"Vita Nuova" di Dante Alighieri [First ed.]


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"Vita Nuova" di Dante Alighieri (di Gugliemo Gorni)
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Sommario
1. La "Vita nuova" nella lirica di Dante.
1.1. "Libro de la memoria" e "libello".
1.2. Le rime escluse.
1.3. La lirica dopo la Vita nuova.
1.4. Cronologia del libro.
2. Le forme del libro.
2.1. Guido "primo amico".
2.2. Partizioni e simmetrie del testo.
2.3. La prosa.
2.4. Visioni di Dante e apparizioni di donne.
3. La storia, paragrafo per paragrafo.
4. Modelli e fonti.
5. "Dire" e "leggere".
5.1. Varia fortuna del libro.
5.2. Profezia di una profezia.
5.3. L'Età di Beatrice.
6. Nota bibliografica.
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«VITA NUOVA» DI DANTE ALIGHIERI di Guglielmo Gorni

Letteratura italiana Einaudi

1

In: Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere Vol. I, a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi,Torino 1992

Letteratura italiana Einaudi

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Sommario 1.

La «Vita nuova» nella lirica di Dante.

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1.1. 1.2. 1.3. 1.4.

«Libro de la memoria» e «libello». Le rime escluse. La lirica dopo la Vita nuova. Cronologia del libro.

4 7 10 14

2.

Le forme del libro.

16

2.1. 2.2. 2.3. 2.4.

Guido «primo amico». Partizioni e simmetrie del testo. La prosa. Visioni di Dante e apparizioni di donne.

16 16 20 22

3.

La storia, paragrafo per paragrafo.

24

4.

Modelli e fonti.

32

5.

«Dire» e «leggere».

33

5.1. 5.2. 5.3.

Varia fortuna del libro. Profezia di una profezia. L’Età di Beatrice.

33 35 36

6.

Nota bibliografica.

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1. La «Vita nuova» nella lirica di Dante.

1.1. «Libro de la memoria» e «libello». La Vita nuova è una raccolta di trentuno liriche giovanili di Dante in vario metro, saldate insieme da una prosa che alterna la narrazione, che si vuole autobiografica e non romanzesca, a chiose e dichiarazioni d’autore, digressioni sull’arte poetica, sottigliezze teoriche ed erudite. Il «libello» (così Dante cordialmente denomina il suo prosimetrum), sotto la finzione di una storia amorosa straordinaria, non conclusa dalla morte dell’amata, anzi risorta con maggior vigore dopo gli sviamenti successivi alla scomparsa di lei, dispone, in coerente diacronia, testi e momenti cruciali dell’esperienza intellettuale e dell’attività poetica di circa un decennio. Il sonetto A ciascun’alma presa (III), che, a norma della logica interna del libro, sarebbe il primo in assoluto composto dall’autore1, risale al 1283; e l’ultimo datato, Era venuta ne la mente mia (XXXIV), scritto «quasi per annovale» della morte di Beatrice, si può assegnare al giugno 1291; gli ultimi sette sonetti, che si riferiscono a episodi avvenuti «alquanto tempo» dopo, risalgono a oltre la metà dell’agosto 1293, se fa fede una notizia contenuta nel Convivio, pur sospetto di radicali allegorizzazioni avventizie di tutta la vicenda. A tale diagramma – chiuso solo provvisoriamente, o per meglio dire sospeso, al suo estremo superiore (capitolo XLII), dove trova posto la promessa, o profezia, di un’invenzione più alta e più degna – resta eccentrico soltanto il primo incontro con Beatrice, ascrivibile alla tarda primavera del 1274 (capitolo II). Evento decisivo, non ancora salutato da «parole » volgari, né celebrato dal canto: solo gli «spiriti» parlano, in latino, lingua di una fisiologia comune a tutto il genere umano. Ma evento già iscritto sotto la divisa solenne, euristicamente fondatrice, della poesia, in grazia di quel verso di Omero: «Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di deo» (11, 8)2. Del «libello» Dante accredita, e vuole che si riconosca, la filiazione diretta dal «libro» della sua memoria. Libro onnicomprensivo, ma (a quanto s’intuisce) sapientemente scandito da «rubriche», e ordinato in un sistema gerarchico di mag-

1 Ma cfr. D. ALIGHIERI, Vita nuova, III, 9, in ID., Opere minori, tomo I, parte I, a cura di D. De Robertis e G. Contini, Milano-Napoli 1984, p. 40: «e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo [cioè sperimentato per conto mio] l’arte del dire parole per rima»: pare alludere non a un semplice apprendistato teorico, bensì a un concreto esercizio, anteriore al sonetto-lettera ai «fedeli d’Amore». 2 Per l’individuazione del passo omerico, e della fonte in cui Dante poté leggerlo, si vedano i commenti, citati in extenso più oltre, di Tommaso Casini (1885), che adduce l’Aristotele latino dell’Etica Nicomachea, e di Domenico De Robertis (1980), che rinvia, accogliendo una segnalazione del Marigo, ad Alberto Magno. «Figliuola d’Amor» (che però, nella Vita nuova, non è detto dio) sarà la canzone Donne ch’avete, v. 60 (Vita nuova, XIX). Lode e «cosa» lodata promanano da uno stesso principio.

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giori e minori «paragrafi»: preziosi paradigmi di una mente legislativa in sommo grado, rivelatori di come Dante legga e organizzi il reale in forma di volume. Questa antologia a tesi delle «parole» di se stesso giovane vien trascritta dall’autore – che s’atteggia a copista, breviatore ed esegeta della propria opera (è essenziale che si tenga sempre conto delle tre funzioni) – con tenacia implacabile d’autoanalisi («è mio intendimento d’assemplare»), quasi per processo liberatorio d’affrancamento e definitiva professione di fede. Il criterio di scelta che Dante attua entro la sua produzione di poeta amoroso s’ispira a parametri trascendenti, assoluti, programmaticamente tendenziosi e postumi agli eventi, che in definitiva affermano la centralità di Beatrice, o anzi l’unicità, «per omnia secula» (XLII, 3), di lei, morta e ormai trionfante in sua gloria celeste. A questa stregua, piuttosto che Legenda Sanctae Beatricis, attraente formula cara allo Schiaffini3, la Vita nuova potrebbe definirsi Atti del «fedele» di Beatrice, come si dice Atti degli Apostoli (di Cristo). Oppure, nella prospettiva della donna e con minor pertinenza, Vangelo secondo Dante della «gentilissima». La Vita nuova è una confessione, un «isfogar la mente» (XIX, 4, v. 4) al secondo grado e una seconda volta dopo la composizione delle poesie, affidato, in forma compatta di «libello », a un pubblico ristretto di amici e di «fedeli d’Amore». O meglio, è una testimonianza, resa con zelo di apostolo e dettata da volontà profetica, a «cosa venuta | da cielo in terra a miracol mostrare» (XXVI, 6, vv. 7-8). E infine è un testamento d’autore, che segua il congedo di Dante dalle «dolci rime» d’amore (il che non è poi così lontano dal vero, se si tien d’occhio la cronologia delle opere). Dante, nella Vita nuova, letteralmente si vota a Beatrice: In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia4. 3 Cfr. A. SCHIAFFINI, Tradizione e poesia nella prosa d’arte italiana dalla latinità medievale al Boccaccio (1934), Roma 19692, pp. 89-112. 4 Cfr. D. ALIGHIERI, Vita nuova cit., I, pp. 27-28. Esaustivo al riguardo il commento del De Robertis, che rinvia naturalmente, per l’immagine di libro, alla quinta stanza di E’ m’incresce di me, vv. 58-59 «secondo che si trova | nel libro de la mente che vien meno» e v. 66 «e se ’1 libro non erra» (ID., Rime, 20 [LXVII], ibid., p. 353). Non so se parole significhi proprio, come s’interpreta dal Casini in poi, «ricordi»; simpatizzo volentieri con la vecchia chiosa del Renier, «rime» (memoria che vale solo in quanto si fissa in numeri e in scrittura poetica). Quanto a sentenzia (si avverta il latinismo), non starei a «significato complessivo» (Casini), a «interpretazione generale» o «vero significato metafisico» (Contini), sensi che mal si oppongono a una negletta totalità («se non tutte, almeno la loro sentenzia»). Sentenzia, a mio parere, ha valore qui di «definizione autentica e compendiosa»: tecnicismo che rinvia all’uso scolastico di sententia, le Sententiae in quattro libri di Pietro Lombardo, compendio universalmente noto della Patristica (si veda, a riprova, Vita nuova, II, 10, «trapassando molte cose le quali si potrebbero trarre da l’essemplo onde nascono queste, verrò a quelle parole le quali sono scritte ne la mia memoria sotto maggiori paragrafi»). Dante, qui, si fa l’epitomatore di se stesso.

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In Dante, è menzione della Vita nuova solo in tre passi del Convivio, il primo dei quali definisce bene posizione e peculiari caratteri, di lingua e di stile, da riconoscere all’operetta: E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo’ che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene. [...] E io in quella dinanzi, a l’entrata de la mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata5.

Le «parole», le rime d’amore, preesistevano alla loro costituzione in «libello » (alcuni critici, non senza ragione, discorrono francamente di «canzoniere», farcito di prose)6. Di una produzione pregressa, solo in parte piegata al nuovo organismo e dunque inclusa nel prosimetro, era al corrente anche il Boccaccio, che dà altresì la notizia di una presunta disaffezione dell’autore nei confronti del giovanile «libello»: da interpretare forse, secondo il costume dantesco, come superamento e rifiuto di una fase compromissoria e troppo condizionante. Egli primieramente, duranti ancora le lagrime della morte della sua Beatrice, quasi nel suo ventesimosesto anno compose in uno volumetto, il quale egli intitolò Vita nova, certe operette, sì come sonetti e canzoni, in diversi tempi davanti in rima fatte da lui, maravigliosamente belle; di sopra da ciascuna partitamente e ordinatamente scrivendo le cagioni che a quelle fare l’avea[n] mosso, e di dietro ponendo le divisioni delle precedenti opere. E come che egli d’avere questo libretto fatto, negli anni più maturi si vergognasse molto, nondimeno, considerata la sua età, è egli assai bello e piacevole, e massimamente a’ volgari7,

e più oltre, a complemento in queste notizie: 5 Cfr. ID., Convivio, I, I, 16-17, in ID., Opere minori, tomo I, parte II, a cura di C. Vasoli e D. De Robertis, MilanoNapoli 1988, pp. 12-13. Altre citazioni in Convivio, II, II, 1-2 (importante per la datazione), e ibid., II, XII, 4, dove si afferma che, al tempo della composizione del prosimetro, l’«ingegno»di Dante vedeva già «molte cose, quasi come sognando». Distinta per il senso («vita giovanile»), ma calco alla lettera carico di allusività, l’espressione, in bocca a Beatrice, «questi fu tal ne la sua vita nova» (Purgatorio, XXX, v. 115). 6 In sintonia con la posizione del De Robertis, si veda M. SANTAGATA, Dal sonetto al canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costituzione di un genere, Padova 19892, in particolare le pp. 148-54 (con bibliografia relativa); in questa direzione anche G. CAPPELLO, La «Vita Nuova» tra Guinizzelli e Cavalcanti, in «Versants», XIII (1988), pp. 47-66. «Sonetti e Canzoni di Dante Alaghieri ne la sua Vita Nuova», nudi di ogni dichiarazione, stampava del resto il Libro Primo della cosiddetta Giuntina di rime antiche (1527); cfr. Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani in dieci libri raccolte, ristampa anastatica, con introduzione e indici, a cura di D. De Robertis, Firenze 1977. Una situazione testuale che ricorre con larga frequenza nella tradizione manoscritta, presa in conto dal Barbi solo in quanto rispecchi, nelle rime, lo stato redazionale consegnato al prosimetro. Pare significativo, agli effetti di una definizione della specificità della tradizione letteraria italiana, questo interesse prevalente che si riserva alle rime: lette in consecuzione d’autore, ma purgate di una prosa sentita come allotria o supervacanea. Se i Fragmenta petrarcheschi non hanno corredo o cornice di prose, la ragione «volgare» del proporre una poesia allo stato puro, sussidiaria all’esempio decisivo dei classici, si chiarisce anche alla luce della fortuna, insieme legata e sciolta, delle rime della Vita nuova. 7 Cfr. G. BOCCACCIO, Trattatello in laude di Dante (Prima redazione), a cura di P. G. Ricci, par. 175, in ID., Tut-

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Compuose molte canzoni distese, sonetti e ballare assai e d’amore e morali, oltre a quelle che nella sua Vita nova appariscono [...]8.

1.2. Le rime escluse. La filologia dantesca – in modo sommario ad opera del Barbi, maestro insuperato nella ricostruzione del testo; e poi con finissime analisi critiche e ricognizioni di prima mano della tradizione manoscritta, esperite dal Contini e dal De Robertis9 – si è posta la questione delle liriche scartate dal «libello» e delle ragioni probabili dell’esclusione. Nonché, per logica conseguenza, si è proposta d’isolare, nella tradizione dei testi sciolti, l’esistenza di possibili varianti d’autore (scarse nel complesso, ma significative), risalenti a una redazione anteriore a quella attestata dal prosimetro10. Trattando della genesi della Vita nuova, non pare inopportuno segnalare quali rime di Dante gravitino entro il sistema ideale del «libello», pur restando, come si dice, «estravaganti», fuori dalla sua compagine. Ciò permette una presentazione del prosimetro d’impianto meno consueto, integrando alla descrizione del testo, quale storicamente è stato tramandato, le possibilità non realizzate dall’autore. Tra le rime candidabili, spiccano le canzoni E’ m’incresce di me (Rime, 20 [LXVII]), rivolta a «giovani donne» che hanno «la mente d’amor vinta e pensosa» (v. 87), condizione inferiore a quella delle Donne che hanno intelletto d’amore (Vita nuova, XIX); e Lo doloroso amor (Rime, 21 [LXVIII]), di tecnica assai meno raffinata, incrinata perfino da due rime irrelate per stanza, che cita però il nome te le opere, a cura di V. Branca, III, Milano 1974, p. 481. L’ascrizione erronea ai ventisei anni, poi soppressa nelle rielaborazioni del testo, deriva al Boccaccio (come si è sospettato) dal fraintendimento di Convivio, I, I, 17, letto con interpunzione errata, come se fosse «E io in quella, dinanzi a l’entrata de la mia gioventute [...]». Si rammenti che la «Gioventute», seconda età dell’uomo dopo «Adolescenzia», corre per Dante dai ventisei ai quarantacinque (ibid., IV, XXIV, 3-4). 8 ID., Trattatello cit., par. 201, p. 489. 9 Contini nei suoi densi, illuminanti «cappelli» alle singole rime. De Robertis, in sede filologica, Il Canzoniere Escorialense e la tradizione «veneziana» delle Rime dello Stil novo, Supplemento n. 27 (1954) del «Giornale storico della letteratura italiana»; Sulla tradizione estravagante delle rime della «Vita Nuova», in «Studi danteschi», XLIV (1967), pp. 5-84; e, in sede critica, Il libro della «Vita Nuova», Firenze 19702, cui si aggiunga l’importante saggio su La prima vocazione di Dante (1971), in ID., Carte d’identità, Milano 1974, pp. 69-102. Con il sussidio dei predetti contributi va letto ormai il vecchio, magistrale intervento di E. AUERBACH, Dante als Dichter der irdischen Welt, 1929 (trad. it. di M. L. De Pieri Bonino e D. Della Terza, Dante, poeta del mondo terreno, in Studi su Dante, Milano 1963, pp. 23-62). Si avverte qui, una volta per tutte, che la numerazione delle Rime di Dante è data, con numero romano, a norma dell’ordinamento canonico, e onnicomprensivo, della Società Dantesca; tale numero è preceduto da cifra araba, quando il resto relativo sia presente nell’edizione del Contini, da cui si cita, secondo la progressione che le è propria. 10 Secondo D. DE ROBERTIS, Sulla tradizione cit., p. 44, «hanno varianti redazionali i 3 sonetti propriamente dello “stilo della loda” (XVII, XXII, XXIII) e i sonetti della contemplazione celeste (XXVI, XXX, XXXVI, XXXVII), con 2 dei 3 sonetti del gabbo (XI e XII) e 3 dei 5 sonetti dell’assalto della nuova passione fino alla rivincita di Beatrice (XXXI, XXXII, XXXV)».

