttura narrativa di L’avventura impossibile. Cinema puro, forma del narrato, L’avventura impossibile è un dispositivo perfetto in virtù del quale i soggetti e i fili della tessitura narrativa procedono sparati, a tutta velocità, determinando di volta in volta, nell’azione, situazioni imprevedibili e soprattutto depistando gli inseguitori. L’azione è il brivido e l’emozione suscitate dalle continue derive che sospingono la pattuglia sperduta capeggiata dallo spavaldo e intrepido Errol Flynn tra un’avventura e l’altra, dalla Polonia all’Olanda passando per Berlino e ritornando infine in Inghilterra, dopo aver compiuto in 98

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détour e deviazioni, scorribande e atti di sabotaggio non previsti né autorizzati per mezza Europa, spezzando la tragica monotonia dove si combatte la guerra al fronte o per i cieli. È così che, partiti con una missione ben precisa, con un tragitto limitato nel tempo come nello spazio, nel fuoco dell’azione – le cui fiamme sprigionano improvvisamente e in ogni luogo – i soldati di L’avventura impossibile, trascinati dal tenente Forbes (Errol Flynn) – tanto irresponsabile quanto audace – per conto loro, senza piani né strategia, inventandosi una traiettoria che contravviene alle regole di condotta prescritte dalla disciplina militare, provocano ai nazisti molti più danni con il loro zigzagare veloce, notturno, da guerriglia, che non rispettando gli ordini della loro missione ufficiale (peraltro eseguita, pur senza rispettarne la linearità). Una pattuglia perduta agli ordini, indisciplinata (vola a bassa quota e scarica i serbaoti di riserva), è anche quella dei giganti del cielo comandati dal maggiore Edmond O’Brien in Falchi in picchiata (Fighter Squadron, 1948), film molto amato dal gruppo dei critici di «Présence du Cinéma» e primo esperimento di Walsh con il colore (in Technicolor). Più che un film di combattimenti aerei, Falchi in picchiata è un combattimento e le inquadrature sparano. Energetica del ritmo, assalti inarrestabili di quanti d’energia, gli uni dietro agli altri, senza sosta, né tentennamenti, come gli assalti guidati da Custer nel film walsh-flynniano del 1941. I falchi si schiantano, colano a picco, s’incediano, alti, oltre ogni limite: combattere come creare, creare traiettorie imprevedibili che sorprendono i nemici e urtano la sensibilità rattrappita degli strateghi inabissati nel gorgo delle scartoffie. Una pioggia lucreziana di proiettili, di variazioni, di ondate che non possono proprio arrivare a destinazione, sul bersaglio, con ritmo regolare. Falchi in picchiata è una pura economica di slanci vitali, ad occhi chiusi, contrapposti ai continui maneggi del sergente Dolan (Tom D’Andrea), vitalismo da camera, divertente in fondo (il minimo d’intreccio da commedia è affidato solo alle vicende di questo personaggio), ma trattenuto e svilito dalla volontà di pianificazione e manipolazione del sergente attraverso la quale altera le disposizioni degli ufficiali e le intenzioni dei suoi sottoposti per potersi, di volta in volta, incontrare con una bruna o con una bionda nei villaggi sparsi intorno alla caserma. I giganti del cielo continueranno a svettare, nonostante le defezioni, con i loro assalti al cielo, dimentichi, nelle loro deviazioni tra le nuvole, del mondo, delle sue macchinazioni, degli ordini e delle medaglie; mentre il sergente subirà l’umiliazione inflitta dalle ombrellate delle madri delle giovani 99

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TONI D’ANGELA

ragazze imbarazzate dal suo corteggiamento e, dopo di ciò, finirà anche in carcere sbeffeggiato dal suo furiere.

2.10 Lo scambio simbolico e la morte L’azione non è niente affatto precisa o scontata come un teorema logico. L’azione è il mondo agli esordi, è il mondo nel suo farsi. All’inizio è l’azione ma lo è anche alla fine. Alla fine di qualche azione c’è sempre un mondo, un altro mondo, un mondo nuovo o un mondo nel quale non c’è più spazio per alcuni, come succede ad Humphrey Bogart in Una pallottola per Roy 94. L’azione, il mondo dell’azione, nel cinema walshiano è diversificato e molteplice, è l’imprevedibile, la sfida, anzitutto con se stessi. Già a partire dal lontano Regeneration, la cui stampa originale fu ritrovata soltanto nel 1976, in uno scantinato di un edificio del Montana destinato da lì a poco a essere demolito. Dramma sociale d’ambientazione gangsteritica (il primo con ogni probabilità insieme al corto di D.W. Griffith, The Musketeers of Pig Alley, 1912), fatto di violenza e alcol, docks e miseria, volti consumati e corpi curvati dalle fatiche, cadute e rinascite. Saggio griffithiano di montaggio parallelo e alternato, ritmato da tagli, mascherini, primi piani e dettagli che lo slanciano anzitempo nell’olimpo del classicismo. Per la prima volta con Regeneration, il suo primo mediometraggio, Walsh può disporre di una quasi totale libertà di azione sia sul piano della sceneggiatura che delle riprese, partendo da un intreccio di base classico che lega la raffigurazione pittoresca e fortemente realistica del

94 Il film fu rifiutato da George Raft perché non voleva morire alla fine del film. Con questo noir pressoché insuperabile nelle sue traiettorie narrative nonché nella costruzione delle inquadrature si ha la definitiva affermazione di Humphrey Bogart che aveva già lavorato in ruoli più secondari con Walsh in I ruggenti anni Venti e in Strada maestra, dove accanto a Bogart e Raft, l’affascinante e ricca di talento e intelligenza Ida Lupino (protagonista femminile anche in High Sierra) aveva finito per attirare tutta l’attenzione su di sé, ottenendo un contratto di 7 anni con la Warner. Raft fece davvero la fortuna di Bogart (e disfò la sua!) perché dopo Una pallottola per Roy rifutò anche Il mistero del falco (The Maltese Falcon, 1941) di John Huston, sceneggiatore di Una pallottola per Roy, perché non voleva rischiare con un regista agli esordi come era Huston.

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malfamato quartiere Bowery di New York (a cui Walsh dedicherà nel 1933 un altro film nero, Spavalderia – The Bowery, con George Raft95) a una trama melodrammatica, dove l’eroina, direttrice di una missione per l’assistenza dei poveri e dei disoccupati, si innamora del gangster locale, il quale morirà ucciso dai suoi compari per essersi allontanato dal crimine96. Doppio itinerario narrativo, topologia delle emozioni, intersezioni di

95 Durante le riprese dell’ultima scena di Spavalderia, quella girata sul ponte in cui Steve Brodie (George Raft) si lancia nel fiume, Walsh, come racconta nel documentario di Schickel, decise di fare uno scherzo a Raft – che con Walsh girerà altri quattro film tra il 1935 e il 1943 – che se ne stava comodamente seduto nella limousine. Walsh andò da Raft e gli disse che erano nei guai perché il cascatore si era licenziato, e quindi sarebbe necessariamente toccato a lui, Raft, saltare dal ponte! «Sbiancò come un fantasma». Walsh lo rassicurò, gli disse che sarebbe andato tutto bene e se ne tornò come niente alla cinepresa. Raft protestò che non sapeva nuotare, ma Walsh, impassibile, gli disse che non c’era nessun problema, perché appena finito in acqua ci sarebbero state tre barche pronte a recuperarlo. Raft continuò la sua protesta dicendo che secondo l’autista circa 300 persone si erano lanciate dal ponte ed erano tutte morte. «Quella gente voleva morire, tu non vuoi morire, lo fai per diventare un eroe», replicò Walsh. Raft tentò un’ultima obiezione: «Se non ce la faccio?”. Walsh rispose: «Ci occuperemo noi della tua sepoltura e avrai un funerale magnifico!». 96 Consapevole delle possibilità di successo di un debutto cinematografico, Walsh racconta come già in questi primi anni egli fece tesoro della lezione tecnica, morale, estetica di Griffith: «il procedimento classico per realizzare un film (fino a che Griffith non cambiasse questo modo di fare) era di girare la storia per sequenze, nell’ordine cronologico, così come si legge un libro. Griffith mi aveva insegnato a fare dei sunti, a adattare il mio piano di lavoro ai cambiamenti di tempo e alle altre circostanze imprevedibili. Ispirandomi a questo consiglio, ho sempre scritto il mio personale piano di riprese». Le riprese, alcune delle quali spettacolari come l’incendio del battello sull’Hudson impegnarono diverse comparse che Walsh si procurò direttamente nei bassifondi di New York, e furono particolarmente movimentate contribuendo indirettamente alla pubblicità del film in uscita (in occasione della ripresa sull’Hudson e dell’evacuazione del battello, Walsh fu anche arrestato per alcune ore da una vedetta di polizia che riteneva fosse il responsabile di un vero incendio). Gli inconvenienti non si limitarono alle riprese: una volta che il montaggio era già terminato, mentre venivano proiettate le prime stampe, ci si accorse che nella sequenza dell’evacuazione del battello «una dozzina di donne almeno erano integralmente nude sotto le loro gonne lunghe», sollevate in aria mentre si gettavano nell’acqua. «Che fare? – prosegue Walsh – Se noi avessimo tagliato questa parte della scena, tutto il film sarebbe crollato, e se noi l’avessimo lasciata tale quale, saremmo stati messi al bando durante un periodo lungo, molto lungo». La soluzione fu trovata rapidamente grazie a un asso del rattoppo delle pellicole che riuscì in un solo giorno a «rimettere le mutande» a una ventina di comparse commentando così il suo lavoro: «Una volta le donne io le spogliavo, ora occorre che le rivesta. La sera successiva – conclude Walsh – proiettammo la bobina raccomodata: era perfetto, a parte il fatto che alcune donne avevano l’aria di portare dei pannoloni. Perlomeno la decenza era salva». Cfr. Raoul Walsh, Un demi-siècle à Hollwood, cit., pp. 129-130.

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TONI D’ANGELA

movimenti e corpi, affetti, quelli dei due soggetti riscattati e rigenerati: il villain Owen (Rockcliffe Fellows) e la maestrina Mamie Rose (Anna Q. Nilsson); itinerario di ascesa e discesa, risalita e rigenerazione, dall’alto verso il basso: la compassione e a generosità di Mamie, il suo sguardo sulla degradazione dei quartieri malfamati; e dal basso verso l’alto: il riscatto di Owen che eleva lo sguardo al di sopra della parzialità in cui è da sempre catturato. Regeneration è il primo mediometraggio per Walsh ma, osserva Tag Gallagher, è già contenuta tutta la sua arte; aldilà delle convenzioni un po’ vittoriane in Regeneration è reperibile una mirabile complessità nel modo di mostrare la conversione del villain che si ritrova dopo essersi perduto nella scoperta di piaceri più semplici: naturali e necessari. I pezzi di bravura abbondano: l’incendio sulla barca con i passeggeri che si gettano nell’acqua. E poi le scene di litigio che sono di una vitalità che afferra, come pure la sequenza, che Keaton – secondo Gallagher – ha dovuto vedere, dove un uomo tenta di fuggire con brani di biancheria lanciati tra due edifici97. Stupefacente anche nell’uso della macchina da presa e del primo piano; con Walsh la mdp entra nell’azione: «la macchina da presa è parte dell’azione, parte del personaggio e rende anche noi partecipi di entrambi» e infatti «Regeneration, girato nel 1915 pochi mesi dopo Nascita di una nazione […] è un film sbalorditivo per il 1915 e segna l’inizio di un nuovo cinema»98. Nella filmografia disseminata di Walsh, senza centro, stacca da questo sfondo di molteplice divenire una molteplicità di figure della azione e della narrazione. Forse, su tutte e fra tutte, tre figure si smarcano per insistenza e persistenza: riscatto, rigenerazione e gloria. Tre figure, peraltro, non facilmente distinguibili: riscatto e rigenerazione sono spesso sovrapponibili, in sovrimpressione, oppure si implicano l’una nell’altra; quanto alla gloria, questa può essere letta anche come un rilancio e uno slancio, un prolungamento, del riscatto e della rigenerazione. La rigenerazione di Mae West in Annie del Klondike. Capacità, desiderio, volontà di rinnovarsi e di riscattarsi da un peso dal passato: è quella dei pionieri guidati da John Wayne in Il grande sentiero, che riscattandosi dal loro essere sottoposti alle leggi e ai costumi, ai disagi della civiltà (europea) penetrata nel

97 98

Cfr. Tag Gallagher, Raoul Walsh, cit. Ibidem.

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Nuovo Mondo attraverso gli inglesi, si rigenerano e si reinventano americani, abitatori di un mondo immaginato in rete, sognato disponibile e vuoto, come una cavità da riempire. Ma, inequivocabilmente, nel cinema di Walsh la rigenerazione più famosa, più tragicamente celebre, perché segnata dalla non-realizzazione, è quella raccontata in due dei film più neri di Walsh: Una pallottola per Roy e Gli amanti della città sepolta, che poi è il remake western con Joel McCrea e Virginia Mayo del film interpretato da Humphrey Bogart e Ida Lupino, scritto da John Huston dal romanzo High Sierra di W.R. Burnett99. Tragica rigenerazione: non c’è più tempo, né spazio per rigenerarsi. La scelta è stata compiuta ma, nonostante il carattere (la volontà di ricominciare e riprovare), fatalmente il destino (gli intrighi e le bassezze del mondo) si frappone fra la scelta e la libertà, rigettando la volontà nel nulla. Il destino, la società civile, il controllo, il potere, ricacciano Roy Earle e Wes McQueen nell’ombra passato, nella tentazione e nel delitto. Costretti ancora all’angolo, rintanati sui monti solitari scavati dai venti, nei pressi di una città sepolta, scomparsa, memoria di violenza e sterminio, vicino ai cadaveri, nelle braccia della morte. Le pareti di quei monti sono incise dalle tracce del tempo scandito dalle sofferenze e dalle distruzioni. Fogli della natura scritti dalla memoria delle ingiustizie, ma anche dalle speranze e dagli amori. Tra quei monti, su quelle vette, Bogart e McCrea respirano anche se non scoprono il buco che li apre alla rinascita e alla libertà, un mondo differente; Roy e Wes trovano la morte in questo mondo non-riconciliato. La morte fulmina a tradimento, mozza il respiro nell’istante più felice (Roy e Wes respirano) che diventa, così, il più crudele. Erano quasi salvi, si stavano salvando, poi… un lampo di fuoco. Lontano. E la notte scende. Tutto finisce. Roy e Wes finiscono, anzi no, muoiono, solo gli animali e, ancor più, chi si è arreso (alla Legge, al comfort dell’intérieur, al Destino), finisce. Brucia però la loro speranza, il loro gesto di rifiuto, di consegnarsi alla negoziazione alla quale preferiscono la restituzione di una vita solo lasciata vivere. «Peccato che la speranza sia morta. No. Come si sperava lassù,

99 Il film del 1949 fu scritto invece da John Twist. A proposito di Huston, segnalo che Walsh curò, per la Warner, la revisione tecnica di due film neri di Huston, entrambi interpretati da Bogart, Il tesoro della Sierra Madre (The Treasure of the Sierra Madre, 1947) e L’isola di corallo (Key Largo, 1948); Walsh ha revisionato anche Acque del sud (To Have and Have Not, 1944) di Howard Hawks, interpretato anche questo da Bogart.

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in certi momenti. Con quanta diversità»100. Tra quei monti, stranamente, si respirava la libertà. Roy e Wes, su quelle vette hanno sognato, hanno avuto l’impressione di essere restituiti al fattibile e al possibile, aldilà di qualsiasi ingiunzione o finalità solo per respirare e andare in giro sotto l’«andirivieni del giorno e della notte»101. Hanno sognato di andare, hanno sognato di essere, hanno sognato di dire. E lo avrebbero anche fatto, avrebbero sognato, vissuto, se solo avessero potuto, se solo non fossero stati inghiottiti nella Storia: intreccio sociale, intrigo economico-politico, complotto. Hanno sognato ma non hanno sperato, né atteso102. La speranza come calcolo, come economia usuraia, residuo medievale, è rifiutata, la speranza come «attesa interessata di tutti gli attori economici coinvolti in una operazione che implica il tempo e si inscrive in una attesa ricompensata da un beneficio (o da un perdita), o da un interesse (lecito o illecito)»103. Roy e Wes hanno più riguardo per il Tempo, rifiutano sia la borsa che la vita (come dono, la vita lasciata solo vivere), sono fuori della logica del calcolo che misura e preventiva, fuori dell’attesa o del guadagno: pur essendo compromessi nell’azione (il piano, la rapina) non sono affatto devoti fatalmente, circoscritti, all’interesse (da realizzare attraverso l’azione con la complicità dei soci balordi), né pianificano razionalmente, discorsivamente, per attendere un beneficio (il plauso della società rispettabile che si attendono di ricevere le forze dell’ordine che contrastano Roy e Wes). Roy e Wes, come il Custer walsh-flynniano, sono personaggi più in atto che in azione. Il loro carattere non si esaurisce nelle azioni (riuscite o fallite), né si arrende alla trama della macchinazione, piuttosto si schianta contro gli ingranaggi della macchina sociale, del destino di cui parlava Benjamin: «stato demonico» di infelicità, di colpa, che esige una vittima sacrificale, «una nuda vita», «un portatore desinato della colpa», una vita condannata anticipatamente perché inscritta in un contesto di colpevolezza costituito da una macchina sociale che può fabbricare solo dolore e castigo; colpevole per il diritto (dei più potenti) è tutto ciò

100 Samuel Beckett, Testi per nulla, in Primo amore–Novelle–Testi per nulla, Torino, Einaudi, 1982, p. 113. 101 Ivi, p. 133. 102 «Credo sia rivoluzionario proprio il non aver nulla da sperare». Cfr. Jean-François Lyotard, Appunti sulla funzione critica dell’opera, cit., p. 40. 103 Jacques Le Goff, La borsa o la vita, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 88.

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che vive e che decide liberamente di darsi la morte come Roy e Wes – colpevole, almeno fino all’avvento di una nuova epoca storica104. Impossibilità e possibilità di rigenerazione. È il gioco che struttura Una pallottola per Roy e Gli amanti della città sepolta, la tensione sviluppata da molto cinema walshiano: a volte le lacerazioni sono saturate mentre altre invece esplodono nella non-riconciliazione o nella perdita del «centro smarrito dell’idillio»105. Anche il bandito Roy Earle, in Una pallottola per Roy, era un bambino felice che andava a pesca e correva per i boschi fintanto che qualcuno non gli ha strappato la casa, la terra, l’avvenire e i genitori, come si vede anche negli incipit di Jess il bandito (Jesse James, 1939) di Henry King e Furore (The Grapes of Wrath, 1940) di John Ford o in Terra lontana (The Far Country, 1955) di Anthony Mann – e come si legge nel capitolo sull’accumulazione originaria del Capitale di Marx. Non-riconciliazione tra i rappresentanti del potere, le autorità del mondo così-come-è, e gli emarginati, i randagi, i desperados o i folli, su tutti James Cagney in La furia umana. Cody Jarret-James Cagney la colpa l’ha ereditata malgré lui. Consegnato alla follia ancor prima che alla legge, Cody agisce. Scatta e pianifica, tenta, seppure vanamente, di riscattarsi dal passato, di sottrarsi alle lunghe ombre delle turbe mentali. Cagney lotta, si difende dibattendosi di volta in volta contro gli attacchi violenti delle crisi («È come avere una sega circolare bollente dentro la testa» dice Cody alla madre), sfiancato, spossato, tradito (dal poliziotto travestito da amico, dall’avidità dei complici e dell’amante, dalla disattenzione della madre), Cody affronta e respinge la promessa di pazzia ereditata dal padre. Si difende ma, anche, cede, ha crolli senso-motori in presenza di ciò che è intollerabile: il tradimento o la morte della madre uccisa dai complici che l’hanno tradito. Cody Jarrett è un centro energetico senza alcun equilibrio, un centro destrutturato, una tensione incessante, un concentrato energetico sull’abisso della deflagrazione: «una folgorazione che consuma»106 ma che è attesa. Cody più che cadere nel complotto tramato dal poliziotto che si è finto suo amico e invece lo ha tradito, l’accetta: «la distruzione folgorante costituisce, nella trappola della vita, l’esca che non

104 Cfr. Walter Benjamin, Per la critica della violenza e Destino e carattere, in Angelus Novus, cit., pp. 5-36. 105 Carlo Scarrone, Raoul Walsh, cit., p. 140. 106 Georges Bataille, L’arte, esercizio di crudeltà, Genova, Graphos, 2000, p. 10.

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manca mai di attrarci»107. Ha un’energia incontenibile, senza contegno, fuori legge ma soprattutto ha il coraggio di sopportare la crudeltà. La sua destinazione è quella di incendiarsi perché è lui a sceglierla, a volerla fin dall’infanzia (l’eredità della follia), risponde non per rassegnarsi all’ordine (non si arrende ma brucia) ma per alterarlo. Scrive Bataille: È a una simile attesa che risponde l’esca del sacrificio; ciò che attendiamo fin dall’infanzia è questo alterarsi dell’ordine entro cui soffochiamo. Nel sacrificio un oggetto deve essere distrutto (distrutto in quanto oggetto e, se possibile, in quanto separato); noi ci introduciamo nella negazione della morte, che affascina come la luce. Poiché l’alterazione dell’oggetto – la distruzione – ha valore solo nella misura in cui ci altera, in cui altera al tempo stesso il soggetto108.

Carattere e destino co-incidono; compiersi è dissolversi nella catastrofe non per effetto di un complotto buio o di una sceneggiatura che stritola, schiaccia, separa, bensì per sottrarsi a questo destino distruggendosi, nella luce delle fiamme, in quanto oggetto di complotto, di tradimento, oggetto separato dalla sua libertà e dai suoi affetti anzitutto: «In noi si accumulava da molto tempo la materia infiammabile, e ora qualcuno di fuori accende la miccia. Dal nostro interno parte l’esplosione»109. Cody, con il suo richiamo violento al godimento strano e perturbante, esplode in un’ebbrezza moltiplicata sputata crudelmente contro la forza coerente e tranquilla della legge, contro l’opacità del mondo finalmente attraversato «con lampi apparentemente crudeli, in cui la seduzione si lega al massacro, al supplizio, all’orrore»110; rapito fuori di sé dall’eccedenza dei suoi deliri, Cody brucia; preda, come Atteone111, dei suoi stessi cani, pensieri

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Ivi, p. 11. Ivi, p. 12. 109 Ernst Jünger, Diario. 1941-1945, Milano, Longanesi, 1957, p. 135. 110 Georges Bataille, L’arte, esercizio di crudeltà, cit., p. 13. 111 «Così Atteone con que’ pensieri, quei cani che cercavano estra di sé il bene, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, ed in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era necessario di cercar fuor di sé la divinità». Cfr. Giordano Bruno, Gli eroici furori, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 54. 108

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impensabili, e nel suo urlo finale scatena altre forze dissolvitrici112: urlo che concatena dolore e rabbia, taglio liberatorio che squarcia il cielo. La furia umana è questa vampa, questo grido di rabbia, un fiammeggiante disquarto bruniano, uno squarcio in cui la serie materiale dell’energia incandescente della locomotiva (che nell’incipit emerge dal tunnel sputando calore bianco, vapore bianco che incendierà questo gangster-movie fino a trasformarlo, nel cammino narrativo dell’azione113, in un film nero) e le forze materiali, come già in Fulminati, si alleano per alterare le passioni del carattere che tentano di forzare il destino. Cody incarna la follia che contesta fino a dissolverla la razionalità e il suo ordine, apparenti, fasulli, simulati: per questo è in cima al mondo, come Roy Earle e Wes McQueen, anche loro in alto, in cima, sulle vette dei monti a respirare l’aria. Questa razionalità contestata è solo controllo, simulazione, come simulata era l’amicizia del poliziotto infiltrato, che ama pescare nel fine settimana, tranquillo, coerente, misurato. Come Giovanni, figlio di Florio, in Peccato che sia una puttana di John Ford (il poeta elisabettiano), Cody, détournando Artaud che tratteggia un ritratto del furore eroico di Giovanni: non tentenna un istante, non esita un minuto; dimostra così quanto poco possa contare qualunque barriera che gli si opponga. È criminale con eroismo, ed è eroico con audacia e con ostentazione. Tutto lo spinge in questa direzione e lo esalta, non esiste per lui né cielo né terra, ma solo la forza della sua convulsa passione […] una passione sovraumana che le leggi arginano e ostacolano114.