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della donna, «“Per quella moro c’ha nome Beatrice”. | Quel dolce nome, che mi fa il cor agro, | tutte fiate ch’i’ lo vedrò scritto [...]» (vv. 4-16): nome evocato qui in accezione dolorosa come nei testi inclusi in Vita nuova, XII-XVI. Arcaica per temi è La dispietata mente (Rime, 7 [L]), intessuta sullo schema che sarà di una delle «petrose»11, e che si suole attribuire all’amore della prima donna-schermo. Con questa stessa donna coincide, secondo il Barbi e altri, «quella ch’è sul numer de le trenta» (v. 10) del sonetto Guido, i’ vorrei (Rime, 9 [LII])12, dato che Beatrice, nella «pistola sotto forma di serventese» in lode delle sessanta donne più belle di Firenze, di cui è menzione in Vita nuova, VI, occupa il numero nove. Sono di ardua collocazione sia le due ballate Per una ghirlandetta e Deh, Violetta (Rime, 10 [LVI] e 12 [LVIII]), associabili insieme solo se Fioretta e Violetta sono senhals di una stessa donna, sia la stanza di canzone Madonna, quel signor (Rime, 11 [LVII]): di volta in volta assegnate alla prima donna-schermo, o alla Pargoletta, o alla donna-Pietra (queste ultime due estranee al «libello»). Violetta («in forma più che umana», v. 5) è altresì candidata a raffigurare la seconda donna-schermo o la donna gentile: in metri, peraltro, che paiono tutti alieni dalle morfologie accolte nel prosimetro13. Rivolto ad amici «fedeli d’Amore» (Contini), o forse a donne che hanno intelletto d’amore, il sonetto Volgete li occhi (Rime, 13 [LIX]), che par da collegare al sonetto per Lisetta (Rime, 54 [CXVII]) più strettamente di quanto si suole. Evidente invece il rapporto di Deh, ragioniamo insieme (Rime, 14 [LX]) con Cavalcando l’altr’ier (Rime, VIII), che gli fu preferito in Vita nuova, IX. Così De gli occhi de la mia donna (Rime, 18 [LXV]) potrebbe forse ricomporsi in trittico con i due famosi sonetti di Vita nuova, XXVI, Tanto gentile (Rime, XXII) e Vede perfettamente (Rime, XXIII), se non ostasse l’insofferenza professata dal soggetto nei confronti dell’inesorabile legge d’amore «e dicer: “Qui non voglio mai tornare” [...] e tornomi colà dov’io son vinto» (vv. 7-9), nonché la confessa «paura» dell’a11

Omometrica di Io son venuto (Rime, 43 [C]), assegnabile al dicembre 1296, oltre la data di composizione della

Vita. 12 Si rinvia specialmente ai commenti di Contini a D. ALIGHIERI, Rime cit., pp. 323-25; di Michele Barbi e Francesco Maggini, in ID., Rime della «Vita Nuova» e della giovinezza, Firenze 1956, pp. 193-196; di Kenelm Foster e Patrick Boyde, in ID., Lyric Poetry, II. Commentary, Oxford 19722, pp. 52-55. Ma sulla lezione del capoverso e sull’interpretazione complessiva del testo si veda G. GORNI, Lippo contro Lapo, in ID., Il nodo della lingua e il Verbo d’Amore. Studi su Dante e altri duecentisti, Firenze 1981, pp. 99-124 (in particolare le pp. 109-11, 114-17, 121), e ID., Paralipomeni a Lippo, in «Studi di filologia italiana», XLVII (1989), pp. 11-29 (alle pp. 17-20), nonché G. CAVALCANTI, Rime. Con le Rime di Iacopo Cavalcanti, a cura di D. De Robertis, Torino 1986, pp. 148-52 (con la replica di Guido). 13 Non alludo tanto alla stanza isolata, comparabile a Sì lungiamente (Vita Nuova, XXVII), monostrofica perché interrotta, nonché a Lo meo servente core (Rime, 6 [XLIX]), tutte variazioni di sonetto, quanto alle due ballate. Sul metro delle ballate, con proposte d’attribuzione di quelle dubbie, rinvio a G. GORNI, Altre note sulla ballata, in «Metrica», II (1981), pp. 83-102 (I. Dante, alle pp. 83-93).

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mante che declinano al doloroso i temi caratteristici dell’ineffabile e della lode della beatrice. Di contestata spettanza, a Beatrice o alla donna gentile, il sonetto Ne le man vostre, gentil donna mia (Rime, 19 [LXVI]), in cui certo linguaggio cortese, o anzi feudale, tarpa le ali a un volo lirico ben nutrito di Scrittura, e dunque, se ben s’interpreta, d’ispirazione perfettamente stilnovista. A una festa d’Ognissanti – secondo il De Robertis14, quella del 1289 – si riferisce Di donne io vidi una gentile schiera (Rime, 22 [LXIX]): «e una ne venia quasi imprimiera, | veggendosi l’Amor dal destro lato» (vv. 3-4), da correlare a Io mi senti’ svegliar (Vita nuova, XXIV), dallo stesso studioso assegnato, con seducente ipotesi, al Calendimaggio 1290, sei mesi esatti dopo Ognissanti. «Si pensò dallo Zingarelli, senza necessità, che Amore designasse qui Beatrice, come in un sonetto della Vita nuova, Io mi senti’ [...] e perciò la donna imprimiera fosse non Beatrice, ma Vanna. (Secondo il Carducci e lo Scherillo, essa sarebbe invece la prima donna dello schermo)»15. «Un primo abbozzo» del sonetto in morte del padre di Beatrice, Voi che portate (Vita nuova, XXII), «in forma grezzamente enunciativa»16, rallentata da un estro dialettico non dominato o sedato, s’indovina in Onde venite voi (Rime, 23 [LXX]). Gemello di questo, e dei due sonetti di Vita nuova, XXII, è Voi, donne, che pietoso atto mostrate (Rime, 24 [LXXI]), in un rapporto di reciproca dipendenza, che il Contini s’industria a ricostruire con acume. Una sorta di editio minor della grande canzone Donna pietosa (Vita nuova, XXIII), dato che «nostra donna mor, dolce fratello» (v. 14), è il sonetto Un dì si venne a me Malinconia (Rime, 25 [LXXII]), che reca con sé «Dolore e Ira per sua compagnia» (v. 4): trinità negativa, secondo un tipico modulo dantesco. L’immagine di «Amore, che venia | vestito di novo d’un drappo nero, | e nel suo capo portava un cappello»17, rinvia, per

14 Cfr. D. DE ROBERTIS, La forma dell’evento: una (quasi) dotazione dantesca, in «Italyan Filolojisi», XI (1981), 12, pp. 33-44. 15 Cfr. Contini, in D. ALIGHIERI, Rime cit., p. 360. Il De Robertis non prende posizione sull’enigma onomastico, se non per affermare che il nome Primavera (e il venir prima) sarebbe legato solo alla festa del Calendimaggio. Ma è difficile non consentire con lo Zingarelli, se nell’imprimiera del sonetto estravagante si legga la scoperta variante di Primavera = Prima-verrà. Amore sarebbe allora il nome (contingente, ma certo ben lusinghiero) di Beatrice: che non credo però adombrata al v. 14, «là ’nd’è beata chi l’è prossimana», perché fa ostacolo la posizione vicaria che la donna assume (e cfr. poi Rime, 24 [LXXI], vv. 7-8). Resterebbe pur sempre da spiegare come mai l’imprimiera di Di donne io vidi, segnatamente nelle terzine, abbia i connotati della beatrice, senza esser Beatrice. Largo credito fatto a Primavera, sempre però gerarchicamente inferiore ad Amore (se Amore, come accade anche in una canzone attribuibile a Lippo, è il nome che compete alla donna per eccellenza), poi ridimensionato all’altezza di Vita nuova, XXIV? Indizio implicito di un conflitto con il Cavalcanti? Prudenza impone di non forzare i termini possibili dell’agnizione. 16 Contini, in D. ALIGHIERI, Rime cit., p. 361. 17 Curiosamente, si scopre l’eco di questo verso nell’episodio di Ugolino, «sì che l’un capo a l’altro era cappello» (Inferno, XXXII, v. 126).

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altro verso, alle ipostasi d’Amore di Vita nuova, IX e XXIV-XXV. Non ci si occupa qui delle Dubbie, di cui certe connessioni con le liriche della Vita nuova sono fin troppo evidenti, e perciò anche d’interpretazione non univoca nei riguardi della paternità dantesca.

1.3. La lirica dopo la Vita nuova. S’è già insinuato come Dante, conclusa la Vita nuova, si sia fatto cantore morale, a detrimento del cantore d’amore che era stato a suo tempo: categorie che l’autore applicherà rispettivamente a se stesso e a Cino18. In effetti, se si segue, per comodità di ricognizione, l’ordinamento delle Rime fissato dal Barbi19, si attraversa il gruppo di «Rime allegoriche e dottrinali», delle quali almeno Voi che ’ntendendo (Rime, LXXIX) è scritta per «bella donna» (v. 43), la gentile, che solo il Convivio identificherà con la Filosofia, e che dunque idealmente non travalica la vicenda consegnata al «libello»: connesso a tale canzone, della quale si cita l’incipit alla lettera, è il dittico di sonetti formato da Parole mie (Rime, 31 [LXXXIV]) e dalla sua palinodia O dolci rime (Rime, 32 [LXXXV]). Amor, che ne la mente (Rime, LXXXI), nel terzo del Convivio, e la sua «sorella» (v. 74) antinomica, la ballata Voi che savete (Rime, 29 [LXXX]) per «donna disdegnosa» (v. 3), sono, a pari titolo, testi di lode e di deprecazione per questa stessa donna, poi allegorizzata nel trattato. Compiutamente dottrinale la canzone «Contra-li-erranti» (v. 141) nel quarto del Convivio, Le dolci rime (Rime, LXXXII), come pure la canzone della leggiadria, Poscia ch’Amor (Rime, 30 [LXXXIII]), ultima della serie. La silloge fittizia «Altre rime d’amore e di corrispondenza» s’inaugura col sonetto Due donne (Rime, 33 [LXXXVI]), conflitto di Bellezza e Virtù (v’è chi, in filigrana, scorge Beatrice e una sua antagonista femminile, metaforica o no). Prosegue col trittico – due ballate omometriche e il sonetto Chi guarderà già mai (Rime, 34-36 [LXXXVII-LXXXIX]) – per «pargoletta bella e nova»: ammesso, ma non concesso, che di trittico si possa parlare, se «nell’uso di pargoletta sarà da

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Cfr. ID., De vulgari eloquentia, II, II, 8, a cura di P. V. Mengaldo, in ID., Opere minori, II, a cura di P. V. Mengaldo, B. Nardi, A. Frugoni, G. Brugnoli, E. Cecchini e F. Mazzoni, Milano-Napoli 1979, pp. 152-53: «Circa que sola, si bene recolimus, illustres viros invenimus vulgariter poerasse, scilicet Bertramum de Bornio arma, Arnaldum Danielem amorem, Gerardum de Bomello rectitudinem; Cynum Pistoriensem amorem, amicum eius rectitudinem » («Solo di questi argomenti, se non sbagliamo, risulta che hanno poetato in volgare i personaggi illustri, cioè Bertrando del Bornio delle armi, Arnaldo Daniello dell’amore, Girardo del Bornello della rettitudine; e così Cino Pistoiese dell’amore, l’amico suo della rettitudine»). 19 Fruibile con commento in ID., Rime della maturità e dell’esilio, a cura di M. Barbi e V. Pernicone, Firenze 1969.

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scorgere una semplice preferenza lessicale»20. Pargoletta, è ben vero, riappare nel duro discorso di Beatrice, in Purgatorio, XXXI, vv. 58-60: «Non ti dovea gravar le penne in giuso, | ad aspettar più colpo, o pargoletta | o altra novità con sì breve uso». La questione è ardua, ma forse solubile se si suppone che pargoletta, anche qui, designi non già un’individualità, come pur credeva l’Ottimo, a cui saranno state note queste rime di Dante; bensì funzioni da nomenclatore unico di più donne, che la «gentilissima», severa sì, ma distaccata dall’umano e psicologicamente avversa a queste rivali sconfitte, eviterebbe di nominare individualmente. È curioso poi che «novità» («novità con sì breve uso») nel Dante lirico ricorra due volte soltanto: «la novità che per sua forma luce» (Rime, 45 [CII], v. 65), riferito peraltro alla sestina rinterzata per la donna Pietra, e «Io vi dirò del cor la novitate» (Voi che ’ntendendo, v. 10, per la donna gentile). Minimo comun denominatore lessicale anche questo lemma? Le canzoni Amor, che movi (Rime, 37 [XC]) e Io sento sì d’Amor (Rime, 38 [XCI]) si trovano messe in serie, una dopo l’altra, nell’ordinamento vulgato, come anche nella famosa lista di quindici «distese» dantesche tràdita dal Boccaccio (al quinto e al sesto posto): sono collegate dal lemma «giovanezza» (XC, 57 e XCI, 46)21, che rinvia forse alle qualità della «pargoletta» (se va distinta dalla donna pietosa, poi gentile, della Vita nuova). Né sussistono ragioni per ritenere anteriore alla Vita nuova lo scambio di sonetti, alquanto scadente, tra Anonimo (Rime, 39 [XCII]) e Dante, Io Dante a te (39a [XCIII]22: anzi tutto induce a credere il contrario. Il gruppo di sonetti di corrispondenza con Gino (Rime, 40, 40a, 41, 41a [XCIV-XCVII])23, comunque lo si interpreti, non apre affatto una nuova

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Contini, in ID., Rime cit., p. 397. Ma poi il Contini, nonostante questa affermazione di agnosticismo, manifesta le sue preferenze: «Rimane solo probabile l’amore del Purgatorio [XXXI, vv. 58-60], che va posto dunque fra 1290 e il 1300, forse intorno alla metà del decennio, fra la donna gentile (Lisetta?) e la Pietra», detta, essa pure, «pargoletta», nell’explicit di Rime, 43 [c]. A parer mio, Lisetta è fuori questione, se riportata all’altezza cronologica postulata dal Contini; e la Pietra è veramente, per lingua e per stile, altra donna (quale che fosse poi la sua vera valenza anagrafica). Inoltre, pur contro il parere autorevole di Barbi e Contini, non mi rassegno a collocare questi tre testi, che mi sembrano veramente di vecchia maniera, a una data posteriore alla Vita nuova: quando mai Dante sarebbe tornato a comporre ballate, la cui stagione mi pare altra, tutta giovanile? Nella Vita, si sa, se ne conta una sola, di ben 44 versi e 4 strofe e ripresa. Sul cavalcantismo delle due ballate si veda G. GORNI, Altre note cit., p. 88. 21 Il legame pare solido, perché, in poesia, tale sostantivo ricorre solo in questi due luoghi (altro il caso di Le dolci rime, v. 129). 22 Per certe tangenze con rime dell’«Amico di Dante», cfr. ID., Lippo amico, in ID, Il nodo della lingua cit., p. 91. 23 Una nuova lettura di I’ ho veduto già senza radice (Rime, 40a [XCV]), replica a Cino, è operata da ID., Il nome di Amore, in ID., Lettera nome numero. L’ordine delle cose in Dante, Bologna 1990. Di collocazione singolarmente ardua è la proposta dantesca Percb’io non trovo (Rime, 41 [XCVII]), scritta da luogo avverso al bene e all’amore: che per chi scrive, come per il Barbi e altri, è ancora Firenze, e non già il Casentino, o altro luogo dell’esilio.

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stagione amorosa. Quanto a Messer Brunetto (Rime, 42 [XCIX]), se è sonetto d’accompagnamento del Fiore, o del Detto d’Amore, come è stato di recente supposto24, dev’essere di data ben alta. Non so se chi scrive meriti l’accusa di tendenziosità, per aver tentato di riportare con pervicacia, e in modo qui un po’ apodittico, un’intera zona del «canzoniere» dantesco nei paraggi della Vita nuova, prima della sua composizione o in coincidenza con essa. Ma le ragioni di chi sostiene il contrario (sia detto sbrigativamente, in questa sede, ma a ragion veduta) non si appoggiano ad argomenti perentori e veramente persuasivi. Un’ipotesi vale l’altra. Restano da esaminare le quattordici poesie (ma una è di Cecco Angiolieri, altra di messer Guelfo Taviani da Pistoia, e tre di Cino raccolte dal Barbi sotto l’etichetta di «Rime varie del tempo dell’esilio». Delle nove rime del Dante esule, tre sono canzoni: Tre donne (Rime, 47 [CIV]), sul tema della Giustizia nelle sue incarnazioni possibili, destinata probabilmente al quattordicesimo e penultimo libro del Convivio; la canzone della liberalità, Doglia mi reca (Rime, 49 [CVI]), candidata naturale all’ultimo libro del trattato; e infine la «montanina», Amor, da che convien pur ch’io mi doglia (Rime, 53 [CXVI]), la sola di materia amorosa. Si leggono in ordine successivo, senza soluzione di continuità, agli ultimi tre posti della lista di quindici «distese», quale è proposta dall’ordinamento Boccaccio. Gli altri testi confermano l’abbandono della poesia amorosa. Il sonetto Se vedi li occhi miei (Rime, 48 [CV]) tratta della Giustizia, talché lo si avvicina, non senza ragione, a Tre donne. La corrispondenza con Cino, ove tratti d’amore, riafferma la fedeltà di Dante a Beatrice («Io sono stato con Amore insieme | da la circulazion del sol mia nona»: Rime, 50a [CXI], vv. 1-2). Quando il poeta si confessa «trafitto in ogni poro | del prun che con sospir’ si medicina» (Rime, 51a [CXIII], vv. 5-6), va ricordato che non parla per sé, ma in persona del marchese Moroello Malaspina. Dante insomma, al tempo dell’esilio, crede «del tutto esser partito | da queste nostre rime, messer Cino» (Rime, 52 [CXIV], vv. 1-2), e solo per ironia retrospettiva indulge a una puntualissima ripresa delle rime d’amore dolci e leggiadre. All’ultimo posto il Barbi relegò il sonetto di Lisetta, Per quella via (Rime, 54 [CXVII]), al quale rispose per le rime il padovano messer Aldobrandino Mezzabati, che fu capitano del popolo a Firenze dal maggio 1291 al 24 Cfr. ID., Una «pulzelletta» per messer Brunetto, in ID., Il nodo della lingua cit., pp. 49-69. Alla proposta ha aderito il Contini, nella sua edizione di Fiore e Detto (D. ALIGHIERI, Opere minori cit., tomo I, parte II, pp. 803-4), che però dubita che il destinatario sia il Latini: ma resta da vedere se «messer Brunetto» sia davvero riducibile a «messer Betto» Brunelleschi (didascalia tarda, cinquecentesca): tanto più problematico e incongruo, se non è da identificare almeno col personaggio della celebre novella cavalcantiana del Decameron (VI, 9). Le credenziali del Latini mi paiono più solide.

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maggio dell’anno seguente. Al tempo del soggiorno fiorentino di Aldobrandino andrà restituito il sonetto25. Con le prevedibili conseguenze, che alcuni dantisti si sono affrettati a trarre: che la donna gentile coincida con Lisetta. Da questa rapida disamina restan fuori soltanto la canzone «montanina» e le quattro «petrose», che in passato furon spesso, ma senza necessità, collegate ad essa. Sono le sole liriche di materia amorosa che appaiano incontestabilmente estranee alla dialettica sviluppata nella Vita nuova. La «montanina», divulgata di seguito a un’epistola latina al marchese Moroello Malaspina, databile al 1307 circa, che funziona da razo, e dunque confezionata in forma di prosimetrum bilingue, rinfresca postumamente antiche invenzioni. La donna appare al poeta «iuxta Sarni fluenta», come dire «per uno cammino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto» (Vita nuova, XIX, 1); e, «ceu fulgur descendens», ha tanta forza da indurre Dante a rompere il suo voto interno di astenersi ormai da amore e dalle sue rime: «Occidit ergo propositum illud laudabile quo a mulieribus suisque cantibus abstinebam»26. Piccola, ma non innocente appendice al «libello». Le canzoni Io son venuto e Così nel mio parlar (Rime, 43 [C] e 46 [CIII]) e le sestine Al poco giorno e Amor, tu vedi ben che questa donna (Rime, 44 [CI] e 45 [CII]) compongono la densa raccoltina per la donna Pietra, che l’esordio di Io son venuto circoscrive astrologicamente tra l’ultima decade del dicembre 1296 e la fine del 1297. La Pietra denomina una maniera inconfondibile dell’arte dantesca, o anche, semplicemente, è la cifra onomastica «che unisce le liriche più tecnicistiche di Dante, nelle quali l’energia lessicale e la rarità dei ritmi si trasformano, a norma di “contenuto”, nel tema della donna aspra27. La Pietra ha uno statuto alto e privilegiato nella lirica di Dante: inferiore alla «gentilissima», ma di gran lunga più rilevata tipologicamente delle altre attrici, è di fatto, nel sistema dantesco, l’autentica anti-beatrice. E le «petrose» sono forse il punto più alto della lirica italiana del primo secolo, come capirono benissimo i trecentisti, e più di ogni altro il 25

Rinvio al mio contributo Lisetta. (Dante, «Rime» CXVII, CXVIII, LIX), in AA.VV., Omaggio a Gianfranco Folena, Padova 1992 (in corso di stampa). 26 Cfr. D. ALIGHIERI, Epistole, IV, in ID., Opere minori, II cit., pp. 536-39 («Uccise dunque quel proposito lodevole per cui mi tenevo lontano dalle donne e dai loro canti»). Fanno bene Frugoni e Brugnoli (contro il Novati, che leggeva «òccidit») a tradurre «Uccise»; sennonché è il soggetto Amore che determina «suis»: dunque non «dai loro canti», bensì «dai canti d’amore». Agli effetti del prosimetrum, va altresì ricordato il caso del sonetto Io sono stato (Rime, 50a [CXI]), «sermo calliopeus» inviato a Cino in appendice a Epistole, III (ibid., pp. 532-35). Meraviglia che le edizioni delle Epistole dantesche III e IV (per guadagno di spazio?) stampino la sola prosa latina, separata dalle poesie volgari che essa introduce. Va perduta così questa specialissima simbiosi dantesca. 27 Contini, in ID., Rime cit., p. 431. «Un impallidito vocabolario da rime petrose» avvertiva nella canzone Aï faux ris (Rime, 63 [D. V]) il grande maestro. Vicinanza che è anche, persuasivamente, cronologica per F. BRUGNOLO, Sulla canzone trilingue «Aï faux ris» attribuita a Dante, in ID., Plurilinguismo e lirica medievale, Roma 1983, pp. 10565 (alle pp. 156 sgg.).

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Petrarca, pur distante da quel forte espressionismo verbale. Si leggono, nella Vita nuova o nelle Rime, testi anche più concettosi di quelli, modulati con stile «dolce» e con classica eleganza: ma nessuno ha, non si dice l’intensità linguistica, ma la forza d’invenzione delle «petrose», esperimento tragico irripetibile (a dispetto delle concrete imitazioni, che non mancarono), e purtroppo isolato, nell’aristocratica tradizione italiana.

1.4. Cronologia del libro. Sul fondamento di certe dichiarazioni d’autore, è possibile datare singoli componimenti spettanti alla Vita nuova o collegati ad essa; di altri si può fornire, per via congetturale, una plausibile cronologia relativa. Altro problema è fissare la data di composizione propria del «libello». Il Barbi, attenendosi alla lettera del testo, collocava la Vita nuova al 1292-93, aggiungendo empiricamente qualche mese all’ultima data esplicita, 8 giugno 1291, anniversario della morte di Beatrice. In quel biennio circa, a lume di buon senso, troverebbe adeguata collocazione l’amore per la donna gentile (che dal Petrocchi e da altri si preferisce denominare Donna Pietosa28, per non creare ambiguità con la figura allegorizzata dal Convivio), la cosiddetta rivincita postuma di Beatrice, il transito dei pellegrini per Firenze verso Roma (che il Rajna volle situare nella Settimana Santa del 1292), la composizione di «cosa nuova» per le «due donne gentili», cioè il sonetto Oltre la spera (Vita nuova, XLI), e infine la «mirabile visione» dell’ultimo capitolo. S’è già accennato peraltro che il Convivio (II, II), tra «lo trapassamento di quella Beatrice beata» (8 giugno 1290) e la prima apparizione della donna gentile, riconosciuta allegoria della Filosofia (Convivio, II, XII), pone due rivoluzioni di Venere, 1168 giorni (tre anni, due mesi e più, secondo il computo medio degli astronomi), che porterebbero l’esordio della nuova passione a dopo il 21 agosto 129329. Su questa strada, cioè sommando insieme le cronologie delle due opere, a dispetto del loro diverso statuto (verisimile, secondo la lettera, o invece allegorico), si deve poi fare i conti con il capitolo XII del secondo libro del Convivio: Dante si consola, «dopo alquanto tempo», con la lettura di Boezio, De consolatio-

28 Sennonché Donna pietosa e di novella etate è il cominciamento della canzone di Vita nuova, XXIII, dove opera tutt’altra donna: e dunque pare che, per evitare un omonimia incresciosa, se ne crei a ritroso un’altra. 29 Meno circostanziato il resoconto fornito da Convivio, II, XII, 2 («dopo alquanto tempo»), che par corrispondere a Vita nuova, xxxv, 1, «per alquanto tempo». Su tutta la questione (non si sta a ridire quanto intricata), si rinvia al consuntivo di K. FOSTER e P. BOYDE, Appendix a D. ALIGHIERI, Lyric Poetry cit., pp. 341-62, e al commento del Vasoli al Convivio, in D. ALIGHIERI, Opere cit., tomo I, parte II, pp. XXI-XXII, LIII-LXII e in calce ai brani che sono materia di discussione.

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ne Philosophie e di Tullio, «de l’Amistade» (ossia il Laelius de amicitia); scopre la Filosofia, «donna di questi autori», e immora sui due testi latini con gran sforzo d’intelletto; va per suo profitto «ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti», e «in picciol tempo, forse di trenta mesi» comincia a gustare la dolcezza dei nuovi veri; apre alfine «la bocca nel parlare de la proposta canzone [Voi che ’ntendendo]», mostrando la sua condizione «sotto figura d’altre cose». Le conseguenze cronologiche di queste affermazioni, specialmente (per quel che preme qui) agli effetti di una datazione congetturale della Vita nuova, sono state variamente interpretate e ricomposte dai dantisti. In generale, si tende oggi ad approvare lo zelo separativo del Barbi nei confronti delle diverse, e mal conciliabili, testimonianze d’autore: l’ultimo commentatore dell’opera ne fissa la data al 1293-9430. Ad opera specialmente del Pietrobono e del Nardi, con ragioni simili, ma con posizioni divergenti fra loro, ebbe credito l’ipotesi di una doppia redazione della Vita nuova. Ciò allo scopo di eliminare certe contraddizioni tra Vita nuova e Convivio, specialmente imbarazzanti se si pon mente che la donna gentile è «desiderio malvagio e vana tentazione» (Vita nuova, XXXIX, 6) nell’un caso, e pensiero «virtuosissimo», Filosofia, nell’altro. In prima stesura il «libello» si sarebbe chiuso sull’episodio della donna gentile, e solo dopo i1 1312 (il 1308, secondo il Nardi) Dante avrebbe operato la giunta dei capitoli XXXIX-XLII (o, per l’ultimo Nardi, del solo XLII)31. L’obiezione principale mossa dal Barbi è che non resta traccia di tale presunto rimaneggiamento nella tradizione manoscritta (il che, a rigor di logica, non è una prova contro; significa solo che questa prova positiva fa difetto ai suoi avversari). Anche a parere dello scrivente, l’ipotesi di una doppia redazione è troppo onerosa petizione di principio. Senza tentare di conciliare versioni divergenti, o anzi (in senso geometrico) non complanari, basterà dire che il capitale episodio della donna gentile comporta esiti diversi nell’opera di Dante. Una doppia soluzione di continuità nella Vita nuova (abbandono di Beatrice per la gentile; e poi abbandono di questa e ritorno a Beatrice, come dopo tentazione 30 Domenico De Robertis, in ID., Opere cit., tomo II, parte I, p. 11. Cfr. anche quanto ne scrive M. PAZZAGLIA, «Vita Nuova», in Enciclopedia Dantesca, V, Roma 1976, p. 1087: «si oscilla oggi fra 1292 [Rajna], o, al più, l’inizio del 1293 (Zingarelli, Shaw, Barbi) e la tendenza a spostare questa data al 1294 ([Casini], Cosmo, Montanari, De Robertis [e Contini]) o al 1295 (Santangelo, Foster e Boyde)». A mio parere, la data della Vita nuova oscilla tra 1293 postulato dal Barbi, che si attiene in sostanza a un fondamentale intervento del Rajna, rettificato di un anno, e la fine del 1296, data quasi certa delle «petrose», che nessun dantista moderno è disposto a concepire come anteriori al «libello». Caduta totalmente in discredito un’antica datazione a dopo il 1300. 31 La questione è esposta da M. MARTI, Vita e morte della presunta doppia redazione della «Vita Nuova», in AA.VV., Studi in onore di Alfredo Schiaffini, Roma 1965, pp. 657-69, poi rifuso in Storia dello stil nuovo, Lecce 1973, II, pp. 419-68, che porta nuovi argomenti a sostegno dell’opinione vulgata.

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vinta), per ripristinare uno statu quo iscritto di necessità nell’opera. E invece sviluppo binario, montaggio non già in serie, ma in parallelo rispetto al «libello» (a cui non s’intende «derogare»), nel Convivio, che promuove di grado quest’intensa esperienza dell’autore: da incontro amoroso a passione intellettuale e rischio di conoscenza, da Ersatz femminile della «gentilissima» a Filosofia dominatrice, signora esclusiva della mente di Dante.

2. Le forme del libro.

2.1. Guido «primo amico». Dedicatario della Vita nuova è Guido Cavalcanti: «E simile intenzione so ch’ebbe questo mio primo amico a cui io ciò scrivo, cioè ch’io li scrivessi solamente volgare» (XXX, 3). Mai menzionato per nome, citato bensì con la lusinghiera perifrasi di «quelli cui io chiamo primo de li miei amici» (III, 14) e individuato come risponditore di A ciascun’alma presa e come servitore di Vanna (XXIV). Altre amicizie fanno corona a Dante accanto a Guido: l’«amica persona» (XIV, 1), ovvero «lo ingannato amico di buona fede» (XIV, 7); l’«amico» (XX, 1) estimatore di Donne ch’avete, che è forse lo stesso risponditore alla canzone, identificabile con Lippo32; il fratello di Beatrice, «amico a me immediatamente dopo il primo» (XXXII, 1), forse Manetto Portinari, destinatario di un sonetto di Guido. Ma la complicità col Cavalcanti dal piano sentimentale si estende a quello teorico («E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente»: XXV, 10)33 in un’intesa alta e precaria, che verrà meno m seguito, e che si muterà in radicale dissenso34.