La furia umana sprigiona una lacerazione che non ammette alcuna ricomposizione poiché il mondo prende fuoco, esplode nel conflitto insolubile tra legge e godimento, misura e perturbante. Le fiamme conclusive di La furia umana divampano nella durezza della non-riconciliazione: rottura insanabile tra carattere e destino, fuorilegge e legge. La furia umana, per molti aspetti rappresenta un punto d’arrivo pressoché insuperato di 112 Questi cani, pensieri impensabili, sono sì forze dissolvitrici ma valgono: «Atteone, troppo colpevole di cacciare la dea, preda in cui è presa, o cacciatore, l’ombra che tu divieni, lascia che la muta vada senza che il tuo passo s’affretti. Diana riconoscerà i cani da quel che varranno». Cfr. Jacques Lacan, La cosa freudiana, in Scritti, I, Torino, Einaudi, 1974, p. 428. 113 Allo sviluppo del cammino narrativo di questo film è riservata un’analisi dettagliata e comparata (con altri sei film di Griffith, Renoir, Mizoguchi, Satyajit Ray, Godard e Wenders) in Alain Masson, Le récit au cinéma, già citato. 114 Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 1968, pp. 146-147.

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un cinema d’azione puro e decantato che conclude mirabilmente un decennio particolarmente produttivo di polizieschi e noir con la straordinaria e incandescente interpretazione di Cagney (che sembra quasi riassumere la sua carriera d’interprete di gangter-movies). Un punto tra i più alti del cinema walshiano anche perché disegna la trama di un poliziesco noir in cui la patologia del protagonista si traduce in un complesso gioco spaziale di azioni espansive e centrifughe (lo spazio ambientale come sfondo e cassa di risonanza dell’agire del gangster) e di implosioni centripete (la caduta nella follia solitaria di Cody, il suo progressivo accerchiamento). A dieci anni di distanza da I ruggenti Anni Venti, il percorso criminale di Cody-Cagney non descrive più una diagonale ascendente/discendente, secondo il modello dell’ascesa e caduta del gangster, ma, in assenza di un’evoluzione dialettica, diviene piuttosto un punto mobile preso nella morsa dei suoi inseguitori (poliziotti en travesti o banditi rivali), il luogo d’intersezione di una serie di rette che convergono su di lui. E anche la morte di Cody è diversa da quella di Eddie. Anche se, come Eddie, doveva morire, come ben sapeva Walsh: «deve morire alla fine del film perché non vi può essere posto per l’energia esplosiva contenuta nel suo personaggio»115. Il morire di Eddie Bartlett è ancora classico; certo Walsh filma non tanto il significato ma l’ethos dell’atto, l’atto del morire di Eddie, ma questo, connesso ad un lessico retorico particolare (la retorica del segno filmico in generale, la retorica del gangster-movie in particolare, il curriculum cinematografico di Cagney, ecc.), pur essendo I ruggenti Anni Venti originale all’interno del repertorio degli stilemi e della simbologia universale del genere (gangster-movie), è classico, invece la morte di Roy, Wes e Cody, è un segno staccato, anti-retorico, una disgiunzione – o tendenza alla disgiunzione – tra significante e significato. Figura dell’inatteso 116. Roy Earle, Wes McQueen e Cody Jarrett, muoiono, colpevolizzati e puniti: «Perché fosse data soddisfazione alla legge violata/Come, alla

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Paolo Bachmann, Raoul Walsh, cit., p. 18. Barthes osserva che oltre che alla retorica dei segni filmici che, pur costituendo una riserva fluida di segni, rappresenta i limiti entro cui si determina l’invenzione, il cinema si struttura anche in virtù di segni staccati, inattesi, che smentiscono o rendono ambigua la relazione tra significante e significato e, anzi, proprio questi segni sono la firma dell’autore, la sua originalità. Cfr. Roland Barthes, Il problema della significazione nel cinema, in Sul cinema, cit., p. 52. 116

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legge? La legge? Già…»117, perché «il mondo delira e noi siamo decisi a soffocare il fuoco che sta divampando», dice il Re118. Roy, Wes e Cody, ma pure il Custer di Una storia del generale Custer o il pirata Barbanera, Tough Guys Don’t Dance 119, non patteggiano: They Died with Their Boots On, vivono ad altezza di morte, la morte che, per loro, non è qualcuno che se la svigna, è la restituzione (al Potere, al Controllo, all’ordine della Società civilizzata, policé) di una vita solo lasciata vivere, donata, è un contro-dono, una terminazione del patteggiamento, della discorsività, delle economie di senso che alimentano la nostra vita snaturandola, una figura del rifiuto, del dis-senso, del disordine che fa irruzione nel Codice, una figura della non-riconciliabilità120. Di ciascuno di questi personaggi, di Roy Earle e di Wes McQueen e soprattutto di Custer e Cody Jarrett, si può dire: «Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri – finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente. In questo egli sarà persuaso – ed avrà nella persuasione la pace»121. Il mondo è troppo piccolo per loro, ecco perché Walsh li pone spesso su un campo di battaglia cosmico. C’è una eterogeneità insanabile fra questi eroi o antieroi da un lato e i poliziotti, gli sceriffi, i politicanti dall’altra: un’eterogeneità che non ammette alcun suolo comune, né distinzioni di grado, come quella messa in scena da Nicholas Ray in Johnny Guitar (Id., 1954)122; un’eterogeneità radicale e di natura che in Una pallottola per Roy, Gli amanti della città sepolta e La furia umana si incarna nell’immagine narrativa della fuga finale in direzione di ciò che sta più in alto, il Conflitto: l’eterogeneità è topologica: Roy, Wes e Cody fronteggiano il mondo intero guardandolo senza indugio dall’alto in basso; mentre gli 117

Hugo von Hoffmansthal, La torre, cit., p. 53. Ivi, p. 55. È il titolo di un romanzo di Norman Mailer del 1984, I duri non ballano. 120 Per l’economica pulsionale-energetica e lo scambio simbolico: cfr. Jean-François Lyotard, A partire da Marx e Freud, cit.; Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 2007. 121 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Milano, Adelphi, 1990, p. 89. 122 Anche questo film topologicamente è costruito sul rapporto alto-basso, sulla contrapposizione di colori e emozioni, in particolare nella sequenza in cui gli allevatori nerovestiti e inferociti dall’avidità più ripugnante, che li chiude all’altro e al fuori, irrompono nel saloon di Joan Croafword, luminosa nel suo bel vestito bianco; eterogeneità prossemica (lei è distante e separata), topologica (lei sta in alto e stringe in pugno la sua pistola, loro tremanti e risentiti stanno in basso), segno che Vienna (Joan Croafword) abita in un’altra regione, abita differentemente il mondo. 118 119

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inseguitori, sacerdoti del culto della ragione e dell’ordine, rappresentanti delle forze repressive e di rimozione, di sotto, tremanti per l’implacabilità dei loro antagonisti, tramano e sparano a tradimento (cfr. fotogrammi 45-62, 63-78, 79-130). Roy, Wes e Cody, ma anche Custer, sono singolarità nella misura in cui sono corpi il cui piacere dipende solo da effetti di rottura, dal rifiuto della misura e della moderazione. D’altronde, il corpo è quel campo in cui si affrontano scopi così inconciliabili come la realizzazione del piacere ed il mantenimento della vita. Il piacere è disorganico, è disordine, non trova posto nella coerenza e nell’ordine organico. È questa la causa assoluta per cui tutti questi personaggi sono e vogliono essere ostili alle istituzioni e agli uomini che si propongono di assicurare l’ordine delle cose, di aggiustare le cose, prudenti, per non dire deboli; facitori della rimozione del pluralismo delle forze e devoti della sola «imperialista pulsione di vita»123. Questi eroi o antieroi sono fuorilegge, figure della dismisura, non per il fatto del tutto accidentale che sono criminali (Roy e Wes), folli (Cody) o disubbidienti (Custer), ma perché la loro avventura hanno deciso che doveva essere il piacere, il godimento strano, il dispendio, il disfarsi del corpo organico, dell’ordine biologico, della conservazione, della misura e della prudenza. Questi, sono tutti personaggi eccessivi, eccedono il limite proprio per affermare la loro singolarità, assolutamente non-negoziabile e, come ha notato Martin Scorsese nel suo Viaggio nel cinema americano 124, sono «aldilà del bene e del male»; più che buoni o cattivi sono, piuttosto, personaggi lirici con una insaziabile fame di vita, fuori del comune, irriducibili e non-riconciliati con il fondo sociale o comunitario che, invece, ad esempio struttura l’epica fordiana: Inutile confrontare Walsh e Ford: anche in situazioni analoghe il loro punto di vista è differente; in Walsh la “comunità”, quando è presente, non è che lo sfondo, il sontuoso fondale dell’individuo che intraprende le sue prodezze, le sue gesta, le sue avventure, criminali o no: meteore lanciate attraverso il cammino anonimo della folla125.

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Serge Leclaire, Smascherare il reale, cit., p. 53. Il documentario sul cinema americano da Griffith agli anni Sessanta, Scorsese lo ha scritto e diretto nel 1995 insieme a Michael Henry Wilson, studioso del cinema di Raoul Walsh. 125 Gérard Legrand, Cinémanie, cit., p. 340. Le formule di Legrand (la Comunità di Ford e la Singolarità di Walsh) sono definizioni semplici ma efficaci, non facili schematizzazioni, anche se la non-riconciliazione è senza dubbio una marca dell’ultimo Ford. 124

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2.11 Il rovescio del diritto

Non-riconciliazione è anche quella messinscena in Banda degli angeli. Film critico, intenso e fiammeggiante – come la fotografia di Lucien Ballard. Esibizione autoriflessiva della crisi e sulla crisi. Non-riconciliazione figurata sensibilmente, costruita attraverso una figura filmica, un modo di procedimento cinematografico: il campo/controcampo conclusivo del film. Banda degli angeli nella produzione cinematografica di Raoul Walsh chiude una trilogia: Gli implacabili, Un re per quattro regine (The King and the Four Queens, 1956) e, appunto, Banda degli angeli. Tre film interpretati da Clark Gable. Trilogia-giuntura tra il classicismo degli anni Warner e l’ultima maniera walshiana. Gli implacabili è un ultimo vigoroso sussulto di classicismo, strappato in apertura da un campo/controcampo conflittuale (natura/civiltà) e ricucito in chiusura con una composizione calma e placida. Un re per quattro regine è il classicismo rovesciato in barocchismo, aperto e chiuso da un movimento di fuga. Banda degli angeli sviluppa la radicalizzazione barocca – sul cotè melodrammatico – accennata nel primo western e lavorata più a fondo nel secondo. L’apertura ancora una volta è un contrasto di forze, ma è soprattutto la chiusura a segnare il passo rispetto ai due film precedenti: non c’è ricucitura come in Gli implacabili, né movimento di fuga come in Un re per quattro regine. La figura che marca questo film è la non-riconciliazione. Banda degli angeli si apre nel cuore dell’azione e dell’opposizione con un inseguimento trattato classicamente con un montaggio alternato. L’inseguimento, secondo Burch, è una figura filmica decisiva nella scoperta del principio di concatenazione spazio-temporale. È una figura-chiave della genesi della linearizzazione del racconto filmico tipico della «grande forma narrativa», in quanto mette in scena un’idea di successione temporale e al tempo stesso un’idea di contiguità spaziale126. Walsh però tratta l’inseguimento differentemente, più filosoficamente. La sua non è mai una messa in scena di un racconto lineare in quanto la scena è messa sempre in deviazione nel suo cinema. Estetica della deviazione che fa nodo nel raccordo tra la prima scena (quella dell’inseguimento) e la seconda (il dialogo tra Amantha e il padre). Estetica annunciata nel raccordo-manifesto che concatena i corpi (ri)presi

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Cfr. Nöel Burch, Il lucernario dell’infinito, cit., pp. 128-136.

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tra luoghi fisici e stati dell’anima: ombre nere della palude che allungano la loro disperazione sull’orizzonte di una bambina spensierata e felice. Non un semplice raccordo, non un segno di interpunzione, bensì una dissolvenza-fusione di due luoghi geografici e di due condizioni dell’anima, un rapporto interno, genetico, tra due inquadrature, un’intersezione tra due situazioni psico-geografiche, per usare una formula del teorico Balász127 o forse un barthesiano segno staccato, una figura non solo rappresentativa dello sviluppo narrativo del film (con i suoi rovesciamenti e ribaltamenti) ma, più in profondità, del suo stile, una firma dell’eccedenza walshiana, della sua deviazione. I fuggiaschi (due schiavi del Kentucky) sono stati catturati. Entrano nel prato verde che circonda la bella e bianca casa coloniale. Rasentano il corpo della piccola Amantha, incantata e incatenata nella sua attività di pura leggerezza: riassettare i fiori sulla lapide della madre defunta ormai da lungo tempo. La dissolvenza incrociata non si limita a collegare narrativamente palude e tenuta, non è un mero segno di interpunzione, ma una figura di crisi, una figura del rovesciamento, del ribaltamento, della deviazione. La dissolvenza, propriamente, rovescia la palude e la nera disperazione dei due schiavi nella tenuta in stile coloniale e la riversa nel destino della bambina. Non è un’interpunzione ma un sobbalzo, una vibrazione che contrassegnerà il ritmo del racconto filmico e ne disegnerà l’itinerario senso-motorio, provocando il crollo delle singolarità. Rovesciamento rafforzato, narrativamente e concettualmente, dalla coda di questa prima scena, quando Walsh con un movimento di macchina appena abbozzato, un principio di carrello in avanti, chiude sulla figura meditabonda e irrequieta del padre di Amantha. Il movimento di macchina ondeggia lungo la scia delle fluttuazioni dell’anima, storna nervosamente dalle linee geometriche delle inquadrature precedenti, incrina l’idillio. C’è un’eccedenza di senso in queste e altre scene walshiane, come nel bacio fulminante tra George Raft e Marlene Dietrich Fulminati o nel duello tra Rock Hudson e Lee Van Cleef in Il diario di un condannato. Eccedenza irriducibile alla porzione di sceneggiatura filmata. Senso articolato e disarticolato in un discorso significante alimentato nella sua forza espressiva dalla densità di questo senso, come nella sublime scena dell’uragano voluta da Walsh per intensificare l’azione e mostrarne la tensione,

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Béla Balász, Il film, cit., p. 152.

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il rovescio, lo spirito del corpo. I due vecchi marinai, compagni di scorribande e disavventure, grottesche e crudeli, bevono rum nel giardino ormai pacificato di Hamish Bond rievocando i tempi andati cullati dalla melodia cantata dallo schiavo Rau-ru (Sidney Poitier). Il quadro è leggero, brioso e alcolico, perfino ordinato; ma sarà proprio la rievocazione del passato (come in un rituale di evocazione degli spettri) a provocare il riaprirsi di vecchie ferite, vecchi incubi, che proprio non ne vogliono sapere di cicatrizzarsi. Il dolore riaffiora nel luccichio degli occhi di Clark Gable, trattenuto nella sua postura malinconica, ma visibile. La crisi pulsa in questi occhi brillanti, fessure sospese sull’abisso, aperte sulla violenza e costrette dalla solitudine a chiudersi. Il vento irrompe, si solleva improvvisamente, soffia, incalza; le nubi si gonfiano di rabbia, si addensano minacciose; il cielo esplode in un urlo, divampa il fuoco delle saette, i suoi colori s’infiammano; i vetri delle finestre si rompono, i cardini delle porte picchiano sui muri; l’acqua, scatenandosi nella sua violenza, si rovescia sui due vecchi marinai. La tessitura narrativa si disfa e il presente, gonfiato dall’irruzione del passato, si slabbra. Il temporale è questo incubo, questo passato, questa voce possente, questo soffio perentorio, questa violenza fiammeggiante. L’irruzione fa vento, scuote la terra e sconvolge la leggerezza di Hamish Bond. È un uragano di senso aldilà dell’ordine del qui e ora, della rappresentazione; è un senso ottuso, oltre il livello informativo o simbolico, che pure sostanziano questa scena; senso contrapposto, come scriveva Barthes in un intervento sul Senso del cinema pubblicato per i «Cahiers du Cinéma»128, al senso ovvio, un senso eccedente. Un supplemento che è la firma di Walsh, la contro-storia eccedente sia la sceneggiatura che il sistema degli studios. È un’apertura all’alterità, a quell’alterità irrapresentabile che può solo essere allusa, al figurale lyotardiano, all’energetico e al pulsionale, è la sua firma d’autore. «Uno sfogliato di senso che lascia sempre sussistere il senso precedente, come in una costruzione geologica»129; un senso che conserva l’informazione e la significazione, l’aneddoto narrativo (che funge da snodo nel racconto informandoci sulla vita passata di Hamish Bond) e il simbolo (il giardino, la compostezza, la gentilezza,

128 Cfr. Roland Barthes, Le troisième sens, scritto nel 1970 e pubblicato nel numero 222 dei «Cahiers du Cinéma» e ripubblicato in L’ovvio e l’ottuso, Torino, Einaudi, 1985 e in Sul cinema, cit. 129 Roland Barthes, Il terzo senso, in Sul cinema, cit. pp. 122-123.

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come ricomposizione o rimozione fittizia dei conflitti), ma che conserva il senso precedente, il senso ovvio (l’informazione e la significazione), solo sfregiandolo, rigandolo, firmandolo. Questo uragano non è solo un episodio e neppure la voce possente del passato o la figura della crisi, questo uragano è un accento, una emergenza, una piega che «contrassegna il pesante strato delle informazioni e delle significazioni»130: non solo perché marca ma, soprattutto, perché è un contro-segno; è la libertà dell’autore, libertà intenzionale di depistare, come è tipico dello stile di Walsh, libertà di smarcarsi dalla koiné del lessico e della retorica dei segni, supplemento rispetto al racconto (controstoria) e alla logica della rappresentazione. Pur non sbugiardando o ridimensionando la necessità del racconto e della sua linearità, l’esigenza pedagogico-politica di farsi capire (comune anche ad Ejzensˇtejn o Rossellini), Walsh rimodella lo statuto del racconto, lo riga e sfregia, firmandolo: introducendo un principio di sovversione. Il terzo senso esprime un’emozione, esprime «quello che si ama»131: Walsh amava la deviazione, l’eccedenza, l’intensità. La ferita di Hamish Bond fa da supporto ad un’altra emergenza, un’altra ferita. La ferita di Hamish non solo non si cicatrizza (come non si cicatrizza il cinema di Walsh) ma sanguina, in particolare nella scena in cui Hamish Bond dà fuoco alla piantagione per impedirne l’accesso allo sfruttamento alla banda degli angeli nordisti. Ma il sanguinare della ferita, dolorosamente, è proprio ciò che lo salva dalla schiavitù del ricordo lancinante e dal vuoto della solitudine. La ferita spezza il gioco della solitudine. Nella ferita Hamish Bond si apre, si confessa nella parola (non nel dialogo), rivela le sue avventure agghiaccianti e sanguinarie nel cuore nero dell’Africa, negriero a caccia di schiavi. Hamish Bond si salva nel fuoco del pericolo, nella lacerazione che lo rivela vulnerabile, cioè aperto all’altro. Ferirsi è incrinare la propria autosufficienza, scoprire il principio di insufficienza che ci costituisce. La ferita è la mancanza, il difetto, il buco, l’accesso nel quale si dà il passaggio, la comunicazione della vita dall’uno all’altro. La salvezza in Walsh cresce là dove c’è pericolo e salvarsi non è solo afferrare all’ultimo momento o conservarsi ma manifestarsi nella propria essenza che è il molteplice divenire, la facoltà di risoggettivarsi, processo di ristrutturazione che per Hamish Bond ha inizio con l’entrata in scena

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Ivi, p. 129. Ivi, p. 123.

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nel mercato di schiavi di New Orleans quando salva (comprandola!) Amantha, interpretata da Yvonne De Carlo, la femme fatale di Doppio gioco (Criss Cross, 1949) di Robert Siodmak. Versione walshiana del griffithiano salvataggio all’ultimo minuto, doppio salvataggio, di Hamish e di Amantha. Ferite, balzi, strappi e contrasti sono i tratti della narrazione filmica walshiana. L’opera cinematografica di Raoul Walsh transita e trasmuta incessantemente in rovesciamenti di fronte, sobbalzi e scossoni. Temperie della natura e violenze umane. È questa la costellazione in cui s’inscrive Banda degli angeli. Le cesure e i conflitti provocano il crollo senso-motorio (e lo schema senso-motorio è ciò su si regge il classicismo) di Amantha, e provocano il vacillare e lo sfaldarsi di orientamenti, riferimenti e distinzioni. Sbalzi epidermici e configurazioni bizzarre. Il bianco diventa nero e il nero prende il posto (di potere) del bianco; la padrona si ritrova schiava e lo schiavo tiene in scacco (cioè sotto tiro) il padrone; i nordisti (la banda di angeli cui allude il titolo) liberano il Sud dal giogo della schiavitù per installarne un altro meno violento e repressivo ma più implacabile e duraturo. Rovesciamenti di fronte, snodi del tessuto narrativo e al tempo stesso snodi attraverso cui transita il potere cambiando pelle o divisa: anche il potere, come la narrazione, transita da un rivolgimento all’altro, da una guerra all’altra, si de-localizza e ri-orienta, rinnovvandosi perpetuamente per incarnarsi nei gesti e installarsi nei corpi. Banda degli angeli è una crisi della messa in scena del classicismo e nel contempo una messa in scena della crisi di valori e speranze su cui l’americanismo ha costruito il suo supposto eccezionalismo – filmato nella sua spettralità anche negli ultimi film fordiani. Perché, in fondo, ai negrieri del Sud sono succeduti i capitani d’industria del Nord: il potere si è adattato, ha cambiato divisa e aspetto, ma non si è dissolto. L’immagine della schiavitù salariale certamente è differente. È liberale, magnanima e democratica, gentile, lo ripete spesso lo schiavo Rau-ru. Una gentilezza spietata, alla quale proprio non ci si può, né ci si deve ribellare: forma di relazione tra gli uomini che il potere assume quando la violenza e la repressione non sono più condizioni sufficienti per conservare l’ordine in cui si autoproduce il capitalismo; giogo invincibile in cui gli esseri sono inchiodati gli uni agli altri dalle catene delle illusioni e dalle immagini del benessere; dominio che – come hanno mostrato Foucault e Deleuze – valorizza le differenze (anche i neri hanno il diritto di partecipare ai benefici della civiltà mercantile, anche i neri possono combattere, sparare, ammazzare, s’in130

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tende per una giusta causa – quella del capitale). La gentilezza è il potere che suscita piacere e sapere: il piacere di Amantha quando si reca a fare acquisti nella boutique di gran lusso o il sapere acquisito da Rau-ru, cresciuto quasi come un bianco, rispettato dai bianchi, che dai bianchi ha ereditato (conosciuto e desiderato) anche la loro brama di potere. Come scriveva Foucault, marcando il passaggio dalle società disciplinari alle società di controllo, «al diritto di far morire» (la schiavitù) si è sostituito «un potere di far vivere» (il salariato) che anziché bloccare le forze(-lavoro) le ordina e sviluppa; «un potere che gestisce la vita» e che «si esercita positivamente» su di essa, per renderla ancora più utilizzabile e docile132. La gentilezza, il potere esercitato dalle bande degli angeli s’incarna sensibilmente, filmicamente, nella villa di Hamish Bond-Clark Gable. Disposizione topologica di corpi assoggettati al dominio di un potere che si dispiega attraverso forme di assoggettamento: processi sociali e culturali in cui gli uomini sono al tempo stesso sia sottoposti a soggezione (obbediscono e lavorano) che costituiti in quanto soggetti (con piaceri e saperi). La villa di Hamish Bond, in Banda degli angeli, è il campo in cui ne va dell’esistenza intera, perché la politicizzazione non investe più soltanto l’aspetto pubblico dell’esserci ma anche la nuda vita: gli affetti, la memoria, la sessualità. La posta in gioco nel campo non è più solo la disciplinarizzazione o la repressione delle minoranze o delle forme di ribellione (gli schiavi nella villa di Bond non sono maltrattati né venduti), come nei regimi di sovranità o in quelli disciplinari, ma è l’«assicurare la cura, il controllo e il godimento della nuda vita»133. Assicurare, garantire e perpetuare l’ordine e il benessere se non addirittura la felicità: gli schiavi possono gestire gli affari, anche se per conto dei loro padroni, e possono fare acquisti nei negozi. Nel campo-villa o nel campo dei diritti costituzionali – quelli imposti dalla vittoria nordista (o, più in generale, dal trionfo del capitale) – la gentilezza è d’obbligo, in quanto presupposto necessario per riprodurre le condizioni del dominio. Il giardino di Hamish Bond è la società-campo in cui la nuda vita di Rau-ru o Amantha è posta sotto tutela, sotto cura; è la società che garantisce a tutti i suoi (servi-)cittadini diritti civili e benesse132 Cfr. Michel Foucault, Volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 119-124. 133 Giorgio Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995, p. 134.