2.2. Partizioni e simmetrie del testo. La suddivisione del testo in quarantadue capitoli si attiene a una ragionevole convenzione sancita dall’edizione critica. Di fatto, la struttura del «libello» com32 È notevole che la Corona di casistica amorosa, attribuita a Lippo, ospiti un sonetto (XIV) sulla natura di Amore, di tema affine a Amore e ’l cor gentil (Vita nuova, XXI). Cfr. Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Milano-Napoli 1960, II, pp. 731-32. 33 Lo stesso aristocratico disdegno è nel congedo di Donna me prega, 71-75, in G. CAVALCANTI, Rime cit., XXVIIb, p. 107. Per altro verso, I’ vegno ’l giorno, vv. 7-8 «di me parlavi sì coralemente, | che tutte le tue rime avìe ricolte» (ibid., XLI, p. 160) mostra, indirettamente, quanto fosse caro a Guido ogni «libello» dantesco. 34 Della vasta bibliografia in merito, si cita l’ultimo e, a mio parere, decisivo lemma, G. TANTURLI, Guido Cavalcanti contro Dante, in Le tradizioni del testo. Studi in onore di Domenico De Robertis, a cura di F. Gavazzeni e G. Gorni, Milano-Napoli 1992.

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porta due partizioni, in vita e in morte di Beatrice, corrispondenti ai capitoli IXXVII e XXVIII-XLII. Rubriche latine presiedono alle parti: «Incipit vita nova» (I, 1) e, «quasi come entrata de la nuova materia che appresso vene», «Quomodo sedet sola civitas piena populo! facta est quasi vidua domina gentium» (XXVIII, 1), cominciamento delle Lamentazioni di Geremia35. Sulla canzone Sì lungiamente (XXVII), interrotta alla prima stanza, si chiude la prima parte; e il versetto paolino «qui est per omnia secula benedictus» (XLII, 3) suggella la fine dell’opera. Formula libraria di explicit, simmetrica a quella del proemio; che riecheggerà, importa notare, nel punto in cui Dante ritrova Beatrice nel Paradiso Terrestre («Tutti dicean: Benedictus qui venis»: Purgatorio, XXX, v. 19). In tal modo si conferma la fedeltà di Dante ai suoi paradigmi. La bipartizione del «libello» raggruppa nella prima sezione venti testi (di cui una ballata, due canzoni e una stanza isolata); nella seconda, undici (di cui due canzoni). Ma gli interpreti, specialmente di cultura angio-americana (Dante Gabriele Rossetti, Charles Eliot Norton, Kenneth McKenzie, Charles S. Singleton), hanno intravisto altri raggruppamenti possibili intorno alle tre canzoni pluristrofiche, lasciando indistinta la forma metrica degli individui minori: 10 . Donne ch’avete . 4 . Donna pietosa . 4 . Li occhi . 10,

oppure, separando dal computo primo e ultimo sonetto, 1 . 9 . Donne ch’avete . 9 . Li occhi . 9 . 1,

per evidenziare tre volte la cifra fatale del nove, figura di Beatrice. La seconda forma «americana» della Vita nuova36 è senza dubbio suggestiva, a prezzo però di unificare le forme metriche, e di far sparire nel gruppo centrale addirittura una canzone, Donna pietosa, contro i postulati di partenza. Più rispettoso della realtà del testo sembra il primo schema. Ci si contenta qui di evidenziare una certa specularità in quella che resta la bipartizione canonica dell’opera: sonetto (III) . canzone (XXVII) . canzone (XXXI) . sonetto (XLI).

Una struttura chiastica che forse piacque al Petrarca della forma Correggio dei Fragmenta37.

35

Versetto caro all’autore, che lo riprende nell’incipit dell’Epistola XI «Cardinalibus ytalicis» (posteriore all’aprile 1314). Geremia, Lamentazioni, I, 12 è citato già in Vita nuova, VII, 7. 36 Cfr. CH. S. SINGLETON, An Essay on the «Vita Nuova”, 1958 (trad. it. di G. Prampolini, Saggio sulla «Vita Nuova», Bologna 1968, pp. 109-11). Il saggio di Singleton è, in generale, all’origine della moderna lettura del «libello». 37 Cfr. G. GORNI, Metamorfosi e redenzione in Petrarca. Il senso della forma Correggio del Canzoniere, in «Lettere

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Nel considerare gli schemi dei sonetti, non credo che si sia messa adeguatamente in luce certa loro simpatia associativa, che tende a raggrupparli in base all’identico schema metrico, i simili con i simili. Sfrondando i rinterzati [r] dei loro settenari, e dunque attenendosi alla sola testura d’endecasillabi, risulta che nel prosimetro sono ospitati sei schemi di sonetto. Due su fronte a rime alterne, Tipo

Schema

1 2

Unità

ABAB ABAB CDE CDE ABAB ABAB CDC DCD

[5] [1r]

e quattro su quartine a rime incrociate, 3 4 5 6

ABBA ABBA CDC CDC ABBA ABBA CDC DCD ABBA ABBA CDE EDC ABBA ABBA CDE DCE

[1 + 1r] [2] [7] [8]

Come si aggregano i sonetti fra loro? Il responso è abbastanza singolare. Lo schema 6 vige esclusivamente nella seconda parte, in otto esemplari su nove; per altro verso, 1, 2, 3, 4 figurano solo nella prima. Lo schema 5 conta sei esemplari nella prima e uno nella seconda. Un’analisi puntuale mostra che 5 è, per sua natura, infiltrante, perché rompe serie compatte d’individui morfologicamente affini. Indipendente dai contenuti, opera nella Vita nuova una legge d’attrazione tra sonetti d’egual schema. Ecco come si dispongono, connotati dal loro schema metrico, i venticinque sonetti nel libro: 32

3 5

III 555

441 5

1-66 5

666666 5

Più in dettaglio. Sono hapax metrici nel libro: il primo sonetto A ciascun’alma presa, risultando solo apparente l’affermata identità col rinterzato Morte villana (VIII) sotto 3; il sonetto di tipo 2, O voi che per la via (VII), che è rinterzato; i due

italiane», XXX (1978), I, pp. 3-13 (alle pp. 3-4). Nelle note che seguono, nonché più in generale, con piena libertà, compendio osservazioni consegnate al mio volume dantesco Lettera nome numero cit. Aggiungo, come novità, che nella prima parte del “libello” ci sono 32 strofi, e 16 nella seconda.

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sonetti di tipo 4, tenzone fittizia (e la risposta non è per le rime) in Vita nuova, XXII. Comunque li si interpreti, difficilmente tali esiti sono figli del caso: a norma delle leggi di probabilità, la casualità di tali aggregazioni è anzi da escludere. Segno, ancora una volta, di una discrezione organizzativa che cerca, nelle cose, parametri d’ordine numerico e figure di simmetria. Per le canzoni è pertinentissima l’osservazione, già fatta dal De Robertis38, che le stanze sono, in larga parte, intessute d’endecasillabi; e che in tutti i casi (tranne Quantunque volte, su tredici versi) constano di quattordici versi. Quasi a mimare, in forma di polittico, la struttura di sonetto. A ben vedere, dai testi pluristrofici, sonettoidi, viene una conferma di quanto si è postulato più sopra. Donne ch’avete presenta, in successione, cinque stanze omometriche, Donna pietosa sei, Sì lungiamente una, Li occhi dolenti (unica ad avere un congedo, di schema irrazionale) cinque, Quantunque volte due. Forzando i termini, si potrebbe dire che la Vita nuova, opera bipartita, è una corona di sonetti, raggruppati in sequenze tendenzialmente omometriche, e di stanze sonettoidi, saldata insieme da una prosa connettiva. Non è indiscreto, su queste premesse, spingere lo sguardo più oltre: anche se l’interpretazione dei dati non può essere univoca. Nella prima parte del «libello» sono contenuti 434 versi, e nella seconda 242 (dei due cominciamenti di Era venuta non se ne calcola che uno nel computo). Il totale dei versi nel libro assomma a 676. Dunque, 434 242 676, tutti numeri che sono del tipo xyx, speculari rispetto alla loro cifra media (come il 232, somma dei sonetti del Fiore): evenienza che si ripete e che, pensata come figlia del caso, comporterebbe un tasso di probabilità minimo. Numeri che, scomposti, non sono privi di una loro eleganza: 434 = 2 ˘˘x˘ 7 x˘ 31 38 Cfr. D. DE ROBERTIS, Il libro della «Vita Nuova» cit., pp. 264-66. Si vedano anche, nell’Enciclopedia Dantesca cit., le voci specifiche a firma di Mario Pazzaglia; di gran pregio e utilità anche quelle metriche generali, a cura di Ignazio Baldelli. Il punto di vista di chi scrive, sulle canzoni, è in G. GORNI, Sinodo della lingua cit., pp. 78-80, 149-53, 195-201.

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242 = 2 x˘ 11 ˘x 11 676 = 2 x˘ 2 x 13 x˘ 13.

2.3. La prosa. La prosa della Vita nuova – cui son dedicate dense pagine degli studi di Lisio, Bertoni e Schiaffini39 e dei saggi di Segre e Terracini40, una monografia del Vallone41, nonché almeno i contributi, a firma di Baldelli e altri linguisti, redatti nel quadro di un ampio consuntivo sul volgare dantesco42 – presenta singolari didascalie a corredo dei testi poetici, le cosiddette «divisioni». Al dire di Dante, esse sono in servizio di una più approfondita comprensione del testo («Dico bene che, a più aprire lo intendimento di questa canzone, si converrebbe usare di più minute divisioni»); anche se poi l’intenzione dell’autore risulta di fatto ambigua, sospesa tra larga divulgazione (come dichiara l’uso del volgare e il frequente appello alle donne) e geloso esoterismo («ma tuttavia chi non è di tanto ingegno che per queste che sono fatte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d’avere a troppi comunicato lo suo intendimento pur per queste divisioni che fatte sono, s’elli avvenisse che molti le potessero audire»: XIX, 22). Tali «divisioni» sono, in complesso, una parte inerte e pedantesca nell’opera. Ma di questo tributo imposto dai modi dell’esegesi medievale, ancora operanti nella Rettorica del suo «maestro» Brunetto, Dante riesce a fare un elemento abbastanza dinamico del discorso. La «divisione» può anche mancare, perché stimata superflua: è il caso dei sonetti dei capitoli XIV («questo dubbio è impossibile a solvere a chi non fosse in simile grado fedele d’Amore»: XIV, 14), XXVI (primo sonetto), XXXV, XXXVI, XXXIX, XL: è ben curioso che le chiose manhino soprattutto in coincidenza col cruciale episodio della donna gentile. Nella seconda parte del libro, la «divisione» precede, anziché seguire, il testo («E

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Cfr. G. LISIO, L’arte del periodo nelle opere volgari di Dante Alighieri e del secolo XIII, Bologna 1902; G. BERTONI, La prosa della «Vita Nuova» di Dante (1914), in ID., Poeti e poesie del Medio Evo e del Rinascimento, Modena 1922, pp. 155-202; A. SCHIAFFINI, Tradizione e poesia cit., pp. 89-112. 40 C. SEGRE, La sintassi del periodo nei primi prosatori italiani, in ID., Lingua, stile e società, Milano 1963, pp. 79270 (che esamina però soprattutto il Convivio); e specialmente di A. TERRACINI, Analisi dello «stile legato» nella «Vita Nuova» e Analisi dei toni narrativi nella «Vita Nuova» e loro interpretazione, in ID., Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957, pp. 247-63 e 264-72, e La prosa poetica della «Vita Nuova», in ID, Analisi stilistica. Teoria, storia, problemi, Milano 1966, pp. 207-49 (che dialoga altresì con i vecchi saggi di Parodi e Bertoni). 41 A. VALLONE, La prosa della «Vita Nuova», Firenze 1963. 42 I. BALDELLI, «Lingua e stile delle opere in volgare di Dante», in Enciclopedia Dantesca cit., VI (1978), pp. 55112; e la grande monografia, a più mani, Strutture del volgare di Dante, ibid., pp. 113-497, con copiosa bibliografia.

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acciò che questa canzone paia rimanere più vedova dopo lo suo fine, la dividerò prima che io la scriva; e cotale modo terrò da qui innanzi»: XXXI, 2): così anche la nuda grammatica, nelle mani di Dante, partecipa al generale cordoglio per la morte di Beatrice. Molteplici le forme della ramificazione: bipartita in cinque casi, tripartita o quadripartita in quattro, pentapartita nell’ultimo sonetto, di cui pur si scrive «Potrebbesi più sottilmente ancora dividere, e più sottilmente fare intendere; ma puotesi passare con questa divisa, e però non m’intrametto di più dividerlo» (XLI, 9), come si dice anche di altri. In sette casi, ai capitoli XV, XX, XXI, XXIII, XXIV (e con identica figura XXXIV), XXVI, l’albero si ramifica al secondo grado, con varia forma: che nel caso delle canzoni Donne ch’avete e Li occhi dolenti è complicatissima, un avvincente e irto meccano43. Il senso delle «divisioni» appariva caduco già al Boccaccio, che si prese la briga di separarle dal testo vero e proprio, confinandole nei margini dei codici della Vita nuova vergati di sua mano. Il Boccaccio fece l’apologia del suo operato di editore in una celebre postilla: Maraviglierannosi molti, per quello ch’io advisi, perché io le divisioni de’ sonetti non ho nel testo poste, come l’autore del presente libretto le puose; ma a ciò rispondo due essere state le cagioni. La prima, per ciò che le divisioni de’ sonetti manifestamente sono dichiarazioni di quegli: per che più tosto chiosa appaiono dovere essere che testo; e però chiosa l’ho poste, non testo, non stando l’uno con l’altre bene mescolato [...]. La seconda ragione è che, secondo che io ho già più volte udito ragionare a persone degne di fede, avendo Dante nella sua giovanezza composto questo libello, e poi essendo col tempo nella scienza e nelle operazioni cresciuto, si vergognava avere fatto questo, parendogli opera troppo puerile; e tra l’altre cose di che si dolea d’averlo fatto, si ramaricava d’avere inchiuse le divisioni nel testo, forse per quella medesima ragione che muove me; là onde io non potendolo negli altri emendare, in questo che scritto ho, n’ho voluto sodisfare l’appetito de l’autore44.

Un’attenzione particolare si riserva qui ai modi stereotipi adottati nella presentazione delle poesie nel «libello»: aspetto tecnico di quell’«arte del dire parole per rima», che Dante confessa d’aver «veduto per sé medesimo» (III, 9). Si tratta di una vera e propria liturgia del testo, dal «proponimento» al «cominciamento». La prima fase è espressa da formule del tipo «propuosi di fare un sonetto» («una

43 Che attirò naturalmente il genio ludico di L. SPITZER, Bemerkungen zu Dantes «Vita Nuova», 1937 (trad. it. Osservazioni sulla «Vita Nuova» di Dante, in ID., Studi italiani, a cura a C. Scarpati, Milano 1976, pp. 95-146, alle pp. 131-33). In merito a Donne ch’avete, si avverta che la divisione, a un certo punto (XIX, 20), va al di là della lettera, discorrendo della «bocca», di cui non è cenno nel componimento. 44 Cito dalla trascrizione dell’autografo Toledano, riprodotta in D. ALIGHIERI, La Vita Nuova, edizione critica a cura di M. Barbi, Firenze 1932, pp. XVI-XVII.

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canzone», «una ballata») o «propuosi di dire parole», largamente maggioritarie; in due casi si privilegia l’atto della scrittura, «E in questo stato dimorando, mi giunse volontade di scriverne parole rimate» (XIII, 7) e «propuosi di scrivere per rima a lo mio primo amico» (XXIV, 6). Altre volte s’insiste perifrasticamente sulla volontà dell’autore: «mi giunse» o «si mosse» o «vennemi volontade di dire» («mi venne uno pensero di dire parole» a XXXIV, 3). Abbastanza singolare la formulazione «a me convenne ripigliare matera nuova e più nobile che la passata» (XVII, 1), introduzione alle rime della lode45. Il «proponimento» non si trova esplicitato nel caso di Quantunque volte («dissi due stanzie d’una canzone»: XXXIII, 2), nata come complemento a Venite a intender. La fase della realizzazione è segnalata dalla formula «dissi uno sonetto»: una sola volta «E cominciai allora questo sonetto» (III, 9) per il primo, e dunque (si presume) più faticato, componimento del principiante. Per le canzoni, più complesse di testura e d’impegno, vale soprattutto la formula «cominciai (allora) una canzone» («dissi questa canzone» a XXIII, 16). Il «cominciamento», come ben rivela il capitolo XIX, è per Dante il punto critico, il motore primo dell’ispirazione: concetto a cui il poeta resta fedele in tutta la sua carriera46.

2.4. Visioni di Dante e apparizioni di donne. A illustrazione di quella che si può definire la «forma del contenuto» della Vita nuova, mi limito a segnalare due soli parametri, di sicura rilevanza strutturale: le visioni del personaggio che dice io; le modalità d’apparizione di Beatrice e delle altre donne. Nello spazio onirico, in «soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione» (III, 3), si colloca quanto Dante vede nel capitolo III47. L’ora è «la quarta de la notte», ossia «la prima ora de le nove ultime ore de la notte» (III, 8), tra le ventuno e le ventidue: con buona simbologia numerica, ma in deroga all’assioma che colloca i sogni veritieri all’alba (Dante qui forse s’appoggia al precedente di un sogno d’Enea, in Aeneis, II, vv. 268-302: certo la circostanza non può 45 Una rassegna di queste ed altre formule metatestuali è in D. DE ROBERTIS, Nascita della coscienza letteraria italiana, in ID., Il libro della «Vita Nuova» cit., pp. 177-238 (alle pp. 184-87). 46 Cfr. G. GORNI, La teoria del «cominciamento», in ID., Il nodo della lingua cit., pp. 143-86. 47 Lo studio di D. S. CERVIGNI, Dante’s Poetry of Dreams, Firenze 1986 (e ai presenti fini le pp. 39-70, fruttuoso sviluppo di precedenti contributi di Edoardo Sanguineti, Nicolò Mineo, Robert Hollander e Barbara Nolan), è, purtroppo, piuttosto tematico che testuale. E non si cura delle «risponsioni», né del carteggio col Maianese (Provedi, saggio, Rime, 1 [XXXIX]), né della tradizione romanza del sogno in genere. Si veda, per contro, M. L. MENEGHETTI, Beatrice al chiaro di luna. La prassi poetica delle visioni amorose con invito all’interpretazione dai provenzali allo stilnovo, in AA.VV., Symposium in honorem prof. Martin de Riquer, Barcelona 1986, pp. 239-55.

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essere casuale). Si tratta d’un sogno profetico, e dunque riservato a interpreti privilegiati: talché il suo «verace giudicio» (III, 15) rimase chiuso a tutti i risponditori. Dopo il diniego del saluto di Beatrice, Dante si ritira nella sua camera e s’addormenta, «come un pargoletto battuto lagrimando» (XII, 2): questa seconda visione d’Amore ha luogo «ne la nona ora del die» (XII, 9), ora canonica della morte di Cristo. Son questi gli unici due sogni della Vita nuova, dato che la «mirabile visione» (XLII, 1) del finale sembra avere lo statuto di una vera e propria rivelazione. Semplice «imaginazione» del soggetto è quella di Amore pellegrino nel capitolo IX. Un «errare che fece la mia fantasia», un’«imaginazione» nata da «uno sì forte smarrimento, che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica persona» (XXIII, 4) dànno materia alla canzone Donna pietosa: «erronea fantasia» (XXIII, 8), al dire dell’autore, ma anche infallibile e trasparente presagio della morte dell’amata. Infine, «Appresso questa vana imaginazione [...] mi giunse una imaginazione d’Amore» (XXIV, 1-2) che è materia del sonetto Io mi senti’ svegliar. Come si vede, la componente profetica e visionaria è una caratteristica primaria della Vita nuova, secondo una complessa e ambigua tipologia. Le apparizioni femminili nel «libello» non sono, strutturalmente, meno istruttive. Nella prima (II) Beatrice è sola, e il luogo dell’incontro non specificato. Nella seconda, nove anni dopo, Beatrice appare per via, «in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade» (III, 1): simmetricamente, nel finale del libro, «per una via» è l’incontro con i pellegrini. In XIV Beatrice, in compagnia di molte donne, ride, e con loro si gabba di Dante; in XXII, sempre sullo sfondo di un coro femminile, Beatrice piange, per la morte del padre. La prima donna-schermo s’interpone sulla «retta linea» tra Beatrice e Dante, «in parte ove s’udiano parole de la regina de la gloria» (V, 1): dunque all’interno d’una chiesa, durante una liturgia mariana. Il saluto della «gentilissima» è negato a Dante «passando per alcuna parte» (X, 2); il cosiddetto «gabbo» ha luogo «in parte ove molte donne gentili erano adunate» (XIV, 1), in occasione di un matrimonio. In morte del padre di Beatrice, altro incontro con le donne, che «s’adunaro colà dove questa Beatrice piangea pietosamente» (XXII, 3), nascosta alla vista di Dante. L’immaginazione di Amore nel capitolo XXIV torna ad essere indefinita, come s’addice a una raffigurazione mentale: il protagonista se ne sta «pensoso in alcuna parte», e Amore pare «venire da quella parte ove la mia donna stava» (XXIV, 2). E Dante si trova «in parte ne la quale mi ricordava del passato tempo», in un

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luogo dunque della memoria, quando gli appare la donna gentile (XXXV, 2). Onde io, accorgendomi del mio travagliare, levai li occhi per vedere se altri mi vedesse. Allora vidi una gentile donna giovane e bella molto, la quale da una finestra mi riguardava sì pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta.

Se ne ricava forse un diagramma interpretativo. Alla visione diretta, orizzontale, di Beatrice viva; alla visione in «linea retta» (sintagma due volte ripetuto a v) della prima donna-schermo, ostacolo a Beatrice, termine negato dello sguardo, nel caso della gentile si applica una strategia obliqua, dal basso verso l’alto, quasi parodia terrena di un’elevazione, di un guardare verso l’alto, che dovrà riservarsi alla sola Beatrice in cielo.

3. La storia, paragrafo per paragrafo. La Vita nuova, in sostanza, è la storia della lirica di Dante riportata a occasioni storiche e a miti ispiratori, che a quelle occasioni conferiscono pienezza di senso48. Il «proemio» (così designato a XXVIII, 2) fa della memoria, come si è già notato, la fonte di ogni parola detta49, abbreviata in «sentenzia» nel «libello» che l’autore vuol trarne50. «Nove fiate già appresso lo mio nascimento [...] » (II, 1) è il vero incipit del libro, che dunque s’inaugura con la citazione del numero miracolo. Si narra poi il primo incontro51 con «la gloriosa donna de la mia mente» (II, 1), il cui nome, Beatrice52, rende giustizia alle qualità della persona che lo porta. La fanciulla è sola, ha otto anni e quattro mesi, di poco più giovane del personaggio che dice io, che è «quasi da la fine» del suo nono anno, come rivelano computi astrologici solenni: coll’aiuto del conversevole Boccaccio, si può fissare l’incontro al Calendimaggio 1274. «Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno»: 48 L’ultimo contributo in tal direzione è di W. WEHLE, Dichtung über Dichtung. Dantes «Vita Nuova»: Die Aufhebung des Minnesangs im Epos, München 1986. 49 Una messa a punto sottile è quella di M. GUGLIELMINETTI, La «Vita Nuova» fra memoria e scrittura, parte del capitolo Dante e il recupero del «parlare di se medesimo», in ID., Memoria e scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini, Torino 1977, pp. 42-72. Della critica anglosassone, si menziona qui almeno J. MAZZARO, The Figure of Dante: An Essay on the “Vita Nuova”, Princeton N.J. 1981, e la prima parte di T. BAROLINI, Dante’s Poets. Textuality and Truth in the Comedy, Princeton N.J. 1984. 50 L’andamento sintattico dell’esordio è ripreso, non si può dire quanto consciamente, in un attacco di canto, Inferno, XXIV, vv. 1-6: cfr. D. DE ROBERTIS, Il libro della «Vita Nuova» cit., p. 179, nota. 51 Al tema si applica E. GIACHERY, Incontro con Beatrice, in AA.VV., Medioevo e Rinascimento veneto con altri studi in onore di Lino Lizzerini, I, Padova 1979, pp. 67-93. 52 Secondo una tradizione che risale al Boccaccio e ai suoi informatori, che egli afferma intrinseci di Dante, si tratterebbe di Bice di Folco Portinari, nata nel 1266 e morta 1’8 giugno 1290 (le date son fornite da Dante), sposa a messer Simone de’ Bardi.

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le cadenze ternarie e, simbolicamente, trinitarie del decoro di lei si specchiano nei triplici effetti indotti sul giovanissimo amante. Spirito della vita (cuore), spirito animale (cervello) e spirito naturale (stomaco), tutti insieme in un sol «punto», si turbano e parlano in latino: l’uno trema, l’altro si meraviglia, l’altro piange, rispettivamente in stile alto, medio ed elegiaco, in ossequio ai tria genera dicendi. Dante, nella puerizia, rivede più volte Beatrice; Amore sempre lo regge, non «sanza lo fedele consiglio de la ragione» (II, 9). Si viene, trapassando minori paragrafi della storia, al capitolo III, nove anni esatti dopo il primo incontro. Saluto di Beatrice, forte pensiero di lei e conseguente visione: Amore, dapprima allegro e poi in lacrime, dà in pasto a Beatrice, dormiente tra le sue braccia e poi ridestata, il cuore dell’amante (tema letterario, di cui si cita almeno la ricorrenza nella Vida del trovatore provenzale Guglielmo di Cabestanh)53. Al sonetto enigma inviato da Dante, assai meno circostanziato della prosa, replicano più rimatori (son note tre risposte, curiosamente anch’esse di tono alto, medio e basso), tra i quali54 spicca il Cavalcanti. Qui si colloca «lo principio de l’amistà» con lui. Nel capitolo IV si descrivono gli effetti d’Amore, che impedisce allo spirito naturale di compiere le sue operazioni; Dante tace a tutti il suo segreto. Segreto rinforzato nel capitolo seguente dall’invenzione di una donna-schermo del vero amore («Con questa donna mi celai alquanti anni e mesi»: V, 4), per la quale furono composte «certe cosette per rima» non trascritte nel libro. Neppure è trascritta (VI) un’epistola in forma di serventese sulle sessanta più belle di Firenze (città mai nominata apertamente), nella quale Beatrice occupa il posto che le si addice, cioè il nono. Una «lamentanza» per la partenza del primo schermo femminile verso paese molto lontano è nel capitolo VII: si tratta di una mistificazione della prosa, par legittimo sospettare, perché il sonetto relativo, O voi che per la via d’Amor passate, guittonianamente rinterzato, non è affatto un testo di partenza. Muore un’amica della gentilissima (VIII), che potremmo definire la donna «gaia», dato che per due volte, e univocamente, è così connotata55; Dante compo53 Cfr. L. ROSSI, Il cuore, mistico pasto d’amore: dal «Lai Guirun» al «Decameron», in AA.VV., Studi provenzali e francesi ’82, L’Aquila 1983, pp. 28-128. Sul cuore in letteratura, si veda F. MANCINI, La figura del cuore fra cortesia e mistica. Dai Siciliani allo Stilnuovo, Napoli 1988. 54 È «a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo» (III, 9) che Dante invia il suo testo. Può sconcertare che tra essi si trovi Dante da Maiano (per tacere di Terino da Castelfiorentino). «Sta di fatto, dunque, che il giovane Dante includeva tra “li fedeli d’Amore” questo rappresentante fiorentino d’una maniera arcaica e formalistica [...] Sarebbe stato singolare che un aspetto della sua adolescenza culturale non fosse stato orientato verso il passato» (G. CONTINI, Letteratura italiana delle origini, Firenze 1970, p. 334). Circostanze come queste spiegano bene perché, tra gli amici del primo Dante, si possa trovare senza scandalo anche un Lippo Pasci de’ Bardi. 55 Cfr. infatti Piangete, amanti, v. 14 «che donna fu di sì gaia sembianza» e Morte villana, v. 15 «in gaia gioventute».

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ne due sonetti di cordoglio, uno dei quali rinterzato. Si delinea, come già a III, un’accademia poetica di «fedeli d’Amore» (VIII, 7). Nel IX capitolo, culmine della reticenza, Amore appare all’immaginazione lungo un fiume, «come peregrino leggeramente vestito e di vili drappi» (IX, 3), e parla in volgare per la prima volta; riporta il cuore di Dante dal primo a un secondo schermo, per ricreare un «simulato amore» a difesa del suo segreto. Dante cavalca tutto il giorno, con più persone, pensoso, in un «cammino de li sospiri» (X, 1) che è una sorta di Via crucis dell’amante. In città si fanno chiacchiere su questa nuova relazione: «oltre li termini de la cortesia» (X, 1), duole dire, e Dante se ne trova infamato «viziosamente». La «gentilissima», questa volta, non perdona al recidivo e gli nega il saluto. Per far capire al suo lettore quanto sia grave tale perdita, Dante in XI descrive gli effetti portentosi di quel saluto: anche qui con triplice anafora (di «quando»). In XII si descrive il secondo sogno, di un giovane vestito di bianchissime vesti, che non è altri che Amore. Dialogo bilingue tra Dante e Amore, che rivendica a sé l’esser «tanquam centrum circuli»; Amore comincia a parlar latino, ma poi fa una lunga tirata in volgare, che è il discorso diretto più lungo del «libello». Il signore della cortesia chiede a Dante d’inviare una poesia alla sua donna, aggiungendo consigli di natura tecnica: il poeta «non parli a lei immediatamente», ma ai suoi stessi versi, e faccia adornare le sue parole «di soave armonia, ne la quale io sarò tutte le volte che farà mestiere» (XII, 8): splendida incarnazione musicale di Amore, forse perché «amor» di fatto si cela nelle lettere di «ARMOnia». Ne nasce subito, per ispirazione immediata (che palesemente si oppone alla lunga attesa della prima canzone), la ballata di scusa (escondig) di quattro strofe, Ballata, i’ voi che tu ritrovi Amore. Battaglia di quattro pensieri sulla signoria e sul nome d’Amore («Nomina sunt consequentia rerum»: XIII, 4), che tormentano Dante incerto sul cammino della sua vita, è nel sonetto Tutti li miei penser56. La prosa che accompagna Con l’altre donne mia vista gabbate, sonetto che presenta continuità sintattica tra fronte e sirma (indizio di arcaicità), racconta come Dante, indotto da un amico, fosse «al servigio de le donne» (XIV, 3) a un pranzo di nozze. L’apparizione di Beatrice nel gruppo distrugge tutti gli “spiriti”, e in particolare aliena gli «spiritelli» visivi del suo amante, trasfigurato a tal punto da dover esser condotto «fuori de la veduta di queste donne» (XIV, 7) e perdere i sensi. Le donne e Beatrice si gabbano di lui. Nel XV capitolo si assiste a un conflitto tra un «pensamento forte» (non ve56 Anticipo qui che il componimento ha vistosi legami, concettuali e linguistici, con il sonetto a Puccio, Saper vorria da voi (Rime, 58 [D. XXIV]): legami che, a parer mio, depongono, a favore della paternità dantesca, che il Contini non escludeva, argomentando su altre basi. Una perizia avversa a questa ipotesi emette però Rosanna Bettarini, nel suo ottimo commento a DANTE DA MAIANO, Rime, Firenze 1969, pp. 208-9, 216-17.