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re. Il giardino non è la dissoluzione del potere ma il Leviatano disseminato in micropoteri e disarticolato in saperi e piaceri134. Come Una pallottola per Roy o La furia umana anche questo Banda degli angeli è un film critico, una messa in scena intensa e fiammeggiante della crisi. La crisi, la non-riconciliazione, è l’immagine con cui Raoul Walsh finisce questo capolavoro. Non-riconciliazione trattata filmicamente nel campo/controcampo conclusivo. Hamish Bond-Clark Gable, nel campo, riscattato dal passato nero e rigenerato nell’amore, è pronto a salpare per il paradiso caraibico, lontano da quelle terre messe a ferro e fuoco da nordisti e sudisti. Rau-ru-Sidney Poitier, nel controcampo, invece rimane lì, invischiato nella palude, schiavo incatenato al ferro prima e soffocato nella catena dei diritti civili dopo (quei diritti civili che sostituiscono il peculium degli schiavi romani135). Rau-ru rimane lì, nel controcampo dei diritti civili, risucchiato ancora una volta nel gorgo del potere, con gentilezza – e implacabilità. «Noi non siamo mai usciti dal tempo dei negrieri»136. 2.12 Riscatto e rigenerazione

Riscatto e rigenerazione si implicano l’un l’altro in Notte senza fine, western psicanalitico a tinte noir interpretato dall’attore-icona del genere nero, Robert Mitchum: spigoloso e inquieto, sinuoso e reattivo, e soprattutto, in questo film come in altri noir che interpretava in quegli anni, stranito, smarrito, stralunato. Jeb Rand (Robert Mitchum) in Notte senza fine non può varcare la soglia di casa, non può uscirne, abbandonare la famiglia per farsene una propria. Non può abbandonare le stanze dell’infanzia, gli è fatto divieto dall’autorità della madre (e del Super-io interiorizzato) di diventare uomo, cioè di scoprire la verità, l’orribile verità, di scoprire di che carne è fatto. Ma Jeb Rand è pursued, perseguitato, ossessionato, inseguito nei suoi stessi sogni, assaltati da lampi e speroni, da un

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Cfr. Michel Foucault, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977. Nella società romana classica gli schiavi che disponevano del peculium non solo amministravano attività commerciali, finanziarie e industriali a Roma, in Italia e nell’Impero, per i rispettivi padroni ma anche per loro stessi. Cfr. Moses I. Finley, L’economia degli antichi e dei moderni, Roma-Bari, Laterza, 1974, p. 84, e soprattutto il capitolo Padroni e schiavi. 136 Raoul Vaneigem, Trattato di saper vivere, cit., p. 26. 135

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ricordo che proprio non vuole dormire, così come Rand vuole risvegliarsi dal riposo dei sensi cui vuole destinarlo la madre e cercare (come fosse uno psicanalista) un nuovo senso. Rand non ha la forza di oltrepassare la linea d’ombra perché la sua mente è obnubilata, divorata da un trauma infantile, è fissato, inchiodato a questo trauma, legato. Non può ri-generarsi, ri-nascere, né crescere, non può sciogliersi, s-legarsi, espellere il trauma e esprimere così la sua forza e conquistare la libertà, divenire un soggetto, una singolarità, giacché un blocco oscuro, seppellito, ostruisce il passaggio, il salto alla libertà, al Sé, alla singolarità sciolta dai legami opprimenti (e al tempo stesso confortanti) della Legge. Una scena primitiva da svelare, un avvenimento traumatico o, meglio ancora, un traumatismo, una violenza e un eccesso che costituiscono il suo mancare: se stesso e il reale. Ma è proprio intorno a questo mancare che, «come le falene alla luce, vengono a precipitarsi gli “avvenimenti”»137. Jeb Rand può rigenerarsi, risoggettivarsi, passare all’atto 138, solo riscattandosi da questi incubi, richiamandosi al reale, liberandosi di questa notte senza fine che lo rincorre in ogni spazio e in ogni tempo. Non c’è rifugio: quando scende la notte carica di suoni assordanti e lampi di luce, la danza di morte degli speroni cattura la mente di Jeb Rand, perché «nulla, mai abolisce la nostra infanzia»139. Robert Mitchum interpreta un soggetto scisso, disgregato, a pezzi, scomposto: né bambino, né adulto: sospeso, irrequito. Anche se proprio la sua irrequietezza, il suo smarrimento, nel fuoco del pericolo, sarà ciò che lo condurrà, in parte malgré lui, all’orribile verità e alla libertà, a sradicarsi dalle vecchie e malate radici per radicarsi nelle nuove e più sane. «Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga»140. Pericolo e oscurità, notte e violenza, messi in scena con l’ausilio della audacissima fotografia noir di James Wong Howe che utilizza luci a volte bianchissime e taglienti, effetti in controluce per stilizzare i volti dei personaggi incastrati nei chiaroscuri, nei bui, in una luce alterata che taglia l’inquadratura, nei vicoli oscuri e nelle gole strette: personaggi a loro 137

Serge Leclaire, Smascherare il reale, cit., p. 24. Il rinvio è a Bernard Stiegler, Passare all’atto, Roma, Fazi, 2005. 139 Simone de Beauvoir, Una morte dolcissima, Torino, Einaudi, 1966, p. 35. 140 Cesare Pavese, La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1968, p. 7. 138

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volta, come Rand, pursued: la madre, lo zio, la sorella, il fratello, il giovane spasimante della sorella. Il riscatto è il risveglio, il richiamo alla realtà, l’abbandono della casa, la trasgressione dei divieti, anzitutto quello edipico di domandare: Rand non deve chiedere, non deve indagare, cercare la verità, allontanarsi: «per farcela a vivere in questa valle non bisogna mai uscirne»141. Rand domanda, esercita la domanda, la domanda più radicale, quella sull’origine, «che costituisce ogni individuazione umana, ossia ogni desiderio»142. Scrive Maurice Blanchot: Dice all’incirca Freud che tutte le domande che i bambini fanno a casaccio servono da ricambio a quell’unica domanda che non fanno e che è la domanda dell’origine. Anche noi ci interroghiamo su tutto per mantenere attiva la passione della domanda, ma tutte queste domande sono dirette verso una sola che è la domanda centrale, la domanda di tutto143.

Rand passa all’atto sospendendo le azioni più comuni e quotidiane, epochizzando il suo mondo, la sua vita ordinaria, l’atteggiamento naturale di sostituire alla domanda di tutto, la domanda centrale, altre domande come diversivo e rifugio: passare all’atto vale a dire trasgredire la Legge. È una pratica violenta, inaccettabile per tutti coloro che, a vario titolo, rappresentano le Istituzioni e che vogliono sempre aggiustare le cose, accomodarle, senza smascherare la realtà. Il rifiuto di quella Legge, quella Famiglia, quelle Istituzioni che sottraggono al reale chi è curioso o avido di godimento come Rand e che sono incarnate dal suo antagonista, dall’uomo che ha ucciso il padre e che vuole uccidere anche lui, l’uomo che è all’origine dei suoi incubi, lo zio adottivo che vuole ripristinare la purezza della famiglia contaminata dalla presenza di Jeb, tutore della legge (è avvocato) e rappresentante del patriottismo (dirige l’ufficio di reclutamento militare): lo zio non è il padre del bambino, non è la posizione che immette il bambino nell’ordine simbolico e oggettivante che gli permette di dire io, tu, egli e di recidere l’immaginario edipico che lo lega alla madre per entrare così nel reale, ma è la macchina teatrale edipica, è l’Edipo in quanto legge della cultura, della civiltà, che interpella i soggetti in quanto soggetti (supposti) liberi affinché si sottomettano liberamente, affinché si assoggettino. Ma Jeb Rand, come Roy Earle, Custer o Cody 141

Ivi, p. 10. Bernard Stiegler, Passare all’atto, cit., p. 17. 143 Murice Blanchot, L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977, pp. 15-16. 142

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Jarrett, non negozia, rifiuta questo assoggettamento, questo divenire-soggetto assoggettato al comfort domestico, non si accontenta di aggiustare le cose, rifiuta non solo le apparenze, peraltro comode e accomodanti, ma rifiuta l’intera installazione sociale coperta e ricoperta, nella sua efficacia funzionale, dalla menzogna, dal divieto di accedere alla verità: desiderio, legge e divieto costellerranno anche il cammino narrativo di un altro western walshiano sull’allontanamento dalla casa, Il diario di un condannato. Fare luce per Rand è ritornare sui proprio passi, risalire lungo le proprie tracce, ri-prendere e ri-levare il passato all’interno di un itinerario rischioso, di formazione difficile, un percorso (analitico) a ritroso; è la ricerca della scena primitiva, dell’origine, la messa in scena del concepimento proprio del soggetto e il soggetto è concepito quando si concepisce, interrogandosi, esercitando la domanda. Nella ricerca, nella domanda, uno dopo l’altro, si ri-collocano gli eventi e i gesti, si riposizionano le tracce perdute e ritrovate nella vecchia casa, ormai ridotta a pezzi (come il sé di Jeb Rand); così, finalmente, Rand può re-interpretare i segni inscritti sulle rocce-lapidi ricoperte anch’esse dalla sabbia del tempo, per poi, infine, perdere i sensi e la ragione una volta scoperta la verità: il richiamo alla realtà è un effetto di rottura, tipico della psicoanalisi e della narrazione di Walsh. Perde la ragione ma ritrova il pensiero. La ragione è il buon senso che suggerisce (come la madre adottiva) di non cacciarsi mai nei guai, di non uscire mai di casa, di rimanere al sicuro, sotto il riparo della Legge. Agire per Jeb Rand, dunque, è perdere la ragione, non ristabilirne l’ordine; risalire alla fonte delle ossessioni e analizzarla, non fingere di non vederla. Inghiottito in una spirale di coprimenti e ricoprimenti, strattonato in una maledizione che è narrazione, itinerario, prova, Jeb scopre, vuole scoprire la verità, sapendo bene di rischiare tutto: gli affetti, la sicurezza, la vita, ma una vita lasciata solo vivere che, quindi, non vale la pena di vivere. Agire per Jeb è conoscere, sfidare la ragione, la tradizione, il senso comune, la famiglia, l’identità e, malgré lui, uccidere il fratellastro, perdere la donna amata. Agire è evidentemente essere-agiti, senza illudersi di essere soggetti-dominatori dei ricordi, delle leggi, degli altri; è rispondere all’appello di un passato rimosso ma che ha ancora voce per chiamare una (in)coscienza in via di confondersi sempre più e che sull’orlo del pericolo si salva negandosi alle tentazioni del gorgo dell’intérieur, senza scadere «dans une obsession de musc et de benjoin»144. Agire 144 È un verso tolto da una poesia di Verlaine intitolata Intérieur fatta di vecchi mobili e stoffe: «Ni livres, ni tableaux, ni fleurs, ni clavecins;/Seule, à travers les fonds obscurs, sur

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è diventare uomini, sapere amare, ingravidarsi degli altri, della cultura umana, del mondo, fuori delle mure domestiche e del comfort, in una guerra che «l’umanità finge di non aver mai dichiarato» mentre dichiara quella a cui partecipa Jeb (la Guerra civile), una guerra «che ad ogni istante, si ridichiara in ognuno di noi dei suoi figli che devono, proiettati, storpiati e rigettati, percorrere ognuno per proprio conto, nella solitudine e contro la morte, la lunga marcia forzata che trasforma delle larve di mammiferi in bambini umani, in soggetti»145. Walsh in Notte senza fine – tra i western più anomali insieme, ad esempio, a Il mio corpo ti scalderà (The Outlaw, 1940-1943) di Howard Hughes, Sangue sulla luna (Blood on the Moon, 1948) di Robert Wise o La belva (The Track of the Cat, 1954) di William Wellman, questi ultimi due interpretati proprio da Mitchum e l’ultimo anche da Teresa Wright – prende la strada più insidiosa in virtù della quale il gesto d’amore, l’abbraccio o il bacio, è anticipato dal gesto di morte come nella sequenza in cui Teresa Wright (protagonista di L’ombra del dubbio – Shadow of Doubt, 1943, di Alfred Hitchcock e moglie dello sceneggiatore di Notte senza fine Niven Busch, autore tra l’altro del romanzo da cui è tratto Duello al sole – Duel in the Sun, 1947 di King Vidor) si appresta a servire un piatto mortale al marito (Jeb Rand), nascondendo (un altro coprimento) sotto il tovagliolo il revolver con cui ha deciso di uccidere Mitchum per vendicare la morte del fratello… Teresa Wright sta per premere il grilletto, ha atteso a lungo, ormai è decisa, ma non centra il bersaglio perché sa che non è quello vero, reale. Il mondo dell’azione non è quello della Legge, né dell’ordine; è diversificato, imprevedibile, è un mondo di ribaltamenti, riscatti, rigenerazioni e conflitti (legge/desiderio, destino/carattere, istituzione/istinto, ecc.). Azione, anche in un linguaggio freudiano: una forza si contrappone all’altra, una forza vuole esprimersi e un’altra vuole resisterle censurando questa espressione146.

des coussins,/Une apparition bleu et blanche de femme \ Tristement sourirat – inquiétant témoin –/Au lent écho d’un chant lointain d’épithalame,/Dans une obsession de musc et de benjoin». Cfr. Paul Verlaine, Intérieur, in Jadis et naguère–Parallèlement, Paris, Le Livre de Poche, 1964, p. 17. 145 Louis Althusser, Freud e Lacan, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 17. 146 Cfr. Sigmund Freud, Introduzione alla psicanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, 1978, p. 428.

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Di linee tortuose assai, strade pericolose, strade perdute, strisce, raggi, attraversamenti, è fatto Strada maestra (They Drive by Night, 1940), ispirato sia dal romanzo The Long Haul di A.I. Bezzerides che dal film di Archie Mayo Il selvaggio (Bordertown, 1935), interpretato da Paul Muni e Bette Davis. Noir che vanta un quintetto d’attori eccezionali: George Raft, Ann Sheridan, Ida Lupino, Humphrey Bogart e Alan Hale. La strada maestra naturalmente è quella che porta dritto dritto al successo, dritto dritto all’obitorio. L’azione per quanto si dispieghi su una strada supposta maestra non è mai un facile percorso lineare: le strisce sono dritte solo nel mezzo della strada, luccicano nel loro biancore, ma ai lati della strada le linee deviano e, anzi, a volte è necessario deviare: attraversare la linea che separa le carreggiate per svegliare e salvare un amico che si è addormentato al volante sognando il letto di casa e le carni muliebri della moglie; attraversare la linea di cellule fotoelettriche per entrare in un mondo di sogni d’amore, anche se questo mondo è in realtà una fantasmagoria isterica. La strada maestra è quella su cui, spesso, più che guidare, governare il proprio mezzo per raggiungere meta e fine, esercitare il potere, si è guidati, di notte, tra la veglia e il sonno (il sogno, l’incubo), governati da forze esterne, oscure, che gettano fuori strada; sulla strada maestra si è trascinati nella stanchezza, strappati alla propria moglie che poi ineluttabilemente (nella migliore delle ipotesi), appunto, si sogna nei sogni. Guidati, governati, ostacolati dalle fatalità, dagli incidenti; affaticati da carichi che non possono aspettare né di essere ritirati, né di essere scaricati: il denaro, si sa, ruba il tempo. Sulla strada maestra, in ultima analisi, si è dirottati dai raggiri dei predoni, i padroni del lavoro, sciacalli, di notte e di giorno. La strada maestra è anche il sogno americano, di chi come Joe Fabrini (Raft) vuole farsi strada: strada che a volte si dispiega in tutta la sua evidenza fin troppo evidente (come nel caso dell’ex-camionista arricchito interpretato da Alan Hale), quindi simulata e menzognera, e altre, quasi sempre, si ripiega tra i rottami di quel sogno, distrutto nelle fiamme: si dispiega e ripiega, apre e chiude, come gli occhi di Paul Fabrini (Bogart) alla guida del suo camion, come la sua mano, a volte ferma e altre addormentata, mutilato ancor prima di perdere diegeticamente il braccio: sottratto al focolare domestico (a ciascuno il suo desiderio, la sua pietra: cristallo raro o semplice mattone). C’è chi, sulla strada maestra, si compra una piscina e c’è chi finisce arrostito nel suo trabiccolo. Il viaggio sulla strada maestra nella narrazione di Walsh si configura come un calvario, una costellazione di imprevisti, un via vai di ammaz137

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zamenti e innamoramenti, disperazioni e illusioni, ricatti e riscatti. George Raft è uno che vuol fare di testa sua, che vuol farsi da sé, senza dover chiedere mai niente a nessuno. È un sognatore: di padroni non ne vuole avere. È uno che, come ripete spesso, vuole fare molta strada. Non è tagliato per subire o prendere ordini: lo si intuisce subito dalla postura e dallo sguardo – e dal fatto profilmico che è George Raft: il gangster di molti film degli anni Trenta. Riscattarsi per Joe Fabrini non è solo arricchirsi per ritrovarsi a mollo in una piscina (come l’amico arrichito che peraltro non sa neppure nuotare!), né andare di sbieco come gli usurai, il doppio negativo dei fratelli Fabrini, che vampirizzano il lavoro altrui in una zona d’ombra tollerata e giustificata in fondo perché altro non è che una forma impura del vampirismo diurno, socialmente utile, legalizzato, dell’interesse di cui è spesso difficile fissare la distinzione dall’usura: «Il Male è usura […]/Il nocciolo del male, l’inferno che brucia senza tregua,/Il cancro che tutto corrode, il verme Fafnir,/Sifilide dello Stato, di ogni regno,/Porro del pubblico bene,/Tumore che guasta ogni cosa»147. Agisce Joe Fabrini, viaggia di notte, nonostante la stanchezza; agire significa andare diritto senza sporcarsi le mani, né cedere: non cedere al sonno sebbene la mano scivoli lungo il volante; non cedere alle tentazioni di tradimento e morte sebbene la moglie del capo (l’amico che si è arricchito) tenti di sedurlo. Ida Lupino è la dark lady di questo Strada maestra. Certo anche lei, Lana Carlsen, agisce ma per attraversare la linea di divisione: il raggio di cellule fotoelettriche del garage che la separa dalla perdizione; attraversandola abbandonerà il ruolo della moglie frustrata ma solo per interpretarne un altro, quello della vedova allegra; linea di separazione che la divide dal marito brutto e volgare ma soprattutto snodo tra significante e significato, simbolico e immaginario. Nondimeno, aldilà e contro il giudizio, è anche la linea di separazione tra sé e Joe, fra l’esperienza dell’infelicità e il sogno della felicità. Con tutti i suoi dispositivi significanti voluti e non voluti (le armi seduttive e l’omicidio), Lana non accede alla realtà (perché Fabrini non l’ama e ama un’altra donna), bensì all’immaginario in cui Fabrini è allucinato, luogo del fantasma cui Lana è sospesa, sospesa all’Altro che, nella realtà, non si conosce, interstistizio tra soggetto dell’inconscio (Lana) e oggetto del desiderio (Joe). Ancora una volta Walsh, come già in Annie del Klondike, Sabbie rosse o Banda degli

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Ezra Pound, Cantos, Milano, Mondadori, 1985, p. 821.

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angeli, filma il dissidio, la scissione del soggetto, la linea di divisione, la lacerazione, in una sequenza magistrale: quella dell’assassinio del marito (cfr. fotogrammi 131-146). Attraversando quel raggio di cellule fotoelettriche, quella soglia, Ida Lupino richiude dietro di sé le porte del garage dove il marito ubriaco è rimasto addormentato nella sua auto con gli scarichi del motore accesi. È un attraversamento tragico che Walsh mette in scena inquadrando la Lupino in figura intera, di fronte, per mostrare, al tempo stesso, il suo corpo, il raggio delle cellule e le porte del garage, e rendere così visibile e pulsante la chiusura delle porte, la morte, la perdizione. Le porte del garage si chiudono per aprire, come in una rima, quelle del carcere anch’esse governate, come quelle del garage, da un movimento di raggi fotoelettrici. Il movimento di apertura della porta che introduce la Lupino nel parlatorio del carcere è l’immagine della colpa, come in uno specchio si riflette nel suo fantasma, quello che inchioda alla dannazione, al riaprirsi della ferita, della divisione che provoca la rottura del suo tessuto nervoso e dei suoi sogni (per quanto malati) d’amore, la follia, il crollo senso-motorio definitivo, la morte dell’anima (cfr. fotogrammi 147158): ma il primo crollo, la prima rottura del suo schema delirante, la Lupino, che interpreta la parte che fu di Bette Davis, lo ha nel garage quando scopre che Joe ama un’altra donna: il suo ingresso nel deposito di camion è l’irruzione del Reale con tutto il suo peso e per effetto di questo urto (il cozzo contro il reale) improvvisamente le manca il terreno sotto i piedi: «Lo Svenimento non è molto distante dalla morte. Infatti si muore quando il fuoco che si trova nel cuore si estingue completamente»148. Dark lady, suo malgrado, Lana Carlsen ha perso tutta la sua fiamma (del peccato sì, ma pur sempre fiamma), è finita in carcere, sola, preda di deliri isterici di deformazione della realtà, dell’angoscia, della collera, della disperazione, delle lacrime e della risata irrefrenabile (e l’attrice inglese così, soprattutto con la scena del tribunale, si guadagnò con la sua recitazione intensa l’attenzione e la stima di pubblico e critica): la sua colpa è stata quella di voler sostituire un ruolo (moglie) con un altro ruolo (amante), passare dal significante al significato mancando però l’oggetto, la realtà; o forse, più radicalmente, la sua colpa è l’invidia kleiniana, non la gelosia che è triangolare e più accettabile. L’invidia è duale 149. «Causata da un’avidità originaria, l’invi-

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René Descartes, Le passioni dell’anima, Milano, Bompiani, 2003, p. 295. Cfr. Melanie Klein, Invidia e gratitudine, Firenze, Martinelli, 1966, p. 50.

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dia tende a possedere completamente il suo oggetto senza preoccuparsi della sua eventuale distruzione»150 dopo averlo fantasticato, idealizzato: in carcere la Lupino urla in faccia ad Ann Sheridan (che interpreta la donna che Raft vuole sposare) che all’inferno trascinerà con sé Raft. L’odio della Lupino, pur derivando dall’amore, si intensifica e danneggia l’oggetto amato, Raft, per distruggere proprio questo sentimento di invidia, per annientare se stessa e soprattutto lo strazio provocato dalla non corrispondenza tra l’oggetto reale (il rifiuto di Raft) e l’oggetto psichico (Raft idealizzato nel delirio isterico della Lupino)151. Squilibrio tra ideale (il simbolico e l’immaginario, significante e significato) e reale, paradossalmente più reale della realtà che tuttavia le fa mancare e delirare proprio il Reale, poiché Lana si sostiene tra la faglia e il vuoto, sospesa nel suo immaginario tra il significante (la catena in cui è presa, che attiva e dalla quale è, suo malgrado, attivata) e il reale (vuoto perché l’oggetto è assente, Joe è nei sogni e fra le braccia di un’altra donna). Ma forse questa sfasatura ha il suo radicamento più che nella trama profonda delle pulsioni in una struttura ancora più profonda, ontologica, poiché la nostra adesione al mondo è aldilà delle prove, «è intessuta di incredulità»152. La credenza e l’incredulità sono qui così strettamente collegate che troviamo sempre l’una nell’altra, e in particolare un germe di non-verità nella verità: la certezza che io ho di essere innestato sul mondo mediante il mio sguardo mi promette già uno pseudo-mondo di fantasmi, se lascio errare questo sguardo. Nascondersi gli occhi per non vedere un pericolo è, si dice, non credere alle cose, credere soltanto al mondo privato. Significa invece credere che ciò che è per noi è assolutamente, che un mondo che noi siamo riusciti a vedere senza pericolo è senza pericolo, e dunque credere nel modo più intenso che la nostra visone va alle cose stesse153.

Joe Fabrini va alle cose stesse, non ha invidia e soprattutto è fuori del ruolo, e questa è la sua salvezza, la sua deviazione; la sua azione, per quanto ordinata e lineare (alla fine si prenderà cura dell’organizzazione della ditta di trasporti dell’amico ucciso dalla Lupino ma solo perché obbliga-

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Julia Kristeva, Melanie Klein. La madre, la follia, Roma, Donzelli, 2006, p. 102. Simbolico, immaginario e reale (significante, significato e oggetto) sono concetti, come si sa, lacaniani, usati qui con estrema e imprudente libertà in particolare attraverso la versione, più rigorosa, di Serge Leclaire, Smascherare la realtà, cit. 152 Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p. 53. 153 Ibidem. 151

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to dai suoi dipendenti!), si smarca, ha un’energia, un’intensità, che continua ad alimentarlo, nonostante la prateria di cemento. «Cammini e cammini, e dappertutto è sempre lo stesso. Dovunque tu sia stato, dovunque tu vada, dovunque tu ti metti a guardare. Solo muri grigi e spigoli duri, a perdita d’occhio»154. Non per Joe Fabrini. Lui non è uno di quei personaggi dei romanzi noir di Jim Thompson o Charles Williams, che non sanno cosa fare, né come si siano messi nei pasticci, perché si siano infilati nella presa e che, infine, una volta scoperta questa evidenza che svuota (non sapere, né sapere che fare), escono, loro malgrado, dalla morsa ma solo per precipitare in una inerzia disperata (Colpo di spugna di Thompson155) o nella follia (Il conto torna o Il grande morso di Williams156). Joe Fabrini invece, un po’ come l’eroe dei film western di Anthony Mann157, sa cosa fare, cosa deve fare e sa che quella cosa si deve fare; Joe Fabrini, sterzando d’improvviso, al limite o sobbalzando, comunque continua ad andare sempre diritto per la sua strada, sconnessa e buia anche, ma questo Fabrini, come Walsh, ben lo sa, e di strada ne ha fatta e ne farà. E con lui Walsh.