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dere madonna) e un «umile pensero» (vederla, malgrado tutto): il sonetto Ciò che m’incontra chiama Beatrice «bella gioia» (v. 2), che è un hapax (non il solo) di questo singolare testo. «Quattro cose ancora sopra lo mio stato» (XVI, 1) son materia di Spesse fïate: è il terzo dei sonetti rivolti direttamente alla donna, «narratori di tutto quasi lo mio stato», dopo di che Dante si propone di «ripigliare matera nuova e più nobile che la passata» (XVII, 1). Il capitolo XVIII illustra la «cagione» della nuova materia, che non sarà altro che la lode disinteressata di Beatrice. L’occasione è data da un coro di donne (che non include la «gentilissima»), dal quale si stacca un’interlocutrice, che chiama Dante per nome e gli chiede qual sia il fine di un amore non remunerato (luogo comune provenzale). Non è più il saluto della donna: Amore «ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno» (XVIII, 4)57, ossia «In quelle parole che lodano la donna mia» (XVIII, 6), dunque nelle rime della lode. Dante teme d’aver scelto «troppo alta matera» di poesia, e resta alquanti giorni «con disiderio di dire e con paura di cominciare» (XVIII, 9). L’ispirazione, per cui la «lingua parlò quasi come per sé stessa mossa» (XIX, 2), sopraggiunge lungo «uno rivo chiaro molto»: l’autore accoglie «con grande letizia»58 il verso, che Amore gli «ditta dentro» (così in Purgatorio XXIV, v. 54), come cominciamento di una nuova canzone, che individua nelle donne innamorate il suo pubblico e nella «laude» la sua materia. Omaggio al Guinizzelli, «saggio» addotto come autorità in materia erotica, è il sonetto del capitolo XX sulla natura di Amore, scritto a istanza d’un ignoto amico, che apprezzò in sommo grado Donne ch’avete. Lode di Beatrice e dei suoi effetti miracolosi è nel sonetto Ne li occhi porta (XXI). Si registra la morte del padre di Beatrice (se si tratta di Folco Portinari, i documenti parlano del 31 dicembre 1289) e il dolore di lei, dimostrato grandissimo in base a un pedantesco, ma ineccepibile sillogismo. Dialogo con donne reduci dal cospetto di lei, ancorché Dante voglia celarsi (non così a XXXV, 2, con la gentile). Ne nasce un dittico in sonetti, Voi che portate e Se’ tu colui (XXII)59. Capitale la prosa di XXIII, a corredo della canzone Donna pietosa60: visioni e annunzi di morte, segnatamente quel57 Finemente CH. S. SINGLETON, An Essay cit., trad. it. p. 127, nota 6, accosta l’espressione a Luca, 10, 42: «Maria optimam partem elegit, quae non auferetur ab ea». Matura il trapasso, applicato all’esperienza amorosa, dalla vita attiva («sollicita») alla vita contemplativa, non però ancora mistica, di cui Maria è figura. 58 La fonte di tutta l’espressione è scritturale: non solo per «laetitia magna», ma specialmente per Luca, 2, 19: «Maria autem conservabat omnia verba haec conferens in corde suo» (e passi affini). 59 Cfr. D. DE ROBERTIS, Storia della poesia e poesia della propria storia nel XXII della «Vita Nuova», in «Studi danteschi», LI (1978), pp. 153-77. 60 Sull’omometria che lega questa canzone alla consolatoria di Cino a Dante in morte di Beatrice, Avegna cbed el m’aggia, e su una possibile ricostruzione dello scambio, si vedano i miei Paralipomeni cit., pp. 25-27.

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la di Beatrice, scaturiti da una coerente trafila fisio-psicologica che affligge il soggetto. Punto di partenza è una «dolorosa infermitade», da cui un «pensero lo quale era de la mia donna» (pensata come mortale e minacciata di morte), da cui un «forte smarrimento», e poi un’«imaginazione» fantastica e «umilitade per vedere» Beatrice, con conseguente invocazione alla Morte. Cessa alfine la «forte fantasia», a metà della frase, di risonanza quasi magica (forse apotropaica), «O Beatrice, benedetta sie tu» (XXIII, 13): predicato che ritornerà nell’explicit del libro e poi anche, come si vedrà, in Purgatorio, XXX (talché qui è taciuto, come intempestivo). Dante malato è assistito da una stretta parente, forse dalla sorella61. La canzone è una specie di Trionfo della Fantasia luttuosa, nel quale il nome della «gentilissima» resta, ancora una volta, segreto. «Imaginazione d’Amore» a XXIV: il cuore, singolarmente lieto, parla «con la lingua d’Amore», e dice «Pensa di benedicere lo dì che io ti presi, però che tu lo dei fare» (XXIV, 2). Appare una donna di rinomata bellezza, Giovanna, la quale «fue già molto donna di questo primo mio amico» (XXIV, 3): detta Primavera «per la sua bieltade, secondo che altri crede» (cioè, si suppone, lo stesso Cavalcanti). A lei tien dietro Beatrice, sicché Amore par suggerire a Dante un nuovo etimo del nome della prima donna: Primavera intesa come Prima-verrà, verrà prima di Beatrice «per questa venuta d’oggi» (XXIV, 4). Del resto, il ruolo di precursore si trova iscritto nel nome stesso di Giovanna, «da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce, dicendo: “Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini”» (XXIV, 4). È il punto più esplicito, e più alto, della riduzione figurale di Beatrice a Cristo. Dante inviò all’amico Guido il sonetto Io mi senti’ svegliar. Il capitolo XXV contiene un’importante digressione teorica sul parlare figu62 rato : concesso, come già ai poeti latini, così anche ai rimatori volgari, dato che «dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino» (XXV, 4). Una ragione complementare d’affrancamento consiste poi nel fatto che sempre «a li poete» è «conceduta maggiore licenza di parlare che a li prosaici dittatori» (XXV, 7). La questione nasce dall’aver proposto una prosopopea d’Amore, che va ora giustificata: Dante infatti si fa beffe di chi non sa «denudare le sue parole» dalla «vesta» che conviene loro («questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quel61

Si conosce una sorellastra di Dante, Gaetana, detta Tana. In tal caso, la Vita opera un ben curioso chiasmo tra i protagonisti, a cui accosta un fratello (di Beatrice) e una sorella (di Dante). 62 Pertinente alla questione il saggio, d’interesse più vasto (ma con speciale riguardo alla Vita nuova), di F. TATEO, Questioni di poetica dantesca, Bari 1972, alle pp. 51-75. Di un punto particolare tratta M. TAVONI, «Vita Nuova» XXV 3 e altri appunti di linguistica dantesca, in «Rivista di letteratura italiana», II (1984), 1, pp. 9-52. Cfr. inoltre G. GORNI, Notizie su Dante, Andrea Lancia e l’Ovidio volgare, in «Studi medievali», serie III, XXIX (1988), pp. 761-69 (le pp. 761-63); E. TREVI, Amore, figura e intendimento. Osservazioni sull’allegoria in Cavalcanti e nella «Vita Nuova», in «La Cultura», XXVII (1989), 1, pp. 143-54.

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li che così rimano stoltamente»: XXV, 10)63. I poeti volgari, «in lingua d’oco e in quella di sì», s’indussero a rimare d’amore per «fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere li versi latini» (XXV, 6): a centocinquant’anni prima della Vita nuova (computo errato per difetto di alcuni decenni) Dante fissa l’esordio della poesia amorosa in volgare. Segue una testimonianza degli effetti (triplici, nella prosa di XXVI) che Beatrice, passando per via, induce sulle genti: i sonetti gemelli Tanto gentile e Vede perfettamente sono i testi più famosi scritti in lode della «gentilissima». Pare tuttavia all’autore «defettivamente avere parlato» (XXVII, 1): si propone dunque di dire non «in brevitade di sonetto», anche se la canzone Sì lungiamente, di testura simile a sonetto e di modesto dettato, non si estenderà oltre la prima stanza. Il grave esordio delle Lamentazioni di Geremia inaugura la seconda parte dell’opera: in modo traumatico, sia per l’interruzione della canzone, sia per il mutamento di tono e di lingua. Beatrice è chiamata dal «segnore de la giustizia» a militare «sotto la insegna di quella regina benedetta virgo Maria»(XXVIII, 1: affiora in filigrana il dettato della Salve regina, nel suo incipit e nell’explicit). Dante tuttavia non tratterà della morte dell’amata: per tre motivi, poco perspicui nella loro formulazione. Parlerà invece del nove, per chiarire la «ragione, per che questo numero fue a lei cotanto amico» (XXVIII, 3). Tre calendari (d’Arabia, di Siria e il cristiano) militano a rivelare paradigmi novenari nella data di morte; e tre ragioni son escogitate per dar conto dell’amicizia che sussiste tra Beatrice e il nove (la terza con reticenza: «Forse ancora per più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione»: XXIX, 4). Anzi, insinua Dante, «secondo la infallibile veritade, questo numero fue ella medesima» (XXIX, 3)64. Dà poi notizia di un’epistola inviata «a li principi de la terra» (XXX, 1), cominciante con le parole stesse di Geremia già addotte «come entrata de la nuova materia»: non la trascrive perché redatta in latino, e «questo mio primo amico a cui io ciò scrivo» (XXX, 3) non desidera leggere altro che volgare. Il poeta decide di «disfogare» la sua tristezza nella canzone Li occhi dolenti (XXXI), «figliuola di tristizia» (v. 75). Un fratello di Beatrice (Manetto? forse quello stesso a cui Guido inviò il sonetto Guata, Manetto65) amico a Dante «immediatamente dopo lo primo» 63 Si segnala un attacco al Guittone dottrinale e morale, secondo il parere del Contini, in «E questo è contra [non sarà da leggere econtra, tecnicismo della disputa filosofica, omesso è?] coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare [in rima volgare] fosse dal principio trovato per dire d’amore» (XXV, 6). 64 Una nuova lettura di questi fatti è nei saggi di G. GORNI, Il nome di Beatrice, e Il numero di Beatrice, in ID., Lettera nome numero cit., pp. 19-44 e 73-85. 65 Cfr. G. CAVALCANTI, Rime cit., LI, pp. 206-8.

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(XXXII, 1), richiede simulatamente rime per donna morta, tacendo il nome vero della donna da compiangere: la finzione consente all’autore di recuperare ai suoi fini il sonetto Venite a intender. «Povero» e «nudo» sembra a Dante il servigio reso a Manetto, o insomma «a così distretta persona di questa gloriosa» (XXXIII, 1): onde la giunta di due stanze di canzone, Quantunque volte, una per sé e una per l’amico, affini per tema ai testi del capitolo VIII. In XXXIV si colloca il famoso sonetto con due cominciamenti, Era venuta ne la mente mia, che presenta la prima quartina in due redazioni distinte (nella seconda, Maria cede il posto, in rima, ad Amore): singolare offerta di varianti d’autore, assolutamente eccezionale all’interno di un’opera compiuta. Il sonetto, come dichiara anche la prosa, è composto per l’anniversario della morte66. L’occasione narrata mostra un Dante intento a disegnare «uno angelo sopra certe tavolette», o anzi «figure d’angeli» (XXXIV, 3): interrotto, senza che egli se ne avveda subito, dall’arrivo di persone degne d’onore (due forse, come due sono i cominciamenti? e allora, a ciascuno il suo?), Dante invierà loro il sonetto bicefalo. I capitoli XXXV-XXXVIII trattano dell’avventura con la donna gentile, nata sotto il segno di una forte compassione per Dante, «pensoso» e soggetto a «terribile sbigottimento» (XXXV, 1). Al primo incontro il protagonista si sottrae alle attenzioni, «temendo di non mostrare la mia vile vita»67: suppone peraltro che in donna così pietosa non possa essere che «nobilissimo amore» (XXXV, 3), atto a confortare «la qualità de la mia vita oscura» (Videro li occhi miei, v. 6). Dante torna a vedere la pietosa, tinta «d’un colore palido quasi come d’amore» (XXXVI, 1) che gli ricorda Beatrice, e compone Color d’amore. In XXXVII (come già nel vecchio sonetto della Garisenda), si celebra una vera e propria «insectatio in oculos», maledetti per la loro troppa «vanitade»: L’amaro lagrimar68 è in effetti un’effusa apostrofe del cuore agli occhi. Dante condiscende sempre più alla tentazione, e anzi presume che la gentile sia «apparita forse per volontade d’Amore, acciò che la mia vita si riposi» (XXXVIII, 1)69. Ma quando acconsente a questa indebita consolazione, è però preda di una «battaglia de’ pensieri» (sintagma affine a XIV, 66 Su questa porzione dell’opera, cfr. V. MOLETA, «Oggi fa l’anno che nel ciel salisti»: una rilettura della «Vita Nuova» XXVII-XXXIV, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXI (1984), pp. 78-104. 67 Il sintagma (XXXV, 3) è anche nel vessatissimo sonetto di Guido a Dante, I’ vegno ’l giorno, v. 9 «per la vil tua vita», da leggersi col commento del De Robertis in G. CAVALCANTI, Rime cit., pp. 158-161. Non par dubbia la connessione dei due passi (si rammenti che la Vita nuova è dedicata al Cavalcanti): tanto più che il «mostrare» della prosa è indotto, a mio avviso, dal verso contiguo «far mostramento che tuo dir mi piaccia» (v. 10). 68 Sui sottili legami intertestuali di questo gruppo di sonetti, si veda almeno l’annotazione del De Robertis a D. ALIGHIERI, Vita Nuova cit., p. 224, nota. 69 Si opponga, a questa fiducia, Quantunque volte, vv. 10-11: «Ond’io chiamo la Morte, | come soave e dolce mio riposo».

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1): sicché il Gentil pensero che tradisce la memoria di Beatrice, nella coscienza dell’autore si converte in «vilissimo» (XXXVIII, 4). Il sonetto, d’ispirazione cavalcantiana, è un dialogo tra l’anima e il cuore. Ma ecco che un giorno, «quasi ne l’ora de la nona, una forte imaginazione» (XXXIX, 1) mostra Beatrice rivestita dell’abito sanguigno del primissimo incontro e riportata a quell’età puerile. La storia vera, la vita nuova ricomincia. Dante si pente di quell’amore coltivato contro «la costanzia de la ragione» e discaccia, una volta per tutte, il suo «malvagio desiderio» (XXXIX, 2]. Gli occhi sono alfine puniti della loro audacia con lacrime e un «colore purpureo» che li cerchia (Lasso! per forza di molti sospiri). In XL il poeta si volge a parlare non più a donne, bensì a pellegrini (Deh peregrini che pensosi andate)70, per una via che è «quasi mezzo de la cittade ove nacque e vivette e morio la gentilissima donna» (XL, 1): forse, alla lettera, via del Corso, dove sorgevano le case dei Portinari; o via dei Serragli, verso Porta Romana, se a Roma i pellegrini sono diretti. In effetti esistono tre specie di pellegrini: «palmieri» in Terrasanta, «romei» a Roma, «peregrini» in senso stretto verso Santiago de Compostela, al sepolcro d’apostolo più lontano che ci sia. Rivivono così, nel libretto amoroso di Dante, i favolosi pellegrinaggi in Galizia, legati alla nascita dell’epica romanza. Per esaudire la richiesta di due «donne gentili», compone infine Oltre la spe71 ra , dove opera un «peregrino spirito» (v. 8), titolare di un viaggio che ormai non è più terreno. Dante acquista così una dimensione felicemente verticale, opposta al vario, ma orizzontale cammino dei «peregrini». E attua insomma una prima ascesi, sgombra da immagini false di bene. «Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente» (XLII, 1-2). Profezia di una profezia, quale appunto sarà la Commedia72.

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Sul rapporto «peregrini» e lettori, cfr. P. MASTROCOLA, Sul capitolo XL della «Vita nuova», in «Critica letteraria», XIV (1986), 52, pp. 553-70. 71 L’Angiolieri ne stimò contraddittorio il dettato, in Dante Allaghier, Cecco, ’l tu’ servo e amico (Rime, XXXVIII), talché, nella prosa, il testo dantesco è sottoposto a una minuta esposizione apologetica. Si rammenti, col De Robertis, che Dante assicura d’aver inviato alle donne, con questo, altri due sonetti, Deh peregrini e Venite a intender: piccolo libello d’autore, prima della lettera. Segnalo infine che l’eco del v. 11, «al cor dolente, che lo fa parlare», riecheggerà nel primo discorso di Beatrice nella Commedia, «amor mi mosse, che mi fa parlare» (Inferno, II, v. 72). 72 Nella prospettiva del capolavoro si muove l’interpretazione, specialmente allegorica, di Francesco Mazzoni, nella Nota introduttiva all’edizione, per i tipi di Tallone, della Vita, Alpignano 1965. E l’idea di libro futuro sviluppa G. BÁRBERI SQUAROTTI, Artificio ed escatologia della «Vita Nuova», in ID., L’artificio dell’eternità. Studi danteschi, Verona 1972, pp. 35-106 (secondo saggio di un trittico consacrato al «libello»); del quale si veda l’Introduzione a D.

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4. Modelli e fonti. Modelli formali e fonti della Vita nuova si lasciano individuare anzitutto nel prosimetrum medievale più noto, il già menzionato De consolatione Philosophie, che Dante definisce paradossalmente «quello non conosciuto da molti libro di Boezio» (Convivio, II, XII, 2), forse deprecandone la presunta scarsa efficacia sui contemporanei. Ma non dev’esser stato inoperoso neppure l’esempio di Brunetto Latini: il suo incompiuto Tesoretto, in distici di settenari, era destinato a farciture prosastiche; e nella Rettorica, tutta in prosa, si distinguono due componenti: «lettera grossa», cioè «il testo di Tullio», e «lettera sottile», cioè «le parole de lo spositore». Sta di fatto che la Vita nuova è il primo prosimetro in lingua italiana: preceduto oltralpe dalla leggiadra «chantefable» piccarda Aucassin et Nicolette, della prima metà del XIII secolo, e riproposto nella struttura (ma non nella forma e nelle proporzioni) dallo stesso Convivio. Il tema boeziano della consolazione per virtù di scrittura, estraneo in quanto tale ai propositi espliciti di Dante, è forse un motivo ispiratore preminente tra le ragioni non confesse del «libello». Come pure il tema dell’amicizia, essenziale alla definizione del Dolce Stil Novo, che ha il suo manifesto autorevole in un’altra lettura coeva, il De amicitia ciceroniano. Altro capitale, ma non dichiarato paradigma sono le Confessioni di sant’Agostino: più che per puntuali riprese, per l’esempio di una scrittura appassionata, da Dante tradotta in simboli, dell’introspezione soggettiva; e soprattutto per l’autorizzazione data all’autoanalisi. Fondamentale, in proposito, il secondo capitolo del primo libro del Convivio, in cui l’autore vuol purgarsi di una «macula» presunta: «che parlare alcuno di sé medesimo pare non licito». Lo è, invece, per due ragioni. O per cessare «grande infamia o pericolo», che è il caso di Boezio: efficace per genere letterario adottato, più che per il fine dichiarato dell’opera (si veda però Vita nuova, X, 2, e altri punti apologetici del «libello»). O perché «grandissima utilitade ne segue altrui», che è il caso di Agostino, nella sua vita passato attraverso tre gradi, da «[non] buono» («[men] buono»congettura l’Ageno) a «ottimo». Così è per Dante nella Vita: dall’amore doloroso, impaziente di remunerazione, ancorché dei soli gradi primi dell’amore fisico, visus e verbum; alla lode gratuita; a quella che, in XLII, chi scrive giudica una vera e propria estasi («excessus mentis»), già presagita in Oltre la spera.

ALIGHIERI, Vita Nuova, in ID., Opere minori, a cura di G. Bárberi Squarotti, S. Cecchin, A. Jacomuzzi e M. G. Stassi, Torino 1983.

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Strettissimo è il legame con le vidas dei trovatori, presenti in canzonieri occitanici, dalle quali forse deriva una suggestione al titolo: in questa tradizione, ben affermata in terra di sì, si segnala particolarmente come autore Uc de Saint-Circ73, esule in Italia a partire dal 1220 circa. Decisivo rilievo hanno anche le tradizionali razos in prosa, ossia i motivi dichiarati, le occasioni addotte a giustificare il contenuto dei testi poetici (il lemma tecnico «ragione» ricorre puntualmente nella prosa del «libello»74). I critici hanno posto in luce altresì cospicue tangenze con l’agiografia e con i leggendari dei santi, per quanto attiene ai modi del racconto, agli eventi prodigiosi, all’illustrazione delle virtù della donna, al diffuso misticismo, ai vari «fioretti», alla morte gloriosa75. Motivi che talora sono riassorbiti nel più generale tono evangelico della narrazione: miracoli, accorrere delle genti, redenzione e promozione spirituale attraverso il saluto, prodigi dopo la morte, il ruolo di precursore riconosciuto a Giovanna, che fanno di Beatrice, «loda di Dio vera» (Inferno, II, v. 103), un’autentica figura di Cristo in terra. Essenziale altresì l’ingrediente profetico della scrittura, ben operante in visioni, sogni, apparizioni, morti ed epigrafi latine e volgari, più o meno oscure, che suggellano a intermittenza la storia76.

5. «Dire» e «leggere».

5.1. Varia fortuna del libro. Della Vita nuova, sbiaditi i ricordi scolastici, temo che al lettore profano poco resti. Non le sentenze profonde di cui è materiata la Commedia, non l’energia di espressioni memorabili promosse a proverbio, non la verità di grandi personaggi, né la seduzione di una storia appassionante. La modesta virtù evocativa dei miti

73 Per una prima informazione, se ne veda il profilo in M. DE RIQUER, Los trovadores. Historià literaria y textos, III, Barcelona 1975, pp. 1339-42. Sulla ricezione italiana, si segnalano contributi del Crescini e, in tempi più recenti, di Panvini e Favati. 74 Sulle fonti francesi si veda M. PICONE, «Vita Nuova» e tradizione romanza, Padova 1979. Dello stesso si segnala il contributo La «Vita Nuova» fra autobiografia e tipologia, in Dante e le forme dell’allegoresi, a cura di M. Picone, Ravenna 1987, pp. 59-69, che fa il punto sui possibili modelli strutturali del «libello» (lectio per lui, piuttosto che prosimetrum), suscettibile di un’interpretazione del tipo riservato alla Scrittura. 75 I primi suggerimenti vengono dallo Schiaffini, illustrati poi sistematicamente da V. BRANCA, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella «Vita Nuova», in AA.VV., Studi in onore di Italo Siciliano, Firenze 1967, pp. 12348. Si veda inoltre M. PAZZAGLIA, La «Vita Nuova» fra agiografia e letteratura (1977), in ID., L’armonia come fine. Conferenze e studi danteschi, Bologna 1979, pp. 73-96. 76 Va ricordato in proposito come la princeps della Vita, la fiorentina del 1576 presso Sermartelli, castighi o espunga sistematicamente ogni elemento d’estrazione scritturale, o sospetto di parodia sacra. La critica recente tende a riconoscere proprio nella riscrittura biblica uno degli ingredienti capitali dello Stil novo cavalcantiano e dantesco.

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dell’intellettualistica operetta conosce almeno due eccezioni, per quanto è della prosa: la donna-schermo, e la connessione tra Beatrice e il «nove», che è forse l’invenzione di più comune notorietà. Tutt’altro, come è ovvio, il discorso per il passato: dal Boccaccio, al Petrarca, a Lorenzo de’ Medici, al Sannazaro, al Bembo, per limitarsi agli estimatori più cospicui. Nessuna delle opere cosiddette minori della nostra tradizione letteraria forse ha contato tanto quanto la Vita nuova. Il prosimetro dantesco è sempre stato un paradigma, discreto ma attivo, sia della lirica alta, sia della prosa d’arte e di memorie autobiografiche. In età moderna, un’adesione convinta, con conseguenze non effimere di vera e propria popolarità, fu espressa dal movimento preraffaellita, al culmine di una ricezione specialmente romantica e inglese dell’operetta. Ne è tributario in Italia certo epigonismo pascoliano e dannunziano, esso pure di marca simbolista. Ma c’è della Vita nuova anche in Nievo, in Dossi, in Gadda; potenzialmente, in ogni prosatore fornito di buoni studi liceali, i veri responsabili della divulgazione nazionale dell’aristocratico volumetto, come anche rivela il numero impressionante di commenti che si sgrana dal Fraticelli (1839) al Sapegno (1931). Nel dopoguerra, invece, caduta la prescrizione di una lettura obbligatoria nelle scuole, le azioni del libretto sono andate declinando. E in ambito creativo, la riproposta tutta fiorentina di Vasco Pratolini, che titolò un suo romanzo (1963) da «la costanzia de la ragione» (Vita nuova, XXXIX, 2) pare, di questi tempi, un’eccezione, più sconcertante che significativa. Si constata poi una divaricazione tra la stima, che si mantiene alta, presso i moderni fedeli di Beatrice, e la scarsa udienza nel pubblico dei non addetti ai lavori. Intatta, e su buoni livelli, è la fortuna critica della Vita nuova presso i dantisti: le firme più accreditate dell’accademia si sono misurate sull’operetta con più contributi, E risalendo di qualche decennio, non si può passare sotto silenzio che fu l’edizione critica del Barbi (1907 e 1932) a inaugurare la filologia testuale italiana in ambito volgare, su base stemmatica lachmanniana e sul fondamento di una tradizione manoscritta e a stampa di notevole ampiezza. Ma queste patenti di nobiltà non bastano. È proprio la memorabilità dell’opera che patisce limitazioni evidenti. Della debole forza d’attrazione era cosciente lo stesso Boccaccio, autore certo non sospetto di leso dantismo. Al riparo di quella sua citata postilla, «Maraviglierannosi molti [...]», il Boccaccio editore aveva potato dal prosimetro le «divisioni», relegandole fuori testo. Così facendo, il Boccaccio dimetteva il ruolo di testimone fedele ai documenti, per assumersi coraggiosamente la parte del divulgatore spregiudicato, non indifferente alla modernità e alla larga diffusione della sua merce.

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Se c’è qualcosa che nella Vita nuova non persuade, è proprio la varietà non composta, né pienamente dominata, dei registri stilistici. Che l’allegoria, le digressioni simboliche o le dichiarazioni teoriche rallentino la narrazione è anche tollerabile. Ma che al tono alto, e spesso alla felice riuscita delle liriche, si accompagni non solo il suggestivo racconto, ma anche l’arida prosa dello spositore scolastico di se stesso nelle «divisioni», è soluzione ibrida e scostante, con poco guadagno del testo. La polifonia dantesca non era ancora padrona dei suoi mezzi espressivi; né, a quell’altezza cronologica, viveva in un’organizzazione testuale abbastanza compatta perché tutto vi si fondesse in unità, come accadrà nella Commedia.

5.2. Profezia di una profezia. Si suol mettere a confronto la Vita nuova con il Convivio per porre in rilievo, nel trattato maggiore incompiuto, la complessità tematica, la polifonia su base «democratica» della scrittura: valori che rinviano all’arte suprema del capolavoro. La Vita, invece, s’attiene a paradigmi aristocratici, o perfino esoterici, nei fatti di lingua e di stile. Sennonché, presa in conto l’astrazione apodittica delle cifre, dei simboli, delle chiuse allegorie, non credo che sia abusivo applicare anche al «libello» la categoria auerbachiana di realismo dantesco. Tanta, tra tante mistificazioni, è la verità della storia, sia pur proiettata in una dimensione escatologica. Per tacer d’altro, a dar ragione alla Vita nuova (e al suo punto finale) provvederà, con meraviglioso adempimento, la Commedia: non meno sul piano della continuità storica, che su quello, tutto nuovo rispetto alle premesse, della creazione letteraria. In effetti, entro l’opera dantesca, la Vita appare anzitutto come un libro profetico minore: la profezia d’una profezia, s’è detto. Così, nell’esile struttura, la figura di Giovanna-Primavera, antesignana di Beatrice ventura, può leggersi come una mise en abîme dello stesso «libello», che si rispecchierebbe, al suo centro, nella donna di Guido. Se la Vita è testo precursore del poema, e Giovanna precorre Beatrice, per analogia Giovanna incarna, o anzi è la Vita nuova (non si dimentichi il paradosso di una Beatrice che «era uno nove»), a quel modo che Beatrice è figura della Commedia. Un’altra sottile mise en abîme pare doversi riconoscere nella Veronica, «quella imagine benedetta la quale Jesu Cristo lasciò a noi per essemplo de la sua bellissima figura, la quale vede la mia donna gloriosamente» (XL, 1), calco sicuro, curiosamente non dichiarato, della celebre sentenza «per essemplo di lei bieltà si prova» (Donne ch’avete, v. 50). Anche Beatrice, come la Veronica, è «essemplo» di Cristo. Morta la «gentilissima», nella seconda parte del libro è proprio la Veronica la sua speculare proiezione terrena: se si vuole, la traccia anaLetteratura italiana Einaudi

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logica di lei. Ma Dante non sarà «peregrino» alla volta della cosiddetta Vera-icona di Cristo: «A te convien tenere altro viaggio» (Inferno, I, v. 91), parole di Virgilio che suonano quasi postume alla geniale scoperta del «libello».