154 Jim Thompson, Prima dell’alba, Milano, Mondadori, 1992, p. 29. Non casualmente Thompson e Williams hanno ispirato autori moderni (Kubrick, Truffaut, Peckinpah) i cui film non si costruiscono più intorno allo schema senso-motorio dell’azione ma piuttosto sul crollo di questo schema e sulla veggenza di cui parla Gilles Deleuze nel suo L’immaginetempo, cit. 155 «Decisi che non sapevo che canchero fare» è l’incipit di Colpo di spugna e «Ci ho pensato e ripensato e pensato ancora, e finalmente sono arrivato a una conclusione. Ho concluso che non so che fare. Non lo so più che se fossi un altro miserabile essere umano» è il finale. Cfr. Jim Thompson, Colpo di spugna, Milano, Tea Due, 1992, pp. 8, 195. 156 «Quanti avvocati ci sono in una città con meno di un milione di abitanti? Sfogliai di nuovo febbrilmente l’elenco. AVVOCATI (vedi dottori in legge). DENTISTI… DISINFEZIONE… DOLCIUMI… DOTTORI IN LEGGE… Rimasi sbalordito. Pagine e pagine di avvocati. Un torrente di avvocati, una valanga di avvocati, un fiume di avvocati che straripava come in una piena primaverile da migliaia di università di legge e dilagava sulle pagine dell’elenco. Mi chiusi il capo tra le mani. No, mi dissi, non cedere. Puoi farlo. Hai il danaro. Assumi tanti investigatori privati. Trovala. Trova il suo avvocato. Fagli aprire la cassaforte. Assumi qualcuno che apra la cassaforte. Uno scassinatore. Vediamo gli scassinatori. SABBIATRICI… SALDATORI… SALUMI… Ritorna in te, John Harlan. Era stato un attimo di follia. Come trovare gli scassinatori sull’elenco telefonico», è l’ultima pagina di Il grande morso. Cfr. Charles Williams, Il grande morso, in L’assassino allo specchio, Milano, Longanesi, 1977. 157 «Some things a man ha sto do, so he does’em» è la formula della morale degli eroi manniani coniata in Winchester ’73 (Id., 1950). Cfr. Jacques Rancière, La favola cinematografica, cit., pp. 111-133.

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2.13 L’azione va fino alle stelle Diritto, per conto suo, della sua unica proprietà, senza rendere ragione, solo contro tutti, va anche Custer in La storia del generale Custer interpretato dal magnifico Errol Flynn. Ma la via del Custer walshiano, la sua strada maestra, in realtà, è una deriva ed è proprio per questo che è un sentiero di morte, un sentiero di gloria. Custer, slanciato tra le ombre dell’inferno, chiama a sé la gloria, deraglia e naufraga perché la gloria non è di questo mondo. Lo sguardo di Custer è gettato oltre l’orizzonte delle terre occupate dai bianchi. Il suo gesto è in contro-piega, un atto smarcante, un rifiuto dell’invasione della frontiera civilizzata: spettralizzata dal capitale. Lo sguardo e il gesto del Custer walshiano smarginano l’azione e sbordano la Storia. Custer non domina, né vuole dominare, non è fatto per questo, né per conservarsi nel dominio. Custer-Flynn è fatto per disfarsi, per morire, per darsi la morte, per scegliere lui quando morire senza attendere il dono di una vita lasciata vivere solo in quanto involucro spettacolare, vedette, immagine, rappresentazione; Custer invece si consuma nella guerra del tempo; l’espressione è di Guy Debord che détourna più volte il capolavoro di Walsh nei lungometraggi La sociéte du spectacle (Id., 1974) e In girum imus nocte et consumimur igni (Id., 1978)158. Morire per Custer è consumarsi nel fuoco, nel pericolo, nel centro dell’occasione: la sua morte è una figura della lotta, della resistenza, del rifiuto di qualsiasi negoziazione: e Custer anzitutto rifiuta di negoziare il suo nome, rifiuta di mercificarsi nella rappresentazione del ruolo dell’eroe. La vita per il Custer di Raoul Walsh si attraversa tra le fiamme, di corsa, intensamente, non è riposo, né adattamento, è gioco e conflitto. Morire è consumarsi, dissiparsi, non solo fronteggiare il pericolo ma chiamarlo: chiunque abbia del genio deve usarlo per attraversare il corso del tempo e gettarsi a picco nel centro dell’occasione, restando sempre in piedi, nonostante la disfatta.

158 Il détournement: «Si impiega per abbreviazione della formula: détournement di elementi estetici precostituiti. Integrazione di produzioni attuali o passate delle arti in una costruzione superiore dell’ambiente. In questo senso, non può esserci pittura o musica situazionista, ma un uso situazionista di questi mezzi. In un senso più primitivo, il détournement all’interno delle antiche sfere culturali è un metodo di propaganda, che testimonia l’usura e la perdita d’importanza di queste sfere». Cfr. Definizioni, in «Internationale Situationniste», 1, giugno 1958, p. 13; trad. it. Internazionale situazionista, Torino, Nautilus, 1994.

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Custer è inscritto all’interno di un’azione storica (una guerra contro gli indiani o contro i sudisti) ma al tempo stesso non vi è circoscritto. È solo nella diegesi che Custer si trova compromesso, con politicanti e affaristi, predoni e vigliacchi, nella Storia (della civilizzazione capitalistica dell’Ovest rizomatico, in rete). È solo nella diegesi, nei calcoli dei predoni che vogliono spogliare l’Ovest, che Custer è un soldato come gli altri, un soldato che partecipa alla guerra e alle invasioni; che vince, trionfa, conquista medaglie e onorificenze. Anche se Custer non rinuncia mai alla sua indisciplina, al suo slancio vitale. Ma la Storia delle occupazioni e delle negoziazioni, perfino la storia che culmina nell’eroismo, è assolutamente subordinata nel Custer walsh-flynniano, la Storia è esteriore, accidentale, l’azione storica è schiacciata dall’atto sublime, come in Aguirre, furore di Dio (Aguirre, der Zorn Gottes, 1972) di Werner Herzog. Custer è un Aguirre del West (il Custer reinventato da Walsh non quello della Storia). Come Aguirre, Custer è compromesso nel piano di occupazione dei territori ma, al tempo stesso, si sottrae, tradisce. Custer radicalizza l’insubordinazione anarchica tipica dei personaggi walshiani e l’indocilità diventa ontologica. Custer non può essere un invasore in quanto è sospeso ai sogni di gloria, sogni che si scontrano con un mondo indurito e sempre più occupato, invaso, soffocato nella logica dell’utile e vampirizzato da affaristi e politicanti. Custer non si raccapezza, non ha, né può avere un posto, rifiuta la sistemazione, di installarsi nel ruolo di vedette, rifiuta di rifluire nel comfort e ripiegarsi in una accomodante dimensione rispettabile e riposante, Custer rifiuta una qualsiasi collocazione sociale. Il suo dis-valore è un dis-senso, un rifiuto che fa senso; Custer rifiuta compromessi feticistici, si nega a qualsiasi economia discorsiva che intenda trasformarlo in un valore di scambio, un’immagine, una merce159. Il valore di

159 Per economia non si intende solo l’economia politica, l’economia come scienza, quella di Ricardo o Smith, fondata su concetti come produzione, ricchezza, lavoro, etc. L’economia è quel discorso (economico in senso stretto, politico, sociale, culturale, etc.) che canalizza, gerarchizza, fonda, opponendosi a qualsiasi sfondamento rizomatico, all’economica energetica, pulsionale, dispendiosa, anti-utilitaria, etc. D’altronde economia deriva letteralmente dal termine greco oikonomia (oikos: casa; nem-: regolare, amministrare, organizzare) e il modello di questa curvatura semantica si trova nell’Oikonomikos di Senofonte. L’oikonomia è organizzazione, direzione. Cfr. Moses I. Finley, L’economia degli antichi e dei moderni, cit., pp. 3-8. I personaggi di Walsh spesso non si sentono a casa nel mondo, sono espulsi da casa o non vi fanno ritorno, non si amministrano e rifiutano qualsiasi direzione eteroimposta.

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Custer è nell’uso. Il suo non è mai un rendi-conto ma piuttosto un’economica energetica, un consumo a perdere, un rilancio incessante che lo slontana dalle macchinazioni. Custer-Flynn è ici et ailleurs: partecipa accidentalmente alla guerra qui ma si destina essenzialmente alla gloria altrove. L’azione dell’invasione in Custer è subordinata all’atto dell’(in)visione di gloria che lo dis-occupa dal ruolo di vedette al quale la società vuole inchiodarlo, destinarlo. Ma il suo carattere è l’indisciplina: persino nella diegesi dell’azione filmica, nella storia160: Custer si sforza di dis-occupare i territori indiani o di salvaguardarli nella loro autonomia. La gloria di Custer co-incide con il suo atto destinato a consumarsi, con la sua in-visione deterritorializzante, dispendiosa, fiammeggiante, fuori del dovuto, dell’ordine, del discorso161. È la gloria, il dispendio inconciliabile con l’utilitarismo della logica dell’invasione del capitale, appropriante e riterritorializzante. La gloria brucia di sé, si consuma, non è cumulativa, si dissolve nell’istante, proprio nell’istante in cui si fa visibile: nel gesto con cui si pone anche si cancella. «I naufragatori scrivono il loro nome solo sull’acqua»162. L’azione di Custer non è occupazione, perché l’azione va fino alle stelle, si sospende facendosi atto, è oltre la narratività, oltre la concatenazione e trasformazione di azioni e passioni, non è un atto di configurazione del senso ma un senso in atto, il cui (dis)valore è la spesa senza finalità, il consumo, il prestigio, la sfida insensata, catastrofica, come in un sacrificio, un potlach163, per cui 160

In riferimento alla definizione di discorso in S. Chatman in Storia e discorso, cit., pp. 5-18. In questo caso, come in altri in questo testo, la nozione di «discorso» non è da riferirsi alla definizione narratologica di Chatman (cfr. Storia e discorso, cit.) ma alla riflessione filosofica (politica e ontologica) di Lyotard (cfr. A partire da Marx e Freud, cit.): il discorso come funzione integratrice, riconciliante, rappresentazione, buona forma, soddisfazione, dispositivo di una economia politica o estetica che canalizza e blocca le energie pulsionali, articolazione organizzata del libero spostamento energetico, rizomatico, come direbbero Gilles Deleuze e Félix Guattari. La nozione lyotardiana di discorso ha un’aria di famiglia con la nozione deleuze-guattariana (cfr. Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Castelvecchi & Cooper, 2004) di albero (fondamento, base) contrapposta a quella di rizoma (disarticolazione, disseminazione). Questo si intende per discorso, fintanto che il discorso non sia liberato dal suo ordine, come proponeva Michel Foucault (cfr. L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 2004), e abbandonato al caso, alla discontinuità, alla materialità, diventando così un evento. 162 Guy Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, in Opere cinematografiche, Milano, Bompiani, 2004, p. 174. 163 Cfr. Émile Benveniste, Dono e scambio nel vocabolario indoeuropeo, in Problemi di linguistica generale, cit., p. 386. 161

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la «perdita deve essere la più grande possibile affinché l’attività acquisti il suo vero senso»164. Credo sia per tutto questo che La storia del generale Custer risulti essere uno dei film più détournés da Debord, usato non come illustrazione critica ma per sostenere positivamente il discorso dei film di Debord: il film di Walsh è trasportato in quelli di Debord con la funzione di rappresentare «il ribaltamento del ribaltamento artistico della vita»165. È utilizzato per interrompere, punteggiare e sostenere la conclusione di La société du spectacle: Cartello: Sarebbe ovviamente molto comodo fare la storia se si dovesse ingaggiare la lotta solo avendo prospettive favorevoli. Per distruggere completamente questa società, bisogna evidentemente esere pronti a lanciare contro di essa, dieci volte di seguito o ancor di più, degli assalti paragonabili per importanza a quello del maggio 1968; e considerare come inconvenienti inevitabili un certo numero di sconfitte e di guerre civili. Gli scopi che contano nella storia universale devono essere affermati con energia e volontà166. Durante una battaglia della guerra di Secessione, un ufficiale va a mettersi alla testa del 7° reggimento di cavalleria del Michigan, e ordina: 7° Michigan, avanti!... Al trotto! Avanti!... Al galoppo! Avanti!... Carica!. È la sequenza dei primi assalti alla gloria di Custer durante la Guerra civile. Fallito il precedente attacco, lo stesso ufficiale va a rilevare il 5° e il 6° reggimento di cavalleria del Michigan, e li lancia in una nuova carica. E Custer continua a mettersi alla testa dei reggimenti, nonostante le disfatte. Dopo un nuovo insuccesso, lo stesso ufficiale ricompare davanti alle file del 1° reggimento di cavalleria del Michigan, l’ultimo che resta di riserva; e ordina un’altra carica, che comincia167. In girum… ruba in più occasioni il Custer walsh-flynniano: Ma le teorie sono fatte solo per morire nella guerra del tempo: sono unità più o meno forti che bisogna impegnare al momento giusto nella lotta… Il generale Custer guida l’ultima carica del 7° reggimento di cavalleria a Little Big Horn168. 164

Georges Bataille, Il dispendio, Roma, Armando, 1997, p. 59. Cfr. Guy Debord, Nota sull’impiego dei film rubati, in Opere cinematografiche, Milano, Bompiani, 2004, pp. 103-104. 166 Si veda anche, oltre il film, Guy Debord, La société du spectacle, in Opere cinematografiche, cit., p. 109. 167 Ivi, p. 110. 168 Guy Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, in Opere cinematografiche, cit., p. 152. 165

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Quali sono le nostre passioni, e dove ci hanno condotto? Gli uomini, il più delle volte, sono così portati a obbedire a imperiose routine… Il reggimento, accerchiato dagli indiani a cavallo, si ferma e mette piede a terra169. La prima fase del conflitto, nonostante la sua asprezza aveva assunto da parte nostra tutti i caratteri di una difensiva statica. Essendo soprattutto definita della sua localizzazione, un’esperienza spontanea non si era abbastanza compresa in se stessa… Il reggimento di Custer, disposto in cerchio, riceve a colpi di carabina gli assalti successivi degli indiani che lo circondano. I suoi combattimenti cadono l’uno dopo l’altro. Alla fine gli indiani travolgono la posizione sterminando i difensori170. Clausewitz osserva scherzosamente: Chiunque abbia del genio è tenuto a farne uso, ciò è del tutto conforme alla regola. E Baltasar Graciàn: Bisogna attraversare il vasto corso del tempo per arrivare al centro dell’occasione. Custer, l’unico in piedi, getta le pistole scariche, prende la sciabola piantata per terra davanti a sé e attende l’assalto dei vincitori171 (cfr. fotogrammi 159-170). Si tratta di prendere Troia; oppure di difenderla. Si somigliano tutti per qualche aspetto gli istanti in cui stanno per separarsi coloro che combatteranno in campi avversi, e non si rivedranno più. All’inizio della guerra di Secessione, i cadetti di West Point stanno per separarsi. Si legge loro il testo di un giuramento di fedeltà all’Unione. Il colonnello comandante della Scuola: Ogni ufficiale o cadetto che si ritenga onestamente incapace di tener fede a questo giuramento vada ora a schierarsi a destra del battaglione. Un ufficiale a cavallo si fa avanti e ordina: Signori del Sud, uscite dai ranghi! I sudisti vanno a ridisporsi dietro di lui. Il colonnello fa serrare i ranghi ai cadetti che restano, e fa suonare Dixie alla banda, mentre sfilano coloro che se ne vanno172. Il Custer di Walsh non è, né poteva essere, un film lineare o univoco, discorsivo, una biografia romanzata di un eroe americano o addirittura un’insulsa apologia, un documento voluto e dovuto della realtà (storica) – anche perché il cinema non è lo mai. Il film di Walsh, girato nel 1941, l’anno di Fulminati, Bionda fragola e Una pallottola per Roy (!), è una delle vette più alte del cinema di Walsh, un film disseminato di istanti e inquadrature memorabili, immagini sublimi e ineguagliate: l’ingresso in scena 169

Ivi, pp. 152-153. Ivi, p. 172. 171 Ivi, p. 173. 172 Ivi, p. 182. 170

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di Errol Flynn tra Murat e il Circo; il gioco delle sovrimpressioni e delle dissolvenze per mostrare l’indisciplina e i trionfi di Custer; le stupende carrellate delle battaglie (i primi assalti alla gloria); la recitazione sopra le righe (e perfetta) di Flynn; il faccia a faccia tra le ombre e da brivido tra Errol Flynn e Arthur Kennedy nel saloon del Forte; la scena dell’ultimo addio tra Custer e la moglie interpretata da Olivia de Havilland che ha un crollo senso-motorio – filmato con un rapido carrello all’indietro lungo l’asse della porta, di quella soglia che divide la luce e la notte, il mondo dei vivi e quello dei morti, ma anche il focolare domestico e l’avventura, soglia che Custer attraversa per non fare più ritorno e abbandonarsi alla gloria; il campo totale dello sterminio del 7° cavalleggeri di Custer; e infine il breve e rapido carrello in avanti (solo accennato) che inquadra Custer poco prima dell’assalto finale di Crazy Horse: un’immagine che incarna la massima che Sun Tsu (a sua volta détournato da Debord) enuncia ne L’arte della guerra: «Se siete in un luogo di morte, cercate l’occasione di combattere. Chiamo luogo di morte quel genere di posti dove non si ha nessuna risorsa […]. Se vi trovate in simili circostanze, affrettatevi a dar battaglia»; immagine sublime: Custer, unico tra i suoi, resta in piedi, con i suoi stivali, è ancora vivo, scaraventa le pistole scariche nella polvere e afferra la sciabola piantata per terra davanti a sé, attende l’assalto dei vincitori e la morte… per dare battaglia e gettarsi così verso la gloria, nel centro dell’occasione. «Estasiante, ah, ciò che s’annida fuori del dovuto/fiammeggiante, angelico, malefico»173. 2.14 La guerra: dall’azione all’angoscia La guerra non è un fatto determinante nel film su Custer, perché quando l’invasione del visibile occupa l’immagine l’azione non sale fino alle stelle ma gira a vuoto, come in Il nudo e il morto, ricavato da un romanzo di Norman Mailer, fotografato da Joseph La Shelle e musicato da Bernard Hermann174. L’azione non è storica, né sublime; l’azione è una 173

John Berryman, Omaggio a Mistress Bradstreet, Torino, Einaudi, 1969, p. 51. La Shelle ha curato le luci di alcuni dei film più belli di Otto Preminger, Vertigine (Laura, 1944), Un angelo è caduto (Fallen Angel, 1945), La magnifica preda (River of No Return, 1954); Hermann invece è noto soprattutto per essere il compositore più utilizzato da Hitchcock ma, tra l’altro, ha composto anche le musiche dei primi due capolavori di 174

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vuota cerimonia: raccogliere le cicche del generale, restare sull’attenti o cavare le otturazioni d’oro dalle bocche dei nemici ammazzati o, ancora, fucilare corpi docili e nudi. L’azione è un rituale sottovuoto orientato alla purificazione dalla contaminazione sociale e bacillare. Il generale esige pulizia nella sua tenda e distacco sprezzante degli ufficiali nei riguardi dei loro sottoposti: «lo sterminio degli uomini comincia con lo sterminio dei germi»175. Il generale, nel dialogo con il tenente, tenta vanamente di giustificare la sua teoria del potere assoluto riconducendo la violenza del potere alla violenza della guerra. «La guerra è una sporca faccenda» sentenzia il generale e, mentre parla di animosità e istinto atavico per far rientrare nell’ordine il tenente riottoso, si passa una crema fra i capelli, si lava accuratamente le mani con il sapone e si rade con un rasoio elettrico! La violenza della guerra e della disciplina è la canalizzazione delle energie spostate dall’amore alla guerra, dalla vita alla morte; canalizzazione che utilizza sprovveduti e uomini in bilico come materiale infiammabile offrendo loro una valvola di sfogo al risentimento e alla frustrazione di queste anime perdute su cui diluvia il mondo intero nella sua catastrofe. Piove sul brutale sergente Croft a caccia di giapponesi e fantasmi, come pioveva la notte del fienile quando si dichiarò alla donna che amava e pioveva quel pomeriggio che trovò la moglie a letto con un altro uomo, quando lei rideva e rideva di lui mentre Croft demoliva i mobili e i suoi sogni domestici. L’azione di Il nudo e il morto non dà resto, non riscatta, né rigenera: restituisce soltanto cadaveri, denti, cicche. Soldati, giovani, uomini nudi. Nudi perché scaraventati in un caos di cui hanno perso le ragioni senza averle mai avute; esposti alla nudità, alla fragilità, condannati all’insensatezza, schiacciati dall’autorità. Nudi: scoperti di fronte al pericolo di un mondo dove non possono più racappezzarsi se non opponendo brutalità alla brutalità, tanto in guerra quanto in pace. Nudi perché piove su di loro la nostalgia del focolare domestico, perduto, rimpianto, temuto: le donne a casa possono aspettare e pregare oppure tradire. Nudi: tirano a campare tra una raffica di mitra e un abuso di potere, dove già l’uso è illegittimo. Nudi: privi di ideali, né buone ragioni soprattutto per farsi ammazzare o ammazzare. Nudi sia in guerra che in pace.

Welles e ha collaborato con cineasti europei e moderni come Truffaut, Scorsese e De Palma. 175 Jean Baudrillard, L’altro visto da sé, Genova, Costa & Nolan, 1997, p. 25.

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Morti. Storditi, sbandati, disorientati, carichi d’alcool e assediati dal nemico, maltratti e strumentalizzati. Nudi e morti. Non c’è gloria, non c’è rinascita, solo la catastrofe. Non ci sono eroi. Il sergente Crof non è paragonabile – anche se è stato scritto176 – ad uno spartiata, perché il suo andare sempre diritto ad ogni costo, sprezzante di qualsiasi pericolo, il suo gettarsi per primo nella giungla, il suo essere-alle-Termopili, non discende da un codice d’onore, da una politeia incarnata nei suoi gesti e nelle sue vene, sedimentata nel corso degli anni, in una agoghè voluta e coltivata: alle Termopili Croft resta, non fugge, non attende, non temporeggia e affronta il combattimento come nessuno, ma alle Termopili ci si è ritrovato accidentalmente, in quanto scaraventato, malgré lui, dal risentimento, dalla colpevolizzazione che Croft fa pesare sulle donne e sulla vita civile in generale. D’altronde anche Jean Curtelin che lo ha paragonato ad uno spartiata l’ha definito, nello stesso articolo, un mercenario: lo spartiata tutto poteva essere fuorché un mercenario. Gli eroi walshiani al contrario di Croft, anche i più furiosi, i criminali, non sono mai risentiti, sacerdoti di morte: la loro deviazione è una forza della natura, una resistenza e un rifiuto opposti in faccia ad un mondo troppo piccolo. Sono coraggiosi e leali, franchi e amano amare, amano l’amore, il senso dell’onore: è la volontà di potenza, lezione di energia e nobiltà177, opposta e inconciliabile con il ressentiment di Croft. Semmai, Croft è un eroe perché è debole, perché è vulnerabile, perché al fondo si rivela fragile, sconfitto, umiliato proprio nella sua volontà di amare, di amare semplicemente, di costruirsi una casa. Una vittima che l’ordine della pace, con le sue economie discorsive, ha reso un mostro, «un Tarzan della guerra» ormai inadatto alla vita civile. Il nudo e il morto è l’immagine della fine, una figura della crisi: il mondo non corre più inesorabilmente verso le magnifiche e sorti progressive, il classicismo non tiene più perché il mondo si è spezzato, si è incrinato. La composizione sgrana e l’esercito non è più la cavalleria fordiana, il sito dell’incontro con la differenza, site éclairé, radura in cui l’assoluto si ritira per rischiararsi nell’intersezione di Io, Tu, Egli, attraversata dalla reversibilità dell’uno con l’altro, il rilanciarsi e richiamarsi tra le singolarità che si con-costituiscono nel faccia a faccia fordiano. L’esercito

176 177

Cfr. Jean Curtelin, Sergent Croft, petit frère, in «Présence du Cinéma», 13, mai 1962, p. 17. Ibidem.