5.3. L’Età di Beatrice. «Atti» del fedele di Beatrice, autorizzati almeno dalla dittologia originale «passioni e atti di tanta gioventudine» (II, 10), e non «Atti» della donna-miracolo: formula che consente di salvare quanto di sacro, dichiaratamente ispirato, inerisce alla scrittura dantesca fin dal suo manifestarsi. La «vita nuova», per Dante, comincia a nove anni; non, però, per il solo soggetto. Da quel punto, «vita nuova» si dà per tutti: «a chi la mira», alle donne che sono con lei, a «chi l’ha parlato» e dunque «non pò mal finir», per speciale grazia divina. Comincia insomma l’Età di Beatrice (in altri ambienti, magari gioachimiti, in quei decenni si era atteso, o si attendeva tuttavia, l’inizio dell’Età dello Spirito): e non per metafora, anche se la «loda» vera, esauritosi lo «stilo» che si denomina da essa, è rinviata ad altro tempo e ad altra opera. Se pure il Convivio ha un respiro incomparabilmente più vasto, è alla Vita nuova, mi pare, che spetta il primato dell’intelligenza. Perché il «libello» è un prodotto più moderno e spregiudicato di quanto lascia presagire il solo esercizio dell’autoesegesi, a più sensi, della poesia. Nella Vita sono enunciati sì i termini straordinari di una letteratura intesa come rivelazione di verità soprannaturali, ma si dà anche spazio all’inganno prospettico e alla reticenza, come bene rivela, ad esempio, il discorso sulla morte: preannunciata, contemplata in più persone, e poi taciuta all’atto del suo accadimento. Letteratura volgare, qui fermamente difesa, che nel momento della sua affermazione istituzionale si permette uno statuto d’ambiguità semantica (la realtà delle donne-schermo, o della gentile) e la virtuale polivalenza di una, certo ironica, irresolutezza (i «due cominciamenti» di Era venuta). Tutto ciò, si badi, nel sistema di una scelta unilaterale, polemica, non esente da contraddizioni: il «libello» pensato come apografo, o Sententia, del «libro de la memoria». In principio è il «leggere», cioè l’interpretare, senza cui il «dire», lo scrivere poesia, non ha molto senso. Autoparodia e palinodia sono congeniali alla nascita stessa dell’ispirazione. Dante non è soltanto il primo a fornire un commento storico ampio e articolato alla propria opera pregressa: fonda la letteratura come coscienza di sé e del proprio ruolo (nel caso suo, di predestinato e di profeta). In questo processo di riconoscimento e di affermazione, resta capitale l’esempio del «primo amico» Cavalcanti, tutt’altro che pacificamente assunto; nonché la Letteratura italiana Einaudi

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lezione del «saggio» (non ancora «padre») Guinizzelli. Parlano in proposito i temi, illustrati più sopra, dell’amore doloroso e distruttivo, della connessione di amore e morte; o invece della sublimazione, della donna salutifera e tramite a Dio; e poi più dati di lingua, che solo un commento puntuale può evidenziare. Basti interrogare qui la morfologia delle testure, che nei sonetti a rime tutte incrociate richiama la pratica, più aggiornata, del secondo Guido: anche se ci si deve guardare dall’ipostatizzare presunte coerenze formali, perentorie nella scelta degli schemi (valga la circostanza che il sonetto Io mi senti’ svegliar, rivolto a Guido, è a rime alterne almeno nella fronte; e che, d’altra parte, il primo sonetto ha già rime ABBA nelle quartine). Più significativo, indizio di distacco dalla maniera del Cavalcanti, che il metro elettivo di Guido, la ballata, sia presente in un solo esemplare. Ma sarebbe iniquo tacere dei paragrafi più municipali della formazione dantesca o, che fa lo stesso, dei contatti con amici meno dotati, o addirittura alieni dal Dolce Stil Novo: basti dire i risponditori, Dante da Maiano, e forse Terino da Castelfiorentino al primo sonetto, e l’«Amico di Dante» (Lippo?) per Donne ch’avete. Sullo sfondo, non solo Cino da Pistoia, che replica (s’è supposto) alla seconda canzone; ma anche Manetto Portinari, e la stessa scuola di Guittone (per i sonetti rinterzati). La lista s’arricchisce, come è ovvio, se si guarda alle Rime, specie alle Dubbie, alcune delle quali sicuramente autentiche. È vero che con la Vita nuova si perviene alfine a «non dire più» di Beatrice, e a fortiori d’amore – almeno nei voti dell’autore –, in attesa di «più degnamente trattare di lei» (XLII, 1): e che la donna, ormai beata, è chiamata a testimone («di venire a ciò lo studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente »: XLII, 2). Ma non è affatto vero che l’approdo di Dante è una passività di tipo mistico, suggellata dal silenzio di Amor che non spira, né detta più: anche se l’abbandono, in pratica, dell’esercizio poetico prima dell’Inferno (e dunque, pare, per molti anni), con le numerate e insigni eccezioni che s’è detto, dà francamente a pensare. Dante prende pur sempre in conto un esito operativo, concepisce un’impresa poetica, solennemente promessa. E poi Amore non è affatto tradito, nel finale: semmai, promosso di rango. Non può esser che lui, infatti, il «sire de la cortesia», che i commentatori sono inclini a tradurre «Dio» (con la minuscola presso il Casini) (XLII, 2-3): Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus.

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In terra, da mirare, non resta che l’«imagine benedetta» (XL, 1) della Veronica. E Amore, sire della cortesia, non scomparirà del tutto: cederà il posto all’Amore che muove il sole e l’altre stelle. L’esperienza insegna che questa meravigliosa continuità nutre spesso la tentazione, o l’insidia, di ridurre la Vita nuova a semplice prologo del capolavoro: a farne insomma una sua «serviziale», per rinnovare una metafora d’autore. Catturato dal ritmo e dall’inesorabile progressione dantesca, non c’è quasi lettore, specialista o no, che nelle sue frequentazioni non abbia cercato, almeno una volta, la chiave universale che disserra ogni porta, la soluzione unica di ogni nodo ed enigma. È il fascino comprensibile di un’opera, nel suo complesso, somma, ancora popolare e nutriente per i contemporanei. Un buon antidoto a questo scivolare, rischioso e senza soprassalti, dal «parlare fabuloso» delle visioni giovanili alla metafisica trionfante del poema, costi quel che costi, magari può essere un titolo del primo Kant, Träume eines Geistersehers erläutert durch Träume der Metaphysik, sogni di un visionario illustrati con sogni della metafisica. È una chiusa un po’ scherzosa, si concede, ma anche abbastanza salutare. La bibliografia dantesca ci ha inflitto, e non di rado, così grevi sogni ermeneutici, che una piccola dose d’empirismo non farà male a nessuno.

6. Nota bibliografica. Non ha luogo qui la pretesa di fornire una bibliografia ragionata, esaustiva almeno per gli anni più recenti, in materia dantesca, notoriamente frammentata e vastissima. Ci si limita a segnalare che i contributi funzionali (non tutti, purtroppo) a una presentazione moderna e non servile della Vita nuova sono stati citati nel corso del presente saggio, ogni volta che se ne vedesse l’opportunità. Una bibliografia essenziale è in calce alla buona voce, già citata, «Vita Nuova», in Enciclopedia Dantesca, V, Roma 1976, pp. 1086-96: opera che è, nel suo complesso e per comune esperienza, lo strumento più utile nella materia di cui qui si tratta. I lemmi della suddetta Enciclopedia servono altresì da concordanza lessicale dantesca; anche se, per ricerche sulla lingua di testi antichi in moderna edizione critica, valgano nel caso nostro, distintamente per prosa e rime della Vita nuova, i due volumi di concordanza per forme degli Spogli elettronici dell’italiano delle Origini e del Duecento (SEIOD), a cura di M. Alinei, Bologna 1971 e 1972. Per il ventennio dopo 1950, si rinvia a E. ESPOSITO, Bibliografia analitica degli scritti su Dante 1950-1970, Firenze 1990: in particolare, per la Vita al vol. III, pp. 952-71, e per le Rime, pp. 937-52. Un’integrazione è ricavabile dalla «Rassegna bibliografica

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1984-88», in Dante Today, a cura di A. A. Iannucci, numero monografico dei «Quaderni d’italianistica», X (1989), 1-2, pp. 355-418, utile elenco di voci e non propriamente rassegna. La Vita nuova di Dante Alighieri, edizione critica a cura di Michele Barbi, nell’aggiornamento del 1932 (Bemporad, Firenze), ma già, in sostanza, nell’innovativa stampa del 1907, fa ancora autorità. Giova dire anzi che tale edizione, almeno per la parte propriamente stemmatica, è ancora uno dei modelli operativi della disciplina. L’albero genealogico dei testimoni delineato dal Barbi comporta un archetipo e due famiglie, alpha e beta: suddivise, a loro volta, l’una in k, b (capostipite della tradizione Boccaccio, e coincidente in sostanza col codice Toledano), e l’altra in s, x. In questo quadro, la princeps dell’opera (Bartolomeo Sermartelli, Firenze 1576), «castigata» dalla censura e non più ristampata fino al 1723, ha un rilievo testuale alquanto secondario. Va ricordato che le trentuno liriche, depauperate della prosa, erano a stampa fin dal 1527, raggruppate in un libro autonomo, il primo, della cosiddetta Giuntina di rime antiche «in dieci libri raccolte», i primi quattro dei quali spettanti a Dante. Un vistoso, semplificante, ma agli effetti pratici non sovversivo ritocco allo stemma del Barbi nella tradizione del Chigiano (K2) è stato operato da D. DE ROBERTIS, La Raccolta Aragonese primogenita (1970), in ID., Editi e rari. Studi sulla tradizione letteraria tra Tre e Cinquecento, Milano 1978, pp. 50-65, che vale anche per la bibliografia filologica ivi addotta, a cui si aggiunga ID., Tradizione veneta e tradizione estravagante delle rime della «Vita Nuova», in Dante e la cultura veneta, a cura di V. Branca e G. Padoan, Firenze 1966, pp. 373-84. Caduta in discredito l’ipotesi di una doppia redazione del «libello», di varianti redazionali delle rime dà conto, con ogni desiderabile notizia, il contributo di ID., Sulla tradizione estravagante delle rime della «Vita Nuova», in «Studi danteschi», XLIV (1967), pp. 5-84, che perfeziona il capitale studio sull’Escorialense fornito nel 1954 dallo stesso studioso. I problemi ecdotici connessi alla tradizione del testo non si possono pensare separati da quelli di tutta la filologia italiana delle origini, e della lirica in specie: ne ha fornito una ricca storia e la più aggiornata sintesi C. BOLOGNA, Tradizione testuale e fortuna dei classici italiani, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, VI. Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino 1986, pp. 445-928 (almeno le pp. 493-593). Lo studio scientifico della Vita nuova fu inaugurato dall’edizione a cura di Alessandro D’Ancona (Pisa 1872, poi 1884), alla cui confezione avevano collaborato il Carducci con esperte note e, ai fini di una revisione testuale della vulgata, il giovanissimo Rajna. Di concezione moderna, più veramente al servizio della lettera, il commento di Tommaso Casini (Firenze 1885: in ristampa anastatica nel

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1962, con una presentazione di C. Segre), che attuò il felice proposito di collazionare, per la prima volta, il capitale codice Chigiano L.VIII.305. Il periodo aureo dell’operosità esegetica applicata alla Vita si ebbe durante il sessantennio che va dalla stampa del D’Ancona all’annotazione del Sapegno (Firenze 1931): commenti di diseguale valore, ma in generale apprezzabili, che si trovano puntualmente recensiti nelle riviste dantesche contemporanee. La lettura di questi rendiconti, spesso largamente polemici su temi lontani dalle nostre preoccupazioni esegetiche più urgenti, pare ancor oggi raccomandabile. Si vuol far qui ad esempio menzione del Renier puntuale recensore di cose dantesche sul «Giornale storico della letteratura italiana», ormai del tutto ignorato dai dantisti: ossessionato, sulle tracce di Adolfo Bartoli, dal tema dell’allegoria, primaria o superaddita, di Beatrice (anche il D’Ancona, nella sua edizione, aveva riservato alla «gentilissima» una speciale monografia, discussa, con altro, nel «Giornale storico della letteratura italiana», II [1883], pp. 366-95; e poi in volumetto [Pisa 1889]). Si affianca al Parodi del «Bullettino della Società Dantesca». Il commento ricciardiano di Domenico De Robertis, estesissimo e attento alla lettera, in veste autonoma risale al 1980, e fu poi riproposto nel I volume del I tomo delle Opere minori di Dante, Milano-Napoli 1984, sua sede destinata: tale commento rappresenta la moderna vulgata esegetica del «libello». Per indipendenza di giudizio va segnalata l’annotazione di André Pézard, che accompagna la traduzione, in un singolare francese arcaizzante e d’invenzione, delle Œuvres complètes (1965) nella Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard, da integrare con La rotta gonna. Gloses et corrections aux textes mineurs de Dante, I, Firenze-Paris 1967, pp. 15-48 (ai presenti fini). La sola parte poetica è illustrata da pregevole commento nelle sillogi di Rime della «Vita Nuova» e della giovinezza, a cura di M. Barbi e F. Maggini, Firenze 1956, e D. ALIGHIERI, Lyric Poetry, II. Commentary, a cura di K. Foster e P. Boyde, Oxford 19722. Un’antologia e un’autorevole presentazione del «libello» sono fornite da G. CONTINI, Letteratura italiana delle origini, Firenze 1970, pp. 303-53 (inclusa una scelta di Rime). Tra i commenti integrali moderni posteriori al De Robertis, si segnala quello a cura di Marcello Ciccuto (Milano 1984), con meritoria bibliografia novecentesca, pp. 48-75 (più sommaria per il secolo precedente). La critica dantesca, almeno fino al saggio innovativo del Croce (La poesia di Dante, Bari 1921), che operò un’energica potatura dei problemi più esterni e avventizi, anche nella coscienza di studiosi eventualmente estranei o avversi alla critica crociana, conferì sempre alla figura di Beatrice un ruolo preminente nell’interpretazione della Vita nuova. In omaggio a questa tradizione si dovrebbe pro-

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durre qui una serie di contributi dedicati alla «gentilissima», basati in sostanza sul «libello», sul Trattatello boccacciano e sulle altre controverse notizie tràdite dal Certaldese: serie cospicua, anche omesse le voci più caduche o decisamente deliranti. Si rinvia almeno alla trattazione relativa dell’Enciclopedia Dantesca redatta da Aldo Vallone, bene informata, ma già sintetica di suo: un discorso analogo va esteso alle altre presenze femminili, le donne schermo e (ancora sub judice) la Donna Pietosa. La bibliografia non inerte sull’operetta riguarda i fatti di lingua e di stile, di metrica e di struttura, di fonti e modelli, non escluse le indagini allegoriche su Beatrice, ma solo in quanto riportate a Dante scrittore e teorico, ed eventualmente a Dante personaggio, ormai considerato il vero protagonista dell’operetta. Non è possibile d’altra parte separare l’esegesi della Vita dalla lettura integrale della lirica dantesca, di cui essa è la parte organizzata in libro: il lemma decisivo, e ancora vitale, è al riguardo la citata Introduzione di Contini alle Rime, più volte ristampata. Su metrica, lingua e stile del prosimetro si rinvia alle voci tecniche addotte alle note 13, a p. 157; 7, a p. 166; 8-11, a p. 167. Ai soli effetti della lingua poetica, si veda P. BOYDE, Dante’s Style in his LyricPoetry, 1971 (trad. it. Retorica e stile nella lirica di Dante, a cura di C. Calenda, Napoli 1979). Per un’interpretazione globale del «libello», va segnalato lo studio, di grande acutezza, di CH. S. SINGLETON, An Essay on the “Vita Nuova”, Cambridge Mass. 19582 (in prima stesura nel 1949), da collegare idealmente con Journey to Beatrice, 1958 (trad. it. di G. Prampolini, Viaggio a Beatrice, Bologna 1968): nella stessa lingua si segnala J. E. SHAW, Essays on the “Vita Nuova”, Princeton N.J. 1929, ristampato nel 1965. La monografia moderna di più ampio registro è quella di D. DE ROBERTIS, Il libro della «Vita Nuova», Firenze 19702 (arricchito di due saggi rispetto alla prima stesura del 1961). Le «fonti provenzali» dell’opera, già indagate da Michele Scherillo (1889-90), Vincenzo Crescini (1898), Salvatore Santangelo (1921), Alfred Jeanroy (1921) e da altri, trovano adeguato rilievo, nel contesto di altre preoccupazioni esegetiche e strutturali, presso M. PICONE, «Vita Nuova» e tradizione romanza, Padova 1979. Sul processo (auto)cognitivo di Dante autore del «libello», F. TATEO, Questioni di poetica dantesca, Bari 1972, pp. 27-75. Si veda anche K. W. HEMPFER, Allegoria e struttura del racconto nella «Vita Nuova», in «Lingua e stile», XVII (1982), 2, pp. 209-32. Non sufficientemente attrezzato, ma con ambizioni nuove, si muove R. WARNING, Imitatio und Intertextualität. Zur Geschichte lyrischer Dekonstruktion der Amortheologie: Dante, Petrarca, Baudelaire, in Kolloquium Kunst und Philosophie, II. Ästhetische Schein, a cura di W. Oelmüller, Paderborn 1983 (almeno le pp. 168-86). D’intatta suggestione lo studio di R.

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KLEIN, Spirito peregrino (1965), in ID., La forma e l’intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, Torino 1975, pp. 5-44, che però non si spiega senza i capitali contributi del Nardi. Alla Vita sono in gran parte rivolti i primi quattro saggi di G. GORNI, Lettera nome numero. L’ordine delle cose in Dante, Bologna 1990.

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