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è un mondo rovesciato popolato di morti viventi oppure un circo parodistico-spettacolare come Walsh mostra nella piccola ma geniale farsa di La moglie sconosciuta, in cui «si trovano riunite alcune delle caratteristiche tipiche del cinema americano e, allo stesso tempo, la manifestazione del genio autentico di un autore giunto al termine di un’evoluzione durata molti anni»178. Commedia nera e hawksiana è stato ottimamente osservato ma anche critica della rappresentazione spettacolare, della società dello spettacolo, nel cui incastro rutilante l’eroe, per così dire, è del tutto decostruito tra continui rovesciamenti e deviazioni disseminate nello spazio disarticolato della narrazione che scaraventano, senza tregua, i soggetti nel disagio e nel fraintendimento, costruito a sua volta sui frammenti narrativi di cui il film si de-compone. La moglie sconosciuta non rappresenta eroi, né mete, e lo scherzo non è disgiungibile dalla violenza così come lo spettacolo è inseparabile dalla realtà: sicché, la verità è un equivoco. I soldati non agiscono, né obbediscono, sono piuttosto strattonati, destituiti del tutto di forza o dignità, senza fermezza, incastrati nella rappresentazione, svuotati di corpo e senso nello spettacolo. La guerra stessa si spettralizza, spettacolarizza, smaterializzandosi, perdendo così la sua concreta tragicità per anestetizzarsi nella farsa della rappresentazione spettacolare. I soggetti non sono quello che fanno e non fanno quello che sono; soldati improvvisati, ballerini improvvisati, cantanti improvvisati: nell’indistinzione spettacolare un soldato può essere ballerino e una scimmia un attore o un generale, come d’altronde dimostrano i caratteri degli ufficiali i cui comportamenti sono, di volta in volta, sempre attuati meccanicamente sotto dettato, sotto comando, per quanto assurdi possano essere gli ordini (impartiti in notturna, fuori del regolamento) questi sono eseguiti e, peraltro, pure maldestramente. I soggetti sono nel falso, non sono più singolarità, non vivono ma si rappresentano come pseudo-danzanti o pseudo-cantanti, non danzano o cantano, non hanno abilità, né tantomeno la facoltà di generare un movimento di mondo che apre alla verità come nelle commedie musicali di Vincente Minnelli, bensì si limitano ad eseguire piroette del tutto estemporanee, accidentali, esteriori, come in Un sogno lungo un giorno (One from the Heart, 1982) di Francis Coppola. Il loro doppio, il loro specchio, o, meglio ancora, il loro equivalente sono le scimmie addestrate a sedersi

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Jacques Lourcelles, Notes sur deux film de Raoul Walsh, cit., p. 25.

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FIGURE

o a ballare che, come i soldati, attendono di entrare in scena, di apparire (come non sono) in televisione. «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontananto in una rappresentazione»179, come Walsh aveva già mostrato parzialmente in Grandi occhi scuri (penso ai primi piani obliqui nella sala del barbiere di volti, stupefacenti, alterati dalla sola chiacchiera spettacolare intorno al movimento reale di ammazzamenti di neonati e furti che possono contemplare e consumare comodamente seduti in poltrona) e soprattutto in La storia del generale Custer e Il sentiero della gloria: la guerra è ormai solo una simulazione (e al tempo stesso, un addestramento quotidiano), il sergente si rappresenta talmente duro e burbero che può solo produrre un effetto comico e, se si pensa alla sequenza del matrimonio nell’ospedale militare, l’amore stesso, istante di verità più puro, è falsificato dal matrimonio fasullo, dallo stordimento (il soldato è sposato a sua insaputa perché imbottito di pillole), dall’equivoco. Anche in Spettacolo di varietà (Band of Wagon, 1953) di Minnelli la realtà è ambiguamente invasa da un accumulo di spettacoli che, come nel film di Coppola, la degradano in una rutilante e alienante “Dreamland”: il glorioso Teatro “Eltinge”, nel quale Tony Hunter (Fred Astaire) aveva danzato e cantato davanti a Noel Coward, è stato sostituito dal “Penny Arcade”, enigmatica sala da giochi in cui nessuno si diverte, né vince. Fred Astaire inciampa (sul lustrascarpe depresso) in questo trionfo della falsità e della separazione ma, a differenza dei soldati-scimmiette di La moglie sconosciuta che solo si rappresentano, sa ancora creare un movimento di mondo (danzando e cantando nell’assolo di «A Shine on Your Shoes») che attraversa questa contemplazione ambigua e ne contesta la chiusura spettacolare per aprirla al divertimento: «That’s Entertainement»! La moglie sconosciuta è una commedia corrosiva affine al cinema più moderno di quegli anni. Penso in particolare alla scena del matrimonio all’interno dell’ospedale e alla continua ridisposizione dei posti letto, il cui aspetto sovversivo, an-archico, fu acutamente intuito da Lourcelles: «Mai, forse, il tumulto e il disordine delle leggi, dei costumi, delle istituzioni e, al tempo stesso, delle tendenze benefattrici dell’uomo si sono dati, in un film, un così affollato appuntamento»180. Affine, dunque, alla distruzione dello spettacolo allestita nelle commedie di Jerry Lewis o in Hollywood Party (Id., 1968) di Blake Edwards. 179 180

Guy Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini & Castoldi, 2001, p. 53. Jacques Lourcelles, Notes sur deux film de Raoul Walsh, cit., p. 30.

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Morti viventi, sia in Il nudo e il morto che in La moglie sconosciuta. Perché se è vero che la guerra è la continuazione con altri mezzi della politica (di pace) – come avevano scoperto Clausewitz e Lenin – è altrettanto vero che la (politica di) pace – come diceva Foucault – è anch’essa la continuazione della (politica di) guerra (è questa continuità che filma ad esempio Edward Dmytryk nel noir, scritto da Richard Brooks, Odio implacabile – Crossfire, 1947). Pace/guerra, nudi/morti. Il nudo e il morto è un montaggio di cadaveri che si trascinano nell’angoscia dove, come ha scritto Simondon181, il soggetto «è gravato dalla propria esistenza come se dovesse sorreggere se stesso», e «si sente esistere come problema per se stesso», e «vorrebbe compiersi senza passare per il collettivo»; l’angoscia è «un’emozione senza azione», «non procede, né costruisce», è «un’ontogenesi rovesciata; disfa ciò che è stato tessuto».

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Cfr. Georges Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, cit., pp. 97-99.

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3 DAL CLASSICISMO ALLA (CRISI DELLA) MODERNITÀ

3.1 Non ci sono più eroi, né gli attori per interpretarli L’azione alle soglie della modernità cinematografica introdotta nella storia del cinema da film come Ombre (Shadows, 1957) di John Cassavetes, Hiroshima mon amour (Id., 1959) di Alain Resnais, Fino all’utlimo respiro (A boute de souffle, 1959) di Jean-Luc Godard, Notte e nebbia in Giappone – (Nihon no yoru to kiri, 1960) di Nagisa Oshima, Machorka-Muff (Id., 1963) di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet o Il dio nero e il diavolo biondo (Deus e o diabo na terra do sol, 1963), non ha più efficacia, non fa più situazione, né comunità, non ha senso: non c’è più senso della logica, semmai logica del senso. Il mondo dell’azione del classicismo entra in crisi e così anche il classicismo in generale, e non perché l’azione diventi dispendiosa, gloriosa, come nel caso del Custer walshiano, ma perché alle soglie della modernità – dopo l’esaurimento dell’entusiasmo determinato dalla vittoria riportata nella Seconda guerra mondiale, e negli anni nei quali muoiono Humphrey Bogart1

1 Walsh nel documentario di Richard Schickel ricorda che Bogart, che tutti chiamavano Bogey, non era un tipo accomodante, anzi. «Bogart era un tipo difficile, brontolava sempre e poi andava in giro a dire che Warner era finocchio!». Anche durante la lavorazione di Una pallottola per Roy non mancò di lamentarsi: il sole, il caldo, le location. In fondo era la prima volta che Bogart lavorava in esterni. Un giorno Walsh – il birichino, come lo chiamava Cagney – gli giocò uno dei suoi celebri e maligni scherzi, durante le riprese dell’inseguimento e della fuga di Bogart tra le montagne. La troupe era in pausa e Bogart era affaticato e nervoso perché aveva corso parecchio. Walsh disse all’attrezzista di urlare che quelli della produzione avevano dimenticato il pranzo. Bogart si mise a gridare come un forsennato e a inveire contro Jack Warner: «Quel bastardo di Jack Warner se ne sta nella sua sala da pranzo a rimpinzarsi di filetto mignon, asparagi e contorni vari, mentre io sto qui a morire di fame. Che schifo di mestiere!». Walsh subito dopo gli confidò che era uno scherzo e ordinò all’attrezzista di portare il cestino a Bogart. Walsh gli si sedette accanto per godersi l’espressione di Bogart che apriva il cestino: dentro c’era un panino rinsecchito al prosciutto, un cetriolino, un’oliva, una banana e un biscotto. Bogey sbottò sconsolato: «A San Quintino i detenuti mangiano meglio!».

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(1957), Errol Flynn2 (1959), Clark Gable (1960) e Gary Cooper (1961)3 – Walsh scopre che non c’è più azione, come Ford scopre che non c’è più comunità, né situazione. Walsh come Ford approda se non alla modernità quantomeno alla crisi della lezione del classicismo. La modernità di

2 Nel 1941 ha inizio – con uno dei film western più intensi e creativi della storia del cinema, il Custer walsh-flynniano – il sodalizio durato ben 7 film tra Errol Flynn e Walsh. Flynn, personaggio romantico tanto sullo schermo quanto nella vita, diventerà oltre che l’attore preferito da Walsh anche un suo amico e confidente. Nel documentario di Richard Schickel Walsh ricorda Flynn come una persona magnifica, solo che quando gli dissero che doveva morire si lasciò davvero andare. Era anche un bravo attore, molto più bravo di quanto la gente pensasse. «Una volta ero a casa di Errol Flynn e lui aveva bevuto parecchio. Avevamo saputo che quel giorno era morto John Barrymore. Errol mi disse: “Mi sembra di vederlo ancora seduto lì. Raccontava delle storie magnifiche. Come quella volta in cui qualcuno gli chiese se Amleto avesse avuto una relazione con Ofelia e lui rispose che l’aveva avuta solo nella Chicago Company [la compagnia teatrale di John Barrymore]”. Poi Flynn disse ancora: “Quanto mi manca”. Allora chiamai un mio amico per chiedergli dov’era il corpo. Mi disse che era dai fratelli Malloy a Temple Street. Saltai sulla macchina e corsi dai fratelli Malloy. Quando arrivai mi accorsi che uno dei due fratelli era stato caratterista nei miei film. Mi chiese se poteva fare qualcosa per me. Gli dissi che mi serviva il corpo di Barrymore per un paio d’ore! Era uno che beveva parecchio. Gli dissi che dovevo fare una sorpresa a qualcuno. Alla fine mi diede il corpo». Così Walsh portò il corpo di Barrymore a casa di Flynn, nel suo salotto. «Dopo un po’ entrò Flynn, urlò e corse all’impazzata fuori di casa e si nascose tra i cespugli. “Che diavolo hai fatto?” mi disse. Visto che ti mancava te l’ho portato qui!». Anche Errol Flynn nelle sue Memorie racconta questo episodio messo in scena dal «grande e fantasioso regista Raoul Walsh, noto per il suo straripante senso dell’umorismo». Cfr. Errol Flynn, Una vita proibita, cit., pp. 243-244. 3 «La morte di Humphrey Bogart nel 1957 colse Hollywood di sorpresa. Tre giorni prima ero passato a vederlo per il piacere di sentirlo brontolare sul cinema. Mi era parso intollerante e irascibile come di consueto e nulla lasciava sospettare che fosse malato. A Hollywood le persone superstiziose pretendono che quando un uomo muore, altri due lo debbano seguire poco dopo. Gli avvenimenti confermarono la superstizione: Bogart morì nel 1957, Flynn nel 1959 e Clark Gable l’anno successivo. Che fare quando muore un amico? Mi ero già posto la domanda alla morte di Bogey. Non c’è nulla da fare. Si è tristi, si rispolverano i suoi ricordi e si chiama il fioraio. Mi tornava alla mente Flynn innamorato durante il suo soggiorno a New York, Flynn mentre mi annunciava che i medici gli avevano dato poco tempo da vivere; mi ricordavo soprattutto le sue parole: “Zio, tu sei il solo amico che mi resta”. Lo sentivo ancora dire: “Se mi resta solo un anno da vivere, che sia gioioso!”. Dodici anni erano trascorsi da allora, dodici anni di festa ininterrotta; fedele al suo personaggio fece una vita da gran signore fino alla fine. E ora non c’era più. Non mi avrebbe più chiamato “lo Zio”. Nel 1961 fu la volta di Gary Cooper. La sua morte lasciò un altro grande vuoto nel mondo del cinema. A quasi un anno di intervallo l’uno dall’altro, quattro grandi attori, quattro grandi uomini erano scomparsi. Il mondo intero pianse la loro morte. La loro grandezza avrebbe sostituito da sola qualsiasi monumento funerario». Cfr. Raoul Walsh, Un demi-siècle à Hollywood, cit., pp. 325-327.

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DAL CLASSICISMO ALLA (CRISI DELLA) MODERNITÀ

Walsh fu intuita nelle celebri pagine in cui André Bazin introduce il termine «sur-western» per designare un fenomeno che lo stesso Bazin riconosce e qualifica come complesso e articolato4: la transizione del genere western nella crisi e nel rinnovamento del cinema americano a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Transizione-passaggio, in ultima analisi, alla modernità. Pur ignorando o sottovalutando il contributo di John Ford (Bazin ne riconobbe, parzialmente, l’importanza solo qualche anno dopo5) il fondatore dei «Cahiers du Cinéma» individua nei film western di Howard Hawks e Raoul Walsh il cuore di questa trasformazione che, a un tempo, conserva e afferma la perennità del genere e delle sue leggi e tuttavia vi innesta elementi di discontinuità e innovazione. Senza cadere nella trappola della tesi sociale che si suppone nobilitante o riabilitante né in quella degli eccessi barocchi o decadenti, Walsh con «l’intelligenza e la coscienza dei mezzi» che gli erano propri «in perfetto accordo con la sincerità del racconto», tra il 1947 e il 1951, con Notte senza fine, Gli amanti della città sepolta e Sabbie rosse offre la traccia di quella transizione a cui Bazin dà la caccia. Film nei quali Bazin, pur qualificandoli poco al di sopra della serie B, trovava che vi fosse «qualcosa» (un sentimento, una sensibilità, un lirismo) che li slanciasse e proiettasse nell’orizzonte della modernità. Film situabili «nella produzione degli ultimi anni», cioè gli anni Cinquanta: gli anni di Anthony Mann, Delmer Daves, Budd Boetticher, Nicholas Ray. Come ha scritto nella sua autobiografia Each Man in his Time (1974), Walsh è stato il testimone della nascita e dell’età d’oro ma anche del declino di Hollywood – un’astrazione mitica senza frontiere 6.

4 Cfr. André Bazin, L’evoluzione del western, in Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 1999. 5 Bazin nel 1948 scrisse un lungo saggio sul regista Wyler, William Wyler o il giansenista della messa in scena, paragonato a Welles e Renoir e considerato da Bazin uno dei maestri della modernità cinematografica, esaltando il suo stile innovativo in contrapposizione al classicismo tout court e in particolare a quello di Ford. Erano anni di forti e spesso troppo marcate contrapposioni (tra classicismo e modernità), in cui per affermare una tesi occorreva, probabilmente, caricare l’effetto per spezzare barriere e prevenzioni. Tuttavia lo stesso Bazin dieci anni dopo, nel 1958, poco prima della prematura scomparsa, apportò una nota conclusiva al suo saggio in cui scriveva che «ovunque si situi John Ford bisogna mettere Wyler al di sotto». Cfr. André Bazin, William Wyler o il giansenista della messa in scena, in Che cosa è il cinema?, cit., p. 116. 6 Cfr. Raoul Walsh, Un demi-siècle à Hollywood, cit., p. 335.

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L’azione che, nel classicismo, congiunge i poli e rinnova la comunità, l’azione che lavora una determinata situazione, l’azione del classicismo, nella crisi non ha più alcun orientamento. È vero, lo rivendicava Walsh7, gli eroi walshiani per dimostrare la loro virilità non hanno mai avuto bisogno di esibire i muscoli. Tuttavia è altrettanto vero che i suoi ultimi eroi non solo non mostrano i muscoli ma vacillano, anche se i suoi personaggi, in realtà, sono sempre stati assai vulnerabili. Poichè c’è sempre un personaggio principale, l’“eroe”, e sebbene lo spettatore sappia che non morirà, che lo ritroverà al termine del film, occorre comunque circondarlo di pericoli, farlo precipitare in situazioni rischiose, minacciarlo attraverso l’avventura, per arrivare a persuadere lo spettatore, almeno per un attimo, che forse l’eroe non arriverà alla fine del film, per insinuare che, in fondo, l’eroe è fragile. Si tratta, per il regista, della cosa più difficile 8.

Il problema non è la vulnerabilità degli eroi ma la loro possibilità o impossibilità di deviazione. Le guide, come il tenente interpretato da Cliff Robertson in Il nudo e il morto, non sanno più dove andare, non sanno più disattendere gli ordini, deviare. Non possono ubbidire, né vogliono comandare: non capitava a John Wayne in Il grande sentiero, né a Gary Cooper in Tamburi lontani. Gli eroi walshiani hanno sempre contestato l’autorità, eppure il rifiuto (della medaglia) del giovane ufficiale di Far West è di tutt’altra fattura, marca il rifiuto differentemente rispetto alla resistenza opposta da altri eroi walshiani. Il tenente di Far West non è uno sprovveduto, né un essere tendenzialmente indisciplinato come il Custer interpretato da Errol Flynn. Nonostante il confronto fra i due personaggi penda decisamente a favore di Custer (aldilà delle qualità attoriali di Flynn ovviamente superiori a quelle di Troy Donahue), Far West rispetto a La storia del generale Custer spinge ancora più in fondo l’ironia dissacratoria, radicalizza lo spirito critico di Walsh. Far West oltre che essere l’ultimo film di Walsh è un film terminale; più che riprendere la storia di Custer o rimaneggiare il film del 1941, Walsh effettua un ri-levare. L’operazione riscatta per oltrepassare, è critica, disincantata e dissacrante: una secolarizzaione di miti ed eroi e proprio a partire dalla scelta dell’attore, del volto dell’attore. Non c’è più Errol Flynn (morto alcolizzato

7 8

Ibidem. Raoul Walsh citato in Jean-Louis Noames, Entretien avec Raoul Walsh, cit., p. 6.

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DAL CLASSICISMO ALLA (CRISI DELLA) MODERNITÀ

qualche anno prima su un’isola della Giamaica) ma Troy Donahue, biondino, piuttosto melenso, mellifluo se non kennedyano. Il personaggio che interpreta è corretto e giusto, è leale e coraggioso, nondimeno nella sua azione manca uno slittamento che invece marca l’azione di Custer fino a renderla atto. Manca non per difetto di Walsh o Donahue, manca perché il regista vuole che questo scarto pulsi per vivificare la critica, per alimentare la tensione della crisi (di Hollywood come del mondo intero). Far West è radicale in quanto Walsh non può più dare il brivido che attraversava le carrellate di La storia del generale Custer. L’ufficiale interpretato da Troy Donahue non è destinato alla gloria: compie il suo dovere, stacca per lealtà e presenza di spirito, si smarca dagli altri, anche perché – occorre dirlo – è scaraventato suo malgrado in un vortice orgiastico di imboscati e debosciati, una masnada di ubriaconi e vigliacchi, nel Forte militare più sperduto del West. Il giovane tenente si smarca anche perché, infine, rifiuta la medaglia che gli è stata assegnata dai politicanti di Washington. Ciononostante questo gesto di insubordinazione non è confrontabile con l’atto dispendioso di Custer, con la sua (in)visione di gloria. Fra il Custer interpretato da Flynn e i corrotti politicanti intriganti c’è un iato incolmabile, una non-riconciliazione, una separazione radicale. Custer-Flynn muore sul campo di battaglia, con gli stivali ai piedi; Matt Hazard-Troy Donahue invece sopravvive (a se stesso e al suo rifiuto), ritorna al Forte, dalla sua donna e prende comunque posto, peraltro quello che gli è stato assegnato. «C’è tutta la suprema ironia di Walsh nella chiusa di questo suo ultimo film: il divetto degli anni ’60, assieme alla moglie “buona” (la donna “cattiva” non fa per lui), circondato dai soldati in bell’ordine gli presentano le armi, chiuso in un cerchio. I tempi dei re sono cambiati. La tromba è davvero lontana»9. Il coraggio del sergente Croft (Il nudo e il morto) è una scelta reattiva, la sua azione una re-azione, non un movimento spontaneo, attivo e affermativo; i soldati che si improvvisano ballerini e cantanti anziché smarcarsi realmente dal ruolo precipitano nella rappresentazione del diversivo riducendosi così allo statuto di scimmiette (La moglie sconosciuta); la deviazione appena abbozzata del tenente, leale e coscienzioso, rifluisce nel riposo dell’intérieur del focolare domestico (Far West). Le gesta dell’eroe nell’ultimo film di Walsh, per quanto debolmente collegate, si configurano come episodi discontinui disposti pacifi-

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Adriano Aprà, Impressioni walshiane, cit., p. 121.

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camente in una catena di fatti che investono l’eroe rinviando, così, certamente alla sua natura, al suo carattere, ma non più come prove attraverso cui operare trasformazioni e sfidare il destino, bensì come accettazione, malgré lui, di un soggiorno consapevolmente percepito come ristretto nel qui dello spazio chiuso (il Forte) che non rimanda più al desiderio di esplorare e deviare, come anche in Il grande sentiero, un altrove, lo spazio aperto della frontiera o, ancor di più, lo spazio infinito dell’atto disoccupante che apre alla gloria come in La storia del generale Custer. L’altrove è, ormai, solo una distant trumpet. Il conflitto non è tolto, né superato. La forma del classicismo si rivela impotente a dare un senso e un ordine: la struttura narrativa di Far West, infatti, si corrode e disarticola, come già in La moglie sconosciuta, in episodi e frammenti che compromettono, volutamente, qualsiasi idea di racconto o di compiutezza lineare. Esplosione della narrazione in microstorie concatenate flebilmente che in quegli anni impegnava, ad esempio, anche Jerry Lewis: Ragazzo tuttofare (The Bellboy, 1960), L’idolo delle donne (in cui come una meteora compare un attore walshiano, George Raft10), Il mattatore di Hollywood (The Errand Boy, 1962). Il classicismo si rivela impotente ma è proprio in questo disvelamento che sta la sua potenza. Questo processo di frammentazione del racconto era iniziato, per quanto riguarda Walsh, con Prima dell’uragano. Film-gemello di Il nudo e il morto – con cui condivide, oltre che l’ambientazione, anche la presenza di alcuni attori – che ha peraltro più di un’affinità anche con La moglie sconosciuta. Girato in Cinemascope per inquadrare orizzontalmente, nella succesione psico-topografica, il pieno dell’azione. Beninteso: non solo l’azione che si dipana nel caos violento delle battaglie militari ma anche l’azione che si svolge nelle piccole avventure e disavventure d’amore dei Marines. Il pieno messo a fuoco da Walsh in Prima dell’uragano, il pieno disseminato negli episodi e nei casi umani del film, è il pluralismo delle forze che agiscono e reagiscono le une sulle altre: costellazione di connessioni e combinazioni, quelle a cui allude il narratore del film. È questo gioco molteplice e differenziato di tensioni e conflitti, drammatici e melodrammatici che Walsh da sempre inquadra con il suo occhio nei suoi film: non tanto la guerra o le sue ragioni, bensì «l’aneddotica quasi esclusiva degli amori militari» che segna una svolta, secon10 Si è già parlato di George Raft, a proposito di Strada maestra, nel paragrafo Riscatto e rigenerazione in Figure.

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DAL CLASSICISMO ALLA (CRISI DELLA) MODERNITÀ

do Roger Tailleur11, nella concezione «molto americana, limitata, dell’amore», una concezione puritana; mentre nel film di Walsh, nella sua deviazione dal canone di rappresentazione dell’amore, un soldato si innamora di una ragazza di cui più tardi scoprirà che la sua attività è quella della prostituta e dopo la disperazione iniziale e il rifiuto, grazie all’aiuto del sergente più navigato, questo soldato capirà che la cosa giusta da fare, se è un uomo forte (big man), è quella di accoglierla fra le sue braccia. La narrazione e l’azione di Obiettivo Burma, da questo punto di vista, fungono da cerniera tra Gloria e Il nudo e il morto – o Far West. Film di frontiera, transizione tra il classicismo e la modernità: c’è la violenza di Gloria e lo sbandamento di Il nudo e il morto. L’azione però in Obiettivo Burma non gira a vuoto anche se non rasenta la gloria. Il tessuto narrativo non si sdrucisce come in Il nudo e il morto, tuttavia è lontano dal modello ordinato che struttura Gloria. Crudele, brutale, come ricorda lo stesso Walsh nella sua autobiografia a proposito delle critiche subite soprattutto in Inghilterra: «In realtà, il solo obiettivo del film era di descrivere il comportamento degli uomini in guerra con il massimo di verosomiglianza»12. Film senza retorica, contro la retorica, lo si vede subito, dall’entrata in scena di Errol Flynn. Se in La storia del generale Custer l’entrata è fragorosa e chiassosa, in Obiettivo Burma Flynn entra di schiena, e quasi non si nota perché è vestito come gli altri soldati: non stacca, è uno di loro. È così che ha luogo il processo in cui il soggetto-eroe inizia a perdere i suoi connotati più smarcanti, azzerati peraltro dalla violenza della guerra, dove il nemico non è l’altro, bensì una presenza invisibile, minacciosa e mortale. Nel 1926 (di ritorno alla Fox dopo le esperienze con la United Artists e la futura Paramount) gira Gloria, uno dei più importanti film del periodo muto, dramma anti-bellico tratto dall’omonima commedia di Stallings e Anderson rappresentata con successo a Broadway, interpretato da Dolores Del Rio nel ruolo della sensuale e ambigua Charmaine, e da Edmund Lowe e Victor McLaglen: «Erano una coppia straordinaria» diceva Walsh di loro e infatti li usò anche in I due rivali (The Cockeyed World, 1929) che riprende le avventure dei personaggi di Gloria 13. Walsh 11

Cfr. Roger Tailleur, Roger Tailleur e Positif, cit., p. 156, nota 1. Raoul Walsh, Un demi-siècle à Hollywood, cit., p. 290. 13 A proposito di Gloria, segnalo che secondo Peter Bogdanovich (Il cinema secondo John Ford, cit. p. 141) John Ford ha girato le riprese relative alla partenza per il fronte – erano gli anni in cui, effettivamente, Ford, come Walsh, lavarova per la Fox. In ogni modo, 12

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in Gloria filmava in una classica doccia scozzese (à la Ford) l’azione e il suo rovescio, la coesistenza di violenza e amore, alternando il registro crudo e drammatico del film di guerra (con alcune importanti scene notturne di battaglie, in cui Walsh sperimentò per la prima volta la camera montata sul dolly per realizzare delle carrellate sulla trincea dei Marines), con quello triviale e divertente di una commedia sulla rivalità amorosa fra il capitano e il sergente nei riguardi di Charmaine, la figlia del locandiere. Nel 1958 invece Walsh filma soltanto la violenza insensata e ingiustificabile. I piaceri della vita (il cibo, il vino, il sesso) nel 1926 si contrapponevano agli orrori della guerra, però non mancava un’attenzione e neanche una valorizzazione del gesto dell’eroe. Nel 1958 non ci sono più eroi né piaceri, il visibile è colonizzato dalla ritualità della violenza e dalla violenza della ritualità. Nell’itinerario narrativo di Obiettivo Burma, invece, marcato da svolte e insidie, il senso e la finalità dell’azione si caricano di una complessità vertiginosa. L’avventura individuale dei soldati sperduti nella giungla si confonde con un’avventura più generale14. E Obiettivo Burma, citato in anni recenti da John Woo e Clint Eastwood, in questo senso è un mirabile esempio del cinema di sintesi di Walsh dove l’individuale partecipa all’universale. Sguardo puro, perché il film non è una rappresentazione della guerra ma è la guerra. «Non è un’espressione del mondo, ma un pezzo di realtà, un frammento di mondo afferrato direttamente e mostrato»15. Ma Obiettivo Burma, per l’appunto, è anche un’opera di sintesi del cinema walshiano: sta tra Gloria e Il nudo e il morto. Errol Flynn non è lacerato, sospeso tra le due rive del fiume (natura e cultura) come il Gary Cooper di Tamburi lontani o indeciso, nell’indecidibile, come il Cliff Robertson di Il nudo e il morto, tuttavia, Obiettivo Burma, ancor prima nell’immagine che non nella narrazione o, meglio, nell’immagine narrativa, storna nel suo smarrimento generalizzato dal rigore classico di Gloria, dove i soggetti sanno bene dove andare – sia che si tratti della locanda sia che si tratti della prima linea. La pattuglia sperduta di Obiettivo Burma sbanda, si perde, senza però disgregarsi, sfilacciarsi, come accade invece in Il nudo e il morto, poiché in Obiettivo Burma rimane, per quanto umaFord, nel 1952 girò un re-make di Gloria, Uomini alla ventura (What Price Glory), con James Cagney. 14 Cfr. Jean-Louis Comolli, L’esprit d’aventure, cit., p. 12. 15 Ibidem.

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nizzato, un eroe-guida: Errol Flynn. La complessità di questo film non è solo vertiginosa ma perturbante. Doveva essere un film di propaganda, un film su commissione e, invece, è una delle deviazioni più stupefacenti del cinema. Un esercizio di verità, poiché la verità si apre sull’orlo, nell’intervallo tra l’ideale e il reale, nel cammino senza fondamento, né finalità. La verità di Obiettivo Burma, come del resto quella di Prima dell’uragano e di Il nudo e il morto, è l’apprendistato. Così scriveva in uno dei punti più alti della letteratura walshiana Comolli nel 1964: la lezione della guerra, e Obiettivo Burma è la guerra, è l’apprendistato che non si limita a opporre gli uni agli altri (americani e giapponesi, giovani e vecchi, professionisti e dilettanti, soldati e civili), né a riunirli. Questa lezione di guerra è una lezione di vita, dunque la barra che oppone o riunifica, l’astrazione delle scienze dello spirito e delle scienza della natura o delle economie che governano la nostra esistenza, salta, è spezzata, contestata dalla vita che è molteplice divenire, mistero, invisibile. L’apprendistato è la via stessa, il cammino, il tragitto che diventa traiettoria, come in Sabbie rosse o Bergson. «L’avventura dell’individuo si confonde con l’avventura generale [...] l’individuale partecipa all’insieme», la pattuglia sperduta di Walsh è un singolare plurale e il suo cinema «è un cinema di sintesi»16. Obiettivo Burma non è una messa in scena discorsiva di opposizioni o riunificazioni, è un «corps à corps». E l’obiettivo dei soldati non è la distruzione della base giapponese, ma il loro ricominciamento, l’avventura. Lo aveva visto anche Jacques Lourcelles in un articolo del 1962 apparso su «Présence du Cinéma»: «La riuscita non è la prova di qualche giusta causa, ma il suo specchio»17. L’avventura non ha inizio nello scenario di giungla previsto e descritto con attenzione e precisione dalle mappe, preventivato, anticipato dal piano, dalla regia degli strateghi (o della sceneggiatura). L’avventura comincia con il ritorno dei soldati, differito, ostacolato, narrativizzato, ha inizio nello scarto tra ideale e reale. L’avventura (individuale e collettiva) è combattere, creare, combattere come creare, dare senso al moltiplicarsi dei segni e delle tracce, visibili e invisibili, cogliere le diversità e individuare le variazioni, vivere nello scarto, nel dislivello tra la mappa, la strategia, la missione e la giungla, il nemi-

16 17

Ibidem. Jacques Lourcelles, Notes sur deux films de Raoul Walsh, cit., p. 23.

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co invisibile e visibile, gli specchi e le ombre. L’avventura è l’imprevisto, la deviazione, il tragitto che diventa traiettoria (Le giubbe rosse del Saskatchewan), la materia che diventa memoria (Sabbie rosse). E infatti, nell’intervallo che sospende la funzionalità e l’operatività dell’attività razionale e utilitaria (che paradossalmente proprio in guerra, nella formazione economico-sociale del Kapitale, come avrebbe detto Lyotard, trova il suo punto più alto di applicazione e il suo punto più potente per uno sviluppo ulteriore ubbidendo a «un solo principio di diramazione energetica, la legge del valore»18), quasi nella morte che interrompe questa vita lasciata vivere (per uccidere l’altro), «nel silenzio, può stabilirsi tra loro un contatto fuggitivo, quasi inconfessato che niente deve ai giochi furtivi e complicati dei dibattiti morali, alle crisi, agli sfoghi che l’urgenza della lotta non sollecita»19. Il cinema di Walsh è questo spirito d’avventura, questo ricominciamento, questa invenzione «di un cinema d’avventura e dell’avventura del cinema tutto intero»20. 3.2 Cinquant’anni di cinema Sull’arte spesso ignorata di Raoul Walsh furono i francesi a fare luce ma non i giovani turchi (Godard, Truffaut, Rohmer, Chabrol, Rivette) dei «Cahiers du Cinéma», bensì il gruppetto compatto – e spesso bistrattato dagli altri critici francesi, ma non da Daney e Biette dei «Cahiers» o Tailleur di «Positif» ad esempio – che animava le pagine dal periodico «Présence du Cinéma», la rivista dei macmahonisti, ossia i cinefili che frequentavano la sala MacMahon di Parigi tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, ammiratori inflessibili di Preminger, Losey, Lang e Walsh. Nel 1967 Noël Burch, nel suo celebre Prassi di cinema, poteva ancora parlare a proposito del cinema di Walsh – con la sicumera tipica di molto strutturalismo militante (dal quale lo stesso Burch prenderà le distanze più tardi) – di «mediocrità trasparente» e «banalità»21, dimenticando, peraltro, che proprio il suo libro 18 Jean-François Lyotard, Capitalismo energumeno, in A partire da Marx e Freud, cit., p. 188. 19 Jacques Lourcelles, Notes sur deux films de Raoul Walsh, cit., p. 24. 20 Jean-Louis Comolli, L’esprit d’aventure, cit., p. 14. 21 Nöel Burch, Prassi di cinema, Milano, Il Castoro, 2000, p. 156.

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era apparso in dieci articoli su quei «Cahiers du Cinéma» che, sebbene un po’ in ritardo rispetto ai macmahonisti, avevano dedicato uno speciale a Walsh nel 1964 con un articolo ancora oggi notevole di Comolli, un’intervista al regista, nonché una filmografia commentata dallo stesso Walsh. D’altronde, anche più recentemente, nonostante i ripetuti dossier speciali ad esempio di «Positif», un altro studioso attento e competente, JeanLouis Leutrat22, prossimo alle posizioni di questa rivista, registrando più un’oscillazione diffusa che non una sua valutazione, non sapeva se collocare Walsh tra «i maestri grandi» di Hollywood come Ford, Capra, Hawks, Hitchcock, o tra i «piccoli» come Ulmer, Arnold, Boetticher, concludendo che registi come Walsh «apparterrebbero all’una o all’altra categoria a seconda dei gusti individuali». In Italia fu Paolo Bachmann nel lontano 1977 a sdoganare Walsh con un lavoro analitico e dettagliato, per molti versi pioneristico, che non risente niente affatto del tempo trascorso, pubblicato dal Movie Club di Torino; senza dimenticare, peraltro, il contributo di Ermanno Comuzio, autore di una monografia su Walsh già nel 1974. Tuttavia è in Francia, più che negli Stati Uniti, che il cinema di Walsh ha suscitato interesse, passione, nonché studi di vario tipo. Già nel 1959, e proprio sui «Cahiers», Mourlet parlava di un’arte ignorata, e più tardi ribadirà sia la sua valutazione che la stima appassionata sul periodico macmahonista. Seguiranno negli anni gli speciali di «Présence du Cinéma» (1962), «Contrechamp» (1962), «Cahiers du Cinéma» (1964), «Positif» (1973; 1998; 2001), l’episodio Raoul Walsh della serie televisiva a cura di André S. Labarthe & Janine Bazin, Cinéastes de notre temps, Ortf, del 1966 e una retrospettiva negli anni Settanta alla Cinémathèque Française di Parigi; nonché, fuori dalla Francia, «Films and Filming» (225-227, June 1973), il volume collettaneo a cura di Phil Hardy, Raoul Walsh (Edinburg Film Festival-British Film Institute, London 1974) pubblicato in occasione di due importanti retrospettive all’Edinburgh Film Festival e al British Film Institute e l’episodio Raoul Walsh di 45 minuti del documentario di Richard Schickel, Men Who Made the Movies (Pbs, 1973, riproposto nel 2001 dalla Turner Classic Movies con la voce narrante di Sidney Pollack) e, infine, nel 1974 una retrospettiva durata tre mesi (con 67 titoli) al Museum of Modern Art di New York. Per tornare

22

Cfr. Jean-Louis Leutrat, Il cinema in prospettiva: una storia, Recco, Le Mani, 1997,

p. 89.

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alla Francia da segnalare soprattutto gli articoli di Legrand e, qualche decennio dopo, anche quelli pubblicati su «Trafic» nel 1998 di James Agee, Manny Farber, Louis Slorecki e Biette (che già nei suoi vecchi pezzi sui «Cahiers du Cinéma» parlava di Walsh et Straub, Walsh et Boulez); Skorecki, che aveva già curato un’intervista a Walsh (con un altro nome, Jean-Louis Noames) nel 1964 sui «Cahiers», nel 2001 ha pubblicato anche una monografia (Raoul Walsh et moi, suivi de Contre la nouvelle cinéphilie, Presse Universitares de France, Paris), come pure Michael Henry Wilson (Raoul Walsh ou la saga du continent perdu, Cinémathèque Française, Paris) che su Walsh aveva scritto qualche anno prima su «Positif». Folgorante il giudizio enunciato nel 1982 da Giovanni Buttafava23: Raoul Walsh era un tipico regista hollywoodiano, compromesso con l’industria, che riusciva talvolta a confezionare qualche film decoroso più di altri suoi colleghi, sempre comunque nell’ambito della non-Arte. Poi venne un rivolgimento nella storia del pensiero cinematografico: nouvelle vague, politiques des auteurs, affrancamento della linea hollywoodiana contro l’idealismo accademico europeo-letterario, gusto pop, scioglimento dei giuramenti ideologici ma anche estetici. E il nuovo cinema dei Sessanta. Venti anni fa tutto fu capovolto: Clair era la personificazione di un cinema morto, di un falso maestro da ripudiare; Wyler era uno dei pochi registi hollywoodiani che cercavano di essere “d’arte”, stilisti, perciò accademico, compromesso, un piccolo autore; Walsh era un vero “auteur”, maestro di Scrittura cinematografica, un Grande di Hollywood […]. Raoul Walsh non è mai stato venerato come Maestro di Stile, e non si prendeva per tale. Forse più d’ogni altro, incarna la qualità suprema del cinema hollywoodiano, quella che ha fatto delirare anche, che ha procurato qualche guasto, ma che ha sempre insegnato il senso totale del cinema, il piacere di una visione essenziale, “svelata” da ogni superfetazione letteraria e da ogni cerimoniosità figurativa. La sterminata opera di Walsh offre il buono, l’ottimo, il mediocre talvolta; ma la sua direzione, anche nelle imprese più obbligate (Walsh come tanti altri, come quasi tutti, veniva scelto dopo che era stato stabilito soggetto, sceneggiatura, parte del cast) era infallibilmente dinamica, senza indugi, senza pretese, formidabile nella sua naturalezza. […] la sua filmografia si impone come un corpo vivo, robusto, risultato di una forza creativa autentica.

Ciò che è in gioco nei cinquant’anni di cinema di Raoul Walsh, nella sua direzione dinamica e senza indugi, viva e robusta, nell’arte ancora oggi troppo spesso ignorata di questo cineasta che Adriano Aprà ha definito ottimamente barbaro, non è un’evoluzione, né un’involuzione del suo stile, men che meno la rappresentazione della guerra o il mutamento di 23

Cfr. Giovanni Buttafava, Tre destini, cit., pp. 103, 105.

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tonalità di tale rappresentazione. Tutti questi aspetti semmai sono in gioco, ad esempio, nella filmografia di un regista come Edward Dmytryk, che nel giro di una dozzina d’anni gira tre film di guerra molto diversi. Gli eroi del Pacifico (Back to Bataan, 1945), dove il nemico è cancellato; Anime ferite (Till the End of Time, 1946) in cui i vincitori, una volta tornati a casa, si ritrovano in un mondo non-pacificato e ingiusto; e I giovani leoni (The Young Lions, 1958) dove anche il nemico ha un volto umano. I passaggi, gli stornamenti, le deviazioni disseminati nel cinema di Raoul Walsh, indicati e rinvenuti da più commentatori, hanno tutt’altro senso, tutt’altra carica simbolica, tutt’altra valenza generale: non sono discese o scadimenti, né progressi, ma salti, stacchi e fratture. Sussulti e cesure, proprio come quelli che contrassegnano la sua produzione cinematografica. Balzi, strappi, contrasti epocali. E non poteva che essere così poiché il cinema di Walsh è lo sguardo su un mondo diversificato e molteplice, imprevedibile e bizzarro. Sguardo il cui senso è nell’atto stesso di filmare il mondo: filmarne gli equilibri e i dissesti. Filmare, per Walsh, è il modo di esercitare l’esistenza. Le curve del diagramma stilistico walshiano non sono la risultante di una riflessione a freddo o di una rappresentazione ma sono piuttosto fuochi del racconto filmico dello svolgersi delle cose del mondo, del loro frangersi e rifrangersi, e del loro ri-flettersi (e (ri)presentarsi) nello specchio vivente del cinema. Differenze che articolano e disarticolano l’ordito del visibile afferrate da uno sguardo sollecitato dalla molteplicità e incline a deviazioni e stravaganze. Filmare la crisi per Raoul Walsh, crisi della soggettività, crisi degli ideali o crisi delle forme del classicismo, è un gesto naturale e spontaneo. È il suo cinema, il suo sguardo. Walsh come Ford raccorda classicismo e modernità24: è uno dei maestri riconosciuti del classicismo ma sa toccare la modernità senza clamori né manifesti. Autore tra i più prolifici e longevi, Walsh ha un posto tutto 24 Per quanto concerne Ford penso, in particolare, alla trasformazione radicale che segna la fenomenologia fordiana della frontiera: dall’apertura di Il cavallo d’acciaio (The Iron Horse, 1924), I tre furfanti (Three Bad Men, 1926) o La carvovana dei mormoni (The Wagon Master, 1950) alla chiusura di Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956), L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962) o Il grande sentiero (Autumn Cheyenne, 1964); dal sogno al fantasma, dall’epopea alla farsa, dalla libertà alla politica. Cfr. Toni D’Angela, Frontiere. Osservazioni sul western di John Ford, in Toni D’Angela (a cura di), Il cinema western da Griffith a Peckinpah, Alessandria, Falsopiano, 2004.

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speciale nella storia del cinema. Ha cominciato con David Wark Griffith, girando una ventina di film circa già nel corso degli anni Dieci, dopo averne interpretati come attore altrettanti tra il 1913 e il 1915, l’anno in cui interpreta l’assassino di Lincoln in La nascita di una nazione di Griffith, per smettere dopo 50 anni, nel 1964, poco dopo King Vidor e poco prima di John Ford. Le curve del diagramma del cinema walshiano, allora, non possono che disegnare e ritagliare un itinerario storico, culturale e politico, in cui è inscritto un segno epocale perché la ricerca della Felicità e della Terra promessa (Il ladro di Bagdad, Il grande sentiero), la Crisi (Una pallottola per Roy, Obiettivo Burma, Gli amanti della città sepolta, Sabbie rosse), gli Spettri (Banda degli angeli, Il nudo e il morto, Far West), si riverberano, si sentono e si vedono nelle forme del narrato. Cosicché, in Walsh, nei suoi cinquant’anni di cinema, il ritmo narrativo di ciascun film disegna le curve di un diagramma che ricalca quello del cinema classico americano. Le curve delle sue origini, dei suoi trionfi, delle sue trasformazioni e della sua crisi, nonché delle forze storiche e culturali, le forze vive che giacciono al fondo del movimento e dei conflitti individuali e universali messi in scena da Walsh. 3.3 Crisi: classico, barocco, (pre)moderno Una crisi, dunque, affrontata e vissuta da Walsh non senza reagire con un ultimo sussulto di classicismo: Gli implacabili, «film lungo (questo genere di film non può essere corto)», «impegnato sulla pista delle grandi carovane di bestiame addette al vettovagliamento delle città dell’Ovest» e, scriveva Tailleur 25, marcato da «una costante ricchezza visiva», che è anche un saggio filmico sulla lentezza fenomenologica come ebbe modo di osservare nel 1969 Wim Wenders su «Filmkritik». «La forma più pura del pensiero fisico» dove la lentezza è uno «sforzo uniforme» per «rendere il più possibile chiari e comprensibili tutti gli avvenimenti fisici e psichici», «per sottolinearne la durata», poiché «nessun avvenimento è così poco importante da doverlo affrettare, abbreviare o addirittura eliminare», ecco perché «quando una mandria attraversa un fiume, si vede non solo la prima bestia entrare in acqua,

25

Roger Tailleur, Roger Tailleur e “Positif”, cit., p. 88.

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ma anche l’ultima uscirne»26. Curiosamente, Gli implacabili con la sua lentezza raccorda le origini del cinema con la modernità cinematografica (che spesso quella lentezza recupera), e raccorda anche Ozu e Rossellini, perché nel loro cinema tutto è sullo stesso piano e nulla è insignificante: il trascendente è una piega del trascendentale, l’eccezionale una curvatura dell’ordinario. Walsh ha reagito con l’implacabilità tipica del classicismo: con senso di ariosità e forza, compostezza ed equilibrio. È lo stile di chi (Ben Allison come Raoul Walsh) sa affrontare l’inferno – dentro e fuori – con energia e vitalità. Sul volto di Ben Allison-Clark Gable (l’immagine-segno che rappresenta il cinema di Walsh) nel finale di Gli implacabili scende un velo di malinconica stanchezza: gli anni passano, le dure prove della vita affaticano e le sofferenze esperite lacerano. Nondimeno la postura e lo sguardo di Ben Allison si inscrivono nel piano ri-composto di Walsh: calmo, placido e pieno. L’eroe è disteso sulla terra, riposa dopo le numerose lotte e i molteplici perigli. Gli implacabili, western con la neve tanto carico di rimandi a situazioni e temi canonici del genere (due uomini intorno a una donna, il trasporto della mandria di bestiame come in Il fiume rosso; Red River, 1948, di Hawks) quanto originale e moderno nel delineare i complessi rapporti fra i personaggi, è l’ultimo sussulto del classicismo walshiano, la messa in scena del racconto delle gesta di un eroe classico filmato nella lotta contro gli indiani, i briganti e gli affaristi-predatori dell’Ovest. Contro l’incommensurabile. Ben Allison non è rassegnato, né sottomesso alla sconfitta. Il quadro armonizzato che Walsh costruisce nel finale non è una sottomissione puramente estetica, una resa, ma l’abbandono all’Assoluto, al tutto che continua della Natura. Il riposo nella braccia del Mondo. È un riposo, al tempo stesso, estetico e etico: il riposo che attende la lotta o che l’ha già conclusa. Gli implacabili è questo gioco dialettico di lotta e riposo. Una sapienza che tiene insieme, coniuga e concilia autoaffermazione e contemplazione: «lo spettacolo della lotta è destinato a rappresentare l’uomo nel momento più alto della propria autoaffermazione, così reciprocamente la calma contemplazione di quel riposo lo trova nel momento più alto della

26 Cfr. Wim Wenders, Drei Rivalen, in «Filmkritik», 10, oktober 1969; trad. it. Gli implacabili, in Wim Wenders, Stanotte vorrei parlare con l‘angelo. Scritti 1968-1988, Milano, Ubulibri, 1989, pp. 31-32.

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vita»27. Scrive Hölderlin nel poema La morte di Empedocle: «Più potente è il destino, più sono potenti le opposizioni dell’arte e della natura, sempre più esse tendono a individualizzarsi, al fine di guadagnare un punto, un luogo di riposo». Nel film Gli implacabili questo luogo di riposo transitorio è l’eroe: Ben Allison. Una dialettica affine è filmata anche in Ester e il re (Esther and the King, 1960). Co-produzione Fox-Galatea, Ester e il re, fotografato da Mario Bava, è il peplum italiano di Raoul Walsh, sensuale e torbido fin quasi alla caricatura. Film girato a Cinecittà nel 1960, Ester e il re pur essendo una delle opere meno riuscite o celebrate del regista – ma non è del valore che qui si parla – non manca affatto di spunti di interesse e soluzioni tipicamente walshiane, soprattutto se valutato all’interno dell’ultima maniera di Walsh nella quale il tema della stanchezza dell’eroe diviene sempre più centrale. Questo Ester e il re, a suo modo, è un trattamento ironico del genere nel quale Walsh elimina sorprendentemente il climax delle battaglie a tutto vantaggio della costruzione di una trama narrativa che fa il suo gioco su una molteplicità di piani e figure, un tessuto articolato nel concatenamento equivoco e ambiguo dei rapporti che si fanno e disfanno continuamente. Ester e il re è un film tipicamente walshiano anche nella messa in scena del pericolo e della prova, della crisi nella quale i soggetti affrontano i loro spettri e conquistano l’amore e la pace con se stessi solo nel punto di massima sofferenza, nella sconfitta, nel vacillare del potere che invece indurisce il cuore e soffoca l’amore. Anche Ben Allison è un eroe, un soggetto eccezionale in quanto sa invecchiare, eccezionale perché vacilla: vulnerabile nella sua umana implacabilità. Eccezionale eroe classico perché, come diceva Eric Rohmer, il classicismo non ci sta alle spalle ma dinnanzi. Ecco perché la vulnerabile implacabilità di Clark Gable (il classicismo che si scopre storico e non eterno come dice Serge Daney28) alla fine trova ricompensa e conforto (oltre che nell’accordo con il Mondo) tra le braccia di Jane Russell (come Assuero-Richard Egan, sconfitto da Alessandro, troverà

27 Friedrich W.J. Schelling, Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, Roma-Bari, Editori Laterza, 1995, pp. 5-6. 28 Dopo la Seconda guerra mondiale e l’avvento della televisione il cinema ha smesso di essere eterno e ha iniziato a essere moderno, legato all’attualità sapendo di non poter più ritornare indietro dice Daney. Cfr. Serge Daney, Ciné journal, Roma, Biblioteca di Bianco & Nero, 1999, p. 69.

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conforto tra le braccia di Ester-Joan Collins nel finale di Ester e il re), dopo le tante scaramucce (cfr. fotogrammi 171-180): «Simili ai dissidi degli amanti sono le dissonanze del mondo, conciliazione è entro la discordia stessa e tutto ciò che è separato si ricongiunge»29. L’equilibrio di Ben Allison è l’equilibrio del classicismo. Non è un risultato perenne e incrollabile, bensì provvisorio, l’esito compiuto nella sua fragilità di un movimento: come l’equilibrio di una roccia che l’azione degli agenti atmosferici o l’azione dei corsi d’acqua continuamente minacciano e ristrutturano. Nell’altro western interpretato da Clark Gable, invece, il classicismo si volge in barocchismo. Contemplativo, atipico e splendido, Un re per quattro regine si apre con un uomo vestito di nero che fugge a cavallo in uno spazio roccioso e scosceso, insidioso (un canyon dello Utah sud-occidentale). Figura gettata nel deserto petroso in un nulla di provenienza e slanciato verso un nulla di destinazione. È Dan Kehoe (Clark Gable), avventuriero dandy e vagabondo avvolto nell’ombra dove si apposta per evocare e sollecitare il desiderio delle quattro vedove-regine. Dan Kehoe-Clark Gable è il re che irrompe nella città fantasma di Wagon Mouna abitata dalle quattro regine e governata dalla loro energica e spietata suocera che invano attende il ritorno di uno dei figli miracolasamente scampato ad un agguato mortale, nel quale hanno perso la vita gli altri tre figli. L’attesa del ritorno alimenta le speranze di tutta una vita: una volta tornato il figlio superstite la madre potrà finalmente ricucire la lacerazione violenta che li ha separati e rimettere in sesto la famiglia con almeno uno dei suoi figli, consegnandogli l’oro nascosto e la moglie. Ma l’irruzione di questo avventuriero fascinoso e maturo ridetermina il senso degli spazi, altera il ritmo della vita un po’ spettrale di Wagon Mouna e rinvigorisce il respiro che l’attraversa. Dan Kehoe è il desiderio che irrompe e rimonta, il desiderio che sconvolge e apre. L’atmosfera tragica prodotta dalla situazione d’attesa dell’eroe, con l’arrivo di Kehoe, si rovescia in un soffio caldo che rianima i corpi e riaccende i colori che diventano fiammeggianti, certamente anche grazie alla fotografia di Lucien Ballard, il direttore della fotografia di alcuni degli ultimi film di Walsh e, più tardi, di molti film di Sam Peckinpah. Dan Kehoe è anche un essere vulnerabile: ferito dalla suocera e tenuto sotto controllo da una delle cognate; tuttavia, al tempo stesso, è un tipo che la

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Friedrich Hölderlin, Iperione, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 178.

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sa lunga: sa aspettare e giocare bene le sue carte. Sa corteggiare e sedurre: passeggia, danza al chiaro di luna sulla veranda della grande casa, sfila e si esibisce con un’andatura che è paragonabile al disegno tracciato da una matita o un pennello, sotto l’attacco degli occhi vogliosi delle quattro regine surriscaldate dal desiderio e stanche di aspettare invano. Dan Kehoe le tocca – con un gesto, un battito di palpebra o una parola – ciascuna nel punto giusto, al momento giusto: una è timida e inesperta; un’altra sensuale e peccatrice; un’altra ancora procace e svampita; e infine un’altra fredda e furba. Accarezza e bacia, consola e solletica la curiosità delle regine. Eroe giocatore, licenzioso e danzatore: Dan Kehoe è l’uomo venuto da fuori, presenza guastatrice che rianima i luoghi, rivitalizza gli spiriti e accende i corpi, riaprendo la piccola comunità al fuori. Un re per quattro regine è la messa in scena di questo gioco di movimenti e gesti con cui i soggetti si studiano, si tengono a distanza e si attraggono, è una costellazione di forze che agiscono e reagiscono le une sulle altre. Esercizio di avvicinamento e allontanamento di corpi, interconnessione di carni, dialettica di azione e reazione di corpi-immagini che si contraggono e dilatano. Movimento increabile e indistruttibile che continua incessantemente, libertà del tutto che continua, come nell’inizio e nel finale del film aperto e chiuso da un movimento di fuga. Danza di corpi colorati (come nella splendida sequenza del ballo) inscritti in una topologia emotiva e pulsionale, uno spazio scenico di sentimenti e desideri, dove alcuni passi fanno sobbalzare il cuore e i soggetti giocano la loro partita dispiegati tra la profondità di campo degli scenari naturali, rocciosi e possenti (il fuori minaccioso o speranzoso) e la scenografia teatrale della grande casa e degli edifici abbandonati di Wagon Mouna (i resti della civiltà e delle sue forme classiche). Raoul Walsh filma questa tensione tra soggetti e oggetti, sentimenti e desideri, interni ed esterni, con inquadrature lunghe e molto ampie, contemplative, ri-prendendo tutti questi movimenti di corpi e volti su cui sono iscritti i segni dello spazio circostante e l’espressione del desiderio che sconfina tale spazio. Segni ed espressione di un mondo formicolante di cui il piano o il quadro filmico – e Walsh ben lo sapeva – non è che un punto incandescente, un fuoco, una messa a fuoco, uno snodo che accorda e raccorda attorno a sé una tessitura articolata e disseminata, la tessitura del visibile, e in primo luogo la natura nella sua incatturabilità e nella sua resistenza agli intrighi e alle baruffe degli uomini: la cui forza è nel suo essere questo centro, «centro dell’immagine» la cui forza sta, come diceva 181

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TONI D’ANGELA

Serge Daney30 a proposito di Walsh (e Ford), nel saper mettere «le cose importanti al centro, per farle vedere meglio». Walsh ne sa restituire, di questa tessitura di cose, cogliere, ri-prendere (perché ne è preso) sfumature e pieghe, gioia e dolore. Il cinema di Walsh esprime proprio questo movimento di idee e cose, e scopre certe verità proprio perché, e solo perché, risponde a qualche pulsazione interindividuale. «L’uomo della visione non è un costruttore, il mondo sembra sempre aspettare il suo sguardo»31. Se è così, allora Walsh con i suoi film incarna al meglio il cinema come «arte del presente – nel senso più ampio del termine, non tanto quello del reportage, ma anche il presente del ricordo, dell’evocazione»32, un cinema che, come in Walsh, «esiste soltanto per far ritornare ciò che è già stato visto una volta»33: Walsh riprende – o registra 34, come dice Daney – perché già da sempre ripreso. Un re per quattro regine è una torsione del sistema filmico, del film classico, la cui omogeneità prodotta dalla testualità del film, dal rapporto tra i codici, i rapporti di variazione e ripetizione, l’enunciazione e l’enunciato, è sempre minacciata, per così dire, dall’ossessione del film, di ogni film, che rimonta con tutti respingimenti e le rimozioni effettuate dal lavoro filmico, cioè: il fuori, materiale che il cinema, impresso, esprime attraverso la sua immagine narrativa. Un re per quattro regine non è, dunque, una banale e stanca parodia di un genere (il western) ma l’esempio di una scrittura cinematografica esemplare, classica e barocca, scrittura di corpi e rughe, sguardi e gesti, eco visibile e sensibile delle pulsioni che accendono e sospingono gli esse-

30

Cfr. Serge Daney, Lo sguardo ostinato, Milano, Il Castoro, 1995, p. 83. Raymond Bellour, L’analisi del film, cit., p. 50. 32 Anche Biette, compagno di Daney in molte avventure, afferma qualcosa di molto affine: «le cinéma est l’art par excellence qui esprime la vie au présent». Cfr. Jean-Claude Biette, La poétique des auteurs, cit., pp. 81-82. 33 Serge Daney, Lo sguardo ostinato, cit., p. 104. 34 «Il cinema “registra”. In ciò la sua infinita potenzialità – esso rende ripetibile. Ecco l’eterno nel tempo. Differenza e ripetizione: queste, le sue coordinate cartesiane. I suoi fuochi. Una differenza che non differisce, dunque; sempre offrendosi ad un altro e nuovo tempo, ad una ineliminabile alterità che mai però vanifica la stessità del suo racconto. Della sua illusoria digressione; che chiude, e mai apre, la temporalità in quanto tale. La chiude, cioè, disponendola ad un ritorno che mai la vita reale (il cinema naturale) potrebbe offrirci o rendere in qualche modo esperibile. Esso “immortala” nell’orizzonte di una temporalità mai astrattamente superata». Cfr. Massimo Donà, Corpi di resurrezione. Sul cinema: uno sguardo finalmente ed autenticamente platonico, in Toni D’Angela (a cura di), Corpo a corpo, cit., pp. 24-25. 31

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DAL CLASSICISMO ALLA (CRISI DELLA) MODERNITÀ

ri umani: l’amore, il sesso, il denaro… i giochi del mondo. Il classicismo si traveste e maschera, il cosmo walshiano si colora di tinte paradossali e inattese, con l’effetto di destrutturare ogni sedimentazione e di deterritorializzare ogni posizione d’essere. Il classicismo in Walsh si eccede da sé, si autocontesta e deforma infrangendo le sue stesse norme: Walsh preserva e assicura il classicismo, «la convenzione hollywoodiana», al punto «da portarla all’incandescenza dell’archetipo» di modo che «la sua espressione cinematografica supera questa stessa convenzione»: questo è un elemento tipico del «Walsh touch»35. Rapporto di significanti gestuali e significanti di fondo. Composizione di corpi (movimenti e desideri), battito delle palpebre (gli occhi-fessura luccicanti di Clark Gable), plastica del gesto, inquadrati dentro piani-sequenza e campi medi e totali, tagli di luce e angolazioni di ri-presa che mimano e raddoppiano, fino a trasfigurarsi in essa, la bellezza naturale di Snow Canyon, Un re per quattro regine è, in fondo, un altro sussulto di classicismo che, come è noto, sa rivoltarsi anche contro se stesso, sa volgersi in barocchismo (o parodia). È la sua bellezza. Bellezza che mozza il fiato e al tempo stesso dà respiro ai soggetti e alle cose alte o basse, nobili o meschine tra le quali, da che mondo è mondo, gli uomini sono compromessi. È la bellezza del classicismo che, appunto, può anche mettersi in farsa e in ridicolo ma poi rimonta con il suo ordine e la sua armonia, con la sua semplicità e la sua sensibilità, con il suo sistema – di cui il dispositivo walshiano è un esempio tra i più efficaci – grazie al quale ridà vita ai personaggi, spessore alle storie e profondità ai luoghi dove le vicende umane si dipanano. Dispositio (ordine delle parti del discorso, «mettere ordine», distribuzione creativa, strutturazione) e inventio, nel classicismo walshiano non si separano mai e, anzi, si richiamano l’un l’altra. Anche perché, ha scritto Barthes36, l’inventio è scoperta, riscoperta («tutto esiste già»), è una «nozione più “estrattiva” che creativa», «l’inventio è un percorso». Il film è invenzione in quanto è operazione, aggiustamento e riaggiustamento di codici e sistemi espressivi preesistenti, nuovo uso di vecchie funzioni, carico di rapporti, di ripetizioni e variazioni, logica e rivolgimenti che smantellano e, al tempo stesso, dimostrano la logica di un sistema espressivo. L’inventio è la dispositio che si fa détour: è il cinema di Raoul Walsh.

35 36

Cfr. Jean-Claude Biette, Poétique des auteurs, cit., p. 114. Cfr. Roland Barthes, La retorica antica, Milano, Bompiani, 1980, pp. 55-59.

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CONCLUSIONI UN UOMO, UN GESTO, UNO STILE

Il classicismo, l’esercizio di stile, il gesto di Raoul Walsh alle soglie degli anni Sessanta è come l’irruzione di Clark Gable nella citta fantasma che, nonostante la presenza di giovani, forti e belle donne, si è spenta nella rovina e nella crisi senza possibilità di riscatto, né orizzonte: Raoul Walsh e Dan Kehoe non vivono più (e neppure si illudono di viverci) in un mondo composto e ordinato. Non sono più giovani eppure, nonostante il disordine e la vecchiaia, sanno sempre come organizzare una storia, uno spazio-tempo o un affare, a dispetto delle cose, anzi del caos del mondo. Cinema della trasparenza, sguardo del mondo su se stesso. Walsh è stato un pioniere, un esploratore, uno sperimentatore, un avventuriero… E a questi pionieri-creatori (Walsh, Ford, Chaplin) è toccato costruire nella speranza di un avvenire progressivo e poi distruggere, alla fine, quando si sono ritrovati (persi) a fare i conti con gli spettri e i fantasmi di quelle speranze, a rimettere in sesto i cocci di un’utopia intransitabile 1. Hollywood, la prestigiosa capitale del cinema, era stata vittima di una strana virata di bordo. Gli studios furono costretti a vendere centinaia di vecchi film alla televisione. Finiti questi, furono venduti i grandi terreni sui quali si ergevano i teatri di posa; migliaia di persone erano disoccupate; il pubblico americano, ormai, vedeva scene di nudo su tutti gli schermi; poi la censura prese il sopravvento e tutti film furono passati al setaccio […]. Hollywood era morta2.

Itinerari bizzari segnati da sofferenze e rinascite hanno attraversato le singolarità walshiane. Tuttavia, alla fine, queste soggettività spesso eccedenti non hanno conquistato il bagliore della conciliazione, la presenza di

1 Intransitabili utopie è il titolo del bel saggio che Massimo Cacciari ha dedicato a Hugo von Hoffmansthal. Cfr. Massimo Cacciari, Intransitabili utopie in H. von Hoffmansthal, La torre, cit., pp. 5-15. 2 Raoul Walsh, Un demi-siècle à Hollywood, cit., p. 334.

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TONI D’ANGELA

una moralità superiore. Nell’ultima maniera del cinema epico e centrato di Ford la comunità si frantuma o nella migliore delle ipotesi si delocalizza; ma anche nel cinema lirico e multicentrico di Walsh, alla fine, la sua ultima maniera si coagula attorno alla figura della non-riconciliazione. Ma nel cinema di Walsh se è vero che è soprattutto nei suoi ultimi film si manifesta la crisi e la disgregazione è altrettanto vero che già in Una pallottola per Roy, Gli amanti della città sepolta o La furia umana fa irruzione una potenza perturbante. Nonostante la centralità di un film come Gli implacabili, nel suo cinema non è rinvenibile una volontà che riduce, raccorda e unifica la polivocità delle voci e la diversificazione dei sentieri, la molteplicità e l’ampiezza anche bizzarra e stravagante delle avventure, una forza che riconduce e scioglie questo pluralismo di forze attorno a un simbolo di armonia o conciliazione. Il suo cinema non è conciliato anzitutto con se stesso, nel senso che non ha un centro o un’Identità attorno alla quale si sviluppa, segue una evoluzione, entra in crisi, come nell’opera di John Ford. L’opera di Walsh non è un agitarsi solo apparente di un fondo che comunque rimane identico a se stesso, uguale nonostante i travagli e le peripezie. Nel suo cinema Walsh vuole tutt’altro. Il suo cinema non è centrato ma neppure riconciliato poiché non ricompone la negatività, la crisi presa a carico manifestatamene nei suoi ultimi film ma anche nei neri degli anni Quaranta, non riconduce l’alterità all’identità, l’essere nelle sue deviazioni alla linearità dell’identità. È un’opera radicale quella di Walsh, un movimento senza ritorno. Walsh afferma questa alterità, questa negatività senza volerla ricomporre hegelianamente. Walsh alimenta e sostiene la messa in scena di un conflitto, l’apparizione e la permanenza di una potenza che riconcilia ma anche disorienta e sconcerta. Le sciogliere, dunque, da un lato ma dall’altro, in un rapporto di reversibilità, anche i vuoti, le pause, gli sfilacciamenti e i frammenti ad esempio degli ultimi film che contestano l’autorità di una forza appaesante di un classicismo che si pensava eterno, di una forza annunciata in film come Regeneration, Il ladro di Bagdad, Il grande sentiero. Il classicimo di Walsh – o Ford – non è più garante di saldezza e ordine. Impotente a garantire l’armonia ma potente nella sua fragilità, cioè nella sua storicità eterna. Il classicismo di Walsh non solo è impotente a resistere al processo di de-musicalizzazione e secolarizzazione ma, anzi, ne apre la via: questa è la sua vera forza, la forza autentica del classicismo lirico di Walsh o di quello epico di Ford, mai dogmatico, né fermo. La sua arte classica, la sua eleganza e la sua energia, in una parola la sua lucidità 186

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UN UOMO, UN GESTO, UNO STILE

virile, come la chiamava Mourlet3, non è conforme a nessun dogma: la sua arte, nel corso del tempo, è la continuità profonda dell’aristocrazia del cuore. Le ultime immagini di Walsh, nella trasformazione delle forme del classicismo e nella trasvalutazione dei suoi valori, rivelano un Conflitto forse non-conciliabile, una frattura solo apparentemente ricomposta nelle forme della sapienza stilistica: il Conflitto sborda e smargina dagli steccati innalzati dallo stile. La poetica walshiana, pertanto, si gioca nella dialettica senza sintesi di un duplice movimento, una tensione tra i poli della Conciliazione e della Non-riconciliazione. L’individualità in Walsh da un lato è sforzo di liberazione, processo di risoggettivazione e valore di sé (Regeneration, Annie del Klondike, Il sentiero della gloria, Banda degli angeli), dall’altro è tensione a spezzare i limiti della finitezza individuale per abbracciare una libertà non-attuata e forse non-attuabile, o l’infinito, il tutto della Natura (La storia del generale Custer, Gli amanti della città sepolta, Gli implacabili). Duplice movimento raccordato filmicamente – e non ricomposto dialetticamente – non tanto nell’aspirazione ad una libertà ultraterrena ma piuttosto nella potenzialità inscritta nella processualità del Conflitto dove l’individualità è ineluttabilmente gettata. «C’è qualcosa di più alto di ogni riconciliazione»4 che gioca e arde nel cinema di Walsh; ed anche nelle sue immagini terminali: l’affermazione, anche del Conflitto, nelle peripezie e nei precipizi dell’avventura. Affermazione del molteplice e del pluralismo che spiega anche perché non ci sia una tematica walshiana. Affermazione della non-riconciliazione, del divorce di cui parla il poeta Carlos Williams5: Non c’è una direzione. Verso dove? Io non so. Io non so dire altro che il modo. Solo il modo (il grido) è a mia disposizione (proposta): l’osservare – più freddo d’un pietra. bocciolo per sempre verde, stretto nei suoi petali, sul selciato, perfetto di linfa e di sostanza ma divorziato, divorziato dai compagni, caduto in basso a terra –

3

Michel Mourlet, Une lucidité virile, cit., p. 3. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 1976, p. 173. 5 William Carlos Williams, Paterson, cit., p. 41. 4

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TONI D’ANGELA

Il divorzio è l’insegna del sapere nel nostro tempo, divorzio! divorzio!

Il segno del tragico fa capolino nell’opera di Walsh. Non compensazione, sublimazione o riconciliazione ma gioia – nonostante gli intrecci della sceneggiatura – la gioia pluralistica del tragico, la gioia del fare-affermare cinema, perché il tragico, con Nietzsche, non è solo rappresentazione del conflitto o della soluzione del conflitto ma, soprattutto, «forma estetica della gioia»6. La gioia è il respiro cinematografico di Walsh, il suo filmare spontaneo e vigoroso, eroico. Ecco «perché Walsh è indispensabile, perché ci aiuta a vivere»7. Di Orson Welles, penso a Verità e menzogne (F for Fake, 1975), si poteva dire: è lui il nichilino che sparisce; di Raoul Walsh: è lui l’eroe danzatore e giocatore che afferma nella sua singolarità la vita, l’eroe gaio in bilico sull’abisso della crisi, che si espone all’avventura di tutte le proprie possibilità anche al rischio di perdersi. L’avventura, forse il vero archetipo del cinema walshiano, è l’affermazione del divenire e del molteplice, l’affermazione dell’innocenza della vita, il respiro vitale che, differenziato, soffia dove vuole, travolgendo o sospingendo le singolarità walshiane in un viaggio di liberazione, un itinerario di scoperta e rinascita, un détour, una deviazione, sul sentiero della gloria o della morte e della non-conciliazione. Cinema d’avventura, avventura di cinema: vita e cinema si specchiano e rovesciano l’una nell’altro. Avventura del singolare, della singolarità, della soggettività che si 6

Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Firenze, Colportage, 1978, p. 43. «Siamo in molti a pensare che Colorado Territory è il più bel western di Raoul Walsh, anzi senza dubbio il suo più bel film in assoluto. Detto questo, High Sierra, che è il più bel Bogart, che di bei film ne ha fatti, è anch’esso il più bel film di Walsh. Gentleman Jim, Objective Burma, Silver River, i tre Errol Flynn più fiammeggianti, sono evidentemente i Walsh più belli. White Heat, con l’epilettico Cagney, è insuperabile. The Naked and the Dead e Battle Cry? Due film di guerra vicini alla perfezione. Fighter Squadron e Manpower, A Lion Is in the Streets e Desperate Journey? Sono il massimo. They Drive by Night, dal romanzo di Bezzerides, e Along the Great Divide con Kirk Douglas, non sono male neppure questi. The Straberry Blonde, The Man I Love, Glory Alley sono altrettanti tesori ignorati. Quanto a Band of Angels e a Distant Trumpet, senza minimamente esagerare, sono i due più bei Walsh. In totale fanno diciannove. […] Cercherò di spiegare perché questi diciannove film sono indispensabili, perché Walsh è indispensabile, perché aiuta a vivere – come Baal Shem Tov, Jacob Taubes, Salinger, Chaplin, Tourneur, Sinatra, Billie Holiday e qualche altro, non molti, meno numerosi di quanto si immagini». Cfr. Louis Skorecki, Raoul Walsh et moi, suivi de Contre la nouvelle cinéphilie, cit., p. 7. 7

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UN UOMO, UN GESTO, UNO STILE

afferma nell’eccedenza, nel rifiuto di qualsiasi negoziazione o codificazione binaria, singolarità la cui avventura è la reversibilità: le singolarità sono «punti di fusione, di condensazione, di ebollizione», «non è ordinaria: il punto singolare si oppone all’ordinario»8. Questo ribaltarsi reversibile e questa eccedenza rappresentano la cifra stilistica di Raoul Walsh, la sua logica del senso. L’avventura di un uomo sorprendente e straordinario. Nel corso dei decenni, l’itinerario cinematografico walshiano si è dispiegato secondo una progressione che ha rideterminato e dislocato posizioni e connessioni, ridefinendo l’assetto dell’articolazione interna del suo cinema. Articolazione, peraltro, sempre in bilico, deviata: l’universo compatto, fluido e omogeneo – tipico di molto classicismo – in Walsh si incrina, si apre e getta in un universo movimentato, etererogeneo e contrastato. L’ultima maniera walshiana è una presa a carico pronunciata, esplicita, autoriflessiva di tale deviazione e, infatti, i suoi ultimi film, Prima dell’uragano, La moglie sconosciuta o Far West, anticipano o quantomeno sembrano fermarsi un istante prima della soglia che immette nella modernità, verso l’orizzonte del décadrage, della frammentazione destinata a non ricomporsi, dove i frammenti non si accordano più. Ma il suo cinema classico è sempre stato fessurato, contestato nella sua apparente linearità e percorribilità, nel suo andare svelti, dall’irruzione di una deviazione, di un contrasto, di una differenza. E, in fondo, le unità di contenuto informanti e i temi sono sempre stati secondari rispetto al gioco svolto dagli indizi e dai motivi. Anzi, il gusto del racconto e il ritmo di questo racconto nella sua struttura e nei suoi contenuti, in Walsh, si fanno e possono farsi e imporsi proprio in virtù di queste «scalfiture», come direbbe Barthes9. Questo testo, questa avventura di idee, ha preso il suo avvio da una critica della linearità, nondimeno, la linearità è certamente costitutiva della catena del discorso filmico classico, discorso per mezzo del quale la storia si dipana narrativamente, poiché l’atto narrativo(-mostrativo), la scrittura filmica s’inscrive in un’ideale linea orizzontale. Condizione necessaria, dunque, ma non sufficiente o, quantomeno, esclusiva. Basta poco, un fattore relativo alla messa in scena (uno sbandamento della macchina da 8

Gilles Deleuze, Logica del senso, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 53. «Quello che gusto in un racconto non è quindi direttamente il suo contenuto, né la sua struttura, ma piuttosto le scalfitture che impongono al suo bell’involucro». Cfr. Roland Barthes, Il piacere del testo, cit., p. 11. 9

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TONI D’ANGELA

presa, ad esempio), un vettore attanzionale fuori norma (crisi dello schema senso-motorio) o una fessura nella tessitura narrativa, perché si faccia vedere e sentire una polifonia che allinea e mescola ogni discorso su diversi righi e differenti registri della partitura – molteplice. È il caso, anche, di Raoul Walsh, le cui narrative superficialmente denotative sottendono spesso elementi estranei, strutture di connotazione che deformano e deviano l’apparente semplicità del sistema narrativo10. Nel cinema classico, diegetico, della trasparenza, l’ambiguità s’installa nella narrazione, cosicché il suo progetto entra in contraddizione con se stesso, si autocontesta, in modo che «i termini giusti dell’alternativa non sono, senza dubbio, linearità contro decostruzione, trasparenza contro discontinuità, testo-limite contro produzione tayloristica»11. Questa, la verità del suo cinema. Se è vero che il classicismo è il luogo ove l’anima riposa in se stessa, muove all’azione in un mondo che, nonostante l’ignoto dell’avventura, è familiare, e perviene così al proprio centro, percorrendo la mappa dei sentieri percorribili, senza smarrirsi o precipitare nell’abisso, è altrettanto vero che, nonostante l’ambito strutturante delle forme, nel cinema di Walsh – e non solo in alcuni dei suoi ultimi film – il mondo omogeneo e coeso, rappresentato spesso per plastiche figurazioni, sborda dalla linea retta, si disgiunge, ma non per ricongiungersi più tardi, in funzione di un sistema – quello classico – bensì per disgregarsi nel caos, nella parodia, nella caricatura. E questo già in I ruggenti anni Venti, Una pallottola per Roy e, più tardi, Gli amanti della città sepolta, La furia umana. Gli eroi (Eddie Bartlet, Roy Earle, Wes McQueen, Cody Jarrett) non-tornanoin-patria, né si sentono a casa nel mondo; non vogliono amministrarsi, né accettare economicamente una direzione. Così anche in Walsh – come in Ford, anche se diversamente – la totalità, il Tutto (il Sogno Americano) si incrina fino a spezzarsi già-da-sempre. In fondo, anche nel lontano Il ladro di Bagdad, nonostante la struttura denotativa del film fosse idilliaca, quella connotativa (il senso in più direbbe Edoardo Bruno12), sottointesa (e che

10 Sulla distinzione tra denotazione e connotazione: cfr. Algirdas Julien Greimas, Sociologia del senso comune, in Del senso, cit. 11 Bernard Eisenschitz, Six films produits par Val Lewton, in Raymond Bellour (a cura di), Le cinéma américain, cit., p. 83. 12 «L’intepretazione basa i suoi presupposti sulla conoscenza, sulla “lettura” dei segni o dei sistemi primi di significazione (la denotazione per Hjelmslev), i soli che consentono l’acquisizione del senso in più». Cfr. Edoardo Bruno, Film: altro reale, cit., p. 11.

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UN UOMO, UN GESTO, UNO STILE

fa appello all’invenzione del lettore o all’interprete 13), invece, era tutt’altro che rassicurante: anzi la forza di quel senso sottointeso era – ed è – perturbante. L’Eroe senza paura, tutto sommato, non-torna-in-patria (la Terra). L’eccezionalità del film sta proprio nel rivelarci la frattura: la fuga fantastica (il viaggio verso la Luna) illumina la verità che il fantastico, l’altrove della frontiera che alimenta, giustifica e sostiene l’eccezionalismo americano, può essere solo, ormai, la realizzazione di un desiderio individuale, quello del ladro di Bagdad: è così sempre sarà nell’opera di Walsh. L’esercito del ladro di Bagdad – nel supporto del quale prende corpo la sua azione e il suo successo – cioè il proletariato, nella suggestiva ipotesi di Scarrone, è solo un fantasma, una finzione che rappresenta e veicola la trasformazione di un desiderio reale limitato ad una sola individualità14. Fairbanks è il destinatore di se stesso, diversamente dal capo-carovana interpetato da John Wayne in Il grande sentiero, investito da un progetto di comunità della missione di allontanarla da un qui chiuso per condurla in un altrove aperto: contratto e prova non però per fuggire nel fantastico né per ripristinare un ordine sociale, bensì per inventarne uno nuovo. Il classicismo, in ultima analisi, non è mai stato perfettamente una sorta di stadio storico-universale dell’epos. Il cinema western, ad esempio, non è che sia stato prima epico, poi tragico e, infine, romanzesco, poiché fin dall’inizio il western esplora tutte le direzioni. Sicché, il classicismo, il film-récit, diegetico, il film di fiction, non è esattamente l’adeguamento dell’anima e del mondo, dell’eroe e dell’ambiente. Quasi sempre il film classico si costruisce articolandosi attorno alla struttura SAS’ (situazione perturbata/azione dell’eroe o della comunità/nuova situazione15) o, secondo un’altra definzione semplice ma efficace di Heath: il récit – l’azione diegetica – è una serie di elementi che si tengono all’interno di in un rapporto di trasformazione degli uni negli altri in modo che la loro concatenazione – il movimento della trasformazione – determina uno stato E’ differente dallo stato

13 Il senso in più implica l’atto critico, la struttura connotativa del film chiama all’appello l’atto del lettore o dell’interprete, anch’esso inventivo; la critica «è l’“invenzione” di nuovi rapporti concreti, fuori della parafrasi dei contenuti del film, un modo di andare oltre i messaggi espliciti, proponendo la ricerca di un senso meno immediato, più nascosto e sottile di quel che a prima vista le immagini fanno apparire». Cfr. Ivi, p. 58. 14 Cfr. Carlo Scarrone, Raoul Walsh, cit., p. 141. 15 Cfr. Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, cit., in particolare: L’immagine-azione: la grande forma.

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iniziale E. E questo si svolge in modo che l’azione includa E ed E’ affinché l’inizio e la fine si saldino, concatenino, a partire proprio da questa azione diegetica; la finzione del film è la sua unità: quella del racconto16.

Tuttavia, questa formula (ma, si badi bene, non il classicismo in quanto tale) con le sue due varianti (S-A-S’ e E’-E) non si applica del tutto adeguatamente al cinema di Walsh, soprattutto in alcuni dei suoi ultimi film, mentre in altri film di Walsh è operante più una formula del tipo SAS’’: la situazione finale cioè è peggiore di quella iniziale, più deteriorata. Fuori di dubbio, comunque, che il cosiddetto cinema trasparente non sia dogmatico o ideologico17. Scrive Biette: Ci sono questi i registi, dentro e fuori Hollywood, che io chiamo la tradizione, poiché i loro film testimoniano della loro conoscenza di tutte le regole del cinema hollywoodiano e, allo stesso tempo, pur tenendo conto di queste regole, del loro rispetto solo parziale. Questi registi si impegnano a estrarre il doppio senso, il volto nascosto, il doppio risvolto o taglio. Così che l’ideologia hollywoodiana […] sia lì, ben delineata e, allo stesso tempo, offra il suo rovescio, i suoi primi segni di decadenza18.

Per cogliere sinteticamente e approssimativamente, in un solo sguardo, la sterminata avventura filmografica di Walsh può tornare utile, oltre che l’utilizzo delle formule di Deleuze, Heath o Biette, l’applicazione (ovviamente non meccanica) dello schema di Lukács19: epica, tragedia, romanzo. Nei primi film di Walsh, quelli girati prima del suo ingresso alla Warner, è operante, come nel mondo epico dell’epopea, un’interna sicurezza che quasi esclude l’avventura, poiché gli eroi, Douglas Fairbanks in Il ladro di Bagdad e, soprattutto, John Wayne in Il grande sentiero, percorrono sì una variegata sequenza di avventure (anzi, forse, nessun altro eroe walshiano ne sperimenterà così tante e varie), ciononostante, mai il loro successo (interiore e esteriore) è seriamente compromesso. L’eroe stesso è «il centro luminoso intorno al quale ruotano l’accadere e l’evolvere del mondo»20. 16

Stephen Heath, Système-récit, cit., p. 253. Sulla questione dell’ideologia, il dibattito intorno ai dispositivi ideologici interni al cinema e contro cui il cinema dovrebbe impegnarsi, che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, ha coinvolto alcune riviste francesi, nonché intellettuali e filosofi di orientamento marxista, (post)strutturalista, lacaniano si veda la sintesi in Francesco Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Milano, Bompiani, 1994, pp. 205-216. 18 Citato in Bernard Eisenschitz, Six films produits par Val Lewton, cit., p. 49. 19 Cfr. György Lukács, Teoria del romanzo, cit. 20 Ivi, p. 109. 17

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UN UOMO, UN GESTO, UNO STILE

Avventura e destino si accordano, e l’accordo è quasi la verifica, la manifestazione di ciò che già era prefigurato, stabilito. La dualità tra io e mondo è destinata a ricomporsi, pertanto, non c’è reale discrepanza, lacerazione, o, quantomeno, non c’è nella struttura denotativa dei suoi film, poiché come si è detto poco sopra, anche un’opera apparentemente idialliaca con Il ladro di Bagdad, sottende una struttura connotativa fortemente inquietante e destabilizzante. Film come I ruggenti anni Venti, Una pallottola per Roy, Gli amanti della città sepolta o La furia umana, invece, sono più delle tragedie (in prosa) dove gli eroi si confrontano con un destino pre-determinato, che gli è ostile. Infine, Walsh si rivela romanzesco in quei film che danno forma all’avventura dell’interiorità, di una soggettività che non è più centro luminoso, né polo antagonista di un mondo ostile, anche perché il mondo, che prima poteva accordarsi oppure no, nel romanzesco si sbriciola: ciò che prima appariva saldissimo ora si sgretola. L’ironia prende il sopravvento in La bionda e lo sceriffo, La moglie sconosciuta o Avventure di mare e di guerra (Marines, Let’s Go, 1961). L’ironia è la «mistica negativa dell’età senza dei»21, e l’animus del romanzo (nel senso di Lukács) è «la virilità matura»: Gli implacabili, Banda degli angeli; «la discontinuità disarmonica»: Prima dell’uragano, La moglie sconosciuta; «il divorzio di interiorità e avventura»: Far West, dove i gesti del giovane ufficiale (rifiutare la medaglie o rientrare nei ranghi) sono più atti formali che ciechi impeti. Se gli eroi della giovinezza, il ladro di Bagdad, il pioniere, ma anche, per certi versi, il Flynn di La storia del generale Custer, «sono guidati lungo i loro cammini dagli dei», sia che «al termine del loro viaggio li attenda il fulgido bagliore del baratro», come nel Custer walsh-flynniano, «o l’ebbrezza del trionfo», parziale come ne Il ladro di Bagdad, totale nel caso di Il grande sentiero; molti altri eroi di Walsh, invece, sono contrassegnati dalla malinconia della maturità: Ben Allison in Gli implacabili e Hamish Bond in Banda degli angeli, ma anche, almeno parzialmente, Gary Cooper in Tamburi lontani: il mondo esterno non risuona più di quella voce che indica la via da seguire. Il classicismo volge in barocchismo e parodia (Banda degli angeli, La bionda e lo sceriffo), l’eroe dilegua nell’anonimato e nell’indistinzione (Prima dell’uragano), nell’indecidibilità (Il nudo e il morto) o nel bon ton (Far West). L’idea stessa di racconto diven-

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Ivi, p. 110.

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ta problematica perché disseminata e frammentata (La moglie sconociuta). Gli eroi walshiani si sono gettati nell’avventura e ne sono usciti vincitori (Il ladro di Bagdad, Il grande sentiero, La storia del generale Custer); poi hanno vissuto il tormento e la lacerazione, si sono smarriti senza immaginare neppure che avrebbero potuto e dovuto cercarsi (Sabbie rosse); a volte hanno anche sperimentato l’una e l’altra esperienza (Tamburi lontani, La strada dell’eternità), sono stati espulsi da casa ma poi vi hanno fatto ritorno (Il diario di un condannato); altri ancora non sono tornati in patria, stretti nella morsa dell’irriconciliabilità di avventura e destino, hanno vissuto solo un rapporto di lotta e distruzione con il mondo (I ruggenti anni Venti, Una pallotola per Roy, Gli amanti della città sepolta, La furia umana); altri, infine, hanno vissuto nel crollo della totalità, tra i suoi resti, fra le rovine (Prima dell’uragano, Il nudo e il morto, Far West). Un mutamento, dunque, nei cinquantanni di cinema di Walsh si è realizzato all’interno del suo principium stilisationis, attraverso i generi e le innovazioni tecnologiche. Tuttavia queste differenti forme artistiche, peraltro attraversate tutte da una cifra che ricorre da un film all’altro, riconoscibile nella maniera di costruire un racconto o nella capacità di imprimere un ritmo, corrispondono ad uno stesso volere-artistico, all’affermazione della singolarità e delle sue avventure, dal quale emerge l’opera di Walsh. La verità è sempre una messa in scena del rischio, l’approssimarsi sull’orlo del pericolo. È l’affermazione che enuncia questa ricognizione nelle sue deviazioni (e, probabilmente, incongruenze): détour appassionato, critica che si sconfessa da sé. Ciò dice questa avventura di idee, non il valore dell’opera di Walsh, poiché per determinarne e indicarne il valore proprio non ne ha il distacco necessario né vuole averlo, poiché ne condivide l’affermazione, e fa l’esperienza della sua profondità22, o, quantomeno,

22 Scrive Maurice Blanchot: «E nella misura stessa in cui la critica appartiene più intimamente alla vita dell’opera, ne fa l’esperienza come di ciò che non si valuta, la coglie come la profondità, e anche la mancanza di profondità, che sfugge a qualsiasi sistema di valori, collocandosi al di qua di ciò che vale e rifiutando in anticipo qualsiasi affermazione che vorrebbe appropriarsene per valorizzarla. In questo senso, la critica mi sembra associata a uno dei compiti più difficili, ma più importanti del nostro tempo, che si risolve in un movimento necessariamente indeciso: il compito di preservare e di liberare il pensiero dalla nozione di valore, e di conseguenza anche di aprire la storia a ciò che in essa già si scioglie da qualsiasi forma di valore e si prepara a un tutt’altro tipo – ancora imprevedibile – di affermazione». Cfr. Maurice Blanchot, Lautréamont e Sade, Milano, Se, 2003, p. 17.

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UN UOMO, UN GESTO, UNO STILE

non si risolve in un «comunicato dei fatti» che misura e sanziona valori e disvalori, estetici, figurativi, filmologici, narratologici, ecc. La verità emerge tra le righe, malgrado i falsi raccordi, le fratture, le incoerenze… le acrobazie che, per così dire, questa avventura porta con sé, imitando, forse, quelle ben più precise, nella loro dis-continuità, che punteggiano e contrassegnano il getto continuo e il tessuto smagliante dell’universo walshiano, da un lato cinema popolare e dall’altro potenzialità illimitata verso i vertici della cultura23. Il cinema, in Raoul Walsh, anticipa, vede e porta inscritti su di sé i pesi, le ferite, le ansie, gli slanci, i progressi obliqui delle età del mondo (le età del cinema)24 e delle sue deviazioni – dal classicismo e dai suoi ideali.

23 È la formula dell’ultimo Daney per dire del cinema, del suo essere clandestino nella società, quasi una contro-società, una produzione popolare che attraversa la società e la contesta; una scommessa, quella di Daney, di una contro-società nella società che fa innesti filosofici e politici per offrire agli uomini «un accesso a un mondo senza differenze» e soprattutto a qualcosa che si apre, all’Aperto. Cfr. Serge Daney, Lo sguardo ostinato, cit., Terza parte. 24 «Ho sempre ritenuto che il cinema rappresenti oggi quello che, in qualche modo, è stata la musica in passato: rappresenta, imprime in anticipo i grandi movimenti che stanno per verificarsi. Ed è in questo senso che fa vedere prima le malattie, proprio come un sintomo. È un po’ anormale. È qualcosa che sta per accadere, come un’irruzione». Cfr. JeanLuc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, cit., p. 63.

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APPENDICE LA LETTERA DEL VEGGENTE

Caro Señor Bachmann, ho ricevuto la sua lettera e il libro. Il mio barbiere, che è italiano, me lo ha tradotto, ed è una vera gemma, e scritto splendidamente. Vorrei ringraziarla di questo. Come sa, molti anni or sono, mentre giravo In Old Arizona, persi un occhio in un incidente di macchina. Gli amici cercarono di tirarmi su chiamandomi “Aladino dall’unica lampada meravigliosa”. Ebbene, Paolo, la fiamma si è spenta in quella lampada, e, ora che sono cieco, Dio mi ha fatto dono di grandiosi ricordi…del sole che indugia sull’azzurro Pacifico, dove il crepuscolo gioca con le increspature delle onde, cambiando i colori – verde, blu e infine rosso dorato – e poi si riposa. Mi ricordo di questo. L’infermità mi ha ancor più avvicinato alla mia adorata moglie. Una ragazza alta e aggraziata, dagli aurei capelli di seta, gli occhi nocciola, le mani bianche e affusolate che mi prendono il braccio per una passeggiata nel giardino che non posso più vedere. Posso udire il vento sussurrare attraverso i pini maestosi; posso sentire la fragranza delle rose e il profumo persistente dei boccioli d’arancio, diffuso nell’aria come quello di un vino delicato. Devo proprio dirtelo…vi sono odori e suoni che so che i vedenti non sentono, l’odore dell’erba e l’odore del fieno appena tagliato. Gli alberi mi parlano nel vento. Conosco la musica sommessa del pino, e la quercia con il cicaleccio dei piccoli scoiattoli grigi, e la musica triste del grande eucalipto. Non è per nulla spaventevole essere vecchio e cieco. Ho visto i giovani avviarsi nella vita, e davanti a loro ci sono gli scrosci dell’aprile, c’è il vento e la canicola e il lampo e il tuono. Ma io sto nel tepore dei soleggiati giorni dell’estate. Sai che gli irlandesi sono un mucchio selvaggio, nomadi vaganti sulla faccia della terra. Li trovi in ogni angolo del mondo… il poeta, il lottatore, il bevitore. Credo di essere stato ognuno dei tre. 197

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TONI D’ANGELA

Allora, Paolo, per finire voglio ringraziarti del libro. Se davvero vieni in California in agosto, e se sono ancora in piedi, mi piacerebbe incontrarti e stringerti la mano. Con tutti i migliori auguri, Raoul Walsh

Lettera inedita di Raoul Walsh a Paolo Bachmann del 30 maggio 1978 da Santa Susana (California). Nel 1977 Bachmann, che ringrazio per la generosa disponibilità, scrisse un libro su Walsh riuscendo a farglielo recapitare e Walsh gli scrisse per ringraziarlo e invitarlo nel suo ranch. Bachmann accettò l’invito e Walsh lo ospitò.

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cinema/studio collana diretta da Orio Caldiron

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Roberto Campari, Il discorso amoroso. Melodramma e commedia nella Hollywood degli anni d’oro. Effetto Greene. Graham Greene e il cinema, a cura di Paolo Bertinetti, Gianni Volpi. Sergio Raffaelli, Il cinema nella lingua di Pirandello. Maurizio Del Ministro, Il testo come sopravvivenza. La storia al cinema. Ricostruzione del passato/interpretazione del presente, a cura di Gianfranco Miro Gori. Vittorio Giacci, François Truffaut. Le corrispondenze segrete, le affinità dichiarate. Schermi di guerra. Cinema italiano 1939-1945, a cura di Mino Argentieri. Jean Renoir, Il passato che vive, a cura di Claude Gauteur. Ernesto G. Laura, Quando Los Angeles si chiamava Hollywood. Cinema americano tra le due guerre. La musica del cinema, a cura di Enzo Kermol, Mariselda Tessarolo. Ciro Ascione, La grande bottega degli orrori. Le ossessioni commerciabili di Stephen King. Anna Lo Giudice, L’automatica del vero. Saggi di letteratura e cinema. Jacques Aumont, Michel Marie, L’analisi dei film. Roberto De Gaetano, Il cinema secondo Gilles Deleuze. Alberto Negri, Ludici disincanti. Forme e strategie del cinema postmoderno. Roberto De Gaetano, Passaggi. Figure del tempo nel cinema contemporaneo. Valentina Ruffin, Patrizia D’Agostino, Dialoghi di regime. La lingua del cinema degli anni trenta. Anita Trivelli, L’altra metà dello sguardo. Bruno Torri, Il sentimento della forma. La visione e il concetto. Scritti in omaggio a Maurizio Grande, a cura di Roberto De Gaetano. Lorenzo Pellizzari, Critica alla critica. Contributi a una storia della critica cinematografica italiana. Sara Marcucci, Lolita, analisi di un’ossessione.

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23. Fabio Rossi, Le parole dello schermo. Analisi del parlato di cinque film dal 1948 al 1957. 24. Mauro Di Donato, Tim Burton. Visioni di confine. 25. Francesca Colais, Il cinema nero africano dalla parola all’immagine. 26. Orio Caldiron, Il paradosso dell’autore. 27. Maurizio De Benedictis, Più luce! Immagini di registi, dive e rivoluzioni. 28. Valerio Zurlini, Gli anni delle immagini perdute (in preparazione). 29. Roberto De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano. 30. Tullio Kezich, Primavera a Cinecittà. Il cinema italiano alla svolta della «Dolce vita». 31. Alberto Farassino, Fuori di set. Viaggi, esplorazioni, emigrazioni, nomadismi. 32. Virgilio Tosi, Breve storia tecnologica del cinema. 33. Shakespeare al cinema, a cura di Isabella Imperiali. 34. Cinematecnica. Percorsi critici nella fabbrica dell’immaginario, a cura di Fabrizio Borin e Roberto Ellero. 35. Gian Piero Brunetta, Avventure nei mari del cinema. 36. Renzo Renzi, La bella stagione. Scontri e incontri negli anni d’oro del cinema italiano. 37. Cesare Zavattini, Uomo, vieni fuori! 38. Corrado Alvaro, Aria di cinema (in preparazione). 39. Mino Argentieri, L’occhio del regime. 40. Grazia Paganelli, Erich von Stroheim. Lo sguardo e l’iperbole. 41. Edgar Reitz, La notte dei registi. Il cinema tedesco in venticinque interviste, a cura di Alessandro Tinterri e Veronika Wiethaler. 42. Maria Adelaide Frabotta, Il governo filma l’Italia. 43. Alberto Cattini, Strutture e poetiche nel cinema italiano. 44. Flavio De Bernardinis, Campi di visione. 45. Virgilio Tosi, Joris Ivens. Cinema e utopia. 46. Bruno Di Marino, Interferenze dello sguardo. La sperimentazione audiovisiva tra analogico e digitale. 47. Valerio Caprara, Sentieri selvaggi. Cinema americano 1979-1999 – I. 1979-1984. 48. Valerio Caprara, Sentieri selvaggi. Cinema americano 1979-1999 – II. 1985-1989. 49. Valerio Caprara, Sentieri selvaggi. Cinema americano 1979-1999 – III. 1990-1994. 50. Valerio Caprara, Sentieri selvaggi. Cinema americano 1979-1999 – IV. 1995-1999. 51. Carlotta Iacobacci, Faccia a faccia. Woody Allen sulle tracce di Ingmar Bergman. 52. Orio Caldiron, Pietro Germi, la frontiera e la legge.

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53. Giuliana Muscio, Piccole Italie, grandi schermi. Scambi cinematografici tra Italia e Stati Uniti 1895-1945. 54. Le fortune del melodramma, a cura di Orio Caldiron. 55. Vittorio Renzi, La forma del vuoto. Il cinema di Joel e Ethan Coen. 56. Ivelise Perniola, Oltre il neorealismo. Documentari d’autore e realtà italiana del dopoguerra. 57. Leonardo De Franceschi, Hudud! Un viaggio nel cinema maghrebino. 58. Matilde Hochkofler, Anna Magnani. Lo spettacolo della vita. 59. Ennio Bíspuri, Ettore Scola, un umanista nel cinema italiano. 60. David Bruni, Il cinema trascritto. Strumenti per l’analisi del film. 61. Elio Petri, Scritti di cinema e di vita, a cura di Jean A. Gili. 62. Sebastiano Lucci, Val Lewton. Ho camminato con le ombre. 63. Sabrina Perucca, Il cinema d’animazione italiano oggi. 64. Vito Zagarrio, L’immagine del fascismo. Il dibattito su cultura e cinema nel regime dagli anni Settanta ai Duemila (in preparazione). 65. Alle origini del Neorealismo. Giuseppe De Santis a colloquio con Jean A. Gili, a cura di Jean A. Gili e Marco Grossi.

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Finito di stampare nel mese di settembre 2008 da IRIPRINT Coordinamento tecnico CENTRO STAMPA di Meucci Roberto CITTÀ DI CASTELLO (PG)

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